L'angelo ferito. Vita e morte di Mishima 8820736020, 9788820736026

Il 25 novembre 1970 Mishima Yukio, uno dei più grandi scrittori giapponesi del dopoguerra, si toglieva la vita con un ge

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Italian Pages 342/356 [356] Year 2007

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Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Copyright
Indice
Ringraziamenti
Avvertenza
Capitolo I
Preambolo
Sangue aristocratico e contadino
Recluso nell'ombra
La nascita dei primi racconti
La foresta in fiore
Capitolo II
Burocrate di giorno, poeta di notte
Confessioni di una maschera
L'ossessione della Morte
Il doppio Edipo
Il palanchino sacro
La seduzione di San Sebastiano
La seduzione del mare
«Tempo omosessuale» e «tempo eterosessuale»
Il martello del nichilismo
Capitolo III
Il cammino dopo la «confessione»
Colori proibiti
Il teatro
La voce delle onde
Capitolo IV
Il Padiglione d'oro
Un rigoroso metodo di scrittura
Il matrimonio
La casa di Kyōko
Il teppista solitario
Capitolo V
I germogli del nazionalismo
Patriottismo
Romanticismo e classicismo
Il sapore della gloria
Dopo il banchetto
Il mare della fertilità
Capitolo VI
Neve di primavera
Bunburyōdō: la via della penna e della spada
A briglia sciolta
Gli scudi di Sua Maestà l'Imperatore
Capitolo VII
Il tempio dell'alba
Gli ultimi drammi
La decomposizione dell'angelo
I preparativi per l'azione
Il giorno dell'azione
Post mortem
Nel giardino degli angeli
Glossario
Bibliografia
Bibliografia delle opere pubblicate in Italia
Quarta di copertina
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L'angelo ferito. Vita e morte di Mishima
 8820736020, 9788820736026

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La luna sull’acqua 3 Collana diretta da Emanuele Ciccarella

Emanuele Ciccarella

L’angelo ferito Vita e morte di Mishima

ISSN 1973-1485

Liguori Editore

Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2007 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Settembre 2007 Ciccarella, Emanuele : L’angelo ferito. Vita e morte di Mishima/Emanuele Ciccarella La luna sull’acqua Napoli : Liguori, 2007 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 6048 - 9 ISSN 1973-1485 1. Mishima Yukio

2. Storia della letteratura giapponese

I. Titolo

II. Collana

III. Serie

Aggiornamenti: —————————————————————————————————————————— 15 14 13 12 11 10 09 08 07 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

Indice IX

Ringraziamenti

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Avvertenza

1 3 8 21 25

Capitolo I Preambolo Sangue aristocratico e contadino Recluso nell’ombra La nascita dei primi racconti La foresta in fiore

57 63 72 79 83 87 97 109 114

Capitolo II Burocrate di giorno, poeta di notte Confessioni di una maschera L’ossessione della Morte Il doppio Edipo Il palanchino sacro La seduzione di San Sebastiano La seduzione del mare “Tempo omosessuale” e “tempo eterosessuale” Il martello del nichilismo

121 126 135 140

Capitolo III Il cammino dopo la “confessione” Colori proibiti Il teatro La voce delle onde

149 161 169 177 182

Capitolo IV Il Padiglione d’oro Un rigoroso metodo di scrittura Il matrimonio La casa di Kyōko Il teppista solitario

189

Capitolo V I germogli del nazionalismo

viii

INDICE

191 196 199 202 211

Patriottismo Romanticismo e classicismo Il sapore della gloria Dopo il banchetto Il mare della fertilità

219 225 231 241

Capitolo VI Neve di primavera Bunburyōdō: la via della penna e della spada A briglia sciolta Gli scudi di Sua Maestà l’Imperatore

257 269 278 295 302 309 316

Capitolo VII Il tempio dell’alba Gli ultimi drammi La decomposizione dell’angelo I preparativi per l’azione Il giorno dell’azione Post mortem Nel giardino degli angeli

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Glossario

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Bibliografia

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Bibliografia delle opere pubblicate in Italia

Ringraziamenti Voglio ringraziare innanzitutto le istituzioni giapponesi, in particolare l’Università Waseda, il Nihon kindai bungakukan e la Biblioteca Nazionale di Tōkyō, la cui disponibilità e competenza mi hanno permesso di consultare testi di difficilissima reperibilità. Voglio ringraziare inoltre tutti coloro hanno contribuito direttamente e indirettamente alla stesura di questo lavoro con consigli e materiali inediti, colleghi di università italiane e straniere – in particolare il professor Takemori Ten’yū dell’università di Waseda –, scrittori, giornalisti e conoscenti di Mishima. Un particolare ringraziamento va a Kusakai Nobuko, affermata traduttrice e critico di letteratura italiana in Giappone, non solo per gli interessanti consigli, ma anche per il prezioso e continuo aggiornamento delle ultime e numerosissime novità editoriali e massmediologiche sullo scrittore. Infine un caloroso ringraziamento va a Giorgio Amitrano, docente di Lingua e letteratura giapponese all’università “L’Orientale” di Napoli, affermato traduttore e critico di letteratura giapponese, la cui attenta lettura e le acute osservazioni si sono rivelate di grande aiuto nella stesura definitiva dell’opera.

Avvertenza Il sistema di trascrizione adottato è lo Hepburn, secondo il quale le vocali vengono pronunciate come in italiano e le consonanti come in inglese. In particolare si tengano presenti i seguenti casi: ch è un’affricata come l’italiano “c” in cervo g è sempre velare come l’italiano “g” in gatto (quindi Ginza va letto come se fosse scritto Ghinza) h è sempre aspirata j è un’affricata (quindi Jōtarō va letto come se fosse scritto Giōtarō) s è sorda come l’italiano sasso sh è una fricativa come l’italiano “sc” di scelta u in su e tsu è quasi muta w va pronunciata come una “u” molto rapida y è consonantica e si pronuncia come l’italiano “i” di ieri z è un’affricata sonora come l’italiano “z” in zaffiro La lunga sulle vocali indica l’allungamento delle stesse. N.B. Seguendo l’uso giapponese, il cognome precede sempre il nome. I termini e i nomi giapponesi citati, quando non specificati in nota, hanno una loro propria voce in glossario.

a Patrizia

Ardi, un’ala sul mare è solitaria. Ondeggia come pallido rottame. E le sue penne, senza più legame, sparse tremano ad ogni soffio d’aria. Ardi, veggo la cera! È l’ala icaria, quella che il fabro della vacca infame foggiò quando fu servo nel reame del re gnòssio per l’opera nefaria. Chi la raccoglierà? Chi con più forte lega saprà rigiugnere le penne sparse per ritentare il folle volo? Oh del figlio di Dedalo alta sorte! Lungi dal medio limite si tenne Il prode, e ruinò nei gorghi solo. (Gabriele D’Annunzio, da Alcyone)

Capitolo I

Preambolo Una fotografia in bianco nero dalle tonalità cupe, scattata in un angolo ombreggiato di un giardino, ci mostra Mishima all’età di cinque anni, ritto in piedi e saldamente afferrato ad un piccolo carretto. La foto scattata istintivamente da un dilettante, senza tener conto di alcun equilibrio di luce è, per questo motivo, ancor più ricca di fascino; con i selvaggi giochi dei riflessi filtrati dalle fronde che mettono in risalto ora un brano della stoffa dei vestiti, ora un’asse di legno dello sfondo, ora il volto. E da quel volto, illuminato da un largo sorriso, quasi una fragorosa risata, traspare una gioia inusitata, la gioia di un bambino desideroso di divorare giorno per giorno il succo dell’esistenza. Dietro di lui, un’anziana signora il cui sorriso contenuto non riesce ad adombrare gli occhi severi e penetranti, gli tiene una mano sulla spalla, ribadendo con decisione la sua posizione di nonna, madre e maestro. Questa emblematica foto del 1930 del piccolo Mishima e di sua nonna Natsuko suggerisce all’osservatore ignaro della vita futura dello scrittore, un sereno quadretto familiare di un bimbo felice vegliato dall’amorevole nonna. Difficilmente egli scorgerà in quella mano teneramente posata sulle piccole spalle e in quello sguardo di trattenuta allegria quelli dell’occulto demiurgo di un insolito destino. Così come non gli sarà facile cogliere in quella fragorosa risata del bimbo, un grido lanciato all’esistenza, un grido di solitudine e disperazione. Se egli potesse scorgerli diverrebbe all’istante spettatore di una soprendente metamorfosi, dove i soggetti di questa foto sbiadita dal tempo si fanno personaggi, si fanno rappresentazione. Si paleserebbe così il fato di un’eminente vita artistica e di una sconcertante vita umana. Allora l’ignaro spettatore sentirebbe quel grido fragoroso espandersi nelle infinite possibilità dell’esistenza, mai sufficienti a colmare la fame di quella giovane vita. Vedrebbe il manto scuro del severo demiurgo avvolgere ogni attimo della sua crescita, cotrollarne ogni movimento, evitarne ogni fastidiosa digressione, fino a che quel piccolo seme non sia sbocciato nel rutilante fiore della poesia. Vedrebbe vorticare in un turbine selvaggio – angeli vomitati dalla sua anima, sempre ansiosamente gravida – centinaia di libri:

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L’ANGELO

FERITO

di prosa, poesia, teatro, pensiero. E insieme a quel marasma inusitato di parole finemente orchestrate, vedrebbe anche il baluginio accecante di una vita lanciata nell’azione. Febbricitante e isterica ricerca di un irraggiungibile “assoluto”, che non può che guidare verso un reame dove tutto – poesia e azione, apollineo rigore e caos dionisiaco – si congiunge armoniosamente, per un ultimo irripetibile rituale di addio. Quante cose scorgerebbe in quel sorriso urlante l’ignaro spettatore, se solo riuscisse per un attimo a guardare oltre il travestimento della spensierata allegria. Ma forse è meglio che egli non le scorga subito. Sarebbe uno spettacolo caotico e deviante per un animo impreparato. Meglio accostarsi pian piano al confine che separa di netto il sorriso dal grido angosciato, la maschera dalla carne dolente. Forse in questo modo ne trarranno vantaggio entrambi, osservatore e osservato. L’uno fortificato e reso sensibile dal cammino che lo condurrà sino a quel confine, l’altro sottoposto a un giudizio – inevitabile conseguenza anche nell’osservatore maggiormente distaccato – più vero e meditato. Un giudizio che possa tenere conto dei vari aspetti della sua esistenza, per quanto possibile senza l’ingannevole velo di “religiosi” pregiudizi di natura etica o ideologica. Il cammino sarà lungo e vario e non si impressioni il viandante alla vista delle immagini prospetticamente sfalsate dei numerosi campi di espressività dell’esistenza dello scrittore. Non si lasci disorientare dalla molteplicità dei ruoli e delle maschere, dall’inesauribile attività creativa che lo ha spinto verso le più varie tecniche di composizione: romanzi, poesie, drammi, saggi, nonché regia e recitazione. Non si lasci disorientare dalla figura dell’atleta dal corpo scultoreo, né da quella del leader ideologo di una destra dalle connotazioni fortemente spirituali. Non si lasci disorientare dalla sua posizione di public figure, sostenuta spesso da apparizioni kitsch, che se da un lato hanno contribuito ad aumentare la sua popolarità fra il grosso pubblico, dall’altro lo hanno ricoperto di un’aura di eccentricità mai positivamente accettata dal mondo letterario accademico, e forse in buona parte responsabili della mancata assegnazione del premio Nobel a cui è stato per ben tre volte candidato. E soprattutto non si lasci disorientare dall’atto finale della sua esistenza, il seppuku, il suicidio rituale più noto in occidente come harakiri, avvenuto il 25 novembre 1970, poche ore dopo aver sigillato in un plico la parte finale della sua opera ultima, la tetralogia Il mare della fertilità, che porta carica di emblematici simbolismi la stessa data. Non si lasci disorientare il viandante da tutte queste rifrazioni di luce in apparenza così diverse, ma in sostanza tutte intimamente legate. E stia soprattutto attento a non avvicinarsi troppo all’una o all’altra con l’illusione di rintracciare un’unica angolazione che gli procuri una visione netta e

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CAPITOLO I

definitiva. Se possiamo permetterci di dargli un consiglio, dopo tanto tempo dedicato all’osservazione e ancora oggi carichi di perplessità e incertezze, gli suggeriamo di guardare i paesaggi che andrà a scoprire man mano nel suo viaggio tenendosi sempre ad una certa distanza; come di fronte a un quadro impressionistico, dinanzi al quale per scoprire il particolare più che avvicinarsi è meglio allontanarsi, per non perdersi nel magma delle variazioni cromatiche.

Sangue aristocratico e contadino Nonostante sia stato definito il più “aristocratico” degli scrittori giapponesi del ventesimo secolo, le origini di Mishima Yukio non sono definibili puramente aristocratiche. Gli antenati della linea paterna erano contadini di bassissima estrazione, privi persino di un cognome fino agli inizi del diciannovesimo secolo. Dobbiamo attendere il 1820 perché il nome del primo antenato di linea paterna, Hiraoka Tazaemon, e della sua famiglia venga registrato per la prima volta negli elenchi anagrafici del tempio di Shikata, un piccolo villaggio nei pressi di Kobe nel Giappone centrale. Hiraoka Tazaemon è così il primo antenato di linea paterna anagraficamente documentato di Hiraoka Kimitake, colui che un giorno sarebbe stato noto al mondo con lo pseudonimo letterario di Mishima Yukio. I documenti del tempio non ci raccontano molto, se non che Tazaemon viveva in precedenza in un villaggio vicino, ma che per un incidente causato dal figlio minore – il ragazzo aveva ucciso con l’arco un fagiano appartenente al signore locale – era stato privato della sua abitazione e costretto a trasferirsi nel villaggio di Shikata. Una situazione sociale non proprio invidiabile, ma che andò rapidamente migliorando con il figlio di Tazaemon, Hiraoka Takichi, che dotato di grande volontà e determinazione riuscì in breve tempo a diventare un grosso agricoltore e un medio imprenditore. Gli Hiraoka avevano così fatto un notevole salto nella scala sociale, e nel 1850 la loro condizione economica era così migliorata da potersi addirittura permettere di diventare anche finanziatori. Una delle conseguenze più immediate e positive di tanto benessere fu la possibilità per Takichi di mandare i suoi due figli a scuola. Manjirō, il figlio maggiore, conseguita la laurea in giurisprudenza alla prestigiosa Università Imperiale, diventò avvocato. Già questo sarebbe bastato a segnare l’incredibile salto che i contadini Hiraoka erano riusciti a fare nell’arco di due generazioni, ma, come se non bastasse, Manjirō procurò una soddisfazione ancor più grande alla sua famiglia, e contribuì in modo

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L’ANGELO

FERITO

ancor più determinante a portare in alto il nome degli Hiraoka: nel 1898 diventò membro della nuova Camera dei Deputati. Il figlio minore, Jōtarō, il nonno di Mishima, non volle essere da meno. Anch’egli conseguì la laurea in giurisprudenza all’Università Imperiale e nel 1892, ancora giovanissimo, aveva pressappoco ventinove anni, riuscì a entrare nel Ministero degli Interni. Il nonno di Mishima, Hiraoka Jōtarō, era un uomo dotato di grande fascino e di un’ostinatissima ambizione; la sua carriera fu sorprendente, e non solo per l’apice che raggiunse, ma anche per la velocità con cui riuscì a raggiungere una dopo l’altra una serie di importanti cariche che lo condussero nel 1908 fino alla prestigiosa nomina di governatore della colonia giapponese dell’isola di Sakhalin. Nel 1893, l’anno successivo alla sua laurea, Jōtarō sposò Nagai Natsuko, una donna lontanissima dalla sua estrazione sociale. Natsuko – donna colta e brillante, ma dal carattere terribilmente egoista e capriccioso – discendeva da una famiglia di samurai di alto rango; il nonno paterno era stato un daimyō, un signore dell’aristocrazia militare, che con il suo matrimonio si era imparentato con la potente famiglia Tokugawa, il clan militare che aveva governato il Giappone per circa duecentocinquant’anni, dal 1603 al 1868, e il cui nome designava anche il periodo della loro dominazione. Cosa poteva mai aver avvicinato due esponenti di strati sociali così diversi? Una giovane discendente della nobiltà feudale e il figlio di un contadino. Probabilmente giocarono fattori di livellamento da un lato e dall’altro. “Uno di questi”, dice il biografo John Nathan, “fu la laurea di Jōtarō all’Università Imperiale, che gli aveva permesso di accedere a una piccola, ma prestigiosa élite. L’altro fu quello che la famiglia di Natsuko definiva come l’‘indisposizione’ della figlia”1. L’ “indisposizione” a cui si riferiva la famiglia di Natsuko era rappresentata da attacchi di isteria che l’avevano tormentata sin da quando era piccola. Nei suoi primi dieci anni di vita i genitori non sapendo come comportarsi, decisero di affidarla ad un’altra famiglia, anche questa di ceppo aristocratico, gli Arisugawa, cugini dell’imperatore Meiji, con l’accorata speranza che il cambio di ambiente e di persone potesse sortire sul disturbo della bambina qualche effetto positivo. Ma l’esperimento non ottenne nessun risultato, e quando la ragazza ritornò a casa nella critica età dei quindici anni non mostrò di aver ricavato giovamento alcuno. Diventò un vero e proprio problema per la famiglia, e non solo per il suo carattere difficile e instabile, ma anche perché, essendo la maggiore di dodici fratelli, non trovando marito, secondo la consuetudine dell’epoca non permetteva neanche agli altri di sposarsi. Così la famiglia 1

John Nathan, Mishima – A Biography, Tōkyō, Tuttle, 1974, p. 4.

CAPITOLO I

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Nagai, considerata la problematica situazione, chiuse un occhio sulle origini contadine del giovane burocrate che si proponeva come marito di Natsuko e accondiscese al matrimonio. L’unione di Natsuko e Jōtarō non fu delle più felici, gli elementi disarmonici furono vari, non ultimo la differente estrazione sociale. Soprattutto a contatto del mondo esterno sentiva gli sguardi critici della gente, che consideravano il suo matrimonio un inevitabile ripiego. Tutto ciò la portò da un lato a provare disagio e astio quando pensava al suo matrimonio – un astio che presto si riversò sulla figura del marito stesso – e dall’altro a chiudersi sempre di più nel patetico ruolo della vittima bisognosa di commiserazione. Questo non fu un periodo splendido per la famiglia Hiraoka; ai problemi di ordine psicologico di Natsuko presto si affiancarono anche quelli di ordine pratico di Jōtarō. Nel 1914, dopo sette anni di incarico come governatore di Sakhalin, in seguito ad uno scandalo che riguardava la vendita di licenze di pesca e di conservificio in cui rimase coinvolto, Jōtarō fu costretto a dare le dimissioni dalla sua carica. Fu l’inizio di una caduta rovinosa. Jōtarō iniziò a mettere in atto, con risultati disastrosi, tutta una serie di tentativi per risollevarsi da quella terribile situazione. Si lanciò nell’imprenditoria, cercando di ricalcare le impronte di suo padre, e in dieci anni non solo perse le terre e il denaro che Takichi aveva lasciato in eredità alla famiglia, ma si indebitò fino al collo. Fu costretto a vendere le vecchie ipoteche, dichiarare la bancarotta e a offrire all’asta i beni di famiglia. Quando anche l’ipoteca sulla casa di Tōkyō ebbe preclusa la possibilità di riscatto, la famiglia Hiraoka dovette trasferirsi in una casa in affitto a Nagazumichō nel quartiere di Shibuya, la casa dove più tardi sarebbe nato Mishima. Jōtarō non era stato un uomo di successo, o quanto meno non era riuscito a conservare la sua prestigiosa posizione, ma aveva l’indiscusso fascino di quegli tsūjin del 1700 che ben conoscevano i segreti dei “quartieri di piacere” e dell’arte del vivere mondano. Il suo carattere era un misto di imperturbabilità e irruenza, amava la compagnia e la conversazione, soprattutto se accompagnata da sake di ottima qualità. Amava inoltre le donne, che facilmente cadevano nella rete del suo fascino, e la musica, la cui passione esternava spesso cantando con una bellissima voce. Quando nel 1925 nacque Mishima, Jōtarō si era già ritirato dalla vita mondana chiudendosi in una sorta di aristocratico ed elegante isolamento. Trascorreva la maggior parte del suo tempo in un riservato salotto della casa, dove riceveva amici e conoscenti e si dedicava ad un’altra delle sue grandi passioni, il tradizionale gioco del go. Appariva del tutto disinteressato ai problemi della famiglia, limitandosi a prendere parte solo alle cerimonie formali o ai festeggiamenti più importanti.

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L’ANGELO

FERITO

Per quanto riguardava Natsuko, anche prima del crollo economico e sociale del marito, era stata una donna molto capricciosa, dal carattere altero e snob, sempre pronta a disprezzare tutto e tutti; inoltre il male che l’aveva afflitta sin da piccola, l’isteria, continuava a farle visita con periodici attacchi. Ora che si trovava anche in quella situazione critica che vedeva scivolare sempre più in basso le sorti della famiglia, la sua anima, perennemente ferita, soffriva ancor di più, e ancor di più si manifestavano le sue esplosioni e le sue bizzarrie. Le sue passioni non erano solo culturali, oltre alle letture e al teatro kabuki, amava i ristoranti di alto livello e spendere nei negozi più eleganti. E non si curava affatto che nell’attuale situazione della famiglia tutto quel lusso era insostenibile e fuori luogo. Quel suo indulgere nelle spese eccessive e nella vita agiata se da un lato poteva essere interpretato come un bisogno di un’autogratificazione strettamente connessa con la sua perenne autocommiserazione, dall’altro sembrava quasi una ribellione e una vendetta nei confronti del marito e della sua famiglia. Inoltre, col tempo, non fu solo il suo spirito ad essere afflitto; a peggiorare la situazione sopraggiunse una nevralgia sciatica, che quando la attaccava con violenza le faceva soffrire le pene dell’inferno e la costringeva ad un doloroso stato di immobilità. Ma dipingere Natsuko solo con queste tinte fosche non sarebbe giusto. Nei suoi momenti migliori, quando non era afflitta nello spirito e nella carne, risultava una donna vivace ed entusiasta, conosceva le lingue straniere, in particolare il francese e il tedesco, era una divoratrice di libri e la sua passione per la letteratura si manifestava anche nella capacità di narrare storie riccamente abbellite dalla sua fervida fantasia. Ma purtroppo i momenti negativi sovrastavano nettamente quelli positivi, e agli occhi di tutti lei appariva essenzialmente come una donna infelice e depressa, le cui frustrazioni subito si trasformavano in un prepotente atteggiamento di rabbia nei confronti del mondo. La sua infelicità coniugale e la sua palese avversione nei confronti del consorte, poi, possono essere legate anche ad uno spiacevole sospetto a cui si fa cenno in alcune fonti attendibili, quali un libro di memorie di suo figlio Azusa, il padre di Mishima, e il famoso romanzo Confessioni di una maschera (Kamen no kokuhaku) di Mishima stesso. In entrambe le fonti si parla della possibilità che la sciatica di Natsuko possa essere stata provocata dalla blenoraggia cronica del marito Jōtarō, una malattia venerea contratta in seguito alla sua vita di impenitente libertino. Natsuko e Jōtarō ebbero un unico figlio, Azusa, che diventò un uomo dal carattere retto e industrioso, anche se un po’ troppo incline al pragmatismo. Nutriva, inoltre, una sorta di naturale sospettosità nei confronti degli altri. È probabile che la motivazione di questa diffidenza per il prossimo, ha notato

CAPITOLO I

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John Nathan, avesse avuto origine nel periodo della sua adolescenza, quando era stato testimone di tutti i raggiri e i colpi bassi che suo padre aveva ricevuto nella sua fallimentare avventura imprenditoriale, proprio per aver sempre dato al prossimo tutta la disponibilità e la fiducia2. Ora Azusa non aveva intrapreso alcuna attività finanziaria o imprenditoriale, seguendo la tradizione del padre e dello zio si era laureato in giurisprudenza all’Università Imperiale e aveva subito iniziato la carriera burocratica. Ma la brutta esperienza di suo padre sembrava aver lasciato in lui un segno indelebile, sospettava spesso dei colleghi di lavoro e questo lo rendeva meno affabile, meno incline a stringere amicizie, così importanti per la carriera burocratica. Il risultato fu che, nonostante la sua intelligenza e la sua prontezza di spirito, nel 1925, anno in cui nacque Mishima, egli era solo vicedirettore del Dipartimento di Pesca nel Ministero dell’Agricoltura e Foreste. Azusa viveva con i genitori in una casa a due piani che avevano fittato in un buon quartiere di Tōkyō. Avevano un cameriere e sei domestiche, un numero notevole di servitù, vista la non eccessiva disponibilità finanziaria della famiglia Hiraoka: Azusa guadagnava abbastanza bene, ma molti debiti di suo padre Jōtarō restavano insoluti. Forse fu anche questa situazione finanziaria non troppo rosea che rese Azusa per tutta la sua vita interessato esclusivamente al lavoro e ai problemi economici. Nel 1924 Azusa decide di prendere moglie, e sposa Hashi Shizue, la riservata e sensibile figlia del preside di una scuola media. Shizue era dotata di una spiccata sensibilità poetica e di un eccellente gusto per la letteratura; discendente di una famiglia di educatori e studiosi confuciani era vissuta sin da piccola in mezzo ai libri, e non è difficile capire perché fu lei la tenace e infaticabile sostenitrice della passione letteraria del piccolo Mishima. Era a sua madre che Mishima sin dall’età di dodici anni leggeva ogni pagina delle storie che scriveva, era sempre lei la prima. E questo deferente e appassionato omaggio all’amata genitrice fu sempre rinnovato, fino agli ultimi anni della sua vita. Il matrimonio fra Azusa e Shizue fu un omiai kekkon, un matrimonio combinato; ciò vuol dire che, essendo stati i genitori a organizzare tutto, Shizue non conosceva gran che della famiglia Hiraoka, e la sua vita da signorina, quasi sempre segregata tra le mura di casa e i libri, di certo non l’aveva preparata a far fronte a quella nuova situazione. Sin dall’inizio il rapporto più difficile fu con la suocera Natsuko. L’atteggiamento della matriarca la disorientava: a volte, a tarda sera, Natsuko chiamava improvvisamente un taxi e la portava a vedere l’atto finale di un kabuki, il giorno dopo a stento la salutava. Azusa, poi, non c’era mai, e anche la sera, durante 2

Ivi, p. 7.

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FERITO

quel poco tempo che riuscivano a stare insieme, lui, sempre concentrato sul suo lavoro e sui suoi problemi, la trattava alquanto freddamente. Shizue si chiuse di nuovo nell’universo dei libri, trascorrendo la maggior parte del tempo a leggere nella sua camera al secondo piano della casa.

Recluso nell’ombra Il 14 gennaio 1925 nasce il suo primo figlio, al quale dopo quarantanove giorni viene dato formalmente l’aristocratico nome di Kimitake3. La giovane Shizue, con l’anima tormentata dai rapporti familiari e la mente costantemente in volo nel suo privato universo letterario, aveva dato alla luce colui che un giorno sarebbe diventato uno dei più grandi scrittori del mondo. Al quarantanovesimo giorno di vita, Kimitake fu sequestrato alla madre e trasferito con la culla e tutto ciò di cui aveva bisogno nella scura stanza di Natsuko al piano inferiore. E lì iniziò la sua prigionia, che durò fino all’età di dodici anni. Natsuko si trasformò nel suo guardiano geloso e morbosamente possessivo, un guardiano attentissimo a difenderlo non solo dai suoi genitori, ma da chiunque avesse potuto sottrarlo anche per un solo attimo alla sua perenne attenzione. L’idea di Natsuko era quella di allevare il nipote secondo i valori del suo antico lignaggio, di estirpargli per quanto potesse i tratti dell’umile famiglia Hiraoka e di instillargli quelli eleganti e nobili della famiglia Nagai. Ma di certo non era questa l’unica motivazione del suo atteggiamento; Natsuko vedeva in quella nuova vita giunta in famiglia la possibilità di trovare un compagno e un complice con cui dividere il peso dei suoi mali e delle sue angosce; “era come se desiderasse qualcuno con cui dividere il fardello dei suoi dolori fisici, delle sue umiliazioni, della sua grande disperazione”4. D’altronde questo atteggiamento fu rivolto solo a Kimitake, quando nacquero la sorella Mitsuko e il fratello Chiyuki, Natsuko non mostrò per loro quasi nessun interesse. Il controllo di Natsuko sul piccolo Kimitake era assoluto. Durante l’allattamento faceva suonare un campanello nella stanza di Shizue per avvisarla che era ora di allattarlo, poi saliva zoppicando al piano superiore insieme a una cameriera che portava in braccio il prezioso nipote. “Mia suocera”, ricorda Shizue, “teneva sempre Kimitake a fianco al suo futon. Controllava sempre l’orario con un orologio da taschino, e ogni quattro ore con estrema 3

In famiglia poi l’avrebbero chiamato Kōi, usando la pronuncia sino-giapponese degli ideogrammi che componevano il suo nome. 4 John Nathan, Op. cit., p. 8.

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precisione faceva suonare la campanella al secondo piano. Aveva deciso che l’allattamento di Kimitake dovesse effettuarsi ogni quattro ore e ne aveva stabilito anche la durata. Durante le pause dell’allattamento il mio seno turgido di latte mi faceva male. Spesso piangevo pensando a quanta fame il piccolo deveva avere. Provavo un desiderio irresistibile di stringerlo a me e allattarlo finché non si fosse completamente saziato”5. Invece, con in mano il suo orologio da tasca preferito, Natsuko restava di fronte a Shizue mentre allattava il bambino, misurando scrupolosamente il tempo. Terminata la durata stabilita si portava via il neonato quasi strappandolo al seno della madre. I primi anni dell’infanzia non sono meno cupi. Anche quando Kimitake ebbe tre anni, Natsuko accordava il permesso di portarlo fuori all’aria aperta solo con il cielo sereno, e, soprattutto, solo se veniva avvisata in anticipo. “Quando faceva bel tempo”, ricorda Shizue, “e il cielo luminoso contrastava così tanto con il buio e l’umidità della nostra casa, approfittando dei momenti in cui mia suocera dormiva, cercavo di portarlo fuori per fargli respirare un po’ d’aria fresca e prendere un po’ di sole. Ma lei, sempre all’erta, si svegliava subito e ci vietava di uscire. Quindi faceva ritornare il bambino nella tetra camera dove la malata riposava con gli shōji sempre chiusi”6. Shizue dovette aspettare che il bambino avesse cinque o sei anni per avere il permesso di uscire da sola con lui senza la compagnia delle cameriere, e anche allora solo in giorni perfettamente soleggiati e senza un alito di vento. L’iperprotettività della nonna Natsuko si manifestava in tutti i modi, dall’abbigliamento – il bambino era costretto a vestire cappotto e sciarpa, e perfino una mascherina per tutto il mese di aprile e gran parte di maggio – ai giochi che venivano organizzati per lui. I maschietti erano ritenuti inadeguati, le uniche amicizie concesse erano femminili. “Quando aveva appena tre anni”, racconta Shizue, “mia suocera faceva venire nella sua camera tre bambine più grandi di lui scrupolosamente scelte, perché secondo lei i maschi erano pericolosi. I giochi erano così limitati a far le donnine di casa, all’origami e ai cubi di legno”7. I giochi non solo dovevano essere femminili, ma svolti anche in modo più silenzioso del normale, perché la sciatica rendeva nonna Natsuko particolarmente intollerante ai rumori, e nonostante ciò l’anziana donna insisteva perché i bambini giocassero nella sua stanza. Interdizione totale per fucili, macchine o trenini, o qualunque altra cosa sollevasse un rumore stridulo o metallico. Kimitake, per contro, 5 6 7

Cit. in Inose Naoki, Persona – Mishima Yukio den, Tōkyō, Bungei shunjū, 1995, p.135. Ivi, p. 136. Ibid.

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adorava afferrare una riga o un manico di scopa e agitarlo al di sopra del suo capo, ma se questo si verificava, il pericoloso oggetto veniva subito sequestrato. Tuttavia Kimitake reagiva sempre in modo dolce e remissivo, la sua crescita “in vitro” lo rendeva oltremodo riflessivo e in un certo modo passivo. Quando i genitori comprarono un giradischi, che sistemarono al secondo piano, il piccolo se ne stava seduto di fronte ad esso per ore ad ascoltare canzoni per bambini. La sua crescita innaturale era così evidente agli occhi della madre, ma Shizue non poteva intervenire in nessun modo. Una nuora in una casa giapponese degli anni venti era come un ospite estraneo, considerata ad un livello poco superiore alle cameriere. Così per i dodici anni della stretta sorveglianza di Natsuko, Shizue dovette reprimere la sua profonda infelicità; a suo figlio non volle manifestarla, e al marito fu del tutto inutile farlo. Azusa era quasi totalmente sottomesso alla volontà di sua madre, e pur constatando egli stesso l’anormalità di quella situazione, non se la sentiva di opporsi alle sue decisioni; con Natsuko doveva combattere anche per ottenere le più piccole libertà per il figlio, era difficile avere il permesso anche per un’innocua passeggiata. Quello che più preoccupava Azusa era l’educazione effeminata che nonna Natsuko stava impartendo a suo figlio, un’educazione lontana dalle sue aspettative, dal suo desiderio di fare di Kimitake un fiero e virile discendente della famiglia dei burocrati Hiraoka. “Non sopportavo l’idea che mio figlio stesse crescendo come una bambina a fianco a quell’isterica di mia madre”, scrive Azusa. “Non so quante volte fui costretto a litigare con lei per riuscire a portarlo un po’ fuori casa”8. Ma i metodi educativi che sperimenterà Azusa, in risposta ai metodi “innaturali” di Natsuko, non si riveleranno certo più naturali ed equilibrati. Ne è testimonianza un episodio raccontato da lui stesso con inspiegabile entusiasmo e fierezza. Un giorno in cui era riuscito a strappare il piccolo Kimitake dalle grinfie della nonna, Azusa lo conduce alla stazione di Shinjuku per mostrargli le locomotive a vapore e fargli vivere finalmente un’esperienza “da uomo”: Fra noi e i binari c’era una staccionata di legno bruciacchiato, ma eravamo comunque molto vicini al punto dove sarebbe passato il treno. Mentre aspettavamo, all’improvviso apparve una locomotivia che si precipitò verso di noi a velocità spaventosa. Sbuffava energicamente del fumo nero e lanciava un fischio assordante. “Ecco!”, pensai, “questa è l’occasione per impartire a mio figlio un’educazione spartana che lo renderà forte e coraggioso”. Lo presi in

8

Ibid.

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braccio, mi avvicinai ancor di più alla staccionata e proteggendogli il viso con il mio cappello di feltro, gli dissi: “Hai paura? Non c’è niente da aver paura. Non piangere. Se fai il piagnucolone ti getto in una fogna”, e intanto osservavo l’espressione del suo viso. A differenza di quanto mi aspettassi, il suo volto non mostrò alcuna reazione. Non riuscivo a spiegarmi perché, così aspettai il prossimo treno e ripetetti l’esperimento, ma il risultato fu lo stesso. La cosa non lo colpiva minimamente. Ci rimasi male. Pensai che era ancora troppo piccolo per conoscere la paura, che era come un inerme e stupido cagnolino. Che fosse diventato del tutto insensibile a manifestazioni eroiche e virili, come lo sfrecciare di una locomotiva, a causa dell’educazione femminile impartitagli da mia madre? Il giorno dopo feci un’altra prova, questa volta scelsi treni silenziosi. Ma fu la stessa cosa. Mi aspettavo che facesse salti di gioia, e invece manteneva un’espressione rigida e immobile come una maschera del teatro nō. Mi rassegnai completamente. Non ho mai capito quale meccanismo ci fosse dietro questa misteriosa reazione di mio figlio9.

Il carattere pragmatico, semplice e poco sfaccettato di Azusa non era dotato di sufficiente sensibilità per riconoscere nell’apparente reazione abulica, quasi autistica del figlio una difesa estrema, forse la prima “maschera” di Mishima per nascondere uno spaventoso cataclisma interiore. Quello che è certo è che Azusa non ha mai sospettato quanto questa esperienza traumatizzante possa aver influito sulla vita futura di suo figlio. Naturalmente Shizue non condivideva minimamente l’atteggiamento di suo marito, che passava dalla totale indifferenza per il piccolo alle trovate “eroiche” per virilizzarlo. Finì per odiare anche suo marito, e più di una volta pensò di scappar via insieme a Kimitake. Una delle giustificazioni che aveva dato Natsuko per il trasferimento di Kimitake nella sua stanza al pian terreno era che allevare un bambino al secondo piano era pericoloso. In effetti la scala che conduceva al piano superiore era molto ripida, e Kimitake, all’età di due anni, arrampicatosi fino al terzo gradino cadde sulle scale. L’episodio raccontato da Shizue a John Nathan ci illustra chiaramente la facilità con cui in famiglia venivano a consolidarsi forti tensioni. Un giorno mia suocera era andata a vedere uno spettacolo di kabuki e tutta la famiglia stava tenendo un party in sua assenza. Kimitake cominciò a salire su per la scala che conduceva al secondo piano all’insaputa di tutti e cadde ferendosi la fronte. Non fu una caduta particolarmente pericolosa, ma dalla ferita uscì una gran quantità di sangue; così lo portammo subito in una clinica vicina e nello stesso tempo mandammo a chiamare mia suocera a teatro. Lei 9

Ivi, pp. 136-137.

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si precipitò a casa e si fermò giusto sulla porta. Cercava di controllarsi, ma l’agitazione traspariva dal pallore del suo viso e dal modo in cui stringeva il manico del bastone. Ci fu un momento di silenzio in cui tutti avemmo paura di parlare. Alla fine mia suocera si avvicinò a mio marito e disse lentamente e con chiarezza: “È morto?” Mio marito scosse il capo, e lei, senza aggiungere altra parola e senza degnare nessuno di uno sguardo, camminò oltre noi nel lungo corridoio che conduceva alla sua stanza, dove Kimitake stava già dormendo, e con tutta tranquillità entrò e chiuse la porta a chiave10.

Questo episodio rappresentò per Natsuko un’ottima occasione per rafforzare il suo già severissimo controllo sul nipote; a Kimitake fu categoricamente proibito di salire la scala che conduceva al secondo piano senza il suo permesso: era ovvio che con la scusa della sicurezza del bimbo si garantiva la certezza che non sarebbe andato su dalla madre quando lei era assente. La reazione di Kimitake a queste circostanze fu del tutto simile alla reazione interiore e passiva che aveva manifestato con i test dei treni di suo padre. Le regole della nonna erano accettate senza alcuna protesta, né, d’altronde, alcuna protesta si levava da parte dei genitori. Nessuna reazione alla confisca di giocattoli ritenuti pericolosi o rumorosi, nessuna reazione al divieto di giocare fuori casa o di partecipare a gite scolastiche: i genitori tacevano e Kimitake accettava le decisioni del suo “despota” con, almeno esteriore, serenità; si sedeva senza una parola nella stanza della nonna e restava lì a giocare per tutto il tempo che gli veniva imposto. E, cosa singolare, il suo atteggiamento mite e remissivo perdurava anche dopo la permanenza nella stanza della nonna. Non si lamentava mai con i suoi genitori del rigore impostogli da Natsuko, né cercava mai di farsi compatire. Una possibile spiegazione di questo atteggiamento era la paura del bambino di arrecare il più piccolo dispiacere all’anziana e sofferente signora. “Shizue era convinta”, dice Nathan, “che suo figlio accondiscendesse a tutti i capricci della nonna perché sin da quando aveva tre anni aveva capito che la minima disobbedienza nei suoi confronti le avrebbe causato dolore. E questo, almeno in parte, era una realtà oggettiva. La gelosia di Natsuko era così morbosa da interpretare ogni disobbedienza di Kimitake come una prova palese della sua preferenza per la madre, e così trovava mille modi per vendicarsi. Se Kimitake si rivolgeva alla madre per qualunque cosa, anche la più semplice, senza aver prima chiesto a lei, scoppiava in uno dei suoi eccessi di collera e sgridava sia il nipote che la nuora”11. 10 11

John Nathan, Op. cit., pp. 10-11. Ivi, p. 11-12.

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Ma sarebbe ingiusto vedere nella figura di Natsuko solo un nemico da cui il piccolo Kimitake doveva difendersi, conferirle solo un ruolo negativo nella formazione del bambino. Non dimentichiamo che è proprio grazie a quest’austera signora, discendente da un’antica famiglia di alto rango, che il piccolo Kimitake si avvicina molto presto alla tanto amata letteratura classica giapponese e al teatro kabuki. È attraverso la nonna Natsuko, “anima ostinata, inflessibile, ribelle e poetica”12, che lo spirito “aristocratico” giapponese si inietta nelle sue vene, lasciando un’impronta indelebile per tutto il resto della sua vita13. Ad ogni modo, anche se Shizue era convinta di essere lei l’unico vero riferimento affettivo per il bambino, è molto più probabile che l’amore del piccolo Mishima andasse in entrambe le direzioni e che egli si sentisse attratto, seppur in modo molto differente, sia dalla mamma che dalla nonna. Il problema più grosso era che l’ostilità, taciuta o palese, fra le due donne era particolarmente sentita dal sensibilissimo bambino che, con uno sforzo psicologico non indifferente, cercava per quanto potesse di mantenere una sorta di equilibrio e di distensione fra le due, ora obbedendo all’una ora celando la propria insoddisfazione all’altra. Era inevitabile che questo sforzo presto richiedesse un’espediente per sopravvivere a quella triste realtà quotidiana: la creazione di un mondo alternativo in cui rifugiarsi. In Confessioni di una maschera, romanzo scritto nel 1948 che proclama l’affermazione di Mishima nel mondo letterario giapponese, egli descrive se stesso all’età di cinque anni, sottolineando la sua idiosincrasia per la realtà e la sua forte attrazione per il mondo onirico e immaginario. In questo mondo di “tenebre, sangue e morte”, avvenenti principi vengono torturati e trucidati con un senso di tenerezza molto vicino all’amore. L’animo del piccolo protagonista è diviso tra il senso di colpa per quelle immagini che invadono con prepotenza la sua mente, e di cui non riesce a comprendere il significato, e il senso di piacere e gratificazione nel constatare la loro “bellezza” e la loro “autenticità”, più autentica della realtà stessa. Certo non possiamo sapere se le fantasie descritte in Confessioni di una maschera sono 12 Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, in Mishima – Romanzi e racconti, vol. I, I Meridiani, Milano, Mondadori, 2004, p. 67. 13 Andō Takeshi nella sua biografia Vita di Mishima Yukio (Mishima Yukio no shōgai), riguardo alla primissima formazione culturale dello scrittore, mette in rilievo anche l’importanza rivestita dalla nonna materna Tomi che, insieme a Shizue, portava spesso il piccolo Kimitake a vedere il teatro nō. Pare infatti che mentre la passione per il teatro kabuki sia nata grazie alla nonna Natsuko, la passione per il nō e il kyōgen (farsa classica coeva del nō) sia stata istillata proprio da questa nonna materna. Inutile dire che comunque non è paragonabile l’influenza esercitata dalla nonna Tomi, a quella dell’onnipresente e autoritaria nonna Natsuko. Andō Takeshi, Mishima Yukio no shōgai, Tōkyō, Natsume shobō, 1998.

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realmente frutto della mente dello scrittore all’età di cinque anni, o piuttosto partorite dalla fervida immaginazione di quando ha scritto il romanzo all’età di ventitrè anni; ma anche nella seconda ipotesi, appare evidente dal modo di vedersi a quell’età, che il piccolo Kimitake aveva sviluppato un’efficace difesa contro la realtà. Poco prima di compiere cinque anni, Kimitake ebbe un fortissimo attacco di vomito ed entrò in coma. I medici diagnosticarono un’autointossicazione ed espressero un giudizio clinico sulla futura evoluzione della malattia del tutto negativo. Temendo il peggio a breve termine, furono subito riuniti i parenti, e Shizue in un totale stato di disperazione iniziò addirittura a mettere da parte i giocattoli e i vestiti che avrebbe sistemato nella bara di suo figlio. Ma la sorte aveva deciso che per il piccolo Mishima non era ancora venuto il momento estremo e, a notte fonda, il fratello di Shizue, docente alla Facoltà di Medicina dell’Università di Chiba, annunciò con grande entusiasmo che la crisi era stata superata. In soli sette giorni Kimitake si ristabilì completamente, ma per un annetto circa gli attacchi si ripresentarono una volta al mese, allarmando la famiglia che ogni volta si precipitava in ospedale. Questo fastidioso disturbo scomparve del tutto quando il bambino iniziò a frequentare la scuola; probabilmente la liberazione dalla prigione d’ombra dove era stato segregato sino allora, e la scoperta di quel nuovo mondo di coetanei giovarono subito al suo corpo e alla sua mente. Nell’aprile del 1931, Kimitake entrò al Gakushūin, la Scuola dei Pari di Tōkyō; scuola fondata nel 1870 come istituzione privata per i figli della famiglia imperiale e della nuova aristocrazia. La Scuola dei Pari era un’istituzione creata esclusivamentre per i rampolli delle famiglie nobili, tuttavia già nel 1931 buona parte degli studenti non erano di origine aristocratica, ma anche alto borghese. Questa trasformazione favorì l’inserimento di Hiraoka Kimitake, che riuscì ad entrarvi nonostante la sua estrazione medio borghese che non rientrava in nessuna delle due precedenti categorie. Le origini aristocratico-militari di nonna Natsuko non vennero considerate un titolo sufficiente per essere ammesso alla Scuola dei Pari come titolato, perché la lealtà al vecchio regime Tokugawa degli antenati di Natsuko aveva attirato sui loro discendenti le antipatie del nuovo regime, che non aveva assegnato alla famiglia Nagai nessun titolo nobiliare. Entrare in una scuola frequentata essenzialmente da titolati e ricchissimi alto borghesi poteva rappresentare per Kimitake un ulteriore condizione di disagio e di difficoltà comunicativa, ma Natsuko, che ovviamente prendeva insindacabilmente tutte le decisioni importanti per il nipote, più che preoccuparsi di questi “superficiali” problemi emotivi, vedeva in quella scelta il modo di mantenere vivo un legame con il proprio passato. I figli dell’aristocrazia accedevano alla

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scuola senza sostenere alcun esame, Kimitake, invece, dovette sostenerne uno. L’evento fu sentito come una prova importante dall’intera famiglia, persino l’inamovibile nonno Jōtarō accompagnò il nipote insieme a tutti gli altri, aspettando pazientemente fuori dell’aula fino al termine dell’esame. Inutile dire che Kimitake lo superò con estrema facilità; le ore trascorse a leggere nella camera di Natsuko, i suoi racconti letterari e teatrali lo avevano messo in grado non solo di leggere, ma addirittura di scrivere versi già all’età di cinque anni. I primi anni alla Scuola dei Pari furono molto difficili, non dal punto di vista didattico s’intende, ma, come era prevedibile, dal punto di vista della socializzazione. Non era facile mantenere buoni rapporti con i ricchi parvenu sempre pronti a ostentare i simboli del loro potere, e i giovani aristocratici spocchiosi che non consideravano nessuno al di fuori del loro rango, neanche i professori. Gli aristocratici, poi, non solo non pagavano nessuna tassa scolastica, ma avevano l’ambitissimo privilegio di non sostenere neanche un esame per tutto il periodo di studi. Nei registri di classe i loro nomi erano evidenziati, e gli insegnanti erano tenuti a rivolgersi a loro con le forme del linguaggio onorifico. Questi problemi oggettivi non fecero altro che peggiorare una situazione già difficile in partenza; perché Kimitake, in seguito alla sua vita da recluso, non aveva mai imparato a rapportarsi ai suoi coetanei. A quel tempo appariva un ragazzo fragile e timido che destava la divertita curiosità dei suoi compagni per i suoi modi troppo educati e femminili. La nonna si rese conto della situazione, ma la migliore soluzione che riuscì a trovare fu un aumento del suo controllo e della sua protettività. Preoccupata soprattutto dal cagionevole stato di salute del nipote, che era stato vittima anche di un’infezione polmonare, durante il primo anno lo tenne spesso lontano dalla scuola. I motivi per tenerlo di frequente a casa erano vari: la severa dieta a base di carne bianca e qualità leggerissime di pesce che aveva scelto per il nipote non permetteva a quest’ultimo di mangiare alla mensa della scuola. E ancora la salute cagionevole del ragazzo fu il motivo per cui chiese l’esonero dalle lezioni di educazione fisica, e per finire, gli proibì categoricamente, almeno fino al quarto anno, di partecipare alle gite scolastiche. Nel 1934, quando Kimitake aveva nove anni ed era entrato al quarto anno della scuola, la famiglia traslocò in due piccole case sulla stessa strada della precedente abitazione. Nella casa più piccola e buia vivevano i genitori di Kimitake e i due figli più piccoli; Kimitake, invece, viveva nell’altra casa con i nonni. Una motivazione di questo improvviso cambiamento poteva essere un’usanza tradizionale denominata inkyo: In Giappone, le coppie anziane, che di solito vivono con i figli, raggiunta una certa età lasciano la

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casa dei figli adulti per sistemarsi altrove. Altra motivazione, concomitante con la prima, poteva essere stata la promozione a capo sezione di Azusa; con questo nuovo incarico era costretto a ricevere a casa di tanto in tanto alcuni suoi subordinati, ma il salotto della precedente casa nel quartiere di Yotsuya era quasi sempre occupato da Jōtarō e dai suoi ospiti. Non essendo possibile conciliare visite così diverse, si era deciso per il trasloco. Queste almeno furono le spiegazioni ufficiali, ma secondo il fratello minore di Mishima, Chiyuki, quello spostamento fu in parte motivato anche da ragioni finanziarie. “La promozione di Azusa riguardava più lo status che non lo stipendio. Il Giappone si stava preparando all’‘espansione’ in Cina e il costo della vita andava sempre più aumentando. Era probabile che la famiglia trovasse difficoltà a sostenere le spese di quella grosa casa, delle sei cameriere, degli ultimi figli e delle tasse scolastiche di Kimitake, per non parlare dei debiti ancora insoluti di Jōtarō”14. La famiglia visse separata per tre anni, durante i quali Kimitake restò essenzialmente con i nonni limitandosi a brevi visite nella casa dei genitori. Alla madre era concesso accompagnarlo a scuola al mattino e andarlo a riprendere nel pomeriggio, solo per riportarlo a casa dalla nonna che lo attendeva per la merenda. Dopo aver fatto i compiti gli era concesso fare visita alla casa dei genitori, ma senza mai potersi trattenere per cena. Tuttavia vi erano giorni in cui era revocato anche quel permesso per una breve visita alla madre; i motivi erano disturbi fisici o psichici di Natsuko, i dolori della sciatica o qualche scatto di collera relativo al comportamento di Kimitake o di sua madre. Allora poteva capitare che il permesso venisse annullato anche per alcuni giorni di seguito. A questa situazione, come sempre, si erano rassegnati tutti. “Il fratellino Chiyuki, che all’epoca della separazione della famiglia aveva solo cinque anni, ricorda che lui e la sorellina Mitsuko avevano accettato come un fatto scontato il poter vedere raramente il fratello. Loro due potevano liberamente andare a casa della nonna, ma l’atteggiamento di lei nei loro confronti era così freddo che preferivano restarsene a giocare a casa loro. Anche Shizue avrebbe potuto trascorre più tempo con il figlio se fosse andata lei a trovarlo a casa della suocera, ma ha sempre detto di sentirsi a disagio a stare con Kimitake sotto lo sguardo possessivo di Natsuko”15. A sentire Shizue, Kimitake ritrova se stesso e tutta la sua voglia di vivere solo durante le sue brevi visite da lei. Quando veniva a trovarla il bambino approfittava di quegli attimi di libertà per fare tutto quello che non poteva 14 15

John Nathan, Op. cit., p. 17. Ivi, p. 18.

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fare dalla nonna: correva ridendo a gran voce per tutta la casa, giocando con quegli oggetti che gli venivano sempre severamente interdetti. Ma dopo quell’eruzione di energia repressa, non esternava una sola protesta quando la madre gli annunciava che era venuto il momento di andar via. Shizue soffrì terribilmente in questi anni, ed era convinta che suo figlio vivesse la sua stessa sensazione di oppressione e di angoscia; ma probabilmente la vita con l’austera signora che lo attendeva sempre impaziente nell’altra casa non doveva essere solo reclusione e timore come sua madre immaginava. Il fratello minore Chiyuki, ad esempio, ricorda che Kimitake all’età di undici anni parlava con grande entusiasmo ed affetto di nonna Natsuko. “Non ho mai capito”, dice Chiyuki, “cosa Kimitake trovasse di bello in quella feroce vecchia, ma non c’era alcun dubbio che egli l’amasse”16. Non v’è dubbio infatti che il piccolo Kimitake fosse attaccato a sua nonna, era un riferimento troppo solido e importante per lui; ed è molto probabile che la dose di dolcezza e flessibilità, che fortunatamente riceveva comunque da sua madre, venisse colmata dalla cultura e dall’intelletto che già esercitavano sul precoce bambino un fascino indubitabile. Ad ogni modo, l’aspetto più terribile della sua vita insieme alla nonna era rappresentato dalla malattia di quest’ultima. Ora alla sciatica che andava sempre più peggiorando si aggiungeva l’ulcera allo stomaco e le disfunzioni renali. Kimitake viveva questa situazione non solo con un forte carico psicologico, ma anche fisico, visto che vivendo e dormendo nella stanza della malata, ne condivideva ogni lamento e ne esaudiva ogni richiesta. “Natsuko”, racconta Nathan, “accettava la medicina solo dalla sua ‘piccola tigre’, come lei lo chiamava; Kimitake doveva asciugarle la fronte, massaggiarle la schiena e i fianchi; ed era sempre lui che l’accompagnava per mano nelle sue frequenti sortite alla toilette. Il momento più drammatico era la notte, quando i dolori aumentavano: piangeva, si strappava i capelli, implorava il nipote di confortarla. Una volta prese un coltello e se lo portò alla gola, minacciando di uccidersi”17. Certo la condizione psicofisica di Kimitake in quel periodo non doveva essere delle migliori. Una fotografia scattata quando aveva otto anni ce lo mostra con il cranio rapato quasi a zero; il volto tradisce tensioni emotive giunte troppo presto a tormentarlo, su di esso aleggia un’espressione dolce, ma profondamente malinconica. Nel marzo del 1937, poco prima che Kimitake entrasse al settimo anno di scuola, la nonna prese finalmente la soffertissima decisione di lasciar andare il nipote a vivere con i suoi genitori. È probabile che abbia con16 17

Cit. in Ibid. Ivi, p. 19.

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tribuito molto lo stato fisico sempre più precario in cui si trovava, aveva sessantadue anni e le energie le venivano ormai a mancare ogni giorno di più. Tra l’altro anche suo marito Jōtarō era da tempo che insisteva perché lasciasse che Kimitake si riunisse ai suoi genitori e ai suoi fratelli. Il distacco non avvenne di certo in modo indolore, Natsuko non sopportava l’idea di quella separazione e la procrastinò quanto più a lungo possibile. Secondo i ricordi di Kimitake, quando si arrivò all’inevitabilità del distacco, la nonna prese a piangere giorno e notte, stringendo al petto la sua fotografia. Si può immaginare quale fu la gioia di Shizue a quella notizia. Il suo primo pensiero fu quello di cercare una casa più grande dove abitare con Kimitake. E in sole tre settimane la famiglia Hiraoka, senza i nonni, traslocò in una nuova casa nel quartiere di Shibuya. Kimitake era immensamente felice, e non solo per la sua riunione con la famiglia – in effetti più che una riunione era un vero e proprio inizio della sua vita con i familiari –, ma anche perché per la prima volta nella sua vita aveva uno spazio tutto suo, una camera dove potersi chiudere più intimamente nel suo universo di letture e di scrittura. Il distacco dalla nonna significò per Kimitake un allentamento delle tensioni emotive e psicologiche. Ma il sollievo non durò a lungo, perché suo padre Azusa, si rivelò presto un degno sostituto dell’anziana donna; un genitore rigido e severo, e per giunta senza neanche la fantasia e il gusto artistico di Natsuko. Non che il carattere di suo padre gli fosse del tutto ignoto, Azusa era sempre stato un marito e un padre poco sensibile, ma ora che Kimitake poteva vivere tutti i giorni con i suoi genitori, poteva rendersi conto molto più direttamente della disarmonia familiare. Azusa era tirannico un po’ con tutti in casa, ma Kimitake sembrava essere l’obiettivo preferito dei suoi attacchi; suo principale scopo sembrava essere quello di riparare, con i suoi metodi spartani, ai deleteri effetti dell’educazione “effeminata” impartita da nonna Natsuko. I suoi attacchi si concentravano in particolare verso la passione per i libri di suo figlio. Ora che Kimitake poteva uscire liberamente senza limitazioni di sorta, preferiva invece restarsene a casa a leggere: a dodici anni leggeva Oscar Wilde, Rilke e la letteratura di Corte giapponese dell’XI secolo. Azusa era avvilito e furibondo; quando vedeva suo figlio con un libro in mano glielo strappava, e dopo aver verificato che si trattava di letteratura, lo faceva a pezzi e ordinava al ragazzo di andarsene subito a dormire. Per Azusa la letteratura era una vera e propria perdita di tempo, un passatempo da signorine per nulla adatto alla formazione “virile” di suo figlio. Ma doveva esserci qualche nume tutelare della letteratura che si prendeva cura del piccolo Mishima e ne favoriva la sorte di scrittore, perché

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nel gennaio del 1938, a circa un anno di distanza dal trasferimento nella nuova abitazione di Shibuya, avvenne un fatto inaspettato: Azusa ricevette la promozione a direttore del Dipartimento di Pesca del Ministero dell’Agricoltura e Foreste, la cui sede era a Ōsaka, città molto lontana da Tōkyō. Era una carica di notevole importanza, a cui non avrebbe rinunciato per nessun motivo al mondo, il problema era solo decidere come trasferirsi così lontano, e, inoltre, dopo le fatiche di un trasloco avvenuto solo un anno prima. Shizue era abbastanza cagionevole di salute per affrontare un così faticoso spostamento, i nonni ovviamente non pensavano minimamente di seguirlo, e Natsuko non solo non prendeva in considerazione l’idea di un proprio trasferimento, ma neanche quello dei nipoti, ovviamente di Kimitake in particolare, adducendone il motivo agli effetti deleteri che avrebbe avuto un cambiamento di scuola e di ambiente per i bambini. Si giunse quindi alla decisione che Azusa si trasferisse da solo nella nuova città. Così dal 1938 al 1942, anno in cui rassegnò le dimissioni dal servizio civile, per quattro anni Azusa ritornò a casa solo un paio di volte al mese, restando quasi del tutto lontano dalle vicende familiari. Certo non poteva non avere sospetti che Kimitake scrivesse qualche raccontino e qualche poesia, e la cosa destava in lui qualche preoccupazione, ma non c’era nulla da fare, non poteva esercitare più il severo controllo di una volta. Ma la realtà era molto più “preoccupante” di quanto Azusa immaginasse, perché con grande soddisfazione di Shizue, sotto il suo sguardo esperto e attento la capacità letteraria del ragazzo cresceva a vista d’occhio, e lei si guardava bene dal metterne al corrente il marito. Quando Azusa era a Ōsaka, in casa regnava una deliziosa armonia; Kimitake adorava il fratello Chiyuki e la sorella Mitsuko, anche se pare che ci volle un po’ di tempo prima che i due non lo considerassero più l’estraneo di prima. Fu in questo periodo che il legame tra Kimitake e sua madre Shizue si consolidò tenacemente. La prima estate che trascorsero insieme, Shizue decise di portare tutti i tre i bambini per un mese al mare. Anche Azusa era entusiasta dell’idea, pensava che era ora che Kimitake prendesse un po’ di sole e imparasse a nuotare. Questa volta le idee di educazione spartana di Azusa non erano del tutto sbagliate: sin da quando al primo anno di scuola il dottore gli aveva diagnosticato una malattia polmonare e aveva sconsigliato l’esposizione diretta ai raggi del sole, Natsuko lo aveva ancor più segregato nell’ombra, timorosa della luce del giorno come della morte. Kimitake aveva così continuato la sua lunga segregazione tra le mura di casa a discapito della sua crescita e dell’irrobustimento del suo già gracile fisico, a dodici anni appariva molto pallido e dimostrava tre quattro anni di meno. Così quella prima estate al mare fu rinvigorente per il suo corpo, prima annunciazione

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del grande incontro con il sole che tanti anni dopo avrebbe consacrato il suo nuovo patto di vita con l’astro luminoso. Azusa però fu di nuovo deluso dal figlio che non solo non imparò a nuotare, ma fu colpito da un enorme turbamento alla vista dell’oceano, una sorta di timorosa passione che presto si sarebbe manifestata nelle sue composizioni letterarie. L’altra grande passione che esplose quell’estate fu l’amore per la madre. Non che Kimitake non avesse provato sino ad allora un grande affetto per sua madre, ma ora che poteva godere della sua presenza senza limitazioni, affidarsi a lei senza interferenze, sentiva davvero esplodere un amore inconsueto, un sentimento molto più grande e passionale dell’affetto, seppur profondo, che si può nutrire per una madre. Shizue, dal suo canto, non provava emozioni dissimili, dopo dodici anni di parziale isolamento, poteva dare finalmente sfogo a tutti suoi sentimenti repressi. La passione tra madre e figlio dopo una lunga gestazione nell’ombra, ora che era esplosa libera e vitale nell’atmosfera ardente di quell’estate, sarebbe durata, in particolare da parte di Shizue, per tutto il resto della vita. Nonna Natsuko non era però scomparsa del tutto dalla scena; la “distanza” dal nipote trasferito a casa dei genitori non le impediva di continuare a esercitare una forte influenza su di lui. Kimitake doveva telefonarle ogni giorno al ritorno da scuola, e perlomeno una notte a settimana doveva restare a dormire da lei. Questa prassi fu rigorosamente rispettata per due anni, fino alla morte dell’anziana signora. Natsuko in questi due anni continuò a controllare attentamente lo sviluppo di suo nipote, intervenne su tutte le decisioni importanti della sua vita, e non interruppe neanche per un attimo l’opera di raffinamento ed educazione artistica del suo pupillo. Subito dopo il trasferimento nella casa di Shibuya, iniziò a portarlo a teatro a vedere le rappresentazioni di kabuki. Il primo dramma che scelse per il nipote fu Chūshingura, il racconto dei quarantasette rōnin, un’esaltante storia cavalleresca, ambientata nel XVIII secolo, che celebra la fedeltà assoluta di quarantasette samurai che dopo aver vendicato la morte del loro signore si tolgono tutti insieme la vita facendo seppuku, il suicidio rituale per sventramento. Kimitake rimase letteralmente incantato dalla rappresentazione, dalle luci, dai colori, dai suoni, dal sangue che sgorgava copioso sul palcoscenico. “Diventò subito un vero appassionato di kabuki, lesse tutto il repertorio fondamentale, ne ricopiava passi nei suoi quaderni, e imparò addirittura a imitare il tono di recitazione degli attori più famosi”18. La passione per il kabuki restò viva per tutto il resto della sua vita, tutti i mesi non mancò mai di assistere alle nuove rappresentazioni tenute nei teatri più importanti di 18

Ivi, p. 26.

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Tōkyō. Ma, come al solito, non gli bastò essere solo spettatore, egli stesso scrisse otto drammi nello stile tradizionale, e l’ultimo di questi, rappresentato poco prima della sua morte, fu rappresentato sotto la sua direzione. Giunse a maneggiare con tale sicurezza le norme e le convenzioni della tradizione del kabuki, da essere uno dei pochissimi drammaturghi contemporanei a ricevere gli apprezzamenti dei grandissimi attori di questa forma di teatro classico. Nel gennaio del 1939 Kimitake aveva compiuto da poco quattordici anni quando l’amata e temuta nonna Natsuko moriva di ulcera. Nell’apprendere la notizia il ragazzo restò impassibile. Shizue spiegò a John Nathan che il figlio non fu turbato dalla morte della nonna perché ormai riversava tutto il suo amore su di lei19, ma sembra difficile accettare una simile spiegazione. Mishima è stato sempre abile nel camuffare il suo stato d’animo, soprattutto quando era molto turbato; e forse è molto più probabile che la scomparsa improvvisa di una guida così austera e temibile, così eminente e fiera, abbia rappresentato per lui una sconcertante perdita di riferimento, da cui ha cercato di difendersi come si difese dall’assalto di quei treni urlanti e sbuffanti, senza una parola, senza un’espressione.

La nascita dei primi racconti Nell’aprile del 1937, all’età di dodici anni, iscritto al settimo anno di corso, Hiraoka Kimitake entrò nel circolo letterario della scuola. Era un circolo molto fiero della sua tradizione: alcuni dei suoi membri erano diventati poi gli scrittori che nel 1910 avevano fondato il famoso gruppo letterario Betulla bianca (Shirakaba). Nei precedenti anni di scuola i maestri di composizione avevano punito Kimitake per la sua “sgradevole precocità letteraria”, assegnandogli sempre voti molto bassi. Invece il suo ultimo insegnante subito riconobbe l’indiscutibile talento del ragazzo, e così lo esortò ad entrare nel circolo letterario e a dedicarsi seriamente alla scrittura. Nel dicembre del 1937 la rivista del circolo pubblicava sei poesie di Kimitake, e il numero successivo pubblicava altre sue poesie e il suo primo racconto, Fiori di acetosa (Sukanpo). In Fiori di acetosa il protagonista è un bambino di sei anni a cui la madre ha proibito di giocare sulla collina vicino casa, perché gira voce che in cima a quella collina si aggiri un condannato evaso dal carcere. Ma siamo all’inizio dell’estate e il paesaggio è acceso dei colori dei fiori di acetosa in 19

Ibid.

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piena fioritura, il bambino scappa di casa e va a giocare nel luogo proibito. Immerso nella bellezza della natura, lancia la sua palla alta nel cielo e quando la riafferra e come se avesse catturato un pezzo d’azzurro. Quando giocava a casa o per la strada non poteva respirare quell’aria così tersa e carica di energia. Ora percepisce l’energia vitale della terra, e “la terra inizia una danza simile al martellio del cuore, i suoi passi si muovono seguendo il tempo. La foresta tutta inizia a suonare un accompagnamento musicale”20. Rapito nell’estasi di quel paradiso, il bambino s’inoltra nella foresta ai piedi della collina e smarrisce la strada. Scendono le tenebre, la luna si alza nel cielo. Poi, all’improvviso, dall’ombra sbuca la sagoma di un uomo. “Dove stai andando?”, chiede il piccolo tremante di paura. “Ho cominciato un viaggio, ma ho dimenticato qualcosa a casa”, gli risponde l’uomo. “La casa grigia sulla collina? Quella che chiamano prigione?” “Sì, la mia casa è chiamata prigione”. Il bambino osserva il detenuto con i suoi occhi limpidi come “un lago autunnale”, occhi dalla purezza spaventosa. Poi si lancia fra le braccia tese dell’uomo, e piangendo gli dice: “Non dovresti venire qui. Ci sarà proibito giocare di nuovo sulla collina. Torna subito alla tua casa grigia!”. L’uomo guarda in alto la luna e sospira; i suoi occhi ora sono limpidi come quelli del bambino. “Io avevo un figlio. Un bel piccolino come te.” “E dov’è ora?” “Ora è un gabbiano che vola sulle immensità del mare. E quando scorge il luccichio argenteo delle scaglie fra le onde, tuffa la testa nell’acqua e dice: ‘Sono stato ucciso sul grigio mare della sera. Il mio assassino sprofonda negli scuri, scuri abissi. Finché non verrà in superficie sarò costretto a restare sospeso a queste bianche ali nelle basse nuvole del cielo’”. “Cosa significa?”, gli chiede disorientato il bambino, ma l’uomo continua: “Ma il demone che ha ucciso quel povero gabbiano ha trovato la strada per giungere alla superficie. E sai chi gliel’ha indicata? Sei stato proprio tu. Così io ti accontenterò. Tornerò alla prigione”21. Un anno dopo i fiori di acetosa tornano a fiorire, e il detenuto, scontata

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Mishima Yukio, Sukanpo, in MYZ, vol. 1, p. 13. L’abbreviazione MYZ si riferisce all’edizione completa delle opere di Mishima, Mishima Yukio zenshū, Tōkyō, Shinchōsha, 1975. D’ora innanzi sarà usata per tutte le successive citazioni. 21 Ivi, pp. 15-18.

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la sua pena, esce dal carcere. Il bambino è lì ad aspettarlo insieme ai suoi amici. Non appena lo vedono gli corrono incontro a festeggiarlo, poi siedono tutti insieme sul prato. È tutto un raggiante luccichio, i volti dei bambini e dell’uomo, i fiammeggianti fiori di acetosa. Ma ad un tratto ecco che si avvicina un piccolo gruppo di donne, le madri dei bambini. Afferrano i figli per le mani e li tirano via esclamando: “Toccare un detenuto! Che schifo!”. Con i fazzoletti puliscono le mani dei bambini lanciando all’uomo violenti rimproveri. L’uomo, senza dire una parola, si china a raccogliere dei fiori di acetosa, poi ne dà uno ad ogni bambino e se ne va via in fretta senza girarsi indietro neanche una volta. I bambini restano lì con i fiori in mano. “Gettateli via!”, intima severa la voce delle madri. E i fiori di acetosa restano lì abbandonati sul terreno, luccicando nella luce del sole. La chiave essenziale di questo primo racconto è di sicuro da cercare in un impellente desiderio di evasione che grida per essere appagato. Non è difficile individuare nel desiderio di fuga di Akihiko, il piccolo protagonista di Fiori di acetosa, lo stesso desiderio di evadere del piccolo Kimitake. La lunga segregazione tra le mura domestiche non solo hanno acceso in lui l’irrefrenabile desiderio di fuggire in una natura aperta e radiosa, ma anche di far fluire liberamente il suo bisogno di aggregazione ad essa in una sorta di danza dionisiaca “simile al martellio del cuore”. Considerati i precedenti dei suoi primi dodici anni di vita, questa reazione ci sembra del tutto leggittima e naturale, ma particolarmente interessante, come ha notato John Nathan, è il fatto che “la danza raggiunge il suo acme non tra i fiori brillanti sulla collina, ma nella scura, proibita foresta, nel momento in cui il bambino si getta nelle braccia di un uomo che ha ucciso suo figlio”22. Affiorano qui alcuni elementi essenziali della letteratura mishimiana – la foresta scura (le tenebre), il bel bambino che piange (la bellezza pura e minacciata) e l’assassino (minaccia della bellezza con connotazione erotica e omosessuale) – che troveranno più tardi maggiore assestamento in opere più complete e di ampio respiro. Fino all’età di sedici anni Kimitake si considerava soprattutto un poeta. La principale ispirazione gli veniva da Tachihara Michizō, uno dei principali poeti lirici degli anni trenta, attraverso il quale imparò ad apprezzare profondamente la poesia classica waka. La sua Raccolta di liriche (Jojōshi), pubblicata nella rivista letteraria della Scuola dei Pari, manifesta la chiara influenza di questo poeta, anche se l’intensità e il senso lirico sono nettamente inferiori a quelle di Tachihara. Kimitake era uno scrittore di versi abbastanza prolifico, riempiva in genere un quaderno di poesie alla settimana. Non si tratta di 22

John Nathan, Op. cit., p. 30

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versi eccellenti; sono per lo più composizioni tecnicamente ineccepibili, ma poco ispirate, che testimoniano più il desiderio di fuggire dalla realtà che quello di interpretarla. In molte di esse troviamo una sorta di freddo erotismo, frutto dell’operazione di camuffamento delle sue fantasie poco “normali” e del tentativo del poeta di renderle, per quanto possibile, accettabili dal senso comune della società. Ma alla Scuola dei Pari le sue poesie erano oltremodo ammirate, sia dagli studenti che dai docenti. Uno dei primi a riconoscere il talento di Kimitake fu Bōjō Toshitami, il figlio di un aristocratico che era all’ultimo anno della scuola. Nell’autunno del 1937, quando Kimitake presentò il suo primo componimento poetico alla rivista letteraria della scuola, Bōjō aveva da poco lasciato la sua carica di direttore della rivista. Bōjō aveva vent’anni, ma gli otto anni di differenza che lo separavano dal poeta dodicenne non costituirono alcun ostacolo per la loro amicizia. Letti i suoi versi decise subito di incontrarlo e quel loro primo incontro segnò l’inizio di un’intensa frequentazione letteraria durata quattro anni. Dopo di che, Kimitake, avendo ampiamente superato il collega più adulto, decise che quella frequentazione non gli sarebbe stata più necessaria, se non addirittura negativa e noiosa, e decise di troncare ogni rapporto con lui. Un comportamento che si sarebbe ripetuto molte altre volte nella vita futura dello scrittore. I due non si incontravano molto spesso, era per lo più Kimitake a recarsi nella lussuosa casa dell’amico, dove si dedicavano principalmente alla lettura dei classici di Corte. Al di là di queste visite, neanche troppo frequenti, non vi erano altri incontri e i loro scambi di idee avvenivano principalmente in modo epistolare; “interminabili lettere che si scambiavano quasi quotidianamente. Lettere che iniziavano con critiche a poesie ricevute con la lettera precedente e continuavano con nuove poesie, notizie su libri (Bōjō fece conoscere a Kimitake Cocteau, Huysmans e Villiers de L’Isle Adam), episodi di famiglia, e sogni suggestivi”23. A volte i due si incontravano fugacemente solo per scambiarsi una nuova lettera, convinti che la loro comunicazione fosse molto più intensa e proficua attraverso la scrittura. Senza dubbio l’amicizia con Bōjō è stata di grande importanza per Kimitake, soprattutto in questo periodo di intensa formazione letteraria, ma, come abbiamo già detto, i progressi del giovane scrittore furono rapidissimi e presto si rese egoisticamente conto che il suo amico ormai aveva ben poco da dargli. Già nell’estate del 1941 il suo comportamento nei confronti di Bōjō iniziò a mutare, cercando il modo migliore per troncare quell’amicizia. Ben noto è l’episodio clou che determinò il loro distacco.

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Ivi, p. 34.

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Bōjō gli aveva inviato un racconto che parlava di un’infelice storia d’amore tra uno studente universitario e una donna sposata. In una nota egli spiegava che la storia era il fedele resoconto di un’esperienza personale, e chiedeva il parere del suo giovane amico. Kimitake non rispose alla lettera. Bōjō gli scrisse di nuovo, chiedendogli di incontrarlo in un caffè vicino all’Università Imperiale. Kimitake accettò l’invito, ma una volta seduto davanti all’amico non disse nulla riguardo al racconto. Alla fine Bōjō non resistette più e gli chiese apertamente un commento sul suo lavoro, ma Kimitake si limitò a rispondergli che i dialoghi erano “innaturali”. Quando Bōjō protestò dicendo che le frasi che aveva scritto erano state riportate alla lettera dalle conversazioni con la sua amante, Kimitake replicò che era proprio quello il motivo per cui i dialoghi erano pessimi, che la narrazione era prosaica, più simile a un articolo di giornale che a un lavoro letterario. Bōjō rimase senza parole”24.

Il gesto definitivo per la rottura della loro amicizia avvenne nella primavera dell’anno successivo, quando Kimitake dette vita ad una rivista letteraria e non invitò Bōjō a parteciparvi.

La foresta in fiore Kimitake era diventato un vero e proprio astro nascente nel firmamento della Scuola dei Pari. Nel 1940 era, all’età di quindici anni, il più giovane esponente del palcoscenico letterario di quel circolo di scrittori che vantava una tradizione centenaria. L’anno successivo fu eletto direttore della rivista letteraria della scuola, diventando la figura centrale delle attività letterarie dell’istituto. Ma l’avvenimento più importante avvenne nell’estate del 1941, quando il suo mentore Shimizu Fumio, figura centrale della Scuola romantica (Nihon romanha), lo invitò a pubblicare una storia a puntate nella rivista accademica Bungei bunka che dirigeva con altri tre critici letterari. La Scuola romantica giapponese era emersa verso la metà degli anni trenta, proprio nel periodo di massimo sviluppo del fascismo giapponese. I suoi leader, Yasuda Yōjurō, Hayashi Fusao ed altri, erano apostati del marxismo che stavano gettando le basi per una nuova “identità”, trasferendo la loro fede dal marxismo alla tradizione nazionale. Essi costruirono una sorta di “ultranazionalismo estetico” in cui tutti gli elementi della tradizione erano esaltati come ideale assoluto e supremo. Figura centrale dell’ideologia era l’imperatore, che diventò il riferimento assoluto della bellezza e della tradizione. La bellezza dei classici si fondeva naturalmente con la bellezza 24

Ivi, pp. 35-36.

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divina dell’imperatore. Un ulteriore passaggio portava questa fusione di bellezza e divinità in direzione di un “assoluto” per cui solo valeva la pena di vivere, ma soprattutto di morire. Codificando così i peculiari aspetti di un enigmatico “ultranazionalismo estetico e romantico” legato indissolubilmente alla “bella morte eroica”, che tanto avrebbe affascinato Mishima per tutto il resto della sua vita. La proposta che Shimizu Fumio faceva a Kimitake era davvero eccezionale e senza precedenti nella storia della rivista Bungei Bunka, per due motivi: il primo era che un organo della critica letteraria affermata chiedeva un contributo a un giovane studente, il secondo era che per la prima volta si pubblicava un testo di narrativa invece di un saggio critico. Kimitake accettò senza indugio e informò il direttore che avrebbe scritto una storia di un centinaio di pagine dal titolo La foresta in fiore (Hanazakari no mori). Poi chiese al suo insegnante di aiutarlo a cercare un nome d’arte; la scelta di Mishima Yukio pare non essere stata legata a nessun significato particolare se non ad una questione di gusto: Mishima fu preso dal nome di una località, e per quanto riguardava il nome, poiché Kimitake lo preferiva composto da tre ideogrammi si scelse Yu-ki-o, prendendo spunto dal poeta romantico Itō Sa-chi-o. La foresta in fiore viene scritto all’età di sedici anni. È il suo primo esperimento letterario “maturo”, nel quale più che dare libero sfogo al desiderio di narrare di sé in un resoconto solipsistico e realistico (itinerario letterario tipico di molti scrittori della sua generazione), sembra abbia sentito la necessità di dare vita a tutti quei fantasmi che popolavano la sua opulenta fantasia, e materializzare nelle parole tutte quelle sensazioni interiori generate dalla sua ipersensibilità. Il racconto è diviso in cinque parti, dove la mente dell’Io narrante inerpicandosi sui racconti e sui cimeli di famiglia risale indietro nel tempo, attraverso i periodi storici del Giappone fino all’epoca Heian (7941186). Non abbiamo un vero e proprio protagonista, a meno che non si voglia considerare tale l’Io narrante che, in quanto “punto di vista”, appare in tutte le parti. La sua identità è molto vaga, non si capisce se sia giovane o vecchio, se si tratti dello scrittore oppure no. Aleggia costante un’indeterminazione di stato tra scrittore e narratore, una fluttuazione continua del flusso di coscienza. In ogni caso egli non ha la struttura solida di un protagonista. Così più che di “protagonista” è forse preferibile parlare di personaggi con un carattere specifico per ogni parte25. Nel preambolo assistiamo allo stato mentale “invecchiato” e “recluso 25

In effetti anche la definizione di “personaggio” non sembra del tutto appropriata, ma in seguito ritorneremo più specificamente sull’argomento.

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dell’Io che si è trasferito in “questa terra”. Lo scenario che circonda il narratore è anonimo, sappiamo solo che egli si trova di fronte ad una catena di montagne e a un golfo. La scena di apertura pone subito davanti ai nostri occhi uno dei simboli essenziali dell’opera, uno di quegli elementi intorno al quale tante trame si sarebbero intrecciate nei lavori successivi: il mare. Ma per assistere al suo pieno sviluppo, dobbiamo giungere al centro della narrazione, quando verrà celebrato come simbolo del desiderio e della paura. Il preambolo si concentra essenzialmente sullo stato mentale del narratore, sulla sua esistenza che vive di ricordi. Essi dal lontano passato risalgono inaspettati attraverso veicoli evocatori di proustiana memoria. I ricordi invadono la sua esistenza, lo invitano a un’esplorazione interiore. Egli si trova di fronte alle profondità del suo essere, di fronte a quell’antro della memoria di cui anche Yeats fu testimone, e dove se un uomo “vi guarda non contempla soltanto nell’acqua cupa i pensieri, i sentimenti e le sensazioni che lo hanno attraversato. Guarda e vi scopre l’eco di altre esistenze che ha fuggevolmente intravisto: la voce di tutti i morti che appartengono al suo Io e alla sua stirpe”26. Gli antenati incontrano la memoria dell’Io, stabiliscono un legame fra passato e presente, rappresentano forse “la presenza della Memoria dell’umanità, che di epoca in epoca rinnova il mondo”27. Essi manifestano il loro disappunto verso un’epoca in cui “bellezza” e “solennità” sono separate. La “solennità” ha lasciato le briglie del cavallo bianco della “bellezza”, che “tante volte è caduto e tante volte si è rialzato riprendendo a correre. Ormai non è più puro, il fango ha insozzato il suo manto”28. La voce degli antenati tradisce la presenza di quei semi ideologici della Scuola romantica giapponese, legati all’esaltazione del passato e inculcati nell’anima del giovane Mishima da insegnanti della Scuola dei Pari come Shimizu Fumio. Un’ideologia nazionalistica, quasi spoglia di carattere politico e accesa invece di forti tinte spirituali e di conservatorismo culturale, che si stabilizzerà sempre di più nella coscienza dello scrittore e apparirà, più o meno manifesta, in buona parte delle opere successive. Nella prima parte della Foresta in fiore sono descritti l’ambiente dell’infanzia dell’Io e le persone che lo circondano. La nonna è il personaggio di maggior rilievo, il più incisivo nella formazione della sensibilità del bambino. Si ha l’impressione che le “esistenze narrative” del padre e della madre prendano corpo con lo specifico scopo di introdurre quella della nonna. 26 27 28

Pietro Citati, “L’antro della memoria”, La Repubblica, 22 novembre 1988, p. 27. Ibid. Mishima Yukio, La foresta in fiore, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 11.

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Ci sembra più opportuno parlare di “esistenze narrative” piuttosto che di personaggi, perché non abbiamo elementi sufficientemente determinanti il cosiddetto “personaggio”, inteso come caratterizzazione tridimensionale di attributi fisici e psicologici ben delineati. Nell’opera non è rintracciabile nessuno di questi “personaggi”. La disposizione delle “esistenze narrative” (ivi compresa quella del narratore) ha lo scopo di creare una scenografia di superficie su cui far muovere la profondità delle sensazioni, fluttuanti di luogo in luogo, di epoca in epoca, attraverso una serie di esclamazioni liriche, reminiscenti della lingua e della poesia classica. Il giovane scrittore manifesta così la sua condizione esistenziale, il suo vivere l’adolescenza immerso in un mondo di parole meravigliose e di sogni del passato, quasi ignaro che intorno a lui si muove un mondo del tutto opposto; un Giappone concreto, reale, quotidianamente minacciato dallo spettro della guerra. La letteratura per lui è un meraviglioso rifugio dove può lasciar fluire le proprie fantasie del tutto lontane dagli accadimenti sociali. Successivamente l’esonero alla visita di leva gli precluderà ulteriormente il coinvolgimento con gli avvenimenti essenziali dell’epoca e lo relegherà sempre di più in un universo “alla Radiguet” molto particolare e privilegiato. Ma questo atteggiamento non era l’espressione di un superficiale qualunquismo e disinteresse per gli accadimenti del mondo, quanto una naturale difesa dall’inevitabilità della fine. Mishima, come la maggior parte dei suoi coetanei, viveva durante il periodo della guerra con la convinzione che la sua esistenza sarebbe stata troncata da un momento all’altro. La guerra decideva il futuro dei giovani e concretizzava in loro l’idea del destino. “Gli adolescenti”, dice Okuno Takeo, “accettavano il destino di una morte non lontana, e, come un contadino che si affretta a fare il raccolto, si affrettavano a fare i preparativi per l’imminente momento estremo. Allo stesso tempo, questi giovani cercavano il modo di allontanare dalla loro coscienza l’oppressione di questa realtà oscura, e si rifugiavano in piaceri segreti completamente isolati dalla società. (...) In altra parole sperimentavano una sorta di ‘medioevo’ del ventesimo secolo”29. E in questa situazione la Scuola romantica ha rivestito un ruolo essenziale per i giovani d’animo poetico come Mishima. Perché essa insegnava loro a trasformare in energia positiva questo oscuro senso del destino, a vedere nel destino sublime e tragico la “bellezza” della distruzione. La Scuola romantica, attraverso la luce dell’antica tradizione, educava i giovani animi poetici 29

Okuno Takeo, “Mishima Yukio ron – Nise narushishizumu no bungaku”, in Shirakawa Masayoshi, Hihyō to kenkyū Mishima Yukio, Tōkyō, Hagashoten, 1974, p. 47.

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a una sensualità apollinea e sublimata nell’arte, a un’elegante decadenza, a una sommessa malinconia nei confronti del fato. Caratteri distintivi della prima letteratura mishimiana – come la forte tendenza all’estetismo, l’idea del fatalismo, lo stile di cesellatura barocca – trovano di sicuro la propria origine nell’influenza di questa scuola. Affermare però che la fuga dalla realtà della Foresta in fiore rappresenti esclusivamente una valvola di scarico delle tensioni quotidiane, significherebbe porre un’enfasi eccessiva sul condizionamento sociale dello scrittore. I condizionamenti sociali sono fondamentali nella crescita di un artista, di sicuro prendono parte alla determinazione della traiettoria del suo percorso, ma non possono dare forma alla natura congenita della sua arte. Così la fuga dalla realtà di questo racconto ci appare anche nella sua veste di volontaria scelta creativa, di percorso narrativo che il giovane scrittore segue nel tentativo di giungere ad una dimensione universale. Ad una dimensione fuori di ogni tempo e luogo, dove può entrare solo attraverso la frantumazione della realtà. La dimensione in cui l’opera d’arte si anima e dà vita alla storia umana attraverso la finzione, evoca e cristallizza il tempo trascorso. “Il tempo perduto” che, come ha evidenziato Wakamori Yoshiki, per La foresta in fiore “può tornare solo in questa forma, ovvero come un tempo iterativo che trasgredisce il tempo realistico, comune o storico”30. Anche se l’opera elude qualsiasi tentativo di narrazione realistica, è tuttavia possibile rintracciare una serie di elementi autobiografici. Il rapporto di riverenza e di soggezione con la nonna, sorta di temibile divinità agonizzante, circondata dai gregari della morte, al cui cospetto l’Io narrante è avvolto in una vertigine, spogliato di ogni iniziativa e senza più il controllo delle sue azioni, è fin troppo simile a quello del piccolo Kimitake con la terribile nonna Natsuko. La figura sfuggente della madre verso la quale lancia sguardi furtivi per spiarne i movimenti; quella figura che si affretta nel chiaro di luna, trascinandosi una lunga ombra che arriva sino a lui, non può non suggerirci la trasfigurazione letteraria di quella madre, la cui presenza per tanto tempo è stata negata allo scrittore; quella madre divenuto oggetto di un desiderio a lungo represso. Elementi autobiografici sono chiaramente individuabili; vogliamo però sottolineare che essi non sono posti come premessa narrativa, ma sembrano scivolare dal subcosciente dell’autore in maniera del tutto naturale e non razionalmente indotta. Non hanno lo scopo di essere narrati, ma si posano sull’ordito come un qualsiasi altro elemento scenografico.

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Wakamori Yoshiki, “Mishima Yukio ron”, Yuriika, n. 5, 1986, p. 130.

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Mishima stesso ha definito La foresta in fiore “un’appassionata lettera d’amore verso le parole”31. In effetti la ricerca paziente ed esasperata di uno stile composito, ricco di risonanze classiche di epoca Heian, è uno degli aspetti più interessanti di quest’opera, e forse anche uno dei suoi più grandi limiti. Il desiderio di mostrarsi a tutti i costi il giovane erede della grande tradizione letteraria lo sprona a una ricercatezza linguistica che altera inevitabilmente i parametri di equilibrio necessari ad un’opera di questo genere. Situazioni in cui l’oggetto della descrizione è già di per sé un elemento di alterazione sensoriale, vengono sostenute da superlativi, iperboli, tagli di luce e illuminazioni folgoranti. Viene da chiedersi se tanta febbre dionisiaca si sarebbe mai placata attendendo un’ulteriore stratificazione delle sue esperienze emotive, o se quest’opera trova ragione di esistere solo in questa forma. Di fatto, certe tecniche narrative, uno stile talvolta oltremodo enfatico e solenne, perdonati alla sua giovane età dalla critica del tempo, sono poi sopravvissuti, rivivono inaspettati fra le sue pagine più mature. Tuttavia La foresta in fiore non è da considerarsi soltanto una ricerca esasperata dello stile, uno stile classico a cui il giovane Mishima si aggrappa, come qualcuno potrebbe pensare, nel tentativo di non veder svanire la tradizione. La foresta in fiore è un’opera che sfugge a interpretazioni univoche. Come abbiamo già detto, su una scenografia di superficie si muove la profondità delle sensazioni, e queste sensazioni prendono forma e colorazione in ambiti surreali, dove qualsiasi tentativo di decodifica positivistica ci porterebbe fuori strada. Escludendo un’indagine in profondità di tipo psicoanalitico (forse più adatta a una chiarificazione degli stimoli del subcosciente e delle conseguenti tensioni emotive), restiamo, per il momento, sulla superficie del tessuto letterario, osservando le immagini scaturite dalle pulsioni creative che da quelle tensioni sono derivanti. La visione divina della seconda parte, descritta con soverchia enfasi, ma con innegabile potere suggestivo, svela apertamente il nucleo centrale intorno al quale l’opera è concepita: il desiderio. Un desidero sottile, struggente si insinua nel cuore delle “esistenze narrative” della Foresta in fiore, cresce inarrestabile, si impadronisce di loro, esplode. La dama era salita sulla maestosa torre con la forza di un bocciolo che sta per schiudersi. Il desiderio era sbocciato e si era lanciato contro quella visione pura e sacra. Se il suo prorompente desiderio non le fosse volato incontro, 31

Cit. in Hasegawa Izumi, “Hanazakari no mori”, Kokubungaku: kaishaku to kanshō, n. 12, 1972, p. 112.

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quella donna non sarebbe mai apparsa. Per l’eternità nel cuore della dama sarebbe rimasta nascosta solo l’idea di un colore sfumato e informe32.

Il desiderio della narrazione non è un’entità derivante dall’esistenza di fattori esterni, ma piuttosto un’essenza autonoma preesistente nella coscienza degli individui, che si proietta all’esterno impossessandosi di elementi già esistenti (il mare, il sole, i paesi tropicali) o materializzandosi in immagini surreali, come nel caso dell’apparizione mistica. L’influenza del pensiero buddhista si manifesta in embrione. Molto più tardi, il rapporto fra coscienza individuale e mondo fenomenico, secondo la teoria buddhista yuishiki, sarà al centro dell’opera ultima di Mishima, Il mare della fertilità (Hōjō no umi). Il desiderio nella Foresta in fiore, dalle coscienze dei personaggi si versa nel mondo esteriore, si materializza e li sovrasta con la forza del suo fascino. Nella terza parte, il desiderio ha preso possesso del mare. L’immagine del mare immoto e tranquillo apre il racconto, poi compare a tratti come una frase melodica in attesa del suo pieno sviluppo, lo raggiunge infine nella terza parte. Il mare, al centro della narrazione, ha acquistato il massimo vigore, il suo potere di attrazione si dirige verso una dama di corte del periodo Heian, fuggita dalla capitale insieme a un monaco buddhista divenuto suo amante. Il desiderio, celato prima sotto le spoglie dell’uomo, abbandona quell’involucro per trasferirsi nell’oceano. Da quel momento in poi l’indifferenza verso l’amante e il “misterioso rapimento estatico” nei confronti del mare, una passione violenta avvolta in un terrore arcano, crescono di pari passo. Nell’ultima parte del racconto la ricostruzione dei ricordi dell’Io narrante avviene attraverso una fotografia sbiadita che ritrae la zia di sua nonna. Siamo presumibilmente in era Meiji (1868-1911), e il contrasto della cultura occidentale con quella giapponese è sottolineato dalla descrizione di questa foto: Una giovane signora, un pesante vestito rosa da danza. Gli orli della veste, con le stecche di balena, si allargano ampi come un cesto di fiori, si vedono appena le punte delle scarpette da ballo argentate. I morbidi piedi nelle scarpe leggere si poggiano instabili su un piccolo tappeto persiano steso al centro del tatami. Si stringono attorno a lei il paravento a sei pannelli della scuola di Kōrin, i fusuma con le raffigurazioni dei sette saggi del boschetto di bambù...”33.

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Mishima Yukio, La foresta in fiore, cit., p. 23. Ivi, p. 29.

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L’innesto della cultura occidentale su quella giapponese è più volte suggerito nella narrazione, con diverse sfumature di tono in cui biasimo e approvazione si manifestano alternativamente. La madre dell’Io narrante è “una donna del ‘presente’” che non sente “quella triste separazione tra bellezza e solennità, il lamento struggente degli antenati”. Ma alcune righe dopo questa critica “culturale” nei confronti di una superficiale modernità, leggiamo: Desideravo che lei rispecchiasse un modello di donna alquanto americanizzato che, pur rappresentando la decadenza, traboccasse ancora di una volontà cieca34.

Ma l’occidente non entra nella narrazione solo attraverso una serie di oggetti esotici, o come l’ispiratore di un pericoloso e superficiale modernismo. Esso è rappresentato, e positivamente accettato, nell’aspetto profondo e solenne della religione. Ad esso è affidato il compito di celebrare nella cornice del cristianesimo l’esperienza mistica di dama Hiroaki, il desiderio sublimato e rarefatto in forma di preghiera che vola verso l’immagine divina. Nonostante La foresta in fiore sia stato scritto quando il Giappone si trovava di fronte all’imminente scoppio di un conflitto che lo avrebbe confrontato con la forza dell’Occidente, e l’atmosfera culturale fosse impregnata di sentimenti nazionalistici, la critica dello scrittore non è animata da cieca e irrazionale ostilità. Sembra anticipare quella delle opere successive, rivolta agli aspetti “deteriori” della cultura occidentale (industralizzazione selvaggia, capitalismo aggressivo, sfrenato consumismo) e agli effetti “nefasti” che produrrà sulla maturazione culturale del Giappone moderno. È difficile affermare che nel giovane Mishima ci sia già la piena consapevolezza di questa problematica. Una problematica che spingerà lo scrittore verso un continuo confronto di civiltà e verso la ricerca di elementi culturalmente differenziati ma di affine significanza. Essa non si presenta così esplicita e matura come in molte opere successive, ma si avverte senza dubbio l’inizio della sua crescita. Nella parte finale del racconto il mare è ancora al centro della narrazione. La “giovane signora” della fotografia lo intravede da piccola e lo insegue per tutto il corso della sua esistenza. Il desiderio, una passione devastante verso qualcosa di irraggiungibile, “lievitato lentamente dalle sue emozioni infantili”, le si staglia ora di fronte. Inesorabile calamita della sua 34

Ivi, p. 16.

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coscienza, prima sotto le spoglie del mare, poi sotto quelle del sole e dei tropici, trascinerà la donna fino alle isole dei mari del sud. In tutto l’arco della narrazione il desiderio non troverà mai appagamento. Le esistenze si muovono nel vortice della passione solo per andare incontro alla morte o al ritiro dall’esistenza mondana. Dama Hiroaki dopo l’esperienza mistica ritorna nella pace divina. La dama del periodo Heian fuggita verso la costa con il suo amante, dopo il turbolento incontro con il mare farà ritorno alla capitale ed entrerà in un monastero. Anche la donna dell’ultimo episodio, dopo la permanenza nei paesi del sud, farà ritorno al suo paese, dove condurrà una vita solitaria in una casa costruita in aperta campagna. L’inseguimento di un desiderio il cui destino è quello di essere sempre frustrato, l’aspirazione e la passione sempre deluse, ci suggeriscono subito una connotazione apertamente romantica del racconto. Il mare si presenta così con una doppia natura: da una parte come oggetto, metafora del desiderio, ma nel medesimo tempo anche come ironia della sua negazione. Dice Noguchi Takehiko: “L’autocoscienza di questa ironia nella Foresta in fiore, forse era la precoce autopercezione di un desiderio impotente che si nascondeva dentro Mishima già all’età di sedici anni”35. “Dove bisogna andare per trovare il mare, lontano? Con che cosa ci si arriva?”, chiede una delle protagoniste del racconto al fratello. “Il mare non esiste. Anche se arrivi fino al mare. Può darsi che non esista lo stesso (...)”, è la risposta “ironica” del giovane malinconico, in cui è difficile non ravvisare lo stato d’animo dell’autore stesso. Il giovane Mishima lasciava che la sua anima romantica si lanciasse verso le vette del desiderio, pur consapevole della loro irrangiungibilità. La dolcezza del sogno la conduceva sempre più in alto, finché il volo non veniva interrotto dall’improvvisa coscienza della realtà, dalla forza dissacrante dell’ironia. Un’ironia romantica che lo accompagnerà per tutto il resto dell’esistenza, disegnando sul suo viso l’espressione cinica di un poeta nichilista che non può guardare alla vita umana che con distacco e disillusione. Considerando la negazione del desiderio come condizione esistenziale fondamentale di tutta la letteratura romantica, non si trova difficoltà alcuna a inserire questo e molti altri lavori di Mishima nella tradizione del romanticismo giapponese. Quello che però è interessante evidenziare è un aspetto peculiare del romanticismo di Mishima. Nella Foresta in fiore il desiderio, inseguito e mai raggiunto, è indefinito. Non ci troviamo di fronte a un’irrealizzabile passione amorosa o all’enfasi del lato emozionale 35

Cit. in Wakamori Yoshiki, “Mishima Yukio ron”, cit., p. 128.

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dei sentimenti umani. Il desiderio, come è stato già detto in precedenza, è un’entità preesistente nell’individuo che si catapulta all’esterno per assumere una forma maestosa e sacrale. Ma la sua natura ci resta ignota. Non sembra essere collegato con nessuna precisa pulsione emotiva. Esso ci appare come un enigma esistenziale. Quell’enigma esistenziale a cui Mishima, attraverso i personaggi dei suoi numerosi lavori, avrebbe sempre cercato di avvicinarsi assumendo gli atteggiamenti più vari: dalla fervida e incontrastata passione, al più disincantato e lucido razionalismo, all’azione pura e determinata. Attraversando i più svariati sentieri dell’esistenza per trovarsi al termine del suo viaggio sempre di fronte all’ignoto, all’indescrivibile. Giunti al termine della narrazione della Foresta in fiore, l’anziana signora che dopo la lunga permanenza nei paesi del sud è ritornata in Giappone e conduce una vita ritirata in una casetta in aperta campagna, riceve la visita di un uomo che le chiede di parlargli del suo passato e della sua passione per il mare. Ma la donna non gli risponde, non ricorda, e lo invita invece a visitare il giardino. La scena viene fissata in un’immobilità sacrale che anticipa sorprendentemente la visione abbagliante e catartica del finale dell’opera ultima dello scrittore, l’ultimo volume della tetralogia Il mare della fertilità. La donna era immobile. I capelli bianchi ondeggiavano lievi, intrecciando delicati orli d’argento. Silenziosa e immobile... non si capiva se piangeva o pregava... A un tratto l’ospite si voltò, le cime delle querce scosse rumorosamente dal vento si erano ritratte all’improvviso, aprendogli la vista al cielo bianchissimo e abbagliante. Si sentì stringere il cuore da un’ansia inquietante. Forse aveva avvertito la vicinanza del “momento estremo”, la vicinanza del silenzio della fine della vita. Il silenzio di una trottola che si ferma, il silenzio che somiglia alla morte...36.

Con La foresta in fiore Hiraoka Kimitake, d’ora innanzi conosciuto in ambito letterario esclusivamente come Mishima Yukio, entrò a pieno diritto a far parte del gruppo romantico di Shimizu Fumio. Il racconto fu pubblicato a puntate in quattro numeri della rivista Bungei bunka, dal settembre al dicembre del 1941, e da allora in poi, fino all’interruzione della pubblicazione della rivista, avvenuta nell’agosto del 1944, Mishima fornì regolarmente i suoi contributi di narrativa, poesia e critica. Ma se nella vita letteraria le cose procedevano nel migliore dei modi, lo stesso non si poteva dire per la sua vita familiare. Il padre Azusa era ritornato 36

Mishima Yukio, La foresta in fiore, cit., p. 37.

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da Ōsaka con un solo pensiero: fermare la carriera letteraria del figlio. La scelta di uno pseudonimo letterario, oltre a tenerlo al riparo da eventuali complicazioni con l’amministrazione scolastica – che poteva disapprovare che uno studente pubblicasse in una rivista professionale – serviva anche, e forse soprattutto, come espediente per nascondere la sua attività al severo genitore. Ma questo espediente non servì a molto, il padre lo costrinse a promettere che non avrebbe mai più scritto letteratura e che avrebbe letto solo i libri da lui consigliati. Azusa diventa così, più di prima, con il suo ancor più congelato e rigido carattere burocratico, un enorme ostacolo per lo sviluppo artistico del giovane Mishima. Il punto di vista di Azusa appare chiaro in una lettera che egli scrisse a suo figlio da Ōsaka nell’autunno del 1941: Ho sentito che alcuni noti e potenti scrittori parlano di te come di un genio, di un ragazzo prodigio, qualcun altro dice che sei semplicemente perverso e sgradevole. Penso che sia ora che tu faccia una valutazione personale di te stesso. Tua madre è arrabbiata con me di tutto ciò, e dice che questo è il risultato di come sei stato cresciuto. Ma non serve parlare del passato. Pensa solo a come migliorare il presente e il futuro. Figlio, abbandona per un po’ la letteratura e usa il buon cervello che sei così fortunato ad avere per qualcosa di buono, tipo la fisica, l’ingegneria o la chimica. Se solo rivolgerai le energie che tu dedichi alla letteratura ad uno di questi campi, sono sicuro che diventerai qualcuno. Voglio che tu pensi seriamente a quello che ti dico. Io e tua madre siamo terribilmente preoccupati per te, e tu devi saperlo. Puoi cercare dentro di te la forza di cambiare?... È inutile parlare ora di quanto sia stato cattivo il modo in cui sei stato cresciuto. Non vuoi diventare un ragazzo schietto e leale? Quando vedo un giovane allegro, retto e schietto della tua stessa età, mi sento così triste da non riuscire a parlare. Scrivimi cosa hai intezione di fare, figlio37.

Quando Azusa ritornò nella casa di Shibuya, fu impossibile continuare a tenere nascosta la sua attività letteraria. Mishima ormai scriveva febbrilmente ogni notte sino all’alba. Quando il padre comprese fino a che punto fosse giunto il coinvolgimento del figlio con la scrittura, diventò furioso come non lo era mai stato. Iniziò una vera e propria attività di ricerca e di sequestro: diverse volte alla settimana si precipitava nella stanza di Mishima, e come un tempo aveva distrutto sotto i suoi occhi i libri che stava leggendo, ora sotto i suoi occhi distruggeva i manoscritti a cui stava lavorando. In quanto alla madre, ancora una volta non approvava minimamente il comportamento 37

Cit. in John Nathan, Op. cit., pp. 43-44.

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del marito, ma da brava moglie giapponese, ligia ai suoi doveri e al rispetto nei confronti del consorte, non poteva fare nulla. Si limitava ad entrare nella stanza dopo che la bufera si era placata, lì vi trovava il figlio in lacrime con lo sguardo fisso alla scrivania e cercava di consolarlo come poteva, con carezze, dolci e tè. Moltissimo lavoro andò distrutto in questo modo; a volte il giovane scrittore superato il momento di sconforto si metteva a riscrivere ciò che era stato ridotto in pezzi, ma a volte il trauma psicologico era così forte da togliergli ogni energia o desiderio di ricostruzione, lasciando che molte sue creazioni si perdessero per sempre. Questa situazione era esasperante, ma l’atteggiamento di Azusa, seppur estremistico, non era del tutto ingiustificato se inserito nel contesto culturale del luogo e dell’epoca. L’ideologia che aveva formato le giovani generazioni di burocrati del Giappone moderno, a cui Azusa apparteneva, era il confucianesimo. E secondo il confucianesimo più ortodosso la letteratura non era altro che una distorsione, una contraffazione della realtà, una pura e semplice menzogna; di conseguenza un’attività deplorevole e moralmente degenerata. Questa visuale, d’altronde, è rimasta viva in Giappone per lungo tempo. Il giovane Mishima però non si dette per vinto. Adottò una tattica duplice, da un lato mostrò di accettare le condizioni del padre, dall’altra continuò a scrivere quanto più segretamente potesse e, soprattutto, si premurò di nascondere adeguatamente i suoi manoscritti. Non li lasciava più in casa, di notte scriveva e al mattino li portava con sé a scuola, o li affidava ad una compagna di classe della sorella che abitava nelle vicinanze. Dal 1942 al 1944, nonostante le innumerevoli incursioni del padre, riuscì a produrre otto racconti, tre saggi sulla letteratura classica e un piccolo volume di poesie. E anche le sue letture, fortunatamente, non furono solo i libri imposti dal padre, come le storie sul nazismo, ma soprattutto i grandi autori della letteratura mondiale, classici e moderni. Oltre ai grandi della letteratura giapponese leggeva Rilke, Proust, Cocteau. Poi ci fu l’ossessione per l’enfant terrible della letteratura francese Raimond Radiguet. Più tardi Mishima ricorderà la sua lettura continua del Ballo del conte d’Orgel, arrivando all’ultima pagina e ritornando avidamente indietro alla prima, acceso da una terribile invidia per quel precoce talento. Inutile dire che la fascinazione di Mishima per quest’autore non riguardava unicamente il genio letterario, ma anche la vita dell’autore, morto a vent’anni dopo aver finito di scrivere il libro. In questo periodo inizia a concretizzarsi sempre più l’ideale romantico della bellezza legata alla morte, anzi alla morte giovane, palese frutto dell’influenza della Scuola romantica, ma che di sicuro albergava in nuce nello spirito dello scrittore. L’uguaglianza “bellezza = morte”, produce un’ulterio-

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re uguaglianza, quella di “genio = morte”. È come se la predeterminazione del genio implicasse necessariamente una predeterminazione di morte. Quest’idea diventa centrale in un racconto di questo periodo dal titolo Il ragazzo che scriveva poesie (Shi wo kaku shōnen). Il poeta protagonista è convinto che la fine della sua esistenza sia stata preordinata nello stesso momento in cui è stato stabilito il suo genio. Il genio e la fine dell’esistenza sono indissolubilmente legati al suo destino, l’uno non può fare a meno dell’altra, la morte non può che essere la conferma del suo genio. E la propria fine è immaginata dal giovane protagonista come un razzo incandescente che solca il cielo, la rappresentazione di una bellezza luminosa e prorompente. Poco prima della sua morte Mishima volerà su un caccia F104 solcando il cielo con la stessa esplosiva luminosa bellezza immaginata dal piccolo poeta del Ragazzo che scriveva poesie. È ovvio che l’atmosfera della Scuola romantica abbia fortemente influenzato questa propensione verso la morte del giovane Mishima, ma un altro elemento di forte influenza che, come abbiamo già detto, ha agito sinergicamente con l’ideologia della Scuola romantica era la realtà della guerra stessa che incombeva sul Giappone. Quando nel 1943 la corrente della battaglia si volse improvvisamente verso il Giappone, egli avvertì sempre più forte la necessità di far coincidere il suo destino con una “bella morte”. Dal 1943 la morte fu per tutti i giovani giapponesi un’idea a cui bisognava abituarsi, una realtà inevadibile. E per quanto Mishima si sforzasse di evadere dalla realtà quotidiana, quella presenza sinistra era sempre lì a ricordargli che prima o poi sarebbe toccato anche a lui. La reazione di Mishima è stata quella di non opporsi psicologicamente al suo fato, ma di accettarlo non solo con rassegnazione, ma con ostentato entusiasmo. Esaltandolo nelle sue opere come il più auspicabile dei destini; che incredibili risorse difensive possiede la psiche umana! Ma l’esaltazione della guerra, e soprattutto della “bella morte” in guerra, celebrata in alcuni racconti del giovane Mishima, non riguarda una guerra e una morte “reale”, bensì una guerra e una morte “ideale”. La guerra reale, almeno in questo periodo della sua vita, Mishima la odiava. In alcune lettere scritte nel 1943 ad Azuma Fumihiko, carissimo amico e codirettore della rivista letteraria creata da Mishima l’anno precedente, egli deplora costantemente l’ammirazione di suo padre per i nazisti e per l’armata imperiale giapponese, e definisce la guerra come “volgare” e “mediocre”. Ma poi dentro di sé la realtà veniva segretamente trasfigurata e idealizzata. Nel settembre del 1944, Mishima si diplomò con il punteggio più alto della sua classe, e fu premiato con un orologio d’argento consegnato personalmente dall’imperatore. Si può immaginare la gioia della famiglia, il padre traboccava di felicità e di orgoglio, ma anche Kimitake, nonostante

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il suo carattere abbastanza distaccato dagli avvenimenti mondani, sembrò avvertire un senso di onore per il conferimento del premio e una sorta di riverente timore nei confronti della figura dell’imperatore. Questa esperienza deve averlo molto colpito, rimanendo così incisa nella sua memoria da parlarne, molti anni più tardi, dinanzi a un uditorio di agguerriti studenti di sinistra. Il mese successivo al conseguimento del diploma accadde un evento ancor più esaltante per il giovane scrittore: venne pubblicata in un unico volume la sua prima raccolta di racconti, con il titolo La foresta in fiore. Non era facile pubblicare qualcosa a Tōkyō nel 1944, con la città sotto la costante minaccia dei bombardamenti. Era necessario, innanzitutto, fare formale richiesta della carta al governo, e Mishima l’aveva fatta con la seguente motivazione: salvaguardare la tradizione letteraria dell’Impero. La richiesta era stata accordata, ma ora bisognava trovare un editore. Per settimane, Mishima e Fuji Masaharu, un caro amico del professor Shimizu, si erano recati da tutti i piccoli editori, trovandone alla fine uno che era intenzionato a pubblicare un libro di narrativa. Una vera e propria impresa. Si tenne un piccolo party per festeggiare l’evento. Gli invitati furono il professor Shimizu e due altri membri della Scuola romantica, alcuni giovani scrittori legati alla scuola e la madre di Mishima; il padre, ovviamente, non volle partecipare. Il volume, pubblicato dalla Shichijōshoin, oltre alla Foresta in fiore, conteneva altri quattro racconti. La raccolta ottenne un indiscutibile successo, le quattromila copie, pubblicate poco prima che le forze alleate effettuassero la prima incursione aerea a Kanda, vennero in breve tempo esaurite. Sono tutte opere scritte tra i sedici e i diciotto anni, dove l’influenza della Scuola romantica, gravida di ideali nazionalistici e tutta protesa verso la riscoperta dei valori estetici tradizionali, si manifesta in infinite variazioni di forma. Nella Foresta in fiore, come abbiamo già visto, la ricerca e l’esaltazione dei valori classici avviene mediante le sensazioni e l’introspezione dell’Io narrante che attraverso i ricordi e i cimeli di famiglia rivisita le epoche antiche del Giappone. Ottō e Maya (Ottō to Maya) è una storia d’amore ambientata nell’Asia centrale, ma in essa è chiaramente individuabile l’atmosfera arcana delle antiche cronache storico-mitologiche dell’VIII secolo del Kojiki. A futura memoria (Yoyo ni nokosan) è un chiaro tentativo di imitazione dei racconti guerreschi del periodo di Kamakura (1186-1333), dove si celebrano gli ideali estetici legati alla cultura militare e religiosa; il buddhismo, la legge del karma, l’ombra sempre presente di una catastrofe ineluttabile, animano tutto lo svolgimento della narrazione. La luna sull’acqua (Minomo no tsuki) è un racconto di chiara ambientazione cortigiana di epoca Heian, pervaso da un gusto letterario di

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tipo “femminile”, dove l’ideale estetico del mono no aware (la commozione e la simpatia verso gli esseri e la natura stessa) si fonde con un’esasperata analisi interiore, nello stile di un moderno romanzo epistolare europeo. Diario di preghiere (Inori no nikki), anche se di ambientazione moderna, non è altro che una rielaborazione in chiave psicologica di una storia d’amore dei Racconti di Ise (Ise monogatari), famosa opera letteraria del X secolo. Gli antenati, la tradizione, le antiche capitali, il mondo degli dei, una sottile analisi introspettiva dei personaggi. Ecco gli elementi che emergono dal quadro di queste opere giovanili, che testimoniano nei contenuti e in un ricercatissimo linguaggio classicheggiante una cultura letteraria di dimensioni insolite per uno scrittore così giovane. Un quadro che anticipa due aspetti predominanti della letteratura di Mishima: l’ispirazione classica celebrata in uno stile enfatico e solenne, e l’analisi distaccata, il taglio chirurgico della psiche umana. Due aspetti che rivelano la doppia natura di un carattere in cui coesistono, non senza tensioni, il poeta lirico e l’acuto e cinico osservatore della vita. La foresta in fiore sembra essere, rispetto agli altri racconti della raccolta, meno soggetto all’ascendente della Scuola romantica. La sua diversità ci appare chiara già nella struttura: non è di ambientazione storica, anche se le epoche storiche sono rivisitate; non tenta di imitare nessun particolare genere letterario antico, anche se è pervaso da ideali estetici e tecniche letterarie classiche. In altre parole, a differenza degli altri che, nella rievocazione tout court di un ambiente storico o nella veste di adattamento di un classico in chiave moderna, si presentano come un fin troppo palese omaggio alla Scuola romantica, La foresta in fiore appare come il risultato di una maggiore libertà creativa. Una libertà che ha permesso all’autore di scrivere attingendo a piene mani dal mondo dei suoi sogni e delle sue sensazioni interiori. E anche se l’Io narrante attraverso i ricordi di famiglia rivisita le epoche classiche del Giappone, comunicando al lettore l’atmosfera e i colori del tempo, non lo fa con un intento unicamente celebrativo, ma come spunto per un’esplorazione interiore, per una verifica esistenziale, per l’individuazione dell’eterno legame che lo unisce al passato attraverso la memoria degli antenati. Ad ogni modo ciò che lega fortemente questi racconti tra loro è il totale distacco dalla realtà e la costruzione di un mondo onirico o psicologico, alternativo a quello reale. Ecco come dieci anni dopo Mishima ricordava il periodo della guerra in cui scrisse quei racconti. A quel tempo, anche mentre zappavo la terra per il servizio obbligatorio la mia mente fluttuava. Immaginare un racconto, la gioia di scriverlo. Il primo

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piacere che ho imparato dalla vita è stato questo. Godere di questa dolcezza, molto prima di conoscere l’amarezza della letteratura, ha determinato nel bene e nel male tutta la mia natura umana e artistica. (...) I racconti della raccolta La foresta in fiore sono tutti lavori scritti tra la veglia e il sogno. In essi il mondo reale non trova alcuno spazio”38.

Ma se è vero che questa fuga e questo distacco dalla realtà erano come già si è detto, in parte legati alla fuga psicologica dall’idea della morte, è, per ironia, proprio la morte a essere spesso protagonista in tutti questi racconti. Nella Foresta in fiore, la morte attraverso la malattia della nonna prende possesso della casa dell’Io narrante quando era bambino, stabilisce con lui un rapporto indissolubile, lo segue silenziosa per poi diventare protagonista di un finale che induce a ombrose riflessioni escatologiche. La morte è protagonista dall’inizio alla fine in Ottō e Maya e, se nei racconti di ambientazione storica essa non è così apertamente evocata, non possiamo fare a meno di avvertire la sua presenza avvolta in un manto di raffinatezza ed eleganza classica. Allora essa aleggia nelle tenebre, lasciando incombere su racconti come A futura memoria un senso di angoscia, il presagio di una catastrofe imminente. Il presagio della fine, che ogni adolescente doveva avere nell’animo in quel determinato periodo storico, genera nello scrittore una profonda coscienza della morte, fa sì che egli conduca una vita basata su un tacito accordo con essa, un accordo quotidianamente rinnovato nelle pagine che scriveva. Scorgiamo così i segni premonitori di ciò che più tardi si trasformerà in un’irresistibile attrazione verso il suicidio. La disillusione di questa “esistenza” cominciava sin da ora a far volgere lo sguardo del giovane Mishima verso il mondo della “non esistenza”. Ottō e Maya, che ad una lettura superficiale può apparire come una sdolcinata storia d’amore, è invece una mesta composizione interamente dedicata alla morte. Maya è continuamente assalita da sensazioni funeree, ella appare all’inizio del racconto per morire subito, e trascorrere il resto della sua esistenza narrativa nel mondo della “non esistenza”. Maya è la metafora della morte stessa, e Ottō vive solo dei ricordi di Maya. Una delicata trasfigurazione letteraria della coesistenza del giovane Mishima con l’idea della fine, “una cerimonia della quotidianizzazione della morte”39. 38 39

Mishima Yukio, Mishima Yukio sakuhinshū, atogaki, in MYZ, vol.26, p.201. Noguchi Takehiko, Mishima Yukio no sekai, Kōdansha, Tōkyō, 1968, p.50.

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E se la fuga del giovane scrittore dalla realtà viene stimolata inizialmente dal tentativo di fuggire dall’idea della morte, ora, per contro, è la morte stessa a prenderlo per mano e a condurlo sempre più lontano dalla realtà; sembra insinuare sempre più nella sua mente l’idea di essere in una condizione privilegiata che gli consente di guardare l’esistenza quotidiana con sempre maggiore distacco. È qui che affondano le radici l’ironia nei confronti della vita, la forza di non proiettarsi mai totalmente nella realtà, la capacità di relativizzare ogni aspetto di essa. Ed è qui che affondano anche le radici del narcisismo, l’idea ricorrente di essere un genio dalla vita breve. Il protagonista di Ottō e Maya vive al di fuori di ogni contingenza reale, in lui non è difficile scorgere la proiezione del desiderio di travalicare la dimensione umana, l’archetipo del “superuomo” nietzscheano, che attraverso la forza della sua volontà cerca di avvicinarsi alla dimensione divina. Ottō ormai non aveva più bisogno di alcuna energia per penetrare in se stesso, ora egli riusciva a compiere atti soprannaturali, con una perfetta, meravigliosa semplicità...40.

Maya è la morte, l’”assenza”, e l’”assenza è un angelo”. Ottō è l’”esistenza”, e l’”esistenza è un angelo disceso dal cielo, a cui hanno tarpato le ali”. Ottō è un angelo decaduto costretto a vivere “all’interno degli angusti confini della terra”. Mishima sviluppava così tra i sedici e i diciassette anni una forma di esasperato narcisismo spirituale, che lo isolava sempre più nel suo universo estetico. La vita per lui assumeva significato solo nella ritualizzazione e nella sacralizzazione dei gesti quotidiani che un “angelo decaduto” compiva per la riconquista dell’unico mondo a lui adeguato, quello della “non esistenza”. Ancora una volta una sorprendente anticipazione: l’angelismo che caratterizzerà l’ultimo volume della tetralogia finale, La decomposizione dell’angelo (Ten’nin gosui), è da questo racconto che comincia a svilupparsi e anticipa il narcisistico desiderio di diventare lui stesso una divinità. Il desiderio ardente di trasformarsi nel vate che canta al mondo le ultime note dell’antica tradizione in previsione della fine imminente. Un pensiero narcisistico che lievita a dismisura, iniziando a materializzare nella mente del giovane scrittore un’idea che in seguito avrebbe avuto uno sviluppo ben più ampio di questa prima fase della sua carriera: l’unificazione tra il creatore della bellezza e la bellezza stessa. Come più tardi Mishima stesso avrebbe affermato, egli pensava che scrivere della vita di un cacciatore di 40

Mishima Yukio, Ottō e Maya, in Mishima Yukio, La foresta in fiore, cit., p. 54.

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bestie feroci, oppure del protagonista delle Mille e una notte, non fosse diverso dal condurre le loro stesse esistenze41. Il vate canta, ma allo stesso tempo è cantato. “La letteratura di Mishima”, dice Okuno Takeo, “parte proprio dal sogno di identificazione dell’uomo che canta e dell’uomo che è cantato ‘alla Tonio Kröger’, e tutta la sua letteratura successiva rappresenta lo strenuo sforzo di dare sostanza a questo sogno adolescenziale”42. È difficile dare una valutazione precisa a queste prime opere giovanili che hanno diviso anche la critica del tempo. Non vi furono solo gli elogi entusiastici della Scuola romantica, ma anche le obiezioni di alcuni critici che vedevano in questi racconti un’eccessiva affettazione, una tecnica raffinata che sovrastava l’ispirazione. La foresta in fiore è stato uno dei lavori più discussi, ricevendo subito gli apprezzamenti di grandi esponenti del mondo letterario del tempo, come Kawabata Yasunari, Hasuda Zenmei e Jinzai Kiyoshi, e ritrovandosi, dopo, al centro di molti giudizi contrastanti. Mishima stesso, in un eccesso di autocritica un po’ esibizionistica non esiterà più tardi a definirlo una “mediocre” imitazione di Rilke, attribuendo alla cattiva influenza della Scuola romantica l’esasperato atteggiamento nostalgico-riflessivo, il fatto che assumesse “la posa del giovane con un cuore da vecchio”43. Ad ogni modo, come abbiamo già detto, la raccolta ottenne un indiscutibile successo di pubblico, e anche la critica, nonostante le inevitabili riserve di alcuni, riconobbe il valore del giovane autore. Ma il clima di guerra del 1944 non rappresentava certo l’atmosfera adatta ad organizzare premi letterari e presentazioni di libri, così la pubblicazione della raccolta La foresta in fiore restò, almeno dal punto di vista dell’establishment letterario, un fenomeno circoscritto all’entourage della Scuola romantica, e non rappresentò il vero e proprio ingresso nel mondo letterario dello scrittore. Subito dopo l’apparizione del suo libro, Mishima entrò all’Università di Tōkyō, allora ancora denominata Università Imperiale, come studente del primo anno di giurisprudenza tedesca. L’idea, ovviamente, fu del padre, che sosteneva la sua scelta con una statistica inoppugnabile: la maggior parte degli uomini della sua famiglia avevano studiato legge all’università, e per quanto si cercasse nell’albero genealogico non si trovava un solo artista. Mishima eseguì gli ordini, senza apparire particolarmente contrariato da quella scelta. È molto probabile che egli non pensasse molto al futuro, nelle cui prossime

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Cit. in Okuno Takeo, “Mishima Yukio ron – Nise narushishizumu no bungaku” cit., p. 46. 42 Ivi, p. 47. 43 Cit. in Tanaka Miyoko, “Hanazakari no mori”, in Kanshō nihon gendai bungaku, Mishima, Tōkyō, Kadokawa shoten, 1980, p. 42.

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vicinanze egli scorgeva la morte in battaglia, e poi pensava che le lezioni universitarie non gli avrebbero impedito di continuare a scrivere. Le sue previsioni sul futuro non erano poi del tutto sbagliate, la guerra procedeva a passo deciso e già all’inizio dell’anno accademico tutta la sua classe venne mobilitata e trasferita in un fabbrica di aeroplani alla periferia di Tōkyō. Qui non fu particolarmente impegnato, soprattutto con il lavoro fisico, essendo riuscito subito a trovare una giustificazione medica che lo esonerava da qualunque attività pesante. Gli fu così assegnato un lavoro d’ufficio che gli permetteva, da mezzogiorno in poi, di dedicarsi completamente alla scrittura. Ed è proprio in questo periodo, nel febbraio del 1945, che porta a termine Medioevo (Chūsei), un lungo racconto di ambientazione storica, la cui figura centrale è un nobile generale del quindicesimo secolo, in cui non è difficile individuare le fantasie di identificazione del giovane scrittore: uomo raffinato ed elegante, ricco di talento artistico, che muore eroicamente in battaglia all’età di ventiquattro anni. L’atmosfera che circondava Mishima in questo periodo nella fabbrica di aeroplani – dove tutti i giovani erano in trepidante e angosciosa attesa della chiamata alle armi – deve aver contribuito non poco alla stesura di un’opera dove si concretizzano sempre più le sue fantasie di Bellezza, Morte e Destino. Fantasie che tutto a un tratto si trovarono di fronte alla cruda realtà dell’akagami, la cartolina rosso sangue della chiamata alle armi per Hiraoka Kimitake. La madre ne fu sconvolta, e nonostante fosse a letto malata, raccolse tutte le sue energie per alzarsi, accompagnare il figlio alla porta e vederlo andar via insieme al padre. Racconta Chiyuki, il fratello minore di Mishima, allora quindicenne: Tornò indietro nel corridoio singhiozzando, avvolta in una lunga veste da camera e con i capelli scarmigliati. Sembrava una posseduta, una pazza, un essere di un altro mondo. Non avevo mai visto mia madre in un simile stato, soprattutto subito dopo che mio padre e mio fratello furono andati via. Si inginocchiò dinanzi all’altarino buddhista e come in stato di trance cominciò a pregare con febbrile fervore. Quell’immagine mi spaventò a tal punto da sentire l’impellente bisogno di fuggire via.44

Il centro di reclutamento di Mishima era a Shikata, il paese d’origine degli Hiraoka. Il padre aveva pensato di mandarlo a iscriversi lì con la speranza che in un piccolo paesino trovasse un ambiente più familiare e ricevesse un trattamento meno freddo e traumatico rispetto a una grande città come Tōkyō. La visita che avrebbe fatto più tardi, e in seguito alla quale fu esone-

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Cit. in John Nathan, Op. cit., pp. 53-54.

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rato, sarebbe stata approssimativa e inesatta a causa di fattori psicofisici che ingannarono l’inesperto dottore dell’ufficio di leva, convinto che il giovane Mishima avesse una malattia ben più grave del suo reale disturbo. Ma quando aveva fatto l’iscrizione, pur tenendo conto della sua fragile costituzione e del precario stato di salute, aveva ricevuto comunque la classifica 2B, , che lo rendeva lo stesso ideoneo ai compiti attivi. I fattori psicofisici di cui abbiamo parlato si presentarono già il giorno precedente all’arrivo a Shikata e si consolidarono durante la notte prima della visita. Fu, infatti, proprio durante il viaggio che Mishima si era preso un raffreddore, accompagnato da una serpeggiante febbriciattola. Poi per tutta la notte trascorsa a casa dei parenti di Shikata era stato assalito da attacchi di tosse e la febbre era notevolmente aumentata. Il suo stato aveva così preoccupato Azusa da chiamare un dottore, che ritenne opportuno fargli un’iniezione per abbassargli la temperatura. Il mattino successivo la situazione non era gran che migliorata, ma con l’aiuto del padre Mishima riuscì a prepararsi e a recarsi insieme a lui alla visita di leva. Tra la palese agitazione degli altri ragazzi, per lo più robusti figli di contadini che guardavano meravigliati e incuriositi quel ragazzo gracilino e bianchiccio di Tōkyō, addirittura proveniente della Scuola dei Pari, alla fine si sentì chiamare il suo nome. E qui il colpo di grazia. “Quando il dottore gli auscultò il petto, crollò il capo e scrisse sul referto medico: “Inabile al servizio militare; rientro immediato per convalescenza”45. Il medico spiegò ad Azusa che il ragazzo aveva seri problemi polmonari e che probabilmente si trattava di una tubercolosi in stato avanzato. In realtà questa fu un’enorme cantonata del giovane e inesperto medico; più tardi infatti quando Mishima si sottopose a un’ulteriore visita presso un più anziano ed esperto dottore di Tōkyō, si scoprì che si trattava solo di una forte bronchite. Ma questo più che propizio errore fu un vero e proprio dono del destino, perché l’esercito della prefettura di Hyōgo, in cui doveva essere arruolato, sarebbe stato completamente massacrato nelle Filippine. In uno stato di confusione e stupore Mishima si rivestì, ancora non realizzava cosa fosse realmente accaduto. Poi fu condotto in una stanza dove aspettavano anche altri riformati e insieme a loro fu costretto ad ascoltare un noioso sermone con il quale venivano esortati a non dimenticare comunque i loro doveri nei confronti dell’imperatore e della patria, per i quali dovevano sentirsi in ogni caso pronti a sacrificare la propria vita. Intanto Azusa lo aspettava nervosamente fuori; nonostante il suo carattere severo e le sue idee di educazione spartana alla virilità, era oltremodo felice che suo figlio fosse stato riformato. Egli stesso racconta: 45

Ibid.

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Quando fummo fuori il cielo ci apparve così alto e luminoso da restarne abbagliati. Nel momento in cui superammo il cancello presi la mano di Kimitake e cominciai a correre. Quanto corremmo! Non mi ricordo quanto lontano ma deve essere stato un bel tratto. E per tutto il tempo mi guardavo indietro, temendo che un soldato potesse raggiungerci e gridare: “È stato un errore, congratulazioni, il ragazzo è idoneo!”. Quella possibilità mi spaventava a morte46.

Nel maggio 1945 la classe di Mishima fu trasferita all’arsenale navale di Zama, a una cinquantina di chilometri a sudovest di Tōkyō. Gli studenti di legge vivevano in un dormitorio navale e lavoravano alla manutenzione delle navi. Mishima, tuttavia, sempre a causa della sua cagionevole salute, anche qui fu esonerato dal lavoro fisico e gli venne affidato un incarico in un posto che chiamavano “biblioteca”. Un luogo tranquillo e riservato dell’arsenale, dove l’università aveva sistemato alcuni volumi per consentire agli studenti di quella classe di continuare in qualche modo i loro studi. Mishima qui era libero di leggere e scrivere. “In una cartolina inviata a maggio dall’arsenale egli informa il suo mentore Shimizu Fumio che sta leggendo i diari di corte dell’undicesimo secolo, gli antichi miti sulla creazione su cui si stabilisce la divinità dell’imperatore, i racconti guerreschi del quattordicesimo secolo, e l’autore preferito di sua nonna, lo scrittore romantico Izumi Kyōka. Aggiungeva, inoltre, che stava traducendo un dramma in un atto di Yeats, usando lo stile epistolare classico”47. Il 6 agosto Mishima sentì la notizia che la città di Hiroshima era stata totalmente distrutta da una bomba di potenza devastante. Tre giorni dopo, una bomba della stessa potenza distruggeva gran parte di Nagasaki. Il 15 agosto 1945 il Giappone si arrese incondizionatamente e l’imperatore in persona impartì via radio l’ordine di gettare le armi. La notizia ebbe un impatto traumatizzante per molti giapponesi, e altrettanto traumatizzante fu il comunicato dell’imperatore, pronunciato alcuni mesi dopo, il giorno di capodanno 1946 e noto con il nome di ningen senden (dichiarazione di umanità), con il quale il sovrano non solo fu costretto a rinnegare pubblicamente l’ideologia di guerra, ma anche a negare la sua origine divina dichiarando di essere un comune mortale. All’atto della resa cinquecento ufficiali, incluso il ministro della Guerra, generale Anami, si suicidarono; perché sentendosi responsabili della sconfitta chiedevano con il loro gesto il perdono dell’imperatore. Il generale Anami si aprì il ventre con il rito del seppuku nella sua casa di Tōkyō, rifiutando il colpo di grazia che gli avrebbe tagliato la testa e affrontando una lenta e dolorosa morte 46 47

Cit. in John Nathan, Op. cit., p. 55. Ivi, p. 58.

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per dissanguamento. Anche all’estero alti esponenti dell’esercito scelsero la stessa drammatica sorte; tra questi uno dei grandi sostenitori di Mishima, il fanatico nazionalista Hasuda Zenmei, che prima uccise il suo diretto superiore, perché aveva biasimato l’imperatore per il suo gesto, e poi si sparò alla tempia. Ma vi furono suicidi anche tra i civili, in particolare tra i membri dei raggrupamenti di estrema destra. Una settimana prima della resa del Giappone, Mishima aveva contratto di nuovo una forte febbre ed era stato spedito a casa per curarsi. La madre e i due fratelli più piccoli si erano intanto trasferiti per sicurezza a casa di alcuni cugini che abitavano a Gotokuji, un sobborgo residenziale, mentre il padre era rimasto da solo nella casa di Shibuya a guardia dei ladri e dei vandali. Fu a Gotokuji che Mishima apprese dalla radio la notizia della sconfitta e della resa. È difficile dire cosa provasse il giovane Mishima nell’ascoltare quella notizia, di certo fu un cambiamento di direzione del tutto inaspettato, probabilmente, dice Nathan, “si sentì deprivato della sua identità e del suo destino”48. Di sicuro non immaginava che adattarsi alla realtà del dopoguerra si sarebbe rivelato un compito oltremodo penoso e complesso. Ora che il fuoco era cessato e la morte non era più una realtà che incombeva quotidianamente, il sogno in cui viveva credendo di essere un simbolo dell’epoca era svanito all’improvviso. Ora è costretto a rendersi conto che il suo gusto, i suoi amori letterari, Radiguet, Wilde, Yeats e i classici giapponesi sono ormai soltanto un anacronismo. Il giovane, che durante la guerra era considerato un genio all’interno del piccolo gruppo della Scuola romantica, ora diventava soltanto un comune studente. Testimonianza del suo senso di disagio è un racconto che stava scrivendo verso la fine della guerra dal titolo Storia di un promontorio (Misaki nite no monogatari). La storia parla di un bambino di undici anni che in estate viene portato al mare dalla madre per imparare a nuotare. Come era accaduto nella realtà al piccolo Mishima, il protagonista non impara a nuotare, nondimeno scopre nel mare la fonte di qualcosa che lo aveva attratto da lungo tempo, ma che non sapeva dove cercare. Un giorno mentre il bambino sta andando in giro da solo, incontra una bella ragazza di vent’anni in compagnia del suo fidanzato. La ragazza lo invita a fare una passeggiata con loro lungo la scogliera e il bambino accetta entusiasta. Poi, i due ragazzi propongono di giocare tutti insieme a nascondino. Il bambino si copre gli occhi e conta il più lentamente possibile, per favorire quanto più può quella meravigliosa fanciulla verso cui sente un’emozione mai provata prima. Mentre conta avverte i loro passi volare via da lui, poi più nulla. Nelle sue 48

Ivi, p. 59.

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orecchie resta solo il vento che fruscia tra l’erba e il cupo rimbombo delle onde nelle profondità del precipizio. Ma poi ad un tratto sente qualcosa. All’improvviso udii un grido, come d’uccello. Ma non poteva trattarsi di un uccello. Non era un uccello! Dal precipizio, o dallo spazio che delimitava, si era levato, così almeno mi parve, un breve grido, o piuttosto un urlo. Ma se anche lo fosse stato (fu così tenue che avrei potuto dubitare di averlo udito), definirlo urlo significava umiliare la solennità e la bellezza di quel suono. Era troppo semplice, troppo limpido per essere stato emesso da una creatura umana, e poi era svanito in un istante: non poteva che trattarsi del richiamo di un uccello misterioso. (...) O quel che avevo udito poteva essere un improvviso scoppio di risa. Quel remoto, fulmineo grido, evocante il colore del mare, era dunque stato una ineguagliabile risata? Era stata forse la venerabile risata degli Dei?...49

Il bambino apre gli occhi e va alla ricerca dei due giovani, ma non riesce a trovarli. Giunto al limite della scogliera guarda in basso, e sente come una forza magnetica che lo attira giù verso il fondo dell’abisso, “verso quell’affascinante mare infernale”50. Con uno sforzo di volontà indietreggia e cade sdraiato sul terreno cercando di calmare i battiti del cuore, poi osserva di nuovo, con aria interrogativa, l’abisso e il panorama. Tutto era uguale a prima. Cosa c’era di particolare che lo aveva così turbato? I miei occhi vedevano soltanto una piccola spiaggia, straordinariamente tranquilla. A un tratto pensai al significato dell’espressione “la risata degli Dei”, e mi parve che fosse troppo grave, incomparabile, inconcepibile per una mente come la mia51.

La bellissima ragazza e il suo giovane amante si sono lanciati nel vuoto commettendo un doppio sucidio d’amore52. Hanno risposto al richiamo del mare, lanciandosi verso la bellezza e la morte. “La voce che il ragazzo pensa di udire e che somiglia alla risata derisoria degli dei”, dice John Nathan, “è il presentimento che egli ora resterà senza alcuna possibilità di appagamento dei suoi desideri”53. Il ragazzo è stato lasciato indietro, non può più seguirli, 49

Mishima Yukio, Storia di un promontorio, in La dimora delle bambole, Milano, SE, 2002, p.

33. 50

Ivi, p. 35. Ivi, p. 35-36. 52 Il doppio sucidio d’amore, shinjū, di cui ancora oggi si sente ogni tanto notizia, è una tradizione consolidatasi in Giappone sin dalle antiche epoche storiche, ed è stato spesso celebrato in famose opere teatrali, come i drammi kabuki e jōruri del XVII e XVIII secolo. 53 John Nathan, Op. cit., p. 61. 51

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è condannato a restare in questo mondo che appare come prima, ma che non è più quello di prima. Esattamente come il mondo del dopoguerra dove il giovane scrittore, non avendo realizzato la sua bella ed eroica morte in battaglia, è costretto a continuare a vivere. Nel novembre del 1945, Mishima portò La foresta in fiore, Il medioevo, Storia di un promontorio e altri cinque manoscritti all’ufficio editoriale della Chikuma shobō, che come molte altre case editrici, si stava preparando a lanciare una nuova rivista letteraria e – contingenza che spinse Mishima a rivolgersi ad essa – aveva assorbito la piccola casa editrice che aveva pubblicato il volume di racconti La foresta in fiore. Il consulente di questa nuova rivista era uno dei massimi esponenti della critica letteraria giapponese del tempo, il critico e traduttore Nakamura Mitsuo. Più tardi egli sarebbe diventato amico di Mishima, ma per ora i due non si erano mai incontrati. Mishima, in pratica, non aveva altro posto dove andare. Il suo più ardente sostenitore, il fanatico Hasuda Zenmei, si era suicidato. E gli altri intellettuali che lo avevano allevato e protetto, tutti affiliati alla Scuola romantica, erano stati tra i primi ad essere epurati, prima dalla comunità degli scrittori di sinistra, finalmente liberi di esprimersi, poi dal Quartier generale delle Forze di Occupazione. Il critico e ideologo Yasuda Yōjurō, che Mishima aveva conosciuto nel 1943, il poeta e romanziere Satō Haruo con cui aveva collaborato nel 1944, e lo scrittore ed editore Nakagawa Yoichi da cui Mishima aveva ricevuto la prima richiesta di un lavoro nel febbraio del 1945, erano tutti in cima a una lista di “criminali di guerra letterari” redatta in ottobre da una commissione di scrittori e di critici di sinistra. Alla fine di novembre erano stati tutti epurati dal Quartier Generale delle Forze di Occupazione, segnati in una lista nera e isolati completamente dal mondo letterario. Il poeta Itō Shizuo si salvò con un repentino passaggio al liberalismo54.

Il distacco di Mishima dalla Scuola romantica, come probabilmente anche quello del poeta Itō, fu dettato non tanto da un ripensamento delle sue idee letterarie, ma dall’istinto di conservazione. Frutto di un freddo calcolo – che gli fu sempre rinfacciato dagli ex compagni e sostenitori –, la scelta di abbandonare la scuola fu la conseguenza dell’impopolarità in cui questa si era andata a cacciare, perdendo ogni autorità nel mondo letterario. Questa scelta fu uno dei motivi che, in questo periodo, non ha mai fatto pensare a Mishima come a un convinto nazionalista capace di mettere da parte affermazione e successo letterario pur di seguire ostinatamente la strada ideologica intrapresa. 54

Ivi, pp. 64-65.

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Per quattro settimane Mishima aspettò con ansia un responso sui racconti che aveva presentato. Alla fine gli furono restituiti, rifiutati dalla redazione. Mishima seppe solo molto più tardi, quando diventò amico del famoso critico Nakamura Mitsuo, che quest’ultimo non solo aveva scartato le sue storie, ma gli aveva assegnato, come si faceva nella valutazione delle opere da pubblicare, un punteggio molto basso. Il fallimento della presentazione dei suoi racconti alla Chikuma shobō fu seguito dal fallimento di molti altri tentativi fatti nel 1946, 1947 e buona parte del 1948. Era evidente che le sue dorate fantasie non collimavano molto con le esigenze della società dell’epoca, letteraria o no. I primi anni del dopoguerra furono dominati dal pensiero e dalla letteratura di sinistra. Nell’ottobre del 1945 il Quartier Generale delle Forze Armate fece rilasciare i prigionieri politici, abolì la polizia segreta e il Ministero della Propaganda. Fu abolito anche il Ministero della Censura, avendo le Forze di Occupazione messo in atto la propria censura personale. Fu la liberazione di molti intellettuali e scrittori marxisti che avevano trascorso gli ultimi anni della guerra nascondendosi o chiusi in prigione. Questi dettero inizio a una febbrile attività, fondando riviste e rimettendosi a scrivere con rinnovata e a lungo repressa passione. Ma non furono solo gli esponenti della sinistra a sentirsi liberati; la censura durante la guerra era diventata severissima, e ad essa si aggiungeva la scarsità di carta. Per cui anche a scrittori affermati e non di sinistra come Shiga Naoya, Tanizaki Jun’ichirō e Nagai Kafū durante il conflitto non era stato permesso di esprimersi in totale libertà. Ovviamente sulle riviste di guerra c’era sempre stato spazio per gli scrittori famosi, a patto che i loro lavori fossero carichi di entusiasmo per lo sforzo bellico. E quasi tutti gli scrittori, alcuni per opportunismo, altri sinceramente convinti, dettero il loro contributo alla propaganda di guerra. Poche furono le eccezioni; come Nagai Kafū, che scelse la via del silenzio per tutto il periodo bellico; o come Tanizaki Jun’ichirō, che scrisse in segreto quello che buona parte della critica considera la sua massima opera: Neve sottile (Sasameyuki), un lungo e raffinatissimo romanzo, dalle delicate sfumature reminiscenti della letteratura classica femminile dell’XI secolo, sulle trasformazioni dei valori tradizionali giapponesi alla luce dell’avanzante modernismo di taglio occidentale. Considerato dalla censura del tutto “inappropriato” per il momento storico-sociale, il capolavoro venne poi pubblicato integralmente nel dicembre del 1948. La “liberazione” letteraria del dopoguerra fu testimoniata nel 1946 dall’incredibile proliferazione di nuove riviste. Nel solo mese di gennaio furono fondati tredici mensili letterari e culturali, e alla fine dell’anno c’erano sul mercato più di sessanta nuove riviste. Dall’estate del 1946 nuove voci

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iniziarono ad attrarre l’attenzione dei critici, e alla fine del 1947 quattro o cinque giovani scrittori alla ribalta, tra i più famosi Noma Hiroshi, Umezaki Haruo e Shiina Rinzō, furono raggruppati con la denominazione di Scuola del dopoguerra (Sengoha), tutti ideologicamente orientati a sinistra. Davanti agli occhi di questi giovani scrittori si presentava uno spettacolo devastante. Tōkyō, come le altre grandi metropoli, era un ammasso di macerie. Nel rigido inverno del 1946 e del 1947 migliaia di persone che erano accampate nei parchi morirono di freddo. Il cibo scarseggiava: nel 1946, la già insufficiente razione di riso fu sostituita a Tōkyō da patate dolci e fagioli di soia appena commestibili. Chi si rifiutava di rivolgersi al mercato nero, facendo affidamento solo sulle assegnazioni settimanali era condannato a morire d’inedia. Nell’inverno del 1946 sul paese si abbattè una terribile inflazione che aumentò il costo della vita del quaranta per cento rispetto al 1937. Il lavoro era inesistente, le famiglie che avevano proprietà soppravvivevano svendendole a prezzi irrisori. La situazione desolante e il disordine generale sono realisticamente evocati in questa descrizione di John Nathan: Inevitabilmente le severe ristrettezze economiche furono accompagnate dal caos sociale. Nel 1946 e 1947 ottocentomila uomini delle truppe rimpatriate dell’esercito di Sua Maestà l’Imperatore si riversarono nella città di Tōkyō. Questi infelici furono accolti con freddezza: la città non sopportava di ricordare la guerra. Molti erano mutilati e si misero a mendicare sulla strada con le loro uniformi a brandelli. Quelli capaci di lavorare furono discriminati quando cercarono lavoro e furono costretti ad aggregarsi alle gang che gestivano il mercato nero. Ad ogni angolo di Tōkyō, incappucciati, con panciere e penny americani nelle orecchie, “vendevano” cibo e vestiti (le scarpe non furono fabbricate nel paese fino al 1948; un paio americano costava 60 dollari in un negozio, e 5 dollari in strada), carta igienica (la razione governativa era di dodici fogli alla settimana per famiglia), e whiskey. Era un periodo non solo di durezze domestiche e danni sociali, ma anche di profonda umiliazione. La dieta giapponese era così povera di zucchero che un tiro alla carta stagnola che avvolgeva i bastoncini di gomma masticante era sufficiente a causare vertigini: pochi bastoncini di gomma masticante lanciata in strada da una jeep americana erano sufficienti a creare una piccola rivolta. In molti quartieri i militari americani, inclusi i neri (che provocavano paura nel cuore della maggior parte dei giapponesi), frequentavano le ragazze giapponesi, concquistate con calze e rossetto. Queste ragazze erano conosciute come “onlys”, ed erano riconoscibili nelle strade dai loro tentativi cosmetici di sembrare quanto più “occidentali” possibili – rossetto pesante e vestiti trasandati. Nelle stazioni gli altoparlanti strombazzavano il boogie-woogie.55

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Ivi, pp. 71-72.

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Uno scenario da incubo, che si riflesse in molti scritti dell’epoca. Noma Hiroshi, uno dei giovani esponenti della Scuola del dopoguerra, in Una luna rossa nel suo viso (Kao no naka no akai tsuki), confessa che l’esperienza della guerra lo ha così traumatizzato e disumanizzato da temere di non essere più capace di pensare al prossimo, di preoccuparsi per gli altri. Il protagonista, che durante una battaglia ha lasciato morire un compagno per salvare se stesso, incontra una giovane vedova di guerra e ne è subito attirato. Ma l’attrazione che prova per lei non è tanto generata dalla bellezza o dal fascino della donna, quanto dall’aura di tristezza che la circonda. Egli percepisce lo stato di bisogno affettivo della vedova, il vuoto che le riempie l’anima e vorrebbe fare di tutto per colmarlo, ma si scopre impotente avendo egli stesso dentro di sé solo vuoto da offrirle. E come se non bastasse il suo impulso umanitario e caritatevole viene cinicamente deriso dall’inquietante visione del compagno che ha lasciato morire al suo posto. La storia, pur suggerendo la desolante conclusione che l’amore dopo la guerra è impossibile, sembra animata dalla volontà di ritrovare il prossimo, di provare, quanto meno, ad amare, di fare un tentativo di recupero dei seviziati sentimenti umani. E questa sorta di disperato “ottimismo” è una caratteristica tipica di tutti gli scrittori della Scuola del dopoguerra, che nonostante la desolazione dominante restavano fermamente convinti che la vita fosse il bene più prezioso, che andasse difesa e, soprattutto, vissuta. Ben diversa, si può immaginare, era la visuale del giovane Mishima. La sua fascinazione per la morte, seppur una morte idealizzata e lontana dalla realtà, non gli permetteva di condividere l’approccio ottimistico e positivo nei confronti della vita degli scrittori della Scuola del dopoguerra. Anche a distanza di molti anni il suo atteggiamento nei confronti di questo periodo resterà sostanzialmente lo stesso; lo si può facilmente constatare dalla risposta cinica e distaccata che dà al riguardo al critico di sinistra Furubayashi Takashi in un’intervista del 1970, pochi mesi prima della morte. Furubayashi: Io e lei abbiamo quasi la stessa età, durante la guerra io sono andato in Marina e lei alla Mobilitazione per il lavoro. Fino ad allora la natura delle nostre esperienze è stata sostanzialmente la stessa, ma dopo è cambiata molto. Per quanto mi riguarda, in seguito alla smobilitazione fui congedato e attraversai un triste periodo di vuoto spirituale, un vero e proprio crollo. Poi ebbi l’opportunità di venire a contatto per la prima volta con le opere marxiste ed ebbi un grosso choc. Per la prima volta cominciavo a riflettere seriamente su problemi come: cos’è la nazione? Cosa sono i valori? Cos’è il lavoro? Cosa sono gli individui in una società? Parallelamente cominciavo a leggere scrittori come Noma Hiroshi e Shiina Rinzō. Insomma iniziavo davvero la mia autoformazione. Così il dopoguerra per me è stato come una

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rinascita. Un periodo veramente decisivo. Un’esperienza determinante non solo per me, credo, ma per tutti quelli della mia generazione. Mentre, in lei, che pure faceva parte di quella stessa generazione, non vi è traccia di questa rinascita del dopoguerra. Mishima: No, direi che non ve n’è alcuna traccia. La mia autoformazione è stata molto precoce, era già quasi compiuta verso i quindici, sedici anni, e credo che si sia completata, al massimo, intorno ai diciannove anni56.

Dal 1946 al 1948, mentre gli scrittori di sinistra raccontavano dei traumi della guerra e delle proprie macerie interiori, Mishima restò chiuso nella sua realtà privata, pur rendendosi conto che la fine della guerra e il clima sociale conseguente erano sempre più lontani dalle sue esigenze espressive. Testimonianza in questo periodo del suo costante distacco dalla realtà sociale è il suo primo romanzo, I ladri (Tōzoku), scritto fra il 1946 e il 1948. I ladri parla di una giovane coppia che commette doppio suicidio d’amore la prima notte di nozze, ma non per amore l’uno dell’altra. Il romanzo fu iniziato nel gennaio del 1946 e portato avanti fino a giugno dello stesso anno, quando lo scrittore sembrò essere giunto ad un punto morto. Fu poi ripreso nel 1947, rivisto e pubblicato irregolarmente in numerose piccole riviste. Il romanzo nella sua versione integrale fu pubblicato nel novembre del 1948 con la prestigiosa prefazione del nuovo mentore di Mishima, il futuro Premio Nobel Kawabata Yasunari. L’opera, tutta concentrata nella nichilistica visione della vita dell’autore e mille miglia lontana dai problemi sociali del tempo, fu quasi ignorata dal pubblico e freddamente accolta dalla critica. Fujimura Akihide, il protagonista dei Ladri, ricalca parzialmente l’immagine di Mishima nel 1946: figlio di un aristocratico appena laureato all’Università Imperiale, vive costantemente nel suo mondo onirico e ha perso ogni capacità di interpretare e valutare la realtà presente. Altra sua caratteristica è la capacità “superumana” di ingannare gli altri, e anche se stesso, riguardo ai suoi veri sentimenti. Sin dalle prime pagine del romanzo il narratore ci avverte che la capacità di Akihide (e senza alcun dubbio dell’autore stesso) di autoingannarsi, di restare relegato nelle sue illusioni, a dispetto di qualunque realtà gli si presenti, fa di lui un eroe della tragedia moderna. Un eroe che non trova la sua giustificazione di esistere negli eventi esterni, alla maniera della tragedia classica, bensì nello sviluppo del suo mondo interiore. 56

Furubayashi Takashi, Kobayashi Hideo, Le ultime parole di Mishima, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 23-24.

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Durante una vacanza estiva, trascorsa con la madre in un elegante posto di villeggiatura, Akihide inizia a nutrire una grande passione per una ragazza appena conosciuta, di nome Yoshiko. Quando le famiglie lo vengono a sapere, quella di Akihide chiede alla famiglia di Yoshiko la sua mano, ma la ragazza rifiuta. Akihide, ricorrendo a tutta la sua capacità di illudersi e autoingannarsi, riesce almeno in apparenza a ignorare il dolore del rifiuto. Poi un giorno, mentre si trova al mare, realizza all’improvviso che la sua passione per Yoshiko si è convertita in una passione per la morte. Ma attenzione, il suo desiderio di morte non è legato alla delusione d’amore, alla sua incapacità di continuare a vivere senza l’amore della ragazza. Se così fosse, meglio della morte sarebbe di sicuro un tentativo di riconciliazione, cosa che quando gli sfiora la mente viene cacciata via con disgusto. No, quello che Akihide desidera è una morte che è germogliata dalla passione per Yoshiko, ma che ora vive in una sua meravigliosa indipendenza. Ora la morte per Akihide è come un fiore che ha dimenticato il tempo in cui era un seme sotto la terra, ed è quindi libera dalle limitazioni delle cause e degli effetti; è solo una scintillante entità protesa verso se stessa, autonoma e completa. La morte è quindi vista non come una fuga o una drammatica risoluzione del dolore interiore, bensì come una predestinazione che silenziosamente è cresciuta nel cuore del protagonista per poi manifestarsi in tutta la sua scintillante veste di “destino”. Di nuovo, come negli scritti della guerra, la morte è legata al destino; ma in assenza di un tempo in cui il destino era la morte, vi è la necessità di creare artificiosamente le stesse condizioni, tramite l’autoinganno e l’illusione. Nella seconda parte del romanzo, Akihide si lega ad un’altra ragazza di nome Kiyoko. Anche Kiyoko è stata rifiutata dal suo ex amante e medita di togliersi la vita. I due, uniti dalla reciproca decisione di morire, vedono l’uno nell’altra lo specchio in cui riconoscere le illusorie immagini degli amanti che li hanno rifiutati. E così giungono al loro singolare e tragico “patto d’amore”: togliersi la vita, facendo doppio suicidio d’”amore” la prima notte di nozze. La critica giudicò il romanzo troppo artificioso e affettato. Okuno Takeo, ad esempio, dice con estremo rigore che I ladri “è un meraviglioso fallimento. Perché l’estetismo wildiano in Mishima era ormai una carcassa della bellezza senza significato, e perché egli non aveva affatto il talento di ritrattista psicologico di Radiguet. Radiguet trasformava i movimenti psicologici di vari personaggi nell’elaborata tessitura di un tappeto, e in questo modo conduceva la storia verso un climax inevitabile. Mishima, invece, tagliava a pezzi la psicologia di un solo personaggio e affermava

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semplicemente: l’essere umano è questo. Per quanto eccezionale potesse essere questo taglio psicologico, nel momento in cui lo effettuava, finiva tutto lì, non si delineava all’orizzonte alcuna inevitabilità verso cui il racconto potesse confluire”57. Che I ladri sia ancora un’opera immatura e artificiosa è cosa indubbia, ma il giudizio di Okuno Takeo, come di altri critici giapponesi, ci appare decisamente troppo severo. L’”inevitabilità” di una storia è qualcosa che Mishima ha sempre ricercato nei suoi lavori, e la decisione dei protagonisti di commettere quel particolare “suicidio d’amore”, per quanto formale, teatrale e poco sincero possa apparire, ci sembra un climax affatto efficace verso cui tendere l’arco della narrazione, dopo una tagliente analisi psicologica. Nel finale dell’opera, poi, non possiamo non notare un tocco tipico dell’arte più matura di Mishima. L’uomo e la donna che avevano abbandonato i due suicidi, provocando in loro l’ardente desiderio di morte, vengono presentati per caso durante una festa da ballo. Ignari del misterioso filo che li lega, si scambiano i soliti convenevoli, ma quando i loro occhi si incontrano sono travolti da una terribile angoscia: Yoshiko alzò lo sguardo e per la prima volta fissò attentamente il viso di quel giovane di rara bellezza. I loro sguardi si incontrarono dolcemente davanti a tutti, ma un attimo dopo le loro pupille furono adombrate da una luce triste. Era come se l’uno avesse scoperto negli occhi dell’altro una spaventosa desolazione. Cercarono disperatamente di evitare gli sguardi, ma quella sinistra intuizione si progagò dai loro occhi alle loro guance, ammantandole di una cupa sfumatura verde-azzurra come il mare dell’alba. Restarono immobili per un momento, incatenati dalla paura, lasciando che il colore e il gusto della cenere della morte permeasse le loro labbra. Yoshiko scossa dai brividi fu la prima a muovere con difficoltà due o tre passi indietro. Entrambi furono simultaneamente spinti dall’impulso di parlare davanti a tutti della terribile scoperta che avevano appena fatto. Ora essi sapevano che abilissimi ladri avevano sdradicato e portato via dalle loro anime tutto ciò che c’era di autenticamente bello ed eternamente giovane58.

Più tardi, Mishima avrebbe definito questo momento della sua carriera come un “periodo di brutale lirismo”. Un “brutale lirismo” che egli attribuisce a due incidenti fondamentali della sua vita personale, il primo dei quali fu la morte della sorella Mitsuko, nell’ottobre del 1945. Tutto iniziò con una febbre che inizialmente fu scambiata per una semplice influenza, ma quando

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Okuno Takeo, “Mishima Yukio ron – Nise narushishizumu no bungaku” cit., p. 50. Mishima Yukio, Tōzoku, in MYZ, vol. 2, pp. 171-172.

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la temperatura rimase costantemente alta e la ragazza perse l’appetito, fu subito portata all’Ospedale Keio dove entrò in coma. La diagnosi definitiva fu quella di febbre tifoidea, così fu subito trasferita in un ospedale specializzato in malattie infettive. Ma quando subentrò un’emorragia intestinale la ragazza morì in breve tempo. Mishima e sua madre furono costantemente vicino alla ragazza. Mishima adorava la sorella, e quando ebbe la notizia del suo peggioramento si precipitò dall’università all’ospedale. Si mise a sedere al suo capezzale e stette lì immobile tutta la notte, asciugandole il sudore dalla fronte e dandole a bere con un cucchiaio acqua e zucchero. Poche ore prima della morte, mentre sudava e delirava, Mitsuko ringraziò il fratello per tutto quello che stava facendo, e Mishima scoppiò in lacrime. Al secondo incidente Mishima fa riferimento con maggior ambiguità e riserbo. Si tratta della relazione con una ragazza che, a causa della sua indecisione, sposò un’altra persona. Molte sono state le supposizioni sull’identità della persona, ma il riserbo generale ha fatto sì che la persona restasse anonima. Pare che fosse una compagna di classe della sorella di Mishima. Quello che possiamo sicuramente intuire e che comunque si tratta dell’ispiratrice di Sonoko, il personaggio di Confessioni di una maschera, il romanzo che di lì a poco avrebbe scritto e che, con il suo successo di critica e di pubblico, gli avrebbe garantito una posizione inamovibile nel mondo letterario. D’altronde, fu la stessa madre di Mishima a confermare questa ipotesi al biografo John Nathan. “Incalzata per i dettagli di quello che realmente accadde, Shizue mi disse solo che la storia era esattamente come Mishima l’aveva raccontata in Confessioni di una maschera”59. Ma forse l’influenza della sfortunata relazione con questa ragazza la si può già parzialmente rintracciare nel precedente romanzo I ladri. Durante la stesura dei Ladri Mishima fece riferimento al suo nuovo mentore Kawabata Yasunari. L’aveva incontrato per la prima volta nel capodanno del 1946, nella casa dello scrittore a Kamakura. I racconti, che erano stati così brutalmente scartati da Nakamura Mitsuo, piacquero invece molto a Kawabata, tanto da raccomandarli fortemente per la pubblicazione alla nuova rivista Ningen, che lui stesso aveva fondato con un gruppo di altri scrittori di Kamakura. Quando Mishima, alcune settimane dopo, apprese che una delle sue storie era stata selezionata per la pubblicazione su Ningen fu fuori di sé dalla gioia. Il racconto scelto fu La sigaretta (Tabako), un resoconto dei suoi primi giorni nel circolo letterario della scuola con delicate sfumature omosessuali. La pubblicazione venne più volte rimandata per far spazio a scrittori più affermati, e ogni mese Mishima, con il cuore in 59

John Nathan, Op. cit., p. 80.

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tumulto, si precipitò a comprare l’ultimo numero di Ningen per constatare che la pubblicazione del suo racconto era stata ulteriormente procrastinata. Finalmente nel numero di giugno La sigaretta venne pubblicato, ma nessun critico di rilievo gli prestò attenzione. Nel novembre dello stesso anno Kawabata fece pubblicare Il racconto del promontorio nella maggiore rivista mensile letteraria, Gunzō, ma il risultato fu lo stesso, nessuna segnalazione della critica. Per tutto il 1947 i suoi tentativi furono quasi del tutto ignorati dall’establishment letterario. Ma questo fu un periodo importante per la sua formazione tecnica. Scrisse due lunghe storie per la rivista Ningen: La preparazione della sera (Shitaku no yoru), una descrizione densa di raffinato psicologismo della vita dell’alta società sul finire del conflitto mondiale; e Haruko (Haruko), il dettagliato ritratto della vita di una lesbica. Per la stesura di queste due lunghe storie Mishima ebbe l’aiuto di Kimura Tokuzō, il redattore letterario di Ningen. Furono le pazienti correzioni di Kimura ad affinare lo stile troppo prolisso e ricercato del giovane scrittore, il quale accettò con umiltà quei consigli che subito capì essere preziosi. A novembre, un piccolo editore pubblicò il suo secondo volume di racconti, intitolato Il racconto del promontorio, ma il libro non fu neanche recensito. In pratica, alla fine del 1947 Mishima era ancora uno sconosciuto.

Capitolo II

Burocrate di giorno, poeta di notte Nei primi anni del dopoguerra Mishima scriveva solo di notte. Di giorno frequentava scrupolosamente le lezioni all’Università Imperiale come studente di Legge; lezioni che imparò ad amare, quando scoprì che una lezione di giurisprudenza si poteva ascoltare come una lezione di letteratura, in particolare quelle che riguardavano la legge criminale e le cause civili e penali. All’università restava sempre in disparte; poi, alla fine delle lezioni, correva subito a casa e, dopo aver cenato con la famiglia, si rintanava nella sua stanza al piano superiore della casa scrivendo fino a notte fonda. Questa vita così metodica e organizzata subiva una piccola variante il sabato sera. Il sabato sera usciva di casa alle otto, talvolta portandosi dietro il fratello più piccolo, e si univa a un gruppo di giovani rampolli delle ricche famiglie aristocratiche per fare il giro delle feste da ballo e dei “night club baracca” – delle vere e proprie baracche dove erano state allestite alla meglio sale da ballo, messe su per ospitare essenzialmente ufficiali americani. La famiglia di Mishima era abbastanza agiata, ma sicuramente non facoltosa quanto le famiglie di quei ragazzi, nondimeno il rapporto con quei ricchi giovani dell’aristocrazia, iniziato ai tempi della Scuola dei Pari, restava sempre vivo. I posti in cui si recavano a ballare erano ville private a Karuizawa – un elegante luogo di villeggiatura abbastanza distante dalla città –, o i locali dei quartieri di Tōkyō. Il posto che frequentavano più spesso era il Quartiere latino ad Akasaka, oggi un elegante centro di intrattenimento notturno, ma all’epoca una semplice “baracca” con una pista da ballo, una band giapponese che suonava motivi americani, e scorte di whiskey del mercato nero. Mishima con la vita monacale che conduceva tra università e casa non era certo preparato a quel genere di divertimenti notturni. Non beveva, non fumava, di certo non sapeva ballare, ma cercò in tutti i modi, come suo solito, di adeguarsi e imparare in fretta, prendendo addirittura lezioni di ballo nell’estate del 1946. Tutti questi sforzi erano dettati dal desiderio autentico di conoscere cose così diverse, come la danza – che peraltro ha sempre sostenuto di amare tanto – o dal desiderio camaleontico di iniziare a simulare quella “normalità” che gli veniva insistentemente richiesta? Ecco

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cosa dice John Nathan che, vent’anni dopo, ebbe la fortuna di vederlo direttamente in azione sulla pista da ballo: Ho visto Mishima “perdersi” al Monkey o al Watusi alla metà degli anni sessanta ed è stato come guardare la studiata imitazione di un ballerino; egli appariva sempre terribilmente sobrio, sebbene chiaramente i suoi movimenti e le sue espressioni erano fatte per creare l’effetto non solo di spontaneità, ma di fascinazione. Ad ogni modo era un pessimo ballerino, scoordinato ed evidentemente sordo alla musica. Nel 1946 e nel 1947, quando era ancora una figura pallida ed emaciata, i suoi balli frenetici a ritmo di jazz dovevano essere uno spettacolo spaventoso1.

Nell’estate del 1947, Mishima abbandona questo gruppo di amici. È probabile che egli non si sentisse totalmente integrato, o che i suoi interessi fossero troppo distanti da quei giovani, ma la ragione più evidente fu un’ennesima prova impostagli dal padre. Mancavano cinque mesi alla laurea quando Azusa gli chiese di sostenere il difficilissimo esame di “funzionario civile di alto grado”. Il fatto stesso di laurearsi all’Università Imperiale costituiva per il giovane Mishima una chiave d’accesso a una buona carriera burocratica, ma per raggiungere i livelli più alti, fino alle cariche ministeriali, era necessario superare questo esame. Mishima accettò senza la minima protesta, e si preoccupò subito di dare un addio “ufficiale” al suo gruppo durante un party. Salutò tutti gli amici annunciando il suo ritiro temporaneo dalla vita sociale per la preparazione intensa che lo aspettava. Inutile dire che superò brillantemente, e senza eccessive difficoltà, il temuto esame, e nel novembre del 1947 si laureò al Dipartimento di Legge dell’Università Imperiale, che dal primo ottobre era stata ribattezzata Università di Tōkyō. Non si riposò un attimo e fece subito domanda per un posto al Ministero delle Finanze, anche questa fu una scelta del padre Azusa, che durante gli anni della sua carriera aveva individuato in questo ministero una delle grosse sedi del potere governativo. Ed ecco il giovane Mishima di nuovo di fronte ad un’impervia salita: l’esame di ammissione al Ministero delle Finanze, il ministero più difficile in cui entrare, il gotha dell’élite burocratica. Anche questa vetta fu conquistata, e alla vigilia di Natale del 1947 gli viene conferita la nomina ufficiale alla Sezione Nazionale Risparmi del Ministero delle Finanze. Ma Mishima, seppur concentrato in questa intensa attività burocratica, non trascura minimamente la letteratura e conduce, di notte, una frenetica attività di scrittore. 1

John Nathan, Op. cit., p. 87.

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“Dovendo lavorare in ufficio fino a tardi”, racconta suo padre, “tornava a casa alle nove o alle dieci di sera. Appena rientrava si chiudeva nel suo studio e scriveva senza quasi chiudere occhio per tutta la notte. La mattina dopo doveva comunque essere molto presto in piedi per recarsi al lavoro. In sostanza non dormiva più di tre o quattro ore al giorno”2. Più di una volta fu ripreso dal caposezione per errori di copia di cifre, dovuti molto probabilmente alla mancanza di sonno; anche se in linea di massima lo scrittore riusciva a mantenere con una certa abilità il suo doppio ruolo di funzionario-scrittore. Molti colleghi, che al tempo non conoscevano la sua identità di scrittore, lo ricordano come un burocrate solerte, sempre attento e disponibile. Vi furono anche episodi divertenti, come quando gli affidarono il compito di scrivere un discorso per il Ministro delle Finanze, che gli fu restituito dal caposezione pieno di correzioni in rosso e con l’annotazione “troppo elaborato”. Ma il peso psicofisico di questa vita, dopo nove mesi, iniziò a farsi sentire. Le due strade da percorrere di giorno e di notte esigevano un pedaggio troppo alto anche per una natura determinata e infaticabile come quella di Mishima. Comincia, inoltre, a sentire che quella doppia vita non gli consente di esprimere a fondo se stesso. Un senso generale di insoddisfazione nei confronti dell’esistenza e del lavoro “ufficiale” che svolgeva lo opprimeva già da un po’ di tempo; poi un mattino piovoso, mentre si reca al lavoro, stremato dall’angoscia e dall’estrema stanchezza accumulata nelle notti insonni sui manoscritti, Mishima scivola sulla piattaforma della stazione di Shibuya e finisce pericolosamente sui binari. Questo spiacevole episodio colpisce anche il cuore severo del padre che più tardi scriverà: Mi resi conto che non si poteva più andare avanti così. Rinunciai all’idea di fare di mio figlio un burocrate e gli dissi: “D’accordo, puoi lasciare il lavoro. D’ora innanzi concentrati solo sulla letteratura. Ma ad una sola condizione: devi diventare il più grande scrittore del Giappone”3.

È un periodo estremamente critico, in cui lo scrittore è tormentato da grandi conflitti interiori, a cui si aggiungono anche eventi esterni che colpiscono profondamente la sua sensibilità, come il suicidio dello scrittore Dazai Osamu, avvenuto nel giugno del 1948. Dazai Osamu era stato uno scrittore di grande popolarità, con il suo romanzo Il sole si spegne (Shayō) si era fatto portavoce di tutta quella “aristo2 3

Cit. in Inose Naoki, Op. cit., p. 221. Ibid.

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crazia” intellettuale animata da un languido e decadente nichilismo che sfociava in una rinuncia alla lotta della vita e si lasciava sedurre dalla passività e l’autodistruzione. Nel corso della sua vita si era lasciato andare a varie dissolutezze, le donne, l’alcol e la droga, finendo sempre per odiare se stesso e la sua incapacità di resistere alla tentazione. Ossessionato dall’idea del suicidio, che ricorreva spesso anche nei suoi lavori, tentò un doppio suicidio con un’entraîneuse di un bar di Tōkyō. La ragazza morì, ma lui sopravvisse coprendo di vergogna la sua famiglia e amplificando ulteriormente il suo senso di fallimento e disagio esistenziale. In un’epoca di appiattimento e disperazione i suoi eroi negativi furono un ottimo mezzo di identificazione per la disillusa generazione del dopoguerra. Alla fine, nel giugno del 1948, quando già aveva pubblicato una serie di vendutissimi romanzi, Dazai Osamu riuscì ad attuare quello che i suoi personaggi (e lui stesso già una volta) avevano tentato di fare; si tolse la vita saltando nel lago artificiale Setagaya, legato con una fascia di kimono alla sua amante; lasciò una moglie e tre bambini. L’unico incontro che il giovane Mishima ebbe con l’allora non ancora quarantenne Dazai Osamu avvenne nel gennaio del 1947, ed è rimasto memorabile nella storia della letteratura. Dazai aveva accettato l’invito di alcuni giovani scrittori a riunirsi un pomeriggio in una trattoria di Ginza, per bere e conversare di letteratura. Uno dei motivi che attirò in particolare Dazai fu il fatto che in un periodo di grande scarsezza di liquore decente, un giovane poeta del gruppo era riuscito a procurarsi varie bottiglie di buon sake. Mishima venuto a conoscenza della cosa si recò alla riunione insieme a un giovane drammaturgo suo amico. Dopo un po’ che furono tutti riuniti nel modesto locale, iniziarono subito a bere e Dazai fu presto ubriaco. Mishima, che non beveva, non toccò un dito di alcol e se ne stette in disparte. Poi ad un tratto, approfittando di una pausa della conversazione, si avvicinò a Dazai, lo guardò fisso e gli disse con un sorriso che detestava i suoi romanzi. Dazai, colto di sorpresa, per un attimo lo fissò senza dire nulla, poi si rivolse a metà verso il saggista Kamei Katsuichirō, che lo aveva accompagnato, e disse senza rivolgersi in particolare a nessuno: “Anche se dice così, in fin dei conti è venuto, quindi devo piacergli. Sì, sono sicuro che gli piaccio”4. Mishima dopo questo scambio andò via, sempre più convinto che la frequentazione di un uomo così lo avrebbe solo danneggiato. Si era recato a quella riunione col solo scopo di provocare il famoso scrittore. Mishima non poteva sopportare quella fierezza con cui Dazai si presentava come 4

Mishima Yukio, Watakushi no henreki jidai, in MYZ, vol. 30, p. 446.

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l’incarnazione del male dell’epoca, quel suo modo di glorificare la debolezza e l’annientamento, quella pessimistica desolazione che animava tutti i suoi lavori. Ma una repulsione così viva non poteva non nascondere, come più tardi egli stesso capirà, qualcosa di più profondo. Naturalmente riconoscevo il raro talento di Dazai; eppure non conoscevo un altro scrittore che al primo contatto mi aveva riempito di una così violenta, fisiologica repulsione. Probabilmente ciò era dovuto alla mia immediata sensazione che Dazai era uno scrittore che si sforzava di esporre precisamente quello che io, più di ogni cosa, volevo nascondere dentro di me5.

Nel luglio del 1948 Mishima fu invitato a unirsi al gruppo di scrittori che pubblicava la rivista Kindai bungaku, un gruppo composto per la maggior parte da scrittori di sinistra. In questo periodo le idee politiche di Mishima non erano affatto chiare, era ben lontano dalle posizioni ultranazionalistiche a cui sarebbe giunto nell’ultimo periodo della sua vita, ma non si sentiva neanche particolarmente attratto dalla “svolta a sinistra” che in quel periodo andava tanto di moda tra intellettuali e scrittori. Le ragioni per cui Mishima accettò di entrare in Kindai bungaku furono probabilmente solo di ordine letterario: era il gruppo più avanguardistico della letteratura del tempo. Il suo rapporto con gli intellettuali di sinistra fu approfondito anche con l’aggregazione al gruppo della nuova rivista Jokyoku; ma neanche questo ulteriore contatto con i critici marxisti, che in questo periodo sembravano dominare la scena letteraria, riuscì a trasformarlo in uno scrittore di sinistra. Il due settembre 1948 lo scrittore, dopo aver a lungo meditato su quella che sarà una delle decisioni più importanti della sua esistenza, presenta domanda di dimissioni al Ministero delle Finanze e il ventidue settembre riceve comunicazione di accettazione della domanda. È difficile stabilire con esattezza quale sia stata la molla più forte che lo ha spinto verso questa decisione. L’angoscia, la stanchezza, il permesso del padre, tutte queste cose di sicuro avranno giocato un ruolo fondamentale nella scelta di lasciare il lavoro e di diventare uno scrittore professionista. Ma di sicuro un altro elemento sarà stato determinante: la richiesta della casa editrice Kawade shobō di scrivere un romanzo per una collana che prevedeva la pubblicazione di opere di scrittori già affermati come Shiina Rinzō. Era un’occasione da non lasciarsi sfuggire, e l’opera da proporre doveva essere qualcosa di nuovo, di veramente nuovo nel panorama letterario e, soprattutto, nel panorama della sua vita artistica e interiore. 5

Cit. in Ivi, p. 93

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Gli ultimi lavori pubblicati, come La sigaretta, Il racconto del promontorio e I ladri, erano opere pervase da un raffinato estetismo e da un lucido e freddo taglio psicologico, dove la vita e l’esperienza personale dello scrittore erano quasi del tutto assenti. Mishima si stava incamminando su una strada che probabilmente lo avrebbe trasformato in un romanziere lezioso e ricercato alla Hori Tatsuo, o in un artificioso e dotato scrittore commerciale. Uno scrittore dalla tecnica eccezionale, ma a cui manca “qualcosa” per emanciparsi dalla condizione di sapiente artigiano. Un abilissimo artigiano capace di intrecciare trame geniali, costruire situazioni inaspettate e singolari, ma troppo lontane dalla realtà, troppo lontane dalla “vita”. All fine di settembre, appena ottenute le dimissioni dal Ministero delle Finanze, inizia a progettare la struttura del suo nuovo romanzo, Confessioni di una maschera (Kamen no kokuhaku). Avverte fortemente dentro di sé che dalla riuscita di quest’opera dipende tutto il suo futuro di scrittore. Questo nuovo romanzo doveva essere assolutamente qualcosa di molto più vicino alla realtà, libero dal manierismo, seppur affascinante, che aveva caratterizzato i suoi lavori precedenti. I sogni laminati di estetica, le trame finemente ordite, dove fluttuavano personaggi la cui esistenza trovava giustificazione solo in una determinata, particolarissima dimensione esistenziale, non potevano più far parte, o almeno non potevano essere l’unica parte, del suo universo letterario. Doveva fare qualcosa che non aveva mai fatto: rivolgere l’attenzione su se stesso e la realtà che lo circondava; in altre parole, doveva confrontarsi con la sua epoca. E il suo nuovo romanzo sarebbe stato l’emblema di una vera e propria rinascita artistica e spirituale. Questo libro è un testamento che lascio nel territorio della morte dove ho vissuto finora. Scrivere quest’opera è stato per me come un suicidio alla rovescia. Se filmiamo un uomo che si getta giù da una rupe e poi proiettiamo il filmato al contrario, vediamo il suicida fare un velocissimo salto all’indietro dal fondovalle alla cima e ritornare in vita. Questo è quello che ho tentato di fare scrivendo questo libro, cercare un mezzo per recuperare la vita.6

Queste parole, scritte nel luglio del 1949, solo un anno dopo l’inizio della progettazione del romanzo, ci rivelano tutto il valore esistenziale dell’opera, ponendola al confine netto tra due vite. Confessioni di una maschera si presenta così come un bilancio consuntivo della vita, un bilancio che lo scrittore con grande sforzo cerca di fare per capire ciò che è stato, ciò che sarà. 6

Mishima Yukio, Kamen no kokuhaku nōto, in MYZ, vol. 25, p. 258.

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Confessioni di una maschera Il romanzo che sto per scrivere è il mio primo romanzo confessione, è un tentativo di autovivisezionarmi7.

Come testimoniano queste parole scritte in una lettera del 2 novembre 1948 a Sakamoto Kazuki, redattore della casa editrice Kawade shobō, Confessioni di una maschera è un “romanzo confessione”. Possiamo considerarlo allora un romanzo autobiografico? Diamo per scontato che in un romanzo il “carattere confessione” non necessariamente coincide con l’ “autobiografismo”. Nel senso che avendo lo scrittore la necessità di “confessare” una problematica personale, e pur identificando se stesso con l’Io del romanzo, grazie alla libertà espositiva della narrazione può manipolare la “realtà” come meglio crede, oscillando dal territorio della “realtà effettivamente accaduta” a quello della “realtà che avrebbe voluto accadesse”, senza che ciò infici la “realtà profonda” della confessione. Un romanzo confessione cammina così sempre sul filo dell’ambiguità, lasciando al lettore la libertà di cogliervi, al di là dei dati oggettivamente verificati con lo studio della biografia dell’autore, gli altri probabili elementi biografici. Ma come se questa ambiguità di fondo non fosse sufficiente, Mishima si premura di disorientarci ulteriormente con un titolo colto dalla serra dei suoi abili paradossi, avvertendoci che questa confessione è fatta da una maschera. L’ambiguità della confessione dello scrittore è suggerita da molte sue osservazioni successive: Ogni volta che un uomo si confessa non è mai totalmente sincero, egli finisce inevitabilmente per inserire nella confessione i suoi desideri nascosti”8. Con questo romanzo “ho pensato di costruire una perfetta finzione della confessione”, “La natura della confessione è che la confessione è impossibile”9.

Appare ovvio da queste affermazioni l’atteggiamento critico nei confronti dello “stile confessione” in senso tradizionale. Ovvero nel senso di tutta la letteratura confessione “in prima persona” (watakushi shōsetsu) che era stata l’anima della letteratura giapponese dalla fine dell’ottocento in poi10. La ma7

Cit. in Inose Naoki, Op. cit., p. 222. Cit. in Mitsuhana Takao, Mishima Yukio ron, Tōkyō, Satsuki shobō, 1975, p. 85. 9 Mishima Yukio, Kamen no kokuhaku nōto, cit., pp. 258-259. 10 Appare d’altronde chiaramente evidente la distanza tra la “confessione” della maschera di Mishima e le confessioni dei romanzi del watakushi shōsetsu, dall’oggettività e dal distacco della narrazione, che non lascia il minimo spazio all’autoindulgenza e al sentimentalismo tipici di quella narrativa di fine ottocento. 8

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schera suggerisce così una sorta di scetticismo nei confronti della sincerità di qualsiasi rivelazione della realtà. La confessione, sembra suggerirci l’autore, è sempre qualcosa di legato all’arbitrio di chi confessa, alla maschera che ha deciso di indossare per parlarci. Una finzione ordita dal diretto interessato. Tuttavia, nota Sugimoto Kazuhiro, “una ‘verità’ codificata in parole è sempre una finzione, (...) ma la ‘verità’ non può manifestarsi se non passa attraverso questo processo”11. È vero, quindi, che la codificazione in parole della verità passa necessariamente attraverso una serie di relativizzazioni dettate dai processi emotivi e intellettivi di chi confessa, ma se riusciamo a guardare attraverso queste possibili relativizzazioni, a guardare oltre la superficie ingannevole della “verità apparente”, allora vi sono buone probabilità che la “verità profonda” si manifesti nuda, senza più alcuna maschera. Mishima in molte occasioni ha negato l’autobiograficità integrale dell’opera. Confessioni di una maschera si presenta, lo abbiamo già detto, come qualcosa di estremamente diverso dai romanzi confessione tradizionali della fine dell’ottocento, veri e propri diari quotidiani della vita dell’autore. Esso è una confessione “interiore” che può essere più o meno legata agli accadimenti reali della vita dell’autore. In realtà troviamo dei riferimenti biografici molto netti nell’opera, e oltre al famoso biografo americano Henry Scott Stokes, alcuni critici, come Honda Shuōgo e Donald Keene, hanno espresso pareri concordi sulla veridicità degli eventi narrati nel romanzo. Ma ricordiamo che tutto ciò riveste un’importanza marginale, la nostra attenzione deve rivolgersi non tanto all’autenticità degli episodi narrati, quanto alla loro sublimazione emozionale e psicologica. Ad ogni modo, la maschera, o forse sarebbe meglio dire le maschere, che lo scrittore ha deciso di far indossare all’Io del romanzo, non sono solo il simbolo dell’impossibilità di una “confessione sincera”; esse hanno molteplici e sfuggenti significati che incontriamo via via nello svolgimento dell’opera e a cui è difficile dare interpretazione univoca. Esse nascondono una realtà per rivelarne allo stesso tempo un’altra, in un continuo mutare di identità apparentemente contrastanti, ma sostanzialmente simili; innumerevoli pezzi di vetro dai riflessi ingannevoli dell’intricato mosaico interiore dell’Io. Confessioni di una maschera è un’opera divisa essenzialmente in due parti, in cui l’unico personaggio realmente ed efficacemente rappresentato è il protagonista. La prima parte, tutta evocativa e poetica, è ricca di immagini e sensazioni legate al periodo della nascita e dell’infanzia. Il primo impatto 11

Sugimoto Kazuhiro, “ ‘Kamen no kokuhaku’ oboegaki - Kijutsu suru ‘watashi’ wo shiza to shite”, in Satō Hideaki, Mishima Yukio - Bi to erosu no ronri, Tōkyō, Yūseidō, 1991, p. 112.

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del protagonista con la realtà che lo circonda è veicolato attraverso ricordi che si accavallano fra di loro, legati da comuni essenze in una sorta di iterazione ossessiva e rituale. Ricordi che, senza alcun rigore cronologico, hanno conquistato il loro posto nella descrizione in base al potere di impatto sulla coscienza dello scrittore. Ricordi che rappresentano una sorta di “premessa” di valore profetico per lo svolgimento della seconda parte. La seconda parte, più narrativa e “realistica”, è incentrata invece sulla graduale scoperta della reale natura del proprio Io, della propria condizione esistenziale. La critica ha tendenzialmente considerato come prima parte i primi due capitoli, dove si narra dell’infanzia e dell’adolescenza dell’Io, e come seconda parte gli ultimi due capitoli dove si parla dell’Io adulto. Questa suddivisione tenderebbe a dividere il periodo dell’ “attrazione omosessuale” da quello delle “relazioni eterosessuali”, divisione che porterebbe ad evidenziare una cesura troppo netta fra le parti. Un’eterogeneità strutturale che è stata spesso attribuita ai motivi più vari, quali l’inesperienza tecnica o la fretta per la scadenza di consegna. Noi saremmo invece propensi a considerare come prima parte solo il primo capitolo e come seconda parte gli altri restanti, puntando la nostra attenzione maggiormente sulla divisione tra poeticità e cronaca realistica. In tal modo, trascendendo i limiti di una divisione tra omosessualità ed eterosessualità, non ci sembra avvertire un così netto contrasto tra le parti, ma un naturale “crescendo” di consapevolezza esistenziale, in cui si attua la graduale scoperta di una conflittualità spirituale. Il primo capitolo, in sostanza, determina la tonica della narrazione e, nonostante gli apparenti mutamenti successivi, il “tema” centrale risuona sempre con diversa intensità e sfumature timbriche. Di certo nella divisione tra le due parti si avverte il processo di metamorfosi stilistica dello scrittore. La prima parte, poetica ed evocativa è chiaramente legata alla scrittura che aveva accompagnato Mishima sino ad allora; non è difficile individuare in essa l’eco della forza immaginativa, della varietà delle figure retoriche e delle metonimie della Foresta in fiore. Quindi, man mano che si procede nella seconda parte e l’Io cresce ed esperisce la realtà, è come se crescesse anche lo scrittore, dirigendosi verso una scrittura più narrativa e analitica, lo stile, d’altronde, che ora stava ricercando. Ma tutto ciò non determina, a nostro avviso, una spiacevole disarmonia, bensì un naturale contrasto tra “verità” ed “estetica”, in cui inevitabilmente lo spazio dedicato all’una tende a sacrificare quello dedicato all’altra. Il romanzo quasi a sottolineare la dubitabilità della confessione, già così palesemente espressa dal suo titolo, si apre provocatoriamente con la frase: “Per molto tempo ho sostenuto con ostinazione che ricordavo il momento

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della mia nascita”12. Poi il protagonista per vincere l’incredulità degli adulti a cui raccontava l’episodio, e quella non meno giustificata dei lettori, prende a spiegare con dovizia di particolari il suo singolare ricordo: Comunque c’era un oggetto che ricordavo di avere visto con chiarezza: mi riferisco al bordo della tinozza in cui mi avevano fatto il primo bagno. Era una tinozza di legno nuova e levigata, e quando vi ero immerso vedevo un riflesso risplendere sul bordo. Lì la superficie di legno della tinozza brillava come oro, e lingue di acqua tremolanti sembravano cercassero di lambirla senza riuscirci13.

Ma quello che lo scrittore ha avviato è un abile gioco ambiguo diabolicamente teso a disorientare i lettori, e solo un attimo dopo dirà: La confutazione più efficace che potevano muovere alla mia affermazione era che non ero nato di giorno ma alle nove di sera, un’ora in cui i raggi del sole non risplendono. Potevano anche prendersi gioco di me e affermare che si trattava della luce di una lampada, ma io avrei continuato senza difficoltà a bearmi nell’illogica convinzione che, sebbene in piena notte, un raggio di sole avesse colpito il bordo della tinozza, tant’è vero che quel guizzo di luce ha continuato a vacillare nella mia memoria come qualcosa realmente vista nel corso di quel primo bagno14.

Lo scrittore così, col suo gioco equivoco, ha stabilito una convenzione fondamentale con i lettori: la verità che l’Io descrive non riguarda la verità oggettiva. Ovvero, la verità che ci trasmette non appartiene necessariamente ad una dimensione reale, bensì ad una dimensione emozionale. Una dimensione in cui è leggittimo qualsiasi sovvertimento dell’ordine razionale, una dimensione che consente ad un uomo di ricordare l’attimo esatto della sua nascita, o al sole, come già era avvenuto in opere precedenti, di splendere a mezzanotte. Ma presto nell’opera compare il primo ricordo “affidabile” del protagonista: Risale a quel periodo il primo ricordo che mi ha tormentato con immagini inspiegabili e nitide. (...) I raggi del sole pomeridiani risplendevano deboli sulle case intorno al pendio, e io procedevo verso casa condotto per mano da una sconosciuta. Dalla parte opposta della strada scendeva un ragazzo, e la mia accompagnatrice si accostò al ciglio della strada strattonandomi la mano. Ci fermammo. (...) 12 13 14

Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., p. 65. Ivi, p. 66. Ibid.

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Il ragazzo portava in spalla due secchi per il liquame, aveva la fronte fasciata con un panno sudicio, due belle guance colorite e gli occhi radiosi: era un bottinaio, l’addetto alla vuotatura dei pozzi neri, e discendeva la strada distribuendo il peso dei recipienti su entrambe le gambe. Indossava un paio di tabi da lavoro e dei calzoni blu. Lo guardai con un’attenzione insolita per un bambino di cinque anni. (...) I calzoni da lavoro blu delineavano con precisione la struttra delle gambe che si muovevano flessuose e che sembravano procedere verso di me. Non ne capivo la ragione, ma quei calzoni destarono in me un’ammirazione indescrivibile. (...) Nei confronti di quell’occupazione nutrivo un sentimento simile al fascino per una tristezza acuta, per un’amarezza tale da torcere le membra. In quel mestiere percepivo una tragedia dal significato oltremodo sensoriale15.

Ciò che il protagonista prova dinanzi al bottinaio è un dolore sommesso intimamente legato ad un’intensa angoscia esistenziale, il dolore dell’instabilità e della vaghezza del proprio Io. Egli è altresì attratto dai conducenti dei tram addobbati di fiori nei giorni di festa, dai bigliettai della metropolitana, dalle loro uniformi con file di bottoni scintillanti, dalle loro esistenze “tragiche” vissute in un mondo quotidiano che percepiva come misteriosamente periglioso e che sentiva gli sarebbe stato precluso per sempre. È proprio la tristezza causata da questo sentimento di esclusione che proietta su questi personaggi un’aura di “tragicità”. Una tragicità che, come ha notato Paul Mc Carthy, va intepretata non tanto nel suo preciso valore semantico, quanto in una sorta di logica emozionale legata alla natura sensuosa del mondo infantile.16 Più che la deduzione intellettiva, sono infatti le percezioni visive e olfattive – le file scintillanti di bottoni sulle tuniche delle uniformi azzurre, l’effluvio che ondeggia nelle metropolitane, che ricorda l’afrore del caucciù e della menta peperita – a determinarne l’esistenza. In sostanza l’Io già all’età di cinque anni sente la tristezza di essere rifiutato dal mondo esterno. La sua aspirazione alla tragicità è strettamente connessa all’aspirazione verso un’esistenza concreta e reale. L’Io vuole diventare questi personaggi maschili perché essi si proiettano nei suoi occhi come un’esistenza reale e brillante. Di certo possiamo individuare in queste immagini di giovani in tuta da lavoro o uniforme anche una prima pulsione omosessuale. Probabilmente un po’ precoce per l’età del protagonista, ma in sostanza per nulla strana in fase adolescenziale, in quanto l’adolescente nell’immagine di un bel corpo 15

Ivi, pp. 69-70. Paul McCarthy, “Mishima Yukio’s Confessions of a Mask”, in Kinya Tsuruta & Thomas E. Swann, Approaches to the Modern Japanese Novel, Tōkyō, Sophia University, 1976, p. 116. 16

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giovane e virile vede una magnifica realizzazione di energia, una potente pulsione di vita, ciò che egli non è, e che vorrebbe diventare. Le pulsioni omosessuali in questa fase dell’esistenza sono comuni e transitorie, tipiche della fase di formazione dell’Ego, che a seconda dell’assestamento durante il passaggio della pubertà determina la sessualità psichica dell’individuo. L’Io quindi al di là delle possibili e scontate implicazioni omosessuali, sente fondamentalmente un’attrazione verso un corpo che rappresenta un’esistenza che gli sfugge, che sente di non possedere. E nel momento in cui vede riflesso negli altri un ipotetico ideale fisico egli riversa il suo amore per la vita – un amore “narcisistico” per la propria esistenza – in un amore omosessuale, inteso come “amore verso il proprio sesso”, ovvero “amore verso se stesso”. A questo proposito ci sembrano interessanti alcune considerazioni dello piscologo Mochizuki Mamoru tratte dal suo saggio Il sesso e la vita (Sei to Seikatsu):17 La tendenza dell’amore verso se stessi, di cui abbiamo parlato, tende poi a riflettere l’attrazione per il proprio corpo su qualcos’altro. Ma in pratica l’oggetto di questa attrazione resta fondamentalmente se stessi, ovvero il sesso a cui si appartiene. Colui che ha questa inclinazione, se trova qualcosa di equivalente alla sua bellezza e al suo fascino sessuale, sostituisce la propria immagine, riflessa in uno specchio o riprodotta in fotografia, con questa nuova presenza. Queste persone in genere desiderano diventare più belli e aumentare il proprio fascino sessuale: gli uomini vogliono diventare più virili, le donne più formose. Poi quando riconoscono il proprio ideale in qualche altro individuo dello stesso sesso, veicolano su questa persona tutta la loro vanità. (...) Ma fondamentalmente essi non sono cambiati, dentro di loro resta allo stato latente il loro amore per se stessi. In sostanza l’omosessualità si è semplicemente sovrapposta al narcisismo18. 17

Circa sei mesi prima della pubblicazione di Confessioni di una maschera, Mishima aveva effettuato alcune sedute di psicoanalisi con questo psicologo, e non è improbabile che lo scrittore avesse letto il saggio di Mochizuki mentre scriveva il suo romanzo. Il sesso e la vita era stato pubblicato nel marzo del 1949, proprio nello stesso periodo di pubblicazione di Confessioni di una maschera, ma gli articoli del saggio di Mochizuki erano già comparsi su varie riviste nei due anni precedenti. Ma cosa più interessante, pare che il saggio di Magnus Hirschfeld, Sexualpathologie, – che Mishima aveva letto in originale, visto che al tempo non esisteva una traduzione in giapponese – da lui citato in Confessioni di una maschera, gli sia stato prestato proprio da questo dottore. Sexualpathologie deve aver esercitato una forte influenza sullo scrittore e sulla struttura di Confessioni di una maschera, in quanto vi troviamo esposto il caso di un ragazzo la cui famiglia, le circostanze di vita, l’ambiente e l’evoluzione psicofisica sono incredibilmente vicine a quelle dello scrittore. Per una trattazione circostanziata dell’argomento si veda il terzo capitolo del saggio di Inose Naoki, Persona - Mishima Yukio den, cit.. 18 Cit in Inose Naoki, Op. cit., p. 229.

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Inutile ricordare quanto questa ricerca del corpo nella vita futura di Mishima sarebbe stata determinante per la sua formazione di uomo e di artista, e quanto la distanza da tutto ciò, ora ancor più connessa con la distanza dalla vita stessa, ne determinasse la tragicità. L’Io è quindi ostinatamente interessato al corpo degli “altri” perché ossessionato dalla fragilità della propria esistenza. L’Io che “non ha corpo” è l’Io “che non è”. Il protagonista di Confessioni di una maschera è descritto come “un essere misteriosamente triste e non umano”, tormentato dal pentimento della sua esistenza stessa. L’Io non è altro che un’ “esistenza” della “non esistenza”. E il desiderio che comincia a pulsare forte sin da ora nel piccolo protagonista è un’aspirazione alla tragedia, che non rappresenta altro che una “verifica” della propria esistenza. Verifica che cercherà successivamente con la morte in guerra, ma che rimasta irrealizzata con la fine del conflitto mondiale, sarà sempre più ricercata nel clima esistenziale piatto e arido del dopoguerra. Insomma il piccolo protagonista si sente escluso dalla vita e terribilmente desideroso di prendervi parte, ma avverte altresì la difficoltà di trovare una collocazione adeguata ad una “diversità”, una sorta di “specialità” interiore, che per ora appena percepisce, ma che non è capace di esprimere, e che a poco a poco prenderà la forma, come vedremo in seguito nel romanzo, dell’omosessualità. Ma l’omosessualità in questo caso trascende lo stato puramente psico-biologico, manifestandosi piuttosto come una condizione di speciale isolamento che permette all’Io la sopravvivenza, seppur tormentata, nel soffocante appiattimento della vita quotidiana. L’omosessualità acquista, così, una connotazione squisitamente esistenziale, in quanto mezzo di sopravvivenza e “verifica” della propria esistenza. Un’esistenza in antitesi con il comune senso della vita quotidiana, con il comune scorrere del tempo. “Quando infatti il desiderio sessuale comune”, dice Noguchi Takehiko, “viene definito nel romanzo come ‘il desiderio che nasce dal fatto di essere se stesso’, e il desiderio di fuggire dalla condizione di omosessuale viene espresso come ‘violento desiderio inappagabile di non essere se stesso’, ci troviamo di fronte ad un problema totalmente esistenziale. Ovvero alla dicotomia tra la ‘morale’ (come si deve essere) e l’ ‘ontologia’ (cosa sono)”19. Così L’Io attraverso la confessione della sua diversità in sostanza si pone una domanda precisa: Io cosa sono? E nella risposta “Io sono un essere misteriosamente triste e non umano” si rivela “la metafisica celata dietro questo racconto autobiografico”20. 19 20

Noguchi Takehiko, Mishima Yukio no sekai, Tōkyō, Kōdansha, 1968, p. 105. Ibid., p. 106.

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Da quanto abbiamo detto ci rendiamo, quindi, conto di quanto sia riduttivo definire, come qualcuno ha fatto, Confessioni di una maschera la scoperta e la rivelazione della propria omosessualità di un giovane esistenzialista giapponese. Ciò che Mishima confessa non è di essere omosessuale, anche se questo fosse vero, non è certo il nucleo della sua confessione. Una confessione dal carattere prettamente ontologico, legata strettamente alla definizione del suo Io nel suo mondo interiore, ma anche in quello esteriore della società del dopoguerra. La sua confessione ci appare a tratti una vera e propria sfida alla società del tempo, e, come ha notato Noriko Lippit, “non una sfida per far accettare l’omosessualità del protagonista-autore, ma piuttosto il tentativo di separarsi totalmente dal mondo della vita quotidiana e di attirare su di sé le critiche e la disapprovazione di tutta la società”21. Ecco perché il protagonista sente che la “diversità” è una condizione fondamentale del suo essere, ma al tempo stesso prova il “violento desiderio inappagabile di non essere se stesso”; perché «sebbene la sua omosessualità, o meglio il suo carattere, è il destino che egli ha scelto di sua spontanea volontà, esso deve rimanere un elemento negativo per la società contro cui ha deciso di combattere”22. Ma ritornando al piccolo protagonista di Confessioni di una maschera e all’immagine del bottinaio, suo primo oggetto di desiderio, ci sembra interessante puntare la nostra attenzione proprio sul mestiere di quest’ultimo. Comunemente l’attrazione per un’immagine maschile da parte di un bambino si rivolge a personaggi che svolgono un’attività edificante o comunemente riconosciuta dalla società come ammirevole o eroica – ufficiali dell’esercito, campioni sportivi, poliziotti, o eroi dei fumetti –. L’Io stesso dice: Seguendo lo stesso meccanismo per cui ogni bambino sufficientemente grande desidera diventare generale dell’esercito, insorse in quel momento in me la passione per il mestiere del bottinaio23.

È possibile individuare ancora una volta una determinante di tipo omosessuale, che qui assume una connotazione sadomasochistica. Come ha notato Paul Mc Carthy: La necessità di identificarsi con una figura “tragica” che subisce sofferenza e umiliazione è sicuramente legata a una sorta di sadomasochismo. Nell’attrazione del bambino per il bottinaio si prefigura una tendenza che da un lato 21

Noriko Mizuta Lippit, Reality and Fiction in Modern Japanese Literature, New York, M.E.Sharpe, p. 185. 22 Ivi, p. 187. 23 Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., p. 70.

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tende a idolizzare ciò che è grossolano e brutale, quelli che ci aspetteremmo dominare ed abusare del delicato e timido eroe; e dall’altro ad identificarsi con gli sconfitti e gli schiavizzati, per nessuna ragione di giustizia sociale, ma di nuovo in preda a un desiderio di autopunizione. Il bottinaio ricopre meravigliosamente entrambi i ruoli, perché egli è fisicamente rozzo e forte abbastanza per sottomettere il bambino che si rannicchia impaurito al suo passaggio; e allo stesso tempo, a causa del suo umile ruolo sociale è un oggetto ideale per le sue fantasie di autoidentificazione24.

Queste osservazioni ci sembrano interessanti ed estremamente plausibili, in quanto la componente sadomasochistica sarà di nuovo più volte riproposta all’interno del romanzo con una serie di variazioni molto più crude ed esplicite. Tra l’altro, in questa identificazione tra colui che domina e il dominato possiamo notare in nuce un elemento fondamentale della psicologia di Mishima: l’identificazione tra “chi agisce” e “chi subisce”. Una dicotomia psicologica che diventerà uno dei fulcri di tutta la sua esistenza umana e artistica. Personaggi che sono lo specchio di questa conflittuale dicotomia, come l’“attivo” Kiyoaki e il “passivo” osservatore Honda dell’opera ultima Il Mare della fertilità, forse trovano origine proprio in questa prima infantile visione del protagonista di Confessioni di una maschera. Ma ad un’analisi più attenta dell’episodio non possiamo non avvertire la presenza di qualcosa di più profondo e più intimamente connesso con il disagio esistenziale. Allora, al di là delle implicazioni sadomasochistiche, perché altro motivo scegliere un oggetto del desiderio che svolge un mestiere relegato dall’ideale comune allo strato più basso della società? L’Io parlando di questo ricordo ci dice: Non potevo ancora intuirne il significato, ma quella fu la prima rivelazione di una certa forza, la prima voce oscura e misteriosa che mi chiamava, e il fatto che si manifestasse nella figura di un bottinaio fu quanto mai allegorico. I liquami sono infatti simbolo della terra, e la voce che mi chiamava era quella dell’amore maligno della nostra Madre Primigenia25.

Dobbiamo fare attenzione al fatto che nel testo originale per “Madre Primigenia” viene usato il termine ne no haha, ovvero “la madre delle radici”, che secondo le antiche leggende giapponesi era il mondo immaginario sotterraneo, oppure lontano al di là del mare, dove si pensava ci si recasse dopo la morte. Ci viene quindi suggerita una simbologia mitologica che riecheggia la tragedia e il mito dionisiaco. Non dimentichiamo che lo scrittore 24 25

Paul Mc Carthy, Op. cit., p. 115. Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit. p. 70.

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al momento della stesura del romanzo ha già una conoscenza capillare della letteratura classica e mitologica giapponese, nutre un profondo interesse per la tragedia greca, e probabilmente già avvertiva una somiglianza tra il mito greco e quello giapponese. Come ha evidenziato il critico Tasaka Kō26, nel Kojiki “la madre delle radici” sta ad indicare “la madre del paese delle radici”, ovvero la “madre del paese dei morti”. Costei è Izanami, la divinità che ha originato il Giappone insieme alla divinità maschile Izanagi. Izanami è quindi una divinità femminile legata sia alla nascita che alla morte; e in quanto generatrice della terra e madre del regno dei morti essa ci riporta alla mente Semèle, la “Madre Primigenia” del mito greco. Allora il “richiamo di una voce scura e misteriosa” che sente il protagonista è possibile interpretarlo come il richiamo della Madre Primigenia: il richiamo alle origini, il richiamo alla nascita, ma anche alla morte. Izanami, la Grande Madre del paese dei morti, attraverso i luridi e sacri escrementi lancia al protagonista il suo dolce invito alla morte, a cui il protagonista risponde con un anelito alla “tragicità”. “L’amore malefico della Madre Terra” diventa così il primo irresistibile invito ad una morte tragica. Il giovane protagonista avverte dinanzi a questa visione che “la ‘tragicità’” di cui andava prendendo coscienza “altro non era che un’ombra del dolore evocato dall’immediato presentimento che sarei stato per sempre escluso da tutto ciò”27. È un presagio sinistro, l’annunciazione di un’angoscia più profonda che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita fino al suo liberatorio, drammatico gesto finale. Oggi che siamo a conoscenza dell’itinerario successivo della vita di Mishima, non è difficile individuare in questo episodio, e in molti altri dell’opera, la trasfigurazione estetica dell’idea del suicidio, la celebrazione di un ideale tragico-romantico strettamente connesso con la morte.

L’ossessione della Morte La morte pervade buona parte degli episodi del romanzo. L’estetica del Thanatos affonda radici profonde nella formazione psichica infantile di Mishima 26

Nel saggio Mishima Yukio nyūmon, Tasaka Kō fa un’interessante e dettagliata analisi dei valori e dell’importanza del mito non soltanto in Confessioni di una maschera, ma anche in altre opere successive come La voce degli spiriti eroici (Eirei no koe) e la tetralogia Il mare della fertilità, dove non solo vengono evidenziate le affinità tra Izanami e Semèle, ma anche quelle dei loro rispettivi figli Susanoo e Dioniso. Tasaka Kō, Mishima Yukio nyūmon, Tōkyō, Orijin, 1985 27 Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., p. 71.

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– ne sono d’altronde testimonianza già i suoi primi racconti – e i sogni del protagonista di Confessioni di una maschera sono un’aperta rivelazione della genesi di quest’estetica. La mente del piccolo Io è costantemente proiettata verso fantasie di morte. Pur non sapendo ancora leggere il bambino sfogliava tutti i libri di fiabe che gli capitavano sotto mano. In uno dei numerosi libri illustrati che allora solleticavano con maggiore insistenza la mia curiosità c’era un disegno che occupava due pagine. Mi bastava fissarlo per dimenticare i lunghi e noiosi pomeriggi, ma se qualcuno arrivava un leggero senso di colpa mi spingeva ad aprire in tutta fretta il libro a un’altra pagina. Non tolleravo più la presenza dell’infermiera e delle domestiche: avrei voluto trascorrere una giornata senza distogliere gli occhi dal disegno. Di fronte a quelle pagine il mio cuore batteva all’impazzata, e anche se ne guardavo altre con la mente ero sempre su quelle due. L’illustrazione raffigurava Giovanna d’Arco su un cavallo bianco, la spada puntata verso il cielo. Il cavallo aveva le froge dilatate, e con le vigorose zampe anteriori sollevava una nuvola di polvere. Un bellissimo stemma era impresso sull’armatura argentea del cavaliere, il cui volto si intravedeva attraverso la visiera. Il giovane andava incontro alla morte – o comunque verso qualcosa che aleggiava con una forza vagamente nefasta –, brandendo con fierezza la spada verso il cielo azzurro. Ero certo che sarebbe stato ucciso l’attimo seguente, e se avessi girato pagina di scatto avrei forse visto il disegno che ritraeva la sua uccisione; chissà per quale motivo le illustrazioni dei libri si muovono verso l’attimo seguente senza che ce se ne renda conto28.

Il piccolo protagonista è totalmente affascinato dal pensiero della morte che incombe sul “virile” cavaliere. Egli inizialmente non sa che si tratta di Giovanna d’Arco, e quando lo viene a sapere da un’infermiera ne resta terribilmente deluso. Ero annichilito. La persona che credevo un uomo era in realtà una donna. Cosa accade se un bel cavaliere non è un uomo ma una donna? Tuttora nutro una tenace quanto inspiegabile avversione verso le donne che si vestono da uomini. Sembrava la prima vendetta della verità con cui mi sarei scontrato nella mia vita, una vendetta particolarmente crudele verso le dolci fantasie che nutrivo sulla sua morte.29

La scoperta tradisce le aspettative del protagonista, perché spoglia l’immagine dalla sua componente “tragica” di morte eroica, necessariamente legata nella sua mente al sesso maschile. Individuiamo, inoltre, la commi28 29

Ivi, pp. 71-72. Ivi, pp. 72-73.

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stione di Eros e Thanatos: una commistione che arricchita della componente omosessuale darà vita ad una serie di immagini topoiche, ricorrentissime nella letteratura mishimiana, in cui la bellezza maschile viene sempre esaltata da una morte sanguinosa, eroica e tragica. Da questo momento in poi tutte le immagini maschili connesse con la morte diventano conturbanti per il protagonista. Se vi è odore di fatica legata ad un lavoro pericoloso, fatale, questo diventa estremamente stimolante per la sua psiche. Ancora un ricordo. È l’odore del sudore. L’odore del sudore mi ha braccato, ha stimolato i miei desideri, mi ha dominato. (...) Un contingente di soldati di ritorno da un addestramento militare stava passando lì davanti. (...) L’odore del sudore dei soldati – un odore simile a quello della brezza marina, a quello dell’aria di mare calda e dai riflessi dorati, – mi stuzzicava le narici, mi inebriava30.

È certo possibile individuare in queste sensazioni, malgrado (o forse proprio grazie a) le successive confutazioni dello scrittore, un chiaro messaggio sessuale, la latente omosessualità del protagonista che precocemente si sente attratto dal fascino della virilità, ma quello che con più energia si impone è di nuovo la fatale attrazione dello scrittore verso la “tragicità” e la “morte”. Sono quasi certo che si tratti del primo ricordo che ho di un odore. Naturalmente non c’era nulla che lo collegasse in maniera diretta a un piacere sessuale, ma pian piano risvegliò con risolutezza i desideri sensuali che nutrivo per il destino dei soldati, per la tragedia della loro occupazione, per la loro morte e per i paesi remoti che avrebbero visto31.

Non a caso la figura dei soldati e la loro attività intimamente connessa con la morte – dai giovani kamikaze della Voce degli spiriti eroici (Eirei no koe) all’apoteosi della morte tragica in nome dell’Imperatore incarnata dal tenente Takeyama Shinji di Patriottismo (Yūkoku) – avrebbero occupato un posto così determinante tra le figure dei protagonisti delle sue opere più tarde. L’amore del piccolo protagonista si dirige quindi sempre di più verso le figure eroiche maschili e ne risulta tanto più accresciuto quando queste avanzano verso una morte cruda e violenta. Altra storia, ad esempio, che esercitava un fascino particolare su di lui era una fiaba ungherese, dove un 30 31

Ivi, pp. 73-74. Ibid.

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principe in calzamaglia e tunica rosa viene sbranato da un drago.32 Poi la vittima, come per miracolo, ritornava in vita, ma “viene catturato da un grande ragno che gli inietta del veleno e lo divora con avidità”33. E ogni volta che il principe scampava alla morte, veniva sottoposto a nuove torture, “annega, muore carbonizzato, viene punto a morte da api, morso da serpenti, gettato in una fossa da cui spuntano le lame acuminate di innumerevoli spade e colpito da un numero incalcolabile di massi che gli cadono addosso come un diluvio”34. La morte cruenta ricorre spesso nell’opera, legata strettamente alla libido del protagonista, che al pensiero di giovani brutalmente trucidati si sentirà scuotere da irresistibili brividi di piacere. Non conoscevo ancora le opere di De Sade, ma le sensazioni provate di fronte alla rappresentazione del Colosseo di Quo vadis? Mi avevano fatto erigere un mio personale teatro di omicidi in cui giovani lottatori romani si immolavano per il mio divertimento. La morte doveva essere efferata e solenne al tempo stesso. Ogni forma di esecuzione formale e ogni strumento necessario per metterla in atto suscitava il mio interesse, mentre tendevo a prendere le distanze da quanto non comportava spargimento di sangue, come strumenti di tortura e patiboli. Non mi entusiasmavano neppure le armi che usavano polvere da sparo, come pistole o fucili; per piacermi uno strumento doveva essere primitivo e selvaggio, come una freccia, una daga o una lancia. Per prolungare l’agonia bisognava colpire il ventre delle vittime, che dovevano emettere grida capaci di comunicare la solitudine di una lunga, triste, tragica e indicibile esistenza35. Solo così la gioia di vivere sarebbe emersa dalle mie viscere per lanciare invocazioni a cui poi avrei risposto. Gli antichi non provavano forse la stessa felicità nelle battute di caccia? Armato di immaginazione, massacrai soldati greci, schiavi arabi bianchi, principi di tribù selvagge, ragazzi di ascensori di albergo, camerieri, furfan-

32

Notare che l’abbigliamento del principe è molto simile a quello del bottinaio. La calzamaglia è una diretta evoluzione dei pantaloni attillati blu di quest’ultimo, un’evoluzione ancor più sensuale che mostra con più evidenza il corpo dell’oggetto del desiderio e ne esalta maggiormente il senso di tragicità. Tragicità che nel bottinaio appariva come una sensazione sommessa, legata alla pericolosità di un lavoro misterioso e reietto, e che invece con la figura del principe acquista la connotazione di una tragicità legata apertamente alla morte. 33 Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., p. 80. 34 Ibid. 35 Notare che questa ossessione per le armi da taglio e per una morte cruenta e agonizzante che prende di mira il ventre, seguirà a lungo Mishima nella vita. Ci riferiamo non solo a tutte quelle altre opere, come Patriottismo o A briglia sciolta (Honba) dove è celebrata la morte rituale per squarciamento del ventre (seppuku), ma anche al suo famoso gesto finale, l’occupazione del Quartier Generale delle Forze di Autodifesa, compiuto con quattro giovani membri del suo esercito privato, armati solo di una spada e un pugnale, e al suo vero e proprio seppuku compiuto in quell’occasione.

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ti, ufficiali e giovani circensi. Ero come uno di quei predatori selvaggi che, non conoscendo il modo di amare, finiscono loro malgrado per uccidere le persone amate. Poggiavo le labbra su quelle delle mie vittime riverse a terra ancora tremanti36.

Nell’estetica di Mishima, come abbiamo potuto rilevare da questi esempi, il sangue, l’uccisione violenta, sono intimamente connessi con l’eros. Un erotismo che si trasforma in vera e propria perversione sadistica, come quando sogna di costruire per le sue vittime “una spessa asse su cui decine di pugnali piantati formavano una figura umana, (che) scivolava su un binario verso l’estremità opposta dove era stata saldamente ancorata una croce”37. O quando addirittura è ossessionato da fantasie a sfondo cannibalistico, dove un atletico compagno di corso della Scuola dei Pari viene immobilizzato e stordito da due cuochi che lo sistemano su un grosso piatto da portata con tanto di insalata di contorno e lo portano nella sala del banchetto dove l’Io sta aspettando con gli altri commensali. “Qui non dovrei avere troppi problemi!” dissi affondando la forchetta nel cuore. Un getto di sangue mi colpì in piena faccia. Con il coltello nella mano destra iniziai a tagliare finemente e con calma la carne del petto...38

Un macabro banchetto antropofagico non nuovo nella letteratura. Come scrive Marguerite Yourcenar: Basta aver letto Sade, Lautréamont, o riferirsi più pedantescamente ai devoti dell’antica Grecia che si dividevano la carne cruda e il sangue di Zagreus, per constatare che il ricordo di un selvaggio rito di Divoranti aleggia ancora un po’ dappertutto nell’inconscio umano, ricuperato solo da quei pochi poeti abbastanza audaci per farlo”39.

Ma lasciando un attimo da parte l’audacia, indubitabile, del giovane scrittore, e gli eventuali giudizi etici a cui siamo inevitabilmente portati a pensare davanti a simili espressioni letterarie, quello che viene da chiederci è: da cosa viene influenzata questa “truculenta” estetica mishimiana? Mishima sicuramente è influenzato dalla tradizione giapponese della bellezza del sangue che sprizza da un giovane corpo di samurai, dalla bel36 37 38 39

Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., pp. 127-128. Ibid. Ivi, p. 130. Marguerite Yourcenar, Mishima o la visione del vuoto, Milano, Bompiani, 1982, p. 19.

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lezza della morte giovane, eroica e violenta. E inoltre, non poca influenza devono aver esercitato le rappresentazioni di teatro kabuki, a cui Mishima aveva assistito sin da piccolo accompagnatovi dalla nonna, ricche di sanguinose scene di duelli e seppuku. Ma viene altresì influenzato, come egli stesso dichiara in Confessioni di una Maschera, dalle descrizioni decadenti dei sacrifici umani nel Colosseo apprese dalla lettura di Quo Vadis?. Tutto ciò ha sicuramente contribuito alla formazione di una simile estetica di morte e violenza, che qui si presenta nuda, senza alcun velo retorico, attraverso le fantasie perverse del giovane protagonista. Di sicuro però la sola visione delle rappresentazioni di kabuki o la lettura di Quo Vadis? non avrebbero scatenato un tale desiderio di violenza e sangue se l’animo del piccolo Mishima non fosse stato accuratamente predisposto da una peculiare formazione psicologica, dall’ambiente familiare così particolare in cui era cresciuto. La violenza e il sangue sono caratteri distintivi di un’altra delle sue maschere? Qualcuno ha visto in Confessioni di una maschera il tentativo di Mishima di isolarsi dalla corrente principale della letteratura classica giapponese, che vede i due principali esponenti in Tanizaki e Kawabata con la loro poesia estetica e rarefatta legata alla tradizione “femminile” del periodo Heian (794-1186), e a cui fino allora sembrava essere stato legato anche lui. Con Confessioni di una maschera Mishima sembra voler scrivere un “romanzo filosofico” perché, come dice Roy Starrs, “egli pensava che fosse un atto ‘mascolino’, (...) il modo migliore per distinguersi dalla tradizione ‘femminile’ della letteratura giapponese”40. In tal caso lo stile cerebrale e dialettico dell’opera potrebbero essere considerato parte essenziale di questa maschera, “la maschera della mascolinità di un maschio ‘effeminato’, la sua posa di macho”41. “Mishima”, nota Starrs, “può essere considerato come un classico caso di ciò che Alfred Adler chiama ‘maschio effeminato’: cresciuto da donne iperprotettive che gli proibivano la rude compagnia degli altri ragazzi, egli più tardi sovracompensa con uno stile di vita di esagerato machismo, o con quello che Adler chiama ‘protesta mascolina’”42. Il fenomeno non è nuovo nell’ambito dell’arte e della filosofia: Una simile considerazione, può essere, ed è stata fatta riguardo a Nietzsche, che , a causa della prematura morte del padre, fu cresciuto in una famiglia dominata da donne iperprotettive. Nonostante egli non abbia mai manifestato le sue fantasie machistiche nello stesso modo violento di Mishima, certamente 40

Roy Starrs, Deadly Dialectics - Sex, Violence and Nihilism in the World of Yukio Mishima, Kent, Japan Library, 1994, p. 11 41 Ibid. 42 Ivi, p. 22-23.

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c’è un efficace e ironico contrasto tra quello che Thomas Mann definisce la sua “decadenza” - il suo fragile fisico, le sue emicranie e le sue depressioni, i suoi fallimenti e le sue frustrazioni sessuali, il suo stile di vita ermetico - e la glorificazione nei suoi scritti di un’estroversa e aggressiva mascolinità. E, di certo, la stessa psicologia di Adler è stata fortemente influenzata da Nietzsche - specialmente la sua idea dell’importanza centrale psicologica della “volontà di potere”43.

Ma, come abbiamo già detto, a completare la formazione psicologica di Mishima oltre alle donne iperprotettive, ha collaborato di certo la figura paterna. Il desiderio del padre di temprare presto la mascolinità del figlioletto con un atteggiamento austero e con quegli strambi test di virilità con le locomotive, che dovevano apparire al bambino dei mostri che sfrecciavano urlanti e affamati, hanno contribuito ulteriormente a creare nel piccolo Mishima quei semi di reazione macho e violenza sado-masochistica che sarebbero germogliati prima in chiave letteraria, poi, nel periodo tardo della vita, nella sua esistenza stessa. Anche in questo Mishima si trova vicino a Nietzsche e ad una serie di scrittori e pensatori “nietzschiani”, come Thomas Mann, D.H. Lawrence, Michel Focault, che sono passati attraverso percorsi molto simili al suo. Basti ricordare che, ad esempio, il padre di Focault, medico chirurgo, per “temprare la virilità di suo figlio” lo costrinse ad assistere ad un’operazione durante la quale lui amputava la gamba di un uomo. E come ha scritto James Miller: Questo spettacolo, certamente, ha tutti gli ingredienti di un ricorrente incubo: il padre sadico, il figlio impotente, il coltello che affonda nella carne, il corpo tagliato fino all’osso, la richiesta di riconoscimento del potere sovrano del patriarca, l’inesprimibile umiliazione del figlio di cui viene messa alla prova la mascolinità. Come macerie di un naufragio, frammenti di queste scene saranno venuti a galla durante tutta la vita e il lavoro di Foucault44.

Ma al di là delle possibili motivazioni psicologiche di questa concezione estetica di morte e sangue, è interessante notare lo sviluppo successivo che questa concezione avrà nelle opere dello scrittore. La crudezza truculenta di queste fantasie adolescenziali tenderà a sbiadirsi per lasciare posto ad un’estetica di morte permeata di valori romantici, eroici e tragici. E questo è già ravvisabile in Confessioni di una maschera, quando il protagonista indugia spesso in fantasie sulla sua morte stessa, trucemente assassinato o colpito su 43 44

Ivi, p. 200. Cit. in Ivi, p.143

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un campo di battaglia. È qui più evidente il senso della morte legato alla tragedia, all’eroismo romantico. E non possiamo fare a meno di rilevare ancora una volta che il piccolo e anemico protagonista del romanzo anela alla solidità di un corpo vigoroso, attraversato dalla corrente impetuosa di un sangue che vuole vedere sprizzare fuori con energia devastante. L’estetica di una morte sanguinosa è ancora una volta legata al desiderio di affermare e verificare l’esistenza del proprio Io; l’instabilità e la vaghezza del proprio Io sono rappresentate questa volta dalla metafora della mancanza di sangue, l’essenza del corpo, e dal suo desiderio inesauribile di esso. Il senso di “tragicità” si lega così alla passione per una morte sanguinosa, avvolta in un’atmosfera gotica dalle tinte estremamente decadenti, i cui tratti ossessivi sono tutti racchiusi nella frase: “L’inclinazione verso la Morte e la Notte e il Sangue voleva esser sazia a ogni costo”.

Il doppio Edipo Ancora di questo periodo dell’infanzia ci vengono presentati due ricordi, anche questi connessi con l’identificazione del piccolo protagonista con figure che lo affascinano. Ma stavolta non ci troviamo di fronte alla fascinazione per la virilità e per la morte; i due personaggi in cui il protagonista vuole identificarsi sono Shōkyokusai Tenkatsu e Cleopatra. Durante una fantasia notturna ha la visione di una maga che una volta aveva visto a teatro: “Subito dopo, la notte sollevò davanti ai miei occhi il sipario del palcoscenico di Shōkyokusai Tenkatsu”45. Allora il piccolo si abbandona alla contemplazione di quella figura maestosa che “si muoveva sul palcoscenico con disinvoltura, le floride membra avvolte in un costume che ricordava quello della Grande Meretrice dell’Apocalisse di Giovanni”46. Il desiderio di identificazione è straripante e dirige categoricamente le azioni del protagonista che, entrato furtivamente in camera di sua madre, decide di travestirsi. Un giorno entrai di soppiatto nella camera di mia madre e, reprimendo a stento l’eccitazione, aprii il cassettone dei kimono. Estrassi quello più vistoso e sgargiante e avvolsi attorno alla vita, a mo’ di dignitario turco, una cintura decorata con rose scarlatte dipinte con colori a olio, fasciandomi poi la testa con un furoshiki di seta crespata. (...) Infilai nella cintura uno specchietto da borsa e stesi sul viso un leggero strato di biacca. Poi afferrai ogni oggetto che in qualche modo rifulgeva, come una torcia a pile argentea e una vecchia 45 46

Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., p. 75. Ivi, p. 76.

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penna stilografica cesellata in oro, e con aria melliflua raggiunsi la nonna in salotto47.

Quindi così agghindato si precipita nel salotto dove c’erano la nonna e la madre con un ospite e, correndo su e giù per tutta la stanza, lascia liberamente fluire il suo riso e la sua gioia frenetica gridando: “Sono Tenkatsu! Sono io Tenkatsu!”. “Il mio entusiasmo”, spiega il narratore, “era teso a esibire il travestimento, e non vedevo che me stesso”48. Ma poi gli occhi del protagonista incontrano quelli della madre, che impallidita aveva abbassato lo sguardo, e dopo un po’ si riempiono di lacrime. La forte emozione di un sinistro presagio spegne in un attimo le fiamme dell’esaltazione dionisiaca di un attimo prima. Il presagio della solitudine e del triste isolamento dall’amore: Mi chiedo cosa compresi in quel momento, cosa mi veniva richiesto di capire. Mi stava forse mostrando il proprio insorgere quanto anni dopo avrei definito il rimorso che precede il peccato? Si trattava forse di un insegnamento da cui dovevo capire quanto disgraziata sarebbe apparsa agli occhi dell’amore la mia solitudine, una lezione da cui imparare il mio modo di rifiutare l’amore?49

Gli occhi della madre rappresentano qui il primo giudizio del mondo esteriore, la norma, la convenzione del mondo quotidiano con cui avrebbe prima o poi dovuto fare i conti. Se nell’immagine del bottinaio e nella sua “tragica” occupazione il protagonista vede la premonizione di un futuro, angoscioso isolamento, “negli occhi della madre egli legge l’universale incomprensione a cui i suoi gusti ‘grotteschi’ sarebbero andati incontro”50. Un’altra volta, con l’aiuto della sorellina e del fratellino, indossò l’abbigliamento di Cleopatra. Anche stavolta aveva visto il personaggio su un palcoscenico nell’atto di entrare nella città di Roma ed era stato colpito dal suo “corpo ambrato e seminudo che usciva da un tappeto persiano”51. Il narratore stesso ci dice che questi desideri differiscono da quello di identificazione con i tranvieri e che la loro dissimiglianza soggiaceva fondamentalmente nella mancanza del forte anelito verso la tragicità. In entrambi i casi, sia Tenkatsu che Cleopatra, non ci troviamo di fronte a personaggi comuni come bottinai o tranvieri, bensì a figure esaltanti e mitiche come 47 48 49 50 51

Ivi, pp. 76-77. Ibid. Ibid. Paul McCarthy, Op. cit., p. 118. Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., p. 78.

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“la Grande Meretrice dell’Apocalisse”. Stavolta il desiderio si muove verso una brama di potere e un gusto decadente – il protagonista dice che le sue stesse speranze erano nutrite da Eliogabalo, imperatore di Roma – che, in modo del tutto opposto al desiderio precedente, trascendono la dimensione quotidiana. A cosa è legato, dunque, questo desiderio del protagonista? È del tutto sconnesso da quello precedente di identificazione nelle figure maschili, comuni, quotidiane? Ad un’analisi più attenta del primo desiderio possiamo rintracciare delle componenti che suggeriscono una sorta di legame intimo con il secondo. Interessanti a tale proposito ci sembrano le considerazioni di Okuno Takeo. Okuno mette in evidenza l’anormalità dell’oggetto della libido del protagonista, che si manifesta a cinque anni. E osserva che, vista la tradizione dell’omosessualità maschile in Giappone sin dal periodo medioevale, in cui spesso i giovanetti diventavano amanti di monaci e guerrieri, non sarebbe sembrato strano che il piccolo protagonista di debole costituzione fosse diventato poi il fragile amante di qualche ragazzotto più grosso e robusto. Invece il protagonista, nonostante la giovanissima età, accede alla modalità di funzionamento della libido oggettuale di Freud, con una forte componente sadica. E non solo, il suo sadismo, il desiderio di ferire e di sporcarsi di sangue, non si rivolge verso ragazzini più piccoli e inermi, ma verso giovani virili, possibilmente sporchi, rozzi e ignoranti. “Un desiderio non tanto adatto ad un bambino quanto a una donna matura”52. Ecco la felice intuizione di Okuno, “una donna matura”; ecco il legame con la seconda linea di desiderio. Il desiderio di dominio sadico sembra adattarsi perfettamente alle figure di Tenkatsu e Cleopatra. Come abbiamo detto in precedenza, in Confessioni di una maschera troviamo tutta una serie di elementi che trovano forte riscontro nelle biografie di Mishima. Centrale, come abbiamo visto, è la figura della nonna. Una donna di antica famiglia, orgogliosa della sua discendenza, che odiava e disprezzava il marito, il quale pare le avesse anche trasmesso una malattia venerea contratta in gioventù. Questa signora amava, invece, ciecamente il suo unico figlio e odiava la nuora che glielo aveva portato via. Così l’anziana signora aveva riversato ora tutto il suo amore sul nipote, dedicando a lui quasi tutta la sua esistenza. In conseguenza di questo amore morboso il piccolo Mishima diventa un vero e proprio cocco di nonna. Secondo Freud la forma della libido viene decisa normalmente dal complesso di Edipo nei confronti dei genitori, ma nel caso di Mishima, osserva

52

Okuno Takeo, Mishima Yukio densetsu, Tōkyō, Shinchōsha, 1993, p. 225.

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Okuno53, dobbiamo rintracciare una forma edipica particolare. È nell’amore cieco di questa nonna che potrebbero affondare le radici della particolare libido dello scrittore. Ci troviamo di fronte ad un irregolare complesso edipico. Questo irregolare complesso edipico viene variato da quello tradizionale padre-madre-figlio, dall’attitudine della nonna e del padre. La nonna amava ciecamente il suo unico figlio, e quando Mishima ha percepito ciò ha desiderato di diventare presto come suo padre e monopolizzare l’amore della nonna (come risultato il suo amore eterosessuale è stato limitato al desiderio di essere amato passivamente da donne materne). Da ciò Okuno, sottolineando lo stretto contatto dei primi dieci anni di vita di Mishima con la nonna, individua un altro forte desiderio: quello di diventare egli stesso la nonna. L’anima poetica di questa austera signora e il desiderio sessuale diventano indissolubilmente legati. Il travestimento di Tenkatsu e Cleopatra sono la chiara manifestazione del desiderio di diventare la nonna, di identificarsi con lo stesso “animo ostinato, inflessibile e follemente poetico”. E allora il piccolo protagonista di Confessioni di una maschera guarda gli uomini con gli occhi della nonna, li ama con il suo stesso cuore. I giovani che guarda sono i giovani che potrebbe aver desiderato la nonna e che sono la rappresentazione dell’amore impossibile e irrealizzabile per il proprio figlio. I bei giovani muscolosi non sono altro che la sostituzione della figura paterna amata dalla nonna. Ma nel passaggio di desiderio dalla nonna al nipote vediamo affiorare un’ulteriore componente, quella sadica. L’odio segreto nei confronti del padre-rivale viene fuori nelle immagini di tortura e sangue. Così il protagonista, e Mishima stesso, attraversano un doppio complicato edipo. Con un padre che diventa due volte rivale: la prima volta nell’infanzia in quanto amante virtuale della nonna, e la seconda volta nell’adolescenza, quando il protagonista, lo vedrà sposo leggittimo della tanto agognata madre. Così le due linee di desiderio convergono, almeno in un certo punto del loro tragitto. E cioè nel punto in cui l’attrazione per i giovani acquista una connotazione più spiccatamente sensuale e omosessuale, piuttosto che tragica e solipsistica. E in questo punto di convergenza, dal desiderio di identificazione con lo spirito energico della nonna, sublimato nei pomposi travestimenti femminili, scaturisce il desiderio di amare e ferire i bei giovani virili e forti. In sostanza il suo amore omosessuale era l’imitazione dell’amore tra la nonna e il padre. Ma, nota Okuno:

53

58.

Okuno Takeo, “Mishima Yukio ron – Nise narushishizumu no bungaku”, cit., p. 55-

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Il desiderio sessuale verso il proprio figlio è un amore da cui una madre non può aspettarsi di essere ricambiata; un amore che deve rimanere segreto in eterno. La realizzazione di questo amore entrerebbe in conflitto con l’atavico tabù dell’incesto madre-figlio, fermamente ostacolato dal super-Io. E nell’omosessualità di Mishima alberga proprio la tenebra di questo incesto54.

Una tenebra che avvolgerà molte sue opere successive, determinando la concezione dell’amore dello scrittore – un amore che se viene ricambiato fa paura e costringe alla fuga o a gesti drammatici –, e fissando i classici schemi distruttivi mishimiani della passione e della sessualità, dove emerge spesso una pulsione sadica e aggressiva verso oggetti di desiderio, che nella maggior parte dei casi non possono essere eticamente desiderati.

Il palanchino sacro Prima della chiusura del I capitolo del romanzo, ci viene narrato un altro importante ricordo. In un giorno di festa in cui i giovani del quartiere portano sulle spalle un pesantissimo palanchino sacro (omikoshi), il piccolo protagonista osserva dal cancello spalancato del giardino della sua casa la processione che si avvicina: Il rullo esitante dei tamburi si stava avvicinando. Le dolenti melodie dei canti dei vigili del fuoco, di cui a poco a poco si cominciavano a distinguere frammenti di parole, perforarono il brusio disordinato della festa, annunciando ciò che poteva definirsi il vero tema di quanto sembrava un inutile fracasso: la denuncia del volgare amplesso tra il genere umano e l’eternità, della tristezza di un amplesso che non poteva attuarsi se non attraverso una pia immoralità. Dal groviglio di rumori che accompagnava la processione distinsi ad un tratto il suono metallico degli anelli del bastone del sacerdote che apriva la processione, il rullio torbido dei tamburi e le grida di incitamento degli uomini che portavano a spalla il tempietto shintoista. Il cuore (da quella volta ogni forte aspettativa è sempre stata per me più un tormento che una gioia) mi batteva all’impazzata, respiravo a fatica, quasi non mi reggevo sulle gambe. Il sacerdote che impugnava il bastone aveva la faccia coperta dalla maschera di un volpe, e quando mi passò accanto gli occhi dorati del misterioso animale mi fissarono come per ammaliarmi. A un certo punto mi aggrappai al lembo del kimono del familiare che mi stava accanto; il corteo mi incuteva una gioia prossima al terrore, e se ne avessi avuto la possibilità sarei fuggito senza pensarci due volte. Da allora è stato 54

Ivi, p. 57.

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questo l’atteggiamento con cui mi sono posto nei confronti della vita; non posso fare a meno di scappare da quanto mi crea eccessive aspettative, da quanto a priori abbellisco fin troppo con l’immaginazione. Poco dopo passarono i funzionari che portavano in spalla una cassetta per le offerte su cui era stato teso un festone di corde di paglia e i bambini che, saltando da una parte all’altra della strada, trasportavano con noncuranza il tempietto a loro dedicato. Si avvicinò poi il palanchino sacro più grande e solenne, quello nero e dorato. La fenice dorata posta sulla sommità si muoveva in sintonia col frastuono sordo della folla; era come un uccello sorvolante onde fluttuanti, ed era bastato scorgere i lontananza il suo dondolio accecante per trasmetterci una sorta di ansia abbagliante. Solo l’area circostante il palanchino era stretta in una sgradevole condizione di bonaccia; l’aria ribolliva come ai tropici e sembrava oscillare indolente e ostile sulle nude spalle dei ragazzi. Il cielo della giornata estiva era senza nuvole, ma nel piccolo spazio dietro le porte serrate cosparse di polvere d’oro, oltre le funi rosse e bianche e la ringhiera dorata dipinta di nero c’era l’oscurità più totale, regnava sovrana una notte vuota e perfettamente quadrata che sobbalzava senza sosta in ogni direzione. Il palanchino arrivò di fronte a noi. I ragazzi indossavano degli yukata che lasciavano intravedere buona parte dei loro corpi; procedevano lentamente, muovendosi in maniera tale da far sembrare ubriaco il palanchino: non sembrava però che potessero mettere un piede in fallo né che potessero staccare gli occhi dalla strada. Un giovane con in mano un ventaglio incitava gli altri, correndo attorno al gruppo e sollevando grida acutissime. A tratti il palanchino si inclinava ma veniva subito raddrizzato con forsennate urla di incitamento. In apparenza il gruppo procedeva con la sua abituale lentezza, e non saprei dire se gli adulti della mia famiglia avessero o meno percepito la volontà di quei giovani di mettere in moto una qualche forza; fatto sta che all’improvviso la mano della persona a cui mi reggevo mi spinse indietro. “Allontanatevi!” gridò qualcuno. In seguito non capii più nulla. Condotto per mano rientrai di corsa in giardino, precipitandomi in casa dalla porta di servizio. Salii di corsa con qualcuno al primo piano, uscii sul balcone e rimasi a guardare col fiato sospeso il gruppo di ragazzi che irrompeva in giardino col palanchino nero. Non ho mai smesso di chiedermi quale forza li avesse spinti verso un impulso del genere, cosa avesse indotto decine di ragazzi a riversarsi di proposito oltre il cancello della nostra abitazione. Si divertirono a calpestare la siepe. Fu un vero e proprio inferno, e il giardino da me tanto detestato cambiò radicalmente aspetto. Il palanchino venne portato dappertutto e i cespugli furono prima spezzati e poi schiacciati. Era difficile rendersi conto di quanto stava accadendo. I rumori si neutralizzavano l’un nell’altro, sembrava quasi che un silenzio di ghiaccio e un frastuono privo di senso fossero venuti a trovarci. Anche i colori si agitavano con brio, erano esultanti: l’oro, il rosso porpora, il violetto, il verde, il giallo, il blu scuro e il bianco. A volte mi sembrava che l’oro e il rosso porpora prendessero il

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sopravvento, che tutto assumesse la stessa colorazione. Tuttavia i mei occhi furono rapiti dall’intensità di una sola cosa, una cosa che mi fece soffrire e mi colmò il cuore con un dolore immotivato: la sfrontata espressione estatica e lasciva dei ragazzi che portavano in spalla il palanchino55.

Questa esperienza toccherà zone molto profonde dell’animo dello scrittore, che più tardi, nel settembre del 1956 all’età di trentun’anni, parteciperà personalmente al trasporto del palanchino sacro. Mishima sin da piccolo aveva psicologicamente sofferto per la sua debole costituzione, e all’età di trent’anni aveva cominciato a praticare il body building. Ora, un anno dopo l’inizio del suo training fisico, la partecipazione al trasporto del palanchino sacro, al di là degli aspetti psicologici e spirituali più profondi, rappresentava anche una sorta di verifica dei suoi sforzi; pur se la foto che lo ritrae dopo l’esperienza ce lo mostra ancora gracile e con un torace misero, un’immagine ancora lontana dal corpo scultoreo dei suoi ultimi anni di vita. Mishima scriverà ancora del trasporto del palanchino nelle sue opere, nel novembre del 1956, subito dopo la sua personale esperienza, in un breve saggio intitolato Estasi (Tōsui ni tsuite), e dieci anni dopo, nel famoso saggio Sole e acciaio (Taiyō to tetsu). La descrizione di Confessioni di una maschera e di questi altri due saggi mostrano però una netta differenza: nel romanzo la scena è presentata come elemento simbolico e, aspetto fondamentale, come esperienza vissuta dall’”esterno”. Un’esperienza che provoca nel giovanissimo protagonista un’emozione misteriosa e violenta. Perché egli si trova per la prima volta di fronte a un’apoteosi collettiva dei sensi, di fronte a un febbricitante mondo dionisiaco. La descrizione di quest’episodio in Confessioni di una maschera non può non richiamare alla memoria La nascita della tragedia di Nietzsche. La tecnica descrittiva, l’uso dei termini e le immagini non sono altro che quello che Nietzsche definisce “stato dionisiaco” o “estasi dionisiaca”. “‘La mesta melodia dei canti” che fluisce attraverso il brusio del festival”, osserva Tasaka Kō, “è musica dionisiaca, e il ‘vero tema’ che quella musica annuncia è il tema dionisiaco, il tema tragico. I movimenti dei giovani che avanzano serpeggiando con il sacro tabernacolo sono descritti come ‘movimenti (che) facevano apparire il palanchino stesso vacillante per l’ubriachezza’ e rappresentano l’unificazione del palanchino e i giovani nell’estasi dionisiaca, in altre parole rappresentano la distruzione degli individui e la loro unificazione con l’esistenza fondamentale”56. 55 56

Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., pp. 85-87. Tasaka Kō, Op. cit., p. 44.

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“La distruzione degli individui e la loro unificazione con l’esistenza fondamentale”, dice Tasaka, ma questa è l’anticipazione di un’idea più tarda dello scrittore, un’idea che si farà largo in lui dopo l’esperienza diretta del trasporto del palanchino sacro, e che verrà ampiamente descritta nei due saggi prima citati. La partecipazione diretta al trasporto del palanchino calerà Mishima direttamente nell’estasi, e farà sì che il giovane protagonista di Confessioni di una maschera, sempre escluso dalle cose tragiche (e per questo morbosamente attirato da esse), venga integrato in quel mondo inizialmente simboleggiato e profetizzato dall’immagine del bottinaio. Ma ora, il piccolo protagonista, ancora ignaro delle sensazioni che un giorno proverà partecipando alla cerimonia del trasporto del palanchino, è solitario osservatore del mondo dionisiaco che scorre davanti ai suoi occhi. La tragedia collettiva è solo una flebile percezione che turba il suo animo infantile. Ma vi è un’altra percezione molto importante, che diventerà un nucleo fondamentale dell’estetica mishimiana, consolidandosi sempre più nelle opere successive e trovando piena realizzazione nella tetralogia finale Il mare della fertilità. Ritorniamo alla descrizione del palanchino sacro: Il cielo della giornata estiva era senza nuvole, ma nel piccolo spazio dietro le porte serrate cosparse di polvere d’oro, oltre le funi rosse e bianche e la ringhiera dorata dipinta di nero c’era l’oscurità più totale, regnava sovrana una notte vuota e perfettamente quadrata che sobbalzava senza sosta in ogni direzione.

Dietro le porte dorate del palanchino sacro è custodita “l’oscurità più totale”, “una notte vuota” che regna sul pieno giorno: il “nulla” che domina l’esistenza. Così l’essenza ultima del palanchino è il “vuoto”. Ciò che trasportano con tanto ardore i giovani indemoniati sotto il cielo azzurro senza una nuvola è il simbolo della “vanità”. Ed è difficile resistere alla tentazione di accostarlo per certi versi a quella vanità buddhistica che tutto domina e tutto rende vano sotto il suo manto nero. L’oscillazione del palanchino sembra scandire il ritmo inesorabile del trascorrere del tempo e suggerire agli uomini, come i colpi regolari della campana del tempio di Gion nell’apertura della Storia degli Heike (Heike monogatari), che “tutto è vanità ed evanescenza”. Ma il vuoto che il piccolo protagonista di Confessioni di una maschera percepisce, è solo una flebile anticipazione del grande “vuoto” delle opere finali, come Il mare della fertilità: un “vuoto” perfettamente nichilistico e vanificatore di ogni idea, di ogni assioma, di ogni umana certezza.

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La seduzione di San Sebastiano Nel secondo capitolo del romanzo il protagonista comincia a prendere coscienza della propria sessualità. Un giocattolo dalla forma bizzarra mi tolse la serenità per oltre un anno. Avevo tredici anni. Quando meno me lo aspettavo aumentava di volume, suggerendomi la piacevolezza che era in grado di trasmettermi se lo avessi usato nella giusta maniera57.

Così le fantasie di sangue e morte vengono intimamente legate al desiderio fisico, con il risveglio della sessualità del protagonista. Inutile dire che anche lui (il giocattolo) era attratto dalla morte, dal sangue e dai muscoli turgidi. Quando vedeva le scene intrise di sangue dei duelli riportati sui frontespizi delle riviste storiche prese di nascosto in prestito da un mio compagno di classe, i disegni di giovani guerrieri che si squarciavano il ventre, le raffigurazioni di soldati feriti che serravano i denti mentre con la mano gocciolante di sangue si comprimevano il petto e le fotografie di muscolosi lottatori di sumō, sollevava immediatamente la sua testa indagatrice58.

È durante questo periodo che il giovane protagonista farà la scoperta di un’immagine che ossessionerà lo scrittore per tutto l’arco della sua esistenza. Un giorno approfittai di un leggero raffreddore che mi aveva impedito di andare a scuola per portare in camera mia alcuni libri di arte che il papà aveva comprato come souvenir nel corso dei suoi viaggi in Europa. (...) Ne aprii uno verso la fine, e in un angolo di una pagina sulla sinistra apparve un ritratto che sembrava fosse lì per me, che mi stesse aspettando con ansia59.

Era la riproduzione del San Sebastiano di Guido Reni. L’immagine è descritta con minuziosa e appassionata attenzione: Sul tronco era legato un bellissimo giovane nudo, le braccia incrociate sopra la testa e la fune che gli stringeva i polsi avvolta al tronco. I nodi della fune non erano visibili e il suo corpo era coperto da una ruvida tela bianca panneggiata attorno ai fianchi. Perfino un ragazzo come me capiva che si trattava della rappresentazione 57 58 59

Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit. p. 88. Ivi, p. 88-89. Ivi, p. 90.

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di un martirio cristiano connotato da una forte atmosfera pagana, visto che a eseguirlo era stato un artista dell’eclettismo estetico post-rinascimentale. E infatti sul corpo muscoloso del martire – paragonabile a quello di Antinoo –, non c’era traccia della vecchiaia e dei patimenti dovuti all’opera di proselitismo come negli altri santi, ma solo giovinezza, luce, bellezza e piacere. La lucentezza di quel corpo incomparabilmente bianco si stagliava sullo sfondo del tramonto. Le braccia vigorose di soldato, abituate a brandire la spada e a tendere l’arco, erano sollevate in un’angolazione per nulla innaturale e i polsi legati erano incrociati poco sopra ai capelli. Gli occhi profondi e sereni del viso appena sollevato erano spalancati per contemplare la gloria dei celi e sul petto sporgente, sui muscoli tesi dell’addome e sui fianchi appena arcuati non aleggiava dolore ma sprazzi di un piacere languido e musicale. Senza le frecce piantate nell’ascella sinistra e nel fianco destro poteva sembrare un atleta romano che, per riprendersi dalla stanchezza, sul far della sera si fosse appoggiato all’albero di un giardino. Le frecce conficcate nelle sue membra tese, profumate e giovanili avevano iniziato a consumare l’interno del corpo con ineguagliabili fiamme di gioia e dolore, ma senza il sangue e la quantità di frecce delle altre raffigurazioni di san Sebastiano: solo due dardi gettavano sulla pelle marmorea ombre silenziose ed eleganti, simili a sagome di rami proiettate su una scalinata di pietra. Mi preme sottolineare che solo in seguito giunsi a formulare queste conclusioni e valutazioni. Nell’attimo in cui vidi il quadro la mia esistenza venne stravolta da una gioia pagana: il mio sangue iniziò a scorrere all’impazzata e i miei organi si tinsero del colore dell’ira. Quella parte enorme del mio corpo era sul punto di esplodere, aspettava con veemenza sconosciuta una mia azione, accusava la mia ignoranza, respirava indignata. Senza volerlo la mano iniziò un movimento che nessuno le aveva insegnato; avvertivo in me qualcosa di oscuro e scintillante salire con forza, e poco dopo questo qualcosa fuoriuscì con un senso di ebbrezza seducente. Mi voltai sconsolato verso la scrivania che avevo di fronte. L’acero al di là della finestra proiettava un riflesso luminoso sul calamaio, sui libri di scuola, sul dizionario, sulle fotoincisioni dei libri d’arte e sui quaderni. Degli spruzzi bianchi e impuri si trovavano sul titolo impresso a caratteri dorati di un libro di scuola, sul dorso del calamaio e in un angolo del dizionario; alcuni gocciolavano con aria malinconica e spenta, altri emanavano una luce offuscata come gli occhi di un pesce morto. Per fortuna con un gesto rapido della mano ero riuscito a evitare che il libro d’arte si sporcasse60.

È questa la prima eiaculazione del protagonista. E da questa descrizione si può facilmente immaginare quale forte impressione abbia dato questa raffigurazione a Mishima, che venticinque anni dopo poserà per un fotografo impersonando egli stesso San Sebastiano, vestito solo di un ruvido panno 60

Ivi, pp. 91-92.

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e con tre frecce confitte nei fianchi e nell’ascella. Non siamo di fronte ad un puro ornamento, all’evocazione di un’immagine greco-romana legata solo all’amore di Mishima per il classicismo occidentale. Siamo, dice Paul McCarthy, di fronte all’ “estetica e alla logica del corpo” con tutto il suo “forte gusto pagano”, la sua atmosfera di “luce, bellezza e piacere”61. Siamo di fronte al mondo del poeta alessandrino Kavafis, il cui poema Brame Mishima ammirava tanto e che comincia con i versi: Corpi belli di morti, che vecchiezza non colse: li chiusero, con lacrime, in mausolei preziosi, con gelsomini ai piedi e al capo rose62.

L’episodio della raffigurazione di San Sebastiano è la consacrazione dell’unione di Eros e Thanatos. Le immagini in precedenza descritte, come quella del principe della favola ripetutamente ucciso nei più svariati modi, è come se confluissero questa volta in un’immagine più netta, sacrale e, soprattutto, più estetica. La morte e l’eros si uniscono in un ambito eminentemente estetico che determina un ideale fondamentale dello scrittore: la bellezza della morte giovane. Una morte ancor più bella ed eroticamente fascinosa se pervasa da una sofferenza estrema. La tragicità provata verso le prime immagini del romanzo, come quella del bottinaio, raggiunge un culmine immaginativo che punta verso il martirio. Dice Noguchi Takehiko: Il protagonista osservando questa pittura, avverte “una sorta di gioia pagana” che scuote la sua intera esistenza, scopre in questa gioia l’intreccio “dell’impulso omosessuale e dell’impulso sadico” come una delle sue disposizioni naturali. Vi scopre l’autocoscienza di essere vittima, un’autocoscienza formatasi nell’infanzia, nel periodo in cui era un bambino debole e malaticcio, un’autocoscienza che è la fonte del “senso di distacco” dalla vita63.

Ed è proprio dietro quest’autocoscienza che è stato nutrito l’impulso verso il sangue. Così questa pittura appare esattamente come la rappresentazione dello stile di vita del protagonista. È come se essa risvegliasse il suo Io, ne concretizzasse l’esistenza. Ma come abbiamo evidenziato per la figura del bottinaio, l’identificazione con l’immagine di San Sebastiano sintetizza anche un altro desiderio: quello di essere sia carnefice che vittima. E che è 61 62 63

Paul McCarthy, Op. cit., p.119. Costantino Kavafis, Poesie, Milano, Mondadori, 1961. Noguchi Takehiko, Op. cit., pp.98-99.

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in sostanza un’anticipazione del modo con cui Mishima porrà fine alla sua esistenza: il seppuku; sintetizzando con esso proprio questo duplice desiderio, e aggiungendovi anche, rispetto ad un suicidio meno cruento e doloroso, la componente del martirio. Tuttavia è possibile individuare un’altra lettura di questa emblematica immagine. E in questo può essere utile ricordare che anche nella Morte a Venezia di Thomas Mann si fa riferimento all’immagine di San Sebastiano: Nel tipo nuovo d’eroe prediletto dall’autore, e ricorrente in una vasta gamma d’incarnazioni singole, un critico sottile aveva additato la concezione di “una virilità intellettuale e giovanile... che, in orgoglioso pudore, stringe i denti e non batte ciglio, mentre spade e lance le trafiggono il corpo”. Sintesi fine, intelligente, esatta, malgrado un’impronta in apparenza troppo passivistica. Giacché padronanza di sé nel destino, grazia nella sofferenza, non è solo patire; è atto, trionfo positivo; e la figura di San Sebastiano è il più bel simbolo, se non dell’arte in generale, certo dell’arte di cui andiamo ragionando64.

Anche nel caso di Thomas Mann è possibile interpretare il San Sebastiano come simbolo dell’efebofilia che trascinerà il protagonista del romanzo fino alla morte, per amore di un bellissimo adolescente conosciuto in terra straniera. Ma quello che appare più evidente dalla citazione che abbiamo scelto è il simbolo delle sofferenze che lo scrittore deve patire per l’arte. Il San Sebastiano di Thomas Mann appare piuttosto come il simbolo dello spirito di Aschenbach che alla fine del romanzo, gettando via ragione e buon senso, decide di restare a Venezia dove l’epidemia di sicuro non lo risparmierà, per il senso della sua missione di scrittore. Il San Sebastiano è il simbolo dell’immolazione della propria anima che ogni artista è destinato a compiere sin dalla nascita; il simbolo delle sofferenze dello scrittore che sceglie come tema la propria condizione esistenziale e la sacrifica sulla croce. Dopo le numerose immagini che hanno sollecitato la fantasia del protagonista, finalmente compare un oggetto del desiderio che non è né una piatta raffigurazione, né un essere anonimo. Ōmi, un compagno di classe le cui caratteristiche fisiche rispettano appieno tutti i canoni di bellezza e virilità che lo hanno ossessionato sino a quel momento. Doveva essere stato già bocciato un paio di volte, era di corporatura robusta e i suoi lineamenti erano circonfusi dei colori di una giovinezza privilegiata,

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Thomas Mann, La morte a Venezia, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1987, p. 40.

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di gran lunga superiore a quella di chiunque altro; la sua indole irragionevolmente sprezzante era sublime, a suo avviso non c’era nulla che non meritasse il suo sdegno e non poteva evitare di deridere e di guardare con occhi beffardi chiunque considerasse il primo della classe come il primo della classe, gli insegnanti come insegnanti, i poliziotti come poliziotti e gli impiegati come impiegati65.

Poi viene a sapere una particolare indiscrezione sul ragazzo, “...si dice che ce l’abbia molto grande”, gli aveva detto con una risatina lasciva un amico, e quelle parole alimentano in lui “riflessioni simili a sgradevoli erbacce infestanti”66. Poter osservare il corpo nudo del compagno diventa una vera e propria ossessione: Attesi con trepidazione l’arrivo dell’estate, o per lo meno dei suoi primi giorni. Ero certo che quella stagione avrebbe portato con sé l’opportunità di vederlo nudo. Nel mio profondo nutrivo comunque un desiderio ancora più infamante, la voglia di ammirare il suo grande coso67.

Ōmi è l’incarnazione dell’ideale di bellezza maschile del protagonista, e non solo, egli rappresenta un perfetto connubio tra esuberanza fisica e semplicità d’animo. Non ero certo il solo che guardava con occhi colmi di gelosia e amore i muscoli delle sue spalle e del suo petto che la divisa di serge blu non riusciva a nascondere. (...) Grazie a lui ho cominciato ad amare la forza, l’impressione del sangue straripante, l’ignoranza, i gesti bruschi, le parole sciatte e la malinconia selvaggia della carne non consumata dall’intelletto68.

La passione per Ōmi raggiunge toni così esasperati da sfiorare il feticismo. Durante i festeggiamenti e le cerimonie della Scuola dei pari, era di regola per gli allievi indossare i guanti bianchi. Il solo gesto di infilarli, così candidi, “con i bottoncini di madreperla luccicanti con mestizia sui polsini e tre nervature contemplative impunturate sul dorso”69, evocano nella mente dell’Io i giorni di cerimonia. E sono proprio questi guanti a diventare anche il simbolo della violenta passione per Ōmi.

65 66 67 68 69

Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., pp. 97-98. Ivi, pp. 98-99. Ivi, p. 106. Ivi, pp. 107-108. Ivi, p. 109.

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In inverno, durante una festività nazionale, nel giardino della scuola gli allievi stanno trascorrendo le ore di ricreazione, divertendosi con una trave d’equilibrio. I ragazzi litigano scherzosamente per contendersi il diritto di salire sull’attrezzo. Ad un certo punto Ōmi si piazza sulla trave, ben determinato a non scendervi, guardandosi intorno con aria minacciosa alla ricerca di qualche temerario pronto a sfidarlo. Al giovane protagonista sembra un assassino braccato pronto a vender cara la pelle. “I miei occhi non persero mai di vista quelle mani fasciate da guanti bianchi che si muovevano impavide e con singolare precisione come le zampe di un lupo o di una giovane fiera”70. Quindi con il cuore che gli palpita all’impazzata, il protagonista decide di essere lui il temerario pronto a sfidarlo e sale, non senza difficoltà, su un’estremità dell’attrezzo. Nella vertigine stavano combattendo per la supremazia due forze distinte: quella di autodifesa e quella tesa a far crollare il mio equilibrio interno in maniera profonda ed eroica, l’impulso sottile e segreto al suicidio cui spesso gli uomini si affidano senza averne coscienza71.

I due ragazzi prendono a lottare. Le loro mani coperte dai bianchi guanti si scontrano ripetutamente fino a che non cadono entrambi dalla trave. Nel corso della lotta una sola volta i loro occhi si incontrano, e in quel momento il protagonista ha la certezza che Ōmi ha scoperto il suo amore segreto. In seguito, durante una cerimonia scolastica, i due ragazzi siedono vicini, e più volte lo sguardo dell’Io si sposta dalle macchie dei suoi guanti bianchi a quelle dei guanti di Ōmi, testimonianza del loro violento idillio sulla trave del giardino. Tuttavia presto il protagonista sentirà che il suo platonico amore è giunto al termine, e prova quasi un senso di piacere nel pensare che quell’amore ha avuto così breve vita. Il distacco definitivo avviene dopo un ultimo episodio di esaltazione della forza e dell’avvenenza di Ōmi. L’Io, a causa della salute cagionevole era esonerato dal corso di ginnastica tenuto nella palestra all’aperto, partecipava così a quelle esercitazioni solo come spettatore. Il campione del corso era ovviamente Ōmi, chiamato sempre dall’insegnante di educazione fisica per mostrare agli altri come si eseguissero in modo impeccabile gli esercizi. Una volta Ōmi fu invitato dall’istruttore a mostrare come si dovessero fare le trazioni alla sbarra fissa. Per il troppo caldo, il giovane si tolse la camicia e rimase in canottiera, mettendo in 70 71

Ivi, p. 110. Ibid.

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mostra delle braccia robuste e muscolose sulle quali, riflette l’Io, sarebbero stati a meraviglia dei tatuaggi di ancore. Il muscoloso giovane con un balzo si afferra alla sbarra e compie una serie di volteggi tra le esclamazioni ammirate degli allievi della scuola. Ciò che stavolta colpisce in particolare il protagonista è il rigoglio dei peli sotto le ascelle del giovane. Un effluvio di peli simili a fastidiosi e inutili ciuffi di erba fuoriusciva dalle cavità delle ascelle di Ōmi per convergere verso l’estremità del petto: erano come le erbacce che in estate, non soddisfatte di aver invaso i giardini, si appropriano delle scalinate di pietra72.

Interessante è l’identificazione delle parti fisiche di Ōmi con gli elementi della natura. I peli delle ascelle sono una lussureggiante vegetazione estiva e, nello stesso episodio, viene anche detto: “I muscoli delle spalle si espansero come nuvole estive”73. Il corpo di Ōmi è descritto come un paesaggio e, per contro, spesso i paesaggi vengono descritti come se fossero corpi, come quando scrive che: “I muscoli delle nuvole erano diafani come alabastro”74. Lo stesso Mishima aveva affermato nel saggio Il mio metodo creativo (Waga sōsaku hōhō): “Nel paesaggio c’è qualcosa di simile a un corpo silenzioso, qualcosa che rifiuta ostinatamente ogni possibile astrazione75. E ancora, in una postfazione al breve racconto La vacanza del vulcano (Kazan no kyūka), scrive: “I bei paesaggi provocano in me una forte sensualità”76. Questa identificazione paesaggio corpo non è nuova nella letteratura giapponese, basti pensare a descrizioni come l’apertura del romanzo Il paese delle nevi (Yukiguni) di Kawabata, dove abbiamo il massimo momento di esaltazione estetica nella sovrapposizione, sul vetro del finestrino del treno, del paesaggio innevato con le prime luci della notte e il volto della bella sconosciuta che viaggia nello stesso treno del protagonista. Ma, mentre nell’episodio di Kawabata abbiamo un’identificazione caratterizzata da una sublimazione apollinea dei sensi, nel caso di Mishima riscontriamo, ancora una volta, una violenta sensualità dionisiaca. Invece del silenzioso paesaggio notturno invernale del paese delle nevi, che si sovrappone al viso di una pura vergine, viene descritto un elemento esplicitamente sessuale come i peli delle ascelle, paragonati a una lussureggiante vegetazione estiva carica di energia. Metafora evidente dell’esuberanza incontenibile di Ōmi, della forza vitale 72 73 74 75 76

Ivi, p. 117. Ibid. Ivi, p. 122. Mishima Yukio, Waga sōsaku hōhō, in MYZ, vol. 31, p. 155. Cit. in Tasaka Kō, Op. cit., p. 65.

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che “si era introdotta nel suo corpo col preciso intento di impossessarsene, di lacerarlo, di abbandonarlo e di eclissarlo”77. L’Io pensando a quello che possono provare anche i suoi compagni, a quella vista si sente consumare di gelosia. Non era più innamorato di Ōmi, ripete dentro di sé, ma la visione del giovane alla sbarra aveva esercitato su di lui un’impressione molto intensa. Quelle ascelle villose diventano per lui l’immagine erotica per eccellenza. E da quel momento in poi, ogni volta che fa il bagno si guarda a lungo allo specchio, osservando con attenzione il suo torace minuto, le spalle ossute, bramando di avere un giorno un corpo come quello di Ōmi, con le ascelle ricoperte di peli rigogliosi. Abbiamo detto che Ōmi rappresenta per il protagonista il primo oggetto di desiderio che non è né una piatta raffigurazione, né un essere anonimo. Ma se riflettiamo con più attenzione, il rapporto tra l’Io e l’avvenente compagno di classe è un rapporto abbastanza superficiale, legato – come d’altronde tutti i rapporti con gli uomini del romanzo – più all’ “immagine” che alla “persona”. Ōmi ci è presentato come l’amore incontrato per la prima volta nella vita, ma lo scrittore, invece di descrivercene la personalità, privilegia la descrizione della coscienza e dei sentimenti dell’Io nei suoi confronti. Più che ad un rapporto con la “persona”, ci troviamo di fronte ad un rapporto con l’erotismo stesso. Erotismo che di volta in volta viene identificato con personaggi maschili dalle caratteristiche simili, ma che sembrano non riuscire a collocarsi nell’anima del protagonista come entità umane o spirituali. Ciò che caratterizza il rapporto tra l’Io e questi uomini è la distanza, la staticità, l’atemporalità. Gli uomini verso cui l’Io si sente attratto sono immagini superficiali, statiche e immobili che egli può dominare. Basti ricordare la descrizione dell’immagine del San Sebastiano, legato nudo al tronco di un albero con le braccia tirate in alto e le cinghie, che gli stringevano i polsi incrociati, fermate all’albero stesso. Interessanti a questo proposito ci sembrano le osservazioni di Satō Hideaki: L’immagine del santo con le due braccia alzate si sovrappone all’immagine di Ōmi che fa le trazioni alla sbarra, e anche la posizione dell’Io che si masturba sulla spiaggia non è altro che una variazione delle precedenti due immagini. Ōmi appeso alla sbarra, è come se fosse legato ad essa, e anche l’Io sulla spiaggia è legato da una corda invisibile78. Se facciamo distendere il corpo legato di San Sebastiano si trasforma in quel compagno di classe che 77

Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., p. 117. E inoltre nel momento della masturbazione l’Io stesso si trasforma in immagine. Di questo episodio comunque si parlerà più dettagliatamente in seguito. 78

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nella fantasia dell’Io viene spogliato, posto su un grande piatto e legato con una corda sottile79. Nelle sadistiche fantasie dell’Io compare uno strumento di tortura composto da binari alla cui estremità c’è una tavola per fissare il torturato e all’altra una spessa tavola da cui spuntano una quindicina di lame che formano una sagoma umana. Quest’ultima tavola cala sul torturato scivolando sui binari; anche qui la vittima è immobilizzata. Sono tutti corpi privi di movimento80.

Anche nel caso dello svuotatore di pozzi neri, il giovane porta a spalla una canna alla cui estremità vi sono due contenitori di escrementi, e il giovane è impedito da questa canna nei movimenti proprio come San Sebastiano e Ōmi, e inoltre notiamo che, seppur in movimento, mentre scende giù per la discesa egli non va incontro al protagonista. E ancora, i soldati che passano davanti al cancello della sua casa, al ritorno dalle esercitazioni, portano a spalla il fucile che li costringe in una determinata posizione e marciano in una direzione che non è quella del protagonista. Anche i giovani che trasportano il palanchino non fanno eccezione, anch’essi sono “legati” alle assi del palanchino, e quando si precipitano nel giardino della sua casa l’Io li guarda dal secondo piano: come per le precedenti immagini, fra loro e l’Io non c’è movimento. L’interesse dell’Io si rivolge verso coloro che si trovano in uno stato di immobilità o di difficoltà motoria, come se costoro dietro la loro immobilità manifestassero il “legame” indissolubile con qualcosa a cui hanno consacrato la loro esistenza. Essi sono definiti dall’Io “tragici”, una “tragicità” che nasce proprio dalla “dedizione” a qualcosa. “L’emozione estatica dell’Io esplode proprio perché essi letteralmente ‘dedicano’ a qualcosa il loro corpo”81. Il rapporto con Ōmi rappresenta una leggera eccezione a questo cliché. La “distanza” che sembra essere la conditio sine qua non di ogni rapporto dell’Io con i personaggi maschili, viene temporaneamente violata. I due lottano sulla trave d’equilibrio, i loro sguardi e le loro dita si intrecciano. Ōmi pulisce il fango dai vestiti dell’Io, e i due prendono a camminare a braccetto, e così, sotto braccio, con questo innegabile contatto fisico, il protagonista avrebbe voluto “procedere a quel modo fino in cima al mondo!”82. “È simbolico”, nota Satō, “che mentre San Sebastiano è legato ad un grande albero, i due 79

Non si tratta di Ōmi, ma di un altro compagno di classe verso cui prova attrazione. Anche di questo episodio si parlerà in seguito. 80 Satō Hideaki, “Kamen no kokuhaku – Shintai no ikonoroji”, Kokubungaku, luglio, 1986, pp. 50-51. 81 Ichikawa Hiroshi, ‘Mi’ no kōzō - Shintai ron wo koete, Seidosha, 1984, cit. in Ibid. 82 Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., p. 113.

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nel romanzo cadono da un tronco. Passiamo dalla costrizione al grande albero al distacco da esso”83. Ma tutto ciò, in sostanza, è un contatto apparente, che non trova riscontro sul piano psicologico. Il protagonista ha forse cercato di rompere l’eterna distanza dagli uomini che lo attraggono, ma in fin dei conti anche il rapporto con Ōmi non va oltre l’episodio descritto. E l’Io è pienamente cosciente di ciò nel momento in cui afferma: Il mio era un amore senza continuità e progressione, ammesso che un sentimento del genere possa esistere. Gli occhi con cui lo guardavo erano sempre quelli del primo sguardo, dello sguardo primigenio, se posso così esprimermi.84.

In definitiva anche Ōmi, al pari del San Sebastiano, non è altro che una perfetta illusione, un’immagine bidimensionale e astratta legata all’universo delle idee. E l’identificazione tra Ōmi e San Sebastiano sarà espressa in modo estremamente esplicito quando, nella fantasia del protagonista, il giovane viene fatto oggetto di sacrificio umano, incatenato ad un albero con le mani legate sulla testa e con una freccia che gli trafigge il costato e una l’ascella. Ma interessante è notare che l’Io in precedenza aveva sognato davanti allo specchio, guardando il suo torace minuto e le spalle ossute, di diventare come Ōmi. E poco prima di masturbarsi nel mare – la seconda masturbazione che ci viene descritta dopo quella davanti alla figura del San Sebastiano – egli riflette: Da quando ero rimasto stregato dal dipinto di san Sebastiano non potevo fare a meno di incrociare le mani sulla testa quando rimanevo senza vestiti. Il mio corpo gracile non aveva nulla della bellezza rigogliosa di Sebastiano, ma anche in quell’occasione finii per assumere la sua posizione. Non appena il mio sguardo si diresse verso le ascelle, eruppe subito in me il desiderio sessuale. Anche se non paragonabili a quelli di Ōmi, con l’arrivo dell’estate dei cespugli neri erano spuntati sotto le mie ascelle. Ecco cosa mi accomunava a lui85.

Il cerchio delle immagini è così abilmente chiuso, il protagonista stesso, trasformato in immagine, si sovrappone alle altre due immagini del suo desiderio, si tramuta in quelle immagini, diventa l’oggetto stesso del suo desiderio. Ancora una volta l’amore narcisistico verso se stesso, di cui abbia83 84 85

Satō Hideaki, “Kamen no kokuhaku – Shintai no ikonoroji”, cit., p. 52. Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., p. 113. Ivi, p. 124.

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mo parlato a proposito dell’identificazione con le prime immagini maschili dell’infanzia, ritorna con energia e non lascia spazio ai sentimenti, all’amore per gli “altri”. Il rapporto con questi uomini-immagine non prevede durata nel tempo, non prevede alcuna progettualità. Anzi si sforza di evitare qualsiasi disegno quotidiano, qualsiasi senso di continuità; inseguendo, invece, un’ebbrezza estatica frutto della volontà di perdersi totalmente in un flusso interminabile di sensualità. Perdersi in una realtà sempre rinnovata che gli dà la vaga e illusoria sensazione di sfuggire allo scorrere del tempo.

La seduzione del mare Abbiamo più volte parlato dell’artificiosità e della costruzione meticolosa dei primi lavori di Mishima, e del grande sforzo che lo scrittore fa nel dopoguerra per ricercare una letteratura più istintiva e legata alla sua natura, una letteratura dove riverberi un’emozione viva. Dobbiamo però notare che anche nei primi racconti, affettati e costruiti come La foresta in fiore, vi è una parte che pulsa di un’insolita freschezza emotiva, la parte riguardante il mare. Sembra che il mare abbia sedotto subito il giovane scrittore, e abbia contribuito a trascinarlo con estrema violenza nella corrente del romanticismo. Il mare per Mishima è il simbolo della potenza del destino, il simbolo della vita e della morte, dell’inconscio insondabile, la fonte della sua più profonda ispirazione poetica. Così quando i personaggi bidimensionali della Foresta in fiore, come le fragili dame di corte dell’epoca Heian, si trovano davanti a questo simbolo potente, esse, insieme al giovane scrittore, ne sono affascinate e terrorizzate allo stesso tempo. E le loro anime vibrano di un’energia che sfugge ad ogni controllo tecnico-letterario e irradia l’opera dell’intensa luce della vita. Il mare è un elemento che continuerà ad ossessionare Mishima per tutto il resto della sua vita, un elemento che comparirà in quasi tutti i suoi lavori più importanti, fino ad assumere dimensioni protagonistiche in lavori come Morte di mezza estate (Manatsu no shi) e la tetralogia Il mare della fertilità. Ecco come è presentato il mare in Confessioni di una maschera: Il sole estivo del primo pomeriggio si rifrangeva senza sosta sulla superficie immobile del mare e l’intera baia era una gigantesca vertigine. Al largo le nuvole estive immote e silenziose immergevano in acqua per metà le loro sagome imponenti, tristi e profetiche: i loro muscoli erano diafani come l’alabastro. Eccezion fatta per gli equipaggi di un paio di yacht salpati dalla spiaggia, una piccola imbarcazione e vari pescherecci che si muovevano esitanti in alto

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mare, non c’era traccia di esseri umani. Un silenzio rarefatto sovrastava ogni cosa e la brezza marina, come se volesse rivelarmi piccoli segreti seducenti, portava alle mie orecchie l’invisibile battito d’ali di insetti giocondi. Mi trovavo in un punto della scogliera costituito da rocce piatte e remissive inclinate verso il mare; non c’erano che due o tre formazioni rocciose spigolose come quella su cui ero seduto. Le onde, dopo essersi formate al largo, scivolavano sulla superficie marina come verdi rigonfiamenti instabili. Alcuni scogli appena sporgenti dall’acqua le affrontavano sollevando alti schizzi simili a mani bianche tese a chiedere aiuto; quando però si inabissavano nella floridezza dei flutti, le rocce davano l’impressione di attendere gavitelli liberi da ormeggi. I rigonfiamenti le superavano in un attimo, per procedere poi con la stessa velocità verso la battigia. Subito dopo dal centro di questi copricapi verdi qualcosa spalancava gli occhi e si ergeva. Nel sollevarsi, le onde mostravano il lato affilato della lama della gigantesca scure marina che si abbatteva sul bagnasciuga. Nell’attimo in cui la ghigliottina blu si frangeva sollevando schizzi di sangue bianco, la massa d’acqua borbottante alle spalle della cresta dell’onda rifletteva il blu ultraterreno del cielo purissimo riflesso nelle pupille di uomini agonizzanti. Durante l’attacco delle onde, le rocce piatte e levigate che il mare aveva svelato si nascondevano nella schiuma bianca, per poi tornare a brillare quando i flutti si ritiravano. Dall’alto della roccia su cui mi trovavo vedevo i paguri perdere l’equilibrio e i granchi immobilizzarsi sotto la luce accecante del sole86.

Poi il protagonista si perde in una serie di fantasie sensuali che gli richiamano alla mente, come abbiamo già visto in precedenza, il suo compagno Ōmi, l’immagine del San Sebastiano, la sua immagine stessa sovrapposta a queste altre. Ma la voluttà di questi pensieri non gli fa dimenticare la presenza devastante della natura in cui è immerso, del mare potente che lo circonda. Anzi, essi non fanno che accrescere il suo senso di ebbrezza, fino a fargli decidere di unirsi sessualmente a quello scenario dionisiaco che sembra volerlo divorare: La brezza che in quel momento mi solleticava le narici, i raggi violenti del sole estivo sulle mie spalle e sul mio petto e l’isolamento del luogo mi spinsero ad abbandonarmi per la prima volta alla cattiva abitudine sotto il cielo azzurro, e lo feci concentrandomi sulle ascelle. Venni scosso da un’esplicabile tristezza, la solitudine bruciava come il sole. I pantaloncini blu di lana aderivano sgradevolmente alla pancia. Con calma scesi dallo scoglio e immersi i piedi nell’acqua della battigia. Il ritorno dell’onda rese i miei piedi simili a conchiglie bianche senza vita, mostrando con chiarezza attraverso i cerchi tremolanti dell’acqua i gusci incastonati 86

Ivi, pp. 122-123.

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sul fondo del mare. Mi inginocchiai in acqua, e un’onda sul punto di frangersi si avvicinò gridando con violenza, spezzandosi contro il mio petto e avvolgendomi coi suoi schizzi. Quando si ritirò, le mie impurità erano state lavate via. Arretrando, l’onda avvolse e trascinò verso il mare non solo i miei innumerevoli spermatozoi ma anche gli infiniti microrganismi, le numerose alghe, le innumerevoli uova di pesce e le molteplici forme di vita presenti al suo interno87.

Il mare con grande energia descrittiva è presentato con tutta la sua potente carica simbolica. Esso scuote i meandri oscuri dell’anima del protagonista e ne stana gli istinti atavici, le pulsioni vitali primordiali fino a concretizzarle in un impulsivo atto sessuale. Anche se questo atto è accompagnato da “un’inesplicabile tristezza”, da una “solitudine (che) bruciava come il sole”. Ancora una volta il desiderio sessuale, come nei casi precedenti, si trasforma in autodistruzione. Come ha notato Noguchi Takehiko: “ ‘La cattiva abitudine’ stimolata dal mare e appagata sotto il cielo azzurro, e l’‘inesplicabile tristezza’ e ‘la solitudine’ successive all’eiaculazione, come una luce violenta che si collega all’oscurità della ‘vertigine’, in un punto indefinito e lontano si incrociano inevitabilmente con l’idea della morte”88. Ed è indubitabile che qui il mare più che mai si presenti come ambasciatore di morte, con le sue onde che “mostravano il lato affilato della lama della gigantesca scure marina”, che si precipitano sul protagonista e quasi lo seppeliscono sotto le loro creste turbinose, assalendo e disperdendo le miriadi di spermatozoi, annichilendo tutta la sua pulsante energia vitale. Mentre il giovane protagonista di Confessioni di una maschera cresce, all’orizzonte si delinea sempre più netto lo spettro minaccioso della guerra. E il desiderio di morte, il dolce desiderio di perire su un campo di battaglia, che aleggiava sovente nelle sue fantasie infantili, diventa una possibilità sempre più concreta. Ma la realtà della guerra, invece di risvegliare l’Io dal suo mondo onirico, lo cala ulteriormente in un’atmosfera irreale e rarefatta. Perché ogni giorno è come una vita a sé stante, senza alcun legame con il futuro, e per questo specialissimo nella sua fugacità. Fu in quegli anni che iniziai a bere e a fumare, o per meglio dire a fingere di bere e di fumare. Oltre a insegnarci una maniera stranamente sentimentale di crescere, la guerra ci convinse che le nostre vite sarebbero state stroncate

87 88

Ivi, p.124-125. Noguchi Takehiko, Op. cit., p. 111.

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prima dei vent’anni89. Il futuro era inimmaginabile. Per quanto strano possa sembrare, la vita ci appariva senza peso. Il grado di salinità del mare interno della vita da cui eravamo stati separati fino agli anni dell’adolescenza era diventato così elevato da permettere ai nostri corpi di galleggiare senza sforzo90.

Condizione in cui l’Io si sente pienamente a suo agio, “una parentesi di insuperata felicità”91. Ero convinto che mi sarei messo in cammino l’indomani, ma l’inizio del viaggio slittava giorno dopo giorno, e per anni non ci fu nulla che ne lasciasse presagire l’inizio. (...) L’insicurezza era sempre lì, ma meno evidente, e nutrivo ancora la speranza che dall’indomani sarei per sempre stato sotto ignoti cieli azzurri. Visioni di viaggi, fantasie di avventure, l’immagine dell’uomo in cui mi sarei prima o poi trasformato e quello della bella sposa non ancora incontrata, aspettative di fama...92

La guerra è per il giovane protagonista qualcosa di totalmente astratto e lontano, che viene osservato con distacco e ingenua ammirazione: In quel periodo perfino la guerra era fonte di estasi infantile, e neppure la smodata illusione che non avrei avvertito dolore qualora una pallottola mi avesse colpito mostrò segni di debolezza; la possibilità di morire mi faceva addirittura vibrare di una gioia sconosciuta. Mi sembrava di possedere ogni cosa, e molto probabilmente era vero93.

La guerra non può non scuotere il cuore di un giovane che ha trascorso la sua infanzia ammaliato dal fascino della morte. E la morte legata alla guerra acquista quelle connotazioni particolari di eroismo e bellezza che diventeranno uno degli ultimi stadi evolutivi dell’estetica mishimiana. E ancora, la guerra appare agli occhi del protagonista come l’inevitabile conclusione di un’epoca legata ai valori estetici e romantici di cui si era nutrito sino a quel momento; una conclusione che chiude meravigliosamente il 89

Si noti come per lo scrittore, sin da quest’opera iniziale, l’età di vent’anni sia considerata un’età fatale. Anche nel caso di Ōmi viene preconizzata una morte a vent’anni, e molti anni più tardi, nella tetralogia Il mare della fertilità, tutte le reincarnazioni “autentiche” periranno all’età di vent’anni. 90 Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., p. 144. 91 Ibid. 92 Ivi, p. 144-145. 93 Ibid.

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passato e il futuro nell’attimo presente. La guerra opera per lui una grande catarsi, perché con la morte realizza una purificazione degli esseri umani, in particolare degli esseri umani giovani e pieni di vita, sottraendoli al declino inevitabile dell’esistenza. L’Io di Confessioni di una maschera sente che la morte può salvarlo da una detestabile decadenza e conservarlo per sempre nell’eden di un’infanzia dorata. Ma i brividi di voluttà al pensiero della morte, il dolce desiderio di un’eroica morte in guerra sono sentimenti così radicati nell’animo del protagonista? In molte parti del romanzo a tale proposito vengono fuori emozioni molto contraddittorie: “I bombardamenti aerei mi terrorizzavano, tuttavia non potevo evitare di nutrire soavi aspettative nei confronti della morte”94. E ancora il protagonista riflette con cinismo e autocritica: ...e se per caso una morte gloriosa in battaglia (una fine per me alquanto inadatta) avesse ironicamente chiuso la mia esistenza, non avrei più smesso di sogghignare dalla tomba, anche perché quando suonavano le sirene io ero quello che si precipitava nei rifugi antiaerei prima di chiunque altro95.

Quindi, se da un lato l’Io abbraccia il credo della morte enfatizzato negli anni della guerra e alimentato ulteriormente dalle sue fantasie romantiche, d’altro canto il lato umano, custode della più leggittima paura, non mancava di far sentire la sua voce. Osserva Noguchi Takehiko: L’esperienza della guerra di Mishima è composta da due parti vocali. La parte del soprano che canta: “Pur sapendo di dover morire”, e il basso che risponde “non voglio morire”. (...) Le parole “pur sapendo di dover morire” dipingono Mishima come “l’ultimo imperatore della decadenza” o come “un pilota suicida della bellezza”. Esse sono la voce del soprano metafisico in cui risuona il senso della fine dell’epoca e il presentimento personale della morte. Ma al tempo stesso la voce del basso ripete ostinatamente “non voglio morire” accompagnata dagli archi pragmatici della concretezza96.

Poi finalmente la tanto attesa e temuta chiamata alle armi. Ed ecco che la trasposizione letteraria ricalca fedelmente la vita dell’autore. Su suggerimento del padre il protagonista si era sottoposto alla visita medica nella regione di Kinki, dove la sua famiglia aveva la sede anagrafica. Nelle grandi città, aveva pensato il padre, i ragazzi di debole costituzione come il figlio non erano un’eccezione, mentre in un reparto di provincia, in mezzo a 94 95 96

Ivi, p. 151. Ibid. Noguchi Takehiko, Op. cit., pp. 113-114.

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robusti contadinotti, il suo aspetto gracile e la salute cagionevole sarebbero subito stati notati dandogli maggiori probabilità di essere riformato. Ma le cose non andarono così. Ricevetti la cartolina precetto alle undici di sera di un giorno festivo in cui casualmente mi trovavo a casa dei miei. (...) Non solo avevo suscitato l’ilarità della commissione medica non riuscendo a sollevare fino al petto il sacco di riso che i giovani contadini alzano anche dieci volte senza il minimo sforzo, ma ero anche stato dichiarato abile con un B, e ora la cartolina precetto mi ingiungeva di unirmi a un rude reggimento di provincia. La mamma scoppiò in un pianto dirotto e mio padre cadde in un profondo sconforto. Ovviamente l’arrivo della cartolina non entusiasmò neppure me, ma non rimasi neppure turbato più di tanto, visto che speravo di potermi dirigere verso una morte spettacolare97.

Ma il conflitto interiore dell’Io non cessa. L’oscillazione tra il richiamo eroico e romantico verso la morte e il naturale desiderio di vivere continuano ad affiorare alternativamente nella sua anima. Ed è forse proprio questo conflitto, questa insolvibile contraddizione, insieme ad un insperato colpo di fortuna, a salvare il protagonista – e, come abbiamo visto in precedenza, Mishima stesso – da una morte certa. Nel treno i sintomi dell’influenza contratta in fabbrica peggiorarono, e quando arrivai nella casa di amici di famiglia nel villaggio dove, dopo la bancarotta del nonno, non possedevamo più neppure una zolla di terra, per la gran febbre non riuscivo a reggermi sulle gambe. Tuttavia grazie alla loro calorosa assistenza e all’efficacia delle medicine assunte in grande quantità, accompagnato da questi conoscenti varcai baldanzoso il cancello d’ingresso della caserma. La febbre tenuta fino a quel momento sotto controllo dalle medicine tornò ben presto a infiammarmi la testa. Mentre giravo in tondo come una bestia feroce, nudo, in attesa della visita medica, feci diversi starnuti. Il medico giovane e inesperto scambiò l’affanno bronchiale per un’infiammazione di Rassel, e poiché confermò la diagnosi nel referto medico, venni sottoposto a un esame per la misurazione della velocità di eritrosedimentazione. La febbre alta falsò i valori dell’esame, mi venne diagnosticata un’iniziale infiammazione polmonare e mi fu ordinato di tornare a casa il giorno stesso. Lasciata la caserma iniziai a correre lungo il gelido e desolato pendio che conduceva al villaggio. Come nella fabbrica di aerei, le mie gambe correvano verso qualcosa che non era la morte, verso qualcosa che non aveva nulla a che fare con la morte98.

97 98

Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., pp. 156-157. Ibid.

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Nel treno di ritorno a Tōkyō, tormentato da brividi di febbre e dall’emicrania, egli riflette su quanto accaduto e sul suo futuro: Mi chiesi dove stessi tornando: nella casa di Tōkyō dove la mia famiglia continuava a vivere nella paura e nell’inquietudine per colpa dell’incapacità di mio padre di prendere decisioni, nella grande città colma di oscure incertezze che l’avvolgeva, nella massa di uomini e donne che si rassicuravano guardandosi con occhi da animali in gabbia o al dormitorio della fabbrica di aerei gremito da passivi studenti universitari afflitti da malattie polmonari? (...) quello cui aspiravo era un suicidio in qualche modo naturale; speravo di morire come una volpe ancora non sufficientemente astuta che, camminando spensierata in montagna, viene uccisa da un cacciatore per la sua ingenuità. L’esercito non era forse la soluzione ideale? Sarà stato per questo che avevo così desiderato arruolarmi? Perché allora avevo mentito con tanta insistenza all’ufficiale medico? Perché gli avevo detto che erano sei mesi che avevo qualche linea di febbre, che i muscoli delle spalle erano ormai costantemente induriti, che espettoravo sangue e che anche la notte precedente mi ero letteralmente ricoperto di sudore nel sonno (più che naturale visto che avevo preso l’aspirina)? Perché quando mi avevano informato che dovevo tornare a casa mi era costata tanta fatica reprimere il sorriso che premeva contro le guance? Perché nel momento in cui mi ero lasciato alle spalle il cancello della caserma avevo iniziato a correre a quel modo? Non avevo forse tradito i miei desideri? Perché non mi ero incamminato trascinando i piedi a testa china? La consapevolezza di non intravedere obiettivi per cui valesse la pena di sottrarsi alla morte rappresentata dall’esercito non mi permise di comprendere la fonte della forza che mi aveva indotto a correre in quel modo appena uscito dalla caserma. Desideravo forse vivere? Volevo forse una vita fatta di momenti simili a quelli in cui mi precipitavo d’istinto e col fiato grosso verso i rifugi antiaerei?99

Come ha notato John Nathan, “Il ‘naturale, spontaneo suicidio’ che il narratore (e Mishima) desiderano, la meravigliosa morte collocata in un’armonia prestabilita, è una morte della fantasia. Ma l’esercito imperiale era una inconfutabile realtà, e la morte come soldato era quindi una morte in realtà violenta e volgare, incontestabilmente mediocre: disgustosa e terrificante”100. Si delineano così nella mente del protagonista due “morti”, una “morte ideale”, la morte “tragica” sognata da sempre come suprema realizzazione estetica; e una “morte reale”, la morte “quotidiana” legata alle comuni vicende umane, una morte che lo avrebbe colto insieme alla massa di altri 99 100

Ivi, pp.158-159. John Nathan, Op. cit., p.56.

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giovani soldati, senza alcuna particolare attenzione, senza alcun legame con il suo sogno poetico. E quando questa seconda morte si delinea netta all’orizzonte della sua esistenza, la reazione dell’Io è quella del disgusto e della paura. Così il mentire all’ufficiale medico non è altro che l’attivazione dell’istinto di conservazione, un “impulso, completamente automatico”, alla minaccia di una “morte reale”. Ma la “morte reale” riesce ad allontanare solo temporaneamente l’Io dalle sue fantasie sulla “morte ideale”, che si delinea sempre più come obiettivo unico della sua esistenza. E quando, mobilitato insieme ad altri studenti dell’università presso un arsenale militare, arriva la notizia che l’invasione del paese è imminente, l’Io pensa: A quanto si diceva, entro breve tempo le truppe nemiche sarebbero sbarcate nella baia di S. e l’intera area sarebbe caduta nelle loro mani. Il mio desiderio di morire si intensificò più che mai, e in quelle circostanze la vita assunse per me di nuovo un significato101.

Ma l’opportunità di morire in guerra, di concludere “felicemente” ed “eroicamente” la vita fluttuante di quegli anni, se viene inizialmente adombrata dal congedo militare, finisce poi per sfumare totalmente con la notizia della resa del Giappone e la fine del conflitto mondiale. Cosa restava ora al giovane Io se non accettare la vita piatta tanto temuta nel pacifico mondo del dopoguerra, un mondo dove la sua esistenza perdeva la sua fondamentale connotazione: una tragica morte predestinata. La specialità, il privilegio esistenziale di cui si è nutrito fino a quel momento finiscono per sfumare di colpo, lasciando il protagonista in una condizione di spiacentissima “normalità”. Ed è qui che la componente omosessuale acquista una connotazione più specificamente esistenziale. Dice Noriko Lippit: L’omosessualità di Mishina era un fato che egli aveva deliberatamente scelto, un fato che separava lui (e il suo protagonista) dalla vita comune. Per il protagonista, che considera il tragico come una salvezza di vita, condurre una vita quotidiana in cui il fato tragico è assente è “una mimica”. (...) Mishima si sente minacciato dal doversi confrontare con un dopoguerra di pace, dove gli sarebbe stata assicurata una lunga vita che avrebbe privato la sua arte della sua metafisica di base, (...) della sua “estetica della fine”102.

L’omosessualità diventa così una scelta esistenziale verso un’assoluta alienazione dagli “altri”, verso un’inevitabile “distruzione sociale”; una sorta 101 102

Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., p.189. Noriko Mizuta Lippit, Op. cit., pp. 185-186.

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di sostituzione del fato della morte in guerra con cui tenta di ripristinare il senso di tragicità della sua vita. Alla fine del 1944, il protagonista incontra Sonoko, la sorella di un suo compagno dei tempi del liceo. Questo personaggio, di cui si parla per il terzo finale dell’opera, rappresenta un elemento di estrema importanza per il completamento del quadro psichico dell’Io. Da questo punto in poi, come avevamo accennato all’inizio di questo saggio, il ritmo e la struttura della narrazione mutano notevolmente. Le immagini poetiche ed evocative, la vita onirica ricca di fantasie decadenti che trasudano eros e morte, si attenuano vistosamente, per lasciare spazio ad una narrazione logica e distaccata degli eventi esterni, dove la coscienza dell’Io si affaccia solo per effettuare una tormentata analisi della propria identità. Sonoko entra in scena in Confessioni di una maschera attraverso il suono del pianoforte su cui si sta esercitando. Oltre a riconoscere la raffinatezza di questa tecnica di presentazione del personaggio, dobbiamo notare che essa è carica di una notevole valenza simbolica. Non dimentichiamo il rapporto conflittuale con la musica che ha sempre accompagnato Mishima durante la sua vita. Di fatto, l’universo musicale non è molto celebrato nelle sue opere, e questo ha spinto molti critici a formulare interpretazioni semplicistiche, come mancanza di interesse, o totale inattitudine verso questa forma d’arte. Certo è difficile immaginare uno scrittore della sensibilità (o ipersensibilità) di Mishima non provare nulla nei confronti di un genere artistico che così tanto ha influenzato e ossessionato i grandi letterati, come ad esempio Thomas Mann, che Mishima annoverava fra i suoi grandi maestri. In realtà, la distanza che lo scrittore prendeva dall’universo musicale era il frutto di un profondo terrore inconscio, che poi diventerà invece molto cosciente quando confesserà: “Provo un terrore inusuale per questa cosa informe chiamata suono”; o quando paragonerà la musica ad una bestia feroce imprigionata in una gabbia, una gabbia inaffidabile che poteva cedere da un momento all’altro103. La musica è così il simbolo dell’inconscio insondabile, dell’incontrollabile; che cosa insopportabile doveva essere per un uomo come Mishima che amava organizzare e tenere tutto sotto controllo, perfino la sua morte. Forse egli provava la stessa curiosità mista a paura che doveva provare Federico Fellini quando fa dire a uno dei protagonisti della Voce della luna: “La musica nessuno sa dove va quando finisce”. 103

Cit. in Ueda Makoto, Modern Japanese Writers and the Nature of Literature, Stanford, Stanford Uneversity Press, 1976, p. 221.

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Quindi Sonoko si presenta come un elemento insondabile dell’inconscio che sta cominciando ad affiorare pericolosamente nella mente dell’Io. Come ha notato Miyoshi Masao, “mentre Ōmi appartiene al mondo delle immagini, Sonoko appartiene al mondo dei suoni. I suoni, rispetto alle immagini, penetrano più profondamente nella psiche, così Sonoko sin dall’inizio si presenta come un personaggio che mostra, molto più di Ōmi, la capacità di penetrare profondamente nella coscienza dell’Io”104. Sonoko, in sostanza, fa tanta paura all’Io perché essa rappresenta l’ultimo aggancio alla “normalità”. L’amore eterosessuale e puro che permetterebbe al protagonista di inserirsi nella società come individuo “normale”. Sonoko pone l’Io di fronte ad una inevadibile verifica della propria identità. Fino alla fine del terzo capitolo il protagonista si sforzerà tragicamente di provare attrazione fisica ed entrare nel mondo della “normalità”. Ma quando finalmente egli metterà per l’ennesima volta alla prova il suo desiderio nei confronti delle donne, e si troverà di nuovo, come era già accaduto con sua cugina o con un’altra lontana parente di nome Chieko, alle soglie di quella porta della sessualità che è il bacio, leggiamo: Posai le labbra su quelle di Sonoko. Passò un secondo, ma non provai piacere. Ne passarono due: lo stesso. Dopo tre secondi mi fu tutto chiaro105.

Ma Sonoko, nella sua “normalità” perfetta e ingenua, non avverte minimamente l’indifferenza sensuale dell’Io e fa entusiastici progetti di matrimonio. Infatti, poco dopo la fine della guerra, l’Io riceve una lettera dal fratello di Sonoko che lo invita a dare una risposta per un’eventuale data di fidanzamento. Leggendo la lettera il protagonista si sente tutt’altro che motivato a rendere la cosa ufficiale, ma si diverte solo allo sterile pensiero che egli è diventato un uomo capace di sedurre una donna che gli è del tutto indifferente e poi, quando l’amore le scoppia in seno, di abbandonarla senza neanche pensarci un attimo. Una considerazione infantile e superficiale, che suona più come un modo per scappare dalla difficile realtà che è costretto a fronteggiare, che come una reale sensazione interiore. Ma che cosa prova l’Io nei confronti di Sonoko? La ama? E se la ama che tipo di amore prova per lei? “Sonoko era per me l’incarnazione del mio amore per la normalità, la spiritualità e l’eternità”106, dice L’Io, e, in effetti, la netta contrapposizione 104

Miyoshi Masao, Accomplices of Silence – The Modern Japanese Novel, Berkeley, University of California Press, 1974, p. 151. 105 Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., p. 199. 106 Ivi, p. 232.

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tra l’”amore” provato per Ōmi e le altre figure maschili del suo desiderio è testimoniata da tanti elementi. Basta notare il netto contrasto tra i teneri pensieri e i libri romantici che l’Io sceglie orgoglioso per Sonoko e le sanguinarie fantasie sui teatri di stragi dedicate agli uomini dei suoi sogni. L’attrazione per la giovane donna è animata da una sacra moralità, da una bianca purezza piuttosto che dalla carne e dal bruciare dei sensi. Osserva Noriko Lippit: Il mondo d’amore che egli divide con Sonoko, è un mondo di eros spirituale, un mondo di armonia nel quale manca la vita aggressiva della carne. La sincerità con la quale egli si interroga sulla possibilità di amare una donna senza desiderio fisico ci fa apparire il protagonista come preso dal dilemma religioso di trascendere le assurde limitazioni umane, e la sua agonia ci appare come quella di una scelta religiosa. La maschera diventa quasi una metafora della condizione umana, e il romanzo colpisce il lettore come un poema tragico sotto false sembianze107.

Romanticismo e morale, amore ideale, bellezza pura: che insopportabile contrasto con le diaboliche fantasie sadomasochistiche che accendevano i suoi sensi. E questo terribile contrasto ci è presentato subito nell’opera, ancor prima che essa inizi, con la breve citazione dei Fratelli Karamazov dove leggiamo: Io non posso sopportare che un uomo, magari di cuore nobilissimo e di mente elevata, cominci con l’ideale della Madonna e finisca con l’ideale di Sodoma. Ancora più terribile è quando uno ha già nel suo cuore l’ideale di Sodoma e tuttavia non rinnega nemmeno l’ideale della Madonna, anzi, il suo cuore brucia per questo ideale, e brucia davvero, sinceramente, come negli anni innocenti della giovinezza108.

Il protagonista è cosciente di mentire a se stesso quando dice di non amare Sonoko, ma egli ha paura di portare avanti ufficialmente la relazione. È come se qualcosa lo trattenesse, una sorta di senso di colpa. Il senso di colpa sembra risuonare per tutto l’arco dello sviluppo del rapporto con la donna. Esso è esplicitamente dichiarato in una serie di frasi, come quando prendendo la borsa di Sonoko l’Io pensa che il peso della borsa “giustificava a malapena il rimorso da ricercato che serpeggiava in fondo al mio cuore”109; o quando stringendo la mano del fratello di Sonoko per salutarlo 107 108 109

Noriko Mizuta Lippit, Op. cit., p. 187. Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Milano, Rizzoli, 1998. Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., p. 171.

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ha paura che quella mano lo accusasse, lo incolpasse di qualcosa, e allora egli sente di dover scusarsi con Sonoko. E ancora, quando sua sorella gli chiede dell’eventuale matrimonio con la ragazza, si sente “come un ricercato a cui una persona ignara del suo crimine riferisce per caso un fatto relativo al misfatto”110. Qual è il senso di colpa che il protagonista prova in modo così opprimente? Secondo alcuni questo senso di colpa sarebbe legato al fatto che nonostante l’Io sia cosciente delle proprie tendenze omosessuali, continua a portare avanti la relazione con Sonoko fingendo di essere “normale”, e non facendo altro che ingannare e turbare l’animo puro della giovane donna. È indubbio che un tipo di rimorso di natura etica possa turbare l’animo del giovane protagonista, ma in effetti appare un po’ riduttivo inquadrare l’Io di Confessioni di una maschera come un capriccioso omosessuale, che prima si diverte con una bella ragazza e poi si pente per averlo fatto, impiegando una miriade di metafore per sottolineare il suo pentimento. In sostanza quello che ci appare più evidente è che la natura di questo senso di colpa non sia nei confronti degli altri, ma piuttosto nei confronti di se stesso. Sonoko non è semplicemente la donna che fa scoprire ad un omosessuale di essere tale, la “normalità” che rimprovera l’ “anormalità” opprimendola con un senso di colpa, è qualcosa di più. È un elemento catalizzatore che scatena una profonda scissione nell’animo del protagonista. La scissione di senso e sentimento, o meglio di corpo e spirito, che tanto ossessionerà Mishima per tutto la durata della sua esistenza. Così, al di là delle valutazioni di tipo etico, la reazione “impura” e cinica verso Sonoko ci appare come una difesa inconscia dalla spaventosa “purezza” eterna, da cui l’Io si sente attirato e minacciato, e che lo incatenerà in una situazione di disagio e conflitto fino alla fine dell’opera. In questa ottica, più che mai la connotazione omosessuale dell’Io acquista un valore marginale. Non ha quindi molto senso chiederci se l’Io è realmente omosessuale, la cosa più importante è cosa lo scrittore vuole comunicare col dramma esistenziale dell’Io conferendogli una connotazione omosessuale. Se da contraltare al candore e alla purezza di Sonoko, al posto degli avvenenti giovani delle fantasie erotiche, ci fossero donne sensuali che attirano l’Io in un mondo di sesso sfrenato e perversione sadica, probabilmente non cambierebbe nulla, o poco, della dinamica interiore del protagonista. Diciamo che il “marchio” dell’omosessualità la esalta maggiormente, mette in maggior evidenza la difficoltà dell’Io a definire la sua identità con se stesso e con la società che lo circonda.

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Ivi, p. 194.

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Il forte senso di colpa avvertito dall’Io non è quindi di natura etica, ma fortemente esistenziale. L’Io sente il forte senso di colpa di non riuscire a definire ancora la sua identità, e l’immagine di Sonoko non è altro che uno specchio dove egli può vedere l’altra faccia di se stesso. Non a caso Sonoko ci viene presentata sin dall’inizio come l’incarnazione di una purezza simile allo spuntar del giorno, all’immagine di uno spirito innocente, definizioni a cui fanno da controcanto quelle riferite al protagonista che, nei confronti della giovane, recita la parte dell’innamorato sincero, usando cinicamente l’abc delle tecniche di seduzione. Le reazioni “impure” e ciniche nei confronti dei personaggi maschili della prima parte dell’opera non hanno provocato alcun senso di colpa nell’Io, perché esse erano perfettamente in sintonia con il desiderio sensuale e perverso che egli provava; in sostanza egli guardava in queste immagini una parte di sé e vi rispondeva con la stessa parte: il bruciante elemento dionisiaco ed estatico che accendeva i suoi sensi. Ma ora che prova ad usare lo stesso elemento nei confronti di Sonoko, non solo i suoi sensi non si accendono, ma è come se il cinismo sadico con cui ha sempre trattato gli oggetti del suo desiderio si ritorcesse contro di lui, tormentandolo con un senso di colpa che non è altro che la constatazione di aver scoperto un altro elemento, l’elemento della purezza apollinea, con cui non può trattare nel modo che fino ad allora gli è stato consueto.

“Tempo omosessuale” e “tempo eterosessuale” È evidente che il rapporto con gli uomini e con le donne del protagonista ha connotazioni nettamente antitetiche, che non sono solo di ordine psicologico, ma anche di ordine fisico. In precedenza abbiamo parlato della distanza fra gli oggetti maschili del desiderio e l’Io; ora non possiamo non notare come nel rapporto con le donne l’Io venga a diretto contatto con esse. È il caso della cugina di secondo grado Sumiko, che copertasi il viso con entrambe le maniche del kimono fa cadere pesantemente il capo sulle coscie di lui, o della lontana parente Chieko, che gli fa chiudere gli occhi e, spingendo le labbra sulle sue, gli fa provare l’ “emozione” dei primi baci. Le donne infrangono la barriera che si ergeva tra l’Io e gli “altri”, la barriera tra l’Io e il San Sebastiano e tutte le altre immagini maschili dell’infanzia. Anche paragonate in azioni simili a quelle degli uomini, le donne penetrano più profondamente nell’animo del protagonista e destano in lui emozioni nuove, legate alla luce e alla vita. Se il bottinaio scendendo dalla salita desta nel piccolo protagonista un senso di tragicità legato alla morte, e poi passa via restando solo un’immagine, Sonoko alla stazione scende la rampa di scale

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di fronte a lui e poi gli va incontro, parla con lui, diventa un’esistenza reale. “Non ricordavo”, pensa l’Io, “di essermi mai emozionato tanto di fronte a una bella ragazza. Il cuore iniziò a palpitarmi, facendomi sprofondare in una sensazione di purezza”111. Sonoko vive in una sfera tridimensionale che è in netta contrapposizione con la bidimensionalità dei personaggi maschili. Una tridimensionalità che cala il personaggio nella realtà e nel flusso costante del tempo. La donna nella scena della stazione si avvicina al protagonista, parla con lui, ne condivide il tempo. E il tempo è sempre presente nelle situazioni relazionali con Sonoko: quando alla stazione ella scendendo i gradini sembra scandire il tempo con i suoi movimenti, o quando l’Io calcola il tempo in numero di passi, programmando le azioni che farà per portarla in un luogo isolato e poterla baciare. Il primo bacio stesso, come abbiamo visto, è scandito dallo scorrere inesorabile dei secondi. Così l’elemento temporale nel rapporto con gli uomini e con le donne è antitetico come quello spaziale. L’Io dice: Il mio debole tutto mentale per gli efebi – una fascinazione mai sfociata nella paedicatio – si era fissato in una forma interpretata da quasi tutti gli studiosi come un fenomeno pressoché universale112.

Nota Satō Hideaki: Non è chiaro cosa intenda l’Io con l’espressione “fissato in una forma”, ma se pensiamo al contenuto del romanzo e al rapporto di contrasto con la pratica omosessuale, possiamo immaginare che intenda l’onanismo. Se le cose stanno così, il tempo in cui l’Io e gli uomini hanno un rapporto reciproco non esiste. Il rapporto tra l’Io e l’Efebo è espresso con le frasi “fissato in una forma”, “una fascinazione mai sfociata nella paedicatio”. Queste frasi sono in netto contrasto con quelle che descrivono la relazione con Sonoko; un contrasto che resta lo stesso anche dopo il matrimonio della donna con un altro uomo. La Sonoko sposata gli dice: “Cosa accadrà se continueremo a vederci in questa maniera? Non credi che tutto ciò finirà per spingerci in una situazione senza via d’uscita?”. Queste frasi annunciano chiaramente il tempo futuro. Il rapporto omosessuale, poiché non ha funzione generativa, non ha una visione proiettata nel futuro. Se poi la sessualità del rapporto omosessuale prende la forma dell’onanismo, a maggior ragione è così113.

Nel caso delle “immagini” maschili, il “tempo” condiviso con esse è astratto e statico; è soltanto l’“adesso”, il tempo del desiderio senza l’at111 112 113

Ivi, p. 161. Ivi, p. 231. Satō Hideaki, “Kamen no kokuhaku – Shintai no ikonoroji”, cit., pp. 54-55.

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tuazione concreta di esso. Nel caso delle donne il tempo diventa reale, progettuale, “spaventosamente” proiettato verso il futuro. Ma quello che c’è da notare è che in entrambi i casi, sia nella condizione dell’atemporalità omosessuale che in quella della temporalità eterosessuale, l’Io entra in uno stato di annichilimento, di non realizzazione della propria sessualità e di non definizione della propria identità. Dopo una lunga riflessione e una consultazione con la madre sulla richiesta di fidanzamento inoltrata dal fratello di Sonoko, il protagonista decide di lasciar perdere il matrimonio e di scrivere una lettera di rifiuto indiretto, che suona artificiale perfino a lui stesso. Ma la storia con Sonoko non termina qui. Più di un anno dopo la guerra, nell’estate del 1947, l’Io incontra per caso Sonoko, che intanto si è sposata, e prova di nuovo nei suoi confronti una sensazione di “amore”, un amore chimerico ed evanescente che vive solo momento per momento. Per alcuni mesi dell’estate del 1948 il protagonista porta avanti una relazione “innocente” con Sonoko incontrandola di tanto in tanto, mentre continua a riflettere sulla propria natura e sul posto che occupa questa donna nella sua instabile esistenza. Ero pronto a giurare su Dio che il sentimento che mi induceva a vedere Sonoko era sincero, anche se era chiaro che in esso non vi era il minimo desiderio sessuale. Che razza di desiderio era mai quello che mi spingeva a rivederla? Quella passione così distinta e priva di desiderio si stava forse prendendo gioco di me? E, ammettendo pure che si trattasse di vera passione, perché si limitava a ravvivare con tanta ostentazione una fiammella così facilmente controllabile? Può mai esistere un amore del tutto sdradicato dal desiderio carnale? Tutto ciò non è forse un’assurdità conclamata? Ma se la passione umana ha la forza di superare le irrazionalità, pensai, non potrebbe anche avere la forza per ergersi al di sopra dei suoi stessi controsensi?114

D’altro canto la passione dei sensi, l’antico impellente desiderio omosessuale non abbandona l’Io, anzi si contrappone prepotente al platonico amore per Sonoko: La piena estate batteva il suo frustino sui cavalli lanciati al galoppo del mio desiderio sessuale, bruciando la mia carne, torturandomi. Mi capitò, per salvaguardarmi, di ricorrere anche cinque volte al giorno alla cattiva abitudine115.

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Mishima Yukio, Confessioni di una maschera, cit., pp. 230-231. Ibid.

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Dilaniato dalla sua lotta interiore, dalla scissione conflittuale dei sensi e dei sentimenti, dalla ricerca della sua fluttuante identità, l’Io si immerge in tormentate riflessioni, dove la sua natura razionale tenta di soccorrerlo attraverso giustificazioni e chiarimenti intellettuali. Cerca delucidazioni leggendo testi sull’omosessualità, tra cui un testo di Hirschfeld, dove varie teorie interpretative, come ad esempio quella che l’omosessualità è un fenomeno biologico estremamente semplice, gli danno una sorta di rassicurazione; sostenuta, tra l’altro, dal fatto che la sua particolare attrazione per l’efebo fosse diffusa anche tra personaggi famosi, come il Conte von Platen, Winckelmann e Michelangelo. Ma tutte queste scoperte, pur accostandolo alla natura del fenomeno, riuscivano poco ad alleviare la sua angoscia interiore. Tali spiegazioni scientifiche non avevano tuttavia risolto i problemi della mia vita interiore. La mia inversione sessuale difficilmente avrebbe avuto modo di concretizzarsi, e questo perché in me l’impulso carnale si limitava a essere uno slancio oscuro che gridava a vuoto, che ansimava invano. Perfino l’efebo più attraente non poteva eccitarmi al punto di spingermi oltre la pulsione sessuale. Esprimendomi in maniera poco accurata potrei dire che la mia anima apparteneva ancora a Sonoko. Pur non credendoci del tutto, per comodità potrei spiegare le mie pulsioni in base al diagramma del conflitto medievale tra anima e corpo. In me la divisione tra i due elementi era pura e nitida. (...) Certo, questo non basta a risolvere il problema. I sentimenti non amano la rigidità e l’ordine, preferiscono piuttosto svolazzare, fluttuare e vacillare a loro piacimento come pulviscolo nell’etere116.

Arrivati al termine del lavoro vediamo il protagonista che si lascia trasportare, in una sorta di triste rassegnazione, dal flusso di questa esistenza indefinita, con le sue emozioni che continuano a fluttuare incostanti dal mondo dei sensi a quello dei sentimenti. Ma nel finale del romanzo sembra accadere qualcosa. Qualcosa che provoca una scintilla; come se due potenti cavi elettrici, spesso pericolosamente avvicinati, siano venuti improvvisamente a contatto. In un caldo giorno del settembre 1948 il protagonista incontra Sonoko, e in un ristorante comincia con lei un dialogo insensato, insincero, tutto giri e rigiri, un grande scivolio per l’aria vuota. Poi Sonoko porta quasi inavvertitamente la conversazione sulla loro relazione: “A volte non ci capico più niente. (...) Perché ci incontriamo in questo modo? E perché poi finisco sempre col rivederti?”117. L’Io, nonostante 116 117

Ivi, p. 232. Ivi, p. 235.

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riesca a cavarsela con una serie di abili risposte, si sente scoperto e pensa: “Intuii che Sonoko era alla fine arrivata sulla soglia del dubbio, che iniziava a convincersi che una porta non poteva essere lasciata semiaperta per sempre. (...) Anch’io ero ancora lontano dall’età in cui si preferisce lasciare ogni cosa nella sua posizione”118. “Cosa accadrà”, dice la donna, “se continueremo a vederci in questa maniera? Non credi che tutto ciò finirà per spingerci in una situazione senza via d’uscita?”119. L’Io tenta strenuamente di difendersi con un’ennesima risposta vigliaccamente evasiva: “Io ti rispetto, e nessuno può rimproverarci di niente. Perché due amici non potrebbero vedersi?”120. Ma Sonoko lo incalza con la terribile arma della concretezza: “Finora è stato così, è stato come hai appena detto. Sei stato magnifico. Ma cosa accadrà in futuro? Non abbiamo fatto nulla di cui vergognarci, ma a volte faccio dei sogni spaventosi, dei sogni con i quali mi sembra che le divinità vogliano punirmi per un peccato futuro”121. Ecco di nuovo il tempo. Sonoko, che sin dalla sua iniziale comparsa si è mossa sull’ordito narrativo scandendo meticolosamente il tempo dell’esistenza, con le sue parole richiama alla memoria del protagonista la dimensione temporale e l’effetto elettrizzante è immediato: “La solida eco della parola futuro mi fece rabbividire”122. Ma il protagonista non vuole pensare al futuro, il tempo è una dimensione da evadere, e quando Sonoko gli esterna ancora la paura di comportarsi male incontrandolo, di sentirsi nei confronti del marito una “donnaccia spiritualmente impura”, egli le dice: “E adesso?” “Adesso?” ripetè lei abbassando lo sguardo. “A chi stai pensando adesso?”123.

L’unico tempo a cui l’Io è interessato è “adesso”. L’Io vuole forse bloccare il tempo che scorre nella relazione con Sonoko e trasporre la modalità del rapporto con gli uomini nel rapporto con Sonoko? Trasporre il senso di atemporalità legato all’estasi dionisiaca dei sensi in ciò che lui vede come la bellezza apollinea e cristallina dei sentimenti più “puri”? 118 119 120 121 122 123

Ivi, p.236. Ibid. Ibid. Ibid. Ibid. Ivi, p. 237.

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Ma il tempo continua a trascorrere inesorabile: Ancora trenta minuti e ci saremmo lasciati. Non saprei dire con certezza se dipendesse dalla tristezza per la separazione, ma una smania oscura e nervosa simile a una specie di passione mi fece venire la voglia di ricoprire quei trenta minuti con colori densi come quelli a olio. Davanti a una sala da ballo degli altoparlanti diffondevano in strada una rumba travolgente124.

L’Io istintivamente si dirige sempre di più verso l’unificazione dei due poli del suo conflitto interiore; il tempo della purezza deve essere dissolto in una sensualità senza tempo. Davanti alla porta dell’ “inferno” dove imperversa frenetica la musica latino americana, l’Io è colto dal ricordo di un verso di André Salmon: “...Ma sempre era una danza senza fine”.

Il martello del nichilismo Ed è un reale inferno dove l’Io e Sonoko entrano: Un’aria calda ci colpì direttamente in faccia. A causa dell’impianto di aerazione guasto e delle spesse tende che schermavano i raggi del sole, nella sala stagnava un’afa soffocante che sollevava un pulviscolo plumbeo simile a nebbia reso visibile dall’illuminazione. Era fin troppo evidente che genere di persone ballasse impassibile diffondendo nell’aria sudore e vampate di profumi economici e di brillantine di qualità scadente. (...) Ballerine e giovani con camicie hawaiane ballavano premendo l’una contro l’altra le fronti madide di sudore. I lati dei nasi delle ragazze si erano anneriti, e col sudore la cipria aveva formato dei grumi simili a pustole. (...) Sonoko, con non poco affanno, trasse un breve respiro125.

Il protagonista è pentito di aver portato la “Madonna” nell’ “inferno”, ma pensa che ormai è troppo tardi per tornare indietro. Si siedono ad un tavolino fuori al cortile del locale, dove l’aria è più fresca ma comunque irrespirabile per il calore riflesso da un impiantito di cemento. Pareva che anche Sonoko, pensa l’Io, rimanesse in silenzio per lo stesso sdegno amareggiato che lui provava verso tutto ciò che li circondava. Ma poco a poco, il protagonista comincia a perdersi in quell’atmosfera e viene attratto da un gruppetto di quattro persone seduto ad un tavolino impietosamente dardeggiato dal sole. Sono due ragazzi e due ragazze estremamente volgari. 124 125

Ivi, p.238. Ivi, pp. 238-239.

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Le ragazze con vestiti senza maniche mettono in mostra delle braccia rosse come quelle delle pescivendole, piene di punture d’insetti, e, ogni volta che i loro accompagnatori fanno qualche battuta grossolana, si guardano scoppiando in stolide risatine. Uno dei due ragazzi mostrava a tratti un sorriso lascivo e divertiva le ragazze punzecchiando i loro seni con un dito. Ma l’attenzione dell’Io si sposta subito sul secondo giovane: ...un ragazzo di ventidue, ventitrè anni, dai lineamenti grossolani ma regolari e dall’incarnato scuro. Se ne stava a torso nudo, intento a riavvolgere con cura attorno all’addome uno haramaki di cotone bianco che il sudore aveva leggermente ingiallito. Lo avvolgeva con studiata lentezza, intromettendosi nei discorsi degli amici e partecipando alle loro risate. Il torace nudo esibiva i rigonfiamenti di una muscolatura florida e contratta, e un solco profondo e ben delineato scendeva dal centro del petto fino al ventre. (...) Libere dagli indumenti, le spalle abbronzate risplendevano come fossero cosparse di olio, mentre sotto i raggi del sole i neri cespugli sporgenti dalle cavità ascellari emanavano riflessi color dell’oro126.

Ecco che ricompare la nota immagine della sensualità incarnata dal San Sebastiano, da Ōmi e da tutti gli altri personaggi maschili della prima parte dell’opera. Anch’essa, come gli altri uomini in precedenza, è “legata” da qualcosa, stretta e imprigionata sempre più saldamente da ogni giro successivo della fascia di cotone. Immagine statica, anonima, bidimensionale, al di fuori di ogni relazione spazio-temporale con il protagonista, e proprio per questo terribilmente seducente. Alla vista di questo giovane e, specialmente, alla vista della peonia tatuata sul suo braccio muscoloso, l’Io si sente attanagliare dal desiderio. Ormai preso totalmente dai suoi sensi, si lancia ancora una volta nelle sue fantasie sadistiche, dimenticando tutto il resto, soprattutto chi in quel momento, seduta a fianco a lui, rappresenta l’antitesi di tutto ciò: Avevo dimenticato l’esistenza di Sonoko. Non riuscivo a pensare che a una cosa: a lui che in piena estate usciva seminudo in strada per affrontare una banda di bulli; al pugnale affilato che, attraversando lo haramaki, gli trafiggeva il torso; al lurido haramaki che si tingeva del bel colore del sangue; al suo cadavere insanguinato steso sul battente di una porta e condotto fin qui...127.

L’Io ormai viaggia nella sua sterile estasi, nella sua illusione di essersi librato al di sopra del “tempo”, al di sopra della quotidianità. Sonoko, la 126 127

Ivi, p. 240. Ivi, pp. 240-241.

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purezza dei sentimenti, il “tempo” come flusso naturale dell’esistenza in cui cercare una più netta definizione di se stesso – che poi forse sarebbe l’unica dimensione in cui avere una profonda consapevolezza dell’eternità: calarsi nella dimensione temporale per poi trascenderla –, sembrano essere stati annientati dalla cascata inarrestabile dei sensi. Ma la fragile costruzione che l’Io ha messo su per l’ennesima volta è di nuovo impietosamente distrutta – ed è ancora il “tempo” a catalizzare questa catarsi – stavolta in modo ancor più devastante; forse per la vicinanza così estrema dei poli della sua anima? “Mancano cinque minuti”. La voce acuta e patetica di Sonoko mi penetrò nelle orecchie e io, con aria meravigliata, mi voltai verso di lei. In quel momento qualcosa dentro di me si era lacerato con la forza crudele di un fulmine che, cadendo, squarcia un albero. Udii il doloroso rumore del crollo dell’edificio che avevo innalzato con estrema fatica fino a quel momento, mi sembrava di aver visto l’attimo in cui la mia esistenza si era trasformata in una sorta di terribile assenza. Chiusi gli occhi, e in una frazione di secondo mi aggrappai saldamente al mio gelido senso del dovere.128.

È solo un istante, l’istante che impiega il fulmine ad abbattersi sull’anima del protagonista, ma completamente sufficiente a demolire ogni sua difesa e costruzione. La maschera è infranta. E dietro la maschera in pezzi vede un’orribile “assenza”. Egli chiude gli occhi, chiude gli occhi perché quello spettacolo gli è insopportabile, ma dopo un attimo recupera il dominio del suo gelido senso del dovere: una nuova maschera è già pronta a ricoprire il suo viso e a consentirgli di continuare la sua penosa esistenza. Siamo di fronte a un classico esempio, nota Starrs, di atto letterario mishimiano, “‘fracassare la maschera’, affondare il martello nichilistico nella maschera dell’illusione”129. Tutto ciò non può non richiamarci alla memoria lo stesso atto letterario della tetralogia finale Il mare della fertilità, dove ogni illusione è cancellata dall’abbacinante visione finale del vuoto metafisico del giardino del tempio di Gesshū. E in sostanza la logora sala da ballo della scena finale di Confessioni di una maschera crea un’atmosfera appropriata per l’esperienza finale del “nulla”. Il martello nichilistico che nella tetralogia si abbatte sulla maschera della dottrina religiosa, in Confessioni di una maschera si abbatte sulla maschera delle convenzioni sociali, la maschera della “normalità”. Dice Starrs: 128 129

Ibid. Roy Starss, Op. cit., p. 31.

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In Confessioni di una maschera l’esperienza del nulla sembra essere strettamente psicologica, in contrasto con quella del finale della tetralogia che invece ha una definita dimensione ontologica: in altre parole, Honda nella tetralogia è convinto non solo della propria irrealtà, ma anche di quella di tutte le persone che ha conosciuto e del mondo in generale. Non c’è dubbio che la dimensione ontologica è più chiaramente delineata nella tetralogia attraverso l’uso della filosofia idealista Yuishiki del buddhismo. Ma il mondo di Confessioni di una maschera è già filosoficamente idealista: niente esiste al di fuori della mente del protagonista-narratore. Proprio come Honda costruisce la sua visione della metempsicosi spinto dal suo desiderio di immortalità, così il protagonista di Confessioni di una maschera, usando Sonoko come perno, crea il proprio mondo da romanzo d’amore spinto dal desiderio di una “normale” mascolinità. Poiché queste elaborate strutture dell’illusione sono entrambe prodotti di una mente individuale, l’esperienza psicologica del vuoto è sufficiente a demolirle. In questo senso, la percezione di “orribile ‘non esistenza’” del protagonistanarratore adempie alla stessa funzione del “posto senza ricordi, del nulla” di Honda. Entrambi portano al precipitoso collasso del mondo del romanzo, che è una creazione mentale dei protagonisti. E questo collasso forma il climax di entrambi i romanzi. Questo è quello che dà ai finali di Mishima il loro guizzo teatrale. È quasi come se l’autore, come un malevole deus ex machina, alla fine del lavoro entri in scena con i suoi personaggi e, brandendo il suo martello nichilistico, riduca in pezzi le maschere che fino ad allora aveva accuratamente confezionato. Una volta che le maschere scompaiono, ovviamente, tutto ciò che rimane è un grande vuoto. Così l’esperienza psicologica del vuoto di Confessioni di una maschera ha anche implicazioni ontologiche, e questo è successivamente confermato dalla chiusura del romanzo, che di nuovo ci riporta alla mente la chiusura del Mare della fertilità. (...)Sebbene in Confessioni di una maschera la scena è più secolare - il cortile di una sala da ballo invece del giardino di un tempio buddhista - c’è lo stesso senso di vuoto, la stessa mancanza di presenza umana, e la piena luce del sole dà l’impressione di una natura come una forza spietata e prepotente. Questa è l’altra faccia dell’idealismo filosofico di Mishima: la visione di un’oggettività brutale e inanimata del mondo, e del vuoto al centro di quel mondo, un vuoto percepito come maligno perché alla fine scardina e distrugge tutto quello che c’è di buono nella vita umana, tutti i sogni, le speranze e le visioni degli uomini130.

Non sappiamo quanto essere d’accordo con l’interpretazione ontologica del vuoto di Confessioni di una maschera, quanto il vuoto del disagio esistenziale del protagonista possa essere accostato al vuoto metafisico e speculativo della tetralogia, ma di sicuro è molto interessante l’individuazione dell’elemento maligno percepito in questo vuoto. 130

Ivi, p. 32-33.

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In effetti, l’elemento maligno è centrale in tutto l’andamento dell’opera, dalla prima apparizione dello svuotatore di pozzi neri, che attraverso gli escrementi che trasporta gli trasmette l’amore maligno della Madre Terra, ai portatori di palanchino che, con la loro frenesia dionisiaca, gli trasmettono una gioia mista a terrore; e ancora le fantasie sado-masochistiche che inevitabilmente legano la sensualità, il nichilismo, il narcisismo, con il sottile filo di un elemento malevolo che minaccia il protagonista in ogni manifestazione delle sue sensazioni più profonde. È un dolore radicato quello che minaccia l’Io di Confessioni di una maschera, un senso di disagio esistenziale legato al sospetto, all’idea che ogni manifestazione della sua anima possa essere inquinata dal male. Ed è per questo che egli è terrorizzato dalla visione chiara del suo mosaico interiore. Egli non vuole vedere, e l’unico modo per non vedere è vestire le tante maschere della sua esistenza, chiudendo gli occhi nel momento in cui le cambia. Ma come abbiamo detto prima, Mishima nel finale dell’opera decide di entrare in scena con il suo martello nichilistico e mandare in pezzi la maschera dell’Io, nella speranza forse di ottenere con questo gesto “macho” la risposta ai suoi interrogativi esistenziali. Così la maschera viene infranta, e per un attimo il volto dell’Io, e forse quello di Mishima stesso, si rivelano in tutta la loro nudità, e questa volta gli occhi non sono chiusi. È solo un attimo. Ma cosa si intravede per quell’attimo tra i pezzi della maschera? Per un attimo il volto nudo dell’Io s’illumina, carico di tutte le sue contraddizioni esistenziali, della sua inadeguatezza nel mondo in cui vive, un volto pieno di ostilità e maledizione verso la società. O forse quello che si vede non è neanche un volto, ma la rivelazione di un’essenza, perché, come dice Noguchi Takehiko, “per la ‘passione astratta’ di Mishima un volto definito non è necessario; è sufficiente che fluttui nell’aria solo un’espressione di estasi”131. Lo sguardo estatico e malinconico di un uomo alla ricerca di un’identità sfuggente, sempre divisa tra il peso della quotidianità dei sensi e la leggerezza vertiginosa dello spirito. Lo sguardo estatico e mesto di chi percepisce che la propria esistenza è condannata, tra lo stupore divertito degli “altri”, ad inseguire qualcosa che fa riverberare gli ipertoni più profondi della sua coscienza, qualcosa che ridotto alla scarna forma di parola suona ambiguamente come “assoluto”. L’assoluto dove gli estremi si toccano, dove la quotidianità e l’eternità, i sensi e i sentimenti, il dionisiaco e l’apollineo si danno armoniosamente la mano e non possono che invitare il “privilegiato” osservatore in quel reame precocemente annunciato della Morte. Il finale di Confessioni di una maschera, seppur accostato spesso al finale 131

Noguchi Takehiko, Op. cit., p. 110-111

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della tetralogia, non suggerisce una visione altrettanto catartica e metafisica. Se Honda si trova davanti alla pace del tempio di Gesshū, dove il sole inonda e purifica ogni angolo del giardino e della sua anima suggerendogli il senso di vacuità di tutte le umane cose, L’Io di Confessioni di una Maschera si trova solo davanti ad una vacuità esistenziale, per nulla pacificante, né purificante. Il sole che nel finale dell’opera avvampa nel cortile della sala da ballo non irradia la vegetazione armoniosa di un tempio avvolta in un silenzio esaltato dal frinire delle cicale, ma solo quattro seggiole vuote e un tavolino, dove, tra le note di un volgarissimo blues, i lucidi, minacciosi riflessi di una bibita spanta profetizzano un lungo e tortuoso cammino.

Capitolo III

Il cammino dopo la “confessione” Ci siamo a lungo soffermati sui primi racconti d’esordio, in particolare La foresta in fiore, e su Confessioni di una maschera per due motivi essenziali. Il primo è il loro valore “autobiografico”. Anche se del particolare autobiografismo di cui già si è detto, le descrizioni e le considerazioni che vi cogliamo sono spesso, consciamente o inconsciamente, più “autentiche” di molte affermazioni “reali” dello scrittore e di molte informazioni tratte dalla cronaca. Il secondo motivo è che con questi due lavori ci troviamo di fronte alla quasi totalità delle caratteristiche e delle tematiche principali dello scrittore. È vero che alcuni aspetti, come l’esasperato machismo o l’adorazione per l’Imperatore, si riveleranno apertamente soltanto più tardi, ma, come vedremo poi, non saranno che una trasformazione di aspetti precedenti; e, tutto sommato, neanche così determinanti nell’ottica di una visuale globale della sua “vita letteraria”, visto il tardissimo periodo in cui si manifesteranno e la conseguente breve durata. Dicevamo quindi che nella Foresta in fiore e in Confessioni di una maschera si rivelano, più o meno palesemente, le sue tematiche essenziali; e non solo, con queste due opere è come se lo scrittore avesse già effettuato la nascita e la morte di una microesistenza autonoma. Queste due opere rappresentano in effetti una sorta di prima “esistenza compiuta”, una sorta di “serie” musicale che il compositore contemporaneo userebbe con tutte le possibili combinazioni nella composizione della sua opera. Innumerevoli saranno le trasformazioni e le variazioni a cui assisteremo d’ora innanzi, ma l’aver cercato di penetrare quanto più in profondità possibile questi due lavori iniziali sarà di estrema utilità per la comprensione di quelli successivi. Confessioni di una maschera stabilì la reputazione di Mishima come scrittore. Vendette ventimila copie in edizione rilegata e diventò il best seller del 1949. fu un vero e proprio caso letterario, di cui si parlò per tutto l’anno su giornali e riviste. Non mancarono le critiche al carattere troppo esplicito dell’opera, era dal 1700 che in un romanzo non si parlava così apertamente di omosessualità. Ad ogni modo i grossi critici riconobbero all’unanimità il valore dell’opera. Il famoso critico Nakamura Mitsuo, che

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in precedenza aveva sottostimato i suoi lavori, riconobbe di aver commesso un errore. Con Confessioni di una maschera Mishima aveva intrapreso il suo cammino verso la scoperta di se stesso, e il cammino, come suggeriva il finale del romanzo, era “lungo e tortuoso”. Il processo di apertura e liberazione era solo iniziato e il suo stato d’animo non era assolutamente dei migliori. Gli scritti successivi, durante il 1950, confermano questa complessa situazione psicologica. Il frutto (Kajitsu) è un racconto particolarmente inquietante in cui viene descritta una coppia di lesbiche che decide di adottare un figlio. La presenza del bambino rappresenterebbe per le due donne un elemento di accostamento alla “normalità” delle coppie eterosessuali e all’immagine della famiglia nel senso più comunemente inteso. La fortuna le aiuta, perché qualcuno gli lascia un figlio indesiderato, e la loro gioia è ancor più accresciuta dalla scoperta che si tratta di una bambina. L’amore che le due dedicano alla neocata è a dir poco soffocante, e non solo, le loro attenzioni lasciano il lettore indeciso se giudicarle frutto della follia o della perversione più pura. Cospargono i pannolini maleodoranti della piccola con il loro profumo preferito, strofinano con tenero amore le loro labbra cariche di rossetto sui capezzoli della bimba finché non sono diventati rosso vivo. Vittima di queste singolari attenzioni la bambina presto si ammala e muore, lasciando le due donne in preda allo sconcerto e al dolore. Alcuni giorni dopo un vicino entra nella loro casa e scopre che le due hanno commesso un doppio suicidio. Il racconto termina: Come un frutto lasciato in una serra a marcire, i loro corpi avevano già cominciato a decomporsi. Il fiero sole estivo che si versava dal lucernario aveva accellerato il processo1.

Sulla stessa inquietante falsariga si muove Domenica (Nichiyōbi), il racconto di una giovane coppia che lavora nello stesso ufficio, soprannominata ironicamente “Domenica”, perché sono così inseparabili da trascorrere sempre insieme tutti i giorni di vacanza. Il racconto descrive minuziosamente una loro tipica giornata di festa, durante un’escursione in campagna, solo per dare l’opportunità allo scrittore di ironizzare ed esprimere tutto il suo disgusto per la loro mediocre e convenzionale visione della vita. Dopo aver trascorso la loro gioiosa giornata, i due innamorati aspettano il treno su una piattaforma strapiena di gente, e a questo punto si innesta il finale tragico che tutti i conoscitori della letteratura mishimiana non possono non aspet1

Mishima Yukio, Kajitsu, in MYZ, vol. 3, p.535.

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tarsi. Un improvviso sommovimento della folla spinge la giovane coppia sui binari proprio mentre il treno sta arrivando. Poiché le loro braccia erano legate non c’era pericolo di morire separatamente. Il ragazzo cadde giù e la ragazza fu trascinata da lui. Ancora di nuovo furono favoriti, perché le ruote del treno tagliarono nettamente e precisamente i loro colli perfettamente allineati sui binari. Ora il treno iniziò a fare marcia indietro e così facendo depositò pulitamente una a fianco all’altra sulla ghiaia tra i binari le teste dei due amanti. Gli astanti rimasero colpiti da questo gioco di prestigio, e si sentirono di elogiare la curiosa abilità del macchinista2.

Mishima infligge senza pietà una suprema e “raffinata” punizione per quello che riteneva uno dei peccati più grandi: la gioia di vivere nella comune realtà quotidiana. Ma il lavoro principale del 1950 è Sete d’amore (Ai no kawaki). La protagonista è Etsuko, una donna che ha vissuto sempre col desiderio di essere amata dal marito, che invece l’ha sempre trascurata e tradita. Quando quest’ultimo muore a causa della febbre tifoidea, la giovane vedova diventa l’amante del suo anziano suocero. Etsuko nutre nel suo cuore una fervida passione, ma non verso il suocero, bensì nei confronti del bracciante agricolo Saburō; un avvenente giovanotto tanto bello e abbronzato quanto grezzo e ottuso. Ovviamente quella di Etsuko è una passione segreta e inconfessabile; e il suo tormento diventa ancor più penoso quando il giovane intraprende una relazione con una contadina della fattoria, facendo scoppiare nel suo cuore una straziante gelosia. La reazione della giovane vedova si manifesta con una rabbia e un dispetto continui nei confronti dei due amanti, senza peraltro che questi, soprattutto l’ottuso bracciante, percepiscano minimamente le motivazione di tanto astio. Alla fine, Etsuko costringe Saburō a incontrarla in un orto a tarda notte. Lo incalza di domande sui suoi sentimenti, poi lo invita ad avvicinarsi. Il giovane che pare abbia finalmente capito tutto, l’abbraccia nella sua rozza maniera, ma Etsuko lancia un grido. Accorre in suo aiuto il suocero che, con una falce in mano, resta impietrito a guardare entrambi. Ma Etsuko non ha esitazioni strappa la falce dalle mani del vecchio e l’abbatte con violenza sul collo di Saburō uccidendolo. Sete d’amore segna un netto allontanamento dalla tecnica narrativa “autobiografica” di Confessioni di una maschera. La decisione di sostituire l’Io narrante del romanzo con un narratore, coadiuvato da sparsi flussi di coscienza, testimoniano la volontà dello scrittore di conferire all’opera una maggiore indipendenza dello sviluppo dell’intreccio dalle immersioni analitiche nella 2

Mishima Yukio, Nichiyōbi, in MYZ, vol. 3, p. 570.

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propria psiche. Ma, nonostante questa modificazione tecnica, il coinvolgimento dello scrittore con il materiale letterario è sempre molto profondo e legato a problematiche personali. Etsuko, che nella realtà pare fosse stata un uomo, è il personaggio su cui Mishima veicola i suoi impulsi più regressivi. Etsuko sta a Mishima come Emma Bovary sta a Flaubert, ha evidenziato Scott Stokes3, ma un’altra opera che viene subito alla mente è Il diavolo in corpo di Radiguet, scrittore, come abbiamo visto, molto amato da Mishima; e ci riferiamo non solo alla proiezione psicologica dell’autore sul protagonista, ma anche alla tipologia del rapporto amoroso, alla passione tanto più accesa quanto non corrisposta, all’incessante desiderio di torturare un partner sulla cui sofferenza si costruisce la propria ragione di vita. Ma al di là di queste corrispondenze che a noi appaiono così evidenti, Mishima, invece, ha sempre affermato che la principale influenza per Sete d’amore sia dovuta allo scrittore francese Francois Mauriac. Questo scrittore affascinava particolarmente Mishima per la sua abilità nelle descrizioni minuziose, nel soffermarsi con accurati primi piani su particolari espressioni del viso o altre parti del corpo, su oggetti, vestiti e quant’altro. Tecnica ampiamente sfruttata in Sete d’amore insieme ad altri interessanti espedienti “cinematografici”, come il particolare uso dei tagli di luce: riflessi del sole o della luna, su una lama mezza coperta di fango, su una bianchissima chiostra di denti, o sul collo abbronzato di Saburō. Illuminazioni fulminee e abbaglianti, sapienti giochi di luce che raggiungono la massima intensità nella vertiginosa e incalzante descrizione di un festival notturno. La protagonista di Sete d’amore, chiaro alter ego dello scrittore, diventa una sorta di veicolo per realizzare quegli impulsi ossessivi che erano già stati descritti in Confessioni di una maschera. Saburō non è altro che un’ulteriore rappresentazione di quella sana bellezza non intellettuale, sul modello di Ōmi, che va tormentata e annientata. La differenza è che qui l’aggressività verso l’oggetto del desiderio si è trasferita dalla sfera onirica a quella reale. Una scena clou del romanzo è rappresentata da un festival notturno tenutosi in un tempio, a cui si reca Etsuko con tutta la famiglia. La folla degli spettatori circonda i giovani del villaggio, tra cui c’è anche Saburō, seminudi e lanciati in una selvaggia danza rituale. Etsuko osserva con invidia e brama il corpo del giovane contadino che sussulta negli scatenati movimenti della danza. La folla la spinge sempre più verso di lui, il suo sguardo è ammaliato da quella vigorosa e sudata schiena nuda in cui vede un oceano infinito in cui desidera gettarsi. Alla fine lascia cadere ogni resistenza, si lascia andare sul corpo del giovane e affonda con violenza le unghie nella sua carne. Etsuko 3

Henry Scott Stokes, Vita e morte di Yukio Mishima, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 123.

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sente il sangue gocciargli tra le dita, ma lui è così immerso nell’estasi dionisiaca che non lo avverte neanche. E così il piccolo protagonista di Confessioni di una maschera, che si era limitato a osservare i giovani indemoniati nel suo giardino, ora, nei panni di Etsuko, ha trovato il coraggio di lanciarsi nella mischia e unirsi a loro con estrema violenza e sensualità. Mentre lavorava a Sete d’amore Mishima, nel contempo, pubblicava un lavoro a puntate, Una notte bianchissima (Junpaku no yoru). Si trattava del primo di quei lavori a puntate che egli stesso definiva “minori” e che accompagnarono la sua produzione più impegnata e rappresentativa per quasi tutta la sua carriera. Non possiamo assolutamente definirle opere di cassetta, perché i tratti geniali delle opere più importanti, seppur in misura minore, sono sempre presenti. Ma di sicuro sono lavori di più facile lettura, in cui notiamo uno stile molto meno costruito e un vocabolario molto più ridotto; si può immaginare lo “sforzo” che deve aver fatto, essendo uno degli scrittori dal linguaggio più complesso e ricco della letteratura giapponese del novecento. Un’operazione di semplificazione e alleggerimento che mettendo un po’ da parte la cesellatura delle frasi, lascia più spazio all’intreccio narrativo e ai colpi di scena tipici della sua natura di intrigante tessitore di trame. Era incredibile la capacità di Mishima di lavorare contemporaneamente a queste opere più “semplici” e ai suoi lavori più complessi. “Verso la fine della sua carriera”, dice Nathan, “era capace di interrompere la stesura di un romanzo importante per segregarsi in una camera d’albergo, lamentandosi amaramente con amici ed editori per la decina di giorni che gli occorrevano per completare un lavoro che più tardi sarebbe stato pubblicato a puntate. A volte, invece, divideva a metà la sua notte di lavoro, buttando giù a gran velocità, nelle prime ore, una pagina dopo l’altra di lavori popolari, e poi rallentando il passo per i lavori importanti fino all’alba”4. Una notte bianchissima ebbe un successo strepitoso e ne fu subito fatto un film, il primo di decine di adattamenti cinematografici tratti dalle opere di Mishima. Anche Sete d’amore riscosse un grosso successo con la straordinaria vendita, se consideriamo il fatto che non era un’opera “popolare”, di 70.000 copie; vendita che procurò a Mishima una notevole somma di denaro. Mishima era diventato l’unico sostenitore della famiglia Hiraoka, e tre mesi dopo la pubblicazione del libro, nell’agosto del 1950, lo scrittore trasferì tutta la sua famiglia in una casa più grande a Midorigaoka, un quartiere residenziale a sudovest di Shibuya. Una spaziosa casa a due piani in stile giapponese dove vissero per otto anni, fino a quando Mishima si sposò e si 4

John Nathan, Op. cit., p. 104.

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trasferì con la moglie e i genitori in una casa che fece costruire progettandola personalmente. Gli anni trascorsi in questa casa di Midorigaoka sono stati il periodo più sereno della vita familiare di Mishima. La madre era ancora il punto di riferimento fondamentale per lo scrittore; la sera entrava nella sua stanza e gli preparava tutto quello di cui avrebbe avuto bisogno per lavorare durante la notte, non solo carta, penne e matite, ma anche tè, cibo e coperte. Continuava a conservare il privilegio di essere sempre la prima a prendere visione degli ultimi scritti del figlio. Il padre Azusa, pur stravolto dalle tematiche inusuali e provocatorie di Confessioni di una maschera, era estremamente soddisfatto del successo delle vendite, e in un certo senso aveva ormai accettato di buon grado la scelta di suo figlio. Anzi ora ne era orgoglioso, quasi altezzoso per tutta quella fama, e cominciò addirittura a occuparsi degli aspetti giuridici ed economici dell’attività del figlio, diventando una sorta di suo agente letterario. Ad ogni modo i battibecchi fra i due non terminarono del tutto, a volte anche per ragioni estremamente futili come quella degli animali domestici. Azusa amava i cani e non potendo sopportare la passione smodata del figlio per i gatti, pretendeva che se ne sbarazzasse. Effettivamente Mishima amava oltre misura i suoi gatti; aveva ricavato una piccola apertura nella parete della sua stanza attraverso la quale i suoi amici felini potevano entrare e uscire indisturbati, e spesso lavorava per ore tenendo un gatto in grembo. Per non parlare del fatto che quando era all’estero addirittura inviava a casa cartoline indirizzate ai suoi amati mici.

Colori proibiti Alla fine dell’estate del 1950, Mishima iniziò a frequentare i bar e i caffè per omosessuali che subito dopo la guerra si erano moltiplicati in tutta Tōkyō. Il suo locale preferito era un “gay caffè” chiamato Brunswick. Lì vi si potevano trovare giovani camerieri attraenti e un ambiente abbastanza eterogeneo: agiati signori giapponesi di una certa età, uomini d’affari stranieri, esponenti delle Forze Armate Americane e intrallazzatori di vario genere. Tra gli artisti che animavano le serate c’era Maruyama Akihiro, che più tardi sarebbe diventato un famoso chansonnier travestito, conosciuto come l’Edith Piaf del Giappone, e avrebbe sostenuto la parte di protagonista femminile nella pièce teatrale di Mishima, La lucertola nera (Kurotokage). Tra il 1950 e il 1951 Mishima frequentò assiduamente i gay bar, e in particolare il Brunswick, in apparenza per raccogliere materiale per il suo nuovo libro, Colori proibiti (Kinjiki). In questi locali si comportava, infatti, come un semplice spettatore;

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non nascondeva di conoscere le persone del posto, ma cercò sempre per quanto possibile di nascondere la sua appartenenza a quel mondo. In Colori proibiti Mishima ha espresso i suoi conflitti e le sue contraddizioni dividendole fra due personaggi fondamentali e in un certo senso antitetici. Il primo, Shunsuke, un romanziere di una certa età, rappresenta quella figura di intellettuale, vecchio e cinico, che Mishima temeva sempre di riconoscere come parte di sé. Mentre Shunsuke osserva un opuscolo pubblicitario della terza edizione della sua Opera omnia corredato da una sua fotografia, leggiamo: Era la fotografia di un vecchio che non poteva esprimere altro che bruttezza. Eppure, non sarebbe stato affatto difficile riscontrarvi quell’ambigua qualità che in genere chiamano bellezza spirituale. La fronte larga, le guance scarne e avvizzite, le labbra carnose che esprimevano avidità, la mascella volitiva: in tutte queste caratteristiche erano evidenti i segni del lungo travaglio che il suo spirito aveva affrontato. Tuttavia, anziché un volto modellato dallo spirito, questo era piuttosto un volto che ne era stato divorato5.

Il secondo personaggio è Yūichi, un avvenente giovane che Shunsuke vede per la prima volta nell’atto di emergere dalle onde del mare dopo una vigorosa nuotata. Agli occhi di Shunsuke il suo corpo superava in perfezione le sculture dell’antica Grecia, sembrava un Apollo di bronzo di uno scultore della scuola del Peloponneso. E osservandone il viso ne contempla il mirabile profilo, la linea impeccabile del naso, che conferivano a quelle splendide fattezze giovanili una sorta di casta primordialità, come se in vita sua avesse conosciuto soltanto privazioni e nobiltà d’animo. Yūichi è un giovane irriflessivo che, a differenza del protagonista di Confessioni di una maschera, non si crea troppi problemi per la sua doppia vita di uomo sposato e di omosessuale. Ma più che di omosessuale la sua vera connotazione è quella di narcisista; un narcisista che gode oltremodo della sensazione vittoriosa di attirare inesorabilmente tutti gli sguardi, maschili o femminili, sulle forme perfette del suo corpo. In questo modo, la relazione con il proprio e l’altro sesso viene unificata da una libido sublimata nell’autocontemplazione. Del tutto diversa è la posizione del primo personaggio, l’anziano Shunsuke, che prova un’inguaribile avversione nei confronti delle donne. Davanti al cadavere della terza moglie, che si è uccisa insieme al proprio amante, preme una maschera di teatro nō sul volto di lei, fino a quando lo vede

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Mishima Yukio, Colori proibiti, in Mishima Yukio - Romanzi e racconti, vol. I, cit., p. 248.

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deformarsi e frantumarsi come la polpa di un frutto maturo. Shunsuke, alla fine, dopo aver fatto un interminabile e sconnesso sproloquio a Yūichi, si ucciderà con un overdose di cocaina, non senza aver prima consumato la sua vendetta sulla donne, grazie all’algida bellezza del suo amico. La stesura di Colori proibiti permise a Mishima di entrare in profondità nell’universo omosessuale giapponese, facendogli rendere conto che esso era molto più grande di quanto avesse mai immaginato. Ma più di una volta per tutto il libro risuona come un allarme, si avverte come un sentimento di paura per quella “giungla della sensualità”, come lui stesso la definisce, che è il mondo omosessuale. Nonostante il romanzo con il tempo non si sarebbe rivelato come una delle opere maggiormente riuscite dello scrittore, alla sua apparizione la critica gli concesse un’approvazione alquanto entusiastica. I due famosi critici Usui Yoshimi e Nakamura Mitsuo, in un dibattito pubblicato su una nota rivista letteraria, esprimono tutta la loro approvazione per questo romanzo. Usui, in particolare, ne sottolinea l’aspetto audace e socialmente sovversivo, ancor più provocatorio dei primi trasgressivi racconti di Tanizaki. Ancora, ne viene esaltata l’architettura imponente e composita; nonostante Mishima stia trattando una porzione relativamente piccola e particolare della società giapponese, il mondo che ci viene presentato è molto più variegato di quanto ci si possa aspettare, e popolato, tra l’altro, da un’incredibile varietà di personaggi6. Nondimeno, sono stati forse proprio questi aspetti, inizialmente elogiati, a diventare successivamente i punti deboli su cui si sono accaniti critici meno favorevoli alla narrativa di Mishima. Questi ultimi ne hanno invece sottolineato la lunghezza eccessiva, l’architettura troppo ingombrante e pretenziosa, la “folla” di personaggi, non tutti adeguatamente caratterizzati. La redattrice di Colori proibiti era una giovane donna di nome Matsumoto Michiko. Ma il suo compito in genere andava ben oltre la semplice revisione meccanica dei manoscritti, ella rappresentava per gli scrittori con cui lavorava un riferimento essenziale, un vero e proprio supporto psicologico. Se un autore aveva problemi col suo lavoro poteva tranquillamente discuterne con lei. Una volta al mese la redattrice si recava a casa di Mishima per ritirare l’ultimo fascicolo e sapere se tutto procedeva bene. Così, da gennaio a novembre 1951, il periodo in cui Colori proibiti venne pubblicato a puntate, Matsumoto Michiko vide lo scrittore abbastanza spesso. Tra le cose che la giovane redattrice subito notò della vita intima di Mishima fu il rapporto strettissimo con la madre; ancora adesso Shizue era sempre presente nella vita 6

Nakamura Mitsuo, Usui Yoshimi, “Mishima Yukio”, Nihon bungaku kenkyū shiryō kankōkai, 1952.

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del figlio, iperproteggendolo come quando era un ragazzino. Altra cosa che colpì Matsumoto fu la mancanza di particolari affettazioni nello scrittore. Prima di tutto, era precisissimo nel rispettare le scadenze. Autori affermati – e Mishima era ormai affermato dal 1951 – abitualmente poco prima della scadenza di consegna informavano i loro redattori che il lavoro non era proceduto bene nelle ultime settimane, o che la notte precedente qualcuno aveva insistito per una bevuta in più. Mishima, invece, non ha mai mancato una scadenza in tutta la sua carriera. (...) E le scadenze spesso erano più di una in un mese; capitava che i redattori di case editrici diverse si incontrassero davanti alla porta della sua casa per ricevere dalla cameriera i plichi che lui aveva lasciato per loro. Oltre alla puntualità di consegna, era noto anche per la chiarezza della grafia7. La norma in Giappone tra gli autori più conosciuti era consegnare lavori quasi illeggibili, tanto che le case editrici ricorrevano a dei veri e propri esperti per la decifrazione dei manoscritti8.

Invece la scrittura di mishima era, per così dire, mozartiana; A quanto testimoniano anche i suoi redattori, faceva una sola stesura, senza quasi nessuna correzione. Il lavoro era già tutto completo nella sua testa, si trattava solo di vergarlo nella sua elegante calligrafia. Ma non erano solo queste le caratteristiche che lo distinguevano dalla sua categoria. L’unico aspetto che forse lo accomunava ad altri colleghi era il lavorare quasi tutta la notte e fare colazione a mezzogiorno, ma per il resto, la sua vita razionale e ordinata era più simile, come molti hanno notato, a quella di un banchiere che a quella di uno scrittore. Non beveva quasi e fumava pochissimo, non frequentava mai i locali dove si riunivano gli scrittori affermati di Tōkyō. E quando una volta la redattrice gli espresse la sua sorpresa nel constare come fosse ordinata la sua vita, Mishima le disse: “Molti scrittori si comportano esteriormente in modo selvaggio, ma dentro sono più che normali; io mi comporto normalmente, ma è dentro che sono malato”9, facendo seguire l’affermazione da una delle sue proverbiali, esplosive risate. Alla fine del 1951 Mishima intraprende il suo primo viaggio in Occidente. Non si trattava di una vacanza, anche se, dopo il suo sesto romanzo e tantissimi altri lavori di saggistica e narrativa, avrebbe tranquillamente potuto concedersela. Era un viaggio alla ricerca della sua salute fisica, mi7

Per la struttura ideografica della lingua giapponese, la macchina da scrivere (seppur vi erano degli apparecchi dalla tastiera enorme, molto lenti e scomodi da usare) non era utilizzata dagli scrittori. Fino alla comparsa dei primi personal computer che risolvevano il problema delle dimensioni e della velocità, gli scrittori giapponesi hanno scritto a mano. 8 John Nathan, Op. cit., pp. 108-109. 9 Cit. in John Nathan, Op. cit., p. 109.

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nata pericolosamente dall’ipersensibilità generata dalla frequentazione quasi esclusiva dell’universo delle parole. Nel 1951 non era facile per i giapponesi lasciare il Giappone; i passaporti non esistevano, c’erano solo permessi di viaggio firmati dal generale MacArthur, quasi impossibili da ottenere. Fu grazie a un vecchio amico del padre, un pezzo grosso del quotidiano Asahi shinbun, che Mishima riuscì a essere nominato “inviato speciale” del giornale. Alla vigilia del Natale 1951 partì da Yokohama a bordo della nave S.S. President Wilson. Da questa esperienza nacque un diario di viaggio intitolato La coppa di Apollo (Aporo no sakazuki). Le prime frasi scritte mentre la nave si sta dirigendo verso San Francisco ci testimoniano il senso di rinascita che questo viaggio aveva: Sole! Sole! Sole perfetto! Noi che abbiamo l’abitudine di lavorare di notte nutriamo per il sole una brama pari alla fame o alla sete. Libertà di fare un bagno di sole per tutto il giorno, libertà di stare tutto il giorno sotto il sole senza essere disturbato dal lavoro o dalle visite, libertà di vedermi accanto per tutto il giorno la mia ombra nitida; stando tutta la giornata sul ponte, il mio volto si è subito abbronzato. (...) Sento che nessuna meraviglia dei paesi sconosciuti che vedrò da ora in poi potrà superare questo spettacolo. (...) Oggi non ho assistito al tramonto. Ho passato il giorno fissando, incantato, il volto del sole, e non ho pensato di vederlo truccato da vecchio. Augustine, il fanciullo sensibile che compare nel Vecchio di Porto Riche, col suo interessarsi solo al tramonto era motivo di grande preoccupazione per i genitori. Anch’io da ragazzo non ammettevo che il sole avesse altra ragion d’essere se non il tramonto. Esponendo il corpo al sole, sento, con tutto me stesso la gioia di essere finalmente libero da questo testardo sentimentalismo10.

Osservare il sole luminoso nel cielo azzurro, la possibilità di poterne godere a piacimento sul ponte della nave erano esperienze del tutto nuove per lui, esperienze che gli erano sempre state precluse a causa del precario stato di salute che lo aveva afflitto in gioventù. Ora scopre uno strabiliante universo di vita e di luce, un universo alternativo alle notti di Novalis e ai crepuscoli irlandesi di Yeats, rievocati nelle ore notturne del suo studio. È stato come uscire da una buia caverna e vedere il sole per la prima volta. Da quando ero nato per la prima volta stringevo la mano all’astro luminoso. Per quanto tempo avevo represso dentro di me la mia passione per il sole. Per 10

Mishima Yukio, La coppa di apollo, Milano, Leonardo, 1993, pp. 17-18.

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tutto il giorno, mentre me ne stavo disteso sotto i raggi solari, non feci altro che pensare a come avrei potuto rimodellare me stesso. Che cosa possedevo in eccesso? Cosa mi faceva difetto? (...) Ciò che possedevo in eccesso era chiaramente la sensibilità, ciò che mi faceva difetto era la coscienza esistenziale del mio corpo. Io ho sempre disdegnato l’intelligenza come tale, freddamente intesa. Quello che desideravo era un’intelligenza che possedesse una coscienza esistenziale del corpo, un’intelligenza la cui esistenza fosse indubitabile come una statua di marmo. E per conquistarla non potevo restare confinato nella buia caverna del mio studio. Avevo assolutamente bisogno del sole11.

Dopo aver trascorso un giorno a San Francisco e uno a Los Angeles, rimase a New York per dieci giorni. Si recò sulla cima dell’Empire State Building, visitò il Museo d’arte moderna, vide l’opera di Strauss, Salomé, che esaltò per molte pagine del suo diario. Ma la città in sé non lo entusiasmò più di tanto, arrivando alla conclusione che New York era come Tōkyō fra qualche centinaio d’anni. Da New York andò a Rio, dove rimase un mese in attesa dell’inizio del carnevale alla fine di febbraio. Qui, infastidito dal caldo opprimente, trascorse buona parte del suo tempo nella camera d’albergo, di giorno a dormire, di notte a lavorare. Il suo accompagnatore, il corrispondente estero del giornale Asahi shinbun, rimase sbalordito della continua dedizione al lavoro di Mishima, che molto spesso lo piantava in asso dovunque fossero per tornare a scrivere nella sua camera. Ma fu anche colpito da un altro aspetto dello scrittore: la sfacciata omosessualità. Mishima, che in Giappone aveva sempre cercato di nascondere in pubblico questo suo aspetto, all’estero non si preoccupava minimamene di manifestarlo o di parlarne. Secondo il corrispondente estero dell’Asahi shinbun, Mishima portava regolarmente nel pomeriggio al suo hotel ragazzi molto giovani incontrati nei parchi. E quando gli chiese come facesse senza neanche conoscere la lingua del luogo, Mishima gli rispose che in quel mondo ci si capisce senza parole. Gli disse inoltre che era anche interessato alle donne, ma il suo interesse era circoscritto al processo di corteggiamento e all’osservazione della psicologia femminile, restava invece completamente disinteressato all’“atto finale”12. Il carnevale iniziò il 23 febbraio, e nel suo diario Mishima annota con fervido entusiasmo che ha danzato per tutto il carnevale fino al mattino. “Perché l’ebbrezza del carnevale, per chi osserva soltanto, dopo un po’ 11 12

Mishima Yukio, Watashi no henreki jidai, in MYZ, vol. 30, pp. 472-473. Cit. in John Nathan, Op. cit., p. 112.

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svanisce. Quindi, lo confesso onestamente, ho ceduto all’ebbrezza”13. Il suo accompagnatore testimonia di averlo visto gettarsi nella mischia, mezzo nudo come tutti gli altri, e con l’espressione più felice che avesse mai visto disegnata sul suo volto. L’inziale timida esperienza del trasporto del palanchino si evolve qui in un’azione molto più audace, sensuale e liberatoria che non può non ricordarci quella di Etsuko in Sete d’amore. Il 3 marzo Mishima da Rio prese un aereo per Parigi e si fermò all’Hotel Grand con l’intenzione di restarvi una settimana. Il giorno successivo accadde un episodio spiacevole. Agli Champs Élysées gli si avvicinò un uomo che gli proponeva il vantaggioso cambio di 500 franchi per un dollaro, invece degli ufficiali 350. Mishima lo seguì nel retrobottega di un caffè e tirò fuori 2500 dollari in travelers checks, avendo intenzione di cambiarne alcune centinaia. Ma all’improvviso si sentì il suono acuto di un fischietto, l’uomo disse che erano in pericolo, afferrò i travelers checks e schizzò via dalla stanza. Mishima fece lo stesso, ma una volta fuori, dell’uomo non c’era più traccia. Subito denunciò il furto alla legazione giapponese (a Parigi non c’era ancora l’ambasciata) e il pagamento dei travelers checks fu bloccato. Tuttavia ci volle un mese per poter disporre nuovamente del denaro, e così in quel periodo dovette rimanere a Parigi senza un soldo in tasca14.

Lasciò il lussuoso albergo dove pernottava, e fu indirizzato dalla legazione giapponese a una piccola pensione giapponese di nome Botan’ya, sull’avenue Mozart, lungo l’Opera, dove potè soggiornare a credito. Nella piccola pensione c’era un solo altro cliente, il regista Kinoshita Keinosuke, attraverso il quale conobbe anche il compositore Mayuzumi Toshirō. Tuttavia Parigi non fece una grossa impressione allo scrittore, che trascorreva la maggior parte del tempo nella sua stanza a scrivere il suo primo lavoro teatrale in quattro atti, Girasoli di notte (Yoru no himawari). Quando guardava dalla finestra mentre scriveva, gli sembrava che per strada ci fossero solo bambini e vecchi. Disse al suo nuovo amico compositore Mayuzumi: “Parigi è un posto dove si passa direttamente dall’infanzia alla vecchiaia, senza attraversare la giovinezza”15. Parigi per Mishima era, come egli stesso la definì nel suo diario, una donna brutta dal trucco pesante. Il 18 aprile lasciò Parigi e volò a Londra, dove si fermò all’Hotel Mt. Royal. Nei cinque giorni di permanenza passeggiò per Hyde Park, fece shopping a Oxford street e un breve viaggio nella città di Guilford nel Surrey. 13 14 15

Mishima Yukio, La coppa di Apollo, cit., p. 73. John Nathan, Op, cit., p. 113. Cit. in ivi, pag. 114.

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Sembrò essere positivamente colpito da quello che vide, anche se dal diario appare evidente la voglia di proseguire al più presto il suo viaggio. La sua prossima tappa era la terra che più di tutte desiderava vedere: la Grecia. A differenza di altri scrittori giapponesi suoi contemporanei, Mishima nutriva un grandissimo interesse per la cultura ellenica e la tradizione classica europea; quattro anni prima, aveva scritto una novella intitolata La leonessa (Shishi), che si ispirava alla Medea di Euripide. Arrivò ad Atene il 24 aprile e vi rimase una settimana, durante la quale fu per due giorni a Delfi. Nel diario dice che le sue aspettative non erano state tradite e che aveva trovato tutto estremamente eccitante. Quello che Mishima vedeva nella Grecia era un efficace rimedio per il suo “inguaribile” romanticismo. Egli ricercava in essa la ratio e la misura del classicismo. E non solo, era altresì attirato dalla luce fisica e psichica che essa emanava, una luce che avrebbe dovuto squarciare le tenebre della malinconica introspezione dove si era rifuggiato sinora. E quella luce raggiante avrebbe stabilito un equilibrio tra la mente e il corpo non contaminato dalla coscienza e dall’immaginazione poetica. E tutto questo egli percepì nelle rovine, nelle tragedie greche a cui assistette nel teatro di Dionisio, e, soprattutto, nei perfetti armoniosi corpi dei giovani rappresentati dalle statue di marmo, testimoni dell’“immortalità della bellezza”, come il giovane auriga di Delfi. Con una sua personalissima teoria sulla civiltà ellenica, egli era convinto che nei tempi classici non era esistita una “spiritualità” tout court nel senso dell’etica cristiana, ma un perfetto equilibrio tra la dimensione del corpo e della mente. Ora questo equilibrio era andato ben bresto perduto, e lo sforzo sovrumano per ripristinarlo aveva dato vita all’estetica classica e alla tragedia, che con la sua immancabile punizione dell’arroganza umana rappresentava un guida sicura verso quell’armonia. Fu un vera e propria catarsi, che lo portò alla conclusione che bellezza ed etica erano un’unica cosa, che creare una meravigliosa opera d’arte e diventare noi stessi meravigliosi era eticamente la stessa cosa. La Grecia sferzò la sua cupa sensibilità romantica con il nerbo di un luminoso classicismo nietzschiano. Al ritorno in Giappone, nel maggio 1952, ancora esaltato dall’illuminante esperienza, Mishima si iscrive a un corso di greco nell’università dove si era laureato. Pubblica, forse in seguito alla lunga osservazione dell’oceano durante il suo viaggio, Morte di mezza estate, un racconto inquietante dalle tinte cupe, dove il mare sprigiona tutta la sua forza distruttiva, prendendo la vita dei due piccoli figli della giovane protagonista. In questo stesso periodo inizia a frequentare la figlia di un ricco industriale di nome Eiko. L’aveva incontrata a luglio in un party dell’alta

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società a Karuizawa, e fu molto colpito da lei anche per il fatto che era una studentessa della Scuola dei Pari. Una settima dopo le telefonò per uscire e, con grande meraviglia di lei, si presentò al primo appuntamento portandole un mazzo di fiori e del profumo. In quell’occasione, tra l’altro, ci tenne, in modo molto formale, a non entrare in casa e ad aspettare nell’atrio. La loro relazione, pare del tutto platonica, durò fino a che Eiko si laureò alla Scuola dei Pari nel marzo del 1954. Il loro, più che un rapporto sentimentale, fu un divertente rapporto di amicizia, in cui la ragazza assecondava sempre i capricci e il gusto per le mascherate di Mishima. “A volte”, racconta Nathan, “le telefonava e le chiedeva di venire a un appuntamento davanti all’ingresso dell’Università di Tōkyō, senza trucco e con abiti molto semplici, e lui si presentava con la vecchia uniforme della facoltà per giocare agli studenti. Quindi la portava con sé alle lezioni di greco e, dopo, in uno ‘sciatto e sporco’ ritrovo per studenti a prendere del riso al curry e del tè. Altre volte le chiedeva, invece, di vestirsi elegante, in kimono per andare a vedere il teatro kabuki, o in vestito da sera per andare alla Comédie-Française. Spesso ai loro appuntamenti era presente anche la madre Shizue. E la presenza costante e invadente di quella madre pare sia stato uno dei motivi principali perché la ragazza non pensò mai seriamente alla loro unione, e finì per sposarsi con un altro nel 1955. Nei primi anni cinquanta la vita sociale di Mishima era già abbastanza varia e complessa. Al suo ritorno in Giappone, a maggio, era stato invitato a unirsi a un gruppo di scrittori chiamato “La società dell’albero in vaso” (Hachi no ki kai) tra i cui membri figuravano la sua vecchia conoscenza, il critico Nakamura Mitsuo, gli scrittori Yoshida Ken’ichi e Ooka Shōhei, e lo storico dell’arte Yoshikawa Itsuji. Una volta al mese il gruppo si riuniva nelle case dei membri per bere e parlare di letteratura, e all’inizio del 1958 iniziarono anche a pubblicare una rivista intitolata Koe (Voci). Mishima aderì alla società per dieci anni, fino al 1961, quando lasciò il gruppo per una serie di problemi personali sorti con alcuni membri. Un altro gruppo frequentato da Mishima era quello degli omosessuali. Personaggi giapponesi e stranieri che aveva conosciuto durante la stesura di Colori proibiti, con i quali aveva continuato a mantenere rapporti di amicizia, che organizzavano divertenti party a casa di un ricco uomo d’affari americano che viveva a Tōkyō ormai da anni. Mishima si aggregò spesso a questo gruppo fino a poco prima del suo matrimonio, avvenuto nel 1958, anno in cui interruppe anche una lunga relazione con un giovane amante giapponese. Infine c’era il gruppo degli amici del teatro. Il teatro rivestiva un ruolo molto importante nell’attività creativa dello scrittore. Nel 1953 Mishima

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affermava che le opere teatrali erano per lui come “amanti” – a differenza dei romanzi che avevano il carattere di “mogli” –, e che aveva bisogno di scriverne almeno una all’anno16.

Il teatro L’affermazione del teatro occidentale in Giappone avvenne, rispetto alla narrativa, relativamente più tardi, e comunque non prima della fine della guerra del Pacifico. C’erano stati anche tentativi precedenti, sin dal 1906, di inziare un “teatro di ispirazione moderna” (shingeki), ma molti erano stati gli ostacoli: i duri scontri con la censura ufficiale; la prevaricazione del kabuki, come espressione solidamente radicata della cultura tradizionale; la concorrenza della Nuova scuola (Shinpa), che anche si ispirava al teatro occidentale, ma che, col suo carattere di intrattenimento e d’evasione, più che alla ricerca intellettuale e avanguardistica puntava soprattutto a una presa maggiore sul pubblico di massa. Dopo la guerra, invece, il “teatro di ispirazione moderna” godè di maggior spazio e tolleranza della censura. La scelta dei testi verteva per lo più su drammi di Gogol, Tostoij, Ibsen e di autori giapponesi che spesso si rifacevano alla tradizione russa. Nondimeno anche il teatro occidentale del novecento veniva rappresentato con autori come John Osborne e TennesseeWilliams, e ampio spazio veniva riservato anche ad autori classici come Shakespeare. Ovviamente, furono i giovani drammaturghi a farsi portavoce delle nuove istanze culturali del teatro di ispirazione occidentale, e fra questi, seppur con prospettive molto diverse, Abe Kōbō e Mishima. Abe, legato all’ideologia di sinistra, si ispirava al teatro di Brecht, ed era molto apprezzato nel mondo letterario sovietico; Mishima, invece, dava priorità assoluta alla qualità stilistica, si rifaceva a Euripide e a Racine, e veniva tradotto solo in Occidente. Un primo esperimento per il “teatro di ispirazione moderna” Mishima lo fece nel 1949 con una commedia in un unico atto intitolata La casa di fuoco (Kataku). Ma la vera affermazione in campo teatrale avvenne l’anno dopo con il primo di quei Nō moderni (Kindai nōgakushū), che non si sarebbero presentati semplicemente come una rielaborazione dei drammi classici, che tra l’altro qualcuno già aveva provato a fare, ma avrebbero rappresentato un genere del tutto originale. Un genere che riproponeva in una chiave moderna, attentissima al ritratto psicologico dei personaggi, non solo l’atmosfera, ma anche la ricercatezza e le finezze linguistiche delle opere classiche a cui 16

Cit. in ivi, p. 117-118.

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si ispirava. Nondimeno, nell’elaborazione mishimiana i classici subivano a volte una radicale trasformazione nei punti clou della narrazione; ne è un vivo esempio il dramma Hanjo17. I personaggi del dramma sono tre, Hanako la donna impazzita, Jitsuko la pittrice, e Yoshio l’ex amante di Hanako. Yoshio aveva avuto una breve relazione con Hanako alcuni anni prima, poi dovendo partire aveva scambiato con lei, come promessa d’amore, una coppia di ventagli. Ma egli non ritorna e Hanako, continuando sempre ad aspettarlo, un po’ alla volta perde la ragione. Jitsuko, affascinata dalla bellezza di Hanako, vive con lei a Tōkyō nel costante timore del ritorno dell’uomo che potrebbe portargliela via. Ma quando Yoshio improvvisamente ricompare, la sconvolta Hanako non lo riconosce. Yoshio riparte e Hanako continua ad attendere il ritorno del suo amante. Nell’originale, la protagonista, impazzita per la lontananza del suo amante, rinsavisce non appena questi ricompare con il pegno che lei gli aveva dato prima della partenza. Nella rielaborazione moderna di Mishima la ragazza, entrata in questo mondo di perenne attesa, sembra aver trovato una nuova identità che non le consente in nessun modo di recuperare la precedente; e così, non riconoscendo più il suo vecchio amore, potrà continuare a vivere nella sua eterna “sospensione”. E ancora, di grande impatto emotivo è Il tamburo di damasco (Aya no Tsutsumi), dove il protagonista, l’anziano portinaio e uomo delle pulizie Iwakichi, si è innamorato di Hanako, un’affascinante signora che egli osserva dalla finestra di un ufficio legale al terzo piano, quando questa si reca in un’elegante sartoria al terzo piano dell’edificio di fronte a quello dove lui lavora. Egli le scrive appassionate lettere d’amore, tutte distrutte prima di arrivare alla destinataria dalla proprietaria della sartoria, timorosa di perdere una buona cliente. Ma tre conoscenti della proprietaria alla fine rivelano ad Hanako il contenuto di una lettera, che termina con la richiesta di un unico e solo bacio. Si progetta così un piano per farsi beffe di Iwakichi: gli lanceranno un tamburo di damasco, un tamburo muto con del tessuto di damasco al posto della pelle, usato solo come ornamento negli spettacoli teatrali. Poi lo inciteranno a percuoterlo, perché solo se riuscirà a farlo risuonare al di là della strada, Hanako esaudirà il suo desiderio. Ma ovviamente, per quanti sforzi faccia Iwakichi, il tamburo non emette suono; così per la disperazione si suicida lanciandosi nel vuoto. Nella seconda parte del dramma Iwakichi ritorna, proprio nella consuetudine del teatro nō, sotto le spoglie di fantasma 17

Il nō originale a cui si ispira appartiene alla categoria dei “drammi di donne impazzite” (kyōjomono), e Hanjo è un nome femminile che ricorda una famosa concubina cinese del periodo Han (221 a.C.- 220 d.C.) non più amata dall’imperatore.

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e appare dinanzi ad Hanako. Ma ancora una volta la sua passione, non placatasi neanche dopo la morte, viene annichilita. FANTASMA: “Lo percuoterò. Il mio amore farà risuonare un tamburo di damasco. (Il fantasma batte il tamburo. Produce un suono vigoroso.) Suona! Suona! L’hai sentito, vero? Il tamburo”. HANAKO (con un sorriso): “Non sento niente”. FANTASMA: “Non senti? È impossibile. Fai attenzione, ricomincio. Un colpo per ogni lettera che ti ho scritto. Uno, due, – li senti vero? – tre, quattro, il tamburo suona!” (Si odono i colpi di tamburo). HANAKO: “Non sento. Dici che il tamburo suona?”. FANTASMA: “Non senti? Stai mentendo. Non li senti questi? Dieci, undici. Non li senti?”. HANAKO: “No, non si ode alcun rullo di tamburo”. FANTASMA: “Bugiarda! (S’infuria). Non è possibile che io senta e tu no. Venti, ventuno, senti come suona!”. HANAKO: “Non sento. Non sento”. FANTASMA: “Trenta, trentuno, trentadue... Non puoi non sentirli. Il tamburo risuona. Un tamburo che avrebbe dovuto restare muto”. HANAKO: “Orsù, coraggio. Le mie orecchie bruciano dal desiderio di udirlo”. FANTASMA: “Sessantasei, sessantasette... possibile che io solo oda i colpi del tamburo?”. HANAKO (delusa tra sé e sé): “Ah, anche costui è come tutti gli altri uomini”. FANTASMA (disperato tra sé e sé): “Chi potrebbe testimoniare che lei ode i colpi?”. HANAKO: “Non sento. Non sento ancora niente”. FANTASMA (debolmente): Ottantanove, novanta, novantuno... ah, è la fine. Sarà dunque un’illusione il suono di questo tamburo? (Il tamburo continua a rullare). È inutile! È inutile! Allora è vero, il tamburo non suona. Per quanto io lo percuota, per quanto lo percuota, questo tamburo di damasco”. HANAKO: “Presto fa’ in modo che io possa udirlo! Non ti rassegnare! Che la sua voce possa giungere alle mie orecchie! (Tende la mano fuori dalla finestra). Non rassegnarti”. FANTASMA: “Novantaquattro, novantacinque... Ormai è la fine. Il tamburo non suona. A che serve percuotere un tamburo che non suona?... Novantasei, novantasette... addio, signora dei katsura18, addio... novantotto, novantanove... addio, ho finito di battere i cento colpi... addio”19. 18

Katsura è il nome di una pianta (Cercidiphyllum japonicum) legata alla mitologia cinese, secondo la quale sulla luna, in un palazzo di ghiaccio circondato appunto dai katsura, viveva una giovane donna bellissima e immorale. Questa pianta è collocata anche nello studio dove Iwakichi fa le pulizie, e all’inizio del dramma ci viene presentata tutta l’amorevole dedizione con cui il portiere l’annaffia e ne accarezza teneramente le foglie, immaginando che siano i capelli della donna che ama. 19 Mishima, Il tamburo di damasco, in Cinque nō moderni, Milano, Guanda, pp. 99-101.

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Il fantasma scompare lasciando gli spettatori immersi in un nichilistico silenzio. Il senso di vuoto e di inanità delle azioni umane che ci comunica il dramma viene ulteriormente amplificato dalle ultime parole di Hanako poco prima della calata del sipario: “Se avesse battuto un colpo ancora avrei sentito”20. Il teatro nō rappresentava per Mishima un riferimento estetico e culturale essenziale, un sacro recinto in cui rifugiarsi dalla “quotidianità” del Giappone contemporaneo. Il teatro nō è il tempio della bellezza, il luogo nel quale si realizza l’unione suprema tra religiosa solennità e bellezza sensuale. Nessun’altra tradizione culturale è riuscita a pervenire in campo teatrale a un grado così elevato di raffinatezza... La vera bellezza aggredisce, domina, depreda e alla fine distrugge. È stata proprio la lucida coscienza della violenta qualità insita nella bellezza a ispirare Thomas Mann per La morte a Venezia... Il nō può avere inizio solo dopo che il dramma si è ormai consumato e la bellezza giace in rovina. Potremmo forse arrischiare un raffronto tra la peculiarità “estetico-necrofila” del nō e quella di certi racconti di Edgar Allan Poe, come Ligeia o Berenice... Nel nō risiede il solo tipo di bellezza che abbia il potere di distogliere il “mio” tempo dal Giappone “esteriore” della nostra epoca... e di imporgli tutt’altro regime... e dietro la sua maschera quella bellezza cela sicuramente la morte, così come sicuramente mi condurrà alla distruzione e al silenzio21.

Dal 1953 fino al giorno della sua morte Mishima produsse un dramma all’anno in più atti, e una gran quantità di lavori in atto unico e di adattamenti. Aveva un modo singolare e sorprendente di procedere nella stesura del lavoro: “iniziava con la battuta finale dell’ultimo atto, e una volta che l’aveva buttata giù, scriveva il resto con una velocità impressionante; due atti in tre giorni, un dramma di quattro atti in sei giorni”22. Nel giugno del 1953 la compagnia Bungakuza mise in scena il suo primo dramma in quattro atti, Girasoli di notte. La stessa compagnia, nel 1950 e 1952, aveva rappresentato due dei suoi nō moderni, e dal 1953 fu espressamente per la Bungakuza che Mishima scrisse i suoi drammi contemporanei. Tra questi, I crisantemi del decimo giorno (Tōka no kiku) – opera più tarda scritta intorno al 1961 e forse una delle sue maggiori acquisizioni come drammaturgo – parla di un uomo politico, ex Ministro delle Finanze, che negli anni trenta è stato vittima di un attentato terroristico di destra. Dopo sedici anni dall’attentato 20

Ibid. Da un articolo pubblicato nel 1971 sulla rivista This is Japan, cit. in Henry Scott Stokes, Op. cit., p. 189-190. 22 John Nathan, Op. cit., p. 118. 21

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egli rivede Kiku, la fedele domestica che a quel tempo gli salvò la vita, e dai loro dialoghi si delinea la psicologia e l’ideologia del protagonista, che rispecchia abbastanza chiaramente quella che sarebbe stata l’ideologia di Mishima in quegli anni. Egli sostiene che l’ora più nobile e solenne della sua esistenza è stata proprio quella in cui i giovani terroristi di destra hanno cercato di ucciderlo, e che la morte al servizio dell’imperatore è di gran lunga preferibile a una vita priva di significato. In questi anni Mishima strinse amicizia con alcuni giovani membri del gruppo teatrale, tra cui Akutagawa Hiroshi, il figlio del famoso scrittore suicida Akutagawa Ryūnosuke. Tra gli amici del teatro erano da annoverare anche quelli del teatro kabuki. Nel dicembre del 1953, il teatro Kabukiza rappresentò il primo kabuki di Mishima, un adattamento di una storia di Akutagawa Ryūnosuke intitolata Il Paravento infernale (Jigokuhen), in cui si tratta il tema inquietante di un pittore che pur di ritrarre, quanto più realisticamente possibile, la scena di una bella fanciulla che precipita all’inferno, non esita a lasciar bruciare viva sua figlia in una carrozza. La parte femminile, che nel kabuki di Mishima assume dimensioni protagonistiche, venne affidata al famoso attore onnagata23 Utaemon, che lo scrittore ammirava fervidamente. In quell’occasione Mishima riuscì a diventare amico del famoso interprete di ruoli femminili, con cui si incontrò spesso per tutti gli anni cinquanta, e dalla cui frequentazione trasse ispirazione per il racconto Onnagata, scritto nel 1957. Nell’estate del 1953, Mishima era ormai un autore molto conosciuto; a ventotto anni, il più giovane autore giapponese ad avere già la sua raccolta di lavori pubblicata, in sei volumi. E non era solo la critica giapponese a considerarlo uno degli scrittori più rappresentativi e originali del dopoguerra, il riconoscimento gli veniva anche dagli intellettuali occidentali: il famoso critico e traduttore Edward Seidensticker non esitò a paragonarlo a James Joyce. Anche se a volte il suo stile così prezioso sembra indulgere al manierismo e all’artificio, esso rivela nondimeno un’estrema attenzione a quei valori estetici della lingua giapponese che il resto della nazione sembrava incline a trascurare... Sono molti gli scrittori giapponesi coetanei, o anche più giovani di lui, il cui stile può essere giudicato difficile... Ma solo di Mishima è lecito affermare che la ricchezza e sottigliezza della terminologia e del frasario, nonché la forza allusiva, costringono il lettore mediamente erudito a tenere a portata di mano gli opportuni testi di consultazione. 23

Nel teatro kabuki non vi sono attrici, le parti femminili sono rappresentate da attori specializzati nella parte delle donne, che hanno appunto il nome di onnagata (letteralmente “rappresentazione di donna”).

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Un vero maestro nella capacità di elaborare gli stili più diversi, e forse l’unico tra i suoi colleghi a fare uso della lingua letteraria classica... con grande scioltezza, competenza ed eleganza. In tal senso possiamo considerarlo uno scrittore joyciano. Joyce sapeva essere molti scrittori diversi, e altrettanto va detto di Mishima24.

Ma non era solo la sua intensa attività letteraria a renderlo famoso. Già in questo periodo Mishima costruisce quel personaggio extraletterario, quella figura pubblica, non priva di sfumature volutamente kitsch e provocatorie, che tanto sarebbe stata amata e odiata dal suo pubblico. In questi primi tempi della sua carriera il suo look si ispira ai personaggi hollywoodiani. Vestiva sgargianti camice sportive, spesso hawaiiane, calzoni neri larghi e stretti giù alla caviglia, scarpe nere a punta. Le camice erano sempre aperte per esporre il petto, molto irsuto per essere quello di un giapponese, su cui lasciava pendere una catena d’oro e medaglioni vari che aveva comprato in Italia e in Grecia. Portava sempre gli occhiali da sole e, come tocco finale, ostentava un taglio di capelli a spazzola, considerato nel Giappone del 1953 “l’ultima moda di Hollywood”25.

Con quest’abbigliamento amava passeggiare per Ginza, l’avenue più elegante di Tōkyō, sia di giorno che di notte. Si faceva notare nei club del quartiere di Roppongi, mentre ballava con le giovani attrici della compagnia teatrale Bungakuza, ma alle undici in punto, dovunque fosse, lasciava tutti e tornava a casa a scrivere.

La voce delle onde Intanto la febbrile passione per la Grecia terminò la sua gestazione e dette vita nel 1954 a una delle sue opere più conosciute e apprezzate, La voce delle onde (Shiosai). Il romanzo si ispira al racconto pastorale greco di Longo Sofista Dafni e Cloe, ma l’ambientazione agreste del lavoro originario viene spostata in una piccola isola, e i due pastorelli trasformati in pescatori. Il giovane protagonista, l’avvenente pescatore Shinji, incontra la giovane Hatsue, una pescatrice di perle da poco arrivata nella sua isola. Tra i due subito sboccia l’amore. In una delle scene più famose i due giovani amanti confrontano i propri corpi nudi vicino a un falò in una caverna; poi Shinji salta attraver24 25

Cit. in Scott Stokes, Op. cit., p. 130. John Nathan, Op. cit., p. 119.

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so il fuoco verso Hatsue e le dà il primo bacio. Molti sono gli ostacoli che si frappongono al compimento del loro idillio, ma Shinji li supererà tutti coronando il loro sogno d’amore. Mishima aveva progettato il lavoro nella primavera del 1953, e la solarità da cui era animato era indubbiamente scaturita dalla luminosa energia donatagli dalla Grecia. Grazie alle conoscenze del padre al Dipartimento di Pesca del Ministero dell’Agricoltura e Foreste, individuò l’isola giapponese di cui aveva bisogno come modello, la piccola isola di Kamijima lungo la costa di Izu. All’inizio dell’estate del 1953 trascorse dieci giorni sull’isola, andando a pescare all’alba con i pescatori del luogo e diventando amico del guardiano del faro. Iniziò a scrivere nell’autunno dello stesso anno e portò a termine l’opera nell’aprile del 1954. Quando a giugno venne pubblicata dalla Shinchōsha non solo diventò il romanzo più venduto di Mishima fino ad allora, ma battè tutti i record del dopoguerra con una vendita di 106.000 copie in edizione rilegata, per non parlare dell’infinità di copie in edizione economica. Le maggiori società cinematografiche si contesero i diritti di produzione per la realizzazione del film. Alla fine la spuntarono gli Studi Tōhō, che affittarono l’intera isola e girarono in sole tre settimane. Quando il film entrò nelle sale cinematografiche, alla fine di ottobre, riscosse un grandissimo successo. Il mese successivo Mishima riceveva il premio letterario Shinchōsha per il suo romanzo. Il lavoro non avrebbe mancato di ricevere critiche estremamente positive anche in Occidente; molto più tardi, Marguerite Yourcenar dirà della Voce delle onde: Uno di quei libri particolarmente felici che uno scrittore, di solito, scrive una sola volta nella vita. Una di quelle opere il cui successo immediato è tale da creare ostilità nei lettori più difficili. La sua stessa perfetta nitidezza è una trappola. Come l’arte statuaria greca della “belle époque” evita sui piani del corpo umano incavi e rilievi troppo pronunciati che creerebbero dei contrasti di luce e di ombra, per lasciar meglio percepire agli occhi e alla mano l’infinita delicatezza del modello, così La voce delle onde è un libro sul quale l’interpretazione critica non ha presa26.

La voce delle onde si presentò come un romanzo un po’ sui generis rispetto a quello a cui era abituato il pubblico di Mishima. Era la prima volta che lo scrittore parlava di una storia d’amore senza sfumature di perversione o di cinica ironia. Molti lo hanno definito il libro più “sano” di Mishima, e forse potremmo dire anche uno dei più convenzionali. D’altronde lo stesso autore, più tardi, avrebbe parlato di questo romanzo come di “uno scherzo 26

Marguerite Yourcenar, Op. cit., p. 32.

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al pubblico”, e del fatto che quell’inaspettato successo popolare avesse gettato “acqua gelata sulla sua febbre greca”27. Ma come sempre, le parole di Mishima vanno prese per metà come verità per metà come travestimento. Se doveva essere presente una vena satirica nelle motivazioni della stesura di quest’opera, è anche vero che in essa si sente la presenza di un genuino desiderio di “sanità”. Come se l’autore, attraverso l’evocazione della natura incontaminata, della forza del mare e dei giovani corpi dei protagonisti del romanzo, cercasse di evocare una voce che dal profondo della sua anima cercava di farsi strada verso la luce. La voce delle onde diventa così un ulteriore viatico verso un’esistenza nuova e diversa, non più dominata dall’ombra, ma dalla luce della vita e della salute. In un diario del 1955 afferma: Ho raggiunto una sostanziale salute fisica solo dopo essere diventato adulto. Le persone come me hanno una forma mentis differente da quelli che sono nati sani. Noi sentiamo, avendo raggiunto la salute solo alla fine, di avere il diritto di essere insensibili alle cose triviali, e ci alleniamo quotidianamente per essere in questo modo. Io ho sviluppato un indescrivibile disprezzo verso il pensiero della morte. ...Ho lasciato che i miei pensieri di morte si aggrovigliassero fra di loro come un’intricata rampicante, che diventassero come un vecchio maniero non più abitato28.

Ma la trasformazione non è così netta come potrebbero far pensare queste parole, il cupo romanticismo decadente di cui si era così a lungo alimentato non era del tutto scomparso dalla sua esistenza, e d’altronde mai scomparirà definitivamente. Ne sono testimonianza opere pubblicate anch’esse nello stesso periodo, come Una stanza chiusa a chiave (Kagi no kakaru heya), in cui il protagonista ha una relazione con una donna sposata che muore mentre fanno l’amore. Dopo la morte dell’amante l’uomo torna più volte a casa di lei per incontrare la figlia di nove anni con la quale si intrattiene giocando gioiosamente. In realtà nella sua mente aleggia il desiderio di chiudersi a chiave nella stanza, come faceva con la defunta, di possedere, uccidere e fare a pezzi il fragile corpo della bambina, diventando così il libero abitante di un mondo dominato dal caos. O come Shizumeru taki (La cascata sommersa), dove un ricco e attraente ingegnere, stufo del suo immancabile successo con le donne, decide di accendere il suo interesse sessuale cercando un’amante frigida. La trova, ma il suo “gioco” si trasforma in una vera passione, e anche la donna, presa intensamente da lui, sente di guarire dalla sua frigidità. Ma per portare all’estremo acme la sua 27 28

Cit. in John Nathan, Op. cit., p. 121. Cit. in Ivi, p. 122.

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“perversa” passione, il protagonista decide di recludersi per sei mesi in un freddo sito invernale dove si stanno svolgendo dei lavori per una diga. La tensione diventa insostenibile per la donna, che decide di lasciare il marito per stare definitivamente con lui. Tuttavia questa decisione dell’amante, ben lungi dal compiacerlo, viene interpretata come una debolezza, un’incapacità di tenere alta la tensione della loro passione, e la diretta conseguenza è il raffreddamento dei suoi sentimenti. Proprio quando il marito di lei giunge nel freddo sito per riportarla a casa, la donna si annega in una cascata, una cascata che sarà inghiottita dalla diga appena completata. Così, anche dopo l’inseguimento di una luminosa e vitale dimensione classica, ogni tanto fa capolino l’idea della morte con la sua forte connotazione erotica, insinuando nello scrittore più di un dubbio: “Io ventiseienne, Io classicista, Io che mi sento vicinissimo alla vita. Ma tutti questi Io potrebbero essere altrettante mistificazioni”29. Ad ogni modo, al difficile e conflittuale cammino intrapreso per raggiungere la “salute” psichica, Mishima affiancò quello più lineare e diretto per il raggiungimento della salute fisica. Nel luglio del 1955 inziò la pratica del body building che restò la sua principale attività fisica per il resto della sua vita. Egli aveva pensato al body building sin da quando era rientrato dal suo viaggio in Europa. Il sole, come abbiamo detto, era stato un forte elemento catalizzatore: Il sole mi stimolava a trascinare il pensiero fuori dalla notte delle sensazioni viscerali, fino al rigonfiamento dei muscoli fasciati da una pelle luminosa. E mi ordinava di costruire una nuova dimora in cui i pensieri, che gradatamente affioravano alla superficie, potessero abitare sicuri e tranquilli. Quella dimora era una pelle abbronzata e luminosa, muscoli possenti, sviluppati e sensibili. Il “pensiero della forma” e il “pensiero della superficie” non erano familiari alla maggior parte degli intellettuali proprio perché richiedevano una simile dimora, perché erano indispensabili simili utensili. (...) Attuai subito quel “pensiero”. Esso, più che un’idea, era un proposito che il sole mi donava giorno per giorno. Così mi trovai davanti a una massa di acciaio scura, pesante, fredda, come se la quintessenza della notte vi si fosse ancor più condensata30.

Ma prima del body building aveva iniziato anche altre attività sportive. Nell’estate del 1952 aveva cominciato a praticare il nuoto. Impiegava molto tempo ad imparare perché non era dotato di una grande coordinazione, e tra l’altro il suo rapporto con il mare, e l’immersione in acqua in genere, era 29 30

Mishima Yukio, Watakushi no henreki jidai, cit., pp. 477-478. Yukio Mishima, Sole e acciaio, Milano, Guanda, pp. 21-23.

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sempre influenzato da quella non piacevole prima esperienza infantile con la madre. Ma con uno dei suoi classici e accaniti sforzi di volontà, alla fine dell’estate aveva imparato a nuotare. Dal nuoto passò alla boxe. Nel 1953 e 1954 prese regolari lezioni in palestra, allenandosi con costanza. Mishima era estremamente affascinato dalla boxe e dall’atmosfera che la circondava. Eravamo ospitati in un vecchio lurido edificio. L’odore di latrina dilagava nelle docce. Calzoncini e canottiere pendevano dalle funi del ring. Dal soffitto pendevano sacchi da allenamento sbrindellati. L’epica sportiva era fatta di quelle banali masserizie, riflettevo. Queste semplici attrezzature simboleggiavano una sorta di barbarica eleganza di cui fino a quel momento non avevo avuto nozione31.

Entusiasta del nuovo sport, cercò di convertire alla pratica anche i giovani del gruppo teatrale Bungakuza. Non era un grande pugile, anzi, i numerosi colpi che prendeva dagli sparring partner durante gli allenamenti preoccupavano i suoi amici. Ma egli in questi casi sapeva assumere un atteggiamento canzonatorio e autoironico; una volta si fece riprendere con la cinepresa durante un disastroso allenamento dal suo amico scrittore Ishihara Shintarō, e poi, in occasione di una riunione di un bel po’ di intellettuali a casa di quest’ultimo, proiettò il divertente filmato con l’accompagnamento musicale di un mambo, scatenando l’ilarità generale. “Mishima”, dice Scott Stokes, “sapeva commentare argutamente le sue disavventure sul quadrato della boxe, e d’altronde la compiacenza con la quale faceva di se stesso l’oggetto di burle o di scherno costituiva un aspetto molto attraente della sua personalità”32. Ovviamente non praticò a lungo il pugilato, ma rimase costantemente interessato a questa disciplina sportiva, sponsorizzando giovani pugili emergenti. Il body building invece, come abbiamo detto, lo accompagnò per tutta la vita. Dal luglio del 1955 si allenò con maniacale costanza per tre volte a settimana alla palestra Korakuen Gym di Tōkyō, senza mancare mai agli allenamenti, anche se aveva la febbre o stava scrivendo intensamente. Se poi viaggiava, durante le sue tappe la prima cosa che faceva era localizzare la palestra più vicina al suo hotel. I suoi sforzi anni dopo vennero coronati da un grande successo, quando nel 1963 il redattore di una nuova enciclopedia della casa editrice Shōgakukan gli chiese di posare per una fotografia da collocare alla voce “body building”. Ma la pratica costante del body building non era legata solo al desiderio 31 32

Cit. in Stokes, Op. cit., p. 199. Ibid.

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di salute fisica o all’esibizionismo narcisistico, elementi comunque entrambi presenti. Nel lungo saggio autobiografico Sole e acciaio, scritto nell’ultimo periodo della sua esistenza, ci dice che i suoi sforzi per trasfigurare se stesso non rappresentarono altro che una ricerca di quello che lui definisce l’”estrema verifica dell’esistenza”. Una ricerca diventata necessaria quando lo scrittore scopre che le parole non erano più un adeguato sostituto della realtà. Il linguaggio dell’arte divorava la realtà, prima ancora che avesse avuto l’oppurtunità di esperirla. Quando rifletto attentamente sulla mia infanzia, mi accorgo che per me i ricordi legati alle parole risalgono a tempi infinitamente più lontani della memoria carnale. A una persona comune si presenta prima il corpo e poi il linguaggio, mentre a me si manifestarono in primo luogo le parole e in seguito, molto più tardi, con estrema riluttanza, mi apparve il corpo, già in una forma ideale: ed esso era, inutile a dirsi, già corroso dalle parole. Prima esiste un pilastro di legno non verniciato, poi giungono le termiti e lo intaccano. Nel mio caso, invece, prima esistevano le termiti, poi apparve a poco a poco il pilastro di legno non verniciato, già per metà divorato. Vorrei non essere biasimato se definisco termiti le parole, che sono il mio mestiere. (...) La parola è un mezzo che trasforma in astrazioni la realtà per trasmetterla alla nostra comprensione: nel suo effetto corrosivo sulla realtà è ineluttabilmente insito il pericolo che essa stessa si corroda33.

È così che inizia a cercare consciamente un linguaggio antitetico a quello delle parole, il “linguaggio del corpo”. Presupponendo che il mio Io fosse una dimora, il mio corpo era l’orto che la circondava. Avrei potuto coltivare con perizia quell’orto, oppure lasciare che fosse invaso dalle erbacce. Ero libero di agire come meglio ritenessi, ma una simile libertà non era tanto facilmente comprensibile: e infatti la maggior parte degli uomini chiama “destino” il giardino della propria casa. Un giorno decisi di cominciare a coltivare alacremente il mio orto. Usai sole e acciaio. I raggi implacabili del sole, uniti all’acciaio dell’aratro e della zappa, furono due elementi principali della mia coltivazione. (...) Appresi il linguaggio del corpo, esclusivamente grazie al sole e all’acciaio, come se studiassi una lingua straniera. Divenne la mia seconda lingua, un’educazione costruita, il cui sviluppo desidero ora descrivervi34.

I muscoli diventano così il suo nuovo linguaggio e, soprattutto, un’incontestabile prova dell’esistenza, dandogli la possibilità di vivere concreta33 34

Yukio Mishima, Sole e acciaio, cit., pp. 8-9. Ivi, pp. 7-12.

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mente esperienze che fino ad allora aveva solo immaginato e costruito nella narrativa. Come abbiamo già detto in precedenza, solo dopo un anno di pratica con i pesi, nell’agosto del 1956 durante un festival popolare, Mishima si unisce a un gruppo di mercanti locali e partecipa al trasporto del pesante palanchino sacro per le vie della città. Questa esperienza fu per lui rivelatrice, una sorta di rivelazione mistica che dissolse buona parte delle sue contraddizioni interiori. Un interrogativo che Mishima si era sempre posto sin dalla prima volta che aveva visto i trasportatori di palanchino era: che cosa stavano guardando i loro visi stravolti dall’ebbrezza? Ma dopo aver partecipato direttamente alla cerimonia ed essersi mescolato a loro, egli aveva trovato finalmente una risposta: essi guardavano il cielo azzurro. E in quel cielo azzurro oscillante, in quel cielo simile a un uccello gigantesco e rapace che a ali spiegate scendesse in picchiata per poi librarsi di nuovo verso l’alto, percepii l’essenza di ciò che per lungo tempo avevo chiamato “tragico”35.

Quello che egli vede è il “sacro cielo azzurro”, il “cielo azzurro dell’assoluto”. Ed è qui che si materializza l’idea della verità percepita, intuita in modo collettivo; l’unico modo integrale, totale di percezione in cui avviene – come si era già accennato a proposito dell’episodio del trasporto del palanchino sacro in Confessioni di una maschera – “la distruzione degli individui e la loro unificazione con l’esistenza fondamentale”. Mi trovavo infatti in un punto in cui, senza possibilità di dubbio, il cielo azzurro contemplato grazie al mio intuito poetico era della medesima natura di quello veduto da normali ragazzi del quartiere. (...) Ciò che vidi non fu affatto un’illusione soggettiva ma, necessariamente, il frammento di una nitida visione collettiva36.

In questa esperienza Mishima, come egli stesso ha affermato, individua la natura del “tragico”, ma la concezione di “tragedia” a cui egli arriva dopo questa esperienza è molto particolare. Nella mia definizione di tragedia, il pathos nasce nel momento in cui una sensibilità del tutto normale assume una nobiltà privilegiata, tale da tenere a distanza gli altri uomini: non è assolutamente il prodotto di una sensibilità singolare che ostenti i propri privilegi37. 35 36 37

Ivi, p. 13. Ibid. Ivi, p. 14.

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Può partecipare quindi alla “tragedia”, come momento di elevazione supremo dello spirito, qualsiasi essere umano, qualsiasi essere comune, purché incontri “l’attimo privilegiato” che sembra specificamente destinato a lui. “Questa è un’idea di tragedia molto differente da quella classica greca”, nota Paul McCarthy, “che richiede una certa nobiltà, grandezza, eminenza per affidare a un personaggio un ruolo tragico. Quella di Mishima, paradossalmente per il più aristocratico degli scrittori, è un’idea ‘democratica’, che ammette gli uomini comuni nel sacro reame della tragedia”38. È con questa esperienza che Mishima arriva all’idea della “tragedia collettiva”, il corpo che unito ad altri corpi in uno sforzo comune trascende l’individuo. Attraverso il gruppo la sofferenza comune può raggiungere quel livello dell’esistenza fisica a cui l’individuo, in solitudine, non sarebbe potuto giungere. E per raggiungere il livello dove si può intravedere il divino, è necessaria la liquefazione della personalità39.

Mishima definisce questo gruppo come una comunità che condivide la stessa sofferenza; una comunità che, legata da una sorta di misticismo della carne, si concentra esclusivamente nello stesso strenuo sforzo di travalicare i confini del mondo umano per entrare in una dimensione extratemporale ed extraspaziale. Un territorio sacro dove gli uomini non sono più esseri umani, e che alla fine non può essere altro che il territorio della morte. Mishima stesso infatti, in Sole e acciaio, arriva alla conclusione che “il gruppo doveva essere aperto alla morte”, alludendo “inutile specificarlo, a una comunità di guerrieri”40. Ciò che lui ricerca alla fine è la morte nella tragedia collettiva, una morte tragica ed estetica come naturale conseguenza della vigorosa completezza della vita del corpo e dello spirito. Per questo la morte eroica nel pieno vigore delle proprie forze e delle proprie facoltà intellettive per Mishima diventerà la massima realizzazione della bellezza. Così dietro il paravento della ricerca della salute fisica e della bellezza classica, si nasconde un’anelito più profondo e antico: il raggiungimento di uno stato fisico “adeguato” ad una morte “bella” e romantica. Inoltre, al di là di quella forma classica, in me era latente un progetto romantico. L’impulso romantico, che fin da ragazzo era come una corrente 38 39 40

Paul McCarthy, Op. cit., pp. 121-122. Yukio Mishima, Sole e acciaio, cit., p.76. Ibid.

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sotterranea nella mia mente, assumeva significato solo in quanto distruzione della perfezione classica e si annunciava in me come un preludio in cui fosse presente la totalità dei temi dell’intera sinfonia: prima ancora di aver ottenuto un solo risultato concepivo già una composizione predeterminata. Pur nutrendo un profondo impulso romantico verso la morte, esigevo quale suo strumento un corpo rigorosamente classico; data la mia strana concezione del destino, gli impulsi romantici che mi spingevano alla morte non ebbero modo di realizzarsi per una ragione molto semplice: credevo di non possedere le qualità fisiche necessarie. Per una morte romantica ed eroica erano indispensabili muscoli possenti e scultorei; pensavo che se carni flaccide si fossero trovate al cospetto della morte, non si sarebbe manifestata che una ridicola inadeguatezza. A diciott’anni, benché desiderassi ardentemente una fine violenta, sentivo di non esserne degno. Infatti non possedevo muscoli che si addicessero a una morte drammatica. E feriva profondamente il mio orgoglio romantico l’essere sopravvissuto fino al termine della guerra grazie a quella inadeguatezza41.

Che ironia! Un’attività iniziata con lo scopo della salute e dell’allontanamento dall’ombra e dalla morte, lo conduce alla fine, anche se con rinnovata consapevolezza, al punto di partenza. Ma a queste conclusioni lo scrittore sarebbe giunto molto più tardi, il saggio citato venne scritto ad un paio d’anni di distanza dalla sua tragica morte. Invece, in quel pomeriggio d’agosto 1956, il giovane Mishima vive in modo molto spensierato e “positivo” l’esperienza fisica del trasporto del palanchino, e le fotografie scattate in quell’occasione ci mostrano un’espressione di gioia vera e intensa. Alla fine della giornata, circondato dai giovani dell’associazione dei mercanti di Jiyūgaoka, Mishima è sudato e stanco, ma dai suoi occhi traspare una grande soddisfazione.

41 Ivi, p. 25.

Capitolo IV

Il Padiglione d’oro Nel 1956, all’età di trentun’anni, Mishima vicino alla vetta del successo pubblicò il romanzo che la critica, quasi all’unanimità, ha poi riconosciuto come il suo capolavoro assoluto: Il Padiglione d’oro (Kinkakuji). Il romanzo narra la storia di Mizoguchi un giovane adepto buddhista che durante l’ultimo anno della guerra presta servizio al tempio Rokuonji, dove è situato il Padiglione d’oro, uno dei più famosi padiglioni zen di Kyōto del XV secolo, considerato tesoro nazionale e massima espressione della bellezza classica tramandata dalla tradizione. Mizoguchi soffre di una balbuzie congenita che gli rende estremamente difficile la comunicazione con gli altri, e simbolizza la sua forte alienazione dal mondo esterno. Quel mio difetto – inutile dirlo – costituì sempre una vera barriera tra me il resto del mondo. Mi riusciva soprattutto difficile pronunciare l’inizio delle parole: l’inizio, ogni inizio, costituiva la chiave del mondo esterno, una chiave che non ho mai potuto manovrare a dovere. Le persone normali, in grado di parlare con sicurezza e disinvoltura, possono mantenere spalancata la porta tra il proprio mondo e l’esterno, e aria e luce vi passano ininterrottamente, ma per me era impossibile, come se uno spesso strato di ruggine ricoprisse quella chiave. Il balbuziente che tenta e ritenta disperatamente di pronunciare la parola iniziale, è simile ad un pulcino incapace di districarsi dal suo guscio; e quando vi riesce è ormai tardi. Talvolta, è vero, pareva che la realtà esterna attendesse, calma ed immobile, l’esito dei miei sforzi; ma quando la raggiungevo, quando, a furia di annaspare, finalmente entravo in contatto con il mondo esterno, quella realtà non era più fragrante, ma già scolorita, tremolante... una realtà priva dell’evidenza che me l’aveva fatta ammirare, e già olezzante di putredine, già trapassata1.

1

Mishima Yukio, Il Padiglione d’oro, in Mishima Yukio –Romanzi e racconti, vol. I, cit., pp. 866-867.

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Mizoguchi, sempre chiuso nel suo mondo interiore, trasforma il suo senso di alienazione in desiderio di distruzione, accarezzando dentro di sé il gustoso pensiero che alla fine della guerra Kyōto verrà totalmente distrutta, con tutti i suoi abitanti e i suoi meravigliosi templi. La distruzione, e in particolare la distruzione della bellezza, si manifestano sin dal primo capitolo con l’atto compulsivo di graffiare il bellissimo fodero dello spadino di un giovane ufficiale di Marina. La distruzione è per lui il destino più auspicabile. “La bellezza, le cose belle, sono ormai miei nemici mortali”2, confesserà un giorno, rimarcando sempre di più l’antitesi tra la sua bruttezza congenita e la bellezza ideale e assoluta del tempio. Il rapporto tra Mizoguchi e il Padiglione d’oro non nasce casualmente, la fulgida immagine del tempio viene istillata nella sua mente sin da quando è piccolo e determina l’idea di bellezza come fondamento ontologico della sua esistenza. Mio padre non era che un semplice prete di campagna, di poca cultura, e mi insegnò che “nulla sulla terra è bello quanto il Padiglione d’oro”. Il pensiero che tanta bellezza fosse nata al mondo senza che io ne sapessi niente, mi riempiva di disagio e di irritazione: se in quella costruzione era davvero compendiata e racchiusa tutta la bellezza, allora la mia esistenza non poteva che essere estranea alla bellezza3.

La prima volta che Mizoguchi vede da vicino il Padiglione d’oro nel tempio Rokuonji ne resta un po’ deluso, preferendo ad esso la piccola miniatura che vede nello Hōsuiin, il primo dei tre piani del padiglione. E preferendo, soprattutto, l’immagine che ormai gli si è radicata nella mente con i racconti paterni ascoltati durante l’infanzia, sottolineando in questo modo la dimensione idealistica della bellezza del Padigione. Quest’immagine ossessiona il protagonista al punto tale che il suo unico desiderio diventa quello di riuscire a diventare adepto del Padiglione d’oro; e quando finalmente ci riesce, egli dal profondo del cuore si rivolge ad esso, manifestandogli tutta la sua ossessione. “Anche se non subito, ti prego, diventami amico, svelami il tuo segreto. Sento che riuscirò a scoprire la tua bellezza, anche se ora mi resta impossibile. Ti prego, lascia che io veda il reale Padiglione d’oro ancor più chiaramente dell’immagine che ho nella mente. E se davvero sei tanto bello che nulla al mondo può starti a confronto, ti prego, dimmene il perché, dimmi perché la bellezza ha con te un rapporto di necessità”4. 2 3 4

Ivi, p. 1072. Ivi, p. 882. Ivi, pp. 896-897.

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Il legame tra il giovane adepto balbuziente e il maestoso padiglione diventa sempre più forte e complesso. La bruttezza di Mizoguchi non vive più un rapporto esclusivamente antitetico con la bellezza del padiglione, ma pericolosamente complementare e dipendente. Egli arriverà a fantasticare e a desiderare un gigantesco torchio del cielo che schiacci tutto in un’unica condizione, gli esseri umani e le cose, le cose brutte e le cose belle, in modo da diventare tutt’uno con il Padiglione d’oro. La bellezza del Padiglione è divenuta così ossessiva e invadente da interferire con ogni suo gesto quotidiano e con ogni rapporto esterno. Il vergine monaco balbuziente per due volte si è trovato di fronte a una bella donna disposta a fare l’amore con lui, e per due volte non ne è stato capace, sopraffatto dall’immagine della bellezza “ideale” del Padiglione d’oro che si è sovrapposta all’immagine della bellezza “reale” di un seno femminile5. “Ancora una volta sono stato tenuto lontano dalla vita! (...) Perché il tempio vuole difendermi? Perché vuole separarmi dalla vita senza ch’io l’abbia chiesto? Capisco, vorrà salvarmi dall’inferno. Ma in codesto modo mi rende ancor più malvagio di quelli che vi precipitano; così fa di me ‘l’uomo che conosce l’inferno più di chiunque altro’”. (...) Un giorno certamente ti dominerò! A qualsiasi costo ti sopraffarrò in modo che mai più potrai essermi d’intralcio!”6.

Mizoguchi è sempre più consapevole che finché il Padiglione vivrà egli non sarà un uomo libero. La “bellezza ideale” del tempio si ergerà sempre fra lui e la “bellezza reale”, quindi si ergerà sempre fra lui e la “vita”. L’idea che i bombardamenti aerei possano distruggere il tempio gli provoca una doppia conflittuale emozione: da un lato l’ulteriore ammirazione ed esaltazione della bellezza del padiglione, amplificata dal senso tragico di transitorietà; dall’altro la speranza che la distruzione possa donargli la libertà dello spirito, o unirli in una comune tragica morte, simile a un doppio sucidio d’amore. M’inorgogliva sapere che io e il Padiglione in questo mondo eravamo sovrastati da un pericolo comune: avevo finalmente trovato cosa poteva legare 5

Spesso nell’opera l’immagine del Padiglione d’oro si sovrappone all’immagine del seno femminile, lasciando spazio a varie interpretazioni edipiche. In un episodio famoso, il protagonista spia l’incontro di una coppia di amanti, una ragazza in kimono e un giovane ufficiale. La donna a un certo punto si apre il kimono, scopre il seno e stilla alcune gocce del suo latte nella coppa del tè che poi offrirà al suo amante. Anche in questa occasione il candido seno della ragazza si tramuta nel Padiglione d’oro. 6 Mishima Yukio, Il Padiglione d’oro, cit., p. 1010-1011.

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me alla bellezza. Sentii d’aver scoperto come un ponte tra me e ciò che era sembrato respingermi, escludermi dal suo mondo. Ero quasi inebriato dal pensiero che anche il Padiglione, come mio padre, sarebbe finito in cenere. Accomunati da uno stesso ordine di eventi e da uno stesso destino di fuoco, io ed il Padiglione vivevamo ormai in una medesima dimensione, in un unico mondo7.

Ma la guerra termina con il Padiglione d’oro che si erge intatto a ribadire il suo ruolo di simbolo eterno e immutabile, la vita di Mizoguchi è ancora sotto la sua dominazione. La fine della guerra, con la conseguente pace e l’interruzione della situazione di pericolo e di crisi che tanto ha fatto sperare il protagonista in una risoluzione “tragica” del suo dilemma esistenziale, sprofondano il giovane monaco in una condizione di insoddisfazione e infelicità. Quella stessa insoddisfazione e infelicità che erano scoppiate nell’animo del protagonista di Confessioni di una maschera, quando al termine della guerra si trova a dover fronteggiare un’esistenza iterativa e comune, di piatta quotidianità. Così anche per Mizoguchi la sconfitta e la fine della guerra rappresentano negativamente la rinascita di un “tempo buddhista” che si diluiva nell’immutabilità, nell’eternità, nella quotidianità, e negano senza appello la speranza di un mutamento della sua crisi interiore. Non si è realizzata né la distruzione del solo Padiglione d’oro, che lo avrebbe liberato spiritualmente; né la distruzione reciproca, che li avrebbe uniti per l’eternità. E ora, in tempo di pace, tutto ciò è praticamente impossibile. Ulteriore figura centrale è quella di Kashiwagi, altro adepto del tempio, afflitto anch’egli da un handicap, un valgismo che lo costringe a camminare zoppicando penosamente. L’handicap fisico è di sicuro un elemento che accomuna questo personaggio al protagonista, ma non solo. Kashiwagi non ama la bellezza duratura; difatti ama la musica le cui note svaniscono non appena si sono materializzate, e l’ikebana, l’arte della disposizione dei fiori, le cui composizioni floreali appassiscono in pochi giorni8. Odia, ovviamente, quelle forme d’arte che danno una struttura tangibile e imperitura alla bellezza, come l’architettura e la letteratura. Nondimeno, una sostanziale differenza tra Kashiwagi e il protagonista è rappresentata dal rapporto con il proprio handicap. La sua malformazio7

Ivi, p. 907. Notare come la musica compare sempre nel suo aspetto evanescente e inafferabile. Quell’aspetto che, come abbiamo detto durante la trattazione di Confessioni di una Maschera, la rendeva agli occhi di Mishima pericolosa come una bestia feroce imprigionata in una gabbia. 8

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ne alle gambe, ben lungi dall’essere vissuta come una debolezza, fa invece di lui un personaggio forte, sicuro di sé, ed estremamente cinico. E questa personalità schiacciante diventa autoritaria e dispotica nei confronti del balbuziente protagonista. Kashiwagi è il “cattivo maestro” che lo tormenta e lo affascina con i suoi paradossi e con la sua particolare e perversa visione dell’esistenza. Egli spiega a Mizoguchi come quelle che comunemente sono definite anomalie fisiche, in sostanza siano segni di “superiorità”, e di come egli le sfrutti, per esempio, per portarsi le donne a letto. Seduta stante gli fornisce una dimostrazione pratica. Proprio mentre i due stanno chiacchierando di questo argomento in prossimità di un parco, Kashiwagi si accorge di una bella ragazza che avanza nella loro direzione. Kashiwagi s’alzò. Mi parlò all’orecchio con voce grave, soffocata. “Cammina. Seguimi.” Camminammo parallelamente alla donna, nello stesso senso, lungo il muricciolo che s’elevava mezzo metro più in alto della strada che lei percorreva. “Giù salta” e mi sentii spingere alle spalle dalle aguzze dita di Kashiwagi. Saltai oltre il basso muricciolo e ricaddi sulla strada sottostante. Fu una cosa da nulla. Ma quasi nello stesso istante, Kashiwagi con i suoi piedi sbilenchi mi crollò accanto con un terribile tonfo. C’era da aspettarselo, il salto non gli era riuscito. (...) “Creatura insensibile! Te ne vai e mi lasci così, eh? È a causa tua che mi son conciato in questo modo!” La ragazza si voltò tremante. Si passò le dita secche e minute sulle guance esangui. Poi mi domandò: “Che devo fare?” Kashiwagi aveva intanto alzato il viso, e guardando intensamente la ragazza le disse scandendo parola per parola: “Vuoi dire che a casa tua non hai niente per medicarmi?” La ragazza rimase per un po’ in silenzio, poi voltò le spalle e tornò indietro. Aiutai Kashiwagi ad alzarsi. Era tremendamente pesante, s’abbandonava completamente, e respirava a fatica; ma quando incamminandomi gli offrii la spalla, m’accorsi che si muoveva con in’insospettata speditezza...9

La ragazza lo conduce a casa sua per fasciargli la caviglia che Kashiwagi pretende di essersi slogata. Tra i due nasce una relazione, in cui la ragazza, sentendosi l’angelo custode del giovane handicappato gli dedica tutte le sue premure, senza rendersi conto che il cinico personaggio la sta solo sfruttando a dovere. Dopo non molto, infatti, Kashiwagi stancatosi della donna, la abbandonerà, non prima di averle insegnato come nascondere 9

Mishima Yukio, Il Padiglione d’oro, cit., pp. 968-969.

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di aver perso la verginità al fidanzato che tra non molto sarebbe diventato suo marito. In effetti anche Kashiwagi è un personaggio che soffre dello stesso senso di alienazione di Mizoguchi, ma la differenza sostanziale fra i due è che Kashiwagi ha reagito alla sua condizione costruendosi una logica e una visione del mondo tutta personale, capace di rendere “positiva” la “negatività” di partenza. Altra fondamentale ed emblematica differenza tra i due è che Kashiwagi è convinto che l’unico cosa che possa cambiare la società è la ragione e la conoscenza; a differenza di Mizoguchi che è sempre più convinto della necessità assoluta dell’azione per effettuare un concreto cambiamento nel mondo esteriore10. L’ossessione di Mizoguchi, infatti, non trova requie con i discorsi cinici e superomistici del compagno Kashiwagi, e nella sua mente comincia ad affacciarsi l’idea di liberarsi personalmente e concretamente del suo “tiranno”: Nonostante tutto, la bellezza del Padiglione d’oro non scompariva! Da qualche parte ce n’era un’eco sempre! Come uno che soffra di continue immaginarie risonanze nelle orecchie, io invariabilmente udivo quell’eco, dovunque fossi, e ad essa ero ormai avvezzo. Paragonandola ad uno strumento, quella costruzione era come una campanella d’oro che avesse continuato a tintinnare per cinque secoli e mezzo, ovvero un piccolo koto. Ma se quello strumento avesse smesso di suonare?...11

All’inizio dell’inverno il protagonista fugge dal tempio e parte per la costa del Mar del Giappone. Raggiunge la spiaggia di Yura e si ferma in contemplazione dell’oceano tempestoso del golfo di Maizuru. È qui che prende la sua decisione: “Devo bruciare il Padiglione d’oro”. È il mare tempestoso a dargli la forza necessaria per la sua sofferta risoluzione. Quel mare vitale e tenebroso, simbolo dell’inconoscibile e delle forze primitive della natura. Quel mare, la cui apparizione ha sempre risvegliato nei protagonisti delle opere di Mishima un disagio esistenziale e riflessioni escatologiche e metafisiche di melvilliana memoria. Il mare ora vibra come non mai di potente energia, l’unica devastante energia dionisiaca in grado di contrastare la fulgida, apollinea, inamovibile bellezza del Padiglione d’oro. Rientrato da Yura a Kyōto, con dentro di sé l’irrevocabile decisione, si reca in una casa d’appuntamento dove finalmente riesce a perdere la 10

Mishima affida così a questi due personaggi quella dicotomia “conoscenza-azione” che sarebbe così spesso ritornata nelle opere successive, confermandosi come uno dei punti centrali della sua weltanschauung filosofica e ideologica. 11 Mishima Yukio, Il Padiglione d’oro, cit., p. 1108.

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verginità: sul candido seno della prostituta con cui fa l’amore non vede più il Padiglione d’oro, ma il tramonto del golfo di Maizuru. L’ultimo capitolo è tutto dedicato alla descrizione dei preparativi del catartico gesto finale. La decisione e la risolutezza del giovane talvolta vacillano, si chiede se è davvero necessario compiere quell’atto sacrilego per salvare se stesso. Ma in suo aiuto giungono proprio le sacre scritture, si ricorda di un testo zen che comincia con: “Guardati dentro, guarda all’esterno, e se lo incontri uccidilo istantaneamente! Se incontri il Buddha, uccidilo...”12, a sottolineare la priorità della propria liberazione spirituale su qualunque altra cosa, Buddha compreso; e quindi decide senza più esitazioni di procedere con il suo piano. L’idea di Mizoguchi è quella di dare fuoco al Padiglione d’oro e morire anch’egli tra le fiamme, unendosi finalmente al simbolo della bellezza assoluta. In poco tempo l’incendio avvolge il tempio, e il giovane balbuziente corre in alto verso la piccola stanza abbagliante rivestita di foglie d’oro dell’ultimo piano del Padiglione per entrarvi e attendere la morte. Ma la porta del Padiglione d’oro non si apre: la bellezza ancora una volta rifiuta la bruttezza. Mizoguchi a questo punto corre via dal tempio per cercare un posto dove potersi comunque togliere la vita. Seduto a terra infila le mani in tasca per cercare il veleno e il coltello che aveva preparato per il suicidio. Il finale, come al solito, ci coglie di sorpresa. Frugai in tasca e ne cavai il flacone dell’arsenico, avvolto nel fazzoletto, e il coltello. Li gettai entrambi in fondo alla valle. Nell’altra tasca le mie dita urtarono contro le sigarette. Ne presi una l’accesi. Mi sentivo come chi, ultimato un lavoro, si siede a tirare una meritata boccata di fumo. Decisi di vivere13.

Un’altra immagine enigmatica e variamente interpretabile dei finali di Mishima. Cosa significa quel “Decisi di vivere”?14 Il protagonista si è finalmente liberato dalle catene della sua ossessione e finalmente può iniziare a vivere la sua vita da uomo libero? Così potrebbe sembrare non solo dalla 12

Ivi, pp. 1110-1111. Ivi, p. 1114. Nella realtà il vero incendiario cercò di suicidarsi inghiottendo cento pillole di sonnifero e pugnalandosi, ma poi venne arrestato e processato. Nel gennaio del 1956, quando il romanzo iniziava a essere pubblicato a puntate, era ancora vivo, e il sette marzo dello stesso anno morì nell’ospedale della prigione di Hachiōji. 14 Nella traduzione di Mario Teti, peraltro molto bella, che viene adottata per tutte le citazioni del Padiglione d’oro, le parole finali sono tradotte con “volevo vivere”. È un’interpretazione possibile, (l’originale giapponese è “ikiyō to watashi wa omotta”), ma a nostro avviso un po’ troppo forte e categoricamente desiderativa. 13

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frase finale, ma anche dal gesto liberatorio dell’accensione della sigaretta, da quel “Mi sentivo come chi, ultimato un lavoro, si siede a tirare una meritata boccata di fumo”. Ma non dobbiamo dimenticare la conflittualità amore-odio che è serpeggiata per tutta la narrazione, quella parte di amore e fascinazione per la bellezza ideale ed eterna, e per la sua fine dionisiaca e tragica. E allora quell’ultima esclamazione interiore “decisi di vivere”, non suonerà più come un’esternazione di entusiasmo per la vita, bensì di rassegnazione ad essa. Rassegnazione a una vita, piatta e quotidiana, senza la dominazione tirannica della “bellezza eterna”, ma senza neanche la sua luce esaltante. Il padiglione d’oro è un romanzo in cui abbondano le riflessioni introspettive e filosofiche di taglio buddhistico, soprattutto in relazione alla “bellezza”. Un esempio famoso è il kōan – enigma buddhista sibillino e oscuro dalle molteplici interpretazioni – che Kashiwagi racconta a Mizoguchi. Il kōan, Nansen uccide il gatto, parla di un gattino che viene scoperto girovagare nei pressi di un tempio. Tutti i monaci sono in fermento per l’evento, e addirittura litigano per accaparrarsi il diritto di allevare il piccolo animale. Nansen, il priore del tempio, decide di porre fine a quel trambusto, afferrando l’animale e chiedendo pubblicamente se c’è un motivo per cui egli non possa sopprimere il gattino. Nessuno gli risponde e Nansen uccide il gatto. Più tardi rientra al tempio Chōshū, l’allievo più erudito di Nansen, e quando quest’ultimo gli racconta l’accaduto, egli si toglie le scarpe imbrattate di fango e se le pone sul capo. Allora Nansen dice: “Se tu fossi stato qui oggi, avresti salvato la vita a quel gatto”15. A questo punto Kashiwagi commenta: “Capisci? Così è la bellezza. Perciò, l’uccisione del micio così come l’estrazione del dente guasto può sembrare utile allo smascheramento della bellezza, ma in realtà è dubbio che un’azione del genere possa costituire una soluzione definitiva. Pur uccidendo il micio, infatti, ho l’impressione che non siano state tagliate le radici della sua bellezza, la quale invece sopravvive. E per ciò, per mettere in burla la faciloniera di una tale soluzione, Chōshū si pose le scarpe in testa. Sapeva, per tornare alla similitudine, che non v’era altro da fare se non tenersi il dolore del dente guasto”16.

Ma cosa si nasconde dietro questa ossessiva idea della bellezza e della sua distruzione, di cui l’episodio appena citato ne rappresenta un’ulteriore celebrazione? Il protagonista in una delle sue tante riflessioni pensa: 15 16

Mishima Yukio, Il Padiglione d’oro, cit, p. 926. Ivi, p. 1002.

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Simile ad una luna sospesa in un cielo notturno, il Padiglione d’oro era stato costruito quasi a simbolo d’un’epoca fosca e tetra: era dunque inevitabile che il Padiglione d’oro dei miei sogni fosse circondato da ogni parte d’oscurità17.

E ancora: Il Padiglione d’oro pareva aprirsi un varco nell’immensità della notte, avviato ad una traversata di cui era imprevedibile il termine. Di giorno, quello strano vascello gettava le ancore rassegnato sottomettendosi agli sguardi della folla, ma al calar della notte, l’oscurità gli donava nuova forza, e leggero s’allontanava tendendo al vento il tetto come un’ampia vela18.

Ma l’oscurità non era stata già evocata in Confessioni di una maschera, quando il piccolo protagonista assiste alla devastazione del suo giardino da parte dei trasportatori del palanchino sacro? Anche in quell’occasione un oggetto sacro, un tempio in miniatura, era collegato all’ “oscurità più totale”, alla “notte vuota”. Nel caso del palanchino sacro il buio è interno, custodito, tesaurizzato. Nel caso del Padiglione d’oro è esterno, avvolgente, tesaurizzante. Ma il suo significato in entrambi i casi, e soprattutto nel secondo, è ammantato da una fortissima valenza escatologica. In entrambi i casi il buio è il nulla; ma se nel primo caso lo abbiamo associato ad un “vuoto” perfettamente nichilistico e vanificatore di ogni idea, ora nel caso del Padiglione d’oro è come se l’idea del “buio” avesse fatto un passo ulteriore – forse per questo è venuto all’esterno della bellezza materiale? – verso l’identificazione con il simbolo dell’inconoscibile assoluto, di ciò che si nasconde al di là dell’esistenza quotidiana. E poiché è una naturale tendenza umana il tentativo di dare forma simbolica all’aspetto più inquietante dinanzi a cui l’uomo si trovi, “il segreto della vita e della morte”, Mishima, almeno in questo, non fa distinzione dagli altri comuni mortali. E il simbolo che sceglie è quello della bellezza. L’ossessione per la manifestazione perfetta e luminosa della bellezza classica giapponese, ad uno sguardo più attento, rivela il buio che la circonda, con tutti i suoi reconditi significati escatologici ed esistenziali. Allora anche il leitmotiv “distruzione della bellezza” che risuona per tutta l’opera, e per tante altre opere di Mishima, andrebbe un attimo riconsiderato. Il termine “distruzione” appare fortemente legato al termine “rivelazione”; la distruzione non diventa così solo un gesto catartico e liberatorio, ma anche, e soprattutto, un gesto illuminatorio: distruggere la bellezza è come forzarla, aprirla, per svelarne l’occulto e ambito segreto dell’esistenza. 17 18

Ivi, p. 881. Ivi, p. 882.

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E anche l’invadente frapposizione della bellezza ideale e assoluta tra lui e la bellezza quotidiana e reale acquista un significato di sapore squisitamente esistenziale ed escatologico. Ciò che si frappone tra il protagonista e il seno della ragazza non è più soltanto la bellezza eterna e ideale, ma l’idea dell’ “assoluto” e dell’inconoscibile. È questo che non gli permette di vivere una vita “normale” come tutti gli altri esseri di questo mondo, l’idea di un mondo “altro”, segreto e imperscrutabile. Non a caso, a dargli la forza di prendere la drammatica decisione di bruciare il simbolo di questo mondo arcano è proprio la visione di qualcosa che sprigioni la stessa sovrana energia: il mare, altro simbolo dell’inconoscibile e dell’imperscrutabile. E non a caso, all’inizio del romanzo, Mishima evoca il mare in un paragone con il Padiglione d’oro: “Il Padiglione mi appariva dappertutto, anche se in realtà non l’avevo mai visto; lo stesso m’era accaduto per il mare”19. Entrambi invisibili e onnipresenti, antagonisti nella loro veste esteriore, una apollinea e l’altra dionisiaca, ma essenzialmente simili nella sostanza. La sensazione di tenebra e di vuoto che si sprigiona dalla bellezza del Padiglione d’oro, come vedremo, sarà una costante delle opere di Mishima, ed è strettamente collegata non solo alla sua visione escatologica, ma anche alla sua visione creativa. Interessanti a tale proposito ci sembrano le osservazioni di Ueda Makoto: Una meravigliosa opera d’arte dà allo spettatore una sensazione di vuoto. Questo è quello che Mishima sembra insinuare nel Padiglione d’oro. Lo scrittore stesso ha detto: “Quando gli esseri umani inseguono la bellezza, la bellezza sola, inavvertitamente giungono ai più tenebrosi pensieri del mondo. Questa è la natura degli esseri umani”. Mishima avrebbe dovuto aggiungere che questa è anche la natura della bellezza. Secondo Mishima l’artista crea un universo artistico nel disperato sforzo di diminuire il caos tra il mondo interiore e quello esteriore, un caos che lo riempie di inquietudine, ansia e nichilismo. Nei tempi antichi un lavoro d’arte era un palazzo che torreggiava su un territorio selvaggio, come il trionfante monumento di un concquistatore. Oggi, invece, ciò accade raramente, perché gli uomini sono diventati individualisti e il linguaggio e gli altri mezzi di comunicazione artistica hanno perso la loro funzione pubblica e unificante. Un lavoro d’arte creato per sopraffare l’inquietudine, se si ispira ai prototipi classici che si ergono su un saldo terreno, diventa esso stesso fonte di inquietudine. Evoca inquietudine nei suoi spettatori, come il Padiglione d’oro la evoca in Mizoguchi20.

19 20

Ivi, p. 866. Ueda Makoto, Op. cit., p. 239-240.

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In effetti questa visione tenebrosa e ansiogena della bellezza e dell’arte viene spesso fuori nelle opere e nelle considerazioni sull’arte formulate da Mishima. Un esempio interessante è rappresentato dall’interpretazione che egli dà di una famosa poesia di Fujiwara Teika contenuta nello Shinkōkinshū, antologia poetica del XIII secolo. La poesia recita: Per quanto lontano guardi Né fiori di ciliegio, né Foglie cremisi si possono scorgere. Solo una capanna di pescatori sulla spiaggia In questo pomeriggio d’autunno21.

La più diffusa interpretazione di questi versi si concentra sul contrasto tra due tipi di bellezza: quella colorita e vivace e quella austera, evidenziando la preferenza del poeta per quest’ultima. L’interpretazione di Mishima, invece, sembra concentrarsi sulla bellezza dell’”inesistenza”. Il poeta, solo su una desolata spiaggia avvolta nel crepuscolo dell’autunno, anela disperatamente alla visione di vivaci fiori di ciliegio o di rosse foglie d’acero; e quando realizza la vanità del suo anelito, lo trasforma nella meravigliosa forma d’arte della sua poesia. “La bellezza della poesia, nata dalla disperazione del poeta, veicola quella disperazione ai lettori – o almeno ai lettori come Mishima”22. La composizione del Padiglione d’oro, come ebbe a dire lo stesso autore, fu il connubio dello stile dei suoi due più amati scrittori: Thomas Mann, maestro del romanzo filosofico occidentale, e Mori Ōgai maestro di stile della letteratura giapponese. Il superbo risultato fu un’opera che manifestava il suo carattere filosofico attraverso uno stile asciutto e apollineo. I monologhi del protagonista balbuziente sono riportati con una precisione essenziale e logica, totalmente spoglia della leziosità e degli eccessivi preziosismi delle sue prime opere, che, seppur contenuti, ancora riecheggiavano in Confessioni di una maschera. Il Padiglione d’oro rientrava in uno dei due grandi filoni di ispirazione mishimiana. Il primo di questi filoni era la letteratura classica, giapponese e occidentale; il secondo erano le notizie dei giornali. Mishima non era certo l’unico autore che prendeva ispirazione da questi due ricchi filoni, ma quello che lo contraddistingueva da buona parte degli scrittori che cercavano, o avevano cercato in passato, ispirazione negli stessi ambiti, era la radicale trasformazione dei materiali trattati: una sconvolgente modernizzazione 21 22

Nihon koten kanshō kōza, vol. 7, Tōkyō, Kadokawa shoten, 1958, p. 196. Ueda Makoto, Op. cit., p. 240

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psicologica nel caso dei classici, e un forte astrattismo concettuale nel caso delle notizie dei giornali. Operazioni che in entrambi i casi, nonostante il tradizionalismo stilistico dell’autore, portavano a risultati estremamente originali e innovativi. È al filone delle notizie dei giornali che si ascrive Il Padiglione d’oro, ispirato ad un incidente realmente accaduto nell’estate del 1950, quando un certo Hayashi Shōken, adepto del tempio Rokuonji di Kyōto, dette realmente fuoco al famoso padiglione del tempio. “Non penso di aver fatto una cosa cattiva appiccando il fuoco”, affermò il piromane dopo l’arresto. “Più guardavo la massa dei visitatori che venivano ogni giorno ad ammirare la bellezza del Padiglione d’oro e più fortemente sentivo avversione nei confronti della bellezza e nei confronti del livello sociale dei visitatori”23. Il romanzo è stato scritto sei anni dopo e, come molte altre opere di questo genere ispirato alla cronaca, non ha un intento primario di critica sociale. Anche se possiamo riconoscere una satira pungente sul mondo ecclesiastico, sul comportamento morale non proprio immacolato degli alti prelati dei templi, quello che appare centrale nell’opera è la costruzione di una situazione atta ad analizzare l’animo del protagonista e delle sue profonde problematiche esistenziali ed estetiche. Il romanzo trascende qualsiasi giudizio etico sul bene e sul male, sull’antisocialità dell’azione del piromane, e si concentra tutto sul significato che l’azione acquista nei confronti della liberazione spirituale del protagonista. Indubbiamente un’operazione delicata e audace: scegliere come argomento un atto criminoso pubblicamente condannato dall’opinione pubblica, senza schierarsi né a favore né contro di esso, ma semplicemente cercando di evincerne le motivazioni profonde. L’impressione che si ricava dalla lettura del Padiglione d’oro è quella di un grande lavoro di cesellatura, di sgrossamento di materiale per arrivare ad un’essenza diretta e a una concettualità pura. Ed è proprio attraverso questa concettualità pura che Mishima dispiega il suo iter narrativo, ribadendo la sua posizione di scrittore assolutamente non “realista”. I personaggi del Padiglione d’oro, e in particolare il protagonista, sono estremamente lontani dalla dimensione realistica, restando rigorosamente legati alla loro funzione simbolica e rappresentativa di tematiche esistenziali legate al “pensiero” e all’estetica. Come ha notato Donald Keene, Mishima “non si preoccupa minimamente se sia possibile o meno che un giovane campagnolo balbuziente, istruito alla meglio, possa formulare complesse idee filosofiche”24. 23

Intervista rilasciata al quotidiano Asahi Shinbun del 4 luglio 1950. Donald Keene, Dawn to the West: Japanese Literature in the Modern Era. Fiction, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1984, p. 1196. 24

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Proprio perché l’intento di dare una motivazione impellente e inevitabile all’atto della distruzione del tempio diventa prioritario, prevaricante su ogni altra istanza, sicuramente su quella realistica. Il romanzo fu un successo ancor più grande della Voce delle onde; due mesi dopo la pubblicazione, quando aveva già venduto 155.000 copie, l’editore pubblicò un’edizione limitata di 200 copie al prezzo, per quei tempi altissimo, di 2500 yen a volume. Ma il successo non fu solo di pubblico, bensì, cosa sempre molto gradita a Mishima, della critica letteraria tutta. Fioccarono commenti entusiastici: “È uno dei rarissimi capolavori sul palcoscenico attuale della letteratura”, “D’ora innanzi quelli che vorranno scrivere un romanzo potranno usare quest’opera come manuale”, “Colpisce in profondità come solo può fare la ‘letteratura perfetta’”25. Venne proposto come miglior romanzo del 1956 e ricevette nello stesso anno il premio letterario Yomiuri bungaku. Ichikawa Kon, uno dei più famosi registi cinematografici del dopoguerra giapponese, ne fece un film di grande successo intitolato L’incendio (Enjō). Ma a laurearlo ormai maestro indiscusso della letteratura giapponese del tempo furono gli entusiastici elogi di Kobayashi Hideo. Kobayashi Hideo, nume tutelare della letteratura giapponese moderna, noto per gli impietosi strali che amava lanciare anche contro gli scrittori più affermati, in un dibattito con l’autore sul Padiglione d’oro gli dice: Finalmente ho letto un vero romanzo, era tempo che non se ne vedevano. (...) Di talento tu ne hai tantissimo, davvero fuori della norma. E non solo, da questo talento straripante scaturisce una forza misteriosa, una forza diabolica. Il tuo talento è così grande da trasformarsi in una sorta di potere magico. Sono molto affascinato da quest’aspetto. Dalla limpidezza delle infinite immagini che fai fluire senza sosta. (...) Sei davvero un diavolo pieno di talento26.

Un rigoroso metodo di scrittura La ricerca di una scrittura “filosofica” e più analitico-introspettiva è sempre stato uno degli obiettivi di Mishima, almeno nella fase centrale e finale della sua carriera letteraria. Nei suoi saggi si lamenta spesso della pedanteria giapponese tipica dei dialoghi dei romanzi. Dice che gli scrit25

Cit. in Nakamura Mitsuo, “Kinkakuji ni tsuite”, in Shirakawa Masayoshi, Hihyō to kenkyū - Mishima Yukio, Tōkyō, Haga shoten, p. 223-224. 26 Furubayashi Takashi, Kobayashi Hideo, Op. cit., p. 96:

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tori giapponesi amano mostrare la loro abilità nel rivelare in forma indiretta, per esempio attraverso le conversazioni, la personalità e la visione esistenziale dei loro personaggi, ma poi i dialoghi che ne vengono fuori non hanno un grosso spessore filosofico, né sono ritmicamente fusi con i brani descrittivi, come ad esempio nei romanzi di Goethe e nel romanzo tedesco in generale. Il romanzo tedesco fu un riferimento sempre molto importate per Mishima. I due autori più amati dallo scrittore, come abbiamo detto, furono Thomas Mann e Mori Ōgai, ma non dobbiamo dimenticare il fascino e l’influenza di due altri grandi scrittori occidentali come Oscar Wilde e Friedrich Nietzsche. In particolare Nietzsche ha rappresentato una delle principali influenze del pensiero di Mishima. “Il tagliente senso dell’ironia”, nota Roy Starrs, “l’affilatissimo cinismo, la devastante iconoclastia del pensiero mishimiano – tutti quegli elementi che di fatto fanno apparire il suo pensiero così ‘pericoloso’ e ‘moderno’ – scaturiscono tutti dalla stessa fonte del pensiero nietzschiano: la visione nichilistica del mondo”27. In questo periodo lo stile dello scrittore si va sempre più assestando su una tradizionale classicità stabile e possente, che appunto richiamava quella del maestro Ōgai. Ecco come lo scrittore stesso descrive il proprio stile: Naturalmente, giorno dopo giorno, volsi le spalle ai gusti dell’epoca. Il mio stile era ricco di antitesi, possedeva una dignità arcaica e maestosa, e non mancava neppure di una certa nobiltà; tuttavia manteneva dovunque una solenna andatura da cerimonia e attraversava con identica cadenza di passo anche le camere da letto altrui. Il mio stile teneva il petto in fuori come un guerriero. E disprezzava lo stile altrui, che si inchinava, si piegava obliquamente, si inginocchiava e, peggio ancora, faceva ondeggiare le anche. Non ignoravo che a questo mondo esistono verità impossibili a vedersi se non assumendo una posizione scorretta, ma potevo lasciare questo compito agli altri.28

Una solennità possente e d’antico stampo che nasceva da una rigorosa disciplina e che era, secondo Mishima, l’unico mezzo per celebrare autenticamente ed efficacemente la bellezza classica. “Quando la bellezza emerge dalla più rigorosa disciplina”, afferma egli stesso, “e continua a mantenere tutta la sua potenza estetica, allora possiamo riconoscerla come bellezza 27

Roy Starrs, Op. cit., p. 6. Più avanti nel suo saggio, Starrs fa anche un interessante parallelo tra Mori Ōgai e Nietzsche, indicando lo scrittore giapponese come un modello eccellente per il giovane Mishima dell’applicazione delle idee nietzschiane nella vita e nel lavoro. 28 Yukio Mishima, Sole e acciaio, cit., p. 41.

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classica nel vero senso della parola. La forza rigorosamente disciplinata si mostra molto raramente nell’arte moderna. Perché l’arte moderna preferisce fluttuare attraverso forze troppo potenti per essere controllate e forze così deboli da non esigere controllo”29. Difatti, lo stile di Mishima non possiamo assolutamente definirlo “avanguardistico” o sperimentale. Egli stesso aveva più volte affermato di non essere, e di non avere alcuna intenzione di essere, uno scrittore avanguardistico, quanto meno nella forma. L’originalità di Mishima è da ricercare nei contenuti a cui abbiamo già fatto più volte accenno: pensiero iconoclastico e trasgressivo; distruzione della morale con tono ironico e cinico; nichilismo estetico; costruzione del “personaggio” o della “situazione”, esclusivamente per la successiva distruzione degli stessi – un po’ nello stile con cui da piccolo costruiva alte torri di costruzioni per poi gettarle giù di un colpo. “In questo senso”, dice Starrs, “Mishima somiglia molto al romanziere occidentale che più ammirava, Thomas Mann, che una volta aveva confessato che, poiché non sentiva di avere il talento sperimentale di un Joyce o di un Kafka, riusciva a essere “originale” solo infondendo nelle forme tradizionali che adottava il suo “moderno” senso dell’ironia. Nondimeno l’”ironia” di Mishima, essendo quella di un nichilista, si presenta in modo molto più estremo e violento di quella di Mann.”30. Abbiamo detto che le principali fonti di ispirazione di Mishima erano la letteratura classica e le notizie dei giornali, ma ancor più interessante dell’individuazione delle sue fonti di ispirazione ci sembra il metodo di lavoro che egli adottava per modellare e trasformare il materiale che egli riteneva degno di attenzione. La cosa non risulta molto difficile, perché Mishima non ha mai tenuto segreto il suo metodo di lavoro, anzi, ne ha parlato spesso nei suoi saggi. Nel Metodo del mio romanzo (Watakushi no shōsetsu no hōhō) sottolinea in modo netto quanto la scrittura non sia un processo istintivo e guidato dalla “pura ispirazione”, o, perlomeno, quanto l’istinto e l’ispirazione debbano essere adeguatamente educati da una disciplina rigorosa: Il peso specifico di ogni singola parola, il riverbero del suono, l’effetto visivo del simbolo grafico, l’andamento della velocità, ...Solo chi ha il senso innato di tutto ciò, e con una pratica lunga e costante, alla fine arriva ad acquisire il proprio stile e quindi ad avere buone probabilità di scrivere un romanzo. Nondimeno ci saranno sempre persone che pensano di lanciarsi subito nella scrittura, facendo affidamento solo sull’ispirazione o sull’esperienza di vita, e ciò è dovuto, come ho già detto in precedenza, all’assurda illusione che 29 30

Cit in Ueda Makoto, Op. cit., p. 242. Roy Starrs, Op. cit., p. 192.

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chiunque possa adoperare liberamente le parole, e ad una totale mancanza di rispetto verso di esse31.

Tipico del suo carattere ordinato e calcolatore, nel Mio metodo creativo (Waga sōsaku hōhō), illustra precisamente il suo metodo di lavoro mettendo per iscritto le fasi fondamentali del suo processo creativo. Nello specifico, egli descrive quattro distinte fasi: 1) 2) 3) 4)

Ricerca del tema. Osservazione dell’ambiente. Costruzione della trama. Scrittura.

Nel saggio egli descrive minuziosamente ogni fase. A differenza di altri noti scrittori giapponesi contemporanei, che iniziavano a scrivere un’opera anche senza nessuna determinazione di un tema specifico, come ad esempio Kawabata o Tanizaki, lasciandosi trasportare “passivamente” da una misteriosa forza ispiratrice, Mishima confessa di sentire maggiormente l’ispirazione se si trova dinanzi a uno specifico tema o incidente. E così, invece di attendere “passivamente” l’ispirazione, egli andava costantemente alla ricerca di temi da sviluppare. Si paragona ad un uomo che cammina lungo una strada buia con una torcia elettrica in mano. Poi improvvisamente la luce della torcia incrocia qualcosa che manda un forte luccichio. Avvicinatosi all’oggetto scopre che si tratta di un coccio di bottiglia di birra. Ecco che ha trovato il tema e il materiale per il suo lavoro. Torna al suo laboratorio ed esamina il coccio sotto un’illuminazione più netta. Raramente inizio a scrivere un romanzo lasciando il mio tema appena scoperto nello stesso stato in cui l’ho trovato. Esamino il materiale, lo filtro e cerco di estrarne l’essenza. Lo analizzo totalmente cercando di capire perché ne sono stato inconsciamente attratto. Trasporto tutto alla luce della coscienza. Getto via il materiale specifico e riduco tutto all’astrazione32.

Mishima scrive che per completare la prima fase potevano trascorrere da sei mesi a vari anni. Una volta conclusa passava alla seconda fase, con la quale studiava l’ambiente. Il tema astratto che aveva ricavato dalla prima fase aveva bisogno di dettagli specifici per vivere nel romanzo, e l’ambiente era ciò che avrebbe procurato questi dettagli. In questa seconda fase seguiva una procedura molto diversa dalla prima; ora egli si concen31 32

Mishima Yukio, Watakushi no shōsetsu no hōhō, in MYZ, vol. 26, p. 448. Mishima Yukio, Waga sōsaku hōhō, in MYZ, vol. 31, p. 153.

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trava sullo studio di tutto il materiale a disposizione, relazioni della polizia, documenti processuali, articoli di giornale, termini tecnici e tutto ciò che poteva conferire al lavoro un forte senso di realismo. Quello che studiava con maggior attenzione era il luogo dove si sarebbe svolta la storia. Si recava personalmente sul luogo andando tranquillamente a zonzo come un turista, ma prestando la massima attenzione ai minimi dettagli. Cercava di provare le stesse sensazioni di uno straniero in visita al posto, per ricreare le stesse sensazioni nella narrazione. Era convinto che la natura descritta in un romanzo doveva essere sempre “letteraria”, cioè una natura che gli abitanti del luogo non avrebbero mai riconosciuto in quel modo, perché troppo abituati ad essa. Più “letteraria” era la descrizione della natura, più velocemente i lettori si sarebbero sentiti immersi in essa. La terza fase era la costruzione della trama. Mishima, ancora a differenza di altri contemporanei che, come Kawabata, spesso non seguivano alcuna trama, pianificava molto in anticipo l’intreccio. Era un preciso e classico elaboratore di trame, particolarmente attento alla costruzione del climax del romanzo. Poteva accadere che modificasse qualche particolare dell’intreccio mentre scriveva, ma non avrebbe mai cambiato il climax che aveva ideato ancor prima di iniziare a scrivere. È noto che scrisse la celebrata scena conclusiva dell’ultimo volume della tetralogia, La decomposizione dell’angelo, ancora prima di essere giunto alla parte centrale. La quarta e ultima fase era quella della scrittura. A questo punto egli cercava di liberare temporaneamente la mente da tutti i preparativi che aveva fatto nelle tre fasi precedenti. Dopo aver catturato ed esaminato il tema con tanta attenzione nella prima fase, ora lasciava che questo fosse libero di abbandonare la sua mente e di vagare dove meglio credeva. Dimenticava ogni metodologia o processo creativo, e tutto quello che occupava la sua mente era solo la parte del romanzo a cui lavorava momento per momento. Era comunque sempre cosciente e teneva d’occhio il tema di fondo, anche se in quel momento non era visibile, e tutto quello che scriveva passava comunque sempre attraverso questa consapevolezza. Se qualche particolare dettaglio non si armonizzava con il tema, smetteva subito di scrivere. Allora ritornava a leggere i numerosi appunti che aveva scritto durante i viaggi di studio dell’ambiente della seconda fase, cercando di rivivere quelle esperienze. Quando sentiva che stava recuperando le autentiche sensazioni che gli aveva trasmesso quel luogo, allora riprendeva a scrivere. Una sequenza di interruzioni e riprese che alla fine lo conducevano sino alla conclusione dell’opera. Un metodo che lasciava fluire l’ispirazione solo su una base precisa e razionale. Un metodo, come ha notato Ueda Makoto, che sembra vedere insieme all’opera un filosofo e un reporter:

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Il proccesso creativo così descritto da Mishima sembra il lavoro di un filosofo e di un reporter che lavorano insieme, tentando di coordinare le loro differenti, e talvolta conflittuali, inclinazioni. Nella prima fase è il filosofo a operare. Egli incontra un avvenimento reale che desta il suo interesse; cerca di osservarlo, analizzarlo, riducendolo infine alla sua essenza astratta che rappresenta il tema del suo lavoro. Nella seconda fase entra in azione il reporter: egli si reca sul posto dell’avvenimento, fa interviste, legge relazioni e documentazioni necessarie, e prende appunti su dettagli circostanziati. Il reporter resta in prima linea anche durante la terza fase, mentre lavora nella ricerca del modo migliore di presentare il materiale che è stato raccolto. Nella quarta fase egli prende finalmente in mano la penna e inizia a scrivere il romanzo. Ma il filosofo resta sempre dietro di lui a controllare. Se il reporter devia dal tema principale, il filosofo gli dà un colpetto sulla spalla, lo rimprovera, e gli ordina di rifare il lavoro. Tutto ciò va avanti fino a che il romanzo raggiunge una buona conclusione33.

È forse proprio questa maniacale metodologia costruttiva che oltre a rendere le opere di Mishima così logicamente strutturate, precise come un orologio, le rende così universalmente intellegibili. “Per un lettore non sintonizzato con le sottili sfumature dell’estetica tradizionale e delle relazioni sociali giapponesi”, dice Roy Starrs, “i romanzi più ‘puramente” giapponesi’ di scrittori come Sōseki, Shiga, Tanizaki e Kawabata, spesso appaiono piuttosto ‘piatti’ e ‘privi di avvenimenti di rilievo’ – o, nel peggiore dei casi, una noiosa parata di dettagli triviali che non conduce in nessuna particolare direzione, e che può essere interrotta bruscamente in qualsiasi momento”. Rispetto a questi, “i romanzi di Mishima hanno una struttura molto più chiara – una struttura chiara come un logico sillogismo – e sembrano sempre condurre a una netta e precisa conclusione, a quel tipo di conclusione esteticamente soddisfacente che lega insieme tutti i ‘fili vaganti’”34. Inutile dire, e anche Roy Starrs deve saperlo molto bene, che dietro la “noiosa parata di dettagli triviali” delle opere più “puramente giapponesi” si nasconde sempre, negli esempi più alti (e gli autori che cita lo sono di sicuro), un impalpabile universo di significative emozioni, che il lettore sensibile e dall’orecchio esercitato saprà subito cogliere. Ma è pur vero che, come anche lui nota, ciò richiede una preparazione specifica e un maggior assorbimento della cultura giapponese, per non parlare di tutto ciò che di quella rarefazione e impalpabilità si perde inevitabilmente nel processo di traduzione. Invece la razionalità della costruzione di Mishima conferisce alle sue opere una maggiore capacità di travalicare i confini delle dissonanze culturali, fa 33 Ueda Makoto, Op. cit., p. 238-239. 34 Roy Starrs, Op. cit., p. 5-6.

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sì che queste superino, quasi inalterate, l’ardua prova della traduzione in lingue straniere, conservando invariata la loro efficacia comunicativa. * * * La stesura di un romanzo impegnativo come Il Padiglione d’oro non gli impedì di dedicarsi anche all’altra sua grande passione, il teatro. Anche i lavori teatrali ottenevano grande successo; il suo lavoro più popolare nel 1956 fu La sala Rokumeikan (Rokumeikan), che prende il nome dall’omonimo padiglione danzante, fatto costruire dal governo nel 1880 per dimostrare ai diplomatici stranieri che anche l’élite giapponese era a proprio agio con le feste danzanti all’occidentale. Il lavoro è ambientato proprio nel 1880, e gli ultimi due atti rappresentano un grande ballo nella stessa grande sala. Tutto materiale che si prestava perfettamente allo stile elaborato e “aristocratico” di Mishima. Intanto Alfred A. Knopf, il suo editore americano, pubblicava la traduzione inglese della Voce delle onde, ad opera di Meredith Weatherby, che riscosse anche all’estero un grande successo. In effetti non era questo il primo romanzo di Mishima che Weatherby aveva tradotto; nel 1954 aveva già portato a termine Confessioni di una maschera, ma poiché l’editore Knopf non era propenso a far conoscere in Occidente Mishima con un romanzo che parlava di omosessualità, optò prima per la pubblicazione della Voce delle onde, e solo nel 1958 per quella di Confessioni di una maschera. Continuava, peraltro, anche a scrivere e a pubblicare, con incredibile successo di pubblico, quei lavori popolari che lui stesso considerava “minori” e che scriveva per rilassarsi e divertirsi. Una primavera troppo lunga (Nagasugita haru), una love story scritta per attirare le signore e pubblicata a puntate sulla rivista femminile Women’s Club, vendette 150.000 copie. La virtù vacillante (Bitoku no yoromeki), la storia di una relazione tra una giovane donna sposata e un giovane scapolo, fu costruita con intrigante e consumata abilità, arrivando alla vendita sbalorditiva di 300.000 copie. Nel luglio del 1957 Knopf pubblicò la traduzione di Donald Keene di cinque dei Nō moderni, e in seguito alle forti insistenze del redattore Harold Strauss, Mishima si recò a New York per collaborare alla promozione del libro. Prima di partire perfezionò il suo inglese con una instancabile pratica di ascolto di audiocassette, e durante il viaggio si fermò all’Università del Michigan per tenere una conferenza dal titolo “L’attuale condizione dell’establishment letterario giapponese”. Il volume Cinque nō moderni fu molto ben recensito, e Mishima fu estremamente soddisfatto dell’attenzione che gli riservò il pubblico letterario americano. Nel mese di agosto ebbe un’intensa attività socio-culturale, in-

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contrò vari personaggi famosi come Christopher Isherwood, Angus Wilson e Tennessee Williams. Vide otto spettacoli di Broadway, si recò varie volte al City Ballet, e, cosa che lo riempì di entusiasmo, firmò un contratto per la sua prima produzione di Broadway. Keith Botsford, uno dei principali responsabili della realizzazione teatrale dei Cinque nō moderni, aveva intenzione di riunire tre dei brevi drammi in un unico dramma, con l’aggiunta di passaggi di transizione per sostenerne la continuità. Mishima fu d’accordo e, alla fine di agosto, si mise a tavolino e scrisse i passaggi che avrebbero creato una relazione tra il poeta di Sotoba Komachi, Genji di Aoi e Yoshio di Hanjo. Botsford quando lesse la traduzione dei passaggi fatta da Donald Keene ne fu molto entusiasta e programmò la rappresentazione del nuovo dramma prima di Natale. Il 27 agosto Mishima partì per un viaggio a Puerto Rico, Haiti, la Repubblica domenicana, Città del Messico e lo Yucatan, sperando che al suo ritorno a New York, per i primi di ottobre, avrebbe già trovato in atto le prove del suo dramma. Ma quando il 2 ottobre fu di ritorno, Donald Keene non seppe dirgli nulla riguardo alla rappresentazione. I successivi tre mesi che seguirono rappresentarono un momento abbastanza cupo per Mishima. Si arrivò alla fine di ottobre senza realizzare nulla, non si trovava la protagonista, non si trovava un regista adeguato. Le prove per la scelta del casting furono un fiasco; “Mishima aveva insistito per assistere alle prove e interrompeva di continuo le attrici nervose dicendo: ‘Ancora una volta per favore, con più sentimento’. Botsford e i suoi collaboratori erano furiosi e dissero a Mishima che non era gradito alle audizioni. Lo scrittore si ritirò indignato nella sua camera del Park Avenue Hotel”35. Neanche alla fine del mese di novembre si era prossimi alla realizzazione della rappresentazione, e Mishima, che aveva programmato di essere a casa ai primi di ottobre, cominciava a essere a corto di denaro. Ai primi di dicembre lasciò il costoso Hotel Gladstone e si trasferì in un economico alberguccio di Greenwich Willage. Nel mese di dicembre dovunque andasse gli chiedevano quando sarebbe iniziata la rappresentazione del suo dramma e, non potendo sopportare più il peso di questa situazione, nonostante si fosse riproposto di non farsi più vivo con i produttori e di attendere notizie, il 17 dicembre si decise ad andare da loro. Lì ebbe la triste notizia che era ancora tutto in aria, che per un motivo o per un altro tutte le attrici avevano rifiutato la parte; inoltre la critica situazione economica di quel periodo aveva gettato giù il mercato e reso gli investitori molto più cauti. 35

John Nathan, Op. cit., p. 136.

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Alla vigilia di capodanno, stanco di quella situazione, prese un aereo per Madrid, dove restò qualche giorno per poi volare a Roma, dove si consolò comprando un’infinità di cravatte in Via Condotti. Alla fine, il 14 gennaio, rientrò in Giappone, dove giunse in tempo per assistere alla serata finale della seconda rappresentazione a Tōkyō del suo famoso dramma La sala Rokumeikan.

Il matrimonio Ritornato in Giappone, Mishima iniziò a cercar moglie. Era già da un po’ che i genitori premevano su quell’argomento; il fratello minore Chiyuki si era già sposato da tre anni e risultava strano che il figlio maggiore non lo avesse ancora fatto. Avevano peraltro iniziato a sentir voci sull’omosessualità di loro figlio, a cui di certo non davano alcun credito, ma pensavano che, ad ogni modo, il suo matrimonio avrebbe potuto metterle a tacere. Mishima, sempre rispettoso delle idee e delle richieste dei suoi genitori, aveva promesso che al suo ritorno in Giappone avrebbe cercato moglie. Non avendo una fidanzata, si ricorse alla pratica, peraltro molto frequente in Giappone e soprattutto tra le famiglie di alto livello, dell’ omiai (matrimonio combinato). In uno dei primi incontri organizzati conobbe Shōda Michiko, l’affascinante figlia di un industriale, che più tardi avrebbe sposato il principe ereditario Akihito. Dalla fine di gennaio, tra l’altro, Azusa aveva fatto annunciare alle laureate della Scuola dei Pari che suo figlio stava cercando un’adeguata consorte. Immediatamente arrivarano in casa Hiraoka un’infinità di domande, corredate da lettere di raccomandazione, attestati di discendenza e, ovviamente, fotografie. Nonostante il “curriculum” più che adeguato di tutte, la maggior parte fu scartata da Mishima in base alle fotografie. Una di loro, tuttavia, sembrò attrarlo in particolar modo; era una laureata della Scuola dei Pari e grande ammiratrice di un amico di Mishima, il compositore Mayuzumi Toshirō. Fu proprio quest’ultimo, incaricato dagli Hiraoka, a contattare la ragazza e chiederle se era davvero interessata al matrimonio, anche perché spesso le domande erano presentate dalle famiglie all’insaputa delle figlie. La risposta della ragazza fu che avrebbe preferito uccidersi piuttosto che sposare un uomo del genere. Mishima, probabilmente ancor più attratto da questa risposta, non si scoraggiò affatto e combinò con Mayuzumi un incontro “casuale” con la ragazza. Mishima lavorò alla preparazione dell’incontro come se stesse elaborando il soggetto di uno dei suoi drammi, rivedendo numerose volte tutti i dettagli. Alla fine comunicò a Mayuzumi che si sarebbero incontrati al ristorante Kettel’s di Tōkyō, e,

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per rendere la cosa più naturale, lui si sarebbe fatto trovare in compagnia di un redattore. Tutto andò come programmato. Mayuzumi presentò la ragazza a Mishima, e in un battibaleno la coinvolsero a stare con loro a cena e poi ad andare a bere al Quartiere latino. La giovane, ovviamente, capì subito tutta la messa in scena; per educazione non rifiutò l’invito, ma si chiuse per tutto il tempo in un gelido silenzio. Furono tutti a disagio, tutti tranne Mishima, che, nonostante l’imbarazzante situazione, si comportò con gran galanteria offrendosi anche di accompagnare la ragazza a casa con la Limousine che aveva noleggiato. Questo fu l’unico incontro, non fu tentato nessun altro abboccamento. Se erano molte le donne attirate dal giovane scrittore, erano molte anche quelle “spaventate” dalla sua figura; dalla sua esuberanza fisica e intellettuale, dall’aria provocatoria con cui ormai si presentava negli ambienti pubblici e sui mass media. Ad ogni modo, la schiera di giovani letterate adoranti, che divoravano religiosamente i suoi libri, non interessavano lo scrittore; più di una volta aveva dichiarato di non volere una donna particolarmente interessata al suo lavoro. Nel marzo dello stesso anno, un vecchio amico di famiglia propose la candidatura di una studentessa universitaria di diciannove anni, di nome Sugiyama Yoko. Il padre della ragazza era Sugiyama Nei, uno dei più famosi pittori tradizionali del Giappone. Questo aspetto di discendenza “artistica” non strettamente legata alla letteratura deve aver attirato Mishima, come non meno deve averlo attirato l’aspetto fisico di Yoko. Era una ragazza dai bei lineamenti, non molto alta, ma ben fatta e abbastanza formosa. In un articolo comparso sulla rivista Shufu no tomo intitolato Il mio matrimonio combinato (Watakushi no miaikekkon), Mishima aveva parlato delle caratteristiche della sua donna ideale, dicendo che doveva essere una giovane donna di saldi principi, che incontrasse i suoi gusti e che potesse accettare le varie complesse condizioni legate al loro matrimonio. Dal contesto sembra chiaro che egli si riferisce alle sue esigenze lavorative, che dovevano venir prima di ogni altra cosa, ma si percepisce anche qualcos’altro riguardo alla sua privacy. “Non si sa effettivamente”, dice Nathan, “se Mishima abbia parlato della propria omosessualità a Yoko, e cosa gli abbia detto. Il giorno prima del matrimonio egli bruciò tutti i suoi diari, e questo lei dovette saperlo, perché più tardi me lo disse”36. Inoltre, nel 1968, fu ricattato da qualcuno che minacciò di rivelare alla moglie una sua relazione omosessuale se egli non gli avesse versato una grossa somma di denaro. Mishima si rifiutò e il ricattatore mise in atto la minaccia. Per non 36

Ivi, p. 141.

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parlare poi delle riviste scandalistiche che pubblicavano numeri speciali su di lui, dove l’omosessualità diventava uno degli argomenti più appetitosi per il pubblico affamato di gossip. Insomma, è difficile pensare che Yoko non fosse a conoscenza di questo aspetto del marito, solo che ha sempre trattato l’argomento come un tabù con qualunque persona avesse a che fare, prima e dopo la morte di lui. I motivi per cui la giovane Yoko abbia accettato le “complesse condizioni” del matrimonio con Mishima possono essere vari. Il suo gusto artistico, coltivato sin da piccola nella casa di un padre artista, la rendeva particolarmente sensibile al fascino ambiguo di quel carismatico scrittore. E poi c’è da aggiungere che la disposizione generale dei giapponesi nei confronti dell’omosessualità non era così rigida e severa come nella maggior parte della cultura occidentale. E questo deriva da una tradizione che nel periodo Tokugawa (1600-1868) vedeva una società borghese, frequentatrice di eleganti quartieri di piacere, rappresentata da eroi, letterari o reali, che spesso erano raffinati amanti bisessuali. Uno dei motivi invece che spinse Mishima ad affrettare il suo matrimonio fu la salute della madre. Nel marzo del 1958 Shizue fu ricoverata in ospedale per degli esami che le diagnosticarono un cancro terminale. Un mese dopo la diagnosi venne confutata e Shizue ritornò a casa; ma durante questo mese, in cui tutti erano convinti che da un momento all’altro sarebbe finita, le due famiglie affrettarono i preparativi della cerimonia, e Mishima assicurò alla madre che lo avrebbe visto felicemente sposato prima di morire. Le cose però non andarono del tutto lisce, fra gli Hiraoka e i Sugiyama sorsero subito problemi. Nei, il padre di Yoko, assunse un atteggiamento di superiorità, sentendosi quello che favoriva gli Hiraoka offrendo la mano di sua figlia. Azusa, il padre dello sposo, non poteva contare sulla stessa ricchezza e fama del consuocero, ma vantava le origini aristocratiche della defunta madre Natsuko. E poi c’era suo figlio, che ora era considerato il più grande scrittore del Giappone. Quando i Sugiyama chiesero una proroga della data, perché la figlia potesse prima terminare gli studi universitari, caddero tutte le trattative. La famiglia Hiraoka non volle sentire ragioni, Yoko doveva scegliere tra il matrimonio e i suoi studi. La ragazza, fortemente convinta di diventare la moglie di Mishima, durante questa interruzione dei rapporti tra le due famiglie cadde in una profonda disperazione, e un giorno “andò in lacrime dalla madre dicendole che se non le avessero permesso di sposare Mishima si sarebbe uccisa”37. 37

Ivi, p. 144.

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Le nozze furono celebrate il 30 maggio, con il futuro premio nobel Kawabata Yasunari che fungeva da nakōdo, ovverossia l’ “intermediario” nel corso del pranzo della cerimonia nuziale, secondo il rito religioso shintōista. La cerimonia ebbe luogo all’International House, un’istituzione destinata essenzialmente agli studiosi stranieri in visita in Giappone, frequentata dall’alta società giapponese che aveva contatti internazionali e in particolare accademici. A parte il meraviglioso giardino, il luogo era abbastanza spartano e non permetteva particolare sfarzo o ostentazione di lusso. Così Mishima, di solito sempre pronto a esibirsi e ad attirare l’attenzione pubblica, per la sua cerimonia nuziale scelse la sobrietà e un riservato gusto intellettuale. La mattina successiva, dopo una cerimonia in cui era serpeggiata una chiara tensione fra le famiglie degli sposi che quasi non si rivolsero la parola, Mishima e Yoko partirono per una breve luna di miele. Si recarono alle sorgenti termali di Hakone, poi a Kyōto e Kobe, quindi da Kobe si imbarcarono e raggiunsero Beppu. A Kyōto visitarono gli studi cinematografici Daiei, dove il regista Ichikawa Kon stava lavorando al film L’incendio, come abbiamo già detto, l’adattamento cinematografico del Padiglione d’oro, forse il miglior film tratto dai romanzi di Mishima. Dovunque si recassero erano sempre seguiti dalla stampa; riviste e giornali parlarono di continuo dell’evento, e anche quando il 15 giugno rientrarono a Tōkyō in aereo, all’aeroporto c’erano ad aspettarli, oltre al fratello Chiyuki con la moglie, vari giornalisti e rappresentanti degli editori di Mishima. La vita matrimoniale della giovane coppia appariva, perlomeno all’esterno, molto serena e felice. Il comportamento di Mishima nei confronti della moglie era molto poco “giapponese”. A differenza dell’atteggiamento tradizionale che relegava la moglie, specialmente di un personaggio famoso, in una condizione molto riservata e poco in vista, Yoko accompagnava spesso il marito nei suoi viaggi ed era presente ai party in cui intratteneva amici stranieri. Mishima coinvolgeva sempre Yoko nella conversazione, ed era molto attento e interessato alle sue opinioni. Tuttavia le cose non andavano sempre così bene. Yoko sapeva mantenere il suo riserbo su aspetti del marito che non le piacevano, ma a volte sapeva anche protestare. Intorno agli anni sessanta ci fu un periodo in cui Mishima teneva a casa regolari “feste di body building”. Gli invitati, amici culturisti della sua palestra, bevevano e parlavano di cultura fisica, poi si spogliavano a torso nudo, si oliavano i muscoli e posavano per un fotografo appositamente convocato. Yoko ebbe da ridire. Non ci furono scenate, non ci fu mai una scenata. Ma a quanto racconta uno dei giovani culturisti, un bel giorno Mishima con un

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certo imbarazzo informò i suoi amici che non ci sarebbero più stati festini del genere38.

Ma le trovate che potevano indispettire la moglie non erano finite. Nel 1963, con gran disappunto di Yoko, Mishima posò nudo per una raccolta fotografica intitolata Il supplizio delle rose (Barakei) ad opera del fotografo Hosoe Heikō, e sempre in quel periodo apparve in uno spettacolo di cabaret accanto al giovane attore di ruoli femminili Maruyama Akihiro; cantavano insieme una canzone dal titolo Il marinaio ucciso dalle rose di carta, composta per l’occasione dallo stesso Mishima, e alla fine dell’esibizione si scambiavano un bacio. Queste esibizioni fotografiche e di palcoscenico suscitarono le reazioni più diverse nel pubblico e nella critica; chi non lo amava colse l’occasione per affermare che fosse definitivamente uscito fuori di testa, altri individuarono nei suoi atteggiamenti la provocazione di un intellettuale trasgressivo al conformismo della società benpensante. Ma tutti alla fine gli perdonavano le sue trovate in nome delle grandi opere che continuava a realizzare in campo letterario. Nel 1965 fu invece Yoko a creare l’occasione per un contrasto coniugale, annunciando alla famiglia che aveva intenzione di provare a guidare nelle corse sportive. Mishima, nonostante non si fosse mai dimostrato un marito particolarmente geloso e autoritario, non volle assolutamente acconsentire, soprattutto perché si preoccupava dell’immagine esterna che ne sarebbe derivata. Già pensava agli articoli sulle riviste che avrebbero messo in risalto il desiderio di realizzarsi al di fuori della famiglia di una donna insoddisfatta di essere solo la moglie di un famoso scrittore. Yoko accettò l’irremovibile posizione del marito e rinunciò sia alle corse automobilistiche che alla giovane coppia di amici che gliele aveva fatte conoscere. Erano amici comuni sia di Yoko che di Mishima, un giovane uomo d’affari e sua moglie, genitori di un compagno d’asilo della figlia dello scrittore. Nell’agosto del 1966 li invitarono a trascorrere una settimana nella loro villa al mare a Shimoda, e un pomeriggio, mentre erano sulla spiaggia, Mishima sentì che l’uomo d’affari comunicava a Yoko di essere riuscito ad avere le informazioni riguardo alla patente di guida per le macchine sportive. “Mishima al momento non disse una parola, poi la sera prese in disparte l’uomo e gli chiese di andare subito via. Al suo amico, che lo guardava esterefatto, disse soltanto che aveva violato la sua intimità familiare. Il mattino successivo la coppia rientrò a Tōkyō e non ebbe mai più notizie dai Mishima”39. 38 39

Ivi, p. 146. Ivi, p.147.

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Ciò che però creava più tensioni in casa Mishima era l’antagonismo mai risolto tra nuora e suocera. Shizue era diventata ancor più possessiva nei confronti di suo figlio, quasi prendendo il posto della defunta nonna Natsuko. Nei confronti della nuora aveva un atteggiamento abbastanza distaccato e critico, come probabilmente avrebbe avuto con qualunque altra donna fosse stata a fianco al suo Kimitake. Yoko però non fu meno determinata e dotata di volontà della suocera, e riuscì a tenerle adeguatamente testa. Chi in sostanza fu maggiormente vulnerabile e vittima della situazione fu proprio Mishima, che si trovò di nuovo, come nella sua infanzia, conteso da due donne. Ora avrebbe potuto, vista l’età, reagire in modo più deciso e netto, conferendo alle persone che lo circondavano il ruolo che loro spettava; invece non lo fece, e cercò sempre di giustificare a Yoko l’atteggiamento della madre, chiedendole di migliorare il rapporto con lei e di dedicarle più attenzioni. Per i primi undici mesi di matrimonio i Mishima vissero insieme agli anziani genitori di lui in una tensione costante. Poi nel gennaio 1959, con Yoko incinta del primo figlio, Mishima annunciò l’intenzione di costruire una nuova casa per l’intera famiglia, con una dépendance privata per i suoi genitori. La casa di Mishima fu progettata con molta logica e attenzione al comfort. Egli amava la tradizione giapponese, ma questa, nella sua estrema semplicità, non offriva le comodità della tradizione occidentale. E fu proprio l’opposto della semplicità che lo scrittore ricercò. Per Mishima la quintessenza dell’occidente era il tardo barocco, sfarzoso e dai colori contrastanti. Al suo architetto sbalordito disse: “Voglio sedermi su un mobilio rococo vestendo i Levi’s e una camicia hawaiana; questo è il mio stile di vita”40. Quando la stampa gli chiese un’adeguata definizione dello stile adottato per costruire la sua nuova abitazione egli rispose: “Coloniale vittoriano”; ma la definizione non fu poi così calzante con la realizzazione del progetto. John Nathan, che vi fu ospite più volte, così ricorda la casa: Il gusto era vagamente italiano, vagamente spagnolo, una casa bianca a due piani con una veranda davanti che dava su un piccolo giardino. Nel centro del giardino vi era una meridiana con piastrelle con i segni dello zodiaco e una statua di marmo, non di Dioniso, ma di Apollo. (Mishima una volta spiegò in inglese a un reporter straniero, “Questo è il mio disprezzabile simbolo della razionalità”). In un angolo c’era un divano a due posti veneziano, che aveva ordinato a un arredatore degli studi cinematografici Daiei e del quale andava molto fiero. Nel giardino si entrava attraverso un cancello di ferro battuto che si apriva in un alto muro bianco che girava intorno alla casa. (...) 40

Cit. in ivi, p. 150.

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Nella casa principale non c’erano stanze alla giapponese. Appena all’interno, però, c’era l’entrata in stile tradizionale, dove i visitatori si aspettavano di togliersi le scarpe prima di camminare sul pavimento di legno. Ma una delle piccole sorprese che attendevano i visitatori della casa di Mishima era il cortese invito della cameriera a entrare senza togliersi le scarpe. (...) I visitatori, sia ospiti a cena che redattori, erano sempre ricevuti nella prima sala a destra al pian terreno, una sorta di stanza che combinava la sala da pranzo e il salotto con un soffitto alto due piani. (...) Il pavimento era a piastrelle quadrate; c’era un tavolo Luigi XIV, a cui si potevano sedere quattordici persone, un divanetto, una sedia e un tavolo antico più piccolo, un piccolo bar, un set di scrittura in porcellana, numerose miniature rinascimentali che Mishima aveva portato dall’Italia e, sull’altra parete, uno scalone bianco avorio con una balaustra di ferro decorata sul quale amava posare. In cima a questa scala c’era il soggiorno, un po’ più grande della camera da pranzo sottostante. Qui l’arredamento era variegato; c’era un non ben definito sofà, sedie di vari periodi antichi, un pianoforte, una coppia di lampade di ottone con lampadine fumè, uno scrittoio vittoriano e una grossa quantità di bric à brac. Sempre sistemati sul divano c’erano un leone imbalsamato che iniziava a rovinarsi e una bambola dell’infanzia di Mishima. Era qui che i Mishima servivano i drink prima della cena o davano i cocktail party, una convenzione che Mishima aveva importato da New York e che provava piacere a infliggere agli ospiti giapponesi. Fino al 1965 solo queste due camere furono aperte al pubblico. Poi Mishima aggunse un terzo piano che consisteva di un terrazzo, della grandezza della casa, che guardava verso la baia di Tōkyō e due stanze perfettamente tonde, con un soffitto a cupola, su entrambi i lati dello scalone. Erano state progettate per permettere alle signore e ai signori di dividersi per un decoroso intervallo dopo la cena. L’arredamento era ultramoderno: tavoli bassi e divani ricavati nel muro che seguivano la curva della parete, tapezzeria a muro blu nettuno nella sala degli uomini a destra, e scarlatta in quella delle donne a sinistra. In esposizione in una nicchia ricavata nel muro della sala degli uomini, illuminata dalla luce dall’alto, c’era una rara urna greca, un regalo del padre di Yoko. Attraverso il soggiorno al secondo piano, o attraverso un’altra scala usata solo dalla famiglia, si arrivava alle camere da letto e allo studio di Mishima. La stanza in cui Mishima lavorò minimo sei ore a notte ogni giorno della sua vita era notevolmente spartana. Era una stanza molto piccola, forse dodici per dodici41. A parte la grande scrivania di metallo piena di manoscritti, l’unico arredamento era un piccolo tavolo e due sedie, dove a volte sedeva fino a tarda notte con i redattori o, più raramente, con amici scrittori. La parete a destra della scrivania era una libreria alta fino al soffitto. Qui teneva un’enciclopedia, atlanti, dizionari, una collezione di lavori di riferimento sull’esoterismo, come One Hundred Finest Luxury Items in the Word, e le dozzine di album dove raccoglieva meticolosamente l’enorme quantità di articoli su di lui. (Il grosso della sua libreria di ottomila volumi era “accatastata” nell’atrio antistante lo 41

Probabilmente intende piedi, quindi dovrebbe essere circa m. 3,65x3,65.

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studio). (...) L’austerità dello studio era in stridente contrasto con il resto della casa, ma ciò era coerente con una delle sue regole cardinali: il lavoro e la vita familiare dovevano essere rigorosamente separate42.

E questa regola fu sempre scrupolosamente rispettata. Raramente Mishima parlava della sua famiglia. I fotografi a cui era permesso entrare nella sua casa non erano autorizzati a fare fotografie alla moglie e, più tardi, neanche ai due bambini. Il divieto si estendeva anche ai suoi genitori. Si premurò sempre di tenere la sua figura pubblica e quella di letterato separata da quella di figlio, marito e padre. I genitori di Mishima furono invece sistemati in una casa in stile prettamente giapponese, situata sul lato destro della casa principale e all’interno dello stesso muro di cinta. Non era collegata internamente con l’edificio principale, aveva un ingresso privato costituito da un piccolo cancello in un angolo del muro di cinta, un proprio piccolo giardino giapponese e due cameriere al servizio. Così Azusa e Shizue, volendo, potevano condurre una vita del tutto indipendente. Mishima traslocò con la sua famiglia nella nuova casa il 9 maggio 1959, e lì rimase per tutto il resto della sua vita. Durante gli ultimi undici anni della sua esistenza le sue giornate trascorsero con pochissime variazioni. Si alzava di solito all’una del pomeriggio, faceva colazione leggendo la posta, e se la giornata lo consentiva prendeva il sole per circa un’ora. Nel primo pomeriggio, a meno che non fosse sotto pressione per rispettare qualche terribile scadenza, usciva di casa con una piccola valigia e si recava in palestra per praticare il body building o il kendō 43, o più tardi il karate. Il tardo pomeriggio era dedicato a redattori ed editori, a dibattiti con critici o con altri scrittori che venivano registrati per poi essere pubblicati in riviste letterarie, alle prove teatrali e ai tanti altri affari della sua complessa esistenza. Spesso non cenava a casa, a meno che non dovesse ricevere ospiti – cosa che faceva con grande sfarzo ma non così di frequente –, e non rientrava prima delle undici di sera. Verso mezzanotte, e comunque mai più tardi dell’una, era sempre nel suo studio a lavorare44.

Le sue giornate pienissime non gli impedivano però di dedicarsi alla famiglia. Fu l’attento e affettuoso padre di due bambini, una figlia di nome Noriko, nata nel giugno del 1959, e un figlio di nome Iichirō, nato nel maggio del 1962. 42 43 44

John Nathan, Op. cit., p. 150-152. Scherma tradizionale giapponese. Ivi, p. 153.

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La casa di Kyōko Nel giugno 1959, un mese dopo il trasloco nella nuova casa e pochi giorni dopo l’arrivo della neonata Noriko, Mishima portò a termine La casa di Kyōko (Kyōko no ie), un romanzo a cui si era dedicato con grande dedizione e costanza per quindici mesi. L’opera a cui aveva lavorato con tanta attenzione e in cui credeva moltissimo si rivelò, in sostanza, un libro molto disorganico. In ogni pagina lo scrittore confessa il suo senso di incertezza nello stabilire la propria identità – la sua necessità di mutare le varie maschere della sua molteplice esistenza di romanziere, drammaturgo, critico, personaggio pubblico – e di non percepire realmente il senso dell’esistenza. Quasi una testimonianza di valore profetico sul suo futuro. Questa volta per raccontare i suoi conflitti interiori ha bisogno di ben quattro alter ego, quattro sono infatti i protagonisti del romanzo: un uomo d’affari, un pittore, un pugile e un attore. Ognuno di loro (e Mishima stesso) si pone la stessa domanda: come fare per sentirsi davvero vivi? Seiichirō, l’uomo d’affari, trova la soluzione al quesito assumendo un atteggiamento di massimo sdegno per la realtà. Si convince che la realtà, per quanto solare e positiva possa apparire, è solo un’illusione, una sorta di calma prima dell’inevitabile crollo del mondo. La realtà diventa credibile solo quando si trova sull’orlo della distruzione. Questo modo di rapportarsi all’esistenza ha origine nella sua esperienza della guerra. Ecco che riverbera l’irrisolto conflitto esistenziale che ha assalito Mishima al termine del conflitto mondiale e che già aveva avuto il suo ampio spazio in Confessioni di una maschera. Attraverso questo personaggio lo scrittore esprime tutto il proprio nichilismo e il proprio sdegno per la realtà del dopoguerra, una realtà piatta e senza alcun pericolo di distruzione incombente, in cui era difficile sentirsi davvero vivo. Natsuo, un pittore legato alla tradizione estetica giapponese, è profondamente convinto di essere un angelo che gode della protezione di una divinità. Apparentemente non è assillato da grandi conflitti interiori, ha già raggiunto fama e successo, ma durante una gita sul monte Fuji ha la visione della distruzione del mondo. Il suo universo viene dominato alternativamente dalla realtà e dal nichilismo, e sente che la strada giusta per un individuo è quella di togliersi la vita quando il suo corpo è ancora forte e avvenente. Ma quest’idea resta relegata nel mondo delle idee, perché non tradurrà mai in realtà il suo pensiero. Shunkichi, il pugile, è un personaggio molto importante, perché rappresenta la prima netta manifestazione di quella che verrà poi definita dallo scrittore la “filosofia dell’azione”; un aspetto dell’esistenza di Mishima che

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da questo momento in poi prenderà sempre più spazio nella sua vita umana e artistica, e determinerà quel conflitto tra pensiero e azione che lo guiderà inesorabilmente verso la fine della sua esistenza. Le azioni e i pugni efficaci erano il nucleo del suo mondo. I pensieri avevano un che di superfluo, erano qualcosa di ornamentale che si addensava pesante intorno al suo centro come una crema dolce. Le riflessioni erano il contrario della facilità, l’opposto della semplicità e della velocità. Se nella rapidità, nella chiarezza, nella sobrietà e nella forza c’era la bellezza, le idee rappresentavano quanto di più spiacevole esistesse. Non riusciva a immaginare un pensiero fulmineo come una freccia; e poi, esisteva davvero un concetto più lesto dell’esplosione di un diretto istantaneo?45

Il pugile solo attraverso l’azione, il combattimento sul ring, sente di essere realmente vivo, ma poi durante una rissa con dei teppisti gli viene fratturata la mano destra con una mazza da baseball e non può più combattere. Con la perdita dello scontro, dell’azione, si sente defraudato della sua identità. Capisce che per trovare una ragione di esistere, per avere un riscontro della sua esistenza, ha bisogno di un avversario, e così decide di unirsi a un gruppo di estrema destra. Sono le parole di un ex compagno di classe a convincerlo, parole che evocano una serie di clichés che Mishima avrebbe molto presto enunciato pubblicamente per chiarire la propria posizione ideologica. “Noi giapponesi manifestiamo la vera forma del Grande Giappone imperiale, che fa onore alla grande pace voluta dal sovrano e dai sudditi. Dobbiamo diventare un popolo modello, il principale paese che si impegna per la libertà, la pace, la felicità, la calma e la spiritualità desiderate da tutte le nazioni del mondo e da tutte le razze esistenti. Il compimento di ciò può avvenire sia perché discendiamo dalla dea solare Amaterasu, sia perché abbiamo valore e superiorità per dedicare la nostra vita a seguire l’imperatore, e ci impegneremo a servire la Sua discendenza in eterno, in cielo e in terra”46.

Ma quello che è ancor più interessante, e che apre un altro grande enigma sulle scelte ideologiche di Mishima, è l’ammissione, che segue nella stessa scena da parte dell’ex compagno di scuola del pugile, di essersi legato all’estremismo di destra, più che per una sincera fede ideologica, per un personale desiderio di entrare a contatto con “l’estasi della morte”. 45

Mishima Yukio, La casa di Kyōko, in Mishima Yukio – romanzi e racconti, vol. I, cit., pp. 1247-1248. 46 Ivi, p. 1567.

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“Be’, insomma, forse sarebbe esagerato affermarlo, però queste frasi mi danno una ‘piacevole sensazione’. E sai perché? Perché mi sembra che il mio corpo si sciolga penetrando in ognuna di queste parole. Si tratta di enunciati che si avvicinano molto alla ‘morte’... Quando ero capoclaque, mi è capitato più volte di avvertire d’improvviso ‘la morte’ e di avere questa ‘piacevole sensazione’ mentre cantavo quei cori così densi di energia. La sensazione della ‘morte’ forse è simile ai brividi che ti scuotono il corpo quando fai pipì dopo averla trattenuta per molto tempo”47.

Queste parole sorprendono non poco il pugile che accusa il suo ex compagno di classe di essere un estremista di destra alquanto eretico. Ma questi per nulla turbato gli risponde: “Sì, è vero, ma sei l’unica persona con la quale ho affrontato un discorso del genere, perché penso che su questi punti ci somigliamo, e credo che nella boxe tu avrai trovato qualcosa di simile”48.

Così Shunkichi entrerà nel gruppo di estremisti di destra, dove non solo proverà di nuovo il brivido del combattimento, del continuo confronto con l’altro, che sono per lui la linfa vitale dell’esistenza, ma anche il costante senso di vicinanza all’eccitante pericolo della morte. E, ironia della sorte, come una rissa in strada gli ha fratturato una mano e l’ha condotto su questa via, così un’altra rissa in strada lo condurrà alla morte. Il quarto personaggio, l’attore Osamu, rappresenta il narcisismo dello scrittore. Egli dedica così tanta attenzione al suo aspetto fisico proprio per il senso di incertezza e di vacuità che percepisce riguardo alla propria esistenza. Osamu inizia a praticare il body building con la speranza di rendere, attraverso l’aumento e la definizione della sua massa muscolare, più tangibile la sua esistenza. E inizialmente ci riesce, ma poi a un certo punto, anche i muscoli non gli sono più sufficienti a determinare la sua identità. Arriva così a una drammatica scoperta finale. In un caldo e afoso giorno d’estate, sdraiato sul pavimento con gli occhi chiusi, si lascia accarezzare dalla sua amante. Poi all’improvviso avverte un dolore fitto e lancinante, apre gli occhi e vede un rivolo di sangue che gli cola su un fianco; la sua amante lo ha tagliato con un rasoio. Quello che per il resto del mondo era degno di interesse, per lui era noioso, perché ambiva a un coinvolgimento stimolante e violento. Le carezze non gli bastavano, voleva qualcosa che lo corrodesse. Fino ad allora la sua pelle 47 48

Ivi, p. 1568. Ibid.

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era stata solo sfiorata, e niente più di quella fitta di un attimo gli aveva dato con sicurezza la prova della propria esistenza. Aveva un assoluto bisogno della sofferenza fisica. Quando aveva visto il sangue scorrere lungo il fianco, per la prima volta aveva provato la certezza della vita, che mai aveva sentito veramente come propria. (...) Dolce, affascinante linea di sangue che, uscendo in superficie, diventava un segno della massima affinità tra l’interno e l’esterno del suo corpo. Perché il suo fisico stupendo esistesse davvero, non bastava che fosse avvolto da mura di doppi muscoli, in altre parole, era necessario il sangue... Eppure, proprio quel sangue e quel dolore avrebbero determinato la distruzione dell’esistenza di Osamu. (...) Da quel momento Osamu fu ossessionato dall’idea del doppio suicidio d’amore49.

Le fantasie di morte si impossessano di Osamu e affollano la sua mente con immagini che confondono la realtà con la finzione. Il sangue e gli spasimi sognati della morte erano per Osamu come quelli di una rappresentazione teatrale, eppure l’immaginazione si paralizzava subito: riprendeva forma l’incubo del palcoscenico in cui non gli venivano mai affidati dei ruoli, di nuovo le sensazioni della sua esistenza diventavano vaghe, e ancora una volta veniva perseguitato dalla convinzione che fosse necessario far scorrere sangue vero. Sotto questa luce, l’idea di un doppio suicidio d’amore diveniva costante come il pendolo di un orologio che oscilla tra realtà e finzione scenica. (...) L’immagine di una pozza di sangue sulla scena fluttuava nella mente di Osamu. Prima o poi sarebbe stato disteso sul palco, e il sangue tiepido avrebbe coperto il profilo del suo affascinante volto... L’immaginazione della realtà era sempre sostenuta dalla durata delle sensazioni della morte teatrale. “Resterò immobile. Morirò. Non aprirò più gli occhi. Cercherò di respirare il meno possibile, perché anche un minimo sospiro sarebbe notato dagli spettatori. Finché il sipario non si abbasserà starò fermo, mi basterà magari pensare a stupidaggini; poi alla fine il sipario si chiuderà e io mi alzerò”. Ma la rappresentazione non finiva, e il pensiero che, pur attesi in eterno, gli applausi non sarebbero mai arrivati gli rapì l’animo e lo rese follemente felice. “Se il sipario rimarrà sollevato, l’opera continuerà all’infinito”50.

“Di sicuro lo spettacolo ideale di ogni attore”, commenta cinicamente il narratore. Alla fine Osamu si suicida insieme alla sua amante. 49 50

Ivi, pp. 1475-1476. Ivi, pp. 1477-1479.

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È chiaro che ognuno di questi quattro personaggi veicolava uno, o più aspetti di Mishima. Aspetti che ancora non avevano una dimensione così ben definita nell’autore, ma che nel decennio successivo si sarebbero palesati con netta evidenza: Il nichilismo e il senso di vacuità dell’esistenza dell’uomo d’affari; l’idea di troncare la propria vita quando si è giovani e avvenenti del pittore; le esaltate idee “politiche” di destra del pugile; il narcisismo masochistico dell’attore Osamu. E Osamu forse rappresenta uno degli alter ego più vicini allo scrittore. Oltre al narcisismo e al masochismo – che sfociando nella morte è visto come ulteriore e finale verifica dell’esistenza – quello che lo avvicina molto a Mishima è anche la confusione tra la morte teatrale (ideale) e la morte reale. “Mishima”, dice John Nathan, “non meno di Osamu era un attore che aveva disperatamente bisogno di sentirsi l’oggetto di un “interesse virulento” in un dramma dell’esistenza che immaginava non terminare mai. La confusione di Osamu tra la morte reale e la fantasia, il pericoloso flirtare con la morte reale, in cui tutta la realtà era trasformata in un palcoscenico sul quale recitava il ruolo centrale, era di sicuro il flirtare che Mishima stesso continuò fino al momento della sua vera morte”51. Questo lungo romanzo ha rappresentato un momento molto importante per lo scrittore, che all’età di trent’anni effettuava, dopo Confessioni di una maschera, un secondo resoconto della propria condizione interiore, una seconda, ancor più composita, autoanalisi della propria coscienza. Si iniziavano a delineare in lui ancor più chiaramente quelle strade che con tanta difficoltà avrebbe cercato di amalgamare per trovare una condizione di maggior equilibrio. Il nichilista uomo d’affari e il pittore, simboli della cinica razionalità e dell’arte, vivono e caratterizzano il “quadruplo protagonista” della Casa di Kyōko finché questi è soddisfatto del loro astratto messaggio; ma devono cedere il posto al pugile e all’attore narcisista nel momento in cui egli sente l’impellente necessità di verificare l’esistenza con l’azione e il sangue. La casa di Kyōko ebbe un buon successo di pubblico, ma, con gran disappunto di Mishima, non raccolse gli entusiasmi della critica ufficiale. In un dibattito pubblicato sul numero di dicembre 1959 della rivista letteraria Bungakukai, i sei partecipanti, fra i critici più famosi del momento, erano tutti concordi che La casa di Kyōko fosse il primo grande fallimento di Mishima. Le loro critiche si rivolgevano in particolare al fatto che il romanzo mostrava di avere delle pretese “sociali” che in effetti non possedeva. Mishima ne soffrì molto. Anche se in apparenza assumeva un atteggiamento di cinico 51

John Nathan, Op. cit., pp. 166-167.

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distacco dai pareri degli “esperti”, in realtà teneva molto al giudizio dei critici, in particolare per le opere in cui aveva investito così tante energie. In un’intervista del gennaio 1958 si era giocosamente lamentato del fatto che spesso romanzi che aveva buttato giù in brevissimo tempo erano diventati famosissimi, per contro, ora, un’opera a cui aveva dedicato un anno e mezzo di intensa fatica non riscuoteva il successo che si aspettava. Ma le opinioni poco entusiastiche della critica non fermavano minimamente la sua febbrile attività letteraria e artistica. Un altro progetto in cui in questo periodo era profondamente coinvolto era la direzione al teatro Bungakuza della Salomé di Oscar Wilde. Sin dall’adolescenza era rimasto affascinato dalla figura di Salomé, ma l’opera di Wilde, in particolare, aggiungeva a quella bellezza fatale un’atmosfera cupa e decadente che sembrava attagliarsi perfettamente al suo gusto. Lavorò con grande impegno alla produzione dell’opera, disegnando anche le scene e i costumi, e quando Salomé venne rappresentata il 5 aprile 1960 fu un grande successo.

Il teppista solitario Un mese dopo la pubblicazione della Casa di Kyōko Mishima decise di fare la parte del protagonista in un film di gangster. Tramite un redattore della casa editrice Kōdansha prese contatti con gli studi cinematografici della Daiei, che fu molto entusiasta della proposta. L’idea di Mishima era di fare una parte ben precisa, quella del classico gangster in giubbotto di pelle che, dopo tante peripezie, alla fine muore in uno scontro a fuoco. Molti copioni furono proposti allo scrittore, talvolta abbastanza lontani dalla sua idea; furono tutti rifiutati, fino a che non gli venne presentato Il teppista solitario (Karakkaze yarō). Il protagonista del film è appena uscito di prigione, dopo aver scontato una pena per aver vendicato la morte di suo padre, capo di una gang. La banda rivale reclama a sua volta vendetta e lo cerca per ucciderlo. Nel frattempo il protagonista ha una storia d’amore con una bella ragazza che rimane incinta. La reazione iniziale alla notizia della maternità è del tutto negativa, e tenterà anche con l’inganno di farla abortire con delle pillole. Ma fallito il tentativo, si accorge di amarla e si risolve ad accettare il bambino. I suoi nemici però sono sempre in agguato, la situazione è troppo pericolosa, e così decide che è meglio per la donna e il figlio trasferirsi in paese e restare con la madre di lei finché le acque non si saranno calmate. Li accompagna alla stazione e poco prima della partenza si accorge di non aver pensato a un regalo per il piccolo, così si precipita per strada verso

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un grande magazzino per comprare una bambola. Ed è proprio qui che viene sorpreso dalla banda rivale e colpito a morte. Nella scena finale gli sparano su una scala mobile, cade giù e la cinepresa lo inquadra mentre viene portato via stringendo la bambola. Il teppista solitario è uno di quei film di infimo livello del filone gangsteristico di cassetta, e molti critici si sono sempre chiesti il perché di questa bizzarra scelta. Commenta Scott Stokes: Se Mishima avesse scelto di esibirsi come attore in un film di buon livello, nessuno avrebbe esternato il minimo stupore. L’esperienza cinematografica era di per se stessa stimolante per un uomo del suo temperamento. Ma perché optare per Il teppista solitario, con la sua sordida trama a base di galera, tradimenti e amanti abbandonate, senza un pur minimo spiraglio che lasciasse spazio alla redenzione o alla speranza? (...) Che cosa voleva? A cosa diamine poteva mirare? La decisione di accedere al mondo del cinema in modo così dubbio e deteriore equivaleva ad annuciare alla società il suo proposito di non riconoscerne oltre gli schemi convenzionali (...) A mio parere l’apparizione di Mishima in quell’infima pellicola popolata da yakuza e malfattori è un sintomo eloquente dello stato psicomentale assai turbato che caratterizza quel periodo della sua vita”52.

Ma davvero tutto ciò si può interpretare solo come un momento di instabilità psichica dello scrittore? Un momento di insoddisfazione nei confronti della vita e della società che lo spinge inconsciamente verso un’operazione del tutto fallimentare che non avrebbe potuto far altro che nuocere alla sua immagine di scrittore affermato? Per cercare una risposta a queste domande dobbiamo prendere in considerazione un altro episodio extraletterario della sua vita. Episodio a cui si è già fatto accenno, e che avverrà l’anno successivo alle riprese del Teppista solitario: gli scatti del fotografo Hosoe Heikō per la raccolta fotografica intitolata Il supplizio delle rose. Se osserviamo le foto di questa raccolta, ci troviamo di fronte ad un Mishima del tutto diverso da quello a cui siamo abituati. Un velo morbido di pacata rassegnazione le pervade. È come se la volontà e la determinazione dell’uomo Mishima si adagi sonnolenta per lasciare all’obiettivo, questa volta, il privilegio della scelta. Questa volta Mishima non manipola, non forgia, come ha sempre fatto, l’oggetto della costruzione estetica, perché è lui stesso a trasformarsi in quell’oggetto.

52

Henry Scott Stokes, Op. cit., pp. 148-149.

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“Perché ha scelto proprio me?” gli ha chiesto Hosoe quando Mishima gli propose di fotografarlo, e lui gli ha risposto: “Quando ho visto le sue fotografie di Hijikata Tatsumi53, ho pensato subito di rivolgermi a lei”. Allora il giovane fotografo entusiasmato da quella risposta gli ha chiesto ancora: “Allora posso fare come voglio?”, e Mishima: “Io diventerò il suo oggetto, faccia qualsiasi cosa”. Racconta Hosoe: Quando gli ho sentito pronunciare il nome di Hijikata Tatsumi e la parola “oggetto”, ho pensato che forse Mishima volesse trasformarsi in un danzatore. Ho preso subito un tubo di gomma che stava usando suo padre per innaffiare il giardino e glielo avvolto intorno al torso nudo. Poi l’ho fatto stare in piedi su una grande lastra di marmo del giardino e gli ho chiesto di prendere una posa in cui guardava in alto con un’estremità del tubo in bocca. Sono salito su una scaletta che era lì vicino e l’ho inquadrato dall’alto in basso, così ho trovato la forza di affrontare questo famoso scrittore. Ancora oggi sudo freddo quando ripenso con quanta scortesia gli ordinai di prendere quella posa, ma Mishima eseguì con inaspettata docilità. Fissava lo sguardo sulla mia macchina fotografica senza mai battere le ciglia e mi diceva: “Io riesco a stare con gli occhi aperti per quanto tempo voglio”. In cima alla scaletta ho scattato in meno di tre o quattro minuti due interi rollini. Quando è finita la ripresa finalmente Mishima ha battuto le ciglia. Poi, subito dopo, l’ho fotografato sdraiato su quello stesso marmo, poi disteso in un piccolo spazio tra una casa accanto e il recinto del suo giardino, e poi in tante altre pose; questa bizzarra ripresa è finita dopo quasi un’ora, allora lui mi ha chiesto con un’espressione tra il preoccupato e il sorpreso: “Non ho mai fatto simili foto. Perché mi ha avvolto in un tubo di gomma?”, e quando gli ho risposto: “Distruzione dell’immagine idolo”, è esploso in una grande risata...54

Mishima sembra così voler coscientemente abbandonare l’onerosa condizione di demiurgo per immergersi nel flusso della costruzione estetica, lasciandosi trasportare docilmente per assaporarne dall’interno il gusto insolito della passività. “Capivo”, dirà lui stesso in un’introduzione alla raccolta fotografica, “che davanti alla macchina fotografica di Hosoe non erano minimamente necessari né il mio spirito né la mia psiche. Era un’esperienza gioiosa ed eccitante, una situazione che desideravo da sempre”55. 53

Danzatore contemporaneo di butō, danza moderna giapponese estremamente stilizza-

ta. 54

Hosoe Eikō, “Shashinshū barakei nōto – Mishima Yukio shi to no saisho no deai”, Yuriika, n. 5, vol. 18, 1986, pp. 65-66. 55 Ivi, p. 67.

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Da questo punto di vista, Il Teppista solitario si colloca in un’ottica molto vicina al Supplizio delle rose. Anche qui Mishima decide di essere un oggetto nelle mani del regista Matsumura Yasuzō. Dai ricordi del regista possiamo individuare vari elementi che confermano questa ipotesi. Il mio primo incontro con Mishima è avvenuto nell’ottobre del 1944, nell’aula 25 della Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Tōkyō. Era un anno prima della fine della guerra del Pacifico, ed eravamo tutti e due al primo anno. (...) Ho parlato con lui per la prima volta in una baracca a Kanagawa nel maggio dell’anno successivo, quando eravamo costretti a scavare ogni giorno per il servizio obbligatorio dell’esercito. (...) Da questa baracca io sono andato al fronte e sono ritornato all’università dopo la guerra, ma forse perché ho scelto materie e corsi diversi da quelli di Mishima non ho avuto più occasione di incontrarlo, né di parlare con lui. L’ho rincontrato quindici anni dopo, nel 1960, nella stanza del direttore della casa cinematografica Daiei. Io ero diventato regista cinematografico e lui era già uno scrittore famoso. Il direttore Nagata voleva che facessimo un film in cui Mishima fosse il protagonista; Mishima non era cambiato molto rispetto a quindici anni prima, era sempre un uomo allegro e schietto. Per quanto riguardava il tema del film, Mishima non voleva fare assolutamente niente di letterario. Affermava con aria molto seria di voler fare qualcosa di volgare e possibilmente d’azione; voleva fare un film in cui il protagonista era uno yakuza. Così lo sceneggiatore Kikujima Ryūzō scrisse per noi Il teppista solitario. In questo film Mishima era un giovane yakuza vestito con un giubbotto nero di pelle, impegnato in scene d’amore con l’attrice Wakao Ayako e in scontri con altri yakuza; alla fine del film, in un’ultima sparatoria, veniva ucciso in cima a una scala mobile di un grande magazzino. Per lui era la prima grossa esperienza cinematografica e non era assolutamente bravo. Non mi ricordo quante prove dovevamo fare per riprendere una sola scena. Io ci tenevo a non fargli fare brutta figura, per cui insistevo a fargli ripetere le scene una gran quantità di volte, e alla fine cominciò a girare la voce che io mi divertivo a torturarlo. Ma il bello è che per quanto lo torturassi, anche se gli facevo fare prove per un’intera mattinata, Mishima non si lamentava mai. Non si opponeva mai, continuava a ripetere docilmente la sua parte, mite come un agnello56.

Mishima quindi sceglie deliberatamente di interpretare un ruolo scadente, lascia che un’altra persona si ponga dietro la telecamera e lo manovri come meglio crede, costruisca con il suo corpo, con il suo viso, con la sua voce, un’immagine di celluloide in cui l’uomo e lo scrittore Mishima sono tra56

Masumura Yasuzō, “Mishima Yukio san no koto”, Yuriika, cit., p.54.

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sfigurati in un’immagine antitetica, negativa, quasi comica. Nel momento in cui Mishima decide di calarsi nel mondo della mistificazione narrativa come oggetto e non come artefice, lo fa con spirito ironico e autodistruttivo. Le riprese del film risultarono difficili e faticosissime per lo scrittore. Kishida Kyōko, una sua amica attrice, in un’intervista racconta: Io e i miei colleghi venimmo a sapere che nel film Il teppista solitario del regista Masumura, Mishima voleva interpretare la parte di un malavitoso di terz’ordine, uno di quelli che vanno giù con un soffio. L’idea di non aver scelto la parte di un bell’eroe positivo e vincente ci piaceva moltissimo e abbiamo desiderato tutti il suo successo. Un giorno in cui stavo lavorando presso gli studi della Daiei, ho saputo per caso che Mishima stava girando lì le riprese del film e ho pensato di andarlo a trovare per scherzare con lui e prenderlo in giro come al solito. Quando sono arrivata sul set, il regista Masumura lo stava dirigendo con tono molto autoritario. Se mi ricordo bene, era una scena in cui Mishima doveva aprire una bottiglia di birra e versarla a tutti; ma Mishima era maldestro e non riusciva a farlo come gli si diceva. Io che sono maldestra come lui, capisco che queste cose sono le più difficili. Trattare le attrezzature di scena è complicato se non hai ritmo nel tuo corpo. “Poverino, sono le cose più difficili da fare sul set”, pensai; ero davvero preoccupata nell’osservarlo. Però Masumura senza pietà continuava a fargli ripetere la scena, rimproverandolo e chiamandolo addirittura imbecille. Mishima non faceva che rispondere: “Sì, sì, va bene”, e ripeteva tutto daccapo con il viso pallido. Ma più andava avanti e più diventava teso, e per quante volte provava proprio non ci riusciva. In quella situazione imbarazzante non me la sono sentita di presentarmi e me ne sono andata in silenzio. Tutti noi eravamo convinti che ce l’avrebbe fatta tranquillamente a sostenere la parte di un teppistello da quattro soldi, ma forse proprio queste parti sono le più difficili da interpretare. Masumura era stato compagno di classe di Mishima all’Università di Tōkyō, per questo, dicevano alcuni, si divertiva a torturarlo. Ma Mishima era una persona molto educata e lavorava con molta serietà. Non si arrabbiava mai e, soprattutto, non rinunciava mai a quello che faceva. Un giorno durante una ripresa si è fatto male. Era una scena abbastanza difficile, in cui doveva cadere dalla cima di una scala mobile che saliva, e nella caduta si è ferito al viso. Alcuni attori dicevano che era esagerato far girare scene così a un attore non professionista; a lui, naturalmente, non manifestavano la loro apprensione, ma erano tutti molto nervosi. Poi una sera Mishima ci invitò tutti a casa sua per vedere in anteprima la proiezione del Teppista solitario. In quell’occasione parlammo tutti malissimo del film, ci sembrava che parlarne male fosse per lui una consolazione. Mishima si schermiva, diceva: “Siete terribili”, ma in realtà sembrava felicissimo. Non ce la sentivamo di lodarlo per un film così scadente. Recitava davvero da far pena, e tra l’altro lui stesso, con i suoi occhi di critico tagliente, lo vedeva

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molto bene. Se lo avessimo ipocritamente lodato ci sarebbe rimasto molto male. Fu una serata molto divertente, cenammo magnificamente e dicemmo tutto quello che volevamo dire senza peli sulla lingua57.

Da questi divertenti ricordi non possiamo non evincere due importanti elementi: l’“autodistruzione” – la distruzione dell’idolo Mishima, la distruzione del narciso – e l’“ironia” con cui questa distruzione viene attuata. In altre occasioni Mishima si era divertito a mettersi in ridicolo davanti ai suoi amici, come quando si fece immortalare dalla cinepresa sul ring durante un’esibizione di pugilato. Un aspetto che denota un sano equilibrio, piuttosto che lo squilibrio e il turbamento psicologico notato da Scott Stokes. L’ironia e l’autoironia di Mishima sono una chiave di lettura della sua personalità molto importante, e soprattutto molto meno semplice di quanto si possa immaginare. La grande ironia nei confronti della vita e di se stesso ha rappresentato un filtro indispensabile tra la realtà e la raffinata ipersensibilità con cui questa realtà veniva percepita. E, in un certo senso, ha avuto un effetto ritardante sulla sua tragica, non ironica, scelta finale.

57

Kishida Kyōko, “Mishima san no omoide”, Yuriika, cit., p. 167-168.

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I germogli del nazionalismo Durante la primavera e l’inizio dell’estate 1960, il Giappone fu teatro di un serrato confronto politico. Il tema fortemente discusso riguardava il rinnovo dei Trattati di sicurezza Giappone-Usa (Anpo) del 1952. Questi trattati leggittimavano ulteriormente la presenza delle basi militari statunitensi in Giappone, che garantivano la protezione del gigante americano contro ipotetici nemici della Nazione. Sull’altro piatto della bilancia pesava la sgradevole dipendenza del Giappone dalle scelte e dalle azioni politico-militari che gli Stati Uniti avrebbero potuto attuare in Asia. L’opposizione al rinnovo dei Trattati Anpo era quasi unanime, e si manifestava nel dissenso della sinistra, soprattutto, ma anche della stampa e dell’opinione pubblica. Tuttavia l’amministrazione giapponese, propensa ad assecondare le richieste degli Stati Uniti, era orientata a rinnovarli per altri dieci anni. All’inizio di aprile dimostrazioni di protesta, organizzate dai gruppi socialisti, portarono nelle piazze decine di migliaia di studenti e di lavoratori, e gli scontri con la polizia e i gruppi di destra furono inevitabili. Il più violento di questi, avvenuto il 16 giugno, contò migliaia di feriti fra i dimostranti e l’uccisione di una studentessa diciannovenne dell’Università di Tōkyō. Il giorno successivo, nel clima di estrema tensione generatosi, un deputato socialista del parlamento fu accoltellato mentre raccoglieva firme contro i Trattati davanti alla Dieta. La sera del 18 giugno trecentomila dimostranti si radunarono intorno alla casa del Primo ministro Kishi Nobusuke chiedendo energicamente la revoca dei Trattati Anpo. Il ministro non ascoltò le richieste e a mezzanotte i Trattati vennero automaticamente rinnovati. La reazione di Mishima di fronte a questa situazione fu molto poco “politica”. In alcuni articoli sulla situzione socio-politica di allora si chiede come mai la gente odiasse tanto il Primo ministro Kishi, e alla fine arriva alla conclusione che tanto odio è generato non dal suo essere un ex criminale di guerra, o un Machiavelli, o un lacché degli americani, ma perché è un

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“piccolo, piccolo nichilista”1. Aggiunge che non c’è nulla di male ad essere nichilista, lui stesso lo è, ma quando si ha la responsabilità delle scelte di una nazione è meglio essere più concreti. E l’unica opinione che avanza è che in futuro sarà meglio scegliere un capo di governo più realista. Eppure, otto anni più tardi, nel 1968, il distaccato e cinico osservatore del 1960 si sarebbe trasformato in un fervente ultranazionalista, pronto a combattere spada in pugno, al fianco della sinistra, la sua battaglia contro il rinnovo dei Trattati Anpo del 1970. Può apparire strano che un ultranazionalista di destra si schieri al fianco della sinistra, ma il rinnovo di questi trattati accomunavano, seppur con ragioni diverse, la lotta delle opposte fazioni politiche. Se la sinistra vedeva nel rinnovo di quei trattati il tacito consenso alla politica imperialistica americana, la destra vedeva in essi un’umiliante restrizione dell’autonomia politico-militare del Giappone. Restrizione che si manifestava soprattutto nell’impossibilità di avere un vero e proprio esercito e di dover delegare la difesa della patria alle Forze di autodifesa (Jieitai), che rappresentavano un surrogato formale dell’esercito, ma che in caso di vero pericolo avrebbero dovuto far ricorso alla protezione dell’esercito americano. Così, in otto anni, in Mishima era avvenuta una profonda trasformazione, o meglio erano germogliati quei semi di nazionalismo che probabilmente avevano aspettato a lungo sopiti nel sostrato del suo inconscio. Quello che molti critici si sono chiesti, è cosa abbia portato il distaccato e cinico scrittore nichilista degli inizi degli anni sessanta a diventare il fervente ultranazionalista della fine degli anni sessanta. È stata una presa di coscienza autentica, come d’altronde è avvenuta, in alcuni casi, in artisti di varie estrazioni culturali e sociali di tutto il mondo? Un autentico bisogno di abbandonare, almeno parzialmente, l’universo immaginifico dell’arte per immergersi con decisione nei problemi sociali? O anche questa nuova scelta è, almeno in parte, legata alla sua “vita letteraria” e alla sua weltanschauung estetica? È difficile dare una risposta univoca e definitiva a qualcosa che rappresenta il nucleo centrale del grande conflitto mishimiano, alla dicotomia mai risolta del mondo delle parole e di quello dell’azione. Ma prima di avventurarci in premature interpretazioni, iniziamo a dare uno sguardo retrospettivo a quegli otto anni che hanno preceduto la drastica trasformazione, generatrice di altrettanto drastiche scelte e azioni.

1

Cit. in John Nathan, Op. cit., p. 174.

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Patriottismo Alla fine dell’estate del 1960, Mishima scrive un racconto intitolato Patrottismo (Yūkoku)2, che si ispira ad un incidente realmente accaduto il 26 febbraio 1936 e passato alla storia con il nome di “Incidente del 26-febbraio” (Ni ni roku jiken). All’alba di quella fredda mattina di neve, ventuno giovani ufficiali dell’esercito imperiale tentarono un colpo di Stato contro un governo che ritenevano indegno e traditore della causa imperiale. 1350 soldati di fanteria occuparono in poche ore una zona strategica di Tōkyō a sud del Palazzo imperiale, e assassinarono nelle loro case tre dei sei personaggi chiave della loro lista. Poi saldamente trincerati nelle loro postazioni chiesero che il governo convocasse subito un gabinetto per attuare la “Restaurazione Shōwa”, con cui intendevano la restaurazione del supremo comando dell’imperatore sulle Forze armate. Ma ironia della sorte, gli ufficiali insorti furono traditi proprio dal loro imperatore. Infatti l’allora imperatore Hirohito, appena seppe della rivolta in atto in suo nome, subito dispose che i rivoltosi venissero puniti sia per il loro ammutinamento, sia per l’uccisione dei suoi ministri. Gli ufficiali insorti, tra l’altro, godevano un po’ di tutta la simpatia generale, dalle alte file del comando militare, al governo civile, alla Casa imperiale stessa; così i consiglieri pregarono l’imperatore di essere clemente e di non trattare gli insorti come comuni ribelli. Ma Hirohito non ascoltò ragioni, e, il pomeriggio del 28 febbraio 1936, ordinò a una divisione militare di circondare la zona occupata e di tenersi pronta ad attaccare. Gli ufficiali ribelli, per tutta risposta, dichiararono che se un messaggero imperiale fosse arrivato da loro con l’ordine di morire in nome dell’imperatore, avrebbero posto fine alla loro protesta e si sarebbero tolti la vita con il seppuku. Nessun messaggero fu inviato, e i ribelli annunciarono che avrebbero combattuto anche contro lo stesso esercito imperiale a cui appartenevano, sicuri della lealtà della loro azione. La sera del 28 febbraio, dopo una breve battaglia, e prima di venire arrestati, si volsero verso il Palazzo imperiale e cantarono 2

Ci sembra interessante riportare una considerazione di Donald Keene riguardo alla traduzione del termine yūkoku: Il termine giapponese yūkoku è tradotto nei dizionari come “patriottismo”, ma il suo significato è alquanto differente dal termine aikoku, il termine comunemente usato per “patriottismo”. Yūkoku significa letteralmente “essere addolorati per il proprio paese”, e invece di riferirsi al vivace e positivo sentimento del patriottismo, evoca invece l’afflizione di un uomo che vede il suo paese immerso nel disordine e nella corruzione.

Forse una traduzione del titolo più corretta sarebbe Dolore per la patria. Donald Keene, Op. cit., p. 1221 (nota 81).

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in lacrime l’inno imperiale. Due ufficiali si suicidarono con il seppuku, gli altri furono giustiziati. Il racconto Patriottismo fa rivivere la tensione di quel periodo attraverso la figura del giovane tenente della Guardia imperiale Takeyama Shinji. I suoi compagni lo hanno lasciato fuori dall’organizzazione della rivolta perché mossi a compassione dal suo recente matrimonio. La mattina del ventisei febbraio, allo scoppio dell’incidente, Takeyama viene convocato d’urgenza al Palazzo imperiale e resta fuori casa per due giorni. La sera del ventisette rientra a casa e comunica alla giovane moglie Reiko che ha avuto l’ordine di attaccare, il mattino seguente, i suoi compagni ribelli. Ma egli non ha alcuna intenzione di farlo, ha deciso di non eseguire l’ordine e togliersi la vita. Reiko comprende i sentimenti del marito ed esterna la sua comprensione, esprimendo il desiderio di morire insieme a lui. Il tenente acconsente al desiderio della giovane moglie; quindi fa un ultimo bagno purificatorio e, dopo aver fatto l’amore con lei per l’ultima volta, fa seppuku sotto gli occhi della consorte. Reiko dà l’ultimo bacio d’addio al marito, si siede di fronte al suo corpo e si conficca un pugnale nella gola. L’ultimo amplesso prima della morte viene descritto con un erotismo di fattura elegantissima, dove Eros e Thanatos fluiscono l’uno nell’altro con estrema naturalezza. Di sicuro tra i momenti più intensi di questo genere di descrizioni della narrativa mishimiana. Il tenente succhiò con ardore la gola bianca, nel punto in cui Reiko avrebbe trafitto con la lama del coltello e la pelle intorno si arrossò. Poi tornò sulla bocca, con leggerezza vi premette sopra le labbra e le fece oscillare ritmicamente come il rollio di una piccola barca. Se chiudeva gli occhi tutto il mondo diventava una culla ondeggiante. Dove si fermava il suo sguardo le labbra lo seguivano obbedienti. Il seno di Reiko si alzava e si abbassava a ogni respiro e i capezzoli come gemme di ciliegio si indurirono al tocco delle labbra del tenente. (...) Nella soffice curva concava tra il ventre e il petto sembrava nascondersi una forza respingente e, anche se da lì cominciava il presentimento della linea morbida dei fianchi generosi, quella curva aveva una certa apparenza di disciplina e rettitudine. Lontana dalla luce della lampada, la voluttuosa bianchezza di quel ventre e di quei fianchi era simile al candore di una ciotola traboccante di latte e il solco netto dell’ombelico sembrava la traccia di una goccia di pioggia caduta un istante prima. Più in basso, dove cominciava il delicato mucchietto di peli, le ombre si infittivano e si sentiva un odore fragrante come quello di un fiore profumato che brucia, un odore che diventava sempre più forte con l’inarrestabile vibrare dei loro corpi. (...) La pelle del tenente brillava dorata come un campo d’orzo, ogni muscolo del suo corpo disegnava profili netti che finivano per convergere sul minuscolo ombelico sotto gli addominali. Mentre Reiko guardava il ventre teso del te-

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nente coperto da una leggera peluria virile, pensò come sarebbe stato dopo il crudele squarcio della lama e, invasa dalla commozione, lo riempì di baci. Il tenente sentì scorrere sul suo stomaco le lacrime della moglie e seppe di aver trovato il coraggio per affrontare tutto il dolore del suo tragico suicidio. I loro giovani e bellissimi corpi aderivano perfettamente in ogni punto. Ormai erano diventati un unico essere. Reiko si lasciò sfuggire un gemito. Dall’apice caddero in una voragine, dalla voragine come spiegando le ali si librarono in alto e tornarono sulle vette più sconvolgenti. (...) Appena un ciclo si esauriva, una nuova ondata di passione li sommergeva e insieme, senza mostrare alcun segno di stanchezza, riconquistavano la cima nel tempo di un respiro3.

Nella postfazione al lavoro Mishima definisce Patriottismo un “racconto di beatitudine”, e di sicuro la “beatitudine” a cui fa riferimento è quella del martirio, dell’autodistruzione dolorosa e purificante del seppuku. Leggendo il racconto, l’aspetto cosiddetto “politico” passa davvero in secondo piano; l’attenzione sembra essere tutta concentrata sulle sensazioni psicofisiche del suicidio, e sulle relative implicazioni di ordine estetico ed erotico. Non è proprio una novità nella letteratura di Mishima. Se torniamo indietro con la mente a Confessioni di una maschera, la raffigurazione del San Sebastiano di Guido Reni è la chiara celebrazione della bellezza giovane e pura, invasa dall’ineffabile dolcezza del martirio disegnata sul suo volto. E davanti a tale bellezza violentata dal martirio, l’inarrestabile pulsione erotica e la conseguente prima polluzione del protagonista sono immediate. Eros e Thanatos hanno già da tempo compiuto le loro nozze. Ma in Patriottismo vi è un ulteriore elemento che inizia a prendere forma, ed è forse l’elemento più importante ai fini della comprensione della trasformazione “politica” di Mishima. Sempre nella postfazione al racconto Mishima scrive: In rare notti come questa, l’amore tra un uomo e sua moglie raggiunge lo zenit della purezza e dell’ebbrezza; e la morte agonizzante per mezzo della propria spada rappresenta l’atto di suprema lealtà di un soldato, identica in ogni aspetto alla morte onorevole sul campo di battaglia4.

È proprio in quest’ultima frase che cogliamo i semi di un’ulteriore metamorfosi della visione della morte di Mishima. Essa non solo deve essere rappresentata dalla bellezza (morte giovane), non solo dalla sofferenza (martirio), ma anche dal combattimento o dallo stoicismo del seppuku (eroismo). E questa ulteriore trasformazione condurrà lo scrittore vicino ad un altro 3

Mishima Yukio, Patriottismo, in in Mishima Yukio – romanzi e racconti, vol. I, cit., pp. 16841686. 4 Cit. in John Nathan, Op. cit., p. 179.

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importante aspetto della sua weltanschauung, l’aspetto che potremmo definire “religioso” o “fideistico”. Scrive John Nathan: Patriottismo suggerisce che l’immaginazione di Mishima sta iniziando a trovare un mezzo per acquisire la morte che desidera e ha sempre desiderato. In quella “rara notte”, dove sono presenti tutti i requisiti per la beatitudine, cos’è che dà in concreto al tenente la possibilità di “afferrare il supremo momento della vita”? Il suo patriottismo. E di cosa si tratta? È quello che Mishima presto inizierà a identificare con quello che chiama “l’essenza dello spirito giapponese” e definisce una fanatica (termine usato da lui stesso) devozione agli ideali che trascende la razionalità. Questa particolare nozione di patriottismo è di conseguenza molto simile, se non identica, alla fede religiosa5.

E nel racconto la fede religiosa non è solo percepita, ma concretamente rappresentata da immagini: la tavoletta shintōista del grande Tempio di Ise, collocata su un ripiano insieme alle foto delle maestà imperiali, rappresentanti, a un tempo, l’identità nazionale e religiosa del paese; immagini davanti alle quali lui e sua moglie ogni mattina prima di iniziare ogni attività si inchinano devotamente. Si delinea all’orizzonte quello che successivamente si sarebbe sempre più nettamente concretizzato nella mente di Mishima, e che sarebbe stato espresso in molteplici modi, sia nelle sue opere più specificamente “politiche” che in quelle “estetiche”, stabilendo una sorta di comunicazione quasi ininterrotta tra i due ambiti: il concetto di “assoluto”. Un concetto di difficile afferrabilità, in cui sono variamente combinati, gli aspetti della spiritualità shintōistica (incarnata dalla figura dell’imperatore) e del misticismo buddhista (rappresentato dalla visione nichilistica e vanificatoria della realtà). Tutto ciò aleggerà, in modo più o meno percettibile, sulla sua successiva attività letteraria e “politica”, con modalità e tempi che andremo via via scoprendo. È proprio la fede nell’imperatore, quale incarnazione dell’”assoluto”, a determinare la base del nazionalismo mishimiano; un nazionalismo, quindi, di natura mistica ed estetica, più che di natura politica. Vedremo infatti che successivamente davvero pochissime persone a lui vicine, fra tutti quelli che lo avrebbero seguito nelle sue avventure ultranazionalistiche, avrebbero capito, se non fino in fondo almeno in parte, la complessa e sfuggente ideologia che stava alla base delle sue azioni. Patriottismo, però, non nasce solo ed esclusivamente da esigenze interiori di Mishima. Il clima di tensione politica di quel periodo di sicuro ha giocato la sua parte nella decisione di scrivere un racconto sulla “ribellione” al 5

Ibid.

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sistema. Un clima che ha spinto nella stessa direzione anche altri scrittori, come il futuro premio nobel Ōe Kenzaburō che pubblicò, solo un mese dopo che Patriottismo era apparso sul numero di gennaio 1961 della rivista Shōsetsu Chūō Kōron, un racconto intitolato Il diciassettenne (Seventeen), ispirato all’assassinio del presidente del partito socialista Asanuma Inejirō, avvenuto il 12 ottobre 1960 per mano di un giovane estremista di destra. Ōe, scrittore di ideologia opposta a quella di Mishima, organizzò il racconto in chiave del tutto diversa rispetto a Patriottismo; qui la fede nell’imperatore e l’ideologia di destra vengono ridicolizzate con la figura di un goffo protagonista afflitto da un inguaribile onanismo. Questo racconto comportò non pochi problemi a Ōe Kenzaburō, che fu costretto a isolarsi nella sua casa lontano da amici e conoscenti, perché insidiato dalle costanti minacce di morte degli estremisti di destra. In questo clima di alta tensione politica, dove intellettuali e scrittori dovevano stare molto attenti a quello che dicevano e scrivevano, anche Mishima, nonostante la sua netta posizione ideologica nazionalistica, fu paradossalmente vittima delle persecuzioni dell’estrema destra. I problemi nacquero da un altro atto terroristico di destra avvenuto sempre in quell’anno, il tentato assassinio del presidente della casa editrice Chūōkōronsha. L’atto terroristico, passato alla storia come “Incidente Shimanaka”, era stato provocato dalla pubblicazione nella rivista Chūōkōron di un breve racconto intitolato Storia di un sogno elegante (Fūryū mudan) di Fukazawa Shichirō. Scrittore e chitarrista, personaggio eclettico e geniale, Fukazawa Shichirō era diventato famoso con La ballata di Narayama (Narayama bushikō), un bellissimo racconto ispirato all’antica tradizione dei giovani contadini di portare a morire sulla montagna le anziane madri. La ballata di Narayama aveva ricevuto il premio letterario Chūōkōron, e l’adattamento cinematografico ad opera del regista Imamura Shōei avrebbe poi ricevuto la Palma d’oro a Cannes nel 1983. Nel racconto Storia di un sogno elegante il protagonista sogna di assistere con grande entusiasmo ad una rivolta popolare, durante la quale vengono decapitati il principe ereditario e la principessa Michiko. Nonostante l’argomento trattato, il racconto non mostra toni particolarmente cruenti, anzi, sembra pervaso da un’aura infantile e fiabesca. Ma la destra si sentì altamente oltraggiata e, subito dopo l’apparizione del racconto, sette rappresentanti di organizzazioni di destra si recarono dall’editore pretendendo le pubbliche scuse nei maggiori quotidiani e l’espulsione dal Giappone di Fukazawa Shichirō. Le minacce continuarono per tutto dicembre e gennaio, la destra noleggiò elicotteri con cui lanciava volantini che chiedevano il processo e la condanna a morte della casa editrice. Poi la notte del 1 febbraio 1961 accadde l’incidente. Un giovane estremista di destra di soli diciassette anni fece irruzione nell’abitazione di Shimanaka, il presidente della casa

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editrice incriminata, e non trovandolo in casa, pugnalò a morte la cameriera e ferì gravemente la moglie. Subito dopo l’incidente, Shimanaka in una conferenza stampa disse che la pubblicazione di quel racconto era stato un errore e che aveva sollevato dall’incarico il redattore della rivista. È proprio in questo episodio che Mishima fu coinvolto. Prima che il caso sfociasse nel sanguinoso incidente del 1° febbraio, Mishima non aveva assistito alle sue varie evoluzioni, perché stava facendo un giro intorno al mondo con la moglie; una seconda, più sostanziosa, luna di miele, promessale non appena avesse finito di scrivere La casa di Kyōko. Quando rientrò in Giappone il 20 gennaio, venne a conoscenza dell’opinione diffusa che lui era il responsabile della pubblicazione del racconto di Fukazawa Shichirō, perché l’aveva fortemente raccomandata al redattore della rivista. Mishima smentì fermamente per iscritto la notizia, dicendo che non c’era alcun bisogno di una sua raccomandazione per uno scrittore già famoso come Fukazawa, vincitore tra l’altro del premio letterario Chūōkōron, proprio legato a quella rivista. Non si sa se questa smentita sia stata sincera o fatta per evitare problemi con l’estrema destra. Non è improbabile che, nonostante l’irriverenza del racconto e la lontananza ideologica, Mishima, da intellettuale culturalmente aperto prima che da ideologo di destra, possa averlo comunque apprezzato per il suo valore letterario e raccomandato alla rivista. Erano inoltre noti, dalle notizie riportate sui settimanali, l’amicizia tra Mishima e Fukazawa, e l’apprezzamento di Mishima delle doti di scrittore e di musicista del suo amico; l’anno precedente, durante le riprese del Teppista solitario, Mishima aveva deciso di cantare nel film il tema della colonna sonora, quindi ne scrisse le parole e chiese a Fukazawa di metterle in musica e di accompagnarlo con la chitarra. A cominciare dall’ultima settimana di gennaio Mishima iniziò a ricevere continue minacce contro di lui e la sua famiglia. Poi il caso culminò con il sanguinoso incidente del 1 febbraio. Per molte notti Mishima sorvegliò personalmente il suo giardino con la spada in pugno. Poi la polizia gli assegnò una guardia del corpo che visse nella sua casa, e che per tutto il mese di febbraio e metà marzo, finché le acque non si calmarono, lo accompagnò ovunque andasse.

Romanticismo e classicismo Questo periodo di tensioni politiche e sociali, come abbiamo detto, di sicuro hanno influito sulla produzione di opere come Patriottismo, dove possiamo cogliere i germogli del nazionalismo. Ma questo nazionalismo mishimiano

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porta con sé un ulteriore risveglio. Il risveglio di quello che era stato il fertile humus della sua nascita letteraria: il romanticismo. Il romanticismo da cui aveva così disperatamente cercato di separarsi, vedendo in esso la causa della sua cupa condizione di poeta dell’ombra, per entrare nel mondo di luce di un classicismo di matrice greca – quel romanticismo ora torna a tentarlo con una veste rinnovata. Ora è un romanticismo che celebra sempre la morte, ma non più con un atteggiamento passivo di rassegnata contemplazione, come nelle prime opere giovanili, bensì, con un atteggiamento attivo, legato al combattimento e all’eroismo. È forse il caso a questo punto di tentare di fare un minimo di chiarezza nelle cosiddette “epoche letterarie” di Mishima. Tutte le opere precedenti a Confessioni di una maschera sono ispirate da un romanticismo strettamente legato all’idea della morte, ma con la stesura di Confessioni di una maschera, seppur opera permeata da molteplici immagini di morte, pare che lo scrittore abbia cominciato a sentire un forte impulso verso la vita. In pratica la metafisica del Thanatos di cui è permeata ogni suo lavoro adolescenziale, ammantata di sogno e di romanticismo, da Confessioni di una maschera in poi viene decisamente controllata per poi sublimarsi nel chiaro e lucido classicismo di molti lavori successivi, tra cui La voce delle onde, forse il massimo capolavoro del classicismo mishimiano. E a proposito di questo mutamento lo scrittore stesso, nel saggio L’epoca del mio vagabondaggio (Watakushi no henreki jidai) del 1963, dice: “Capii che la poesia che da piccolo mi aveva reso così felice, e dopo mi aveva invece così fatto soffrire, in verità era una poesia fasulla, solo una brutta sbornia di lirismo”6. Arriva dunque alla conclusione che “la conoscenza stessa è l’essenza della poesia”. Inizia così il periodo dello studio attento della letteratura di Mori Ōgai, uno dei più grandi scrittori giapponesi della fine dell’ottocento a cui abbiamo fatto già accenno, nella quale egli ravvisa e ammira “lo stile rigoroso, la fredda intelligenza, la controllata, controllata, controllatissima passione”7. Ma il romanticismo e la visione della morte, come abbiamo detto, sarebbero ritornati nella vita dello scrittore. Nella parte finale dello stesso saggio leggiamo: “Ormai nel profondo del mio cuore non credo più all’idea del classicismo per cui nutrivo tanta passione all’età di ventotto anni”8. Appare di nuovo l’idea della morte come “unica idea davvero viva ed erotica” nei confronti dell’appiattimento della pacifica vita quotidiana; si consolida nello scrittore la convinzione che egli sin dalla nascita è stato afflitto dal “male 6 7 8

Mishima Yukio, Watakushi no henreki jidai, cit., p. 459. Ibid. Ivi, pp. 477-478.

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incurabile del romanticismo”, che da quel male non è mai guarito, e che l’Io dei ventotto anni, attirato verso la luminosità della vita, era solo una “falsificazione”. In definitiva, come ha notato Tasaka Kō, riguardo all’attitudine di Mishima nei confronti della morte si possono evidenziare tre grandi “moti ondosi”: il periodo in cui vi era totalmente immerso; il periodo in cui ha tentato di distaccarsene; e il periodo in cui ha cominciato di nuovo ad avvicinarvisi. Tutto ciò è in stretto rapporto con il moto ondoso che lo ha spostato dal romanticismo al classicismo, poi di nuovo dal classicismo a un romanticismo di nuova dimensione. Questi moti ondosi non sono solo punti di riferimento macroscopici della vita e della letteratura di Mishima, ma sono in stretta relazione al problema dei dualismi antagonistici di ‘corpo e spirito’, ‘bellezza e vita’, ‘azione e conoscenza’, che sono i temi fondamentali della maggior parte delle sue opere. Nell’alternanza di romanticismo e classicismo in Mishima si nasconde il problema del dualismo antagonistico di “dionisiaco e apollineo”, un problema che è alla base del rapporto dello scrittore con la vita stessa e che viene sempre trasfigurato letterariamente nelle sue opere9.

Così l’allontanamento e l’avvicinamento al tema del Thanatos sono in stretta connessione con la visione romantica e classica dell’arte, e della vita stessa, dello scrittore; ma queste due visioni sono, a loro volta, in stretta connessione con gli aspetti apollineo e dionisiaco. E ciò che è interessante notare è che Mishima sarà sempre in bilico fra i due aspetti senza riuscire a identificarsi esclusivamente con uno di essi. In un saggio del 1956 dice: Cominciai gradualmente a pensare che l’arte deve avere intelligenza e sensibilità, l’apollineo e il dionisiaco di cui parla Nietzsche, se difetta di una di queste cose non è arte ideale. Così cominciai a odiare il romanticismo del periodo della guerra e, allo stesso tempo, cominciai a pensare che anche il classicismo, se privo di impulso romantico, non mi interessava10.

Questo conflitto, che lo avrebbe accompagnato per tutto l’arco della sua vita, sarà lo stimolo fondamentale della creazione di pregevoli opere dedicate ora all’uno ora all’altro aspetto della filosofia nietzscheana. Ma non vi è dubbio che solo dopo un lungo periodo di decantazione interiore, questo conflitto dualistico ha trovato una sorta di assestamento, permettendo alla 9 10

Tasaka Kō, Op. cit., p. 80. Mishima Yukio, Waga miseraretaru mono, in MYZ, vol. 27, p. 231.

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meravigliosa fusione di romanticismo e classicismo, sensibilità e intelligenza, dionisiaco e apollineo di dar vita a opere grandi ed equilibrate come Il padiglione d’oro o la tetralogia Il mare della fertilità.

Il sapore della gloria Ed è sulla scia di un rinnovato romanticismo che Mishima scrive in questi anni un romanzo intitolato Il sapore della gloria (Gogo no eikō)11. Ryūji, il marinaio protagonista, sogna una gloria che si avventi contro di lui come uno squalo dalle oscure onde del mare, sogna di un destino speciale e scintillante destinato agli uomini non comuni. Inutile dire che questo destino è legato strettamente alla morte. Poi il marinaio conosce una donna che metterà in crisi la sua visione nietzscheana dell’esistenza, una bellissima vedova che lo farà innamorare e che lo alletterà con la visione di una vita tranquilla e serena, lontana dai suoi fanatici sogni di gloria. La punizione per aver voltato le spalle al mare, per aver tradito il suo destino speciale, non tarderà ad arrivare; e sarà per mano di Noboru, il giovanissimo figlio della vedova. Il ragazzino che vedeva in Ryūji un vero e proprio eroe, di cui si vantava con la sua terribile gang, quando capisce che l’eroe ha tradito il suo ruolo, e di conseguenza le sue aspettative, decide di processarlo insieme ai suoi compagni. Questa inquietante associazione di piccoli criminali dall’ideologia nazista ci viene subito presentata in tutta la loro cinica spietatezza, con i loro discorsi ricchi di sofismi riguardo alla demolizione dell’esistenza e alla restaurazione del caos, e con il raccapricciante episodio della vivisezione di un gatto, caricato di tutte le possibili interpretazioni filosofiche sulla natura del “vero” e sulla necessità di farlo apparire attraverso la lacerazione della carne; tema caro a Mishima e spesso trattato nell’interpretazione del seppuku. Cosa raccapricciante, pare che Mishima abbia realmente fatto questa esperienza di vivisezione insieme a un amico scrittore che era stato studente di medicina, perché come lui stesso disse: “non posso scrivere di qualcosa che non ho visto con i miei occhi”12. La piccola gang processa il marinaio in sua assenza e il verdetto è di colpevolezza, con la pena di fare la stessa fine del gatto.

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Il titolo gioca sulla possibilità della doppia interpretazione fonetica del termine giapponese “eikō”, sia come “gloria” che come “traino”. La traduzione esatta del titolo sarebbe “Il traino del pomeriggio”. 12 Cit. in John Nathan, Op. cit., p. 103.

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“Ci vuole sangue! Sangue umano! Altrimenti questo vuoto mondo sbianca e avvizzisce. Col sangue fresco del marinaio, faremo trasfusioni per lo spazio e il cielo che muoiono, per i boschi e la terra13.

Quindi decisa ad applicare la pena, la gang lo invita, tramite Noboru, ad un incontro in un posto isolato su una collina per ascoltare le sue avventure sul mare. Sarà quella l’occasione per farlo addormentare con del potente narcotico sciolto nel tè e, dopo averlo saldamente legato, procedere al macabro rituale di morte. Il marinaio per non deludere il ragazzo accetta, e una volta insieme al gruppo si lascia andare ai suoi racconti sul mare. Siamo alle ultime battute del racconto e il finale viene vorticosamente trascinato verso la catastrofe, lasciando che nella mente del marinaio vortichino un’ultima volta fulgide immagini e antichi sogni di gloria: Quell’oscuro sentimento del mare, il frastuono delle ondate che si avvicinano, le onde che a mano a mano s’ingrandiscono e poi s’infrangono... la gloria ignota che lo chiamava dal mare aperto e buio, confusa con la morte e con la donna, aveva di certo costruito per lui uno speciale destino. Nel fitto delle tenebre del mondo c’era una luce riservata solo a lui, che puntava a illuminare solo lui: a vent’anni ci aveva creduto con tutte le sue forze. Nell’immagine di quel momento, la gloria, la morte e la donna apparivano una cosa sola, indissolubile. Ma una volta conquistata la donna, le altre due cose s’erano allontanate verso il largo, e quel grido triste e lamentoso aveva smesso di chiamarlo. Il mare che aveva abbandonato, sembrava che ora lo respingesse (...) Gli era tornata alla memoria l’immagine delle isole dove un tempo aveva fatto scalo. Il possedimento francese di Makatea, nel Pacifico meridionale, la Nuova Caledonia, le isole intorno alla Malesia, gli arcipelaghi a ovest dell’India. Il ribollire della noia e la tormentata malinconia, lo strabocchevole numero di uccelli e pappagalli e, ovunque, alberi di cocco! Cocco imperiale, cocco pavone. La morte era venuta dal luccichio del mare, dilagando, pressando come un cumulo di nubi. Aveva perso per sempre la sua occasione, aveva sognato come in estasi una morte sublime, spettacolare, incomparabilmente eroica. (...) Mare a riparo degli atolli, tiepido come il sangue. Sole dei tropici che si espande risonante come un’eco di tromba. Mare dai molti colori. Squali...14

Poi è Noboru stesso a porgergli un perfido bicchiere di plastica, quindi scorrono le frasi di chiusura del romanzo: 13

Mishima Yukio, Il sapore della gloria, in Mishima – Romanzi e racconti, vol. II, I Meridiani, Milano, Mondadori, 2006, p. 121. 14 Ivi, pp. 130-132.

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Immerso nei suoi sogni, Ryūji inghiottì d’un sorso il tè non molto caldo. Ebbe la sensazione che fosse amaro. Come tutti sanno, il sapore della gloria è amaro15.

Mishima affrontò con grosso entusiasmo e impegno la stesura di questo romanzo, recandosi spesso a Yokohama a ritrarre le navi nel porto, il parco dove il marinaio e la vedova si incontravano e gli altri luoghi necessari all’ambientazione. Ma nonostante l’aspettativa che aveva riposto nel lavoro, quando fu pubblicato nel settembre del 1963, la critica lo accolse abbastanza freddamente, e, trattandosi di un romanzo di Mishima, anche le vendite non furono eccezionali, solo cinquantamila copie. Lo scrittore fu molto deluso e contrariato, e porse alla Kōdansha, la casa editrice che aveva pubblicato il lavoro, le sue più sentite scuse per non essere riuscito a creare un best seller. Il risultato non particolarmente entusiasmante del Sapore della gloria non fu un fenomeno isolato. In questo periodo furono molti i lavori che non ottennero il successo che lui si aspettava. L’anno precedente, La stella meravigliosa (Utsukushii hoshi), l’unico lavoro di Mishima a carattere fantascientifico, una sorta di riflessione sull’annichilimento globale – ispirato probabilmente dagli esperimenti di quell’anno sulla bomba a idrogeno –, fu il suo libro meno venduto in assoluto, solo ventimila copie. Nel 1964, Seta e introspezione (Kinu to meisatsu) – la storia di un proprietario di una fabbrica tessile, che viene coinvolto nelle problematiche dei suoi giovani operai e costretto a fronteggiare uno sciopero –, un lavoro a cui si era dedicato molto seriamente, ottenne più o meno lo stesso risultato. Uno dei motivi di questo calo delle vendite sembrava essere lo spostamento della fascia dei lettori universitari verso altri scrittori come Ishihara Shintarō, Abe Kōbō e Ōe Kenzaburō. Tuttavia i suoi lavori “minori”, quelli scritti, diciamo, per la massa (e per il proprio divertimento) continuavano a mantenere una grossa popolarità. È il caso di Musica (Ongaku), l’unico romanzo che tratta di psicoanalisi, materia con la quale lo scrittore ha sempre avuto un rapporto conflittuale, di interesse e sospetto allo stesso tempo. Il titolo del libro rappresenta un eufemismo dell’orgasmo, che la protagonista del romanzo non riesce a raggiungere e che viene appunto somatizzato nell’incapacità di sentire la musica16. Tutto il lavoro prende la forma di una relazione clinica riguardo a questo caso di frigidità, redatta dal dott. Shiomi Kazunori. La struttura però è quella di 15

Ibid. Notare come la “musica”, di cui abbiamo già detto essere la forma d’arte più temuta da Mishima, perché vista come viscerale e incontrollabile espressione dello spirito, venga scelta come metafora della sensazione umana più incontrollabile e liberatoria. 16

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un thriller “psicologico” di stampo hitchcockiano, dove alla fine il dottore riuscirà a risolvere il caso guarendo la sua affascinante paziente. Nella trattazione del materiale psicologico e nella descrizione del dott. Shiomi viene chiaramente fuori tutta la natura conflittuale del rapporto tra Mishima e la psicoanalisi: prassi terapeutiche e rapporto analista-paziente volutamente improbabili, che qualche critico ingenuo ha scambiato per imperizia nella materia di Mishima; figura estremamente ridicolizzata dell’analista, che non solo non riesce a controllare i suoi impulsi sentimentali nei confronti della bella paziente, ma che viene fino all’ultimo strumentalizzato e beffeggiato da questa. È chiaro che una materia così affascinante e, soprattutto, con un approccio così “ragionato” dei moti interiori, non poteva non attirare l’attenzione di uno scrittore dalla sensibilità apollinea e dall’approccio razionale come Mishima. Ma è anche vero che per un nietzscheano convinto come lui era difficile accettare l’idea che le nostre azioni sono governate da motivazioni subcoscienti a cui è impossibile opporsi. Il lavoro comunque ottenne un notevole successo. Pubblicato su una rivista di massa, diventò così popolare, che la metafora della musica per l’orgasmo ricorse spesso scherzosamente nelle conversazioni delle ragazze che si incontravano nei bar e nelle sale da tè di Tōkyō. Nonostante il momentaneo calo di interesse dei lettori per i suoi lavori “principali”, nel 1964, tra opere nuove, ristampe e antologie, il suo nome compariva comunque sul non insignificante numero di 150 volumi; ma la diminuzione dell’uditorio “intellettuale” rappresentò lo stesso un grosso trauma per il suo carattere orgoglioso.

Dopo il banchetto A parte l’evidente crisi di pubblico che minacciava la sua attività di scrittore, la prima metà degli anni sessanta non furono un periodo aureo nella vita di Mishima. Dopo l’incidente Shimanaka nel febbraio 1961 e l’inasprirsi delle minacce dell’estrema destra, il mese successivo fu denunciato per violazione della privacy da Harita Hachirō, ex primo ministro, che si era riconosciuto nella descrizione di un personaggio di Dopo il banchetto (Utage no ato), romanzo pubblicato nel 1960. Dopo il banchetto è una satira degli ambienti politici e dei costumi dell’alta borghesia. La protagonista è Kazu, un’affascinante donna sulla cinquantina, proprietaria di un lussuoso ristorante di Tōkyō. Nonostante la sua convinzione di essere ormai una donna disillusa e non più interessata alle questioni sentimentali, finisce per sposare Noguchi, un politico candidato

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alle elezioni per il governatorato di Tōkyō. Kazu si impegna con tutte le sue forze nella campagna elettorale del marito, investendovi anche una gran quantità di denaro, ma alla fine tutto si rivelerà inutile, perché Noguchi, candidato liberale, viene battuto dai più ricchi conservatori. Ad ogni modo l’esperienza elettorale diventa per Kazu l’occasione per una riflessione sulla propria vita e le proprie ambizioni; una riflessione che la porterà ad accarezzare il progetto, per nulla condiviso dal marito, di intraprendere lei stessa la carriera politica. E quando alla fine le verrà imposta una scelta radicale e senza compromessi, o la vita matrimoniale o l’indipendenza e la carriera, lei opterà per la seconda. Mishima in Dopo il banchetto descrive con grande abilità e ironia i meccanismi della politica e soprattutto dei partiti, sottolineandone la vacuità dei contenuti e le strategie di “mercato” con tutti i relativi supporti di tecniche psico-sociologiche e messaggi subliminali, che, qualche anno più tardi, avrebbero assunto tanta popolarità in Europa per mano di semiologi e studiosi della cultura di massa, come Umberto Eco e Edgar Morin. Ecco come viene descritta un’idea pubblicitaria della protagonista Kazu per le prossime elezioni di suo marito Noguchi. Kazu indusse Yamazaki anche ad appoggiare uno dei fantastici progetti che aveva elaborato nelle notti in cui non riusciva a dormire: stampare cinquecentomila calendari con la fotografia di Noguchi. Ogni calendario sarebbe costato circa quattro yen, ed era essenziale che si presentasse con una grafica originale. I calendari sarebbero stati distribuiti a tutte le associazioni di lavoratori, e con l’aiuto dell’unione insegnanti, sarebbero stati affissi perfino sulle pareti delle case degli scolari... Kazu descrisse minuziosamente le sue fantasie a Yamazaki, dimenticando come sempre il trascorrere del tempo. ...I calendari appesi alle pareti di legno delle fabbriche, vicino alle macchine da cucire, nelle stanzette da studio dei bambini. Il nome di Noguchi che s’affacciava perfino nelle conversazioni delle famiglie riunite per la cena. “Chi è quel tizio sul calendario?”. “Ma come non lo sai? È Noguchi Yūken”... Nelle foto avrebbe dovuto sempre sorridere – ah, com’erano rare le foto in cui Noguchi sorrideva! –. Il suo elegante e venerando sorriso si sarebbe rivolto benevolo a tante misere tavole da pranzo, e sarebbe stato soffuso dal caldo vapore delle scodelle. La sua immagine si sarebbe intrufolata dovunque – vicino alla gabbia dell’uccellino, sotto il vecchio orologio a muro, a fianco al televisore, subito sopra la piccola lavagna della cucina con la lista delle verdure e del pesce, accanto alla credenza dove dorme il gatto – su tutto avrebbe aleggiato il sorriso di Noguchi. E la dignità dei suoi capelli d’argento, e quel suo sorriso, si sarebbero un po’ alla volta confusi nella mente dei votanti con quelli di cari vecchi zii, che in passato venivano in visita elargendo dolci e carezze. Quel sorriso doveva confondere i ricordi, risuscitare antichi e romantici sogni di giustizia; e come il nome di una vecchia nave ormeggiata nel porto che

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quando si decide a salpare diventa sinonimo di futuro, così il nome di Noguchi sarebbe diventato sinonimo di un futuro che avrebbe abbattuto mura fuligginose e cadenti. “Quando il gatto di casa si alzerà per stiracchiarsi”, aggiunse Kazu, “andrà a strofinarsi la schiena proprio sul volto del calendario. E quando il nonno prenderà in braccio il gatto, ecco che si troverà di fronte il sorriso di Noguchi. E quel volto sorridente non sarà mai apparso così caro e magnanimo come in quel momento”17.

Il romanzo, rispetto agli altri di questo periodo negativo, ottenne ottime accoglienze, ma giocò la sua parte di negatività con il processo che ne derivò in seguito alla denuncia di Harita. Non fu una bella esperienza per Mishima, che si trovò coinvolto e perse clamorosamente la prima causa per violazione di privacy che veniva dibattuta in Giappone. Dieci anni dopo, in un dibattito con il critico Furubayashi Takashi, lo scrittore ne parlerà con toni ormai sarcastici, ma che non nascondono il trauma di quell’incresciosa esperienza: Furubayashi: Non si è sentito schiacciato dalla violenza irrazionale del sistema statale? Mishima: Dopo quella faccenda, non ho creduto più alla serietà dei processi. È stato un vero imbroglio, ma comunque un’esperienza interessante. Certo, se fosse stato un processo con la giuria in stile americano, sono sicuro che avrei vinto. Arita Hachirō ha scritto un libro che si intitola La gente mi chiama Hachi lo scemo (Hito wa bakahachi to yobu), e in tribunale il mio avvocato difensore gli fece questa domanda: “Lei ha regalato a Mishima un suo libro autografato?”. E Arita: “Per carità perché dovrei regalare un mio libro a uno come Mishima? Se si fosse trattato di un grande scrittore come Ōgai o Sōseki18 capirei, ma uno scrittore mediocre come Mishima...”. “Così dice di essere sicuro di non averglielo regalato. Ma se lo avesse fatto, è legittimo pensare che stimava Mishima, o che desiderava avere buoni rapporti con lui?”. “Certamente, se l’avessi fatto sarebbe giusto pensare come dice lei”. “Allora è proprio sicuro di non averlo fatto?”. “Assolutamente no, perché avrei dovuto fare una simile stupidaggine?”. A questo punto il mio avvocato con molta calma ha tirato fuori il libro. Arita, infatti, tempo addietro mi aveva fatto omaggio di un suo libro con tanto di firma e dedica: “Al signor Mishima Yukio, Arita Hachirō”. [ridono] Potrà

17 18

Mishima Yukio, Utage no ato, in MYZ, vol. 13, pp. 122-123. I due più grandi scrittori di epoca Meiji (1868-1912).

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immaginare quale sia stata la sorpresa del pubblico. Così, se ci fosse stato l’istituto della giuria, non c’è dubbio che avrei vinto io. Ma il giudizio del tribunale è stato diverso. Ha considerato il fatto che il signor Arita fosse anziano, la sua posizione sociale, la sua grande reputazione, eccetera eccetera... Ma oggi fare tutte queste considerazioni non serve a niente... Furubayashi: Nel mondo dei giuristi si considera ancora la politica come qualcosa di molto più serio e importante di un “divertimento” come la letteratura. Mishima: È proprio così. Pensi che il magistrato si rivolgeva a lui chiamandolo “signor Arita” e a me soltanto come “Mishima”. Nonostante fosse un processo civile, dove il querelante e l’accusato devono essere considerati perfettamente sullo stesso piano, mi chiamava semplicemente “Mishima”, come se si fosse trattato di un processo penale. Di tanto in tanto se ne accorgeva e diceva “signor Mishima”, ma poi tornava subito a chiamarmi “Mishima”. [ridono] Furubayashi: Si dice che la posizione sociale dei letterati, dal dopoguerra in poi, sia eccezionalmente migliorata, ma in pratica i potenti del sistema li vedono ancora come un’inutile classe di furfanti e libertini... Mishima: È l’eterno problema del rapporto fra letteratura e Stato. Dicono tante belle parole, ma nel loro animo la pensano esattamente come dice lei19.

Tra gli altri episodi negativi della prima metà degli anni sessanta, sono da ricordare il ritiro dalla “Società dell’albero in vaso”, in seguito a forti contrasti con un membro del gruppo, lo scrittore Yoshida Ken’ichi, e la dissociazione dalla compagnia teatrale Bungakuza. Nell’autunno del 1963, mentre stavano già facendo le prove, la compagnia teatrale mosse delle critiche al nuovo dramma di Mishima, L’arpa della felicità (Yorokobi no koto), poiché vi avevano individuato frasi che esaltavano l’idealismo di destra e riferimenti offensivi verso la Cina. Mishima non accettò nessuna critica e nessuna discussione, si riprese in fretta e furia il dramma e, in una dura lettera aperta pubblicata sul quotidiano Asahi shinbun, disse ai responsabili del Bungakuza: Non vi è dubbio che L’arpa della felicità si differenzi da altri miei lavori e che includa un elemento che potremmo definire “pericoloso”. Ma perché accentrare la vostra attenzione su questo fattore specifico, quando avreste dovuto rimanere colpiti dalla complessiva singolarità del dramma?... L’arte è sempre commista di miele e veleno: non si può pretendere di succhiare il primo senza assumere contemporaneamente il secondo20. 19 20

Furubayashi Takashi, Kobayashi Hideo, Op. cit., pp. 58-60. Cit. in Henry Scott Stokes, Op. cit., p. 191.

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Ruppe così tutti i rapporti con la compagnia per la quale aveva scritto tutti i suoi migliori lavori per dieci anni. L’incidente però non ostacolò totalmente il suo lavoro di drammaturgo; si legò ad un’altra compagnia teatrale che, anche se non risultò all’altezza della Bungakuza, gli permise di continuare a rappresentare le sue opere. Nel 1965 scrisse Madame de Sade (Sado kōshaku fujin), lavoro che si proponeva di analizzare i motivi per cui la moglie del marchese de Sade, che era rimasta fedele al marito per tutti gli anni della detenzione di quest’ultimo, lo aveva poi lasciato non appena questi era tornato in libertà. È un’opera tutta al femminile – composta da sei personaggi, la protagonista più cinque donne – che sviluppa l’azione solo attraverso dialoghi, che si snodano all’interno di una cornice rococò, con un impianto di tradizione rigorosamente classica e fedele alle convenzioni del teatro di Racine. Il lavoro ottenne un buon successo e venne tradotto in inglese con l’intenzione di farlo rappresentare anche a Broadway21. Nonostante tutte queste rotture e dissapori, questo fu anche il periodo più “sociale” di Mishima. Periodo in cui organizzò a casa sua eleganti e lussuosi party che gli diedero la fama di generoso anfitrione. Dal 1962 al 1965 organizzò sempre il party annuale di Natale, cosa insolita in Giappone, dove c’è l’usanza di festeggiare il Capodanno, ma non il Natale. Altra perculiarità erano i suoi inviti a coppia, consuetidine in Giappone quasi esclusiva dei circoli diplomatici. Gli invitati variavano di anno in anno, anche se ce n’erano alcuni invariabilmente presenti: i suoi più vicini amici editori; il critico Okuno Takeo, suo fervente ammiratore; il romanziere Kita Morio; il regista Matsuura Takeo; l’attore idolo delle donne e laureato alla Scuola dei Pari, Tamiya Jirō; la bellissima attrice che aveva recitato con Mishima nel Teppista solitario Wakao Ayako; il pugile Harada, campione del mondo dei pesi gallo; il ballerino d’avanguardia Hijikata Tatsumi. Ma tra gli ospiti non vi erano solo celebrità, Mishima invitava sempre uno o due banchieri, suoi compagni al tempo della Scuola dei Pari, e alcuni amici, genitori degli amichetti d’asilo della figlia Noriko. I party, pur se improntati all’eleganza e all’etichetta, non erano mai noiosi, anzi, era lo stesso Mishima a farsi in quattro per ravvivare le serate. Il party iniziava alle sette con caviale e champagne servito da camerieri in guanti bianchi nel salotto al primo piano. La cena a buffet era preparata nel 21

Le opere teatrali di Mishima in Occidente hanno sempre destato grande interesse fra registi e produttori di fama. Madame de Sade, ad esempio, nella primavera del 1989 venne allestito al Teatro Reale di Stoccolma sotto la direzione di Ingmar Bergman.

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salotto al pian terreno; c’era sempre tacchino affumicato, roast beef e, per dessert, Baked Alaska. Dopo cena, il caffè, il brandy e i sigari cubani erano serviti al piano di sopra nelle stanze rotonde. Yoko era un’ospite impeccabile; Mishima che vestiva uno smoking bianco, sembrava sempre diventare maniacale man mano che la serata si evolveva; un momento cantava vicino al pianoforte Jeanie with the Light Brown Hair, il momento dopo si metteva a quattro zampe sul pavimento, a ringhiare inarcando la schiena come un cane che minaccia un gatto; o chiamava a gran voce della tequila, del sale e del limone, sfidando il suo traduttore a vedere chi era in grado di imitare meglio Marlon Brando mentre beveva tequila in One-eyed Jacks. L’unica caratteristica giapponese del party era che terminava presto, prima di mezzanotte: tutti sapevano che Mishima doveva lavorare22.

A questi party di Natale, di solito, gli stranieri non erano invitati, ma vi erano altre occasioni in cui la maggior parte degli invitati era composta da stranieri. Quando intratteneva gli stranieri a casa sua, il massimo piacere di Mishima era sopraffarli con l’eleganza occidentale che era capace di procurare. Prima ancora di arrivare, gli ospiti erano colpiti se non soggiogati dagli inviti intagliati da Tiffany. E il cibo, che Yoko preparava da sola, era sempre stravagante e squisito. Quando era da solo a casa, Mishima amava più di ogni altro cibo il chazuke, riso e alghe conditi con tè giapponese. Ma una cena tipica di una serata a casa dei Mishima era costituita da escargots (servite con degli speciali spiedini d’argento che aveva portato da Parigi), vichyssoise e quaglia in salsa di lampone. L’insalata era servita come un piatto a parte e molto spesso erano foglie di dente di leone. Quando gli esotici vegetali erano serviti, Mishima amava esclamare con una gran risata che la maggior parte dei giapponesi non si sognerebbero neanche di mangiare un simile “cibo da cavalli”. La specialità di Yoko per il dessert, la cui preparazione aveva appreso dal capocuoco del Dai-ichi Hotel, erano le crêpes suzette flambantes. Alla fine di un simile pasto, dove, per esempio, l’ambasciatore svedese e sua moglie avevano appena incontrato Tennessee Williams e Harold Clurman, quando Yoko dava fuoco al Grand Marnier, sul viso di Mishima si diffondeva uno sguardo di infinita soddisfazione23.

Mishima, a differenza di altri importanti scrittori giapponesi, è sempre stato molto disponibile nei confronti degli stranieri a Tōkyō. Intratteneva ottimi rapporti con i giornalisti, e organizzava serate di incontro tra loro e gli scrittori e gli intellettuali giapponesi. Si premurava di aiutare anche gli addetti culturali di tutte le maggiori ambasciate occidentali in occasione di 22 23

John Nathan, Op. cit., p. 195. Ivi, pp. 196-197.

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incontri con personaggi giapponesi famosi. Ovviamente tutte queste influenti amicizie gli ritornavano molto utili; come quando l’ambasciata americana gli fornì una presentazione per far visita alla corte thailandese24, o Life e il New York Times pubblicarono numorosi articoli e recensioni dei suoi libri. Esteriormente Mishima appariva così un uomo estremamente affabile e spiritoso, ma in realtà un’altra personalità continuava a vivere i suoi conflitti e il suo isolamento interiore. I momenti in cui si sentiva davvero vivo non erano quelli delle cene sociali o degli incontri con i giornalisti, bensì i momenti in cui voltava le spalle alla realtà per rifugiarsi nelle sue fantasie di combattimento e di morte. Scrive nel 1962 in un articolo per la rivista Fukei: Tra non molto avrò raggiunto l’età di quarantacinque anni, e dovrò fare progetti per quanto mi resta da vivere. Mi compiaccio di pensare che ho vissuto più di Akutagawa Ryūnosuke25, ma al tempo stesso vivere il più a lungo possibile mi costerà un grosso sforzo. Nell’età del bronzo l’età media era di diciotto anni, all’epoca della civiltà romana era di ventidue. Pertanto il paradiso doveva essere gremito di fulgidi esponenti della gioventù. Ora invece presenta certamente uno scenario scoraggiante. Se un uomo raggiunge i quarant’anni, non ha alcuna possibililità di morire in bellezza. Per quanto tenti, la sua sarà una brutta morte. Deve dunque costringersi a vivere26.

Altrove viene ribadita, con ancor maggior certezza, l’idea che il prolungamento della vita oltre una certa età sia solo un inutile, pernicioso trascinamento dell’esistenza: È mia convinzione irriducibile che i vecchi siano eternamente laidi, i giovani eternamente belli. La saggezza dei vecchi è eternamente opaca, l’agire dei giovani eternamente limpido. Quanto più si prolunga la vita, tanto peggio diventiamo. In altri termini, la vita umana è un processo rovesciato che conduce al declino e al crollo27.

La pratica del kendō, con i suoi riti tradizionali e le sue esplosioni viscerali di energia, gli fu di grande aiuto. Anche in questo si era attuata una trasfor24

Il viaggio in Thailandia e la visita alla corte thailandese sarebbero serviti a raccogliere materiale per il terzo volume della tetralogia Il mare della fertilità, a cui avrebbe cominciato presto a lavorare. 25 Scrittore moderno afflitto nell’ultimo periodo della sua carriera da forti disturbi psicofisici, suicidatosi nel 1927 all’età di trentacinque anni. 26 Cit. in Henry Scott Stokes, Op. cit., p. 156. 27 Cit. in ivi, p. 157.

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mazione. Mishima non aveva mai gradito particolarmente la “barbarica” pratica della scherma tradizionale. In un saggio sullo sport del 1964 aveva definito le grida del kendō, “rudi, barbare, sfrontate, animalesche, incivili e antintellettuali”28. “Che schifo quelle gare”, aveva detto in una conversazione con il critico Muramatsu Takeshi. “Quelle grida crude. I duellanti, vincitori o vinti, che alla fine del combattimento esplodono a piangere coprendosi il viso con le braccia. Insopportabile”29. Ora invece sono proprio quelle grida a risvegliare nel suo spirito la sopita natura dell’antico Giappone samuraico, “la coscienza profonda della razza”30. Quando più tardi scriverà il secondo volume della tetralogia A briglia sciolta (Honba), al protagonista Honda farà riconoscere nell’urlo da combattimento dell’abile spadaccino Isao, simile al grido di un uccello selvatico, l’eruzione del sacro fuoco dello spirito. Mishima iniziò la pratica del kendō nel gennaio del 1959, e nel 1968 raggiunse il grado di cintura nera quinto dan. Qualche malevolo insinuò che non avrebbe mai raggiunto quella categoria magistrale se non si fosse chiamato Mishima, ma in quel titolo della sostanza doveva esserci se nel 1969 fu ammesso al campionato mondiale tenutosi al Nihon budōkan di Tōkyō. “In quegli anni”, affermò lui stesso, “praticavo il kendō con passione, ed ero capace di scoprire un po’ di senso della vita e il piacere di sentirmi vivo nelle grida fanatiche e violente dei kendōisti e nel sibilo delle spade di bambù”31. Sulla scia di queste fantasie marziali, nel 1965, decise di trasporre cinematograficamente il racconto Patriottismo, sarebbe stato il produttore, il regista e, soprattutto, il protagonista del film; quel tenente Takeyama Shinji che nel finale si toglie la vita insieme alla moglie facendo seppuku. Il film avrebbe avuto il sottotitolo inglese di The Rite of Love and Death, quasi a voler fornire una spiegazione più chiara della sua concezione di patriottismo. Per enfatizzare l’aspetto ritualistico, usò come unico set uno spoglio palcoscenico di teatro nō, drappeggiato in bianco. La figura del tenente doveva essere quanto più spersonalizzata possibile, un topos raffigurante esclusivamente il sacrificio per l’imperatore. Per raggiungere ancor più efficacemente questo risultato, durante la performance tirò giù sugli occhi il berretto militare, come se indossasse una maschera di nō. I dialoghi erano del tutto assenti. Ogni episodio veniva brevemente descritto da una pergamena vergata con la sua calligrafia. L’unica colonna sonora era il liebestod dal Tristano e Isotta 28 29 30 31

Mishima Yukio, Jikkanteki supōtsu ron, in MYZ, vol. 31, pp. 339-340. Muramatsu Takeshi, Mishima Yukio no sekai, Tōkyō, Shinchōsha, 1990, p.450. Mishima Yukio, Jikkanteki supōtsu ron, cit, p. 340. Cit. in John Nathan, Op. cit., pp. 197-198.

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di Wagner, scelta ideale, secondo Mishima, per l’unione della bellezza e della morte. Ecco le scene finali del film nella bellissima descrizione di Marguerite Yourcenar: L’ufficiale annuncia la propria decisione, la giovane donna la sua e, per un momento, in cui Mishima questa volta recita, l’uomo posa sulla donna un lungo sguardo tenero e malinconico, in cui si vedono chiaramente, pienamente, gli occhi che, durante l’agonia, saranno continuamente celati dalla visiera del berretto dell’uniforme, un po’ come quelli di una statua di Michelangelo oscurati da un casco. Ma questo intenerimento non dura. Il gesto seguente dell’uomo indica alla giovane, dato che non dispone di un secondo per la rituale decapitazione, come far penetrare meglio la daga con cui egli cercherà, con forze che già gli vengono meno, di squarciarsi la gola. Poi, eccoli nudi, che fanno l’amore. Non vediamo il volto dell’uomo; quello della donna è teso di dolore e di gioia. Ma non c’è ombra di pornografia: la segmentazione dell’immagine mostra il particolare di mani affondate in una lussureggiante capigliatura, quelle mani che poco prima, carezzevoli fantasmi, cingevano la giovane donna durante gli ultimi preparativi, ricordandole l’assente; frammenti di corpi appaiono e scompaiono all’improvviso: l’addome un po’ incavato della giovane sposa, sul quale il palmo della mano dell’uomo passa e ripassa teneramente nel punto in cui tra poco egli stesso si colpirà. Ed eccoli rivestiti, lei col bianco kimono del suicidio, lui stretto nell’uniforme e di nuovo con in testa il berretto a visiera. Seduti a un tavolino basso, scrivono in bella calligrafia le poche righe del consueto “poema d’addio”. Poi, l’atroce operazione ha inizio. L’uomo si lascia scivolare lungo le cosce i pantaloni della divisa, avvolge meticolosamente i tre quarti della lama di sciabola nell’umile carta di seta normalmente adibita ai più modesti usi domestici e igienici, evitando così di tagliarsi le dita che devono guidare la lama. Prima dell’operazione finale, c’è però un’ultima prova da sostenere: l’uomo si punge leggermente, con la punta della sciabola, e il sangue fuoriesce, gocciolina impercettibile che però, diversamente dal fiume di sangue che scorrerà di lì a poco – necessariamente prodotto da opportuni trucchi cinematografici – è autentico sangue dell’attore, “sang du poète”. La sposa lo guarda, cercando di trattenere le lacrime, ma, come noi tutti nei momenti fatali, l’uomo è solo, prigioniero di quei dettagli pratici che costituiscono, in ogni caso, l’ingranaggio del destino. L’incisione, di una precisione chirurgica, recide, non senza difficoltà, i muscoli addominali che oppongono resistenza, poi risale per completare la lacerazione. La visiera del berretto conserva allo sguardo il suo anonimato, ma la bocca si contrae, e, più emozionante ancora del fiotto di viscere da cavallo di corrida ferito che ora scorrono a terra, il braccio tremante sale con immenso sforzo a cercare la base del collo e affonda la punta della spada che la giovane donna in base all’ordine ricevuto, fa penetrare più a fondo. È fatto: la parte superiore del corpo crolla a terra. La giovane vedova passa nella stanza accanto e, con gesti gravi, ritocca il suo bianco, incipriato maquillage di donna giapponese di un tempo, quindi

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ritorna sul luogo del suicidio. L’orlo del bianco kimono e le calze bianche sono inzuppate di sangue; il lungo strascico che spazza il pavimento sembra tracciarvi degli ideogrammi. La donna si china, deterge la saliva sanguinosa dalle labbra dell’uomo, poi, rapidissima, con un gesto stilizzato, perché una seconda agonia realista sarebbe insostenibile, si sgozza con uno stiletto che estrae dalla manica del kimono, come un tempo le giapponesi imparavano a fare. La donna cade diagonalmente sul corpo dell’uomo. L’umile scenario borghese si dissolve. La stuoia si trasforma in un banco di sabbia o di ghiaia sottile, increspato, sembra, come un manto di nō, e, come su di una zattera, i due morti sono trascinati alla deriva, verso l’eternità. Solo, di tanto in tanto, unica evocazione del mondo esterno in quella sera d’inverno e allusione ai tradizionali nō di un tempo, un piccolo pino coperto di neve apparirà, per un attimo, nel modesto giardino di questo dramma di coraggio e di sangue32.

La preparazione del film avvenne in gran segreto, perché egli aveva intenzione di presentare la pellicola prima all’estero e poi in Giappone. Voleva conoscere il giudizio della critica straniera, perché temeva che quella giapponese avrebbe liquidato il film come un altro “scherzo” di Mishima. Il film infatti venne presentato per la prima volta alla Cinemathèque di Parigi nel settembre del 1965. Quando alla proiezione privata a Palais de Chaillot il pubblico francese e giapponese applaudì entusiasta il film, Mishima era fuori di sé per la gioia, e invitò mezza dozzina di critici francesi a bere champagne nell’hotel dove alloggiava. In Giappone il film restò segreto fino al gennaio del 1966, quando, sempre in Francia, partecipò al Festival cinematografico di Tours. Era risultato uno dei quaranta film selezionati fra i trecento per la competizione. Il film fece molto scalpore, anche per l’episodio del seppuku che provocò lo svenimento di molte signore in sala. La stampa cominciò a parlarne, soprattutto dopo l’annuncio che si era piazzato secondo nella competizione. Per tutto febbraio e marzo i settimanali dettero anticipazioni del film Patriottismo, e quando ad aprile uscì nelle sale cinematografiche giapponesi, stabilì un record ai botteghini.

Il mare della fertilità I sei mesi che Mishima dedicò alla realizzazione del film Patriottismo furono come una breve “vacanza” dalla scrittura, che preludeva all’inizio del progetto più ambizioso della sua carriera: la stesura di un ciclo di quattro 32

Marguerite Yourcenar, Op. cit., p. 98-100.

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romanzi, la tetralogia intitolata Il mare della fertilità, che rappresenta il vertice assoluto di tutta l’esperienza e lo scibile letterario dello scrittore. Un’opera di grandissimo respiro e complessità in cui si fondono tutti i temi della sua esistenza umana e artistica, dalla visione estetica a quella politica, da quella filosofica a quella religiosa; con un’orchestrazione di rara fattura, la cui polifonicità la rende forse in assoluto tra i raggiungimenti più alti della letteratura mishimiana e della narrativa mondiale del 900. Il titolo dell’opera, nonostante di primo acchito mostrasse una veste luminosa e vitale, in sostanza nascondeva un tranello: il mare a cui si riferiva lo scrittore era il Mare foecunditatis, una delle zone desertiche della luna, una sconcertante metafora del nichilismo cosmico. Sin dal 1963 aveva iniziato a parlare con il suo editore del progetto di scrivere un’opera molto lunga, che avrebbe rappresentato la sua maggiore realizzazione letteraria. Nel marzo del 1965 aveva annunciato ai giornalisti che stava per iniziare a scrivere un romanzo di tremila pagine che avrebbe richiesto sei anni di lavoro. In questo periodo aveva preso accordi con la casa editrice Shinchōsha per iniziare a settembre la pubblicazione a puntate del primo volume della tetralogia, Neve di primavera (Haru no yuki). Iniziò il lavoro a giugno del 1965 e lo terminò il 25 novembre 1966. Subito cominciò a scrivere il secondo volume, A briglia sciolta (Honba), che fu completato il 23 maggio 1967. Il 1 luglio iniziò il terzo volume, Il tempio dell’alba (Akatsuki no tera) e, l’anno successivo, l’ultimo volume, La decomposizione dell’angelo (Ten’nin gosui), che portò a termine tre mesi prima della morte. Il mare della fertilità era stata progettata nella mente dell’autore come un’opera di taglio nuovo rispetto alla tradizione letteraria novecentesca. Ero stufo dei romanzi fiume di tipo cronachistico che continuavano a inseguire il tempo. Desideravo scrivere un lavoro dove il tempo facesse un salto, dove un tempo individuale desse forma a un romanzo individuale, e il tutto disegnasse un grande cerchio. Volevo scrivere quello a cui avevo pensato sin da quando ero diventato scrittore: un romanzo sull’interpretazione del mondo33.

Il salto del tempo sarebbe avvenuto con l’”espediente” della reincarnazione, che avrebbe permesso all’autore di allineare le storie di quattro personaggi che si reincarnavano uno dopo l’altro all’età di vent’anni, dando così ai personaggi – materia del tutto eterogenea per carattere, sesso e collocazione geografica – una forma unitaria. Forma unitaria, basata essenzialmente su un legame spirituale e karmico, che tende a sottolineare 33

Mishima Yukio, Hōjō no umi ni tsuite, in MYZ, vol. 34, p. 27.

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l’aspetto ontologico del romanzo. Nel territorio estetico e filosofico in cui si era finora mosso l’autore, prende il sopravvento un elemento che non era mai stato così esplicitamente espresso: l’elemento metafisico. La storia è ambientata nel Giappone contemporaneo e sviluppata in un arco temporale di circa sessant’anni che ha inizio intorno al 1912. Matsugae Kiyoaki, il protagonista del primo volume, è un avvenente giovane, rampollo di una famiglia appartenente all’antica aristocrazia militare. Ogni volume successivo avrebbe avuto come protagonista una giovane reincarnazione di Kiyoaki. Ma il vero protagonista dell’opera, personaggio centrale che compare per tutti e quattro volumi della tetralogia, è Honda Shigekuni, compagno di studi di Kiyoaki alla Scuola dei Pari e suo intimo amico. Honda non solo è presente per tutti e quattro i volumi, ma viene a contatto e conosce molto bene anche le successive reincarnazioni (anche se forse sarebbe più corretto dire le successive due reincarnazioni, data la dubbia autenticità dell’ultima). Elemento fisico che aiuta Honda nel riconoscimento delle reincarnazioni sono tre nei seminascosti dal braccio sul costato sinistro; ma oltre a ciò vi è anche un diario dei sogni, che Kiyoaki lascia a Honda poco prima di morire, e che fornirà a quest’ultimo preziose notizie e anticipazioni sulle successive reincarnazioni dell’amico. Altro elemento di collegamento, e segno di autenticità delle reincarnazioni, è la morte a vent’anni, che sopraggiunge per tutti i personaggi reincarnati, tranne l’ultimo34. Pare che Mishima abbia tratto ispirazione, perlomeno per l’idea centrale dell’opera, da Storia del Consigliere di Mezzo di Hamamatsu (Hamamatsu chuōnagon monogatari)35, un racconto del periodo Heian (794-1186) incentrato sul concetto buddhistico della reincarnazione. Anche se, come in tutte le sue operazioni di riadattamento di opere classiche o di argomenti tratti da queste, Mishima offre una rielaborazione del tutto originale e pregna di sensi e significati talvolta del tutto assenti dall’opera ispiratrice. Alcuni critici non sono molto propensi a indicare la Storia del Consigliere di Mezzo di Hamamatsu come “opera fonte”, in quanto l’unico tema stabile in comune sarebbe la 34 Dal punto di vista dei personaggi, alcuni critici hanno trovato un’analogia strutturale con il romanzo La casa di Kyōko. I quattro personaggi della Casa di Kyōko, come abbiamo in precedenza evidenziato, rappresentano vari aspetti del carattere dello scrittore, così come anche i quattro personaggi della tetralogia. Ma attraverso l’espediente della reincarnazione, le esistenze di questi ultimi, a differenza di quelli della Casa di Kyōko, sono molto sfalsate nello spazio, nel tempo e nel contesto, dando così allo scrittore possibilità rappresentative ancor più ampie. 35 Opera attribuita alla figlia di Sugawara no Takasue e composta da sei volumi. Il primo di questi è andato perduto, ma è possibile leggerne il riassunto in un compendio all’opera contenuto nella raccolta di letteratura giapponese classica Nihon koten bungaku taikei, edita dalla Iwanami shoten.

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reincarnazione, e anche quest’ultima con connotazioni e peso molto diversi. Altri, invece, vi trovano punti di contatto molto forti, specialmente tra il primo volume della tetralogia e il primo volume andato perduto36, dove i protagonisti dell’antico racconto – il Consigliere di Mezzo, la bella Ōhime e altri personaggi centrali – sembrano essere il modello perfetto di Kiyoaki, Satoko, il principe Tōin, la governante Tadeshina ecc...37. Ad ogni modo, al di là delle considerazioni sull’effettiva influenza esercitata dalla Storia del Consigliere di Mezzo di Hamamatsu, bisogna dire che l’aspetto favolistico dell’opera classica viene trasceso in direzione di un aspetto ontologico ed escatologico che viaggia di pari passo con una narrazione dalla forte carica propulsiva, trasformandosi, come Mishima stesso ha detto, “in un proiettile caricato nel primo volume che esplode in tutti i volumi successivi”38. Ad affiancarsi alla reincarnazione vi è un altro importante elemento costruttivo: il sogno. Al di là della bellezza surrealistica con cui arricchisce la narrazione, il sogno rappresenta un essenziale fattore di collegamento tra le reincarnazioni. In particolare i sogni di Kiyoaki, la prima reincarnazione, anticipano i luoghi e le vite delle reincarnazioni successive. Ora, anche se le reincarnazioni nello stato di veglia non hanno coscienza del loro essere reincarnati – se non attraverso vaghe percezioni o, come nel caso della terza reincarnazione la principessina Ying Chang, solo in tenerissima età –, lo scrittore attraverso il sogno riesce a liberare i protagonisti dalla coscienza di essere un’esistenza unica e individuale, e a trasportarli in “esistenze” diverse. Così, metempsicosi e sogni sono strettamente legati, non solo perché questi ultimi ci forniscono notizie e anticipazioni sulle successive reincarnazioni, ma perché rappresentano essi stessi, non dissimili da brevi variazioni tematiche intessute nella melodia principale, una sorta di microreincarnazioni intessute nella vita del protagonista. Il sogno è il mezzo che permette a Mishima di mettere in comunicazione il mondo reale con il mondo irreale, e di fonderli in un unico impalpabile universo dove “il muro dell’esistenza individuale si frantuma, e l’individuo si fonde con l’infinito e con i morti, comunicando con loro”39. Ma nonostante il monumentale impegno di un’opera che, quasi come egli aveva previsto, risultò di ben 2800 pagine, Mishima in questo periodo non smise minimamente di dedicarsi a tutte le altre attività collaterali che 36

Vedi nota 35. Per una trattazione dettagliata dell’argomento e una ricostruzione della trama del primo volume dello Hamamatsu Chūnagon monogatari, si veda: Mitsuhana Takao, “Hōjō no umi ron”, in Mishima Yukio ron, Tōkyō, Satsuki shobō, 1975, pp. 167-212. 38 Mishima Yukio, Hōjō no umi ni tsuite..., in MYZ, vol. 34, p. 51. 39 Watanabe Hiroshi, Hōjō no umi ron, Tōkyō, Shinbisha, 1971, p. 93. 37

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costellavano la sua policroma esistenza. Anzi, come vedremo, molto di esse furono addirittura intensificate. Nel settembre del 1965 iniziò il secondo giro intorno al mondo insieme alla moglie (il suo terzo in assoluto); un viaggio che aveva in parte a che fare con Il mare della fertilità, in particolare con il terzo volume parzialmente ambientato in Thailandia. Come abbiamo già detto, era riuscito a ottenere una presentazione dall’ambasciata americana per la corte thailandese, e la destinazione finale di quel viaggio era Bangkok. Ma prima fu a New York per promuovere la traduzione del Sapore della gloria, poi a Parigi, dove assistette alla prima del film Patriottismo. Non fu, quest’ultima, l’unica soddisfazione che gli regalò Parigi, infatti l’editore Gallimard, che stava preparando la pubblicazione della traduzione francese di Dopo il banchetto, accolse lui e sua moglie con grande calore e generosità; una calorosa accoglienza che, d’altronde, gli riservarono anche i Rothschilds. La gioia di Mishima traspare da questa lettera ai suoi genitori: Sono contento di sapere che state entrambi bene. A dispetto di tutte le mie preoccupazioni, Parigi si è rivelato un grande successo. La notte in cui siamo arrivati, i Rothschilds ci hanno portato a cena al Tour d’Argent; il giorno seguente sono stato ospite d’onore a pranzo con i critici; il giorno seguente a cena con molti altri critici, e questa volta c’era anche Madame Malraux. Sono stato anche invitato dallo stesso Gallimard, e poi avrei un’infinità di interviste di cui parlarvi; sabato andrò alla villa di campagna dei Rothschild. La loro casa di Parigi è come una reggia – sono entrato in quel mondo dell’alta società di Parigi che fino ad ora avevo solo conosciuto attraverso i film e i romanzi. E non come un semplice turista, ma come personaggio principale40.

Da Parigi i Mishima si recarono a Stoccolma. Mishima qui non aveva particolari impegni, ma probabilmente voleva visitare il posto dove veniva conferito l’ambito premio Nobel. Prima di partire per il suo viaggio, gli erano arrivate voci della sua presenza fra i “candidati” al premio. Il 25 settembre il quotidiano Asahi shinbun riportava la notizia che una fonte affidabile a Stoccolma aveva indicato Mishima, insieme ad altri novanta scrittori, come uno dei concorrenti più forti. Il 15 ottobre, mentre Mishima si trovava a Bangkok, i giornali pubblicarono un dispaccio da Stoccolma che dichiarava che Mishima Yukio e Tanizaki Jun’ichirō erano tra i candidati finali. Il giorno seguente l’accademia annunciò, con grandissima delusione di Mishima, che il premio era stato assegnato al sessantenne romanziere russo Mikhail Sholokhov. 40

Cit. in John Nathan, Op. cit., pp. 202-203.

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Nel giugno del 1966, mentre era già impegnato nella stesura del primo volume della tetralogia, scrisse contemporaneamente una storia animata da grande lirismo, intitolata La voce degli spiriti eroici (Eirei no koe). La storia chiama in causa ancora gli ufficiali della “rivolta del 26 febbraio”, infatti venne poi inserita in una trilogia che comprendeva Patriottismo e la pièce teatrale I crisantemi del decimo giorno, nota come “Trilogia del 26 febbraio”. Il racconto di un’ottantina di pagine – gettate giù in soli tre giorni chiuso in una camera d’albergo di Tōkyō – è architettato come un’inquietante seduta spiritica in cui gli spiriti degli ufficiali morti nell’incidente del 26 febbraio 1936 e gli spiriti dei piloti kamikaze della seconda guerra mondiale rimproverano con profonda amarezza l’operato dell’imperatore, il suo tradimento nell’aver rinunciato, con “La dichiarazione di umanità” del 1946, al suo stato divino. Tutta la decadenza spirituale del dopoguerra, secondo gli spiriti eroici, era derivata da quel tradimento. La frase che si ripete costantemente come un basso continuo è: Perché mai un Divino Imperatore ha voluto farsi uomo? Con il rifiuto di sanzionare la rivolta dei giovani ufficiali nel 1936 e con la dichiarazione di umanità del 1946, l’imperatore non solo aveva due volte rinunciato alla sua identità, ma aveva trascinato nella delusione tutti coloro che si erano battuti per lui fino a donargli la propria esistenza. Lamentano gli spiriti eroici: Diventare kamikaze significava divenire noi stessi una divinità. Pur essendo uomini pregavamo noi stessi, e in noi stessi riponevamo la nostra fede. Questa realizzazione era la nostra morte. Ma affinché anche noi potessimo essere mistici, e l’incarnazione del Dio, era necessario che l’Imperatore rifulgesse sul gradino più alto della divinità. Era quella la sorgente della nostra immortalità, la fonte che avrebbe reso gloriosa la nostra morte, l’unico filo che ci legava al mondo (...) Valorosi ufficiali e soldati erano morti in ossequio al proclama dell’Imperatore Divino che aveva dato inizio alla guerra, e un così terribile conflitto si era placato in un istante a causa di un altro divino proclama, e trascorsi soli sei mesi Sua Maestà dichiarava: “In realtà sono un essere umano”. Soltanto un anno dopo che noi eravamo esplosi come proiettili sulle navi nemiche per un Imperatore Divino (...) Perché mai un Divino Imperatore ha voluto farsi uomo?41.

La voce degli spiriti eroici non lasciò dubbi sulla sua forte connotazione politica, e le critiche piovvero da ogni direzione. L’organo del Partito comunista, Bandiera rossa (Aka hata), condannò aspramente la sua retorica di 41

Mishima Yukio, La voce degli spiriti eroici, Milano, Se, 1998, pp. 60-77.

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destra; ma, ironia della sorte, Mishima si trovò contro, come già era accaduto, anche l’estrema destra, che lo condannava per le sue aperte critiche all’imperatore. Pochi lessero nell’opera l’ennesimo bisogno individuale di Mishima di confermare una sua sempre più netta visione estetica di purezza, morte e martirio che si mescolava a quella politica. L’evocazione dei giovani ufficiali della “rivolta del 26 febbraio” raccolti su una collina, con sua Maestà l’imperatore che, invece di tradirli e farli arrestare, li raggiunge in sella a un bianco destriero e ordina a tutti di uccidersi in suo nome ne è la chiara testimonianza: Il bianco destriero erge la testa e nitrisce, il fiato delle sue narici si trasforma in candido ghiaccio. Sale lungo il pendio scalciando la neve e si ferma scalpitando di fronte a noi. Lo accogliamo presentando le armi. Solleviamo lo sguardo verso il Volto di Drago e vedendolo traboccare di una straordinaria fierezza intuiamo che il fuoco divampante in noi ha suscitato un’ardente fiamma nel cuore di Sua Maestà. “Abbiamo compreso le ragioni del vostro gesto. Vi siamo grati per la vostra lealtà. Da oggi ci assumeremo personalmente la guida del governo, assicureremo serenità al popolo. Morite dunque sereni. Perché dovete darvi la morte, immediatamente”. Senza esitare ci apriamo la divisa denudandoci il ventre e con urla che lacerano il cielo gridiamo all’unisono: “Lunga vita a Sua Maestà l’Imperatore!”, affondandoci nel ventre le spade venate del sangue dei malvagi ministri uccisi. Così al loro si mescolerà il nostro sangue immacolato, che lo purificherà al cospetto del destriero di Sua Maestà Imperiale42.

Sotto la visione “politica”, che condannava il vuoto spirituale generato dalla democrazia del dopoguerra – un vuoto colmabile solo con la restaurazione del potere imperiale o con la protesta del seppuku –, si agitavano sempre le adolescenziali fantasie di morte e martirio. Esse non l’avevano mai abbandonato, avevano atteso vivissime nell’ombra della sua coscienza, e ora trovavano nell’ideologia nazionalista un ottimo humus per proliferare.

42

Ivi, p. 41.

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Neve di primavera Nell’autunno del 1966 Mishima completava il primo volume della tetralogia. Neve di primavera è una commovente storia d’amore tra il giovane Matsugae Kiyoaki e l’affascinante Ayakura Satoko, incarnazione della bellezza tradizionale giapponese. Entrambi appartengono all’aristocrazia di Tōkyō, con la differenza che la famiglia di Kiyoaki discende da un ramo dell’aristocrazia samuraica (buke), mentre quella di Satoko da quello più raffinato dell’aristocrazia non militare (kuge), più vicina alla Corte imperiale. Kiyoaki da piccolo viene affidato dal padre agli Ayakura, la famiglia di Satoko, affinché acquisisca quel senso della tradizione e della raffinatezza classica (miyabi) tipica delle famiglie aristocratiche di grande nome. Kiyoaki cresce così immerso nello studio di quella particolare eleganza (yūga) tramandata dalle epoche classiche, e si considera come “una piccola spina velenosa conficcata nelle dita gagliarde della sua famiglia”1. A poco a poco la sua natura andrà sempre più nella direzione di una vita fatta di sensazioni ed emozioni, una vita in cui il giovane si sente una bandiera che vive solo per il vento. Nessuna specifica direzione o progetto, ma solo fluttuanti sensazioni. Nondimeno, il suo fluttuare, ben lungi dall’essere un passivo abbandonarsi alla sua agiata esistenza, dà vita a intime riflessioni sulla vacuità del mondo. Le sue riflessioni, nate da uno stato di apparente apatia e disinteresse per qualunque progetto esistenziale, lo portano invece a provare una forte ansia nei confronti dell’esistenza e a ricercare un senso da dare alla sua vita. E questo senso non può nascere che da qualche cosa di “fatale”, di “inevitabile”, che come una tempesta spazzi via il languido senso di incertezza che avvolge la sua anima. Anche se non ha la minima idea di cosa possa essere. Altro personaggio centrale è Honda Shigekuni, compagno di liceo della Scuola dei Pari e caro amico di Kiyoaki. Honda è un personaggio molto importante, per due motivi: il primo è che egli sarà in sostanza il vero protagonista di tutta la tetralogia, perché sarà presente in tutti e quattro i volumi 1

Mishima Yukio, Neve di primavera, in Mishima – Romanzi e racconti, vol. II, cit., p. 224.

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come testimone delle reincarnazioni; il secondo è che egli si presenta con una natura del tutto antitetica a quella di Kiyoaki – se Kiyoaki rappresenta l’istinto e le emozioni, Honda rappresenta l’intelletto e la ragione. Figlio di un magistrato della Corte suprema di Tōkyō, è un diligente studente che seguirà le orme del padre, studiando giurisprudenza e diventando egli stesso un magistrato. Il carattere antagonistico-complementare di questi due personaggi è fondamentale per la struttura dell’opera, perché attraverso di essi Mishima riesce a dare un’interpretazione dualistica della realtà; interpretazione strettamente legata alla natura dicotomica dello scrittore stesso. Non è quindi difficile individuare questi due personaggi, cosi antitetici, entrambi come alter ego di Mishima, l’uno interprete delle sue emozioni, l’altro della sua autocoscienza. È lo stesso narratore a dirci all’inizio dell’opera: Kiyoaki e Honda erano diversi l’uno dall’altro come lo sono i fiori e le foglie di una stessa pianta. Kiyoaki esibiva senza difese la propria natura; era nudo, vulnerabile, con gli occhi e il naso gocciolanti come un cagnolino sorpreso dalla pioggia all’inizio della primavera, e possedeva una sensualità non ancora responsabile delle proprie azioni. Al contrario, Honda, avendo anzitempo intuito i pericoli della vita, preferiva accovacciarsi sotto una gronda ed evitare quella pioggia troppo luminosa2.

Durante la frequentazione della famiglia Ayakura, Kiyoaki ha diviso molto del suo tempo con Satoko, l’affascinante figlia degli aristocratici che lo hanno temporaneamente adottato. Fra i due giovani nasce presto l’amore, anche se Satoko, anagraficamente più grande di Kiyoaki e comunque psicologicamente più matura, è quella più certa dei suoi sentimenti. Kiyoaki, ancora acerbo, con un fisico che sta per sbocciare alla virilità e il suo carattere indeciso instabile e sognatore, prova per la ragazza un sentimento indefinito. Poi, una mattina di neve, i due si scambiano un bacio in un risciò, e Kiyoaki avverte per la prima volta che la sua ansia è stata spazzata via di colpo. Forse sta comparendo all’orizzonte quel qualcosa di “fatale” che dia un senso alla sua esistenza. Ma a incrinare la situazione (o meglio nella logica mishimiana a dargli il giusto verso) è una lettera di Satoko successiva al loro incontro in quel giorno di neve. Nella sua lettera Satoko manifesta apertamente i suoi sentimenti d’amore, con frasi avvolte tanto dalla raffinatezza quanto da una dirompente passionalità. Il giovane è felice per quell’amore così gioiosamente manifestato, ma si sente nel contempo offeso. È come se la ragazza, più grande di lui (di ben due anni!), lo stesse 2

Ivi, p. 222.

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trattando come un bambino, volesse insegnargli che “la vera eleganza non teme nulla, neppure la sensualità”3. Altro episodio importante riguardo al delicato equilibrio del loro rapporto vede Kiyoaki irritato per aver intuito che la ragazza ha scoperto una sua bugia, ma fa finta di crederci: la bugia è averle dato a intendere che già ha avuto esperienze sessuali. L’atteggiamento discreto e riservato di lei viene interpretato dal ragazzo come presunzione e senso di superiorità. Il suo orgoglio è così offeso che decide di non vederla per un po’ di tempo, ostinandosi caparbiamente a non rispondere agli appelli della ragazza e a stracciare le sue lettere senza neanche averle lette. Durante questo silenzio, Satoko non riesce a metterlo al corrente del fidanzamento, combinato dalla famiglia di lei, con il principe Tōin no Miya Harunori, un giovane cugino dell’imperatore. La notizia, appresa per caso dal padre, lo coglie completamente impreparato e si abbatte come una tempesta di vento a ravvivare la sopita fiamma della sua passione. Ma questo non era proprio quello che Kiyoaki stava disperatamente cercando? È proprio dietro l’impossibilità di incontrare Satoko che egli intravede quella “fatalità”, quell’“inevitabilità” che tanto aspettava. Il giorno in cui viene confermato il fidanzamento ed emessa la sanzione imperiale, nel cuore di Kiyoaki c’è un’eruzione di gioia e di dolore. Era stata l’idea di impossibilità, di assoluta impossibilità a provocare quella gioia. Il filo che lo univa a Satoko era stato reciso dalla lama scintillante dell’ “approvazione imperiale” con lo stesso stridore con cui una corda di koto si spezza sotto la pressione di un utensile affilato. Era questo il momento che, nel flusso ininterrotto della propria indecisione, aveva segretamente agognato fin dall’adolescenza, quello che aveva in segreto atteso di più4.

Da quel momento in poi l’unica sua ragione di vita diventa la sfida all’“impossibilità assoluta” del suo amore; una sfida grande, perché non si tratta di combattere semplicemente contro un’avversione familiare, un rivale, una differenza sociale o una grave malattia, come poteva essere contemplato in qualsiasi altro comune romanzo dalla natura tragico-romantica. La sfida qui è verso l’imperatore stesso, e se per Mishima l’imperatore era l’emblema escatologico dell’“assoluto”, allora, per estensione, questa diventa una sfida al significato stesso dell’esistenza. Qui possiamo individuare la natura “triangolare” dell’amore tragico-romantico di Neve di primavera, e della concezione mishimiana stessa dell’amore tragico-romantico. Un triangolo che vede agli angoli della base i due amanti, 3 4

Ivi, p. 325. Ivi, pp. 390-391.

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che trovano ragione di esistere e di celebrare la loro tragedia solo in funzione della verità più alta e assoluta dell’angolo del vertice superiore, rappresentata dall’imperatore, ovvero dall’“assoluto”. Così, nonostante la veste apparente di racconto romantico sentimentale, la figura dell’imperatore aleggia sulla vicenda, con tutte le sue implicazioni spirituali e ideologiche, più di quanto a prima vista si possa sospettare. “La causa prima del racconto”, dice Miyoshi Masao, “è da ricercare nella persona dell’imperatore ex cathedra, la cui rinuncia allo stato di divinità dopo la sconfitta ha trasformato il Giappone in un deserto culturale e spirituale, il desertico Mare foecunditatis della luna. Sebbene nessun imperatore faccia una personale apparizione in nessuno dei quattro volumi, la tetralogia è congegnata per essere piena di divinità imperiale, sia come presenza che come assenza”5. Kiyoaki, attanagliato da quella passione improvvisamente esplosa, impegna tutte le sue forze per rivedere la ragazza. Nonostante la sanzione imperiale che grava sulle spalle di lei, i due riescono a incontrarsi grazie all’aiuto di Tadeshina, la vecchia governante di Satoko. Un incontro organizzato, in gran segreto, in una vecchia baracca di due piani nei pressi di una caserma, una sorta di pensioncina usata dai militari un po’come alloggio, un po’ come bordello. Quel primo convegno clandestino suggella l’inizio della loro segretissima relazione con la loro prima unione carnale. Il goffo imbarazzo di Kiyoaki e la delicata intraprendenza di Satoko sono descritti con una carica erotica soffusa di deliziosa ironia: Kiyoaki non sapeva come sciogliere un obi femminile. Il grande e solido nodo si opponeva alle sue dita. Mentre cercava disperatamente di scioglierlo, Satoko portò le mani sulla schiena, aiutandolo con delicatezza senza però smettere di respingere con decisione i concitati movimenti delle sue mani. Le dita dei due ragazzi si intrecciarono in maniera indissolubile e, poco dopo, l’obidome si sciolse. L’obi si aprì allora di colpo in avanti, sollevando un fruscio appena percettibile e iniziando a muoversi come se fosse dotato di una propria forza. Fu l’inizio di un tumulto complesso e incontrollabile. Sembrava che l’intero kimono insorgesse mentre Kiyoaki si affrettava a liberare il petto di Satoko, e se da una parte molti lacci si scioglievano, da un’altra se ne stringevano altrettanti. Fu allora che Kiyoaki vide schiudersi un tutto il suo candore profumato la piccola porzione di pelle bianca protetta dal collo della veste6.

Nonostante i preparativi per le nozze con il nipote dell’imperatore, gli incontri segreti di Kiyoaki e Satoko continuano. Una notte fanno l’amore 5

Miyoshi Masao, “Stepping beyond History: Mishima Yukio”, in Off Center, Cambridge, Harvard University Press, 1991, p. 159. 6 Mishima Yukio, Neve di primavera, cit., pp. 403-404.

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su una spiaggia di Kamakura nei pressi della villa dei genitori di Kiyoaki. I loro giovani corpi si uniscono all’ombra di un peschereccio al riparo dei raggi della luna; Satoko raggiunge “una gioia profonda come il mare”, diventa “lei stessa parte del mare”. Ecco di nuovo comparire il mare, messaggero di Dioniso, latore di gioia suprema, di liberazione, ma al tempo stesso di funesti presagi di distruzione. Tutto quello che li circondava – il cielo con la luna, i riflessi del mare, il vento che soffiava sulla sabbia, il lontano brusio dei pini – prometteva estinzione. Oltre il sottile strato del tempo incalzava una gigantesca “negazione”7.

La tragressione di un tabù non può non pagare il suo scotto, e quando, dopo aver fatto l’amore sulla spiaggia, Satoko alza lo sguardo verso la rotonda luna calante, ha la sensazione che essa sia “la medaglia della loro colpa”. L’erotismo e la passione sono spinti all’estremo limite e ci avviciniamo sempre più verso il territorio della distruzione. Poco prima della data delle nozze, Satoko si accorge di essere incinta di Kiyoaki; la famiglia della ragazza è sconvolta, teme soprattutto lo scandalo e progetta mille sistemi per tener nascosta la gravidanza. Alla fine si decide di condurre Satoko a Ōsaka per farla abortire in un posto lontano da Tōkyō. Dopo l’aborto, sulla via del ritorno, Satoko si ferma al monastero di Gesshū nei pressi di Nara, e durante la notte maturerà la fatidica decisione di prendere i voti. Così quell’“impossibilità assoluta”, stabilita dalla sanzione imperiale, ora viene rafforzata e ulteriormente “assolutizzata” dalla seconda proibizione sacrale di un tempio buddhista. La sfida all’ “assoluto” si avvicina sempre più al confine che separa la vita dalla morte, e la struttura narrativa converge sempre più verso la canonica catastrofe mishimiana. Kiyoaki quando viene a sapere la notizia è fuori di sé. Il giovane diventa sempre più pallido e debole perdendo interesse in qualsiasi cosa; e a nulla servono i tentativi di distrarlo. Il padre fa attaccare un grande planisfero sulla parete della sala da biliardo, convinto di stimolare la sua curiosità e risollevare il suo animo, ma: Quei mari piatti e freddi riportarono in vita soltanto il mare di quella notte d’estate di Kamakura, un mare il cui frastuono lo aveva turbato, un mare simile a un gigantesco animale caldo e nero che gridava, in cui scorreva il sangue e in cui batteva un cuore8.

7 8

Ivi, pp. 456-457. Ivi, p. 570.

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La famiglia Matsugae è così preoccupata per lo stato psicofisico del figlio che lo fa sorvegliare ventiquattr’ore su ventiquattro dal loro maggiordomo. Ma un giorno Kiyoaki elude la sorveglianza, supera la rete metallica del filo spinato ai margini del bosco della scuola e si mette in viaggio verso il tempio di Gesshū a Nara, dove spera di rivedere Satoko. Si ferma in una pensione e di lì ogni giorno si reca in visita al tempio, senza però mai riuscire a rivedere la sua amata. Durante l’ultima visita, Kiyoaki, ormai stremato dalla fatica e dalla febbre, si incammina per la salita coperta di neve che porta al tempio, pensando che se non rischia la sua stessa esistenza non gli sarà concesso di rivedere Satoko; ma anche questo tentativo si rivela vano, la badessa del tempio non concede l’incontro. Alla fine, avvilito e ammalato, resta confinato nella cameretta della pensione. Honda, che è stato sempre suo complice durante i furtivi incontri del suo amore clandestino, lo raggiunge e si reca personalmente al tempio a inoltrare alla badessa la supplica del febbricitante amico di rivedere almeno un’ultima volta Satoko. Si sarebbe commossa anche lei se avesse visto con quanta disperazione i suoi occhi mi imploravano di fare in modo che potesse incontrare Satoko! A mio avviso in questo momento è più importante esaudire questo desiderio che guarirlo dalla malattia. Non dovrei dire una cosa tanto di cattivo auspicio, ma ho la sensazione che non guarirà più. Sono venuto a esprimerle il suo ultimo desiderio. La prego di essere misericordiosa e di concedergli un brevissimo incontro con Satoko9.

Proprio mentre sta inoltrando la sua accorata supplica, Honda ha la sensazione di udire come un gemito lontano: ...un debole rumore, simile a quello prodotto dal bocciolo di un fiore di susino nel momento in cui si schiude. Lo interpretò come un riso soffocato. Non era così vicino, ma neanche troppo lontano; forse proveniva da un angolo del corridoio o dalla stanza attigua. Non poteva essere. Se le orecchie non lo avevano ingannato, quello che aveva scambiato per un riso soffocato doveva invece essere il pianto sommesso di una donna che l’aria gelida della primavera aveva condotto fino a lui10.

Ma la badessa è irremovibile, dopo avergli tenuto una sorta di sermone buddhista sul significato dell’esistenza, giunge alla conclusione che i due giovani non possono incontrarsi. Honda ritorna alla locanda dove l’amico 9 10

Ivi, p. 590. Ibid.

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è ormai in fin di vita e lo riporta a Tōkyō. Durante il viaggio, Kiyoaki nel suo sofferente delirio parla a Honda di un sogno: “Ho appena fatto un sogno. Ci rivedremo. Ci rivedremo di certo. Sotto la cascata!”, disse, stringendo con forza la mano dell’amico. Honda pensò che nel sogno Kiyoaki avesse vagato nel giardino della sua casa, rivedendo in un angolo dell’immenso parco della residenza del padre la cascata a nove gradoni. Due giorni dopo essere rientrato a Tōkyō, Matsugae Kiyoaki moriva. Aveva vent’anni11.

Così si conclude il primo volume della tetralogia.

Bunburyōdō: la via della penna e della spada Nel dicembre 1966 lo scrittore Hayashi Fusao presentò a Mishima due giovani “neonazionalisti”, Bandai e Nakatsuji. I due ragazzi, ferventi credenti nella “razza” giapponese e nell’imperatore, avevano fondato con grandi sforzi una rivista di taglio ideologico chiamata Ronsō journal (Il giornale delle controversie). Fu proprio la rivista il motivo fondamentale del loro incontro con Mishima, infatti, in quest’occasione chiesero allo scrittore se avesse intenzione di aiutarli, anche economicamente, viste le loro precarie condizioni finanziarie. Mishima rimase positivamente colpito dai due giovani e dalla rivista; disse che avrebbe contribuito attivamente con articoli suoi e di altre persone, e che avrebbe offerto loro un buon pasto ogni volta che avessero voluto. Nel capodanno del 1967 Mishima pubblicò due brevi articoli. Il primo, Fede nel Giappone (Nihon he no shinjō) era una difesa dalle accuse di incoerenza che la gente gli muoveva: mostrarsi un così acceso difensore degli antichi valori del Giappone, quando poi la sua vita quotidiana era improntata allo stile di vita occidentale. Nel secondo, Un dilemma del nuovo anno (Nentō no mayoi), più interessante ai fini della comprensione della trasformazione definitiva che era in atto in lui, leggiamo: Ci vorranno come minimo cinque anni perché io completi questo grosso lavoro (Il mare della fertilità), e allora avrò quarantasette anni. In altre parole, quando questo lavoro sarà completato dovrò rassegnarmi per sempre all’impossibilità di una splendida morte eroica. Rinunciare a diventare un eroe o abbandonare il mio capolavoro – questa decisione si sta avvicinando e la prospettiva mi riempie di ansia. 11

Ivi, p. 596.

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Mi è difficile confessare tutto ciò perché sono sicuro che la gente non mi capirà. Già mi sembra di sentire: “Ma tu sei uno scrittore, e per uno scrittore la cosa più importante è la realizzazione di un buon lavoro. Tu parli di diventare un ‘eroe’ – se riuscirai a portare a termine con successo il tuo lavoro potrai diventare un eroe letterario”. Ma, a mio avviso, è un abuso linguistico parlare di eroe letterario. L’eroe è un concetto che si può trovare solo al polo opposto della letteratura. (...) Come sempre, la gloria che mi attira è quella dell’eroe, non quella dello scrittore (...). “Ma tu vivi ancora nel passato”, replicherà la gente. “Tentativi per diventare l’eroe d’azione di cui parli si possono fare, al più tardi, fino a trent’anni, ma tu ne hai quarantadue, sei in ritardo di ben dodici anni. Perché non smetti di fare la vecchia damigella che si nasconde dietro il pesante trucco, lasci perdere la vita e l’azione e ti concentri sulla letteratura?” Eppure io sono ancora forte e carico di energie come un giovane, (...) a quarantadue anni mi sento ancora abbastanza giovane per diventare un eroe. Saigō Takamori12 morì una morte da eroe a cinquant’anni. (...) Se agissi subito, sarei ancora in tempo... ma d’altra parte c’è questo lavoro importante...13

Questa era stata finora la sua affermazione più esplicita sul desiderio di morire da eroe. L’affermazione netta della contrapposizione di due elementi fondamentali della sua esistenza: la penna e la spada. Più tardi egli definirà tale stile di vita come bunburyōdō (La via della penna e della spada) e cercherà instancabilmente di amalgamare i due mondi così distanti. Il bunburyōdō rappresentava il più alto principio etico dei samurai tra il diciassettesimo e diciottesimo secolo; secondo questa filosofia il samurai doveva temprare se stesso sia attraverso l’arte militare che quella letteraria. Doveva essere al tempo stesso abile spadaccino ed elegante poeta. Ma in definitiva le due strade portavano verso lo stesso reame della morte. Mishima studiò le origini di questa idea (il bunburyōdō) e scoprì la morte alle radici di entrambe le arti. Un guerriero ideale allenava il suo corpo, costruiva i suoi muscoli e affinava la tecnica della spada, tutto in previsione del suo ultimo combattimento, dove stava ad attenderlo la morte. Un perfetto soldato era un uomo perfettamete preparato alla morte. Allo stesso modo un poeta allenava la sua capacità immaginativa, costruiva un universo intellettuale e affinava la sua tecnica espressiva, sempre come preparazione per la morte. Il poeta cercava di sconfiggere la morte credendo nell’immortalità dello 12

Uomo politico e comandante militare che nel 1877 guidò la rivolta di Satsuma per opporsi alla decisione governativa di vietare l’uso delle spade ai samurai. Sconfitto, si tolse la vita con il seppuku. 13 Mishima Yukio, Nentō no mayoi, in MYZ, vol. 32, pp. 488-491.

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spirito, che sarebbe sopravvissuto nella poesia dopo la propria distruzione fisica. Anche un perfetto poeta era un uomo perfettamente preparato alla morte14.

È chiaro quindi che per lui la via della penna era altrettanto importante, non avrebbe continuato a scrivere altrimenti fino a poco prima della sua morte. Ma il motivo per cui dall’articolo Un dilemma del nuovo anno traspaia una maggiore inclinazione verso la spada – e soprattutto un forte bisogno di convincere gli altri del suo sincero bisogno dell’azione – è dovuto al fatto che mentre nella prima via egli aveva ormai raggiunto la saldezza interiore di un maestro e il totale riconoscimento sociale, nella seconda via, che aveva appena intrapreso, si sentiva come un bambino che muove i primi passi mentre tutti lo guardano con il sorriso sulle labbra. Il 9 aprile 1967 Mishima si arruolò in gran segreto nelle Forze di autodifesa del Giappone e si sottopose a quarantasette giorni di addestramento base. Avrebbe voluto prolungare il suo training per un anno, ma le Forze di autodifesa rifiutarono la sua richiesta. L’anno successivo tornò di nuovo all’attacco e questa volta la richiesta fu accettata. Probabilmente furono vari personaggi influenti del mondo politico a intercedere per lui; ad esempio Tanaka Seigen, lobbista legato agli ambienti di estrema destra che, caso non unico di incoerente e opportunistica conversione della storia politica giapponese, prima della guerra era stato segretario generale del Partito comunista. Molti amici e conoscenti cercarono di dissuaderlo, un redattore della casa editrice Shinchōsha gli disse che si sarebbe coperto di ridicolo, ma Mishima non gli diede alcun ascolto e ruppe tutti i rapporti con lui. Finalmente Hiraoka Kimitake, quello che un tempo era stato il fragile ragazzo pseudotubercolotico riformato alla visita di leva, ora si presentava come un uomo del tutto trasformato, almeno in apparenza, nella mente e nel corpo. A quarantadue anni si lanciò nell’addestramento con tutte le energie e l’entusiasmo possibili, correndo su e giù per le montagne con la divisione dei ranger, e gettandosi da una torre di lancio con le ventenni reclute paracadutiste. Non che il suo fisico non ne risentisse per nulla, soffriva di crampi allo stomaco e diarrea, ma, ovviamente, si guardò bene dal farlo sapere agli altri. Pare che provasse un intenso piacere nel gettarsi anima e corpo nella fatica dell’addestramento, senza godere del minimo privilegio della sua reputazione di scrittore. “Più tardi avrebbe riferito con gran fierezza di essere stato costretto a fare dieci giri in più di corsa con 14

Ueda Makoto, Op. cit., p. 229

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la pesantissima attrezzatura completa sulle spalle, come punizione per non aver superato l’ispezione a causa di un bottone mal lucidato”15. Il motivo ufficiale del suo arruolamento era legato alla difesa nazionale. Il problema, a suo avviso, più grave risiedeva nell’articolo 9 della Costituzione del dopoguerra, secondo il quale il popolo giapponese doveva rinunciare per sempre alla guerra, come diritto sovrano della nazione, e ad avere Forze di terra, mare e cielo, o qualunque altro potenziale bellico. Questo significava che le Forze di autodifesa in cui si era arruolato, create con l’ “Atto di autodifesa del 1954”, non sarebbero mai potute evolversi in un esercito effettivo. Secondo Mishima, la Costituzione andava rivista per permettere alle Forze di autodifesa di assumere l’identità di esercito nazionale, restituendo così al Giappone la dignità di una nazione indipendente e non umilmente gregaria degli Stati Uniti. Le Forze di autodifesa erano, a suo avviso, una delle più evidenti ipocrisie della società del dopoguerra: un “esercito” impegnato a difendere una costituzione che proibiva la sua esistenza. Ma oltre all’aspetto ideologico e patriottico, la scelta di arruolarsi era di certo legata anche a quella sua esigenza di eroismo della spada di cui aveva parlato nell’articolo di Capodanno. Questa preparazione militare era una vera e propria preparazione alla morte. Egli era convinto, come avrebbe più tardi scritto nel saggio Introduzione a “Nascosto tra le foglie” (Hagakure nyūmon)16, che la professione del samurai riguardasse esclusivamente la morte. Per quanto pacifica fosse l’era in cui viveva, la morte era la base di tutte le azioni di un samurai; e nel momento in cui la temeva o la evitava non si poteva più considerare un vero combattente. Sempre sulla scia di questo suo estenuante tentativo di unificazione di penna e spada, un giorno d’inverno del 1967 Mishima volò a quarantatremila piedi di altezza con un caccia F-104. Le sue speculazioni erano giunte alla conclusione che se avesse perseguito la morte sia come soldato che come letterato, sarebbe stato in grado di scorgere il punto di contatto tra il corpo e la mente. L’esperienza viene riportata in Sole e acciaio, il famoso saggio autochiarificatore scritto a pochi mesi dalla morte. Il suo desiderio era quello di esplorare, concretamente, il territorio della morte che si estendeva nell’universo senza ossigeno al di là della sfera terrestre. Per compiere questa azione bisognava essere sia un “intellettuale”, cioè un uomo capace di gestire il complesso sistema di guida di un caccia, che un “soldato” provvisto di doti fisiche atte ad affrontare le altitudini estreme. Dopo un estenuante 15

John Nathan, Op. cit., p. 222. Nascosto tra le foglie (Hagakure) è un famoso trattato dei samurai del XVII secolo di Yamamoto Jōchō. 16

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training, Mishima riesce nel suo intento. E nell’ultima fase del volo, in un momento di totale abbandono estatico, egli scorge un gigantesco serpente bianco che avvolge il globo “divorando la propria coda”. Lì nelle altezze senza ossigeno del cielo, circondato dalla morte, egli ha la percezione visiva dell’unione della mente e del corpo. Il mondo interiore e il mondo esteriore si compenetravano a vicenda, sino a diventare totalmente intercambiabili. Il semplice mondo di sole, di nuvole, di mare e di crepuscolo costituiva il panorama maestoso, che mai sino ad allora avevo veduto, del mio mondo interiore. E nello stesso tempo la totalità degli eventi che si verificavano nel mio intimo scioglievano i legami della psiche e del sentimento, divenivano grandi lettere che si disegnavano liberamente. Fu allora che vidi il serpente. La figura di quel serpente per cui l’aggettivo immenso è inadeguato, di quel serpente di nuvole bianche circondanti la terra in cumuli uniti tra loro, che divora la propria coda. (...) Se al mio cervello si presentò l’enorme anello serpentino che unifica le polarità, non era innaturale supporre che esso già esistesse. Il serpente teneva eternamente in bocca la propria coda. Era un anello più grande della morte, era un serpente più denso di aromi della morte di cui avevo vagamente percepito il profumo nella camera pressurizzata17: era proprio il serpente del principio dell’unicità, che ci fissa dall’alto dei cieli splendenti18.

Un’immagine antica questa del serpente, un’immagine che appartiene alla cultura orientale quanto a quella occidentale (forse per questo egli la sceglie come simbolo unificatore degli estremi?), e simbolo ricorrente, con diversi significati e valenze, in molte sue opere. Nell’ottobre del 1967 Mishima comunicò agli studenti del gruppo del Ronsō journal che era arrivato il momento di intraprendere azioni politiche. La sua intenzione era quella di creare un esercito civile, sullo stile degli eserciti territoriali europei, che fungesse da sostegno alle Forze di autodifesa qualora fossero state costrette a combattere contro aggressioni della sinistra. Due volte all’anno le Forze di autodifesa avrebbero dovuto addestrare per circa un mese studenti e lavoratori volontari. Lo scopo era quello di creare un gruppo di persone in grado di guidare una ventina di uomini in caso di emergenza, e che avrebbero fatto periodicamente anche un corso di aggiornamento. L’obbiettivo più immediato quindi era la formazione di venti o trenta studenti che sarebbero diventati il corpo ufficiali. Nel marzo 1968, 17

Si riferisce alla camera pressurizzata dove ha sostenuto la prova di allenamento fisiologico per il volo, e dove viene riprodotta la terribile sensazione di soffocamento dell’alta quota. 18 Mishima Yukio, Sole e acciaio, cit., pp. 89-90.

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durante le vacanze universitarie, Mishima avrebbe guidato il suo primo gruppo per un mese di addestramento al campo militare delle Forze di autodifesa alle pendici del monte Fuji. Il suo esercito sarebbe stato chiamato Guardia nazionale giapponese. Il 26 febbraio 1968 – data emblematica, che ricordava la famosa rivolta degli ufficiali della Guardia imperiale del 1936 –, nella piccola sede nel quartiere di Ginza del Ronsō journal, Mishima firmò con undici studenti un patto di sangue. Tutti eseguirono un taglio sul mignolo e fecero stillare il proprio sangue in un’unica coppa, quindi firmarono intingendo un pennello nel liquido vermiglio; alla fine Mishima propose di bere tutti insieme dalla coppa il sangue che aveva sigillato il loro accordo. Nel patto tutti giuravano di sollevarsi spada in pugno contro qualunque minaccia alla continuità culturale e storica della Patria. Due settimane più tardi Mishima guidò ventitrè studenti per un mese di addestramento al campo delle Forze di autodifesa. Il capitano degli studenti era Mochimaru Hiroshi, un laureando dell’Università di Waseda che per buona parte della sua carriera universitaria era stato un fervente attivista della destra studentesca, militando nella Lega degli studenti giapponesi (Nichigakudō). Era stato anche il redattore generale del Ronsō journal ed era entrato maggiormente nelle simpatie di Mishima perché, a differenza di altri componenti della rivista, come Bandai e Nakatsuji, più interessati all’aspetto intellettuale del gruppo, aveva mostrato subito un grande entusiasmo per le iniziative “militari” del loro leader. Quasi la metà degli studenti di questo primo addestramento erano stati portati da Mochimaru e provenivano dalle file della Lega degli studenti. Le “reclute” di Mishima dormivano e mangiavano con i regolari delle Forze di autodifesa, ma si addestravano separatamente. Ai soldati semplici veniva fatto fare un addestramento in prevalenza fisico, agli ufficiali venivano fornite anche lezioni di tattica. Per le prime due settimane Mishima visse e si addestrò con gli studenti, poi ritornò a casa a scrivere, riunendosi a loro alla fine del mese. L’esperienza si rivelò un successo, anche gli istruttori militari, inizialmente scettici, alla fine del training si congratularono con gli studenti e si commossero sinceramente. Tuttavia Mishima dovette abbandonare l’idea di una grande Guardia Nazionale per motivi essenzialmente finanziari. Lo scrittore, ovviamente, si era attivato per sensibilizzare figure di spicco della Finanza ideologicamente vicine, ma quelli che si erano mostrati interessati avevano fatto capire che avrebbero voluto avere voce in capitolo dal punto di vista organizzativo e, soprattutto, politico. Nondimeno Mishima era rigorosamente deciso a non aver nessun legame di questo tipo, e giunse quindi alla conclusione che, per avere la massima libertà, avrebbe dovuto

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organizzare una forza militare grande solo quanto poteva permettersi di sostenere privatamente; una forza di cento uomini. Alla fine di aprile Mishima e undici dei suoi giovani compagni celebrarono il primo giorno in cui indossavano le eleganti uniformi che lo scrittore aveva ordinato a uno stilista giapponese, ispiratosi all’uniforme di Charles de Gaulle. Nel parco di un tempio di Tōkyō posarono con le nuove divise sotto i ciliegi in piena fioritura, mentre un fotografo della stampa li ritraeva dopo aver giurato di tenere le foto assolutamente segrete. Mishima, con Mochimaru alla sua destra e gli altri raggruppati intorno a loro, appariva pienamente soddisfatto. A luglio lo scrittore ritornò al campo militare del monte Fuji con un secondo gruppo di ventitrè studenti da addestrare. Questa volta restò con loro tutto il mese. Di notte scriveva, e alle sei di ogni mattina iniziava la giornata con alcuni chilometri di corsa insieme alle reclute. Questa volta il periodo di training si rivelò ancor più piacevole; studenti che avevano partecipato all’addestramento precedente, come Mochimaru, erano di nuovo con lui a dargli una mano, e gli ufficiali del campo, avendo capito che Mishima con la sua fama e le sue conoscenze poteva essere prezioso per le pubbliche relazioni, trattarono lui e le sue reclute con ancor maggiore disponibilità.

A briglia sciolta Forse non fu un caso che questo periodo di intensa attività militare coincise con la stesura del secondo volume della tetralogia. A briglia sciolta, infatti, in contrapposizione a Neve di primavera ispirato da una sensibilità “femminile” di tipo cortigiano-aristocratico – quella sensibilità definita dalla critica giapponese come taoyameburi –, è un’opera tutta pervasa dalla sensibilità “mascolina” di tipo samuraico, nota come masuraoburi. Il romanzo è ambientato nei primi anni trenta, vent’anni dopo la morte di Kiyoaki, e il protagonista è Iinuma Isao, un estremista di destra. Il ventenne Isao è figlio di Iinuma Shigeyuki, il vecchio precettore di Kiyoaki, diventato un militante di destra scaltro e opportunista19. Isao è uno studente del Kokugakuin, università di 19

Notare come i personaggi “politici”, nel senso più negativo del termine, vengano presi di mira dallo scrittore, siano essi di destra o di sinistra. Un’ulteriore testimonianza dell’entusiasmo che Mishima nutriva per la trasparenza delle idee e la purezza dell’azione diretta, e del disgusto che invece provava per il sotterfugio e l’opportunismo tipico dei mestieranti della politica. Non a caso, nonostante le sue idee fossero decisamente di destra, le sue simpatie andavano più in direzione dei giovani gruppi dell’estrema sinistra, che in direzione dei partiti della destra governativa.

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Tōkyō dove si sono formati molti nazionalisti, ed è inoltre un abilissimo spadaccino che ha raggiunto il terzo dan di kendō. Siamo quindi di fronte a un personaggio del tutto diverso da Kiyoaki, un giovane virile e muscoloso dalla mentalità schietta e diretta, intelligente e acuto sì, ma poco riflessivo e altrettanto poco sognatore. Honda ha compiuto trentotto anni, nel frattempo è diventato magistrato alla Corte d’appello di Ōsaka e ha sposato Rie, la figlia di un giudice, con la quale conduce una tranquilla e regolare vita matrimoniale. Durante un incontro di kendō, disputato dinanzi al tempio di Ōmiwa a Nara, a cui è stato invitato a presenziare, nota tra i contendenti Isao. Egli non conosce il ragazzo, sa soltanto che è il figlio dell’antico precettore del suo defunto amico, e ne è colpito dall’insolita maestria nel maneggiare la spada di bambù, il giovane infatti vincerà il torneo. Alla fine della manifestazione, Honda, incamminatosi insieme a un sacerdote su una vicina montagna sacra, vede Isao rinfrescarsi sotto lo scroscio di una cascata. Quando il ragazzo solleva le braccia, Honda scorge tre nei ravvicinati sul costato sinistro. Tre nei che erano anche sulla candida pelle del costato di Kiyoaki e che, come abbiamo già detto, rappresentano il simbolo fisico delle successive reincarnazioni. Quella visione immediatamente si lega alle ultime parole di Kiyoaki: “Ti rivedrò. Lo so. Sotto una cascata”. È Isao la reincarnazione di Kiyoaki? – pensa Honda sconcertato e come tramortito da un terribile colpo alla sua inattacabile razionalità. È qui che inizia la sfida di Mishima al razionalismo e al positivismo occidentali, attraverso la lunga ricerca di Honda negli enigmi della trasmigrazione dell’anima. Isao in quel periodo è profondamente immerso nella lettura della Lega del vento divino (Shinpūren shiwa), un libro di Tsunanori Yamao che parla di un avvenimento avvenuto a Kumamoto nel 1877, noto come l’incidente di Shinpūren, appunto l’incidente della Lega del vento divino, che vide entrare una delle ultime volte in azione i samurai in questo tardo periodo della storia giapponese. La trama è pressappoco la seguente. In un giorno d’estate del 1873 quattro samurai abbastanza avanti negli anni, guidati da Otaguro Tomo, gran sacerdote di un tempio shintōista, si radunano a pregare nel villaggio di Shingai, poco distante dal castello di Kumamoto. Essi odiano la cultura occidentale: se devono prendere delle banconote lo fanno solo con le bacchette, se non possono evitare di passare sotto le linee telegrafiche di nuova costruzione, lo fanno coprendosi la testa con ventagli bianchi; il loro motto è sonnō jōi (viva l’imperatore, fuori i barbari occidentali). Terminata la preghiera, viene celebrata la cerimonia divinatoria dell’ukei, tramite la quale i samurai vogliono interrogare le divinità per avere un responso su due possibili azioni progettate. La prima è fare

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una petizione per il ripristino dell’autorità imperiale e poi fare seppuku; la seconda è, qualora non ottenessero ascolto, uccidere i governanti infami che con il loro comportamento infangano il nome di Sua Maestà Imperiale. Ma il responso per entrambe le azioni risulta negativo. Poco dopo esplode una rivolta a Saga e il sacerdote Otaguro, pensando che l’occasione è propizia per l’azione, celebra un secondo ukei, ma il risultato è sempre negativo. L’otto marzo 1877 il governo emette un’ordinanza che vieta ai samurai di portare le spade, e subito dopo con un proclama vieta anche il cingere la fascia intorno al capo che distingueva la loro casta. I congiurati sono sempre più decisi di passare all’azione. Si celebra il terzo ukei e questa volta il responso è affermativo. Viene così organizzato un piano per assassinare alcuni funzionari governativi del distretto di Kumamoto e alcuni ufficiali dell’esercito. Otaguro riunisce gli uomini che parteciperanno all’azione, dividendoli in tre unità di soli trenta uomini che avranno il compito di attaccare il nemico su fronti diversi: le residenze del comandante della caserma di Kumamoto e di alcuni politici, l’artiglieria e la guarnigione di fanteria. Unica preparazione a quest’impossibile e disperata azione è la preghiera. Inutile dire che tra le armi prescelte non ci saranno fucili o pistole, simbolo dell’odiata cultura occidentale che il nemico di sicuro avrebbe usato, ma solo armi tradizionali come spade, lance e petrolio per appiccare il fuoco al campo militare. A mezzanotte del 24 ottobre viene lanciato l’attacco. Il comandante della caserma viene ucciso e gli uomini politici gravemente feriti, ma, sprovvisti di armi da fuoco, alle prime ore dell’alba la maggior parte dei ribelli sono morti, e con loro anche Otaguro. I superstiti, chi in un luogo chi in un altro, si tolgono quasi tutti la vita, o con il seppuku o dandosi fuoco. Isao è affascinato dalla purissima lealtà all’imperatore dei samurai della Lega del vento divino e si sente spinto a emulare la loro azione. Se possiamo dire che il leitmotiv di Neve di primavera era stata l’“eleganza”, quell’eleganza aristocratica, trasgressiva e disobbediente delle convenzioni e delle norme sociali, che ammantava tutte le azioni dei protagonisti del volume, di sicuro il leitmotiv di A briglia sciolta è la “purezza”. Nondimeno entrambe le strade dei due volumi portano nella stessa direzione: la “bellezza”. Una bellezza filtrata attraverso la sottilissima rete del setaccio del sacrificio. La prima attraverso la celebrazione dell’amore tragico-romantico, la seconda attraverso la celebrazione della lealtà verso l’imperatore e le antiche tradizioni del Giappone, per entrambe le quali è necessario il sacrificio della propria vita. È interessante notare che la forma triangolare dell’amore del primo volume si è trasformata, annullando la presenza di uno degli angoli. Il

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rapporto di amore, trasformandosi in rapporto di lealtà, rivolge direttamente la sua attenzione nei confronti dell’”imperatore = divinità = assoluto”, senza l’intermediazione dell’amante. Nondimeno c’è ancora da notare che, nonostante questa metamorfosi, non si è perso il carattere assolutamente astratto e disinteressato dell’azione, che punta inevitabilmente verso il fallimento. Kiyoaki esaurisce tutte le sue energie nel vano tentativo di rivedere l’oggetto della sua passione. Isao porta avanti la sua azione sino alla morte pur sapendo che non otterrà successo. Siamo pienamente d’accordo con Tasaka Kō, quando definisce la “passione amorosa” di Kiyoki “metastorica e nichilistica”20, definizione che non esiteremmo ad attribuire alla “passione lealistica” di Isao. In un incontro con il tenente Hori, ufficiale del reggimento di Azabu nel centro di Tōkyō, Isao manifesta il suo desiderio di agire in nome dell’imperatore e poi di togliersi la vita all’ombra di un pino, su una scogliera al levar del sole, dinanzi al mare scintillante. Il luogo dove Isao incontra il tenente è quella vecchia pensioncina che era stata testimone dell’intenso amore illeggittimo di Kiyoaki e Satoko; un luogo che, nonostane (o forse proprio per) la sua sordidezza, viene scelto da Mishima come posto magico ed epifanico. Un tempo era stato l’altare dove si era consumato il sacro e sacrilego rituale dell’amore tra i due giovani amanti, e ora l’arcana energia di quel tempo si sprigiona ancora, destando nel di solito impassibile e inamovibile Isao un moto di incertezza e di sensualità: nell’entrare nel giardinetto della vecchia baracca Isao si sente quasi venir meno, come se il fulgore della passione lì consumata anni addietro dalla sua precedente reincarnazione, ora, per un attimo, di nuovo esplodesse dentro di lui. Nel secondo incontro con il tenente, in cui è presente anche il principe Tōin, colui che doveva diventare il marito di Satoko, quest’ultimo chiede al giovane cosa farebbe se l’imperatore manifestasse il suo dissenso all’azione; egli risponde che si ucciderebbe comunque. Poi per chiarire il suo concetto di lealtà ricorre a una parabola. “Supponiamo che io prepari delle polpette di riso, con del riso così bollente da ustionarmi le mani, al solo scopo di poterle umilmente offrire su un vassoio a Sua Maestà. Se, a questo punto, l’imperatore non avesse appetito e respingesse bruscamente il vassoio, o addirittura me lo scagliasse contro rimproverandomi per avere osato presentargli un piatto così insipido, avrei il dovere di ritirarmi dalla Sua augusta presenza, con i chicchi di riso ancora incollati al viso, e aprirmi il ventre senza indugi, colmo di gratitudine per Sua Maestà. Ma se invece l’imperatore avesse fame e mostrasse di gradire la mia offerta, anche 20

Tasaka Kō, Op. cit., p. 155.

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in questo caso non potrei fare altro che ritirarmi subito con un inchino e aprirmi il ventre, infinitamente riconoscente verso la Sua persona. Perché? Perché il solo fatto di aver preparato direttamente, con le mie umili mani di suddito, il cibo destinato a Sua Maestà è una colpa tale da non meritare altro che la morte. E se invece avessi preparato il pasto e stringessi il vassoio tra le mani, incapace di offrirglielo? Di certo il riso finirebbe per andare a male; sarebbe anche questa una prova di lealtà, ma di una lealtà nella quale, a mio parere, il coraggio è del tutto assente. Un uomo provvisto di lealtà e audacia, al contrario, presenta all’Imperatore il cibo che ha preparato per Lui con cuore devoto senza curarsi dell’esito fatale del suo gesto”21.

Isao a capo di un gruppo di seguaci prepara un piano per assassinare industriali e uomini politici corrotti. Vi è una scena emblematica in cui il giovane per mettere alla prova la fedeltà e la fermezza dei suoi accoliti li provoca invitando chi non è sicuro sino in fondo ad abbandonare la lega. Dopo che i meno convinti si sono allontanati, nel luogo in cui sono riuniti cade il silenzio. Il gruppo era nuovamente ammutolito, benché questa volta il suo silenzio apparisse ben diverso da prima, e desse l’impressione che una belva rintanata nel buio si fosse risvegliata agitando la sua imponente massa corporea di animale a sangue caldo. Per la prima volta Isao avvertì in quel silenzio una reazione decisa, qualcosa che emanava calore e un odore ferino, qualcosa di vivo e pulsante il cui sangue scorreva copiosamente nelle vene22.

Questa scena non può non ricordarci la riunione che il 26 febbraio 1968 Mishima tenne con i suoi seguaci nella sede del Ronsō journal, quando insieme agli altri undici membri bevve il sangue con cui avevano firmato il loro patto. E più che un lucido e razionale senso politico, suggerisce ulteriormente il senso viscerale e ritualistico dell’ideale di aggreagazione di Mishima. “Il senso di solidarietà degli accoliti (di Isao)”, dice Giorgio Amitrano, “si definisce in questa sequenza: non un gruppo di giovani uniti nella fede politica, ma di fedeli di un rito sanguinario e primordiale, il cui obiettivo è la propria distruzione, che si configura in una presenza pulsante e odorosa di sangue”23. Ma i piani di Isao sono intralciati proprio da suo padre, Iinuma Shigeyuki, che per le sue losche attività politiche ha stretto rapporti con vari 21

Mishima Yukio, A briglia sciolta, in Mishima Yukio – Romanzi e racconti, vol. II, cit., pp. 820-821. 22 Ivi, p.843. 23 Giorgio Amitrano, “Leggere il mare della fertilità II”, Spazio, n. 33, 1986, p. 86.

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personaggi della burocrazia e della finanza. Iinuma scopre che nella lista delle persone da uccidere stilata da Isao c’è anche Kurahara, un esponente dell’alta finanza a cui è legato per motivi economici; così decide di tradire il figlio rivelando tutto alla polizia. Isao viene arrestato e messo in prigione in attesa del processo. Quando Honda viene a sapere degli ultimi eventi della vita di Isao, decide di rinunciare alla sua carica di magistrato per iscriversi di nuovo al Foro degli avvocati di Tōkyō e assumersi la difesa del ragazzo durante il processo, appoggiato nella sua azione dal principe Tōin. Al processo, tra le altre cose, vengono esaminate con la massima attenzione il numero e le date esatte degli incontri di Isao con il tenente Hori. Viene così chiamato al banco degli imputati Kitazaki – il vecchio tenutario della baracca dove era avvenuto sia l’incontro di Kiyoaki e Satoko, sia l’incontro di Isao con il tenente Hori –, per verificare se riconosce il giovane imputato. E qui di nuovo, con tocco abilissimo, Mishima fa riverberare l’arcano mistero della reincarnazione attraverso l’azione di quel magico luogo. Il vecchio cadente si avvicina con fatica al giovane poggiandosi su un bastone, e dopo averlo attentamente osservato, risponde con voce debole: “Parecchio tempo fa un giovane s’incontrò con una donna alla pensione, nella stanza sul retro. Mi chiedo se non sia lui...”. “Iinuma venne da lei accompagnato da una donna?” “Non posso dirlo con certezza, ma era senza dubbio qualcuno che gli somigliava...”. “A quando risale il fatto?”. “Sì, ora mi viene in mente: mi sembra proprio che sia stato più di vent’anni fa”. “Vent’anni fa? Iinuma s’incontrò con una donna nella sua pensione vent’anni fa?”24.

Il vecchio ha riconosciuto in Isao la reincarnazione di Kiyoaki, ricordandone la visita con Satoko vent’anni prima; ma Isao ha vent’anni! e in sala tutti i presenti esplodono a ridere, irriverenti verso quell’affermazione che pensano non poter essere che il frutto del rimbambimento senile. Nondimeno Kitazaki, del tutto indifferente alle risa di scherno del pubblico, ripete ostinatamente: “Sì, proprio così. È stato sicuramente più di vent’anni fa”. Alla caparbia ostinazione del vecchio non può che fare eco la crescente ilarità dei presenti; solo Honda è attraversato da un fremito di sconcerto. Durante il dibattito processuale Isao illustra le due principali fonti che hanno ispirato il progetto della sua azione. Oltre alla rivolta della Lega del 24

Mishima Yukio, A briglia sciolta, cit., p. 1065.

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vento divino, la filosofia dello yōmeigaku, gli insegnamenti del filosofo cinese del sedicesimo secolo Wang Yangming: ...mi sono sforzato di mettere in pratica quella che si potrebbe definire la teoria dell’unità di pensiero e azione di Wang Yangming, cioè quel principio filosofico secondo cui “sapere e non agire equivale a non sapere”. Sono consapevole della decadenza del Giappone di oggi e dei banchi di cupe nubi che ne oscurano l’orizzonte; conosco lo stato di grave miseria in cui versano i villaggi rurali e le sofferenze delle classi più povere della popolazione; so anche che causa di tutto sono la corruzione politica e il comportamento dei grandi gruppi economici e finanziari i quali, da autentici traditori della patria, approfittano della corruzione per arricchirsi; so infine che qui risiede la radice del male, il velo che impedisce alla luce dell’augusta benevolenza di Sua Maestà l’Imperatore di giungere fino a noi. E sapendo tutto questo, direi che l’idea che “sapere è agire” mi si è imposta con la forza dell’evidenza25.

Grazie all’ottima difesa di Honda, Isao ritorna presto in libertà, ma i suoi progetti vendicativi non sono affatto sfumati. Quando viene a sapere attraverso la stampa che Kurahara, l’industriale che aveva progettato di assassinare, ha commesso un atto blasfemo sedendosi inavvertitamente su un sacro ramoscello di sakaki nel sacro tempio di Ise, si riaccende in lui il desiderio di vendetta. È logico che questo era solo un piccolo, ma per lui significativo, indizio dell’impurità di Kurahara – e forse più di questo episodio, a spingerlo verso l’azione è la scoperta dei loschi rapporti tra suo padre e quel personaggio –; sta di fatto che dopo questo episodio il giovane decide di portare a termine il suo progetto omicida. Sfuggito alla sorveglianza di un dipendente di suo padre, si reca nel quartiere di Ginza, compra una spada e un pugnale, quindi prende un treno per Atami, dove ha saputo che soggiorna Kurahara. Giunto alla sua villa alle dieci di sera, dal giardino penetra nella casa, si pianta di fronte all’industriale con la spada sguainata e gli dice: “Ricevi la punizione divina per il tuo gesto sacrilego al Grande santuario di Ise”26, quindi gli affonda la lama nel cuore. Fugge via dalla casa, corre verso il mare, verso quel dirupo affacciato sul mare che aveva sempre sognato per togliersi la vita. Giunto alla meta, si inginocchia, si sfila la giacca e dalla tasca interna ne estrae il pugnale, ma a quell’ora di notte il paesaggio che gli si pone dinanzi non è esattamente quello che aveva sempre immaginato:

25 26

Ivi, p. 1084. Ivi, p. 1119.

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“L’alba è ancora lontana” si disse Isao, “ma non posso aspettare il sorgere del sole. Non avrò di fronte a me l’astro nascente, né siederò all’ombra di un antico e venerabile pino, e neppure contemplerò le onde scintillanti”27.

Si denuda fino alla vita rimanendo a torso nudo, e mentre sguaina il pugnale per procedere al seppuku, sente rumori di passi in corsa e grida di inseguitori. Ora davvero non poteva più attendere: Isao trasse un profondo respiro e chiuse gli occhi; prese a tastarsi l’addome con la mano sinistra e vi premette contro la punta dell’arma, che teneva ben salda nell’altra mano; poi, dopo aver guidato la lama con le dita della sinistra verso il punto giusto, la affondò nella carne con quanta forza aveva. Nel preciso istante in cui il pugnale gli squarciò il ventre, dietro le sue palpebre il disco solare si levò immenso e radioso all’orizzonte28.

Così termina il secondo volume della tetralogia. Come abbiamo detto in precedenza, sia Isao che Kiyoaki vanno alla ricerca di una morte tragica, ma, al di là delle diverse motivazioni che animano i due personaggi, è interessante notare anche la differenza di modalità. Nel caso di Kiyoaki sono i sentimenti a distruggerlo lentamente, nel caso di Isao è il rapido guizzare di una lama vibrata nel ventre. Isao, come dice Tasaka Kō, “ha versato il ‘sangue della carne’ in contrasto con Kiyoaki che ha versato il ‘sangue dei sentimenti’”29. Le due modalità messe in contrapposizione sembrano suggerire la metamorfosi che si era compiuta nell’animo dello scrittore. La metamorfosi da tenebroso e cerebrale esploratore della “notte” a viscerale e istintivo navigatore del “giorno”. Non che questa trasformazione fosse definitiva e univoca, le due componenti continuavano a coesistere – non le avrebbe altrimenti scelte come rappresentative dei primi due volumi della tetralogia –, ma l’averle accostate nei primi due personaggi così importanti del lavoro testimonia forse il suo desiderio sempre più impellente di unificarle. Kiyoaki e Isao possono essere intepretati come “poesia” e “azione”. E nel turbine del desiderio di unificazione di questi due elementi, lo scrittore, nel pensiero di Isao, definisce l’azione come “un verso di poesia scritto con il sangue”. * * * 27 28 29

Ivi, p. 1123. Ibid. Tasaka Kō, Op. cit., p. 161.

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A ottobre cominciarono a girare, per la terza volta, voci riguardo alla sua probabilissima assegnazione del premio Nobel. L’anno precedente, mentre era in India con la moglie, la stampa giapponese aveva pubblicato una dichiarazione dell’Accademia di Stoccolma che lo dava definitivamente tra i quattro più probabili candidati, insieme a Neruda, Malraux e Beckett. Il quotidiano Mainichi shinbun aveva mandato un reporter in India per essere subito pronto a intervistare Mishima nel caso gli fosse stato assegnato il premio. Ma anche questa volta si era dovuto rassegnare, il premio era stato assegnato a Samuel Beckett. Ora però tutti dicevano che il premio era destinato a un autore giapponese, e le possibilità non potevano essere che tre: Tanizaki, Kawabata o Mishima. Il 17 ottobre Mishima trascorse tutta la sera ad aspettare il responso che sarebbe arrivato via telex al Club degli editori; erano con lui il redattore Nitta Hiroshi e il suo amico giornalista Date Munekatsu della NHK (la rete nazionale giapponese), a cui aveva promesso l’esclusiva televisiva. Alle 19,30 Mishima uscì dalla stanza del telex e annunciò ai suoi amici che aveva vinto “il maestro Kawabata”. Subito telefonò al vincitore e suo antico mentore, che era nella sua villa di Kamakura, per congratularsi con lui. Poi scrisse delle congratulazioni ufficiali, un bellissimo articolo che sarebbe stato pubblicato il giorno dopo sul quotidiano Mainichi shinbun; lo scrisse seduta stante, ad una velocità impressionante, sotto gli occhi sbalorditi di tutti. Quindi andò a casa a cambiarsi in abito da sera e, insieme alla moglie Yoko e all’amico giornalista Date, si recò in auto fino alla villa di Kawabata a Kamakura per porgere gli omaggi di persona. Le foto scattate in quell’occasione ritraggono i due scrittori sorridenti seduti fianco a fianco; ma nonostante l’entusiasmo e il riconoscimento di una giusta assegnazione del premio a colui che aveva sempre considerato uno dei più grandi scrittori del Giappone e, all’inizio della sua carriera, una guida preziosa, Mishima in sostanza era molto amareggiato. In realtà, il rapporto con Kawabata è stato molto più difficile e meno idilliaco di quanto comunemente si pensi. Vari episodi testimoniano la natura conflittuale dell’amicizia tra i due scrittori. Andō Takeshi, nella sua biografia Vita di Mishima Yukio (Mishima Yukio no shōgai), parla ad esempio di una lettera di presentazione per il premio nobel che Kawabata, conoscendo le ottime relazioni di Mishima con gli ambienti internazionali – pur sapendo che era anch’egli candidato –, avrebbe richiesto al suo ex pupillo. Mishima, ambendo allo stesso premio, pare si fosse sentito in enorme difficoltà, ma alla fine non aveva potuto rifiutare di fare questo favore a colui che lo aveva sempre aiutato sin dagli inizi della carriera e che, di recente, era venuto in suo aiuto anche per l’incidente giudiziario di Dopo il banchetto. Nonostante le perplessità e la consapevolezza di dare un duro colpo alla

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propria candidatura, inviò all’accademia di Stoccolma una lettera molto bella per il suo mentore: Le opere di Kawabata Yasunari coniugano la delicatezza alla fermezza, l’eleganza alla coscienza degli abissi della natura umana; il loro nitore cela un’insondabile tristezza, e sono moderne pur ispirandosi esplicitamente alla filosofia solitaria dei monaci del Giappone medioevale. Il modo in cui questo scrittore sa scegliere ogni parola testimonia a quale sottigliezza, a quale grado di sensibilità fremente possa pervenire la lingua giapponese; il suo stile impareggiabile è in grado, con infallibile precisione, di andar diritto al cuore di qualsiasi soggetto per esprimere la sostanza, sia che si tratti dell’innocenza di una fanciulla o della spaventosa misantropia di un vecchio. Una concisione estrema – la concisione carica di senso dei simbolisti – lo costringe entro i limiti delle opere brevi che, nonostante la loro brevità, approfondiscono tutti gli aspetti della natura umana. Per molti scrittori del Giappone contemporaneo, gli imperativi della tradizione e il desiderio di creare una letteratura nuova si sono rivelati pressocché inconciliabili. Kawabata Yasunari, al contrario, con la sua intuizione di poeta ha superato questa contraddizione, approdando a una sintesi. In tutti i suoi scritti, dalla giovinezza sino ai nostri giorni, si ritrova, come un’ossessione, lo stesso tema: quello del contrasto tra la solitudine ineluttabile dell’uomo e l’inalterabile bellezza che si può cogliere in modo intermittente nelle folgorazioni dell’amore, nello stesso modo in cui una luce può all’improvviso svelare, nel cuore della notte, i rami di un albero in piena fioritura. È un onore per me proporre colui che, più di ogni altro scrittore giapponese, presenta realmente le qualità richieste per l’attribuzione del premio Nobel per la letteratura.30

Il loro rapporto poi ebbe un duro scossone in seguito al netto rifiuto che oppose Kawabata, manifestando così tutto il suo dissenso, a fare un discorso durante una parata commemorativa della Società degli scudi (Tate no kai), quell’esercito personale che di qui a poco Mishima avrebbe fondato. In quest’occasione Mishima si sentì abbandonato dal “vecchio padre”, e sfogandosi al telefono con il critico Muramatsu Takeshi disse: “L’ho sempre adorato, ho sempre creduto in lui, ma questa volta mi ha tradito davvero”31. 30

Yasunari Kawabata – Yukio Mishima, Lettere, Milano, SE, 2002, p. 164. Cit. in Andō Takeshi, Mishima Yukio no shōgai, Tōkyō, Natsume shobō, 1998, p. 282. Andō Takeshi nella sua biografia parla diffusamente di questo conflittuale rapporto tra Mishima e Kawabata, e individua in quest’episodio il momento fondamentale di rottura del rapporto tra i due scrittori. Secondo Andō, pare che da questo momento sia iniziata una vera e propria vendetta da parte di Mishima; vendetta che trova realizzazione, almeno nella trasfigurazione letteraria, nelle ultime pagine della tetralogia. Andō infatti interpreta il protagonista Honda, ormai un vecchio e incallito guardone che va a spiare le coppiette di notte al parco, anche come una rappresentazione umiliante e sprezzante di Kawabata. 31

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Gli scudi di Sua Maestà l’Imperatore Il 3 novembre 1968, giorno in cui in Giappone si festeggia la Cultura, quaranta studenti che avevano superato l’addestramento al campo militare delle Forze di autodifesa votarono per il nome del loro piccolo esercito. Il nome prescelto fu quello proposto da Mishima: Società degli scudi (Tate no kai); nome a cui si era ispirato da alcuni versi del Man’yōshū, la più antica antologia poetica giapponese, risalente all’ottavo secolo, dove un guerriero si offre in ostaggio per proteggere l’imperatore, diventando così scudo della sua vita. Il 4 novembre Mishima insieme a Mochimaru e qualche altro studente, tutti in uniforme, annunciò formalmente la costituzione della società. La stampa si scatenò subito con articoli derisori dove si parlava dei “soldatini di capitan Mishima”. Ma Mishima andò dritto per la sua strada, continuando a organizzare gli addestramenti delle nuove reclute, e nel marzo del 1970 arrivò al quinto e ultimo arruolamento, con il quale la Società degli scudi raggiunse il numero previsto di cento unità. Ogni anno una cinquantina di studenti provenienti da tutte le università presentavano domanda per entrare nella Società degli scudi, ma prima di incontrare Mishima, venivano adeguatamente selezionati da Mochimaru, e più tardi da Morita Masakatsu, il giovane che fu in assoluto fino alla fine più vicino allo scrittore. Venivano selezionati giovani slegati da qualsiasi organizzazione politica, che rispettassero la figura dell’imperatore e che avessero lo spirito e le energie fisiche per combattere per il loro ideale. I membri non erano pagati, gli veniva però fornita una divisa, un berretto e un equipaggiamento da combattimento. Una volta al mese, tranne che nei periodi di addestramento al campo militare, la società si riuniva all’ Ichigaya kaikan, un edificio pubblico che apparteneva alle Forze di autodifesa di Ichigaya. Durante gli incontri Mishima parlava dei recenti eventi sociali o dava lunghe spiegazioni sui suoi saggi politici, seguiva poi una mezzoretta di dibattito aperto. Le opinioni erano molteplici e non si faceva alcun tentativo per omogeneizzarle. Alle dodici e trenta pranzavano tutti insieme in modo molto frugale con del riso al curry, e dopo pranzo, prima di aggiornare la riunione, favevano un’ora di esercitazioni militari sul tetto dell’edificio. Mishima durante gli ultimi due anni e mezzo della sua vita scrisse vari saggi politici che lui amava definire prosa della spada, e non della penna. Anche con essi egli attuò una distinzione tra lavori maggiori e minori. I lavori maggiori, come In difesa della cultura (Bunka bōei ron), erano di natura astratta, concettosi ed estremamente elaborati. Ma spesso le stesse idee venivano spiegate con maggior semplicità e in un linguaggio molto più accessibile in

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saggi minori, chiaramente indirizzati ai giovani studenti universitari, come Lezioni spirituali per giovani samurai (Wakaki samurai no tame no seishin kōwa) e Introduzione alla filosofia dell’azione (Kōdōgaku nyūmon). Ma la visione “politica” di Mishima era, come abbiamo già detto, molto poco politica in senso ortodosso e, invece, estremamente influenzata da una personalissima visione estetica. Nel lungo saggio In difesa della cultura, scritto durante il primo addestramento delle reclute al campo militare del monte Fuji e pubblicato nel luglio del 1968, espone le sue idee in proposito. Ponendo l’accento sull’importanza dell’identità culturale del Paese, identifica nella figura dell’imperatore l’unica ed esclusiva fonte e garanzia dell’autentica cultura giapponese32. Di conseguenza la difesa della cultura, come recitava il titolo del saggio, si identificava con la difesa di Sua Maestà l’Imperatore – ovviamente da intendersi sempre nel suo significato più simbolico e metaforico. Ancora, egli si sofferma sul concetto di miyabi, quell’eleganza cortigiana che era alla base della cultura classica giapponese. Così come la poesia classica era stato il riferimento di tutta la letteratura delle epoche successive, così il concetto di miyabi era stata la fonte di tutti gli orientamenti estetici successivi. Giunge, quindi, alla conclusione che tutta la cultura, compresa quella contemporanea, avrebbe dovuto tendere all’imitazione del miyabi, alla rievocazione dell’eleganza della corte del periodo Heian. Ora, l’eleganza di corte ruotava tutta intorno alla figura dell’imperatore, che diventava così l’essenza stessa del miyabi, e di conseguenza l’essenza stessa della cultura. Si può immaginare quali critiche sollevarono le formulazioni di questo pensiero. In un incontro con gli studenti all’Università di Ibaragi, nell’ottobre del 1968, fu costretto a difendersi da attacchi molto diretti: Studente F: Affermare che la cultura si sviluppa insieme alla figura dell’imperatore significa dire che la cultura è lo speciale patrimonio di un gruppo molto limitato. Nella storia giapponese, l’era in cui l’imperatore deteneva il potere è stato un periodo in cui gran parte del popolo viveva quasi in stato di schiavitù. Secondo me la cultura che appartiene solo a una classe privilegiata è soltanto un nonsense. Se una simile cultura rappresenta la tradizione, allora è meglio distruggere la tradizione. Mishima: La cultura non può essere interpretata nei termini marxisti della storia come la lotta di classe... Quando si giunge alla teoria della letteratura e dell’arte, tutte le filosofie crollano. Quelli di voi che hanno letto Kant lo 32

C’è da sottolineare che la figura dell’imperatore in Giappone è di per sé una figura simbolica. Secondo la Costituzione del dopoguerra, redatta nel 1946 dal generale MacArthur e dai suoi collaboratori, al sovrano giapponese non è riconosciuto alcun potere temporale. Il suo ruolo è esclusivamente quello di capo simbolico della nazione. Le sue funzioni ufficiali sono limitate all’apertura delle sessioni parlamentari e a qualche rara apparizione pubblica.

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dovrebbero sapere bene; quando La critica della ragion pura cerca di trattare la questione del bello, cade come se fosse scivolata su una buccia di banana. Lo stesso accade a Hegel, quando cerca di organizzare la cultura in un sistema. Se mai c’è stato un marxista che ha capito il concetto di cultura questo è stato Trotsky. Trotsky sosteneva che il governo doveva essere la dittatura del proletariato, ma la cultura doveva essere borghese. Il risultato è stato che soltanto durante il breve periodo del potere di Trotsky l’Unione Sovietica ha prodotto qualcosa degno del nome di cultura. Come ad esempio la poesia di Mayakovsky. ...A differenza di Hitler, Trotsky non ha etichettato tutta la precedente cultura europea come decadente e urbana, e si è sforzato di importare nuova arte dall’europa. Ma Trotsky è stato epurato; da personaggi come voi33.

Poi venendo a parlare in particolare della cultura giapponese: Solo l’imperatore ha continuato a funzionare sia come preservatore della Cultura di corte (miyabi), che a interagire costantemente con l’essenza del popolo giapponese. Secondo me, senza l’imperatore il popolo giapponese non può trovare la sua definitiva identificazione. Naturalmente è possibile scrivere una storia culturale che escluda la cultura di corte, come dire, una storia della cultura popolare. Ma un tentativo simile è facile che si trasformi in un’anormale passione che si sforza di privare la cultura della sua più alta raffinatezza, della sua più alta bellezza e nobiltà. E si può arrivare alle riforme dell’Opera di Pechino di Madame Mao, o all’idea stessa di Mao che “la cultura che il contadino non può capire non è cultura”34.

Mishima vedeva nel comunismo uno dei principali pericoli da cui difendere la cultura e, di conseguenza, l’imperatore. Anche se nella sua ottica, ogni cieco sistema totalitaristico di destra o di sinistra rappresentava un pericolo per la libertà ideologica e culturale. Ma uno dei punti critici della visione di Mishima riguardo alla figura dell’imperatore era che l’“imperatore culturale”, che tanto si era impegnato a sostenere e a difendere nel suo saggio, ora secondo lui non esisteva più. Il sovrano semidio che nella sua testa era la quintessenza dell’eleganza e della cultura aristocratica, ma anche il fiero guerriero della mitologia giapponese in sella a un bianco destriero, era svanito nel nulla con la promulagazione della costituzione Meiji del 1889, che lo trasformava in un semplice “sovrano politico” di una monarchia costituzionale di stampo occidentale. La costituzione del dopoguerra aveva ulteriormente peggiorato le cose, relegandolo 33 34

Cit. in John Nathan, Op. cit., p. 233. Cit. in ivi, p. 233-234.

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semplicemente alla funzione di “simbolo” dello stato e dell’unità del popolo. La cultura giapponese in questo modo era stata sradicata dalle sue radici, era stata costretta dalla cultura del dopoguerra a effettuare quell’operazione di “separazione del crisantemo dalla spada”. Spiega nel saggio In difesa della cultura che la cultura totale giapponese includeva non solo il crisantemo, quegli elementi “innocui” che potevano essere esibiti pacificamente, ma anche la spada, la cultura come “azione e stili dell’azione”, incluse le arti marziali e il bushidō, il tradizionale codice di comportamento dei samurai. Ma la cultura del dopoguerra, iniziando con le direttive delle Forze di occupazione contro i drammi di vendetta del teatro kabuki e i film di yakuza, è stato un continuo e vincente tentativo di “tagliare l’eterna circolarità del crisantemo e della spada”, e di mantenere solo quegli elementi innocui – “la cultura come patrimonio da essere diviso con l’umanità” – che erano utili per lo sviluppo della morale civile. Per Mishima il simbolo più alto dell’unione del crisantemo e della spada era proprio l’imperatore; e per restituire alla figura del sovrano la precedente significanza era necessario restituire nelle sue mani il comando supremo che gli era stato sottratto con la Costituzione Meiji. In difesa della cultura comparve nel 1968, un anno di grosso fermento politico e di attività della sinistra, e non c’è da meravigliarsi che il saggio venisse attaccato duramente dagli esponenti di quest’ultima. Mishima venne collocato tra i pericolosi pensatori dell’estrema destra e del fascismo. In difesa della cultura, come d’altronde buona parte delle opere “politiche” di Mishima, non era esente da contraddizioni, o punti quanto meno poco chiari, che rappresentarono il tallone d’achille su cui si accanirono molti critici. Hashikawa Bunzō, ad esempio, ne evidenziò molti punti deboli che espose nel suo saggio Coscienza estetica e politica (Biishiki to seiji), dove si sottolineava che le argomentazioni di Mishima, se considerate con massima attenzione, avrebbero condotto esattamente all’opposto di quello che lo scrittore si auspicava: la totale inconciliabilità della logica di uno stato moderno con la figura di un imperatore massimo sovrano e indiscusso custode della bellezza. Il motivo dell’illogicità e delle contraddizioni delle opere “politiche” di Mishima è giustificabile con una sola risposta: Mishima non era un “uomo politico”. O perlomeno non lo era nel senso che comunemente viene data a questa espressione. La sua weltanshauung, in cui alla politica si mescolavano arte, estetica e azione, vedeva sempre la preponderanza di qualcuno di questi elementi; e le contraddizioni nascevano dalle forzature inevitabili che lo scrittore era costretto a fare per tentare un’assurda quadratura del cerchio. È probabile che lui stesso non credesse nelle sue forzose teorie dove tutto si amalgamava armoniosamente nello stile di un anacronistico pensa-

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tore del 700; quei pensatori noti alla storia come wagakusha, che nonostante vivessero in una società che reclamava una rivoluzione economica, politica e ideologica in grado di portare il paese al passo con i tempi, ricercavano la soluzione di tutti i mali sociali in un ritorno alle origini del Giappone, quando l’armonia regnava sotto l’egida dello shintōismo e delle sue divinità, di cui l’imperatore era il discendente diretto. Interessanti a questo proposito ci sembrano le considerazioni di Miyoshi Masao, che invece di accanirsi nella ricerca scontata delle contraddizioni dell’ideologia mishimiana, cerca di evidenziarne le necessità psicologiche. Mishima aveva bisogno di un “assoluto”35 che fosse contemporaneamente spirituale ed erotico; un “assoluto” che gli avrebbe consentito di fuggire dall’inerte politica dell’omogeneità e dell’accordo. La sua eccentricità e la sua arroganza non rappresentavano altro che una strada verso l’estasi. (...) Per raggiungere la distinzione dal mondo che lo circondava, aveva bisogno di un ponte verso la trascendenza, un mezzo che gli avrebbe permesso di sopraffare la mondanità della democrazia e di leggittimare il suo snobismo. La psicologia doveva essere giustificata dalla politica, e l’estetica trasformata in politica. (...) Era lo spazio di cui Mishima aveva bisogno per sopravvivere nella società della riproduttività e della clonazione nella quale era costretto a vivere36.

Forse per avvicinarci alle reali motivazioni che hanno spinto Mishima in direzione di un’azione “politica”, dobbiamo ritornare su un saggio dell’ultimissimo periodo della sua esistenza; un saggio di cui abbiamo già parlato e che con la politica in senso stretto ha molto poco a che fare: Sole e acciaio. Sole e acciaio, come abbiamo visto, rappresenta una sorta di chiarimento interiore che lo scrittore cerca di attuare con la sua sapiente autoanalisi a pochi mesi dalla morte; e che, molto più di altri scritti “politici”, ci mostra con estrema coerenza le molteplici relazioni che si sono instaurate tra la sua vita fisica, psichica, artistica e ideologica. Egli ripercorre le tappe della sua esistenza mettendo soprattutto in evidenza le trasformazioni del suo rapporto vita-arte. All’inizio, con quell’acuta metafora delle termiti che divorano un palo non ancora esistente, e che quando esisterà sarà già mezzo divorato da esse, sottolinea in particolare il ruolo preminente e “corrosivo” che hanno avuto le parole e la letteratura al principio della sua esistenza; anteponendosi alle comuni esperienze psicofisiche che ogni bambino e adolescente di solito attraversa, e collocandolo in un insolito processo evolutivo à rebours. Fino 35 36

E questo, come abbiamo visto, è indissolubilmente legato alla figura dell’imperatore. Masao Miyoshi, Op. cit., p. 158.

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a giungere alla tarda scoperta del corpo, alla consapevolezza del bisogno di un’educazione fisica che attraverso la “grammatica dell’acciaio” potesse equilibrare l’ipersviluppata educazione intellettuale, e gli aprisse nuove vie di comprensione dell’esistenza. Si avverte più che mai l’idea che la vita di un artista non può essere riempita solo della sua arte; “egli sa molto bene”, nota Marguerite Yourcenar, “che colui che si consacra totalmente a scrivere dei libri non scriverà mai bei libri”37. Ecco come descrive le sue sensazioni dopo un allenamento, mentre si rinfresca i muscoli al soffio della brezza: Un soffio di brezza fresca, l’evaporazione del sudore... l’esistenza dei muscoli che dilegua con essi... Tuttavia i muscoli, in quel momento , adempivano alla loro funzione essenziale, con invisibili chiostre di denti robusti dilaniavano il mondo della sensazione di un’esistenza ambigua e relativa, e lo trasformavano in una pura sensazione di forza trasparente, incomparabile, unica, che non necessitava di alcun oggetto. Ormai non esistevano più neppure i muscoli ed io mi trovavo avviluppato da un senso di forza simile a una luce trasparente. Era naturale che scoprissi la vera antitesi delle parole nella pura sensazione di questa forza, che non avrei mai potuto conquistare né con i libri, né con l’analisi intellettuale. E questo divenne gradualmente il nucleo del mio pensiero38.

La formazione del corpo attraverso l’acciaio incarna forse la più compiuta forma d’arte a cui lo scrittore avesse mai pensato. Grazie all’acciaio appresi molte verità sui muscoli. Era quella la conoscenza più spontanea, che né i libri né l’esperienza del mondo potrebbero assolutamente donare. I muscoli, oltre ad essere una forma, erano anche una forza, e la responsabilità della sua direzione era infinitesimamente suddivisa tra tutti i fasci di muscoli, proprio come una luce creata nella carne. Nulla, maggiormente che il concetto di forma che racchiude una forza, concordava con la definizione di opera d’arte che sognavo da tempo: doveva essere una splendida, radiosa opera “organica”. I muscoli, così costruiti, sommavano l’esistenza al proprio essere un’opera d’arte; paradossalmente essi possedevano persino la traccia di una sorta di astrazione. Il loro unico, fatale difetto era rappresentato da un’eccessiva adesione al processo vitale: con l’affievolirisi della vita si sarebbero indeboliti e infine avrebbero inevitabilmente cessato di esistere39.

37 38 39

Marguerite Yourcenar, Op. cit., p. 79. Mishima Yukio, Sole e acciaio, cit., p. 29. Ivi., p.26.

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Ma così come le parole avevano una loro eminente ragione di esistere nel momento in cui si riversavano nella creazione letteraria, così il corpo (e soprattutto un corpo scolpito dall’acciaio) non poteva giustificare la sua esistenza artistica e ideologica senza confluire nell’azione. Anche, e soprattutto, per la sua natura transitoria. E quindi doveva affrettarsi a compiere la sua azione prima del disfacimento, troncando romanticamente ed eroicamente l’esistenza all’apice della bellezza. In pratica lo scrittore si sta avvicinando sempre di più a quella concezione, di cui abbiamo già parlato, che avrebbe influenzato tutto il periodo finale della sua esistenza: il bunburyōdō. La via della penna e della spada, quell’ ideale feudale prettamente giapponese che voleva incarnate nel samurai contemporaneamente sia le doti poetiche che quelle guerriere. In un’epoca come il dopoguerra, in cui erano crollati tutti i valori, mi era capitato di pensare e di raccontare che proprio in simili momenti sarebbe stato necessario far rivivere antiche virtù come l’”unione della letteratura e dell’arte marziale”. Poi, per qualche tempo, abbandonai l’interesse per quelle virtù. A mano a mano che incominciavo ad apprendere dal sole e dall’acciaio il segreto per modellare le parole con il corpo e non soltanto il corpo con le parole, i due poli cominciarono nel mio intimo a mentenersi in equilibrio, e ad una corrente continua si sostituì una corrente alternata. Il mio meccanismo si era trasformato da generatore di corrente continua in generatore di corrente alternata. Inventai un congegno per mezzo del quale accumulavo dentro di me elementi che non si combinavano mai, che fluivano alternativamente in direzioni opposte e, sebbene in apparenza aprissi dentro di me una frattura sempre più ampia, in realtà costruivo un istante dopo l’altro il vivo equilibrio che si frantumava e si ricreava incessantemente. Fare coesistere in se stessi questi poli opposti, l’equilibrio e la contraddizione sempre in conflitto, era il mio concetto di “unione della letteratura e dell’arte marziale”40.

E ancora, durante un raduno della Società degli scudi, dopo una lunga discussione di strategia militare con i cadetti, uno di loro, un giovane di Kyōto, estrae da un elegante custodia un flauto antico, di quelli usati dai musici di corte del nono secolo, e intona una struggente melodia che colpisce profondamente lo scrittore. La melodia, bellissima e toccante, ha evocato nella mia mente i campi autunnali impregnati di rugiada e lo splendente principe Genji che aveva danzato al suono di quelle stesse note. Mentre ascoltavo in preda a un totale rapimento, è balenato in me un pensiero improvviso. Per la prima volta da quando la 40

Ivi, p. 43.

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guerra era finita le due tradizioni della cultura giapponese si trovavano felicemente associate, sia pure per lo spazio di un fuggevole istante: la tradizione dell’arte e quella delle armi. Ed era questa l’unione alla quale avevo sempre anelato dal profondo del cuore41.

Ma perché questa inclinazione nel percorso della sua vita? Qual era lo stimolo profondo che lo portava in direzione, prima della forgiatura del proprio corpo, e poi dell’utilizzazione dello stesso nell’azione? Mishima stava cercando disperatamente, e ora non più nella trasfigurazione letteraria, una “verifica dell’esistenza”; ed è ancora Sole e acciaio a chiarirci qualcosa: Qui c’è una mela sana, che non esiste grazie alle parole, e quindi il torsolo non può esistere visto completamente dal di fuori (...) Il torsolo dentro la mela, imprigionato dalla polpa, si smarrisce in quella oscurità livida e, tremando d’impazienza, aspira a controllare con i propri occhi se la mela è perfetta. La mela esiste sicuramente, ma il torsolo non è abbastanza convinto e, se le parole non glielo garantiscono, non ha altra possibilità che verificarlo con i propri occhi. In effetti, per il torsolo il modello più sicuro di esistenza sarebbe poter esistere e contemporaneamente vedere. Ma c’è un unico metodo per risolvere questa contraddizione: che vi si affondi un coltello e che, spaccata la mela, il torsolo sia esposto alla luce, la stessa che illumina la buccia rossa. Ma la mela potrebbe allora continuare ad essere tale? Essendo ormai tagliata, la sua esistenza si sbriciola; il torsolo ha sacrificato l’esistenza al vedere. Quando capii che questa perfetta sensazione di esistere, che un attimo dopo si sarebbe frantumata, non poteva essere originata dalle parole ma solo dai muscoli, ero già destinato alla sorte della mela. I miei occhi potevano naturalmente contemplare i miei muscoli in uno specchio. Ma vedere non era sufficiente per penetrare nella radice della mia sensazione di esistere42.

Ecco di nuovo il buio, l’ “oscurità livida” in cui il torsolo si smarrisce. La tenebra dell’ignoto, con tutte le sue connotazioni ontologiche e metafisiche evidenziate nel palanchino di Confessioni di una maschera e nell’immagine del Padiglione d’oro, ecco che ritorna ancora. Ma ora essa si è trasferita, attraverso la mela, nello scrittore stesso – “ero già destinato alla sorte della mela” –, ha preso possesso dell’osservatore; un osservatore in cui il desiderio di fugare la tenebra con la distruzione è più forte che mai. Corpo, muscoli e azione conducono in un’unica direzione: morte = verifica della vita. Quale sinistra anticipazione del seppuku questa metafora della mela! 41 42

Cit. in Henry Scott Stokes, Op. cit., p. 178-179. Mishima Yukio, Sole e acciaio, cit., p. 57.

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Alla fine di un discorso tenuto nel 1966 al Club dei corrispondenti della stampa estera di Tōkyō, ad un giornalista che gli chiedeva quali fossero le origini e il significato del seppuku, lo scrittore aveva risposto: In epoca feudale noi credevamo che la sincerità albergasse nelle nostre viscere. Se pertanto intedevamo dare prova della nostra schiettezza, dovevamo squarciarci il ventre ed estrarne la sincerità visibile43.

E qui il termine “sincerità” va letto più che mai nella sua connotazione di “verità”. Il cammino dello scrittore conduce sempre, seppur con eventuali variabili, nella stessa direzione della morte. Sin dalle prime opere giovanili era stata celebrata, e lui stesso da adolescente l’aveva desiderata. Una morte giovane, eroica, che a quel tempo non aveva neanche le caratteristiche fisiche per affrontare. Oggi, invece, che il suo corpo è stato temprato e la sua mente si sente pronta più che mai, il problema che gli si pone è un altro: cercare, in tempo di pace, le condizioni per affrontare la fine. Che ironia! All’epoca in cui l’onda di latte caldo dell’assenza di futuro e della catastrofe stava per traboccare dalla tazza, io non possedevo le credenziali per poterla bere tutta d’un fiato, e adesso che, dopo un lungo allenamento, avevo ormai acquisito tutte le qualifiche necessarie ed ero tornato, il latte era già stato tutto bevuto, si vedeva il fondo della tazza ormai fredda; e io avevo già oltrepassato i quarant’anni. E purtroppo, solo quel latte caldo che qualcuno si era già bevuto avrebbe potuto placare la mia sete44.

Entrare nelle Forze di autodifesa, addestrare il proprio esercito per la difesa dell’imperatore, tutto faceva parte della preparazione per acquisire le qualifiche che da giovane gli erano mancate per affrontare il momento estremo. Ma ora che si sentiva pronto non vi erano le circostanze adeguate. Come avrebbe voluto provare l’eccitazione dei kamikaze poco prima di levarsi in volo verso la morte! Vedeva in essi la figura del vero eroe pronto fisicamene e psicologicamente ad affrontare la fine. E un’altra cosa lo colpiva profondamente: lo spirito e l’immagine di gruppo delle squadre suicide. È come se ognuno dei piloti avesse polverizzato la propria individualità per unirsi in un’unica grande forza propulsiva e rigenerante. Ecco che ritorna l’idea di cui abbiamo già ampiamente parlato nell’episodio del palanchino sacro di Confessioni di una maschera: la conoscenza suprema che può avvenire 43 44

Cit. in Henry Scott Stokes, Op. cit., p. 9. Yukio Mishima, Sole e acciaio, cit., p. 55.

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solo nell’abbandono del proprio io e nella disgregazione dell’individuo nel gruppo. È questo il motivo per cui Mishima organizza la Società degli scudi? Ha bisogno di un “gruppo” per raggiungere il suo fine ultimo? Nell’ultima pagina di Sole e acciaio Mishima sta correndo con un gruppo nella debole luce dell’alba; è molto probabile che si tratti dei suoi cadetti. “Tutti noi aspiravamo in un unico identico modo alla gloria e alla morte”, riflette. “Non ero io solo a desiderarle. Il battito del cuore si comunicava a tutto il gruppo, condividevamo le stesse rapide sensazioni”. E ancora nelle battute finali del saggio, “In questo modo il gruppo rappresentava per me un ponte gettato verso qualcosa: un ponte che, una volta varcato, non consentiva più ritorno”45. Allora tutto l’articolato lavoro, prima della sua formazione fisica, poi di quella militare, poi della formazione del gruppo e dell’attività politica, non era altro che un’elaborata macchinazione per raggiungere un fine del tutto privato, individuale e, soprattutto, non politico? Difficile dare una risposta definitiva, le interpretazioni si sono mosse in varie direzioni. Ognuno, come sempre accade con le grandi figure, ha cercato di dare un’interpretazione che potesse essere usata in modo strumentale per i propri fini. La destra ovviamente ha propeso per quella puramente politica appoggiandola; la sinistra anche per quella politica, talvolta attaccandola talvolta deridendola come il parto di una mente disturbata; gli esteti hanno spesso esaltato la sua originalità; gli psicologi l’hanno analizzata, propendendo forse un po’ troppo esclusivamente per l’aspetto “erotico”; all’estero sono scattate le comparazioni dei giornalisti, spesso approssimative, parlando, per esempio, in Italia di un novello “D’annunzio nipponico”, senza tenere nella giusta considerazione le differenze culturali, il periodo storico e il rapporto completamente diverso con il potere dei due scrittori. È facile perdersi nel dedalo delle infinite possibilità interpretative di questo periodo finale di Mishima, e spesso, di fronte alle varie strade che ci si pongono dinanzi, si è tentati di intraprenderne solo una per “risolvere” il problema. Ma forse questo problema sarebbe meglio non risolverlo del tutto. Forse sarebbe meglio lasciare che le varie componenti di esso – l’aspetto politico-sociale, l’aspetto estetico, erotico, escatologico – vortichino come magneti che permettono di essere avvicinati solo fino a un certo punto, per poi iniziare a respingersi, riluttanti e tutti i nostri tentativi di una fusione definitiva. Forse era proprio questo quello che avveniva nella mente dello scrittore, e più tardi egli stesso ne avrebbe parlato con la famosa metafora 45

Ivi, pp. 76-77.

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dei “quattro fiumi”, di cui si tratterà in seguito, nel pamphlet introduttivo alla mostra organizzata in suo onore ai magazzini Seibu, a pochi mesi dalla sua morte. Ad ogni modo, quello che appare abbastanza chiaro da quanto visto finora, è che il “pensiero politico” che sorreggeva tutta l’organizzazione ideologica e militare di Mishima non aveva basi solide. Almeno non aveva delle basi chiare per chi osservava dall’esterno, e nemmeno per chi gli era più vicino, come gli stessi cadetti della Società degli scudi. Ad esempio, nel Manifesto controrivoluzionario (Han kakumei sengen), che Mishima scrisse nel febbraio del 1969 per chiarire la posizione della sua associazione militare alla società giapponese e agli stessi membri, dichiarava: Noi ci consideriamo gli ultimi difensori, gli ultimi rappresentanti della cultura, della storia e delle tradizioni giapponesi. (...) Le squadre di kamikaze basavano le loro azioni sul principio che essi erano la personificazione della storia, che l’essenza della storia si manifestava in loro, (...) che essi erano la Fine, gli ultimi. (...) L’efficacia (dell’azione) non era importante. (...) La battaglia deve essere combattuta una sola volta e fino alla morte... Noi siamo l’incarnazione della bellezza giapponese46.

Inutile dire che per la maggior parte degli osservatori esterni queste affermazioni e questi principi erano solo il frutto di una mente nostalgica e delirante. Ma per coloro che gli erano al fianco, coloro che avevano deciso di seguirlo, quanto erano chiare queste idee? John Nathan ha avuto l’opportunità di parlare direttamente con ex cadetti della Società degli scudi e di interrogarli proprio su questi argomenti, ma le loro risposte non sono state gran che chiarificanti: Gli ex cadetti con cui ho parlato non sono stati capaci di spiegarmi soddisfacentemente questi passaggi. Non sono stati chiari nello spiegarmi in che senso essi erano la “personificazione della storia”, né essi si consideravano necessariamente “la Fine, gli ultimi”. Nessuno mi ha saputo spiegare la necessità tattica di combattere la battaglia “solo una volta” e “fino alla morte”, salvo dicendomi che l’azione non ammetteva alcun compromesso. E quando gli ho chiesto cosa “essi” intendessero con “l’incarnazione della bellezza giapponese”, si sono limitati a scuotere la testa47.

Non più illuminante fu il dialogo che Henry Scott Stokes ebbe con il braccio destro di Mishima, Morita Masakatsu: 46 47

Mishima Yukio, Han kakumei sengen, in MYZ, vol. 34, pp. 9-12. John Nathan, Op. cit., p. 242.

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Ho chiesto a Morita di spiegarmi meglio il significato ch’egli attribuiva alle sue parole, e in particolare cosa intendesse affermare con l’espressione “legato all’imperatore”. In che senso il suo leader andava connesso a Sua Maestà Imperiale? Quando Mishima gli ha tradotto la mia domanda, Morita è parso confuso e imbarazzato. Non sembrava in grado di trovare una risposta adeguata, e per qualche istante ho pensato che avrebbe finito per non aprir bocca. Poi finalmente è giunta una risposta, ma non era facile captarne il senso esatto. Certo quando Mishima l’ha tradotta, è parsa sconnessa e imprecisa. Morita ha accennato abbastanza incongruamente alla “cultura nipponica” e alle sue “emozioni personali”, grazie alle quali sarebbe stato in grado di cogliere “il rapporto esistente tra l’imperatore e l’indole di Mishima”. In tale processo evolutivo le letture non gli erano state di alcuna utilità. Non aveva mai tentato di “capire per mezzo dei libri” ciò che intuiva in virtù del suo istinto. Quanto a Mishima, Morita lo ammirava perché sapeva “esaltare e tenere in vita i valori della tradizione”, non “attraverso la politica” ma in virtù di una sua “visione personale”48.

Grande confusione, quindi, anche per chi stava al suo fianco. Ma molto spesso i leader della storia non sono stati compresi a fondo da chi li seguiva nelle loro azioni. È molto probabile che gran parte dell’entusiasmo dei giovani della Società degli scudi fosse animato più dall’indiscutibile carisma del loro capo che da una seria convinzione delle sue idee. Molti di loro poi non conoscevano quasi, se non per la fama, l’aspetto letterario ed estetico di Mishima, che sarebbe stato di sicuro un grande aiuto per una maggiore comprensione del pensiero del loro leader. Se i cadetti di Mishima avessero avuto la stessa familiarità che avevano per il suo pensiero politico anche per la letteratura, avrebbero capito molto di più. Avrebbero dovuto rievocare il sedicenne autore della Foresta in fiore, che si considerava il privilegiato “erede” della bellezza, che già allora equiparava con l’ “estasi della morte”. Avrebbero riconosciuto le più sviluppate fantasie del diciannovenne del 1944, che considerava la stella del mattino il suo personale emblema, perché lo “investiva con il potere della Fine”, che era convinto di essere “l’ultimo erede della tradizione della bellezza giapponese”, addirittura “la squadra kamikaze della bellezza”. In breve, avrebbero percepito che la posizione politica di Mishima era progettata per portarlo vicino a quella morte di massima bellezza a cui aveva tanto aspirato da adolescente. Avrebbero quindi capito, con una nuova prospettiva, perché il futuro non contava, perché “considerazioni sull’efficacia (dell’azione) erano secondarie”. Come minimo, se avessero letto almeno Confessioni di una maschera, avrebbero capito che l’enfasi posta dallo scrittore sull’autosacrificio era molto differente dalla loro. Di fatto, nessuno nella Società aveva familiarità con la “prosa della 48

Henry Scott Stokes, Op. cit., p. 230.

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penna” di Mishima, o di opere come Sole e acciaio. Era, d’altronde, convinzione di Mishima che la “gioventù letteraria”, e in particolare i suoi ammiratori, non sarebbero stati buoni guerrieri49.

Ad ogni modo, pur senza comprenderlo fino in fondo, i cadetti della Società degli scudi amavano il loro leader anche per la sua incredibile disponibilità nei loro confronti. Negli ultimi due anni della sua vita Mishima, nonostante i suoi sempre numerosissimi impegni, dedicò tantissimo tempo a questi giovani. I cadetti gli telefonavano e gli facevano visita a tutte le ore per avere informazioni e chiarimenti; fu addirittura costretto a organizzare un servizio telefonico notturno per poter scrivere senza essere disturbato. Alla fine decise di prendere in affitto il piano interrato del Salon de Claire, un Coffee shop del quartiere di Ginza, e stabilì che se qualcuno di loro aveva bisogno di parlargli, poteva farlo lì ogni giovedì pomeriggio dalle tre alle cinque. Ma questa iniziativa non eliminò del tutto le visite a casa, a volte anche in piena notte. Un’altra interessante informazione che ci fornisce John Nathan riguarda un concetto che in questo periodo ritornava costantemente nella testa di Mishima, e che avrebbe continuato a ossessionarlo fino alla fine: il kirijini. Il kirijini era un’altra forma di morte violenta, diversa dal seppuku, che il codice samuraico imponeva al guerriero nei casi in cui la lotta per la propria causa imponeva una drammatica scelta tra la vita e la morte. Il termine ha il significato letterale di “morire con la spada in pugno lottando fino alla fine”. Si riferisce in particolare a un gruppetto di samurai, ormai sopraffatti dalle forze nemiche, che si lanciano in un ultimo disperato attacco per difendere il loro signore, consapevoli che saranno massacrati. Una fantasia ricorrente di Mishima, di cui parlò come fatto concretamente realizzabile nelle riunioni della Società degli scudi, era compiere il kirijini insieme ai suoi cadetti. Nel clima degli aspri scontri nelle piazze della fine degli anni sessanta, egli pensava che le manifestazioni di protesta della sinistra avrebbero raggiunto proporzioni troppo grandi per essere contenute dalle forze di polizia, e il governo sarebbe stato costretto a chiedere l’intervento delle Forze di autodifesa. Era qui che entrava in azione la Società degli scudi. Prima che intervenissero le Forze di autodifesa, Mishima e i suoi uomini si sarebbero battuti, difendendo l’imperatore fino alla morte. Un’altra fantasia più entusiasmante era un attacco della Società degli scudi, concertato con le Forze di autodifesa, alla Dieta, per chiedere la revisione della Costituzione e la restaurazione del supremo comando dell’imperatore. 49

John Nathan, Op. cit., p. 242-243.

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Per quanto riguarda la prima fantasia, quella dell’intervento nelle manifestazioni in piazza, il clima della fine degli anni sessanta avrebbe di sicuro offerto l’opportunità per attuarla. Tutti guardavano al maggio del 1970, periodo del rinnovo dei Trattati di sicurezza Giappone-Usa, come a un periodo di grossi scontri. La sinistra aveva dichiarato la sua netta opposizione al rinnovo, e la destra, tirando subito acqua al suo mulino, aveva iniziato a mettere in giro la voce di una grande coalizione a sinistra, di un gigantesco sciopero generale, addirittura di un tentativo di rovesciare il governo. Già durante le dimostrazioni del “Giorno contro la guerra”, del 21 ottobre 1968, c’erano stati centinaia di feriti e arresti. Mishima in quell’occasione aveva voluto essere in prima linea, giustificando la sua presenza come giornalista della rivista Sunday Mainichi. Ovviamente il suo obiettivo era un controllo da vicino del nemico. Con un elmetto antisommossa e sul braccio una fascia della stampa, seguì le masse studentesche per le arterie principali della città, precipitandosi nei punti più caldi degli scontri, fino a giungere alla residenza del Primo ministro che fu circondata subito dopo mezzogiorno. Quindi si recò al Quartier generale dell’Ufficio Estero, dove lavorava suo fratello Chiyuki, per poter osservare meglio dall’alto gli sviluppi delle agitazioni. La tensione iniziò a salire ulteriormente nel marzo del 1968, quando la Facoltà di medicina dell’Università di Tōkyō iniziò le agitazioni. A novembre il rettore rassegnò le dimissioni e, subito dopo, gli attivisti del movimento studentesco di sinistra, gli zengakuren, occuparono l’aula Yasuda nel centro del campus. Furono presi ostaggi, la situazione diventò sempre più critica, fino a che, il 19 gennaio 1969, una squadra antirivolta della polizia, composta da 850 uomini armati fino ai denti, fece irruzione nell’aula occupata e buttò fuori tutti gli studenti. Mishima aveva ammirato la determinazione degli studenti di sinistra nell’essere andati così avanti con la loro lotta, anche se rimase deluso, non essendoci stato neanche un morto, della loro incapacità di combattere fino al sacrificio della propria vita. A maggio il movimento studentesco zengakuren sfidò Mishima a un dibattito nel campus di Komaba dell’Università di Tōkyō. Ci voleva coraggio ad accettare un simile “invito”, perché gli studenti durante la rivolta avevano più volte agito con violenza, senza nessuna remora nel catturare e tenere persone in ostaggio. Ma Mishima accettò subito, rifiutando sia la protezione della polizia che la scorta dei cadetti della Società degli scudi50. Il giorno 50

Tuttavia sia la polizia che i cadetti della Società degli scudi, preoccupati per la pericolosa situazione, presero le loro precauzioni: i cadetti occuparono le prime due file dell’aula dove si tenne il dibattito e la polizia mandò due poliziotti in borghese che si mescolarono all’uditorio.

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dell’incontro si presentò da solo, con l’unica “protezione” di un haramaki, un lungo panno di cotone avvolto strettamente allo stomaco per deviare la penetrazione di una lama, e un pugnale nascosto in questa fasciatura. All’entrata dell’aula c’era un manifesto che annunciava il dibattito con una ridicola caricatura di Mishima, ritratto come un gorilla. Dentro lo aspettavano duemila studenti, di sicuro non simpatizzanti con le sue idee. Il dibattito durò circa due ore e mezza, e, a differenza di quanto tutti e Mishima stesso si aspettassero, non fu assolutamente aspro o violento. A parte qualcuno che lo derise e lo offese dall’inizio alla fine, la maggior parte degli studenti furono inevitabilmente soggiogati dal fascino carismatico dello scrittore. Quando il primo studente gli rivolse la parola lo chiamò sensei, che in giapponese traduce sia il termine “maestro” di un’arte, che “professore”, poi subito si fermò imbarazzato e disse: Ho usato la parola sensei senza neanche pensarci, e questo è un po’ problematico (risate). Ad ogni modo, mi sembra che il signor Mishima merita di essere chiamato sensei più di quegli “insegnanti” che vediamo in questi giorni qui all’Università di Tōkyō, così vorrei che mi si perdonasse l’aver usato questo termine51.

L’uditorio rispose con un applauso. Il dibattito, viste le ideologie così distanti, fu tutt’altro che un confronto basato sulla logica e sul raffronto razionale. Nondimeno, Mishima fece numerosi tentativi di convertire il movimento studentesco. Cercò di convincerli che l’imperatore, non quello attuale, ma quella figura dell’ “imperatore culturale” da lui sempre sostenuta, rappresentava il simbolo e l’unica fonte di quell’energia rivoluzionaria che essi stavano cercando. Ovviamente non si arrivò a nulla, restando gli studenti convinti che l’imperatore non fosse altro che il simbolo dello sfruttamento delle masse e del reazionarismo. A giugno la casa editrice Shinchōsha pubblicò il dibattito che diventò un piccolo best seller, i cui diritti Mishima dette per metà al movimento studentesco.

51

Cit. in John Nathan, Op. cit., p. 249.

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Il tempio dell’alba Durante questo periodo di intensa attività “politica”, Mishima non trascurò minimamente l’“altra” importante parte di sé, e tra il 1969 e il 1970 la sua concentrazione letteraria fu quasi tutta riversata nella tetralogia Il mare della fertilità. In origine aveva deciso di non pubblicare il ciclo dei quattro romanzi finché non fosse completato, ma nel febbraio 1969, forse per attirare maggiormente l’attenzione della critica, autorizzò la casa editrice Shinchōsha a pubblicare i primi due volumi, Neve di primavera e A briglia sciolta. Nel luglio del 1968 stava lavorando al terzo volume, Il tempio dell’alba, per certi versi quello più impegnativo dal punto di vista della ricerca filosofico-religiosa, avendo delle parti centrali costruite come vere e proprie disquisizioni buddhistiche. L’approfondito studio sulla religione buddhista e sull’induismo, a parte l’interesse che probabilmente rivestiva per l’autore, aveva uno scopo ben preciso: quello di conferire un fondamento “credibile” all’idea centrale del romanzo, la reincarnazione. Senza un approccio di carattere scientifico l’atmosfera dell’opera rischiava di rarefarsi in un’aura di sapore favolistico. All’inizio del romanzo, siamo nel 1941, Honda ha raggiunto l’età di quarantasette anni ed è diventato un avvocato di successo. La sua non è però una vita felice, almeno dal punto di vista spirituale. Nonostante la sua apparente giovialità e serenità, è costantemente dominato da una visione nichilistica dell’esistenza. Per seguire un’importante vertenza giudiziaria si reca fino a Bangkok in Thailandia, e portando con sé il libro dei sogni di Kiyoaki, approfitta di questa occasione per cercare di prendere contatti con i parenti di due principi thailandesi, che un tempo erano stati compagni di scuola suoi e del suo amico alla Scuola dei Pari di Tōkyō. Isao, poco prima di morire, in sogno aveva fatto riferimento a un luogo lontano e caldo nei paesi del sud; e poiché egli è fermamente convinto che Isao sia stato la reincarnazione di Kiyoaki, sente che la successiva reincarnazione potrebbe proprio essere in questo lontano, caldo paese tropicale. Grazie all’aiuto della sua guida-interprete, il decadente artista fallito Hishikawa, ottiene il permesso di far visita alla famiglia reale e di incontrare Ying Chan, una principessina thailandese di sette anni, che si dice essere afflitta da un grave disturbo mentale. È la

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figlia di uno dei due principi thailandesi conosciuti da Honda tanti anni prima, e la piccola, a causa della sua condizione, vive relegata in un bellissimo palazzo circondato da un altrettanto bellissimo giardino, in compagnia delle sue ancelle, che le sono vicine e l’accudiscono costantemente. Durante il loro primo incontro, la principessina ad un tratto si libera dalla custodia delle sue ancelle e si lancia verso l’imbarazzato Honda, si avvinghia alle sue gambe e con la voce rotta dal pianto gli confessa di essere giapponese e di essere morta otto anni prima – Isao si era suicidato proprio otto anni prima –. Honda nonostante lo sbalordimento trova la forza d’animo di farle domande sulla data della morte sia di Kiyoaki che di Isao, e dopo le risposte precise della principessina, pur non avendo avuto ancora l’opportunità di verificare la presenza dei tre emblematici nei sul costato, sembra non nutrire più molti dubbi sul fatto che lei rappresenti la terza reincarnazione. Dopo poco, l’azienda commerciale che sta assistendo a Bangkok per la vertenza giudiziaria, gli offre la possibilità di recarsi nel subcontinente indiano. Giunge così a Calcutta, dove una serie di esperienze – come la visione di un sacrificio rituale in cui un capretto scalciante viene decapitato da un giovane dalla camicia insanguinata – lo portano a intime riflessioni sull’esistenza e sulla convivenza in India del sordido e del sacro, elementi che in Giappone restano rigorosamente separati. E le sue riflessioni trovano ulteriore conferma a Benares, città dove sporcizia e santità sono intimamente legate, e dove assiste alla cremazione pubblica dei cadaveri. Dinanzi ai suoi occhi la materia organica si deforma e quasi s’anima di una nuova esistenza, e quando sulla pira non restano che i teschi dei cadaveri, vede un uomo che con una canna di bambù s’adopera a frantumare i resti delle ossa sollevando un suono secco che riecheggia sui muri di un vicino tempio. Ma questa visione ferale non desta nel suo cuore ribrezzo o mestizia; al contrario, sembra animare in lui un sentimento di gioia verso l’esistenza e la morte, che altro non è che una parte di essa. Attraverso quello spettacolo Honda sente che gli è stata svelata una verità suprema, e che l’idea del karma e della reincarnazione si è ulteriormente consolidata in lui. Poi Honda torna a Bangkok, si lascia dietro le sue speculazioni filosofiche e le sue considerazioni sull’esistenza, per calarsi di nuovo in una mediocre quotidianità fatta di trattative legali; spesso con connazionali spregiudicati e ingordi, che nulla hanno a che vedere con la sua ricerca spirituale e, soprattutto, con il carattere puro e schietto di Kiyoaki e Isao. Un leggero conforto gli viene da un piccolo libro di poesie scritto nel 1932 da un rivoluzionario thailandese che non è riuscito a portare a termine i suoi piani di rivolta. Egli sente che costui avrebbe potuto essere in perfetta sintonia con Isao, ed essendo convinto che la piccola principessa Ying Chan

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sia la reincarnazione del defunto estremista di destra, gliene fa dono nella speranza di consolarlo attraverso di lei. Prima di ripartire per il Giappone, Honda si reca un’ultima volta in visita dalla principessina thailandese; il loro distacco è quasi drammatico, la piccola si avvinghia a lui ribadendogli la propria nazionalità giapponese e supplicandolo di portarla via con sé. Rientrato in Giappone scoppia la guerra, e durante il periodo del conflitto Honda dedica la maggior parte del suo tempo libero a uno studio attento e meticoloso delle scritture buddhiste e della legge del karma. È questa l’occasione per Mishima di enunciare il principio filosofico, che insieme alla reincarnazione, diventa il nucleo fondamentale del “pensiero” dell’opera: la teoria yuishiki. Lo scrittore aveva studiato con molta attenzione questo pensiero filosofico recandosi, nel novembre del 1965 quando aveva iniziato a scrivere il primo volume della tetralogia, nel tempio Enshōji di Nara; quest’ultimo sarebbe diventato il modello del Gesshūji, il tempio dove entra Satoko. La yuishiki era necessaria per dare consistenza e profondità all’idea della reincarnazione; questa sosfisticata e complessissima teoria comprendeva la metafisica stessa della reincarnazione. L’idea della reincarnazione non è caratteristica solo dei paesi buddhisti, ma anche dei paesi del medio e del vicino Oriente e dell’antica Grecia, e se arriviamo ai tempi moderni essa fa sentire la sua eco anche nei pensieri filosofici “recenti”, come la teoria dell’“eterno ritorno” di Nietzsche. Ma l’introduzione specifica della teoria yuishiki nell’opera dava peculiare profondità al concetto di reincarnazione, che veniva così collegato direttamente al problema della “conoscenza”. La yuishiki è una teoria della conoscenza buddhista secondo cui tutte le espressioni del mondo fenomenico non sono altro che espressioni della coscienza. Secondo questa teoria l’esistenza di tutte le cose del mondo si basa sull’interazione della capacità cognitiva non cosciente e della coscienza profonda (ālaya), non ancora divise e dimoranti nel profondo dell’anima. Tutto ciò viene spiegato con un processo di causa ed effetto reciproco e contemporaneo dei semi che la coscienza ālaya estrae dal mondo fenomenico e dai fenomeni da essi derivanti. E questa conoscenza, che nasce e muore attimo dopo attimo, costruisce l’esistenza temporale. Ogni evento accade attraverso questo processo, e anche la reincarnazione si realizza attraverso la forza di tale conoscenza. ...la coscienza ālaya crea le illusioni del mondo in cui viviamo. Le radici di tutta la conoscenza, che comprendono in sé tutti gli oggetti della percezione, fanno sì che questi oggetti si materializzino1. 1

Mishima Yukio, Il tempio dell’alba, in Mishima Yukio – Romanzi e racconti, vol II, cit., p. 1259.

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Tutto ciò che circonda Honda viene quindi presentato come frutto delle sue percezioni interiori. La stessa principessa Ying Chang trae vita da esse. Il mondo presente era stato creato dalle percezioni di Honda, e così Ying Chan ne faceva parte. Secondo i precetti della scuola yuishiki, era un mondo creato dalla coscienza ālaya di Honda2.

La seconda metà del romanzo è ambientata in Giappone, siamo nel 1952 e il sessantenne Honda ha raggiunto una posizione socio-economica di tutto riguardo; avendo inaspettatamente riscosso dei profitti inimmaginabili dal risarcimento di vecchie terre espropriate è diventato ricchissimo. Tra le varie agiatezze della sua esistenza c’è una bella villa in un rinomato posto di villeggiatura di nome Gotemba, dove spesso organizza serate con amici e conoscenti. Ma in Honda è avvenuta una sorta di trasformazione, o meglio si è andata accentuando una sua predisposizione nei confronti dell’esistenza. Honda è sempre stato un “osservatore” della vita, colui che ha sempre seguito e inseguito i protagonisti della vita, come Kiyoaki e Isao. Ora la sua condizione “passiva” di osservatore si è spostata verso una forma “attiva” e morbosa di voyeurismo, che lo spinge a spiare, attraverso un foro praticato nella libreria del suo studio, nella camera da letto degli ospiti. Altro personaggio interessante è Hisamatsu Keiko, un altro di quei personaggi femminili dotati di forza e determinazione che Mishima non poche volte ha inserito nelle sue opere3. Keiko è un’avvenente signora giapponese, a cui spesso si accompagna Honda, che abita in una villa vicina e che ha per amante un ufficiale americano delle Forze di occupazione. Personaggio che incarna abilmente aspetti fisici e psicologici sia tipicamente giapponesi che tipicamente occidentali, ereditati non solo dai rapporti con gli occidentali della sua famiglia, ma anche dalla sua stretta frequentazione con personaggi delle ambasciate straniere. L’attraente signora, tra l’altro, oltre ad essere una donna estremamente fascinosa e sensuale che vive appieno la sua vita eterosessuale, non disdegna i rapporti saffici. Altri personaggi abbastanza ben caratterizzati sono Makiko, la figlia del generale Kito – che un tempo (in A briglia sciolta) aveva avuto una rela2

Ivi, p. 1453. Nella stessa tetralogia Satoko si è subito rivelata donna di straordinaria energia e decisione; ma anche altri personaggi femminili, come la moglie del marchese de Sade nel dramma Madame de Sade, o Kazu di Dopo il banchetto – che Angus Wilson ha definito “una donna di dimensioni balzachiane e verità flaubertiana” –, testimoniano questa propensione di Mishima a ritrarre le sue eroine più affascinanti con tratti di grande forza e determinazione. 3

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zione con Isao, e che ora è diventata una poetessa di successo –, e la sua molto poco dotata allieva, la signora Tsubakihara, bersaglio degli impietosi strali dello scrittore, che si diverte sempre tanto a ritrarre gli artisti falliti e gli pseudointellettuali che si danno arie da geni incompresi. Tra questi lo studioso di letteratura tedesca Imanishi, ipotetico autore di un romanzo di cui parla a tutti, ma che non scrive mai, intitolato Il millennio del sesso, una cinica parabola sul rapporto tra bellezza e bruttezza, spirito e materia, che si articola in una civiltà “ideale” dominata da Eros e Thanatos. Imanishi aveva battezzato il regno della sua fantasia “Il Paese delle melegrane”. Gli aveva dato quel nome per i semi rosso rubino che dirompevano dalla polpa del frutto. Affermava di viaggiare per il suo regno sia in sogno che da sveglio, e ognuno gli chiedeva le ultime notizie al riguardo. “Cosa accade in questi giorni nel ‘Paese delle melegrane’?” “La popolazione è come sempre sotto controllo. Tutti i problemi nascono a causa dell’alta percentuale di incesti. Una donna è spesso zia, madre, sorella e cugina dello stesso uomo. Come risultato si ha che la metà dei bambini è meravigliosa e l’altra metà orribile e deforme. I bambini belli di entrambi i sessi sono separati in tenera età da quelli brutti e riuniti in un posto chiamato il ‘Giardino dei preferiti’. Qui vi è ogni sorta di agio e comodità, un vero e proprio paradiso terrestre. Un sole artificiale emana costantemente il numero ideale di raggi ultravioletti. Nessuno indossa abiti, e tutti si dedicano al nuoto o ad altre discipline fisiche. I fiori sbocciano a profusione e i piccoli animali e gli uccelli non sono mai chiusi in gabbia. I bambini mangiano ottimi cibi nutrienti, ma nessuno di loro ingrassa perché sono sottoposti a controlli medici settimanali. Non possono far altro che crescere sempre più sani e belli. Ma la lettura è strettamente proibita. Rovina la bellezza naturale, si tratta quindi di un divieto comprensibile. Ma, quando diventano adolescenti, vengono portati via dal giardino una volta alla settimana per trasformarsi in oggetti di divertimento sessuale per quelli brutti che vivono all’esterno. Dopo due o tre anni di questa attività vengono uccisi. Non pensate che troncare la vita di un essere bellissimo mentre è ancora giovane e florido sia una profonda forma di amore? La forza creativa di tutti gli artisti del paese viene utilizzata per elaborare vari metodi di uccisione. In pratica, vi sono teatri in tutto il paese dedicati all’assassinio sessuale, nei quali ai meravigliosi ragazzi e alle meravigliose ragazze viene imposto di interpretare i ruoli più svariati, ruoli che li conducono sempre alla tortura e alla morte. Ricreano ogni sorta di personaggi storici e mitologici che furono sadisticamente uccisi mentre erano ancora giovani e belli. Ma, ovviamente, vi sono anche creazioni del tutto nuove. Essi sono nobilmente trucidati in sontuosi e sensuali costumi, con meravigliose illuminazioni, splendidi scenari e stupenda musica. Di solito, diventano un oggetto di piacere per gli spettatori prima di essere definitivamente eliminati, dopodiché i loro corpi vengono divorati.

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Il cimitero? Il cimitero si trova proprio appena fuori al ‘Giardino dei preferiti’. È un posto bellissimo, dove i brutti e i deformi gironzolano fra le tombe nelle notti di luna, persi in romantico stato d’animo. Come lapidi funerarie sono erette statue dei defunti, così non esiste cimitero al mondo con così tanti meravigliosi corpi.” “Perché è necessario ucciderli?” “Perché subito si annoiano dei vivi. Gli abitanti del ‘Paese delle melegrane’ sono infinitamente saggi. Sanno molto bene che in questo mondo esistono solo due ruoli per gli esseri umani: quelli che ricordano e quelli di cui ci si ricorda. Ora che vi ho detto tutto questo, dovrei darvi qualche informazione riguardo alla religione. Questi costumi sono basati su credenze religiose. Nel ‘Paese delle melegrane’ non credono nella reincarnazione. Perché il dio si manifesta nel supremo istante del climax sessuale, e la vera natura del divino dimora in quell’unica apparizione. Non c’è alcuna possibilità di diventare più belli dopo la rinascita, e ciò significa che la resurrezione non avrebbe alcun significato. È impensabile che una vecchia camicia sbiadita possa essere più bianca di una bella camicia nuova, non credete? Così le divinità del ‘Paese delle melegrane’ sono usate una volta e gettate via. La religione del paese è politeistica, ma con una sorta di carattere temporale; e un’infinità di dèi gettano via la loro esistenza totalmente fisica, svanendo non appena hanno trasformato in eternità quel momento supremo. Ora lo avrete capito: il ‘Giardino dei preferiti’ è una fabbrica di dèi. Per trasformare la storia di questo mondo in una catena di eventi meravigliosi, il sacrificio degli dèi deve continuare all’infinito. Questa è la loro teologia. Non trovate che sia razionale? Per di più, gli abitanti di questo paese non manifestano alcuna ipocrisia; bellezza e attrazione sessuale sono sinonimi. Sono tutti ben consapevoli che solo attraverso il desiderio sessuale ci si può accostare a Dio, cioè alla bellezza. Si possiede una divinità solo attraverso il desiderio sessuale, e il possesso sessuale si realizza all’apice del piacere. Ma l’orgasmo non perdura, così il possesso può avere un solo significato: l’unificazione di ciò che non dura con la transitorietà dell’oggetto del desiderio sessuale. Il metodo più sicuro è l’eliminazione di questo oggetto all’apice del piacere. Di conseguenza, gli abitanti del paese sono pienamente coscienti che il possesso sessuale raggiunge il suo perfetto compimento con l’assassinio e il cannibalismo. È di certo stupefacente che questo paradosso del possesso sessuale controlli anche la struttura economica del paese. Regola fondamentale del possesso è ‘uccidere l’amato’; ciò significa che il completamento di ogni possesso coincide con la cessazione di esso, e persistere nel possesso non è altro che una violazione dell’amore. Il lavoro fisico è consentito all’unico scopo di creare un corpo bellissimo, e i brutti, ovviamente, ne sono esentati. La produzione industriale è completamente automatizzata e non richiede energia umana. Le arti? Le uniche forme d’arte esistenti sono da ricercare nelle infinite varietà del teatro di morte e nella costruzione delle statue delle bellissime vittime.

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Dal punto di vista religioso, lo stile di base deve essere il realismo sensuale; ogni astrazione è totalmente bandita. È altresì strettamente proibito inserire la ‘vita’ nell’arte4.

Anche se è chiaro il tentativo di Mishima di ridicolizzare la figura di Imanishi, non possiamo non sentire l’eco delle fantasie sadomasochistiche di Confessioni di una maschera. Anche se qui meglio organizzate e razionalizzate in un sistema che rappresenta un’“ideale” e paradossale weltanshauung estetico-erotica dello scrittore. Già in un’altra occasione, all’inizio del volume, lo scrittore aveva usato un personaggio “negativo” per esprimere le sue concezioni estetico-filosofiche. È attraverso i discorsi decadenti e pomposi della guida di Honda, l’artista fallito Hishikawa, che Mishima in tono volutamente esagerato da ipertrofica retorica, per ridicolizzare ulteriormente un artista incapace di creare, espone in sostanza la propria visuale dell’arte. “L’arte è un immenso tramonto,” ripetè (Hishikawa). “È l’olocausto di tutte le cose più belle di un’era. Persino la logica più trasparente che ha prosperato a lungo nella luce del sole, viene totalmente distrutta dalla folle esplosione dei colori del tramonto. Anche la storia, in apparenza immersa in un flusso eterno, all’improvviso prende coscienza della propria fine. La bellezza si erge davanti agli occhi di tutti, rendendo le azioni umane completamente inutili. Davanti allo splendore del tramonto, davanti al folle avanzare delle nuvole crepuscolari, tutte le stupide idee su un eventuale ‘futuro migliore’ di colpo svaniscono. L’attimo presente è tutto; l’aria è pregna di tinte velenose. Che cosa è iniziato? Nulla. È soltanto la fine di tutto. Non vi è alcuna sostanza in tutto ciò. Ovviamente, la notte ha una sua intinseca natura: l’essenza cosmica della morte e dell’esistenza inorganica. Anche il giorno ha una sua propria natura. Tutto ciò che è umano appartiene al giorno. Ma non vi è alcuna sostanza nel fuoco del tramonto. È solo un capriccio. Un vuoto e solenne capriccio di forme, luci e colori. Guardi... guardi quelle nuvole di porpora. È raro che la natura offra un banchetto di simili colori. Le nuvole del tramonto si fanno beffa di ogni simmetria, ma un simile sovvertimento dell’ordine è strettamente connesso con la distruzione di qualcosa di molto più radicale. Se le serene e candide nuvole del giorno possono essere paragonate all’esaltazione della morale, questi accesi colori, per contro, con la morale non hanno alcun rapporto. In ogni epoca, l’arte preannuncia la più grande visione escatologica; prima di ogni altra cosa essa predispone e incarna la fine. Cucina raffinatissima, vini prelibati, forme eccelse, abiti sontuosi, nell’arte vengono fuse tutte le stravaganze che una generazione può sognare. Cose che attendono con ansia di 4

Mishima Yukio, Il tempio dell’alba, cit., pp. 1310-1313.

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assumere una forma. Una forma che in breve tempo assedierà e concquisterà ogni vita umana. Non è forse questa l’intenzione del tramonto? Ma per quale scopo? Nessuno; dietro tutto ciò non vi è scopo alcuno. L’elemento più delicato, il più meticoloso giudizio estetico del più minuto dettaglio – mi riferisco ai contorni indescrivibilmente delicati di una di quelle nuvole arancio – è in stretta relazione con l’universalità del vasto firmamento. I suoi aspetti più intrinseci sono espressi in colori e, uniti a quelli esteriori, si trasformano nel fuoco del crepuscolo. In altre parole, il tramonto è espressione. L’unica funzione del tramonto è l’espressione. In esso, ogni più lieve umana timidezza, gioia, rabbia, contrarietà è espressa su scala celeste. In questa grande operazione i colori delle viscere umane, che abitualmente non si vedono, si manifestano e si spandono nel cielo intero. La più sottile tenerezza e cortesia si unisce al ‘dolore universale’, e, alla fine, l’afflizione si trasforma in un’orgia di breve durata. I numerosi frammenti di logica, a cui gli uomini si sono così ostinatamente tenuti stretti durante il giorno, vengono travolti tutti dall’immensa esplosione di emozioni del cielo e dalla spettacolare soddisfazione delle passioni, e allora gli esseri umani percepiscono la vanità di ogni sistema. In pratica, ogni cosa viene espressa nell’arco di dieci, quindici minuti... Poi finisce tutto. Il fuoco del tramonto è lesto. Possiede la natura del volo. Forse rappresenta le ali del mondo. Come le ali di un colibrì che mutano di colore nelle sfumature dell’arcobaleno mentre il piccolo uccello svolazza qui e là succhiando il nettare dei fiori, il mondo ci lascia intravedere la propria capacità di spiccare il volo; tutte le cose nella luce del tramonto volano in un rapimento estatico... e poi ricadono al suolo e muoiono”5.

Che ambiguità! In entrambi i casi ci sembra di sentir parlare Mishima stesso, eppure le parole vengono messe in bocca a personaggi falliti, personaggi mediocri e dal carattere del tutto antitetico al suo. Era forse la voce della coscienza che lo richiamava per le sue idee “cattive” e provocatorie? E non potendo comunque resistere al desiderio impellente di esprimerle, trovava il coraggio di farlo, e in tono così tronfio, solo attraverso personaggi “negativi” e ridicoli? Anche questo senza dubbio rappresenta un’ennesimo tassello da aggiungere al mosaico Mishima. Intanto la principessina Ying Chan è cresciuta e non ricorda più nulla del periodo dell’infanzia in cui sosteneva di essere la reincarnazione di un giapponese. È diventata una bellissima diciottenne e, come un tempo fecero i due principi thailandesi suo padre e suo zio, si è trasferita in Giappone per studiare. Honda ha subito ripreso i contatti con lei e una sera la invita ad una 5

Ivi, pp. 1137-1139.

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cena nella villa di Gotemba insieme a Keiko e ad altri ospiti. Il desiderio più forte di Honda è scoprire se sul corpo della bellissima Ying Chan compaiono i tre nei rivelatori. Con questo proposito, d’accordo con Keiko, spinge il nipote di quest’ultima, giovane attraente ed esperto con le donne, a entrare di notte nella camera di Ying Chan – la camera attigua al suo studio – per cercare di sedurla. Honda dallo spioncino della libreria osserva ogni movimento nella speranza di fare la sua scoperta, ma il piano va a rotoli, perché la ragazza fugge disgustata dalle avances del ragazzo andandosi a rifuggiare nella vicina villa tra le braccia di Keiko. Honda per perseguire il suo scopo fa addirittura costruire una piscina nel suo giardino per invitarvi Ying Chan e osservarla in costume da bagno, ma anche questo tentativo fallisce. Alla fine invita Keiko e Ying Chan a trascorrere la notte nella sua villa, e assegna loro la famosa camera attigua al suo studio. Quella notte Honda assiste al leggiadro e febbrile spettacolo delle evoluzioni dei due superbi corpi avviluppati nel loro intreccio saffico, e a coronamento della sua paziente attesa vede nettamente sulla pelle bruna di Ying Chan i tre fatidici nei. Nella luce soffusa membra inestricabilmente aggrovigliate si torcevano sul letto proprio davanti ai suoi occhi. Un corpo bianco e formoso e uno dalla bruna carnagione vi giacevano con le teste in direzioni opposte, dando sfogo ai loro lascivi desideri. È una posizione che si assume naturalmente quando l’anima legata alla carne e il cervello che genera l’amore tentano di trovare l’equilibrio, raggiungendo il punto più estremo per gustare il vino fermentato da quell’amore. Due indistinte chiome nere erano intimamente premute contro due neri monticelli pubici, anch’essi ricoperti di ombre. Le fastidiose ciocche scomposte ricadenti sulle guance si erano trasformate in marchi d’amore. Cosce levigate e ardenti giacevano in intimo contatto con guance altrettanto lisce e brucianti, mentre i soffici addomi si gonfiavano come piccole insenature illuminate dalla luna. Non riusciva a distinguere le loro voci, ma lungo i torsi vibravano singhiozzi, che non erano né di piacere, né di dolore. I seni abbandonati dall’amante volgevano con innocenza i capezzoli verso la luce, tremando a tratti come percorsi dalla corrente elettrica. La profondità della notte celata nelle areole intorno ai capezzoli, la distanza del piacere che faceva tremare i seni, testimoniavano il fatto che ogni atomo dei loro corpi era ancora isolato in un’esasperante solitudine. Lottavano febbrilmente per avvicinarsi ancora, verso una profonda intimità, per fondersi l’una nell’altra, ma senza successo. Lontane, le dita dei piedi di Keiko, laccate di rosso, si flettevano come se danzassero su una lastra rovente, sebbene non toccassero che il vuoto crepuscolo. (...) Nel vortice di un infinito moto ondoso, tutto si dirigeva verso una vetta ancora sconosciuta. Le due donne sembravano lottare disperatamente per raggiungere confini estremi, che non avevano mai sognato o sperato di raggiungere. Honda ebbe la sensazione che ci fosse una guglia sconosciuta sospesa nello

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spazio della scura stanza, una sorta di brillante diadema. Era probabilmente il diadema del plenilunio thailandese sospeso sopra quei due corpi in preda alle convulsioni amorose; solo gli occhi di Honda potevano scorgerlo. I corpi delle due donne si stendevano e si contraevano alternativamente, poi crollavano per immergersi di nuovo nel sudore e nei sospiri. Il diadema fluttuava indifferente nello spazio, quasi raggiunto dalle loro dita tese. Quando la sommità intravista, quello sconosciuto confine d’oro, fu pienamente manifesta, la scena si trasformò completamente, e Honda vide le due donne avvinghiate sotto i suoi occhi solo nella loro tormentosa sofferenza. Erano fustigate dall’insoddisfazione della carne, le sopracciglia aggrottate erano colme di dolore e le loro membra ardenti sembravano torcersi nel tentativo di fuggire da quel tormento. Ma non avevano ali. Continuavano la loro inutile lotta per sottrarsi ai loro legami, alle loro sofferenze, ma la loro carne le tratteneva saldamente. Solo l’estasi avrebbe potuto liberarle. Il meraviglioso seno bruno di Ying Chan era bagnato di sudore, quello destro schiacciato e quasi sformato sotto il corpo di Keiko, mentre il sinistro, innalzandosi vigoroso, giaceva voluttuosamente sul braccio sinistro con il quale accarezzava il ventre della compagna. Su quel monticello animato da un costante tremolio il capezzolo se ne stava assopito, e il sudore illuminava di riflessi quel globo, come fosse stato ricoperto di pioggia. In quel momento Ying Chan, forse gelosa della libertà di movimento di una coscia di Keiko, sollevò alto il braccio sinistro e l’afferrò, come a reclamarne il possesso. La premette fermamente contro il capo, come se avesse potuto fare a meno di respirare. L’imponente coscia bianca le coprì completamente il viso. L’intero fianco di Ying Chan fu scoperto. Sulla sinistra del suo seno nudo, in un punto che fino allora era stato nascosto, apparvero distintamente tre minuscoli nèi, come le Pleiadi nel celeste crepuscolo della sua bruna carnagione, che ricordava gli ultimi bagliori del tramonto6.

Quella notte stessa, evento purificatore e catartico, scoppia un incendio che riduce in cenere la villa di Honda. Poi Honda perderà ogni traccia di Ying Chan e quindici anni dopo, siamo ormai giunti al termine del volume, viene a sapere dalla sorella gemella della ragazza che quest’ultima è morta all’età di vent’anni morsa da un cobra. Testimonianza ulteriore dell’autenticità della sua reincarnazione, sia per l’età identica alle altre due reincarnazioni, sia per il tipo di morte che concretizzava un sogno di Isao: in A briglia sciolta il giovane aveva sognato di essere morso a morte da una serpe verde7. 6

Ivi, p. 1475-1478. Di nuovo ricorre il simbolo del serpente. Oltre ad essere l’immagine di chiusura – l’enorme serpente che circonda la terra inghiottendo la propria coda – del famoso saggio Sole e acciaio, c’è da dire che Mishima ha spesso evocato questo simbolo con colleghi e giornalisti, parlando di una “serpe verde” che minacciava il Giappone. 7

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Il tempio dell’alba è stato valutato dalla critica letteraria il più debole dei quattro volumi della tetralogia, e facendo un discorso più globale, la critica si è sempre espressa molto più positivamente verso i primi due volumi che non verso gli ultimi due. In effetti ad un’analisi attenta, dal punto di vista tecnico-strutturale, i primi due volumi sono molto meglio costruiti rispetto agli ultimi due, ma forse quello che la critica letteraria non dovrebbe dimenticare è che un’opera letteraria non è solo una costruzione strutturale e stilistica, ma soprattutto la rappresentazione del mondo interiore di un artista, soggetto a leggi di mutabilità che lo conducono alternativamente nel territorio dell’ordine e del caos. Variazioni che molto spesso si riflettono nella struttura della sua opera e che, soprattutto nel caso dei grandi scrittori, ne esaltano il vigore e il potere rappresentativo. Talvolta qualcuno non lo dimentica: In pratica, se si considera il “livello di perfezione” dell’opera, non c’è dubbio che i primi due volumi, e in particolare il secondo volume A briglia sciolta, formano un mondo narrativo molto più stabile. Ma non significa necessariamente che, dal punto di vista dell’esperienza letteraria, i primi due volumi raggiungano un punto più lontano. Anzi, se si considera la letteratura come qualcosa che va al di là della “perfezione” – ovvero al di là del carattere di “coerenza” – di un quid che è stato prodotto semplicemente come opera, allora abbiamo la sensazione che proprio il “fallimento” degli ultimi due volumi evochi davvero un autentico “accadimento” letterario8.

Ma ritornando nello specifico al Tempio dell’alba, quello che non ha mai convinto sono le pagine dedicate agli aspetti filosofico-religiosi. È vero che vengono fatti interessanti paralleli tra le diverse culture, comprese quella greca e quella romana, ma le lunghe e complicatissime spiegazioni riguardanti il karma, il buddhismo mahayana, e la coscienza ālaya, sede di ogni percezione dell’individuo, sfidano la pazienza e l’attenzione del lettore più devoto: In primo luogo, il termine sanscrito per yuishiki, vijñaptimātra, “la sola coscienza”, fu usato in India per la prima volta da Asanga. La vita di Asanga era già in parte avvolta dalla leggenda al tempo in cui il suo nome divenne conosciuto in Cina, agli inizi del VI secolo, attraverso il Jingangxian lun. La teoria yuishiki trova origine nei sūtra dell’Abhidharma e, come vedremo, una gāthā, o “verso”, di queste scritture costituisce il nucleo centrale della concezione yuishiki. Asanga sistematizzò i principi della teoria nella sua principale opera, il Mahāyānasamgraha śastra, Summa del Grande veicolo. È opportuno notare che 8

Kobayashi Yasuo, “Mu no tōshihō - Hōjō no umi ron nōto” nota 1, Yurika shi to hihyō, maggio, 1986, p. 163.

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Abhidharma è un termine sanscrito che indica la terza sezione della trilogia del canone buddhista comprensivo di sūtra, regole e trattati scolastici9.

O ancora, a proposito della teoria filosofica centrale del volume: Secondo la dottrina yuishiki, i semi del potere karmico – semi karmici – sono cause indirette, o “karma ausiliario”, e la coscienza ālaya stessa è nel medesimo tempo corpo migratorio e forza generatrice del samsāra e della reincarnazione. (...) I semi karmici del bene e del male che essa contiene si materializzeranno in futuro in diverse forme, a seconda che siano la ricompensa di buone o cattive azioni del passato. Questa è la differenza tra le dottrine della scuola yuishiki e della scuola Kusha, insistendo, invece, quest’ultima sul potere esteriore del karma. La scuola yuishiki ha sviluppato il suo originale concetto di una struttura del mondo basata sull’idea che i semi della coscienza ālaya generino questa coscienza e formino la legge naturale (stesse cause producono stessi effetti), e che tali semi, per mezzo dei semi karmici, producono la legge morale (cause differenti producono differenti effetti)10.

Dissertazioni di questo tipo si stendono per intere pagine e, secondo alcuni critici, oltre a determinare un calo del ritmo della narrazione, danno una sensazione di artificioso “collage”, atto esclusivamente a dare, come abbiamo già detto, un’aura “scientifica” e credibile a ciò che altrimenti apparirebbe solo come una bella favola moderna. Mishima, secondo questi critici, non avrebbe creduto affatto alla reincarnazione – ne è prova l’atteggiamento di estrema freddezza e distacco con cui la tratta –, ma l’avrebbe inserita solo per motivo “tecnici”. A noi sembra difficile essere così categorici con uno scrittore così sfuggente, e stabilire nettamente un confine tra il credere e non credere, l’uso strumentale o meno di un tema così profondo e interessante. Forse anche nei confronti del buddhismo e della reincarnazione, Mishima viveva lo stesso rapporto conflittuale che viveva con la psicoanalisi: fascino verso l’approccio “scientifico” dell’impalpabile mondo dell’anima e dell’universo invisibile, e, al tempo stesso, rifiuto di sistemi così “esatti” e deterministici che lasciavano poco spazio alla volontà individuale. Ad ogni modo, sia nel caso che Mishima credesse realmente nella reincarnazione e gli avesse dedicato tanto studio che ora riportava minuziosamente nel romanzo per una questione di fede, o se tutto ciò fosse solo un espediente tecnico su cui montare l’impalcatura del suo capolavoro letterario, riteniamo indispensabile la presenza di questa parte “teorica”. Non 9 10

Mishima Yukio, Il tempio dell’alba, cit., pp. 1256-1257. Ivi, p. 1258-1259.

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siamo d’accordo, peraltro, sul fatto che essa sia la causa di un rallentamento del ritmo della narrazione, ma piuttosto più propensi a definirla una pausa preparatoria – e tutto sommato neanche tanto lunga: non più di venticinque pagine sul totale delle oltre trecento pagine del volume – al precipitare degli eventi della parte finale del volume e dell’opera tutta.

Gli ultimi drammi Nonostante il grosso impegno riversato in quella che sarà la sua opera più lunga e ambiziosa, lo scrittore non mancò di produrre nel 1969 il suo annuale romanzo a puntate, un libro di saggi popolari, il suo primo e unico balletto, Miranda, e due drammi in tre atti, scritti per la nuova compagnia teatrale Rōman gekijō, fondata insieme al regista Matsuura Takeo. Il primo dramma, La terrazza del re lebbroso (Raiō no terrasu), si ispirava a una leggenda di cui aveva sentito parlare durante un viaggio in Cambogia nel 1965. Il giovane re Khmer Jayavarman III, protagonista della leggenda, dopo aver iniziato la costruzione del tempio di Bayon ad Angkor Wat, si era ammalato di lebbra e si era lentamente consumato fino alla morte man mano che il tempio veniva portato a compimento. Mishima restò così affascinato dalla leggenda – in cui probabilemente lesse la metafora dell’artista che brucia tutto se stesso nella creazione della sua opera – che gettò giù il dramma in una sola notte. L’analogia tra la “decomposizione” e il “rigoglioso splendore”, come ha notato John Nathan, era un elemento della tradizione tardo romantica europea di cui lo scrittore era pienamente cosciente; infatti in una nota sul dramma fece accenno ad un altro episodio letterario in cui “nobile elevazione” e “lebbra” erano unite: Count Portland di Villiers de L’Isle-Adam11. Il dramma simboleggiava peraltro la lotta incessante tra il corpo e lo spirito, dove il primo trionfava inevitabilemente sul secondo. La scena finale rappresentava superbamente proprio questo conflitto, con un dialogo tra il Corpo, rappresentato dall’immagine del re nel pieno del suo fulgore e della sua forza che parlava con voce squillante, e dello Spirito, rappresentato dalla voce sforzata e sepolcrale dello stesso re, ammalato di lebbra e vicino alla morte. Il Corpo: O re, o re morente, riesci a vedermi? Lo Spirito: Chi è? Chi mi chiama dall’alto del tempio con questa voce 11

John Nathan, Op. cit., p. 251.

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giovane e fiera? Ho già sentito questa voce. Chi è che mi chiama? Il Corpo: Sono io. Mi vedi? Lo Spirito: Come mai potrei vederti! I miei occhi non vedono. Il Corpo: I tuoi occhi non vedono? E a cosa ti servono gli occhi? Non era forse l’orgoglio dello spirito il poter vedere senza bisogno degli occhi? Lo Spirito: Che parole impietose. Allora chi sei? Il Corpo: Sono re Jayavarman. Lo Spirito: Che assurdità! Quello è il mio nome. Il Corpo: Noi dividiamo lo stesso nome, o re. Io sono il tuo corpo. Lo Spirito: E allora io chi sarei? Il Corpo: Tu sei il mio spirito. Lo spirito che ha deciso di costruire questo tempio di Bayon, niente di più. Ciò che avanza verso la distruzione non è il corpo del re. Lo Spirito: Il mio corpo si è decomposto e distrutto. A parlarmi dall’alto del cielo azzurro con voce così giovane, fresca e tracotante non può essere il mio corpo. Il Corpo: Cosa dici! Il tuo corpo non ha mai sofferto, né si è mai distrutto. Trabocca della luce della giovinezza, è carico di energia ed è eterno come una statua d’oro. L’odiosa malattia è solo un’allucinazione dello spirito. Come potrebbe il giovane corpo di un re trionfante e valoroso essere attaccato dalla sofferenza e dalla malattia? Lo Spirito: Ma cosa è riuscito a fare il corpo? Quali opere immortali ha realizzato? A progettare questo tempio, a costruirlo, a lasciare il suo nome per l’eternità, a porre sul terreno qualcosa che anche mille anni dopo farà fremere l’anima di coloro che lo guarderanno, questa bellezza, questa solennità, ciò che ha realizzato tutto ciò non sono le pietre. Le pietre sono solo materiali. È stato lo spirito a realizzare il Bayon. Il Corpo: (con una risata forte e chiara) E adesso quello spirito non può neanche vederlo il Bayon. Perché lo spirito dipende dagli occhi del suo corpo. Lo Spirito: Ti sbagli, posso anche fare a meno di vederlo il Bayon. Perché il Bayon ormai risplende dentro di me. Il Corpo: Risplende dentro di te, dici? Ma se è solo la fiamma di una candela accesa nelle tenebre che si può spegnere da un momento all’altro. Rifletti: se fosse stato solo sufficiente che il tempio risplendesse nello spirito, non sarebbero stati necessari tutto quel tempo e le braccia di quegli uomini per edificare questa imponente costruzione di pietre. Lo Spirito: Non è così. Lo spirito anela sempre alla forma. Il Corpo: Questo perché tu non hai forma. La forma prende sempre a modello un corpo bello come me. Quando hai realizzato questo tempio hai forse preso a modello il corpo di un lebbroso? Lo Spirito: Che stupidaggine! Il corpo di un lebbroso non è nulla. Il Corpo: Nulla, dici? Con tutta la sofferenza che ha patito! Lo Spirito: Non è nulla. Lo spirito è tutto. Il Corpo: E i putrescenti, i deformi, i ciechi... cosa pensi che siano? Proprio

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questi sono la forma dello spirito. Non sei tu ad aver contratto la lebbra. La tua esistenza stessa è la lebbra. Lo spirito è la lebbra. Tu sei nato lebbroso. Lo Spirito: Chiarezza, acume e una forza capace di guardare fino ai più remoti confini e alle profondità del mondo, questo è ciò che ha costruito il tempio di Bayon. Il corpo non possiede queste facoltà. Tu sei solo uno schiavo tenuto prigioniero in una gabbia di carne. Il Corpo: Sembra che tu sia convinto di essere molto più libero di me. Libero di non poter correre, di non poter saltare, di non poter cantare, ridere, combattere. Lo Spirito: Io corro attraverso i secoli. Tu puoi correre solo nello spazio. Il Corpo: Nello spazio c’è la luce. Si schiudono i fiori, ronzano le api. Un bel pomeriggio d’estate è come l’eternità. Rispetto a ciò, quello che tu definisci “tempo” è una galleria sotterranea umida e tenebrosa. Lo Spirito: Oh, Bayon, Bayon, mia amata creatura... Il Corpo: Perché lasciarlo qui? Perché farne un ricordo? Il Bayon è il presente. Un presente che splende in eterno. L’hai chiamato la tua amata creatura? Ma tu sei mai stato così bello da essere amato? Lo Spirito: Muoio. ...Ogni parola è un tormento. Oh, mio Bayon... Il Corpo: Muori pure... sparisci pure. Io continuerò la mia vita, iniziando ogni giorno a respirare la fresca brezza del mattino che riempie il mio vigoroso petto, facendo un bagno freddo, lottando, correndo come il vento, amando, ubriacandomi del vino più prelibato del mondo, contendendo e lodando la bellezza della forma, e la sera andrò a dormire non prima di aver accarezzato la mia pelle. Per tutto il giorno la vela del corpo filerà veloce gonfia di profumata brezza marina. Progettare sempre qualcosa, costruire sempre qualcosa: questo è stato il tuo male. Il mio petto risplende nel sole come un arco, l’acqua viene agitata dallo spietato remo della giovinezza; senza raggiungere nulla, senza mirare a nulla, come un colibrì fermo a mezz’aria, vibrare e battere le ali nel momento presente. Non hai voluto seguirmi, e questa è stata la tua malattia. Lo Spirito: Bayon... mio... mio Bayon. Il Corpo: Lo spirito muore, come muore un regno. Lo Spirito: È il corpo a morire. Lo spirito... è immortale. Il corpo: Ma sei tu che stai morendo. Lo Spirito: ...Bayon Il Corpo: Stai morendo. Lo Spirito: Oh... Ba...yon. Il Corpo: Che succede? Lo Spirito: ... Il Corpo: Non risponde. Sei morto? Lo Spirito: ... Il Corpo: È morto. (Si ode un coro di uccelli) Ecco. Lo spirito è morto. Il cielo azzurro risplende abbagliante. Alberi di palma e uccelli dalle ali meravigliose. Tutto a proteggere il Bayon. Tornerò

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a regnare su questo paese. La gioventù è eterna. Il corpo immortale. ...Ho vinto. Il Bayon sono io.12

La prima rappresentazione fu tenuta nel luglio del 1969 al Teatro imperiale e fu estremamente sontuosa, giungendo al suo acme con la strabiliante materializzazione del tempio di Bayon davanti agli occhi degli spettatori. Il secondo dramma del 1969 aveva il provocatorio titolo di Il mio amico Hitler (Wagatomo Hittora). Lo scrittore giocò molto sull’effetto che un tale titolo poteva avere sul pubblico; posò per un poster completo di svastiche e con la scritta: “Un diabolico inno al pericoloso eroe Hitler, dal pericoloso pensatore Mishima”. Il dramma si ispirava all’incidente Roehm del 1934, agli eventi precedenti e successivi alla “Notte dei lunghi coltelli”, e offriva un’interpretazione di Mishima su come Hitler fosse riuscito a ordire una congiura che in ventiquattr’ore aveva distrutto tutte le potenziali minacce, sia della sinistra che della destra. Il titolo faceva riferimento proprio a Ernst Roehm, capo delle camicie brune e vittima della congiura, che insiste a reputare Hitler suo “amico” fino all’ultimo momento, fino a quando, troppo tardi, si renderà conto della verità opposta. Il dramma, nonostante i numerosi sospetti della critica di sinistra, aveva un sapore chiaramente ironico, e puntava a evidenziare come “il totalitarismo spesso, all’inizio, si nasconda dietro la maschera di un moderato liberalismo”13. Mishima – come d’altronde D’annunzio – non poteva simpatizzare con una figura così opportunisticamente politica come Hitler, e a fugare ogni dubbio su una sua possibile simpatia per il dittatore tedesco furono le note al programma della rappresentazione. Molti mi hanno domandato: “Perché Hitler ti piace a tal punto?”, ma l’aver scritto un dramma su di lui non significa necessariamente amarlo. Francamente io nutro uno straordinario interesse per il personaggio Hitler, ma alla domanda se mi piace o non mi piace, posso rispondere solo negativamente. Hitler era un genio politico, ma non un eroe. In lui sono totalmente assenti la limpidezza e la radiosità essenziali in un eroe. Hitler è un personaggio cupo come il XX secolo14.

Intanto i rapporti tra Mishima e la critica ufficiale andavano deteriorandosi. Nei primi mesi del 1969 furono pubblicati in volume Neve di primavera 12

Mishima Yukio, Raiō no terasu, in MYZ, vol. 24, pp. 92-96. John Nathan, Op. cit., p. 252. 14 Mishima Yukio, “Note a Il mio amico Hitler”, in Il mio amico Hitler, Milano, Guanda, 1983, p. 111. 13

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e A briglia sciolta, e nonostante l’enorme successo di vendita – in particolare del primo volume, circa duecentomila copie in due mesi e vendita dei diritti al teatro e alla televisione in previsione di un adattamento scenico –, furono quasi ignorati dai critici che contavano. Quasi tutti gli esponenti della critica del tempo erano orientati a sinistra, e risultava molto difficile dare il loro appoggio a uno scrittore così nettamente e vistosamente orientato a destra. Furono pochi quegli intellettuali liberi da pregiudizi ideologici che non mancarono di riconoscere la grandezza della tetralogia, che si presentava come il lavoro più ambizioso della letteratura del novecento giapponese. Intellettuali come il neo premio Nobel Kawabata Yasunari che, in un’intervista rilasciata a Philip Shabecok del New York Times, affermava che Il mare della fertilità era un vero e proprio capolavoro, e che “uno scrittore del calibro di Mishima nasce soltanto ogni due o tre secoli della nostra storia”15. Nel luglio del 1969 si fece ancora tentare dal cinema e interpretò la parte di un samurai in un film di successo intitolato L’uomo che uccide con la spada (Hitokiri). Mishima interpretò con molto entusiasmo la parte di Tanaka Shinbei del clan di Satsuma, uccidendo nel corso del film una dozzina di avversari con la sua spada e commettendo, all’improvviso e senza alcuna spiegazione, il suicidio rituale del seppuku. Il film fu girato negli studi Daiei di Kyōto, e questa volta Mishima si sentì molto più a suo agio rispetto alle esperienze precedenti. Le critiche furono positive, anche se qualcuno disse che la gestualità abile e il portamento virile dello spadaccino erano troppo in contrasto con i suoi lineamenti delicati e lo sguardo da intellettuale. Il 3 novembre 1969, ancora nel “Giorno della cultura”, al Teatro Nazionale Mishima diresse una prova in costume del suo primo kabuki in quattro atti, La luna tesa ad arco (Chinsetsu yumiharizuki). In contemporanea, sul tetto dell’edificio, i cadetti della Società degli scudi sfilavano in uniforme per il primo anniversario della fondazione, davanti a una folla di un centinaio di invitati, giapponesi e stranieri. Mishima mai come in quel momento avrebbe voluto avere il dono dell’ubiquità; per tutto il pomeriggio corse avanti e indietro fra questi due eventi, ora facendo un discorso in inglese sul tetto, ora correndo giù nel teatro, togliendosi velocemente l’uniforme della Società degli scudi, per assistere a una prova del dramma. La luna tesa ad arco era la drammatizzazione di un romanzo del diciannovesimo secolo del famoso scrittore popolare Takizawa Bakin. Il kabuki che ne venne fuori fu nel tipico gusto di Mishima, un dramma dalle tinte barocche e sgargianti. L’allestimento scenico era oltremodo macchinoso, 15

Cit. in Henry Scott Stokes, Op. cit., p. 180.

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sul palcoscenico si vedeva apparire di tutto, da una nave che andava a fracassarsi contro un grande scoglio, a un cavallo in carne e ossa. Il sangue poi abbondava in scene dal sapore del tutto surrealistico, come il seppuku di un bambino di sette anni, o le torture inflitte con acuminati punteruoli da leggiadre ancelle a un uomo che si rotola nella neve, colorandola con l’intenso “rosso kabuki” del suo sangue. Neve e sangue restavano una miscela sempre estremamente seducente per lo scrittore. Dopo la parata sul tetto dell’edificio, i cadetti si cambiarono nelle bianche uniformi estive e si diede inizio a un ricco buffet. Mishima tenne un discorso in inglese e giapponese, con cui ringraziava gli ospiti per averlo aiutato a realizzare la celebrazione. Tra questi c’erano scrittori, persone famose, giornalisti giapponesi e stranieri, ma nessun personaggio politico. * * * Intanto alcuni tra i componenti più importanti della Società degli scudi, in particolare quelli appartenenti al Ronsō journal, erano andati via dal gruppo. Nakatsuji, uno dei fondatori – accusato da Mishima di aver preso contatti e chiesto di propria iniziativa aiuti economici a personaggi politici della destra a cui lo scrittore non voleva essere legato –, fu invitato ad andar via, e lui non ci pensò su due volte, trascinandosi dietro anche molti altri componenti del gruppo. Ma l’abbandono più critico per Mishima fu quello del suo braccio destro e convinto sostenitore della società, Mochimaru. Mishima aveva fatto di tutto per controllare la vita di quel devoto cadetto; nonostante la grande passione letteraria del ragazzo, gli aveva chiesto di lasciare il Ronsō journal per dedicarsi esclusivamente alla Società degli scudi; gli aveva chiesto inoltre – facendogli l’esempio degli ufficiali dell’Incidente del 2 febbraio 1936 che si erano votati al celibato proprio per lo stesso motivo – di non sposarsi con la sua fidanzata, perché questo poteva rappresentare un intralcio alla famosa e attesa “azione finale”. Nonostante Mochimaru nutrisse un’ammirazione sconfinata per il suo leader, non resistette alle fortissime pressioni psicologiche a cui veniva sottoposto e, con gran dolore di Mishima, lasciò la società. Lo scrittore fu così sconvolto dall’abbandono del suo braccio destro che quasi meditò di sciogliere il gruppo, quando all’orizzonte comparve il giovane Morita Masakatsu: il personaggio che non solo gli avrebbe ridato l’entusiasmo e il coraggio di andare avanti, ma che lo avrebbe accompagnato fedelmente nell’azione fino agli ultimi istanti della sua vita, seguendolo anche nella morte. Anche Morita, un venticinquenne saldo e convinto delle proprie idee di destra, proveniva dall’università di Waseda. Era stato lo stesso Mochimaru

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a portarlo nel luglio del 1968 durante il secondo reclutamento della società. A differenza di Mochimaru, Morita non aveva ambizioni letterarie, i suoi unici interessi erano di natura politica e ideologica; era stato molto attivo nella Lega giapponese degli studenti, e nutriva una sorta di vera e propria venerazione morbosa per la figura dell’imperatore. In pochissimo tempo questo ragazzo entrò nelle grazie di Mishima, diventando il suo fidatissimo luogotenente. Il loro rapporto diventò così intenso da andare oltre la frequentazione della Società, Morita fu letteralmente adottato da Mishima. Lo scrittore si dedicò alla sua formazione culturale e psicologica con un trasporto fino ad allora inconsueto, lo portava con lui a cena con la moglie, o con giornalisti e personaggi del mondo della cultura; e ogni occasione era buona per insegnargli qualcosa, dalle buone maniere a tavola al più generale comportamento sociale. Fu un vero e proprio innamoramento reciproco. Non a caso molti parlarono di una relazione fisica e sentimentale fra i due – tra l’altro mai effettivamente provata –, qualcuno suggerendo addirittura che il loro suicidio nell’azione finale sarebbe stato un “doppio suicidio d’amore”. Bisogna tenere conto, tra l’altro, che il codice guerriero giapponese aveva una tradizione ortodossa di omosessualità, e che quindi la loro liaison poteva essere perfettamente coerente con la loro condotta “samuraica”. È ovvio che questa sarebbe una delle interpretazioni più riduttive del gesto finale di Mishima, una ghiotta leccornia per una scadente stampa da gossip, e una comodissima giustificazione per deviare l’attenzione dai significati più profondi del gesto. Ma se mettiamo per un momento da parte il comprensibile disappunto, che nasce spontaneo nei confronti di quest’interpretazione squallidamente scandalistica, vediamo che essa, se considerata nella sua giusta dimensione di “connotazione” e non di “riferimento principale”, diventa il possibile tassello “erotico” della ben più vasta concezione mishimiana della morte. In questo periodo di grossi cambiamenti all’interno della Società degli scudi, Mishima aveva abbandonato del tutto l’idea del kirijini, la morte sferrando l’ultimo attacco con la spada in pugno; o quanto meno, si era reso conto che una situazione adeguata, che coinvolgesse le Forze di autodifesa, sarebbe stata un’ipotesi molto remota. L’episodio che mise definitivamente termine alle sue speranze era accaduto a ottobre, durante la manifestazioni di rivolta contro la partenza per gli Stati Uniti del primo ministro Sato, che si recava a Washington per determinare gli accordi Giappone-Usa con il presidente Nixon. “Ci si aspettava la rivolta più grossa e violenta che si fosse mai vista fino allora, ma quando le masse di studenti e lavoratori si riversarono nelle strade il 21 ottobre 1969, si trovarono di fronte un esercito di 15.000 poliziotti superaddestrati, equipaggiati con scudi e armi antisom-

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mossa, e pronti a uccidere”16. Probabilmente scoraggiati da un tale apparato difensivo, i dimostranti non provocarono molti incidenti, gli scontri furono pochi e tutto si esaurì con qualche arresto e qualche ferito. L’intervento delle Forze di autodifesa fu del tutto inutile, e questo deluse e fece desistere definitivamente Mishima dallo sperare in un loro futuro intervento. Il governo, per non tradire la nuova Costitizione e gli accordi americani, puntava più a rafforzare la polizia che non a fare uso delle Forze di autodifesa, confermandosi sempre di più nella sua posizione di non autonomia militare e di rinuncia a un vero e proprio esercito nazionale. Alla fine di ottobre si tenne a casa di Mishima un incontro con i nove capitani della Società degli scudi. In quell’occasione Mishima manifestò tutte le sue apprensioni riguardo al futuro del Giappone, sollecitando una discussione sul modo in cui avrebbe potuto intervenire la loro Società. Morita propose il vecchio schema di circondare la Dieta insieme alle Forze di autodifesa e di chiedere un dibattito sulle riforme costituzionali. Ma Mishima non sembrava convinto da questa soluzione, vari punti lo rendevano perplesso: il reperimento di armi adeguate, la difficoltà di occupare la Dieta mentre era in sessione, e, soprattutto, la non affidabilità delle Forze di autodifesa, di cui non si aveva alcuna certezza che si sarebbero unite a loro e avessero combattuto per ottenere la loro identità di esercito nazionale. Alla fine del marzo 1970 Mishima decise insieme a Morita di coinvolgere altri due cadetti di provatissima fedeltà per l’attuazione del loro progetto: Koga Masayoshi, uno studente di ventidue anni dell’università di Kanagawa, e Ogawa Masahiro, anch’egli studente ventiduenne, dell’università Meiji gakuin. Il primo era chiamato Chibi-Koga (piccolo Koga), per via della sua modesta statura e del fatto che il primo ideogramma del suo cognome fosse l’ideogramma di “piccolo”, e, soprattutto, per distinguerlo da un altro membro dell’associazione che aveva lo stesso cognome17. Il 3 aprile del 1970 Mishima gli chiese se era pronto ad unirsi a lui e Morita per la tanto attesa “azione finale”, e il giovane non ebbe un attimo di esitazione ad accettare. Una settimana dopo, Mishima propose la stessa cosa a Ogawa Masahiro che, pur manifestando qualche perplessità, alla fine dette il suo consenso. In quella stessa settimana, Mishima iniziò a sistemare le ultime cose della sua vita. Annunciò ai suoi amici, che accolsero la notizia con notevole stupore, che non aveva più intenzione di scrivere per il teatro; disse al redattore Nitta Hiroshi che aveva timore di non riuscire a rispettare la 16

John Nathan, Op. cit., pp. 259-260. L’altro membro veniva chiamato Furu-Koga (vecchio Koga), perché il primo ideogramma del cognome era l’ideogramma di “vecchio”. 17

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scadenza della consegna dell’ultimo volume della tetralogia – in realtà aveva quasi finito –, e che quindi preferiva non assumersi altri impegni editoriali. Così cancellò anche i nuovi progetti, un romanzo sulla vita del grandissimo poeta di Corte Fujiwara Teika e un lavoro a carattere pornografico. Anche riguardo ad alcuni diari, di cui aveva in precedenza parlato al redattore, disse che aveva deciso di bruciarli. Agli inizi di maggio si dimise dal gruppo dei direttori del Japan Symposium on Culture, proponendo la chiusura della rivista. Ovviamente questa decisione drastica, improvvisa e inspiegabile gli procurò solo una rottura con il coredattore Muramatsu, che rimase molto offeso dal suo atteggiamento. Ma ormai Mishima si preoccupava ancor meno che in passato dei rapporti con gli altri. Alla metà di maggio riunì nella sua casa i suoi luogotenenti, e comunicò che il piano ideale sarebbe stato quello suggerito da Morita in ottobre: occupare la Dieta con l’aiuto delle Forze di autodifesa e chiedere la revisione della Costituzione. Problema essenziale era che non si poteva contare al cento per cento sull’appoggio delle Forze di autodifesa, quindi bisognava pianificare anche un’azione isolata. Una possibilità era di costringere la divisione di Ichigaya a radunarsi, minacciando di far saltare in aria l’arsenale dopo averlo occupato, o prendendo in ostaggio il comandante. Una volta radunate le truppe, avrebbero esposto i motivi della loro azione, sperando nell’appoggio dei soldati per marciare verso la Dieta. In una seconda riunione, tenutasi all’Hotel Okura, fu deciso che tra le due ipotesi precedentemente formulate, la più efficace era quella di prendere in ostaggio il comandante. L’idea di Mishima era di attirarlo in un luogo in cui sarebbe stato più vulnerabile, invitandolo, per esempio a novembre, a presenziare una parata in uniforme per il secondo anniversario della Società degli scudi. In un terzo incontro, il 21 giugno all’Hotel Yamanoue, Mishima comunicò di aver ottenuto il permesso di tenere, a novembre, le esercitazioni militari dei cadetti all’eliporto della base di Ichigaya. L’eliporto era però un po’ troppo distante dall’ufficio del comandante, e quindi suggerì che fosse fatto subito prigioniero il suo secondo, il comandante di reggimento. Convennero tutti che le uniche armi da usare sarebbero state le spade. A giugno Mishima incontrò il suo avvocato per sistemare anche una serie di faccende burocratiche, come il trasferimento dei diritti di Confessioni di una maschera e di Sete d’amore alla madre Shizue. “Fu una scelta delicata. Confessioni di una maschera aveva venduto centinaia di migliaia di copie all’anno e, dopo Il Padiglione d’oro, era il suo romanzo più antologizzato. Sete d’amore invece non era stato un vero e proprio best seller; così nessuno avrebbe potuto dire che Mishima aveva trasferito a sua madre solo i diritti

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più ricchi”18. C’era quindi un certo equilibrio in questa scelta, tenendo anche conto del fatto che erano stati entrambi scritti prima del matrimonio, e quindi rivestivano un significato un po’ meno importante per Yoko. A giugno Mishima iniziò ad accommiatarsi da amici e conoscenti. Dopo la sua morte, molti pensarono che effettivamente il suo comportamento negli ultimi tempi era diventato alquanto insolito. Una sua telefonata, ad esempio, al produttore cinematografico Fujii, avvenuta molto dopo la mezzanotte – orario in cui era a scrivere nel suo studio e non telefonava assolutamente a nessuno –, con cui gli chiedeva di inserire il film Patriottismo nel Milan Festival Film. “E cosa ancor più strana per lui, rimanere al telefono per venti minuti, a ricordare la produzione del film. Fujii rimase un po’ sorpreso, e solo dopo realizzò che Mishima aveva terminato la sua conversazione dicendo sayōnara”19. Un saluto che indica una separazione a tempo indeterminato, forse anche per sempre. Molti amici furono improvvisamente invitati a cena o a bere. Trascorse anche alcune sere con critici e scrittori, come Ishikawa Jun, Takeda Taijun e Abe Kōbō, tra l’altro tutti scrittori di sinistra. Alla fine di luglio invitò Date, un suo amico giornalista della televisione nazionale NHK, a cenare ad Hamasaku. Durante la serata all’improvviso gli chiese se secondo lui la notizia della sua morte avrebbe fatto scalpore. “Date gli rispose che sicuramente sarebbe stata una grossa notizia. Così Mishima gli chiese: ‘Se decidessi di fare seppuku mi riprenderesti dal vivo?’20. Date restò interdetto osservando il volto serio dello scrittore, poi Mishima esplose a ridere e il giornalista, rincuorato, fece lo stesso.

La decomposizione dell’angelo Il 1 agosto la famiglia Mishima si recò alla villa di Shimoda per il consueto mese di vacanza al mare, e lì lo scrittore portò a termine il quarto e ultimo volume del Mare della fertilità, La decomposizione dell’angelo. La narrazione di quest’ultimo volume ha inizio nell’estate del 1970 e spazia in un arco temporale di cinque anni. Il volume si apre con un lungo ritratto del mare, un ultimo omaggio a uno dei simboli più importanti della letteratura mishimiana. La nebbia, al largo, avvolgeva di mistero le navi lontane. Nondimeno la luce all’orizzonte era più intensa di ieri, e si distinguevano le cime della penisola 18 19 20

John Nathan, Op. cit., p. 264. Ivi, p. 265. Ibid.

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di Izu. Il mare di maggio era quieto. Il sole splendeva abbagliante, e nel cielo azzurro si scorgeva solo qualche leggera striatura di nuvole. Minuscole onde si frangevano sulla riva. Poco prima di frangersi, mostravano all’altezza del ventre dai colori d’usignolo una sorta di sensualità, come se racchiudessero la lascivia di tutte le alghe marine. Il sommuoversi del mare, giorno dopo giorno, iterazione quotidiana del mare di latte della leggenda indiana. Forse il mondo non vuole che esso riposi. Forse nell’immobilità c’è qualcosa che evoca tutto il male della natura. Il rigonfio mare di maggio, che muove incessante e senza tregua i suoi punti luminosi, una miriade di scintillanti aghi sottili. (...) Alle due del pomeriggio, il sole si ritirò in un sottile bozzolo di nuvole, come un bianco baco scintillante. L’orizzonte era un anello di acciaio nero bluastro, perfettamente combaciante col mare. Per un istante, in un solo punto al largo, un’onda bianca si alzò come una candida ala, poi subito ricadde. Cosa significava? Doveva essere un maestoso segnale, o forse un maestoso capriccio. La marea saliva lentamente, le onde si gonfiavano, la terra subiva il più potente degli assalti. Il sole era dietro le nuvole e il colore del mare era diventato di un sinistro verde cupo. Una lunga linea bianca lo attraversava da oriente a occidente, formando una sorta di immenso triangolo capovolto. Sembrava torcersi e distaccarsi dalla piatta superficie; più vicino, verso il vertice, linee nerastre si allargavano a ventaglio, perdendosi nell’oceano verde scuro. Il sole spuntò di nuovo, e di nuovo il mare si trasformò nella placida dimora della bianca luce. Poi, agli ordini del vento di sud-ovest, innumerevoli onde simili a dorsi di otarie si mossero da nord-est a nord-ovest, innumerevoli branchi di onde lontane dalla riva. I flutti erano tenuti sotto stretto controllo dalla luna lontana. (...) Il mare, un mare senza nome, il Mediterraneo, il mar del Giappone, la baia di Suruga, lì davanti ai suoi occhi; un’anarchia anonima, ricca e assoluta, catturata dopo grandi lotte e denominata “mare”, e che in fin dei conti rifiuta quel nome. Quando il cielo si rannuvolò, il mare cadde in una cupa contemplazione, punteggiato da meravigliose sfumature d’usignolo. Simile a un ramo di rosa, era cosparso di spine ondose. In quelle stesse spine c’era l’impronta di una tenera creazione. Le spine del mare sono tenere e levigate. (...) La penisola di Izu era avvolta dalla nebbia. Per un po’ cessò di essere la penisola di Izu e si trasformò nel proprio fantasma. Poi scomparve del tutto. Era diventata solo il disegno di una mappa. La penisola e le navi appartenevano nello stesso modo all’”assurdità dell’esistenza”. Apparivano e sparivano. In cosa si differenziavano? Se il visibile era la summa dell’esistenza, allora il mare, fin quando non era immerso nella bruma, esisteva. Era sempre pronto a lanciarsi nell’esistenza. Una sola nave mutò tutto. Mutò l’intera composizione. Squarciando tutto il modello dell’esistenza, una

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nave fu accolta dall’orizzonte. Atto di abdicazione. L’intero universo fu gettato via. Una nave era comparsa, per gettar via l’universo che aveva garantito la sua assenza. Molteplici mutamenti, attimo dopo attimo, dei colori dell’oceano. Mutamenti delle nuvole. E l’apparizione di una nave. Cosa sta accadendo? Di cosa si tratta? Ogni istante accade qualcosa di più grave dell’esplosione del Krakatoa. Solo che nessuno se ne accorge. Siamo troppo abituati all’assurdità dell’esistenza. Non vale la pena di preoccuparsi tanto per la perdita di un universo. Gli accadimenti sono i segnali di un’interminabile ricostruzione e riorganizzazione. Rintocchi di una lontana campana. Una nave appare e fa risuonare la campana. In un istante il suono si appropria di ogni cosa. Sul mare i segnali sono incessanti, la campana suona in eterno. Un essere. Non necessariamente una nave. Un solo mandarino estivo apparso chissà quando. È sufficiente a far risuonare la campana. Le tre e mezza. Un solo mandarino estivo rappresenta l’esistenza nella baia di Suruga. Sommerso da un’onda appare di nuovo, galleggia e affonda, simile a un occhio che ammicchi all’infinito; il punto luminoso del mandarino fluttua lentamente verso est tra le piccole onde vicino alla riva. Le tre e trentacinque. Il nero scafo di un’imbarcazione apparve tetro a occidente, proveniente dalla direzione di Nagoya. Il sole era dietro le nuvole, di un rosa salmone affumicato21.

Il mare dell’ultimo volume della tetralogia è un mare diverso da quelli comparsi nelle opere precedenti. Diverso dal mare fascinoso e carico di passione dell’opera prima La foresta in fiore, diverso dal mare impetuoso e carico di energia dionisiaca del Padiglione d’oro. Il mare della Decomposizione dell’angelo è un mare “mistico” e carico di un forte impulso nichilistico. Anticipatore di un finale dalle stesse caratteristiche, esso sembra essere in stretta relazione con tutta la visione buddhistica enunciata nel terzo volume. Il mare non ha perso la sua connotazione di simbolo della fonte della vita e della morte, dell’insondabile e dell’inconscio, ma qui, con le sue molteplici sfumature e variazioni cromatiche, sembra aver moltiplicato la sua inafferabilità. Gli occhi che guardano quest’arcana, liquida immensità sono quelli del giovane Yasunaga Tōru. Honda sempre alla ricerca della reincarnazione successiva a quella di Ying Chan, si imbatte in questo giovane avvenente, e in lui ravvisa, seppur con qualche dubbio, la fatidica quarta reincarnazione. Honda è ormai un anziano e agiato avvocato di settantasei anni, e il forte desiderio di vivere gli ultimi anni nel tentativo di svelare il profondo 21

Mishima Yukio, La decomposizione dell’angelo, in Mishima – Romanzi e racconti, vol. II, cit., pp. 1493-1496.

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mistero a cui è stato legato per tutta la vita, lo spinge ad adottare l’affascinante e intraprendente sedicenne. Honda incontra Tōru, per caso, in un una stazione di osservazione marittima, dove il ragazzo trascorre le sue giornate nella contemplazione della sconfinata distesa del mare e nella più totale solitudine; fatta eccezione per le brevi visite di Kinue, una ragazza folle e terribilmente brutta, che si reca da lui solo per raccontargli tutte le immaginarie avances che gli uomini le fanno da mattina a sera. Subito dopo l’adozione, il giovane dimostra tutte le sue incredibili capacità intellettive e di adattamento, imparando velocemente tutte le norme comportamentali che si addicono al suo nuovo ceto sociale e superando con facilità tutti gli esami universitari. Honda si rivela un padre attento e apprensivo, seguendo passo dopo passo il giovane nella sua formazione sociale e impartendogli rigorose lezioni di comportamento22. “L’etichetta della tavola occidentale può apparire un tantino stupida” disse Honda, “ma quando viene seguita in modo spontaneo e naturale, conferisce un senso di sicurezza. La buona educazione determina lo status di una persona, e in Giappone per buona educazione intendiamo la familiarità con il modo di comportarsi occidentale. Oggi il comportamento puro giapponese sopravvive solo nei bassifondi e nei ceti bassi della società, e con l’andare del tempo sarà sempre più circoscritto. Quel veleno conosciuto con il nome di “puro giapponese” si sta diluendo, e presto diventerà una pozione accettabile da tutti.” (...) I cibi erano serviti da sinistra e le bevande da destra. Coltelli e forchette erano ordinati dall’esterno all’interno. Tōru si guardava le mani come se fosse stato inghiottito da un torrente. Le istruzioni continuarono. “Mentre mangi devi conversare garbatamente. Questo mette a proprio agio il nostro compagno di tavola. Devi stare attento a dosare bene i bocconi, perché c’è il pericolo, parlando con la bocca piena, di sputare involontariamente fuori qualcosa. E ora, tuo padre”, così Honda si riferiva a se stesso, “ti chiederà qualcosa a cui dovrai rispondere. Non pensare a me come a tuo padre, ma come a un personaggio importante che potrebbe fare molto per te se tu gli risultassi simpatico. Stiamo recitando una commedia. Allora comincio. ‘Vedo che studi con molto impegno, e i tuoi tre tutori provano per te una profonda ammirazione; ma mi sembra molto strano che tu non abbia dei veri amici.’” “Non ne sento un gran bisogno.” “Questa non è una risposta. Se dai una simile risposta la gente penserà subito che sei un tipo strano. Allora, dammi una risposta adeguata.” Tōru restò in silenzio. 22

Non è difficile scorgere nel rapporto di Honda con Tōru, lo stesso rapporto di Mishima con il giovane Morita, educato scrupolosamente dallo scrittore nello stesso modo.

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“No, così non va. Studiare non ti servirà a nulla se non userai il buon senso. Questa è la risposta che devi dare, nel modo più garbato possibile: ‘Ora sto studiando così tanto da non avere neanche un po’ di tempo per le amicizie, ma sono sicuro che non appena entrerò al liceo avrò l’opportunità di conoscere tanta gente.’” “ Ora sto studiando così tanto da non avere neanche un po’ di tempo per le amicizie, ma sono sicuro che non appena entrerò al liceo avrò l’opportunità di conoscere tanta gente.” “Sì, sì, proprio così. Questo è il tono giusto. E ora all’improvviso la conversazione si sposta sull’arte. ‘Qual è il pittore italiano che preferisci?’” Nessuna risposta. “Qual è il pittore italiano che preferisci?” “Mantegna.” “Ma no, sei troppo giovane per apprezzare Mantegna. Molto probabilmente il tuo interlocutore non ha mai sentito parlare di Mantegna, e così lo metteresti in difficoltà, dandogli anche una sgradevole impressione di precocità. Ecco come devi rispondere: ‘Trovo meravigliosi tutti i pittori del rinascimento.’” “Trovo meravigliosi tutti i pittori del rinascimento.” “Sì, proprio così. In questo modo gli farai provare un senso di superiorità e gli apparirai ancora più simpatico e attraente. Gli offrirai l’occasione per lanciarsi in una disquisizione su un argomento che conosce appena. E tu devi ascoltarlo raggiante di interesse e ammirazione, anche se la maggior parte delle cose che dirà saranno errate, e il resto vecchie chiacchiere trite e ritrite. Quello che il mondo chiede a un giovane è di essere un devoto ascoltatore e niente più. Se lasci parlare gli altri, hai vinto tu; non lo dimenticare mai23.

Honda si impegna al massimo nell’impartire a Tōru un’educazione che possa renderlo un giovane “normale”, perfettamente a suo agio con la società e le sue norme, un giovane perfettamente capace di fare una brillante carriera prestando la massima attenzione alle relazioni sociali. È sua ferma intenzione fare di tutto per evitare a Tōru il destino degli altri tre: cancellare in lui ogni anelito all’elevazione che possa condurlo verso una morte precoce. Mentre istruiva l’attentissimo Tōru, Honda ebbe la sensazione di rivolgere le sue indicazioni a Kiyoaki, Isao e Ying Chan. Sì, avrebbe dovuto parlare con loro. Avrebbe dovuto munirli dell’arma della preveggenza, che li avrebbe trattenuti dal lanciarsi verso i loro destini; avrebbe tarpato loro le ali impedendo loro di volare così in alto, e li avrebbe costretti a marciare al passo dell’anonima massa. Il mondo non approva chi si libra alto in volo. Le ali sono organi pericolosi. Invitano all’autodistruzione ancor prima che le si utilizzi. Se fosse riuscito a convincere Isao a scendere a compromessi, 23

Mishima Yukio, La decomposizione dell’angelo, cit., pp. 1608-1610.

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avrebbe potuto anche far finta di ignorare l’esistenza delle sue ali. Avrebbe potuto dire alla gente: “Le sue ali sono solo un accessorio. Non c’è di che preoccuparsi. Provate a stare un po’ insieme a lui, e scoprirete che è un ragazzo semplice e affidabile.” Queste parole si sarebbero rivelate di grande efficacia. Kiyoaki, Isao e Ying Chan ne avevano fatto a meno, ed erano stati puniti per il loro sprezzo e la loro arroganza. Erano stati troppo fieri, persino nella sofferenza24.

Come vedremo, il progetto di Honda è inutile, perché Tōru non appartiene alla stessa razza di Kiyoaki e Isao. Ma presto Tōru, oltre alle sue magnifiche capacità di apprendimento, manifesta anche il suo carattere scaltro e cinico, diviene a poco a poco sempre più aggressivo, rivelando la sua purissima natura maligna. Diventa sempre più ostile nei confronti del padre adottivo, immaginando solo il giorno della sua morte, quando potrà ereditare tutto il suo cospicuo patrimonio. Dopo una dura lite in cui Tōru ferisce Honda con un attizzatoio, la situazione si incancrenisce; Honda non sa come comportarsi, teme che l’astuto giovane possa riuscire a dimostrare in qualche modo una sua presunta incapacità di intendere e volere, e farlo rinchiudere in un gerontocomio. Ma a mutare il corso degli eventi sarà l’intervento di Hisamatsu Keiko, quella vecchia amica di Honda protagonista dell’intensa notte d’amore con Ying Chan. L’ormai anziana signora invita il giovane Tōru per una cena natalizia a casa sua, che in realtà si rivelerà un inganno. Quando il giovane giungerà puntuale all’appuntamento non troverà un solo invitato, ma solo la padrona di casa che lo riceve con la sua invariabile eleganza ostentata e alquanto kitsch. In questa occasione la donna gli rivela tutta la verità sulla sua adozione, facendo svanire in una bolla di sapone tutto l’amor proprio e l’orgoglio del ragazzo, fino ad allora convinto di essere stato scelto da Honda solo per le sue qualità intrinseche, e non per una folle e surreale convinzione. Tōru, fino a quel momento fermamente convinto di essere una creatura superiore, un angelo disceso in terra, a cui tutti quei benefici non erano giunti a caso, ma come giusto compenso della sua predestinazione, è totalmnte distrutto; non sente più di essere un angelo, ma solo una povera contraffazione. Lo shock è così terribile che, alla vigilia del suo ventunesimo compleanno, il giovane tenta il suicidio ingerendo alcol denaturato; ma il tentativo di togliersi la vita fallisce e sortisce solo l’effetto di fargli perdere la vista. Si rivela così la sua inautenticità in quanto reincarnazione: 24

Ivi, p. 1610-1611.

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Tōru era diventato cieco in seguito al tentativo di suicidio. Il suo ventunesimo compleanno era giunto e scivolato via. Honda non aveva più intenzione di cercare le possibili tracce lasciate dallo sconosciuto, morto a vent’anni, in cui doveva essersi attuata la vera reincarnazione. Se questa persona era davvero esistita, tanto meglio. Non aveva più tempo, né energie per essere testimone della vita di costui. Il moto dei corpi celesti si era allontanato da lui. Per un piccolo errore di calcolo, le stelle avevano posto Honda e la reincarnazione di Ying Chan in separate parti dell’universo. Tre reincarnazioni erano state presenti nella vita di Honda e, dopo averla solcata con la loro scia luminosa (combinazione davvero rara), erano volate via in un’altra esplosione di luce, in un recondito angolo degli spazi celesti. Forse un giorno, chissà dove, Honda avrebbe incontrato la centesima, la decimillesima, la centomilionesima reincarnazione. Non c’era fretta25.

Riguardo alle autenticità delle reincarnazioni dell’opera vi sono opinioni controverse. Alcuni critici tendono a individuare come reincarnazione autentica solo quella di Isao, mentre da Ying Chang in poi vi sono molti elementi che ne sottolineano l’ambiguità. Lo stesso Mishima in un’intervista televisiva rilasciata subito dopo aver terminato la stesura del Tempio dell’alba, ha detto: “Nel tempio dell’alba è difficile capire se la protagonista è davvero la reincarnazione del protagonista del volume precedente. Nel quarto volume diventa ancora più difficile capirlo...”. Nel caso di Ying Chang l’elemento probatorio più forte, oltre alla presenza dei nei e delle dichiarazioni infantili sulla sua vita precedente da giapponese, è la morte sopraggiunta alla fatidica età di vent’anni. Anche nel caso di Tōru vengono suggeriti dei collegamenti con le vite precedenti, come i tre nei sul costato, o il bellissimo episodio simbolico in cui il giovane vede dalla finestra un vecchio sconosciuto lasciar cadere nella neve qualcosa di scuro e indefinito. A prima vista gli sembra un uccello morto, ma poi, guardando meglio, ha l’impressione di riconoscere una parrucca femminile. Senza alcun dubbio i bei capelli di Satoko che una volta staccati dal capo con la tonsura erano diventati il “cadavere dei capelli”. Ad ogni modo, ciò che fa pesare nettamente la bilancia in direzione dell’inautenticità dell’ultima reincarnazione è proprio il superamento del ventesimo anno di età26. Tōru, il cinico “angelo del male”, continua così a trascinare la sua squallida esistenza insieme a Kinue – la sua compagna brutta e folle che ha fatto trasferire nella casa di Honda e che ora è anche incinta di lui – in 25

Ivi, p. 1720-1721. Per un interessante trattazione dell’argomento si veda: Muramatsu Takeshi, Ten’nin gosui no shujinkō wa nisemono ka, in MYZ, vol. 18, inserto (furoku) n. 3. 26

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una serra del giardino, in mezzo al lezzo dei fiori appassiti e del sudore del suo corpo. Iniziano a rivelarsi i cinque segni di decomposizione dell’angelo elencati nelle scritture buddhiste. L’Abhidharma Mahāvibhā!āsāstra descrive minuziosamente i cinque segni maggiori e i cinque segni minori. Vengono prima i cinque segni minori. Quando un angelo volteggia e piroetta, genera abitualmente una musica così meravigliosa che nessun musicista, orchestra o coro è in grado di imitare; ma quando la sua morte si avvicina, la musica svanisce e la sua voce diventa debole e tesa. In condizioni normali, giorno e notte, da un angelo sgorga una luce che non permette ombra; ma con l’approssimarsi della morte la luce diminuisce di colpo, e il suo corpo viene avvolto da ombre leggere. La pelle di un angelo è levigata e ben cosparsa d’unguento e, anche se immersa in un lago di ambrosia, respinge il liquido come le foglie di loto; ma se si avvicina la morte, l’acqua vi aderisce con tenace persistenza. Di solito, un angelo, simile a una turbinante ruota di fiamme, non si ferma mai, né si può individuare in un posto determinato; quando crediamo che sia qui, si trova invece lì, si scansa, si muove, si lancia liberamente ovunque; ma con l’approssimarsi della morte, indugia in un solo posto e non riesce ad allontanarsene. Il corpo di un angelo è pieno di straripante energia e i suoi occhi non hanno mai un fremito; ma con l’avvicinarsi della morte il suo corpo si indebolisce e le sue palpebre battono di continuo. Ecco invece i cinque segni maggiori: le vesti, un tempo immacolate, si insudiciano, i fiori della ghirlanda posta sul suo capo appassiscono e cadono, il sudore cola dalle ascelle, un tanfo persistente avvolge il suo corpo, perde la gioia di essere. Come si può vedere, le altre fonti elencano i segni maggiori. Finché si manifestano solo i segni minori, si può ancora evitare la morte, ma una volta manifestatisi i segni maggiori la fine è inevitabile27.

Intanto Honda resta vittima di uno scandalo. Sopraffatto dal vizio del voyeurismo, non riesce a trattenersi dallo spiare le coppiette di notte nei parchi pubblici, e in una di queste occasioni resta coinvolto in un caso di aggressione e arrestato dalla polizia. La notizia viene riportata dai giornali che lo definiscono un “vecchio magistrato guardone”, e il colpo per Honda è troppo forte. Cade in una sorta di debilitazione psicofisica che lo porta sulla soglia di un reame mai conosciuto. In verità, una debilitazione generale e dolori intermittenti generavano stimoli nella mente di Honda. Il suo cervello invecchiato aveva perso tutta la capacità 27

Mishima Yukio, La decomposizione dell’angelo, cit., pp. 1546-1547.

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di concentrazione, ma ora era come se questa ritornasse, e i dolori partecipavano con violenza a generare stimoli vitali al di là delle facoltà puramente razionali. All’età di ottantuno anni, Honda entrava in un reame fantastico e misterioso che gli era sempre stato precluso. Ora capiva che una visione del mondo più compiuta proveniva dalla sofferenza fisica più che dall’intelligenza, da un dolore sordo alle viscere più che dalla ragione, dalla perdita di appetito più che dall’analisi28.

Honda prende sempre più coscienza del rapporto tra il suo corpo e la sua mente, riflettendo sul fatto che la sua vita si è sempre concentrata quasi esclusivamente su quest’ultima. Riflette sulla sua incapacità di fermare il tempo all’apice dell’esistenza. Più di una volta questi pensieri avevano assediato la sua mente. “No, nella mia vita non c’è mai stato un momento in cui avrei potuto fermare il tempo. Se per me c’è stato un destino, questo si è manifestato proprio nell’incapacità di fermare il tempo. Per me non c’è mai stato un momento che si possa definire l’apogeo della giovinezza, e quindi nessun momento da fermare. Bisognerebbe terminare la propria esistenza in quell’esatto momento. Io non l’ho saputo riconoscere. (...) C’è bisogno dell’aiuto del destino. E io sono consapevole che pochi altri hanno avuto meno di me questo aiuto. È facile dire che sono stato trattenuto dalla forza della mia volontà. È andata davvero così? La volontà non è forse un avanzo del destino? Tra la volontà e la determinazione non esistono forse differenze innate, come tra le caste indiane? E fra le due non è più povera la volontà? (...) Alcuni posseggono la facoltà di tagliare di netto il tempo all’acme della loro vita. Lo so per certo, perché li ho visti con i miei occhi. Che forza, che poesia, che beatitudine! Essere in grado di tagliare il fluire del tempo proprio nell’attimo in cui scorgiamo il bianco fulgore dell’apogeo. Ne abbiamo preveggenza nella sottile eccitazione dei pendii, nella mutevole distribuzione della flora alpina, nell’approssimarsi dello spartiacque. Ancora un attimo e il tempo sarà al culmine, e senza una pausa inizierà la sua discesa. Molti cercano di ingannare la discesa ritirando subito il raccolto. Ma a cosa serve? Fiumi e sentieri procedono dritti verso il basso. Eterna bellezza fisica. Questa è la speciale prerogativa di chi ha la capacità di troncare il flusso del tempo. Appena prima dell’apogeo dove bisogna troncare il flusso del tempo, si situa l’apogeo della bellezza fisica. Bellezza chiara e luminosa, consapevole che il bianco fulgido apogeo le si erge proprio dinanzi. Purezza sinistra. Fresco disprezzo. In quell’attimo la bellezza di un uomo e quella di una gazzella si identificano. Una gazzella che, con un dolce sguardo di rifiuto, solleva fiera le corna, solleva leggerissima lo zoccolo 28

Ivi, p. 1722.

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della zampa maculata di bianco. Colma della fierezza dell’addio, coronata dalle bianche nevi delle montagne. “Non avrei mai sollevato una mano in segno di saluto verso quelli che erano laggiù, dove il tempo continuava a scorrere. Se avessi d’un tratto sollevato una mano in cenno di saluto a un crocevia, avrei solo fermato un taxi. Forse, incapace di fermare il tempo, dovevo accontentarmi di fermare solo una serie di taxi. Con l’unico scopo di farmi portare ancora in un altro posto dove il tempo non si fermava. Senza poesia, senza beatitudine. Senza poesia, senza beatitudine! Queste erano le cose importanti. Io so bene che solo in esse si nasconde il segreto della vita”29.

Honda pensa quindi che la capacità di arrestare il tempo all’apogeo della propria esistenza sia un talento di cui sono dotati solo gli uomini d’azione, e inoltre questo talento non è legato esclusivamente alla “volontà”, ma è in stretta correlazione con il destino. Un destino che sceglie uomini dotati di rara determinazione e bellezza fisica, ancora una volta Morte e Bellezza si stringono la mano. Honda non ha avuto la capacità di individuare l’apogeo della sua esistenza per porvi termine, né è stato dotato della bellezza necessaria per entrare nella schiera di quegli eletti che sono stati in grado di farlo. Osservando, in un programma televisivo, una piscina piena di corpi giovani e sguazzanti, all’invidia per la capacità di fermare il tempo all’apice dell’esistenza si aggiunge, prepotente, quella per la bellezza del corpo. Nel blu artificiale e sgradevole dell’acqua, molti giovani sguazzavano tra gli spruzzi, saltavano e nuotavano. Lieve ed effimero profumo di meravigliosi corpi. Rifiutare la carne, vedendo in essi solo scheletri che si divertono in un’estiva piscina assolata, era banale, grossolano. Chiunque avrebbe potuto pensarlo. Chiunque avrebbe potuto rifiutare la vita, vedendo degli scheletri attraverso la vitale e giovane superficie di quei corpi. La più stupida delle persone lo avrebbe fatto. Ma quale vendetta poteva esserci in tutto cio? Honda sarebbe giunto al termine della sua esistenza senza aver provato cosa significasse possedere un corpo mirabile. Se avesse potuto averlo anche solo per un mese! Avrebbe dovuto fare quell’esperienza. Cosa si provava a indossare quella veste stupenda? Vedere la gente prostrarsi dinanzi a essa. Quando l’ammirazione andava oltre il confine della gentilezza e della docilità per diventare ossessiva adorazione, per il possessore di quel corpo era un tormento. Ciò che Honda non aveva conosciuto era quello stretto e scuro sentiero che attraverso la carne conduceva alla santità. Un sentiero riservato a un esiguo numero di eletti30. 29 30

Ivi, p. 1603-1605. Ivi, p. 1725.

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Ma nel caso in cui non si è riusciti, o non si è destinati, a fermare il tempo che cosa significa vivere? Honda ormai all’età di settantasei anni si rende conto che vivere significa invecchiare e ammalarsi, questa è la naturale punizione per chi è stato destinato a vivere a lungo. L’aggravarsi dei disturbi di cui continua a soffrire lo convincono a fissare un appuntamento all’Istituto di ricerche sul cancro. Dopo una settimana di scrupolosi esami clinici, Honda apprende di avere un tumore al pancreas. I medici gli dicono che è in forma benigna e quindi basterà asportarlo per risolvere il problema, ma Honda è convinto che sia maligno e chiede un rinvio di una settimana prima del ricovero in ospedale. Ha delle cose da fare, prima che il suo corpo non glielo permetta più. Va a trovare Tōru, ormai i cinque segni maggiori della decomposizione dell’angelo sono ad uno stadio molto avanzato: Dai bordi dello yukata di Tōru si intravedevano le piante dei piedi. Erano bianche e raggrinzite come quelle di un morto annegato; il sudiciume vi si addensava in piccole scaglie. Lo yukata gli ricadeva floscio sul corpo. Il sudore disegnava sul collo dell’indumento file di nuvole giallastre. Honda a tratti aveva avvertito uno strano odore. Si accorse che il sudiciume e il grasso accumulatisi sullo yukata si mescolavano con il sudore del corpo, dando luogo a quel tanfo umido di acqua stagnante, così tipico dei giovani in estate. Tōru aveva perso tutta la meticolosità nei riguardi della sua persona. E non vi era alcun profumo di fiori. La stanza era disseminata di fiori, ma da essi non emanava odore alcuno. Vi erano tutt’intorno malvarose rosse e bianche, senza dubbio ordinate a un fioraio molti giorni prima, e pertanto secche e avvizzite31.

Benché l’aspetto mistico sia preponderante in quest’opera, non è difficile individuare in questa metafora della decomposizione anche una denuncia della decadenza dei valori tradizionali del Giappone. Un po’ dovunque nella tetralogia, e in particolare in quest’ultimo volume, sono disseminate denunce della caduta dei valori dell’antica tradizione. Un episodio altamente simbolico, da cui tra l’altro deriva il titolo del quarto volume, è quello della visita di Honda e Keiko al sacro sito del boschetto di pini di Mio. Si tratta del noto sito di ambientazione del famoso dramma nō, Hagoromo (Manto di piume). Nel dramma, il pescatore Hakuryō vede pendere da un pino maestoso una lunga veste di fine seta, se ne impadronisce e si allontana. In quel momento compare l’angelo, il proprietario della veste che lo implora di restituirgliela, ma egli non ha alcuna intenzione di farlo e 31

Ivi, p. 1730.

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ignora ogni sua preghiera. l’angelo è afflitto, incapace, senza il suo manto, di librarsi in volo. Se Hakuryō non restituisce la veste, l’angelo non ha più alcuna forza. L’angelo piange, le sue lacrime come rugiada sulle chiome ingioiellate. I fiori appassiscono, appaiano i cinque segni della decomposizione dell’angelo32.

Non a caso la descrizione del sacro sito ai nostri giorni, dove Honda conduce Keiko, e del tutto deprimente. L’aria è terribilmente inquinata dai gas di scarico delle automobili dei numerosi visitatori e turisti, i pini sembrano tutti sul punto di morire; i simboli della più volgare industrializzazione e commercializzazione hanno marchiato ogni angolo con chioschi che vendono orribili souvenir e Coca-Cola. Tocco finale della descrizione, la folla dei visitatori che si affretta a scattarsi foto davanti al maestoso pino della leggenda dell’angelo, senza neanche degnarlo di uno sguardo. Antica decadenza dell’angelo e contemporanea decadenza del Giappone vengono sovrapposte, facendo risuonare gli armonici di un funesto presagio sul futuro del paese. I primi due volumi della tetralogia erano serviti a Mishima per esporre i due principali aspetti dell’estetica e dei valori tradizionali giapponesi, la sensibilità femminile (taoayameburi) e la sensibilità maschile (masuraoburi); il terzo volume filtrava queste due ideali estetici attraverso il rigoroso spiritualismo induista e buddhista; il quarto si presenta come conseguenza inevitabile del confronto di tutto ciò con la mediocre realtà attuale, celebra la catastrofe contemporanea attraverso il canto funebre della tradizione. Altra cosa che Honda si propone di fare prima di ricoverarsi è soddisfare un antico desiderio: rivedere Satoko. Rivedere colei che un tempo era stata la giovane e affascinante amante del suo caro amico Kiyoaki, e ora è divenuta badessa del tempio di Gesshū, quel tempio dove sessant’anni prima si era ritirata per sfuggire alle angustie del mondo. Honda, ormai ultraottuagenario, vede nell’incontro con l’altrettanto anziana Satoko un’ultima possibilità di fare un po’ di luce sul mistero che ha inseguito per tutta la sua esistenza. Invia una missiva al tempio, e riesce a ottenere un abboccamento con la vecchia badessa. È una torrida giornata estiva quando Honda si reca al monastero. L’automobile che lo ha accompagnato potrebbe condurlo sino all’ingresso superiore, situtato in alto sulla collina, ma egli, nonostante la calura e le sue precarie condizioni di salute, decide, quasi alla ricerca di una purificazione corporale, di procedere a piedi, 32

Ivi, p. 1545.

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rivivendo le stesse emozioni e le stesse sofferenze che sessant’anni prima ha vissuto il suo disperato amico Kiyoaki. Tutto sembra immutato, come se un arco di tempo all’apparenza così ampio sia trascorso in un baleno. Gli tornano alla mente quei lontani giorni in cui lui, con Kiyoaki febbricitante che lo attendeva alla locanda, si era già recato dall’allora badessa del tempio, per rivolgerle la vana supplica del suo amico affinché gli fosse concesso di vedere ancora una volta la sua amata. Giunto con grandissimi sforzi sino al tempio, Honda viene accolto da un intendente che lo introduce in una sala d’attesa, dove aspetta con il cuore in subbuglio la comparsa di Satoko. Dopo una lunga attesa, durante la quale quasi perde la speranza di incontrarla, finalmente le porte scorrevoli che davano sugli appartamenti interni si aprono, e dinanzi a lui appare l’anziana badessa, scortata da una novizia in veste bianca. Quella pallida figura, con il kimono bianco e un manto viola scuro, doveva essere Satoko, ora all’età di ottantatré anni. Honda sentì le lacrime salirgli agli occhi. Non aveva la forza di alzare lo sguardo su di lei. La badessa si pose di fronte a lui, al lato opposto del tavolo. Il suo naso era il naso finemente intagliato di tanti anni prima; gli occhi, gli stessi bellissimi occhi. Satoko era completamente cambiata, eppure lui la riconobbe al primo sguardo. Il fiore della giovinezza era d’un balzo saltato all’estrema vecchiaia; Satoko era scampata al lungo viaggio in questo tetro mondo. Una persona che attraversi il ponticello di un giardino, passando dall’ombra alla luce, a volte sembra mutare sembianze. Se un tempo si poteva ammirare il bellissimo volto della gioventù in ombra, ora si poteva ammirare il bellissimo volto della senilità alla luce del sole. Si ricordò di quando al mattino a Kyōto, lasciando l’albergo, i volti delle donne gli erano apparsi luminosi e cupi sotto i parasoli, e di come si potesse valutare la qualità della bellezza a seconda della luce e dell’ombra. Per Honda questa metamorfosi aveva richiesto sessant’anni. Per Satoko non era forse occorso solo il tempo necessario ad attraversare il ponticello di un giardino dall’ombra alla luce del sole? Per lei gli anni si erano affrettati non verso la decadenza, ma verso la purificazione. La pelle sembrava emanare una pacata luminosità; la bellezza degli occhi era più netta, ed era come se risplendesse attraverso una patina lieve. Gli anni avevano cristallizzato una gemma perfetta. Era diafana, ma al tempo stesso fredda, suggeriva un senso di soffice rotondità e al tempo stesso di durezza, e le labbra erano ancora lucenti. Sul volto si leggevano numerose rughe profonde, ma erano luminose, come se fossero state accuratamente lavate una a una. La sua piccola figura un po’ curva rifletteva una splendente dignità. Nascondendo le lacrime, Honda alzò lo sguardo. “Benvenuto,” disse la badessa con voce gaia.

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“Non è stato educato da parte mia venire direttamente senza attendere la sua risposta, ed è stato molto gentile da parte sua ricevermi lo stesso.” Desideroso soprattutto di evitare un tono confidenziale, Honda si accorse di star usando un tono estremamente formale. Aveva vergogna della propria voce rauca e senescente. Ma si sforzò di continuare: “Mi sono rivolto al suo intendente. Mi chiedo se è stato così gentile da mostrarle la mia lettera.” “Sì, l’ho letta.” Seguì una pausa. La novizia ne approfittò per ritirarsi. “Come ritornano i ricordi. Come può vedere, sono così vecchio da non poter essere sicuro di arrivare a domani.” Sapere che la badessa aveva letto la sua lettera gli infondeva coraggio. Le parole gli fluivano più facilmente. La badessa rise, il suo corpo sembrò ondeggiare lievemente. “La sua lettera, così interessante, mi è parsa anche troppo seria.” Anche lei, come l’intendente, si esprimeva nel dialetto del Giappone occidentale. “Ho pensato che fra noi dovesse esserci qualche sacro legame.” Honda sentì stillare dentro di sé le ultime gocce della sua giovinezza. Si sentì riportato indietro di sessant’anni, quando era giunto lì al cospetto dell’altra badessa a sostenere la causa dell’ardente giovinezza. Abbandonò la sua riservatezza. “Sua riverenza la badessa che era qui prima di lei non mi ha permesso di incontrarla quando giunsi qui con l’estrema supplica di Matsugae Kiyoaki. Lo so che doveva essere così, ma io ne fui estremamente contrariato. Dopo tutto, Matsugae Kiyoaki era il mio amico più caro.” “Matsugae Kiyoaki. Chi era mai questa persona?” Honda la fissò con aria esterrefatta. Per quanto potesse avere problemi di udito, di sicuro doveva aver sentito quello che aveva detto. Eppure le sue parole erano così assurde, che non si poteva concludere altro che non lo avesse capito. “Come?” Voleva sentire di nuovo quelle parole. Ma non vi fu traccia alcuna di simulazione mentre lei le ripeteva come prima. Si coglieva invece nei suoi occhi una sorta di curiosità infantile, e sotto di essi un placido sorriso. “Chi era mai questa persona?” Honda capì che lei davvero voleva che le parlasse di Kiyoaki. Con scrupoloso garbo, le parlò dei suoi ricordi dell’amore di Kiyoaki e del suo triste epilogo. La badessa rimase seduta e immobile durante tutta la lunga storia, con un costante sorriso sulle labbra. Solo di tanto in tanto dava qualche cenno di assenso. Quando la vecchia monaca entrò per offrire un rinfresco, lei mentre si serviva con grazia non smise di ascoltare attentamente il racconto di Honda. Con calma ieratica, senza il minimo segno di emozione, lei disse: “È una storia molto interessante, ma purtroppo non ho mai conosciuto il signor Matsugae. Temo che mi abbiate confuso con un’altra persona.” “Ma il suo nome non era Ayakura Satoko?” Honda tossì per l’affollarsi veemente delle proprie parole.

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“Sì, al secolo era questo il mio nome.” “Allora non può non aver conosciuto Kiyoaki.” Honda era arrabbiato. Quello non era oblio, ma sfrontata finzione. Sapeva bene che la badessa aveva sufficienti ragioni per fingere di non ricordare. Ma il fatto che una donna così lontana dalla mondanità, una donna del suo venerabile stato potesse mentire così spudoratamente, rendeva leggittimo più di un dubbio sulla profondità delle sue convinzioni. Se lei portava con sé ancora tutta l’ipocrisia del mondo profano, allora era leggittimo dubitare della sincerità della sua conversione quando era entrata nel mondo religioso. Sessant’anni di sogni in quell’istante parvero traditi. L’insistenza di Honda aveva superato il limite, ma la badessa non sembrava risentirsi. Nonostante il caldo intenso, il manto viola sulle sue spalle pareva avvolgerla di freschezza. I suoi occhi e la sua voce sempre molto bella manifestavano la sua serenità. “No, signor Honda, non ho dimenticato nessuno degli affetti che mi appartennero nel mondo da cui lei viene. Ma temo proprio di non aver mai sentito il nome di Matsugae Kiyoaki. Non potrebbe essere, signor Honda, che questa persona non sia mai esistita? Lei sembra così sicuro di averlo conosciuto, ma ha mai pensato che potrebbe non essere mai apparso su questa terra? Mentre prima la ascoltavo, non ho potuto fare a meno di formulare questo pensiero.” “Ma allora perché io e lei ci conosciamo? E poi, gli Ayakura e i Matsugae avranno conservato dei documenti di famiglia.” “Sì certo, tali documenti potrebbero risolvere i problemi nel mondo a cui lei appartiene. Ma lei davvero ha conosciuto una persona di nome Kiyoaki? E può affermare con certezza che noi due ci siamo già incontrati prima di oggi?” “Ma io ricordo perfettamente di essere venuto qui sessant’anni fa.” “La memoria è uno specchio capriccioso. A volte ci mostra delle immagini così distanti e confuse da non riuscire neanche a distinguerle, altre volte così vicine che ci sembra di poterle toccare. La memoria è lo specchio delle illusioni.” “Ma se fin dall’inizio Kiyoaki non fosse esistito...” Honda brancolava nella nebbia. Il suo incontro con la badessa sembrava quasi un sogno. Parlava a voce alta, come se cercasse di recuperare il suo Io che scompariva come una traccia d’alito su un vassoio di lacca. “Se Kiyoaki non è mai esistito, allora non sono esistiti neppure Isao, Ying Chang e, chissà, neanche io stesso.” Per la prima volta gli occhi della badessa lo fissarono con forza. “Anche questo dipende da come si configura in ogni cuore.” Seguì un lungo silenzio. La badessa battè delicatamente le mani. La novizia ricomparve e si inginocchiò sulla porta. “Il signor Honda è stato così gentile da venir sin qui a farci visita. Credo che dovremmo mostrargli il giardino meridionale. Lo accompagnerò io stessa.” La novizia la condusse per la mano. Honda si alzò come azionato da fili, e le seguì attraverso le stanze buie.

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La novizia aprì gli shōji e lo condusse sulla veranda. Il grande giardino meridionale si stendeva davanti ai suoi occhi. Il prato, con la collina sullo sfondo, risplendeva nel sole estivo. “È da stamane che si ode la voce del cuculo,” disse la novizia. Il bosco al di là del prato era dominato dagli aceri. Un cancelletto di canne si apriva in direzione delle colline. Alcuni aceri erano rossi, nonostante si fosse in piena estate, fiamme nella verzura. Qualche pietra da sentiero era sparsa qua e là sul prato, e fra esse fiorivano timidamente i garofani selvatici. In un angolo sulla sinistra c’era un pozzo con la sua carrucola. Sul prato uno sgabello di smalto verde pallido sembrava così arroventato dal sole da poter bruciare chiunque vi si fosse seduto. Nel cielo azzurro sopra le verdi colline, le nuvole allineavano i loro contorni abbaglianti. Era un giardino luminoso e quieto, senza nulla di particolare. Come un rosario che scorra fra le dita, regnava assordante il frinire delle cicale. Nessun altro suono al di fuori di quello. Il giardino era vuoto. “Sono venuto” pensò Honda, “nel luogo del nulla, dove ogni ricordo è cancellato.” Il sole estivo inondava la quiete del giardino...33

E così i quattro lunghi volumi della tetralogia giungono a questo finale catartico e scioccante. Il lettore viene posto dinanzi all’immobilità, al silenzio e a una luce accecante che tutto annulla nel suo bagliore. Osserva Giorgio Amitrano: Le cose del mondo che si sono addensate in questi quattro volumi per rarefarsi e lasciar penetrare infine il vuoto assoluto su cui erano state sospese, non ripercorrono il processo inverso in un lento, graduale cadere di veli. Il gesto finale con cui è rivelata la luce, paragonato al lento fluviale snodarsi del racconto del Mare della fertilità, ha quasi la stessa velocità della luce34.

Se il lento e complesso snodarsi della narrazione rivela l’influenza della grande tradizione letteraria occidentale, il finale rivela tutta la sua natura orientale nell’annullamento del sé e del mondo fenomenico, e nella folgorante velocità con cui tutto ciò avviene. Quando Satoko dice di non ricordare l’esistenza di Kiyoaki, e Honda la incalza dicendole: “Se Kiyoaki non è mai esistito, allora non sono esistiti neppure Isao, Ying Chang e, chissà, neanche io stesso”, lei gli risponde: “Anche questo dipende da come si configura in ogni cuore”. In queste parole troviamo la riconferma perfetta della teoria yuishiki, e cioè che tutto quello che percepiamo non è altro che una costruzione che avviene nella 33 34

Ivi, pp. 1743-1748. Giorgio Amitrano, Op. cit., p. 88.

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nostra coscienza, al di là di quello che la “realtà oggettiva” concretamente presenti. Quello che è interessante notare, è che questo concetto che pervade tutta la tetralogia viene enunciato subito, all’inizio dell’opera, con un sermone buddhista. Ed è sempre una badessa del tempio di Gesshū a farlo, la predecessora di Satoko, ed è sempre Honda ad ascoltarlo, a quel tempo diciottenne, nella cornice del giardino della residenza dei Matsugae. Honda ne è così colpito da ripeterlo con entusiasmo, cercando di attirare su di esso l’attenzione del distratto e indifferente Kiyoaki. Il sermone della monaca riguardava un uomo di nome Yuan Xiao vissuto al tempo della dinastia Tang. Costui stava camminando sulla celebre montagna Gaoyu alla ricerca della dottrina buddhista quando, colto di sorpresa dal calar del sole, dovette pernottare tra alcuni tumuli funerari. In piena notte si svegliò con una gran sete. Allungò una mano e attinse dell’acqua da una buca al suo fianco. Non aveva mai bevuto acqua tanto pura, fresca e dissetante. Si addormentò di nuovo e la mattina, quando si svegliò, la luce dell’alba svelò l’oggetto che conteneva l’acqua da lui bevuta quella notte. Non avrebbe mai immaginato che l’acqua riempisse un teschio umano, e quando se ne rese conto venne colto da nausea e vomitò. Tuttavia questo gli rivelò una verità: e cioè che la mente umana riesce a discernere le esistenze solo se è cosciente, ma, se è sopita, anche un teschio esposto alle intemperie si trasforma in qualcosa di unico e irripetibile35.

Il teschio può essere dunque contenitore di acqua purissima e squisita, o fonte di nausea e vomito; sembrano già risuonare le ultime parole di Satoko: “Anche questo dipende da come si configura in ogni cuore”. L’inizio e la fine dell’opera vengono così sapientemente collegati da una struttura circolare. Il microcosmo del sermone della badessa del primo volume anticipa il composito macrocosmo di tutto il resto dell’opera, e ci guida verso la vorticosa conclusione della narrazione, dove il dissonante accordo finale riconduce tutto alla visione metafisica del vuoto, mettendo in discussione tutto quello che è stato vissuto nei lunghi quattro volumi del lavoro: le vite delle reincarnazioni, la vita stessa del protagonista. Immagine potente, dinanzi alla quale chi legge resta fortemente turbato dalla luce abbagliante che riverbera dalla pagina, e inizia a interrogarsi egli stesso sulla realtà della sua “esistenza” di lettore.

35

Mishima Yukio, Neve di primavera, cit., p. 241.

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I preparativi per l’azione Era più di un anno in anticipo rispetto alla data che aveva annunciato per il completamento della tetralogia, ma nessuno lo sapeva. E tutti quelli che gli erano vicini e che avrebbero potuto sospettare qualche azione drastica, erano relativamente tranquilli, convinti che non avrebbe tentato nulla fino a che non avesse portato a termine la sua opera. E in effetti un’altra delle cose che lascia perplessi è come egli sia riuscito ad accellerare così tanto la fine del suo capolavoro, organizzando nello stesso tempo il piano della sua morte. È vero che nella sua idea di unificazione di vita umana, politica e artistica tutto combaciava perfettamente, ma una cosa è l’idea e un’altra la capacità di realizzarla. Ad ogni modo il terribile accumulo di fatica e stress cominciò a diventare palese sul suo corpo. Appariva stanco e sciupato; ammise a sua madre, cosa rara, di essere esausto e che sarebbe stata l’ultima volta che si recava a Shimoda con la famiglia. Alla fine di agosto Mishima e suoi prescelti si incontrarono per decidere se far partecipare altri membri della società al loro piano. Chibi-Koga e Morita concordavano su un unico possibile candidato, Koga Hiroyasu – l’altro Koga dell’associazione chiamato Furu-Koga –, un neolaureato dell’università di Kanagawa che aveva trovato la direzione della sua vita leggendo Patriottismo. Il 1 settembre Chibi-Koga e Morita incontrarono Furu-Koga in un bar di Shinjuku e gli chiesero se era pronto a dare la sua vita, informandolo solo che “Mishima sensei” aveva pianificato di agire a Ichigaya. “Furu-Koga si inchinò ai suoi compagni ringraziandoli di averlo scelto”36. Il 9 settembre Furu-Koga fu invitato a cena da Mishima in un ristorante francese di Ginza. Mishima gli chiarì che non c’era alcuna speranza che le Forze di autodifesa si unissero a loro, e il giovane capì che si trattava di attuare il kirijini, l’estremo attacco suicida. Ribadì la sua totale disposizione a offrire la vita, e chiese se aveva tempo per un ultimo viaggio nel suo paese natale in Hokkaidō. Mishima gli disse che la data stabilita per l’attacco era il 25 novembre, quindi sarebbe stato meglio fare quel viaggio ai primi di ottobre, e che avrebbe contribuito alle spese. Alla metà di settembre Mishima posò per il giovane fotografo Shinoyama Kishin per la prima serie di fotografie intitolate Morte di un uomo (Otoko no shi). “Le scene erano state ideate e disegnate dallo scrittore stesso, e lo mostravano affogato nel fango, con un’accetta nel cervello, sotto le ruote di un camion”37; la raccolta conteneva inoltre la famosa foto scattata dallo 36 37

John Nathan, Op. cit., p. 266. Ivi, p. 267.

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stesso Shinoyama nel 1966, in cui Mishima appariva nella posa di San Sebastiano con le braccia legate al di sopra del capo e tre frecce conficcate nel costato. Era in progetto di pubblicarle sulla rivista Chi to bara (Sangue e rose), ma dopo la morte dello scrittore, il fotografo non se la sentì di consegnarle. Una delle foto più sconcertanti ed emblematiche lo ritrae seduto nudo sul pavimento con una spada corta conficcata nel ventre, e in piedi, dietro di lui, il fotografo Shinoyama con una lunga spada in attesa di un suo segnale per decapitarlo. Il 19 ottobre Furu-Koga era appena rientrato dal suo viaggio in Hokkaidō, Mishima e gli altri quattro cadetti posarono per una formale foto commemorativa. In un noto studio fotografico di Tōkyō, famoso per aver immortalato grandi generali del passato, Mishima, seduto su una sedia d’epoca attorniato dai suoi prescelti, ricostruiva un’atmosfera antica e solenne da restaurazione Meiji. Il 3 novembre Mishima incontrò Ogawa e i due Koga in una sauna di Roppongi e comunicò ai tre che nella loro azione non avrebbero dovuto togliersi la vita. “Il loro compito sarebbe stato quello di consegnare l’ostaggio sano e salvo (facendo attenzione che non facesse anch’egli seppuku per assumersi la responsabilità dell’incidente), e di farsi arrestare senza opposizione per poter spiegare in seguito lo spirito della Società degli scudi nell’aula del tribunale”38. A differenza di quanto si possa immaginare, non fu facile per i tre giovani accettare questi ordini; erano tutti e tre pronti a sacrificarsi fino al gesto estremo e, per quanto Morita cercasse di rincuorarli dicendo: “La morte non ci separerà; ci incontreremo ancora da qualche parte”39, questo improvviso cambio di programma li disorientò alquanto. Nell’ultima settimana di novembre lo scrittore organizzò ai Magazzini Tobu una sua retrospettiva fotografica intitolata “Una mostra di Mishima Yukio”. La prima sala era rivestita di drappeggi neri – “Per evidenziare le immagini, per esaltare i contrasti”40, si giustificò con la madre che gli chiedeva spiegazioni sulla scelta di quel colore funereo –, e le foto, raggruppate in “quattro fiumi”, documentavano quasi tutta la sua vita, iniziando da quando era bambino fino al momento attuale, includendone alcune tratte anche dalla raccolta Morte di un uomo. È probabile che queste foto eccentriche e sconcertanti furono un forte motivo di attrazione per il pubblico, che si riversò copioso alla mostra per un’intera settimana. Nell’introduzione al catalogo della mostra leggiamo: 38 39 40

Ivi, p. 268. Cit. in Ibid. Cit. in Henry Scott Stokes, Op. cit., p. 118.

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Mentre a conclusione di sei anni di lavoro stavo per completare la mia tetralogia di romanzi Il mare della fertilità, i Magazzini Tobu mi hanno chiesto il permesso di allestire una mostra retrospettiva della mia carriera letteraria. Scrivo ormai da quasi un quarto di secolo, e mi piacerebbe rivedere le strade che ho battuto. Quando uno scrittore comincia a riguardare le sue opere, finisce in un vicolo cieco. Ma cosa c’e di male se gli altri desiderano ripercorrere il suo passato? Facciano pure. Mi sono limitato a dare qualche suggerimento, ossia quello di dividere i quarantacinque anni della mia vita – una vita carica di contraddizioni – in quattro fiumi: “Prosa”, “Teatro”, “Corpo” e “Azione”, che alla fine si riversano nel Mare della fertilità41.

A quel tempo il pubblico non sapeva ancora come sarebbe terminato l’ultimo volume della tetralogia Il mare della fertilità, e quindi non deve essere stato del tutto consapevole del messaggio che vi era implicito: che la sua intera esistenza si versava nello sconfinato mare del vuoto metafisico. “Il visitatore”, spiega lo scrittore nel catalogo della mostra, “saprà scegliere i fiumi che gli interessano, ed evitare di essere travolto dalla corrente di un fiume che non apprezza. Sarò grato a quanti vorranno seguire tutti e quattro i fiumi della mia vita, ma francamente dubito che costoro saranno numerosi”42. Il fiume della prosa Questo fiume mi aiuta, grazie alle sue acque, a coltivare i miei campi; mi accorda il necessario per vivere e talvolta mi sommerge e quasi mi affoga nella sua corrente feconda. Ma, mentre il tempo passa e le stagioni mutano, questo fiume esige anche dalla mia persona infinita pazienza e diuturna, ardua fatica. Come assomiglia il lavoro dello scrittore a quello del contadino! È necessario che l’attenzione sia perpetuamente vigile, per combattere il gelo e la tempesta. Dopo aver vegliato così a lungo e con tanta oculatezza sul campo dei miei scritti, dopo aver profuso senza risparmio la mia immaginazione e la mia poesia, posso sperare fiducioso in un raccolto opimo? Ciò che ho scritto mi abbandona, non colma il mio vuoto e finisce per essere soltanto una frusta che mi sferza senza requie. Quante notti di lotta insonne, quante ore disperate ho dovuto consumare su quelle mie pagine! Se dovessi radunare e catalogare tutti i ricordi ch’io conservo di quelle notti, impazzirei. Eppure, se voglio continuare a vivere, non ho altra scelta se non quella di scrivere una 43 riga, un’altra riga, un’altra ancora...

41 42 43

Cit. in Ibid. Ivi, p. 119. Ibid.

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Il fiume del teatro Un tempo per me il teatro era un divertimento non dissimile da quello offerto da un’allegra festicciola tra amici al termine di una giornata di lavoro. Nel teatro trovavo un mondo diverso, un mondo fatto di vivide luci e di colori nel quale i personaggi che davano vita alla mia creazione, avvolti in attraenti costumi, ridevano, piangevano, gridavano, danzavano, nella cornice di un elegante apparato scenico... Poi, a poco a poco questo passatempo si è tramutato in tossico. Il fascino del teatro, che consiste nel suscitare al cospetto della gente l’ingannevole immagine dei momenti più nobili dell’esistenza, ha preso a corrompere il mio cuore. O forse soffrivo di essere un commediografo alienato? Il teatro, che vede scorrere un simulacro di sangue nel fascio dei riflettori, è forse in grado di commuovere e arricchire l’uomo di esperienze più incisive e profonde di ogni altro fattore attinente alla vita reale. Colgo la bellezza del teatro nella sua struttura teoretica e astratta, e questa particolare bellezza non ha mai cessato di essere l’immagine stessa di ciò che nel mio cuore ho sempre considerato il mio ideale in Arte44. Il fiume del corpo Questo è un giovane fiume che ha cominciato a scorrere a metà della mia vita. Da gran tempo, ormai, mi dolevo del fatto che solamente il mio spirito invisibile fosse in grado di dar vita a tangibili visioni di bellezza. Perché io non potevo diventare qualcosa di bello a vedersi, e come tale meritevole di essere guardato? A tale scopo non mi restava che rendere bello il mio corpo. Quando alla fine sono riuscito a conquistare questo corpo, ho voluto mostrarlo a tutti, farne sfoggio e metterlo in azione davanti agli occhi di tutti, come un bambino che ha un balocco nuovo... Ma il corpo è destinato a corrompersi, non altrimenti dal complicato meccanismo di un motore. Io tuttavia non voglio sottomettermi a questa sorte. Il che significa che non accetto il corso della natura...45 Il fiume dell’azione Era logico che il fiume del corpo confluisse nel fiume dell’azione. Era inevitabile. Ciò non è vero per un corpo femminile. Ma il corpo di un uomo, con la natura e le funzioni che ad esso sono intrinseche, lo sospinge per forza di cose verso il fiume dell’azione, il più pericoloso della giungla. Pesci piranha e alligatori ne infestano le acque. Dai campi nemici scoccano frecce avvelenate. Questo fiume si contrappone al fiume della prosa. Mi è capitato spesso di udire 44 45

Ivi, pp. 186-187. Ivi, p. 196.

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il facile motto secondo il quale “la penna e la spada confluiscono in un unico cammino”. Ma in realtà possono convergere solo al momento della morte. Devo a questo fiume dell’azione le lacrime, il sangue, il sudore che non sono mai riuscito a trovare nel fiume della prosa. In questo nuovo fiume, un’anima si incontra con un’anima senza doversi curare delle parole. Ma questo è anche il più distruttivo dei fiumi, e non stento a comprendere perché ben pochi vi si accostino. Questo fiume è ingeneroso nei confronti del contadino, non accorda pace, né requie, né ricchezza. Concedetemi peraltro di dire una cosa: io, che sono nato uomo e vivo da uomo, non potrò mai vincere la tentazione di seguire il corso di questo fiume46.

Il giorno prima dell’apertura della mostra, Mishima insieme al redattore Nitta Hiroshi controllò che tutto fosse a posto, che i titoli fossero stati adeguatamente sistemati. In questa occasione chiese a Nitta che ne pensava di iniziare a progettare la pubblicazione della sua Opera omnia. Nitta ovviamente era perplesso, perché progettare la pubblicazione di un’Opera omnia di uno scrittore ancora nel pieno della sua attività? Ma Mishima insisteva nel volerne parlare, e diceva che “avrebbe voluto includere non solo i suoi scritti, ma anche le cassette di tutte le letture che aveva registrato, le fotografie, e una copia del film Patriottismo”47. Nitta sempre più perplesso gli fece notare quanto fosse complicato organizzare, impacchettare e vendere un simile prodotto, ma lo scrittore ribadì che la sua Opera omnia doveva contenere, per quanto possibile, tutti gli aspetti della sua esistenza. Il 14 novembre ancora un incontro alla sauna di Roppongi con tutti gli altri quattro per leggere e approvare il manifesto che aveva scritto. Il documento si concentrava essenzialmente sulla necessità imprescindibile di rinnovare una costituzione disonorevole, che negava alle Forze di autodifesa la loro identità di esercito nazionale relegandole in una condizione ibrida e indefinita di polizia speciale. All’unanimità approvarono il manifesto, quindi organizzarono una precisa tabella del tempo per l’azione di quel giorno: Venti minuti dalla cattura del comandante al radunarsi della divisione; trenta minuti per il discorso di Mishima sul manifesto da loro approvato; cinque minuti ciascuno ai quattro cadetti per manifestare il loro pensiero; cinque minuti per impartire le istruzioni di scioglimento alla Società degli scudi che, essendo stata fondata con l’ideale di un’unica azione finale, dopo non avrebbe avuto più ragione di esistere; quindi, per concludere, tre acclamazioni all’imperatore48. 46 47 48

Ivi, p. 204. John Nathan, Op. cit., pp. 269-270. Ivi, p. 271.

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Il 21 novembre Morita e Chibi-Koga, con la scusa di consegnare un libro di Mishima, si recarono all’ufficio del comandante di reggimento per verificare se il giorno 25 sarebbe stato nel suo ufficio, e scoprirono che non ci sarebbe stato. A questa notizia Mishima disse che sarebbero dovuti ritornare all’ipotesi iniziale di catturare il comandante della divisione, perché ormai era troppo tardi per posporre la data. Prese immediatamente un appuntamento per vedere il comandante, generale Masuda, nel suo ufficio, alle 11,00 del giorno 25. Il giorno seguente i quattro cadetti acquistarono il necessario per l’azione: “una corda per legare il comandante, filo metallico e pinze per barricare le porte dell’ufficio, rotoli di stoffa sui quali scrivere le loro ‘richieste’ da appendere sul balcone del’ufficio, borracce e brandy per darsi carica emotiva”49. In quello stesso giorno Morita chiese a Chibi-Koga di prendere il suo posto qualora fosse accaduto qualche imprevisto che gli avesse impedito di fare il kaishaku di Mishima, cioè di tagliare la testa al maestro dopo che avesse fatto seppuku. Per i due giorni successivi il gruppo, radunatosi in una stanza del Marunouchi Palace Hotel, fece prove concrete dell’azione, con Mishima che faceva la parte del comandante. Mishima provò anche il suo discorso ad alta voce, tenendo il televisore acceso per evitare di essere udito dall’esterno. In quell’occasione scrissero le loro richieste su rotoli di stoffa, e prepararono le bende che avrebbero cinto intorno al capo con su scritto l’antico motto militare “Sette vite per la patria” (Shichishō hōkoku). Il pomeriggio del ventiquattro, il giorno prima dell’azione, tutti composero il tradizionale poema di addio al mondo nella metrica delle 31 sillabe della poesia classica giapponese; anche se il piano prevedeva solo la morte di Mishima e di Morita, non si poteva essere certi che tutti gli altri sarebbero restati vivi. I giovani cadetti erano molto imbarazzati a comporre poesie davanti a quel maestro di letteratura, ma Mishima fece di tutto per metterli a loro agio. “Li incoraggiò a scrivere quello che gli veniva spontaneamente in testa, senza preoccuparsi della tecnica; prima che i cadetti copiassero i loro versi sulla carta formale, li aiutò ad affinare qui e là le frasi che avevano scritto”50. Alle quattro lasciarono l’hotel e andarono tutti insieme a mangiare un’ultima volta in un piccolo ristorante vicino Shinbashi. Ogawa e FuruKoga andarono a dormire da Chibi-Koga nella sua stanza a Tozuka. Morita ritornò nella sua stanza a Shinjuku e Mishima a casa sua. Quella sera Mishima si recò, prima del solito, nell’ala della casa riservata ai genitori per porgere il suo ultimo saluto; la cosa non passò inosservata, 49 50

Ivi, p.272. Ibid.

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ma fu attribuita alla palese stanchezza disegnata sul suo viso e al bisogno di andare a dormire prima. Egli invece, dopo la sua breve visita, si chiuse nello studio fino a tarda notte. Era trascorso meno di un anno da quando aveva deciso con Morita di morire, otto mesi dall’inizio della pianificazione della sua morte. In questo non così lungo periodo Mishima era riuscito a portare a termine tutto il materiale letterario che gli era stato commissionato dalle case editrici, evitando di fare qualunque altro contratto. Ora restavano gli ultimi preparativi. “Telefonò ai giornalisti Date e Tokuoka dicendo loro che avrebbe voluto incontrarli il giorno seguente tra le 10,00 e le 10,05 del mattino. Poi scrisse delle lettere; a Donald Keene e Ivan Morris51 a New York, chiedendo loro di rivedere insieme la traduzione del Mare della fertilità, per la quale nutriva grosse preoccupazioni. Poi scrisse altre lettere, nove o dieci in tutto, le ultime parole a persone che avevano rivestito ruoli di varia importanza nella sua vita. Non si sa se ce ne fosse una per Yoko; di sicuro una ai suoi genitori, una al cadetto Kuramochi, con le istruzioni per lo scioglimento della Società degli scudi”52. Un’altra lunga lettera la scrisse a Izawa Kanemaro, un suo agente di fiducia, in cui leggiamo: Vestitemi con l’uniforme della Società degli scudi, mettetemi dei guanti bianchi e una spada da soldato in mano, e poi scattatemi una fotografia. La mia famiglia potrebbe obiettare, ma io voglio che ci sia la prova che non sono morto come un letterato, ma come un guerriero53.

Simili affermazioni le ritroviamo nella lettera ai genitori: Ho gettato via la penna. Poiché muoio non come un uomo di lettere, ma come un uomo d’armi, voglio il carattere di spada – bu – incluso nel mio nome buddhista (postumo). Il carattere di penna – bun – non è necessario che compaia54.

Come non restare sconcertati dinanzi a questa abiura degli ultimi attimi della sua vita, dopo un’esistenza consacrata all’altare delle lettere. Poi, in evidente contraddizione con queste ultime affermazioni, firmò e sigillò nel plico di consegna l’ultima dispensa della Decomposizione dell’angelo, apponendovi la data del 25 novembre 1970: la sua esistenza fisica e la sua esistenza artistica sarebbero terminate in perfetto sincronismo. Ma forse non c’è da 51

Entrambi rinomati professori della Columbia University, nonché suoi critici e tradut-

tori. 52 53 54

John Nathan, Op. cit., p. 273. Ibid. Cit. in ibid.

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meravigliarsi di questa ulteriore apparente contraddizione: è vero che Mishima aveva sempre cercato di separare il mondo della finzione da quello della vita, ma aveva lasciato i due sempre vorticare in una dinamica tensione, e ora, solo poco prima della morte lasciava che i due rifluissero l’uno nell’altro, per la sua ultima totale “realizzazione”. In ultimo, sulla scrivania depose un foglio su cui era scritto: “L’esistenza umana ha un corso limitato, eppure vorrei tanto vivere in eterno”. Un’affermazione sorprendente per chi di lì a poco si sarebbe tolto la vita con le proprie mani. Ma forse il troppo esasperato desiderio di vivere, talvolta può condurre al polo opposto. “L’inclinazione per la morte è frequente negli esseri dotati di grande avidità per la vita”55.

Il giorno dell’azione La mattina del 25 novembre Morita e gli altri tre cadetti, tutti e quattro con l’uniforme della Società degli scudi, partirono da Shinjuku poco dopo le nove. Chibi-Koga guidava una berlina bianca, acquistata a luglio per questo giorno. Lungo il tragitto si fermarono per farla lavare, quindi giunsero all’abitazione di Mishima alle 10,15. Mishima andò loro incontro, anch’egli in uniforme, con una lunga spada giapponese e, in una custodia a parte, due spade corte. Entrato in macchina, consegnò al piccolo Koga una busta contenente 90.000 yen per le spese degli avvocati, e una lettera dove si assumeva tutte le responsabilità dell’azione ordinando ai tre studenti di non morire e rappresentare la Società degli scudi in tribunale. “Chibi-Koba e gli altri lessero la lettera e giurarono di obbedire alla volontà di Mishima, quindi si avviarono. Lungo il tragitto si trovarono a passare dinanzi alla scuola elementare della Scuola dei Pari, dove in quel momento era in classe la figlia dello scrittore. Mishima sdrammatizzò la situazione, scherzando sul tipo di musica che a questo punto sarebbe partita in un film di gangster e iniziò a cantare; i cadetti si unirono a lui”56. Giunsero al Quartier generale delle Forze di autodifesa di Ichigaya alle 10,50 e furono subito introdotti nell’ufficio del comandante Masuda al secondo piano. L’ufficio non era proprio l’ideale per la loro azione: oltre all’ingresso che dava sul corridoio (ai cui lati peraltro si aprivano due finestre con vetri smerigliati dove era collocato anche uno spioncino), vi erano altre due porte che mettevano in comunicazione la stanza con altri due uffici 55 56

Marguerite Yourcenar, Op. cit., p. 73. John Nathan, Op. cit., p. 274.

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adiacenti, e se si considerava anche il balcone, era possibile penetrare nel locale da tutti i suoi quattro lati. Mishima spiegò al generale che erano in uniforme perché quel giorno si sarebbe tenuto il raduno mensile della Società degli scudi. Presentò i quattro cadetti, dicendo che avrebbero ricevuto uno speciale encomio al raduno. Il generale fu colpito dal comportamento impeccabile dei ragazzi e dall’eleganza delle loro divise. Poi la sua attenzione si spostò sulla spada che portava Mishima, e subito gli chiese se era affilata, o solo un oggetto da esposizione. Mishima gli rispose che era molto ben affilata, e il comandante rimase oltremodo sorpreso che la polizia gli consentisse di trasportare un’arma così pericolosa. Mishima gli disse che era una spada antica, opera del famoso armaiolo del 1600 Seki no Magoroku, quindi la sguainò per mostrargliela. Poiché la lama era ricoperta da un sottile strato di grasso che la rendeva leggermente opaca, prima di porgerla al comandante per lasciargliela ammirare chiese a Chibi-Koga un fazzoletto per pulirla. Questo era il segnale che dava il via all’azione; Chibi-Koga si alzò e si diresse verso il generale Masuda e Mishima; il piano voleva che con questo espediente il cadetto, passando alle spalle del generale, lo immobilizzasse e imbavagliasse. Ma il piano fu una cosa e la sua realizzazione un’altra. Proprio mentre Chibi-Koga si dirigeva verso il comandante, questi si allontanò dal punto in cui si trovava per prendere a sua volta un panno per pulire la lama della spada. Il cadetto non potè far altro che porgere il fazzoletto a Mishima e tornare al suo posto. Dopo aver pulito accuratamente la lama, Mishima la porse al comandante che non potè fare a meno di esternare tutta la sua ammirazione per un pezzo così bello e raro. Dopo un minuzioso esame la restituì al proprietario e tornò a sedersi. I minuti trascorrevano, non c’era più tempo da perdere, né un piano di riserva che sostituisse il primo andato a vuoto; Mishima lanciò un’occhiata ai suoi cadetti, Chibi-Koga si avvicinò a lui e, dopo un repentino scambio di sguardi, il giovane si portò rapidamente alle spalle del generale e lo immobilizzò stringendogli il collo tra le mani. Ogawa e Furu-Koga scattarono dai loro posti e gli legarono le braccia dietro la schiena e le gambe alla sedia. Poi lo imbavagliarono con il fazzoletto, facendo attenzione che riuscisse a respirare. Mentre Chibi-Koga teneva sotto controllo il comandante con una delle spade corte, gli altri cadetti si davano da fare per barricare le tre entrate dell’ufficio. Erano le 11,20 quando all’improvviso alcuni militari dell’ufficio adiacente, insospettiti dai rumori, cercarono di entrare. Mishima disse loro risolutamente di allontanarsi o avrebbe immediatamente tolto la vita al generale, quindi fece scivolare il foglio con le sue richieste sotto la porta. Sul foglio c’era scritto:

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1) Far adunare l’intera divisione orientale davanti all’edificio del Quartier generale alle 12,00. 2) Ascoltare in silenzio il discorso di Mishima e le brevi osservazioni dei quattro studenti. 3) Condurre sul posto gli altri membri della Società degli scudi, che erano radunati per un incontro all’edificio Ichigaya kaikan, per ascoltare Mishima e i loro compagni. 4) Non tentare alcuna azione offensiva o dissuasiva dalle 11,00 alle 13,10.57

Qualora ci fosse stata una qualunque interferenza, specificava Mishima – uso di gas, acqua, tentativi di arrampicamenti dei militari, rumore, luci abbaglianti, comunicati per altoparlanti, attacchi psicologici di vario tipo ecc... – , minacciava di uccidere subito l’ostaggio e poi di togliersi lui stesso la vita con il seppuku. Se le sue richieste fossero state rispettate, il comandante sarebbe stato liberato illeso entro due ore. L’ultimo articolo non lasciava spazio a nessuna trattativa diversa dalla strada da lui scelta: 4) Riguardo alle suddette richieste: a) Non sarà considerata alcuna alternativa b) Non saranno fornite spiegazioni c) Non sarà data risposta a nessuna domanda d) Non saranno accettati incontri o dialoghi di sorta.58

In meno di dieci minuti l’ufficiale in carica, dall’altra parte della porta, si convinse che Mishima faceva sul serio. In questo lasso di tempo, una dozzina di giovani ufficiali riuscirono a forzare le barricate tentando di penetrare nella stanza un po’ alla volta, ma Mishima e Morita li respinsero con le loro spade. Colpirono braccia e gambe evitando i punti vitali, e dovettero ferire ben sette uomini prima che l’ufficiale più anziano desse l’ordine di fermarsi e promettesse di far radunare la divisione. Erano le 11,35. Ora non restava che attendere che i soldati si radunassero; i cadetti presero dalla borsa le bende bianche che avevano preparato, con un cerchio rosso e la scritta “Sette vite per la patria”, e le legarono strette attorno alla fronte, pronti a portare fino in fondo la loro azione. Dall’esterno i militari controllavano i loro movimenti attraverso una delle finestre, il cui vetro smerigliato era andato in frantumi durante il precedente scontro; ma la cosa non sembrò preoccupare particolarmente Mishima, che tirò fuori un pacchetto di sigarette e si mise a fumare con, perlomeno apparente, tranquillità. 57 58

Ivi, p. 275. Ivi, p. 276.

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Intanto i giornalisti Date e Tokuoka erano giunti all’Ichigaya Kaikan alle 11,00. Prima di uscire di casa, Mishima aveva telefonato a entrambi, chiedendo loro di attenderlo all’ingresso dell’edificio con le macchine fotografiche e la fascia “stampa” sul braccio; tra l’altro, i due si incontravano per la prima volta. Attesero lì fino alle 11,20; poi un membro della Società degli scudi, seguendo le istruzioni che aveva ricevuto, venne giù dal terzo piano dove i suoi compagni erano riuniti per il raduno mensile, e senza sapere cosa stesse realmente accadendo, si limitò a eseguire gli ordini consegnando ai giornalisti due lettere a loro indirizzate. In ognuna delle due buste c’era lo stesso contenuto: una copia della fotografia commemorativa di Mishima attorniato dai suoi quattro prescelti, una copia del manifesto stilato per l’azione, e una lettera identica. Verrò subito al punto. Non ti ho fatto venire qui, strappandoti al tuo lavoro, in cerca di pubblicità. Poiché tutto si svolgerà al Quartier generale delle Forze di autodifesa, ho paura che si tenti di insabbiare tutto e che le nostre reali intenzioni non riusciranno a essere comunicate. Inoltre, poiché non sarà chiaro sino all’ultimo momento se riusciremo o no nel nostro intento, e poiché ci potrebbero essere serie conseguenze se qualcosa ci costringesse ad abbandonare il nostro piano, con la stampa che ne è al corrente, conto sulla nostra amicizia per chiederti un favore personale. Tutto ciò che ho da dire è contenuto nel manifesto, in cui ci sono anche i lineamenti generali del discorso che terrò. Come farò questo discorso ora non posso dirtelo. Finché non accadrà nulla, la cosa più sicura per te è attendere nella lobby dell’Ichigaya kaikan. Per favore non tentare di contattare il Quartier generale delle Forze di autodifesa. Al terzo piano dell’Ichigaya kaikan i cadetti della Società degli scudi, del tutto all’oscuro di questo piano, sono riuniti per il loro raduno mensile. Ti accorgerai che sta accadendo qualcosa, quando verrà ordinato loro, dalle Forze di autodifesa o dalla polizia, di trasferirsi in un altro posto. In quel momento infila al braccio la fascia “stampa” ed entra nella base di Ichigaya, come se fossi capitato lì per caso, e subito ti renderai conto della situazione. Probabilmente ti farai un’idea di cosa sta accadendo guardando sul tetto dell’edificio. Ad ogni modo, sappi che non si tratta di un grosso incidente, è solo un’azione personale. Nella busta ho inserito anche il manifesto e la fotografia del nostro gruppo, perché ho paura che vengano confiscati dalla polizia. Nascondoli bene e considerati libero di pubblicarli. Ti prego di pubblicare il manifesto senza alcun taglio. Pensiamo che l’azione richiederà in tutto due ore. Ma durante queste due ore potrebbe accadere qualunque cosa, e il nostro piano fallire. Agli altri tutto

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ciò apparirà come pura follia; ma spero che tu invece capisca che la nostra è un’azione pura, nata dal più profondo amore per la patria. Se qualcosa dovesse obbligarmi ad abbandonare il piano, sarò all’Ichigaya kaikan non più tardi delle dodici meno venti. In tal caso, ti pregherei di restituirmi questa lettera, il manifesto e la fotografia, e di dimenticare tutto. Infine, ti prego di non contattare casa mia finché non sarà tutto finito. Mi scuso di essere così categorico e arbitrario. Il mio unico desiderio è che lo scopo della nostra azione venga comunicato al pubblico con esattezza. Mi scuso per il fastidio che ti ho causato, e colgo l’occasione per esprimerti tutta la mia gratitudine per la calorosa amicizia che mi hai dimostrato in questi due anni e mezzo di conoscenza. Mishima Yukio P.S. Ho avvisato solo un altro giornalista, con una lettera identica a questa, Tokuoka Atsuo del Sunday Mainichi59.

Mentre Date leggeva la lettera e dava uno sguardo al manifesto, si udirono le sirene delle ambulanze e della polizia. I due giornalisti si lanciarono fuori dell’edificio correndo verso l’entrata del Quartier generale della Divisione orientale. Ottocento uomini del trentaduesimo reggimento era stati fatti adunare davanti all’edificio principale. I poliziotti gunsero sul posto armati di tutto punto, e la prima cosa che fecero fu informarsi sulla dotazione di armi di Mishima e dei suoi uomini. “Una spada e un pugnale”, si sentirono rispondere; decisero di non fare immediato uso delle armi e di rispettare la tregua richiesta. Si appostarono lungo le scale dell’edificio, nel corridoio e davanti alle porte di accesso dell’ufficio del generale; ormai, pensarono, Mishima era in trappola. Dietro la finestra rotta si appostarono anche i cineoperatori: le immagini, almeno questo fu dichiarato successivamente, sarebbero state estremamente utili durante il processo. Intanto gli altri membri della Società degli scudi non arrivavano, si erano rifiutati di obbedire agli ordini delle Forze di autodifesa, non sapendo che si trattava della volontà di Mishima stesso. Poi sul balcone comparvero Morita e Ogawa, che srotolarono giù gli striscioni di stoffa con le richieste e lanciarono volantini con un lungo proclama di Mishima. Il manifesto, che denunciava il pericolo della perdita dei valori tradizionali e la caduta del Giappone sotto il giogo delle potenze occidentali, terminava con questo appello:

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Cit. in Ivi., pp. 277-278.

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Non possiamo più attendere. Non c’è più motivo di attendere coloro che continuano a profanare se stessi. Attenderemo ancora solo trenta minuti, gli ultimi trenta minuti. Insorgeremo insieme ed insieme moriremo per l’onore. Ma prima di morire ridoneremo al Giappone il suo autentico volto. Avete tanto cara la vita da sacrificarle l’esistenza dello spirito? Che sorta di esercito è mai questo, che non concepisce valore più nobile della vita? Noi ora testimonieremo a tutti voi l’esistenza di un valore più alto del rispetto per la vita. Questo valore non è la libertà, non è la democrazia. È il Giappone. Il Paese della nostra amata storia, delle nostre tradizioni: il Giappone. Non c’è nessuno tra voi disposto a morire per scagliarsi contro la Costituzione che ha disossato la nostra patria? Se esiste, che sorga e muoia con noi! Abbiamo intrapreso quest’azione nell’ardente speranza che voi tutti, a cui è stato donato un animo purissimo, possiate ritornare a essere veri uomini, veri guerrieri60.

Alle 12,00 in punto Mishima comparve sul balcone, intorno al capo la fascia con il simbolo del sol levante e i guanti bianchi macchiati di sangue. Iniziò il suo discorso. Nessuno lo ascoltava, nessuno sembrava interessato; e se qualcuno lo fosse stato, sarebbe stato impossibile capire quello che diceva in mezzo al frastuono delle grida dei soldati radunati che, alcuni arrabbiati altri divertiti, non facevano altro che minacciarlo, deriderlo, insultarlo. Nella stanza del comandante uno dei cadetti diceva, attraverso la porta agli ufficiali nel corridoio, che se non avessero ordinato ai soldati di fare silenzio avrebbero ucciso l’ostaggio. L’ordine venne subito impartito, ma non sortì alcun effetto. Alle grida dei soldati si aggiunse il frastuono di tre elicotteri della polizia che avevano iniziato a girare sulla sua testa. Non c’era più tempo da perdere, “Mishima prese a gridare disperatamente la sostanza del suo manifesto, guardando di continuo l’orologio. Aveva progettato di parlare per trenta minuti, ma dopo sette si convinse che era del tutto inutile continuare. Tentò un ultimo appello finale con cui chiedeva ai soldati di unirsi a lui e ai suoi cadetti nella morte”61. Ma anche queste frasi naufragarono nella tempesta del baccano assordante. Allora fece cenno a Morita di avvicinarsi, e l’uno a fianco all’altro gridarono per tre volte Tennō heika banzai (Vita eterna all’imperatore); poi subito rientrarono e la folla sottostante tacque di colpo. “Penso che non mi abbiano neanche sentito”62, disse rientrando. Intanto si sbottonava l’uniforme per prepararsi al gesto finale. Si portò in un angolo della stanza dove non potevano arrivare sguardi e telecamere e si 60

Mishima Yukio, “Proclama”, in Lezioni spirituali per giovani samurai, Milano, SE, 1988, pp. 123-124. 61 John Nathan, Op. cit., p. 279. 62 Cit. in ibid.

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accovacciò con la giacca aperta, mentre il generale Mashita, a cui era stato tolto il bavaglio, gli gridava di non fare pazzie. Ma Mishima gli disse che non aveva altra scelta, e che lui non era affatto tenuto a seguirlo in quel gesto, non essendone assolutamente responsabile. Le successive implorazioni del comandante furono ignorate. Morita si pose dietro di lui con l’antica spada di Magoroku sollevata sul capo. Ogawa gli porse un foglio di carta e un pennello per scrivere, come era stato precedentemente concordato, un ultimo messaggio con il suo sangue, ma Mishima disse che non aveva più intenzione di farlo. Serrò la spada corta con entrambe le mani, lanciò ancora una volta il suo ultimo saluto all’imperatore: “Tennō heika banzai!”, e con un grido secco conficcò la lama nel lato sinistro dell’addome. Il dolore doveva essere terribile, lancinante, ma Mishima con sforzo sovrumano iniziò ad aprirsi il ventre tirando la spada verso destra, e lottando contro i vigorosi muscoli addominali che spingevano istintivamente la lama fuori della carne. Un ultimo terribile colpo sistemò definitivamente la lama nella ferita da cui sgorgava copioso il sangue. Riuscì a portare a termine il taglio rituale, poi, chiedendo a Morita di fare presto, cadde in avanti col capo sul pavimento63. Morita calò subito la lama sul suo collo, ma mancò il bersaglio, ferendogli invece profondamente le spalle e la schiena. Mishima si torceva al suolo in agonia. “Ancora!” gridò Furu-Koga, e Morita colpì ancora, ma ancora una volta mancò il bersaglio, squarciando ancor più atrocemente il corpo del moribondo. Un terzo disperato colpo raggiunse il collo, senza peraltro riuscire a decapitarlo completamente. “Koga!” implorò avvilito Morita, chiedendo il suo aiuto. Furu-Koga afferrò la spada dalle sue mani e decapitò di netto Mishima con un quarto colpo. I cadetti si inginocchiaro in silenzio e recitarono tra lacrime e singhiozzi una preghiera buddhista a cui si univa anche il generale. Ma non era ancora finito. Morita si inginocchiò e ripetè gli stessi gesti del suo leader, Furu-Koga si pose dietro di lui con la spada in alto pronto a colpire. Lanciò un ultimo saluto all’imperatore, poi cercò di affondarsi nell’addome la stessa lama sporca di sangue che pochi istanti prima aveva squarciato il ventre di Mishima, ma non riuscì che a praticarsi un piccolo taglio superficiale. Subito esortò il suo compagno a colpire, e Furu-Koga lo decapitò al primo colpo. 63

Non era assolutamente facile riuscire a praticare completamente il taglio a croce del seppuku, sia per il dolore indicibile, sia per la forza fisica e la tecnica necessarie. In molti casi si riusciva solo ad effettuare un piccolo taglio superficiale che dava il segnale al kaishaku di procedere alla decapitazione, mettendo subito fine alle sofferenze del suicida. Inutile dire che portare a termine il seppuku, praticando il taglio completo secondo il rituale, era l’estrema prova che un samurai dava del suo coraggio e della sua forza.

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I tre cadetti sopravvissuti allinearono le teste decapitate sul pavimento, e stringendosi forte le mani si inchinarono devotamente verso di loro, iniziando a pregare insieme al generale. Poi i tre giovani esplosero in un pianto disperato, e il comandante li esortò a piangere forte. Alla fine slegarono il generale e lo condussero nel corridoio per consegnarlo ai suoi uomini, quindi porsero i polsi e si fecero ammanettare64.

Post mortem A casa Mishima c’era solo il padre Azusa, che aveva saputo dell’incidente guardando il telegiornale di mezzogiorno. La moglie Yoko stava recandosi in taxi a pranzo quando ascoltò la notizia per radio. Quella notte il giardino di casa Mishima restò illuminato a giorno sotto i riflettori della televisione, con tutta la stampa radunata di fronte al cancello di ingresso. “La casa era buia, il cancello di ferro chiuso con un lucchetto, e su di esso un avviso annunciava che Hiraoka Kimitake al momento sarebbe stato compianto dai soli familiari; si chiedeva inoltre di non lasciare fiori o soldi”65. Il corpo non arrivò a casa fino alle quattro del pomeriggio del giorno successivo. Il crematorio chiudeva alle cinque, e il tempo per l’ultimo saluto di commiato fu brevissimo. Rispettando le sue ultime volontà, Mishima fu vestito con l’uniforme della Società degli scudi, con una spada adagiata di traverso sul petto. All’ultimo momento, Yoko, forse contravvenendo ai desideri espliciti del defunto ma intuendone forse quelli inconsci, pose nella bara la sua penna stilografica e dei fogli di carta. Poi la salma fu portata al crematorio, scortata solo dal padre Azusa e dal suocero Sugiyama Nei. Il giorno seguente la casa restò aperta per gli amici che venivano a bruciare incenso alla memoria del defunto. Uno degli ospiti si presentò con un bouquet di rose bianche, e quando la madre di Mishima lo vide gli disse: “Avrebbe dovuto portare rose rosse per questa celebrazione. Questa è stata la prima volta che nella sua vita Kimitake ha fatto quello che davvero desiderava. Sia felice per lui”66. 64

Il processo penale contro i tre cadetti sopravvissuti si aprì alla Corte distrettuale di Tōkyō nel marzo del 1971 e sarebbe durato circa un anno, fino all’aprile del 1972, concludendosi con la condanna a quattro anni di carcere. Il processo fu un occasione, proprio come Mishima aveva sperato, per i tre membri della Società degli scudi di ribadire le posizioni e le idee della loro associazione e del loro leader. 65 John Nathan, Op. cit., pp. 280-281. 66 Cit. in Ibid.

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Nel gennaio del 1971 si tennero i funerali pubblici, nel tempio di Tsukiji Honganji di Tōkyō, con la presenza di circa diecimila persone; una delle più imponenti cerimonie funebri che si fossero mai celebrate in Giappone. In prima fila figurava, insieme ai familiari più stretti, il suo “maestro” e mentore Kawabata Yasunari. Dietro sedevano un centinaio di cadetti con l’uniforme della Società degli scudi. * * * L’immagine del capo mozzo di Mishima con la benda dell’azione ancora ben stretta, adagiata sul tappeto tutto insaguinato dell’ufficio del generale Mashita, venne diffusa dalla stampa e pubblicata sulla rivista Life. Si può immaginare quante e quali furono le reazioni nella società Giapponese del tempo. Non vi fu quasi nessuno disposto a giustificare il suo gesto, né tra gli intellettuali, né tra gli uomini politici, né tra amici e conoscenti, né tra i familiari. Quello che però la maggior parte della gente provava era una profonda commozione e una sorta di solidarietà per quel gesto sconsiderato e cruento, ma profondamente sincero nella sua dichiarata motivazione: la difesa dell’imperatore e della cultura tradizionale giapponese. Nondimeno, fu la disapprovazione per la modalità violenta e sanguinaria con cui aveva deciso di esprimere il suo credo che tese a prevalere in tutti gli ambienti. Il suo “maestro” Kawabata Yasunari, giunto quasi subito sul luogo dell’incidente, riuscì a vedere per qualche attimo i due cadaveri; alla stampa che gli chiedeva un commento, disse soltanto: “Che vita sprecata!”67. La moglie Yoko sempre restia a parlare con gli altri di suo marito e delle sue scelte, fu con i suoi gesti a manifestare disapprovazione: durante i funerali non volle sull’altare una foto del marito con l’uniforme della Società degli scudi, ma una che lo ritraeva semplicemente con una maglietta scura. Inoltre, si attivò subito per realizzare lo scioglimento di quell’esercito che aveva rappresentato agli occhi dei più la fase di “degenerazione” del pensiero di Mishima. Il 28 febbraio 1971 si tenne una cerimonia funebre in memoria dello scrittore, alla quale fu interdetta la presenza della Società degli scudi. In ogni occasione la vedova Mishima si sarebbe adoperata perché i posteri conservassero del marito non l’immagine di un fanatico estremista di destra, ma quella dello scrittore di fama internazionale. Per quanto riguarda il resto della famiglia, assunsero tutti posizioni decisamente critiche; il padre Azusa 67

Cit. in Henry Scott Stokes, Op. cit., p. 271. Nonostante questa aperta condanna del gesto, anche Kawabata, un anno e mezzo dopo, avrebbe seguito la stessa strada dell’“allievo”, suicidandosi con il gas, per ragioni mai svelate, nella sua villa di Kamakura.

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e il fratello Chiyuki non fecero altro che condannare il gesto. L’unica persona che trovò anche in questo terribile e sconcertante frangente parole di giustificazione, fu la devota e amata madre Shizue, che accusò tutti coloro che riteneva responsabili di aver trattato il figlio, nelle ultime fasi della sua esistenza, con ipocrisia e incomprensione. In effetti, quanti di quelli che erano vicini a lui, esclusi i suoi fedeli compagni d’azione, avevano capito che era ormai vicino a tradurre in realtà quello che negli ultimi tempi aveva sempre ribadito in scritti, conferenze e interviste? Probabilmente molto pochi – tra cui la moglie Yoko –, ma quei pochi di sicuro non hanno saputo come intervenire, non sono riusciti a trovare uno spiraglio per un dialogo che mettesse in discussione le sue idee profondamente radicate e inamovibili. Di certo messaggi ne ha dati. Ad esempio in una lettera datata 25 luglio 1968 indirizzata ad Henry Scott Stokes, di cui il biografo stesso ci parla: Mishima mi annuncia la morte di Hinuma Rintarō (critico letterario e amico dello scrittore). Mi scrive che spesso Hinuma gli aveva fatto osservare come il suicidio sarebbe stata l’unica conclusione idonea alla sua (di Mishima) carriera letteraria. E aggiunge che da quando Hinuma è morto, si sente indotto a prendere sul serio quella sua riflessione68.

E a Donald Keene confessò, pur se con una risata fuorviante che suggellava la sua confessione: “Quando avrò terminato di scrivere Il mare della fertilità, l’unica cosa che mi resterà da fare è suicidarmi”69. Per non parlare di una delle ultime lettere, datata 4 agosto 1969, che Mishima scrisse a Kawabata, dove con tono per nulla ironico gli chiedeva un aiuto dopo la propria morte: Non temo la morte, ma temo per l’onore della mia famiglia dopo che sarò morto. Se mi accadesse qualcosa suppongo che il mondo ne approfitterebbe per stigmatizzare i miei più piccoli difetti e distruggere la mia reputazione. Non m’importa che mi si dileggi mentre sono vivo, ma l’idea che si possa ridere dei miei figli dopo la mia morte mi riesce intollerabile. Nella certezza che Lei è l’unica persona in grado di salvarli da questo pericolo, mi affido totalmente a Lei per l’avvenire70.

Molti si sono chiesti perché Kawabata non fece nulla dinanzi a quel messaggio così esplicito. Si conoscevano da così tanti anni, avrebbe forse 68 69 70

Henry Scott Stokes, Op. cit., p. 11. Cit. in Andō Takeshi, Op. cit., p. 301. Yasunari Kawabata – Yukio Mishima, Op. cit., p. 159.

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potuto cogliere più in profondità il significato di quelle parole; invece si limitò solo a leggere questo fatidico passaggio in occasione dei funerali di Mishima. In un dibattito con il critico di sinistra Furubayashi Takashi, rilasciato a pochi mesi di distanza dal suicidio, dalle sue parole trapela tutto l’insopportabile senso di inadeguatezza che ormai avverte nella società contemporanea e la stanchezza di andare avanti: Mishima: Io mi sento come Petronio, lo scrittore al seguito dell’imperatore romano Nerone che ha scritto il Satyricon. Forse sarà un’esagerazione, ma penso che gli scrittori che conoscono il giapponese si fermino alla mia generazione. Scrittori che hanno la lingua classica dentro, d’ora innanzi, non ci saranno più. Il futuro è dell’internazionalismo, dell’astrattismo. Abe Kōbō va in questa direzione, ma io non potrei andarci. Questo sarà un problema mondiale, almeno nei paesi capitalisti; nonostante le lingue differenti tutti si troveranno di fronte al medesimo problema. Se quest’epoca deve venire, venga pure, tanto io sono l’ultimo della mia generazione, non posso farci nulla. Furubayashi: Non posso farci nulla: non sono parole che si confanno a Mishima. Non avrà mica intenzione di smettere con Il mare della fertilità? Mishima: Mah, forse potrebbe essere il mio ultimo lavoro. Non saprei dire adesso. Non ho progetti per il futuro. Sono sfinito...71 E ancora, riguardo alle aspettative legate alle esperienze infantili: Mishima: (...) Gli esseri umani vanno soggetti a leggi di compensazione. Senza bisogno di scomodare la psicoanalisi, anche secondo le leggi della fisica, quando un polo elettrico si scarica molto, si ricarica subito. Al contrario, quando si carica in eccesso, la corrente scorre nella direzione opposta. Si tratta solo di questo. Penso che lo spirito e i sentimenti umani siano dominati quasi del tutto dalle leggi fisiche. Perciò il senso di inferiorità di quando eravamo bambini oggi si gonfia di un’enorme aspettativa, è naturale. La gente pensa che tenere a freno tale aspettativa sia attività intellettuale, ma a me l’idea non piace affatto. Gli esseri umani, da questo punto di vista, sono molto semplici: quando qui diventa basso aggiungono, quando lì diventa alto tolgono; questo è ciò che fanno tutti i comuni mortali. Per esempio, se questo tavolo traballa, segano una gamba. Oh! Ma ora è diventato basso di qua, allora seghiamo di là. E ancora, è diventato basso di là, seghiamo di lì. Così facendo, il tavolo a poco a poco resta senza gambe. Non è forse questa la vita? Io credo di trovarmi proprio vicino al momento in cui scompariranno tutte le gambe del tavolo72. 71 72

Furubayashi Takashi, Kobayashi Hideo, Op. cit., p. 83-84. Ivi, p. 82-83.

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Se qualcuno trovò la forza di dirgli che aveva capito tutto, questi non fu tra i suoi parenti o tra i suoi amici più stretti. Un espisodio significativo avvenne un anno prima della morte, proprio nella sua abitazione. Una mattina un giovane si mise in attesa davanti alla porta di casa Mishima. Si trattava di un’antica usanza, nota come niwazume (l’attesa in giardino), derivata dalla tradizione dei monaci itineranti, che facevano lunghe attese nel giardino di un tempio fin quando non ottenevano il permesso di entrare. La pratica si estese anche nell’ambiente non monastico, e veniva effettuata per farsi notare e riuscire a ottenere un incontro con un personaggio importante. Quanto più si restava in paziente attesa, all’aperto e con qualunque clima, tanto più si dimostrava il sincero e ardente desiderio di incontare quella persona, aumentando le probabilità di essere ricevuto. Il giovane rimase lì ad aspettare per ore, fin quando Mishima si arrese e disse alla domestica di farlo entrare. Appena fu in casa, Mishima lo aggredì dicendo: “Guarda che io non ho tempo da perdere. Puoi farmi una sola domanda, intesi?”. Dopo una breve pausa di silenzio il giovane gli chiese: “Maestro, quando si ucciderà?”73 * * * Superata la fase di iniziale sbalordimento e raccapriccio per l’incidente, l’opinione pubblica, a tutti i livelli, tentò di dare una spiegazione a quel gesto disperato e sconcertante. Nella primavera del 1971, a pochi mesi dalla sua morte, la rivista accademica Japan Quarterly pubblicava un articolo di Fukashiro Junrō intitolato “Post mortem”, in cui venivano elencate le più diffuse spiegazioni sulla morte di Mishima. “La teoria dell’alienazione mentale”, secondo la quale lo scrittore non era ormai più in grado di distinguere la realtà dalla fantasia e di controllare di conseguenza le sue azioni. “È chiaro che Mishima era pazzo”, aveva commentato l’allora presidente del Consiglio dei ministri Sato ai giornalisti che lo avevano intervistato subito dopo l’incidente. Certo una spiegazione poco convincente, vista la perfetta, paziente e lucida organizzazione di un’azione che il ministro giudicava frutto della pulsione irrefrenabile di un “pazzo”. “La teoria estetica”, secondo cui quell’atto era l’inevitabile conclusione a cui giungere per realizzare il suo ideale di bellezza, in cui l’opera artistica poteva trovare il suo totale compimento solo con la morte dram73

L’episodio è raccontato dallo stesso Mishima in una lettera a Donald Keene, citata nella biografia di Andō Takeshi. Andō Takeshi, Op. cit., p. 291.

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matica dell’artista. “La teoria della crisi creativa”, che vedeva lo scrittore, così prolifico e geniale da aver prodotto in trent’anni di attività quaranta volumi di opera omnia, ora davanti a un vuoto disperante. “La teoria del doppio suicidio d’amore” (shinjū), per la quale egli si sarebbe unito con il suo amante Morita in quell’ultimo gesto eroico ed erotico, emulando personaggi dei suoi lavori come il tenente Takeyama in Patriottismo. “La teoria del patriottismo”, che avrebbe dato credito alla motivazione dichiarata da Mishima, per l’appunto una sincera invocazione alla restaurazione del potere imperiale e della cultura tradizionale74. E la sincerità di tale invocazione era sottolineata dal gesto cruento con cui veniva espressa, concretizzando ciò che lo scrittore aveva dichiarato a un giornalista del Chicago Tribune, episodio in precedenza già citato, che gli chiedeva quali origini avesse la pratica del seppuku: Non posso credere nella sincerità occidentale perché è invisibile, ma in epoca feudale noi credevamo che la sincerità albergasse nelle nostre viscere. Se pertanto intendevamo dare prova della nostra schiettezza, dovevamo squarciarci il ventre ed estrarne la sincerità visibile. Ma ciò rappresenta altresì il simbolo della forza di volontà del soldato, ossia del samurai. Tutti sapevano come non esistesse una morte più dolorosa di questa. Sceglievano pertanto di soccombere nel modo più atroce per attestare il coraggio del samurai75.

Tra le varie teorie non ne compare una legata all’evidente e più volte manifestato desiderio di Mishima di morire all’apice delle proprie forze, di fermare quel “momento ineffabile” di bellezza ed energia che sarebbe andato inevitabilmente perduto con la vecchiaia e la decadenza fisica. Ma forse questo veniva considerato una motivazione satellitare rispetto alle altre, e che con esse non entrava assolutamente in contrasto. Molti additarono la fase “politica” dell’ultimo periodo della sua esistenza come la principale responsabile della “deviazione” dello scrittore dalla sua vita puramente letteraria. Dividendo, così, nettamente il Mishima letterato dal Mishima uomo d’azione, e, soprattutto, dividendo nettamente l’opera ultima Il mare della fertilità dal suo violento gesto finale. Ma erano poi così divisi questi due fiumi? E soprattutto, erano così divise la fine dell’opera letteraria dalla fine della sua esistenza? “Io ho un grande timore di completare quest’opera”, scrisse lo scrittore poco prima di portare a termine il monumentale lavoro. “Prima di tutto

74 75

Cit in Henry Scott Stokes, Op. cit., p. 265. Cit. in ivi, p. 9.

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perché essa è diventata per metà la mia vita, poi perché la sua conclusione mi fa paura”76. Interessanti ci sembrano le considerazioni di Okuno Takeo, eminente biografo di Mishima, riguardo al rapporto tra la l’opera finale e il suicidio dell’autore. Mishima già presagiva la situazione straordinaria di quando avrebbe completato Il mare della fertilità, la sua autodistruzione. Quando il 25 novembre 1970 è stata diffusa la notizia della sua morte, tutto è combaciato con quello che avevo intuitivamente pensato. Mishima per completare Il mare della fertilità non ha potuto evitare la trappola che lui stesso si era teso e di cui era perfettamente consapevole. Nel 1965, metre progettava questo lungo romanzo la situazione sociale era questa: il Giappone, caratterizzato da una pacifica società di massa, indossava la maschera del grande paese tutto teso verso lo sviluppo economico, trascurando e lasciando disperdere le sue principali componenti spirituali. Per questo lo scrittore, andando contro la tendenza generale, aveva scelto un tema eterno e altamente spirituale, una sorta di sublimazione dell’universo da far convergere e condensare nella sua opera. Lo scrittore così ha scelto una condizione estrema, del tutto opposta a quella della società in cui viveva, attuando una vera e propria falsificazione dell’esistenza reale. Una volta portato a termine Il mare della fertilità, non gli restava che morire. Non poteva più restare in questo mondo. Il suo Io aveva posto una premessa essenziale alla creazione dell’opera, che era quella di estinguersi subito dopo la sua conclusione. È stato come in quelle storie occidentali, dove i protagonisti vendono l’anima al diavolo per raggiungere ciò che vogliono. Mishima aveva già gli occhi di un moribondo. Quando ha preso la decisione di morire alla fine della sua ultima opera, la gonfia e caotica essenza del mondo si è improvvisamente materializzata dinanzi ai suoi occhi. Il suicida, poco prima di morire, vede sempre la radiografia del mondo. (...) Il mare della fertilità è un romanzo che aveva costruito esclusivamente con la premessa della morte. Se non fosse morto, l’opera non avrebbe avuto un carattere letterario davvero autentico. (...) Se avesse continuato a vivere, non avrebbe avuto altro che il vuoto dinanzi a sé, perché con la tetralogia il teso rapporto di antagonismo tra vita e arte era crollato. “Le due realtà che erano fluttuate sino a quel momento”, scrive egli stesso, “si erano definite, e nell’istante in cui il mondo del romanzo si era concluso e determinato, tutta la realtà esistita fino ad allora al di fuori di esso diventava carta straccia”77. Forse qualcuno potrà trovare tutto ciò assurdo o esagerato, ma forse simili esperienze sono comprensibili solo a chi ha fatto della scrittura il proprio mestiere78. 76

Mishima Yukio, Hōjō no umi ni tsuite, cit., p. 28. La citazione di Okuno Takeo è tratta dal saggio Cos’è il romanzo? (Shōsetsu to wa nani ka). 78 Okuno Takeo, Mishima Yukio densetsu, Tōkyō, Shinchōsha, 1993, pp. 427-429.

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Ad ogni modo, le varie teorie enunciate sul suo suicidio vedevano i loro sostenitori negli ambiti più diversi della società giapponese, e ognuna, a suo modo, diventava una risposta esauriente per le esigenze di quell’ambito culturale che le aveva generate. Ma andate ad analizzare singolarmente, ognuna mostrava sempre qualche aspetto contraddittorio e insoddisfacente e, soprattutto, non si dimostrava sufficiente a giustificare, da sola, il suo gesto finale. Ciò che viene da chiedersi è: perché buona parte della società di allora, e anche del periodo successivo, ha speso così tanto tempo nell’individuare un’unica motivazione valida e definitiva per il suicidio di un uomo che nella sua vita era stato così poliedrico e complesso? Sappiamo bene che Mishima iniziò presto a mettere le sue maschere, permettendo così alle sue numerose personalità di coesistere e di manifestarsi alternativamente. Sappiamo bene anche dei suoi faticosi tentativi di incanalare tutta la sua disorientante complessità in un’unica corrente, di far confluire tutti i fiumi della sua esistenza in un unico Mare della fertilità. E allora, perché privilegiare l’una o l’altra ipotesi sulla motivazione del suo suicidio, e non riconoscere invece che tutte, a loro modo, hanno dato il loro contributo? Perché accettare che la sua vita fosse stata costruita e influenzata da tutti quegli aspetti esclusivi, e poi non riconoscere che tutti hanno giocato il loro ruolo al momento della morte? Osservando con attenzione l’esistenza dello scrittore, tutti i “motivi” individuati – a parte quello estremamente comodo e semplicistico dell’“alienazione mentale” – ci appaiono indispensabili per la tessitura del suo elaborato broccato, sia nella raffigurazione luminosa della vita che in quella ombrosa della morte. E se consideriamo la spinta compulsiva che ognuno di questi “motivi” deve aver esercitato, il suicidio di Mishima si delinea come la “soluzione” più fisiologica possibile, da tempo annunciata in atti e opere, della sua vita umana e artistica. “Non già”, dice Marguerite Yourcenar, “come credono coloro che non hanno mai preso in considerazione una conclusione simile per se stessi, l’equivalente di un fiammeggiante e quasi facile bel gesto, bensì un’estenuante salita verso ciò che quest’uomo considerava in ogni senso, la sua giusta, peculiare fine”79.

Nel giardino degli angeli Mishima con la tetralogia ha chiuso sincronicamente la sua esistenza letteraria e la sua esistenza umana. Ma è interessante notare che attraverso l’esistenza letteraria sembra aver voluto prolungare l’esistenza umana. E non 79

Marguerite Yourcenar, Op, cit., pp. 14-15.

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solo perché con la tetralogia a consegnato la sua eterna fama letteraria ai posteri, ma perché la narrazione dell’opera procede emblematicamente al di là della sua morte. L’ultimo volume, infatti, inizia nell’estate del 1970, qualche mese prima del suicidio, ma si chiude molto dopo. Il fatidico incontro finale tra Honda e Satoko nel tempio di Gesshū avviene nel luglio del 1975, quasi cinque anni dopo la sua morte. Con la tetralogia Mishima continua a vivere, e se Honda rappresenta l’alter ego dello scrittore più consistente e legato alla sua natura di scrittoreosservatore, le ultime vicende di quest’ultimo di sicuro sono strettamente legate ai sentimenti e alle sensazioni più forti che l’autore provava nei suoi ultimi giorni di vita. La grande visione del vuoto dell’ultima pagina deve essere stato quello che ogni giorno ormai Mishima immaginava di vedere dopo il suo doloroso trapasso. L’estenuante riflessione sulla propria vita troppo vissuta, sull’incapacità di essere riuscita a fermarla all’acme, che di continuo assilla Honda nella sua quotidianità, doveva essere la stessa che assillava lo scrittore mentre si guardava allo specchio, scoprendosi, ogni giorno di più, scalfito dai segni del tempo. Ma non era solo il fissarsi allo specchio che gli faceva sentire la sua inadeguatezza al resto del mondo. Gli bastava guardarsi intorno per scoprire quanto il mondo fosse diverso da quello che aveva sempre sognato. E i sogni, che erano stati la sua torre d’avorio sin dall’infanzia, continuano a essere un sicuro riparo dalla spiacevole quotidianità, per sé e i suoi alter ego. Honda, nell’ultimo volume della tetralogia, immerso nel mondo onirico si libera delle sue ansie esistenziali e si lascia andare alla beatificante visione del volo degli angeli: Al di sopra della pineta di Miho non volava un solo angelo, ma una moltitudine di angeli, dell’uno e dell’altro sesso. Il sogno faceva rivivere quello che Honda aveva appreso dalle Sacre Scritture buddhiste. Mentre sognava, Honda ripeteva a se stesso che quelle Scritture erano la verità. Era pervaso da una gioia pura e trasparente. (...) Sui loro corpi splendono luci di sette colori: fuoco, oro, azzurro, rosso, bianco, giallo, nero. Sembrano giganti colibrì che volteggiano nell’aria con ali d’arcobaleno. I loro capelli sono turchini, e le chiostre dei denti s’illuminano di bianco a ogni sorriso. I loro corpi sono l’apoteosi della flessuosità e della purezza. Le loro palpebre non hanno un battito. (...) Vi erano fiori sparsi, profumi delicati, musica. Davanti a tale incredibile spettacolo, Honda era in estasi. Sapeva che gli angeli, sebbene siano esseri sensibili, superiori agli esseri umani, non si sottraggono al ciclo delle nascite e delle reincarnazioni. Sembrava notte, eppure era un luminoso mezzogiorno; sembrava giorno,

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eppure splendevano le stelle e una splendida falce di luna calante. Non vi era figura umana, se non quella di Honda. (...) Innalzandosi e planando, gli angeli sembravano farsi beffe di Honda. Gli si avvicinavano fino a sfiorargli il naso con le dita dei piedi arcuati. Egli seguì la direzione del bianco intreccio fiorito delle dita di uno di loro e, quando questi si voltò verso di lui con il viso sorridente, riconobbe il volto della principessa Ying Chan inghirlandato di fiori. A poco a poco gli angeli distolsero la loro attenzione da Honda. Si avvicinavano alle dune vicino al mare, e volavano sotto i bassi rami dei pini. Honda non riusciva a osservare tutto. Era abbagliato da quel turbinio scintillante. Bianchi fiori celestiali piovevano senza sosta. Suono di flauti e liuti paradisiaci. Capelli turchini, vesti, maniche e fasce di seta grezza, ricadenti dalle spalle sulle braccia, agitati dal vento. Un bianco seno immacolato indugiò per un momento davanti ai suoi occhi, la chiara pianta di un piede si perse in lontananza. Un meraviglioso, candido braccio, illuminato dall’arcobaleno, gli sfiorò lo sguardo, come se avesse voluto afferrare qualcosa. In quell’istante vide l’arco disegnato da un dito graziosamente proteso, nel quale fluttuava la luna. Un prosperoso, bianco seno permeato di un’essenza celeste si schiudeva e volava verso il cielo. Delicate curve di fianchi si disegnavano nette sul cielo azzurro, allungandosi come banchi di nuvole. Da lontano, due occhi neri, impassibili, senza un battito di ciglia, sembrarono incombere su di lui, poi, con un leggero movimento della candida fronte, che rifletteva le stelle, quella figura sollevò le caviglie e volò via giù in basso. Tra gli angeli maschi poté distinguere chiaramente il volto di Kiyoaki e quello fiero di Isao. Cercò di seguirli con lo sguardo, ma nelle luci dell’arcobaleno in continuo mutamento, per quanto lenti fossero i movimenti delle figure che osservava, non riusciva a trattenerne le immagini per più di un istante80.

Kiyoaki, Isao e Ying Chang, i tre angeli fluttuanti e inafferabili. Ma non rappresentano forse l’immagine che lo scrittore aveva di sé all’età di sedici anni, quando scriveva La foresta in fiore? Un angelo caduto sulla terra desideroso di liberarsi dalle gravose catene terrestri per spiccare di nuovo il volo verso la volta celeste. E questa idea, nel tempo, non deve essersi molto allontanata da lui, se nel 1968, solo un paio di anni prima della morte, conclude il saggio Sole e acciaio con la poesia Icaro, dove egli identifica la sua vita al folle volo del mitico personaggio e che inizia con i versi: Appartengo, fin dal principio al cielo? Se non v’appartengo, perché mi ha fissato così, per un attimo, con il suo sguardo infinitamente azzurro, 80

Mishima Yukio, La decomposizione dell’angelo, cit., pp. 1517-1520.

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e mi ha attirato lassù, con la mia mente, in alto, sempre più in alto, e senza tregua mi seduce e mi trascina verso altezze remote all’umano? L’equilibrio severamente studiato, il volo razionalmente calcolato, nessuna anomalia sarebbe possibile: perché dunque la brama di rimontare nel cielo è così simile, in sé, alla follia? Niente mi può appagare, subito mi tedia qualsiasi novità terrestre. Più in alto, più in alto, instabilmente vengo trascinato sempre più vicino al fulgore del sole81.

L’idea permane, ma una metamorfosi si è compiuta. Dopo trent’anni di estenuanti sforzi per spiccare il volo, cos’era divenuto oggi quel giovane angelo arrogante? La brama del volo dei tempi della Foresta in fiore a distanza di tanti anni era rimasta immutata, ma la consapevolezza della follia insita in essa era cresciuta a tal punto da tramutare lo spavaldo angelo di sedici anni in un compassionevole Icaro dalle ali in fiamme. No, forse ancora sopravviveva in lui la lontana immagine di quel baldanzoso angelo, solo che era mutata anch’essa come il suo pensiero. Cosa scorgeva oggi nell’impietoso specchio dove si guardava ogni mattina? L’immagine che oggi si rifletteva dinanzi ai suoi occhi era quella di un angelo ferito, un angelo moribondo. E se non era il suo aspetto esteriore, con un fisico ancora perfettamente tonico e carico dell’energia di un ventenne, era il suo aspetto interiore ad essere devastato. Il suo sguardo, i suoi occhi riflettevano ormai la luce piatta e opaca dell’inesistenza. L’immagine di ora, più che agli angeli del sogno di Honda, doveva essere molto più vicina a quella degli angeli di un antico rotolo che lo stesso Honda vede nel santuario di Kitano. In un giardino circondato dalle splendide strutture di un padiglione cinese, schiere di angeli pizzicano le corde dei koto e percuotono i tamburi. Ma non vi è alcun senso di vitalità, la musica è come il monotono ronzio di una mosca in un pomeriggio d’estate. Per quanto pizzichino e percuotano gli strumenti, corde e pelli sono allentate e stanche, si decompongono. Nella parte anteriore del giardino vi sono dei fiori, e in mezzo a essi un bimbo si accosta le maniche agli occhi e piange addolorato. La morte è giunta troppo all’improvviso. Sui meravigliosi volti bianchi e inespressivi degli angeli è disegnata l’incredulità. 81

Mishima Yukio, Sole e acciaio, cit., p. 91.

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All’interno del padiglione vi sono angeli in posizioni scomposte. Alcuni cercano invano di tracciare graziosi archi con le loro maniche, altri si dibattono e si contorcono. Tendono le mani languidamente l’uno verso l’altro senza riuscire a toccarsi, le loro vesti sono assurdamente sudicie e dai loro corpi sgorga lordura. Cosa è accaduto? I cinque segni si sono manifestati. Gli angeli sono come principesse senza scampo, colte dalla peste in un giardino tropicale. I fiori nei loro capelli sono appassiti, i loro corpi si sono improvvisamente gonfiati di acqua fino alla gola. Questa assemblea di figure soffici e leggiadre è stata ad un certo punto pervasa da una trasparente decomposizione, perfino nell’aria che respirano c’è già l’odore della morte. (...) Honda pensò all’ultimo segno della decomposizione, la perdita della gioia di essere. Lui non aveva mai provato questa gioia, eppure continuava a vivere. Ma lui non era un angelo. (...) Non aveva nessuna paura dei cinque segni della decomposizione82.

Ma Mishima non voleva essere Honda. Sentiva di essere ormai da tempo ad un bivio dove avrebbe dovuto scegliere: la strada di Honda, continuando a vivere una lunga esistenza da scrittore-osservatore, o quella di Isao, morendo con le ali incendiate nel suo ultimo volo verso il sole. Nonostante l’ostentata sicurezza degli ultimi giorni, e del giorno stesso dell’azione, quante perplessità, quante incertezze, quante contraddizioni devono essersi agitate nell’animo dell’angelo ferito. Quanto il vecchio e pacato osservatore Honda deve aver cercato fino alla fine di evitare il volo. Ma la vertigine del vuoto è un’attrazione troppo grande per chi ha davvero deciso di volare. La lama è penetrata senza più esitazioni. E al di là di quel grido straziante, precocemente annunciato in quella vecchia foto in bianco nero, al di là del turbinio selvaggio di luce e dolore, Mishima deve aver trovato quella pace del corpo e dell’anima che mai gli fu concessa nei travagliati anni del suo instancabile cammino interiore.

82

Mishima Yukio, La decomposizione dell’angelo, cit., pp. 1547-1550.

Glossario

Fujiwara Teika: al secolo Fujiwara no Sadaie (1162-1241), famoso poeta e compilatore di antologie poetiche ufficiali dell’inizio del periodo di Kamakura (1186-1333). furoshiki: quadrato di stoffa di seta o cotone, adoperato per trasportare oggetti, annodandone al centro i quattro capi. fusuma: porte e ante scorrevoli costruite in legno e carta spessa, che non permettono il passaggio della luce. futon: materasso e trapunta che vengono usati al momento di andare a dormire nelle stanze in stile giapponese, e poi riposte in un armadio a muro durante il giorno. Genji: protagonista di Storia di Genji (Genji monogatari), massimo capolavoro della narrativa giapponese classica scritto nel periodo Heian (794-1186). Bello, elegante, versato per l’arte della poesia e della musica, Genji rappresenta la quintessenza del gusto e del saper vivere cortigiano. È famoso inoltre per la sua intensa vita sentimentale. go: gioco tradizionale costituito da una scacchiera con pedine bianche e nere. La vittoria va a chi è in grado di sistemare le pedine del proprio colore su un territorio più vasto di quello dell’avversario. haramaki: ampia fascia di lana dell’abbigliamento tradizionale che veniva avvolta attorno allo stomaco. Heike monogatari: (Storia degli Heike), racconto guerresco del periodo di Kamakura (1186-1333). jōruri: forma teatrale giapponese popolare del periodo di Edo (1600-1868), caratterizzata dalla totale assenza degli attori che vengono sostituiti da burattini di raffinatissima fattura e complessa meccanica, che, unita all’abilità dei loro manovratori, riproduce in modo sorprendente la gestualità e le espressioni umane. Di grandissima importanza sono inoltre il declamatore, che narra le vicende e dà voce ad ogni personaggio, e il suonatore di shamisen (strumento tradizionale a corde pizzicate), che accompagna e scandisce il ritmo di tutti i momenti clou della recitazione. kabuki: forma teatrale giapponese popolare nata nel periodo di Edo (1600-1868), che concentra in sé dramma, musica e danza, la cui caratteristica fondamentale e di essere interpretata solo da attori maschili.

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Kojiki: (Cronache di antichi avvenimenti), opera storico-mitologica del periodo di Nara (710-784) che narra la storia del Giappone dalle origini al 628 d.C. koto: arpa orizzontale di origine cinese suonata con plettri applicati alle dita, il cui numero di corde è variabile a seconda dei tipi, tredici, sette o anche sei corde. nō: forma teatrale classica che nasce e si sviluppa nelle epoche di Nanboku-chō (1336-1392) e Muromachi (1392-1573). Caratterizzata da un rappresentazione essenzialmente simbolistica e idealizzata, che trae i suoi temi principali da una tradizione storica e culturale fortemente permeata dallo spirito buddhista. A differenza del kabuki, è di origini aristocratica, ma ha anch’essa la caratteristica di essere interpretata solo da attori maschili. obi: Lunga fascia di seta o broccato annodata in vita sul kimono. obidome: sottile cintura annodata sopra l’obi. omikoshi: Tempietto shintoista trasportabile che viene portato a spalla da più uomini durante le processioni dei giorni di festa. origami: arte di piegare la carta in svariate forme. Restaurazione Meiji: Colpo di stato avvenuto il 3 gennaio 1868, con il quale le forze di opposizione al governo shōgunale, occuparono il Palazzo imperiale di Kyōto annunciando il ritorno del potere politico nelle mani dell’imperatore. L’epoca che seguì, denominata appunto era Meiji (1868-1912), fu caratterizzata da notevoli cambiamenti politici e sociali che spinsero il Giappone verso la formazione di uno stato moderno. rōnin: letteralmente “uomo onda”. Il termine si riferisce in genere ai samurai rimasti senza il proprio signore, e quindi girovaganti in cerca di nuove forme di sussistenza, molto spesso sconfinando anche nel territorio dell’illegalità. sakaki: Cleyera japonica, sempreverde della famiglia delle Theaceae che produce grappoli di piccoli fiori bianchi. I suoi rami vengono offerti alle divinità durante le cerimonie shintōiste. sake: bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione del riso. shōji: scorrevoli con intelaiatura in legno a grata molto larga e carta traslucida che consentono il passaggio della luce. Talvolta al posto della carta viene usato del vetro opaco. sumō: antica forma di lotta e sport nazionale giapponese, caratterizzata dalle notevoli dimensioni dei suoi praticanti e dal particolare rituale che precede il combattimento. tatami: stuoie di paglia di riso ricoperte di paglia di giunco e bordate con una striscia di tessuto, con le quali è ricoperto il pavimento delle case tradizionali giapponesi. La misura standard di una stuoia è di circa 1,80 m di lunghezza per 0,90 m di larghezza, e rappresenta la misura base per calcolare la grandezza delle stanze.

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tabi: calzature di stoffa con l’alluce separato e suola di gomma. tsūjin: termine con cui nel periodo di Edo (1600-1868) si indicava l’ “uomo di mondo”, esperto frequentatore dei quartieri di piacere. yakuza: termine con cui si indica la criminalità organizzata giapponese e i suoi affiliati. yukata: kimono estivo informale di cotone sfoderato.

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Bibliografia delle opere pubblicate in Italia* (in ordine cronologico di pubblicazione)

Il racconto di Uiko, da Il Padiglione d’oro, titolo originale Kinkakuji, traduzione di Romano Vulpitta, in Il Giappone, n. 1, 1961, pp. 42-46. La voce delle onde, titolo originale Shiosai, traduzione dall’inglese Liliana Frassati Sommavilla, Milano, Feltrinelli, 1961. Il Padiglione d’oro, titolo originale Kinkakuji, traduzione dal giappoonese di Mario Teti, Milano, Feltrinelli, 1962 (poi Garzanti, 1971). Dopo il banchetto, titolo originale Utage no ato, traduzione dall’inglese di Livia Livi, Milano, Feltrinelli, 1964 (ristampa Milano, Feltrinelli, 1982). L’amore dell’abate di Shiga, titolo originale Shigadera shōnin no koi, in AA.VV., Narratori giapponesi moderni, a cura di Atsuko Ricca Suga, Milano, Bompiani, 1965. Il sapore della gloria, titolo originale Gogo no eikō, traduzione dal giapponese di Mario Teti, Milano, Mondadori, 1967 (ristampa Milano, Mondadori, 1983, 1987, 1992). Confessioni di una maschera, titolo originale Kamen no kokuhaku, traduzione dall’inglese Marcella Bonsanti, Milano, Feltrinelli, 1969 (2003, ventiduesima edizione). Morte di mezza estate e altri racconti, titolo originale Manatsu no shi, traduzione dall’inglese Marco Amante, Longanesi, 1971, prefazione di Alberto Moravia, (poi Milano, TEA, 1995). (contiene Morte di mezza estate, Tre milioni di yen, L’amore del sacerdote del tempio di Shiga, La paura dei thermos, Patriottismo, Dōjōji, Onnagata, I sette ponti, La pula, Fasce per bambini). Kawabata Yasunari, La casa delle belle addormentate, traduzione dal giapponese Mario Teti; prefazione di Mishima Yukio, Milano, Mondadori, 1972 (ristampa Mondadori, 1995, poi Milano, SE, 2000). Sole e acciaio, titolo originale Taiyō to tetsu, traduzione Pascal Popa, contiene Pierre Pascal, L’inimitabile esempio di Yukio Mishima, Roma, Edizioni del Borghese, 1972. Il pazzo morire, titolo originale Hagakure nyuōmon, introduzione di Mishima Yukio, a cura di Giuseppe Fino, Padova, Sannō-kai, 1979.

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Le seguenti bibliografie e filmografia sono tratte da AA.VV. Rose e cenere – Studi e ricerche su Mishima Yukio, a cura di Daniele del Pozzo e Luca Scarlini, Bologna, CLUEB, 2004. La bibliografia sugli articoli e studi in lingue occidentali è stata ulteriormente ampliata.

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L’ANGELO

FERITO

Ancora intorno al pazzo morire, titolo originale Hagakure nyūmon, Padova, Sannō kai, 1980. Prefazione in AA.VV., La lega del vento divino, Saluzzo, Barbarossa, 1980. Sole e acciaio, titolo originale Taiyō to tetsu, traduzione del giapponese di Lydia Origlia, Milano, Guanda, 1982 (ristampa Parma, Guanda, 2000). Colori proibiti, titolo originale Kinjiki, traduzione dal giapponese Lydia Origlia, Milano, Editoriale Nuova, 1982 (poi De Agostini 1986 e Mondadori, 1989). Madame de Sade, titolo originale Sado kōshaku fujin, a cura di Lydia Origlia, introduzione Gian Carlo Calza, Milano, Guanda, 1982. (in seguito in AA.VV., Madame de Sade, Torino, Teatro Stabile – Prato, Teatro Metastasio, 2001, pp. 43-92. Neve di primavera, prima parte della tetralogia Il mare della fertilità, titolo originale Haru no yuki (Hōjō no umi – 1), traduzione dall’inglese Riccardo Mainardi, Milano, Bompiani, 1982. Proclama e Canti d’addio, traduzione Daniela De Palma, in AA.VV., Atti del Sesto Convegno di Studi sul Giappone, a cura di Fosco Maraini e Silvio Calzolari, Firenze, AISTUGIA, 1983. Il mio amico Hitler, titolo originale Waga tomo Hittorā, a cura di Lydia Origlia, Milano, Guanda, 1983. (contiene Note dell’autore su Il mio amico Hitler, Note su Il mio amico Hitler, Due opere a confronto: Madame de Sade e Il mio amico Hitler). Trastulli di animali, titolo originale Kemono no tawamure, traduzione dal giapponese Lydia Origlia, Milano, Feltrinelli, 1983. Cavalli in fuga, seconda parte della Tetralogia Il mare della fertilità, titolo originale Honba (Hōjō no umi – 2), traduzione dall’inglese Riccardo Mainardi, Milano, Bompiani, 1983. La via del samurai, traduzione di Yukio Mishima on Hagakure a cura di Pier Francesco Paolini, titolo originale Hagakure nyūmon, prefazione di Francesco Saba Sardi, Milano, Bompiani, 1983. Il tempio dell’alba, terza parte della Tetralogia Il mare della fertilità, titolo origiale Akatsuki no tera (Hōjō no umi – 3), traduzione dall’inglese Riccardo Mainardi, Milano, Bompiani, 1984. Cinque nō moderni, titolo originale Kindai Nōgakushū, a cura di Lydia Origlia, introduzione Donald Keene, Milano, Guanda, 1984. (contiene Kantan, Il tamburo di damasco, Komachi e lo stupa, La principessa Aoi, Hanjo). Il monaco divenuto carpa, La dea della bellezza, La fontana sotto la pioggia, titoli originali Koi ni natta oshōsan, Bishin, Ame no naka no funsui, traduzione Daniela De Palma, in Takata Hideki, Novelle e saggi giapponesi, 1985. Lo specchio degli inganni, quarta parte della Tetralogia Il mare della fertilità, titolo originale Tennin gosui (Hōjō no umi – 4), traduzione dall’inglese Riccardo Mainardi, Milano, Bompiani, 1985.

BIBLIOGRAFIA

DELLE OPERE PUBBLICATE IN ITALIA

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L’età verde, titolo originale Ao no jidai, traduzione dal giapponese Lydia Origlia, con una nota di Mishima Yukio e una testimonianza di Kawabata Yasunari, Milano, SE, 1986. (ristampa Milano, Mondadori, 1991). Lezioni spirituali per giovani samurai e altri scritti, titolo originale Wakaki samurai no tame no seishin kōwa, traduzione dal giapponese Lydia Origlia, Milano, SE, 1987. (ristampa Milano, Feltrinelli, 1990). (contiene Lezioni spirituali per giovani samurai, L’associazione degli scudi, Introduzione alla filosofia dell’azione. I miei ultimi venticinque anni, Proclama). Sete d’amore, titolo originale Ai no kawaki, traduzione dal giapponese Lyidia Origlia, Milano, Guanda, 1988 (ristampa Milano, Guanda, 1999). Akutagawa Ryūnosuke, La ruota dentata e altri racconti, a cura di Lydia Origlia, con uno scritto di Mishima Yukio e una testimonianza di Kawabata Yasunari, Milano, SE, 1990. La coppa di apollo, titolo originale Aporo no sakazuki, a cura di Maria Chiara Migliore, Milano, Leonardo, 1990. Atti di adorazione: racconti, traduzione dall’inglese Gaspare Bona, Novara, Istituto geografico De Agostini, 1991. (contiene Atto di adorazione, La spada, Fontane nella pioggia, La sigaretta, Pane all’uva, Tramonto sul mare, Martirio). La foresta in fiore, titolo originale Hanazakari no mori, traduzione dal giapponese di Emanuele Ciccarella, Milano, Feltrinelli, 1991. (contiene La foresta in fiore, Ottō e Maya, La luna sull’acqua, A futura memoria, Diario di preghiere). Ali, titolo originale Tsubasa, traduzione dal giapponese Senō Tomoko, Viterbo, Millelire, 1992. Inquietudine d’amore, titolo originale Ai no fuan, traduzione Serena Bisacca, Roma, Stampa alternativa, 1993. Una stanza chiusa a chiave, titolo originale Kagi no kakaru heya, traduzione dal giapponese Lydia Origlia, Milano, SE, 1993. Musica, titolo originale Ongaku, traduzione dal giapponese Emanuele Ciccarella, Milano, Feltrinelli, 1993. La dimora delle bambole, titolo originale Hina no yado, a cura di Lydia Origlia, Milano, SE, 1998. (contiene Storia di un promontorio, Il principe Karu e la principessa Sotōri, La dimora delle bambole, Il mare e il tramonto, Biglietti). La voce degli spiriti eroici, titolo originale Eirei no koe, a cura di Lydia Origlia, con una nota di Lydia Origlia, Milano, SE, 1998. Stella meravigliosa, titolo originale Utsukushii hoshi, traduzione dal giapponese Lydia Origlia, Vicenza, Neri Pozza, 2000. Mishima Yukio – Kawabata Yasunari, Lettere 1945 – 1970, a cura di Lydia Origlia, Milano, SE, 2002. Mishima – Romanzi e racconti, a cura e con un’introduzione di Maria Teresa Orsi, Milano, i Meridiani, Mondadori – , 2004-2006

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L’ANGELO

FERITO

I volume: La leonessa, Confessioni di una maschera, Colori proibiti, La morte di Radiguet, L’amore dell’abate di Shiga, Il padiglione d’oro, Onnagata, La casa di Kyōko, Patriottismo. Titoli originali: Shishi, Kamen no kokuhaku, Kinjiki, Radige no shi, Shigadera shōnin no koi, Kinkakuji, Onnagata, Kyōko no ie, Yuōkoku, traduzione dal giapponese Laura Testaverde, Andrea Maurizi, Maria Gioia Vienna, Maria Teresa Orsi, Atsuko Ricca Suga, Mario Teti, Andrea Maurizi, Matilde Mastrangelo, Michela Morresi. II volume: Il sapore della gloria, Fontane sotto la pioggia, Il pellegrinaggio ai tre santuari di Kumano, Il mare della fertilità: Neve di primavera, A briglia sciolta, Il tempio dell’alba, La decomposizione dell’angelo. Titoli originali: Gogo no eikō, Ame no naka no funsui, Mikumano mōde, Hōjō no umi: Haru no yuki, Honba, Akatsuki no tera, Tennin gosui, traduzione dal giapponese Mario Teti, Maria Teresa Orsi, Alessandro Clementi, Andrea Maurizi, Lorenzo costantini, Emanuele Ciccarella.

Articoli e studi in lingue occidentali su Mishima Yukio Michel Mohrt, “Les paraboles de Yukio Mishima”, in L’air du large, Parigi, Gallimard, 1970. Donald Keene, “Mishima Yukio”, in Appreciations of Japanese Culture, Tōkyō, Kōdansha, 1971. – “Mishima and the modern scene”, Times Literary Supplement, n. 3625, agosto, 1971. – “Mishima Yukio”, in Dawn to the West: Japanese Literature in the Modern Era. Fiction, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1984. Micholas J. Teele, “Mishima”, Literature East and West, anno 15, n. 2, 1971. Ivan Morris, “Mishima”, The New York Review of Books, 16.12.1971. Gore Vidal, “Mr Japan”, The New York Review of Books, 17.6.1971. Henry Miller, Reflection on the Death of Mishima, Santa Barbara, Capra, 1972. (traduzione parziale in “Domande a Mishima”, L’Illustrazione italiana, n. 2, dicembre 1981 – gennaio 1982). Arthur G. Kimball, “The Creative Quest – The Temple of the Golden Pavilion”, in Crisis in Identity and Contemporary Japanese Novels, Tōkyō, Tuttle, 1973. Miyoshi Masao, “Mute’s Rage”, in Accomplices of Silence – The Modern Japanese Novel, Berkeley, University of California Press, 1974. John Nathan, Mishima. A Biography, Boston Toronto, Little-Brown, 1974, riedizione, New York, Da Capo Press, 2000. Angelo Solmi, Kon Ichikawa, Firenze, La Nuova Italia, 1975. Ueda Makoto, “Mishima Yukio”, in AA.VV., in Modern Japanese Writers and the Nature of Literature, Stanford University Press, 1976.

BIBLIOGRAFIA

DELLE OPERE PUBBLICATE IN ITALIA

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Paul McCarthy, “Mishima Yukio’s Confessions of a Mask, in AA.VV., Approaches to the Modern Japanese Novel, Tōkyō, Sophia University, 1976. Juan Antonio Vallejo-Nágera, Mishima o el placer de morir, Barcelona, Planeta, 1978. Gwen Boardman Peterson, The Moon in the Water: Understanding Tanizaki, Kawabata and Mishima, Honolulu, University Press of Hawai, 1979. Giuseppe Fino, Mishima e la restaurazione della cultura integrale, Padova, Edizioni Sannōkai, 1980. Mizuta Lippit Noriko, “Confessions of a Mask: the Art of Self-Exposure in Mishima Yukio”, in Reality and Fiction in Modern Japanese Literature, New York, M. E. Sharpe, 1980. Chiara Piccirillo, “Il nichilismo attivo nell’ultima opera di Yukio Mishima”, Rivista di Studi Orientali, 1980. Daniela De Palma, “Il concetto di cultura e l’Hagakure nel pensiero di Yukio Mishima”, in AA.VV., Atti del IV convegno di studi sul Giappone, Firenze, 1981. Marguerite Yourcenar, Mishima o la visione del vuoto, Parigi, Gallimard, 1981; traduzione italiana Laura Guarino, Milano Bompiani, 1981 (riedizione 1999). Gian Carlo Calza, “Introduzione”, in Mishima Yukio, Madame de Sade, cit., 1982. Henry Scott Stokes, Vita e morte di Yukio Mishima, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1974, traduzione italiana Riccardo Mainardi, Milano, Feltrinelli, 1985. Giorgio Amitrano, “Leggere Il mare della fertilità”, Spazio, nn.32-33, 1985-1986. José Luis Ontiveros, Apologia de la barbarie, Mexico, Universidad Autonoma Metropolitana, Departamento Editorial, 1987. Hélène Piralian, Un enfant malade de la mort: lecture de Mishima, relecture de la paranoïa, Parigi, Editions Universitaires, 1987. Virginia Sica, “Ai no kawaki: distruzione come ripristino dell’ordine”, in ASA.VV., Rassegna di cinema letterario giapponese: immagini sullo specchio dell’acqua, a cura di Patrizia Lombardo e Virginia Sica, Napoli, Asia Orientale, Napoli, 1988. Peter Wolfe, Yukio Mishima, New York, Continnum, 1989. David Pollack, “The Critique of Everything: Yukio Mishima’s The sea of Fertility”, in Reading against Culture, New York, Cornell University Press, 1992. Carolina Negri, “Un saggio sul teatro scritto in camerino: Mishima Yukio e la morte del ‘teatro ideale’”, Il Giappone, 1993. Roy Starrs, Deadly dialetics. Sex, Violence and Nihilism in the world of Mishima Yukio, Folkestone, Japan Library, 1994. AA.VV., Mishima, dalla parte degli dèi, da un’idea di Tito Piscitelli, a cura di Maria Chiara Migliore, Napoli, s.i.s, 1994. Susan Napier, Escape from the Wasteland. Romanticism and Realism in the Fiction of Mishima Yukio and Õe Kenzaburō, Cambridge, Mass. Council on East Asian Studies, Harvard University, 1995.

334

L’ANGELO

FERITO

Catherine Millot, Gide, Genet, Mishima. Intelligence de la perversion, Paris, Gallimard, 1996. Max Tessier, “Yukio Mishima et le cinéma”, in AA.VV., Cinéma et literature au Japon, Parigi, Centre Georges Pompidou, 1996. Dario Tomasi, “Dalla letteratura al cinema: Tanizaki, Kawabata e Mishima”, in AA.VV. Cipangu Monogatari. Il Giappone raccontato dai libri, Firenze, Aistugia, 1996. Noriko Thunman, Forbidden Colors. Essays on Body and Mind in the Novels of Mishima Yukio, Göteborg, Acta Universitatis Gothoburgensis, 1999. Annie Cecchi, Mishima Yukio. Estétique Classique, univers tragique, Parigi, Honoré Champion, 1999. Furubayashi Takashi, Kobayashi Hideo, Le ultime parole di Mishima, a cura di Emanuele Ciccarella, Milano, Feltrinelli, 2001. Emanuele Ciccarella, La maschera infranta, Viaggio psicoestetico nell’universo letterario di Mishima, Napoli, Liguori, 2004. Maria Teresa Orsi, “La neve e il sangue”, in Mishima Yukio, Romanzi e racconti 1, cit..

Filmografia Film tratti dall’opera di Mishima Yukio In collaborazione con Margherita Aversa Junpaku no yoru (La candida notte) di Oniwa Hideo con Ogura Michiyo e Sada Keiji Produzione Shōchiku Lingua: giapponese, 87' Giappone, 1950 Chichi kaeru (Torna papà) di Kikuchi Hiroshi con Mishima Yukio produzione Daiei Lingua: giapponese Giappone, 1951 Natsuko no bōken (L’avventura di Natsuko) di Nakamura Noboru con Minami Rieko e Wakahara Masao Produzione Shōchiku

BIBLIOGRAFIA

DELLE OPERE PUBBLICATE IN ITALIA

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Lingua: giapponese, 99' Giappone, 1953 Nippon sei (Made in Japan) di Shima Kōji con Yamamoto Fujiko e Uehara Ken Produzione Daiei Lingua: giapponese, 101' Giappone, 1953 Shiosai (La voce delle onde) di Taniguchi Senkichi Sceneggiatura di Nakamura Shinichirō dal romanzo omonimo di Mishima Yukio. con Kubo Akira, Aoyama Kyōko, Tachikawa Hiroshi, Mifune Toshirō, Miya Keiko, Ueda Kichijirō, Sawamura Sadako, Katō Daisuke, Tono Eijirō, Takashima Minoru, Mitobe Sue, Kosugi Yoshio, Ishii Ikishi, Honma Fumiko Produzione Tōhō Lingua: giapponese, 96' Giappone, 1954 Nagasugita Haru (Un’estate troppo lunga) di Tanaka Shigeo Sceneggiatura di Shirasaka Yoshio dall’opera omonima di Mishima Yukio con Wakao Ayako, Kawaguchi Hiroshi, Funakoshi Enji. Produzione Daiei Lingua: giapponese, 99' Giappone, 1957 Bitoku no yoromeki (La resa della virtù) di Nakahira Kō Sceneggiatura di Shindō Kaneto con Tsukioka Yumeji, Mikuni Rentarō, Ayama Ryōji Produzione Nikkatsu Lingua: giapponese, 96' Giappone, 1957 Enjō (Conflagrazione o La fiamma del tormento) di Ichikawa Kon Sceneggiatura di Ichikawa Kon, Hasebe Keiji da Il Padiglione d’oro di Mishima Yukio con Ichikawa Raizō, Nakadai Tatsuya, Nakamura Ganjirō, Funakitama Michiyo, Kinzō Shin, Uraji Yōko.

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L’ANGELO

FERITO

Produzione Daiei Lingua: giapponese, 99' Giappone, 1958 Fudōtoku kyōiku kōza (La scuola dell’immoralità) di Nishikawa Katsunori con Tsukioka Yumei e Ōsaka Shirō Produzione Nikkatsu Ligua: giapponese, 97' Giappone, 1959 Tōdai (Il faro) di Suzuki Hideo con Kozu Seisaburō e Kubo Akira Produzione Tōhō Lingua: giapponese, 98' Giappone, 1959 Karakkaze yarō (noto anche come Afraid to die) di Masumura Yasuzō Sceneggiatura di Ando Hideo e Kikushima Ryuōzo con Mishima Yukio, Wakao Ayako, Kawasaki Keizo, Funakoshi Eiji, Shimura Takashi, Mizutani Yoshie, Ono Michiko Produzione Daiei Lingua: giapponese, 96' Giappone, 1960 Ojōsan (La signorina) Di Yuge Tarō Sceneggiatura di Hasegawa Kimiyuki dal racconto omonimo di Mishima Yukio con Wakao Ayako, Kawaguchi Hiroshi, Nozoe Hitomi, Tamiya Jirō Produzione Daiei Ligua: giapponese, 79' Giappone, 1961 Ken (La spada) di Misumi Kenji Sceneggiatura di Funabashi Kazurō dal racconto omonimo di Mishima Yukio con Ichikawa Raizō, Kawazu Yusuke, Morishige Hisaya, Sengoku Noriko, Kobayashi Keiju, Shima Ariko Produzione Daiei Lingua: giapponese, 94' Giappone, 1964

BIBLIOGRAFIA

DELLE OPERE PUBBLICATE IN ITALIA

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Shiosai (La voce delle onde) di Morinaga Kenjirō Sceneggiatura di Tanada Gorō dal romanzo omonimo di Mishima Yukio con Yoshinaga Sayuri, Hamada Mitsuo, Yamashina Yuri, Ishiyama Kenjirō, Sugai Ichirō, Hirata Daizaburō, Takahashi Toyōko, Shimizu Masao, Hara Keiko Produzione Nikkatsu Lingua: giapponese, 82' Giappone, 1964 Kemono no tawamure (Trastulli di animali) di Tomimoto Sōkichi Sceneggiatura di Funabashi Kazurō dal romanzo omonimo di Mishima Yukio con Wakao Ayako, Kawazu Seizaburō, Ito Takao, Mishima Masao, Kato Yoshi Produzione Daiei Lingua: giapponese, 94' Giappone, 1964 Nikutai no gakkō (La scuola del corpo) di Kinoshita Ryō Sceneggiatura di Ide Toshirō dal racconto omonimo di Mishima Yukio con Kishida Kyōko, Yamazaki Tsutomu, Nakagawa Yuki, Yamamura Sō, Arima Masahiko, Azuma Emiko Produzione Tōhō Lingua: giapponese, 92' Giappone, 1965 Yūkoku (Patriottismo) di Masaki Domoto e Mishima Yukio Sceneggiatura di Mishima Yukio dal suo racconto omonimo con Tsuruoka Yoshiko e Mishima Yukio Produzione ATG Lingua: giapponese, 30' Giappone, 1966 Die Hunderste Nacht (La candida notte) di Frank Guthke Sceneggiatura di Eckart Stein dal romanzo La candida notte di Mishima Yukio con Hela Gruel, Michael Maien, Dorit Amann, Irmgard Först, Curt Bois, Karl Merkatz, Thomas Reiner Lingua: tedesco, 95' Germania, 1966

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L’ANGELO

FERITO

Ai no kawaki (Sete d’amore) di Kurehara Koreyoshi Sceneggiatura di Kurehara Koreyoshi e Fujita Toshiya dal romanzo omonimo di Mishima Yukio con Asaoka Ruriko, Nakamura Nobuo, Ishitachi Tetsuo, Yamanouchi Akira, Kurenai Chitose Produzione Nikkatsu Lingua: giapponese, 105' Giappone, 1966 Fukuzatsuna kare (Un lui complicato) di Shima Kōji dal racconto omonimo di Mishima Yukio con Tamiya Jirō Produzione Daiei Lingua: giapponese, 101' Giappone, 1968 Kurotokage (La lucertola nera) di Fukasaku Kinji Sceneggiatura di Mishima Yukio e Narusawa Masahige dal racconto omonimo di Edogawa Ranpo e dall’adattamento teatrale di Mishima Yukio con Miwa Akihiro, Kimura Isao, Matsuoka Kikko, Usami Junya, Kawazu Yusuke, Nishimura Kō, Kobayashi Toshiko, Õda Sonosuke, Hattori Kinji, Funakoshi Ryuōji, Takara Mitsuko, Mishima Yukio Produzione Shōchiku Lingua: giapponese, 86' Giappone, 1968 Kurobara no yakata (La casa della rosa nera) di Fukusaku Kinji Sceneggiatura di Matsuda Hiro e Fukusaku Kinji con Miwa Akihiro, Ozawa Eitarō, Tamura Masakazu, Hōsho Ayako, Mishimura Kō, Matsuoka Kikko, Uchida Ryōei Produzione Nikkatsu Lingua: giapponese, 91' Giappone, 1969 Hitokiri (L’uomo che uccide con la spada) di Gosha Hideo Sceneggiatura di Hashimoto Shinobu con Katsu Shintarō, Nakadai Tatsuya, Baisho Mitsuko, Shinjō Takumi, Nakaya Noboru, Nakaya Ichirō, Sagakami Jirō, Mishima Yukio, Ishihara Yūjirō

BIBLIOGRAFIA

DELLE OPERE PUBBLICATE IN ITALIA

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Produzione Daiei Lingua: giapponese, 140' Giappone, 1969 Shiosai (La voce delle onde) di Moritani Shirō Sceneggiatura di Ide Toshirō dal romanzo omonimo di Mishima Yukio con Sasaki Katsuhiko, Kiuchi Midori, Õdagiri Miki, Fujita Susumu, Mitani Noboru Produzione Tōhō Lingua: giapponese, 88' Giappone, 1971 Ongaku (Musica) di Masumura Yasuzō Sceneggiatura di Masumura Yasuzō dal romanzo omonimo di Mishima Yukio con Kurosawa Noriko, Hosokawa Toshiyuki, Takahashi Chōei, Moritsugu Kōji, Mitani Noboru Produzione ATG Lingua: giapponese, 104' Giappone, 1972 Shiosai (La voce delle onde) di Nishikawa Katsumi Sceneggiatura di Susaki Katsuya dal romanzo omonimo di Mishima Yukio con Yamaguchi Momoe, Miura Tomokazu, Arishima Ichirō, Tsushima Keiko Produzione Tōhō Lingua: giapponese, 93' Giappone, 1975 Kinkakuji (Il padiglione d’oro) di Takabayashi Yōichi Sceneggiatura di Takabayashi Yukichi dal romanzo omonimo di Mishima Yukio Produzione Takabayashi PRO, ATG, Kyōto Eizō Lingua: giapponese, 105' Giappone, 1976 The Sailor Who Fell Grace with the Sea (Distribuito in Italia con il titolo I giorni impuri dello straniero) di Lewis John Carlino Sceneggiatura di Lewis John Carlino da Il sapore della gloria di Mishima Yukio

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L’ANGELO

FERITO

con Sarah Miles, Kris Kristofferson, Jonathan Kahn, Margo Cunningham, Eral Rhodes, Paul Tropea, Gary Lock, Stephen Black, Peter Clapham, Jennifer Tolman Produzione Warner Bros. Lingua: inglese, 105' USA, 1976 Shiosai (La voce delle onde) di Kotani Shusei Sceneggiatura di Kotani Shusei dal romanzo omonimo di Mishima Yukio con Hori Chiemi, Tsurumi Shingo, Takahashi Hitomi, Godai Takayuki, Murota Hideo, Kahara Natsuko, Sakagami Jirō Produzione Tōhō Lingua: giapponese, 101' Giappone, 1985 Mishima: A Life in Foru Chapters di Paul Schrader Sceneggiatura di Chieko Schrader, Leonard Schrader, Paul Schrader con Ogata Ken, Shinoya Masayuki, Mikami Hiroshi, Fukuda Junya, Tachihara Shigeto, Orimoto Junkichi, Aizawa Masato, Nahagara Yuki, Kobayashi Kyuzō, Kitazume Yuki, Hodaka Minoru Produttori esecutivi Francis Ford Coppola e George Lucas Produzione Warner Bros. Lingua: inglese, giapponese, 140' USA, 1985 Rokumeikan (noto anche come The Hall of the Crying Deer o High Society of Meiji) di Ichikawa Kon Sceneggiatura di Hidaka Shinya e Ichikawa Kon dal testo teatrale omonimo di Mishima Yukio con Sugawara Bunta, Asaoka Ruriko, Ishizaka Koiji, Nakai Kiichi, Toshinori Omi, Kishida Kyōko, Sawaguchi Yasuko Produzione Tōhō Lingua: giapponese, 125' Giappone, 1986 Markisinnan de Sade (Madame de Sade) di Ingmar Bergman Sceneggiatura di Ingmar Bergman (adattamento televisivo del suo spettacolo su testo omonimo di Mishima Yukio) con Stina Ekblad, Anita Björk, Marie Richardson, Margareta Byström, Agneta Ekmanner, Helena Brodin

BIBLIOGRAFIA

DELLE OPERE PUBBLICATE IN ITALIA

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Produzione SVT Lingua: svedese, 104' Svezia, 1992 Die Brennende Schnecke (La lumaca che brucia) di Thomas Stiller Sceneggiatura di Thomas Stiller (riferimenti, non accreditati, a Il sapore della gloria di Mishima Yukio) Sceneggiatura Frank Griebe con Tobias Nath, Michael Huml, Maximilian Haas, Barbara Auer, Sebastian Koch, Jonas Kipp Produzione WDR, SWF, MDR Lingua: tedesco, 82' Germania, 1995 L’École de la chair (La scuola della carne) di Benôit Jacquot Sceneggiatura Jacques Fieschi dal racconto La scuola del corpo di Mishima Yukio con Isabelle Huppert, Vincent Martinez, Vincent Lindon, Marthe Keller, François Berléand, Danièle Dubroux, Bernard Le Coq, Roxane Nesquida, Jean-Louis Richard, Jean-Claude Dauphin, Michelle Goddet, Jean-Michel, Laurent Jumeaucourt, Pierre Laroche, Richard Schroeder Lingua: francese, 105' Francia-Lussemburgo-Belgio,1998

Versioni musicali delle opere di Mishima Yukio Kinkakuji – Der Tempelbrand di Mayuzumi Toshirō Libretto (in tedesco) Claus H. Henneberg da Il Padiglione d’oro Direttore Caspar Richter Regia Gustav Rudolf Sellner Scene e costumi Hubert Aratym con Villiam Dooley, Karl-Ernst Mercker, Dorothea Weiss, Peter Maus, Ivan Sardi, Barry McDaniel, Barbara Scherler, Donald Grobe, Barbara Vogel, Nomura Yoko, Dieter Appelt, Nomura Shōji 23 giugno 1976, Deutsches Opernhaus Berlin Forbidden Colors Canzone di Sakamoto/Sylvian, cantata da David Sylvian, in Merry Christmas Mr Lawrence, Milan, 1983

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L’ANGELO

FERITO

Mishima Colonna sonora di Philip Glass per il film omonimo di Paul Schrader, CD ElektraAsylum, Nonesuch, WEA, 1985 Hanjo Libretto (in italiano) e musica di Marcello Panni dal dramma omonimo Direttore Marcello Panni Regia e scene Bob Wilson Costumi Frida Parmeggiani con Gabriella Morigi, Elise Ross, Donato Di Stefano Firenze, Teatro della Pergola, 13.6.1994 Hanjo Libretto e musica di Hosokawa Toshio dal dramma omonimo (in inglese) Orchestra da camera del Théâtre de la Monnaie di Bruxelles Direttore Ōno Kazushi Regia Anne Therese de Keersmaeker Scene e luci Jan Joris Lamers Costumi Tim Van Seenbergen con Ingela Bohlin, Fredrika Brillembourg, William Dazeley Aix-en-Provence, Théâtre du Jeu de Paume, 16.7.2004

La luna sull’acqua Collana diretta da Emanuele Ciccarella

1. 2. 3.

E. Ciccarella, La maschera infranta. Viaggio psicoestetico nell’universo letterario di Mishima L. Urru, Il fantasma tra i ciliegi. Topografie di primavera a Tokyo E. Ciccarella, L’angelo ferito. Vita e morte di Mishima