Metamorfosi del potere. Percorsi e incroci tra Arendt e Kafka 9788898694525, 9788885716100


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Metamorfosi del potere. Percorsi e incroci tra Arendt e Kafka
 9788898694525, 9788885716100

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Laura Sanò

Metamorfosi del potere Percorsi e incroci tra Arendt e Kafka

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Passages

Collana diretta da: Umberto Curi e Carmelo Meazza

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Passages | 8

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Laura Sanò Metamorfosi del potere Percorsi e incroci tra Arendt e Kafka

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Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università degli Studi di Padova - Fondi DOR, di cui è Responsabile Scientifico la Prof. ssa Bruna Giacomini

© 2017, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Passages ISSN: 2282-5282 n. 8 - luglio 2017 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694525 ISBN – E-book: 9788885716100 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Monument to the fallen in World War II Jews on the Danube embankment in Budapest, Hungary - dettaglio © Roxana – Fotolia.com

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Introduzione

«Mi sembra che la nostra ricerca si debba condurre esattamente come se si ordinasse a persone miopissime di leggere a distanza caratteri minuti e a una venisse poi in mente che i medesimi caratteri esistono anche altrove, maggiori e su superficie più ampia. Sarebbe allora una bella fortuna poter leggere prima questi e così esaminare poi i minori, se sono gli stessi»1. In questi termini, nel testo che inaugura la tradizione del pensiero politico occidentale, Platone spiega le ragioni per le quali l’indagine, originariamente volta a definire che cosa sia la giustizia sul piano individuale, debba assumere la forma di una ricerca sulla genesi e la costituzione dello Stato. Il passaggio dal livello del singolo individuo a quello di una pluralità di soggetti coinvolti nella costruzione di uno Stato si motiva dunque per l’isomorfismo sussistente fra l’uno e l’altro. Benché mutino, anche in maniera rilevante, le proporzioni e le dimensioni, la morphe, la “forma” deve essere considerata sostanzialmente identica, sicché più agevole è leggerne la pro-

1 Platone, Repubblica, 368 e, tr. it. di F. Sartori, Laterza, Bari 1956, pp. 78-79.

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iezione “in grande”, anziché sforzarsi di decifrare i caratteri scritti “in piccolo”. La suggestiva metafora platonica – lo Stato è un “grande” individuo, tanto quanto l’uomo è uno Stato in “piccolo” – doveva poi riproporsi più volte, sebbene in forme e con finalità diverse, lungo l’arco della storia della filosofia. Basti pensare, fra i molti esempi possibili, all’immagine posta nel frontespizio dell’opera principale di Thomas Hobbes, nella quale compare un gigante, dal volto umano e incoronato, con la spada nella mano destra e il pastorale nella mano sinistra, simbolo del potere religioso, col corpo composto di una grande moltitudine di uomini, sovrastata da una citazione dal libro di Giobbe: «Non esiste sulla Terra un potere che possa misurarsi con lui»2. Più in generale, anche se non sempre obbedendo ad una corrispondenza puntuale, l’idea che sussista una diretta relazione fra individuo e stato, e dunque anche fra etica e politica, si ritrova in una grande varietà di autori e correnti del pensiero politico. Platone sviluppava questa correlazione fino alle sue conseguenze estreme, descrivendo la morfologia dell’uomo democratico o dell’uomo tirannico come prefigurazione della forma che lo Stato può assumere nell’inesorabile processo che conduce alla sua degenerazione3. Ma un presupposto per molti aspetti analogo, pur se esplicitato in modi differenti e fatte salve alcune essenziali differenze, può essere colto anche

2 «È questa la generazione di quel grande Leviatano, o piuttosto (per parlare con più rispetto) di quel dio mortale, al quale dobbiamo, sotto il Dio Immortale, la nostra pace e la nostra difesa» (T. Hobbes, Leviatano, tr. it. a cura di A. Pacchi, con la collaborazione con A. Lupoli, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 143). 3 Si vedano i libri VII e VIII della Repubblica.

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in autori come Aristotele e Agostino, Spinoza e Hegel4, Weber e Schmitt. Nel caso di Hannah Arendt questa relazione assume una declinazione tutta particolare per una molteplicità di motivi, a cominciare dalla presa di distanze realizzata nei confronti di Martin Heidegger. Infatti, rispetto a colui che era stato suo maestro, la filosofa opera una sorta di radicale capovolgimento teorico, soprattutto mediante un’accentuata valorizzazione della nozione greca di politeia. L’autenticità della condizione umana può essere recuperata proprio a partire dalla relazione con gli altri, dall’“essere in pubblico” del Dasein. L’“esserci” per la Arendt può infatti realizzare la conoscenza di sé solo attraverso l’ascolto, il dialogo e l’azione con l’altro e il mondo esterno, e quindi non in una chiusura solipsistica. Vi è poi un secondo ordine di considerazioni, più direttamente attinenti alle principali vicende della biografia intellettuale della filosofa, che segnalano la centralità dello snodo etica-politica, individuo-stato, nella sua riflessione. Già a partire dalla fine degli anni quaranta, e poi sostanzialmente ininterrotta-

4 «Lo Stato ha invece un rapporto completamente diverso con l’individuo. Lo Stato, infatti, è Spirito oggettivo, e l’individuo stesso ha oggettività, verità ed eticità solo in quanto è un membro dello Stato. L’unione in quanto tale [degli individui nello Stato] è essa stessa l’autentico contenuto e fine, e la destinazione degli individui consiste nel condurre una vita universale: ogni loro ulteriore appagamento, attività, modo di comportarsi, ha per suo punto di partenza e risultato questo elemento sostanziale e universalmente valido» (G.W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, tr. it. a cura di V. Cicero, Rusconi, Milano 1998, § 258, p. 417). «Lo Stato non soltanto comprende la società sotto rapporti giuridici, ma, come un corpo comune morale veramente superiore, media l’unità nei costumi, nella cultura e nell’universale modo di pensare e di agire (in quanto ognuno spiritualmente intuisce e riconosce, nell’altro, la sua propria universalità)» (G.W. F. Hegel, Propedeutica filosofica, «Doveri verso gli altri», in Id., Il dominio della politica, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 325-326).

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mente negli anni successivi, un interrogativo di fondo assilla intellettualmente, e coinvolge anche sotto il profilo emotivo, la pensatrice di origine ebraica. Come è stato possibile l’Olocausto? Come “spiegare” razionalmente ciò che sembra eccedere ogni misura razionale? Quali possono essere i moventi profondi che hanno prodotto una così atroce barbarie, da quale grembo umano può essere scaturita una così brutale manifestazione di disumanità? Come si vedrà più ampiamente nelle pagine che seguono, a questi interrogativi, coestensivi con l’intera attività di ricerca arendtiana, l’autrice ha fornito risposte diverse nello sviluppo delle sue indagini. Con una particolarità che merita di essere sottolineata fin d’ora. Il tentativo di individuare una possibile spiegazione per gli orrori connessi alla Shoah accomuna una pluralità di autori diversi, anche e soprattutto di matrice culturale ebraica5. Ma ciò che peculiarmente caratterizza l’approc5 «Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente a essa, è spazzatura. Poiché essa si è restaurata dopo quel che è successo nel suo paesaggio senza resistenza, è diventata completamente ideologia, quale potenzialmente era dopo che, in opposizione all’esistenza materiale, presunse di soffiarle la luce, offertale dalla divisione tra lavoro corporale e spirito. Chi parla per la conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole diventa collaborazionista, mentre chi si nega alla cultura, favorisce immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la cultura. Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso: esso razionalizza soltanto la propria incapacità soggettiva con lo stato di verità oggettiva e così la degrada ancora una volta a menzogna» (T. W. Adorno, Dialettica negativa, tr. it. di P. Lauro, a cura di S. Petrucciani, Einaudi, Torino 1975, pp. 330-331). Una “risposta”, ancorché indiretta, alla radicale negazione della possibilità della filosofia dopo Auschwitz è venuta dal poeta ebreo di lingua tedesca Paul Celan. Personalmente segnato dal genocidio della Shoah, avendo avuto entrambi i genitori deportati nel campo di sterminio di Auschwitz, da un lato confessa di “dover scrivere continuamente per poter tenersi in vita”, e dall’altro, da sopravvissuto, condivide con Osip Mandel’stam la necessità di vincere la ‘distanza della separazione’ dalle persone perdute per dire loro “ciò che non abbiamo potuto dire”. In occasione del conferimento del premio letterario

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cio dell’autrice è lo sforzo per connettere i due piani – quello Città di Brema (1958), nel discorso di ringraziamento, Celan aveva detto: «Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua. / La lingua, essa sì, nonostante tutto, rimase acquisita. Ma ora dovette passare attraverso tutte le risposte mancate, passare attraverso un ammutolire orrendo, passare attraverso le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte. Essa passò e non prestò parola a quanto accadeva; ma attraverso quegli eventi essa passò. Passò e le fu dato di riuscire alla luce, ‘arricchita’ da tutto questo. / Con questa lingua, in quegli anni che seguirono, io ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per accertare dove mi trovavo e dove stavo andando, per darmi una prospettiva di realtà» (P. Celan, La verità della poesia, tr. it. a cura di G. Bevilacqua; Einaudi, Torino 1993, p. 35. A proposito del rapporto Celan-Kafka, cfr. F. Camera, “Dichtung ist Krankheit” - Celan lettore di Kafka, “Humanitas”, 2000, n. 3-4, pp. 504-531). Il tema dell’olocausto ritorna, e non marginalmente, in un testo di Jacques Derrida la cui stesura viene interrotta dal sopraggiungere della morte, pubblicato postumo: «In qualunque modo lo si voglia interpretare, qualunque conseguenza di natura pratica, tecnica, scientifica, giuridica, etica o politica se ne tragga, oggi nessuno può negare tale evento, cioè le proporzioni senza precedenti dell’assoggettamento animale […]. Non bisogna né abusare né tralasciare frettolosamente la figura del genocidio» (J. Derrida, L’animale che dunque sono, tr. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, pp. 64-65). Sul significato dell’olocausto è ritornato recentemente anche Zygmunt Bauman. Secondo il pensatore di origine polacca, sia la memoria collettiva sia la letteratura scientifica hanno tentato di eludere il significato più profondo dell’olocausto, riducendolo a un episodio della storia millenaria dell’antisemitismo o considerandolo un incidente di percorso, una barbara ma temporanea deviazione dalla via maestra della civilizzazione. A queste rassicuranti interpretazioni l’autore contrappone una spietata analisi di quanto accadde nei campi di sterminio non come una sorta di “malattia” sociale, ma come fenomeno legato alla condizione “normale” della società. Secondo Bauman l’olocausto è inestricabilmente connesso alla logica della modernità così come si è sviluppata in Occidente. La razionalizzazione e la burocratizzazione tipiche della civiltà occidentale sono state condizione necessaria del genocidio nazista (cfr. Z. Bauman, Modernità e olocausto, tr. it. di M. Baldini, Il Mulino, Bologna 2010). Per altre “voci” ebraiche riguardanti la possibilità della filosofia dopo la Shoah si vedano: H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, tr. it. a cura di C. Angelino e M. Vento, Il Melangolo, Genova 1991; G. Anders, L’uomo è antiquato, tr. it. di M. A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino

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individuale, dei singoli personaggi che compaiono in questa vicenda, e quello storico-politico – anziché lasciarli distinti. Per riallacciarsi allo spunto platonico da cui abbiamo preso le mosse, si potrebbe affermare che Arendt cerca nell’uomo totalitario il fondamento stesso del totalitarismo, cerca in Adolf Eichmann, nella sua “ordinarietà” umana, nella disarmante mediocrità di questa personalità, la radice di quell’immane tragedia storica. È questo il denominatore che tiene insieme testi per altri aspetti fra loro molto diversi, nello stile, nel “taglio” dell’analisi, nell’articolazione del ragionamento, come Le origini del totalitarismo e La banalità del male. L’urgenza insopprimibile di spiegare l’inspiegabile, di trovare una ragione nella follia dell’olocausto, di comprendere ciò che sembra essere refrattario ai parametri della razionalità occidentale, spinge Arendt a non arrestarsi alla superficie del fenomeno totalitario, alla sua facciata “politica”, affondando invece nell’indagine di colui che di questo processo è stato il soggetto, di colui che di ciò che è accaduto è responsabile, e perciò deve essere chiamato a rispondere. Si assiste così ad una sorta di slittamento, che conduce gradualmente dal piano macropolitico della ricerca sulla morfologia del sistema totalitario al piano etico dell’interrogativo riguardante l’origine e la natura del male, passando attraverso la

2003. Un approfondimento particolare, che in quanto tale esula dal raggio dell’analisi del presente testo, richiederebbe la controversa questione del rapporto fra Heidegger e la Shoah, ritornata recentemente in primo piano, a seguito della pubblicazione dei cosiddetti Quaderni neri, redatti negli anni trenta e quaranta dall’autore di Essere e tempo (su ciò si vedano soprattutto i contributi di D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I “Quaderni neri”, n. ed. ampliata, Bollati Boringhieri, Torino 2016; Ead., I Quaderni neri di Heidegger, Mimesis, Milano-Udine 2016). Di taglio teoretico è il suggestivo percorso proposto da G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998.

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riflessione sullo statuto della violenza e l’esplorazione di quella realtà elusiva e sfuggente che è costituita dall’uomo. Lo stimolo – intellettuale e morale, oltre che emotivo – a intraprendere questa sorta di catabasi nelle profondità della condizione umana resta sostanzialmente costante lungo tutto l’arco della ricerca arendtiana. E la domanda che sostiene la perlustrazione teorica è sempre la stessa: come è stato possibile l’olocausto? Non basta fare emergere le dinamiche che sono alla base del fenomeno totalitario. Non è sufficiente indugiare sul controverso rapporto fra violenza e potere. Il “segreto” che si cela dietro la tragedia della Shoah potrà essere almeno parzialmente svelato, se si riuscirà a rendere ragione di quel vero e proprio mistero che è l’uomo. Si situa in questo contesto problematico l’incontro di Arendt con Kafka. Storicamente documentato da una conferenza tenuta nel 1944 a Mount Holykoke, a pochi mesi dalla fine della seconda guerra mondiale, e dalla scoperta della tragedia del genocidio, e abitualmente trascurato o sottovalutato dagli studi relativi alla filosofa, il rapporto con lo scrittore praghese si rivela essere cruciale nel progetto teorico perseguito da Arendt. La necessità di una nuova e diversa valutazione del romanzo kafkiano6 rispetto agli stereotipi interpretativi larga-

6 È questo, infatti - Franz Kafka: a Reevaluation - il titolo del saggio in cui Arendt riprende il testo della conferenza del 1944, dove l’espressione inglese va intesa in senso pregnante, come dichiarazione della necessità di una “nuova valutazione” della narrativa kafkiana. La conferenza fu pubblicata nella “Partisan Review”, autunno 1944, e poi ristampata con altri saggi in H. Arendt, Essays in Understanding, 1930-1954. Uncollected and Unpublished Works by Hannah Arendt, ed. by J. Kohn, Harcourt Brace & Co, New York 1994; tr. it. di P. Costa, Ripensando a Franz Kafka. In occasione del ventesimo anniversario della morte, in Ead., Archivio Arendt 1. 1930-1948, a cura di S. Forti, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 105-116.

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mente dominanti7, si fonda infatti principalmente sul riconoscimento della qualità di Kafka come “pensatore politico”. La chiave di lettura proposta dalla filosofa, in se stessa certamente originale, non poteva che apparire per certi aspetti perfino “scandalosa”, rispetto al quadro delle interpretazioni fornite in quel periodo e negli anni immediatamente precedenti. In particolare, tenevano il campo i contributi di Adorno e di Benjamin, fra loro certamente diversi su molti punti, ma insieme anche convergenti per quanto riguarda il principale asse ermeneutico. Kafka e l’interpretazione della sua opera rappresentarono uno degli argomenti di discussione che Adorno e Benjamin praticarono per un lungo periodo di tempo, sia nei loro incontri che nel fitto carteggio intercorso fra i due8. Adorno aveva scritto a Benjamin per comunicargli il proprio totale «accordo sui punti filosofici centrali». Il saggio di Benjamin in questione, sicuramente di notevole influenza su Adorno, apre il suo contesto interpretativo direttamente sul mondo enigmatico di Kafka, puntando lo sguardo sui rapporti burocratici (“il mondo dei funzionari”) e su quelli familiari (“il mondo dei padri”).

7 Sia pure soltanto per inciso, si può notare che fra le interpretazioni rispetto alle quali Arendt esprime il suo dissenso vi è anche quella del primo marito di Hannah Arendt, il filosofo Günther Anders. Il suo saggio, G. Anders, Kafka. Pro e contro. I documenti del processo (tr. it. di P. Gnani, a cura di B. Maj, Quodlibet, Macerata 2006), è del 1951 e riprende una conferenza dal titolo Teologia senza Dio che Anders aveva tenuto all’Institut d’ètudes germaniques di Parigi nel 1934. 8 Seguo, su questo tema, l’accurata ricostruzione di P. P. Pentucci, La costellazione dell’estetico. Un’ipotesi di lettura in quattro movimenti su Theodor W. Adorno, M. Di Salvo Editore, Napoli 2004, pp. 156-164.

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Entrambi, sottolinea Benjamin, si somigliano in uno scenario fatto di «ottusità, degradazione e sporcizia»9. Il punto dirimente rispetto ad Adorno sta nella differente connotazione che costui offre di questo potere: «Benjamin ha definito questo potere parassitario, quello dei patriarchi in collera: esso si nutre della vita su cui grava. Ma il momento parassitario subisce una caratteristica dislocazione. […] Non le potenze bensì gli eroi inermi appaiono superflui, nessuno di loro produce un lavoro socialmente utile. […] La dislocazione è ricalcata su un’abitudine ideologica che trasfigura la riproduzione della vita in un atto di grazia dei padroni, dei “datori di lavoro”. Essa circoscrive un tutto in cui diventano superflui coloro che il tutto avvolge e attraverso i quali esso si conserva. Ma in Kafka il sordido e il meschino non si esaurisce qui. Essi sono il crittogramma della tarda fase capitalistica lustrata fino al massimo splendore, quella che egli risparmia proprio per poterla poi determinare tanto più precisamente nel suo negativo»10.

9 Cfr. W. Benjamin, Franz Kafka. Nel decimo anniversario della morte, tr. it in E. Pocar (a cura di) Introduzione a Kafka. Antologia e saggi critici, La cultura. Saggi di arte e di letteratura, Milano 1974, pp. 178-206; poi ripubblicato in W. Benjamin, W. Benjamin lettore di Kafka, tr. it. a cura di G. Scaramuzza, Unicopli, Milano 1995, p. 89 ss.; e in W. Benjamin, Angelus Novus, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2006, pp. 275-305. Sull’argomento cfr. G. Scholem, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, tr. it. a cura di Carlo A. Bonadies, E. Castellani, Adelphi, Milano 1991. 10 T. W. Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, tr. it. di C. Mainoldi, Einaudi, Torino, 1981, pp. 262-263; cfr. ancora P. P. Pentucci, La costellazione dell’estetico, cit., pp. 158 ss., e inoltre M. Bozzetti, Plasticità dell’inutile - Adorno interpreta Kafka, “Humanitas”, 2000, n. 3-4, pp. 461-473. Molto utile è anche il saggio di L. Rose, Legge, linguaggio, crisi. Benjamin e Scholem lettori di Kafka, “Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio”, vol. 8, n. 2, 2014, p. 278-291.

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Per ritornare ad Arendt, l’opera assunta dall’autrice quale riferimento privilegiato è Il Castello, vale a dire il romanzo forse più misterioso, più ancora che semplicemente enigmatico, dello scrittore praghese, rimasto incompiuto e pubblicato postumo. Come si vedrà più estesamente nelle pagine che seguono, non è questo il solo scritto kafkiano al quale ella si sia riferita a partire dal 1944, visto che il richiamo ad altri scritti, sempre interpretati in maniera molto originale, accompagna l’intero sviluppo della riflessione arendtiana. Ma ciò che maggiormente colpisce, e in larga misura anche sorprende, nella conferenza tenuta a Mount Holyhoke, è la convinzione che Kafka debba essere letto come grande pensatore politico. Non si comprenderebbe questa impostazione, così palesemente controcorrente, così eterodossa, rispetto ai principali filoni di lettura dei racconti kafkiani, caratterizzati dall’alternativa fra la chiave teologica11 e quella psicoanalitica12, se non si tenesse presente quanto si è in precedenza osservato, a proposito del rapporto fra dimensione soggettiva e

11 Testimonianza significativa di questo filone è la corrispondenza intervenuta fra Walter Benjamin e Gershom Scholem: Teologia e Utopia. Carteggio 1933-1940, tr. it. di A. M. Marietti, Torino, Einaudi, 1987; cfr. anche M. Cavarocchi, (a cura), La certezza che toglie la speranza. Contributi per l’approfondimento dell’aspetto ebraico in Kafka, Giuntina, Firenze 1988; H. Bloom, Kafka, Freud, Scholem, tr. it. di A. Atti, Spirali, Milano 1989; S. Moses, La storia e il suo angelo: Rosenzweig, Benjamin, Scholem, tr. it. di M. Bertaggia, Anabasi, Milano 1999; E. Jacobson, Metaphysics of the profane: the political theology of Walter Benjamin and Gershom Scholem, Columbia University Press, New York 2003; I. Tonelli, Metamorfosi dell’Indistruttibile. La dimensione del sacro nell’opera di Franz Kafka, il Melangolo, Genova 2010. 12 Cfr. A. Fusco – R. Tomassoni, I racconti di Kafka. Un’analisi piscologica, Franco Angeli, Milano 1991; M. Löwy, Kafka sognatore e ribelle, tr. it. di G. Lagomarsino, Elèuthera, Milano 2007; A. Carotenuto, La chiamata del daimon. Gli orizzonti della verità e dell’amore in Kafka, Bompiani, Milano 2012.

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piano politico nel pensiero di Arendt. Poiché, come già si è accennato, la radice ultima e più profonda di fenomeni politici, quali il regime totalitario hitleriano, va ricercata secondo la filosofa in quel mistero mai compiutamente decifrabile che è l’uomo, allora uno scrittore come Kafka, la cui narrativa può essere considerata una sorta di geografia dell’enigma chiamato uomo, può aiutarci a penetrare nella complessità del rapporto fra etica e politica più e meglio di quanto possano fare le analisi strettamente politologiche. Come scrive Arendt, l’arte di Kafka consiste soprattutto nell’attitudine a “costruire modelli”, e dunque implicitamente nella capacità di rendere intelligibile anche ciò che altrimenti sfuggirebbe alla comprensione. La parabola di Kafka, è «esempio forse unico nella letteratura di autentiche parabolai, scagliate a sfiorare l’episodio e a penetrarlo, come raggi luminosi i quali però, anziché illuminare l’aspetto esteriore, posseggano una capacità radiologica di rivelare la struttura interna del fatto stesso; ossia, nel nostro caso, il misterioso processo della mente»13. Su un punto – e tutt’altro che marginale – la lettura arendtiana dello scrittore praghese coincide in larga misura con l’interpretazione proposta da altri commentatori, e in particolare da Walter Benjamin. Si tratta di qualcosa che attiene non semplicemente a clausole di stile, ma che piuttosto può essere considerato lo specifico principio di individuazione della narrativa kafkiana, vale a dire la scrittura come parabola. Lo sottolinea, a suo modo, Adorno sostenendo che «La prosa di Kafka […] persegue l’allegoria piuttosto che il simbolo. Benjamin l’ha giustamente definita parabola. Essa non si esprime mediante l’espressione, bensì mediante il rifiuto di quest’ultima, un’interruzione. Si tratta di parabole di cui è stata sottratta 13 H. Arendt, Between Past and Future: Six Exercises in Political Thought, Viking Press, New York 1961; tr. it. di T. Gargiulo, Tra passato e futuro, Introduzione di A. Dal Lago, Garzanti, Milano 1999, p. 29.

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la chiave; anche colui che cercasse di trasformare in chiave proprio questa circostanza, verrebbe indotto in errore, perché confonderebbe la tesi astratta dell’opera di Kafka, l’oscurità dell’esistenza, col suo contenuto sociale»14. Ma più ancora dei contenuti specifici, comunque non privi di connessioni e rinvii perfino sorprendenti, ciò che di Kafka colpisce Arendt, al punto da suggerirle di ritornare periodicamente ad analizzare alcuni testi giudicati fondamentali (prima Il Castello, poi Il processo, e infine i frammenti intitolati Egli), è per l’appunto il carattere metaforico della scrittura kafkiana, e più precisamente il suo costituirsi “tecnicamente” come parabola. Già nell’etimo, il termine evoca una duplicità di piani che vengono posti (ballo) a confronto (para) l’uno con l’altro. La parabola “dice” una verità che scaturisce dall’aver istituito una relazione, dall’aver evidenziato un nesso altrimenti invisibile. Per Arendt, Kafka ha compreso fino in fondo – ed espresso mediante parabole – un assunto che la filosofa aveva condiviso, attraverso un’adesione non solo intellettuale, ma anche psicologica ed emotiva. Aveva individuato nell’uomo, nell’enigma dell’uomo, nell’imperscrutabilità della sua essenza più profonda, negli abissi di quello che è destinato comunque a restare un mistero, l’origine del male, in tutte le sue mani14 T. W. Adorno, Note per la letteratura 1961-1968, tr. it. E. De Angelis, Einaudi, Torino 1979, p. 250. Alla scrittura di Kafka come parabola, si era riferito Walter Benjamin nel saggio poi ripubblicato in Angelus Novus: «Se il bocciolo si dispiega nel fiore, il bastimento di carta, che si insegna a fare ai bambini, si “dispiega in un foglio liscio”. E questo secondo tipo di “spiegazione” è propriamente adeguato alla parabola, al piacere del lettore di stenderla, finché il suo significato sia del tutto “piano”. Ma le parabole di Kafka si dispiegano nel primo senso, e cioè come il bocciolo diventa fiore. Perciò il loro prodotto è affine alla poesia» (W. Benjamin, Franz Kafka, per il decimo anniversario della sua morte (1934), in Angelus Novus, cit., pp. 275 ss.; su ciò, si veda ancora P. P. Pentucci, La costellazione, cit., pp. 160 ss.).

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festazioni individuali e sociali. Kafka è “pensatore politico”, come Arendt lo definisce, proprio perché è la guida più affidabile per esplorare gli intrecci che connettono etica e politica, e che ritrovano nell’individuo la radice delle forme politiche.

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I Kafka pensatore politico

1.1 Il ponte Fondato nel 1837 dalla pedagogista Mary Lyon, come seminario femminile, e successivamente trasformato in College, durante la seconda guerra mondiale Mount Holyoke era diventato il principale punto di riferimento per gli emigrati di origine ebraica, giunti negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziali in atto nell’Europa hitleriana. Soprattutto per iniziativa di Jean Wahl1, anch’egli esule negli Stati Uniti, a Mount Holyoke (località del Massachussets, si-

1 Jean Wahl (1888-1974) arrestato dal governo di Vichy nel luglio del 1941 perché di famiglia ebrea, imprigionato a Drancy e condannato a morte, riuscì a fuggire in maniera rocambolesca dal carcere in cui veniva torturato dalla Gestapo, nascondendosi nel camion di un macellaio, e poi da Marsiglia si imbarcò alla volta degli Stati Uniti, dove tenne corsi universitari fra il 1941 e il 1945. Ritornato in Francia alla fine della guerra, divenne professore di filosofia alla Sorbona. Fondatore del Collège philosophique nel 1946, direttore della Revue de métaphysique et de morale a partire de 1950, presidente della Société française de philosophie dopo la morte di Gaston Berger. Dopo aver redatto una tesi, poi pubblicata, su Les philosophies pluralistes d’Angleterre et d’Amérique (intorno a figure come William James e Alfred N. Whitehead), Wahl affronta l’analisi della nozione di istante in Descar-

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tuata a sud ovest di Boston) fra il 1942 e il 1944 si svolgono gli “Entretiens (symposiums) de Pontigny”, una serie di seminari che intendevano riprendere gli incontri, della durata di 10 giorni, che si tenevano annualmente nella cittadina francese di Pontigny a partire dal 1910, e che erano stati sospesi all’inizio della guerra. Nell’agosto del 1944, nell’ambito degli “Entretiens de Pontigny” che si tenevano nel College di Mount Holyoke, Hannah Arendt viene invitata a tenere un discorso in grado di avviare ad una riflessione sul convulso succedersi degli eventi bellici che stanno devastando l’Europa2. Colpisce anzitutto il fatto che, in questa circostanza, lo stimolo ad approfondire il problema della violenza che ha caratterizzato il XX secolo sia stato suscitato da un testo letterario. Arendt, infatti, parte proprio da un grande modello della letteratura, Il Castello di Kafka,

tes e nel Parmenide di Platone. Prima dei suoi testi di maggiore impegno teoretico (il Traité de métaphysique, 1953, e L’Expérience métaphysique, 1964), egli pubblica due lavori di grande originalità, dedicati rispettivamente all’interpretazione della Fenomenologia dello Spirito (Le Malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, 1929) e di Kierkegaard (Études kierkegaardiennes, 1938). 2 Come annotano C. Benfey e K. Remmler in AA.VV., Artists, Intellectuals and World war II. The Pontigny Encounters at Mount Holyoke College, 1942-1944, a cura di C. Benfey e K. Remmler, University of Massachussets Press, Amherst e Boston 2006, p. 249. Per una ricostruzione analitica di questa importante esperienza culturale, cfr. C. Paulhan, De Pontigny à Cerisy: un siècle de rencontres intellectuelles, Institut Mémoires de l’Édition Contemporaine, Paris 2002; R. J. Dean, Pontigny en Amerique, “The Modern Language Journal”, vol. 28, n. 2 (Feb., 1944), pp. 166-167 e soprattutto gli Atti del Convegno svoltosi nel 2002, pubblicati col titolo 100 ans de rencontres intellectuelles de Pontigny à Cerisy, a cura di F. Chaubet, E. Heurgon, C. Paulhan, Editions de l’Imec, « Collection Inventaires », Paris 2005. Si veda inoltre il mio testo, L. Sanò, Un pensiero in esilio. La filosofia di Rachel Bespaloff, Prefazione di R. Bodei, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2007, pp. 117-123.

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come tramite per un ragionamento più incisivo sul presente3. Il tentativo consiste nel cercare di comprendere fino a che punto la violenza possa essere disumanizzante, al punto da riuscire a distruggere il potere. Il motivo che spinge Arendt ad indagare gli episodi della guerra, sulla scorta della suggestione dei romanzi kafkiani, va individuato nella persuasione che ciò che davvero è importante e originale negli eventi di quella fase storica, e che pertanto esige di essere capito e interpretato, non sono tanto le battaglie o i movimenti strettamente militari, quanto piuttosto la forma di governo assunta dalla Germania nazista. Durante l’incontro di Pontigny, ella propone di leggere Kafka come pensatore politico, capace di delineare, sia pure attraverso l’impiego di una suggestiva metafora, una forma di governo che Arendt definisce mediante il termine “totalitarismo”4. Il racconto Il Castello viene dunque riesaminato come una mappa idonea a descrivere quella particolare degenerazione del potere che è la burocrazia, intesa appunto come un esempio di kratos5 corrotto: «Se si volesse definire la burocrazia

3 Il contenuto del discorso pronunciato dalla Arendt a Mount Holyoke fu pubblicato nella “Partisan Review”, autunno 1944, col titolo: Franz Kafka: a Reevaluation, ristampato con altri saggi in H. Arendt, Essays in Understanding, 1930-1954. Uncollected and Unpublished Works by Hannah Arendt, cit.; tr. it. di P. Costa, Ripensando a Franz Kafka. In occasione del ventesimo anniversario della morte, in Ead., Archivio Arendt 1. 1930-1948, cit., pp. 105-116. 4 Riflessioni che poi confluirono nell’opera originariamente pubblicata nel 1951: H. Arendt, The Origins of Totalitarianism, Harcourt Brace and Co., New York 1951; tr. it. di A. Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004. 5 Kratos è il termine il termine principale con il quale i Greci indicavano il potere. Kratos nel Prometeo incatenato di Eschilo è descritto come il fedele servitore di Zeus, l’esecutore della sua volontà (cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, 42, in Prometeo incatenato. I persiani. I sette contro Tebe. Le

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nei termini che sono propri delle scienze politiche», scrive la filosofa, «vale a dire come forma di governo – facendone il regno degli uffici, contrapposto al regno degli uomini, di uno, di pochi o di tanti – si potrebbe tranquillamente dire che la burocrazia è il governo di nessuno, e forse proprio per questo si può scorgere in essa la forma di governo meno umana e più crudele»6. Per sua natura ogni regime totalitario «e ogni burocrazia tende a trasformare gli uomini in funzionari e in semplici rotelle dell’apparato amministrativo, e cioè tende a disumanizzarli»7. Leggendo gli scritti di Kafka, secondo Arendt, si rimane conquistati da «una fascinazione vaga e generica»8, anche per ciò che non si riesce a capire, anche per le storie apparentemente assurde. Lo stile di Kafka non è tecnicamente ricercato ma, all’opposto, estremamente semplice. Tuttavia, «tutti i suoi ammiratori sparsi nei diversi paesi, pur dissentendo radicalmente sul significato profondo della sua opera, concordano stranamente su un punto essenziale: sono tutti colpiti dalla novità della narrazione, una modernità stilistica che non si manifesta in nessun altro autore con la stessa forza e chiarezza»9. supplici, intr. di U. Albini, tr. a cura di E. Savino, Garzanti, Milano 1992). Sul concetto di Kratos e gli studi connessi, rimando alla prima parte del mio saggio L. Sanò, Donne e violenza. Filosofia e guerra nel pensiero del ‘900, Postfazione di B. Giacomini, Mimesis, Milano-Udine 2012. 6 H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., pp. 26-27. 7 H. Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, The Viking Press, New York, 1963; tr. it. di P. Bernardini, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2013, p. 292. 8 H. Arendt, Ripensando a Franz Kafka. In occasione del ventesimo anniversario della morte, cit., p. 105. 9 Ibidem. Per quanto riguarda lo stile di scrittura di Kafka, si potrebbe riprendere una fulminante osservazione di Deleuze Guattari, dove si afferma che «Il Castello ha “molteplici ingressi”, ma non si sa bene quali siano le leggi che ne regolano l’uso e la distribuzione […]. Il principio degli ingressi

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Infatti, il primo problema che sorge nel leggere Kafka consiste nel riuscire a sintonizzarsi con la sua scrittura. Una scrittura che non è né metafora, né allegoria, e che sfugge ad una qualsivoglia classificazione. Secondo Arendt, la forma che meglio di ogni altra rappresenta la peculiarità del modo di scrivere di Kafka è la parabola10. Secondo un’interpretazione recente, la parabola è propriamente “similitudine viva”, che diventa storia per essere interpretata all’infinito, fino a smarrirsi. La parabola non può mai “ri-convergere in se stessa”, in quel contenuto originario da cui ha preso vita, perché essa consiste nell’apertura, nella rivelazione di un concetto che, in quanto espresso, disvelato, non può più essere compiutamente recuperato. Ciò che resta è l’attesa di un significato11. «In Kafka la parabola implode, molteplici è il solo a impedire l’introduzione del nemico, il Significante, e i tentativi di interpretare un’opera che di fatto si propone unicamente alla sperimentazione» (G. Deleuze-F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, tr. it di A. Serra, Quodlibet, Macerata 2010, p. 7). Un’opera come Il Castello di Kafka, proseguono gli autori, ha molteplici ingressi, e non è dato sapere quali ne siano le leggi e gli ingressi. Uno di questi ingressi è il concetto di lingua (e letteratura) minore. Una letteratura minore non è la letteratura d’una lingua minore ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore. I caratteri della letteratura minore sono la deterritorializzazione della lingua, l’innesto dell’individuale sull’immediato-politico, il concatenamento collettivo d’enunciazione. Ciò implica che l’aggettivo ‘minore’ non qualifica le letterature ma le condizioni rivoluzionarie di ogni letteratura all’interno di quella che prende il nome di grande letteratura. 10 Cfr. H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., p. 29; Ead., The Life of the Mind, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1978; tr. it. di G. Zanetti, La vita della mente, il Mulino, Bologna 2009, p. 297. Per un approfondimento del concetto di parabola in Kafka cfr. G. Baioni, Romanzo e parabola, Feltrinelli, Milano 1962. 11 Cfr. M. Cacciari, La parabola spezzata, in Kafka, “Humanitas”, Anno LV, N. 3-4, Morcellania, Brescia, Agosto 2000, p. 344: «La condizione essenziale della parabola è precisamente quella che si esprime nel paradosso evangelico: chi vede me (chi mi ascolta, chi mi “legge”) vede il Padre (qui

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ruota dentro se stessa, cerca disperatamente una via d’uscita verso l’interpretazione - per essere finalmente interpretata. La forma delle sue storie è tutta para-bolica - ma a nulla possiamo ‘accostarle’ o compararle»12. La parabola di Kafka è una perenne ricerca di significato, attraverso infiniti fraintendimenti, similitudini, paragoni. È come un ‘ponte’, e quando questo ponte non raggiunge l’altra riva, resta l’aporia. L’unica via d’uscita è sussistere nella sospensione, lontano da ogni certezza o pretesa sim-bolica13. D’altra parte, il ponte è l’argomento di un breve racconto di Kafka, scritto nel 191714, a cui è affidato il compito di dire quale sia il carattere della scrittura. Il linguaggio è un ponte, capace di sormontare l’infinito quando e se nessuno lo percorra, ma se attraversato può invece far precipitare nell’abisso15;

vive il significato): ma il Padre nessuno lo vede mai. […] Mentre il simbolo è l’essenziale unità delle parti a dover ictu oculi emergere, nella parabola diviene protagonista la ricerca stessa della ‘giusta’ immagine, della ‘giusta’ figura tesa a indicare il significato, ad alluderlo, a ri-velarlo appunto». 12 Ivi, p. 345. 13 Cfr. ivi, pp. 348-349. 14 Cfr. F. Kafka, Il ponte, in Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi, tr. it., intr. di I. A. Chiusano e G. Raio, Newton Compton, Roma 2010, p. 693. Illuminante è l’analisi offerta da Umberto Curi in Id., Via di qua. Imparare a morire, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 194-196. Sul tema del linguaggio come allusione in Kafka, cfr. anche F. Masini, Franz Kafka. La metamorfosi del significato, Ananke, Torino 2010, pp. 133-193. 15 Nella lettera scritta nel luglio del 1922 all’amico Max Brod, Kafka, a proposito della sua scrittura scrive: «Forse esiste anche qualche altro modo di scrivere, ma io conosco soltanto questo. […] E il suo lato diabolico mi sembra chiaro» (F. Kafka, Lettere, tr. it. di B. Bianchi, E. Ganni, F. Masini, E. Pocar, Introduzione e cura di F. Masini, I meridiani, Mondadori, Milano 2001, p. 458). Per un approfondimento cfr. M. Freschi, Il lato diabolico della scrittura, in Id., Introduzione a Kafka, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 48-55.

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«si può dire […] che il ponte di Kafka raggiunge l’‘altra riva’ solo quando nessuno lo percorre»16. In effetti, sarebbe improprio tentare di tradurre Kafka, nel senso letterale del termine, ovvero cercare di condurre fuori, estrapolare, e dunque anche allontanare dal significato originario della narrazione un significante, ricondotto alle categorie della logica. Affrontare Kafka e la sua scrittura comporta invece uno sforzo, affinché il racconto non venga tradotto arbitrariamente nella trasparenza del logos, e affinché la carica suggestiva del mythos possa vivere nel suo carattere enigmatico e allusivo, lontano da ogni tentativo di compiuta razionalizzazione17. È significativo che, in una lettera inviata nel luglio del 1922 all’amico Max Brod, Franz Kafka parli della sua stessa scrittura come di una discesa all’inferno: «questa discesa alle potenze delle tenebre, questo scatenamento di spiriti legati per natura, i problematici amplessi e tutto quanto può avvenire laggiù, di cui qua sopra non si sa nulla quando si scrivono racconti alla luce del sole»18. Il quel momento, Kafka, era immerso nella stesura del romanzo Il Castello. 16 U. Curi, Via di qua. Imparare a morire, cit., p. 195. 17 Cfr. ivi, p. 194. S. Quinzio, in Introduzione a F. Kafka, Il Castello, tr. it. di U. Gandini, Feltrinelli, Milano 1994, p. 7, scrive: «Se non bastasse Kafka a sviarci nei suoi infiniti labirinti, ci pensano gli interpreti, moltiplicando le interpretazioni al di là di ogni parola da interpretare. Inseguire i personaggi, i fatti narrati, le metafore, le allusioni, i simboli lascia sempre trasparire – anche quando non è dichiarata, o addirittura negata – l’intenzione di ricomporli in un significato unitario, come le tessere di un mosaico. Ma Kafka non si lascia ridurre a sistema». 18 F. Kafka, Lettere, cit., p. 458; sempre in questa lettera, significative sono le parole di Kafka a sostegno della sua attività di scrittura: «Lo scrivere mi sostiene, ma non sarebbe più esatto dire che sostiene questa specie di vita? Naturalmente con ciò non voglio dire che la mia vita sia migliore se non

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Il titolo tedesco de Il Castello è Das Schloss, che significa propriamente “serratura”, «ciò che è chiuso, che non può aprirsi (ent-schliessen), che può durare proprio perché non si lascia aprire»19. Ciò che è chiuso non è tale perché custodisca un segreto, perché se così fosse, potrebbe insinuare l’idea di qualcosa che possa o debba essere aperto. Ma il “chiuso”, lo Schloss, non conserva al suo interno nulla di celato da svelare. Una volta conquistato o aperto, lo Schloss non è più chiuso e, in quanto tale, semplicemente non è. Eppure, in tutte le tradizioni mistiche20, il castello rappresenta un simbolo di apertura al pellegrino, al viandante, una meta ospitante che fa tutt’uno con il viaggio che si svolge per raggiungerla. Il castello «è ‘transitabile’ solo nella misura in cui venga riconosciuto immagine della nostra più intima lotta spirituale»21, e in questo senso diviene la dimora finale di un processo di uscita e di ritorno dell’anima. Il castello non è dunque più concepito come fortezza, ma come un crocevia di passaggi e stanze, metafora di distinte lotte spirituali. Il percorso che si compie all’interno del castello, il cui accesso è permesso solo a chi si sente pronto ad accedere all’intimità del proprio animo, non è in realtà un percorso solitario. È un viag-

scrivo. Anzi in tal caso è molto peggiore e del tutto insopportabile e deve sfociare nella pazzia. Certo però soltanto a condizione che io, come è di fatto, anche quando non scrivo sia scrittore, ma uno scrittore che non scrive è un mostro che provoca la pazzia» (ibidem). 19 M. Cacciari, Castelli, in Id., Hamletica, Adelphi, Milano 2009, p. 44. 20 A partire dalla «grande mistica carmelitana, che riassumere in sé, attraverso una miriade di canali sia segreti che palesi, tradizioni islamiche proprie dell’Andalusia, tradizioni cabalistiche, tradizioni fiamminghe e renane» (ivi, p. 47). 21 Ivi, p. 46.

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gio soggetto a incontri, misteri, oscurità che abitano e sono necessari alla vita, di cui il castello stesso è simbolo22. Il Castello è dunque il luogo chiuso, di cui si è perduta la chiave? O è piuttosto la meta di un percorso di riconoscimento interiore? In questa ambivalenza di significato, in questa duplicità, si sviluppa probabilmente la trama dell’ultimo e incompiuto romanzo di Kafka23. Dopo il Castello, Kafka scriverà solo pochi e angoscianti racconti. Così come per tutti gli altri suoi scritti, Kafka affida all’amico Max Brod il compito di bruciare il romanzo dopo la sua morte: «dunque le mie ultime volontà circa tutti i miei scritti: […] senza eccezione, meglio se non letti (non ti proibisco di 22 Cfr. ivi, pp. 44-47. 23 La composizione de Il Castello va dal gennaio al settembre del 1922, quando l’autore non aveva ancora quarant’anni, e mancavano meno di due anni alla sua morte. Kafka nasce nel 1883 a Praga, una città che a quell’epoca appariva come un crocevia di mondi diversi, dove si contava una comunità di lingua tedesca piuttosto esigua (il 7 %) rispetto a quella slava, ma molto influente sul piano economico, e all’interno di questa minoranza erano particolarmente attivi gli ebrei. Kafka apparteneva ad una famiglia di origine ebrea, di lingua ceca, che soltanto dopo anni di sacrifici poté trasferirsi a Praga. Grazie all’attività di commerciante, il padre di Kafka raggiunse una certa posizione economica, inserendosi nell’elite praghese di lingua tedesca. Praga era una città di forti contraddizioni, dove convivevano, non senza contrasti, componenti sociali, religiose, culturali molto differenti (cfr. S. Quinzio, Introduzione a F. Kafka, Il Castello, cit., p. 12). Kafka, muore dopo «una lunga e dolorosissima tubercolosi faringea che gli impediva di deglutire, e lo soffocava» (ibidem). Per ricostruire la biografia di Kafka, l’opera fondamentale si deve al suo più fedele amico, Max Brod: cfr. Id., Una biografia, tr. it. a cura di E. Pocar, Passigli Editori, Bagno a Ripoli (Firenze) 2008. Importanti anche, tra gli altri, R. Calasso, K., Adelphi, Milano 2005; P. Citati, Kafka, Adelphi, Milano 2007; M. Freschi, Introduzione a Kafka, cit.; G.-G. Lemaire, Una biografia, Lindau, Torino 2014; M. Robert, Solo come Kafka, tr. it. di M. Beer, Editori Riuniti, Roma, 1982; U. Treder, L’assalto contro il confine. Vita e opera di F. Kafka, Morlacchi, Firenze 1981.

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dargli uno sguardo, tuttavia preferirei che non lo facessi, comunque nessun altro può dargli uno sguardo) – tutto questo va bruciato senza eccezione, e di farlo il più presto possibile te ne prego»24. 24 F. Kafka, Lettera a Max Brod, inverno 1922-1923, in Lettere, cit., pp. 620-621; in questa lettera Kafka, dopo un lungo periodo di malattia (febbre polmonare), lascia le sue ultime volontà all’amico Max, chiedendo appunto di dare alle fiamme tutti i suoi scritti: «di tutto ciò che ho scritto» precisa tuttavia, «sono validi solo i libri: Condanna, Fochista, Metamorfosi, Colonia penale, Medico di campagna e il racconto: Digiunatore. (Le due o tre copie della “Meditazione” possono restare, non voglio imporre a nessuno la fatica di macerarle, ma di esse niente può venire ristampato). Se dico che quei cinque libri e il racconto sono validi, non intendo con questo di avere il desiderio che vengano ristampati e trasmessi a tempi futuri, al contrario, se andassero del tutto perduti ciò corrisponderebbe al mio autentico desiderio. Solo visto che ormai ci sono, non impedisco a nessuno di conservarli se ne ha voglia» (ibidem). In un’altra lettera, datata presumibilmente tra il 1919 o 1921 si legge ancora: «Carissimo Max, la mia ultima preghiera: tutto quello che si troverà nel mio lascito (dunque nella libreria, nell’armadio della biancheria, nella scrivania, in casa o in ufficio o in qualunque altro luogo qualcosa fosse stato trasferito o ti capitasse sotto gli occhi) quanto ai diari, manoscritti, lettere, altrui e mie, disegni eccetera, brucialo integralmente e senza averlo letto, come pure tutti gli scritti che tu o altri, ai quali dovrai chiederlo in nome mio, possediate. Chi non voglia consegnarti delle lettere dovrà almeno impegnarsi a bruciarle personalmente» (ivi, p. 620). Queste due lettere vengono ricordate come i cosiddetti “testamenti” di Kafka, rivolti all’amico Brod in forma epistolare (cfr. ivi, p. 382). L’ed. tedesca di tutte le opere di Kafka si compone di 10 volumi: F. Kafka, Gesammelte Werke, hrsg. von Max Brod, S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1950. La maggior parte dei manoscritti originali sono ancora custoditi presso la Bodleian Library di Oxford, ad eccezione de Il processo, che si trova nel Deutsches Literaturarchiv di Marbach, e pochi altri che restano di proprietà di privati. La biblioteca di Kafka, recentemente restaurata, contiene oltre 1000 volumi tra libri e riviste, ed è gestita dalla Franz-KafkaGesellschaft di Praga. I diritti d’autore sulle opere di Kafka sono scaduti nel 1994, e da allora le pubblicazioni dell’intero corpus degli scritti viene pubblicato secondo criteri autonomi rispetto a quelli adottati da Max Brod (cfr. E. Bertozzi, http://www.scritturaimmanente.it/kafka/bio/opere.htm).

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Ne Il Castello si descrive un viaggio condotto da un uomo la cui identità resta misteriosa, verso un luogo che resta indeterminato. Si tratta di un cammino continuamente interrotto, accidentato, fatto di reiterati tentativi soggetti allo scacco, che sembrano condurre ad un progressivo stato di smarrimento, in attesa di raggiungere una meta, il Castello appunto, che alla Su questa questione cfr. J. Butler, Di chi è Kafka?, a cura di A. Iannello, N. Perugini e F. Zappino, Il lavoro culturale, http://www.lavoroculturale.org/ judith-butler-kafka/, dove si sostiene che: «Nel giugno del 2015, tre giudici della Corte distrettuale israeliana di Tel Aviv hanno sentenziato che, dopo oltre novant’anni di peripezie, spostamenti e vendite dei manoscritti di Kafka, i suoi lavori – contro la volontà stessa dell’autore, che li aveva affidati a Max Brod chiedendogli di distruggerli – sono di proprietà della Biblioteca nazionale di Gerusalemme. Dopo la morte di Kafka l’amico Brod raccolse e mise al sicuro i suoi manoscritti, prima di fuggire in Israele per salvarsi dallo sterminio nazista e morirci nel 1968. In seguito, i manoscritti passarono alla segretaria, Esther Hoffe, a cui Brod aveva chiesto di donarli ad un archivio pubblico. Parte di questi lavori finirono all’Archivio della Letteratura Tedesca, che poi chiese alle figlie di Esther Hoffe di acquistare il restante lascito di Max Brod. La decisione della Corte distrettuale di Tel Aviv giunge a conclusione di una serie di processi iniziati nel 2007 che hanno visto l’Archivio della Letteratura Tedesca, la Biblioteca nazionale di Gerusalemme e le figlie di Hoffe darsi battaglia per l’eredità di Kafka. Un’eredità singolare, quasi aporetica, impossibile, di chi lascia scritti chiedendo che scompaiano dopo la sua morte. Nella sentenza del giugno 2015 i tre giudici hanno scritto: “Per quel che concerne Kafka, è giusta la messa all’asta dei suoi scritti personali, che l’autore aveva ordinato di distruggere, da parte della segretaria del suo amico e delle sue figlie? La risposta ci sembra scontata”. Sullo sfondo di un contenzioso tra soggetti privati e un’istituzione culturale tedesca, in sostanza, i giudici israeliani trasformano la “cattiva gestione” e l’arricchimento della famiglia Hoffe in una giustificazione per la nazionalizzazione di Kafka. Ma di chi è Kafka? A chi appartiene? Cosa significa trasformare in patrimonio nazionale israeliano gli scritti di un autore che proprio con i suoi lavori sembra aver costantemente cercato di produrre una poetica diasporica e del non arrivo? Come può coesistere la nazionalizzazione dei testi di Kafka, da parte di Israele, con la sua ambivalenza nei confronti del progetto politico sionista? Quali sono gli scopi e gli effetti politici della trasformazione dei suoi lavori in una proprietà statale?» (Nota introduttiva a J. Butler, Di chi è Kafka?, cit., p. 3-4).

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fine si rivela del tutto inaccessibile. È evidente che la trama del romanzo sembra delineare il cammino di un nomade, in cui è possibile ritrovare il tema dell’erranza legata alla condizione dell’ebreo25, oggetto d’analisi della stessa Arendt. Il luogo dove si svolge tutto il romanzo è sempre lo stesso misero villaggio, isolato dal resto del mondo e immerso nel gelo della neve, e il tempo si dispiega lungo sette, simbolici giorni, quasi a ricordare i giorni della creazione descritti nel libro del Genesi26. Il racconto si apre con il protagonista K. che, in una tarda sera d’inverno, infreddolito ed esausto dopo un lungo viaggio, si ferma sulla soglia di un ponte che conduce ad un villaggio visto come una sorta d’esilio27. Tutto incomincia, dunque, sulla

25 Questa è un’interpretazione che ricorre in alcune critiche letterariofilosofiche: cfr. in particolare M. Brod, Una biografia, cit., pp. 203-208; H. Arendt, Archivio Arendt 1. 1930-1948, cit., pp. 105-116; Ead., Il futuro alle spalle, a cura di L.R. Santini, tr. it. di V. Bazzicalupo e S. Muncas, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 11-40; G. Baioni, Kafka. Letteratura ed Ebraismo, premessa di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino 2008; F. Tanzia, Uno scrittore fuori luogo: la concezione dello spazio nel Castello di Kafka, in Aa.V.v., Kafka e le metafore dei media, a cura di D. Capaldi, Liguori Editore, Napoli 2012, pp. 45-52; M. Freschi, Kafka, la scrittura e l’ebraismo, in AA.Vv., Kafka oggi, a cura di G. Farese, Adriatica, Bari 1986, pp. 57-94; F. Masini, Franz Kafka. La metamorfosi del significato, cit., pp. 33-57; S. Quinzio, Introduzione a F. Kafka, Il Castello, cit., p. 14-24. Secondo G. Anders (Kafka. Pro e contro. I documenti del processo, cit.) è opportuno combattere alcuni germi disseminati nell’opera di Kafka, che aprono a letture pseudoreligiose e spesso legittimano, in modo consapevole o meno, la sorte del popolo ebraico. 26 Nel primo dei venti capitoli de Il Castello sono evidenziati i presupposti fondamentali da cui poi si diparte tutta la storia, che in realtà non si sposta mai lontano dalla premessa, pur nell’intensificarsi di inverosimili complicazioni (cfr. S. Quinzio, Introduzione a F. Kafka, Il Castello, cit., p. 13). 27 Le scenario inziale è così descritto: «Era tarda sera quando K. arrivò. Il paese era affondato nella neve. La collina non si vedeva, nebbie e tenebre al nascondevano, e non il più fioco raggio di luce indicava il grande Castello. K.

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soglia di quel ‘ponte-parabola’, che sembra condurre nell’abisso28. K. è solo, sospeso su un ponte di una regione desolata: un passo oltre quella soglia inizia la sua storia - una storia da interpretare e a cui affidare un significato -, ma oltre quel ponte ogni ritorno al passato – al nucleo originario da cui nasce la parabola stessa – gli verrà per sempre precluso29. K. è un uomo sui trent’anni, alquanto malmesso, povero, cencioso e affaticato, sostenuto da un nodoso bastone che lo aiuta nel cammino. Non si conosce nulla di lui, cosa ha lasciato, che strada ha percorso, che passato possiede. Dietro di sé sembra non esservi traccia di ricordo, o di un vissuto da custodire; nemmeno le orme dei suoi passi, disperse nella neve, lasciano segni duraturi che riconducano al cammino appena compiuto: alle sue spalle, un piccolo sacco da montagna lo accompagna. «Egli è l’assoluto straniero: straniero del mondo, straniero anche a se stesso»30. Non possiede nulla, nemmeno quello che anche gli uomini più umili posseggono, neppure un nome.

si fermò a lungo sul ponte che conduceva dalla strada maestra al villaggio, e guardò su nel vuoto apparente» (F. Kafka, Il Castello, tr. it. di A. Rho, a cura Mondadori, Milano 2007, p. 3). 28 Su questa linea interpretativa cfr. Blanchot (M. Blanchot, La conversazione infinita. Scritti sull’“insensato” gioco di scrivere, tr. it. di R. Ferrara, a cura di G. Bottiroli, Einaudi Torino 1997: cfr. in particolare il paragrafo Il ponte di legno, pp. 468-479), secondo cui Il Castello è visto come ciò che produce una specie di vuoto ermeneutico: la parola «riceve e perde la prospettiva, l’infinita distanza dei rapporti» (ivi, p. 479); la parola fa collassare tutte le possibili interpretazioni, rendendole quindi indifferenti, lasciandole sospese e pronte a precipitare nell’abisso (come nella celebre parabola kafkiana, Il ponte, cit.). 29 Lo stesso Roberto Calasso sostiene che K., una volta entrato nel villaggio, non può più, anche volendo, tornare indietro: cfr. R. Calasso, K., cit., p. 31. 30 P. Citati, Kafka, cit., p. 299.

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1.2 Straniero Eppure, qualcosa K. possiede. Egli è un agrimensore, e in questa veste vorrebbe poter lavorare all’interno di quel villaggio, raggiunto dopo il lungo viaggio. K. si presenta, infatti, come un soggetto dotato di una precisa competenza professionale, e vuole dunque essere chiamato a svolgere il suo lavoro che consiste propriamente nella definizione e misurazione dei terreni, come risulta dall’etimologia latina del suo stesso nome - ager, campo, e mensura, misurazione31. Giunto spontaneamente in un mondo dove si trova ad essere straniero, K. vuole restare in questo mondo assecondando un progetto ben preciso, quello di inserirsi come membro utile alla società, prendere posto come cittadino e come lavoratore. Il suo interesse è quindi tutto rivolto alla rivendicazione dei propri diritti naturali, come uomo e cittadino, sottolinea Arendt32. Ciononostante, K. è innanzitutto la prefigurazione paradigmatica di un nomade. La connessione tra questi due concetti, agrimensore-nomade, fra loro apparentemente tanto diversi, da sembrare incompatibili, è invece particolarmente evidente, già a partire da una

31 Secondo Aldo Carotenuto (in La chiamata del daimon. Gli orizzonti della verità e dell’amore in Kafka, cit., pp. 183-184 ss.) la radice indeuropea -men, da cui mensura, si ritrova nel verbo metior (misuro), ma anche in mens (il modo di sentire, di pensare, e per estensione l’anima, il cuore, la mente, l’intelletto): «sentire e pensare razionalmente sono, in maniera diversa, delle forme di misurazione, che implicano la capacità di distinguere i confini di ciò che accade dentro di noi». Quindi «misurare le distanze, stabilire dei confini significa, in termini endoscopici, essere capaci di valutare il proprio mondo interiore». La relazione tra questi aspetti, apparentemente slegati tra loro, consente dunque di cogliere la «pluralità di metafore racchiuse nella professione di K.». 32 Cfr. H. Arendt, Ripensando a Franz Kafka. In occasione del ventesimo anniversario della morte, cit., p. 108.

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considerazione di tipo etimologico. Nomade, infatti, proviene dalla stessa radice greca nem- di nemein da cui nomos, il termine per indicare la legge, e che significa letteralmente stabilire, assegnare, spartire. Ma c’è anche un significato del termine nemein che rimanda al concetto di pascolare, vagare, espandersi33. Nomade, per traslato, è pertanto il pascolante, l’errante per prati, la cui unica legge, si può dire, è l’erranza in quanto tale. A sostegno di questa distinzione, Carl Schmitt sostiene che nomos, normalmente tradotto con norma o legge, e dunque impiegato per indicare «in maniera generica e priva di sostanza, ogni tipo di regolamentazione o disposizione normativistica»34, in verità, originariamente, era un termine che rappresentava in modo pregnante il legame inestricabile che sussiste tra ordinamento e localizzazione. «La parola greca che designa la prima misurazione, da cui derivano tutti gli altri criteri di misura; la prima occupazione di terra, con relativa divisione e ripartizione dello spazio; la suddivisione e distribuzione originaria, è nomos. Questa parola, intesa nel suo significato originario, legato allo spazio, è quella che meglio si presta a

33 Sul significato etimologico del termine, Carl Schmitt sostiene che: «Il sostantivo greco nomos deriva dal verbo greco nemein e ha, come questo, tre significati. Nemein ha anzitutto lo stesso significato di nehmen, “prendere, conquistare”, quindi nomos significa in primo luogo Nahme, “presa di possesso, conquista”. [...] In secondo luogo, nemein significa teilen e verteilen, “dividere” e “spartire” ciò di cui si è preso possesso. Il nomos è dunque secondariamente la fondamentale procedura di divisione e di spartizione del terreno, nonché l’ordinamento proprietario che su di essa è basato. Il terzo significato di nemein è weiden, “pascolare”, vale a dire l’utilizzazione, la coltivazione e la valorizzazione del terreno ottenuto con la divisione, dunque la produzione e il consumo» (C. Schmitt, Terra e mare, tr. it. di G. Gurisatti, intr. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2002, p. 73, nota 1). 34 C. Schmitt, Il nomos della terra, tr. it. e Postfazione di E. Castrucci, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1990, p. 54.

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rendere l’idea del processo fondamentale di unificazione di ordinamento e localizzazione»35. È dunque necessario ricostituire il nesso originario tra ordinamento e localizzazione che trae significato dall’atto di occupazione della terra, e che è antecedente all’individuazione dell’ordinamento giuridico36: «Nomos [...] viene da nemein, una parola che significa tanto «dividere» quanto «pascolare» (Weiden). Il nomos è pertanto la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo, la prima misurazione e divisione del pascolo, vale a dire l’occupazione di terra e l’ordinamento concreto che in essa è contenuto e da essa deriva […]. Nomos è la misura che distribuisce il terreno e il suolo della terra collocandolo in un determinato ordinamento, e la forma con ciò data dell’ordinamento politico, sociale e religioso. Misura, ordinamento e forma costituiscono qui una concreta unità spaziale»37.

35 Ibidem. Questo significato originario del nomos, nel suo statuto riconducibile all’occupazione della terra, si è andato perdendo nel momento in cui si è stabilita una contrapposizione tra nomos da physis, «in base alla quale il nomos finisce per consistere in un dover essere che si stacca dall’essere e che si impone su di esso» (ivi, pp. 56-57). 36 Schmitt sostiene che «All’inizio della storia dell’insediamento di ogni popolo, di ogni comunità e di ogni impero sta sempre in una qualche forma il processo costitutivo di un’occupazione di terra. L’occupazione di terra precede l’ordinamento che deriva da essa». Pertanto, da questo atto di «mettere radici» derivano poi «tutti gli altri rapporti di possesso e di proprietà» (ivi, pp. 27-28). Seguo, su questo tema, l’accurato articolo di F. Chiodelli, Il nomos della terra, archiviobolano.it. 37 C. Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 59. La terra, sostiene ancora Schmitt, «è detta nel linguaggio mitico la madre del diritto. Ciò allude a una triplice radice dei concetti di diritto e di giustizia. In primo luogo la terra fertile serba dentro di sé, nel proprio grembo fecondo, una misura interna. Infatti la fatica e il lavoro, la semina e la coltivazione che l’uomo dedica alla terra fertile vengono ricompensati con giustizia dalla terra mediante la crescita e il raccolto. In secondo luogo il terreno dissodato e coltivato dall’uomo

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Il significato etimologico del termine nomos38 rimanda, dunque, alla dimensione del pascolo, alla divisione della terra, ad azioni che sono radicate nell’elemento della conquista del suolo, nell’ «“immediatezza” di una forza giuridica non mediata dalla legge»39. Pertanto, l’occupazione della terra «rappresenta il primo titolo giuridico che sta a fondamento dell’intero diritto»40. L’archetipo del diritto è in questo senso ravvisabile nell’atto iniziale di occupazione della terra, da cui poi prende forza il normativismo della legge. Nella figura di K., insomma, permane questa tensione dialettica di cui il nomos è simbolo, ed è in questa stringente intelaiatura concettuale che è possibile definire un preciso orizzonte ermeneutico. K. è un nomade, e al termine del suo viaggio giunge in un villaggio straniero per compiere un lavoro di “definizione e conquista” di una terra, dove vorrebbe incominciare una vita sociale. Ma questa terra, proprio perché a lui estranea, è refrattaria alla sua ‘occupazione’, e lo respinge senza condizioni. Come si vedrà, impossibile sarà dunque per lui non soltanto conquistare la terra dove giunge, ma accedere allo stesso fondamento del nomos. Da dove nasce questa impossibilità? Dal suo essere straniero, nomade, diverso, o dalla costitutiva chiusura dello Schloss?

mostra delle linee nette nelle quali si rendono evidenti determinate suddivisioni. [...] Il terzo luogo, infine, la terra reca sul proprio saldo suolo recinzioni e delimitazioni, pietre di confine, mura, case e altri edifici. Qui divengono palesi gli ordinamenti e le localizzazioni della convivenza umana. Famiglia, stirpe, ceppo e ceto, tipi di proprietà e di vicinato, ma anche forme di potere e di dominio, si fanno pubblicamente visibili» (ivi, pp. 19-20). 38 Cfr. C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 73, nota 1. 39 Ivi, p. 63. 40 Ivi, p. 24.

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La vita di K. incomincia nel villaggio del Castello, dove nessuno lo allontana, ma nessuno nemmeno lo trattiene41. In questo suo incessante peregrinare, K. ricerca dunque una patria, un luogo dove potersi finalmente arrestare, ma per poter sostare deve prima essere riconosciuto, la sua stessa libertà deve essere riconosciuta42. Ma questo non è possibile perché egli è superfluo, è - direbbe Arendt - uno sradicato: «essere sradicati significa non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri: essere superflui significa non appartenere al mondo»43. K. sembra letteralmente poggiarsi su nulla, perché ha perso una spazio stabile di riferimento, un’identità; egli non possiede una prospettiva riconosciuta per guardare il mondo, vive dunque una condizione di sradicato. Se da un lato l’immagine di K. richiama fortemente la condizione dell’ebreo, cioè di colui che è storicamente sempre in viaggio, e insieme perennemente alla ricerca di un nomos, di un punto di riferimento stabile per questo incessante peregrinare44, si capisce, dall’altro lato, per quale motivo K. sia anche, al tempo stesso, costantemente proteso al raggiungimento di quel Castello, che viene perciò visto come unica meta nella quale potersi fermare e poter essere accolto, più ancora che

41 Cfr. M. Cacciari, Castelli, in Id., Hamletica, cit., p. 55. 42 Cfr. ivi, p. 58. 43 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 651. 44 Come osserva M. Cacciari, «la portata della Entortung, dello scioglimento da ogni radice terranea che caratterizza il Dasein ebraico non può essere appieno valutata […] se non in rapporto con l’idea del Nomos incardinante il Logos dell’Occidente. […] Nulla è meno traducibile in Nomos, della Legge che ordina l’esodo di questo popolo […]; il Nomos è originariamente e indistricabilmente connesso alla terra, esso governa giudica media distribuisce e partisce in quanto ancorato a una terra e assegnato a un confine» (Icone della legge, Adelphi, Milano 1984, p. 47).

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come agrimensore, come membro di un comunità45. Ma il cammino di avvicinamento al Castello è un cammino di delusione e di solitudine46. In realtà, il Castello, «non piace a nessun forestiero»47, e K. è appunto, come tutti gli abitanti ribadiscono, uno straniero. Il viaggio verso la meta è un percorso di angoscia e isolamento, è un cammino fatto di curve infinite, quasi si trattasse di una spirale presa dall’interno verso all’esterno, che tende ad aprirsi verso l’infinito48. Non c’è alcuna presenza umana cui 45 La mattina seguente al suo arrivo, K. decide infatti, resoluto, di incamminarsi verso il Castello, che guarda, con occhi fissi, per la prima volta stagliarsi in alto, in tutta la sua imponenza. K. ritiene che soltanto accedendo al Castello il suo lavoro potrà essere ufficializzato. S. Quinzio, in Introduzione a F. Kafka, Il Castello, cit., p. 14, sostiene che nell’avvicinarsi al Castello K. prova sempre più un sentimento di delusione: il Castello e il ghetto praghese sembrano sovrapporsi in un’unica realtà, un luogo del desiderio, di memoria e rimpianto, una meta sognata a conclusione di un lungo e faticoso cammino. 46 Visto da vicino, infatti, il Castello appare come un ammasso di casupole fatiscenti che conferiscono forma ad una misera cittadina consumata e in disfacimento (cfr. F. Kafka, Il Castello, cit., p. 9). 47 Sono le parole del maestro, che K. incontra mentre questi esce dalla scuola (cfr. ivi, p. 11). 48 In K. sopraggiunge inoltre una sopraggiunta stanchezza, una spossatezza incontenibile, generata non tanto dal lungo cammino, quanto dalla necessità di fare nuove conoscenze che lo possano aiutare. È la conoscenza che genera stanchezza. Ma oltre alla stanchezza sorge anche la sensazione, per K., di avere davanti un cammino che tende ad aprirsi verso l’infinito, in una sosta di prospettiva falsata: «la strada infatti, cioè la strada principale del paese, non conduceva alla collina del Castello, ma soltanto nelle vicinanze; poi, come deliberatamente, descriveva una curva, e sebbene non si allontanasse dal Castello non si avvicinava neppure. K. si aspetta sempre di vederla finalmente piegare verso il Castello, e solo questa speranza lo induceva a perseverare» (ivi, pp. 11-12). Secondo Quinzio, il «raggiungimento del Castello non può essere che oggetto di speranza, e solo questa speranza lo induceva a perseverare. È la speranza – una speranza assurda, contraddetta dall’esperienza, come quella ebraica della venuta del Messia – che alimenta la perse-

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chiedere aiuto in quella strada deserta che conduce al Castello, e dove K. sembra essersi perduto; dove, abbandonato a se stesso, è come se fosse caduto prigioniero49. Sulla via che porta al Castello non «passano slitte […], non c’è traffico», di fronte ad essa si è soli: è una strada desolata, che si può percorrere solo in solitudine. Si ripropone dunque con forza la metafora del deserto, un territorio senza strade, talmente vasto da non aver fine, la cui traversata figura nella tradizione come componente decisiva per ogni ebreo. Da questo punto di vista, si può affermare che il deserto costituisce l’immagine principale dell’identità ebraica50, non tanto e non solo perché nel deserto si collocano alcuni fra gli avvenimenti più significativi della storia, antica e recente, del popolo ebraico, quanto perché esso è la metafora di una condizione più generale: luogo che non è un luogo, che è possibile attraversare, ma in cui non è possibile stare, dove

veranza, che spinge a non abbandonare la strada nonostante la stanchezza e la delusione» (S. Quinzio, in Introduzione a F. Kafka, Il Castello, cit., p. 16). 49 Cfr. S. Quinzio, in Introduzione a F. Kafka, Il Castello, cit., p. 16. 50 Si vedano i testi del grande poeta egiziano-ebreo francofono, Edmond Jabès, Il libro delle interrogazioni, tr. it. di C. Rebellato, Marietti, Genova 1985-1988 (ripubblicato nel 1995): Libro I , 1985; Libro II e III, 1988; Id., Il libro dell’ospitalità, tr. it. di A. Prete, Cortina, Milano 1991; Id., Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, a cura di A. Folin, con uno scritto di P. A. Rovatti, SE, Milano 1991; Id., Du désert au livre. Entretiens avec Marcel Cohen, Opales, Montplellier 2001. Sulla figura e l’opera di Jabès, cfr. A. Folin (a cura di), Hospes. Il volto dello straniero da Leopardi a Jabès; A. Prete, Del confine e delle sue trasparenze. Margini per Blanchot, Jabès e Char, “Aut Aut”, 211-212 (1986) Gennaio-Aprile, pp. 13-27. Una bibliografia completa degli scritti di e su Jabès è offerta da T. Carlino, Bibliografia di Edmond Jabès, “Dialegesthai”, Rivista telematica di filosofia, 7, 2005, disponibile su internet all’indirizzo: http://mondodomani. org/dialegesthai/.

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nessuna dimora stabile è possibile, dove domina il movimento in quanto tale, l’erranza radicale51. Nel villaggio, K. può dunque solo transitare, può ‘girare’ attorno alla meta fino a perdere le forze, ma non potrà mai trasformare quel deserto in una casa. Tutti gli abitanti del paese, in realtà già conoscono K., sanno chi è, ma non lo possono accogliere, perché l’ospitalità non è usanza del villaggio. Essi non hanno bisogno di ospiti, e lui è un ospite non gradito52. K. è considerato come lo straniero, e per questo spaventa, anche se al tempo stesso attrae. K. è il diverso, è l’altro rispetto agli abitanti del villaggio, e proprio per questo è considerato prima di tutto come una “minaccia” al sistema. Grazie a K. però, grazie al raffronto con il diverso, gli autoctoni rafforzano ulteriormente la propria identità, la propria differenza. Si comprende che essi hanno bisogno di K., dell’altro, per “definire” meglio loro stessi, la propria “identità sociale”, il proprio “confine”, la propria specificità. K. è considerato una sorta di nemico, capace di mettere in pericolo l’ordine precostituito di regole, ma già fin dalle primissime scene del romanzo gli abitanti

51 Cfr. S. Levi Della Torre, Essere fuori luogo. Il dilemma ebraico tra diaspora e ritorno, Donzelli, Roma 1995. «C’è un famoso racconto ebraico che ho raccontato mille volte: due ebrei si incontrano e uno chiede all’altro: “Dove vai?”. L’altro risponde: “Eh! vado lontano... lontano”. E l’altro: “Ma lontano da dove?”. Il problema è questo: non c’è un dove. In questo senso Abramo va, ma non ha nessuna garanzia del senso della direzione e del dove dovrà giungere » (S. Quinzio, Intervista “La sconfitta di Dio”, Roma, Museo delle Tradizioni Popolari, venerdì 28 giugno 1996, “Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche”. Di Sergio Quinzio, si veda anche Radici ebraiche del moderno, Adelphi, Milano 1990). 52 Cfr. F. Kafka, Il Castello, cit., p. 14: «forse vi meravigliate di trovarci così poco ospitali», disse l’uomo della capanna, «ma l’ospitalità non è usanza da noi, di ospiti non abbiamo bisogno».

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sembrano incapaci di accoglierlo, non più di quanto sembrino anche incapaci di respingerlo veramente53. Straniero è in realtà la sola caratteristica che caratterizza la figura di K. Lui non è nient’altro se non questo - straniero agli altri come a se stesso. Non che gli abitanti del villaggio siano molto di più sul piano della qualifica sociale, ma essi possono avvalersi di una comprensione profonda del senso e della gestione della vita del villaggio, che uno straniero non può comprendere, né tanto meno assimilare. Ciò che dunque, in più modi, tutti gli abitanti rinfacciano continuamente a K. è quello di essere nulla, proprio in quanto straniero: «Lei», signor K., «non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla. Eppure lei è qualcosa, sventuratamente, è un forestiero»54. Da questa inacessibilità nel Castello scaturisce un senso profondo di solitudine e di smarrimento, di impossibilità di stabilire quel rapporto di adesione con il mondo circostante che consenta di trovare un senso plausibile agli eventi. Di qui la sensazione di essere esclusi, diversi, alienati, osserva Camus commentando Kafka55. È il divieto di poter stabilire legami e relazioni, l’inattuabilità dell’essere autentico, che determina dunque la condizione di ‘allontanato’, di ‘straniero in terra straniera’.

53 Per un approfondimento della tematica dello straniero cfr. U. Curi, Straniero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010. 54 F. Kafka, Il Castello, cit., p. 48. 55 Cfr. A. Camus:“La speranza e l’assurdo nell’opera di Franz Kafka”, in appendice a Id., Il mito di Sisifo, tr. it. di A. Borrelli, Bompiani, Milano 1947, pp. 125-137. Sul senso di solitudine, di smarrimento e di vuoto, riflette in chiave psicoanalitica anche Aldo Carotenuto in La chiamata del daimon. Gli orizzonti della verità e dell’amore in Kafka, cit., pp. 169 ss .

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1.3 Colpa e innocenza A K. non verrà mai offerta la chiave di accesso allo Schloss, così come mai gli sarà concesso di parlare a Klamm, l’amministratore capo dei funzionari del Castello. A rammentarglielo sarà l’ostessa della locanda del Ponte, dove K. alloggiava già dalla prima notte, che in modo ostile ed esplicito gli spiega che è la differenza di condizione sociale la causa dell’impossibilità di accogliere la richiesta56. Chi detiene il potere non si confronta direttamente con chi non lo detiene, non vi è relazione fra i due mondi, se non per mezzo di messaggeri che sottostanno ad altri messaggeri, che a loro volta non conferiscono direttamente con i funzionari, ma con i loro rappresentanti, creando dunque una catena di rimandi senza fine. Si crea così nel lettore un senso di vertigine, e la sensazione che tutto sia irreale. Irreale sembra essere la stessa figura di Klamm, che in ceco (klam) significa letteralmente illusione, inganno, falsità, apparenza. E in effetti un mistero circonda la sua figura, e la stessa immagine del potere da esso raffigurato. K. ha spiato Klamm, ma forse non lo ha visto veramente. Eppure lo ha intravisto attraverso il pertugio di una porta. Ma cosa ha visto dunque, o cosa non ha visto57? Klamm è una fi56 Cfr. F. Kafka, Il Castello, cit., pp. 48-49. 57 K., giunto all’“Albergo dei signori” del Castello, conosce una ragazza, di nome Frieda, che dice di essere l’amante di Klamm. Klamm alloggia spesso presso questo Albergo, e in quel momento si trova lì in una stanza. Sarà Frieda a mostrare Klamm attraverso un piccolo foro creato nella porta. Si tratta di un’occasione unica per K. di avvicinarsi a Klamm, di cui sia K. che il lettore non percepiscono la reale importanza: un’occasione che non si potrà mai più ripetere. (cfr. ivi, p. 36). A proposito di Klamm, Olga, la sorella di Barnabas, lo descrive così: «alcuni l’anno veduto, tutti han sentito parlare di lui, e dalle testimonianze, dalle dicerie, e anche da certe intenzioni falsificatrici è venuta formandosi un’immagine di Klamm che nell’insieme dev’essere esatta. Ma solo nell’insieme. Per il resto essa varia, ma forse non varia tanto quanto l’aspetto reale di Klamm» (cfr. ivi, pp. 169-171, 174).

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gura multiforme, nell’aspetto così come nei ruoli di potere di cui dovrebbe essere rappresentante. K. non può raggiungere la presenza di Klamm, non perché esso non esista, ma perché non c’è alcuna possibilità di conoscerlo realmente; è come una figura vuota che si può colmare di contenuti più diversi58. In esso, duplicità e sdoppiamento convivono come caratteristiche costitutive. L’elemento della duplicità, d’altronde, ricorre più volte e con insistenza all’interno del romanzo, quasi a rendere avvertito il lettore dell’orizzonte concettuale nel quale si colloca la narrazione. Tematica quindi del doppio, e della duplicità legata all’identità59. Due sono infatti gli aiutanti gemelli di K. che poi si identificheranno in un’unica persona60; duplice è la figura 58 Cfr. G. Baioni, Franz Kafka. Il Castello, in A.a, V.v, II romanzo tedesco del Novecento. Dai “Buddenbrook” alle nuove forme sperimentali, a cura di G. Baioni, G. Bevilacqua, C. Cases e C. Magris, Einaudi, Torino 1973: «Klamm è una figura vuota che ognuno può colmare dei contenuti più diversi, uno schema, una formula, un principio astratto irriducibile alla ragione del singolo» (pp. 157-58). 59 Félix Guattari individua tre forme ricorrenti nella scrittura di Kafka: lo sdoppiamento, la metamorfosi intersoggettiva (due soggetti che si trasformano l’uno nell’altro), e la metamorfosi per mescolanze di corpi (cfr. F. Guattari, Sessantacinque sogni di Kafka, a cura di C. C. Härle e A. Moscati, Cronopio, Napoli 2009, p. 24). Sul carattere doppio riferito ad ogni persona descritta nel romanzo cfr. M. Cacciari, Castelli, in Id., Hamletica, cit., p. 51. Sempre sul del tema del “doppio” e dei “triangoli” (familiari, burocratici, giudiziari) cfr. Deleuze Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit., pp. 147 ss. Cfr. anche N. Fusini, Due. La passione del legame in Kafka, Feltrinelli, Milano 1988. 60 Nell’osteria dove giunge la prima sera, K. viene accolto da due aiutanti, Artur e Jeremias, che sono stati nominati dal Conte per aiutarlo nel suo lavoro di agrimensura. Qui si apre una scena pienamente kafkiana che ci parla del tema del doppio. I due aiutanti sono due gemelli, ma che alla fine del romanzo si identificheranno in un’unica persona. K. sembra conoscere da tempo i suoi aiutanti, tuttavia non si capisce come sia possibile dal momento che questi sono abitanti del Castello. Ci immergiamo in un clima di ambi-

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di Klamm. Lo stesso Barnabas, il giovane messaggero dal volto pulito e onesto, è veramente un messaggero del Castello? Perché, come sottolinea la sorella Olga, non indossa la divisa, l’abito confacente al suo ruolo? Lo stesso K. è doppio, forse è lo stesso protagonista de Il processo. I mondi descritti nei due romanzi sono forse proprio «uno la prosecuzione dell’altro. Josef K. diventa K. In mezzo, una condanna e una esecuzione capitale. Ma la storia è la stessa – e continua. Ora non c’è qualcuno che viene a cercare Josef K., ma è K. a muoversi per cercare qualcosa»61. Nei sette giorni successivi al suo ingresso nel villaggio K. farà numerosi incontri, sempre vissuti nella speranza, o nel timore, che possano condurlo o meno al Castello, sede di un potere che sovrasta senza condizioni, e che regola le azioni e i pensieri di ogni singolo cittadino. Il potere insindacabile del Castello, infatti, controlla la condotta degli abitanti del villaggio in ogni aspetto, a tal punto da inibire completamente ogni iniziativa di carattere personale. K., per questa ragione, patisce un grande bisogno di libertà, ma si scontra contro un sistema di regole blindato. L’apparato organizzativo del Castello è amministrato in modo tale da essere letteralmente impenetrabile, dal momento che valenza, e di paradossalità. La scrittura di Kafka ci conduce poco a poco a perdere il senso delle cose, quasi ci si trovasse all’interno di un sogno senza un orientamento lucido degli eventi. La scrittura di Kafka è chiara, è chiaro l’ordine sintattico delle parole, ma tutto il resto è enigmatico, indecifrabile. «Tutta l’opera di Kafka sta nell’obbligare il lettore a rileggere» (A. Camus, La speranza e l’assurdo nell’opera di Franz Kafka, in appendice a Id., Il mito di Sisifo, tr. it. di A. Borrelli, Bompiani, Milano 1947, pp. 125-137). 61 Così sostiene Roberto Calasso, in K., cit., p. 21; e prosegue: «I termini si invertono, il clima cambia, ma rimane affine. […] Il processo e Il Castello avvengono all’interno di una stessa vita psichica. Dopo l’esecuzione della condanna, Josef K. riappare sotto il nome K. e si allontana dalla grande città» (ivi, pp. 21-22).

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il potere è gestito esclusivamente da funzionari invisibili, e da una burocrazia con la quale non è concesso comunicare62. Una burocrazia fantasma, ma al tempo stesso onnipotente e omnisciente, che controlla la vita pubblica e privata di ogni singolo cittadino, secondo una logica paradossale per la quale, ad esempio, il rifiuto nei confronti di K. viene fatto dipendere da un errore accidentale, vale a dire lo smarrimento di una lettera contenente la sua chiamata a servizio del Conte. Ma la scomparsa della lettera viene descritta come un passaggio amministrativo irrilevante, connesso al malfunzionamento della gestione burocratica dei documenti. Un meccanismo insensato che però insinua a lungo andare un paradossale senso di colpa in K., oggetto di violenza ed emarginazione, il quale si sente sempre più sradicato dalla sua stessa innocenza, e responsabile della sua cattiva sorte. Il problema del senso di colpa è un concetto chiave nell’opera di Kafka. I personaggi che compaiono nei suoi romanzi sono infatti spesso vittime di un senso di colpa paradossale che li 62 Sul rapporto potere-burocrazia in Kafka cfr. Cfr. W. Benjamin, W. Benjamin lettore di Kafka, cit., pp. 89 ss (questo saggio ripropone tutti gli interventi, nonché le più significative testimonianze epistolari e diaristiche, del confronto su Kafka intervenuto tra Benjamin e altri amici intellettuali, Scholem, Kraft). Il saggio si apre con il racconto della leggenda russa di Potenkin, tratta da Puskin, che, dice Benjamin, precorre di due secoli l’opera di Kafka. La burocrazia che domina nel mondo di Kafka viene descritta come decaduta e decadente. Malgrado la loro decadenza, questi potenti sanno tuttavia di avere il potere, e lo usano per raggirare gli sprovveduti e gli ingenui. Sulvalkin (il servitore di Potemkin che ebbe l’ardine di entrare nella stanza del cancelliere depresso, ottenendone la firma su tutte le pratiche, per poi però scoprire che Potemkin aveva firmato con il nome del servitore), esce sconfitto perché sottovaluta il potere, che si era mostrato solo in apparenza accessibile e vulnerabile. Non importa quanto decaduti o cadenti siano i rappresentanti del potere, essi sono comunque, anche nei loro rappresentanti più infimi e degradati, molto potenti al punto da essere irraggiungibili e indistruttibili.

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esclude da un’esistenza libera. Vengono colpiti dalla rivelazione di una colpa apparentemente sconosciuta, e per questo condannati dalla società. Alla fine, arriveranno a considerarsi essi stessi colpevoli, anche se non si piegheranno mai di fronte a questa sorta di anatema. È il caso del segreto di Amalia, il cui racconto è incastonato nel romanzo con una procedura di mise en abyme: una storia nella storia, una parabola di “miseria”, di incomprensione, scatenata da una colpa che genera alienazione e emarginazione63.

63 Olga e Amalia sono le sorelle di Barnabas, il messaggero di K. Questa famiglia è presentata senza ragioni, fin dall’inizio del romanzo, come discriminata e odiata da tutti fino a che, nel capitolo XV si racconta la loro vicenda. L’episodio, viene narrato da Olga a K. (cfr. F. Kafka, Il Castello, cit., pp. 179207). Tutto incomincia con una festa di paese, alla quale partecipa la giovane Amalia, elegante e bella come mai prima d’ora. Sortini, un funzionario del Castello, di grado elevato, rimane colpito dalla giovane ragazza, che è figlia di un suo minuscolo dipendente, e forse se ne invaghisce. Il giorno seguente alla festa, Sortini fa recapitare ad Amalia una lettera. Cosa ci sia scritto in quella breve missiva, che Amalia non può trattenersi dal lacerare in mille pezzi, non è dato sapere in dettaglio. Ma sappiamo che essa conteneva parole volgari e irriferibili, tali da corrompere per sempre l’onore di una donna. In questo delicato passaggio assistiamo a poco a poco alla formazione di una colpa, come conseguenza di un abuso di potere. Amalia non si è concessa al Signore del Castello e, per questo negarsi, ha peccato di disobbedienza. Per difendere la sua purezza, Amalia ha provocato un male ancora più grave e irrimediabile: da quel momento l’anatema, la maledizione di un disprezzo generale, si è scagliato contro la sua famiglia, costringendola ad un implacabile quanto inarrestabile declino economico e morale, e non c’è stato più perdono né per lei né per i suoi. La colpa è dunque di Amalia, e in questo gioco perverso si compie un rovesciamento di ogni riferimento etico. Amalia, rigettando la lettera che la oltraggia, diviene lei stessa responsabile di un peccato di superbia individuale, che scatena intorno a sé una maledizione implacabile. Rifiutare una simile offerta significa infatti opporre un affronto inconcepibile. Eppure, Amalia rifiuta e decide di non sottostare alle leggi imposte. Il suo rifiuto è visto come una sottrazione al suo stesso dovere, e un reato nei confronti delle regole. Mentre, il laido Sortini, non è colpevole, perché ha semplicemente voluto, magari con un eccesso di capriccio, col-

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È evidente che in questo intreccio perverso tra colpa e legge, esplode e si dissolve qualsiasi spiegazione di carattere etico64. Amalia è moralmente innocente, ma legalmente colpevole. La disgrazia della sua famiglia è un castigo, ma al tempo stesso è una condizione voluta. Amalia, l’Antigone kafkiana che sacrifica la sua stessa vita pur di difendere ciò che la sua coscienza le impone di fare, è esattamente il paradigma dell’anti-Eichmann, del criminale nazista alla cui figura Hannah Arendt dedicherà una delle sue opere più importanti65. Amalia manifesta un’alterità radicale mare il divario fra sé e quella poverella. Il signore del Castello ha agito nel giusto oltraggiando la ragazza; Amalia è incorsa in una colpa, pur difendendo il suo bene morale. Nel ripresentare questo racconto seguo gli spunti di riflessione contenuti nel bel capitolo di G. Magherini, Il tema della colpa nell’opera di Kafka, “Arte e Psicologia”, Firenze 2011, pp. 24-30. Per una disamina dei motivi teologici della colpa, cfr. il saggio di H. J. Schoeps, Motivi teologici nell’opera di Kafka, in Introduzione a Kafka. Antologia di saggi critici, a cura di E. Pocar, Il Saggiatore, Milano,1974, pp. 134-151. Per un’analisi del concetto di colpa in Kafka cfr. G. Baioni, “Il processo”. La colpa, in Id., Kafka. Romanzo e parabola, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 143-155. 64 Cfr. di G. Magherini, Il tema della colpa nell’opera di Kafka, cit., p. 28. Sul concetto di colpa in Kafka cfr. anche M. Freschi, Introduzione a Kafka, cit., pp. 70 ss. Di fatto il rifiuto di Amalia nei confronti di Sortini sarà la causa della disgrazia dell’intera famiglia di Barnabas. La popolazione del villaggio, infatti, attribuiva ai funzionari del Castello una sorta di Ius Primae Noctis nei confronti delle ragazze del villaggio. Questo gesto non solo era accettato, ma sembrava addirittura attribuire alla ragazza un onore e un privilegio oltre misura (come era successo a Frieda con Klamm, e alla stessa madre di Frieda). Rifiutare una tale offerta era considerato un gesto inconcepibile. La famiglia si aspetta da quel momento ritorsioni legali, che però non avvengono. Come si vedrà nelle pagine che seguono, il Castello non dispone di mezzi coercitivi per gestire la cosa pubblica, sarà dunque la popolazione stessa a discriminare la famiglia di Barbabas. 65 Sulla figura di Eichmann si tornerà più ampiamente nelle pagine che seguono, in riferimento a H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Ge-

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rispetto alle leggi, non importa quali esse siano. La legge non la vincola in alcun modo. Avrebbe potuto vivere una vita del tutto normale all’interno del villaggio, ma questo avrebbe soffocato per sempre la sua estraneità al comando delle leggi. Il rifiuto di Amalia vanifica il potere della legge, non in nome di un’altra legge, come accade appunto all’Antigone di cui tratta Sofocle, ma attraverso uno svuotamento radicale, dichiarandola un nulla in sé66. Se dunque, da un alto, l’osservare la legge, qualunque essa sia, salva sul piano sociale e politico, e il non riconoscimento di essa costituisce un reato, molto più complesso è, dall’altro alto, il rapporto colpa-innocenza sul piano della coscienza individuale, che riguarda in primis l’atteggiamento con cui il soggetto si pone, autonomamente, di fronte al nomos. Nessuna accusa è stata rivolta contro Amalia, nessun tribunale l’ha condannata. Non è stata chiamata a giudizio. Eppure è colpevole. Colpevole di aver “ecceduto” la legge non scritta dello Schloss, colpevole di aver difeso la sua estraneità. Allo stesso modo, con il progredire del tempo K. comincia a pensare che tutti i suoi insuccessi non dipendano dal mondo che lo circonda, fatto di errori occasionali, di messaggeri inaffidabili, di abitanti ostili e di funzionati evanescenti. L’idea di una propria responsabilità negli eventi che si sono verificati, e nelle specifiche modalità con le quali essi sono avvenuti, si insinua progressivamente in lui: «colpa come radicale mancanza e radicale responsabilità. Gli errori di K. sono il segno

rusalemme, cit. 66 Cfr. M. Cacciari, La parola che uccide, in Sofocle, Antigone, a cura di M. Cacciari, Einaudi, Torino 2007, pp. V-XIV, qui cfr. IX. Per un approfondimento si veda anche l’illuminate saggio di U. Curi, “Ex henos dyo”: la “parte” dei Labdacidi, in Id., Endiadi, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 13-19.

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della sua colpa»67. K. è soprattutto colpevole di pensare che la sua libertà possa essere riconosciuta all’interno di un sistema chiuso, refrattario, serrato. Il Castello, la fortezza da espugnare, in quanto ‘serratura chiusa’, non può per l’appunto essere aperta. La colpa è quindi quella di pensare di ingaggiare una lotta per riconoscere la propria libertà, per essere libero; ma nell’indifferenza K. si smarrisce, si annienta68. K. vuole essere chiamato, ma non c’è bisogno di lui, è inessenziale al sistema. Ancora una volta, sottolinea Arendt, egli si rivela per quello che è - superfluo.

1.4 La porta “aperta” Nel romanzo si assiste alla distinzione fra due mondi fra i quali nessuna comunicazione è possibile. Da un lato, il potere, gestito esclusivamente da funzionari invisibili, e da una burocrazia con la quale non è concesso interagire. Dall’altro, il mondo costituito dagli abitanti del villaggio, che vive nell’osservanza cieca alla volontà del Castello. Sotto questo punto di vista, il Castello sembra alludere – non importa quanto intenzionalmente – alle caratteristiche del sistema totalitario (che sarà al centro dell’analisi di Arendt), caratterizzato dall’obbedienza di una massa ignorante e inetta, incapace di esprimere una propria autonoma idea. La burocrazia consiste, infatti, in un governo di tecnici, una sorta di «minoranza di esperti», con il compito di “amministrare” la cosiddetta «minoranza inesperta», rappresentata dal popolo

67 M. Cacciari, Castelli, in Id., Hamletica, cit., p. 61. 68 Cfr. ivi, pp. 61-71.

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inerte69. Riferendosi esplicitamente a Kafka, nella conferenza tenuta a Mount Holyoke, Arendt sostiene che con il suo racconto lo scrittore praghese è riuscito a mettere in scena, anticipandolo, il regime più terribile che la storia abbia mai prodotto: «il terrore di Kafka rappresenta in maniera adeguata la vera natura di quella cosa chiamata burocrazia: la sostituzione del governo con l’amministrazione e delle leggi con decreti arbitrari»70. Secondo Arendt, a Kafka non si deve attribuire qualità profetiche, ma si deve più semplicemente riconoscere che egli ha avuto la capacità di cogliere e interpretare la parabola decadente della vita sociale71. Alla base della «burocrazia come forma di governo, e della sua sostituzione del diritto con decreti provvisori e mutevoli», vi è, infatti, secondo la filosofa, «la superstiziosa credenza in una magica identificazione dell’uomo con le forze della natura»72. In questo modo i burocrati diventano «strumenti d’incomparabile valore» per la politica totalitaria73. La coscienza della burocrazia è caratterizzata dalla «convinzione di governare popoli inferiori»74, e poiché il governo dei burocrati ha dunque come fine il funzionamento delle leggi della storia o della natura, l’uomo diventa esecutore della legge naturale che, annientando, paradossalmente ha per scopo la sua stessa rovina75.

69 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 298. 70 H. Arendt, Ripensando a Franz Kafka. In occasione del ventesimo anniversario della morte, cit., p. 109. 71 Cfr. ibidem. 72 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 301. 73 Ivi, p. 300. 74 Ivi, p. 289. 75 Cfr. H. Arendt, Ripensando a Franz Kafka. In occasione del ventesimo anniversario della morte, cit., p. 109.

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Nel caso del protagonista del romanzo, K. rivendica il semplice rispetto dei diritti inalienabili dell’uomo, ma si scontra contro il potere del Castello, che pretende di stabilire, sulla base della propria potenza, leggi arbitrarie. Saranno i cittadini del villaggio - sottolinea ancora Arendt - a rammentargli che «l’intera vita dipende ed è dominata dalla benevolenza e dalla malevolenza, dalla grazia e dalla disgrazia, entrambe inesplicabili e casuali come la buona e la cattiva sorte. Le ragioni e i torti, gli spiegano, fanno parte di un “fato” che nessuno può cambiare, che si può solo adempiere»76. K. è «strano» non solo perché non appartiene né al villaggio e né al Castello, ma perché è il solo essere umano sano che si pone in conflitto contro un mondo apparentemente normale, dove tutto è orchestrato, diretto e elargito, dall’alto. Il desiderio di K., la sua aspirazione, risulta quindi eccezionale, offensiva, scandalosa. Egli intraprende una lotta per l’essenziale, e paradossalmente appare strano non perché venga privato di tutti gli aspetti essenziali della sua esistenza, ma solamente per il fatto stesso di rivendicarli77. Tuttavia, nell’ambito del romanzo kafkiano sorge una domanda: se il potere tiene le distanze dalla vita pubblica degli abitanti, se i rapporti fra quest’ultima e il villaggio sono intermediati da una serie infinita di messi che via via divengono i rappresentanti di una burocrazia invisibile, e se tale apparato burocratico è talmente ineccepibile da non doversi avvalere

76 Ivi, p. 108. 77 Cfr. ivi, pp. 108-109. Nel contesto del romanzo, aggiunge Arendt, tutti gli abitanti si identificano nel ruolo della propria professione, e agiscono solamente in base alla propria competenza professionale. Hanno perduto la loro autonomia, sono stati privati della propria umanità, del proprio spazio privato. Questo perché tutto deve soggiacere al meccanismo del perfetto funzionamento del tutto, e la competenza del ruolo sociale è il motore di tale meccanismo estraniante.

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di mezzi palesemente violenti per imporsi (non si parla per esempio mai di polizia, o comunque di organi di potere atti a rimuovere le cause che possano ostacolare la tranquilla e disciplinata convivenza sociale), come riesce l’amministrazione a gestire ed imporre il potere dal punto di vista pratico? La risposta è contenuta nelle parole del maestro: «fra i contadini e il Castello non c’è differenza»78. La colpa di K. è quella di voler penetrare nell’impenetrabile, di voler ingaggiare una lotta, non solo per ‘sostare’, ma per dare un significato alla sua decisione, dimostrare che questa è frutto del suo essere libero, e che su questa libertà egli vuole poter ‘definire’ la sua dimora79. Ma ciò è «impossibile»80. Per comprendere in che cosa consista tale ‘impossibilità’, è dunque necessario affrontare da vicino la questione della legge, concetto fondamentale in tutta l’opera di Kafka, sul quale ritornerà spesso l’analisi arendtiana. In un breve racconto intitolato Sul problema delle leggi, risalente al 1920, Kafka analizza il problema della legge ignota, della legge «segreto di quel piccolo gruppo di nobili che ci domina» e della pena di «essere governati secondo leggi che non si conoscono». L’argomentazione affronta il concetto di un’apparente realtà della legge, e di una reale inesistenza della medesima: «può darsi che queste leggi che noi cerchiamo d’indovinare non esistano nemmeno»81. Le leggi sono molto antiche e sono oggetto di continue interpretazioni, ed è infine la loro stessa interpretazione ad essere diventata legge. L’interpretazione è un tentativo di indovinare la legge, la quale sembra dunque non

78 F. Kafka, Il Castello, cit., p. 11. 79 Cfr. M. Cacciari, Castelli, in Id., Hamletica, cit., p. 61. 80 Sono le parole dell’ostessa rivolte a K. (F. Kafka, Il Castello, cit., p. 50). 81 F. Kafka, Sul problema delle leggi, in Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi, cit., pp. 722-723.

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poggiare su un fondamento reale e certo attraverso cui poi legittimarsi. D’altra parte, il romanzo Il processo, come è noto, è tutto incentrato sul concetto di legge, in relazione a quello di colpa. Nessuno mai saprà spiegare a Josef K. di cosa egli sia considerato reo, ma nessuno cerca nemmeno di scagionarlo. E in realtà tutti lo considerano colpevole. Morirà giustiziato, senza aver mai potuto comprendere il motivo della sua colpa e della sua condanna82. In realtà, sostiene Arendt, «il sentimento di colpa che si impadronisce di K., […] trasforma e modella la sua vittima fino a renderla idonea al processo»83. Il sentimento di colpa diviene cioè talmente pervasivo da far sì che il soggetto colpito assuma a poco a poco un «ruolo conforme alle regole»84. Si tratta di una trasformazione voluta dal funzionamento della macchina burocratica, che fa sì che a poco a poco la condanna diventi ammissione di colpa. L’individuo, quando «finisce nelle maglie della macchina burocratica, è già condannato», e a quel punto risulta invano attendere «giustizia da procedure giudiziarie in cui l’interpretazione della legge si accoppia all’amministrazione dell’illegalità, e in cui l’inazione cronica degli interpreti è

82 La «giustizia arbitraria e umiliante, che Kafka ben conosceva, e che lo turbava profondamente, fu l’elemento ispiratore del romanzo. Una giustizia caotica e imprevedibile, che tanto assomigliava ai casi della vita»: è quanto affermano in proposito O. Longo – G. Tosi, Frank Kafka, «Der Prozess». Processo inquisitorio o metafora della vita? in Atti e Memorie dell’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere e Arti, vol. CXXX, La Garangola, Padova 2008, p. 208. 83 H. Arendt, Ripensando a Franz Kafka. In occasione del ventesimo anniversario della morte, cit., p. 106. 84 Ibidem.

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compensata dalla macchina burocratica il cui insensato automatismo ha sempre il privilegio dell’ultima parola»85. D’altra parte, all’interno del romanzo Il processo, vi è un breve racconto, intitolato Dinanzi alla legge86, ancora più decisivo per la comprensione dello statuto della legge. La parabola parla di una porta aperta, sorvegliata da un anonimo guardiano. Di là, si dice, si trova la Legge. Un uomo, venuto dalla campagna, chiede un giorno al guardiano di poter entrare, di poter avere accesso alla Legge. Ma il guardiano, dall’aspetto spaventoso, dice che per ora è impossibile – lo stesso ‘impossibile’ che è stato più volte ripetuto a K. Non c’è in realtà un divieto; spetta all’uomo decidere. Se vuole, egli può entrare, anche se il custode lo previene con un avvertimento: in tutti i saloni della legge ci sono guardiani ancora più potenti e mostruosi di lui, dei quali non è pensabile sostenere nemmeno la vista. Il campagnolo rimane interdetto, perché in cuor suo pensa che la legge dovrebbe essere accessibile a tutti e in qualsiasi momento, ma di fronte alla minaccia del guardiano preferisce aspettare finché non abbia ottenuto il permesso. Il custode gli offre dunque uno sgabello, e lo fa aspettare. Passano giorni, e poi mesi e poi anni nell’attesa infinita, e quando il campagnolo è ormai prossimo alla morte, dopo aver tentato in tutti i modi di convincere il guardiano a farlo entrare, proprio mentre si sente ormai venir meno, gli rivolge un’ultima e decisiva domanda, che mai prima aveva posto: «Tutti – egli dice - si 85 Ivi, p. 107. 86 Cfr. F. Kafka, Dinanzi alla legge in Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi, cit., pp. 575-576. Il celebre capitolo Il duomo ne Il processo (scritto nel 1914) contiene la prima versione di questo racconto o parabola. La parabola Dinnanzi alla legge è l’unico brano del romanzo autonomamente pubblicato già nel novembre del 1914 sulla rivista sionista “Die Selbstwehr”, H. Bilder, 1967, e poi verrà ripubblicato a parte nella raccolta del 1919, Il medico di campagna (ivi): cfr. Cfr. M. Freschi, Introduzione a Kafka, cit., p. 71.

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sentono portati verso la legge», ma come mai «in tutti questi anni nessuno all’infuori di me» è venuto qui con l’intento di «entrare»? Il guardiano, che si accorge che ormai l’uomo è giunto alla fine dei suoi giorni, così gli risponde: «Nessun altro poteva entrare da qui, questo ingresso era destinato soltanto a te. Adesso me ne vado e lo chiudo»87. Come è stato acutamente osservato, la porta è ‘aperta’, è sempre stata aperta88. Una porta chiusa rassicurerebbe di più, nella speranza che oltre la soglia ci possa essere una risposta. Il contadino non può dunque entrare, perché entrare nel ‘giàaperto’ è ontologicamente impossibile. È l’apertura della porta che paralizza, perché viene a mancare il confine tra domanda e risposta. Una porta chiusa invera la speranza di poterla aprire, ma come si può sperare di entrare nel già aperto? Nel già aperto non si entra, possiamo entrare solo lì dove possiamo aprire, perché il già-aperto immobilizza89. È la speranza a tenere aperta la porta. La porta si chiude soltanto quando l’uomo venuto dalla campagna si spegne, è alla fine. L’uomo quindi si consuma di fronte a ciò che è completamente dischiuso, perché oltre quella soglia non c’è possibilità di accesso. Allo stesso modo la Legge è un’apertura che non rimanda ad altro che a sé, al suo essere inaccessibile. Jacques Derrida ha spiegato che il divieto della Legge non è un obbligo, bensì una différence. L’uomo dispone della libertà di entrare dove desidera, ma non nella Legge. L’interdetto non è dunque tra il contadino e la Legge, ma la Legge stessa. E l’uomo fa bene a vietare il suo desiderio di accesso. È possi-

87 Ivi, p. 576. 88 Cfr. M. Cacciari, La parabola spezzata, in Kafka, “Humanitas”, cit., p. 346. Si veda anche La porta aperta, in Id., Icone della Legge, cit., pp. 58143. 89 Cfr. M. Cacciari, La porta aperta, in Id., Icone della Legge, cit., p. 72.

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bile solo entrare nella relazione con i rappresentanti e custodi della Legge, ma non è consentito sapere cosa essa è, dove e come si presenta90. L’uomo può dunque solo restare dinanzi alla Legge, perché non è nella Legge, ma sempre e comunque fuori di essa. La Legge non sarebbe più se stessa se l’uomo non le stesse davanti, ovvero se l’uomo, in quanto giudicato, divenisse invece giudice91. Allo stesso modo K. può solo sosta-

90 J. Derrida, Pre-giudicati, davanti alla legge, tr. it. a cura di F. G. Garritano, Abramo, Catanzaro 1996, pp. 86-87. Interessante la prospettiva di Deleuse Guattari, secondo cui «la trascendenza della legge, l’a priori della colpa sono temi correnti» nell’opera di Kafka. La legge è presentata come una pura forma vuota e senza contenuto, il cui oggetto resta inconoscibile. La legge può quindi essere enunziata «solo in una sentenza, e la sentenza può essere appresa solo in una pena. Nessuno conosce l’interno della legge» (Deleuze Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit., p. 77). Secondo Deleuse Guattari, Kafka ci vuole infatti far capire che, «se la legge resta inconoscibile, non è perché si sia ritirata nella sua stessa trascendenza, ma perché la legge è svuotata di ogni interiorità; è sempre nell’ufficio accanto, o dietro quella porta, all’infinito. […] Infine, non è la legge che si enuncia in virtù delle esigenze della sua finta trascendenza, è quasi l’opposto, è l’enunciato, è l’enunciazione a far legge, in nome di un potere immanente di colui che enuncia: la legge si confonde con ciò che dice il guardiano» (ivi, p. 80). Da qui si arriva a sostenere che «là dove si credeva che ci fosse legge, c’è invece desiderio. […] La giustizia è desiderio, non legge» (ivi, p. 87). La trascendenza della legge è una macchina astratta, dal momento che la legge esiste solo «nell’immanenza del concatenamento macchinistico della giustizia» (ivi, p. 90). Si assiste ad «un processo di frantumazione di ogni giustificazione trascendentale. […] La giustizia è soltanto il processo immanente del desiderio» (ivi, p. 90). Se la giustizia non si lascia rappresentare, ciò si deve al fatto che è desiderio. Sull’interpretazione della parabola kafkiana Dinnanzi alla legge (cit.) cfr. E. De Angelis, Arte e ideologia grande borghese. Mann Musil Kafka Brecht, Einaudi, Torino 1971, pp. 134-170. 91 Cfr. M. Cacciari, La parabola spezzata, in Kafka, “Humanitas”, cit., p. 347: «L’essenza della Legge consiste nel giudicare, ma giudicare è dividere, divisione originaria, ma appunto, tutto questo è assolutamente aperto, in questo aperto possiamo procedere, da sala a sala, da guardiano a guardiano, da villaggio a villaggio, come i messaggi imperiali. Se questo andare non

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re dinanzi ad una legge che mai potrà afferrare, perché egli è altro da essa. Il suo torto è quello di volere accedere all’‘altra riva’, percorrendo fino in fondo quel ponte, sulla cui ‘soglia’ avrebbe dovuto invece sussistere. La vita descritta da Kafka sembra dunque dominata da una legge che non è dato conoscere. Questa impossibilità genera una dimensione di angoscia, di cui alla fine si rimane vittima. Si tratta di una meccanismo paradossale, che costringe l’uomo a una lunghissima ed inutile serie di tentativi disperati per decifrare il codice della legge, per comprenderne il fondamento. Ma questo è ‘impossibile’. Nello Schloss questi tentativi risuonano ridicoli. Se la legge non consente l’accesso alla sua legittimazione, assolutamente legittima è d’altra parte la violenza descritta nel romanzo, intrinseca e necessaria al potere stesso, dalla quale non esiste possibilità di evasione. Una violenza muta, che non può essere decifrata, e proprio per questo nemmeno estirpata, perché si identifica con quella norma di comportamento che ogni abitante del villaggio ha interiorizzato. Osserva Arendt che l’uomo, in questo senso, non solo è oggetto di violenza, ma è anche mezzo92. Come già si è accennato, il romanzo è incompiuto. Kafka confesserà all’amico Brod di non riuscire più ad andare avanti nella scrittura. C’è un appunto riferito da Brod che indica quella fosse erranza - se questo errare potesse cogliere, alla fine, la Legge ‘alle spalle’, l’interrogare, l’errare diverrebbero fondamento della stessa Legge, e dunque non vi sarebbe più alcuna Legge. La Legge scomparirebbe allorché non le stessimo più dinanzi, allorché il giudicato ne diventasse il giudice. Impossibile henosis con la Legge, comprensione del suo fondamento, come impossibile identificare soggetto e oggetto, essere ad un tempo vedente e veduto». 92 H. Arendt, Ripensando a Franz Kafka. In occasione del ventesimo anniversario della morte, cit., pp. 107 ss.

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che Kafka avrebbe pensato quale possibile conclusione del romanzo93: Alla fine K. riuscirà ad essere accettato nel villaggio, e quindi dal Castello. Ma è troppo tardi, perché stanco, muore. K., dunque, lotta per tutta la vita per un riconoscimento che gli viene negato, se non, forse, in punto di morte, quasi a voler dire che il riconoscimento attesta la finitezza dell’uomo, o forse, più semplicemente, per significare che è solo la speranza a sostenere la vita94. K. è straniero, diverso, estraneo, colpevole di voler difendere la sua libertà in un sistema chiuso e refrattario. Egli pretenderebbe di capire, di entrare, di decifrare il nomos di quel luogo dove è giunto, dopo un lungo peregrinare. Non diversamente, il contadino sta davanti alla Legge perché si attende che un giorno possa essere riconosciuto idoneo a varcare quella soglia. È dunque il bisogno di riconoscimento che costringe alla lotta. Riferendosi alla filigrana concettuale soggiacente ai testi kafkiani, Hannah Arendt spiega che il vero impossibile è dunque il riconoscimento di un ‘io’ quando questi è privato di un ‘tu’, quando cioè venga a mancare l’apertura consapevole alla relazione, al dialogo, all’azione, al saper vivere nel mondo nel rispetto della vita che lo abita. La possibilità di un riconoscimento dell’altro deve dunque essere sostenuta da un io capace di riconoscere in primis se stesso, attraverso quel dialogo interiore che è, anzitutto, difesa della propria autocoscienza. Nel mondo descritto nel Castello non c’è lotta per il riconoscimento nei confronti di K., perché non ci sono autocoscienze 93 Cfr. W. Benjamin, W. Benjamin lettore di Kafka, cit., p. 15; P. Citati, Kafka, cit., p. 319; S. Quinzio, in Introduzione a F. Kafka, Il Castello, cit., p. 18; F. Masini, Franz Kafka. La metamorfosi del significato, cit., p. 98. 94 Riprendo qui il bel saggio di A. Bellan, Davanti alla legge. La conoscenza impossibile, “Prismi. Pensieri filosofici”, 2009: https://prismi.wordpress. com/2009/12/14/davanti-alla-legge-una-gnoseologia-del-dolore-1/.

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desiderose di riconoscersi, perché vi sono solo dei ‘tu’ parziali, manchevoli, ‘marionette con volti umani’95, incapaci di definire criticamente una propria identità, e perciò incapaci di includere l’altro. Uomini comuni, normali, che hanno l’unica funzione di assecondare una legge calata dall’alto, che diviene tutt’uno con loro stessi96. K. vuole smascherare le strutture nascoste di tale mondo chiuso, ma ciò è impossibile, perché è come pretendere di entrare nella Legge. In questo senso K. rappresenta, conclude Arendt, il tentativo di una presa di coscienza, e al tempo stesso il tentativo di una ribellione. Ciò che fa apparire Kafka così diverso rispetto ai suoi contemporanei, e insieme così attuale, è il suo «rifiuto di sottomettersi agli eventi […]. Egli voleva solo costruire un mondo in armonia con i bisogni e la dignità umani», un mondo in cui le azioni dell’uomo dipendessero solo da lui, e dove le leggi non venissero regolate da «forze misteriose», emanate «dall’alto o dal basso. Per di più il suo principale desiderio era di far parte di questo mondo»97. Per far questo egli ha cercato di creare una realtà immaginaria che smascherasse quella reale, sbarazzandosi di costruzioni fittizie. Ogni personaggio dei suoi racconti resta anonimo, ma proprio per questo conserva un fascino particolare, perché sembra dirti che quest’uomo «può essere chiunque e ognuno, forse persino me e te»98.

95 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 623. 96 Cfr. H. Arendt, Ripensando a Franz Kafka. In occasione del ventesimo anniversario della morte, cit., p. 112. 97 Ivi, p. 115. 98 Ivi, p. 116.

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1.5 Divenire “idistinguibile” Durante l’incontro svoltosi a Mount Holyoke nel 1944, attraverso l’analisi de Il Castello di Kafka, Arendt sviluppa alcune considerazioni a proposito del tema della violenza99 e della genesi dei regimi totalitari, soffermandosi in particolare sul processo di degenerazione del potere che conduce all’annichilimento del concetto stesso di libertà; termine, quest’ultimo, determinante, dal momento che, come sostiene in più luoghi la filosofa, «per combattere il totalitarismo è sufficiente comprendere una cosa sola: il totalitarismo rappresenta la negazione più radicale della libertà»100. Più e meglio di molti suoi contemporanei, Arendt comprende fino a che punto lo scenario inaugurato con la seconda guerra mondiale, non possa essere ricondotto alle categorie interpretative tradizionali, e spinga anzi alla necessità di individuare inedite chiavi di lettura. In questo senso la scrittura kafkiana, attraverso la scelta stilistica della parabola, funge come mediazione privilegiata per una comprensione più adeguata, seppur di tipo analogico, della realtà storico-politico e sociale. Attraverso la parabola, l’uomo infatti acquisisce quello stato di libertà di pensiero necessaria per ‘andare oltre’ il senso comune del reale condizionato dagli eventi. Questo ‘distacco’ dal mondo, una volta attuato, offre all’individuo la possibilità di un confronto più consapevole tra sé e il contesto esterno, grazie all’attivazione di nuovi tipi di connessioni che agiscono sul piano del pensiero e dell’azione, istituendo una sorta di interazione, o di ponte (metaxu), tra l’attività spirituale e

99 Questioni che poi verranno riprese in particolare nel testo H. Arendt, On Violence, Harcourt Brace and World, New York 1970; tr. it. di S. D’Amico, Sulla violenza, Guanda, Parma 1996. 100 H. Arendt, La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione, in Ead., Archivio Arendt. 1950-1954, cit., p. 99.

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quella materiale101. Situata per così dire all’intersezione fra il richiamo ad alcuni valori fondanti e l’attivazione di processi quali l’immaginazione e l’interpretazione, la parabola consente un’apertura alla comprensione di più punti di vista possibili intorno alla realtà, congiunta con una maggiore coscienza critica e prospettiva storica102. La poesia e la letteratura sono dunque considerate dalla Arendt indispensabili per la formulazione di un giudizio critico. La parabola di Kafka, è «esempio forse unico nella letteratura di autentiche parabolai, scagliate a sfiorare l’episodio e a penetrarlo, come raggi luminosi i quali però, anziché illumi101 Cfr. H. Arendt, La vita della mente, cit., pp. 188-189. 102 L’interesse per la parabola, la metafora, e per l’espressione poetica in generale, come testimonianza del movimento del pensiero nel processo di apertura al mondo, è testimoniato da numerosi saggi arendtiani che commentano opere di scrittori, letterati e poeti. È il caso dei testi dedicati a René Char, Bertold Brecht, Franz Kafka, Isaac Dinesen (Karen Blixen), Walter Benjamin, Heinrich Heine, Rainer Maria Rilke; cfr. H. Arendt, Heinrich Heine: Schlemilh e il principe del mondo del sogno (tr. it dal titolo ed. or. Heinrich Heine: Schlemilh and lord of Dreams, in Ead., The Jew as Pariah:a Hidden Tradition, “Jewish Social Studies”, VI, n. 2, 1944, pp. 99122); Ead., Franz Kafka: l’uomo di buona volontà (tr. it. dal titolo ed. or. The Man of Goodwill, in Ead., The Jew as Pariah:a Hidden Tradition, “Jewish Social Studies”, VI, n. 2, 1944); Ead., Franz Kafka: il costruttore di modelli (tr. it. dal titolo ed. or. Franz Kafka: a Revaluation, “Partisan Reviw” XI, n. 4, 1944); Ead., Walter Benjamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle (tr. it. dal titolo ed. or. Walter Benjamin, “Merkur”, XII, 1968); Ead., Bertolt Brecht: il poeta e il politico (tr. it. dal titolo ed. or. Der Dichter Bertolt Brecht, “Die Neue Rundschau”, LXI, 1950); Ead., Charlie Chaplin: il sospettato, (tr. it. dal titolo ed. or. Charlie Chaplin: The Suspect, in Ead., The Jew as Pariah:a Hidden Tradition, “Jewish Social Studies”, VI, n. 2, 1944): questi saggi sono stati pubblicati in Ead., Il futuro alle spalle, cit. Si vedano anche H. ArendtG. Stern, “Le Elegie duinesi” di Rilke (tr. it. dal titolo ed. or. Rilkes Duineser Elegien, a cura di S. Maletta, in “Neue Schweizer Rundschau”, XXIII, 1930); Ead., Isak Dinesen (1885-1962), “Aut Aut”, n. 240, dicembre 1990, pp. 161-173 (tr. it. dal titolo ed. or. in Ead., Isak Dinesen: 1885-1962, “The New Yorker”, 9 novembre 1968).

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nare l’aspetto esteriore, posseggano una capacità radiologica di rivelare la struttura interna del fatto stesso; ossia, nel nostro caso, il misterioso processo della mente»103. Il contenuto a cui rinvia l’interpretazione metaforica non è tanto l’“ineffabile”, quanto piuttosto l’elaborazione di un pensiero autonomo, mediante il quale l’uomo può inquadrare più correttamente se stesso nella relazione con il contesto storico-politico di cui è membro104. Secondo Arendt, durante l’epoca delle persecuzioni, scrittori come Kafka riescono a mantenere viva l’immaginazione, ovvero quella potenza fondamentale dell’essere umano, che è sorgente, ma al tempo stesso testimonianza, di istanze e problematiche con cui necessariamente bisogna fare i conti e che chiamano in causa processi di analisi necessari per il giudizio105. Per quanto riguarda la parabola kafkiana, come si diceva, l’interpretazione proposta da Arendt è di carattere eminentemente politico. Nello specifico, il messaggio dello scrittore praghese viene colto come un invito al dissenso nei confronti dei regimi totalitari, e come una denuncia versus una politica di annichilimento degli individui, che anticipa inevitabilmente il fenomeno della massificazione sociale. Un fenomeno che ha avuto inizio proprio dalla dissoluzione del soggetto e dalla

103 H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., p. 29. 104 Cfr. H. Arendt, La vita della mente, cit., pp. 188-197 ss. 105 Secondo George Lakoff e Mark Johnson, in accordo con Arendt, la parola metaforica non è solo una figura retorica, ma costituisce il meccanismo stesso della cognizione, e del pensare stesso. Per questo motivo è da ritenersi fondamentale per tutti i processi mentali umani legati alla comprensione e alla comunicazione: Cfr. G. Lakoff e M. Johnson, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2004. Su questo punto si vedano anche F. Despujo, La représentation, ed. Bréal, Paris 2001, p. 59; P. Fontaine, La représentation. Les figures de la réflexion, Ellipses, Paris 2001, pp. 83-89.

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radicalizzazione di una massa compatta di persone che, private di un pensiero critico, si sono uniformate ai dettami del regime totalitario. Analizzando il romando Il Castello, Arendt intravede la possibilità di un ragionamento decisivo per la trattazione della “questione identitaria”, nel momento in cui un essere umano venga inserito come persona, e come soggetto agente, all’interno di una scena politica. A questo scopo, nel saggio Franz Kafka: l’uomo di buona volontà106, in continuità con quanto enunciato nel discorso svolto a Mount Holyoke, la filosofa propone di sviluppare un’indagine volta a chiarire la differenza e la connessione tra alcuni concetti pregnanti come riconoscimento, disumanizzazione, emarginazione. Kafka assurge a paradigma di chi, in quanto ebreo, viva su di sé il combattimento interiore che nasce dalla scelta drammatica tra il restare un pariah, e quindi un escluso, un emarginato, seppur nella rivendicazione di una propria indipendenza, o divenire piuttosto un parvenu, accettando le conseguenze che un processo di integrazione sociale e di assimilazione, e quindi anche di sottomissione, può comportare a discapito dell’autonomia identitaria107. 106 H. Arendt, Franz Kafka: l’uomo di buona volontà, in Ead., Il futuro alle spalle, cit., pp. 11-22. 107 Cfr. quanto scrive H. Arendt in The Jew as Pariah. A Hidden Tradition, tr. it. a cura di F. Ferrari, L’ebreo come paria. Una tradizione nascosta, Giuntina, Firenze 2017, pp. 59-60: «Fino a quando gli ebrei dell’Europa occidentale erano paria soltanto in senso sociale, essi potevano salvarsi, in misura ampia, diventando dei parvenus. Per quanto insicura potesse essere la loro posizione, essi potevano nondimeno raggiungere un modus vivendi, combinando quello che Ahad Ha’am descriveva come una “schiavitù interiore” con una “libertà esteriore”. Quanti ritenevano il prezzo troppo alto, inoltre, potevano rimanere comunque semplici paria, godendo placidamente della libertà e dell’intoccabilità degli emarginati. Esclusi dal mondo delle realtà politiche, essi potevano ancora ritagliarsi un loro angolo tranquillo,

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La vicenda esistenziale del protagonista de Il Castello rappreservando l’illusione della libertà e di un’umanità non messa in discussione». In Le origini del totalitarismo, p. 92, Arendt sostiene che «nella problematica individuale degli ebrei ebbe tuttavia un peso determinante il dover a un certo momento decidere se rimanere un paria escluso dai contatti sociali o diventare un parvenu e ottenere l’accesso a una società, dove “si è tollerati soltanto alla condizione di tacere la propria origine ebraica o di tradire col segreto dell’origine anche il segreto della propria stirpe”». Secondo Arendt, la drammatica scelta tra il restare un pariah e un parvenu non porta ad alcuna soluzione concreta sul piano politico (cfr. H. Arendt, Noi profughi, in Ead., Ebraismo e modernità, a cura di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 2009, p. 48.). Come, infatti, ben sottolinea M. Tosches, (nella sua ottima dissertazione di laurea dal titolo Stop and think”. Risposta al male secondo Hannah Arendt, Tesi di laurea magistrale, Dipartimento Fisppa, Padova, a.a. 20152016, p. 25: a questo testo, qui citato una volta per tutte, mi sono spesso riferita nella stesura delle pagine che seguono) «entrambe le vie sono - alla fine - pericolose perché la propria impotenza politica non discende dall’iter che si sceglie di percorrere, bensì dal fatto di essere ebrei e per di più ebrei senza patria. Pertanto, sia che la decisione cada sulla condizione di paria, sia che cada su quella di parvenu, l’ebreo profugo non riesce ad entrare a far parte attivamente di un luogo aperto al dialogo e all’interazione reciproca, alla pluralità». Secondo Ilaria Possenti (in Ead., L’apolide e il paria. Lo straniero nella filosofia di Hannah Arendt, Carocci, Roma 2002, p. 19) «quando parla come profuga tra gli altri profughi, Arendt affronta chiaramente il problema dell’esclusione, fondata sulla discriminazione come “arma sociale con cui uccidere gli uomini senza spargere sangue”; quando si ritrae in una posizione critica, ad essere in questione è invece l’inclusione, intesa come soluzione che rischia continuamente di trasformarsi in pratica di assimilazione». Su questa questione, Laura Bazzicalupo (in Ead., Hannah Arendt. La storia per la politica, Edizioni Scientifiche italiane, Napoli 1995, pp. 48-49), osserva che «il parvenu, l’assimilato rifiuta il proprio essere ebreo per omologarsi nella società dei gentili, ma d’altra parte la conformistica società borghese non dimentica la sua diversità e solo in quanto diverso, strano, anomalo, lo accetta. Un destino dunque di angoscia e senso di colpa, di sradicamento e di impotenza. L’altra soluzione è la fedeltà al proprio destino storico reietto, di pariah, che assumendo su di sé la disperazione del ghetto, è privo di potere politico, è indifeso, ribelle, ma in balia delle violente passioni collettive». Sul problema dell’assimilazione cfr. in particolare H. Arendt La morale della storia, in Ead., Ebraismo e modernità, cit., pp. 117 ss. (il saggio è la tr. it. di

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presenta in modo emblematico questa tensione irriducibile. Ripercorrendo le immagini più significative del romanzo, Arendt ricostruisce i tratti di una parabola programmaticamente ispirata alla condizione dell’ebreo, anche se, sulle prime, le caratteristiche di K. non sembrano necessariamente richiamare tale figura, visto che K., «come tutti i personaggi di Kafka, non possiede nessuna particolarità o caratteristica

Ead., The Moral of History, “Priviliged Jews”, Jewish Social Studies, VIII, 1° gennaio 1946). Occorre ricordare che la stessa Arendt vivrà la condizione dell’apolide, situazione che inciderà profondamente sul suo pensiero. Significativa, in questo senso, è la ricostruzione arendtiana della biografia di Rahel Levin Varnhagen (cfr. H. Arendt, Rahel Varnhagen: the life of a Jewess, East and West Library, London 1958; tr. it. di L. Ritter Santini, Rahel Varnhagen. Storia di una donna ebrea, il Saggiatore, Milano 2004): come è stato rilevato, la narrazione della storia della giovane donna ebrea Rahel Varnhagen (che sceglie la via dell’assimilazionismo, decide cioè di indossare la veste del parvenu) sembra essere stata per Hannah Arendt l’occasione per intraprendere un cammino di chiarimento interiore nei confronti della propria identità ebraica (cfr. E. Parise, La politica dopo Auschwitz. Rileggendo Hannah Arendt, Liguori Editori, Napoli 2000, pp. 20-21). In una lettera a Jaspers del 7 settembre 1952 Hannah Arendt afferma di aver scritto la storia su Rahel Varnhagen «sotto lo stimolo della critica sionista contro la tendenza all’assimilazione» perché convinta «dell’opinione che gli ebrei, in condizioni di assimilazione sociale e di emancipazione statale, non potessero “vivere”» (H. Arendt, K. Jaspers, Carteggio. Filosofia e politica, tr. it. a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1989, p. 116; cfr. anche A. Prinz, Io, Hannah Arendt. Professione: filosofa, Donzelli Editore, Roma 2009, p. 49). Sul concetto di pariah e parvenu nel pensiero arendtiano si veda M. Salvati, Interpretazione storica e agire politico. Hannah Arendt in un recente libro di M. Cedronio, “Rivista di storia contemporanea”, n. 23-24, 1994-1995, n. 4°, pp. 508 ss.; P. Helzel, L’evento Auschwitz nella teoria politica di Hannah Arendt, Marco ed., Lungro di Cosenza 2001. Per un approfondimento cfr. anche E. Parise, La politica dopo Auschwitz. Rileggendo Hannah Arendt, cit., pp. 66 ss.; E. Traverso, Tempi bui, in O. Guaraldo (a cura di), Il Novecento di Hannah Arendt. Un lessico politico, Ombre Corte, Verona 2008, cit., pp. 103 ss.; I. Possenti, Paria, in O. Guaraldo (a cura di), Il Novecento di Hannah Arendt. Un lessico politico, cit., pp. 95 ss.

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speciale»108. Egli semplicemente non appartiene a nessun luogo determinato, e non possiede un vissuto che lo identifichi. Si occupa principalmente delle proprie riflessioni, e rispetto alla società si sente un emarginato. Il conflitto «tra la società e il “paria” non verte quindi semplicemente sul problema se la società si sia comportata in modo giusto o ingiusto nei suoi confronti, ma piuttosto se a chi ne è stato espulso o ad essa si oppone tocchi ancora un’esistenza “reale”. Il colpo più duro che la società ha inferto al “paria”, in essa rappresentato dall’ebreo, è infatti di averlo fatto dubitare e disperare della realtà della propria esistenza, di averlo ridotto a vedersi come quel “nessuno” che era agli occhi della buona società»109. Kafka è il primo ad essersi inserito in questo conflitto evidenziando come in realtà la società sia costituita «di tanti nessuno … in frack»110. In un certo senso Kafka ha avuto l’ardine di riconoscere che i frack servono a vestire altrettanti “nessuno”. Per sfuggire tuttavia alla minaccia di essere considerato un nessuno, ancora più insignificante dei reali nessuno travestiti elegantemente nella società di massa, e d’altra parte per non incorrere nel pericolo di arrivare a dubitare della propria stessa esistenza, l’ebreo dell’Ottocento aveva costruito due percorsi di sopravvivenza alternativi. La prima via aveva portato gli ebrei a costituirsi in una comunità separata, contribuendo in questo modo a generare una situazione di emarginazione sul piano politico e sociale. La seconda via d’uscita, imboccata da tanti ebrei in preda al senso di solitudine, è stata quella del ripiegamento nella contemplazione della natura e nell’arte, nella ricerca cioè della cultura e del gusto raffinato, median-

108 H. Arendt, Franz Kafka: l’uomo di buona volontà, in Ead., Il futuro alle spalle, cit., p. 11. 109 Ivi, pp. 11-12. 110 Ivi, p. 12.

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te i quali potersi estraniare dalla realtà. Separatezza sociale o isolamento intellettuale. Le sfere dell’arte rimasero, infatti, per molto tempo «protette dalle influenze della società e della politica»111, e in questi luoghi ‘eletti’ gli ebrei si rifugiarono perché considerati intoccabili, pur se accessibili a tutti. Entrambe queste vie d’uscita vengono criticate da Kafka, il quale contesta il carattere fittizio di questo mondo parallelo a quello vero. Un mondo che pretenderebbe di essere privilegiato, vissuto come un rifugio, ma che in realtà discrimina, separa. Secondo Arendt, ne Il Castello Kafka affronta esplicitamente questo problema. Il protagonista del romanzo è un forestiero che non appartiene né alla classe dominante, né tantomeno al popolo: «Lei non è del Castello» gli ripetono, «non è del paese, Lei non è niente»112. Gli viene continuamente rinfacciato di essere superfluo, d’intralcio, e come straniero dovrebbe invece comprendere che viene tollerato solo per un atto di grazia. Ben presto K. pensa che per lui sia determinante diventare il prima possibile indistinguibile, e si convince che dal non essere più considerato un diverso possa dipendere tutta la sua vita. Ma il Castello non può accettare nemmeno come ipotesi una sua completa assimilazione. È evidente che nel romanzo Kafka tenta in una certa misura un esperimento, abbozza almeno una sorta di ‘terza via’. Lo scrittore racconta infatti la sorte dell’ebreo di buona volontà che insegue il tentativo disperato dell’assimilazione, e descrive il ‘dramma reale’ di questa ricerca di riconoscimento. Viene dunque rappresentato l’ebreo «che vuole solo quello che gli spetta di diritto: una casa, un lavoro, una famiglia, il diritto di 111 Ibidem. 112 Citazione tratta da F. Kafka, Il Castello, cit., riferita da Arendt, ivi, pp. 13-14.

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cittadinanza. Viene presentato come se ci fosse solo lui al mondo in questa condizione, come se fosse l’unico ebreo: completamente e desolatamente solo»113. K. si comporta esattamente come tutto il mondo si aspettava dagli ebrei. Divenire indistinguibile comportava innanzitutto una scelta di isolamento e di estraneazione. Se davvero gli ebrei volevano essere assimilati, prima di tutto dovevano evitare di riunirsi in comunità separate, e quindi dovevano presentarsi come casi isolati. Kafka pone dunque «il suo eroe in queste ipotetiche condizioni ideali per mostrare come funzioni l’esperimento»114. Per rendere ancora più verosimile questa ipotesi, Kafka di fatto spoglia il suo personaggio di qualsiasi caratteristica che lo porti ad essere necessariamente identificato come ebreo, tant’è che egli può rappresentare chiunque, qualsiasi tipo d’uomo. I suoi comportamenti e le sue aspirazioni «andavano ben oltre l’orizzonte della semplice problematica ebrea. Infatti K., che vuole diventare indistinguibile, è interessato a raggiungere quello cui generalmente aspira qualsiasi uomo, e con la sua volontà insegue solo quello che spetta a tutti per diritto di natura. E se lo si volesse descrivere, si potrebbe dire solo che è un uomo di buona volontà: non chiede mai nulla più del giusto»115. Le sue ambizioni non sono altro che il riconoscimento dei diritti inalienabili di ogni uomo. K. dunque lotta affinché questi diritti essenziali gli vengano concessi non per «dono misericordioso del Castello», ma in quanto «suoi diritti». Ma più tempo K. trascorre con gli abitanti del villaggio, e più deve purtroppo rendersi conto che quella «normalità, quella umanità, quei diritti umani che lui ha sempre creduto

113 Ivi, pp. 14-15. 114 Ivi, p. 15. 115 Ibidem.

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naturali»116, in quel contesto, non hanno significato. La vita degli abitanti del villaggio viene scandita da una serie di storie mostruose i cui protagonisti dimostrano di aver perso ogni naturale segno di umanità. È il caso dell’ostessa che, schiava del ricordo di quando, da giovane, aveva potuto compiacere come amante il desiderio del funzionario capo Klamm, non dimostra alcuna umanità nei confronti del proprio marito. Ed è il caso, soprattutto, della vicenda di emarginazione legata alla figura di Amalia. Da questa storia si evince che il popolo del villaggio è asservito al volere del Castello, e che ogni azione umana viene fatta dipendere da un destino di cui non è dato sapere nulla e verso il quale non è ammessa alcuna forma di ribellione. Nell’episodio ‘inquietante e sinistro’ della sorella di Barnabas, «non è il mittente, ma il destinatario innocente di una lettera oscena ad essere macchiato dalla vergogna. Questo è quanto intendono gli abitanti del villaggio quando parlano del loro “destino”. Agli occhi di K., “ciò è ingiusto e mostruoso”»117, ma lui è il solo a pensarla in questo modo. Ed è proprio questo isolamento, che nasce da un giudizio critico, a far capire a K. che non sarà «l’essere “indistinguibile”, cioè l’assimilazione in un ambiente sociale, a permettergli di realizzare i suoi diritti umani, quali aver un lavoro, farsi una casa, essere utile agli altri, appartenere ad una comunità»118. Il concetto di “normalità”, che si basa sul riconoscimento dei diritti naturali dell’uomo, non può attuarsi nel contesto di un sistema chiuso, dove tutto avviene secondo un destino ineluttabile che si manifesta ora come grazia calata dall’alto, ora come privilegio, ora come maledizione. Finché il villaggio resta sottomesso al

116 Ibidem. 117 Ivi, p. 17. 118 Ibidem.

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dominio e all’ideologia imposta dal Castello, «al villaggio non possono che compiersi dei “destini”: non c’è posto per uomini di buona volontà»119 che vogliono decidere, con coscienza critica, della propria vita. Già il modo di proporsi di K., fatto di semplici domande e richieste, nel tentativo di comprendere cosa sia giusto o ingiusto, viene recepito come un pericolo. Rispetto alla legge del villaggio, che viene imposta come una «misteriosa oscurità»120 di cui non è dato sapere nulla, il proposito di K. di «veder riconosciute sul piano della giustizia le sue legittime aspirazioni ad una vita umana» appare un’«eccezione inaudita, uno scandalo»121. K. si trova dunque a combattere per la difesa di esigenze che dovrebbero essere naturali e che invece appaiono all’esterno come se «racchiudessero in sé il massimo irraggiungibile: […] gli abitanti del villaggio si allontanano così da lui presentendo nelle sue richieste una hybris che potrebbe compromettere tutta la loro vita. K è estraneo a loro non perché come straniero è privato dei suoi diritti umani, ma perché è venuto nel villaggio e li esige»122. K., tuttavia, non rinuncia a lottare. Questo non vuol dire che persegua «l’idea rivoluzionaria di un nuovo ordine mondiale. […] K. sembra pensare che sarebbe già tanto se anche un solo individuo riuscisse a vivere come un normale essere umano»123. Perciò resta nel villaggio, e malgrado gli ostacoli e i rifiuti cerca di adattarsi a quanto gli viene imposto. Cerca

119 Ibidem. 120 H. Arendt, Franz Kafka: il costruttore di modelli, in Ead., Il futuro alle spalle, cit., p. 29. 121 Ivi, pp. 29-30. 122 Ivi, p. 30. 123 H. Arendt, Franz Kafka: l’uomo di buona volontà, in Ead., Il futuro alle spalle, cit., p. 18.

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innanzitutto di sacrificare il suo bisogno ‘disperato’ di libertà, sottoponendosi alla tirannia degli abitanti, accettando lo squallore di un lavoro di ripiego, affrontando senza esitazioni la miseria cui viene obbligato. In questo modo, egli diventa vulnerabile. Dopo aver capito che a nulla aveva portato il tentativo di diventare indistinguibile, K. tenta l’integrazione imponendo a se stesso la condizione della vulnerabilità, anche se, in cuor suo, non può fare a meno di continuare a «chiamare con il loro nome la giustizia e l’ingiustizia»124. Per questo motivo non riesce ad essere mai veramente coinvolto dai racconti inquietanti degli abitanti del villaggio, e non riuscendo a condividere la loro paura non può neppure pretendere di essere completamente assimilato a loro. E in fondo è proprio per questo, per il fatto di non sentirsi assimilato, che riesce a vivere una vita autentica, malgrado tutto. Chi invece sceglie di vivere in uno stato di annichilimento rispetto a ideologie imposte, anche se costretto perché «vittima di una persecuzione, non può vivere una vita veramente umana»125. 124 Ibidem. 125 Ivi, p. 19; inoltre, secondo Arendt, «il vero, la vera umanità non può mai stare nell’eccezione, neppure in quella del perseguitato, ma solo in quella che è o dovrebbe essere la regola. Da questa constatazione ha avuto origine la tendenza di Kafka al sionismo. Ha aderito al movimento che rifiutava la condizione di anormalità e emarginazione del popolo ebraico per farne “un popolo come tutti gli altri”. Kafka, forse l’ultimo di grandi scrittori europei, non poteva davvero desiderare di diventare un nazionalista. E proprio l’aspirazione ad essere un uomo come tutti gli altri, un semplice e normale membro della società umana, rappresentava la sua genialità e il carattere tipico della sua modernità. Non era colpa sua se la società non era più umana e se l’uomo di buona volontà perduto nelle sue regole doveva apparire come un’eccezione, un santo o addirittura un pazzo. Se nell’800 gli ebrei dell’Europa Orientale avessero preso sul serio l’esigenza dell’assimilazione e realmente tentato di abolire l’anomalia del popolo ebraico e il problema del singolo ebreo “diventando inestinguibili” e proponendosi come fine ultimo

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L’errore degli ebrei, per Arendt, è stato quello di voler essere assimilati pur essendo dei paria, di voler essere riconosciuti pur rifugiandosi «nella schiavitù interiore in uno stato di apparente libertà»126 creata come realtà parallela rispetto al mondo reale. Essi pensarono di poter vivere più o meno indisturbati nella libertà e nella invulnerabilità di un’esistenza deliberatamente marginale. È stata proprio quella pretesa di estraneità a tagliarli fuori dalla reale vita politica, anche se, fino ad un certo momento, aveva permesso loro di «tener viva la coscienza di un’esistenza libera ed umana. Da questo punto di vista, la vita del “paria”, malgrado la sua inconsistenza politica, non è stata priva di senso»127. Tutto è cambiato quando, a partire dal XX secolo, con l’ingresso dei nuovi sistemi politici, gli ebrei dell’Europa cominciarono ad essere considerati dei fuorilegge. È stato allora che il concetto fittizio di libertà è crollato all’improvviso, e insieme ad esso la presunzione di poter creare un mondo parallelo, “invulnerabile”. Nel mondo del XX sec. «non ci si può più isolare dalla società», non ci sono più «scappatoie individuali» dove costruirsi una libertà illusoria. Non c’è più spazio né per chi crede di poter vivere indisturbato come un indistinguibile, né per chi, scegliendo una «soluzione individualistica», pensa di poter fare a meno delle relazioni esterne. La via indicata invece da Kafka non è utopica: è la via di chi cerca di «realizzare con la mas-

l’eguaglianza con tutti gli altri popoli, non solo si sarebbero trovati di fronte ineguaglianza della società, ma anche alla sua progressiva frantumazione di un disumano sistema i rapporti: in breve avrebbero trovato l’orrore che, nella finzione de Das Schloss, l’agrimensore venuto da fuori scopre nella vita del villaggio» (ivi, pp. 19-20) 126 Ivi, p. 20. 127 Ibidem.

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sima modestia le proprie piccole aspirazioni rinunciando alla libertà e all’invulnerabilità»128. Secondo Arendt, Kafka è interessato a mettere in crisi l’idea di un mondo privo di spontaneità e libertà129. Egli vorrebbe credere che le azioni umane possano essere decise in modo autonomo dall’uomo stesso, e non subordinate al volere di leggi cadute dall’alto e impenetrabili. La società dei romanzi kafkiani è criticata proprio per la pretesa di imporsi come «vicaria di Dio in terra», dove le leggi sembrano «comandamenti divini, immutabili di fronte alla volontà umana»130. Il mondo di Kafka «è senza dubbio un mondo terribile. Ed oggi sappiamo meglio di vent’anni fa che esso non è solo un incubo, ma che riflette in maniera molto precisa la struttura della realtà in cui siamo costretti a vivere»131. Attraverso i suoi romanzi, Kafka ha iniziato la distruzione di questo mondo, facendo sorgere dalle sue rovine l’immagine di un individuo che, con la sua buona volontà, può tentare di «spostare montagne, costruire nuovi mondi e pure passare

128 Ivi, p. 21. 129 Cfr. H. Arendt, Franz Kafka: il costruttore di modelli, in Ead., Il futuro alle spalle, cit., p. 40. 130 Ivi, p. 27. A p. 31 si legge: «la folle idea, tanto diffusa ai tempi di Kafka come ancora ai giorni nostri, che il compito dell’uomo sia quello di sottomettersi ad un processo predeterminato da forze qualsiasi, non può che accelerare il declino naturale perché nella follia della sua libera scelta l’uomo non fa altro che venire in aiuto alla Natura e alla tendenza verso il declino». 131 Così prosegue: «La grandezza della sua arte è che ancora oggi riesce a dare le stesse sconvolgenti pressioni di allora, e che l’orrore della Strafkolonie non ha perso nulla della sua immediatezza malgrado la realtà delle camere a gas» (ivi, pp. 30-31).

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indenne attraverso la distruzione e le macerie di tutte le precedenti costruzioni»132. Il tema principale dei racconti kafkiani è proprio il conflitto tra un ‘mondo terribile’ che «funziona senza nessun intoppo, ed un eroe che cerca di distruggerlo […], la cui unica caratteristica è quella di concentrarsi fermamente su quanto vi è di più naturale ed umano»133. Non c’è nulla di rivoluzionario in questo atteggiamento di ribellione, ma semplicemente l’esigenza di mettere «a nudo le strutture segrete di questo mondo»134. In questo senso, l’arte narrativa di Kafka è quella di «costruire modelli», per comprendere i quali è richiesto all’uomo uno sforzo «di reale immaginazione»135, se, come si è visto, solo grazie a quest’ultima è possibile cogliere la ‘parabola del mondo vero e di quello possibile’136. Resta da domandarsi per quali motivi quello che era stato esplicitamente presentato come un “esperimento” – descritto ne Il Castello - sia fallito. La risposta non cancella la problematicità della domanda. Si potrebbe individuare la ragione 132 Ivi, p. 40. A riguardo Arendt scrive: Kafka «mira a distruggere questo mondo ricalcolandone l’orribile struttura con dei tratti oltremodo chiari e contrapponendo così ai diritti umani la realtà» (ivi, p. 27). 133 Ivi, p. 34. 134 Ivi, p. 35. 135 Ivi, pp. 35-40. 136 Arendt sostiene che «solo quel lettore che per una ragione o un’incertezza qualsiasi vada alla ricerca della verità potrà capire qualcosa di Kafka e dei suoi modelli, e gli sarà grato quando, ogni tanto, riuscirà improvvisamente a intravvedere la vera struttura di fenomeni estremamente banali leggendo una pagina, o una semplice frase, dei suoi racconti» (ivi, p. 36). Interessante è anche quanto Arendt afferma sempre a proposito della facoltà di immaginare: «Il riso di Kafka è un’espressione diretta di quella spensierata libertà umana per cui l’uomo vale ben più del suo fallimento già per il fatto che egli può immaginare una confusione maggiore di ogni confusione reale» (ivi, p. 38).

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dell’insuccesso nel fatto che il tentativo di diventare indistinguibili, quando la società che ci circonda chiede conto di ogni nostra azione, non può che risultare insufficiente. Impraticabile è la strada della vulnerabilità, quando per prima la coscienza, se adeguatamente ascoltata, impone un atteggiamento di refrattarietà nei confronti delle storture morali. Inutile, infine, è la battaglia, se condotta in solitudine. Essa può forse «bastare a realizzare una carriera, ma non a soddisfare il bisogno elementare di vivere un’esistenza umana»137. Come Kafka stesso dimostra nel suo racconto, la via al cambiamento non può essere percorsa da un singolo individuo. Realizzare e difendere i diritti umani, proprio per la loro ‘essenzialità’, è «il progetto più grande e difficile cui un uomo possa aspirare», e di certo le forze di un solo individuo non possono essere sufficienti. Ma quel romanzo è bastato per farci riflettere. K. è la voce della coscienza. K. è lo sguardo responsabile di chiunque vorrà leggere il romanzo. Lo sforzo di K. sarebbe stato riconosciuto veramente se avesse potuto interagire con gli altri, in uno spazio politico comune. Il cambiamento può avvenire infatti, secondo la Arendt, soltanto all’interno di un’esperienza collettiva, conditio sine qua non per un agire di tipo libero. Liberi in latino sono i figli, ma veramente liberi sono coloro che si riconoscono come liberi/figli appartenenti ad un’unica grande famiglia, legati da un vincolo di solidarietà l’uno verso l’altro. La libertà non può essere un requisito o un possesso di tipo personale, bensì nasce dall’aprirsi al riconoscimento dell’altro. Solo così può essere essa stessa riconosciuta. Se la libertà si chiude in sé, rischia di permanere in sé, nell’interminabile pretesa di far valere la propria autonomia, o di disporre dell’altro come di

137 H. Arendt, Franz Kafka: l’uomo di buona volontà, in Ead., Il futuro alle spalle, cit., p. 21.

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un mezzo, oppure di escluderlo come un emarginato138. L’idea di una libertà associata ad un singolo si rovescia nel paradosso dell’indifferenza e dell’individualismo, dove ognuno persegue i propri interessi. Libertà è invece riconoscersi in un progetto comune. Questo perché, secondo Arendt, «solo nell’ambito di un popolo l’individuo può vivere come un uomo fra gli uomini. […] E solo un popolo in comunità con altri può contribuire a costruire sulla terra un mondo umano creato e gestito dalla collaborazione fra tutti gli uomini»139.

1.6 Nunc stans. Arendt “sulla linea” di Kafka «Quello che io propongo, perciò, è molto semplice: niente di più che pensare a ciò che facciamo», scrive l’autrice introducendo Vita Activa, dove i due elementi – pensiero e azione – suggellano un percorso di ricerca che l’ha vista coinvolta nell’intero arco della sua vita140.

138 Cfr. quanto scrive a tal proposito M. Cacciari, Castelli, in Id., Hamletica, cit., p. 64. 139 H. Arendt, Franz Kafka: l’uomo di buona volontà, in Ead., Il futuro alle spalle, cit., p. 21. 140 La questione affrontata dalla Arendt relativa al concetto di “azione” viene sviluppata in particolare nel suo testo intitolato The Human Condition, University of Chicago Press, Chicago 1958; tr. it. di S. Finzi, Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2014, qui p. 5. Per uno studio dettagliato sulla filosofia pratica di Arendt si vedano, tra gli altri, in particolare i seguenti testi: R. Esposito (a cura di), La pluralità irrappresentabile. Il pensiero politico di Hannah Arendt, Quattro Venti, Urbino 1987; G. Duso (a cura di), Filosofia politica e pratica del pensiero: Eric Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, FrancoAngeli, Milano 1988; D. Sartori, pensare a ciò che facciamo. Hannah Arendt, in Aa. Vv., Pensare l’azione. Aspetti della riflessione contemporanea, a cura di B. Giacomini, Il Poligrafo, Padova 2000; L. Boella, Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamen-

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La riflessione di Hannah Arendt è dunque attenta al ruolo dell’azione finalizzata al confronto con l’altro, nonché alla denuncia della riduzione della sfera pratica a mero agire produttivo, quale conseguenza dell’impoverimento del valore attribuito alla partecipazione dell’individuo nel mondo e nel rapporto con i propri simili. La dimensione della politica che disegna la Arendt non può prescindere da quella esistenziale, dove assume un ruolo preponderante ogni forma di attività e di esperienza vissuta e condivisa nell’interazione con gli altri. La peculiarità della visione della filosofa tedesca si coglie, infatti, nella capacità di saper leggere le contraddizioni del proprio tempo anche e soprattutto attraverso l’esperienza vissuta in prima persona. Il campo di indagine di ogni sua elaborazione filosofica è dunque rappresentato dal mondo nella sua interezza e complessità, luogo dove assume un’importanza particolare il proprio vissuto personale. L’impegno costante di rapportare il proprio pensiero alla vita concreta ha portato la filosofa a non tradire mai le proprie idee, ma al tempo stesso le ha offerto lo stimolo a ridiscutere queste stesse in modo sempre attuale rispetto ad un mondo che non può che trasformarsi141. te, Feltrinelli, Milano 2005; T. Serra, L’autonomia del politico. Introduzione al pensiero di Hannah Arendt, Aracne, Roma 2005; G. Di Salvatore, L’interesse come “metaxù” e “praxis”. Assonanze e dissonanze tra Simone Weil e Hannah Arendt, Giappichelli Editore, Torino 2006, pp. 61 ss.; O. Guaraldo (a cura di), Il Novecento di Hannah Arendt. Un lessico politico, cit.; E. Faini Gatteschi, Soggetto e azione. Unicità e essere in comune nel pensiero di Hannah Arendt, Glossa, Milano 2009; A. Papa, Nati per incominciare. Vita e politica in Hannah Arendt, Vita e Pensiero, Milano 2011; N. Mattucci, La politica esemplare. Sul pensiero di Hannah Arendt, Franco Angeli, Milano 2012; J. Kohn, Per una comprensione dell’azione, in Aa.Vv, Hannah Arendt, intr. e cura di S. Forti, Bruno Mondadori, Milano 1999, pp. 155-176. 141 C’è un legame strettissimo tra la vita di Arendt e gli avvenimenti della quale ella fu testimone, quali la guerra, il nazismo, la persecuzione, la Shoah, l’esilio (per un approfondimento della vita di Arendt rimando, tra gli

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Ebrea perseguitata e costretta all’esilio, militante sionista, altri, in particolare al testo di J. Kristeva, Hannah Arendt. La vita e le parole, tr. it. a cura di M. Guerra, Donzelli, Roma 2005). Il rapporto tra il pensiero e la vita è essenziale soprattutto quando si indaga la riflessione di pensatrici donne. Nella filosofia contemporanea, la presenza del pensiero femminile costituisce uno degli aspetti di più spiccata novità e anche di maggiore incisività. Si pensi alle numerose figure di filosofe donne che hanno dominato il Novecento, come Simone Weil e Edith Stein, Maria Zambrano o Virginia Woolf, Etty Illesum e Martha Nussbaum. Non si tratta solo di un dato puramente estrinseco, relativo al sesso delle autrici, ma di un aspetto che tocca direttamente lo stile, il taglio, i contenuti della speculazione, nel senso che il pensiero femminile si distingue talora nettamente dall’elaborazione filosofica al maschile, quasi sempre per la capacità di atteggiare particolari, e comunque differenti, modalità di ricerca e di riflessione. Sull’argomento, si veda l’accurata ricostruzione di L. Boella, Cuori pensanti. Hannah Arendt, Simone Weil, Edith Stein, Maria Zambrano, Edizioni Tre Lune, Mantova 1998; si vedano inoltre, tra gli altri, L. Boella, R. De Monticelli, R. Prezzo, M. C. Sala, Filosofia. Ritratti. Corrispondenze. Hannah Arendt, Simone Weil, Edith Stein, Maria Zambrano, a cura di F. De Vecchi, Tre Lune Edizioni, Mantova 2001; Aa.V.v, Le eccentriche, a cura di A. Botta, M. Farnetti, G. Rimondi, Tre Lune Edizioni, Mantova 2003; Aa.Vv., Donne in filosofia. Percorsi della riflessione femminile contemporanea, a cura di B. Giacomini e S. Chemotti, Il Poligrafo, Padova 2005. Sui temi dell’identità e del femminile, restano fondamentali i testi di N. Fusini: Nomi. Dieci scritture femminili, Donzelli, Roma 1996; Ead., Uomini e donne. Una fratellanza inquieta, Donzelli, Roma 1995; Ead., Donne fatali. Ofelia, Desdemona, Cleopatra, Bulzoni, Roma 2005; Ead., Possiedo la mia anima. Il segreto di Virginia Woolf, Mondadori, Milano 2006; Ead, Hannah Arendt e le altre, Einaudi, Torino 2013. Per un lungo periodo, sono stati considerati testi “fondativi” del pensiero femminile i volumi di Simone de Beauvoir, Il secondo sesso (1949), Betty Friedan, La mistica della femminilità (1963) e Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale (1983). Ma come è emerso da studi più recenti, l’orizzonte della ricerca femminile, soprattutto nel Novecento, è molto più ampio e diversificato. In una letteratura che è diventata ormai particolarmente nutrita, si vedano soprattutto: L. Muraro, Il pensiero della differenza in L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991; F. Collin – M. Forcina, La differenza dei sessi nella filosofia. Nodi teorici e problemi politici, Milella, Lecce 1997; C. Zamboni, La filosofia donna, Demetra, Verona 1997; F. Heritier, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, tr. it. di B. Fiore,

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Arendt non ebbe di certo un rapporto semplice con il mondo che la circondava. I testi di Heidegger su cui si era formata le avevano d’altra parte insegnato a non indugiare sul consenso e a prendere le distanze dall’omologazione delle masse142. Il capolavoro di Heidegger Essere e Tempo143, elaborato nei primi anni ’20, tra le molte altre cose, affrontava una questione per lei decisiva, espressa nel concetto di Dasein. Come è noto con questo termine Heidegger indicava il fatto che ogni essere umano è «gettato», per il solo fatto di esistere, nel mondo. Il «ci» indica dunque il suo destino, e la sua finitezza e transitorietà in una determinata situazione storica. A partire da questo, Heidegger sviluppa anche una serie di riflessioni sulla dimensione dell’«inautenticità» quando l’«esserci» resta impigliato nella rete delle chiacchiere, delle relazioni e faccende quotidiane144. Tanto più il Dasein si sente calato in questa dimensione di banalità ordinaria, tanto più si aliena da se stesso e dalla propria autenticità. L’unico rimedio per l’uomo per riconquistare se stesso è radicalizzare la propria «gettatezza» anticipando la morte, ovvero rifiutare ogni compromesso che Laterza, Roma-Bari 1997; G. Fraisse, La differenza fra i sessi, tr. it. di M. A. Schepisi, Bollati Boringhieri, Torino 1996; F. Restaino – A. Cavarero, Le filosofie femministe, Paravia, Torino 1999. Di grande rilievo, dal punto di vista teorico, oltre che sotto il profilo politico-culturale, l’esperienza condotta da più di un ventennio dalle donne filosofe dell’Università di Verona riunite nel gruppo di Diotima: si vedano, fra gli altri importanti contributi, Aa.Vv., Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987; Aa.Vv., Mettere al mondo il mondo. Oggetto e oggettività alla luce della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1990; Aa.Vv., Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità, Liguori, Napoli 1995. Per una ricostruzione d’insieme del movimento di pensiero femminile in Italia, si veda il bel libro di W. Tommasi, I filosofi e le donne, Tre Lune Edizioni, Mantova 2001. 142 Cfr. L. Boella, Cuori pensanti, cit. p. 14-15. 143 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2005. 144 Cfr. ivi, pp. 214-15.

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possa allontanalo dalla coscienza della propria finitudine e del proprio limite. L’abbracciare dunque la morte è sentito come unico rimedio per una difesa della propria irriducibilità145. Tutto questo comporta tuttavia uno spaesamento rispetto al mondo ordinario, tant’è che per conseguire pienamente il recupero della propria autenticità appare inevitabile un ritiro in se stessi, il ritorno alle proprie radici146. Al suo maestro Heidegger, Arendt rimprovera soprattutto di aver considerato il mondo come il luogo della perdizione del soggetto e del sapere, nonostante il suo radicale appello alla coscienza. Il concetto di politica, o meglio di politeia, valorizzato dalla Arendt, nasce invece dall’esigenza di recuperare l’autenticità della propria condizione umana a partire proprio dalla relazione con gli altri, nell’“essere in pubblico” del Dasein. Una totale inversione concettuale, dunque, rispetto all’impostazione heideggeriana. L’“esserci” per la Arendt può infatti realizzare la conoscenza di sé solo attraverso l’ascolto, il dialogo e l’azione con l’altro e il mondo esterno, quindi nella sfera della pluralità e della comunicazione147. L’esperienza più viva e completa di ogni azione è la libertà, che è per Arendt una condizione imprescindibile affinché la vita acquisti valore. La libertà non è semplicemente una qualità tra le altre, rappresenta, semmai, il principio costituivo di ogni essere umano, e il presupposto di ogni agire politico: «gli uomini “sono” liberi – cosa che occorre distinguere dall’avere la facoltà di esserlo – nel momento in cui agiscono: né prima

145 Cfr. ivi, pp. 284 ss. 146 Cfr. A. Del Lago, Introduzione in H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., pp. 8-9. 147 Cfr. ivi, p. 12.

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né dopo: “essere” liberi e agire sono la stessa cosa»148, perché solo l’azione è in grado di postulare il dono della libertà149. In questo senso, la violenza rappresenta un limite gravissimo alla vita libera e politica, dal momento che il vero contenuto della libertà è proprio la partecipazione alla sfera pubblica150: il «singolo, nel suo isolamento, non è mai libero; lo può diventare solamente se mette piede sul terreno della polis e se lì agisce. La libertà, prima di diventare una sorta di distinzione di una persona o di un tipo di persone […], non è altro che un attributo di una determinata forma di organizzazione interumana, essa non trae mai origine dall’interiorità dell’uomo, che si tratti della sua volontà o del suo pensiero o del suo sentire, ma dall’infra che si crea soltanto dove si radunano molte persone e che può sussistere soltanto finché esse rimangono insieme»151. In altre parole si può sostenere che l’uomo può sentirsi libero, e può esistere, nel vero senso del termine, soltanto dove esiste il mondo152. Il problema nasce quando questo mondo diventa disumano. Di fronte ad una situazione di violenza politica estrema, quale è stato «quest’orrore indicibile, quest’orrore che respinge il pensiero nel regno dell’impensabile»153, realizzatosi durante 148 H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., p. 205. 149 Cfr. ivi, p. 227. 150 Cfr. H. Arendt, On Revolution, New York, Viking Press, 1963; tr. it. di M. Magrini, Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano 1989, p. 29. Cfr. anche M. E. Vatter, La fondazione della libertà, in Aa.Vv, Hannah Arendt, cit., pp. 107-135. 151 H. Arendt, Was ist Politik? Aus dem Nachlass, hrsg. von U. Ludz, Piper, München 1993; tr. it. di M. Bistolfi, Che cos’è la politica?, Edizioni di Comunità, Milano 1995, pp. 76-78. 152 Cfr. ivi, p. 83. 153 H. Arendt, Some Questions of Moral Philosophy, in «Social Research», LXI, n. 4, 1965, pp. 739-764; tr. it. di J. Kohn, Alcune questioni di filosofia

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il regime nazista, Arendt, tuttavia, riesce ad intravedere una breccia di speranza che nasce dalla costatazione che «ogni fine nella storia contiene necessariamente un nuovo inizio; questo inizio è la promessa, l’unico “messaggio” che la fine possa presentare.[…] Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo»154. È vero, infatti, che l’uomo, seppur travolto dalla violenza degli eventi, ridotto ad una condizione di impotenza rispetto all’andamento della storia, può ricercare dentro di sé «il coraggio e anche l’audacia»155 per «imbarcarsi in qualcosa di nuovo»156. In questo modo, ripiegandosi nel proprio pensiero, ma al tempo stesso interagendo attivamente con gli altri, egli può reagire alla catastrofe che lo circonda, trovando spazi nuovi dove potersi muovere157. Agire, e agire nella pluralità, acquisiscono un significato pregnante nella prospettiva politica di Arendt, la quale sottolinea come, per un verso l’«agire» sia da intendersi

morale, Einaudi, Torino 2006, p. 10. Una rilettura in chiave arendtiana dei fenomeni di terrorismo e di guerra totale scaturiti in tempi recenti anche dal grembo degli orrori della seconda guerra mondiale è proposta nel bel libro di A. Cavarero, Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007. 154 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 656. 155 H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, cit., p. 136. 156 H. Arendt, Sulla violenza, cit., p. 89. 157 Cfr. H. Arendt, Understanding and Politics (The Difficulties in Understanding), in «Partisan Review», XX, n. 4, 1954; tr. it. di P. Costa, Comprensione e politica (le difficoltà del comprendere), in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, tr. it. di P. Costa (a cura di), Feltrinelli, Milano 2006, p. 124; Ead., Vita Activa. La condizione umana, cit., p. 8. Per un approfondimento cfr. M. Tosches, Comprendere il male: il miracolo dell’azione, in Ead.,“Stop and think”. Risposta al male secondo Hannah Arendt, cit., pp. 186-220.

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come «la risposta umana alla condizione di essere nati»158, in un mondo che, proprio perché comprende uno spazio pubblico che di per sé trascende il passato e il futuro, o la nascita e la morte di ogni singola vita, continuerà per ciò stesso ad esistere sempre159. Dall’altro verso «agire», a partire dal significato etimologico del greco archein, che indica propriamente “incominciare”, “condurre”, e anche “governare”, (che è poi il significato del latino agere, “mettere in movimento”), significa «prendere un’iniziativa, iniziare, […] mettere in movimento qualcosa»160. Nel momento in cui si apre alla vita, quindi, l’uomo entra a far parte di un mondo dove, seppure indistinguibile rispetto agli altri individui, seppur irrilevante rispetto al moto della storia, costituisce pur sempre una novità già per il solo fatto di essere nato, e acquista un’identità che lo rende unico e irriducibile. Non solo: l’uomo, con la sua nascita, può divenire a sua volta creatore di nuovi inizi, libero artefice di nuove prospettive e nuovi impulsi161: «con la nascita di ogni

158 H. Arendt, Sulla violenza, cit., p. 89. Subito a seguire l’autrice sostiene: «Dato che tutti noi veniamo al mondo in virtù della nascita, in quanto nuovi arrivati e principianti siamo in grado di dare inizio a qualcosa di nuovo; senza il fatto della nascita non sapremmo neanche cos’è la novità, ogni “azione” sarebbe semplice comportamento o conservazione» (ibidem). 159 Cfr. H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, cit., p. 41: «Se il mondo deve contenere uno spazio pubblico, non può essere costruito per una generazione e pianificato per una sola vita; deve trascendere l’arco della vita degli uomini mortali. Senza questa trascendenza in una potenziale immortalità terrestre, nessuna politica, strettamente parlando, nessun mondo comune e nessuna sfera pubblica, è possibile». 160 Ivi, pp. 128-129. 161 Stephan Kampowski sottolinea che per Hannah Arendt l’inizio «è nuovo, nel senso proprio del termine, soltanto se non è stato preceduto da alcuna potenzialità». A dimostrarlo è la critica arendtiana alla distinzione aristotelica tra potenza e atto: «per la Arendt, l’unica potenzialità che precede l’azione è quella della mera possibilità, cioè il semplice fatto di non essere impossibile» (cfr. S. Kampowski, Una seconda nascita: azione e persona in

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uomo si riafferma quell’originario inizio, in quanto con ogni nascita si introduce qualcosa di nuovo in un mondo preesistente e che continuerà ad esistere dopo la morte di ciascun individuo. E proprio in quanto è un inizio, l’uomo può dare inizio a cose nuove: umanità e libertà coincidono»162. Già all’atto della sua nascita, l’uomo diventa potenzialmente un libero protagonista di un inizio, capace di compiere l’imprevedibile, e di condividerlo con gli altri. Questo perché «la libertà in quanto intima capacità umana si identifica con la capacità di cominciare», allo stesso modo «la libertà in quanto realtà politica si identifica con uno spazio di movimento fra gli uomini»163. A differenza di quanto avviene per il pensiero, che per essere non necessita in alcun modo di manifestarsi esteriormente, l’azione, invece, perderebbe ogni valenza se non venisse accolta, sentita e ricordata dal mondo esterno. In questo senso, l’azione e il discorso devono essere considerati «equivalenti»,

Hannah Arendt e Karol Wojtyla, in S. Grygiel, S. Kampowski (a cura di), Epifania della persona. Azione e cultura nel pensiero di Karol Wojtyla e di Hannah Arendt, Cantagalli, Siena 2008, pp. 83-97). 162 H. Arendt, Freedom and Politics, «Chicago Review», XVI, 1, 1961, pp. 28-46; tr. it. a cura di T. Gargiulo, Che cos’è la libertà?, in Ead., Tra passato e futuro, cit., p. 222. 163 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 648. In La vita della mente, cit., p. 528, Arendt sostiene che la libertà politica «siccome è possesso del cittadino, più che dell’uomo in generale, non può manifestarsi che nella comunità, dove gli scambi in parole e azioni dei molti che vivono insieme sono regolati da tutta una serie di rapports – leggi, costumi, abitudini e così via. In altri termini, la libertà politica è possibile solo nella sfera della pluralità umana e a condizione che tale sfera non sia semplicemente un’estensione del duale Io-e-me stesso in un plurale Noi» (ivi, p. 528). Per un approfondimento della questione cfr. E. F. Gatteschi, Soggetto e azione. Unicità e essere in comune nel pensiero di Hannah Arendt, Glossa, Milano 2009, pp. 181-184.

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perché l’azione si realizza proprio attraverso il discorso capace di instaurare, attraverso la parola, relazioni comunicative: «trovare le parole opportune al momento opportuno, indipendentemente da quanto esse vogliano informare o comunicare, significa agire»164. Azione e discorso rivelano, dunque, la distinzione dell’uomo. Con la parola e con l’agire l’uomo si inserisce, infatti, nel mondo, e «questo inserimento è come una seconda nascita»165. D’altra parte, come può l’uomo restare in bilico tra la propria soggettività e l’inter-soggettività, e quale è lo spazio autentico del suo vero agire? Infine, se ciò che caratterizza lo statuto morale della scelta delle proprie azioni è il pensiero, quale è il luogo temporale in cui l’io pensante prende posto? Per poter rispondere a queste questioni fondamentali viene proposto in questa sede un luogo caratteristico del pensiero di Hannah Arendt: una metafora, o meglio ancora una parabola, come l’autrice ama definirla166. Come è stato visto, ella considerava la parabola lo strumento più idoneo per tentare di stabilire un contatto tra la domanda sulle grandi questioni filosofiche, per lo più avulse dalla realtà concreta, e il mondo sensibile dove si svolge la vita167. In questo caso specifico, però,

164 H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, cit., p. 20. 165 Ivi, p. 128. 166 Cfr. H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 297. Per la comprensione della metafora di Kafka rinvio al fondamentale capitolo dedicato ad Arendt di L. Boella in Ead., Cuori pensanti, cit., pp. 11-30; qui cfr. p. 11. In particolare ho tenuto sempre presente la linea interpretativa, ben argomentata ed estremante originale, del saggio della Boella relativa ai testi della Arendt. Molto interessante è anche l’interpretazione offerta da H. Kohn, Per una comprensione dell’azione, in Aa.Vv, Hannah Arendt, cit., pp. 171-176. 167 Cfr. L. Boella nel suo saggio Cuori pensanti, cit., p. 16: «Arendt riteneva che la metafora fosse lo strumento migliore per creare un ponte tra i

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non si tratta di una semplice immagine metaforica, perché sembra delinearsi come un vero e proprio fil rouge capace di tessere l’intera trama della riflessione arendtiana. Una parabola su cui la filosofa si interroga infatti ricorrentemente nell’arco della sua vita, e a cui è particolarmente debitrice anche perché proviene da un autore da lei considerato un punto di riferimento speculativo imprescindibile, quale è Franz Kafka. In Kafka soprattutto Arendt riconosceva l’ardire di essere riuscito a costruire un mondo che corrispondesse ai bisogni e alla dignità dell’uomo, nel quale le azioni degli uomini fossero dominate da lui stesso e dalle leggi che egli era in grado di stabilire, anziché da forze misteriose emanate dall’alto o dal basso168. Al centro dell’interpretazione di Kafka fornita da Arendt campeggia dunque forte il nesso – di per sé fortemente aporetico - fra il terrore e la visione di un mondo migliore. Secondo Arendt, l’aspetto più interessante di Kafka consiste nella capacità di cogliere il nesso essenziale che congiunge il passato al futuro, anticipando in forma narrativa ciò che sarebbe accaduto nello sviluppo della storia contemporanea169. Il talento dello scrittore praghese è soprattutto quello di essere riuscito nell’arditissimo rovesciamento del rapporto pensieroesperienza. Mentre è riconosciuta generalmente all’esperienza la dimensione della ricchezza e della drammaticità degli eventi, e vengono assegnati all’intelletto l’ordine e la lucidità, problemi filosofici fondamentali, che per definizione abitano una regione lontana dalla vita comune, e la realtà sensibile del mondo in cui tutti, anche i filosofi, vivono e abbiamo bisogno di vedere e di essere visti, di parlare e di essere ascoltati». 168 Cfr. H. Arendt, Ripensando a Franz Kafka. In occasione del ventesimo anniversario della morte, in Ead., Archivio Arendt 1. 1930-1948, cit., pp. 105-116. 169 Cfr. H. Arendt, Tra passato e futuro, cit.; cfr. anche Ead., Il futuro alle spalle, cit..

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Kafka con la sola forza dell’intelligenza e dell’immaginazione «da un nudo e “astratto” minimo di esperienza ha creato una sorta di paesaggio mentale in cui il pensiero, senza perdere di lucidità, vive con tutta la ricchezza, la varietà e la drammaticità caratteristiche della “vita reale”»170. Grazie alla vitalità del suo solo intelletto, Kafka ha sviluppato un’attitudine straordinaria per la preveggenza che «ancor oggi, dopo circa quarant’anni di eventi imprevedibili e senza precedenti, non cessa di meravigliarci»171. Allo scrittore boemo Arendt aveva dedicato alcuni importanti saggi, più volte rielaborati nell’evolversi della sua ricerca172. La parabola che in questo caso interessa Arendt è una straordinaria rappresentazione «della dimora dell’uomo sulla terra»173. La metafora è contenuta in una serie di frammenti di Kafka datati 1920, intitolati Er (Egli)174, e viene ripresa ed analizzata dalla filosofa in due saggi scritti a distanza di diciotto anni l’uno dall’altro: il primo risalente al 1958, e costituisce la Premessa al testo intitolato Tra passato e futuro175; mentre il secondo è contenuto nel paragrafo conclusivo dedicato al

170 H. Arendt, Tra passato e futuro, cit., pp. 32-33. 171 Ivi, p. 33. 172 In particolare aveva curato, negli Stati Uniti, l’edizione integrale dei Diari (cfr. L. Boella, Cuori pensanti, cit., pp. 17 ss.). 173 H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 299. 174 Arendt fa riferimento a una serie di note kafkiane apparse negli Stati Uniti con il titolo The Great Wall of China, tr. di W. e E. Miur, New York 1946. Per la tr. it. cfr: F. Kafka, Egli, in F. Kafka, Confessioni e diari, Mondadori, Milano 1972, pp. 809-819. 175 Cfr. H. Arendt, Premessa, in Tra passato e futuro, cit., pp. 25 ss. In questa sede Arendt si riferisce alla parabola kafkiana come commento ad una frase del poeta Renè Char, rivolta ai resistenti francesi, in cui si sosteneva che «la nostra eredità non è preceduta da alcun testamento» (p. 25).

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Pensare dell’ultimo volume dell’autrice (La vita della mente), pubblicato postumo nel 1976176. L’Egli di cui parla Kafka è denominato come un “lui”, e non un semplice “qualcuno”177, ed è l’immagine di un’esistenza attraversata dal contrasto violento tra il personale e l’impersonale: «Egli è un’identità svuotata, resa fragile, vulnerabile campo di battaglie tra forze estranee»178. Egli è in particolare un impersonale personalissimo, un anonimo corporeo, una presenza concreta ma al tempo stesso inesistente. I tratti di Egli ricordano la figura dell’apolide, o del profugo, di quei soggetti comunque “superflui” e senza cittadinanza che il totalitarismo ha saputo creare, secondo la Arendt, per escludere interi popoli dal contesto sociale179. «Tutto il contesto del brano di Kafka documenta il singolare imbarazzo esistenziale di colui che è di ingombro a se stesso, quasi colpevole di non avere quello che tutti dovrebbero avere»180. Ma allora chi è Egli, e perché Hannah Arendt lo pone al centro della sua riflessione? Per rispondere a questi interrogativi, la filosofa cita in particolare un solo frammento contenuto nei Diari di Kafka, un passaggio particolarmente incisivo in cui si descrive il soggetto protagonista e la situazione in cui è inserito: «Egli ha due avversari, il primo lo incalza alle spalle, dall’origine, il secondo gli taglia la strada davanti: Egli combatte con entrambi. Veramente il primo lo soccorre nella lotta con il secondo perché

176 Cfr. H. Arendt, Pensare, in Ead., H. Arendt, La vita della mente, cit., pp. 296-307. 177 Cfr. H. Arendt, Premessa, in Tra passato e futuro, cit., p. 36. 178 L. Boella, Cuori pensanti, cit., pp. 17-18. 179 Cfr. ivi, p. 18. 180 Ibidem.

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vuole spingerlo avanti, e altrettanto lo soccorre il secondo nella lotta col primo perché lo spinge indietro. Questo però soltanto in teoria, poiché non ci sono soltanto due avversari, ma anche lui stesso: e chi può dire di conoscere le sue intenzioni? Certo sarebbe il suo sogno uscire una volta, in un momento non osservato – è vero che per questo ci vuole una notte buia come non è mai stata – dalla linea di combattimento e per la sua esperienza nella lotta essere nominato giudice dei suoi avversari, che combattono tra loro»181. In un primo tempo, la Arendt interpreta questo frammento come la descrizione di un campo di battaglia in cui si fronteggiano due forze: il passato e il futuro. Tra loro, si trova la figura di Egli che per poter mantenere la sua posizione deve lottare e fare resistenza contro i due avversari. Le lotte in questione sembrerebbero due, ma a ben vedere sono tre: quelle degli antagonisti di Egli, e quelle di Egli, che combatte contro ciascuno dei due182. Il primo aspetto rilevante, sottolineato dalla Arendt, consiste nel fatto che non solo il futuro ma anche il passato vengono considerati come una forza, non dunque come mero fardello da sopportare o di cui sbarazzarsi. Non solo, ma questo passato, e tutto il bagaglio che porta con sé, anziché spingere 181 F. Kafka, Egli, in F. Kafka, Confessioni e diari, cit., pp. 811-812; Arendt riporta il frammento nella Premessa, in Tra passato e futuro, cit. pp. 29-30, e in La vita della mente, cit. p. 297. 182 Eppure, sottolinea Arendt, potrebbe anche accadere che senza la presenza di Egli venisse a mancare ogni forma di scontro: «forse senza di lui le forze del passato e del futuro si sarebbero da tempo neutralizzate o distrutte a vicenda» (H. Arendt, Premessa, in Tra passato e futuro, cit., p. 33). A ben guardare, dunque, le due forze avversarie di Egli, nel tentativo di schiacciarlo, si potrebbero arrestare. «È questa la situazione della storia, in cui progresso e rovina sono due facce della stessa medaglia» e credere nell’uno piuttosto che nell’altra significa tagliare fuori l’uomo dalla storia (L. Boella, Cuori pensanti, cit., p. 20).

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all’indietro proietta in avanti, mentre dal canto suo il futuro preme verso il passato, contrariamente all’immagine consueta del passato che è visto come un peso che porta indietro, e del futuro che muove in avanti183. Il punto in cui si trova Egli, spezzato nel mezzo, è una «lacuna del tempo, nella quale l’uomo può prendere possesso del proprio spazio strappandolo all’incalzare del passato e al frenare del futuro. Lo scorrere lineare del tempo viene dunque frantumato in istanti di tempo che corrispondono al prendere posizione in un punto: è l’inserimento di Egli che scinde il «continuum temporale […] in forze che cominciano a lottare tra loro»184. Come sottolinea Arendt, il tempo descritto nella parabola kafkiana rispetta l’immagine classica del chronos inteso come flusso unidirezionale lungo una linea retta185. Egli, con la sua 183 Cfr. ibidem. Il futuro dunque, secondo la parabola kafkiana, non si espande davanti a noi, ma viene verso di noi, viene a noi, così come il passato viene da dietro di noi. Kafka sembra voler dirci che il futuro non è mai ciò che l’uomo pianifica. 184 Ivi, 34. 185 Cfr. H. Arendt, Premessa, in Tra passato e futuro, cit., p. 34. È interessante leggere un testo che raccoglie il discorso che Arendt ha pronunciato in occasione di un seminario tenutosi a Chicago nel 1967, in cui l’autrice distingue diversi concetti di tempo. C’è il tempo greco, ebraico, quello cristiano, e infine quello hegeliano. Ma c’è anche «il nostro concetto quotidiano» di tempo, il «tempo del calendario», che è diverso dagli altri menzionati, perché è «lineare», ma non «strettamente lineare», perché vi è un «punto di svolta da cui si può procedere in avanti e indietro». L’uomo può decidere di scegliere dove stare lungo questa linea, e il tempo «scorrerà in due direzioni […] verso un passato infinito e un futuro infinito». Ma queste due direzioni, a dire la verità, «possono anche essere invertite», cosicché il presente diviene «il punto in cui si incontrano […] il punto in cui si annullano». Ebbene, secondo Arendt questa è «l’unica nuova speculazione sul tempo nel nostro secolo», e la si deve esclusivamente a Kafka (cfr. H. Arendt, “Hegel Seminar – Chicago 1967”, Library of Congress, Washington (fondo Arendt); cfr. J. Kohn, Per una comprensione dell’azione, in Aa.Vv, Hannah Arendt, cit., pp. 170- 171).

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sola presenza, colloca un cuneo nello scorrere incessante del tempo. Se solo pensasse di andarsene, vagherebbe in uno spazio indefinito oltre la linea di riferimento temporale. Tuttavia, l’inserirsi dell’uomo che spezza il continuum non può reggere lo scontro delle forze opposte senza dar vita ad una terza via, la «risultante diagonale» che parte esattamente dal punto di intersezione tra passato e futuro. Tra le rette vi è tuttavia una differenza. Rispetto alle due forze antagoniste, che sono illimitate in quanto all’origine, dal momento che una proviene da un infinito passato e l’altra da un infinito futuro, ma che vanno a spegnersi nel punto di corrispondenza con Egli, la diagonale risultante, invece, inizia dallo scontro tra le due linee e si proietta versa l’infinito. Ebbene, «questa forza diagonale, avente un’origine nota, una direzione determinata dal passato e dal futuro, ma un termine illimitato, è l’immagine perfetta dell’attività del pensiero»186. Se Egli fosse in grado di mantenere una distanza paritaria dalle due forze avversarie, con la tranquillità e l’ordine propri del pensiero, non avrebbe il coraggio di uscire dal conflitto, perché saprebbe giudicare con occhio imparziale. Ma Egli, stretto nella mischia, sogna invece di venir fuori inosservato dalla linea di combattimento, durante la notte più buia che mai ci sia stata, per potersi erigere a giudice tra i due avversari. Tuttavia è molto più probabile, come Kafka fa intravedere in altre versioni del racconto, che Egli, incapace di percorrere la diagonale che lo sottrarrebbe allo scontro, muoia per svenimento, «esaurito – scrive Arendt – dalla pressione di una lotta incessante, dimentico delle proprie intenzioni primitive, conscio ormai soltanto dell’esistenza di questa lacuna del tempo

186 H. Arendt, Premessa, in Tra passato e futuro, cit., p. 35.

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sulla quale dovrà restare per tutta la vita, benché somigli più a un campo di battaglia che a una patria»187. Secondo l’autrice, uscire inosservati dalla mischia, per atteggiarsi a giudice, è il sogno del filosofo tradizionale che osserva le cose dall’alto, imperturbabile, non coinvolto, perché fuori dal gioco vero della vita188. La lacuna tra passato e futuro può risiedere unicamente nella regione dello spirito, o meglio può figurare come una «sottile pista atemporale battuta dal pensiero nel limitato spazio-tempo dell’uomo, nella quale il pensiero, la memoria e la preveggenza salvano qualunque cosa tocchino dalla rovina del tempo storico e biografico»189. Questo spazio atemporale, a differenza del mondo reale in cui l’uomo nasce e vive, può dunque essere solcato solo dal filosofo. Se questa è la prima lettura offerta dalla pensatrice sul significato della figura di Egli, a distanza di tempo la metafora verrà rivista e interpretata sotto una differente prospettiva190. Quel campo di battaglia tra forze contrapposte dove Egli, collocato nel mezzo, deve combattere, a ben guardare verrebbe meno se proprio Egli desistesse dal difendere la propria posizione. Il passato e il futuro si sarebbero in altri termini neutralizzati e distrutti a vicenda, se tra di essi non si interponesse colui che con la sua semplice nascita e presenza, con il suo singolo arco limitato di vita, non resistesse all’urto violento delle due forze, evitando la loro collisione191. Se «essi sono, si deve palesemente all’uomo, che si è inserito tra loro e ha

187 Ivi, p. 36. 188 Arendt riprenderà quest’analisi anche in La vita della mente, cit., p. 301. 189 H. Arendt, Premessa, in Tra passato e futuro, cit., p. 36. 190 Cfr. H. Arendt, La vita della mente, cit., pp. 296 ss. 191 Si vedano su questo punto, ancora una volta, le intense pagine di L. Boella, Cuori pensanti, cit., pp. 21 ss.

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stabilito qui la sua presenza»192. Ebbene, la realtà precipua di Egli costituisce quel «tra» passato e futuro che si chiama presente, un «Adesso prolungato»193 misterioso e sfuggente, dove il passato non è più e il futuro non c’è ancora194. L’uomo vive esattamente in questo «tra», e quello che vive come presente non è altro che una «lotta, lunga una vita, contro il peso morto di un passato che lo spinge avanti, con la speranza, e il timore di un futuro (in cui sicura è solo la morte) che lo spinge all’indietro»195. Nella lacuna del presente, simile ad una diagonale che incomincia dal punto d’incontro tra passato e futuro, prende vita l’esperienza di quel piccolo fragile corpo che, da quel momento, spalanca verso l’infinito la porta della riflessione alla ricerca di un senso, malgrado tutto, della propria esistenza196. La metafora però, se riletta con maggiore attenzione, può far intravedere, secondo la Arendt, un’ulteriore linea interpretativa. Se Egli avesse potuto camminare indisturbato e tranquillo lungo la diagonale risultante dallo scontro delle due forze, non avrebbe avuto necessità di uscire di nascosto dalla mischia per giudicare dall’esterno il conflitto. Questa diagonale dunque, benché rinvii all’infinito, è sempre compresa nello spazio circoscritto dal combattimento tra passato e futuro, è dunque protetta contro il vuoto, ancorata alla “lacuna del presente”, radicata in essa. In questa apertura sconfinata del nunc stans,

192 H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 303. 193 Ivi, p. 299. 194 Cfr. ivi, p. 303. 195 Cfr. ivi, p. 299. 196 «L’attività di pensiero può essere compresa come una lotta contro il tempo stesso» (ivi, p. 300).

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il pensiero può dar voce al proprio giudizio, assumere la posizione di arbitro, e valutare le vicende umane senza mai giungere per forza a una soluzione definitiva, ma al tempo stesso «pronto ad apportare risposte sempre nuove alla domanda sul senso di tutto ciò»197. La «lacuna del presente» è l’attualità di un presente vissuto nella sua irriducibilità e concretezza, non è dunque un luogo avulso dalla realtà. Tuttavia, la “lacuna del presente” può anche essere lo spazio di chi preferisce la rinuncia, l’anonimato, l’inespressività o addirittura il mutismo198. Ogni nuovo essere umano, «non appena acquisti consapevolezza di trovarsi inserito tra un passato e un futuro infiniti»199 deve allora coraggiosamente intraprendere ex novo il cammino di un proprio pensiero che può divenire azione. L’azione è come un’energia immediata che nel momento stesso in cui inizia può anche finire senza lasciare traccia alcuna, per questo deve essere ogni volta riscoperta, riattraversata, se vuo-

197 Ivi, p. 304. Alla base della ricerca arendtiana sul significato del ruolo dell’uomo nel mondo vi è, come momento preminente, quello del pensare, ovvero, come la scrittrice amava precisare, della riflessione teoretica. Per un approfondimento cfr. H. Arendt, Pensare, in Ead., La vita della mente, cit., pp. 83-312. Si veda a riguardo anche il prezioso saggio di G. Di Salvatore, L’inter-esse come “metaxù” e “praxis”. Assonanze e dissonanze tra Simone Weil e Hannah Arendt, Giappichelli Editore, Torino 2006, pp. 62 ss. (a questo testo mi sono riferita più volte nel corso delle pagine che seguono). 198 «Appare chiaro che questo presente è il tempo dell’azione, il concetto chiave della teoria politica arendtiana: l’azione distinta dal lavoro, l’attività di produzione dell’esistenza, e dall’opera, l’attività di produzione di beni che vengono ad aggiungersi a quelli esistenti in natura, creando l’ambiente di manufatti della tecnica, nonché delle opere d’arte. L’azione è la capacità, tipica dell’umano, di interrompere le serie causali e di introdurre il nuovo, è energia di iniziativa che corrisponde all’inedito e all’imprevisto» (L. Boella, Cuori pensanti, cit., p. 22). 199 H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 305.

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le lasciare un segno e divenire oggetto di ricordo. Da questo punto di vista l’azione costituisce l’espressione più paradigmatica e vitale dell’essere umano, ma può anche divenire la più inconsistente e rischiosa. Egli, infatti, può scegliere: può resistere, anonimo, ancorato e solo in quella lacuna ai confini della vita e della morte, del passato e del futuro, con il suo solo essere corpo, massimamente umano ma al tempo stesso anche massimamente impersonale. Può stabilire dunque di morire ai margini della sua breve e misera esistenza, inascoltato, invisibile, indifferente. Oppure può decidere di divenire soggetto attivo della propria vita. La «lacuna del presente» è pur sempre un luogo che Egli occupa, e sa difendere da forze avversarie infinite. In questo luogo Egli si interpone, agisce, «entra nel mondo e qualcosa accade, tra le due forze si scava uno spazio, si apre una breccia. Non si tratta di un soggetto orgoglioso di sé che “fa” la storia. Si tratta piuttosto di chi è urtato violentemente dalla catastrofe della storia contemporanea e dall’esperienza del dolore, e pur ammutolito dalla disperazione, reso inesistente, anonimo, non rinuncia a chiedersi: perché è successo? Come ha potuto succedere? »200. Alla domanda «chi è Egli?» Hannah Arendt non ha mai dato in realtà una risposta univoca. Egli può essere quel “nessuno”, che decide di vivere e morire invisibile nel totale riserbo, avvolto dall’oscurità della notte più buia dei tempi, o può essere “qualcuno”, che vuole far ascoltare la sua voce di poeta, scrittore, politico, uomo o donna di azione e pensiero201. Negli anni ‘50 per Arendt, Egli è colui che resiste alla violenza intrusiva della storia. Egli è anche il poeta tragico antico per

200 L. Boella, Cuori pensanti, cit., pp. 22-23. 201 Cfr. ivi, pp. 23-24.

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eccellenza – Omero - che ha saputo trasmettere l’eredità di un pensiero attraverso la memoria dei suoi racconti, nel tentativo di comprendere la complessità e l’ambivalenza della condizione umana202. Con il passare del tempo la filosofa comincia tuttavia sempre di più ad attribuire ad Egli la responsabilità delle proprie azioni. Diversamente dal mondo e dalla cultura in cui l’uomo è nato, il piccolo spazio della «lacuna del presente» dove Egli si trova a consistere, consapevole della propria stessa presenza, non può solo essere semplicemente una mera opportunità di vita ereditata o trasmessa203. Essere “uomo” significa per la Arendt accettare il proprio passato che incalza, e fronteggiare l’incertezza di un futuro che paralizza, per creare un presente del tutto nuovo e personale dove la forza dell’azione e del pensiero trascendono la propria finitudine, e durano «in mezzo alla transitorietà mutevole del mondo»204. Egli può divenire allora «un guerriero» che lotta contro il tempo «per difendere e far durare l’esperienza del proprio presente, è colui che, oltre ad agire e patire, […] si assume la responsabilità di pensare, di giudicare, di discernere il bene dal male»205.

202 Cfr. ibidem. 203 Cfr. H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 305. 204 Ivi, p. 306. Nell’azione il singolo deve inevitabilmente gettarsi fuori di sé, mettersi in relazione con altri, imparare a condividere l’esperienza della sua esistenza come arricchimento per gli altri. Nel significato «di accoglienza, di ospitalità, di amicizia, di dialogo con altri, di apertura al mondo», la Arendt individua la dimensione più autentica della politica, «come forma di esistenza umana del presente, che presuppone e a un tempo favorisce il ripristino di un corretto rapporto con le questioni ultime, la vita e la morte, il bene e il male, la memoria e l’eredità del passato» (L. Boella, Cuori pensanti, cit., p. 25). 205 Ivi, p. 24.

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Il pensiero è l’unico strumento in mano all’uomo per comprendere la propria «lacuna del presente», e in questo modo recuperare la propria identità. L’uomo, interrogandosi e rivolgendosi verso se stesso, può riesaminare ogni dato della realtà, e provare meraviglia, ma anche orrore, se necessario, per la propria esperienza206. Nel presente, soprattutto, l’uomo può decidere di agire, prendere un’iniziativa, mettere in movi-

206 Il pensare arendtiano nasce dallo stupore (thaumazein) che l’individuo avverte quando riflette sulla propria esperienza. Avere una coscienza significa per Arendt essere proprio nel luogo in cui le forze del passato e quelle del futuro si scontrano, come nel caso di Egli, e avere il coraggio e la forza di dare inizio (azione) ad una nuova forza che sia equidistante da entrambe le altre. Significa anche provare meraviglia e insieme domanda (thaumazein) per l’esperienza dell’orrore di fronte a ciò che l’uomo può fare e a cosa il mondo può diventare. Nel momento in cui l’uomo si accinge a pensare grazie alla coscienza diventa partecipe di quell’attività filosofica della meraviglia che lo porta a dubitare di tutto, a esaminare ogni verità consolidata, a porsi delle domande. A tal proposito Arendt scrive che è necessario superare «il tradizionale diniego di accordare alla sfera delle vicende umane quel thaumazein, quello stupore di fronte a ciò che è in quanto è, che, secondo Platone e Aristotele, è all’origine di ogni filosofia, ma che anche loro avevano rifiutato di riconoscere come condizione preliminare della filosofia politica. In effetti, l’orrore muto di fronte a ciò che l’uomo può fare e a ciò che il mondo può diventare è per molti versi connesso a quella muta e ammirata gratitudine da cui scaturiscono gli interrogativi filosofici» (H. Arendt, L’interesse per la politica nel recente pensiero filosofico europeo, in Archivio Arendt. 1950-1954 – ed or.: Essays in Understanding, 1930-1954. Uncollected and Unpublished Works by Hannah Arendt, ed. by J. Kohn, Harcourt Brace & Co, New York 1994 –, vol. 2, tr. it. di P. Costa, a cura di S. Forti, Feltrinelli, Milano 2003, p. 218.) Su questo argomento cfr. l’illuminate saggio di Bruna Giacomini, “Che cosa ci fa pensare?” Pathos e filosofia in Hannah Arendt, in L’affettività del pensiero. Rivista di filosofia. Paradosso”, 2012/1, a cura di U. Curi e B. Giacomini, Il Poligrafo, Padova, pp. 32 ss. Cfr. anche. I. Possenti, Introduzione, in H. Arendt, Socrate, tr. it. di I. Possenti, Raffaello Cortina, Milano 2015, p. 16 (ed. orig: Socrates, in Ead., The Promise of Politics, ed. by J. Kohn, Schocken Books, New York 2005, pp. 5-39), e quanto scrive la stessa Arendt nel capitolo intitolato Meraviglia, ivi, pp. 55-62.

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mento qualcosa. E questo inizio non è l’inizio di qualcosa ma di qualcuno, di un Egli che è a sua volta un iniziatore207. Dalle pagine dedicate, in vari periodi della sua vita, all’enigmatica figura di Egli, emerge una Arendt insolita, certamente per molti aspetti diversa dall’autrice di opere come Le origini del totalitarismo o La banalità del male. Il tono generale, il “taglio” della riflessione, perfino lo stile letterario cambiano, appaiono meno coinvolti nella denuncia della mostruosa insensatezza dell’Olocausto. L’autrice si abbandona piuttosto ad una sorta di introspezione, all’esplorazione di aspetti umani ed esistenziali introvabili in altri scritti. Sembra che sia a tal punto contagiata dalla misteriosa metafora kafkiana da far registrare un brusco scarto nelle modalità stesse di costruzione del ragionamento. Ebrea come lo scrittore praghese, Hannah ripropone un tema di indagine che – non a caso - risuona anche in un altro protagonista del pensiero novecentesco di cultura ebraica, vale a dire Walter Benjamin. Tra passato e futuro, e gli spunti dedicati a Egli, condividono la medesima radicale interrogazione della nozione di tempo che emerge dalle intense pagine del Passagen-werk o di Avanguardia e rivoluzione. 207 Sono le parole di H. Arendt, la quale, riprendendo Agostino, riconosce che «[initium] ergo ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit (“perché ci fosse un inizio fu creato l’uomo, prima del quale non esisteva nessuno”) […]. Questo inizio non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa ma di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore» (H. Arendt, Vita Activa. La condizione umana, cit., p. 129). Sulla lettura arendtiana di Agostino si consultino i seguenti testi: G. Catapano, Hannah Arendt e Hans Jonas interpreti del concetto agostiniano di volontà, “Etica & Politica”, X, 2008, 1, pp. 12-27; R. Bodei, Hannah Arendt interprete di Agostino, in R. Esposito (a cura di), La pluralità irrappresentabile. Il pensiero politico di Hannah Arendt, cit., pp. 113-121; M. L. Pelosi, Mondo e amore. Hannah Arendt e Agostino, Loffredo, Napoli 2008; G. Rametta, Osservazioni su ‘Der Liebesbegriff bei Augustin’ di Hannah Arendt, in R. Esposito (a cura di), La pluralità irrappresentabile. Il pensiero politico di Hannah Arendt, cit., pp. 123-138.

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Una concezione che risente in maniera decisiva dell’influenza della lacerante tensione fra attesa messianica e valorizzazione della memoria storica. Hannah Arendt ha cercato di vivere lei stessa tutta la vita nel nunc stans del suo presente, facendo del suo giudizio un monito a rimanere equidistanti rispetto a ciò che è stato e a ciò che può avvenire. Di qui dunque la sua maniera tutta personale di osservare gli eventi contemperando i diversi punti di vista degli attori, il suo bisogno di difendere senza condizioni la libertà come principio fondante di ogni agire umano, e infine, la sua caratteristica di rendersi sempre spettatrice imparziale di fronte alla contingenza del mondo umano, per poter cogliere ogni aspetto da una prospettiva autonoma. A lei si deve soprattutto il coraggio di un pensiero che, capace di memoria e speranza, ha saputo reggere, senza crollare mai, la tensione di quella lacuna tormentata da forze simultanee e avverse e, nonostante tutto, ha saputo dare inizio ad una riflessione che è, insieme, rinascita.

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II Legge e potere nel pensiero di Hannah Arendt

2.1 Violenza e potere La ‘violenza’, termine sfuggente e mutevole, riguarda dimensioni o fenomeni molto diversi tra loro, che variano a seconda delle società e dei tempi. Questo significa che ogni azione riconducibile alla violenza può essere riferita a specifici significati, che a loro volta rimandano a contesti storici e sociali differenti. Quando si affronta il problema della violenza1, la

1 Sul rapporto violenza-filosofia nel pensiero contemporaneo si segnala un ampio e documentato volume di Giusi Strummiello, Il logos violato. La violenza nella filosofia, Dedalo, Bari 2001; molto interessante, di taglio più sociologico, è anche il testo di Paola Rebughini, La violenza, Carocci, Roma 2004. Per un approfondimento del concetto di violenza mi permetto di rimandare al mio testo Donne e violenza. Filosofia e guerra nel pensiero del ‘900, cit. La bibliografia filosofica disponibile sul tema della violenza è molto vasta. Fra i contributi di carattere generale più significativi si vedano: Aa.Vv., Sulla violenza, tr. it. di L. Pacelli, Maltemi, Roma 1997; Aa.Vv., La violence. Textes choisis et présentés par H. Frappat, Flammarion, Paris 2000. Di carattere più sociologico si segnalano i seguenti testi: D. Riches (a cura di), The anthropology of violence, Blackwell, Oxford 1986; Y. Michaud, La violenza, tr. it. di M. Pomarici, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1992; P. Clastres, Archeologia della violenza, Roma, Meltemi, 1998; W. Sofksy, Saggio sulla violenza, tr. it. di B. Trapani e L. Lamberti, Einaudi, Torino

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prima difficoltà che si incontra riguarda proprio la sua definizione, essendo un concetto caratterizzato da confini semantici fortemente indeterminati. Risalendo alle origini della tradizione culturale dell’Occidente, si può rilevare che il termine greco bia attraversa in realtà tutto l’arco della cultura letteraria greca, da Omero ai filosofi del IV secolo, dagli autori greco romani fino ai Bizantini, assumendo tuttavia connotazioni anche molto differenti fra loro. Se ci si attiene all’etimologia del termine, è però interessante notare che la parola violenza, di radici indoeuropee, riporta ad una relazione molto stretta con il concetto di vita e forza vitale. Il termine latino violentia, infatti, deriva da vis (che è la traduzione diretta del greco bia) e possiede la medesima radice del concetto di vita (bios in greco), ma viene utilizzata anche per indicare l’uso della forza fisica2. Il concetto di violenza risulta quindi etimologicamente legato a quello della forza, ma soprattutto è coessenziale alla

1998; Id., Il paradiso della crudeltà. Dodici saggi sul lato oscuro dell’uomo, Einaudi, Torino 2001; G. Aijmer, J. Abbink (a cura di), Meanings of Violence. A Cross Cultural Perspective, Berg, Oxford 2000; V. Das, A. Kleinman, M. Ramphele, P. Reynolds, (a cura di), Violence and Subjectivity, University of California Press, Berkeley 2000; B.E. Schmidt, I.W. Schröder, (a cura di), Anthropology of Violence and Conflict, Routledge, London 2001; E. Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, Il Mulino, Bologna 2002; M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, tr. it. di G. Foglia, Carocci, Roma 2003; N. Scheper-Hughes, P. Bourgois, (a cura di), Violence in War and Peace. An Anthology, Blackwell, Oxford 2004; M. Flores, Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli, Milano 2005; B. Waldenfels, Violenza come violazione, in M. Negro, F. Ciaramelli, G. Nicolosi, (a cura di), Figure della corporeità, Città Aperta, Troina (EN) 2009. Sul tema della violenza nel pensiero femminile è molto interessante il testo curato da R. Rius Gatell, Sobre la guerra y la violencia en el discurso femenino (19141989), Universitat de Barcelona, Barcelona 2006. 2 Cfr. G. Semerano, Le origini della cultura europea, vol. II, Dizionari etimologici. Dizionario della lingua latina e di voci moderne, L. Olschki, Firenze 1964, p. 615.

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vita stessa, dal momento che ne condivide la medesima radice3. Una seconda considerazione su cui vale la pena riflettere è che la violenza, fin dalle origini, appare sempre come compagna inseparabile del potere, quasi a sottolineare l’individuazione di un rapporto di continuità tra l’ambito della politica e quello della violenza4. L’idea della strettissima connessione fra questi due ambiti risale proprio alla tradizione della cultura occidentale, e si consolida a tal punto che si può sostenere che non vi sia una corrente teorico-filosofica che abbia avuto rilievo nella storia, da Eraclito a Platone e fino a Carl Schmitt, che non abbia riconosciuto il significativo intreccio fra violenza e potere5. In questo contesto risulta ancor più significativo il fatto che, nello sforzo di analizzare la violenza, Arendt si richiami a testimonianze e lacerti del mondo arcaico, nei quali ella coglie suggestioni importanti e spunti utili ad un più rigoroso approfondimento di questa tematica cruciale, e tuttavia, pur mostrando di riattraversare con attenzione e vigilanza critica una tradizione culturale costruita sul riconoscimento realistico dell’intrascendibilità della violenza nel tessuto politico, cerchi fino alla fine ogni risorsa storico-concettuale per disinnescare

3 Come ben documenta P. Rebughini, in La violenza, cit., pp. 12 ss. 4 Nella maggior parte delle raffigurazioni mitologiche antiche, Kratos e Bia, il potere e la violenza, compaiono insieme, fedeli paredri di Zeus, inseparabili fra loro, e sempre a fianco del Cronide. Per prevalere nella contesa con gli altri dei, Zeus ha dovuto prima di tutti impadronirsi di Kratos e Bia (le fonti antiche alle quali si può attingere per la delineazione delle figure mitologiche di Kratos e Bia – oltre a Esiodo, Eschilo e Platone, Protagora – sono lo Pseudo-Apollodoro, Bibliotheca, 1. 9; Pausania, Periegesi della Grecia, 2.4.7; Plutarco, Vita di Temistocle 21. 1; e lo Pseudo-Igino, Fabulae, 2.8). 5 Su tale questione cfr. J. P. Vernant (a cura di), Problèmes de la guerre en Grèce ancienne, Mouton, Paris-La Haye 1968; per una riflessione sul nesso guerra-politica cfr. U. Curi, Pensare la guerra, Dedalo, Bari 1999.

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l’intreccio, potenzialmente distruttivo, tra la violenza e il potere. Da questa esigenza di carattere politico-ermeneutico nasce un testo, intitolato Sulla Violenza6, in cui Hannah Arendt tenta dunque di offrire un’analisi del fenomeno della violenza7 cercando di individuarne la razionalità e l’origine: «chiunque abbia avuto occasione di riflettere sulla storia e sulla politica non può – sostiene la filosofa - non essere consapevole dell’enorme ruolo che la violenza ha sempre svolto negli affari umani, ed è a prima vista piuttosto sorprendente constatare come la violenza sia stata scelta così di rado per essere oggetto di particolare attenzione»8. Nel mondo contemporaneo, lo sviluppo tecnologico degli strumenti idonei alla violenza ha raggiunto un potere distruttivo tale da essere incompatibile con la vita stessa. Al tradizionale concetto di guerra concepita come conflitto armato comunque provvisto di un “significato” politico, con il XX secolo è subentrata la minaccia di una guerra totale, in quanto tale politicamente “muta”. Si è così imposta una nozione di pace

6 H. Arendt, Sulla violenza, cit. Per un approfondimento cfr. F. Collin, Le deux visage de la violence, “B@belonline/print. Voci di percorsi della differenza”, L’eredità di Hannh Arendt. A cento anni dalla nascita, a cura di F. Brezzi, M.T. Pansera, n. 3, 2007, pp. 37-46. 7 L’Autrice in particolare, ripercorrendo gli avvenimenti politici e culturali del XX secolo, caratterizzati prima dalla Seconda Guerra mondiale e dall’Olocausto, poi dalla Guerra Fredda e dalle lotte sociali, fa emergere una riflessione a tutt’oggi di grandissima attualità, che mira scandagliare le cause che soggiacciono al concetto di violenza in stretto rapporto con i temi del potere e della forza. Per un approfondimento cfr. O. Guaraldo, Comunità e vulnerabilità. Per una critica della violenza, Edizioni ETS, Pisa 2012, in particolare pp. 142-168. 8 H. Arendt, Sulla violenza, cit., p. 11: «naturalmente - aggiunge in nota l’Autrice – c’è una vasta letteratura sulla guerra, ma tratta dei mezzi della violenza, non della violenza in quanto tale».

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essenzialmente basata sulla deterrenza, la quale viene perciò a svolgere la funzione di unico decisivo arbitro per la regolazione delle relazioni internazionali. In questo quadro più generale, l’orizzonte della guerra appare intrascendibile, fino a che concetti come sovranità e indipendenza continueranno ad essere al centro della politica9. La violenza, secondo Arendt, come concetto politico, deve essere distinta dal potere, così come dalla forza e dall’autorità. Per esprimersi, la violenza necessita inevitabilmente di strumenti, essa stessa è uno strumento. In questo senso gli strumenti di guerra sono l’espressione massima della violenza, motivo per cui lo sviluppo tecnologico ha raffinato sensibilmente questo legame implicito tra violenza e strumenti militari. Fino ad oggi, sostiene l’Arendt, ci si è soffermati sul concetto di violenza come mezzo funzionale ad obiettivi economici e politici, ma mai come concetto dallo statuto autonomo sul piano del significato. Secondo la filosofa l’esperienza devastante della Seconda Guerra mondiale ha generato un capovolgimento complessivo degli ordini precedenti, destituendo di validità la celebre definizione proposta da Clausewitz10. Una guerra 9 Cfr. ivi, pp. 5-10. 10 Cfr. ivi, pp. 12 ss. Come è risaputo, secondo Clausewitz (cfr. C. von Clausewitz, Dalla guerra, tr. it. a cura di A. Bollati ed E. Canevari, Milano, Mondadori, 1997; l’ed. proposta da Mondadori riprende integralmente la prima edizione critica italiana, pubblicata a cura dello Stato Maggiore dell’Esercito a Roma nel 1942), la guerra va considerata come la reazione violenta di due volontà animate da un’intenzione ostile; essa è dunque un atto di violenza senza limiti dove ciascuno dei due avversari è pronto ad arrivare all’estremo pur di raggiungere i propri obiettivi. Tali obiettivi hanno a che fare sempre con il potere e la politica e, infatti, la teoria della violenza bellica di Clausewitz è famosa soprattutto per un aspetto, riassunto nella nota affermazione secondo la quale «La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque, solamente un atto politico,

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nucleare non può essere concepita come continuazione della politica, ma semplicemente come un suicidio universale. Alla Seconda Guerra mondiale, inoltre, non è affatto conseguita la pace, come dimensione riequilibrante delle forze, ma è subentrato un concetto di guerra ancora più subdola e paralizzante, come la guerra fredda, con una conseguente rincorsa agli armamenti che ha introdotto, grazie al progresso tecnologico, armi biologiche e chimiche dal potere devastante. Ci si trova inoltre di fronte ad un paradossale capovolgimento della relazione potere-violenza, con una conseguente ridefinizione dei rapporti tra piccole e grandi potenze. Se in precedenza era la quantità di violenza a disposizione di un paese a determinarne la forza, ora si assiste ad un rovesciamento degli equilibri, per cui la violenza non è più garanzia di potenza, né può divenire garanzia «contro la possibilità di distruzione da parte di una potenza notevolmente più debole e più piccola»11. Il problema della violenza coinvolge direttamente il concetto di potere. È altresì opinione consolidata da parte dei teorici della politica ritenere che la violenza non sia altro che la più macroscopica manifestazione del potere12. La politica non sarebbe altro, dunque, che una lotta per il conseguimento del potere, e il genere ultimo del potere consisterebbe appunto

ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi» (ivi, p. 38). 11 Ivi, p. 14. D’altra parte, aggiunge Arendt, «questo comporta una sinistra somiglianza con una delle più antiche intuizioni della scienza politica, vale a dire che la potenza non può essere misurata in termini di ricchezza, che un’abbondanza di ricchezza può intaccare la potenza, che le ricchezze sono particolarmente pericolose per la potenza e il benessere» (ibidem). 12 «Se diamo uno sguardo alle discussioni sul fenomeno del potere, troviamo ben presto che sussiste un generale consenso fra i teorici della politica da sinistra a destra sulla costatazione che la violenza non è altro che la più fragrante manifestazione del potere» (ivi, p. 37).

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nell’organizzazione della violenza legittima. La guerra stessa viene concepita come ciò che costituisce la vera essenza degli Stati, a tal punto che è lecito domandarsi se l’eliminazione della violenza possa comportare la fine dello stesso potere. La risposta, scrive Arendt, dipende da quello che si è soliti intendere per potere13. Abitualmente il potere viene delineato nelle varie forme di comando e di dominio. A questo schema interpretativo la Arendt contrappone in prima istanza l’esperienza della polis greca o della civitas romana come esempi di concezioni del potere e della legge fra loro del tutto differenti. Nella città-stato ateniese, ma anche nella civitas romana, il governo era fondato su «un concetto di potere e di legge la cui essenza non si basava sul rapporto comando/obbedienza e che non identificava il potere col dominio né con la legge del comando»14. Nella polis greca il potere non aveva niente a che vedere con il comando o la coercizione, ma rappresentava invece il prodotto del consenso e della negoziazione collettiva di individui liberi. Era il sostegno del popolo che conferiva il potere alle istituzioni, così come era il consenso che dava origine alle leggi. L’idea del potere era associata, secondo Arendt, alla possibilità di decidere e di costruire, e pertanto andava assolutamente distinta dall’idea distruttiva della violenza che, secondo la filosofa, resta muta, e dunque incapace di generare un discorso e quindi di costruire uno spazio di azione15.

13 Cfr. ivi, pp. 38 ss. 14 Ivi, pp. 42-43. 15 Per un approfondimento del concetto di violenza nei termini di Bia rimando al mio testo Donne e violenza. Filosofia e guerra nel pensiero del ‘900, cit., in cui sottolineo che bisogna risalire ai primi decenni del V° secolo a.C. per individuare la prima volta in cui la violenza appare personificata sulla scena di una delle più famose tragedie di Eschilo. Il prologo del Prometeo Incatenato descrive la vicenda di Prometeo incatenato alle rupi della Sci-

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Secondo Arendt, il potere delle democrazie si esprime prozia. Esecutori della punizione inferta al titano ribelle sono i due servitori di Zeus, Kratos (potere) e Bia (violenza). Nella tradizione mitologica arcaica, ma poi anche nei tragici del V sec., Bia è costantemente rappresentata come compagna inseparabile di Zeus, col quale condivide la casa e il cammino. Bia è esattamente il termine greco con cui si indica la violenza, ed è interessante notare che, con un espediente che resta unico nella tradizione drammaturgica dell’occidente, Bia è presente sulla scena dell’esordio del Prometeo Incatenato, ma non dice una sola parola: violenza resta insomma muta, ed è sufficiente la sua sola presenza perché la volontà di Zeus si realizzi. Bia appare fin dall’antichità, dunque, come una forza muta, priva di parola, eppure potentissima, capace di far eseguire gli ordini di Zeus grazie alla sua sola presenza. La violenza è presente, agisce, coopera alla realizzazione della volontà di Zeus, restando in silenzio, non si serve dunque del discorso, non propone argomentazioni e non ha bisogno della dialettica (cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, 42, in Prometeo incatenato. I persiani. I sette contro Tebe. Le supplici, intr. di U. Albini, tr. a cura di E. Savino, Garzanti, Milano 1992; cfr. F. D’Agostino, Bia, Giuffrè Editore, Milano 1983). Nel definire il concetto di potere, Arendt dimostra di riferirsi alla filosofia greca secondo un’impostazione aristotelica piuttosto che platonica. Come bene sottolinea W. Tommasi (cfr. Ead., I filosofi antichi nel pensiero di Simone Weil e Hannah Arendt, in AA. VV., I filosofi antichi nel pensiero del Novecento, a cura del Ministero della Pubblica Istruzione, Tipo-Litografia Artigiana Dasi & Gardenghi, Ferrara 1997, pp. 41-56), le lezioni dedicate da Heidegger alla filosofia pratica di Aristotele ebbero modo di influenzare l’inclinazione di alcuni allievi, fra cui Hannah Arendt, alla filosofia politica riletta attraverso categorie aristoteliche: «Nel corso tenuto nel semestre invernale del 1924/’25, al quale la Arendt assiste, Heidegger ricava dall’Etica nicomachea gli elementi fondamentali di una fenomenologia dell’esistenza umana: egli si basa sulla distinzione aristotelica fra poiesis (disposizione «ragionata» a produrre opere), praxis (attività che hanno il loro fine in se stesse) e theoria (la forma suprema di vita, aperta alla pura contemplazione dell’ente). In Essere e tempo, tali dimensioni, in particolare quella della praxis, la quale diventa pervasiva rispetto alle altre modalità, vengono, secondo Franco Volpi, “ontologizzate»”: la prassi diventa “la radice ontologica ultima dell’esistenza, da cui si dipartono le possibilità dei singoli atti teoretici, pratici e poietici”» (cfr. ibidem). Questa influenza indiretta di Aristotele, tramite Heidegger, pesa notevolmente sul pensiero della Arendt: «al contrario di quella di Aristotele, la filosofia di Platone è generalmente svalutata dall’au-

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prio attraverso il libero incontro nello spazio del discorso; mentre la violenza, considerata l’opposto del potere, è per definizione muta, in quanto non ha niente da dire perché è basata sulla semplice distruzione. Di conseguenza è proprio dove il discorso perde terreno, dove non è più possibile incontrarsi liberamente attraverso il dialogo, che la violenza finisce con prevalere, mettendo “a tacere le sue vittime e riducendole al silenzio”, come accade in tutti i regimi totalitari o nelle situazioni in cui il trauma estremo causato dalla violenza costringe per sempre al mutismo16. «L’estrema forma di potere è Tutti contro Uno, l’estrema forma di violenza è Uno contro Tutti»17. Paradossalmente è possibile affermare che la tirannide è senza dubbio la più violenta ma anche la meno potente delle forme di governo. «Credo che sia piuttosto triste, riflettendo sullo stato attuale della scienza politica, constatare che la nostra terminologia non fa distinzione tra certe parole chiave come “potere”, “potenza”, “forza”, “autorità” e, infine, “violenza”, ciascuna delle quali si riferisce a fenomeni diversi e distinti e difficilmente esisterebbe senza di essi»18. La riduzione delle parole allo stesso significato, o peggio ancora l’ignorarne la differenza semantica, è segno non solo di cecità e di confusione, ma soprattutto di mancanza di

trice per l’inclinazione autoritaria in politica che essa lascia intravedere. La filosofia platonica è accusata dalla Arendt di aver sostituito all’agire politico come agire di concerto (intesa pacifica), in relazione con gli altri, l’azione politica intesa come governo e comando; con ciò, “scomparve dalla filosofia politica la più elementare e autentica comprensione della libertà umana”, e si impose una teoria del dominio, che prevede la distinzione fra chi comanda o governa e chi ubbidisce o esegue» (ibidem). 16 Cfr. P. Rebughini, La violenza, cit., p. 78. 17 H. Arendt, Sulla violenza, cit., p. 44. 18 Ivi, p. 46.

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«prospettiva storica» e di capacità di giudizio19. Fino a che, infatti, potere, potenza, forza, autorità e violenza, indicheranno soltanto i mezzi adoperati in funzione del dominio dell’uomo sull’uomo, fino a che si continuerà a ridurre gli affari pubblici all’esercizio di questo dominio, non si arriverà mai a comprendere veramente l’autentica diversità di questi termini e il loro valore nella storia politica. Di qui lo sforzo da parte della Arendt di cercare, per quanto possibile, di ridefinire meglio i concetti in questione. Il Potere, secondo l’Autrice, corrisponde alla capacità umana non solo di agire, ma di agire in concerto, ovvero secondo un’intesa comune pacifica. Il potere infatti non è proprietà di un singolo individuo, ma appartiene ad un gruppo fintantoché questo rimane unito. Può anche essere eletta la figura di un singolo rappresentante, ma resta il gruppo a conferire il potere ad un soggetto e ai rispettivi suoi rappresentanti. Se il gruppo scompare, anche il singolo potere svanisce20. La Potenza si riferisce in modo inequivocabile ad un’entità individuale; è una proprietà che appartiene esclusivamente ad un oggetto o ad una persona, in modo indipendente e indistinta rispetto ad un gruppo. La potenza designa dunque una prerogativa precipua al singolare rispetto ad altre cose o persone senza tuttavia dipendere da esse21. L’ostilità che nasce da parte dei più nei confronti del singolo è stata attribuita, da Platone a Nietzsche – sostiene la Arendt – al risentimento, e all’invidia del debole nei confronti del più forte. L’origine di tale ostilità è tuttavia da ricercare nella naturale propensione del gruppo

19 Oltre che «di grammatica logica», insiste Arendt: ibidem. 20 Cfr. ivi, p. 47. 21 Cfr. Strummiello, Il logos violato. La violenza nella filosofia, cit., p. 344.

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ad affermare il proprio potere a discapito dell’indipendenza del singolo22. La Forza viene abitualmente adoperata come sinonimo di violenza, mentre invece sta ad indicare piuttosto l’energia sprigionata dai movimenti fisici e sociali. Il termine dovrebbe essere impiegato esclusivamente per esprimere le “forze della natura”, o le “forze delle circostanze”23. L’Autorità è invece un termite spesso usato a sproposito perché molto difficile da afferrare. Si può riferire alle persone, tanto quanto può risiedere in cariche o in funzioni gerarchiche. La caratteristica specifica è quella di basarsi sul riconoscimento indiscusso da parte di coloro che ne osservano l’obbedienza. Un riconoscimento che non necessita né di coercizione né di persuasione, ma unicamente del rispetto. Non a caso ciò che minaccia l’autorità sono il disprezzo e l’irrisione24. Infine la Violenza: essa si distingue per il suo carattere strumentale. Può essere paragonata in un certo senso alla forza individuale, dal momento che lo strumento della violenza è finalizzato a potenziare e quindi prendere il posto della forza naturale. La violenza ha qualcosa in comune quindi con la forza individuale, ma certamente non ha niente in comune con il potere, con cui si trova anzi, già dal punto di vista quantitativo, in rapporto inversamente proporzionale25. Queste distinzioni, ovviamente, sottolinea l’Autrice, non danno origine a categorie assiomatiche e rigidamente distinte, ma possono invece compenetrarsi e condizionarsi l’una con l’altra. Tuttavia, anche se si è spesso portati a mettere sullo stesso 22 Cfr. H. Arendt, Sulla violenza, cit., p. 47-48. 23 Cfr. ivi, p. 48. 24 Cfr. ivi, pp. 48-49. 25 Cfr. ivi, p. 49.

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piano la violenza con il potere, come se fossero l’una il prerequisito dell’altro, in maniera particolare proprio questi due termini restano, e devono restare, costitutivamente antitetici. E se davvero di rapporto si deve parlare, allora resta innegabile il ruolo di indiscutibile superiorità e preminenza del potere rispetto alla violenza. Un governo che si basi esclusivamente sui mezzi della violenza non ha alcuna possibilità di permanenza. Anche il dittatore più totalitario e violento ha bisogno di un consenso e quindi di un potere riconosciuto per poter sussistere26. È l’organizzazione del potere, e non i mezzi della coercizione in quanto tale, a rendere inattaccabile un governo. Se dunque «il potere fa senz’altro parte dell’essenza stessa di tutti i governi», la violenza possiede una natura meramente strumentale e, «come tutti i mezzi, ha sempre bisogno di una guida e di una giustificazione per giungere al fine che persegue. E ciò che ha bisogno di una giustificazione da parte di qualcos’altro non può essere la sostanza di niente»27. Il potere è definito dalla Arendt come «un fine in sé», che pur perseguendo degli obiettivi politici, resta tuttavia estraneo al rapporto mezzi-fine28. Mentre la giustificazione implica il rimando ad un fine esterno

26 Cfr. ivi, pp. 49-53. E su tale questione aggiunge la Arendt: «soltanto la produzione di soldati robot che […] eliminerebbe completamente il fattore umano e, probabilmente, permetterebbe a un solo uomo schiacciando un bottone di annientare chiunque voglia, potrebbe cambiare questa fondamentale superiorità del potere sulla violenza. Perfino la dominazione più dispotica che conosciamo, il dominio del padrone sugli schiavi, che erano sempre numericamente superiori a lui, non si basava su superiori mezzi di coercizione in quanto tali, ma su una superiore organizzazione del potere, cioè sulla solidarietà organizzata dei padroni. Gli uomini soli senza appoggio di altri non hanno mai potere a sufficienza per usare la violenza con successo» (ivi, p. 54). 27 Ivi, pp. 54-55. 28 Cfr. ivi, p. 56.

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proiettato nel futuro, la legittimazione è un appello al passato, e cioè rivolto al consenso originario che ha dato origine allo stesso potere. La violenza può arrivare ad essere giustifica, ma non potrà mai essere legittimata29. Quand’anche il potere e la violenza venissero connessi l’uno all’altro, resterebbe comunque sempre il potere l’elemento primario e predominante. L’equazione violenza-potere si basa sul fatto che «il governo è inteso come dominazione dell’uomo sull’uomo per mezzo della violenza»30. Tuttavia mentre gli strumenti della violenza possono arrivare a distruggere ed annientare un potere, dalla violenza fine a se stessa non potrà mai nascere il potere31. Sostituendo «la violenza al potere si può ottenere la vittoria, ma il prezzo è molto alto; in quanto viene pagato non solo dal vinto, ma anche dal vincitore in termini di potere proprio»32. Se la violenza talvolta prevale è soltanto perché si è logorato e consumato il consenso a sostegno del potere, permettendo così una sorta di sovvertimento tra mezzi e fini, ovvero tra violenza e potere, con esiti esiziali per lo stesso potere. Quando la violenza non è più sostenuta e controllata dal potere, si attua un rovesciamento tale per cui i mezzi di distruzione determinano il fine, con il risultato che il fine distruggerà lo stesso potere33.

29 Cfr. ibidem. 30 Ibidem. 31 Cfr. ivi, p. 57: «La violenza può sempre distruggere il potere; dalla canna del fucile nasce l’ordine più efficace, che ha come risultati l’obbedienza più immediata e perfetta. Quello che non può uscire dalla canna di un fucile è il potere». 32 Ivi, p. 58. 33 Cfr. ivi, p. 59; inoltre Arendt ribadisce: «è stato spesso detto che l’impotenza alimenta la violenza, e da un punto di vista psicologico è piuttosto vero

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In conclusione per la Arendt non solo il potere e la violenza non rappresentano lo stesso concetto, ma sono l’uno l’opposto dell’altro: «dove l’una governa in modo assoluto, l’altro è assente»34. La violenza subentra quando il potere viene messo in crisi, ma lasciata a se stessa la violenza genera la dissoluzione dello stesso potere. Non solo la violenza distrugge il potere, ma è anche assolutamente incapace di crearlo. Emerge, a questo riguardo, una critica molto diretta nei confronti di Hegel e dello stesso Marx35. Non è possibile condividere l’assunto secondo il quale il male non è altro che la temporanea manifestazione di un bene ancora nascosto36. Il negativo non può essere recuperato entro gli schemi di un sistema dialettico dove tutto viene ricomposto in una superiore unità. Nessuna “sintesi” razionale potrà mai cancellare la tragica realtà del negativo, concepito come male o dolore, che affonda le sue radici non nel pensiero, ma nella realtà stessa. Il negativo, nel suo statuto ontologico, resta costitutivamente distinto e opposto rispetto al bene, e non può essere riassunto nel positivo. La grande fiducia nel «potere dialettico del negativo», secondo cui le contraddizioni e gli opposti non paralizzano, bensì promuovono lo sviluppo, si basa su un inveterato pregiudizio che consiste nel ritenere il male come «un modus privativo del bene», e il bene come possibile conseguenza del male: «queste annose convinzioni – scrive la Arendt – sono diventate pericolose»37. Giustificare la violenza in quanto ele[…]. Politicamente parlando, il punto è che la perdita di potere diventa una tentazione di sostituire la violenza con il potere». 34 Ivi, p. 61. 35 Per approfondire questo aspetto cfr. S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Bruno Mondadori, Milano 2006, pp. 171-199. 36 Cfr. H. Arendt, Sulla violenza, cit., p. 61. 37 Ibidem. Hannah Arendt (in Ead., Responsibility and Judgment, Schocken Books, New York 2003; tr. it. di D. Tarizzo, Responsabilità e giudizio,

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mento indispensabile per la ricostituzione di un ordinamento politico positivo, è un ragionamento oltremodo deleterio. La violenza ha una sua ragion d’essere autonoma e non corrisponde a quel negativo che preannuncia l’origine di un disegno superiore. Con ciò non si vuol sostenere che la violenza sia uguale al male, ma semplicemente «sottolineare il fatto che la violenza non può essere derivata dal suo opposto, che è il potere, e che per capirla per quello che è dobbiamo esaminarne le radici e la natura»38. Tutto ciò non implica, secondo Arendt, che la violenza sia irrazionale. Il fatto che un uomo reagisca emotivamente attraverso la violenza, non vuol dire che la sua reazione sia puramente di carattere emozionale. Oltretutto, curare l’uomo dalle emozioni vorrebbe dire disumanizzarlo39. L’assenza di emozioni non genera né promuove la razionalità, e molto spesso le emozioni diventano la risposta più razionale e opportuna di fronte a situazioni insopportabili e incomprensibili. La violenza è invece generalmente la logica e razionale conseguenza di una posizione ideologica. Essendo strumentale di natura, la violenza è razionale nella misura in cui consegue il fine atto a giustificarla. La violenza può quindi essere usata per realizzare uno scopo, sulla base del quale viene valorizzata40. Il problema è che il «pericolo della violenza, anche se essa si pone consapevolmente in un quadro non estremistico di obiettivi a breve termine, sarà sempre quello che i mezzi sopraffacciano il fine. Se gli obiettivi non sono raggiunti rapidamente, il risultato a cura di J. Kohn, Einaudi, Torino 2003, p. 109), scrive che per Hegel «il male è il negativo, vale a dire la potente forza che muove la dialettica del divenire, e il malfattore, lungi dall’essere un’erbaccia da estirpare, è semmai un potente fertilizzante». 38 Ivi, p. 62. 39 Cfr. ivi, p. 68. 40 Cfr. ivi, p. 86.

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non sarà la semplice sconfitta ma l’introduzione della pratica della violenza in tutto l’insieme della politica»41. Ad ogni buon conto, la pratica della violenza, come ogni altra azione, può cambiare il mondo, ma il cambiamento più probabile è quello in direzione di un mondo più violento42. Riprendendo un passo di Paul Valéry, Arendt afferma che tutto ciò che l’uomo sa, ovvero tutto quello che è nelle sue possibilità, ha finito per contrapporsi a quello che veramente è43. Probabilmente coloro che detengono il potere, nel momento in cui se lo sentono sfuggire di mano, trovano troppo difficile resistere alla tentazione di sostituirlo con la violenza44. La violenza appare quindi la più facile alternativa al potere, e questo vale sia per chi lo detiene, sia per chi si oppone ad esso. In entrambi i casi, la violenza si configura come la soluzione più diretta all’indebolimento del consenso che sorregge il potere. Anche se, conclude la Arendt, la violenza possiede esclusivamente un carattere strumentale, e l’unico esito che consegue ad essa è la drammatizzazione delle tensioni e delle ingiustizie45. Arendt ribadisce dunque un approccio apertamente polemico nei confronti dei termini nei quali la teoria politica contemporanea pone la questione della violenza. A questa insoddisfazione la filosofa tedesca oppone un modo di trattare l’argomento senza alcuna concessione all’apparente ovvietà del senso comune, e senza alcun conformismo di carattere ideologico. Si spiega così, ad esempio, la durissima polemica che

41 Ivi, p. 87. 42 Cfr. ivi, p. 88. 43 Cfr. ivi, p. 95. 44 Cfr. ivi, p. 96. 45 Cfr. Strummiello, Il logos violato. La violenza nella filosofia, cit., p. 349.

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ella sviluppa nei confronti di autori, come Hegel e Marx, o come Sorel46 e Fanon47, o più esattamente il Fanon mediato dall’interpretazione proposta da Sartre48. Ciò che ad Arendt appare inaccettabile delle posizioni espresse da questi “predicatori” è la tacita condivisione di un approccio ingenuamente ottimistico al problema della violenza, indebitamente trattata come una parentesi di breve durata, attraversando la quale sarà poi possibile un superamento definitivo e irreversibile della violenza stessa. In realtà, come i fatti storici dimostrano in maniera inequivocabile, l’esito della violenza, breve o prolungata che sia, non potrà che essere altrettanta o maggiore violenza, destinata ad oggettivarsi in un sistema intrinsecamente violento. Alle fuorvianti “scorciatoie” proposte da Sorel e da Sartre, in nome di una malintesa e comunque aberrante adesione a ciò che avrebbero sostenuto i padri del socialismo scientifico49, Arendt oppone un lessico politico scevro da ogni

46 Per un approfondimento del concetto soreliano di violenza cfr. il testo, citato da Arendt, G. Sorel, Reflections on Violence, Collier Books, New York 1961. 47 Arendt richiama esplicitamente la tr. inglese del volume di F. Fanon, The Wretched of the Earth, con una Introduzione di J.-P. Sartre e H.K. Bhabha, Grove Press, New York, 1968. 48 «Sartre nella sua prefazione ai Dannati della terra di Fanon si spinge decisamente più in là nella sua esaltazione della violenza che non Sorel nel suo famoso Riflessioni sulla violenza – più in là dello stesso Fanon, del quale vuole portare a conclusione le argomentazioni» (H. Arendt, Sulla violenza, cit., p. 16). 49 Commentando alcuni brani dei testi di Fanon e di Sartre, Arendt rileva che «è piuttosto sconcertante per chiunque abbia mai letto Marx o Engels. Chi potrebbe mai definire l’ideologia marxista quella che ha riposto la sua fede negli “oziosi senza classe”, o che crede che “la rivolta troverà nel sottoproletariato la sua punta di diamante urbana” e che ritiene che “i gangster illumineranno la strada al popolo”? [citazioni dal libro di Fanon]» (Sulla violenza, cit., p. 24).

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ambiguità, ed estremamente rigoroso nella formulazione delle differenze50. La Arendt si rifiuta, sostanzialmente, di riconoscere la legittimità di qualsiasi forma di violenza strutturale. Poiché la relazione tra violenza e potere è non solo asimmetrica, ma addirittura inversamente proporzionale, e perciò basata su un’esclusione reciproca, qualsiasi giustificazione della violenza costituisce il vero limite politico di ogni potere. Tali essenziali distinzioni, che rimettono in ordine concetti che nella realtà degli Stati sono mescolati in maniera arbitraria, si basano su un originario concetto di politica non riferito al presupposto ebraico-cristiano dell’obbedienza alla legge, bensì a quello classico di isonomia, equilibrio nella natura dei rapporti costituzionali, e alla civitas romana, che non identificava il potere col dominio, né la legge col comando51. Arendt riporta dunque al centro dell’attenzione il tema della violenza, a testimonianza della crucialità e della persistenza con la quale questo problema si ripropone soprattutto lungo tutto l’arco del secolo che ha conosciuto le più immani mani50 La violenza, «fenomenologicamente, è vicina alla forza individuale, dato che gli strumenti di violenza, come tutti gli altri strumenti, sono creati e usati allo scopo di moltiplicare la forza naturale» (ivi, p. 49). La peculiarità della violenza – comune, peraltro, a quella di altri “mezzi”, è di «aver sempre bisogno di una guida e di una giustificazione per giungere al fine che persegue» (ivi, p. 55). L’argomentazione della Arendt prosegue poi nei seguenti termini: «Ciò che ha bisogno di una giustificazione da parte di qualcos’altro non può essere la sostanza di niente. Il fine della guerra – fine inteso nel suo duplice significato – è la pace o la vittoria; ma alla domanda: e quale è il fine della pace?, non c’è risposta. La pace è un assoluto, anche se nella storia scritta i periodi di guerra sono quasi sempre durati di più dei periodi di pace» (ibidem). 51 Cfr. P. Berardi Vernaglione, Recensione a H. Arendt, Sulla violenza, cit., reperibile al seguente link: http://www.recensionifilosofiche.it/swirt/mir/ arendt.htm

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festazioni di violenza della storia dell’umanità. Non importa, o comunque non è di per sé elemento decisivo, se l’interpretazione specifica del ruolo e della funzione della violenza sfoci in posizioni per molti aspetti radicalmente diverse l’una dall’altra. Ciò che più conta è constatare fino a che punto, nell’arco di un secolo funestato da due grandi guerre mondiali e da ancor più sanguinosi fenomeni di stragi collettive e di genocidi di massa, il problema della violenza si imponga come tema filosofico ineludibile. L’approccio arendtiano a questo problema fondamentale si segnala per alcuni tratti di indiscutibile interesse, e per una connotazione fortemente innovativa, riscontrabile peraltro anche in altri aspetti del suo pensiero. Da un lato, è viva la consapevolezza del legame intrinseco e inscindibile che connette la violenza al potere, lungo una linea di riflessione che rimonta fino alle origini della filosofia greca arcaica. Dall’altro lato, l’autrice si dimostra attenta a cogliere le rilevanti novità con le quali la violenza si presenta in una fase che segna una netta discontinuità storica, rispetto alla morfologia con la quale si è abitualmente ripresentata la violenza nella storia del genere umano. Colpisce soprattutto la capacità di combinare insieme una visione crudamente realistica, pienamente disincantata, del legame intercorrente fra violenza e potere, con una indomita e risorgente tensione morale, volta a individuare le modalità che consentano di procedere oltre ogni passiva accettazione dell’inevitabilità della violenza. Emerge inoltre una costante che segna l’intero sviluppo della riflessione arendtiana, e che ne costituisce in una certa misura il principio di individuazione, vale a dire il significato filosofico generale, non riduttivamente circoscrivibile a parentesi storica, dell’ideologia e del sistema di potere nazista. Come risulterà confermato da altri scritti dell’autrice, sui quali si ritornerà più ampiamente fra breve, il regime instaurato da Hitler, e in particolare la realizzazione dei campi di sterminio, sono interpretati non

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come mere e limitate “anomalie”, o come fortuite manifestazioni di irrazionalità, ma piuttosto come eventi che pongono radicalmente in questione le categorie classiche del pensiero politico e della filosofia morale, fino al punto da porre implicitamente la domanda sulla possibilità stessa di filosofare dopo Auschwitz. L’interrogazione assume con ciò una formulazione davvero radicale, nel senso di risalire alle radici stesse della skepsis filosofica. Come spiegare – ammesso che sia davvero possibile – un fenomeno quale è il nazismo? Quali nuove categorie sono necessarie per interpretarne la specifica identità? Quale inedito apparato concettuale è necessario mettere in campo per comprendere ciò che sembra impossibile ricondurre ad un quadro razionale, come è stato il nazismo? E – soprattutto – quale accezione di “male” può essere impiegata per descrivere gli orrori della Shoah?

2.2 Marionette con volti umani Possiamo considerarci «contemporanei solo fin dove arriva la nostra comprensione. Se vogliamo sentirci a casa in questa terra, anche al prezzo di sentirci a casa in questo secolo, dobbiamo cercare di partecipare al dialogo interminabile con l’essenza del totalitarismo»52. Con queste parole Hannah Arendt suggella la sua urgenza, divenuta poi consuetudine di un cammino speculativo che l’ha vita impegnata per tutta la vita, di analizzare le radici e i meccanismi di funzionamento del regime totalitario, considerato come una creazione del tutto nuo-

52 H. Arendt, Comprensione e politica (le difficoltà del comprendere), in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit., pp. 107-126.

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va e mostruosa del nostro tempo, non assimilabile o riducibile a nessuno dei tradizionali regimi tirannici o dittatoriali53. Quando, a partire dal 1943, cominciarono a giungere negli Stati Uniti le prime notizie relative all’Olocausto, la filosofa tedesca venne presa da un vero e proprio shock emotivo54. Nel suo testo Le origini del totalitarismo55 ella si propone quindi di rispondere alla sua esigenza personale di comprendere una realtà così spaventosa. Nella prefazione alla prima edizione del libro si può nitidamente cogliere uno stato d’animo profondamente turbato: «questo libro è stato scritto su uno sfondo di ottimismo e disperazione sconsiderati. […]. È stato scritto

53 Cfr. A. Martinelli, Introduzione a H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. VII-XXV. 54 A tal riguardo Laura Boella afferma: «Il suo pensiero nasce dall’esperienza personale di una tragedia, dall’angoscia e dalla disperazione, da sentimenti luttuosi che tuttavia non chiedono spiegazioni di ciò che è accaduto, né esibiscono impotenti rivolte, ma esigono senso di realtà, ossia trasformazione di ciò che è muta ossessione e solitaria indignazione in fatto veramente accaduto» (Ead., Hannah Arendt. Agire politicamente, pensare politicamente, cit., p. 101). 55 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit.: il testo venne scritto negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra. Il manoscritto originale venne terminato nell’autunno del 1949, e pubblicato nel 1951. La struttura dell’opera è complessa: la prima parte è dedicata all’antisemitismo, considerato elemento centrale dell’ideologia nazista; la seconda parte si concentra sull’età dell’imperialismo, dove l’autrice riscontra l’insorgere di influenze importanti per il processo che ha dato origine al totalitarismo; la terza proporne una riflessione sulla società di massa, che costituisce la base del radicamento dei movimenti totalitari (cfr. A. Martinelli, Introduzione, cit., p. XIII-XV). A tal riguardo Arendt afferma: «non ho scritto una storia del totalitarismo, ma un’analisi in una prospettiva storica; non ho scritto una storia dell’antisemitismo o dell’imperialismo, ma ho analizzato l’elemento dell’odio antiebraico e l’elemento dell’espansione nella misura in cui questi elementi erano ancora ben visibili e avevano svolto un ruolo decisivo nel fenomeno totalitario» (H. Arendt, Una replica a Eric Voegelin, in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit., p. 195).

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nella convinzione che sia possibile scoprire il segreto meccanismo in virtù del quale tutti gli elementi tradizionali del nostro mondo spirituale e politico si sono dissolti in un conglomerato, in cui ogni cosa sembra aver perso il suo valore specifico ed è diventata irriconoscibile per la comprensione umana»56. La realtà odierna di cui siamo spettatori ha usurpato la dignità di ogni tradizione della storia occidentale, pertanto tutti gli sforzi protesi all’evasione «dall’atmosfera sinistra del presente nella nostalgia di un passato ancora intatto, o nell’oblio anticipato di un migliore futuro, sono vani»57. La tesi centrale è che il totalitarismo è un sistema politico radicalmente nuovo ed essenzialmente distante dalle forme di oppressione che si sono verificate nella storia, come per esempio il dispotismo, la tirannide, e la dittatura: «il regime totalitario ci mette di fronte a un tipo di governo completamente diverso»58. Esso nasce dal tramonto della società classista, che

56 H. Arendt, Prefazione alla prima edizione, in Le origini del totalitarismo, cit., p. LXXX. Si veda quanto H. Arendt afferma anche in Ead., Was bleibt? Es bleibt die Muttersprache, intervista con G. Gaus, in G. Gaus, Zur Person: Porträts in Frage und Antwort, Deutscher Taschenbuch Verlag, München 1965; tr. it. di P. Costa, “Che cosa resta? Resta la lingua.” Una conversazione con Günter Gaus, in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit., p. 14. Cfr. anche H. Arendt, Understanding and Politics (The Difficulties in Understanding), in «Partisan Review», XX, n. 4, 1954; tr. it. di P. Costa, Comprensione e politica (le difficoltà del comprendere), in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit., pp. 113-114. 57 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. LXXXII. Non è più possibile, insiste Arendt, considerare ciò che andava bene nel passato come un semplice retaggio, oppure scartare il cattivo come un peso morto che il tempo farà dimenticare (cfr. ibidem). 58 Ivi, p. 632. È noto che Hannah Arendt voleva essere ricordata come teorica della politica. Le sue indagini sono riuscite ad inquadrare i grandi movimenti politici, culturali ed economici del XX secolo, anticipandone le problematiche fondamentali. A lei si deve certamente la prima riflessione

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ha lasciato il posto ad una società caratterizzata da un indifferenziato raggrupparsi di individui intercambiabili, verso i quali operano ristretti gruppi di élites borghesi, portatori delle tendenze totalitarie59. Là dove ha conquistato il potere, il regime totalitario ha creato nuove categorie giuridiche e morali che hanno distrutto quelle tradizionali; in secondo luogo, esso ha sostituito i partiti con un movimento di massa e costituito i suoi pilastri nell’apparato statale, nella polizia segreta e nei campi di concentramento, nei quali si rinchiudono e si annientano i non allineanti al potere, considerati per questo nemici. Attraverso l’imposizione di un’ideologia, quale può essere il razzismo o il nazionalsocialismo, associata ad un sistema di subordinazione delle persone tramite lo strumento del terrore, il totalitarismo ha perseguito una politica estera apertamente finalizzata al dominio60. Come forma del tutto inedita di governo, il totalitarismo ha interiorizzato due elementi caratteristici della filosofia moderna: da un lato il delirio di onnipotenza soggettivistico, secondo cui sul fenomeno del totalitarismo, concepito come nuova realtà politica, e una serie di studi volti alla comprensione delle istituzioni e degli ambiti nei quali l’uomo è chiamato al confronto politico e morale nel campo delle relazioni sociali. In verità, la prima pensatrice a soffermarsi sul fenomeno totalitarismo è stata Simone Weil che, a differenza di quanto espresso da Hannah Arendt, ritiene che il totalitarismo sia una forma di abiezione del potere in continuità con i vecchi regimi autoritari del passato, che hanno avuto come caratteristica l’uso smodato e improprio della forza. Cfr. in particolare il saggio di S. Weil, Riflessioni sulle origini dello hitlerismo, in Sulla Germania totalitaria, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1999, pp. 199-264 ss. Cfr. anche il mio testo L. Sanò, Donne e violenza: filosofia e guerra nel pensiero del ‘900, cit., pp. 105 ss. 59 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 443. 60 Cfr. ivi, p. 630. Per un approfondimento cfr. S. Forti, Il totalitarismo, Ed. Laterza, Roma-Bari, 2001; E. Young-Bruehl, Le origini del totalitarismo e il XXI secolo, in Ead., Hannah Arendt: perché ci riguarda, tr. it. di M. Marchetti, Einaudi, Torino 2009, pp. 34-74.

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tutto può divenire possibile; dall’altro, il principio dell’evoluzionismo dialettico, che considera ogni cosa come un semplice stadio per un ulteriore sviluppo61. Nelle pagine dedicate al ruolo svolto dalle nuove ideologie dei sistemi totalitari62, Arendt spiega come le idee incarnate nel regime abbiano determinato una visione della storia protesa al conseguimento di un cammino che si presenta come inevitabile. Il sistema totalitario, infatti, impone il suo potere, non tanto proponendosi come un regime privo di leggi o come un governo arbitrario, bensì attuando un programmatico rifiuto del diritto positivo, allo scopo di presentarsi come interprete unico e ufficiale di quelle leggi «della natura o della storia,

61 Cfr. S. Forti, Il totalitarismo, cit., pp. 86-87. Cfr. Ead., Le figure del male, in H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. XXXVII e XXXIX; S. Forti, Introduzione, in Ead. (a cura di) La filosofia di fronte all’estremo, cit., p. XVI; Ead., Banalità del male, in P. P. Portinaro (a cura di), I concetti del male, Einaudi, Torino 2002, pp. 30-51. 62 Cfr. Ideologia e terrore, in H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 630-655: questo capitolo inizialmente figurava come saggio a sé, pubblicato sulla «Review of Politics», XV (1953), n. 3; solo in seguito è stato posto a conclusione dell’edizione del 1958 de Le origini del totalitarismo. Si ritiene che in questa sezione la Arendt delinei una sorta di «metafisica totalitaria» sull’organizzazione del totalitarismo (cfr. a riguardo: S. Forti, Le figure del male, in H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. XXXVI; S. Forti, Il totalitarismo, cit., p. 86; Ead., Introduzione, in Ead. (a cura di) La filosofia di fronte all’estremo, Totalitarismo e riflessione filosofica, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2004, p. XV). Il fenomeno totalitario è stato trattato da H. Arendt anche in altri suoi saggi contenuti nel testo Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit.: in particolare Colpa organizzata e responsabilità universale (gennaio 1945), pp. 38-48 (ed. or. Organised Guilt and Universal Responsability, in «Jewish Frontier», gennaio 1945, pp. 19-23); Comprensione e politica (le difficoltà del comprendere), pp. 107-126; La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione, pp. 127-159; Religione e politica, pp. 160-183 (ed. or. Religion and Politics, in «Confluence», II settembre 1953, 3, pp. 105-126).

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da cui si sono sempre fatte derivare tutte le leggi positive»63. Motivo per cui il dominio totalitario si vanta «di aver trovato il modo per instaurare l’impero della giustizia sulla terra, qualcosa che la legalità del diritto positivo non è mai riuscita ad ottenere»64. Di qui dunque la pretesa, da parte del totalitarismo, di attuare la legge della storia e della natura, senza però tradurla in un principio riconosciuto di giustizia o ingiustizia da applicare al singolo individuo, perché quello che conta è riferirsi direttamente alla dimensione politica dell’umanità. Per questa ragione il suo intento non è quello di sostituire con una rivoluzione un corpo di leggi con un altro, e nemmeno quello di instaurare un proprio consensus iuris: «la sua noncuranza per tutte le leggi positive, persino per le proprie, implica la convinzione di poter fare a meno di qualsiasi consensus iuris»65. Questo perché l’adempimento della legge viene libe63 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 632. In un altro testo l’autrice scrive: «Il regime totalitario è “illegale”, in quanto sfida il diritto positivo, ma non è arbitrario, in quanto obbedisce a una logica stringente ed esegue con implacabile necessità le leggi della Storia o della Natura. Lungi dal reputarsi “illegale”, la mostruosa, eppure apparentemente irresistibile pretesa del regime totalitario è di attingere direttamente alle fonti dell’autorità da cui tutte le leggi positive […] ricevono la loro legittimazione ultima» (La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione, in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit., p. 139). Per un approfondimento cfr. P. Colonnello, Hannah Arendt e l’analisi del totalitarismo, in G. Pagano (a cura di), Il liberalismo come pratica della libertà, Città del Sole, Napoli 1997, pp. 131-154; M. Abensour, Contro un fraintendimento del totalitarismo, in Aa.Vv, Hannah Arendt, cit., pp. 16-44. In questi testi si mette in risalto il senso di disprezzo che la Arendt ravvisa nel fenomeno totalitario verso il diritto positivo. 64 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 632. 65 Ivi, p. 633: «Se è vero che i paesi totalitari hanno perso il contatto con il mondo civile commettendo crimini mostruosi, è altresì vero che questa criminalità non è stata dovuta semplicemente ad aggressività, spietatezza, bellicosità e perfidia, bensì ad una deliberata rottura di quel consensus iuris che, secondo Cicerone, costituisce il “popolo” e che, come diritto inter-

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rato dal vincolo della volontà umana, mentre l’umanità viene assurta a incarnazione del diritto66. Questa identificazione tra uomo e legge è molto pericolosa perché sembra mettere completamente fra parentesi quel divario «fra legalità e giustizia che ha tormentato il pensiero giuridico fin dall’antichità»67. Fin dall’inizio della tradizione culturale occidentale, il rapporto giustizia-legge è, infatti, molto complesso: dietro un’apparente contiguità si nasconde una

nazionale, ha costituito nei tempi moderni il mondo civile nella misura in cui rimane la pietra angolare delle relazioni internazionali anche durante la guerra» (ibidem). Su questa questione cfr. D. Villa, Genealogie del dominio totale: Arendt e Adorno, in F. Fischetti, F. Recchia Luciani (a cura di), Hannah Arendt. Filosofia e totalitarismo, Il Melangolo, Genova 2007, pp. 175-193. 66 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 633. 67 Ibidem. In un celebre passo, subito a seguire, la Arendt spiega che nell’interpretazione offerta dal totalitarismo tutte le leggi sono diventate leggi di movimento: «la natura e la storia non sono più fonti stabilizzatrici di autorità per le azioni dei mortali, ma esse stesse dei movimenti, dei processi. Alla base della fede nazista delle leggi razziali come espressione della legge della natura nell’uomo vi è l’idea darwiniana dell’uomo come prodotto di un’evoluzione naturale che non si arresta necessariamente alla presente specie di esseri umani; alla base nella fede della lotta di classe come espressione della legge nella storia vi è la concezione marxista della società come prodotto di un gigantesco movimento storico, che corre con rapidità sempre maggiore verso la sua fine, verso il movimento in cui si annullerà come storia» (ivi, p. 634). In un altro passaggio arendtiano si legge: «La legge dell’omicidio, la legge che i movimenti totalitari hanno seguito per giungere al potere, rimane in vigore come la legge dei movimenti stessi; e le cose non cambierebbero se dovesse accadere ciò che al momento appare come altamente improbabile, cioè il raggiungimento dell’obiettivo di assoggettare l’intera umanità» (Ead., Mankind and Terror, in Essays in Understanding: 19301954. Uncollected and Unpublished Works by Hannah Arendt, cit.; tr. it. di P. Costa, Umanità e terrore, in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit., pp. 97-106).

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dimensione di radicale distanza68. Il termine giustizia, dike, si riferisce ad un ordine che trascende il piano umano, dal momento che interessa una razionalità superiore responsabile del corretto funzionamento del Kosmos. Nel famoso frammento di Anassimandro69, che contiene le prime parole della filosofia occidentale che siano a noi pervenute, si ritrova l’espressione didonai diken, «rendere giustizia», che sta ad indicare il processo cosmico di generazione attraverso cui gli enti si determinano in modo distinto rispetto al chaos primordiale. Il Kosmos è, propriamente, l’ordine corrispondente ad una giusta misura70. Neppure il movimento degli astri, e del sole che fra essi è il principale, potrà sottrarsi all’“ordine” inflessibile stabilito da dike. Nella tradizione omerica, comportarsi secondo giustizia, essere dunque giusto, significava innanzitutto rispettare l’ordine naturale del Kosmos che attribuiva a ciascun mortale una “parte” ben determinata, oltre la quale non era lecito procedere. La più antica idea di giustizia era, infatti, fondata sul principio

68 In queste pagine dedicate al rapporto giustizia-legge, nel contesto greco classico, riprendo quanto ho già scritto nel mio testo L. Sanò, Donne e violenza, Filosofia e guerra nel pensiero del ’900, cit., in particolare nel capitolo Giustizia e/o legge, pp. 61-72, cui rimando una volta per tutte per ogni ulteriore approfondimento. 69 «Ciò da cui proviene la generazione delle cose che sono, peraltro, è ciò verso cui si sviluppa anche la rovina, secondo necessità: le cose che sono, infatti, pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo» (Anassimandro [in Simplicio], fr. 12 B 1). 70 Lo stesso Eraclito, in uno dei più famosi frammenti, afferma, che persino «il sole non oltrepasserà le misure [ta metria], altrimenti lo scoveranno le Erinni, ministre di dike» (Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano e G. Serra, Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2009, fr. 45).

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del rispetto del limite, sia a livello etico che giuridico71. L’osservanza del limite prevedeva l’inviolabilità di precisi confini, che indicavano la misura di ciò che era lecito. Certamente questa misura, pur nel rispetto delle inevitabili disuguaglianze sociali, definiva precisi ambiti entro i quali era lecito agire, delimitando soprattutto il senso di “ciò che spettava” a ciascuno. Nella tradizione greco classica l’idea di giustizia trascende, in conclusione, il piano puramente umano per assumere un significato di carattere universale cosmogonico, a cui l’uomo continuamente tende72. La retta giustizia è soprattutto armonia, e accordo; essa impone che ciascuno abbia la sua parte, secondo misura. Giustizia è, quindi, rispetto dei limiti, della parte (moros) assegnata. L’idea di una dike cosmica, che misura e regola nell’universo il perenne movimento delle cose, funge da paradigma a quella giustizia pensata come misura della convivenza umana, definisce il limite del raggio d’azione di ciascuna parte, misura il reciproco rapportarsi. Un diverso discorso, e più articolato, va fatto in riferimento alla relazione fra diritto e giustizia. Nomos, il termine per indicare la legge, significa letteralmente “ciò che è stabilito” e, come è stato già sottolineato, proviene dalla radice nem- di nemein che vuol dire stabilire, assegnare, spartire73. Non è ca-

71 Cfr. A. Jellamo, Il cammino di dike. L’idea di giustizia da Omero a Eschilo, Donzelli, Roma 2005, p. VIII. 72 Cfr. l’ottima tesi di dottorato di N. Reggiani, La Giustizia cosmica. Le riforme di Solone fra religione e politica, reperibile in rete al seguente link: http://dspace-unipr.cilea.it/bitstream/1889/1555/2/tesi_solone.pdf; qui pp. 36 ss. 73 Più complesso è invece il significato attribuito da Carl Schmitt, che, come si è visto nelle pagine precedenti, intende nomos come appropriazione, conquista (oltre ai testi già affrontati - Il nomos della terra, e Terra e mare - cfr. anche Id., Le categorie del politico. Saggi di teoria politica, il Mulino, Bologna 1982, pp. 293-312).

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suale che la parola nomos compaia nella cultura greca molto più tardi rispetto a dike, e che ancora nel VI secolo il termine ricorra molto raramente. «Il vocabolario arcaico conosce prima dike perché nella cultura greca l’idea di giustizia precede l’idea di legge, e questa si struttura su quella»74. È soprattutto a partire dal V secolo che tra dike e nomos si apre una divaricazione sempre più accentuata. Per i Sofisti vi sono leggi umane che corrispondono ad una giustizia terrena profondamente lontana e contrapposta, rispetto a quella divina. Anche la tragedia attica porta in scena una lenta ed inesorabile scissione tra i due ambiti75. Un dissidio che penetra nel profondo con conseguenze e modalità del tutto nuove. Il problema del limite della legge in rapporto alla giustizia riflette fedelmente il divario incolmabile tra l’uomo e il divino, tra sofferenza e conoscenza, tra colpa e destino. La vera giustizia è un evento che trascende il piano umano, non è nelle cose, ma sopra di esse76. Come conseguenza sul piano logico, si può affermare che l’esistenza stessa della legge sia la prova dell’assenza di una giustizia terrena77. Non si ricorrerebbe alla formulazione di leggi se vi fosse una giustizia a regolare i rapporti umani: questa è in definitiva la dimensione reale della legge, quella di cui l’uomo deve essere consapevole. La giustizia è infatti inattingibile agli uomini, è un principio trascendente che dovrebbe guidare 74 A. Jellamo, Il cammino di dike. L’idea di giustizia da Omero a Eschilo, cit., p. 120. 75 Cfr. ivi, p. 121; cfr. anche V. Di Benedetto, A. Medda, La tragedia sulla scena. La tragedia greca in quanto spettacolo teatrale, Einaudi, Torino 1997, pp. 315-389. 76 Cfr. A. Jellamo, Il cammino di dike. L’idea di giustizia da Omero a Eschilo, cit., p. 135. 77 Cfr. U. Curi, La pena fra diritto e giustizia, in Il farmaco della democrazia, Marinotti, Milano 2003, p. 71.

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non solo la vita, ma anche il cosmo. Ma non appartiene a questo mondo. Nel mondo reale l’unica cosa che l’uomo può fare è appunto creare delle leggi. I documenti più importanti della cultura occidentale sono tutti consapevoli dell’impossibilità di una immanenza della giustizia nel diritto positivo78. Hannah Arendt è d’altra parte consapevole che il riconoscimento della distanza tra i due ambiti non è appannaggio esclusivo della nostra tradizione arcaicoclassica, dal momento che numerosi pensatori contemporanei, da Nietzsche a Weber, da Girard a Weil, da Benjamin a Wittgenstein, per non parlare di Heidegger e Schmitt, in modi diversi, argomentano un assunto analogo in modo rigoroso79.

78 «Concettualmente e storicamente il diritto si costituisce a partire da questo scarto, nasce proprio dalla constatazione che “non vi è giustizia a questo mondo” o, per dirla con le parole del filosofo, che dike se ne sta presso Zeus, abita presso Zeus, non appartiene in quanto tale, come giustizia, all’umanità. I primi e più importanti documenti della cultura occidentali, i miti fondativi della civiltà dell’Europa, sono tutti impregnati di questa consapevolezza, dell’impossibilità di una totale immanenza della giustizia nel diritto, e dunque della ineliminabile persistenza di uno scarto fra l’una e l’altro» (ibidem). 79 Si vedano a riguardo, i lavori di P. Barcellona, I soggetti e le norme, Giuffrè, Milano 1984; M. Cacciari, Diritto e giustizia, “Il Centauro”, 1981, n. 2; P. Costa, Il progetto giuridico. Ricerche sulla giurisprudenza del liberalismo classico, Giuffrè, Milano 1974; J. Derrida, Forza di legge, tr. it. di A. Di Natale, a cura di F. Garriano, Bollati Boringhieri, Torino 2003; N. Elias, Il processo di civilizzazione, tr. it. a cura di G. Panzieri, Il Mulino, Bologna 1983; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, Laterza, Roma-Bari 1989; R. Girard, La violenza e il sacro, tr. it. di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 1980; H. Kelsen, Teoria generale delle norme, tr. it. a cura di M. G. Losano, Einaudi, Torino 1985; N. Luhmann, Sociologia del diritto, tr. it. a cura di A. Febbrajo, Laterza, Roma-Bari 1977; E. Resta, L’ambiguo diritto, Laterza, Roma-Bari 1984; Id., La certezza e la speranza. Saggio su diritto e speranza, Laterza, Roma-Bari 1992; S. Rodotà, Studi sulla proprietà privata, Il Mulino, Bologna 1981; C. Schmitt, Il nomos della terra, cit.; G. Teubner, Il diritto come sistema autopoietico, Giuffrè, Milano 1996; G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Einaudi, Torino 1992.

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Nel momento in cui si tenti di attribuire un carattere di giustizia immanentizzata ad un ordinamento giuridico, si finisce con il conferire ad esso un significato mitologico, e di conseguenza una valenza idolatrica-teologica al potere giudiziario dello Stato e alla stessa politica. La legge viene trasformata in uno strumento infallibile di giustizia, espressione di una verità trascendente, alla portata dell’uomo e della sua ragione. In verità, la legge, in quanto strumento dell’uomo, non può pretendere di esibire nessuna verità assoluta, dal momento che non possiede alcun fondamento di carattere divino o naturale-storico, e nessun valore immutabile. L’uomo deve essere consapevole del limite insito nel nomos: la legge può tendere il più possibile ad assomigliare alla dike di divina perfezione, ma mai potrà identificarsi con essa, mai potrà esserne il riflesso speculare. Lo scarto fra diritto e giustizia è emblematicamente indicato in un frammento di Pindaro, considerato dagli studiosi di diritto come testo fondativo della cultura giuridica occidentale, là dove si afferma solennemente che il nomos è basileus, è sovrano, perché può far apparire come giusta e legittima anche la cosa più violenta. «La legge (nomos) – si legge infatti nel frammento - è re di tutte le cose, mortali e immortali. Essa le guida con la sua mano sovrana e rende giusta (dikaion) la cosa più violenta (biaiotaton)»80. È nota l’interpretazione di questi versi proposta nel V secolo avanti Cristo dalla sofistica: la legge, di tutti sovrana, guida con altissima mano giustificando la violenza più estrema81. Questi versi vogliono affermare, infatti, che il nomos è in grado di legare indissolubilmente dike a bia, rendendo giusta anche la cosa più violenta, trasformando

80 Pindaro, fr. 169a Maehler. 81 Cfr. Platone, Gorgia, XXXIX, 484d-e; cfr. anche A. Jellamo, Il cammino di dike. L’idea di giustizia da Omero a Eschilo, cit., p. 119

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dunque addirittura in giustizia ciò che appare essere da essa più remoto. La distanza che separa nomos da dike non può in realtà in alcun modo essere eliminata. Ribadire che la giustizia non appartiene alla dimensione umana, non significa necessariamente assumere impegni di ordine fideistico o religioso. Significa soltanto riconoscere la costitutiva trascendenza di dike, rispetto a qualsivoglia nomos82. La conseguenza sul piano logico di questa impostazione è che l’uomo deve essere consapevole che ogni esercizio concreto della giurisdizione, ogni pronunciamento giudiziario, non potrà mai coincidere con la “vera giustizia”, non sarà mai dunque portavoce di una verità assoluta, neppure di quella relativa e imperfetta verità che emerge dallo svolgimento del processo. Per tornare all’analisi del totalitarismo, si può dire che secondo Arendt il regime totalitario si avvale sostanzialmente di tre forme di coercizione: la propaganda, che serve per esprimere la grandezza e i fasti del regime, l’ideologia, ossia la logica di un’idea della storia che prepara le masse ad essere vittime e al tempo stesso esecutori della forza83, e infine il terrore, considerato l’«essenza del potere totalitario»84. Tutto ciò viene eseguito sotto il controllo della polizia segreta e attraverso una capillare organizzazione burocratica-amministrativa, che opera seguendo il volere di un Capo e di un partito unico. In vari modi, tali strumenti violentano la mente degli individui 82 Cfr. U. Curi, La pena fra diritto e giustizia, in Il farmaco della democrazia, cit., pp. 72-73-76. 83 «Per guidare il comportamento dei suoi sudditi il regime ha bisogno di una preparazione che renda ciascuno di essi altrettanto adatto al ruolo di esecutore e a quello di vittima. Questa preparazione ambivalente, che sostituisce il principio dell’azione, è l’ideologia» (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 641). 84 Ivi, p. 636.

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e li svuotano di un qualsiasi contenuto morale. In un sistema come quello così descritto, la violenza finisce per essere legalizzata, con la conseguente degenerazione del potere. La caratteristica del terrore è quella di crescere con il decrescere dell’opposizione, sino a diventare imperante quando questa non esiste più85. Il terrore dirige «la sua furia illimitata non tanto contro i suoi nemici, quanto su persone che sono innocenti anche dal punto di vista del persecutore»86. Nel regime totalitario, il terrore prende il posto del diritto positivo, e diventa esecutore della legge della natura e della storia, il cui fine ultimo non è il benessere del singolo, bensì la creazione di un’umanità: in questo modo vengono eliminati gli individui a favore della “specie”, sacrificate le «parti» per il «tutto»87. Se la legge della natura impone che il più debole debba soccombere di fronte al più forte, e se l’automatismo degli eventi storici viene recepito come un processo evolutivo necessario, allora si capisce perché il terrore non esiste contro gli uomini, bensì «esiste per fornire al movimento della Natura o della Storia un incomparabile strumento di accelerazione»88. 85 Per un approfondimento cfr. D. Taranto, Il pensiero politico e i volti del male: dalla “stasis” al totalitarismo, FrancoAngeli, Milano 2014, p. 318; secondo Taranto la «finalizzazione classica del terrore, indirizzata a fare trionfare il processo rivoluzionario attraverso l’eliminazione fisica dei nemici di tale processo e dei dissenzienti rispetto alle sue tappe da parte di chi aveva coltivato la virtù della compassione, viene infatti ridefinita attraverso una sua ipostatizzazione che a parere della Arendt “prescinde dall’esistenza di avversari”». Cfr. anche A. Cavarero, Terrore, in O. Guaraldo (a cura di), Il Novecento di Hannah Arendt. Un lessico politico, cit., pp. 117 ss. 86 H. Arendt, L’ascesa e lo sviluppo del totalitarismo e di forme di governo autoritarie nel XX secolo, in «La società degli individui», n° 14, V, 2002/2, p. 117. 87 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 636-637. 88 H. Arendt, La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione, in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit., p.

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Il movimento naturale e storico, che procede secondo una propria legge, si impone senza limiti, perché è più potente di qualsiasi altra forza prodotta dalle azioni o dalla volontà degli uomini. La sola cosa che esso teme è la libertà umana che si autoafferma e si identifica con la nascita stessa degli uomini, nel momento in cui essi prendono posto nel mondo. Pertanto il terrore, in quanto servo del processo naturale e storico, ha come scopo quello di annichilire la libertà, insita nella nascita di ogni singolo uomo, perché recepita alla stregua di una minaccia: «in pratica, ciò significa che il terrore esegue sul posto le sentenza di morte che, a quanto suppone, la natura avrebbe pronunciato contro razze e individui “inadatti a vivere”, o la storia contro le “classi morenti”, senza attendere i processi più lenti e meno efficaci della natura e della storia»89. In questo modo, il divario tra giustizia e legge viene cancellato. Nel momento in cui il governo assurge a legge universale immanente, che agisce in nome della storia o della natura, le leggi positive, che dovrebbero essere considerate forze stabilizzatrici negli affari pubblici90, non sono più essenzialmente necessarie. Il terrore deve pertanto limitare la libertà dei singoli individui, e scegliere le vittime da sacrificare in base alla necessità del processo naturale e storico. Ogni capacità umana di azione e di pensiero, che determina la libertà umana, deve essere eliminata91.

142; H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 638. 89 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 639. 90 «Come si è sempre ritenuto fin da quando Platone invocava Zeus, dio dei limiti, nelle sue Leggi» (H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 639). 91 Per chiarire la questione Arendt scrive: «“Colpevole” è chi si trova sulla strada del terrore, chi, cioè, volontariamente o involontariamente, ostacola il movimento della Natura o della Storia» (La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione, in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit., p. 141). E ancora: «“Colpevole” è chi è d’ostacolo

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Coloro che abitano nel terrore attuato dai sistemi totalitari vengono gettati nel vortice del processo della natura e della storia come semplici ingranaggi, con la funzione di accelerarne il movimento. Il sistema, senza alcun riferimento ad atti o pensieri individuali, sceglie i propri esecutori, che in maniera del tutto discrezionale potranno anche divenire in futuro delle vittime. Inoltre, allo scopo di guidare e controllare il loro comportamento, vengono istituite le ideologie92. Difatti, le ideologie totalitarie «sono sistemi esplicativi della vita e del mondo che pretendono di spiegare tutto, il passato e il futuro, prescindendo dall’esperienza reale»93. Esse impon-

al processo naturale o storico, che condanna le “razze inferiori”, gli individui “inadatti a vivere”, o le “classi in via di estinzione” e i “popoli decadenti”. Il terrore esegue queste sentenze di condanna, e davanti ad esso tutte le parti in causa sono soggettivamente innocenti: gli uccisi perché non hanno fatto nulla contro il sistema, e gli uccisori perché non assassinano realmente, ma si limitano ad eseguire una sentenza di morte pronunciata da un tribunale superiore» (Ead., Le origini del totalitarismo, cit., p. 636). 92 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 640-641. Bruna Giacomini sostiene che: «l’ideologia esonera dal fare esperienza: l’uomo totalitario non si prende nemmeno la briga di esaminare ciò che accade per trarne insegnamenti per il futuro: ogni fatto è già spiegato, previsto, valutato» (B. Giacomini, Postfazione. Idee che accendono la miccia. Politica e violenza nel pensiero di Hannah Arendt, in L. Sanò, Donne e violenza. Filosofia e guerra nel pensiero del ‘900, cit., p. 209). 93 H. Arendt, La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione, in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit., p. 149. Enrico Donaggio sulle ideologie scrive: «Con il termine “ideologia” Hannah Arendt intendeva la “logica di un’idea”, la corrispondenza, completa quanto impossibile, tra il regno della teoria e l’instabile mondo della prassi che si vorrebbe regolato dai medesimi principi. Il suo tratto dominante è […] un fiat veritas et pereat mundus irresponsabile nel suo estremismo. Affinché essa giungesse a imporsi come forma di mediazione simbolica tra individuo e realtà totalitaria, era necessaria, oltre al terrore, quella peculiare “perdita del mondo” che connota la società di massa moderna: l’eclissi di una dimensione plurale, condivisa, che rinserra il singolo in un isolamento

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gono una visione del mondo in cui le idee incarnate nel regime totalitario vengono stabilite come direttrici di un cammino fatale. Si professano come uniche interpreti infallibili delle leggi di quel gigantesco movimento della natura e della storia, che spiegano secondo una ferrea coerenza, mobilitando la forza della volontà dell’uomo94. Proprio perché consistono più di opinioni che di verità, temono la libertà umana che scaturisce dal processo del pensiero e dalle azioni95, e perciò utilizzano il terrore per imporsi e per creare attorno a loro una sorta di deserto, ovvero uno spazio politicamente incolto dove rigettare la società di massa96. Attraverso il terrore e le ideologie, il totalitarismo distrugge, infatti, ogni spazio libero fra gli uomini, i quali vengono appiattiti l’uno contro l’altro, annientando ogni loro potenzialità

di cui la logica autistica e monocratica dell’ideologia è, al tempo stesso, un riflesso e un supporto» (E. Donaggio, La realtà del male. Il corpo nero di Auschwitz, in E. Donaggio, D. Scalzo (a cura di), Sul male a partire da Hannah Arendt, Meltemi, Roma 2003, pp. 11-27). 94 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 642 e p. 649. In questo senso l’autrice spiega che nella «loro pretesa di spiegazione totale, le ideologie hanno la tendenza a spiegare non quel che è, ma quel che diviene, quel che nasce e muore. Esse si occupano in ogni caso soltanto dell’elemento di movimento, cioè della storia nel senso usuale della parola. […] Ci si ripromette di far luce su tutti gli avvenimenti storici, di ottenere una spiegazione totale del passato, una completa valutazione del presente, un’attendibile previsione del futuro» (ibidem). 95 Cfr. quanto Arendt scrive a tal riguardo: «proprio perché le ideologie, come tali, consistono più di opinioni che di verità, la libertà umana di cambiare idea è un pericolo grande e rilevante» (H. Arendt, La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione, in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit., p. 150). 96 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 649-655 (per un approfondimento cfr. E. Donaggio, La realtà del male. Il corpo nero di Auschwitz, in E. Donaggio, D. Scalzo (a cura di), Sul male a partire da Hannah Arendt, cit., pp. 11-27).

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creativa. Annichilendo la capacità di pensiero delle persone, le ideologie hanno così precostituito l’attecchimento di una forte massificazione sociale, un fenomeno, questo, che ha preso piede quando il soggetto ha lasciato il posto ad una folla compatta di persone prive di pensiero critico individuale. Depauperata di una effettiva autonomia di giudizio, e protesa a perseguire esclusivamente il soddisfacimento dei propri bisogni e la realizzazione di interessi privati, la società si è sempre più allontanata dalle esigenze di carattere pubblico, lasciando spazio all’ideologia totalitaria: «quel che le masse si rifiutano di riconoscere è la casualità che pervade tutta la realtà. Esse sono predisposte a tutte le ideologie perché spiegano i fatti come semplici esempi di determinate leggi ed eliminano le coincidenze inventando un’onnipotenza tutto comprendente che suppongono sia alla radice di ogni caso. La propaganda totalitaria prospera su questa fuga dalla realtà nella finzione»97, attribuendo alle proprie affermazioni la forma di predizione, svincolando così ogni questione dal controllo del presente. Si compie in questo modo un vero e proprio atto di violenza sul pensiero, attraverso l’imposizione di “predizioni infallibili”98, che danno certezza a chi, nel deserto, ha perso ogni contatto con i propri simili e con la realtà circostante99.

97 Ivi, p. 486. 98 Cfr. ivi, pp. 478-482. 99 «La coercizione del terrore totale, che irreggimenta le masse di individui isolati e le sostiene in un mondo che per esse è diventato un deserto, e la forza autocostruttiva della deduzione logica, che prepara ciascun individuo nel suo isolamento contro tutti gli altri, si completano a vicenda per far marciare il movimento» (ivi, p. 649). Questo argomento è affrontato da Miguel Abensour nel suo saggio, dove si sostiene che l’ideologia riesca a riunire le masse, non tanto attraverso la manipolazione o l’inganno, quanto piuttosto promettendo una sorta di «bussola e fonte di salvezza», in grado di garantire uno stato di certezze per gli uomini che vivono «nel deserto in preda alla desolazione» (cfr. M. Abensour, Contro un fraintendimento del totalitarismo,

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I totalitarismi, infatti, hanno oppresso gli uomini, non solo usando la forza fisica concepita come violenza (bia), ma anche mediante la persuasione (peitho), propinando alla massa, con la propaganda, false verità. Come il pensiero greco classico insegna, a differenza della bia, incapace di usare strumenti diversi dall’impiego esplicito della violenza fisica, peitho agisce giovandosi di armi più sofisticate, quali sono i logoi, ma non per questo meno potenti, e soprattutto non per questo meno coercitive. Si tratta dunque di un esercizio della forza realizzato “con altri mezzi”, rispetto a quelli impiegati dalla bia. Ma in ogni caso, lo statuto della persuasione resta inequivocabilmente segnato da una forte carica di violenza: la parola persuasiva non è il contrario della forza, ma ne rappresenta piuttosto una manifestazione per certi aspetti ancora più compiuta100.

in Aa.Vv, Hannah Arendt, cit., pp. 36-37). A riguardo, cfr. il capitolo dedicato alle Masse in H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 423-451. 100 Per un approfondimento rimando al mio testo L. Sanò, Donne e violenza: filosofia e guerra nel pensiero del ‘900, cit., pp. 31-34. Per poter comprendere lo “sfondo” storico e concettuale della relazione tra bia e peitho, uno testi greco-classici più rilevante a riguardo è sicuramente il celebre passo dell’Encomio di Elena di Gorgia, in cui l’Autore descrive il potere della parola sulla mente in termini di violenza, riconoscendo a peitho un potere pressoché invincibile, tale da renderla sostanzialmente simile a bia: «l’imperio della persuasione [peithous], pur non avendo l’apparenza dell’ineluttabilità, ne ha la medesima potenza» (Gorgia, Encomio di Elena, tr. it. di M. Tasinato, in Ead., Elena, velenosa bellezza, Mimesis, Milano 1990, p. 63). Il passo gorgiano, confermato da altre affermazioni analoghe («Chi ha persuaso è colpevole come artefice di violenza [bia]…colei che fu persuasa, costretta dalla forza della parola, a torto viene diffamata» (ibidem; corsivi miei)), sviluppa compiutamente la nozione di ambiguità insita nell’azione di peitho, il cui potere sulla mente umana, ancorché mediato dalla parola, ha comunque una connotazione di coercizione che lo rende terribile [deinos]. Questo stesso termine, deinos, la cui pregnanza strettamente filosofica è ben nota (per un approfondimento del termine deinos, si veda U. Curi, La forza dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 68-70), sottolinea un aspetto fondamentale della persuasione, e cioè che – qualunque sia lo scopo

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Il fenomeno, comunque, della “spersonalizzazione del soggetto” ha reso di fatto possibile, durante il totalitarismo nazista, che un esiguo gruppo di borghesi prendesse il potere, politicamente ed economicamente, senza particolare resistenza. Il risultato finale che consegue da questo processo è uno sradicamento che è insieme estraneazione del soggetto politico: «essere sradicati significa non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri, essere superflui significa non appartenere al mondo»101. Questo perché, nello stato totalitario, il potere si è spogliato di ogni connotato pratico, ravvisabile nel concetto di praxis (politica come agire morale) di cui è rappresentativa la polis greca, dove la politica, concepita come libertà di azione e di linguaggio di soggetti che si riconoscono in uno specifico ambito pubblico, promuove il volere, il sapere, il giudicare. Se infatti la libertà è ciò che caratterizzava la politica del mondo greco, nei regimi totalitari il potere è invece inteso e vissuto come costrizione e dominio, espressione della forza esercitata per soggiogare il più debole, ed escludere dalla comunità il diverso. Il potere esercitato attraverso la forza, che si attua attraverso la sottomissione dell’altro con lo scopo di uniformarlo al pensiero di tutti e alla volontà del regime, inibisce la costituente precipua che è alla base di ogni relazione comunicativa e del concetto stesso di libertà, che consiste nel dare inizio, nel cominciare, ovvero nell’agire. Perché è solo attraverso la possibilità di intraprendere un’azione libera, che gli uomini possono vivere, insieme, nel mondo. Tutto questo non può avvenire quando ci si trovi in presenza del totalitarismo, e in

a cui essa è rivolta – l’arte di piegare la mente nella direzione voluta attraverso l’uso di una parola “efficace” rivela che è all’opera una forza che va ben al di là del logos, e che reca in sé inconfondibili le tracce di bia. 101 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 651.

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termini più ampi, quando si sia sottomessi alla forza esercitata dagli altri. L’eliminazione dell’‘azione’ e della ‘relazione’ è stata attuata nel totalitarismo attraverso un processo di coercizione interiore. Questa forma di violenza ha soffocato la spontaneità e la libera scelta del soggetto, determinando l’isolamento dell’uomo dal mondo e l’estraneazione umana dalla propria identità soggettiva. L’individuo, in breve, ha perso la propria capacità di pensare102. L’unico modo per l’uomo di uscire da questo assedio fatto di violenza è recuperare la dimensione del pensiero. Solo grazie alla capacità di pensare, l’uomo prende le distanze dalla realtà, ne giudica il valore e l’importanza. È l’unica bussola che l’uomo possiede. Solo attraverso il pensiero e la conseguente comprensione del mondo, l’uomo può effettuare quel salto di qualità che consente di percepire la prospettiva delle cose. In un passaggio pregnante, Arendt sostiene che se si prendesse sul serio la filosofia che è alla base del regime totalitario, ci si accorgerebbe che «la società dei morenti instaurata nei campi è l’unica forma di società in cui sia possibile impadronirsi interamente dell’uomo»103. L’utilità dei campi di concentramento è stata proprio quella di creare un dominio totale sull’uomo, attuando la violenza attraverso la persecuzione verso i non allineati al regime, i diversi per cultura, lingua o religione. Questo sterminio si è sviluppato attraverso differenti gradi di intervento, che hanno consentito di produrre, prima ancora di una massa di cadaveri, una «massa di cadaveri viventi»104.

102 Cfr. quanto scritto nell’illuminante e rigoroso volume di G. Di Salvatore, L’inter-esse come “metaxù” e “praxis”. Assonanze e dissonanze tra Simone Weil e Hannah Arendt, cit., alle pp. 172-173. 103 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 624. 104 Ivi, p. 612.

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Il primo passo verso questo dominio totale sull’uomo è stata l’«uccisione del soggetto di diritto che è nell’uomo»105, innanzitutto considerando illegali alcune categorie di persone, e in secondo luogo deportandole nei Lager in funzione di custodia preventiva. Nei campi di concentramento, che erano luoghi in cui i soggetti venivano internati secondo una procedura interamente estranea al sistema penale ordinario, si confinavano soggetti per lo più considerati criminali reali106, dopo però aver già scontato la condanna, oppure politici non allineati con il regime, in quanto oppositori. Nella quasi totalità dei casi, si trattava di individui innocenti, ritenuti semplicemente diversi o inferiori107. A questa tipologia di presunti “criminali” si aggiungevano poi gli ebrei, considerati all’ultimo posto nella scala sociale. L’eliminazione della personalità giuridica comporta il dominio totale sugli individui, i quali vengono privati, man mano, dei loro “diritti civili” non solo formali ma anche sostanziali108. Ad un certo punto, il “diverso” si è sentito sempre più escluso da uno Stato in grado di riconoscerlo e tutelarlo. Questa estromissione dalla società politica e giuridica ha consentito che si potesse non considerarlo un “essere umano”. Durante il regi-

105 Ibidem, corsivi miei. 106 L’inclusione di criminali è «necessaria per rendere plausibile la pretesa propagandistica che l’istituzione è destinata agli elementi asociali» (ivi, p. 613). 107 Cfr. ivi, pp. 612-613. 108 Cfr. ivi, p. 617. Cfr. G. Di Salvatore, L’inter-esse come “metaxù” e “praxis”. Assonanze e dissonanze tra Simone Weil e Hannah Arendt, cit., pp. 174 ss.

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me totalitario, è questo il primo passo per privare l’uomo della sua stessa condizione di umanità109. Il secondo stadio nella «preparazione di cadaveri viventi è l’uccisione della personalità morale»110. Quando, con brutalità, si fa in modo che nemmeno la testimonianza di quello che è accaduto possa sopravvivere. Quando persino il ricordo del dolore e della morte vengono ricusati nel buio dell’oblio, allora si può dire che «qui la notte è scesa sul futuro»111. Cancellando la memoria storica si cancella, infatti, l’idea stessa del ricordo, che conserva l’identità di ciascun essere umano. Il mondo occidentale, «anche nei suoi periodi più tenebrosi, aveva fino allora concesso al nemico il diritto al ricordo come evidente riconoscimento del fatto che tutti siamo uomini (e soltanto uomini)»112. In questo senso si spiega, ad esempio, il significato della restituzione, da parte di Achille, del corpo di Ettore al padre: grazie a quel gesto, nulla è andato perduto113. 109 Cfr. ibidem. 110 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 618, corsivi miei. 111 Ibidem. 112 Ivi, pp. 618-619. 113 Cfr. ivi, p. 619: «Solo perché lo stesso Achille si preparava per la sepoltura di Ettore, solo perché i romani permettevano ai cristiani di scrivere i loro martirologi, solo perché la chiesa manteneva i suoi eretici vivi nella memoria della gente, solo per questo non tutto era perduto e non poteva esserlo». Hannah Arendt qui allude al celebre libro dell’Iliade di Omero, in cui si descrive la restituzione del corpo di Ettore, da parte di Achille, al padre Priamo. «La notte del ventiquattresimo canto, descrive infatti un viaggio che si svolge tra il tramonto e l’alba successiva […]. Il sole sta calando quando Priamo attraversa il fiume Scamandro con il carro su cui è stato deposto il favoloso tesoro per il riscatto di Ettore, e sta sorgendo quando lo riattraversa trasportando il corpo del figlio avvolto in lini preziosi e profumati» (M. G. Ciani, Introduzione in Omero, Iliade, int. e tr. di M.G. Ciani, commento di E. Avezzù, Marsilio, Venezia 2002, p. 45). Come sottolinea Maria Grazia Ciani (ivi e ss.), nella straordinaria scena di Priamo nella tenda di Achille si può riconoscere la forza del rispetto che si può provare per il proprio ne-

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Nel contesto dell’epos omerico, infatti, il corpo del guerriero rappresenta la cosa più sacra e inviolabile, e come tale deve persistere nella sua perfezione a memoria eterna. Proprio per queste ragioni, sebbene ferito mortalmente, esso non può essere deturpato, non può nemmeno essere contaminato dalla polvere, o corrotto dagli animali. Queste forme di sfregio sono da considerarsi gravissime, affronti inaccettabili. Prima di essere deposto intatto sul rogo, in attesa del fuoco, il corpo esanime deve essere mostrato per l’ultima volta, in tutto il suo splendore114. Nel codice eroico la morte ha un significato importantissimo, perché non solo è la misura del valore, dell’onore e della gloria (arete, time, kleos), ma rappresenta, in quanto finitudine unica e indistinguibile, la qualifica morale di ogni vita umana115. mico: Achille, colpito nel profondo dal gesto coraggioso di Priamo, che solo si è introdotto nel cuore della notte all’interno dell’accampamento nemico, affrontando quindi il rischio di una morte certa pur di vedere riscattato il corpo esanime del figlio, accoglierà nella sua tenda il vecchio padre distrutto dal dolore, e gli parlerà e lo abbraccerà a cuore aperto. 114 Anche gli dei intervengono a presidio e «a difesa della bella morte del guerriero. Apollo e Afrodite vegliano il cadavere di Ettore durante i dodici giorni in cui Achille persiste nell’oltraggio (di tenerlo presso le sue navi): lo ungono con olio di rose, velano il sole perché non lo bruci. Dopo dodici giorni esso appare miracolosamente intatto». Ed è questo corpo che Achille restituirà a Priamo per condurlo a Troia: «un corpo perfetto, senza traccia di violenza o di sfregio, restituito dal suo stesso assassino all’idealità della bella morte e alla dignità della memoria eterna» (M. G. Ciani, Introduzione in Omero, Iliade, cit., p. 31, parentesi mia). 115 Il «codice eroico dei guerrieri omerici è come una stella a tre punte: valore, onore, gloria (arete, time, kleos). Il termine di confronto, per ciascuno di questi concetti, è la morte. La morte è la misura del valore, perché ogni scontro è per la vita o per la morte. La morte è il prezzo dell’onore, perché l’onore rappresenta per il guerriero - al di là del rinascimento sociale - la più alta realizzazione del suo individualismo. La gloria è il superamento della morte, perché il miraggio di una sopravvivenza eterna nella memoria collettiva vince l’amore per la vita» (ivi, p. 32).

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Achille e Ettore, entrambi, sceglieranno la morte rispetto alla vita, e penseranno al ricordo della propria gloria come all’ultimo sogno, più potente di qualunque altro vincolo116, perché il rispetto e il ricordo della morte, indipendentemente dal fatto che riguardi se stessi o il proprio nemico, è ciò che più caratterizza la dignità umana di ciascuno. L’insegnamento che ci previene da Omero è dunque quello di non prendere mai una posizione unilaterale, perché non vi è differenza tra vincitori e vinti. I nemici obbediscono allo stesso codice d’onore, e difendono, in fondo, i medesimi valori. Sarebbe iniquo giustificare l’uno per condannare l’altro, demonizzare la parte avversa per difendere le proprie ragioni. Miope è colui che non comprende che carnefici e vittime sono legati da un’unica, ferrea, fatale logica di dominio. Si può affermare che Omero sia stato il primo ad aver compreso la potenza ineluttabile della violenza; egli ne aveva capito le caratteristiche, evidenziato le molteplici forme, e aveva intuito che la forza può essere contrastata, anche se purtroppo mai completamente eliminata, solo attraverso il recupero del rispetto che si può provare verso il proprio avversario117. Secondo Arendt, «rendendo anonima persino la morte (con l’impossibilità di accertare se un prigioniero sia vivo o deceduto), i Lager la spogliavano del suo significato di fine di una vita compiuta. In un certo senso, essi sottraevano all’individuo la

116 La scelta dell’eroe è quella del trionfo della “bella morte”, ovvero «superare la morte con la morte stessa, imporre alla morte la “propria” morte, accoglierla invece che subirla, farne un ideale di vita» e di bellezza. «La scelta della bella morte è la scelta personale che il guerriero oppone alla necessità di morire» (ivi, pp. 38-39). 117 Per un approfondimento rimando al capitolo La violenza nell’Iliade, nel mio testo L. Sanò, Donne e violenza: filosofia e guerra nel pensiero del ‘900, cit., pp. 73-92. In H. Arendt, per affrontare l’eredità di Omero sul significato politico della guerra, cfr. Ead., Che cos’è la politica?, cit., pp. 72-96.

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sua morte, dimostrando che a partire da quel momento niente più gli apparteneva ed egli non apparteneva più a nessuno»118. L’uccisione della personalità morale, rimuovendo dalla mente dei detenuti nei campi di concentramento il ricordo della loro stessa identità affettiva e culturale, ha fatto in modo che costoro venissero completamente dimenticati, quasi non fossero mai in realtà esistiti. Quello che è venuto meno è dunque il “rispetto” per l’uccisione del proprio nemico, ovvero il rispetto per quel valore tanto difeso da Omero, e dai greci in generale, da cui dipendeva il riconoscimento della dignità della vita, che è insieme morte, di ciascun essere umano119. L’annichilimento della dignità umana viene attuato nei Lager innanzitutto attraverso l’uccisione della personalità individuale e soggettiva, che costituisce, di fatto, il terzo obiettivo della persecuzione120. Nello specifico, il terrore totalitario ha avviato un sistema che inibisce la possibilità, per l’individuo, di avere una propria coscienza121. I nazisti ottengono questo risultato sottoponendo gli internati nei campi di concentramento a situazioni estreme, in cui la stessa coscienza viene sottoposta ad alternative terribili: o essere assassini di se stessi o assassini di altre persone. Così la vittima deve scegliere se sacrificare se stessa o contribuire all’uccisione di altri uomini, siano essi anche famigliari o amici. Tuttavia, quando «un uomo si trova di fronte all’alternativa di tradire gli amici condannandoli a esse118 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 619. 119 Cfr. G. Di Salvatore, L’inter-esse come “metaxù” e “praxis”. Assonanze e dissonanze tra Simone Weil e Hannah Arendt, cit., p. 175. 120 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 619. 121 Cfr. H. Arendt, La libertà sotto la dittatura, in Aa.Vv, Oltre la politica. Antologia del pensiero“impolitico”, a cura di R. Esposito, Mondadori, Milano 1966, in particolare p. 103 (il saggio è la tr. it. di H. Arendt, Personal Responsability under Dictatorship, “The Listener”, 6 Agosto 1964, pubblicato poi integralmente in tedesco su “KonKret”, nn. 6/7, nel 1991.)

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re uccisi o di abbandonare alla morte la moglie e i figli, per cui è in ogni senso responsabile, quando persino il suicidio significherebbe l’immediato assassinio della sua famiglia, come può egli decidere?»122. Di qui, allora la nomina di Kapos123, con il compito di organizzare l’uccisione dei perseguitati; anche se alla fine la distinzione tra carnefici e vittime non è più chiara, in quanto tutti vengono costretti a comportarsi come assassini. Questa paralisi della coscienza, avviata attraverso la costrizione di una scelta non tra ciò che si reputa essere il bene o il male, ma semplicemente perseguendo il male, crea una sorta di distacco dell’individuo da se stesso: il perseguitato si sente perciò spogliato di una propria identità morale, incapace di provare ancora emozioni, o di riflettere e pensare, di scegliere e volere liberamente124. Per realizzare tutto questo, i nazisti usano ogni genere di tortura e manipolazione fisica, di modo che il dominio sull’uomo diventa assoluto, inimmaginabile, e in questo senso “radicale”: «I campi di concentramento non si limitano a sterminare le persone, ma promuovono anche quel mostruoso esperimento che, in condizioni scientificamente rigorose, mira a distruggere la spontaneità come componente costitutiva del comportamento umano e a trasformare le per-

122 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 619. Cfr. G. Di Salvatore, L’inter-esse come “metaxù” e “praxis”. Assonanze e dissonanze tra Simone Weil e Hannah Arendt, cit., p. 175. 123 Cfr. ivi, p. 62. Il termine Kapo indica, fra il marzo 1933 ed il maggio 1945, il ruolo di un detenuto al quale veniva affidata la gestione di comando e direzione sugli altri deportati e su determinate aree del campo di concentramento. Normalmente il kapo veniva scelto dai dirigenti nazisti principalmente fra i detenuti di razza ariana considerati criminali comuni abituali. Requisito fondamentale doveva essere la ferma adesione alla politica di gestione del campo adottata dalle SS e l’assoluta mancanza di pietà nei confronti dei detenuti. 124 Cfr. G. Di Salvatore, L’inter-esse come “metaxù” e “praxis”. Assonanze e dissonanze tra Simone Weil e Hannah Arendt, cit., p. 176.

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sone in qualcosa che non è nemmeno più un animale, cioè un fascio di reazioni che, posto lo stesso insieme di condizioni, reagirà sempre allo stesso modo»125. Gli uomini ridotti a «marionette con volti umani»126, spersonalizzati e annichiliti in ogni aspetto della dignità, divenuti ormai superflui, non servono più e perciò possono essere tranquillamente eliminati. Si conclude così l’ultimo stadio di violenza: l’annientamento fisico, attuato attraverso la soppressione spietata, sistematica e radicale, di ogni traccia rimasta ancora in vita, e la conseguente cancellazione di ogni forma di ricordo o memoria che riconduca all’identità della vittima127. L’ideologia totalitaria ha così attuato il suo scopo di trasformazione della natura umana, anche se tali esperimenti non sono riusciti in realtà a cambiare l’uomo, ma solo a distruggerlo128. Con la creazione dei campi di concentramento, in cui la persecuzione ha visto la massima espressione e compimento, ci si è trovati a confrontarsi con un luogo dove tutto è stato permesso, persino l’impensabile, un luogo dove si sono prodotti crimini che non si possono né punire né perdonare129. La brutalità esercitata all’interno dei campi di concentramento 125 H. Arendt, Umanità e terrore, in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit., p. 104. 126 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 623. 127 Cfr. E. Traverso, L’immagine dell’inferno. Hannah Arendt e Auschwitz, in E. Donaggio, D. Scalzo, Sul male a partire da Hannah Arendt, cit., pp. 44 ss. 128 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., pp. 623, 628. 129 Cfr. ivi, pp. 620, 628. Adriana Cavarero, in riferimento all’analogia che si può riscontrare tra il campo di concentramento e l’inferno, scrive: «nel linguaggio arendtiano, l’inferno non è un’abusata metafora per indicare la crudeltà e la sofferenza, bensì il topos di un immaginario tradizionale che va preso alla lettera. Nell’inferno, infatti, non si muore mai. Si conduce invece, da morti, una vita la cui agonia è eternizzata in una sofferenza senza fine»

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ha superato il limite umano della comprensione, arrivando ad annichilire la coscienza e la capacità di giudizio, sia dei carnefici che delle vittime. Qui il male ha raggiunto il massimo livello di espressione, è diventato radicale, nel senso di smisurato, perché è riuscito trasversalmente a determinare il deterioramento, fisico e morale, di persecutori e perseguitati. Agli interrogativi posti nel saggio On Violence, e in altri scritti coevi o successivi, sembra dunque rispondere l’analisi svolta in Le origini del totalitarismo. Il Lager nazista non è solo il luogo fisico in cui si porta alle conseguenze estreme un programma di completa cancellazione di identità. Esso corrisponde anche ad una sorta di algido esperimento intellettuale, nel senso che condensa in sé tutte le caratteristiche antiumane che sono proprie dei regimi totalitari, ne offre una rappresentazione “in movimento”, ne evidenzia con brutale realismo la carica intimamente distruttiva. Nell’analisi arendtiana, i campi nazisti non compaiono affatto come fenomeni marginali, connotati in senso estremistico, quasi come eccezioni circoscritte, rispetto ad una regola generale di legalità. Sia pure in forma paradossale, essi incarnano piuttosto una nuova forma di legalità, si costituiscono come il pieno compimento e la più adeguata realizzazione della “vocazione” immanente nello stato totalitario. Tutto ciò aiuta a capire meglio anche la distinzione – più volte sottolineata da Arendt – fra forme generiche di dispotismo politico e la peculiare configurazione assunta da uno stato quando esso si proponga come totalitario. Si preannuncia, già in questo pregnante passaggio concettuale, un problema che ritornerà al centro degli scritti arendtiani degli anni sessanta. Ciò che abitualmente giudichiamo essere espressione di follia criminale, come tale non riconducibile ad

(A. Cavarero, Terrore, in O. Guaraldo, Il Novecento di Hannah Arendt. Un lessico politico, cit., p. 121).

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alcuna misura razionale, se letto in relazione alla morfologia dello stato totalitario, del quale è espressione storicamente determinata, assume caratteri diversi, in quanto piena esplicitazione di ciò che nello stato totalitario è solo virtualmente presente. D’altra parte, questo riconoscimento immette ad un altro ordine di questioni, perché implica la possibilità di una “razionalità” del totalitarismo, forma più matura, ancorché perversa, dello stato moderno, dei princìpi che ne sono a fondamento, sotto il profilo storico e concettuale. Si comprende allora, in questa prospettiva, quale scenario problematico si proponga all’attenzione di Arendt, già a partire dal processo ad Adolf Eichmann, quale approdo del percorso avviato con il saggio sulla violenza. Sussiste un filo logico, tenue ma inconfondibile, che collega la violenza nel suo statuto più appropriato, lo stato totalitario e i Lager nazisti. Già di per sé, questo legame mentre da un lato mostra l’inadeguatezza degli approcci tradizionali al grande tema dell’Olocausto, dall’altro lato rilancia una questione di fondo, relativa alla nozione stessa di male, alla possibilità di definirlo. Come si vedrà, proprio il caso Eichmann manifesta l’inservibilità delle tradizionali categorie etiche e politiche, e conferma la necessità di un riorientamento complessivo della ricerca, che tenga fermo il nesso essenziale fra totalitarismo e violenza.

2.3 Figure del male Il trauma causato dalla scoperta delle stragi che avevano devastato Europa durante la Seconda Guerra mondiale spinge Hannah Arendt a domandarsi come potessero essere concepibili crimini del genere. Il suo intento è quello di compiere anzitutto un’analisi, in chiave storica, politica e sociologica, di tutti gli elementi che hanno portato all’affermazione dell’ap-

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parato nazista. C’era stato un fattore scatenante per giungere a quella malvagità e, in caso affermativo, come si poteva classificarlo130? Nel testo del 1951, il male verificatosi durante il regime nazista è definito come male radicale, concetto esplicitamente mutuato da Kant e considerato il più idoneo a descrivere quanto stava accadendo nelle fabbriche della morte costruite per opera di Hitler e del suo apparato totalitario. Il male attuato nei campi di concentramento si distingue profondamente, secondo Arendt, da quello perpetrato in altre dittature nel corso dei secoli, al punto che ella individua in quella particolare circostanza storico-politica i connotati di un male assoluto, impunibile e imperdonabile, tale da oltrepassare i limiti di ogni possibile comprensione umana131. L’espressione «male radicale», utilizzata da Kant nella sua opera La religione nei limiti della sola ragione132, in realtà allude a qualcosa di differente rispetto all’utilizzo proposto dalla Arendt. Secondo Kant, infatti, il «male radicale» indica la tendenza naturale dell’uomo ad impiegare massime cattive, ovvero norme di comportamento contrarie alla cosiddetta legge morale. Nell’accezione kantiana, il termine radicale è da intendersi propriamente nel suo statuto etimologico, in rife-

130 Cfr. C. Albini, Il male. Risvegliare l’umano in Hannah Arendt e Dietrich Bonhoeffer, Gabrielli editori, San Pietro in Cariano, Aprile 2016, pp. 39-42. 131 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 628: «quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell’interesse egoistico, dell’avidità, dell’invidia, del risentimento, della smania di potere, della vigliaccheria; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire». 132 Cfr. I. Kant, La religione nei limiti della sola ragione, tr. it. a cura di A. Poggi, Laterza, Bari 2004, pp. 31-33 ss.

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rimento a qualcosa che è appunto «radicato», originario alla natura stessa dell’essere umano. Si può sostenere che per Kant il «male radicale» caratterizzi di per sé quell’inclinazione tipica dell’essere umano quando è solito assumere un comportamento malvagio, anteponendo così il proprio utile egoistico alla rettitudine morale. Alla base di questa predisposizione negativa, vi è in ogni caso l’esercizio di libertà che l’uomo rivendica per se stesso, nel momento in cui si trova di fronte ad una scelta di condotta133. Secondo Arendt, a differenza di altri pensatori, i quali suggeriscono talora l’impressione di eludere il problema del male134, Kant indubbiamente riconosce l’esistenza del male, e conseguentemente affida all’uomo la responsabilità di intraprendere un cammino di riflessione che gli consenta di misurarsi. Nonostante questo riconoscimento, l’analisi svolta ne Le origini del totalitarismo diverge da quella kantiana. Con l’espressione «male radicale», infatti, Arendt non intende alludere specificamente all’accezione etimologica insita nel termine, quanto piuttosto alla volontà malvagia dimostrata dai dittatori totalitari nell’aver trasformato e manipolato la natura uma133 Alla base della grande intuizione di Kant, secondo Arendt, vi è la constatazione che ogni uomo possa divenire legislatore di sé nel momento in cui cominci ad agire. Intendere l’agire come legiferare significa sottolineare che, agendo, ci assumiamo la responsabilità di introdurre nel mondo nuovi inizi, senza limitarci ad orientare la nostra condotta in base alle massime dettate dalla tradizione. Tuttavia, pur essendo uno dei pochi filosofi a considerare la libertà come elemento distintivo dell’agire umano, Kant di fatto vanifica l’importanza della sua scoperta introducendo il valore assoluto dell’imperativo categorico (cfr. H. Arendt, Man in Dark Times, Harcourt Brace and World, New York 1968, p. 26). «Le mie riserve più forti», aggiunge la filosofa, «dinanzi alla filosofia di Kant concernano proprio la sua filosofia morale, vale a dire, la Critica della ragion pratica» (Ead., La vita della mente, cit., pp. 147, n. 83). 134 Cfr. H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., pp. 62 ss.

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na fino ad annichilirla. Radicali sono tutti quegli atti scaturiti da motivazioni che non sono compatibili con il rispetto per la dignità dell’essere umano. Si è responsabili di male radicale, dunque, ogniqualvolta vengono eseguiti comportamenti violenti che mirano ad annientare l’esistenza umana. Radicale non indica, quindi, semplicemente il dominio sull’uomo, ma qualcosa di più terribile e profondo, che ha determinato l’annullamento fisico (decor) e spirituale (decus) dell’umanità135. Non quindi una trasformazione delle condizioni esterne rispetto all’esistenza umana, bensì la trasformazione stessa della natura dell’uomo. I «Lager - spiega Arendt - sono i laboratori dove si sperimenta tale trasformazione, e la loro infamia riguarda tutti gli uomini, non soltanto gli internati e i guardiani. Non è in gioco la sofferenza, di cui ce n’è stata sempre troppa sulla terra, né il numero delle vittime. E in gioco la natura umana in quanto tale»136. L’intenzionalità dei persecutori nei campi di concentramento è stata proprio quella di ridurre a nulla i prigionieri. Essi apparivano come se non fossero mai esistiti, sradicati dalla propria dignità e dal ricordo della loro identità di esseri umani. Ma la radicalità di quel male era presente anche negli stessi carnefici, perché pur illudendosi di esercitare la forza, anch’essi venivano in realtà, al pari delle vittime, trasformati interiormente in disumani, sradicati dunque dallo statuto proprio di umanità137: come «le vittime delle fabbriche della morte o degli antri dell’oblio non sono più “umane” agli occhi dei loro carnefici,

135 Cfr. G. Di Salvatore, L’inter-esse come “metaxù” e “praxis”. Assonanze e dissonanze tra Simone Weil e Hannah Arendt, cit., p.178. Cfr. anche M. A. Pranteda, Male radicale, in P. P. Portinaro (a cura di), I concetti del male, Torino, Einaudi 2002. 136 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 628. 137 Cfr. G. Di Salvatore, L’inter-esse come “metaxù” e “praxis”. Assonanze e dissonanze tra Simone Weil e Hannah Arendt, cit., pp. 179-180.

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così questa nuova specie di criminali sono al di là persino della solidarietà derivante dalla consapevolezza della peccabilità umana»138. Ha commesso dunque il male radicale il totalitarismo perché ha saputo letteralmente trasformare in “cose”139 carnefici e vittime, dimostrando al mondo intero che tutto potesse essere permesso e, cosa ancora più terribile, che tutto fosse possibile, e quindi potesse essere distrutto140. Risulta difficile, insiste Arendt, comprendere la radicalità del male. Non ci è di aiuto né la tradizione teologica cristiana, che persino al Diavolo ha attribuito una origine celeste, né quella dei filosofi, dal momento che lo stesso Kant, l’unico pensatore che ha almeno sospettato l’esistenza di questo male, lo ha comunque spiegato come volontà malvagia razionalmente descrivibile. Non abbiamo pertanto strumenti in grado di aiutarci a comprendere la mostruosità di un fenomeno che ha demolito ogni criterio di giudizio conosciuto. Un’unica cosa sembra certa: «possiamo dire che il male radicale è comparso nel contesto di un sistema in cui tutti gli uomini sono diventati ugualmente superflui»141, degenerati da una miseria politica, sociale ed economica che li ha resi indegni dell’essere umano. Una volta “sradicati” dalla loro stessa coscienza, gli uomini si

138 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 628. 139 Per un approfondimento del concetto di cosificazione, cfr. G. Di Salvatore, L’inter-esse come “metaxù” e “praxis”. Assonanze e dissonanze tra Simone Weil e Hannah Arendt, cit., pp. 151-154. 140 Cfr. H. Arendt, La natura del totalitarismo: un tentativo di comprensione, in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit., p. 153, e Ead., Le origini del totalitarismo, cit., p. 629. 141 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 629.

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muovono come semplici «manichini»142 in un’esistenza divenuta superflua. Il male attuato durante la Shoah, con le deportazioni, le stragi, i campi di concentramento, le camere a gas, è stato così devastante da paralizzare ogni forma di comprensione143. Ciononostante, Arendt vuole capire: «comprendere non significa negare l’atroce, dedurre il fatto inaudito da precedenti, o spiegare i fenomeni con analogie e affermazioni generali in cui non si avverte più l’urto della realtà e dell’esperienza, significa piuttosto esaminare e portare coscientemente il fardello che il nostro secolo ci ha posto sulle spalle, non negarne l’esistenza, non sottomettersi supinamente al suo peso. Comprendere significa insomma affrontare spregiudicatamente, attentamente la realtà, qualunque essa sia»144. Tuttavia, come può essere appagato questo bisogno di comprensione quando la realtà che ci sta di fronte oltrepassa nel suo orrore ogni categoria razionale? Quando gli eventi storici sono così brutali da sottrarsi al giudizio umano? Come si può comprendere il male assurdo ed estremo che si è manifestato durante l’olocausto? Durante il periodo trascorso a Gerusalemme, immersa nella vicenda legata al processo del nazista Eichmann, Arendt comincia a rivedere la sua posizione sulla questione del male sino a teorizzare una definizione, almeno in apparenza, totalmente differente. Ne nascerà un testo, La banalità del male, 142 Cfr. ivi, p. 624. 143 Cfr. S. Forti, Metafisica e microfisica del male: dai demoni assoluti ai demoni mediocri, in A. Burgio, A. Zamperini (a cura), Identità del male. La costruzione della violenza perfetta, Franco Angeli, Milano 2013, pp. 55-68; R. J. Bernstein, Riflessioni sul male radicale: Arendt e Kant, cit., pp. 10-17; P. Costa, La radicale banalità del male. Hannah Arendt e l’orrore totalitario, in E. Donaggio, D. Scalzo (a cura di), Sul male a partire da Hannah Arendt, cit., pp. 68-70. 144 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. LXXX.

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per molti aspetti scomodo, che diventerà oggetto di violente polemiche e accesi dibattiti145. Il contenuto del libro, unita-

145 Cfr. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, cit. Per un approfondimento della controversia relativa al caso Eichmann cfr. E. Young-Bruehl, Hannah Arendt (1906-1975). Per amore del mondo, tr. it. di D. Mezzacapa, Bollati Boringhieri, Torino 1994; H. Mommsen, Hannah Arendt and Eichmann Trial, in Id., From Weimar to Auschwitz: Essays in German History, Princeton University Press, Princeton 1990. Come è noto Hannah Arendt scrisse questo testo dopo essere stata invitata da un importante giornale statunitense, il “The New Yorker”, ad assistere come corrispondente, a Gerusalemme, alle udienze del processo penale contro Eichmann. Quest’ultimo venne catturato l’11 Marzo del 1961, in Argentina, dove conduceva sotto falso nome una vita tranquilla. Rapito da alcuni agenti del servizio segreto israeliano e condotto a Gerusalemme, venne processato da un tribunale ebraico, dove, un mese dopo, la sentenza lo riconobbe responsabile di crimini contro gli ebrei (favorendone lo sterminio, facendoli vivere in condizioni che avrebbero portato alla morte, causando danni psicologici e impedendo ulteriori nascite) e crimini contro l’umanità. Fu accettata la tesi secondo cui egli avrebbe solo reso possibile lo sterminio, ma non lo avrebbe messo in atto personalmente. Fu condannato a morte mediante impiccagione nel maggio del 1962. Eichmann era il dirigente dell’ufficio che, di fatto, si occupava delle deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento. Fino alla fine Eichmann dichiarò di sentirsi vittima di un’ingiustizia giudiziaria, ed era profondamente convinto di essere stato condannato per le colpe commesse degli altri. Dopotutto, egli si considerava solo un burocrate che aveva svolto il proprio lavoro, e solo incidentalmente questo aveva coinciso con un crimine. Nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato “soltanto di trasporti”. Su quest’ultimo punto cfr. C. M. Bellei, Il caso Eichmann. Un processo o un rito di fondazione?, in E. Donnaggio-D. Scalzo (a cura di), Il male, Booklet Milano, Milano 2003, pp. 213 ss.; M. Osiel, Atrocità ordinarie. Il massacro di Stato, ivi, pp. 222 ss.; V. Conti, Arendt – Fest: «autori di grandi crimini politici» o «grandi criminali politici»?, in «Montesquieu.it», Alma Mater Studiorum – University of Bologna, vol. 7 (2015), disponibile al sito http://montesquieu.unibo.it/article/view/5188. Inizialmente pubblicato in cinque articoli sulla rivista settimanale The New Yorker, il resoconto di quel processo confluì nel libro Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, nel 1963. Un libro a lungo criticato, a causa del quale l’autrice perse anche alcune importanti amicizie. La lettera-

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mente alla scelta dell’autrice di utilizzare un titolo palesemente provocatorio, susciterà una serie di censure molto pesanti. Arendt verrà aspramente criticata per aver tradito le proprie origini ebraiche, accusata di non amare abbastanza il suo popolo, nonché censurata per aver accusato i leader dei consigli ebraici di collaborazionismo nella gestione logistica e materiale delle deportazioni degli ebrei nei campi di sterminio146. In particolare, però, le verrà rinfacciata, anche perché fraintesa, l’insinuazione di una nuova teoria o giustificazione del male,

tura a riguardo è vastissima; tra gli altri si vedano: S. Forti, Banalità del male, in P. P. Portinaro (a cura di), I concetti del male, cit.; D. Scalzo, Vita ufficiale e male amministrativo. Hannah Arendt a Gerusalemme, in E. Donaggio, D. Scalzo (a cura di), Sul male a partire da Hannah Arendt, cit.; S. Forti, Sulla normalità del male, Feltrinelli, Milano 2014. 146 Vi sono passaggi nel testo in questo senso molto espliciti; quello più scabroso e per una buona parte del mondo ebraico ancora imperdonabile è questo: «Per un ebreo, il contributo dato dai capi ebraici alla distruzione del proprio popolo, è uno dei capitoli più foschi di tutta questa fosca vicenda. […] Ad Amsterdam come a Varsavia, a Berlino come a Budapest, i funzionari ebrei erano incaricati di compilare le liste delle persone da deportare e dei loro beni, di sottrarre ai deportati il denaro per pagare le spese della deportazione e dello sterminio, di tenere aggiornato l’elenco degli alloggi rimasti vuoti, di fornire forse di polizia per aiutare a catture gli ebrei e a caricarli sui treni, e infine, ultimo gesto, di consegnare in buon ordine gli inventari dei beni della comunità per la confisca finale» (H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, cit., pp. 125-126). A p. 132 si parla ancora espressamente di collaborazionismo: «La verità vera era che se il popolo ebraico fosse stato realmente disorganizzato e senza capi, dappertutto ci sarebbe stato caos e disperazione, ma le vittime non sarebbero state quasi sei milioni. (Secondo i calcoli di Freudiger, circa la metà si sarebbero potute salvare se non avessero seguito le istruzioni dei Consigli ebraici)». Cfr. a riguardo anche H. Arendt, Sulla collaborazione, in Ead. Ebraismo e modernità, cit., pp. 175 ss. (il saggio è una tr. it. di Ead., Abouth Collaboration, “Jewish Frontier”, ottobre 1948). Sull’atteggiamento passivo degli ebrei durante il genocidio nazista cfr. anche B. Bettelheim, Liberarsi dalla mentalità del ghetto, in Id., La Vienna di Freud, Feltrinelli, Milano 1990, in particolare pp. 283-297.

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attraverso l’accostamento tra male e banalità; scelta, questa, ritenuta oltremodo offensiva nei confronti delle vittime di una vicenda, quella della Shoah, che aveva lacerato nel profondo e irriducibilmente l’identità storica della civiltà europea147. Particolarmente nota, a riguardo è la polemica divampata subito dopo la pubblicazione del volume tra Hannah Arendt e Gershom Scholem. In una lettera di quest’ultimo, si coglie la sua perplessità nei confronti della definizione arendtiana di male banale, quasi fosse uno «slogan», anziché un’analisi profonda della questione. Arendt aveva, secondo lui, usato un «tono di insensibilità, spesso quasi beffardo e malevolo» nei confronti del popolo ebraico. Inammissibili le accuse poi rivolte agli ebrei che avrebbero svolto un ruolo strategico, secondo la filosofa, nel contribuire al genocidio. Se, insiste Scholem, nella tradizione ebraica resta fermo il concetto dell’«Ahabath Israel (l’amore per il popolo ebraico), in Arendt di tutto questo non rimane traccia. In conclusione, per Scholem nel testo viene proposta una tesi «completamente falsa e tendenziosa»148.

147 In realtà, Arendt tenterà di spiegare che non era sua intenzione speculare sul male a partire dal caso Eichmann. In una lettera, a tal riguardo, infatti, scrive: «la mia “nozione basilare” di un Eichmann uomo qualunque non è tanto una nozione, quanto la descrizione fedele di un fenomeno. Sono certa che si possono trarre molte conclusioni di questo fenomeno e la più generale che ho tratto è dichiarata “la banalità del male”. Può darsi che prima o poi abbia voglia di scrivere qualcosa al riguardo, e allora scriverei sulla natura del male, ma sarebbe stato assolutamente sbagliato farlo nell’ambito della relazione» (H. Arendt, Arendt a McCarthy, The University of Chicago, Chicago Illinois Committee on Social Thought, 3 ottobre 1963, “Linea d’ombra”, 109, Novembre 1995, p. 10). 148 Cfr. H. Arendt, Eichmann a Gerusalemme. Uno scambio di lettere tra Gershom Scholem e Hannah Arendt, in Ead., Ebraismo e modernità, cit., pp. 215-228, qui in particolare pp. 216, 217, 219. Altri intellettuali intervennero polemicamente contro Arendt: per un inquadramento del dibattito cfr.

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Vi è sicuramente in Arendt un atteggiamento critico, motivato da un’indignazione di carattere etico, nei confronti dei funzionari ebraici che in qualche modo avrebbero collaborato con il regime nazista. Ma si tratta dello stesso atteggiamento critico col quale ella si rivolge anche a tutto l’ampio fenomeno di adesione delle masse ai regimi totalitari. Arendt vuole cercare innanzitutto di comprendere come sia potuto accadere che nessuno potesse provare sdegno verso il male. La filosofa viene spinta ad interessarsi al caso Eichmann sostanzialmente per tre motivi: innanzitutto ella desidera giudicare da vicino un rappresentante in carne ed ossa di quel regime totalitario di cui tanto si era occupata e aveva scritto negli anni cinquanta. In secondo luogo, vuole valutare la possibilità, sul piano giuridico, di una nuova classificazione di crimine e criminale. Il terzo motivo è indicato dalle sue stesse parole: «Ho riflettuto per molti anni, nello specifico trent’anni, sulla natura del male, e il desiderio di espormi, non ai fatti, che, in ultima analisi, erano conosciuti da tutti, ma al perpetratore del male in sé, è stato probabilmente la mia motivazione più convincente a monte della decisione di andare a Gerusalemme»149.

E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975. Per amore del mondo, cit., pp. 374 ss. 149 Queste parole sono tratte da una bozza di una lettera che Arendt scrive a Samuel Grafton (Risposta a una lettera, Grafton-Arendt, 19 settembre, Divisione Manoscritti, Library of Congress). Questa bozza raccoglie le risposte alle domande che le erano state rivolte da Samuel Grafton, e sarebbero state pubblicate nell’ambito di un’intervista per la rivista Look. Arendt, in realtà, decise di sottrarsi all’intervista (cfr. quanto Arendt confida a Jaspers in una lettera del 20 ottobre 1963, in H. Arendt e K Jaspers, Correspondence 1926-1969, New York, Harcourt Brace Jovanovich, Publishers, 1992). Per un approfondimento cfr. anche B. Assy, Etica, responsabilità e giudizio in Hannah Arendt, Prefazione di Á. Heller, intr. di S. Forti, tr. e cura di E. Valtellina, Mimesis, Milano-Udine 2015, p. 38.

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Come arriverà a confidare in una lettera, scrivere La banalità del male è per la Arendt una cura posterior, un modo cioè per giungere ad una nuova prospettiva morale, capace di rompere definitivamente con la tradizione150. Il processo celebrato a Gerusalemme ha avuto il merito di non trattare l’imputato Eichmann come un semplice ingranaggio, ma come un individuo in carne ed ossa che si trova in tribunale per essere condannato per i crimini commessi nei confronti di milioni di esseri umani innocenti. Sebbene gli omicidi non fossero stati commessi da lui personalmente, egli ne era comunque in qualche modo responsabile, perché aveva favorito lo sterminio degli ebrei. Si comprende dunque per quali ragioni la corte lo considerò perfino più responsabile, rispetto a coloro che avevano compiuto materialmente questi agghiaccianti delitti. Arendt, nel suo resoconto vuole dunque chiarire in quale senso questo crimine debba essere giudicato contro l’umanità, e contro l’essere umano151. La dimensione della banalità prende consistenza nel giudizio di Arendt quando, durante il processo, emerge lo scarto tra le sue aspettative e lo spettacolo cui si trova a dover assistere. Adolf Eichmann, l’organizzatore della macchina nazista deputata ai trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentra150 Cfr. la lettera inedita di Arendt indirizzata a Meier-Cronemeyer, il 18 luglio 1963, Divisione Manoscritti, Library of Congress, pubblicata in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt (1906-1975). Per amore del mondo, cit., p. 509: «Lo scritto [La banalità del male] per me è stato in qualche modo una cura posterior. Ed era vero che è stato [come dici tu] un modo per giungere alle basi della creazione di una nuova morale politica – anche se io, per modestia, non utilizzerei mai tale formulazione». Secondo Young-Bruehl, con il termine cura posterior Arendt intende proprio il passaggio dal male radicale alla banalità del male. Cfr. anche J. Kohn, in Il male: un crimine contro l’umanità, “Post-Filosofie”, 1, 2005, p. 20. 151 Cfr. J. Kohn, Introduzione, in H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., pp. VII-XIII.

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mento e di sterminio, appare fin da subito ai suoi occhi come un personaggio terribilmente ordinario e comune. La prima reazione alla vista di quest’uomo, rinchiuso in una gabbia di vetro come se fosse un mostro pericoloso, è, in effetti, più che sinistra. Ma l’aspetto più inquietante non è la mediocrità e la totale assenza di personalità dell’accusato, bensì al contrario il fatto che azioni mostruose possano essere state compiute da un individuo così assolutamente normale152. Ciò che rende in ogni senso perturbante Eichmann è la mancanza di ogni tratto che possa essere considerato disumano153. Il problema è che quella «lontananza dalla realtà e quella mancanza d’idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo»154. Niente, tuttavia, in lui sembra richiamare qualcosa di particolarmente diabolico, per quanto fosse stato artefice di malvagità terribili155.

152 Sulla questione della “normalità” di Eichmann si veda: H.V. Dicks, La libertà di uccidere. Studio sociopsicologico sulla criminalità delle SS, Rizzoli, Milano 1975, p. 93; D. Scalzo, Vita ufficiale e male amministrato. Hannh Arendt a Gerusalemme, in E. Donnaggio-D. Scalzo, Il male, cit., pp. 136139; E. Traverso, L’immagine dell’inferno. Hannah Arendt e Auschwitz, in E. Donnaggio-D. Scalzo, Il male, cit., pp. 56 ss.; M. Veto, Cohérence et terreur: introduction a la philosophie politique de Hannah Arendt, “Archives de Philosophie”, 45, 1982, in particolare pp. 579-581; E. Vollrath, Dal male alla banalità del male. Riflessioni su un’idea di Hannah Arendt, in E. Donnaggio-D. Scalzo, Il male, cit., pp. 124 ss. 153 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, cit., p. 290. 154 Ivi, p. 291. 155 Cfr. ivi, pp. 290-291. «Malgrado gli sforzi del Pubblico ministero, chiunque poteva vedere che quell’uomo non era un “mostro”, ma era difficile non sospettare che fosse un buffone. Siccome però questo sospetto sarebbe stato fatale a tutta l’impresa, e inoltre contrastava troppo con le sofferenze che lui e i suoi pari avevano inflitto a milioni di persone, le sue peggiori buffonate passarono quasi inosservate e quasi nessuno ne riferì» (ivi, p. 270).

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La superficialità di Eichmann presuppone l’incapacità di un pensiero critico autonomo. Eichmann ha sempre agito in modo conforme al cieco rispetto di leggi e ordini pervenuti dall’autorità riconosciuta. Assieme a lui, c’era un’intera massa di uomini perfettamente normali le cui azioni erano divenute mostruose: il nazismo realizzò le fabbriche di morte grazie, infatti, alla collaborazione di ogni strato della società tedesca. In questa terribile “normalità”, che caratterizza la massa appiattita dalla macchina burocratica del potere, capace di compiere gli atti più mostruosi che il mondo avesse mai visto senza nemmeno rendersene conto, Arendt rintraccia la questione della banalità del male. Fra i numerosi problemi connessi al processo Eichmann, uno supera per importanza gli altri: tutti «i sistemi giuridici moderni partono dal presupposto che per commettere un crimine occorre l’intenzione di fare del male. Se c’è una cosa di cui la giurisprudenza del mondo civile si vanta, è proprio di tener conto del fattore soggettivo. Quando manca questa intenzione, quando per qualsiasi ragione (anche di alienazione mentale) la capacità di distinguere il bene dal male è compromessa, noi sentiamo che non possiamo parlare di crimine»156. Eichmann ripeté fino alla fine, senza mai esitare una volta, che aveva sempre agito come semplice cittadino ligio alla legge. In fondo, egli aveva solo agito secondo il suo dovere, conformemente a quanto imposto dagli ordini e dalla legge. Si era attenuto a quella che egli stesso aveva definito una “obbedienza cadaverica”157. Per cercare di rafforzare ulteriormente la sua posizione, Eichmann si era spinto a precisare che aveva agito secondo i principi del dovere dell’etica kantiana, eviden-

156 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, cit., pp. 282-283. 157 Cfr. ivi p. 142.

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temente immemore del fatto che l’etica di Kant si fonda principalmente sulla facoltà di giudizio dell’uomo, la quale perciò esclude a priori la cieca obbedienza. Invitato dal giudice Raveh a chiarire il significato del riferimento all’etica kantiana, Eichmann risponde riprendendo grosso modo il concetto di imperativo categorico: «“Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che il principio della mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali” […]. Rispondendo ad altre domande, Eichmann rivelò di aver letto la Critica della ragion pratica di Kant, e quindi procedette a spiegare che quando era stato incaricato di attuare la soluzione finale aveva smesso di vivere secondo i principi kantiani, e che ne aveva avuto coscienza, e che si era consolato pensando che non era più “padrone delle proprie azioni”, che non poteva far nulla per “cambiare le cose”»158. In questo modo, sottolinea Arendt, Eichmann aveva in realtà distorto l’imperativo categorico in una massima che poteva recitare così: «Agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo paese»159. Ovviamente nella prospettiva kantiana ogni uomo diventa legislatore nel momento in cui incomincia ad agire, adoperando cioè la “ragione” per riconoscere in sé quei principi che dovrebbero riflettere quelli della legge. Nel far questo però l’uomo non deve semplicemente obbedire alla legge, ma deve identificare la propria volontà con il principio stesso da cui è generata la legge, ovvero la “ragion pratica”160. Questa vicenda in realtà mette in luce una questione estremamente delicata. Agire secondo i principi previsti dalla legge 158 Ivi, p. 143. 159 Ibidem. 160 Questa è in breve la ricostruzione del ragionamento kantiano offerto da Arendt, ivi, p. 144.

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può effettivamente rendere responsabili delle proprie azioni, siano esse azioni anche criminali? L’“obbedienza cadaverica”, considerata come un connotato morale attraverso cui dimostrare la propria fedeltà e lealtà ad un sistema di regole, qualora si espliciti in comportamenti malvagi, seppur legalizzati, può essere considerata un reato? Eichmann spiegò la sua posizione affermando che «se riuscì a tacitare la sua coscienza fu soprattutto per la semplicissima ragione che egli non vedeva nessuno, proprio nessuno che fosse contrario alla soluzione finale»161. Nel momento in cui il funzionario nazista Eichmann risponde, in sua difesa, di aver semplicemente compiuto il proprio dovere, obbedendo a ordini impartiti dai suoi superiori, e di avere sempre agito all’interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi, dimostra chiaramente di non aver riflettuto sul contenuto delle regole e di averle applicate incondizionatamente senza comprenderne la mostruosità. A indurre i carnefici a compiere il male non furono dunque particolari motivazioni malvage, bensì una pericolosa perdita di contatto con la realtà. Ciò che scorge la Arendt in Eichmann di terribile è proprio la sua incapacità di pensare162. Eichmann ha introdotto il pericolo estremo della mancanza di riflessione che può produrre anche un male mostruoso, senza che venga recepito come tale. Sia pure vagamente, Eichmann aveva capito che ciò che li aveva trasformati tutti in criminali, non era stato un ordine, ma una legge. Vi era una differenza tra un ordine generico e un ordine impartito dal Führer: il primo era limitato nel tempo e 161 Ivi, p. 124. 162 «Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata a un’incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro» (ivi, p. 57).

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nello spazio, il secondo no. L’ordine che proveniva dal Führer, a differenza di tutti gli altri ordini, era infatti considerato legge. Questo strumento giuridico era dunque servito a conferire ad ogni azione una parvenza di legalità. E «come nei paesi civili la legge presuppone che la voce della coscienza dica a tutti “Non ammazzare”, anche se talvolta l’uomo può avere istinti e tendenze omicide, così la legge della Germania hitleriana pretendeva che la voce della coscienza dicesse a tutti “Ammazza”, anche se gli organizzatori dei massacri sapevano benissimo che ciò che era contrario agli istinti e alle tendenze normali della maggior parte della popolazione. Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è»163. Eichmann appariva grottesco, così come tutte quelle persone che si sentivano autorizzate dal sistema a considerare l’omicidio un fatto legale, o ancor peggio un dovere. La superficialità delle azioni, senza il supporto di un pensiero che le guidi, può dunque generare criminali che non sanno nemmeno di esserlo. Questo è accaduto durante i regimi totalitari quando l’uomo, impossibilitato a pensare, è stato privato della sua qualità più importante e profonda. Ciò che è stata sradicata dal totalitarismo è proprio la caratteristica precipua della soggettività umana: la capacità di giudizio e di istituire un dialogo con la propria coscienza. Le menti dei criminali nazisti erano state 163 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, cit., p. 156. Secondo Arendt, se, infatti, tradizionalmente si ritiene che l’uomo sia per sua natura portato a cedere alla tentazione del male, certamente si può tuttavia sostenere che non sia portato a commetterlo in modo deliberato (cfr. Ead., Alcune questioni di filosofia morale, cit., p. 37: «Secondo la nostra tradizione, ogni malvagità umana va addebitata o alla cecità e ignoranza dell’uomo o alla sua debolezza, alla sua inclinazione a cedere alla tentazione. L’uomo – così l’argomento recita di solito – è incapace tanto di compiere automaticamente il bene quanto di compiere automaticamente il male. Egli è tentato di compiere il male e deve fare uno sforzo per compiere il bene»).

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annichilite allo stesso modo di quelle degli uomini massa del regime. I nuovi valori imposti dal regime erano infatti disumanizzanti, sia per chi li subiva, sia per chi li proclamava. In una lettera rivolta Karl Jaspers, riferendosi ai criminali nazisti, Arendt riconduce «la causa della loro pura e semplice banalità, alla loro piatta nullità». Nel far questo li paragona a dei batteri che, pur provocando «epidemie capaci di annientare intere popolazioni, restano batteri e nulla più»164. Allo stesso modo di Eichmann, questi individui automatizzati sono stati in grado di compiere crimini inauditi non già perché mossi da moventi malvagi, ma semplicemente perché stretti da una comune identificazione nella legge, che li ha privati di ogni autonomia di giudizio, divenendo perciò incapaci di discernere ciò che è bene da ciò che è male, di distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso165. Con l’aggettivo «banale» la Arendt vuole dunque sottolineare la pericolosità che soggiace alla apparente normalità di chi, senza riflettere, può agire nel male, credendo di adempiere ai doveri imposti dalla legge fino al punto di compiere delitti atroci, senza rendersi minimamente conto di quello che sta facendo166. Banale è l’atrofia di pensiero e di giudizio che è alla base di ogni comportamento malvagio; è la superficialità, la vuotezza interiore, che caratterizza la crudeltà di azioni vio-

164 Cfr. H. Arendt, K. Jaspers, Carteggio. Filosofia e politica, cit., p. 71. Secondo questa metafora, il male totalitario si sarebbe diffuso come un batterio distruggendo l’organismo stesso nel quale si annidava. 165 Cfr. H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, cit., p. 102. Cfr. anche A. Burgio, Acconsentire allo sterminio. Per un’indagine sui motivi del consenso di massa ai crimini nazisti, in A. Burgio, A. Zamperini (a cura), Identità del male. La costruzione della violenza perfetta, FrancoAngeli, Milano 2013, pp. 45-46. 166 S. Forti, Male, in O. Guaraldo (a cura di), Il Novecento di Hannah Arendt. Un lessico politico, cit., p. 64.

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lente. Banale è il vuoto, la mancanza di spessore e di profondità, che Arendt ha colto in Eichmann. Un soggetto assente a se stesso, sradicato dalla propria soggettività, incapace di vedere l’altro e quindi anche di riconoscere se stesso. Uno degli scritti arendtiani in cui meglio si può cogliere il significato di “banalità del male” risale alle parole pronunciate dalla pensatrice in risposta alla lettera che, nel giugno del 1963, le era stata inviata da Gershom Scholem. Si tratta di un passaggio emblematico e particolarmente chiaro, seppur breve: «Ho cambiato idea – scrive Arendt - e non parlo più di “male radicale”. […] Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso “sfida”, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”»167. Ne La banalità del male, il male viene dunque colto in tutta la sua insensatezza, nella casualità con la quale si esprime, nell’impossibilità di comprenderne l’origine – e insieme nell’incapacità di impedirne l’insorgere. Il male è visto come un dato che appartiene alla condizione umana, refrattario ad ogni possibile razionalizzazione. Alla base di questa posizione vi è la convinzione che ciò che chiamiamo male non si dia mai in forma “assoluta”, non sia mai univocamente tale, ma risulti piuttosto da un impasto, da una miscela, nella quale si fondono elementi diversi. Illusorio pensare che possa realizzarsi

167 H. Arendt, «Eichmann a Gerusalemme». Uno scambio di lettere tra Gershom Scholem e Hannah Arendt, in Ead., Ebraismo e modernità, cit., p. 227.

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compiutamente il bene168, e non meno infondato è credere di poter individuare l’origine del male, ritenere che esso sia riconoscibile con sicurezza, e dunque che si possa isolarlo e infine estrometterlo definitivamente dalla vita sociale. Di fronte al prorompere del male, in tutta la sua banale insensatezza, qualunque tentativo di “spiegazione” in termini razionali non può che essere esposto allo scacco. Dal 1940 fino al 1953 tutta l’opera arendtiana si era concentrata nel tentativo di definire il male radicale o assoluto che aveva caratterizzato il totalitarismo, ovvero l’annientamento intrapreso dai nazisti nei confronti di milioni di esseri umani innocenti. La violenza esercitata in tale circostanza, secondo la filosofa, aveva letteralmente distrutto ogni categoria interpretativa tradizionale, che fosse di carattere morale, politico o giuridico. Gli esperimenti compiuti nei campi di concentramento, i crimini e le brutalità commessi, il fatto stesso che l’impensabile potesse essere stato realizzato, tutto questo aveva, infatti, per sempre annientato l’idea stessa di umanità, e aveva introdotto nel mondo la radice stessa del male169. Le vite degli individui, perseguitati o persecutori, si erano trasfor168 È interessante leggere quanto scrive a riguardo Arendt nei suoi Quaderni: «Il bene e il male. Il bene – il fatto che tutto ciò che è appare, ovvero 1) ciò che dall’oscurità aspira alla luce, che dal fondo oscuro cresce verso l’alto, 2) ciò che si presenta, che si mostra in questo processo; infine scompare nuovamente. Tutto il bene si muove in verticale. Il male sfreccia attraverso questa verticale, in orizzontale. Questa tempesta distrugge tutto, piega tutto e impedisce il quieto movimento del vivente: la sua ascesa e il suo declino» (H. Arendt, Denktagebuch 1950-1973, U. Ludz e I. Nordmann (a cura di) Piper Verlag Gmbh, München 2002; tr. it. di C. Marzia (a cura di), Nel deserto del pensiero. Quaderni e diari, 1950-1973, Neri Pozza Editore, Vicenza 2007; qui viene citato un pensiero datato 1966, quaderno XXIV, p. 512). E ancora: «Il bene: sempre ambiguo, concetto funzionale e parametro dell’agire» (ivi, pensiero datato febbraio 1966, p. 515). 169 Cfr. J. Kohn, Introduzione, in H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. XVII.

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mate in materia inanimata, assecondando un’ideologia fatta di presunte leggi naturali che imponevano di creare una razza di padroni e di sterminare ogni altra razza ritenuta inadatta alla vita. Dopo il processo di Gerusalemme all’ufficiale nazista Eichmann, la Arendt capì tuttavia che questo male non aveva bisogno di un’ideologia per essere radicato, ma anzi, all’opposto, il male poteva espandersi senza limiti nella superficie dell’irriflessività, del non senso, dell’incapacità di pensiero. Il male si diffonde senza barriere quando non viene arginato da un rimorso, o da un ricordo consapevole delle azione compiute, sicché le sue ragioni diventano quindi banali. Porsi nella prospettiva del male banale per Arendt significa dunque considerare un male privo di radici, e proprio per questo senza limiti, per il quale non vi è possibilità alcuna di comprensione170. Il “mostro” non è allora una persona dai caratteri disumani, o il malvagio consapevole di fare del male, ma è l’uomo comunque che commette banalmente le sue mostruosità senza coscienza critica. Il carattere dell’ordinarietà, della banalità, consente al male di esprimersi con o senza intenzionalità, divenendo in taluni casi anche estremo, senza peraltro mai diventare veramente profondo. Nella riflessione arendtiana sul male è assente – o, se non altro, non è esplicitamente dichiarato – l’interrogativo che ritorna costantemente nella tradizione filosofica e teologica occidentale, nella quale ci si è chiesti “si Deus est, unde malum?”. L’indagine dell’autrice affonda piuttosto nello statuto del male in se stesso, indipendentemente dal rapporto col piano della trascendenza. Ciò che suscita problema non è la compatibilità 170 H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, cit., p. 55.

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fra l’innegabile presenza del male nella vita dell’uomo e l’esistenza di un Essere onnisciente e onnipotente, creatore di tutto ciò che è, e dunque anche del male. Problematico – fino al punto da apparire perfino irresolubile – è piuttosto il male in se stesso, o più esattamente l’idea che un individuo provvisto di razionalità possa rendersi responsabile di azioni così malvagie, quali quelle imputate ad Eichmann. A tutto ciò si aggiunga un ulteriore aspetto che appare perfino inesplicabile. Come è possibile immaginare che una personalità debole ed evanescente, in ogni senso mediocre, possa aver commesso crimini così orrendi? Come è possibile conciliare la “normalità” dell’ufficiale nazista con l’anomalia di ciò che gli viene addebitato? Su questo punto, Arendt si discosta nettamente dall’impostazione prevalente nella tradizione filosofica e nel dibattito culturale della sua epoca, come è appunto testimoniato fra l’altro dal dissidio con Gershom Scholem. Nel caso della Shoah, la relazione di “proporzionalità” non è più applicabile. L’autore di un “grande” male non è necessariamente una figura dotata di una grande personalità. Al contrario: proprio quando il male a cui ci si riferisce eccede ogni possibile “misura”, proprio quando esso appare impensabile, perché remoto da ogni barlume di razionalità, proprio allora si evidenzia tutta la miseria costitutiva del male e insieme del suo autore. Nessuna, pur perversa, “grandiosità” può essere riconosciuta ad Eichmann. Nessun “eroismo”, per quanto distorto e aberrante, a lui può essere accreditato. Ciò di cui siamo in presenza è un grigio funzionario “addetto ai trasporti”. L’arcano del male, ciò che sembrava essere inspiegabile, si manifesta nella sua costitutiva banalità. Ma vi è anche un altro problema, strettamente connesso a quello relativo alla natura del male, evocato dall’esperienza che Arendt compie seguendo assiduamente le 120 sedute del processo ad Eichmann. Fino a che punto, e in quali forme, l’ufficiale nazista può essere considerato “responsabile” della

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morte di tante migliaia di innocenti? Quale nozione di responsabilità è necessario presupporre per poter giudicare, e infine condannare, un mediocre burocrate inconsapevole delle conseguenze insite nei suoi atti? Su questo piano, Arendt si misura con una problematica estremamente complessa, non a caso costantemente riemergente soprattutto nel dibattito filosofico della seconda metà del Novecento. Una volta che sia assodata l’impossibilità di far coincidere la responsabilità in senso etico con l’imputabilità dal punto di vista giuridico, a quali condizioni si può ritenere che Eichmann sia comunque parzialmente responsabile dell’eccidio degli ebrei? Qui la ricerca arendtiana si apre al confronto, in termini fortemente problematici, da un lato con la riflessione kantiana, e dall’altro con alcuni esiti del pensiero contemporaneo. Ponendo al centro di questa vera e propria Auseinandersetzung il nesso fondamentale fra responsabilità e giudizio.

2.4 Un mondo capovolto Uscita particolarmente turbata dall’esperienza legata al processo Eichmann, Hannah Arendt cerca rifugio nei grandi classici della filosofia per cercare di approfondire le sue intuizioni sulla banalità del male. Nel testo intitolato Responsabilità e giudizio la filosofa riunisce saggi e lezioni che nascono proprio dal tentativo di rispondere ad alcune grandi questioni lasciate in sospeso171. In particolare, gli interrogativi di fondo che ella si pone riguardano anzitutto la possibilità di «distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato quando la maggioranza o la

171 H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit.: in questo testo vengono raccolti i discorsi, le lezioni e i saggi che Arendt scrisse o pronunciò tra il 1964 e il 1975, ultimo anno di vita della filosofa.

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totalità delle persone che mi stanno accanto ha già formulato un giudizio»172. Inoltre: «Chi sono io per giudicare? In quale misura è possibile formulare un giudizio su eventi del passato, su accadimenti ai quali non abbiamo assistito?»173. E infine: «Come possiamo distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, anche senza sapere ciò che dice la legge? E come possiamo giudicare senza essere stati in una situazione simile?»174. Nella condotta sociale si avverte sempre di più una generale incapacità di giudizio e di assunzione di responsabilità nei confronti degli atti che vengono commessi. In ogni caso, anche quando venga chiamata a rispondere, di fronte a quell’«orrore indicibile» che ha caratterizzato nella loro «nuda mostruosità» gli eventi della seconda guerra mondiale, la capacità di comprensione e di giudizio è andata oltre ogni categoria morale, e ha infranto «ogni barriera giuridica»175. La crisi della comprensione nasce proprio nel momento in cui ci si rende conto di non possedere più regole universali attendibili che possano fungere da faro nel momento dell’agire: non «occorreva la comparsa del totalitarismo per dimostrarci che viviamo in un mondo capovolto, un mondo in cui non possiamo orientarci attenendoci alle regole di quello che una volta era il senso comune»176. Quello che più crea sgomento, in relazione a quando accaduto durante l’olocausto, non è tanto la violenza scellerata compiuta dai nazisti, non tanto quindi il comportamento dei “nemici”

172 Ivi, p. 16. 173 Ibidem. 174 Ivi, p. 19. 175 Ivi, p. 20. 176 H. Arendt, Comprensione e politica, in Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit., p. 115.

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che si sono conformati ai programmi enunciati dal sistema, quanto invece la condotta assunta dai cosiddetti “amici” che nulla hanno fatto per sottrarsi a quanto la Storia stava compiendo. «Se non si tiene conto di questo collasso generale», osserva Arendt, «se non si tiene conto di questa compromissione, non della responsabilità personale, ma della propria personale capacità di giudizio, non si può davvero capire ciò che accadde in seguito»177. Il problema nasce nel momento in cui si cerchi di capire «cosa resta della nostra facoltà di giudizio quando ci scontriamo con fatti che sfuggono ai nostri tradizionali standard di giudizio, con eventi per i quali non ci sono precedenti, con fatti ed eventi che non sono previsti in alcun modo dalle nostre regole generali di giudizio, nemmeno come altrettante eccezioni alla regola»178. Tutta la questione ruota intorno alla facoltà di giudizio che dovrebbe essere in grado, in maniera spontanea e libera, di giudicare i fatti e le persone senza restare condizionata da emozioni o interessi personali, né tantomeno da regole preconcette. La facoltà di giudizio deve innanzitutto rispondere ad una «responsabilità personale» che nulla ha a che vedere con la «responsabilità politica» di un popolo o una nazione179. Questo perché non esiste di per sé un’attestazione di colpa o innocenza collettiva: la colpa e l’innocenza appartengono solo ed esclusivamente alla singola individualità180. Così come ogni sistema organizzato risponde politicamente del proprio operato a prescindere dal singolo soggetto in esso 177 H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. 21. 178 Ivi, pp. 22-23. 179 Cfr. ivi, p. 23. 180 Cfr. ivi, p. 24. Su questa questione cfr. H. Arendt, Organized Guilt and Universal Responsibility, in «Jewish Frontier», XIII, 1945, n. 1, pp. 19-23; tr. it. di P. Costa, Colpa organizzata e responsabilità universale (gennaio 1945), in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit.

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rappresentato, al tempo stesso ogni persona può e deve essere sostituita senza compromettere il sistema stesso181. La responsabilità personale non può essere scaricata sul sistema nel suo complesso, così come un potere rappresentativo non può fare di un singolo soggetto il capro espiatorio di una responsabilità collettiva. In questo senso è bene chiarire che, secondo Arendt, vi è sempre una responsabilità personale per le cose che si sono compiute, così come è irrilevante il sentimento di colpa che scaturisce a seguito di fatti accaduti senza la nostra personale partecipazione182: «quando si è tutti colpevoli, in fin dei conti nessuno lo è». I soggetti possono sentirsi metaforicamente in colpa per i peccati commessi dai loro padri, o dal loro popolo o nazione, ma in linea di principio la colpa, a differenza della responsabilità, è sempre e univocamente personale, perché è strettamente legata all’azione stessa del soggetto, e non a un’intenzione. Come è possibile intuire, il crinale tra responsabilità personale e responsabilità collettiva si gioca lungo una linea di demarcazione molto sottile, ma al tempo stesso decisiva sul piano morale e politico. Le norme morali e giuridiche hanno come riferimento sempre la singola persona, e mai il gruppo.

181 In questo quadro, sostiene Arendt, sulla base di criteri quali «la libertà, la felicità o il grado di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica», è possibile distinguere i sistemi buoni da quelli cattivi, ma al tempo stesso «la questione della responsabilità personale resta una faccenda del tutto marginale» (H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. 25). 182 A tal proposito l’autrice tiene a specificare che nella Germania post bellica, quando «esplose il problema della responsabilità di ciò che il regime hitleriano aveva fatto agli ebrei, il grido “Siamo tutti colpevoli”, che a prima vista sembrava così nobile e invitante, in effetti è servito solo a discolpare, almeno in parte, coloro che erano realmente colpevoli» (ivi, p. 127).

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L’argomento utilizzato dal nazista Eichmann a giustificazione delle azioni da lui commesse si regge tutto su un unico argomento: egli sosteneva di aver semplicemente eseguito gli ordini pervenuti dall’alto183. Come si può dunque identificare il crimine quando ci si trova di fronte ad un massacro organizzato dallo Stato, quando la legge da seguire impone di «uccidere», e di uccidere per giunta non meramente un nemico, ma persone innocenti e non potenzialmente pericolose, e quando ogni azione avviene in un contesto in cui ogni atto morale è illegale, e ogni atto legale è un crimine184? Nel caso di Eichmann, l’imputato ha continuato a sostenere che il suo operato rientrava all’interno di una pianificazione imposta da un sistema di regole tali da fare di lui semplicemente un ingranaggio di tale organizzazione. Ma nel momento in cui egli viene citato in tribunale, è giusto che venga giudicato e condannato per quello che lui soltanto, come persona, ha fatto.

183 Questa è la difesa – spiega Arendt - di coloro che pensavano fosse loro dovere eseguire gli ordini dei programmi nazisti: «ogni organizzazione esige che si presti obbedienza ai superiori, nonché obbedienza alle leggi del Paese, l’obbedienza è una virtù politica di prim’ordine, senza la quale nessun corpo politico potrebbe sopravvivere a lungo. Un’illimitata libertà di coscienza non esiste da nessuna parte, altrimenti verrebbe meno ogni forma di comunità politica» (ivi, p. 38). 184 Cfr. ivi, pp. 34-35. H. Arendt, Colpa organizzata e responsabilità universale (gennaio 1945), in Ead., Antologia. Pensiero, azione e critica nell’epoca dei totalitarismi, cit., pp. 42-43: «l’orrore estremo che coglie le persone di buona volontà ogniqualvolta si discute il caso tedesco non è provocato da questi irresponsabili corresponsabili, né da particolari crimini perpetrati dai nazisti stessi, è suscitato piuttosto dall’enorme macchina adibita allo sterminio di massa, al cui servizio poterono e in effetti vennero impiegate, non solo migliaia di persone, e nemmeno diverse migliaia di assassini accuratamente selezionati, ma un popolo intero».

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Prima di procedere a livello giudiziario, all’interno della responsabilità collettiva va sempre individuata la responsabilità personale, e quindi valutato il grado di coinvolgimento e colpevolezza di ogni singolo soggetto appartenente al gruppo in questione. Si può parlare insomma di responsabilità collettiva solo in termini politici, tanto quanto la colpa morale e giuridica è sempre riferita all’individuo185. In questo approfondimento della nozione di responsabilità, è importante comprendere cosa è accaduto a quei soggetti che sono sopravvissuti alle campagne morali e intellettuali condotte dai nazisti, o che sono giunti al sacrifico supremo della loro vita, pur di non essere coinvolti nell’omicidio di altre persone. Arendt ritiene che alla base di questi comportamenti non vi sia stata un’intelligenza morale particolarmente sviluppata, quanto piuttosto «la predisposizione a vivere insieme a se stessi, ad avere rapporti con se stessi, cioè ad impegnarsi in quel dialogo silente con se stessi che, sin dai tempi di Socrate e Platone, siamo soliti chiamare pensiero»186. Questa forma di pensiero, insiste Arendt187, benché sia il presupposto di ogni riflessione filosofica, non è acquisibile come una tecnica e non si risolve in questioni meramente teoretiche, né tantomeno è sensibile al tessuto sociale e culturale di cui è imperniato. Questa forma di pensiero nasce semplicemente dal desiderio di mettere in dubbio quanto ci perviene dall’esterno, e al tempo stesso dall’esigenza di vivere con noi stessi.

185 H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., pp. 128-131. Per un approfondimento si veda il testo, edito di recente, di H. Arendt, Per un, etica della responsabilità. Lezioni di teoria politica, a cura di M.T. Pansera, Mimesis, Milano-Udine 2017. 186 Cfr. H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. 37. 187 Cfr. ibidem.

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L’obbedienza agli ordini elargiti dall’alto, prestata ad esempio da coloro che hanno partecipato attivamente ai programmi nazisti, rimanda come significato ai fondamenti stessi delle scienze politiche, come insegnano fra l’altro già Platone e Aristotele, allorché spiegano come vi sia all’interno di ogni corpo politico la costituzione di governanti e governati, dove i primi impartiscono ordini, e i secondi devono obbedire. Va sottolineato come nella struttura proposta «nessuno, per quanto forte, potrebbe mai compiere alcunché, nel bene e nel male, senza l’aiuto degli altri»188, a tal punto da poter sostenere che un leader non è mai più di «un primus inter pares»189. Il problema che ha caratterizzato la nascita di nuovi criminali durante il potere nazista, è che costoro ritennero di non aver mai commesso crimini di propria iniziativa, quando invece sarebbe opportuno precisare che non si dovrebbe mai parlare di «obbedienza in faccende di carattere politico o morale»190. Rimanere ciecamente coerenti a un sistema di regole è molto più pericoloso di un atteggiamento scettico che spinge invece a mettere in dubbio ogni presupposto. Nel momento in cui viene sospesa la capacità di formulare un giudizio autonomo sul proprio operato, si può divenire artefici di qualunque misfatto. Infatti, Arendt afferma che il termine obbedienza dovrebbe essere drasticamente eliminato per sempre dal vocabolario politico e morale. L’unica sfera in cui tale parola può essere «applicata ad adulti che non sono ridotti in schiavitù è la sfera della religione, in cui le persone dicono di obbedire alla parola e ai comandamenti di Dio proprio perché la relazione che si stabilisce tra Dio e gli uomini è simile a quelle che vige tra gli

188 Ivi, p. 39. 189 Ibidem. 190 Ivi, p. 40.

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adulti e i bambini»191. Nella vita politica ogni essere umano dovrebbe invece obbedire solo a se stesso e rispondere delle proprie azioni a prescindere dal sistema o dall’organizzazione di cui è membro. Pertanto la domanda che andrebbe rivolta a coloro che hanno obbedito agli ordini dovrebbe essere non perché «hai obbedito», ma perché «hai dato il tuo sostegno»192. Riuscire a dare il giusto peso e significato alle parole, a volte, e specie in questo caso, contribuisce a recuperare la dignità di essere umani193. Riferendosi ancora a quanto è accaduto con i crimini nazisti, ciò che colpisce non è tanto il comportamento dei nazisti, quanto piuttosto quello adottato da tutti coloro che decisero di allinearsi senza che ne fossero pienamente convinti. È come se l’ordine morale fosse all’improvviso imploso. Ciò che è accaduto con la Shoah rappresenta una mostruosità che ha soppiantato ogni categoria morale e ha demolito ogni criterio giuridico194: «non potremo mai – scrive l’autrice – scendere a patti o riconciliarci con essa, così come dobbiamo e possiamo fare con ogni altro evento del passato […]. Questo è un passato che è diventato sempre peggiore con il trascorrere degli anni […] perché tale passato non può essere dominato e domato da nessuno»195. Quell’orrore indicibile ha respinto ogni pensiero nel regno dell’impensabile.

191 Ivi, p. 40. 192 Ibidem. 193 Cfr. ibidem. Per un approfondimento di questo tema, cfr. O. Guaraldo (a cura di), Il Novecento di Hannah Arendt. Un lessico politico, cit. 194 Cfr. H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. 46. 195 Ibidem: «Perfino il potere del tempo di lenire il male ha perso, in questo caso, le sue magiche virtù. Al contrario, questo tremendo passato si è andato sempre più appesantendo, a mano a mano che gli anni scorrevano, tanto che a volte siamo quasi portati a credere che non finirà mai, che non avremo mai pace, finché non saremo tutti morti e sepolti».

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Se tuttavia l’indicibilità dei fatti accaduti sfugge ad ogni categorizzazione etica, i comportamenti umani devono invece essere sottoposti ad un giudizio morale. I procedimenti giuridici avviati nei processi contro i criminali hanno, infatti, avuto il pregio di aver ricondotto la questione sul piano della responsabilità personale196. Dei propri atti commessi ogni uomo è chiamato a rispondere. In questo senso, Hannah Arendt è convinta del fatto che ogni persona sana di mente rechi in sé una voce in grado di affermare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato a prescindere dalle leggi in vigore o dalle posizioni altrui. Questa voce è ciò che comunemente si chiama coscienza morale, e si muove autonomamente sia rispetto alla ragione umana sia rispetto al comandamento divino. La condotta morale dipende dunque esclusivamente dal rapporto che l’uomo intrattiene con se stesso: entrando in conflitto con il proprio nemico, l’uomo può riuscire a discernere il bene dal male e, scegliere dunque di compiere il bene invece del male. Tutto questo ha a che fare con il rispetto di se stessi, e nulla c’entra con l’obbedienza nei confronti di una legge imposta dall’esterno197. Richiamandosi a ciò che hanno sostenuto alcuni fra i maggiori esponenti della tradizione filosofica occidentale, Arendt sostiene che esiste certamente una differenziazione tra bene e male. Si tratta di una distinzione assoluta e non relativa, tale da essere colta da ogni uomo sano di mente. E anche se va

196 Ivi, p. 48: «è questa l’innegabile grandezza del diritto: esso ci costringe tutti a focalizzare l’attenzione sull’individuo, sulla persona, anche nell’epoca della società di massa». 197 La differenza tra legalità e moralità si sviluppa lungo questo discrimine: se da un lato, infatti, la legalità è sempre neutrale da un punto di vita morale, nel momento in cui seguono le istituzioni di carattere religioso o politico, dall’altro lato un’azione morale deve invece rispondere, come insegna Kant, ad una legge universalmente valida (cfr. ivi, pp. 56-57).

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riconosciuto che tale assioma non ha sempre retto alla prova del tempo, è comunque importante ribadire che ogni precetto morale deve comunque partire dal confronto con l’Io, e quindi dal rapporto che l’uomo intrattiene con se stesso198. «È possibile fare il male – non solo peccare di omissione, ma peccare nel fare attivamente il male – in assenza, non soltanto di “motivi vili” (come la legge li chiama), ma di motivi tout court, in assenza cioè di qualsiasi volizione o interesse?» si chiede dunque Arendt. «La malvagità, comunque la definiamo, questo essere “determinati a dimostrarsi cattivi”, è forse una condizione non necessaria per fare il male? La nostra capacità di giudicare, ossia di distinguere il bene dal male, il bello dal brutto, si basa forse sulla nostra facoltà di pensiero? Coincidono forse l’incapacità di pensare e il crollo di ciò che di solito chiamiamo coscienza?»199. La domanda cui insomma Arendt vuole rispondere è se l’attività del pensiero, in quanto capacità di riflettere su tutto ciò che accade, possa in qualche modo condizionare gli uomini al punto da prevenirli dal compiere il male. Nel momento in cui entra in gioco la coscienza, vale a dire quella «conoscenza con e per se stessi» che accom198 Questo perché il termine «coscienza (conscience) in tutte le lingue, non designa originariamente la facoltà di conoscere e distinguere il bene dal male, ma ciò che oggi chiamiamo coscienza (consciousness), vale a dire la facoltà grazie alla quale noi conosciamo, e siamo consapevoli di noi stessi». La citazione prosegue così: «Ci riviene in mente in proposito il vecchio motto delfico ghnoti sauton, conosci te stesso, iscritto sul tempio di Apollo, che assieme al meden agan, niente di troppo, può essere considerato il primo precetto morale prefilosofico» (ivi, pp. 64-65); inoltre Arendt puntualizza che in «latino e in greco, la stessa parola finì per assumere entrambi i significati; in francese, tuttora, il termine conscience possiede entrambe le sfumature, quella cognitiva e quella morale; e in inglese solo di recente il termine conscience ha assunto un significato morale» (ibidem). 199 Questo è quanto Arendt scrive nel capitolo dedicato a Il pensiero e le considerazioni morali (in Ead., Responsabilità e giudizio, cit., p. 138), riferendosi alla sensazione che aveva provato di fronte alla vista di Eichmann.

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pagna ogni processo di pensiero, è probabile che la risposta sia affermativa200. Così come insegna Socrate, per comprendere ciò che è giusto fare non c’è bisogno di nessun organo speciale; è sufficiente risiedere e dialogare con noi stessi, senza ricorrere a istanze trascendenti o esterne rispetto a noi. E se entriamo in conflitto con noi stessi, dovremo venire ai ferri corti con il nostro peggior nemico201. Il precetto morale sorge quindi dall’attività di pensiero; il fare male è un modo per interrompere questo dialogo interiore con se stessi, lasciando deteriorare questa nostra capacità. Bisogna dunque recuperare la dimensione socratica del pensiero, da intendersi come un due-in-uno, ovvero come dialogo silenzioso intimo e costante che intratteniamo con noi stessi202. In questo contesto, il ricordo acquista un’importanza decisiva, dal momento che proprio attraverso l’attività del ricordare registriamo la nostra stessa attività di pensiero: non è infatti possibile ricordare qualcosa a cui non si è inizialmente pensato. Attraverso il ricordo si diventa dunque testimoni delle proprie azioni, le quali vengono trattenute nel registro dei nostri pensieri: di queste ci si può anche pentire o all’opposto esserne orgogliosi, proprio perché nulla è andato perduto. Viceversa, il criminale, rifiutandosi di ricordare, si trasforma in un essere capace di compiere qualsiasi atto, e proprio perché non ha mai pensato, allora dimentica. I peggiori malfattori sono proprio coloro che non ricordano, incapaci di guardarsi allo

200 Ibidem: tant’è che, spiega la filosofa, non è un caso che solo le persone buone vengono turbate dalla cosiddetta cattiva coscienza, mentre questo non avviene di certo nelle menti dei criminali. «Una buona coscienza», aggiunge Arendt, «esiste solo in assenza di una cattiva coscienza» (ibidem). 201 Cfr. ivi, pp. 77-78. 202 Cfr. ivi, p. 79.

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specchio, incapaci di tornare sui propri passi; privi di ricordi, essi si sentono liberi di fare ciò che vogliono. Il pensare a cose accadute nel passato significa propriamente «muoversi nella dimensione della profondità, mettere radici e acquisire stabilità, in modo tale da non essere travolti da quanto accade – dallo Zeitgeist, dalla Storia, o semplicemente dalla tentazione»203. Ecco perché il «peggior male non è dunque il male radicale, ma è un male senza radici, e proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti. Proprio per questo, il male può raggiungere vertici impensabili, macchiando il mondo intero»204. Con queste parole, Arendt chiarisce ulteriormente la questione legata al concetto di male, che l’ha vista coinvolta, in maniera problematica, nel corso degli anni. Fondamentale è il ricordo in relazione al male, proprio perché ricordare significa riflettere sul vissuto, e in questo modo attribuire significato e profondità alle cose. Senza il ricordo il male può dilagare sulla superficie senza incontrare mai un limite di senso. L’attività del pensiero, mediante il ricordo, riconduce a ciò che è assente, a quel luogo in cui il contenuto del proprio vivere è ritratto in se stesso, in una situazione di invisibilità, ma al tempo stesso di custodia di ciò che è in attesa di una riflessione205. È bene sottolineare che la morale, secondo Arendt, non riguarda gli usi e i costumi che caratterizzano la condotta della società, né tantomeno dipende da una legge divina, ma nasce, invece, dal dialogo interiore che ogni individuo, nella sua sin-

203 Ivi, p. 81. 204 Ibidem. 205 Cfr. a riguardo quanto osserva L. Boella, Hannah Arendt “fenomenologa”. Smantellamento della metafisica e critica dell’ontologia, “Aut-Aut”, nn. 239-240, settembre-dicembre 1990, pp. 109 ss.

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golarità, può intrattenere con se stesso206. Se l’uomo sceglie dunque di agire nel giusto a dispetto di ciò che è ingiusto, lo fa solo perché altrimenti non potrebbe più vivere con se stesso: «essere con se stessi e giudicare se stessi è qualcosa che concerne il pensiero, e ogni processo di pensiero è un’attività in cui io parlo con me stesso di tutto quanto accade e mi riguarda. Il modo di esistere tipico di questo dialogo silenzioso tra me e me lo chiamerò adesso solitudine»207. Il processo del pensiero è ciò che più propriamente qualifica la personalità dell’essere umano, a prescindere dall’intelligenza208, ed ha luogo in quella solitudine che incombe ogni qual volta l’uomo si costituisce partner di se stesso. Solamente nella solitudine si recupera quel riferimento all’io, come canone ultimo della condotta morale209. Perdere la solitudine significa dunque

206 La morale socratica, scrive nelle pagine successive la Arendt, spiega come evitare il male, e insegna che è preferibile entrare in conflitto con il mondo esterno piuttosto che con se stessi. Secondo Socrate il malvagio è colui che non può stabilire rapporti, in particolare con se stesso, e male è tutto ciò che l’uomo non sopporta di aver compiuto (cfr. H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. 107). 207 Ivi, p. 83. 208 Il pensiero è un’«attività e non una fruizione passiva di qualcosa» (ivi, p. 83). Se infatti ad esempio gli intellettuali del Terzo Reich riuscivano ad essere spietati assassini, pur leggendo Hölgderlin e ascoltando Bach, è perché la sensibilità e l’attenzione non sono caratteristiche fondamentali del pensiero. Senza un talento, e un pensiero che lo sostenga, si può solo passivamente contemplare le cose della vita, ma non le si può creare. Nessun talento «può sopravvivere alla perdita di integrità che si verifica in voi se e quando perderete la vostra capacità di pensiero e di ricordo» (ibidem). Arendt sostiene infatti che vi sia una differenza importante tra l’attività del pensiero e la contemplazione (cfr. anche ivi, p. 90). 209 Cfr. ivi, p. 85. Qui Arendt sostiene che normalmente si ritiene che sia “meglio subire il male che farlo”, dal momento che è meglio essere in conflitto con il mondo, piuttosto che con se stessi. Questo però vale solo per l’uomo che pensa, o che, quantomeno, ha bisogno di se stesso per pensare.

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smarrire quel dialogo interiore che ci indica i limiti del giusto porsi nel mondo. Seppur impegnato nella solitudine del proprio pensiero, l’uomo vive nella relazione con se stesso, e al tempo stesso abita la terra, ed è proprio in questa doppia relazione che acquisisce uno spazio personale e un’identità. La solitudine implica che l’uomo, proprio perché solo, resti in compagnia di se stesso, in un due-in-uno di domande e risposte. Questo soliloquio, che crea una sorta di paralisi cinetica introspettiva, si spezza nel momento in cui si interrompe il processo del pensiero, e a quel punto il due scompare per lasciare spazio all’uno, affinché esso interagisca con altri soggetti o cose. Una cosa è la solitudine, altra è l’isolamento che si stabilisce invece quando l’uomo è occupato nelle faccende della vita. Tale isolamento può essere positivo, se è dovuto all’attività di concentrazione, ma anche negativo se comporta uno stato di abbandono rispetto al resto del mondo. L’unico rimedio in questo caso è che l’isolamento venga assorbito dalla solitudine del due-in-uno, che ha comunque sempre bisogno degli altri per rivendicare lo stesso uno210. Il pensiero e il ricordo, nella solitudine, sono dunque le due attività attraverso cui l’uomo fonda le proprie radici, prende cioè posto nel mondo, e diventa una persona, e non solo un esemplare senza volto del genere umano. L’uomo dunque giunge nel mondo inizialmente come straniero, e non sono di certo le sue qualità morali o estetiche o intellettive che lo radicano. Ciò che lo radica sono il suo pensiero e il bagaglio di ricordi che porta con sé, come testimonianza di ciò che è e di ciò che ha fatto: solo così imporrà a se stesso dei limiti. Questi limiti possono differire dalle circostanze esterne, che

210 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. p. 652.

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siano legate ai luoghi e ai tempi, ma lo obbligheranno a tenere la giusta rotta lungo il tragitto degli eventi difficili della vita. Il male, invece, quello «estremo e senza limiti è possibile solo quando queste radici dell’io, che crescono da sé e arginano autonomamente le possibilità dell’io, sono del tutto assenti»211. Il peggior male è sempre quello commesso da nessuno, cioè, da uomini che si rifiutano di essere persone212. Pertanto quell’essere umano che compie il male senza pensare a quello che sta facendo non potrà mai diventare qualcuno213. 211 H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. 86. 212 Cfr. ivi, p. 95. 213 Tutto questo riguarda l’attività del pensiero in rapporto all’io, e non, spiega Arendt, le azioni che riguardano il rapporto con gli altri. L’azione chiama in causa due fenomeni molto importanti: da un lato la volontà, dall’altro il problema della natura del bene, che è cosa diversa dal semplice prevenire il male. La volontà è quella facoltà peculiare dell’uomo che gli consente di dire di sì o di no ai precetti della ragione, e non soggiace né alla ragione né al desiderio, tanto è vero che secondo Agostino «la mente non si muove finché non vuole essere mossa» (qui Arendt riporta la citazione di Agostino (De libero arbitrio, 3.1.2) ivi, p. 97). La volontà quindi avrebbe la meglio sia rispetto a ciò che l’uomo desidera, sia rispetto a quanto la ragione detta di fare. In ogni azione quello che si vuole o non si vuole è preminente rispetto ad altri condizionamenti, inoltre la volontà, a dispetto della ragione e del desiderio, è una facoltà totalmente libera, una sorta di «liberum arbitrium - tra la mente che conosce e la carne che desidera» (ivi, p. 102). Volendo, l’essere umano decide di agire, ed è questo precipuo connotato che lo rende libero. Solo attraverso la volontà l’uomo può scegliere di agire nel giusto oppure di praticare il male, e solo attraverso la volontà l’uomo può esprimere pienamente se stesso. A spingere l’uomo verso l’azione è dunque la volontà, unica arbitra libera e indipendente rispetto alla ragione e al desiderio. Tuttavia la volontà, riferisce Arendt riportando Agostino, è divisa in due, ovvero in una parte che comanda e in una che obbedisce, così come vi è una parte che vuole il bene e una parte che aspira al male. Si tratta di una divisione, o meglio ancora di una lotta interna, che non ha i caratteri del dialogo, così come invece accade nella mente, costantemente assorbita dall’attività del pensiero, che si esprime attraverso un dialogo interiore (cfr. ibidem). Tuttavia si impone questa domanda: «posso dirmi libero se, non

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A questo punto Arendt si domanda se è possibile aggrapparsi a qualcosa per distinguere cosa è giusto da ciò che non lo è, un po’ come avviene con le categorie del bello e del brutto214. La risposta è affermativa e negativa insieme: ad esempio, quando l’uomo pensa di potersi aggrappare agli usi e costumi di una società, ovvero a quelle tradizioni che sono divenute mores della morale. Quando si tratta di decidere, a livello di giudizio, per il giusto e l’ingiusto, come per il bene e il male, ci si può infatti riferire all’esempio, ovvero possiamo seguire qualcosa di particolare che è diventato un archetipo che funga da guida anche sul piano qualitativo215. Gli esempi possono forzato dagli altri o dalla necessità, faccio comunque ciò che non voglio? O sono libero solo se faccio ciò che in effetti voglio fare?» (ivi, p. 111). Dal momento in cui la volontà non può esaurirsi soltanto nella dimensione del volere, ma deve anche tradursi in azione, all’interno della volontà si crea una sorta di paralisi tra l’Io-voglio e l’Io- posso (cfr. ivi, p.114). Arendt dedica la seconda parte del suo testo The Life of the Mind (La vita della mente, cit., qui pp. 322-546) proprio al concetto di volontà. Pe un approfondimento della questione cfr. in particolare B. Assy, Etica, responsabilità e giudizio in Hannah Arendt, cit., pp. 139-164; G. Catapano, Hannah Arendt e Hans Jonas interpreti del concetto agostiniano di volontà, cit., pp. 12-27; B. Honing, Identità e differenza, tr. a cura di O. Guaraldo, in Aa.Vv, Hannah Arendt, cit., pp. 177-204. 214 H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. 123. 215 Per rendere più agevole la comprensione di questo passaggio la Arendt riporta un esempio concreto, che non riguarda la morale, bensì, l’immaginazione di un semplice tavolo. Nel rispondere a cosa sia un tavolo ci si può basare sulla forma che di esso è presente nella nostra immaginazione, e alla quale ogni tavolo dovrebbe conformarsi, e lo si può chiamare tavolo schematico. Oppure si possono mettere insieme tutti i diversi tipi di tavolo una volta spogliati delle loro qualità specifiche, quali il colore, il materiale, la forma, ecc., e giungere ad una immagine di tavolo generica, che chiamiamo tavolo astratto. Infine si può scegliere quello che riteniamo essere il migliore e che funga da esempio per tutti i tavoli, e lo chiamiamo tavolo esemplare. In questo modo si è proceduto ad estrarre, eximere, un caso singolo e particolare fino a renderlo modello per ogni altro caso. Moltissimi concetti delle scienze storiche e politiche sono divenuti paradigmi proprio attraverso questo

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infatti fungere da guide sul piano morale. Lo stesso successo dell’enunciato socratico «meglio soffrire che fare del male», è stato determinato dal modus vivendi in prima persona di Socrate, che ha interiorizzato questa massima fino a sacrificare se stesso e divenire perciò un archetipo di condotta secondo una scelta precisa di un bene certo rispetto ad un altrettanto certo male216. Si può dunque giudicare e distinguere il bene dal male proprio a partire dall’esempio di alcuni eventi o persone, indipendentemente dal fatto che appartengano al passato o al tempo presente, o che siano anche semplicemente esistiti o meno217. In conclusione, si può motivatamente sostenere che ogni nostra decisione sul bene e sul male dipende da colui che riconosciamo come modello, e quindi come un compagno con cui vivere la nostra vita. I compagni vanno appunto scelti pensando

procedimento di estrazione, si veda per esempio il coraggio di Achille, o la saggezza di Salomone, allo stesso modo in cui si può parlare di bonapartismo o di cesarismo. Tali concetti possono essere assunti come “cartelli stradali” sul piano morale (cfr. ivi, pp. 124-125). 216 Hannah Arendt scrive: «Propongo allora di cercare un modello, di cercare l’esempio di qualcuno che, a differenza dei pensatori “di professione”, possa essere rappresentativo di “chiunque”. Propongo, insomma, di prendere come modello un uomo che non si considerasse né uno dei pochi né uno dei molti […]; che non aspirasse al governo della città e non affermasse di sapere come migliorare le anime dei cittadini e come prendersene cura; che non credesse che gli uomini possano essere saggi e non invidiasse gli dei per la loro divina saggezza – un uomo, in altre parole, che non abbia mai neppure tentato di formulare una dottrina che potesse essere insegnata e appresa. […] avrete già indovinato che si tratta di Socrate» (ivi, p. 146); al riguardo si veda anche Ead., La vita della mente, cit., pp. 260-261. 217 In effetti, scrive l’autrice riferendo una nota di Jefferson, «“L’omicidio irreale di Duncan da parte di Macbeth” suscita in noi “un grande orrore della malvagità, quanto l’omicidio reale di Enrico IV”; e “un profondo senso di pietà filiale ci viene inculcato da Re Lear più di quanto ci riescano gli aridi volumi di etica e teologia scritti fino a oggi”» (ivi, p. 125).

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a modelli del passato o del presente, morti o vivi, appartenenti alla realtà oppure semplicemente immaginari, ma comunque rappresentativi di valori forti ed espliciti. Il dramma è quando l’uomo non ritiene importante la scelta di chi avere accanto, e questa indifferenza può diventare uno dei peggior pericoli per il vivere sociale, tanto quanto l’incapacità di giudicare. Con queste ultime suggestive parole, Arendt spiega che proprio dalla «nolontà o incapacità di scegliere i propri esempi e la propria compagnia, così come dalla nolontà e incapacità di relazionarsi agli altri tramite il giudizio, scaturiscono i veri skandala, le vere pietre d’inciampo che gli uomini non possono rimuovere perché non sono create da motivi umani o umanamente comprensibili. Lì si nascondono l’orrore e al tempo stesso la banalità del male»218. In tutta evidenza, con Responsabilità e giudizio Arendt ritorna su alcune questioni di fondo, già affrontate in scritti precedenti, talora lasciate deliberatamente aperte, in vista di un ulteriore e più compiuto approfondimento. Ma lo stimolo che sostiene l’interrogazione, e la motivazione psicologica ed emotiva che accompagna il processo della riflessione, continuano ad essere costituite dalla tragedia dell’Olocausto, la quale agisce come vero e proprio assillo esistenziale, prima ancora che strettamente filosofico. Emerge da un lato l’insoddisfazione per le pur provvisorie conclusioni a questo proposito raggiunte nelle esplorazioni condotte in precedenza, mentre è prepotente, dall’altro lato, la spinta a riesaminare ancora una volta, da una nuova e diversa prospettiva, questa immane tragedia. Si potrebbe dire che Arendt non riesca a trovare un punto di arrivo definitivo, capace di estinguere la spinta alla ricerca, e che avverta

218 Così si chiude il denso e ampio capitolo intitolato Alcune questioni di filosofia morale, ivi, pp. 41-126, qui p. 126.

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l’urgenza di raggiungere un approdo più maturo, al riparo da dubbi o ripensamenti. Al centro del testo relativo alla nozione di responsabilità campeggia dunque una domanda che in una certa misura riassume in sé i temi affrontati altrove. L’atto del giudicare pone il problema della comprensione retrospettiva, cioè di giudicare un fatto che è spazialmente e temporalmente lontano da noi, ma che risulta fondamentale per rendere umanamente intelligibili gli eventi attuali. Da ciò consegue che il giudizio quindi è pienamente coinvolto nella ricerca di senso dell’uomo. Questa facoltà dovrebbe funzionare in maniera spontanea anche quando ci scontriamo con fatti che non hanno precedenti, senza rimanere vincolata a schemi preconcetti, norme di vita generali. Si tratta, dunque, di una facoltà del tutto autonoma, che prescinde da ogni circostanza esterna. L’adesione al regime dei membri cosiddetti rispettabili della società ci insegna che rimanere ciecamente coerenti a un sistema di regole è molto più pericoloso e molto meno affidabile di un atteggiamento scettico che ci spinga invece a sottoporre a dubbio e a formulare un’idea autonoma. L’atrofia della capacità di esaminare conduce a renderci capaci di compiere qualunque misfatto. Di qui il rifiuto del termine “obbedienza”, lecito e comprensibile in ambito religioso, ma estremamente pericoloso in campo morale e politico. Al termine “obbedienza”, che implica comunque una totale subalternità rispetto ad altri, Arendt in una certa misura contrappone il termine “responsabilità”: se obbedire vuol dire “porsi all’ascolto”, e dunque disporsi a ricevere passivamente la parola – o il comando – di altri, responsabilità contiene in sé il riferimento ad un atto del “rispondere”, nel quale l’ascolto non include la supina acquiescenza, e contiene invece in sé una iniziativa “di risposta”.

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2.5 Il vento del pensiero L’uomo è di certo predisposto a pensare; la sua inclinazione al pensiero è infatti indubitabile219. Là dove la conoscenza sembra aver bisogno continuamente di tesaurizzare il patrimonio di esperienze acquisite, il pensiero invece è contraddistinto da un continuo ed incessante riproporsi su se stesso, tale per cui «i pensieri che ho avuto ieri possono soddisfarmi solo oggi nella misura in cui ci ripenso daccapo»220. Si deve a Kant, sostiene Arendt, la distinzione tra pensiero e conoscenza, ovvero tra la ragione che conduce a pensare e a capire, e l’intelletto che aspira ad acquisire conoscenze certe e verificabili221. L’incapacità di pensare non è necessariamente indizio di stupidità, dal momento che la si può ritrovare anche in persone oggettivamente dotate di intelligenza, così come è da escludere che la malvagità ne sia la causa. Al tempo stesso la facoltà del pensiero può però prevenire il male. Arendt sostiene che il pensiero non è compatibile con altri tipi di attività legati alla vita e all’azione. Per questa ragione, è come se ci fossero due mondi paralleli, uno retto dal pen219 Un testo decisivo per comprendere e riassumere la questione del pensiero in Arendt è senza dubbio il suo ultimo fondamentale saggio, intitolato La vita della mente, cit., rimasto incompiuto (una crisi cardiaca colse la filosofa mentre stava scrivendo l’epigrafe della terza parte del suo lavoro). In questo saggio la Arendt sviluppa nello specifico il ruolo decisivo che deve essere restituito al pensiero, concepito, secondo il modello del confronto socratico, come luogo dove l’io deve dialogare instancabilmente con se stesso, e in particolare con il “proprio nemico” che chiede conto delle azioni compiute. Il pensare, concepito come conflitto interiore (polemos), deve avere il coraggio di distruggere ogni ovvietà, e liberare la facoltà di giudicare autonomamente, sviluppando cioè la capacità di discernere il bene dal male, il giusto dallo sbagliato, il bello dal brutto, nel rapporto ambivalente e contraddittorio con cui si manifesta nella vita stessa. 220 H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. 141. 221 Cfr. ivi, pp. 141-142.

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siero, l’altro dalla vita in generale. Il pensiero, di fatto, è un processo di “ritrazione statica” in una situazione di immobilità simile alla morte, che rende l’uomo assente rispetto al mondo circostante222. L’oggetto del pensiero riguarda sempre qualcosa di assente, che può essere “ripresentato” alla mente solo attraverso la funzione dell’immaginazione. L’assenza dell’oggetto pensato è una condizione fondamentale perché il pensiero stesso possa muoversi liberamente. Tuttavia, l’aspetto più importante è la relazione tra la capacità o incapacità di pensare e l’eventualità del male223. Innanzitutto, se questo legame davvero esiste, la facoltà di pensiero va attribuita a tutti, e non può essere un privilegio di pochi. In secondo luogo, il pensiero viaggia liberamente e in modo indipendente rispetto a qualsiasi forma di condizionamento esterno, non possiede codici di comportamento che ne regolino l’attività, sicché non vi può essere assioma riferito a ciò che è bene e a ciò che è male. Infine, terzo punto, il pensiero, dal momento in cui si riferisce sempre a cose invisibili, crea per ciò stesso una sorta di accecamento, di morte, rispetto al mondo concreto. L’esempio cui riferirsi per capire meglio l’attività del pensiero è certamente Socrate. Un uomo che non ha mai ritenuto di dover insegnare nulla, ma che, pur non pretendendo di diventare filosofo né sofista, dal momento che non era sua intenzione rendere gli uomini sapienti, ha dimostrato tuttavia di

222 A proposito di questa immobilità riflessiva, è noto che Socrate, assorbito dai propri pensieri, rimanesse molto spesso assorto e fermo per ore intere, perdendo la nozione di spazio e di tempo (cfr. quanto la stessa Arendt afferma in La vita della mente, cit. pp. 293-294). 223 Cfr. H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. 144.

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battersi per la capacità del pensare come il bene più grande per la vita224. Socrate si definiva un tafano, perché sapeva come pungolare i suoi interlocutori per indurli a esaminare i problemi, qualità senza la quale la vita non sarebbe degna di essere vissuta. Socrate si definiva anche levatrice: non amava insegnare nulla perché in realtà non aveva nulla da insegnare. Si potrebbe dire che fosse sterile, ma proprio per questo, esattamente come le levatrici nell’antica Grecia225, egli riusciva a far nascere nei giovani pensieri nuovi, una volta eleminate le opinioni e i pregiudizi. In questo modo purgava la gente di tutto ciò che reputava cattivo, senza per questo pretendere di donare la verità. Socrate è da Platone paragonato anche a una torpedine, perché insistendo sui propri dubbi, egli giunge al punto da paralizzare chiunque venga a contatto con lui. Tuttavia, ciò che è avvertito all’esterno come paralisi, si rivela all’interno come la condizione suprema di attività e vitalità226. Consapevole di avere a che fare con ciò che è invisibile, per rappresentare l’attività del pensare Socrate si valeva della metafora del vento: «I venti non sono visibili, ma le cose che fan-

224 Cfr. ivi, pp. 144-150. Per un approfondimento cfr. il denso saggio di Adriana Cavarero, Il Socrate di Hannah Arendt, in H. Arendt, Socrate, cit., pp. 73-98. Simona Forti sostiene che Socrate, «Alter ego dell’autrice […] si trasforma così nell’unico vero esempio di pensatore “non professionale” e nel paradigma di un modo di vita che scardina tutte le contrapposizioni frontali, non solo quella tra pensiero e azione, tra filosofia e politica, ma anche quelle tra vita privata e vita pubblica, tra scelta etica e praxis» (S. Forti, Letture socratiche. Arendt, Foucault, Patočka, in H. Arendt, Socrate, cit., p. 103). 225 Le levatrici erano sterili perché non erano più in età fertile (cfr. H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. 150). 226 Cfr. H. Arendt, La vita della mente, cit., pp. 166-267; Ead., Responsabilità e giudizio, cit., pp. 150-151.

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no possiamo vederle e percepirle quando si avvicinano»227. Il vento, ogni volta che si solleva, possiede la particolarità di non lascare più traccia di ogni sua precedente manifestazione, e proprio per questo è come se portasse via ogni concetto irrigidito nei pensieri. La conseguenza di tutto questo è che «l’attività del pensiero scatena sempre effetti distruttivi, che minano ogni criterio, ogni valore, ogni misura del bene e del male, che minano insomma ogni insieme di usi e costumi, ogni insieme di regole di comportamento, su cui noi poi edifichiamo i nostri discorsi etici e morali»228. Se il vento del pensiero, sembra dire Socrate, riesce a spazzare via i pensieri congelati, ciò che rimane sono solo dubbi. La paralisi del pensiero è, infatti, di per sé duplice: da un lato, infatti, interrompe ogni altra attività e blocca nel processo vivo del pensare; dall’altro, però, induce a mettere in dubbio ogni certezza, e quindi crea uno stato di incertezza paralizzante. Il vento del pensiero distrugge, infatti, ogni applicazione generale che voglia calarsi nel particolare, e questo paralizza e può creare uno stato di smarrimento, producendo un rovesciamento di ogni valore consolidato. È un rischio che si può correre, perché «non esistono pensieri pericolosi. Il pensare in sé è pericoloso. […] Ogni esame critico deve infatti attraversare una fase di negazione, almeno ipotetica, delle opinioni e dei “valori” consolidati, scoprendo quali siano le loro implicazioni e tacite presupposizioni»229.

227 Senofonte, Memorabili IV, 3, 14; cfr. ivi, p. 151. A tal proposito Arendt sottolinea che Sonofonte cita questa metafora per rappresentare i concetti, le virtù e i valori che Socrate analizzava di continuo (ibidem). 228 Cfr. H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. 152. 229 Ivi, p. 153: «e in tal senso – aggiunge Arendt – il nichilismo può essere visto come il pericolo sempre incombente del pensiero. Ma questo pericolo non è frutto dell’idea socratica che una vita non sottoposta a esame non sia degna di essere vissuta: è semmai frutto del desiderio di giungere a dei risultati che non rendano più necessario pensare. Il pensiero è pericoloso

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Se questo rischio del pensiero può essere visto come una possibilità negativa o quanto meno pericolosa, la deriva tuttavia implicita nel non-pensare è, viceversa, quella di abbracciare incondizionatamente le regole di condotta e i valori già stabiliti dalla società, in qualsiasi luogo o tempo. Senza pensiero, infatti, gli uomini si adagiano sulla sicurezza di possedere delle regole prestabilite, seguono i cartelli imposti per orientarsi, si abituano a non prendere delle decisioni e si adeguano ai costumi della società. Se poi dovesse arrivare qualcuno che, senza particolari doti di persuasione, li convincesse che quei valori e quelle regole che seguono devono essere cambiati, come automi dormienti essi lo asseconderanno: esattamente come è successo durante il regime totalitario nella Germania nazista, quando al vecchio comandamento della morale occidentale “non uccidere” è stato sostituito quello di “uccidere”. Nel dialogo silenzioso che avviene con la propria coscienza, l’uomo può perseguire il principio kantiano del Selbstdenken230, ovvero del riuscire a pensare da sé. L’uomo formerebbe

quanto ogni credo, ma di per sé non partorisce alcun nuovo credo» (ivi, pp. 153-154). 230 Attraverso una radicale problematizzazione delle finalità cui dovrebbe corrispondere l’insegnamento della filosofia, Kant sosteneva che, in generale, uno studente non dovesse “imparare pensieri (Gedanken)” quanto piuttosto “imparare a pensare (denken). La filosofia in questo senso dovrebbe insegnare a “pensare con la propria testa”, nel tentativo di sviluppare uno spirito critico e accrescere il rifiuto dei pregiudizi, oltre che la disponibilità al confronto tra le proprie opinioni e quelle altrui. Ciò che è dunque indispensabile per realizzare una maturità critica, è il rifiuto di un apprendimento passivo di dottrine compiute. Soltanto attraverso un uso autonomo della ragione gli uomini potranno in definitiva uscire dalla “minore età”. È quanto Kant sostiene nello scritto “precritico” Notizia sull’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766. In particolare, per quanto riguarda la filosofia, egli precisa che prima ancora di apprendere la filosofia bisognerebbe imparare a filosofare (philosophiren). Per imparare la filosofia, prosegue Kant, bisognerebbe anzitutto che ce ne fosse una dal contenuto inconfuta-

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in questo modo una propria opinione riflessiva sulle proprie azioni, e un atteggiamento di critica e di rifiuto di fronte a qualsiasi definizione precostituita231. Questo momento interiore riflessivo, «per usare il linguaggio kantiano, è il tribunale dinanzi al quale si deve apparire e rendere conto di se stessi»232. Il pensare può indubbiamente creare anche confusione ed incertezza, ma se è vero che una vita senza ricerca non merita di essere vissuta233, allo stesso modo «il pensiero accompagna bile. Il che non è realizzabile. E quand’anche esistesse una tale filosofia, e la si imparasse, si avrebbe pur sempre una conoscenza di tipo storico. Ad un filosofo è richiesta invece esclusivamente la capacità di saper pensare, e a tal fine non serve imparare la filosofia. Per questa ragione, il metodo proposto da Kant per quanto riguarda l’insegnamento della filosofia è quello zetetico, così come veniva chiamato dagli antichi (da zetein), ovvero un metodo indagativo, fondato sulla ricerca. Il metodo zetetico, o scettico, coincide per Kant con l’attività più propria della ricerca filosofica. Nella Critica della ragion pura Kant ribadisce il concetto affermando che tutt’al più si può imparare a filosofare, cioè ad esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi principi generali, ma sempre con la riserva di «cercare questi principi stessi alle loro sorgenti e di confermarli o rifiutarli» (Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di Gentile-Radice, Laterza, Roma-Bari, 1959, pp. 649-650). Per un approfondimento cfr. U. Curi, Il coraggio di pensare, in La porta stretta. Come diventare maggiorenni, Bollati Boringhieri, Torino 2015, pp. 22- 65. 231 Sul “pensare da sé” come forma di autonomia di pensiero cfr. anche H. Arendt, Ebraismo e modernità, cit., p. 226; Ead., Appendice, Giudicare, in Ead., La vita della mente, cit., pp. 549 ss. Per un approfondimento cfr. C. Pianciola, Una difficile eredità, in S. Mobilia-C. Pianciola (a cura di), Vita activa e vita contemplativa, “Linea d’ombra”, 109, novembre 1995, p. 7: «Denken ohne Geländer» è «la metafora che Hannah Arendt conserva per sé, una metafora personale. […] Pensare contro gli idoli del proprio tempo, rifiutare l’allineamento». 232 H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 285. 233 Qui Arendt cita direttamente una frase di Platone, Apologia, 30, 38: «una vita che non dia luogo ad esame non merita di essere vissuta» (cfr. H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. 158).

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sempre la vita quando in gioco ci sono concetti come la giustizia, al felicità, la temperanza, il piacere, quando in gioco ci sono cioè quelle parole per cose invisibili che il linguaggio ci offre per esprimere il senso di quanto accade nella vita e di quanto ci accade quando siamo in vita»234. Per designare il desiderio della conoscenza, Socrate usava il termine eros, istituendo con ciò un rapporto fra la ricerca in cui consiste la filosofia, e la tensione verso la bellezza che è alla base dell’amore. In quanto desidera qualcosa di cui è privo, l’ eros attiva comunque un rapporto con ciò che gli manca. Si comprende allora per quale motivo se la ricerca è una sorta di desiderio e di amore, allo stesso modo il pensiero può perseguire solo concetti amabili, quali appunto la bellezza, la giustizia, la saggezza. «La bruttezza e il male sono esclusi per definizione dalle preoccupazioni del pensiero»235, e semmai appaiono solo come meri difetti, ovvero come dimensioni deficitarie di bellezza, o di giustizia, o di bene, ecc., perché sono concetti privi di radici, non hanno cioè un’essenza che il pensiero possa afferrare. Il male, in sostanza, non possiede uno statuto ontologico, e proprio per questo è concepibile solo come assenza, come qualcosa che non è236. Se dunque il vento del pensiero spazza via ogni traccia di concetto che abbia una sostanza ontologica positiva, con ancor più facilità dissolve «i concetti negativi, nella loro originaria insensatezza, nel nulla»237.

234 Ivi, pp. 154-155. 235 Ivi, p. 155. 236 Cfr. ibidem. 237 Ibidem: «il male sia una mera privazione, una negazione, un’eccezione alla regola è la convinzione pressoché unanime di tutti i pensatori», e non solo di Socrate, sottolinea Arendt.

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Per tornare alla domanda iniziale, può dunque l’incapacità di pensare generare il male? C’è una relazione tra questi due concetti? Ebbene, alla luce delle considerazioni fatte, Arendt si sente di poter affermare che l’attività del pensiero sia una caratteristica di quelle persone che sono pervase da eros, vale a dire che sono piene di desiderio e di amore per la saggezza, per la bellezza, per la giustizia, persone che, come direbbe Platone, possiedono dunque come requisito una «natura nobile»238. Nel tentativo di rispondere alla questione ritenuta fra tutte più importante, vale a dire il rapporto fra il pensare e il male, Arendt attraversa i testi platonici, dei quali ella sottolinea l’irriducibile aporeticità, dalla quale consegue l’impossibilità di una risposta compiuta e definitiva239.

238 Ivi, p. 156. 239 Nello specifico qui Arendt affronta il rapporto pensiero-male attraverso l’analisi del Gorgia, il dialogo sulla retorica, in cui Platone, afferma l’autrice, «si occupa di una forma di discorso che perderebbe ogni senso qualora fosse aporetica. Eppure anche questo dialogo è aporetico» (ibidem). In questa sede (ivi, p. 157) Arendt si dilunga nell’analizzare alcuni passaggi decisivi del testo platonico, in particolare dove, riferendosi a Socrate, si afferma che è «meglio subire un torto che farlo» (Gorgia, 474 b, 483 b). Sempre riferita a Socrate è inoltre la seguente massima: «Io credo che sarebbe assai meglio che fosse scordata e stonata la mia lira, e che stonato fosse il coro da me istruito e che la maggior parte degli uomini non fosse d’accordo con me e che dicesse il contrario di ciò che dico io, piuttosto che essere io, che pure sono uno solo, in disaccordo e in contraddizione con me stesso» (Gorgia, 482b-e). Nella sostanza Socrate con questo enunciato professava che fosse meglio entrare in conflitto con se stessi che in conflitto con la maggioranza, e in secondo luogo, che fosse preferibile patire un torto che subirlo. Esiste, sempre secondo Arendt, un solo altro brano nella letteratura greca capace di riprendere le massime socratiche, il cui autore è Democrito, quando si sostiene che: «Colui che commette l’ingiustizia è più infelice di chi la subisce» (Democrito, B 45, ivi, p. 158).

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L’aporeticità, la contraddizione e l’ambivalenza, si insinuano già a partire dal concetto stesso di identità. Ogni singola cosa, inserita in un contesto di altre molteplici cose, non possiede solo lo statuto dell’identità, ma anche quello della diversità, determinato dalla relazione. Nel momento in cui il pensiero cerchi di afferrare, nella sua totalità, questa cosa, deve tenere necessariamente conto di entrambi gli attributi, identità e alterità. Anche quando si arriva alla definizione di una cosa, si presuppone tutto ciò che essa anche non è, e solo se riferita a se stessa, senza relazione, questa cosa è uniformata a sé medesima, alla sua identità240. Ma questo procedimento non avviene quando «io nella mia identità (nel mio “essere uno”) mi riferisco a me stesso. Questa cosa curiosa che io sono non richiede una pluralità per esibire una differenza. È qualcosa che porta in sé la differenza, quando dico: “Io sono io”»241. Quando l’uomo diviene conscio di se stesso, egli è recepito come identico a sé soltanto dagli altri, cui appare come un uno indistinto. Ma l’uomo, invece, che affronta la coscienza di sé, è consapevole di dialogare con se stesso in quell’essere due-in-uno, di essere dunque scisso al proprio interno tra identità e differenza. Di conseguenza, la coscienza ci insegna, che la differenza o l’alterità, che sono i requisiti del mondo delle apparenze, dove l’uomo abita nella pluralità e nella relazione, sono gli stessi requisiti che determinano l’esistenza stessa dell’essere umano. Si tratta di una scissione originaria che sottende il pensiero in quel dialogo silenzioso del due-inuno. La coscienza non è dunque il pensiero, ma ne costituisce il presupposto per generare la differenza nell’identità. Se Socrate asserisce che è meglio entrare in conflitto con se stessi piuttosto che esserlo con la maggioranza, e che è prefe-

240 Cfr. ivi, p. 159. 241 Ibidem.

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ribile patire un torto che subirlo, lo fa perché parte dal presupposto che, per pensare, il due che abita nel pensiero dialogando con l’uno deve essergli per forza di cose amico, affinché si possa perseguire una convivenza pacifica. È meglio dunque «patire che commettere un torto poiché si può restare amici della vittima. Chi, invece, vorrebbe restare amico o vorrebbe convivere con un assassino? Neppure un assassino lo vorrebbe. Che tipo di dialogo si potrebbe instaurare con lui?»242. Questo tribunale riflessivo interiore, che è il luogo della coscienza, dove cioè si incontrano i dati esperienziali vissuti dall’io che poi li analizza, è un confronto che deve necessariamente concludersi con un accordo delle parti, un’amicizia tra le proprie convinzioni che si basano sull’esperienza vissuta, e le considerazioni che emergono dopo il riesame. Fondamentale è dunque intrattenere un rapporto pacifico con il compagno della propria coscienza, nel momento in cui stabiliamo un dialogo con noi stessi. Il nostro compagno è come un testimone che ci aspetta quando e se decidiamo di rientrare in casa, quando cioè la solitudine prende il sopravvento e iniziamo a pensare e a esaminare le cose. Non è in gioco quindi la bontà o la malvagità, l’intelligenza o la stupidità: la questione è se vogliamo esaminare il modo con cui abbiamo agito, se vogliamo rendere altresì conto al nostro testimone di ciò che abbiamo fatto o detto, o se invece preferiamo semplicemente restare silenti per poi dimenticare. Così come il pensiero, «inteso come l’attualizzazione della differenza data nella coscienza (consiousness)»243 non è una proprietà esclusiva di pochi, ma è una facoltà che appartiene a ciascuno degli esseri umani, allo stesso modo l’incapacità di 242 Ivi, p. 160; Arendt si riferisce in particolare ai passi platonici del Teeteto (189 ss.) e del Sofista (263 e). 243 Ivi, p. 162.

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pensare non è sinonimo di mancanza di cervello o necessariamente di malvagità; può invece essere la semplice prerogativa di tutti coloro che, siano essi scienziati o intellettuali, mancano all’appuntamento solitario con loro stessi244. Ritorniamo allora alla domanda: può l’attività del pensare (di cui Arendt sperimenta l’assenza in Eichmann) come tale rientrare in quella condizione che induce l’uomo ad astenersi dal fare il male o addirittura a far sì che egli combatta contro di esso? Il problema è, infatti, capire come è possibile che un essere umano, non mosso da ragioni particolari e non caratterizzato da un animo malvagio, possa compiere crimini brutali. La risposta, secondo Arendt, ci proviene dall’insegnamento di Socrate: il pensiero non crea valori, non stabilisce e nemmeno rivela ciò che è bene o ciò che male, e non costruisce modelli di comportamento. Semmai, come il vento, il pensiero dissolve, distrugge teorie e convenzioni, crea conflitto, incertezza, non soggiace a regole generali. Il pensiero, se attivato, scatena quel dialogo interiore silenzioso che è padre di ogni giudizio, e che consente di capire quale posto prendere in questo mondo, e soprattutto, come scegliere di agire. La preoccupazione che percorre le riflessioni svolte ne La vita della mente sul giudizio e sulla qualità morale delle proprie azioni pone quindi la questione relativa al ruolo decisivo del pensiero e della coscienza, come unici depositari della forza capace di contrastare l’insorgere muto della decadenza morale e della degenerazione violenta del potere. La “voce della coscienza”, se debitamente ascoltata, ci ingiunge con fermezza di assumerci la responsabilità personale dei nostri atti, e ci aiuta a recuperare noi stessi in quell’esperienza drammatica e contraddittoria che è la vita stessa. Il carattere distruttivo

244 Cfr. ivi, p. 163.

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del vento del pensiero non va confuso con un atteggiamento nichilistico, inteso come annichilimento di ogni valore, e nemmeno deve tradursi nietzscheanamente in un sovvertimento di tutti i codici di valore preesistenti. Pensare significa, invece, abbandonarsi, in solitudine, al pungolo del tafano e alla paralisi della torpedine e, senza cercare riparo dal vento, prendere dimora nel mondo. Quando «ciò accade, si rimane come vuoti […]. Ma una volta che siete vuoti, allora, in un modo che è difficile descrivere, siete pronti per giudicare…senza bisogno di ricorrere ad alcun libro o regolamento»245. Nella delineazione di ciò che caratterizza specificamente La vita della mente, le figure con le quali Arendt interloquisce sono soprattutto Socrate e Kant. Con alcune precisazioni che meritano di essere sottolineate. Il rapporto istituito con i filosofi della tradizione occidentale non ha nulla a che vedere con un approccio riduttivamente storiografico, né tanto meno obbedisce ad esigenze meramente estrinseche. Ad ispirare la necessità del dialogo è la forza della “cosa stessa”, è la spinta a misurarsi con una formulazione rigorosa dei temi in discussione. Così, ad esempio, il Socrate che accompagna e scandisce l’analisi arendtiana è il personaggio consegnato a due importanti metafore – quella del tafano e quella della torpedine – fra loro certamente diverse, eppure accomunate da un connotato inconfondibile. Socrate è l’emblema di una ricerca che non si acquieta, di un’interrogazione che non si placa di fronte al conseguimento di risultati doxastici, ma riprende inesausta il suo percorso, affondando nella tensione verso la verità.

245 H. Arendt, Dal verbale della riunione dell’American Society for Christian Ethics, Richmond, 21 gennaio 1973, in E. Young- Bruehl, Hannah Arendt (1906-1975). Per amore del mondo, cit., p. 508; cfr. anche B. Giacomini, “Che cosa ci fa pensare?” Pathos e filosofia in Hannah Arendt, cit., p. 58.

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Quanto a Kant, Arendt riprende e valorizza con grande efficacia un aspetto abitualmente sottovalutato, compendiato nella tematica del Selbstdenken, del “pensare con la propria testa”. L’enfasi è posta sulle implicazioni etiche, oltre che strettamente gnoseologiche ed epistemologiche, della concezione kantiana dell’attività del pensare. Se nella Critica della ragion pura il filosofo di Koenigsberg definisce le condizioni per una conoscenza scientifica del mondo, in Was ist Aufklaerung246, e in altri scritti a torto considerati minori ad esso collegati, emerge la dimensione morale del pensiero. Per esercitare davvero la facoltà del pensare non sono sufficienti le qualità intellettuali. Occorre anche il sostegno della passione e del “coraggio”. Il motto che è alla base del saggio kantiano del 1784 – “Sapere aude” – indica fino a che punto l’esercizio della ragione sia inseparabile da alcune fondamentali qualità morali. Ed è appunto questo il “pensiero” a cui è rivolto l’interesse precipuo di Arendt. Non il pensiero disincarnato, astratto, calcolante, distinto e nettamente separato rispetto alla sfera dell’agire, ma quel pensiero che presiede all’azione, e in essa si risolve. Un’ultima considerazione, infine. Anche ne La vita della mente, testo incompiuto e pubblicato postumo, destinato dunque a configurarsi come testamento spirituale della filosofa, seppur nel contesto di una riflessione apparentemente molto diversa e remota, rispetto ai temi posti al centro delle opere precedenti – anche qui ritorna, incancellabile, il riferimento alla tragedia della Shoah. Ancora una volta, ritorna la domanda di fondo, il rovello di un’intera vita: come è stata possibile una simile mostruosità? Da quale imperscrutabile abisso di irrazionalità è potuto scaturire ciò che è accaduto? Come conciliare l’attività del pensiero con questa brutalità disumana? Ancora

246 Cfr. I. Kant, Che cos’è l’“Illuminismo”, tr. it. a cura di M. Bensi, Postfazione di A. M. Jacono, Ets, Pisa 2009.

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una volta, la riflessione arendtiana torna ad interrogarsi sullo statuto della violenza e la sua irriducibile negatività.

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Indice

Introduzione

p. 11

I Kafka pensatore politico 1.1 Il ponte

p. 25

1.2 Straniero

p. 38

1.3 Colpa e innocenza

p. 47

1.4 La porta “aperta”

p. 54

1.5 Divenire “indistinguibile”

p. 65

1.6 Nunc stans. Arendt “sulla linea” di Kafka

p. 81

II Legge e potere nel pensiero di Hannah Arendt 2.1 Violenza e potere

p. 105

2.2 Marionette con volti umani

p. 124

2.3 Figure del male

p. 153

2.4 Un mondo capovolto

p. 174

2.5 Il vento del pensiero

p. 193

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Passages

Collana di Storia della Filosofia Diretta da: Umberto CURI e Carmelo MEAZZA

1. Lucrezia Ercoli, Filosofia dell’umorismo. 2. Marco Fortunato, Decisione – Indecisione. 3. Andrea Panzavolta, Caro Herr Mozart. Cari compositori. 4. Elio Matassi, Appunti sul presente. 5. Chiara Pasqualin, Il fondamento “patico” dell’ermeneutico. 6. Alexander Schnell, Husserl e i fondamenti della fenomenologia costruttiva. 7. Nicola Comerci, Vedere «da cento occhi». Nietzsche e la relazione. 8. Laura Sanò, Metamorfosi del potere. Percorsi e incroci tra Arendt e Kafka.

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Passages | 8

Come è stato possibile l’Olocausto? Come “spiegare” razionalmente ciò che sembra eccedere ogni misura razionale? Si situa in questo contesto problematico l’incontro di Hannah Arendt con Franz Kafka. Storicamente documentato da una conferenza tenuta nel 1944 a Mount Holykoke, a pochi mesi dalla fine della seconda guerra mondiale, e dalla scoperta della tragedia del genocidio, il rapporto con lo scrittore praghese si rivela essere cruciale nel progetto teorico perseguito da Arendt. Secondo la filosofa, Kafka ha compreso fino in fondo – ed espresso mediante parabole – un assunto che ella aveva condiviso, attraverso un’adesione non solo intellettuale, ma anche psicologica ed emotiva. Aveva individuato nell’uomo, nell’enigma dell’uomo, nell’imperscrutabilità della sua essenza più profonda, negli abissi di quello che è destinato comunque a restare un mistero, l’origine del male, in tutte le sue manifestazioni individuali e sociali. Kafka è “pensatore politico” - come Arendt lo definisce - proprio perché è la guida più affidabile per esplorare gli intrecci che connettono etica e politica, e che ritrovano nell’individuo la radice delle forme politiche. Laura Sanò insegna Storia della filosofia contemporanea presso l’Università di Padova. La sua attività di ricerca si è concentrata su due filoni principali. Da un lato, la ricostruzione storico-filosofica delle origini e dei più significativi sviluppi del cosiddetto “pensiero negativo”, attraverso alcune figure centrali della filosofia italiana fra Otto e Novecento (Un daimon solitario. Il pensiero di Andrea Emo, La Città del Sole, 2001; Il monoteismo democratico. Religione, politica e filosofia nei Quaderni del 1953 di Andrea Emo, Bruno Mondadori, 2003; Le ragioni del nulla. Il pensiero tragico nella filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Città Aperta Edizioni, 2005; Leggere La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter, Ibis, 2011). Dall’altro lato, l’indagine sulla concezione di violenza, esilio e destino nel pensiero di alcune protagoniste della scena filosofica del Novecento (Un pensiero in esilio. La filosofia di Rachel Bespaloff, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2007; Rachel Bespaloff, Su Heidegger, Bollati Boringhieri, 2010; Donne e Violenza. Filosofia e guerra nel pensiero del ‘900, Mimesis, 2012).

€ 9,00

ISBN E-book 9788885716100

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