Medioevo in guerra 9788888812199

Il volume curato da Angelo Gambella affronta la Guerra nel Medioevo: concetto, battaglie, personaggi, cavalleria, centri

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Italian Pages 180/182 [182] Year 2008

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MEDIOEVO IN GUERRA a cura di Angelo Gambella

Studi storici sul Medioevo Italiano 3

Medioevo in Guerra a cura di Angelo Gambella Studi storici sul Medioevo Italiano, 3 Drengo, Roma, 2008. Prima edizione. ISBN-13: 978-88-88812-19-9

Studi storici sul Medioevo Italiano Progetto e cura editoriale: Roberta Fidanzia, Angelo Gambella Medioevo Italiano è in rete all’indirizzo www.medioevoitaliano.org Pubblicazione edita in collaborazione con Associazione Medioevo Italiano Project Viale Oscar Sinigaglia, 48 - 00143 Roma http://www.medioevoitaliano.it In copertina: Arazzo di Bayeux, particolare.

Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali. © Drengo Srl Casa editrice in Roma http://www.drengo.it

«Un principe non deve dunque avere altro obiettivo, né altro pensiero, né altro fondamentale dovere, se non quello di prepararsi alla guerra. Questo è l'unico compito che si addica veramente a chi comanda…» Niccolò Machiavelli, Il Principe, XIV, 1 (trad.)

MEDIOEVO IN GUERRA

RENZO PATERNOSTER La “bella” contesa: la guerra nel Medioevo

La guerra, in tutte le epoche storiche, è sempre circondata da una struttura concettuale legata alla società, al diritto, alla morale, alla religione del tempo preso in esame. La guerra, quindi, è strettamente connessa alla cultura di una determinata epoca, e il suo modo di iniziare, il suo svolgimento, la sua condotta e la sua conclusione sono direttamente collegati ad essa. Scegliere la guerra come oggetto di studio significa quindi approfondire tanto l’aspetto ben preciso di una realtà storica, quanto affrontare un fenomeno che, in determinate circostanze, è fondamentale per comprendere fino in fondo le strutture che regolano una società in un determinato periodo storico. La guerra medievale è caratterizzata da conflitti la cui portata ha rivestito un ruolo cruciale nella storia dell’umanità: le grandi invasioni dei popoli germanici e degli imperi nomadi (dagli Ungari ai Mongoli di Gengis Khan, dagli Ottomani al mitico Tamerlano), la formazione dell’Inghilterra normanna e il plurisecolare conflitto feudale con la Francia, lo scontro tra Cristianità e Islam con la riconquista della penisola iberica, le Crociate, le endemiche lotte tra guelfi e ghibellini in Italia, la perenne vertenza tra Sacro Romano Impero e Papato, la creazione di una “industria” del mercenariato. L’estensione dell’argomento e la complessità dei popoli, ha segnato tuttavia un limite geografico a questa sintesi sulla guerra nel Medioevo. La nostra attenzione, quindi, sarà rivolta al solo Occidente cristiano, ma questo – almeno si spera – non 5

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penalizzerà la nostra trattazione del fenomeno nella sua totalità e nelle sue differenziazioni. Pochi periodi storici hanno avuto un rapporto quotidiano con la guerra come il Medioevo. Certamente nella nostra epoca la guerra è divenuta più crudele e autoritaria, ma rispetto alle epoche passate e a dispetto del militarismo dilagante di “certi” Paesi, essa non è una componente assoluta della società. Come analizzeremo la natura prevalentemente predatoria della guerra, la sua “violenza misurata”, i ritmi stagionali dell’attività militare, l’ossessione per la “guerra statica” (gli assedi) e la conseguente proliferazione delle fortezze, fanno della guerra medievale un unicum. Per tutta l’età classica, la guerra era incentrata sull’“ordine chiuso e disciplinato” della fanteria. La tecnica oplitica grecoromana consisteva, infatti, nel creare un blocco unico di uomini capace di reggere l’urto dell’avversario o di attaccare il suo schieramento con una breve corsa a ranghi stretti spezzandone la compattezza1. Questi eserciti si affrontavano in campo aperto inquadrati in falange, riponendo la propria forza non nell’uso di una vera e propria strategia sul campo, ma nel costituire un blocco unico ed ordinato di uomini che faceva affidamento sulla forza fisica e poco sull’abilità2. Arrivarono poi i barbari e cambiarono le regole. Le tribù germaniche che devastarono l’Impero Romano agli inizi del Medioevo, infatti, si battevano con ferocia ma senza disciplina, tanto che per alcuni secoli, svantaggiate dalla loro stessa situazione caotica, furono tenuti in scacco dalle ben irreggimentate legioni romane (quest’ultime persero tuttavia vigore e qualità con il declinare dell’Impero). Sull’argomento cfr. G. BRIZZI, Il guerriero, l’oplita, il legionario. Gli eserciti nel mondo classico, Il Mulino, Bologna, 2002. 2 Per una visione generale delle guerre nell’antichità classica, cfr. Y. GARLAN, Guerra e società nel mondo antico, Il Mulino, Bologna, 1985; J. HARMAND, L’arte della guerra nel mondo antico, Newton Compton, Roma, 1978. 6 1

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Privi di disciplina ed ignari di ogni strategia militare, i barbari utilizzarono una tattica militare alquanto rudimentale: si disponevano a cuneo e si lanciavano all’improvviso e in maniera disordinata all’assalto del nemico in modo da spezzare al primo urto il suo schieramento di difesa. Da questa rudimentale tattica militare nasce il termine “guerra”. Infatti, in opposizione alla guerra ordinata propria dei romani (béllum), per designare la guerra intesa come zuffa incontrollata nell’antico tedesco si utilizzava la voce wërra (gli anglosassoni, invece, usavano il termine warra, prefigurazione del moderno war). La voce béllum, che poteva confondersi con bellus (bello), fu abbandonata nelle lingue romanze per accogliere il vocabolo germanico che meglio rispondeva al sistema di combattimento1. Analogamente tra i prestiti germanici al lessico neolatino ritroviamo altri termini collegati all’idea della guerra: agguato, guardia, maresciallo, siniscalco, staffa, stendardo, gonfalone, bandiera2. Furono pertanto proprio le invasioni barbariche dei popoli germani e la successiva fondazione dei regni barbarici del IV-VI secolo che, attraverso l’affermazione di nuove strutture politiche e sociali, di nuovi valori, condussero all’evoluzione dell’idea della guerra e, quindi, del suo modo di condurla. Questo nuovo modo di fare la guerra diverrà così una caratteristica preponderante che si trascinerà per secoli, arrivando a plasmare tutta la società nel suo insieme. Questo non fu solo una prerogativa dell’Occidente cristiano, anzi si verificò un considerevole scambio di tecniche e di tattiche fra le diverse culture, almeno quelle più vicine geograficamente a noi. Ovviamente il livello di esperienza e di Dal latino béllum (da duellum, combattimento a due) restano tuttavia alcuni termini legati alla guerra: bellico, belligerante, bellicoso. 2 Ad esempio il termine bandiera proviene da ban(d)iera: “insegna che i popoli germanici adoperavano per indicare il luogo della raccolta di una banda e vincolarne l’onore...: «vexillum quod bandum appellant» (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, I 20: Migl. St. lin. 76). 7 1

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abilità tattica degli eserciti medievali è variato ampiamente, nel tempo e nello spazio. Dal punto di vista strettamente militare il Medioevo inizia il 9 agosto del 378, con la battaglia di Adrianopoli (Turchia)1. Proprio in questo scontro fu dimostrata la superiorità della cavalleria sulle forze tradizionalmente appiedate, e ciò contribuì a marcare il carattere che la guerra medievale avrebbe mantenuto per parecchi secoli, questo grazie anche alla comparsa della staffa2. Combattere montando un cavallo dotato di staffe si rivelò particolarmente efficace, poiché permetteva di penetrare armati nel folto della mischia, di muoversi velocemente e di schiacciare i nemici appiedati. Se il sistema militare greco-romano si basava sulla presenza di un esercito permanente, formato da soldati di professione mantenuti grazie ad un prelievo regolare in natura e in moneta a carico del resto della popolazione, nel Medioevo la guerra divenne faccenda di pochi. Anche se è pur vero che nelle società più antiche esisteva una certa divisione fra la classe di lavoratori e quella dei guerrieri (anche se in sostanza tutti erano lavoratori e soldati), solo nella società feudale vive una precisa distinzione tra laboratores e bellatores (a cui si aggiungono gli oratores)3: quindi la fatica (con i laboratores), il combattere (con i bellatores) e il Seppure la sconfitta dell’esercito romano guidato dall’imperatore Valente, ad opera dei Goti di Fritigerno, segnò l’inizio della caduta dell’Impero romano, in linea generale la data assunta convenzionalmente come inizio del Medioevo resta tuttavia il 476, data che si riferisce alla deposizione di Romolo Augustolo. Sulla battaglia di Adrianopoli cfr. A. BARBERO, 9 agosto 378. Il giorno dei barbari, Laterza, Roma-Bari, 2005. 2 La staffa, sconosciuta al mondo greco-romano, è attestata presso i Cinesi nel V secolo, presso i Bizantini il secolo dopo e in Iran e presso gli Avari alla fine del VII secolo. Essa fu definitivamente adottata nell’Europa cristiana a partire dall’VIII secolo. 3 G. DUBY, Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti, guerrieri e lavoratori, Laterza, Roma-Bari, 1981. 8 1

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pregare (con gli oratores) sono, sia pure a diverso livello di rispettiva dignità, i tre fondamentali aspetti della società medievale, in definitiva lo schema trifunzionale di tutto il Medioevo1. Nell’antichità classica, come abbiamo detto, gli eserciti erano composti quasi esclusivamente da potenti legioni di fanti. La crisi dell’Impero romano trascinò nella decadenza anche la fanteria legionaria, che cominciò a svigorirsi con la lenta ma inesorabile disgregazione dello stesso Impero. Roma, dopo aver perduto la sua funzione di centro politico dell’Impero, perse anche la funzione di centro militare: l’esercito romano, pur restando in teoria ancora una grande macchina da guerra, iniziò a mettere in luce le sue falle, tanto che ai barbari, seppur male armati e con un ridotto numero di guerrieri, risultò facile abbattere l’Impero dei romani2. Gli eserciti dei barbari, grazie ai contatti avuti con i popoli nomadi delle steppe, avevano introdotto una innovazione nel campo militare: i soldati a cavallo3. I Franchi, popolo che ebbe un ruolo importante nel cambiamento nello scenario europeo nel Medioevo, avevano un esercito composto inizialmente quasi esclusivamente di truppe a piedi, armate di spade, lance e scudi. Le lotte svoltesi contro gli arabi e soprattutto contro i Mauri, ambedue popoli di abili L’uomo della società medievale dell’Occidente cristiano, le sue principali funzioni e il suo status sociale, sono egregiamente studiati in J. LE GOFF, a cura di, L’uomo medievale, Laterza, Roma-Bari, 1987. 2 Gli invasori barbari disponevano di forze che andavano dai diecimila ai trentamila uomini. Cfr. P. CONTAMINE, La guerre au Moyen Age, Press Universitaires de France, Paris, 1980, trad. it., La guerra nel Medioevo, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 27-30. 3 Già i Goti avevano scoperto la cavalleria insediandosi a nord del Mar Nero; Visigoti e Ostrogoti avevano avuto modo invece di stimarne l’utilizzo entrando in contatto con le orde asiatiche; il re dei Franchi Carlo Martello, sbigottito dalla cavalleria dei Mori, la introdusse come innovazione nel proprio esercito. 9 1

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cavalieri, costrinsero ad imitarli e a mutare il proprio organico bellico: i sovrani franchi incrementarono notevolmente il numero dei cavalieri, arrivando ad assegnare loro ampie estensioni di terre demaniali, questo per compensare il costoso armamento e il lungo addestramento necessari per combattere a cavallo. È con i Normanni che la cavalleria assunse definitivamente il ruolo predominante che caratterizzò i secoli successivi: adottando la tattica franca del combattimento a cavallo, essi migliorarono efficacemente le strategie di guerra, arrivando ad allestire la cavalleria più potente di quel tempo1. A partire dall’VIII secolo, quindi, si forma in Europa il gruppo dei “competenti della guerra”, ai quali è concessa della terra (il Feudo) in cambio dell’auxilium militare, ossia la disponibilità ad accorrere in armi quando il proprio signore avesse avuto bisogno di loro2. E con la comparsa del Feudo nasce anche la figura del cavaliere (e della cavalleria), una “macchina da guerra” che si evidenzia dalla restante parte della popolazione, che ha un proprio carattere distintivo ed è preparata sin dall’età adolescenziale all’arte militare. La cavalleria diviene in questo modo un corpo combattente privilegiato, che recluta i suoi membri tra le grandi classi aristocratiche e tra coloro che, grazie alle condizioni di nascita o alle loro fortune, sono in grado di armarsi e di dimostrare attitudine al combattimento3.

Una delle più antiche testimonianze iconografiche rimaste sulla cavalleria normanna è la celebre “Tappezzeria di Bayeux”, un ricamo su tela che “narra” la battaglia vinta dai Normanni contro i Sassoni ad Hastings (Inghilterra) nel 1066. 2 F. CARDINI, Quell’antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dall’età feudale alla grande rivoluzione, Sansoni, Firenze, 1982, p. 17. 3 Tra questi ricordiamo in Spagna i caballeros hidalgos (dallo spagnolo hijo de algo, ossia figlio di qualcuno, vale a dire nobile), membri della piccola nobiltà spagnola che si distingueva dalla grande aristocrazia dei ricoshombres. 10 1

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Nella società feudale i cavalieri non solo sono i bellator per eccellenza, ma la pietra angolare di tutto l’edificio sociale del tempo1. Essi possiedono, oltre all’aristocrazia, le più alte virtù: la fortitudo, ossia l’audacia, il coraggio, la forza, l’etica e la magnanimitas, che faceva di loro degli uomini di animo nobile che risparmiano la vita al nemico sconfitto2. Tutta l’ideologia cavalleresca si edificò sull’esaltazione del coraggio, dell’onore, delle qualità sociali. Alla base della fortuna storica del cavaliere e della cavalleria ci sono quindi valori percepiti come assoluti – la lealtà, la forza, l’ardimento, la magnanimità – ma anche dati sociali come la nobilitazione legata all’uso del cavallo, i miti relativi all’appartenenza di gruppo e alla morte in battaglia, l’arte della guerra, l’amor cortese (ossia l’insieme di valori che un cavaliere doveva possedere per conquistare la donna amata): la cavalleria, ancor prima di essere un’istituzione è un ideale3. L’Europa non fu l’unico continente ad avere una classe di guerrieri professionisti e altamente stimati. Il Giappone sviluppò una società per molti versi simile al sistema feudale del Medioevo europeo: in effetti il Samurai nipponico è l’equivalente del cavaliere europeo. Anch’egli era un guerriero, spesso combattente a cavallo, che giurava fedeltà ad un grande feudatario e riceveva la fedeltà da altri guerrieri. Il codice che sta alla base della condotta e dei valori di ogni Samurai è il Bushido che vuol dire “via del guerriero” (bushi, guerriero; do, via). In linea di massima il fondamento della “via del guerriero-samurai” è la risoluta accettazione della morte, nel senso di libertà della preoccupazione del dover morire. Questo ha permesso al Samurai di agire di là dai condizionamenti, non sprecando la propria vita in banalità. A. ALABISO, I Samurai, Newton & Compton, Roma, 2003. 2 Proprio il codice di condotta elaborato dalla cavalleria, che possiamo chiamare “etica cavalleresca”, è alla base di quello che diventerà il diritto durante la guerra. 3 La bibliografia sui cavalieri medievali è vasta, tra questi ricordiamo F. CARDINI, Alle radici della cavalleria medievale, Sansoni, Firenze, 2004; J. FLORI, Chevaliers et chevalerie au Moyen Age, Hachette Littératures, 11 1

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Alla nascita di questo modello di uomo valoroso contribuirono molto i poemi e le chansons de geste, opere letterarie con cui questo gruppo sociale si autocelebrò per trasformarsi, di fatto, in una casta con regole rigorose ed esclusive1. Proprio la tradizionale lealtà dei cavalieri, diede vita a numerosi ordini cavallereschi2. Infatti, allo scopo di tenere sotto controllo i vertici dell’aristocrazia feudale, che nel corso del tempo aveva acquisito notevole potere nei confronti di uno Stato centrale che aveva dimostrato tutta la propria debolezza, i sovrani crearono gli ordini cavallereschi. Questi erano associazioni esclusive di cavalieri d’alto rango legati da un preciso giuramento di fedeltà al sovrano. Tra questi ricordiamo l’Ordine della Giarrettiera, creato in Inghilterra nel 1347 durante la Guerra dei Cent’anni da Edoardo III3; l’Ordine del Toson d’Oro, istituito nel 1430 da Filippo il Buono, duca di Borgogna; il potente e ricco Ordine di S. Michele, creato in Francia da Luigi XI. Anche la Chiesa di Roma, attraverso la cristianizzazione della figura del prode cavaliere, la fondazione degli Ordini religioso-cavallereschi (Templari, Teutonici, Ospitalieri, Canonici del Santo Sepolcro, Cavalieri di S. Lazzaro, Cavalieri dell’Ordine di S. Giacomo e quelli di S. Tommaso) e il culto dei “santi militari” (S. Michele, S. Giorgio, S. Sebastiano, S. Barbara, S. Maurizio, Paris, 1998, trad. It., Cavalieri e cavalleria nel Medioevo, Einaudi, Torino, 1999. 1 Tra i poemi epici ricordiamo “Il ciclo carolingio”, imperniato delle vicende di Carlo Magno e dei suoi paladini, e il “Ciclo bretone” o “Ciclo arturiano”, dedicato alle vicende di Artù e della Tavola rotonda. Cfr. sull’argomento A. FASSÒ, La “chanson de geste”, in M. MANCINI, a cura di, Letteratura francese medievale, Il Mulino, Bologna, 1997, pp. 91-97. 2 Per una prima visione generale di questi Ordini, cfr. F. CUOMO, Gli ordini cavallereschi nel mito e nella storia di ogni tempo e paese, Newton Compton, Roma, 2004. 3 L’ordine è tutt’ora esistente. 12

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S. Martino e così via), intervenne per plasmare dal suo punto di vista la figura di questo guerriero. Ecco allora che la scenografia della guerra divenne in parte religiosa: una battaglia era di solito preceduta da riti religiosi (confessioni, comunioni, santa Messa), negli eserciti del tempo divennero numerose le immagini religiose, le armi furono munite di iscrizioni devote o di reliquie, divenne d’uso – a partire dalla prima Crociata – portare croci di stoffa sull’abbigliamento militare. Almeno sulle prime, gli Ordini religioso-militari, sorti soprattutto dallo spirito crociato, parvero incarnare l’ideale della “cavalleria divina”, la militia Christi, contrapposta alla militia saeculi alla quale i rigoristi della Chiesa non perdevano occasione, in un misto di fanatismo devozionale, per rimproverare il culto mondano della gloria personale e della violenza fine a se stessa1. Chi più di altri teorizzò l’utilità di questi ordini religiosi a carattere militare, criticando duramente la “milizia secolare”, ritenuta una cavalleria profana dedita alla ricchezza personale e alla vanagloria, fu Bernardo di Chiaravalle (1090-1153). Egli, introducendo il termine “malicidio”, elaborò la soluzione dei bellatores negli oratores, presentando la guerra stessa in termini di esperienza mistico-religiosa. Scrivendo intorno al 1128 il Trattato di lode per la nuova Cavalleria (che era quella dei Templari, il primo grande Ordine monastico-militare ai quali lui stesso era stato vicino sin dalla fondazione)2, S. Bernardo utilizzò Credo sia opportuno appuntare che tutti i membri di questi Ordini religioso-militari non sono monaci, bensì cavalieri laici sottoposti ad una regola religiosa. Sull’argomento cfr. A. DEMURGER, Chevaliers du Christ. Les Ordres religieux-militaires au Moyen Âge, XIe-XVIème siècle, Seuil, Paris, 2002, trad. it., I cavalieri di Cristo: gli Ordini religioso-militari del Medioevo (XI-XVI secolo), Garzanti, Milano, 2004. 2 I Templari (Frates militiae Templi) compaiono in Terra Santa verso il 1118, guidati da Ugo di Payens e Goffredo di Saint.Omer, per garantire la sicurezza delle strade ai pellegrini che si recavano nella terra che vide il Cristo vivere e morire. Nel Concilio di Troyes del 1128, i Templari 13 1

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il termine “malicidio” (malicidium) per indicare l’omicidio di un non cristiano in guerra, quando non vi era altro mezzo per impedire il male che commetteva: «Sane cum occidit malefactorem, non homicida, sed, ut ita dixerim, malicida, et plane Christi vindex in his qui male agunt, et defensor christianorum reputatur […]»1. In definitiva, riprendendo il concetto di “guerra giusta” introdotto da Sant’Agostino (354-430), Bernardo teorizza che l’uccisione di un malfattore o di un pagano (musulmano)2 doveva essere considerata come una estirpazione di un male. In questo modo, solo in questo modo, il Templare era esente dal peccato perché uccideva a nome e per conto del Cristo, quindi non per vanagloria come faceva la cavalleria secolare. Questi concetti portarono Bernardo ad incitare i cavalieri templari alla “guerra santa”: «Securi ergo procedite, milites, et intrepido animo inimicos crucis Christi propellite, certi quia neque mors, neque vita poterunt vos separare a caritate Dei, quae est in Christo Iesu, illud sane vobiscum in omni periculo replicantes: Sive vivimus, sive morimur, Domini sumus […]»3.

ricevettero la propria regola, tutta imbevuta dello spirito di Bernardo di Chiaravalle e racchiusa proprio nell’Elogio della nuova Cavalleria (De laude novae militiae ad Milites Templi). Cfr. F. CARDINI, La nascita dei Templari. San Bernardo di Chiaravalle e la Cavalleria mistica, Il Cerchio, Rimini, 1999; AA. VV, I Templari, la guerra e la santità, Il Cerchio, Rimini, 2000. 1 Liberamente traduco: «Chi uccide un malfattore, non è omicida, ma malecida e vindice di Cristo contro coloro che compiono il male, e sarà considerato difensore dei cristiani». De laude novae militiae ad Milites Templi, III, 4. 2 Ai tempi di Bernardo, molti – non conoscendo le basi dell’Islamismo – consideravano questa religione un’eresia del Cristianesimo, quindi i loro seguaci erano considerati con il termine “violento” di “pagani”. 3 Liberamente traduco: «Procedete quindi sicuri, soldati, e con animo intrepido colpite i nemici della croce di Cristo, certi che né la morte, né la vita vi possono separare dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, che sarà 14

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La maggior parte degli Ordini religioso-militari del tempo ebbero il beneplacito dei pontefici, anzi, nel Duecento papa Alessandro VI benedisse anche un ordine cavalleresco tutto al femminile: quello di S. Maria in Gloria. La presenza di donne armate, accanto ai cavalieri aristocratici e a quelli di “ordine divino”, non può stupire, poiché non esisteva divieto assoluto alle donne di combattere e negli eserciti molte donne affiancavano i soldati occupandosi del vettovagliamento, degli alloggi e delle pulizie. Non fu quindi considerato anormale vedere dame vestite da uomo guerreggiare in mezzo ai cavalieri, questo in virtù delle numerose usanze feudali che ammettevano loro il diritto di successione. Tra queste “amazzoni” ricordiamo la dama di corte Eleonora d’Aquitania, le contesse Giovanna di Monfort e Helvise di Evreux, ma anche donne del popolo tra le quali le famose Giovanna D’Arco e Giovanna Hachette1. Se il cavaliere è il bellator per eccellenza, le truppe di fanteria furono una componente molto importante in tutti gli eserciti. Essa non fu solo decisiva nell’ambito degli assedi di castelli o di città fortificate ma, col passare del tempo e la messa a punto di nuove armi, divenne un pericoloso nemico della stessa cavalleria. Molti sono gli esempi in cui la fanteria, anche se a volte male armata, riuscì a tener testa alla tanto mitizzata cavalleria: nel 1066, ad Hastings (Inghilterra), i fanti sassoni armati d’ascia decimarono la cavalleria normanna; nel 1297, nella battaglia di Stirling (Scozia), la fanteria scozzese tenne testa agli invasori inglesi; nel 1302, a Courtrai (Belgio), la fanteria fiamminga, con voi in ogni pericolo mentre ripeterete: Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore». De laude novae …, I, 1. 1 Le donne nel Medioevo disponevano tuttavia, di una libertà di spostamento e di azione molto ridotta rispetto a quella maschile. Cfr. sull’argomento E. GUERRA, Donne medievali. Un percorso storico e metodologico, Nuove Carte, Ferrara, 2006. 15

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armata di soli bastoni, mise in fuga i cavalieri francesi1; nel 1314, a Bannockburn (Scozia) i fanti scozzesi, armati di lance corte, riuscirono a fermare le micidiali cariche dei cavalieri inglesi; nel 1346, a Crécy (Francia), bastarono i lunghi archi della fanteria inglese (i longbows) per soffocare l’assalto dei cavalieri francesi2, lo stesso accadde nel 1415 ad Azincourt (Francia). L’espediente più diffuso per contrastare il predominio della cavalleria fu quello di dotare la fanteria di picche, ossia aste acuminate che talora superavano i sei metri di lunghezza. Disponendo i picchieri in quadrato o a cerchio, la fanteria riuscì spesso ad impedire ai cavalli di penetrare a fondo nelle proprie linee poiché, com’è palese, gli animali trovavano uno sbarramento di punte acuminate sulla loro strada3. Anche l’impiego massiccio di arcieri, specie quelli dotati di longbow, capaci di tirare frecce all’unisono, si dimostrò una potente contromisura alla cavalleria. Il pittoresco rituale guerresco distingue la guerra medievale da quelle delle altre epoche. Infatti, riguardo all’aspetto strettamente militare e di strategia, la guerra medievale è per lo più uno scontro diretto fra due eserciti che si affrontano su un campo di battaglia con regole precise. Inoltre le guerre sono relativamente brevi, stagionali al massimo. Nella guerra L’evento è passato alla storia come “la battaglia degli Speroni d’Oro”, perché i mercanti e artigiani della fanteria fiamminga, massacrarono i cavalieri francesi facendo poi mucchi dei loro speroni dorati. 2 La combinazione dovuta all’uso massiccio dell’arco lungo e del ricorso a nuove tattiche, hanno indotto numerosi storici a considerare questa battaglia come l’inizio della fine dell’epoca della cavalleria. Cfr. A. AYTON, P. PRESTON, The Battle of Crecy, 1346, Boydell and Brewer, Rochester (NY), 2005. 3 Famosa rimane la fanteria che più di ogni altra adottò questo criterio, ossia i “Picchieri svizzeri”. L’efficacia di questi soldati fu talmente alta che molti dei più importanti principi europei o furono indotti ad assoldare questi abili combattenti, oppure ne copiarono tattica e armi (un buon esempio è fornito in proposito dai “Lanzichenecchi tedeschi”). 16 1

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medievale, almeno quella fatta dai cavalieri, più che uccidere il nemico è importante battersi correttamente, secondo regole e con onore. Anzi, la guerra nel Medioevo ha il valore di un aristocratico esercizio di virtù. Essa, allora, è circondata da tutta una costruzione concettuale legata al diritto, alla morale e alla religione. A testimoniare l’autentica passione che gli eventi d’arme suscitavano nei letterati dell’epoca ci è rimasto il canto del trovatore Bertran De Born (1140-1215 circa) poeta e cavaliere e grande esaltatore della guerra e della lotta per le idealità eroiche e cavalleresche1. Egli non è mosso da nessun pensiero morale o politico, ma semplicemente è affascinato dal suono della guerra: «Molto mi piace la lieta stagione di primavera che fa spuntar foglie e fiori, e mi piace quando odo la festa degli uccelli che fan risuonare il loro canto pel bosco, e mi piace quando vedo su pei prati tende e padiglioni rizzati, ed ho grande allegrezza. Quando per la campagna vedo a schiera cavalieri e cavalli armati. E mi piace quando gli scorridori mettono in fuga le genti con ogni lor roba, e mi piace quando vedo dietro a loro gran numero di armati avanzar tutti insieme, e mi compiaccio nel mio cuore quando vedo assediar forti castelli e i baluardi rovinati in breccia, e vedo l’esercito sul vallo che tutto intorno è cinto di fossati con fitte palizzate di robuste palanche. Ed altresì mi piace quando vedo che il signore è il primo all’assalto a cavallo, armato, senza tema, che ai suoi infonde ardire così, con Costui era un potente feudatario, signore del castello di Hautefort nel Périgord, in Occitania. Visse la sua vita sempre in guerra: prima guerreggiò contro il fratello, poi partecipò alle lotte intestine della famiglia reale inglese, inizialmente istigando Enrico dal “Corto mantello” (detto il Re giovane) contro il padre e il fratello Riccardo Cuor di Leone, e più tardi, dopo la morte di Enrico, passando dalla parte di Riccardo. La sua attività poetica ebbe luogo fra il 1181 e il 1194, prima che, ormai in vecchiaia, si ritirasse in convento come monaco cistercense. 17

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gagliardo valore; e poi ch’è ingaggiata la mischia ciascuno deve essere pronto volenteroso a seguirlo chè niuno è avuto in pregio se non ha molti colpi preso e dato. Mazze ferrate e brandi [spade], elmi di vario colore, scudi forare e fracassare vedremo al primo scontrarsi e più vassalli insieme colpire, onde erreranno sbandati i cavalli dei morti e dei feriti. E quando sarà entrato nella mischia, ogni uomo d’alto sangue non pensi che a mozzare teste e braccia: meglio morto che vivo e sconfitto! Io vi dico che non mi da tanto gusto mangiare, bere o dormire, come quand’odo gridare ‘All’assalto’ da ambo le parti e annitrire cavalli sciolti per l’ombra e odo gridare ‘Aiuta! Aiuta!’ e vedo cadere pei fossati umili e grandi fra l’erbe, e vedo i morti che attraverso il petto han troncon di lancia coi pennoncelli […]»1. La guerra nel Medioevo è quindi un fenomeno culturale: essa deve essere fatta bene, con coraggio e nobiltà d’animo. Ecco così che i nobili cavalieri disprezzano l’uso della balestra, considerata un’arma da vigliacchi, poiché il solo confronto corpo a corpo è degno di un vero guerriero2. Fu proprio l’adozione della balestra, micidiale arma che nella versione portatile proveniva dalle steppe dell’Asia, a sminuire ancor più il ruolo dei cavalieri in battaglia3. Questi, d’ora in poi, dovevano proteggersi con armature Cfr. Gérard Gouiran, L’amour et la guerre. L’oeuvre de Bertran de Born, Université de Provence, Aix-en-Provence, 1985. 2 La balestra non fu vista di buon occhio anche dalla Chiesa, che la considerava “un’arma diabolica”. Papa Urbano II, nel 1097, arrivò a condannare pubblicamente il suo uso (ma anche dell’arco) durante le guerre tra cristiani. Lo stesso fece il II Concilio Laterano del 1139. Queste proibizioni tuttavia non sempre furono rispettate e molti sovrani e signori cristiani avevano al loro soldo drappelli di balestrieri (e di arcieri). 3 La presenza di balestrieri negli eserciti portò finanche alla creazione di un nuovo corpo di fanteria, quello dei “Pavesai”. Questi erano soldati dotati di grandi scudi che permettevano ai balestrieri di mettersi al riparo mentre ricaricavano la propria balestra. 18 1

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interamente di piastra1, più pesanti e ingombranti, che di fatto, oltre a far lievitare i costi, rallentavano notevolmente il potere militare: il soldato a cavallo «coperto da capo ai piedi di acciaio, era un proiettile inarrestabile se lanciato in battaglia: ma bastava accerchiarlo e scavalcarlo, e diveniva un povero crostaceo in balia della plebaglia a piedi»2. A partire dal Trecento le armi da fuoco daranno poi il definitivo ultimo colpo alla funzionalità militare dei cavalieri. Ai valorosi soldati a cavallo non resteranno che le giostre, i tornei e la caccia3. Il declino della cavalleria, inteso come corpo strategicamente efficace nelle battaglie, e la sua onorabilità di classe militare distintiva della società medievale, furono causati anche dalla pratica dello scutagium, ossia la pratica di pagare una tassa sostitutiva al sovrano o al signore che surrogava l’auxilium a cui i feudatari erano tenuti. Ecco allora comparire i “mercenari”, i soldati arruolati dietro compenso (summonitiones ad denarios). Diffusi presso i popoli dell’antico Oriente, i mercenari erano conosciuti anche presso i Greci (misthophóroi, misthōtoi, epíkouroi) e i Romani (mercenarii, peregrini milites). Nell’antica Grecia apparvero per la prima volta verso la fine dell’VIII secolo a. C., quando i tiranni Pisistrato e Policrate, per affermare il loro potere, li assoldarono nei loro eserciti. Scomparsi con la caduta delle tirannidi, furono largamente impiegati al tempo della Guerra del Peloponneso, diventando parte integrante nella costituzione degli eserciti greci, con propri generali (Ificrate, Cabria, Timoteo, A volte tale armatura non bastava per proteggere i soldati. Nel 1199, durante l’assedio del castello di Châlus, Riccardo Cuor di Leone fu ferito mortalmente da un dardo lanciato da una balestra nonostante fosse ricoperto di tutto punto da una corazza. 2 F. CARDINI, Il guerriero e il cavalieri, in J. LE GOFF, a cura di, L’uomo medievale, cit., p. 121. 3 Sull’argomento cfr. D. Balestracci, La festa in armi. Giostre, tornei e giochi nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari, 2006. 19 1

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Carete). Mercenari furono parte attiva anche nelle guerre portate avanti dalla dinastia saitica d’Egitto, mentre li troviamo anche presso i Persiani e presso i Tiranni di Sicilia. Il periodo storico in cui essi ebbero maggior diffusione, arrivando ad essere decisivi nelle guerre, fu proprio il Medioevo. Chiamati inizialmente, come testimonia William di Malmesbury nel De gestis regum Anglorum libri V, “stipendiarii et mercenarii milites”1, essi avevano – almeno all’inizio – una caratteristica comune: quella di essere dei forestieri ingaggiati individualmente. Nel 1200 essi avevano una funzione prevalentemente di rinforzo, quindi combattevano assieme ai cavalieri e ai fanti (ne è esempio la battaglia di Campaldino del 1260, quando i mercenari combatterono a fianco dell’esercito fiorentino), poi si sostituirono definitivamente agli eserciti regolari. Questi sono dunque i due tipi d’ingaggio del mercenario. Il primo, chiamato “a mezzo soldo”, si aveva quando essi combattevano in posizione sussidiaria accanto agli eserciti regolari, avendo funzioni di appoggio; il secondo, chiamato “a soldo disteso”, quando le prestazioni era complete e dirette. Le truppe mercenarie, professionalmente preparate e pronte a combattere per un adeguato compenso, liberavano i signori del tempo dalla sudditanza alle incerte e inaffidabili prestazioni dei nobili cavalieri. Per la maggior parte di quest’ultimi, la guerra era ormai divenuta una perdita di tempo o rappresentava un’odiosa interruzione di redditizi affari. Inoltre, i componenti delle armate mercenarie avevano fama di essere preparati combattenti e, se ben pagati, si dimostravano molto più fedeli al proprio committente fornendo maggiori prestazioni sul campo di battaglia. L’utilità dei mercenari si dimostrò maggiore dei vecchi milites; furono utilizzati non solo sul campo di battaglia, ma anche contro disordini e ribellioni interne. 1

Da P. CONTAMINE, La guerra nel Medioevo, cit., p. 147, nota 82. 20

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Cambiamenti nel reclutamento dei mercenari sono segnalati agli inizi del Trecento: dall’assunzione individuale (o di piccoli gruppi) si passò ad ingaggiare compagnie intere. Questo si dimostrò un sistema più efficace poiché, oltre ad essere più facile arruolare un’intera compagnia di ventura, anziché migliaia di singole persone, dal punto di vista strettamente bellico pareva più ragionevole impiegare soldati che erano già abituati a combattere insieme. Tra questi gruppi di mercenari, i più richiesti furono i balestrieri di Pisa, di Tortosa, di Liguria e di Corsica, gli arcieri saraceni di Lucera, i fanti guasconi, i picchieri svizzeri. La comparsa d’intere compagnie di ventura mise in evidenza un’altra categoria di soldati che, grazie alla guerra, accumularono ricchezze: i capitani di ventura, ossia quelli che furono chiamati “condottieri”. Il condottiero era «un imprenditore militare, o, se si vuole, uno che conduceva truppe al soldo di uno Stato, repubblica, regno o papato, e contraeva ferme a tempo determinato per se e per i suoi uomini. Non era pagato in rapporto ai servizi particolari, battaglia vinta o città presa […] ma per anno o mese e secondo il numero di uomini e di cavalli, di macchine e di armi che manteneva. Le sue truppe, benché le arruolasse […] lui stesso e ne fosse responsabile, non costituivano una sua forza personale. Il solo legame che le teneva unite era la paga […]. A parte un gruppetto di amici, parenti, gentiluomini alla scuola o veterani che seguivano la sua fortuna, la sola forza che egli rappresentasse era in lui: bravura, esperienza, conoscenze tecniche, prestigio del nome e dei successi avuti, proprio come avviene per un architetto, un imprenditore, un ingegnere cui si affidi un lavoro con la possibilità di assumere operai e pagare materiali»1.

R. DE LA SIZERANNE, Federico di Montefeltro, capitano, principe, mecenate (1442-1482), Urbino, 2003, p. 44. 21

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Ogni soldato che firmava una condotta era teoricamente «un condottiero e il termine di solito si riferiva sia agli uomini d’armi che si impegnavano a fornire cinque seguaci come pure ai grandi capitani che comandavano duemila uomini. Comunque, è ai capitani di significativi corpi di truppe a cavallo che noi di solito ci riferiamo quando facciamo uso del titolo di condottiero. I capitani di fanteria venivano ingaggiati allo stesso modo ma venivano designati come connestabili e non come condottieri; comunque molto di ciò che può essere detto a proposito dei condottieri vale anche per questi ultimi, anche dal punto di vista del prestigio sociale»1. I capitani di ventura reclutavano personalmente i singoli mercenari nella propria compagnia, li addestravano, li armavano e li pagavano. Con i signori che richiedevano una prestazione mercenaria negoziava direttamente, stabilendo un preciso contratto chiamato “la condotta” (per questo erano chiamati “condottieri”)2. La “condotta” è appunto il contratto sottoscritto tra le due parti, il signore e il condottiero, dove erano specificate la durata delle prestazioni militari, le condizioni dell’ingaggio, il numero degli uomini e delle armi. Una volta firmato il contratto, e dopo aver ricevuto un cospicuo acconto in denaro, il condottiero era obbligato a mostrare i suoi uomini d’arme ai “consegnatari” del signore che li aveva assoldati, questi registravano il numero degli effettivi e stimavano gli uomini e le armi. Tra i più celebri condottieri ricordiamo Francesco Bussone da Carmagnola, Bartolomeo Colleoni, Francesco Sforza, Federico da Montefeltro, Pandolfo Malatesta, Astorre Manfredi, Giovanni di Montreal (detto fra Moriale, perché ex priore dei Cavalieri di S. M. MALLET, Il Condottiero, in E. GARIN, a cura di, L’uomo del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 54-55. 2 Occorre specificare che le condotte non erano peculiari del servizio militare; esse venivano usate anche negli affari, nelle attività produttive, nelle assunzioni di insegnanti e nella costituzione di una corte. 22 1

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Giovanni), Werner di Urslinger (detto Guarnieri), Anichino di Boumgarten, John Hawkwood (detto Giovanni Acuto)1. Terribili e spregiudicati, qualcuno di questi si conquisterà uno Stato, come fece Francesco Sforza con il Ducato di Milano, altri signorie e contee2. Torniamo alla nostra guerra combattuta. La battaglia vera e propria nel Medioevo si svolge entro uno spazio geografico localizzato, dove è in gioco esclusivamente la vita dei combattenti, che si sfidano l’un l’altro, la maggior parte delle volte rispettando precisi rituali cavallereschi. Le distruzioni sono circoscritte entro l’area di combattimento, mentre la perdita di vite umane è limitata e non include la popolazione civile. Un’eccezione che può avere esiti cruenti anche per la popolazione civile, riguarda la pratica dell’assedio. Da un punto di vista tattico, gli strateghi medievali hanno una vera e propria ossessione per l’accerchiamento delle numerosissime località fortificate. Infatti, la concezione di guerra come battaglia campale alla quale ci si riferisce ai nostri giorni quando si pensa alle guerre, non è corretta: contrariamente a quanto raccontato nelle opere cinematografiche, le guerre nel Medioevo consistevano principalmente in scorrerie devastatrici e assedi di vario genere, mentre le grandi battaglie campali tra eserciti erano piuttosto rare. Sembra, infatti, che re e comandanti fossero restii ad impegnare un gran numero di soldati in un evento che poteva in ogni modo avere esiti permanenti. Gli eserciti o si muovevano come pedine su una scacchiera, compiendo manovre e L’avventuriero inglese Hawkwood fu celebre a Firenze, dove morì nel 1394, che non lo volle dimenticare facendolo immortalare a cavallo da Paolo Uccello in un famoso affresco sulle pareti della cattedrale di Santa Maria del Fiore. 2 Sull’argomento cfr. C. RENDINA, I capitani di ventura. Storia e segreti, Newton Compton, Roma, 1999; M. MALLET, Signori e mercenari. La guerra nell’Italia del Rinascimento, Il Mulino, Bologna, 1983. 23 1

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aggiramenti per conquistare castelli e città fortificate d’importanza strategica, evitando il più possibile d'ingaggiare combattimenti diretti a campo aperto, oppure si riunivano in bande di predoni per compiere incursioni devastatrici e appropriarsi di ricchi bottini. Chiaramente le immagini di scene di immensi eserciti che si fronteggiano l’un l’altro in epici scontri con migliaia di soldati e cavalieri, non erano totalmente assenti, anche se comunque ben rare. Basti pensare che nella guerra iconica del Medioevo, la celebre Guerra dei Cent’anni, per tutta la sua durata si verificarono ben poche battaglie vere e proprie (Crécy, Poitiers, Agincourt e poche altre), se paragonate alla sua storica lunghezza. Le grandi battaglie erano cerimonie eccezionali, singolari “giudizi di Dio”, eventi da affrontare con estrema prudenza e ai quali si giungeva unicamente quando l’opzione della battaglia campale si rendeva strettamente necessaria, oppure quando si era in presenza di situazioni abbastanza favorevoli da ritenere di poter far soccombere il nemico con un unico grande colpo di mano. Un altro mito da sfatare è quello relativo alla durata vera e propria della guerra. Infatti, ancora una volta, è errato immaginare che la situazione durante il periodo bellico fosse di costante combattimento, come nel caso delle guerre moderne. Una guerra nel Medioevo poteva anche durare decenni, ma si trattava per la maggior parte di tempi morti, in cui gli eserciti si organizzavano (si considerino, ad esempio, i lunghissimi tempi necessari per lo spostamento delle truppe) e i loro comandanti si accordavano. La guerra, inoltre, aveva i suoi periodi: la stagione preferita era quella calda, e questo si può spiegare principalmente dalla difficoltà di spostare un ingente quantitativo di uomini, animali e attrezzature con clima avverso. Quale che siano i motivi scatenanti, la guerra medievale si delinea come una prova di forza in cui, per costringere l’avversario 24

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a cedere, risulta opportuno ricorrere non tanto a battaglie campali, quando alla privazione dei suoi mezzi di sostentamento. Questa strategia, oltre a piegare il morale del nemico e privarlo dei mezzi di sussistenza, serviva per racimolare cospicui bottini di guerra. Ecco allora che la rapacità si lega indissolubilmente allo spirito d’avventura e al desiderio di “conquistare” il nemico: la guerra non è per ora che un evento che della violenza si appaga, mentre i soldati non sono altro che i beneficiari di quel bottino frutto della stessa violenza. Trattare di guerra medievale significa quindi occuparsi anche delle modalità con le quali avvenivano le razzie di risorse e le azioni di distruzione programmate1. Quando Milano fu attaccata da Federico I una prima volta nell’agosto del 1158, fu adottata dall’imperatore la strategia della rapina e della tabula rasa: l’esercito devastò tutte le messi che trovò, bruciò case e raccolti, rapinò castelli e chiese. Ai primi di settembre Milano si arrese. Durante la Guerra dei Cent’anni, giusto per fare un altro esempio, i saccheggi si rivelarono una buona arma per motivare i soldati e accrescere il loro fervore. Infatti, ogni soldato inglese aveva diritto ad un terzo del bottino “prelevato” in azione, un altro terzo andava all’esercito, mentre l’ultimo terzo al re. Col passare del tempo, ogni esercito si dotò di personale specializzato in “guasti”, ossia soldati preparati per distruggere (incendiare o distruggere beni)2, e nella “raccolta bottino”, ovvero uomini “armati” di soli sacchi (i cosiddetti zaffones del trecento o i saccomanni del Trecento e Quattrocento). La guerra nel Medioevo è quindi anche una grande occasione per arricchirsi, soprattutto verso la fine di quest’epoca,

Cfr. A. SETTIA, Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari, 2004, pp. 3-75. 2 Nel corso del Trecento, divenne d’obbligo fornire guastatori all’atto della mobilitazione. 25 1

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quando nasce la pratica di catturare prigionieri per ottenerne un riscatto. Per molti, sia nobili sia plebei, riuscire a catturare un cavaliere era l’occasione per cambiare vita. Oltre alla cifra in monete d’oro, il riscatto vero e proprio, ci si appropriava anche delle armi, dell’armatura e del cavallo, tutte cose di enorme valore. Questo era, ovviamente, pratica molto più comune tra i milites di alto lignaggio, che potevano permettersi di pagare cifre anche molto ingenti per la propria vita, mentre poco conveniente era prendere prigioniero un normale soldato del popolo che non aveva alcun valore d’affrancamento1. A parte le rapine, i saccheggi e le devastazioni, da un punto di vista tattico – come riferito – gli strateghi medievali avevano una vera e propria ossessione per l’assedio, vale a dire per l’attacco e la difesa delle numerose località fortificate che pullulavano nel paesaggio dell’epoca. A dire il vero, già i Romani furono espertissimi nell’assedio contro i “castri” nemici. L’esempio più famoso di un accerchiamento al tempo di Roma è sicuramente quello narrato da Cesare nel De bello gallico, ossia l’assedio di Alesia (settembre del 52 a. C.). Dunque, l’origine dell’arte dell’assedio è probabilmente romana, come pure romani sono i termini “castello”2, “assedio”3 e “cancello”4. Tuttavia, la strategia romana dell’assedio rimase comunque un tipo di combattimento

La cattura dei cavalieri veniva registrata dagli araldi, che annotavano i nomi dei soldati responsabili. Successivamente gli araldi stessi davano notizia dell’accaduto alla famiglia del prigioniero, predisponendo il pagamento del riscatto che garantiva il rilascio dell’ostaggio. 2 Da castellum, che è diminutivo di castrum, nome che indicava al singolare una città fortificata e al plurale l’accampamento fortificato dell’esercito. 3 Dal latino parlato adsediu(m), che deriva dal classico obsidiu(m), derivato di obsidere , ossia “star seduto davanti, tenere il campo”. 4 Da latino cancelli, usato al plurale, diminutivo di cancer, che vuol dire, tra le altre cose, “graticcio”. 26 1

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secondario: questa pratica diventerà predominante a partire dal 569, cioè da quando i Longobardi invasero l’Italia. La necessità di difendersi dalle scorrerie dei Vichinghi, degli Ungari e dei Saraceni, e l’insicurezza interna dovuta alla frammentazione politica e alla mancanza di un potere centrale forte, furono indubbiamente la causa più evidente di quello che lo storico francese Pierre Toubert ha chiamato “incastellamento”1. Accanto al bisogno di proteggersi dalle grandi scorrerie di provenienza lontana e da qualsiasi turbamento alla sicurezza locale, esistono altre motivazioni di ordine economico e sociale legate alla diffusione di questo fenomeno: il moltiplicarsi degli insediamenti fortificati fu anche la conseguenza diretta della ripresa demografica e dei traffici che, a causa del clima di insicurezza generale, imponeva ai nuovi nuclei abitati di sorgere accentrati e fortificati. Grazie alla costruzione dei castelli, la signoria fondiaria, trasformandosi, di fatto, in signoria territoriale, subì profonde alterazioni: i grandi signori si appropriarono di fatto del potere lasciato vacante dalle autorità centrali, assumendo non solo compiti di protezione, ma anche poteri politici e amministrativi2. Con tali poteri, detti “di banno”3, il signore manteneva nel castello e nei territori circostanti una vera e propria giurisdizione. Il concetto di banno implicava la sottomissione di uomini giuridicamente liberi, non in virtù di un vincolo tra servo e padrone, bensì in virtù della residenza in un’area protetta. Esso P. TOUBERT, Dalla terra ai castelli, Einaudi, Torino, 1995. Cfr. G. TABACCO, G. G. MERLO, Medioevo, Il Mulino, Bologna, 1981, ora in Storia Universale, vol. 7 de “Le Grandi opere del Corriere della Sera”, RCS, Milano, 2004, pp. 167-171. 3 “Banno” dall’antico termine germanico ban (corrispondente a quello latino di districtio o districtus), usato già in età carolingia per individuare il diritto di comandare o di costringere per finalità di ordine pubblico. 27 1

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consisteva quindi nel diritto d’imporre corvées ai sudditi1 e nell’obbligo al servizio di guardia a turno tra tutti i residenti, i quali – in caso di attacco – erano tutti chiamati a contribuire alla difesa della loro fortezza. Ovviamente i diritti bannali variavano con l’area culturale e politica. Il castello è quindi il centro della curtis, nel quale si chiude la povera economia feudale, e la fortezza di difesa del signore e di rifugio del popolo in tempi di attacchi esterni. A prescindere dalle diverse modalità della sua creazione, l’utilità militare del castello consisteva nel massimizzare l’esposizione e il pericolo per gli attaccanti e, ovviamente, nel minimizzarli per gli occupanti. Ma poteva essere, accanto al principio base della difesa, anche uno strumento di attacco, servendo come base sicura e protetta per i soldati che controllavano il territorio circostante. Il fenomeno dell’incastellamento ebbe importanti conseguenze sull’arte di fare la guerra: non solo prese forma la “guerra statica”, caratteristica che rimarrà costante per molti secoli, ma contribuì anche allo sviluppo della poliorcetica, ossia l’arte di attaccare e di difendere le fortificazioni. Dal punto di vista strettamente materiale, il castello rappresentava il potere di un determinato sovrano o signore, ma soprattutto era un immenso deposito di ricchezze, quindi un potenziale bottino che poteva essere “prelevato”. Queste sono le ragioni dell’enorme accanimento della tattica degli assedi. Negli assedi il tempo era generalmente dalla parte dell’assediante, e l’assalto finale era comunque considerato una risorsa da utilizzare unicamente in caso di estrema necessità o quando era chiaro che la sorte avrebbe favorito gli assedianti.

Tra cui il pagamento della cosiddetta “taglia”, ossia un contributo in denaro che ripagava la protezione da questi accordata loro, e l’obbligo di utilizzare il mulino, il forno e il frantoio signorile corrispondendo una parte del prodotto. 28

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Cinque erano i modi possibili per prendere un castello o una città fortificata: aspettare una resa, tradimento di qualcuno tra gli assediati, aprire una breccia nelle mura, passarvi sotto, passarvi sopra. Per “prendere” una fortezza il modo ottimale era rappresentato dalla resa degli assedianti. Per questo, al di là della reale efficacia sul piano materiale, il dispositivo d’assedio messo contro una fortezza, con le sue scenografie dimostrative e la sua ostentazione della potenza, doveva assumere innanzitutto un potente valore di guerra psicologica, benché questo poteva richiedere diversi mesi se non anni1. Il primo passo era dunque quello di impressionare gli assedianti inducendoli alla resa. Racconta Cesare nel De bello Gallico che gli Atuatuci furono indotti alla resa alla sola vista di una immensa torre d’assalto che si muoveva contro di essi: se i Romani erano in grado di spingere avanti con tanta rapidità un simile marchingegno – pensarono – certamente essi avevano dalla loro parte un aiuto divino. Famose sono le macchine d’assalto che re Boemondo faceva allestire dai suoi architetti militari per impressionare il nemico, come terrificanti furono descritte le torri mobili usate dai Crociati nell’assedio di Lisbona del 1147 contro i Saraceni. E ancora, risultò strategicamente efficace la maristella fatta allestire da Federico II contro Viterbo, che fu descritta dagli assedianti come un “mostruoso edificio”, uno “spettacolo” terrificante; mostruosa e diabolica risultò anche la troia dei Francesi trasportata faticosamente dinanzi al castello di Bergerac nel 1377, che convinse gli assediati alla resa senza combattere. Uno dei più lunghi assedi che la storia medievale ricordi è stato quello della città di Acri da parte dei Franchi. Si ritiene, infatti, che questo assedio sia durato dal giugno 1189 al luglio 1191. Altri lunghi assedi sono stati quelli di Costantinopoli, in occasione della quarta crociata (da ottobre 1217 a giugno 1218), quello di Marmade da parte di Amaury di Montfort e del principe Luigi di Francia (da ottobre 1218 a giugno 1219). 29

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A volte poteva bastare anche la sola minaccia di ricorrere a tali marchingegni, per avere un effetto deterrente tale da convincere una fortezza alla resa. Ad esempio, il marchese d’Este riuscì nel 1239 a recuperare le sue terre occupate da Ezzelino da Romano, minacciando di utilizzare potenti trabucchi. Tra le altre pressioni psicologiche anche il lancio di oggetti e animali nelle città fortificate risultò un ottimo espediente. Nel 1097, ad esempio, i Crociati manganarono le teste dei nemici uccisi in uno scontro nella città di Nicea, creando paura fra i Turchi. Spesso ad essere lanciati erano fumi tossici o materiale infetto. Ad esempio, durante l’assedio della fortezza di Ficarolo, presso Firenze, fu proposto di utilizzare delle palle di bombarda riempite “cum fumo aveneato”, ma il Senato della Serenissima ritenne diabolico e inopportuno ricorrere a queste armi non convenzionali. Altri popoli non si fecero scrupoli. I Tartari di Janibeg Khan, nel 1347, durante l’assedio del presidio genovese di Caffa sul Mar Nero, non riuscendo a conquistare la città, e di fronte alla ritirata che si stava prospettando dovuta ad una epidemia di peste bubbonica scoppiata tra le fila del suo esercito, decisero di catapultare i cadaveri degli appestati all’interno di Caffa. L’epidemia che scoppiò fu inevitabile tra la popolazione già segnata dall’assedio. I Genovesi sopravvissuti fuggirono e salparono per la Sicilia dove, ormai infetti, diffusero inconsapevolmente l’epidemia prima di raggiungere Genova, dove puntualmente si verificò la stessa cosa. La malattia si riprodusse velocemente causando un’epidemia in tutta Europa che stroncò, in soli tre anni, circa ventimilioni di persone. Tra i mezzi indiretti per conquistare un sito fortificato, oltre alla pressione psicologica, anche tattiche politiche e il blocco totale. Le prime consistevano nella promessa di salvaguardare le vite e l’onore degli occupanti che si arrendevano, quella di minacciare il massacro generale in caso contrario. In molti casi, anche questa strategia portò alla capitolazione negoziata di una 30

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fortezza. Il blocco totale, invece, portava allo stillicidio psicologico e materiale dell’assediante: l’esaurimento delle scorte (cibo e acqua), legate al semplice fatto di non potersi approvvigionare, conduceva alla resa una fortificazione assediata. Le cosiddette “vittorie per fame” o per sete si avevano anche inducendo gli assediati ad esaurire più in fretta le proprie scorte. Per fare questo, quando si catturavano alcuni degli assediati, anziché ucciderli si mutilavano rendendoli invalidi e si rispedivano all’interno della fortezza assediata. In questo modo si contribuiva a far consumare più in fretta le scorte verso persone che in ogni modo non portavano alcun vantaggio alla difesa. Nessuno considerò mai questo gesto un’azione disonorevole. La cosiddetta “strategia delle bocche inutili” fu utilizzata da Filippo Augusto di Francia nel 1203, durante l’assedio del grande complesso fortificato di Chateau Gaillard. Durante questo assedio, infatti, per poter resistere all’accerchiamento fu deciso di espellere chi non fosse in grado di imbracciare armi e provvedere alla difesa della popolazione. Gli assedianti, tuttavia, non permisero a nessuno di lasciare la fortezza, così la gente rimase bloccata nello spazio intermedio e in molti perirono per fame e sete. Lo stesso accadde nel 1555, durante l’assedio di Siena da parte dei fiorentini. Nello stesso modo si comportò il conte Gaspard de Châtillon conte di Coligny nel 1557, durante l’assedio da parte dell’esercito di Filippo II a S. Quintino. Spesso, castelli e città fortificate si arrendevano per una specie di effetto domino: la paura di subire massacri e distruzioni già patite da altre fortificazioni da quello stesso esercito, portava spesso alla resa. Questa fu la strategia utilizzata dai Mongoli di Gengis Khan, che attraverso massacri sistematici costrinsero i nemici ad arrendersi. Anche grazie a questo metodo, i Mongoli conquistarono nel 1215 Pechino. Lo stesso accadde in Puglia e in Sicilia durante la conquista normanna. 31

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Se i mezzi indiretti risultavano inefficienti, allora era necessario ricorrere alla furia per espugnare un castello o una città fortificata. Per attaccare una fortificazione occorreva innanzitutto potersi avvicinare con sicurezza. A tal fine i mezzi più semplici erano o lo scavo di gallerie o l’utilizzo di plutei o muscoli (i cosiddetti “topolini”), ossia grandi scudi su ruote che proteggevano l’avanzata di uomini incaricati di spianare il terreno o colmare i fossati che spesso cingevano le mura di una fortezza. In questo modo si dava la possibilità ad altre macchine da guerra di avvicinarsi alla roccaforte. Tra queste, la vinea (cosiddetta testuggine), un robusto e grande capannone carico di soldati e dotato di un tetto molto inclinato, per favorire lo scivolamento delle frecce o di altri materiali lanciati dagli assediati, e spesso rivestito di pelli imbevute d’aceto e strati di terra, per scongiurare il pericolo del fuoco. Arrivati sotto le mura, si utilizzavano grandi arieti (grosse travi con testa ferrata che venivano fatti oscillare) per sfondare i portoni d’accesso o aprire brecce nei muri più sottili. Per superare le grandi mura che difendevano la fortezza si utilizzavano, a parte le scale, anche le più sicure torri mobili (le elepoli). Più alte della roccaforte, esse erano dotate di ruote e munite di ponti volanti che consentivano di superare le mura dall’alto. Accanto a questi mezzi, anche le “artiglierie”. Tra queste il trabucco, la più grande arma da tiro che, dotata di bilanciere, era in grado di lanciare sassi o altro materiale fino alla distanza di trecento metri; il mangano, molto più piccolo del trabucco, ma ugualmente efficace; la balista, una specie di gigantesca balestra. Un’ultima strategia d’attacco consisteva nello scavare gallerie fin sotto le mura per sbucare all’improvviso nel cuore della fortezza, oppure per provocare il cedimento delle mura di difesa attraverso il crollo volontario della stessa galleria. L’assedio di S. Giovanni d’Acri, l’ultima roccaforte cristiana in Palestina, si concluse proprio quando gli Arabi, dopo aver scavato gallerie, 32

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provocarono una breccia nelle mura che permise l’attacco finale dentro la fortezza. I progressi nella conduzione degli assedi svilupparono una serie di contromisure adottate dagli assediati. Innanzitutto le fortificazioni divennero più solide, dotate di botole, trabocchetti, feritorie, porte segrete per le sortite, fossati e altre difese idrauliche, dispositivi per il getto di materiale infuocato. Le mura delle fortezze, per ovviare al pericolo di cedimento causate da tunnel scavati dagli assedianti, si allargarono alla base, mentre per ovviare al materiale lanciato dagli assedianti divennero scarpate, vale a dire fortemente inclinate verso l’esterno. Esisteva anche un tempo per gli assedi: la tarda primavera e l’estate erano senza dubbio le stagioni più adatte, avendo cura di iniziare l’assedio prima del raccolto, quindi non permettendo al nemico di rinnovare le scorte di cibo. Con la stagione calda, inoltre, le scorte d’acqua si esauriscono più rapidamente, mentre i fossati difensivi non si reintegrano di acqua per la scarsità delle piogge. Chiaramente la bella stagione, priva di intemperie, favoriva gli assedianti acquartierati all’aperto. Per contro la stagione calda poteva avere effetti sgradevoli per gli attaccanti: il troppo caldo poteva far perire uomini e animali, poteva provocare epidemie, riduceva le scorte d’acqua agli stessi assedianti, mentre l’eccessiva umidità intaccava la funzionalità delle armi. Il Rinascimento, in un certo senso, segnò la fine della pratica degli assedi. La comparsa di “bocche di fuoco” rendevano instabili anche i più solidi castelli, mentre le stesse fortezze si trasformarono in terribili postazioni d’artiglieria, tanto pericolose da scoraggiare gli assedianti. Infatti, come abbiamo più volte ricordato, la scoperta della polvere da sparo modificò profondamente l’arte della guerra, facendo convivere per mezzo millennio (dal 1300 al 1800) le armi da fuoco con le armi bianche: delle prime non si poteva fare a meno, ma le seconde erano ancora necessarie. Il più antico riferimento alla formula della polvere 33

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pirica si trova in un’opera cinese del 1044: il Wujung zongyao. La formula serviva per fabbricare proiettili fumogeni, incendiari ed esplosivi.1 I primi studi europei su questa polvere nera sono stati probabilmente compiuti da Marcus Grecus (1250), che nel suo Liber Ignum (probabile traduzione di un’antica opera araba) descrive la polvere da sparo spiegando alcune ricette per realizzarla. È certo, invece, che anche Ruggero Bacone (1214-1292) ha fornito una sua ricetta per fabbricarla: sette parti di salnitro, cinque di carbone di legna di nocciolo e cinque di zolfo. Probabilmente anche Bacone raccolse dati in manoscritti d’epoca precedente e si limitò a migliorare e perfezionare formule già esistenti. Ancor prima di questo, durante l’assedio di Granata del 1275, i Mori usarono una rudimentale secchia caricata di polvere nera e dotata di un forellino nel fondo; la fecero esplodere avvicinando una fiamma al forellino. Con la polvere da sparo nacquero le prime armi da fuoco: il dominio incontrastato del guerriero a cavallo subì una irrimediabile battuta d’arresto e i nobili iniziarono a rimpiangere il buon tempo antico, quando il valore individuale distingueva gli eroi. Le tre armi da fuoco che meglio rappresentano quest’epoca sono il cannone, l’archibugio e il mortaio. Per lungo tempo i cannoni erano di piccolo calibro, in modo da poter essere trasportati con facilità.2 I primi cannoni erano costituiti essenzialmente da un tubo ottenuto da una serie di listelli di ferro battuto accostati uno di fianco all’altro secondo la loro lunghezza e mantenuti uniti da cerchi (anch'essi in ferro) esterni che premevano sulle barre lungo la circonferenza interna dei cerchi Nell’Impero cinese tale polvere non ebbe molto successo, ecco perché l’invenzione non è menzionata da Marco Polo nel resoconto sul Catai del “Milione”. 2 Anche se si ha testimonianza di cannoni di enormi dimensioni, come quello che fu utilizzato nel 1382 a Gand. Esso, chiamato “Tolle Grete”, misurava cinque metri di lunghezza e pesava ben 328 quintali. 34 1

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stessi. Successivamente fu utilizzato il bronzo. Anche se erano armi inaffidabili (per la stessa sicurezza di chi li utilizzava e per la precisione di tiro), i cannoni pian piano sostituirono nelle battaglie il mangano. Il cannone fu uno dei principali strumenti che contribuirono alla presa di Costantinopoli. L’archibugio, invece, era un’arma ad avancarica, a canna liscia, il cui calibro era intorno ai 15-18 mm, in definitiva una specie di cannone piccolissimo in versione portatile. Anch’esso inaffidabile, pare che agli esordi quest’arma uccidesse ogni due nemici un archibugiere, aveva gittata utile limitata (circa cinquanta metri), questo a causa dei rimbalzi che il proiettile subiva contro le pareti della canna liscia e che imprimevano a quest'ultimo una traiettoria piuttosto erratica. Se il cannone sostituì il mangano, il mortaio rimpiazzò il trabucco e divenne una terribile arma, anche se come le altre imprecisa. Era in grado di sfondare muri e tetti e di lanciare proiettili fin dentro i castelli. La presenza di armi da fuoco spersonalizzarono, di fatto, la guerra, contravvenendo ai dettati dell’etica cavalleresca1 e togliendo ogni impedimento ai guerreggianti2. Un altro evento che modificò definitivamente l’idea della guerra fu la comparsa degli eserciti permanenti. Se fino a questo momento l’attività bellica era stata monopolio esclusivo di principi e signori e le guerre si suddividevano di fatto in “guerre del re” e Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso bollò queste armi, in particolare l’archibugio, come “abominevoli ordigni” colpevoli di sovvertire i valori del campo di battaglia avvantaggiando l’“ignobile” sull’“ardito cavalierie”: «O maladetto, o abominoso ordigno, che fabricato nel tartareo fondo fosti per man di Belzebú maligno che ruinar per te disegnò il mondo, all’inferno, onde uscisti, ti rasigno». L. ARIOSTO, Orlando Furioso, IX, LXXXVIII-XCI. 2 Per una storia dell’evoluzione delle armi, cfr. G. SANTI MAZZINI, La macchina da guerra. Armamenti, mezzi, tecnologie dal Medioevo al 1914, Mondadori, Milano, 2006. 35 1

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“guerre del regno”, ora le cose cominciarono a cambiare. Col passare del tempo, infatti, i sovrani capirono l’utilità della presenza di un esercito permanente, mantenuto in servizio e retribuito sia in tempo di guerra, sia in tempo di pace. Questo, oltre a servire per la sicurezza dello stesso sovrano e del proprio regno, assicurava una superiorità indiscutibile rispetto alle truppe temporanee o mercenarie. Certamente l’instaurazione di una fiscalità solida, che assicurò entrate monetarie stabili, e la presenza di giovani che aspiravano al mestiere delle armi, incoraggiò un certo sviluppo degli eserciti permanenti. Tuttavia, accanto a queste motivazioni, fu anche la volontà di strappare il monopolio della guerra ai principi e ai grandi signori, a rompere la pratica del “soldato a tempo determinato”. Il primo esercito permanente fu quello di re Carlo VII di Francia, che nel 1439 creò le “Compagnie d’Ordinanza Reali”, piccoli eserciti formati da cavalieri e soldati di fanteria, in forza in tempo di guerra e di pace e retribuiti con le entrate dei tributi pubblici. In pratica Carlo VII non reclutò un esercito permanente, ma compì una epurazione in seno ai suoi uomini d’arme, inquadrando quelli che riteneva idonei. Ciascuna compagnia possedeva un effettivo permanente di uomini e le armi e le armature furono scelte e pagate direttamente dal re. Indubbiamente questo schema segnò la nascita dei moderni eserciti permanenti1. Concludiamo questo breve viaggio intorno alla guerra nel Medioevo occupandoci degli aspetti religiosi e morali legati alla guerra. È sicuramente nel mondo della cristianità che la struttura della guerra trovò un insieme di condizioni giuridiche che la circondarono di una costruzione morale complessa. Del resto non bisogna dimenticare l’importanza della Chiesa nel sistema feudale, non solo offriva al sistema la sua giustificazione religiosa e

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P. CONTAMINE, La guerra nel Medioevo, cit., pp. 233-243. 36

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ideologica, ma ne faceva parte, attraverso le stesse numerose proprietà che aveva e che costituivano altrettante signorie. La Chiesa di Roma intervenne nel discorso della guerra senza condannarla ma, ora cercando di tagliar fuori le violenze militari tra cristiani, ora liberando energie spirituali in favore di essa. Il cristianesimo diventa religione dell’Occidente sotto il segno della guerra, quando l’imperatore Costantino vide nel sole qualcosa che assomigliava al segno di una croce con una scritta: In hoc signo vinces (in questo segno vincerai). Egli si convinse così che la croce, simbolo del Cristo, fosse apportatrice di vittoria sui nemici: l'imperatore dette allora istruzioni affinché quel segno fosse riprodotto sulle sue insegne. Nel 313, con l'Editto di Milano1, Costantino il Grande, pur garantendo la libertà religiosa per tutti i culti, di fatto appoggiò il cristianesimo. Egli si convinse che questa religione poteva essere un fattore di unità per il suo Impero2. L'imperatore Teodosio, che si convertì al cristianesimo all'inizio del suo governo in seguito ad una grave malattia, fece di più: il 27 febbraio 380 proclamò il cristianesimo religione di Stato. A questo punto è caratteristico il convergere e il compenetrarsi degli interessi dell'Impero e del Papato e la loro cosciente collaborazione contro ogni pericolo che minacciasse l'ordine teocratico dello Stato, sia se venisse dagli avversari interni o esterni dell'imperatore, sia dalle forze disgregatrici delle eresie: finito il tempo dell'esistenza precaria e dell'incertezza, la Chiesa sviluppò la tendenza al compromesso con i poteri civili, fondando la propria identità nel rapporto con questo potere e con le classi dominanti. Così, l’ingresso sulla scena politica della Chiesa fece In realtà non si trattava di un editto, ma di una serie di conferenze che ebbero luogo tra Costantino e Licinio, tra il dicembre del 312 ed il febbraio del 313. 2 Cfr. S. CALDERONE, Costantino e il cattolicesimo, vol. I, Il Mulino, Bologna, 2001; A. FRASCHETTI, La conversione da Roma pagana a Roma cristiana, Laterza, Roma-Bari, 1999. 37 1

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cambiare la teoria e la pratica cristiana sulla guerra. Il Dio dei cristiani diviene una “entità gelosa”, che pretende l’esclusività, e se a questo si aggiunge la vocazione “cattolica” cristiana1, le cose si complicano: esclusivismo e universalismo racchiudono una robusta volontà di unità all’interno e all’esterno dello spazio politico della Respublica christiana. In seguito alla conversione dell’Impero e degli imperatori romani alla “legge del Cristo”, il pensiero cristiano sulla guerra, dunque, passò dal pacifismo assoluto (Tertulliano, Origene, Lattanzio)2 a nuovi ed inediti atteggiamenti: ora la guerra non è più condannata e il mestiere delle armi diviene una cosa legittima. Nel momento in cui l’Impero diventa cristiano, i nemici politici diventano anche nemici religiosi: l’illiceità dell’uso della violenza quale era emersa nei primi secoli cristiani, si sottomette all’idea della guerra che rende giustizia e la professione delle armi è quindi considerata legittima. Il cristianesimo, dunque, raccoglie l’eredità ebraica della “guerra santa”, e per giustificare tutto questo si estrae dall’Antico Testamento la figura di un Cristo severo, cinto di una corona d’oro e con in mano una falce che, con un angelo ai suoi ordini, si accinge a far “vendemmia sulla terra per poi depositare il raccolto nel torchio dell’ira divina”3. Per legittimare il nuovo Cattolico deriva dal greco katholikôs, ed indica ciò che forma un tutto, ciò che è generale, universale, perpetuo, nel senso che vale sempre e dovunque. Il legame fondamentale di questa Chiesa, infatti, non si instaura con un luogo geografico determinato, ma con una figura storica – quella di Gesù il Cristo – e ciò conferisce a questa religione una dimensione universale, che trascende i confini di una specifica regione. 2 Scrive Lattanzio nel Divinae institutiones: «La religione non è da difendere uccidendo, bensì morendo, non con l’aggressività, bensì con la pazienza […]. Se infatti vuoi difendere la religione per mezzo del sangue, dei tormenti e del male, non la difendi, ma la inquini e la violi» (Divinae institutiones V, 20). 3 (Apocalisse 14-19). 38 1

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atteggiamento dinanzi alla guerra, si utilizzano anche l’immagine di Dio degli eserciti che ordina la guerra contro i nemici d’Israele, le imprese militari di Abramo, Mosè, Giosuè1, Sansone, Jefte, Gedeone, re Davide, Gioele2, Giuda Maccabeo, le parole del Cristo che loda la fede del centurione, le raccomandazioni di Giovanni Battista ai soldati di non molestare nessuno e di accontentarsi del proprio soldo3. Risalgono a questo periodo le prime teorizzazioni sulla “guerra giusta” di S. Ambrogio (334-397), di S. Girolamo (347-420) e di S. Agostino (354-430). Il medioevo, poiché è caratterizzato da una visione profondamente religiosa e unitaria del mondo, amplifica l’idea di guerra giusta. Nella cultura medievale, infatti, esiste un unico disegno divino di salvezza e un unico organismo in cui esso si attua: la Chiesa. Ecco perché di fronte alle minacce esterne alla cristianità i pontefici non esitano a lanciare i loro proclami di guerra, assicurando la salvezza eterna a coloro che avessero preso le armi per la difesa della Chiesa di Pietro. Nel 753 papa Stefano II (752-757), di fronte alla minaccia longobarda, così pontificava: “Siate certi che, per la lotta che voi affronterete per la Chiesa di San Pietro, vostra Madre spirituale, il principe degli apostoli vi rimetterà i peccati”. Lo stesso farà papa Leone IV (847-855) un secolo dopo, di fronte alla minaccia saracena: “A chiunque sarà Nella presa di Gerico, Giosuè disse al popolo: «Lanciate il grido di guerra, perché il Signore vi dà in potere la città. La città con quanto è in essa sarà votata allo sterminio per il Signore» (Giosuè 6, 17). 2 «Proclamate questo fra le genti: chiamate alla guerra santa, incitate i prodi, vengano, salgano tutti i guerrieri. Con le vostre zappe fatevi spade e lance con le vostre falci» (Gioele 4, 9-10). Nel testo ebraico si legge: «qaddeshu milkhamà», letteralmente “santificate la guerra”. 3 Tuttavia, per molti dottori della Chiesa, come Sulpicio Severo (360-420 circa), nel Vita Martini, o come Paolino da Nola (355-431) nell’Epistulae, rinunciare al mestiere delle armi poteva essere considerato un atteggiamento degno di lode, non solo per i chierici ma anche per tutti coloro che volevano raggiungere la perfezione della vita cristiana. 39 1

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morto combattendo fedelmente contro i Saraceni, i regni celesti non rimarranno chiusi”. Lo stesso accadrà per le Crociate. Il tempo divenne maturo per riprendere l’idea di “guerra giusta” già lanciata da S. Agostino. Molti uomini di Chiesa, tra cui Isidoro da Siviglia (ca. 560-636 ca.), Rabano Mauro (ca. 776-856), Giovanni Graziano (XI secolo), Rufino (XI secolo), il cardinale Enrico da Susa (1210-1271) e Tommaso d’Aquino (1225-1274), recuperarono le antiche teorizzazioni del vescovo d’Ippona e le perfezionarono1. Lo spagnolo Isidoro da Siviglia, ispirandosi alla dottrina di Agostino, aggiunge che la guerra è giusta solo quando è “annunziata e per restituzione di cose o per respingere nemici”. Quindi, dividendo la guerra in quattro categorie – giusta, ingiusta, civile e più che civile (plus quam civile)2 – Isidoro propone la classica distinzione tra la guerra combattuta secondo la ragione fissata dalla legge e le guerre che sovvertono, invece, l’ordine sociale (le guerre generate dal furore o le guerre civili). Il teologo tedesco Rabano Mauro, facendo sua la distinzione applicata da Isidoro, aggiunge che è giusta solo la guerra contro l’hostis, il nemico usurpatore. Ulteriore passo in avanti nella teoria cristiana della “guerra giusta” arriva anche dall’abate camaldolese Giovanni Graziano, che nella “causa 23” del suo Decreto (1140-1142), afferma che chi fa la guerra non cade in peccato, ovviamente a determinate condizioni. Anche nel caso in cui la guerra fosse ingiusta, o l’ordine dato non fosse conforme alla legge divina, la colpa ricadrebbe sul solo principe che l’ha comandata e non sul soldato Sui contributi in generale della canonistica e della civilistica sul tema della guerra, cfr. A. MORISI, La guerra nel pensiero cristiano dalle origini alle crociate, Sansoni, Firenze, 1963; S. RUNCIMAN, A History of the Crusades, voll. 3, Cambridge University Press, Cambridge, 19511954, trad. it. Storia delle Crociate, Rizzoli, Milano, 2002. 2 ISIDORO, Etimologie, XVIII, 1, 2-4. 40 1

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(Licet dominus peccet precipiendo, tamen subditus non peccat obediendo): i soldati sono al servizio della cosa pubblica e, in quanto tali, hanno il dovere di battersi anche agli ordini di un principe sacrilego. Anche Graziano elabora i requisiti che definiscono una guerra giusta: questa deve essere ordinata dal principe, non deve coinvolgere dei chierici, deve essere combattuta per la difesa della propria patria attaccata o per il recupero dei beni spogliati, deve escludere ogni violenza dettata dalle passioni1. Nella Summa Decretorum (1157-1159) Rufino riprende due di questi criteri e ne propone un terzo: “Una guerra può essere definita giusta in relazione a colui che la dichiara, a colui che la fa e a colui contro il quale viene mossa. Nel primo caso, colui che dichiara effettivamente la guerra o la autorizza deve avere la potestà ordinaria di farlo, nel secondo caso chi fa la guerra la faccia con un fervore penetrato di bontà e sia uomo tale da potersi battere senza scandalo; infine, colui che è tormentato dalla guerra deve meritare di esserlo o, altrimenti, essere ritenuto tale da meritarlo in base ad indizi probanti. Là dove manca una di queste tre condizioni è assolutamente impossibile che una guerra sia giusta”2. Anche il cardinal Ostiense Enrico da Susa (1210-1271) si inserisce nel discorso della teoria cristiana della guerra giusta, distinguendo sette tipi di guerre, quattro delle quali lecite e tre illecite: il bellum romanum (la “guerra romana”), prototipo di guerra giusta poiché è la guerra dei fedeli contro gli infedeli; il bellum judiciale (la “guerra giudiziaria”), anch’essa giusta, ma Cfr. sull’argomento, F. RICCIARDI CELSI, Riflessioni sulla guerra giusta nella causa XXIII del Decretum di Graziano. Attualità del problema all’inizio del XXI secolo, in «Iustitia», n. 1, 2002. 2 L’evoluzione della teoria cristiana della guerra giusta anche in L. BUSSI, Echi dello jus belli romano nella dottrina canonistica della guerra giusta, in «Diritto e Storia», N. 3, maggio 2004. 41 1

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nella misura in cui è fatta per ordine di un giudice (judex) che, in quanto detentore del merum imperium (autorità completa), non giudica in funzione del proprio interesse ma per imporre l’ordine legale a coloro che, ribelli o contumaci, si oppongono al suo legittimo potere; il bellum praesumptuosum (la “guerra pretestuosa”), ingiusta, poiché fatta appunto da ribelli e da contumaci nei confronti del judex; la “guerra lecita”, condotta o approvata dall’autorità legittima per riparare dei torti, per respingere ingiurie subite da un potere subordinato; la “guerra temeraria”, illecita, mossa contro lo judex; la “guerra volontaria”, offensiva e non necessaria, quindi ingiusta, condotta dai poteri secolari senza l’approvazione del principe; l’azione di coloro che si difendono da una guerra temeraria, azione necessaria e lecita. La vera novità sulla dottrina del bellum iustum arrivò con Tommaso d’Aquino (1225-1274). Nelle sue Questioni – precisamente la quarantesima, nella seconda sezione della seconda parte – egli stabilisce le tre justi belli conditiones: l’auctoritas principis (la guerra deve essere dichiarata da un’autorità legale), la justa causa grave e diretta (la guerra deve essere dettata da una giusta causa), la recta intentio e probabilità di successo (la guerra deve perseguire il bene e deve poter ripristinare la legalità, perché “quelli che fanno guerre giuste hanno l’intenzione della pace”). Poiché sulla guerra di difesa nei confronti di un’aggressione, nessuno mai nella Chiesa ha avuto dubbi o esitazioni, le indicazioni di Tommaso legittimano anche una guerra d’offesa e di conquista, ma solamente quando l’iniziativa del ricorso alle armi è intrapresa per il risarcimento di diritti ingiustamente lesi e soprattutto per il ripristino della legalità. Nel frattempo, l’anarchia che regnava in Europa, originatasi anche in seguito al vuoto di potere dell’autorità pubblica, stimolò la Chiesa a prendere nuove ed inedite iniziative: per circoscrive in qualche modo le violenze proprie del sistema feudale del tempo, 42

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che stavano trasformando l’intera Europa in un grande campo di battaglia, a partire dall’XI secolo la Chiesa fece ricorso ai cosiddetti movimenti di “paci” e di “tregue”. In forza di questi principi, la “Pace di Dio” proclamata dal concilio del 989, vietava ai cavalieri di usare violenza contro chi non portava le armi (liberi cittadini e persone consacrate), inoltre tale divieto si applicava ai luoghi consacrati (chiese, monasteri, cimiteri e alle loro dipendenze). Oltre a ciò la “Pace di Dio” chiedeva ai cavalieri di astenersi dal fare la guerra nei cosiddetti “tempi sacri”, ossia le domeniche, le feste cristiane ed i giorni feriali posti sotto la speciale protezione della Chiesa. Chi non rispettava tali misure incorreva nella scomunica. Più significativa fu la “Tregua di Dio”, distinta dalla “Pace di Dio” la quale invece era perpetua. Questo nuovo istituto, pur senza proibire tout court la guerra (un provvedimento che sarebbe stato impensabile in una società egemonizzata da guerrieri), la limitava il più possibile: ai laici, e soprattutto ai cavalieri, la Chiesa chiede dunque di astenersi in determinati periodi da quello che è il loro maggior piacere, la guerra. Questo istituto nasce al Concilio di Elne nel 1027: in uno dei suoi canoni inerenti la salvaguardia della domenica, infatti, si giunse a proibire le ostilità dal sabato sera fino al lunedì mattina.1 Successivamente, di conseguenza, questa proibizione fu estesa anche ai giorni della settimana consacrati dai grandi misteri della fede cristiana, quali il giovedì di Ascensione, il venerdì e il sabato della Passione di Cristo, la domenica di Pasqua, Natale. In seguito furono aggiunti anche i tempi liturgici dell’Avvento e della Quaresima2. Il problema dei conflitti privati

Cfr. D. LIBERTINI, Nobiltà e Cavalleria nella tradizione e nel diritto, Editrice Soc. Coop. GdO, Tivoli, 1999, p. 113. 2 Il concilio ecumenico del 1179 estese tale istituto alla Chiesa intera con il canone XXI, De treugis servandis, che venne inserito nelle Decretali di Gregorio IX (X, I, tit. De tregua et pace). 43 1

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non fu, tuttavia, risolto radicalmente, infatti qualche principe turbolento non si astenne dal fare la guerra1. La violenza feudale momentaneamente contenuta, rischiava di esplodere nuovamente se non avesse trovato un altro sfogo. La Chiesa, attraverso il Papato ritenne che l’unico modo per arginare con successo la pericolosa aggressività cavalleresca era quello di incanalarla verso grandi obiettivi di fede, come la reconquista della Penisola iberica occupata dagli arabi e la difesa del Santo Sepolcro. Al culmine della potenza dell’Europa cristiana la Chiesa si sentì così autorizzata a proclamare la “guerra santa”: nascono le Crociate. Già durante il suo pontificato, Alessandro II (1061-1073) richiamò i cavalieri a non versare più sangue cristiano, ma a combattere i nemici della fede su quel fronte avanzato della cristianità. Il suo messaggio fu ripreso e amplificato da papa Urbano II (1088-1099) al Concilio di Clermont (1095). Urbano concedeva la remissione delle pene temporali per chi partiva per la crociata, la totale remissione dei peccati per chi moriva in battaglia: di qui l’idea che l’esercizio delle armi in difesa dei cristiani e della cristianità fosse non solo giusto ma santo e meritorio; perché “Dio lo vuole!”: “Vi muovano e incitano gli animi vostri ad azioni virili le gesta dei vostri antenati, la probità e la grandezza del vostro re Carlo Magno e di Ludovico suo figlio e degli altri vostri sovrani che distrussero i regni dei pagani e che fino ad essi allargarono i confini della Chiesa. Cessino dunque i vostri odi intestini, tacciano le contese, si plachino le guerre e si acquieti ogni dissenso ed ogni inimicizia. Prendete la via del Santo Sepolcro, strappate quella terra a quella gente scellerata e sottomettetela a voi [...]”2. Celebre violazione di una “Tregua di Dio” fu la battaglia di Bouvines combattuta il 27 luglio 1214, di domenica. 2 La crociata, oltre ad essere una guerra giusta, è anche un pellegrinaggio. Sulla spedizione cristiana cfr. P. ALPHANDERY, A. DUPRONT, La Chrétienté et l’Idée de Croisade, Albin Michel, Paris, 1954, trad. it. La cristianità e 44 1

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Secondo il punto di vista del pontefice, le Crociate dovevano ritenersi a tutti gli effetti guerre difensive, poiché la cristianità si considerava accerchiata dagli infedeli e Gerusalemme, in quanto “capitale” del regno di Cristo, doveva essere non conquistata, ma riconquistata dai fedeli della Croce1. In quest’ottica la guerra non solo non offendeva Dio, ma gli era addirittura cosa gradita. Per questo le stragi seguite alla conquista di Gerusalemme hanno riempito di “santo” entusiasmo il combattente e il cronista che le ha tramandate. Scrive Raymond d’Agiles, canonico della cattedrale di Puy e testimone della presa di Gerusalemme durante la prima crociata: “Si videro cose meravigliose […], si vedevano nelle strade e nelle piazze delle città cumuli di teste, di mani, di piedi. Fanti e cavalieri marciavano attraversando dappertutto mucchi di cadaveri […]. Nel Tempio e nel Portico si marciava a cavallo nel sangue fino ai ginocchi […]. Giusto e mirabile giudizio di Dio che volle che proprio quel luogo fosse lavato dal sangue di quelli le cui bestemmie lo avevano così a lungo tempo imbrattato”2. Si può restare sconcertati dalla macabra esaltazione con il quale il canonico Raymond d’Agiles descriveva la presa di Gerusalemme, bisogna tuttavia ricordare come le Crociate siano state vissute e presentate come un “giusto e mirabile giudizio di Dio”, come guerre giustissime appunto. Grazie alle Crociate i secoli centrali del Medioevo beneficiarono di una durevole marginalizzazione della guerra: nel l’idea di crociata, Il Mulino, Bologna, 1974; F. CARDINI, Studi sulla storia e sull’idea di crociata, Jouvence, Roma, 1993; S. RUNCIMAN, A History of the Crusades, cit. 1 A partire dalla seconda metà del XII secolo, un’altra giustificazione della crociata va poi ad aggiungersi alle precedenti: poiché i Saraceni occupavano terre che un tempo appartenevano all’Impero romano, divenne legittimo per la Chiesa, erede di questo Impero, cercare di recuperare ciò che le era stato strappato con la forza. 2 Cit. da G. BOUTHOUL, Le guerre, elementi di polemologia, Longanesi, Milano, 1951, p. 63. 45

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partire come penitenti e pellegrini per liberare il sepolcro di Cristo, i guerrieri avrebbero trovato un campo d’azione fatto su misura per la loro fede e il loro dinamismo, e al tempo stesso la società occidentale si sarebbe sbarazzata dei suoi elementi più turbolenti. Questa mentalità non si estingue con il Medioevo, ma inaugura l’Età moderna con Cristoforo Colombo che scopre un Nuovo Mondo da cristianizzare e depredare.

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ULDERICO NISTICÒ Ascendant ad montes. La difesa passiva e attiva dello Ionio calabrese in età bizantina

Le più antiche città della cosiddetta Magna Grecia – Sibari, Crotone, Caulonia, Locri, Reggio; e i centri minori di Cremissa, Scillezio… – sorgevano sul mare della costa ionica; ma questa restò quasi spopolata lungo tutto il Medioevo e l’Età moderna, e tale apparve, in moltissimi tratti, fino alla metà del XX secolo. Alcune “marine”1 dello Ionio reggino cominciano a sorgere nel sec. XVIII; ma ancora cinquant’anni fa tra Roccella Ionica e Soverato non c’erano che stazioni ferroviarie e radi palazzotti di campagna; e, dopo Soverato e Catanzaro Lido, quasi nulla fino ad Isola Capo Rizzuto e Crotone. Le brevi pianure che oggi s’incontrano, e le stesse spiagge, cominciarono a crearsi quando il Governo di Ferdinando IV mise mano ad argini di fiumi fino allora selvaggi; e le foci restarono acquitrini malarici fino alle grandi bonifiche fasciste degli anni ‘30, alcune delle quali vennero completate addirittura nel dopoguerra. Il mare stesso è una riscoperta recentissima dei Calabresi ionici, e prima è stato sentito come ostile o se no, lontano ed estraneo2. Al contrario, tutte le medie colline che incombono sul mare erano costellate, fin dall’Alto Medioevo, da centri di notevole rilevanza, secondo i tempi: Bova (820 m. slm.) e i suoi villaggi; Si chiamano così in Calabria i territori costieri con insediamenti di contadini e case sparse. 2 Basti a provarlo il dato che il pesce è quasi del tutto assente dalla culinaria tradizionale, se non quello conservato. 51 1

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Palizzi (272 m. slm.); Sant’Agata [del Bianco] (405 m. slm.); Platì (300 m. slm.); Ardore (250 m. slm.); Gerace (500 m. slm.); Grotteria (317 m. slm.); Siderno (150 m. slm.); Mammola (240 m. slm.); Gioiosa [Ionica] (120 m. slm.); Castelvetere1 (300 m. slm.) e casali di Riace, Placanica, Focà, Mongiana, Prunari2; Stilo (400 m. slm.) e casali di Stignano, Riace, Camini, Monasterace, Pazzano, Bivongi, Guardavalle; Santa Caterina (459 m. slm.) e il casale di Brognaturo; Badolato (240 m. slm.) e casali di Isca e Sant’Andrea; Satriano (293 m. slm.) e casali di San Sostene e Davoli; Soverato (150 m. slm.); Petrizzi (391 m. slm.); Argusto (530 m. slm.); Gagliato (450 m. slm.) Chiaravalle (550 m. slm.); Cardinale (562 m. slm.); Torre di Spadola3 (566 m. slm.); S. Vito [Ionio] (404 m. slm.); Squillace (344 m. slm.) e casali di Stalettì, S. Floro, Borgia, Palermiti, Montauro, Gasperina, Montepaone; Girifalco (456 m. slm.); Catanzaro (320 m. slm.); Tiriolo (690 m. slm.) e casali di Gimigliano, S. Pietro Apostolo, Marcellinara, Settingiano, Arenoso4; Taverna (521 m. slm.) e casali di Pentone, Fossato [Serralta], Maranise, Sorbo [S. Basile], Savuto, Noce, S. Ianni, Albi, Vincolise, Magisano, S. Pietro, Dardanise,; Simeri [Crichi] (465 m. slm.); Cropani (346 m. slm.); Belcastro (495 m. slm.); [Petilia] Policastro (436 m. slm.); Mesoraca (415 m. slm.); Cotronei (502 m. slm.); Roccabernarda (120 m. slm.); Cutro (220 m. slm.); Santa Severina (326 m. slm.) e casali di Scandale, San Mauro [Marchesato], e gli scomparsi S. Leone e S. Giovanni Minagò; Caccuri (646 m. slm.); Cerenzia (664 m. slm.); Strongoli (342 m. slm.); Melissa (256 m. slm.); Cirò (351 m. slm.); Umbriatico (422 m. slm.); Crucoli (380 m. slm.); Cariati (50 m. slm.); Pietrapaola (375 m. slm.); Caloveto (385 m. slm.); Crosia Usiamo qui è altrove il toponimo antico, che, glorioso a Lepanto, fu inopportunamente scordato per quello indebito di Caulonia. 2 Fabrizia. 3 Approssimativamente, Torre Ruggero. 4 Caraffa di Catanzaro. 52 1

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(230 m. slm.); Rossano (270 m. slm.); Corigliano [Calabro] (210 m. slm.); Cassano [allo Ionio] (250 m. slm.); Villapiana (206 m. slm.); Trebisacce (73 m. slm.); Cerchiara [di Calabria] (650 m. slm.); Oriolo (450 m. slm.); Montegiordano (690 m. slm.). Tale tipologia prosegue in Basilicata con Policoro, Bernalda, Montalbano [Ionico]… Questi insediamenti sono posti ad un altezza di 300 - 400 mt.1, e ad una distanza di 9 - 12 km. secondo le distanze stradali attuali, che si snodano lungo percorsi tortuosi; molto di meno però per sentieri e a piedi e a dorso di bestie da soma. Molti di questi centri interni hanno il loro antecedente storico, e in molti casi l’origine diretta, in una città greca e romana posta sul litorale: Locri in Gerace; Caulonia in Stilo; Scolacio (Scillezio) in Squillace; una qualche città, in Catanzaro e Taverna; Cremissa o Paterno in Cirò; Turi Copia in Cassano; e si narra che i Greci del Reggino sarebbero saliti a fondare quei villaggi inaccessibili della Bovesia dove l’isolamento conservò la lingua ellenica fino ai giorni nostri; similmente resta il ricordo di una città di Bristacia, distrutta la quale gli abitanti avrebbero dato vita ad Umbriatico. Senza dire di quelle tracce di insediamenti poco conosciuti o appena solo ipotizzati che le moderne ricerche archeologiche, o a volte il caso, mostrano in corrispondenza di Bova o Soverato o Cropani e Botricello. Delle antiche città greche sul mare, restò in vita la sola Crotone. Le cronache calabresi antiche e la storiografia cinqueseicentesca, come più avanti si leggerà, tramandano che sarebbe avvenuta “la distruzione della Magna Grecia” intesa come un evento violento e unico e abbandono di centri costieri devastati dalla guerra; e che, dopo tale evento, il Governo imperiale costantinopolitano avrebbe emanato un preciso ordine di Fanno eccezione solo Serra San Bruno, San Giovanni in Fiore e villaggi enfiteutici più recenti come Sersale. 53

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evacuazione delle coste e di trasferimento degli abitati verso l’interno: ascendant ad montes, per dare alla difesa un’anima ed un’organicità. La storiografia contemporanea è, come noto, molto diffidente delle Cronache, e preferisce insistere sui fenomeni sociali e naturali che avrebbero convinto ad abbandonare le città costiere. Così il Gouillou1, che sembra accentuare l’immagine di una netta separazione tra il Governo bizantino e la popolazione, che si sarebbe limitata a rifugiarsi in “luoghi inaccessibili”, senza partecipare alla guerra contro i Saraceni. Una tesi che forse riflette il pregiudizio antibizantino della cultura illuministica, e che non può, a parere di chi scrive, venire accettata senza una qualche riflessione critica, volta se non altro a sottoporre a controllo la tradizione locale.

1. Una sintesi di Storia Le città enotrie ricordate da Ecateo di Mileto presso Stefano di Bisanzio paiono tutte discoste dal mare, e basti ricordare le tre possenti roccaforti del Neto, almeno queste di sicura identificazione: Petelia (Strongoli), Acherentia (Cerenzia Vecchia), Siberene (Santa Severina), site sopra alti e difficili tavolati. È probabile che quelle remotissime popolazioni, vivendo di pastorizia ed agricoltura, avessero poco a che fare sulle coste, e se ne disinteressassero, né si opposero all’arrivo dei coloni stranieri: non c’è alcun mito che ricordi eventi bellici nella fondazione delle colonie elleniche, se non la guerra tra Crotone e l’amazzone Clete di Caulonia e i contrasti tra Locresi e Siculi dell’Aspromonte. 1 Fra l’altro, A. GOUILLOU, Geografia amministrativa del Katepanato bizantino d’Italia (IX-XI sec.), in “Calabria bizantina”, Reggio Calabria, 1974. 54

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I Greci si stanziarono sulle coste perché dal mare venivano e intendevano restare in contatto con la madrepatria, cui li legavano vincoli di religione e tradizione culturale. Sibari, Crotone, Locri e Reggio furono grandi porti transmarini, e ciascuno ebbe attorno una rete di porti minori ed empori di merci che dai monti verso le spiagge seguivano i corsi dei fiumi. Il mare era per gli Elleni la strada dei traffici, e ne traevano in gran parte il sostentamento e la ricchezza. La loro potenza militare era anche navale, la loro politica era il controllo delle acque; e sul mare si giocarono la loro indipendenza contro Siracusa, finché le grandi pentere di Dionisio affondarono nello Stretto quel che rimaneva della flotta e delle speranze degli Italioti. Chi conosce la natura e l’orografia della Calabria sa però che la distinzione tra costa e interno è tutt’altro che netta: sebbene nell’immaginario dei dotti resti la memoria scolastica di Greci sulle coste e non si sa bene chi nel retroterra. È vero che le aree collinari e montuose sono assai più estese di quelle pianeggianti e dei litorali marini, ma le distanze tra i crinali dei monti e le spiagge sono brevi: San Giovanni in Fiore è a 50 km. Da Crotone; Serra San Bruno, a 30 da Soverato, a 44 da Vibo V. Marina: in linea d’aria e per sentieri, molto di meno. È evidente che l’opinione secondo cui le colonie greche si trovavano “sul mare” e in qualche modo separate dall’interno va meglio precisata se non altro in termini di retroterra agricoli e di sfruttamento delle risorse forestali, che per la natura delle cose portava gli stessi Greci a stringere rapporti con Enotri, Choni, Morgeti, Siculi, che infine assimilarono culturalmente o si fusero con loro. Sibari estese il suo dominio fino al Tirreno, divenendo egemone di venticinque città sulla costa e quattro popoli della pianura lucana e calabrese; Crotone penetrò sulla Sila e si spinse fino a Terina; Locri, costretta in un piccolo territorio, varcò presto L’Aspromonte e fondò le subcolonie tirreniche di Ipponio, Medma e Matauro. Basti per concludere che tutta la Calabria interna era 55

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popolata in epoca magnogreca, e la sua economia si integrava con quella della grandi città elleniche. In età romana il Bruzio1 ricevette colonie che associavano alla finalità militare e politica quella di assegnare terre da coltivare. Vi si diffuse il praedium, il podere di ottimale estensione con pars dominica, una lussuosa residenza, e pars rustica, numerosi cascinali di coloni e schiavi, fino a divenire in seguito villaggi e paesi. Rimangono soprattutto sulla Sila molti toponimi prediali, derivati dai nomina dei proprietari latini, secondo il tipo: (praedium) Septimianum, Settingiano; Rullianum, Rogliano; Specianum, Spezzano… poderi di un Septimius, di un Rullius, di uno Specius… Per limitarci agli attuali Comuni e a poche altre località significative, questi sono i nomina praedialia. In provincia di Cosenza: Aprigliano; Bisignano; Camigliano di Cariati; Carpanzano; Cassano allo Ionio; Cerisano; Corigliano Calabro; Dipignano; Fagnano [Castello]; Lappano; Laurignano di Dipignano; Marano; Mon-Grassano; Morano; Pedivigliano; Roggiano Gravina; Rogliano; Rossano; Scigliano; Spezzano; Spezzano Piccolo; Spezzano Sila; Torano Castello; Zumpano. In provincia di Catanzaro: Gagliano di Catanzaro; Gimigliano; Martirano; Satriano; Settingiano. In provincia di Reggio C.: Agnana; Bruzzano Zeffirio; Casignana; Ferruzzano; Pazzano; Solano di Bagnara; Stignano. In provincia di Vibo V.: Mesiano di Filandari; Mongiana; Soriano [Calabro]; Vazzano. Il Barrio2

La nostra terra ebbe molti nomi, o piuttosto mai un nome unitario. Verso il V secolo i coloni greci cominciarono a chiamare questa terra Italia dal nome di un re Italo degli Itali o dei Siculi (altri propone diverse etimologie), e se stessi Italioti. I Romani in buon latino dicevano Brutii, e non Brutium: la regione augustea ebbe nome ufficiale di Lucania et Bruttiorum. Solo tra il VII e l’VIII secolo i Bizantini usarono il nome di Calabria per una parte del territorio, trasferendo tale denominazione ufficiale dal Salento, dove abitavano gli antichi Calabri. 2 G. BARRIO, De situ et antiquitate Calabriae, Roma 1571. 56 1

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ricorda poi i centri antichi, e già scomparsi alla sua epoca, di Agano (o Tegano); Altano; Aviano; Ambrollano; Avellano; Baldano; Batticano; due Bruziano; Carrotiano; Cursano; Misiano di Cosenza; Solano; Stillitano… È facile rilevare come questi paesi dal toponimo prediale si trovano all’interno piuttosto che sulle coste, e la maggior parte attorno a Cosenza e sul ricco altipiano della Sila, dove gli insediamenti erano favoriti da condizioni atte all’agricoltura e forse soprattutto all’allevamento del bestiame. Nell’anno 132 a.C., il console P. Popilio Lenate portava a termine la via che da lui prese il nome e congiungeva Capua con Reggio, per l’appunto verso la Sicilia, e seguendo il percorso che è dell’attuale autostrada. L’opera dell’accorto magistrato rimase per molti secoli l’asse delle comunicazioni e della vita stessa della nostra terra. Gli Itineraria Romana, le carte stradali antiche, ci informano di molte cittadine lungo la via Popilia e lungo le altre strade che edificò il governo dell’Urbe. Per chi veniva da settentrione lungo la via Popilia, prima città del Bruzio era Muranum; dopo ventidue miglia era Caprasia o Caprasa, dove ora è Tarsia; a ventotto miglia, Consentia, l’antica città federale dei Bruzi, destinata a luminoso avvenire. Percorrendo altre diciotto miglia, il viaggiatore giungeva al fiume Sabatum, il Savuto; oggi presso quella tappa degli itineraria sorgono Martirano e quel borgo che crediamo sia stato detto latinamente Aquae o Viae Confluentes, Conflenti, Da lì, dopo breve tratto, l’antica Temesa, che i Romani chiamavano Temsa o Tempsa, e un luogo detto ad Turres; dopo tredici miglia, Annicia, detta anche Angitula, presso il fiume che ancora porta quel nome: lì la strada consolare giungeva al mare. Ad Angitola la Popilia si congiungeva con una strada costiera che veniva da Paestum. Chi avesse voluto seguire tale altro cammino, lasciata Blanda, incontrava Lavinium, che altri dicevano Lavimunium o 57

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Laminium, la Lao del Greci, terra di Sibariti: ma i Latini, sentendo del nome una pronuncia Lavòs, facilmente ricordarono la troiana Lavinio, fondata nel Lazio da Enea. A poco da Lavinium, Cerelis, Cirella e dopo un cammino di quaranta miglia Clampetia o Lampetia o Clampeia o ager Clampetinus, che è Amantea. Dieci miglia distava questa città da Terina, venticinque da Angitola e dalla Popilia. Proseguendo verso mezzogiorno il cammino, dopo otto miglia da Angitola era Ipponio, o Veipunio o Vibo colonia Valentia; ma questa città destinata a mutare nome, nella più tarda età imperiale era detta anche Vibona Valentia; o Bibona Valentia o Bivona Valentia; era anche denominata Vibo o grecamente Hippo, ma il nome di Bivona prevalse nell’uso popolare e si conservò nel Medioevo fino alla distruzione quasi totale ad opera degli Arabi; Federico Il la rifondò con nome di Monteleone ed ora è nuovamente Vibo Valentia. La varietà dei nomi nell’età romana può essere indizio di diversi strati di popolazione, Greci, Bruzi e la colonia latina. Un cammino di diciotto miglia portava alla cittadina che già allora le carte chiamano Nicotera; esisteva anche Trapeia, Tropea, sul promontorio che oggi è capo Vaticano; dà infatti denominazione alla città il verbo greco trevpw, volgere. Sembra che le antiche Medma e Matauro non abbiano più avuto vitalità e importanza; sorgevano invece nell’interno della Piana Tauriana, che crescerà e sarà sede vescovile, e quella città di Mamertum che Strabone cita fra le più rilevanti del Bruzio centrale e meridionale. Borgo o cittadina ricordata era ad Mallias, e subito dopo si giungeva ad Arciade o Arciades o Arciadis, Bagnara o i suoi pressi: il nome della città ricorda piuttosto dei romani Balnearia. Terminava infine la strada con l’imbarco per la Sicilia, presso Gallico di Reggio; porto notevolissimo, era detto Columna Rhegia 58

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o Columna Rhegina, o ad Fretum (presso lo Stretto) o ad Statuam o grecamente Stilis o Rheginon Stelis. Anche lungo la costa ionica correva il vecchio dromos dei Greci, la romana Aquilia Traianea. Il primo luogo per chi venisse dalla Lucania era ad Vicesimum presso Amendolara; dopo venti miglia si veniva alla gloriosa un po’ decaduta Turi, che i Romani chiamavano Copia. Da Turi una strada portava alla via Popilia e si congiungeva presso un borgo chiamato Itinerario, ad otto miglia a settentrione da Caprasia. Sorgevano anche i borghi degli Enotri e dei Bruzi, ora latini; è Besidiae probabilmente che diverrà Bisunianum e Bisignano. A dodici miglia da Turi, sulla costa, era Roscianum, allora un bel borgo, che sarà la grande Rossano. Ventisette miglia bisognava percorrere per venire a Paternum, che era tra Cariati e Cirò Marina di oggi, ed altre trentadue miglia e per trovarsi sul fiume Neto. Poco prima del fiume, nell’interno, era un luogo caro alle storie romane, Petelia Fidelis, che in più tarda età sarà anche detta Pelia o Pellia. Oltre il Neto, l’enotria Siberene aveva assunto il nome romano di Severiana; Plinio ne ricorda i buoni vini. Città ancora notevole e prospero porto, se bene ombra del passato era Croto; di questo nome prevaleva però la forma Cotro, giacché in tempi magnogreci si diceva anche Kovtrwn; è attestata anche una forma Crontona. Strabone tuttavia la chiama Emporio, forse in ricordo della sua funzione di solo porto importante sullo Ionio. È celebre il ricordo che ne fa Petronio Arbitro nel Satyricon, ambientandovi alcune delle avventure dei suoi scombinati protagonisti, e rispecchiando una cattiva fama della città: dice infatti che non vi prosperano i mercanti, bensì i cacciatori di testamenti e chi ha eredi naturali è disprezzato. Esagerazioni satiriche certo, che tuttavia provano il senso di delusione dei Romani, avvezzi dalla letteratura a considerare Crotone un dì la prima città d’Italia, di fronte a tanta decadenza. Petronio dice pure che la città sorgeva sopra un’altura: questo può suggerire l’ipotesi 59

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che una parte almeno dell’abitato sorgesse dove ora è Cutro, la quale ripeterebbe così, di poco mutata, la forma Cotro del nome. In età romana il gran tempio di Era Lacinia era ancora venerato, per quanto avesse subito tante distruzioni; vi si teneva anche un’importante fiera regionale. Un poco più a meridione era il borgo di Tacina, alle foci del fiume, e poco più in là Tres Tabernae, i cui abitanti si dice che, ritiratisi sui monti, abbiano dato vita a Taverna. Tra Catanzaro e Soverato di oggi avevano fiorente esistenza due città, Castra Hannibalis, da altri detta anche Annibali, Aniaba, Anival, Hannibal, Annibal, e Scolacium o Scilatio o Scilaceon o Scillaceum o Squillaceum più tardi o Scylatio o Scylaceum o Scolacium, tutte forme variamente derivate dal greco Skylletion o Skyllation e dal nome della colonia romana. A ventidue miglia da Scolacio era Caulonia, del tutto decaduta, e mai più veramente risorta dopo il saccheggio di Dionisio il Vecchio. Non troppo lontano a mezzogiorno il borgo di Succeiano, quindi Subsicivio, presso Roccella Ionica; quindi la nobile Locri, che nel latino popolare del Bruzio era detta piuttosto Lucris ed anche Lucis; essa conservava una cena importanza e perpetuava la sua tradizione dell’artigianato. Era poi Altanum presso Bovalino, e, al capo Spartivento, Hipporum dal nome grecolatino, poi Scyle presso Bova Marina e presso Melito Decastadium, e Leucopetra a Pellaro, e si veniva a Rhegium Iulia, la potente capitale del Bruzio e della Lucania, ricca di traffici e tramite con la Sicilia. Un’altra importante arteria congiungeva Scolacio con Vibo1. Lungo queste strade maestre e altre che è logico supporre collegassero i centri minori e questi con la dorsale montuosa, 1

Dalla nostra Storia delle Calabrie, Cosenza, 1984. 60

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dovevano sorgere stationes di rifornimento, molte delle quali destinate anch’esse a diventare villaggi e piccole città. È interessante il caso di *Teura, l’odierna Tiriolo, che dal documento di accompagnamento del Senatusconsultum de Bacchanalibus del 186 a. C. appare il centro amministrativo di un vasto ager Teuranus che dall’alta valle del Corace si estendeva fino all’antica Terina: vi si svolgevano infatti le nundiniae che vedevano radunarsi la popolazione del circondario, e durante le quali si dovevano rendere note le leggi e le notizie di pubblico interesse. Il popolamento romano della Calabria era dunque di tipo diffuso, e le città propriamente dette servivano piuttosto da centri direzionali amministrativi e politici che da abitazione. Dove ancora si vive sul mare, la costa tirrenica ci appare più densamente popolata e più viva, già sotto i Romani, di quella ionica delle antiche colonie elleniche. E per tutto il Medioevo e l’età moderna l’asse economico della nostra regione sarà tirrenico. I porti di Reggio, Tropea, Pizzo, Amantea, Cetraro ebbero nel Medioevo e nell’età moderna ricchezza di traffici anche internazionali, mentre sull’altro lido solo quello di Crotone era visitato da mercanti forestieri, e gli altri erano modesti attracchi. Lo Ionio già negli ultimi secoli dell’età imperiale, è un mare chiuso e senza più largo respiro. Sappiamo della Crotone di Petronio; l’altra grande città ionica, Scolacio, ci appare, dai ritrovamenti archeologici e dalle lettere del suo figlio più illustre, Cassiodoro, una metropoli ricca e felice, e ben dotato di strutture civili e culturali1, ma piuttosto un dovizioso centro agricolo che un attivo mercato di traffici:

L’area archeologica di Roccelletta in agro oggi di Borgia mostra una vasta basilica, un grandioso portico, il foro, il Capitolium, una fontana monumentale, un teatro capace di quattromila posti, l’anfiteatro, delle tombe monumentali; l’imperatore Antonino Pio, come attesta l’epigrafe conservata a Squillace, “donò” alla città l’acquedotto. 61

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“La città, posta all’imboccatura del mare Adriatico [Ionio], pende dai colli come un grappolo d’uva, non tanto che l’ascesa sia difficile, ma quanto basta per ammirare piacevolmente campi verdeggianti e le azzurre onde del mare. Guarda il sole nascente dalla stessa origine, dove il giorno che sta per venire non lascia vedere l’aurora, ma, appena inizia, il fulgore vibrante mostra la sua luce. Guarda Febo trionfante: splende di propria luce, sicché paia essere la patria del sole, superando la fama che sia Rodi. Fruisce di chiara luce: per il dono di un clima temperato sente inverni aprichi ed estati fresche e vi si passa senza alcuna pena, giacché non vi si temono condizioni avverse. Donde l’uomo è più libero nei suo sensi, perché il clima temperato modera ogni cosa… È forse lo stesso ingerire acque fangose, e bere a una fonte di acqua purissima? Così si grava l’anima, quando è oppressa da un respiro pesante. Siamo necessariamente soggetti a tali influssi, quando diveniamo tristi per un cielo nuvoloso e di nuovo per natura ci rallegriamo per la sua serenità, giacché la sostanza dell’anima celeste si rallegra di tutto ciò che è mondo e purissimo. Gode anche di abbondanza di squisitezze marittime, poiché vicini quei recinti d’acqua di mare che noi abbiamo fatte: ai piedi del monte Moscio, scavando nelle viscere delle rocce vi abbiamo immesso opportunamente le onde del gorgo di Nereo, dove una torma di pesci che guizzano in libera prigionia rallegra l’animo e riempie gli sguardi di stupore… Non si toglie a quelli che vivono in città lo spettacolo di quelli che ottimamente lavorano [i campi]. Vi si ammirano infatti copiose vendemmie, vi si vede il ricco calpestio delle aie, si mostra anche il volto delle ulive verdeggianti. Nessuno è privo dell’amenità dei campi, anzi gli è concesso di ammirare tutto dalla città. Poiché non ha mura, ti pare una cittadina di campagna, potresti dirla un podere

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cittadino, e, posta tra l’una e l’altra condizione, le si riconosce ricchezza di lodi”1. La crisi dell’Occidente, che indurrà Teodosio alla separazione dello Stato in due Imperi (394), era iniziata nel III e IV secolo, quando la desertificazione delle campagne genera una crescente emarginazione dei contadini, che sulle prime si fanno coloni di grandi proprietari, poi corrono a cercare facile mantenimento statale nelle città. Diocleziano (284-305) era già intervenuto a vietare ai contadini di inurbarsi per vivere di assistenzialismo diretto o indiretto, ed obbligarli a seguire il mestiere paterno, germe dei servi della gleba. Lo spopolamento della città avviene, al contrario, quando viene meno il soccorso pubblico, sia pure ignobile, e parte sempre maggiore della popolazione cerca piuttosto la sussistenza nel ritorno all’economia naturale, coltivando i campi e pascolando bestiame con il prevalente, presto esclusivo fine di nutrirsi: un fatto normale nelle epoche di decadenza dei commerci e di rarefazione della moneta e della sua trasformazione in bene rifugio da seppellire sotto terra piuttosto che spendere, con grande gioia degli studiosi e numismatici e trafficanti del futuro, ma allora con scarso e nessun vantaggio dei possessori. Ci soccorre ancora Cassiodoro, quando depreca la per lui cattiva abitudine dei suoi concittadini scolacensi di preferire la vita agreste a quella città: “…è bello l’aspetto delle città, che si ritiene diano occasione di radunanza ai popoli. Così infatti e vi splende l’ornamento della libertà e i nostri ordini sortiscono obbligato effetto. Alle bestie selvatiche è dato di vivere in campi e foreste, agli uomini amare invece il patrio focolare. Gli stessi uccelli di animo mite volano in stormo… Al contrario gli sparvieri, le aquile cacciatrici e che più in alto di tutti gli uccelli hanno occhi acuti desiderano il volo solitario… Tornino nelle loro 1

CASSIODORO, Variae, XII, 15. 63

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case i possidenti e curiali del Bruzio; sono i coloni quelli che debbono coltivare i campi. Vogliano tenersi lontani dalla campagna quelli a cui noi abbiamo concesso per provata stima le cariche e gli incarichi pubblici, soprattutto in quella regione dove nascono spontaneamente delizie senza fatica: Cerere vi abbonda con grande fecondità; Pallade vi gode assieme con non minore larghezza; i piani ridono per prosperi pascoli, i colli per le vendemmie; abbonda di greggi di animali di ogni specie, ma si gloria soprattutto di armenti di cavalli: giustamente, una volta che d’estate è tale la temperatura che gli animali non sono infastiditi dai pungiglioni delle mosche e si saziano di erbe sempre verdi. Vedresti dalle cime dei monti scorrere rivi purissimi e scorrono per le cime dei monti come scendessero dall’alto. Si aggiunge che da entrambi i fianchi una ricca marina ospita frequentati commerci, sicché è abbonda dei propri prodotti e si riempie di merci straniere per la vicinanza delle altre spiagge. Lì i contadini vivono delle ricchezze dei cittadini, i mediocri per la sovrabbondanza dei potenti, sicché nemmeno la condizione più umile si ritrova priva di sostentamento. Non vogliono dunque abitare nelle città questa provincia che affermano di amare anche nei suoi campi? Che giova che uomini così grandi restino nascosti e privi di cultura? I ragazzi cercano le radunanza delle scuole di arti liberali, e appena potrebbero essere degni del foro, subito cominciano a vivere sconosciuti in campagna: studiano per dimenticare, si impegnano per poi trascurare e mentre amano i campi non amano se stessi. L’erudito dovrebbe cercare dove possa acquistare fama: il dotto non eviti la compagnia degli uomini, in cui sa che potrà venire lodato… A chi non piace unire conversazione con i suoi pari, adire il foro, ammirare le arti onorevoli, affrontare le proprie cause legali, a volte giocare a dama, andare alle terme con gli amici, offrire dei pranzi? Si priva evidentemente di tutte queste cose, chi vuol condurre la sua vita insieme ai servi. Ma perché la 64

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mente non ricada più nella stessa abitudine, tanto i possidenti che i curiali, fatta una stima delle loro possibilità, data garanzia, imposta una pena, promettano di restare la maggior parte dell’anno nelle città che avranno scelto di abitare. Così avverrà che non mancherà loro l’ornamento dei cittadini né sarà vietato il piacere dei campi”1. Ma, ad onta del savio ministro, i cittadini di Scolacio e tutti gli altri dell’antico Occidente ormai diviso in regni romanobarbarici hanno poco a che fare nelle città, e dove prima commerci, artigianato, botteghe, professioni, servizi, furfanterie davano in vario modo da vivere come accade sempre nei centri urbani, ora le ristrettezze e la crescente mancanza di occasioni consigliano di cercare domicilio e sopravvivenza in campagna. E il mondo non è più sereno come prima, se lo stesso Cassiodoro è costretto a stupirsi che, alle porte di Scolacio, l’illustre Ninfadio venga derubato dei suoi cavalli, evidentemente ad opera di una banda armata2: grave segno di debolezza dello Stato, anche di quello ostrogoto. Se vengono meno i curiali, i funzionari, gli artigiani, e aumentano i contadini e pastori, le città si svuotano e la gente si disperde nella campagne, spesso in piccoli aggregati: nella deserta Gallia romana le villae, agglomerati di cascinali, diventano i soli centri abitati, tanto che ville vorrà dire in seguito città. Dove c’erano templi e fori e belle case, il degrado e l’incuria lasciano in breve cumuli di rovine. Sarà avvenuto nel volgere di due, tre, quattro generazioni; mentre la popolazione andava sempre diminuendo, come del resto accadeva da secoli.

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Ib. VIII, 31. Ib. VIII, 32. 65

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Sull’Italia da tempo non più felice, si abbatte la terribile guerra gotica del 535-553, la prima vera invasione barbarica. L’esercito imperiale, composto in da mercenari avari, unni, slavi, longobardi, corse la Penisola, mentre gli Ostrogoti, non più foederati né civili dominatori, tornavano barbari feroci per vendicarsi del tradimento della grande nobiltà romana. Roma e Napoli furono saccheggiate più volte dai contendenti, ed è facile immaginare quale sia stata la sorte delle campagne. Essa tuttavia quasi solo sfiora il Bruzio. Nel 568 calavano dal nord i Longobardi di Alboino, che si impadronivano della Pianura Padana eccetto Venezia e per qualche tempo la Liguria, e di quasi tutto il Meridione eccetto i ducati bizantini campani: Gaeta, Napoli, Amalfi; e quanto restava all’Impero in Puglia: Otranto; e la Calabria a meridione del Crati. I Longobardi stabiliscono tre gastaldati del duca di Benevento in Laino, Cosenza e Cassano; mentre i Bizantini si rafforzano tra Rossano e Amantea. L’esercito imperiale inizia a costruire i suoi kastra1 in posizioni favorevoli alla difesa. Si vuole che in questo momento sorga quello che per la storiografia contemporanea e locale è il Castrum quasi per antonomasia, quello in agro oggi di Stalettì, posto sopra un’altura scoscesa che guarda ad un amplissimo tratto di mare. Una spedizione longobarda giunge fino a Reggio; e un’altra sembra distruggesse la città di Mira posta sul Golfo di Squillace. Ma i guerrieri “dalle lunghe barbe” non superarono mai le difese greche, mentre i duchi e strateghi imperiali alternavano sapientemente la guerra e la diplomazia per tenerli impegnati altrove e distoglierli da troppo grandi ambizioni.

Kastra. È una parola greca derivata non da castra, orum, che vuol dire accampamento; ma da castrum, che significa fortificazione, fortino. Vd. più oltre. 66

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Non sono i devoti di Freia a mettere pensiero ai Bizantini e ai loro sudditi calabresi, ma i Saraceni d’Africa, di Creta e di Sicilia. Unificati da Maometto sotto la religione islamica, gli Arabi avevano conquistato facilmente il decrepito Impero persiano e le province asiatiche ed africane di quello dei Romani di Costantinopoli eccetto l’Anatolia. Nel 714 un Tarik sbarcava in Spagna, e i seguaci del Profeta sarebbero dilati per l’Europa, se non fossero stati battuti nel 732 a Poitiers da Carlo Martello maggiordomo dei Franchi. Si deve al nipote di questi, l’imperatore Carlo Magno, il principio di quelle piccole signorie spagnole che, fattesi grandi regni e dopo sette secoli di fiere lotte, porteranno a termine la reconquista della Penisola Iberica (1492). La Sicilia cade in mani arabe già ai primi del IX secolo, anche se durerà la resistenza bizantina in alcuni capisaldi, come a Siracusa e Taormina, e non mancheranno tentativi imperiali di riconquista dell’intera isola, finché le schiere normanne e calabresi di Ruggero I non la restituiranno cristianità. Intanto è il teatro e la causa della lunga guerra, che a tratti è anche scontro intestino di Saraceni di diverse obbedienze e Bizantini ribelli a Cesare, e mira lontana dei nuovi imperatori romani di nazione germanica, e incrocio di scontri e inaudite alleanze. Solo nell’8131 gli Arabi, ormai padroni di gran parte della Sicilia, si affacciano sulle nostre coste con intenti di saccheggio o di conquista. Nell’839 si insediano in Taranto, quattro anni dopo in Bari. Nell’846 spedizioni moresche costituiscono emirati semiautonomi in Amantea e Santa Severina, cui presto si aggiungerà quello di Tropea. Di fronte al pericolo, e non sentendosi difesi da Bisanzio, i Calabresi si rivolgono all’imperatore d’Occidente Ludovico II, il quale nell’871 prende Bari, perdendola poi per una rivolta dei Longobardi. 1

Seguiamo, con tutte le riserve, le Cronache del Moscato. 67

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È un momento di grave confusione. Ora gli Arabi di Taranto invadono la Calabria; ora accade che i Bizantini tornino al contrattacco; ora i musulmani riescono ad insediarsi nel cuore dell’Italia, sul Garigliano, da dove per molto tempo lanceranno ovunque le loro bande di predoni. L’invasione araba trova sul principio i Calabresi e il governo imperiale poco preparati alla resistenza. Le città greco-romane, dopo quasi un millennio di tranquillità1, dovevano aver trascurato, se anche ne possedevano, le difese passive, di cui non c’era necessità; Scolacio, come sappiamo, era senza mura ai tempi di Cassiodoro, e non dissimile doveva essere la situazione soprattutto dei centri interni come la supposta Teura, giacché l’Impero di Roma poteva permettersi di imporre agli Italici il divieto di portare armi, tanto saldo era il controllo del territorio. Il Governo imperiale fino a quel momento aveva organizzato la sua politica militare in Italia in vista di una minaccia dei Longobardi beneventani e, dal 774, di Carlo Magno e dei suoi successori. Gli stessi nuovi nemici Arabi erano pensati come eserciti e flotte da combattere in grandi battaglie formate, e non come pirati e saccheggiatori dispersi in mille rivi. L’829 pone ai Bizantini il problema delle difesa capillare del territorio da pericoli quotidiani e difficili da prevedere, e lungo centinaia di miglia di costa aperta. La difesa sarà sulle prime inadeguata, fino alla riconquista dell’887, ben cinquant’anni dopo. L’assalto, improvviso, mette in fuga le popolazioni, le quali sulle prime non trovano altro riparo che raggiungere in fretta luoghi inaccessibili: “Calabri eorum civitates et oppida relinquentes silvas montesque petiebant, alii Dopo la Seconda guerra punica (219-202 a. C.) e con la sola eccezione dell’incursione di Spartaco (73 a.C.) e di qualche minaccia da parte dei Vandali (V sec. d. C.) e, sul finire del VI secolo, qualche spedizione longobarda, non si verificano fatti di guerra notevoli in Calabria fino alle invasioni saracene. 68

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in foveis et petrarum cavernis, alii in rupis montium propter metum Saracenorum receptacula faciebant”1. L’esodo, secondo i cronachisti antichi, avviene per piccoli gruppi, i quali si radunano in villaggi, cercando la sopravvivenza nelle risorse locali e la possibile sicurezza nell’essere ignorati. Meta della ritirata, il colle, il monte più vicino, quello da cui scende il fiume della città, quello noto per qualche produzione o per allevamento di bestiame: Gerace per Locri; Stilo e casali per Caulonia; Squillace e casali per Scolacio… Un quarantennio dopo la prima grande invasione, l’Impero muove alla controffensiva. L’ammiraglio Nasar batte ripetutamente gli Arabi. Tra l’885 e l’887-888 Niceforo Foca riconquista Amantea, Tropea e Santa Severina; rafforza militarmente l’Italia bizantina; sottopone a vassallaggio, sia pure sempre riottoso ed infido, i principati longobardi di Salerno e Benevento, nell’849 successi al ducato. Tenta però invano la presa di Palermo, e viene trasferito a combattere il peggior nemico che abbia l’Impero, i Bulgari. Non cessano però le incursioni, e nello stesso 888 subiscono l’assalto Cosenza, Rossano, Potenza; da lì a poco, Nicotera. Nel 901 Abu-’l-Abbas saccheggia Reggio, traendone diciassettemila prigionieri. L’anno seguente il feroce Ibrahim, votatosi alla guerra santa, prende d’assalto l’ultima rocca bizantina in Sicilia, Taormina, e sbarca sul continente, volendo impadronirsi di Roma, devastare “la tomba del vecchio Pietro”, e marciare su Costantinopoli. Muore poco eroicamente sotto Cosenza, colpito da dissenteria. Ancora saccheggi, e nel 907 si insedia a Squillace un capo predone che le cronache chiamano con il nome italianizzato di Cronica Trium Tabernarum et de civitate Catanzarii quomodo fuit aedificata, a cura di E. CASPAR, in “Quellen u. Forsch aus ital. Arch. u. Bibl.” X (1907), pp. 25-56. 69

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Abstaele; gli succede Olbecco (forse Akhal-Bekr). Nel 913, una spedizione siciliana punta sulla Calabria, ma la flotta moresca fa naufragio nello Stretto. I Calabresi chiamano in aiuto il principe Landolfo di Benevento, mentre i Bizantini non esitano a spingere contro di questo gli Arabi. Nel 915 l’esercito Berengario I re d’Italia1 e il papa Giovanni V ottengono una grande vittoria sui Saraceni del Garigliano, scacciandoli definitivamente dal loro covo. Nel 918 subisce ancora il sacco Reggio, ma i Calabresi battono Olbecco spintosi in Val di Crati. Nel 924, per contenere l’invasione di un Mesud, il governo greco si rassegna a pagare un tributo in denaro. Cessano i tentativi di conquista, ma non le incursioni dei predoni: nel 933 cadono Petelia, Taverna, Belcastro. I Calabresi battono i Saraceni a Simeri e sotto Squillace. In quelle circostanze avviene forse la distruzione di Bristacia e la fondazione di Umbriatico. Nel 935 i Calabresi respingono Musad; nel 944 Pasquale (o Pascasio), inviato da Costantino VII Porfirogenito2, riconquista Petelia. Si combatte a Squillace, Sambatello, Mileto, Tropea, Nicotera; il siciliano Haran viene respinto da Reggio; si giunge ad una tregua, e gli Arabi ottengono di edificare nella città una loro moschea.

Dissoltosi definitivamente l’Impero carolingio (887), l’Italia centrosettentrionale si costituì in regno indipendente sotto grandi feudatari, in genere di origine franca, che assunsero anche, come Berengario, la corona imperiale. Lo Stato, debole e diviso, ebbe breve vita, e nel 962 il titolo di re d’Italia venne assunto da Ottone I re di Germania, e finì per essere dimenticato. 2 Costantino VII Porfirogenito (905-959), fu figlio di Leone VI il Filosofo, cui successe nel 912. Sotto il suo regno gli eserciti bizantini respinsero gli assalti degli Ungari e degli Arabi; riorganizzo lo insegnamento pubblico, protesse le arti e le lettere e scrisse importanti opere sulla storia dell’Impero bizantino. Gli si deve il De thematibus, uno scritto sull’amministrazione dell’Impero, importante fonte storiografica. 70 1

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Il catepano1 Mariano Argiro inizia la riconquista dei territori perduti; nel 957 un Basilio distrugge la moschea di Reggio e minaccia la Sicilia. Nel 963, acclamato basileus dall’esercito, il grande Niceforo II dà inizio a quella “epopea bizantina” che porterà le armate della dinastia macedone2 alla riconquista della Siria fino a Damasco ed Antiochia, alla distruzione del regno bulgaro dei Balcani, alla conservazione dei domini greci in Italia per un altro secolo. Niceforo II è il sovrano che la Provvidenza inviò a Costantinopoli per la salvezza dell’Impero e della cristianità in Oriente. Uomo di costumi severi, ispirato a sincera e virile religiosità, combatté il latifondo ecclesiastico e difese, con una accorta politica fiscale e con la creazione di colonie militari vicine al modello romano i ceti dei liberi contadini, da cui traeva il nerbo dell’esercito e da cui veniva la sua famiglia. Fu infatti concessa della terra a chi s’impegnava a prestare servizio in difesa delle terre imperiali, a tutti senza discriminazioni, purché si sentissero Rhomaioi3, fedeli sudditi dell’Impero. La complessità dell’azione politica non solo di Niceforo, ma di tutta la sua dinastia in difesa dei ceti contadini e del dovere

I domini imperiali erano governati da questo magistrato (katepao), che risiedeva a Bari, e divisi in tre temi, di Langobardia (Bari), di Basilicata (Tursi) e di Calabria (Reggio). L’organizzazione risale probabilmente già alla riconquista di Niceforo Foca, o, secondo le cronache, a Niceforo II. 2 Basilio I (867-86); Leone VI (886-912); Costantino VII (913-959) e Romano II (914-44) con i coimperatori Basilio II (957-1025), Niceforo II (963-9) e Giovanni Zimisce (969-76); Costantino VIII (1025-28); Zoe e Teodora (1057-61). Basilio era nato ad Adrianopoli, ed è detto perciò macedone: ma forse fu di origine armena. 3 O, secondo la pronunzia bizantina, Romei. Questo cognome è assai diffuso soprattutto nel Reggino. Tale fu la sempre denominazione ufficiale dei sudditi imperiali, i quali pensavano se stessi in termini giuridici, non naturali, e perciò rivendicavano quell’eredità di Roma che negavano ai “barbari” occidentali, per loro anche eretici. 71 1

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dello Stato di tutelare la giustizia combattendo i soprusi dei ricchi (dynatòi) sopra i poveri (pènetes1) è opportunamente così delineata da Corrado Barbagallo: “Respinto all’estremo angolo dell’Europa, l’Oriente bizantino si accingeva alla sua riscossa. Anche qui l’opera si compie attraverso una fase di restaurazione interna, una di riconquista all’esterno. Come nei secoli precedenti, ciò che formava la debolezza organica dell’Impero è la sua questione sociale, sempre acutissima nelle province. Si trattava, al solito, della scomparsa della piccola proprietà, man mano ingoiata dalla grande, che essa ostacolava, interrompendone la continuità, ostacolandone la unificazione; si trattava della decadenza dei contadini da liberi agricoltori a coloni non liberi, o, addirittura, a servi della gleba. Il marasma, che un tale fatto distendeva per tutto l’impero, era grave, e se n’erano vedute le conseguenze al tempo delle prime incursioni musulmane. Il fallimento dei tentativi antiplutocratici dei Basileis dei secoli VIII e IX, specie degli imperatori iconoclasti, che miravano a limitare onnipotenza del monachismo, e l’allargarsi senza limiti delle manomorte ecclesiastiche avevano fatto rivolgere la contrarietà delle campagne addirittura contro il governo. Il quale, in conseguenza, è minacciato a un tempo da tre pericoli: la fronda dei Grandi, la insurrezione dei religiosi, la rivolta dei contadini. La questione si complicava con altri elementi. In primo luogo, con le difficoltà finanziarie. La fine della proprietà libera portava con sé l’assottigliamento dei contribuenti fondiari, ché, con la sparizione del fondo, cessava anche l’obbligo del Dynatoi, “potenti”, intesi anche come “capaci di contribuire”; penetes, che corrisponde al latino pauperes, “di modesta condizione sociale ed economica”. Nella concezione antica, e paradossalmente con un certo loro vantaggio, quelli che noi chiamiamo i poveri, cioè gli indigenti, scendevano nella condizione di schiavi o servi della gleba, dunque non venivano considerati neppure una classe sociale. 72

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proprietario di versarne l’imposta. L’inconveniente era rimasto in certo modo mascherato fino a Leone VI, fino a quando era stata mantenuta l’antica solidarietà tributaria tra poveri e ricchi, ossia l’obbligo dì questi ultimi di anticipare l’imposta, e, quindi, di pagare anche per coloro che fossero divenuti nullatenenti. Senza dubbio questa norma legislativa aveva provocato la rovina dei ceti medi, e perciò Leone VI aveva alleggerito la ricchezza di questo fardello gravante sulle sue spalle. Ma, se gli agiati avevano respirato, le entrate statali ne avevano duramente sofferto. E adesso occorreva riparare alla falla, che s’era aperta su di un fianco della nave solo perché un’altra era stata turata al fianco opposto. In secondo luogo la questione sociale si complicava col problema militare. Allo scopo di costituire un vivaio perenne di soldati per l’esercito, l’Impero aveva installato qua e là nuclei di coloni militari, donando terre - di non grande estensione - a Greci, a Musulmani, a Barbari, purché si impegnassero a servire - essi e i loro discendenti - nell’esercito di terra o di mare. Oltre alla terra, lo Stato forniva ai coloni dei fondi iniziali in denaro per le spese della coltivazione, per l’acquisto degli animali e degli strumenti da lavoro, nonché il frumento per le sementi. Le sue cure per la coltivazione di questi vivai militari erano davvero eccezionali. Ma essi rischiavano continuamente di avvizzire, o perché i coloni, in genere Barbari o prigionieri di guerra, premuti dal bisogno, traviati dal malvolere, rovinati dalla propria incapacità, vendevano la terra o l’avevano sequestrata dai creditori, dal fisco, o perché, carichi di debiti, andavano a finire giornalieri e servi di qualche ricco proprietario. Onde era indispensabile che lo Stato intervenisse periodicamente ad arrestare tale processo dissolvitore e a tentar di ristabilire le condizioni normali. Il primo problema, di cui si occupano gli imperatori bizantini del X secolo, è, naturalmente, quello finanziario. Una legge famosa - una Novella del 922, regnanti 73

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Romano I Lecapeno e Costantino Porfirogeneto - pur non tornando a ricostituire l’antico obbligo dei curiali circa i debiti dei poveri verso il fisco, si studia, come, del resto, aveva fatto anche la legislazione del Basso Impero, di mantenere la proprietà fondiaria entro una cerchia ristretta e immutata di persone. A tale scopo essa limita la libera disponibilità della terra, e sancisce che, in caso di vendita, il podere debba essere in prima luogo offerta ad uno dei congiunti del venditore; in caso di rifiuto di quest’ultimo, al comproprietario del venditore; in terzo luogo, al suo vicino; in quarto luogo, a taluno dei facenti parte della stessa unità fiscale - la metrocomia -; da ultimo, ai cittadini dello stesso Comune. Solo, in caso di impossibilità di vendita a tale obbligata serie di acquirenti, il proprietario avrebbe conquistato la libera disposizione della sua terra. Un tanto complesso meccanismo aveva per iscopo di mantenere le proprietà dei contribuenti corpo della loro stessa famiglia, e di far sì che le unità fiscali si disgregassero nella minor misura possibile. La legge dovette riuscire a salvare in qualche modo gli interessi dell’erario; ma un tale risultato dovette essere insufficiente per i bisogni dello Stato, dell’imperatore Basilio II (976-1025) tentava più tardi (1002) di restaurare, a danno dei ricchi, l’obbligo di far onore alle imposte non pagate dai poveri, un tempo proprietari… La Novella del 922 non aveva soltanto uno scopo fiscale; mirava altresì a impedire che le famiglie dei proprietari si proletarizzassero. Anche per questo essa imponeva che la vendita avvenisse in primo luogo tra congiunti. Voleva anche impedire la spoliazione dei poveri e dei coloni militari, da parte dei ricchi, e sanciva per essi il divieto di acquistare, sotto qualunque pretesto (adozione, donazioni, testamento, permuta, locazione), le terre dei piccoli proprietari o della su citata categoria di coloni. Le penalità comminate erano gravi. Nel caso di terre illegalmente acquistate a danno dei coloni militari, l’acquirente avrebbe dovuto restituire il mal tolto; nel caso di terre acquistate dai 74

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poveri, avrebbe dovuto versare in più, al fisco, una somma eguale al valore della terra usurpata. Un’altra serie di leggi successive degli imperatori del secolo X, sarà diretta a sempre più garantire l’inviolabilità delle terre e delle persone dei coloni militari, sia stabilendo l’inalienabilità assoluta di tali terre, sia conferendo agli eredi del colono, ai militari poveri, a qualunque cittadino, la qualità di avente diritto a stare in giudizio contro i ricchi per reclamarne la restituzione del mal tolto; sia, infine, proclamando la insequestrabilità, da parte del fisco, delle proprietà dei coloni, perché, secondo si esprimeva sarcasticamente “solo gli orsi si mangiano le dita, quando sono affamati, ma i soldati sono qualcosa in più delle dita; sono le mani dello Stato”. Altre disposizioni si sforzavano di impedire l’asservimento personale dei coloni militari, e perciò colpivano con ammende chiunque avesse fatto suo colono un soldato. Ma contemporaneamente Costantino e i successori tentano, a furia di leggi, di risolvere il nodo della questione sociale del tempo. Il 928 fu un’annata tremenda per l’Impero. Una micidiale carestia affamò l’Armenia e l’Anatolia. Molte famiglie furono costrette a vendere a vile prezzo, per un po’ di denaro, per un pugno di grano, le loro terre. Alla carestia andò congiunta una mortale epidemia, che scavò grandi vuoti nelle popolazioni, e rese commerciabili molte terre rimaste senza possessori. La spoliazione dei poveri divenne allora facile ed estesa. Occorsero nuove leggi per rimediare al male… le quali tentarono per tutte le vie di arginare la completa distruzione della piccola proprietà. Veniva ordinato che i ricchi i quali avessero acquistato beni fondiari dei poveri, per compera o per donazione, dovessero venirne espulsi a forza, senza indennità e senza alcun compenso pei miglioramenti che vi avessero introdotti. Un’altra famosa legge del 996, di cui fu autore il nipote di Costantino Basilio II -, abrogava qualunque limite dì tempo pel 75

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diritto dei poveri, o dei loro eredi, a reclamare le terre usurpate. Qualche altra (964), e ne fu autore Niceforo Foca (963-969), colpiva in pieno la grande proprietà ecclesiastica, le chiese, i conventi, e vietava la costruzione di nuovi monasteri, e limitava, per le chiese, il diritto di acquistare o di ricevere in donazione terre, case, ville. È impossibile supporre, come suole farsi, che la vigorosa legislazione degli imperatori macedoni - diretta prosecuzione di quella dei tanto calunniati imperatori iconoclasti - non abbia prodotto alcun effetto e che il corso delle cose sia andato egualmente sin in fondo, sino alla distruzione della piccola e media proprietà. Esse rallentarono, con probabilità, il processo incalzante dell’anemizzarsi dell’erario e dell’esercito, e “repressero alquanto”, come fu detto, “l’insaziabile ingordigia degli uomini”. Ottennero certamente il risultato di compensare in qualche modo gli effetti del fiscalismo inevitabile di governi, la cui attenzione era tutta tesa verso la guerra contro il nemico secolare di rendere, anche, gli imperatori macedoni popolari e benvoluti, oltre che presso l’esercito, presso i contadini, i quali tornarono a scorgere nel Basileus il loro protettore, e non già il complice dei potenti. Infine, senza dubbio, quella legislazione contribuì a rendere possibile la riscossa nazionale contro lo straniero, che riempie della sua epopea tutto il secolo X”1. L’invio di coloni, anche in Italia, non è dunque solo un’esigenza militare, ma risponde anche al bisogno di difendere o ricreare o, se del caso, creare un ceto di piccoli proprietari fieri della terra e della libertà, avvezzi alla dura e maschia vita dei campi2, lontani dai vizi della grande nobiltà cittadina. C. BARBAGALLO, Storia universale, Medioevo, I, Torino, 1950. Hanc veterem vitam fortes coluere Sabini… cantava Virgilio nelle Georgiche, accompagnando con la poesia il tentativo di riforma agraria e restaurazione degli antichi, semplici ed onesti costumi romani iniziato da Augusto. 76 1

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La politica italiana di Niceforo è di conservare i domini imperiali dalle mire dei Cesari d’Occidente. Ottone I1 chiede in sposa per suo figlio la principessa Teofano, e in dote i domini meridionali. Ottone II2 scende fino a Crotone nel 973; fino a Stilo nel 982, ma l’emiro siciliano Kasim, forse istigato dai Bizantini, lo batte con grave strage di tutto il suo esercito tedesco e italiano. Calabria e Puglia tornano in mano all’Oriente. È nel mezzo di queste continue battaglie e vittorie e sconfitte che si deve collocare l’altra notizia che è comune agli antichi cronachisti e storici, che, sotto i colpi dei Saraceni, sarebbe avvenuta “la distruzione della Magna Grecia”, intesa come una serie di atti tali da aver causato l’abbandono definitivo di quel che restava delle vecchie città greche e romane della costa ionica.

2. Tradizione e Storiografia È nel comune sentire degli storici calabresi antichi e, diremmo, nella memoria storica popolare, che questi insediamenti ionici siano l’effetto di un trasferimento di popolazioni verso l’interno avvenuto per ragioni di difesa in età medioevale, e più esattamente bizantina. E fu concetto comune presso gli storici e cronachisti calabresi che il Governo costantinopolitano avrebbe disposto esplicitamente quest’ordine di “salire sui monti” alle superstiti città della costa ionica o devastate oppure ormai difficilmente difendibili dalla continua minaccia saracena. Nella Cronica Trium Tabernarum, probabile fonte diretta e indiretta di molte delle narrazioni che qui riportiamo (ed essa stessa, supponiamo, derivata in qualche modo da fonti greche), Dal 936 re di Germania; dal 962 re d’Italia e imperatore romano. Morì nel 973. 2 Imperatore dal 973 al 983. 77 1

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troviamo che durante le invasioni arabe l’imperatore invia in Calabria un suo condottiero, Flagizio, e “videns Flagitius perditionem populorum Calabriae, coadunatis omnibus casalibus, civitatem constituere disposuit1”, donde ebbe origine Catanzaro. Altrove, attribuendo altre gesta ad un Gargolano, l’anonimo estensore scrive: “Nicophorus… ipsi Gargolano misit, ut omnes Calabrorum civitates reaedificaret, mandans, ut non iam in maritimis, sed in tutissimis locis easdem trasmutaret…”2. Il Barrio dipende da questo racconto, quando rapidamente così lo riassume: “Niceforo, imperatore dei Greci, mandò in Calabria Gargolano, perché ricostruisse o trasferisse altrove... Terina, Taurano, Aroca e Trischene furono trasferite in nuove sedi; tutte le altre ricostruite negli stessi luoghi”. Fa eco nel 1602 il Gariano3: “La città [di Catanzaro]… fu edificata l’anno della n. s. 793, sotto Niceforo imperatore di Costantinopoli… Fu Catanzaro edificata da Cataro e Zaro, uomini illustri della milizia greca, e da Flagizio, conte di Benevento, legato dell’Imperatore a tale effetto, come si legge negli Annali di detto imperio greco; il quale, con quattro legni bene armati, passò in Italia, e giunto nel paese della Magna Grecia, oggi marina di questa città, vi trovò Cataro e Zaro, capitani della milizia; e domandato loro dove voleano edificare la nuova città, per salvarsi dai continui insulti dei barbari, gli fu risposto, che di ciò volevano fare prima parlamento, e gli avrebbero risposto. Ed essendosi congregati dentro la chiesa “Vedendo Flagizio la rovina dei popoli di Calabria, decise di riunire fra di loro tutti i casali e fondare una città”. 2 Non mette conto entrare qui nella disputa sull’antico testo calabrese. Si legga, per quanto è al proposito, R. ZENO, Fonti di storia calabrese, La “Chronica Trium Tabernarum” ed una cronaca inedita di Taverna del secolo XV, in “Archivio storico della Calabria”, ristampa anastatica 1982, I, pp. 31-39. 3 L. GARIANO, Cronica di Catanzaro, Cosenza, 1983. 78 1

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cattedrale, insieme col vescovo e con Flagizio, fu conchiuso, che si dovessero partire da tal luogo; poiché anco gli altri della Magna Grecia si erano partiti con loro capitani, ed eransi fortificati su alcuni monti, ove oggi sono Squillace, Belcastro, Policastro. Ma spinti da una orazione, fatta da Cataro, il quale, detto loro di levarsi dal pensiero d’imitare quelli, che per paura e viltà di animo se n’erano fuggiti nelle montagne per stare più sicuri dai nemici, poiché i popoli della Magna Grecia erano sempre usciti vittoriosi in tutto le imprese fatte dai barbari e dalla imperial corona, e che si facesse una nuova Città, in luogo forte, ove si potesse stare incontro ai nemici, come conviene a soldati coraggiosi, e non ai vili, che per paura nelle montagne se ne sono fuggiti, tanto più che aveano cavalcato insieme con Cataro e Zaro, e con altri signori di gran conto. Così, visti più luoghi, atti a poter edificare la nuova città, e tra essi tre colli molto ameni, dove comodamente si potea edificare la nuova città, poiché capaci di ogni commodità per i cittadini, ed abbondanti l’uno dei quali era il monte Cimapotima ovvero Sirapotima, l’altro il monte Pezzano, e l’ultimo il monte Triagonà, stabilirono di fermarvisi… per alcun tempo si chiamò la Rocca di Niceforo”. Un racconto che risente di sovrapposizioni di credenze e ipotesi1, e dell’imprecisione di datazione consueta nei nostri cronachisti antichi, ma che sostanzialmente testimonia l’opinione dei Calabresi a proposito della loro storia in età bizantina e della lunga guerra dolorosa e vittoriosa contro i Saraceni. Leggiamo nella secentesca cronaca di Tiriolo2, come il trasferimento dei Calabresi sulle alture avvenne “per ordine di Niceforo Imperadore di Costantinopoli, che dominava questa Magna Grecia che ascendant ad montes…”. Per la confusione tra i diversi Niceforo, v. più avanti. Cfr. il nostro Cronache antiche di Tiriolo, in “Vivarium Scyllacense”, 1 2, 1996. 79 1

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Così il padre Fiore1: “…la famosa, e celebre divisione dell’Italia, qual ne fecero negl’800, i due imperadori d’Occidente, e d’Oriente. Cagione, qual fu la principalissima delle tante infauste, e sanguinose scorrerie de’ Barbari in queste parti. conciossiaché essendo la provincia insieme con la Sicilia, caduta al greco imperadore, il quale non potendola governare, che per mezzo di varii2, né tosto provederle nelle congiunture d’opportuni, o consigli o soccorsi; perciò si diede occasione a ciascheduno d’occuparne quello avesse potuto, o con l’arte, o con la forza. Dunque queste barbare scorrerie dando il guasto a quelle città; quali, o dalla qualità del sito fiacco, o dalle forze men vigorose venivano meno difese, operarono in maniera, che gl’attimoriti lasciando in abbandono, e le case, e le patrie si portassero ad abitare i lunghi più ritirati alle montagne, ed i dirupi meno sottoposti al pericolo. Fioriva di quel tempo alla marina sul piano la famosa Trischines, della quale s’è discorso altrove; ma quantunque ben difesa, e per la fortezza delle mura, e per l’altezza delle torri, e più che per altro dal valor de’ cittadini, non per tanto non soggiacque all’infelice condizione di quei lagrimevoli tempi; onde gl’abitanti lasciandola in abbandono, vennero necessitati di seminarsi in coloniette, per di sopra alle cime delle vicine collinette. E ben lo dimostrano le così spesse chiesuole, delle quali Aloise Gariano fa raccordo nel suo scritto a penna, annoverandone meglio, che ventidue, delle quali oggidì non è rimasto, che, o ‘l nudo nome, o al più qualche dirupato vestigio: perché fabricate per l’uso de’ sagramenti da quella fuggitiva gente, come nacquero, e crebbero con l’arrivo, e dimora di quella; così, e perirono, e rovinarono nella partenza della medesima. Questo era lo stato di questa parte di Calabria, da che era salito al trono di Costantinopoli, l’anno 961, Niceforo 1 2

Calabria abitata, Libro I, Bologna, 1971, p. 198 Intende, delegati, funzionari. 80

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Foca. Hor egli tosto ch’intese le già recate rovine da’ Saraceni a queste sue provincie, trattone da compassione, e da zelo, risolse di riordinarle; onde vi spedì il suo principal ministro per nome Flagizio, altri lo chiamono Gargolano, con mandamento di rimettere le città non tanto cadute, e di trasportare in sito più sicuro, le totalmente rovinate. Venuto addunque l’imperial ministro, e ritrovando per di qua, e per di là spersa in coloniette la gente trischinese, sopravanzata al furore saracenico, e non istimando a proposito, né lasciarla a quella maniera seminata, né raccorla ove prima, perché i Saraceni erano ancor potenti nella Sicilia, onde spesso ripassavano ad infestar la Calabria; risolse, come già fé, di rimetterla in un sol corpo di città, sii de ‘l monte, ove oggidì è Catanzaro, chiamandola dal nome del regnante imperadore, Rocca di Niceforo, che poi dalla qualità del sito erto, ed eminente, prese a dirsi Catacio, e poi Catanzaro1. Se pure dire non volessimo, che Flagizio nell’edificio di questa città, non volendo far cosa alcuna a suo capriccio, e senza la consulta di Costantinopoli, mandò ivi proponendone tre siti, cioè Choichìon, Pazzano, Catacio, quali erano tre monti contigui; venne la risposta, determinato per Catacio, onde poi se ne fé nome alla nuova città”. Il Fiore risolve dunque le difficoltà identificando Flagitio con Gargolano, ed aggiunge al racconto una riflessione, probabilmente deduttiva: in un primo momento i Calabresi che abbandonano le coste cercarono rifugio in villaggi e ricoveri provvisori, finché il Governo bizantino non avviò il suo progetto di riorganizzazione del territorio. Leggiamo ancora presso di lui, a proposito di Cirò, che “Iano Casopero, cittadino del luogo, scrivendo a Girolamo

Secondo il Rohlfs, Catanzaro significa “sotto un altura” (katà anzara). La forma latina Catacium, frequente in documenti medioevali e moderni, può derivare da un greco katà oikeion, dal significato non dissimile. Ma v. più avanti. 81

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Tegano, il vuol fondato da alcuni di quei popoli, quali già abitarono il promontorio Lacinio, e che poi infestati da’ corsari, per mettersi in luogo securo, si ricovrarono qui, fondando la presente abitazione”; e, a proposito di Bova: “Un scritto a penna ne vuol la prima origine al mare; da dove poi nelle saraceniche scorrerie circa il 1000 si trapiantò ove di presente si ritrova”. Così ancora la nostra cronaca di Tiriolo ricorda: “Ruggiero Carbonello già canonico della Cattedrale di Catanzaro, nell’Istoria di Calabria conservata nel Monastero di S. Gio[vanni] a Carbonara racconta che li Saraceni distrussero nella Calabria molti Vescovati, e specialmente quello di Tiriolo, con queste parole: A parte maris Adriatici Episcopatus Bruzzani, Hieraci, Stili, Trischinis, Tirioli cum occisione Episcopi, Crotonis, Hieropolis, quae est Strongolis, et nullus remansit integer praeter Scylaceus et Rheginus”1. E prosegue: “Nell’incursione che fecero per questa Magna 2 Grecia li Saraceni, Goti, Unni, Vandali, Normandi, Mori ed altre Barbariche nazioni fu distrutta la suddetta Città di Tiriolo, e ucciso il suo vescovo; così si legge nelle Croniche di Grecia “Dalla parte del mare Adriatico [il nome nel Medioevo si estendeva anche allo Ionio] distrussero i Vescovadi di Bruzzano, Gerace, Stilo, Trischene, Tiriolo con l’uccisione del suo vescovo, Crotone, Ieropoli, che è Strongoli, et nessuno restò indenne eccetto i vescovi di Squillace et Reggio”. Senza dimenticare che praeter richiederebbe l’accusativo, ci serviamo di questa notizia solo come documento dell’opinione corrente, nulla potendo dire dell’esistenza o meno di vescovi di Bruzzano, Stilo e Tiriolo. 2 Elenco un po’ disorganico, che mette assieme eventi anche molto distanti nel tempo. Né si ha notizia di invasione di Unni in Calabria. La fonte è ancora il Pinnello: “Gothi, Ostrogothi, Hunni, Vandali, Guiscardi, Greci, Mori, Saraceni, Siculi, Normandi, Francesi e Spagnoli...”. L’Autore delle Memorie molto opportunamente ha fatto giustizia dei presunti “Guiscardi”, sapendo, credo, essere Guiscardo il soprannome di Roberto d’Altavilla. 82 1

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latinizzate, nel capitolo De eversione Paleopolis seu Roccellae: “Quoddam fortissimum oppidum Triolum nomine oppugnaverunt, et maxima vi capientes totum destruxerunt, et 1 Episcopum occiderunt, inde ad triremes suas reversi sunt” , così chiosato dall’interpolatore del XVIII secolo: “Questo è nel capitolo De eversione Paleopolis seu Roccellae. La distruzione della Magna Grecia fu nei tempi di Niceforo Imperadore di 2 Costantinopoli l’anno 805 come dicono alcuni autori, come Vincenzo d’Amato nelle Memorie istoriche di Catanzaro, 3 4 Beronio , Voghelli e altri”. Leggiamo così anche nel Pinnellio5: “…se crediamo ad alcune Croniche antiche della Magna Grecia, ove siamo, questo mi ricordo haver letto in una Cronica antichissima in greco scritta, e dettata, la quale fu dall’Illustrissimo Sig. Conte di Simeri della nobilissima famiglia d’Aragona d’Aierbe data al Sig. Lattantio Rocca, medico 1

“Sulla distruzione di Palepoli o Roccella”: “Assalirono una fortissima cittadina di nome Tiriolo, e prendendola a grandissima forza la distrussero completamente, ed uccisero il Vescovo, quindi se ne tornarono alle loro navi”. Il nome di Roccella, probabilmente dal francese dei Normanni, venne dato forse già ai ruderi di Scolacio adibiti a fortificazione, prima che alla grandiosa e incompiuta chiesa di Santa Maria della Roccella; donde oggi il nome di Roccelletta dato alla località in senso lato. (N. d. t.) 2 Si confonde qui Niceforo II Foca con l’imperatore Niceforo I (802-811) e con il generale Niceforo Foca. 3 Probabilmente il cardinale e storico della Chiesa Cesare Baronio (15371608). 4 Forse l’Ughelli. 5 Del Pinnello, scrittore catanzarese, abbiamo un Il Moncada. Dialogo del Dottor Girolamo Pinnello Accademico Informato, L’Aggittato, dove si ragiona degli affetti, et effetti d’un animo grato, de i meriti, e grandezza d’animo d’un Prencipe al governo, d’un Sig. degno di lode, e dell’eccellenza dell’Anima ragionevole. All’Illustrissimo Signor F. D. Luigi di Moncada, stampato a Messina nel 1608. L’opera meriterebbe una riedizione. 83

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eccellentissimo, e historiografo principale di questa nostra Città, abbondantissimo di lettere Greche, Hebree, et esterne, da quello in gran pregio tenuta, nella descrittione che fa di Catanzaro, fatiche che al presente per la malignità dei tempi, et avaritia dei poco accorti Signori se ne stanno nel tempio dell’oblio sepolti: prima questa nostra Città, già come vogliono alcuni scrittori di Flagitio nipote di Costanzo Imperatore edificata fecero un’Aquila facendo il detto Flagitio nelle sue insegne un’Aquila nera in campo d’oro la quale Costantino Imperatore soleva porre nelle monete della Città di Palepoli, o come alcuni la chiamano Paleoporto, in quel tempo Metropoli della Magna Grecia, e patria del sudetto Costantino, e Costanzo, e di Zosimo pontefice, situata non molto lungi dall’antiqua Squillaci nel Mar Ionio emulatrice dell’amenissima Locri, patria già de gli Naritij, e fidelissima de i Tiri, li quali furono antichi habitatori, e della Città di Tiro, e del suo monte principio degli Appennini in Calabria, detto al presente Tiriolo, segnalato di molte erbe, e di molte memorie di segnalati metalli, e molto di più di antichissime antichità degli antichi Romani, e massime di Publio Marcello molto pregiate e onorate per lo tempio di Giove Ferestio…”. Con alcune varianti rispetto alla tradizione, e facendo muovere i profughi non dalle rovine di Scolacio, ma da insediamenti un po’ più settentrionali, così narra una cronaca latina di Taverna, a noi pervenuta in una traduzione del 17551: “Dopo che la Spagna fu occupata da’ Mori dell’Africa e occupata ancora la Sicilia passarono nelle marine di Calabria per la prima volta nell’anno 822, e vi fecero qualche

Il titolo della Cronaca è Della destruzione di Taberna Montana fatta per lo Re Guglielmo detto il Malo nell’anno 1162, ind. 10. m.s. conservato presso la Biblioteca Comunale di Catanzaro, che qui ringrazio per l’intelligente disponibilità. 84

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rappresaglia1; allettati dopo dalla preda, non mancavano di visitarlo di quando in quando ora per mare con bastimenti, ora per terra; tanto che sette anni appresso che si erano fatti a vedere2 fecero tale scorreria nelle nostre marine dell’Uria, che vi apportarono una mezza rovina alle case ed alli beni, non che agli animali; poiché la gente fuggita per le montagne, restò ogni cosa di loro preda. Si era fatto ricorso in Costantinopoli per agiuto3 di navi a custodire le coste marittime della Calabria; ma gl’Imperatori greci, che la dominavano, per la guerra che tenevano con i di loro vicini, e per gli stessi Saracini che li minacciavano l’istessi Stati, per le dissenzioni tra di loro che si sbalzavano dal trono uno con l’altro4, né Leone V Armeno, né Teofilo e Michele III Imperatori vi attesero in quelle prime scorrerie a reprimerli, si fecero tanto arditi e potenti, che non valendo a reprimerli la forza delle città marittime della Calabria, come applicate più al traffico che all’armi, col solo nome davano lo spavento, e però conoscendosi l’Uria impotente a più resisterli, prima che fosse all’intutto desolata lasciato tutto in abbandono si ritirò nella montagna, con quel che poté seco portare di migliore, risoluti5 di far perpetua colà la residenza; ma venuto da Costantinopoli ministro imperiale con qualche milizia e col danaro per raccogliere porzione di tanta gente dispersa, ne raccolse poco più dell’ottava parte che procurò ridurla in forma di città nelli monti, quale si disse Taberna Montana. Quelli poi che non tenevano tanti beni stabili per essere allevati al ritiro6, si

Incursione. L’829 che, secondo tutte le cronache, segna l’inizio degli attacchi saraceni in Calabria. 3 Aiuto. 4 Idiotismo calabrese. 5 Concordanza a senso con “i cittadini” di Uria. 6 Non erano in grado di mantenersi nel nuovo insediamento. 85 1

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accomodarono alla meglio nella Regia Sila1, delli quali ne nacquero otto villaggi, la gente delli quali si poté dire che fosse la maggior parte dell’Uria abbandonata. Questi villaggi poi furono aggregati a Cosenza, ed alla prefettura2 di Scigliano; non mancando persone ricche di contanti accumulati col trafico, che facevano di renderli ragguardevoli”. Altri echi della tradizione si trovano sia in Vincenzo d’Amato che in Elia d’Amato. La nozione è accettata comunemente anche dalla storiografia contemporanea: così leggiamo in Vera von Falkenhausen: “In Calabria, a partire dal VII secolo, è possibile constatare uno spostamento generale degli insediamenti dalla costa verso l’interno”3. Rimandiamo infine alla puntuale ricostruzione di Domenico Falcone, che prende in esame le modificazioni intervenute nell’assetto urbano della Calabria soprattutto sul finire dell’età antica4; e al saggio di Emilia Zinzi sugli insediamenti medioevali calabresi5; alle osservazioni di Luigi Lacquaniti6. Inizia dunque con Niceforo Foca il generale, e proseguirà gloriosamente con i suoi discendenti divenuti basileis, un progetto

Anacronismo. La Sila si distingueva in Regia, con Cosenza e i suoi Casali, e Badiale, dell’abbazia di San Giovanni in Fiore. Ma questo, solo con la nascita del Regno di Sicilia (1130). 2 O piuttosto, pretura. Si chiamavano così le amministrazioni dei Casali cosentini. 3 V. VON FALKENHAUSEN, I Bizantini in Italia, in AA.VV. I Bizantini in Italia, Milano, 1986. 4 D. FALCONE, L’evoluzione dei centri abitati in Calabria dal TardoAntico all’età bizantina (IV-XI secolo d. C.), in “Vivarium Scyllacense”, dicembre 1994. 5 E. ZINZI, Calabria. Insediamenti e trasformazioni territoriali tra il VI e il XVI secolo, in Storia della Calabria, Medioevo, Gangemi, 1999. 6 L. LACQUANITI, Morfologia ed evoluzione dei centri abitati della Calabria, in “Bollettino della Società geografica italiana”, I, 1946. 86 1

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politico e militare che non si appaga di evitare o rintuzzare gli assalti nemici, ma intende condurre la guerra fino alla vittoria in Asia, nei Balcani, in Italia. Il grande condottiero per primo concepisce il rafforzamento del territorio in vista di questi obiettivi. Suo nipote Niceforo II, per mezzo di Flagizio1, ordina l’ascendant ad montes. L’intervento imperiale nell’organizzazione amministrativa e militare del territorio calabrese, secondo questa nostra ipotesi, non è infatti un ordine di evacuazione immediata delle coste, impossibile da eseguire se non in un arco di molti decenni, ma la definizione amministrativa, civile, militare, ecclesiastica di quanto già era accaduto per il lento abbandono delle coste, e poi disordinatamente al primo impeto saraceno, il trasferimento in massa verso l’interno: l’intento del Foca è radunare i dispersi attorno ad un sistema di kastra e kastellia2 e trasformarli da fuggiaschi in soldati bene armati e ben protetti da un sistema di presidi, ed anche religiosamente, politicamente e socialmente ben motivati. Chi fu Flagizio, o Gargolano, dal nome così poco greco? Secondo le Cronache, venne dall’Oriente; eppure il Gariano lo dice conte di Benevento. Sarà stato un condottiero longobardo dell’Impero? O uno stratega o persino già catepano nei pochi anni, prima della presa di Bari (895), che l’antica città romana fu capitale dell’Italia bizantina? O, più semplicemente, si confusero in lui i nomi e le gesta dei diversi generali ed ammiragli imperiali di quei due secoli travagliati. È opportuno chiedersi se per fondazione dei paesi interni sotto Niceforo II si debba intendere la costruzione ex novo di fortezze ed edifici, o se, almeno nella maggior parte dei casi, debba Non c’è motivo di dubitare della sua esistenza reale, comunque si chiamasse o venisse soprannominato questo valoroso ed accorto stratega. 2 Castra e Castellia. La distinzione dovrebbe fare riferimento alle dimensioni maggiori o minori della fortezza. Vedi più avanti. 87 1

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essersi trattato piuttosto l’ampliamento e il consolidamento di centri esistenti, o della trasformazione in piazzeforti e città di insediamenti ancora spontanei e poco ordinati. È del resto il modello che ci consegna la tradizione ricordata dal Fiore: Trischene, abbandonata, dà origine non subito ad un’altra città, ma a molti piccoli insediamenti; finché l’ordine del governatore imperiale non raduna tutti in un luogo alto e fortificato, Catanzaro. Non importa qui, ovviamente, se il racconto sia esattamente vero o no: è però verisimile e logico, ed è la sola interpretazione credibile dell’ascendant ad montes inteso come ordinamento politico e militare di uno stato di fatto e l’evoluzione in borghi fortificati delle “grotte e caverne” della prima pavida fuga. Ma gli ufficiali inviati dall’imperatore e i loro ingegneri militari dovettero indicare secondo ragioni di scienza strategica dove edificare i nuovi centri fortificati, o trasferire quelli già esistenti, o quanto meno dove collocare il nerbo della difesa. Questa nozione è adombrata negli antichi racconti con molta ed esplicita chiarezza, ed un esame della realtà geografica ci induce a prestar loro fede piuttosto che a mantenere un accademico atteggiamento di boria dei dotti e di sufficienza. Questi kastra divenuti poi i nostri paesi sono sempre molto vicini gli uni agli altri, mai più lontani di due o tre ore di cammino a piedi, quasi a formare una rete difensiva, anzi una sola grande fortificazione. Una schiera armata di uomini addestrati non impiegherebbe più di mezzora da Satriano a Davoli: da Petrizzi a Soverato “Vecchio”; da Squillace a Stalettì; qualche ora da Gerace a Roccella; da Catanzaro a Tiriolo; da Santa Severina a Strongoli; da Rossano a Corigliano. Resta ancora il ricordo di quando, or non è molto, si andava a piedi a lavorare anche molto lontano, e percorsi che sulle attuali rotabili sarebbero decine di chilometri venivano percorsi per sentieri in poche ore. Reparti di cavalleria e fanteria montata sarebbero ancora più veloci. I contadini e pastori dei villaggi aperti possono in breve tempo cercare protezione nei 88

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centri fortificati; e ancor prima i contadini – soldati del basileus possono accorrere in difesa armata dei luoghi minacciati. Un peculiare carattere di fortezza dei nostri borghi risulta dal costume di farvi sempre ritorno al tramonto: non si trovano casolari sparsi e lontani dai paesi in Calabria, come non esistono in Puglia e Basilicata, tranne quella forma particolare di insediamento che è la grande masseria, un vero e proprio piccolo villaggio atto alla difesa1. Nessun luogo del Meridione, ma della Calabria soprattutto, giustifica la “contrapposizione di città e campagna” canonica nella sociologia ottocentesca marxiana e francese; ma il contadino lavora in campagna e vive in paese, e questa condizione è la causa del senso della comunità che ci distingue e della partecipazione di tutti alla vita sociale. Sarà stato anche per questo che le nostre universitates eleggevano in piazza i loro sindaci con il suffragio di tutti, e a nessuno poteva venire negato il diritto di parola? A volte, quando si fa della storiografia in Calabria, è necessario spendere un poco di tempo per chiarire quello che per altri sarebbe banalità: tale è la forza dell’acculturazione dei nostri a pensieri pensati altrove. Quando si dice e si legge con disperato scandalo che il tale paese era “isolato” e “privo di strade”, si ragiona, senza accorgersene, con criteri geografici francesi e padani, molto lontani dalla natura del territorio calabrese. Certi borghi apparentemente remoti, e che di fatto lo sono lungo le odierne2 rotabili, si raggiungono con pochi passi lungo i sentieri che l’abitudine traccia in via retta, se appena si hanno buone gambe e non invece l’affanno dell’uomo moderno sedentario. Diamo alcuni esempi, desunti dal Barrio, di misurazioni di Cfr., per esempio, M. TOMMASELLI, Masserie fortificate nel Materano, Roma, 1986. 2 Odierno nel senso che ci sono tuttora: ma sono tracciati di età borbonica, asfaltati tra gli anni ‘30 e i ‘50, concepiti comunque per mezzi di trasporto lenti e di scarsa potenza. 89 1

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distanze secondo i criteri antichi, e il confronto, tra parentesi, con quelle attuali: “… il borgo di Santa Caterina, dista dal mare quattro miglia (6 km.)… Badolato… dista da Santa Caterina tre miglia (6 km.), dal mare due (6 km.)… in seguito il borgo di Satriano… dista dal mare quattro miglia (km. 8), da Badolato dieci (22 km.)... il castello di Petrizzi… dista dal mare tre miglia (7 km.)… il castello di Soverato… dista dal Cecino quattro miglia (9 km.)… il piccolo borgo di Montepaone dista da Soverato due miglia (10 km.), dal mare uno (7 km.)… Squillace… dista dal mare tre miglia (7 km.)…”. Le vie di comunicazione si snodavano lungo i crinali e le valli, conducendo a luoghi naturali d’incontro, come accade, per dirne una e significativa, sul vasto altipiano della Lacina, in cui convergono, vastissimo cerchio, i territori degli attuali Comuni di Stilo, Guardavalle, S. Caterina, Badolato, S. Sostene, Davoli, Satriano, Cardinale, Brognaturo. È naturale che insediamenti militari e agricoli di tal genere dovessero sorgere in località che si confacessero assieme ad ospitare strutture fortificate, ma anche alle esigenze normali della vita: le nostre aspre colline meglio di ogni altro luogo. Non bisogna lasciarsi affascinare da romanticismi che fanno del Medioevo un’era di orrendo fascino: la minaccia saracena era sì un grave pericolo, ma non per questo va creduta un fatto quotidiano; anzi potevano trascorrere anni tra l’una e l’altra scorreria; e, quel che più conta qui, il timore oggettivo non era tale da spegnere la normale voglia di vivere, lavorare, amare e godere di ogni umana popolazione1. Non mancarono del resto lunghi periodi di buoni rapporti e di commerci con gli Arabi. Gli insediamenti dovevano

Un uomo sano e un sano popolo sono anzi tanto più avventurosi e vivaci, diremmo incoscienti, quanto più sono disperati ed hanno poco da perdere: Una salus victis, nullam sperare salutem, insegna saggiamente Virgilio. 90 1

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dunque rispondere e ad esigenze militari e a quelle economiche e sociali. Proviamo a studiare i nostri centri collinari secondo questa ipotesi. Intanto, non regge alla logica ed all’osservazione il facile luogo comune divulgato “si nascosero nell’interno per sfuggire ai Saraceni”: nessuno di loro può considerarsi difeso o anche solo restare celato alla cupidigia barbara dalla sola posizione; né ci sono “posizioni inaccessibili”, o gli stessi abitanti non vi potrebbero accedere. I nostri paesi collinari sono tutti a pochi passi dal mare, posti di solito lungo quelle vie naturali che sono i fiumi, e si vedono quasi tutti benissimo anche da molto al largo: e del resto i predoni d’ogni tempo conoscono benissimo la geografia dei luoghi che intendono saccheggiare; e in questo mondo del fango di Adamo, trovano agevolmente guide e traditori locali. D’altro canto le esigenze di sicurezza non sono mai tanto pressanti da non doversi equilibrare con quelle economiche e climatiche; e un ragionevole rischio può convivere con i vantaggi di un luogo ameno e circondato da campi fecondi e pascoli irrigui. La posizione isolata ed elevata non è dunque di per sé un deterrente delle aggressioni; essa costituisce un vantaggio solo se intesa e sfruttata secondo criteri militari, cioè se il luogo è circondato da baluardi naturali o artificiali, ma soprattutto, anzi solamente se è presidiato da uomini armati e disciplinati, e motivati a combattere: gli assalitori, costretti a salire, sono fatti segno di colpi da parte di difensori ottimamente protetti: sicché non molto facilmente sono disposti a rischiare ferite e morte per il poco bottino che sperano da un piccolo paese. Restano l’assedio e la presa per fame, ma richiedono molto tempo e pazienza e abbondanza di viveri, tutti sforzi che si sostengono solo se l’obbiettivo è di proporzionato valore. La guerra antica era essenzialmente un prendere città fortificate, e la scienza militare del passato insegnava la necessità di non lasciarsi mai fortezze alle spalle. Gli Achei assediarono Troia, e non riuscirono in lunghi anni ad averne ragione se non 91

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con l’inganno. Annibale batté ripetutamente i Romani in campo aperto, ma non li vinse per incapacità di prendere ad una ad una le infinite città d’Italia. Per secoli e fino al 1861 il Regno di Napoli non poté mai considerarsi conquistato, nemmeno quando il nemico era nella capitale, finché fosse in armi la possente Gaeta. Persino nella Seconda guerra mondiale l’esercito tedesco conquistò i vastissimi spazi russi, ma venne arrestato e respinto dai sistemi fortificati di Leningrado e Stalingrado. Per questa ragione il paesaggio medioevale era costellato di castelli e fortezze. Un tale quadro presenta il territorio calabrese ionico: fortezze site a guardia delle vallate che dal mare portano fino alle vette dell’Appennino, parallele fra di loro lungo una direttrice da ovest ad est. Assumiamo alcuni esempi, necessariamente parziali, e limitati al nostro assunto di trattare della costa ionica1. Per Reggio e le sue Motte, rimandiamo al puntuale lavoro di Barbara Rotundo2. Le vallate del Melito e dell’Amendolea erano guardate da quel complesso di borghi e villaggi attorno a Bova, arroccata in alto e di arduo accesso: Roccaforte del Greco, Bagaladi, Pentadattilo, Roghudi, Condofuri, Montebello, Amendolea, Palizzi, S. Luca, Ardore, Sant’Agata [del Bianco], presidiano i colli circostanti il Buonamico. Gerace è la grande fortezza dello Ionio meridionale, quasi inespugnabile e nel corso della sua storia quasi sempre capace di Quanto a quella tirrenica, basti qui un accenno al territorio del Poro e di Capo Vaticano, in cui città e villaggi conservano quasi alla lettera la forma greca. Leggiamone un parziale elenco nella forma riferita dal Barrio e dal Fiore: Tropea, Paralia Praghelia Zambrono, S. Giovanni, Daffinà, Fitale, Zaccaropoli. Alife o Alifito, Drapea, Chispano, Cheria, Brittario, Choromato, S. Domenic, S. Nicolò, Briade, Orcigliade, Rigade, Brivancade, Lampazzana, Panagià, Spilinga Chondrochinone, Carcilade, Ionadi, Briatico, Ioppolo, Nicotera, Filocastro, Calimera, S. Calogero. 2 B. ROTUNDO, La Calabria meridionale: le fortificazioni collinari dell’area gravitante sullo Stretto di Messina, in “Vivarium Scyllacense” VIII/2, 1997. 92 1

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difendersi con successo1; è posta sopra un alto e ripido tavolato, visibile e da cui si può vedere per un tratto vastissimo a sud e nord, e ad ovest fino al lontano Aspromonte; e, per esso, comunicare con la costa tirrenica. È il fulcro della difesa dello Ionio meridionale, ed ha attorno a sé molti piccoli villaggi, alcuni, come la citata Moschetta, veri fortilizi. Grotteria, Siderno, Mammola, Gioiosa, tutti alla vista uno dell’altra, controllano le valli del bacino del Torbido. Segue Roccella, il cui attuale castello è di origine feudale, ma che doveva essere una fortificazione anche in tempi più antichi, anzi la Fortificazione per eccellenza, se francescamente fu detta poi Rochelle. Si trova sul mare (16 m. slm.), ma sopra un costone di roccia assai scosceso. La bontà della scelta venne provata in più occasioni con le vittorie sui Turchi. Così osserva il Fiore: “…vi è una sola porta per uscire, ed entrare gli abitanti, con un forte, e meraviglioso ponte, quale ogni sera si alza, e si serra, assieme con la porta per maggior securezza, oltre le continue guardie, e sentinelle, che si fanno da’ medesimi paesani, per guardarsi dalle scorrerie continue de’ corsari”. A un 15 km, Castelvetere si leva in saldissima posizione, a difesa dell’Allaro; e fanno parte del suo apparato difensivo villaggi dal nome greco di Riace, Placanica, Focà. A difendere la valle dello Stilaro e la strada d’accesso alle Serre sorge Stilo, città murata; e attorno ad essa Pazzano, Bivongi, Monasterace, Guardavalle dal nome così parlante. Quasi a fare da tramite alla vista tra due grandi centri troviamo Santa Caterina e il suo casale di Brognaturo sulla via delle Serre; quindi la potente Badolato con Isca e Sant’Andrea, a sorvegliare le valli del Burda e del Callipari e dell’Alaca, da cui sarebbe agevole penetrare fino all’importantissimo altipiano della Lacina. Da Badolato si vede bene il lido di Soverato e si getta 1

Venne a volte saccheggiata dai Saraceni, mai conquistata stabilmente. 93

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l’occhio fino a Catanzaro. Dove l’Ancinale si stringe in un ardua gola stanno arroccate Satriano e Gagliato, alla visita una dell’altra, a pochi passi per uomini veloci. Le valli dell’Ancinale e del Beltrame confluiscono in una pianura che porta il nome militare di Campo Farnìa1: Tutti i borghi posti sul cerchio delle montagne che avvolgono il Campo sono visibili da Petrizzi, Gagliato, Argusto, Olivadi, Centrache, S. Vito; e questa ha di fronte a sé Chiaravalle. Da Soverato è agevole avere assieme agli occhi Petrizzi, Montepaone, Gasperina, Montauro, Stalettì; e, come si è detto, Sant’Andrea; ma si scorge bene anche la Marina di Catanzaro e la rocca di Cropani; e, spesso, nelle terse giornate, Le Castella. Il Castrum oggi in agro di Stalettì guarda Catanzaro e gran parte del Golfo. È il territorio storico di Squillace, erede di Scolacio, a difesa delle valli del Corace e dell’Alessi, e con attorno casali e fortificazioni: una di queste è forse la stessa area archeologica di Scolacium, le cui robuste rovine ospitarono anche uomini armati, donde probabilmente il nome attuale di Roccelletta. La sottile valle dell’Alessi giunge fino a quel “punto più stretto d’Italia” di Aristotele che è il nodo delle antiche comunicazioni tra lo Ionio e il Tirreno. Dall’attuale borgo di Squillace si mostra evidente quello di Tiriolo, a portata di facile segnalazione ottica. È la grande vallata del Corace, che porta fino al cuore del Reventino e alla Sila, congiungendosi con quella dell’Amato verso Nicastro. Tiriolo occupa una posizione rilevante nella strategia militare della difesa e nei collegamenti civili e commerciali della costa con l’interno. Catanzaro, che è il cardine di questo limes ionico e si collega strettamente al Nuovo Castello, Nicastro, guarda al mare e alla Sila, al Marchesato e alla valle dell’Amato, per essa al Tirreno, Campo, nella terminologia medioevale, è un luogo piano adatto a battaglie e tornei di cavalieri (che per questo sono detti “campioni”) o ad esercitazioni di soldati. 94 1

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passando per quel crocevia di tutte le strade antiche che fu Maida. A settentrione Catanzaro ha di fronte a sé Simeri [Crichi] e Cropani e Belcastro, lungo il Crocchio che si inerpica fino alla Presila. Da quasi tutto il Marchesato Cropani è visibile, con il suo campanile proverbialmente svettante1: da Belcastro prima di tutto, quindi da Mesoraca e [Petilia] Policastro; da queste, Cotronei da una parte, dall’altra Santa Severina. Le due vallate del Tacina e del Neto, molto ampie e pianeggianti, hanno bisogno di saldi presidi. La grande fortezza, sede di arcivescovo metropolita, Hagia Siverini, siede sopra un’amba alta e scoscesa; la circondano i casali arroccati San Mauro [Marchesato] e Scandale, guarda Cutro e, sul Neto, Strongoli, erede di Petelia Fidelis. Da qui un passo porta alla silana Cerenzia [Vecchia, da cui del resto si ha la strana vista del mare quasi a strapiombo. Santa Severina, Cerenzia e Petelia, sorprendentemente simili sopra tre tavolati, sono i pilastri della difesa del Neto, la via della Sila. Un modo di segnali con fuochi, e persino di mezzi acustici2, può portare una comunicazione da Reggio a Rossano in un tempo brevissimo. Da ogni borgo castello possono accorrere rinforzi. Ma un tale sistema può essere gestito solo da un esercito organizzato e disciplinato, con turni regolari e con personale militare almeno in parte specializzato. Il sistema dei kavstra consiste dunque in una serie continua di borghi posti sulle alture, e tutti a vista uno dell’altro, in modo che delle segnalazioni fatte con fuochi possano venire agevolmente scorte e trasmesse e che gli armati possano opportunamente intervenire dove la necessità tattica lo richieda. Si può dunque dedurre che gli abitanti dei castelli di Niceforo Si diceva in tutta la Calabria “è chiù atu do campanili e Cropani”. Trombe, corni, campane; non ultima, la voce umana: non troppi anni fa i contadini usavano comunicare fra di loro intanto con l’ausilio di validissime corde vocali; e traendo profitto da particolari condizioni naturali di eco ed amplificazione del suono. 95

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fossero, tutti o parte, dei soldati o coloni soldati, organizzati gerarchicamente e addestrati sono solo a difendersi, ma a svolgere regolari funzioni militari di controllo del territorio ed intervento ove necessario. Se non possiamo affermare con certezza che questa disposizione dei centri abitati sia stata un effetto di piano preordinato, o semplicemente della natura delle cose; certo, se un governante o stratega avesse deciso di organizzare un territorio ai fini della sua migliore difesa, avrebbe posto fortezze e borghi proprio là dove oggi sono. È questa forse l’origine di città e borghi dal toponimo parlante: Nicastro1; [Petilia] Policastro2; Belcastro3; Filocastro4; Castelvetere5; Guardavalle6; il Castrum per eccellenza, quello cassiodoreo, oggi in agro di Stalettì e di recente portato alla luce; Castrolibero; Castroregio; Castrovillari; Castellace; Castelmonardo7; Castiglione; Cavaliere; Cavalleria; Cavallerizzo; Dinami8; Moschetta9; Paravati10; Rocca Angitola; Rocca Nicefora; Rocca di Neto; Roccabernarda; Roccaforte [del Greco]; Rocca Imperiale; Belforte11; Spadola (Spathula, spada); Torre di Neocastron, Fortezza nuova. Pols, poliòs, polis, polè: molto, bianco, città, commercio… e kastron. 3 Testi bizantini parlano di un Gynekokastron: fortezza delle donne, o della Madonna o della regina?); si ricorda anche, tra i vescovi suffraganei di Santa Severina, quello di Callìpolis, città bella? Ma altri pensano a Gallipoli. 4 Ricordata dal Fiore presso Limbadi. 5 Calco latino da Palaiòn, antico e kastron. 6 Da “guardia” più che da “ammirare”. 7 Dalle sue rovine sorse nel 1783 Filadelfia. 8 Dynameis, forze armate; forze lo stesso per Potenzoni di Briatico. 9 Secondo i più, “corpo di guardia” di Gerace; ma potrebbe essere anche “moschea”. 10 Parabatai, “guardie del corpo”. 11 Località citata dal Fiore come non lontana da Spadola, e già ai suoi tempi spopolata. 96 1

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Spadola1; Stratò2 Cirò3; Badolato4; le moltissime località dal nome Campo (piazza d’armi); e Serra, intese come “recinto, difesa”… Diamo qui di seguito l’elenco di tutti i luoghi5 che il Barrio chiama oppida, piccole città fortificate, o castella, borghi castello, supponendo che la prima definizione risponda al greco kastra e la seconda al greco kastellia, e che la distinzione fosse nei fatti poco netta: Acri, Albidona, Arena, Badolato, Bianco, Bocchigliero, Bollita, [Laureana di] Borello, Bovalino, Brancaleone, Briatico, Bruzzano [Zefirio], Caccuri6, Calimera7, Calopezzati, Caloveto, Campana, Canna, Caraffa [di Catanzaro: già Arenoso], Careri, Casabona, Castella, Castellace, Castelmonardo, Castelvetere, Castrovillari, Cerchiara, Cerenzia, Cerisano, Chiaravalle, Cinquefrondi, Condoianni, Corigliano, Cosoleto, Cotronei8, Cropalati, Cropani9, [Mirto] Crosia, Crucoli, Drosi10, Fagiano, Filogaso11, Gagliato, Galatro12, Gasperina, Gioiosa, Girifalco13, Grotteria14, Joppolo1, Lagania2, Lago, Longobucco, Torre di Ruggero. Stratòs, esercito. È un quartiere di Catanzaro. 3 Se vuol dire ischyròs, forte. 4 Se, contenendo la radice bad-, vuol dire “guado”, passaggio difeso verso la Lacina. 5 Con i nomi attuali, tra parentesi quadra le integrazioni e modificazioni posteriori; e, naturalmente, senza far conto delle forzature latineggianti del Nostro. 6 Forse catachoroi, luoghi in basso. 7 Calè emera, Buongiorno. Il toponimo è tra i paesi ellenofoni del Salento. 8 Forse una famiglia nobile di Crotone. 9 Contengono entrambi la radice di copros, “letame”, con idea di fecondità. 10 Drosos, “rugiada”. 11 Forse Filagathos, nome di persona. 12 Ha a che vedere con gala, “latte”. 13 Hieròn kalkheion, “officina sacra, di un monastero”. 14 Krypterìa, “grotta, nascondiglio”. 97 1

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Luzzi, Marcellinara, Melicuccà, Melissa3, Mesoraca4, Monasterace, Monsauro, Montauro5, Montepaone, Nocara, Palizzi6, Panagia7, Pentadattilo8, Petrizzi9, Pizzo, Placanica10, Policastrello, [Petilia] Policastro, Polistena11, Potamia12 (di Bianco), Riace13, Rocca Imperiale, Roccella [I.], Roccelletta, Rose, Roseto [Capo Spulico], S. Agata, s. Calogero, S. Caterina, S. Cristina [d’Aspromonte], S. Demetrio, S. Giorgio [Morgeto], S. Lorenzo, Sangineto, Satriano, Scala [Coeli], Scalea, Sellia, Simbario, Simeri [Crichi], Sinopoli, Soreto, Soriano, Soverato, Spadola, Stilo14, Tarsia, Terranova [Sappo Minulio], Tortora, Usito, Vallelonga, Verzino, Zagarise. Molti di questi borghi, dunque, hanno un etimo greco di sapore bizantino. Cos’è, per il Barrio e per gli altri antichi storici calabresi, un castellum? Non è una fortificazione separata dall’impianto urbano, come nel comune senso dell’italiano castello. Questo è la sede di un feudatario o di un castellano regio al comando di truppe il cui compito è sì di difendere il territorio da nemici esterni, ma anche, e spesso soprattutto, di far sentire il potere politico e militare ai sudditi. I castelli propriamente medioevali che restano Forse Ippon polè, “mercato di cavalli”: l’erede di Ipponio? Lakhane, “ortaggi”. Ci sono località dette Laganusa. 3 Contengono la radice meli, “miele, ape”. 4 Mesoryakion, “in mezzo al fiume”; o “m. ravci", rakhis, “schiena, dorso di monte”. 5 Mentabrion, in greco bizantino probabilmente Mentravion, donde il dialettale Mantraru. 6 Polizzi secondo le Cronache, perciò polition, politeia... 7 Panaghìa, la Santissima [Trinità]. 8 Pente daktyloi, Cinque dita. 9 Toponimi simili si trovano in Grecia. Così più sotto per Sellia. 10 Plax niche, Tavolato della vittoria? 11 Polis stenè o sthenos, Città lunga o forte. 12 Potamòs, fiume. 13 Rhyachion, ruscello. 14 Stylos, Colonna. 98 1

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o di cui rimane memoria in molti luoghi della Calabria (Reggio, Bova, Ardore, Gerace, Gioiosa, Roccella, Grotteria, Castelvetere, Stilo, Monasterace, Badolato, Satriano, Soverato, Squillace, Catanzaro, Tiriolo, Simeri Crichi, Santa Severina, Le Castella, Crotone, Strongoli, Cirò, Cariati, Corigliano…) mostrano tutti la caratteristica suddetta di essere impianti militari indipendenti dal borgo che li ospita e in qualche modo ad esso anche architettonicamente opposti1. Ricordiamo cosa si racconta della fondazione del castello normanno di Gerace: Roberto Guiscardo, caduto nelle mani dei Geracitani, li convince ad arrendersi giurando di non costruire mai un castello dentro la città… e lo fa costruire poi al fratello Ruggero. Dunque un castello non esisteva, prima dei Normanni, dentro la città di Gerace, ma era essa stessa una fortezza, protetta dalla posizione e da mura di cinta. In questo senso può dirsi castellum qualsiasi piccolo borgo di Calabria, in cui le costruzioni sono addossate le une alle altre e costituiscano un continuo, e le viuzze un intrico tale da renderle difendibili anche da parte di pochi uomini decisi. Consideriamo Castelvetere o Badolato o Sant’Andrea o Petrizzi: si stendono dal basso verso l’alto sopra alture piuttosto scoscese; hanno una forma approssimativamente circolare; si accede dall’esterno solo attraverso strettoie, a volte vere porte: pochi armati decisi basterebbero a respingere un’incursione. Anche le fortificazioni di Amantea fino all’epico assedio del 1806-7 erano costituite in parte dalle case, che i Francesi dovettero cannoneggiare e sfondare. Assumiamo a mo’ d’esempio il solo borgo antico del Golfo di Squillace rimasto a testimonianza del passato, in quanto abbandonato dopo il terremoto del 1783; Soverato Vecchiu.

Cfr. AA. VV., Castelli e torri di Calabria, Catanzaro Lido, 1997; AA. VV., Per un atlante della Calabria. Territorio, Insediamenti storici, Manufatti architettonici, Reggio C. – Roma, 1990; AA. VV., Elenco delle opere fortificate in Calabria, Istituto italiano dei castelli, 1977. 99

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Osserviamo intanto che esso non è affatto lontano dal mare, anzi ne dista poche centinaia di metri; e che fa affidamento sulla posizione per difendersi, anche se questa non giovò ad evitare il saccheggio turco del 1594. Sappiamo bene che la spedizione del pascià Cicala in quell’anno fu così potente da prendere e saccheggiare anche Reggio: ma lo stesso rinnegato predone si rese conto della impossibilità di trasformare la scorreria in conquista, e, compiuto il suo orrendo lavoro, si ritirò: questa era esattamente la funzione dei borghi fortificati, non difendere ogni singolo kastellon da ogni possibile minaccia, ma dissuadere gli assalitori, i quali mai avrebbero potuto sottomettere, prendendoli uno per uno e dovendo perciò disperdere le forze, tutti i borghi-castello della Calabria. Non accadde così nei due saccheggi di Stalettì del 1644 e ‘45, quando i Turchi si trattennero appena il tempo di far poco bottino e ancor meno prigionieri, e subito ripresero il mare? Soverato si difendeva perciò con mura e, quant’era nelle sue forze, con armi. Le mura non circondano tutto l’abitato, ma solo la parte meno scoscesa e perciò più esposta: è probabile che tale fosse l’impianto dei borghi anche in età bizantina. La vera fortificazione è l’intrico di viuzze che anche pochi uomini propugnatores possono tenere battendosi uomo contro uomo. Lasciamo la parola alla felice ricostruzione di Michele Repaci Lentini, da cui ci attendiamo un assai più ampio lavoro: “L’antica Soverato sorse su una rupe che dominava le campagne sottostanti ed era isolata dalle alture vicine; da ponente essa era poi circondata dal fiume Vetrino (l’attuale Beltrame), che a quel tempo era navigabile. Questa altura, pur protetta dalle colline circostanti, consentiva un agevole controllo del mare; esposta a meridione, al riparo dai freddi venti di tramontana, essa presentava un declivio ideale ad ospitare il borgo fortificato. Inoltre il fiume consentiva l’accesso alla marina, tant’è che ancora oggi la zona sottostante la porta principale del paese diruto (porta di Suso) si chiama ‘Bonporto’, per la presenza di un 100

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attracco situato proprio sotto le mura. Il paesino contava circa 500 anime. Un tipico modello di borgo rurale fortificato medievale: le case dei contadini si adagiano sul fianco della collina, assecondando la natura del terreno, e formando così il tessuto urbano dal quale spiccano gli edifici principali (le due chiese, il palazzo baronale e la grande torre ormai crollata), che sono situati nella zona più elevata del rilievo. Le viuzze si inerpicavano strette e tortuose lungo il pendio, in modo da smorzare il soffiare del vento all’interno dell’abitato. La loro ripidezza le rendeva difficilmente carrabili, e pertanto venivano transitate a piedi o con animali da soma: nei punti più scoscesi, infatti, esse erano gradonate con blocchi di pietra viva e pavimentate con ciottoli di fiume. Partendo dalle porte, queste stradine si snodavano sul declivio e lungo il perimetro della cinta muraria, tagliando il reticolo delle abitazioni fino alla sommità della rupe, dove si collegavano con il sentiero che percorreva l’intero crinale. Il paese fu cinto da grosse mura di difesa, intervallate da torrette di guardia, ed aveva due entrate principali: a sud la Porta di Suso, rivolta a monte e quindi più protetta, a nord la Porta di Iuso, che guardava il mare; ad ovest vi era poi una terza porta, un passaggio secondario usato dai contadini per accedere all’altura limitrofa. Entrambi le porte introducevano ad un piazzale interno, importante ai finì strategici, perché consentiva agli abitanti di organizzare la loro difesa. Similmente, la Porta di Suso si apriva su un piccolo spazio da cui partivano due percorsi: quello a destra conduceva sulla piazza, e si inerpicava sulla cima della rupe; quello a sinistra invece correva lungo il versante esposto a mare, dove vi erano poche abitazioni addossate alle mura, e terminava di fronte ad un edificio, chiamato Corte, dove il barone amministrava la giustizia. La natura accidentata dell’area condizionava la forma e le dimensioni degli edifici, le cui strutture erano improntate alla massima semplicità in modo da garantire l’ottimale 101

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sfruttamento del suolo e delle superfici interne. I palazzotti gentilizi erano su due piani, collegati da una scala interna in legno; il pianterreno ospitava la cucina, il soggiorno ed i locali di servizio, quello superiore le camere da letto; i prospetti esterni erano talvolta intonacati a calce, ed impreziositi da cornici e fregi che bordavano le finestre. Le dimore contadine erano chiamate ‘catòi’ (cioè case interrate), poiché le loro pareti spesso venivano incassate nel terreo; l’abitazione era formata da un unico ambiente di modeste dimensioni, utilizzato sia per il giorno che per la notte; tuttavia di frequente la costruzione aveva due piani: quello inferiore adibito a deposito, ricovero di animali o bottega; quello superiore ad abitazione. Entrando dalla porta di monte, sul vertice sud-occidentale dell’abitato, troviamo i resti del vecchio trappeto, con una grossa colonna circolare al centro della stanza; imboccando poi il vicino vicoletto che sale fino in piazza, sul quale affacciavano i pochi palazzi gentilizi, sorge a mezza costa il Palazzo Baronale, la cui struttura si eleva sulle abitazioni circostanti. Proseguendo la salita, giungiamo finalmente sulla piazza del paese, abituale luogo di incontro e sede delle adunanze politiche popolari: sul lato sinistro spiccano i resti della Chiesa Matrice, con la sua grande parete inclinata ed un alto brandello di muro sopravvissuto al tempo. Percorrendo il crinale in questa direzione, tra due file di case, giungiamo ad una piccola costruzione chiamata Grotta dei Regnanti, caratteristica per le leggende tramandate dagli anziani, con la copertura a volta in parte crollata. Svoltando a destra della piazza, saliamo invece sul punto più elevato dell’abitato, dove svettano la Chiesa di S. Caterina, rimasta quasi intatta, con l’ingresso rivolto a monte verso levante, e la grande Torre di avvistamento, che controllava il mare, della quale restano pochi contrafforti” 1.

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In U. NISTICÒ, Suberatum, Davoli Marina 1998. 102

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Uno schema che potrebbe riscontrarsi, nelle grandi linee, in tutti i piccoli e medi borghi calabresi antichi. Una tipologia particolare di castellum è la piccola masseria fortificata posta in genere sopra un poggio, e che comprende parecchie casette contigue attorno ad una villa padronale: un complesso che può chiudersi al tramonto e tenere fuori gli indesiderati. Segnaliamo il Felluso a Davoli Marina; la Torre Ancinala1 a Satriano; la torre Finibus terrae a Montepaone; il Cece a Montauro; il cosiddetto Casino Pepe o Lucifero a Stalettì; la Torre S. Fili a Stignano; e quel vero fortino che è la Moschetta tra Locri e Gerace. Anche i cenobi dei monaci “basiliani” erano posti in genere alla vista uno dell’altro, e in qualche modo erano edifici inaccessibili dall’esterno. Un ottimo esempio di convento fortificato è Santa Maria della Pietà oggi in agro di Petrizzi, un tempo di Soverato. Fondato nel 1510, sorge probabilmente sopra un edificio medioevale se non bizantino, ed è saldamente protetto da due forti torrioni, e tale da poter essere preso solo con un vero assalto2. La Certosa stessa di Serra è cinta da mura e torrioni. Dopo la riconquista di Niceforo Foca, che si estende ai principati longobardi, il territorio italiano dell’Impero viene presidiato da soldati di mestiere, ordinati in turmai suddivise in drungoi, che si appoggiano, come è naturale, al sistema dei castra. Quanti di noi discendono, in parte3, da soldati imperiali inviati a fondare colonie sopra i nostri colli? E se è così, da dove venivano questi nostri remoti bellicosi antenati, da quale provincia del vastissimo Impero? Dall’Anatolia? Dall’Armenia? Dalla Nota nel XVI sec. col nome greco di Mesolare. Cfr. D. PISANI, La Pietà di Antonello Gagini, Soveria Mannelli, 1995. 3 Tutti noi discendiamo da qualcuno “in parte”, e sia detto a fugare sia acidi commenti sia vanaglorie inutili. Abbiamo 2 genitori, 4 nonni, 8 bisnonni, 16 trisnonni, 32 quadrisnonni… e circa 1.000.000.000 (sì, un miliardo!) di avi a testa nel X secolo d. C. 103 1

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Cappadocia? Dalla Siria? Dalla Grecia propria? Dalle isole? Da Cipro? Da Creta? Dalla Macedonia? Dai domini imperiali di Puglia, Basilicata, dalla stessa Calabria? O erano mercenari o prigionieri dei molti confini in Russia, nel Caucaso, in Persia, in Mesopotamia, nella Campania latina e longobarda? Le moderne analisi del DNA potrebbero soddisfare, chi l’avesse, una tale curiosità, e qualche Università potrebbe anche prendersene la briga. Empiricamente, si faccia un poco di fisiognomica dei volti dei Calabresi, e li si confronti con quelli delle molte stirpi del Mediterraneo. Un solo esempio: certi visi così palesemente iranici di nostri conterranei dal cognome Corasaniti non appartengono a discendenti di soldati o prigionieri o esuli del ChoraSan o almeno di Charsianiti anatolici? Ma questo gioco dei cognomi non è “scientifico”, e sono costretto a non proseguire, pago di aver insinuato qualche dubbio. È noto che Gerhard Rohlfs1, fedele alla sua teoria della continuità fra greco classico e greco di Calabria, nega che si sia mai verificata un’immigrazione di massa dall’Oriente bizantino in Italia; in particolare confutando quella Cronaca di Momemvasìa secondo cui tutta la popolazione del Peloponneso sarebbe emigrata in Calabria per sfuggire all’invasione slava. Non si può però non immaginare, accanto a quella di monaci ed ecclesiastici, la presenza di funzionari e militari, e in particolare di quei contadini-soldati su cui tanto faceva affidamento la dinastia macedone, e che in parte con loro Flagizio abbia ripopolato i colli e i nuovi paesi fortificati. Sappiamo che si trovano Armeni in molte aree dell’Italia bizantina, e che si ipotizza armeno persino quel Melo di Bari che si mise a capo dei Longobardi e dei Latini contro l’Impero. Cognomi come Armeno, Armeni o Armenia si trovano oggi ad Amantea, Catanzaro, Reggio C., Siderno, Tropea, in maggior numero in Ardore, Bovalino, Gerace; dovrebbero essere 1

G. ROHLFS, Scavi linguistici in Magna Grecia, Galatina, 1974. 104

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nomi cognomi armeni anche Melia e Gregorio. Diffusissimo è il cognome Greco1. Non mancano in Calabria cognomi di età greca che fanno pensare a gradi militari cariche e civili come Arconte2, Armarà3, Cantorato4, Catapano, Comito5, Critello6; Drungadi7, Fragomeno8, Logoteta9, Manglaviti10, Mirarchi11, Paravati, Spasari o Spatari12, Singlitico13, Straticò14, Stratoti15 Trimarchi16. Molti altri sono in Calabria i cognomi di origine greca, ma si richiamano, ad onor del vero, ad attività e condizioni pacifiche e modeste. Non si può non dire dei santi orientali venerati in Calabria, alcuni dei quali guerrieri e militari: S. Caterina17; S. Sostene, soldato martire; S. Teodoro, patrono dell’esercito imperiale e patrono di Satriano; S. Agazio “centurione e martire”, di Squillace e della diocesi, e, significativamente, di Guardavalle; S. Giorgio patrono di Reggio; S. Gregorio Taumaturgo, di Stalettì; S. Andrea, del Comune omonimo; S. Pantaleone, di Montauro; S. Nicola, di molti luoghi. Frequente è il titolo della Santissima Trinità e di Che però potrebbe essere più recente e significare Albanese. Arkhon, magistrato. 3 Amiràs, “ammiraglio”; ma l’origine è araba. 4 Contoratos, armato di asta. 5 Comes, conte, grado militare bizantino dal latino comes. 6 Kritès, giudice. 7 Drungarios, comandante di un drungos. 8 [pe]fragmenos, corazzato. 9 Logothetes, amministratore. 10 Manclabites, guardia del corpo. 11 Merarkhes, capo di un reparto. 12 Spatharios, spadifero: è un titolo onorifico. 13 Syncleticòs, consigliere. 14 Strategòs, generale. 15 Stratiotes, soldato. 16 Turmarches, comandante di un reparto di cavalleria. 17 Le chiese calabresi di tal nome sono generalmente dedicate a santa Caterina d’Alessandria, non alla più moderna santa Caterina da Siena, la patrona d’Italia. 105 1

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Santa Sofia, tipicamente bizantini. Viene a proposito qui ricordare la Madonna venerata spesso con le insegne di basilissa1, come il bell’altorilevo della Roccelletta; e le icone dette Greca, ad Isola, o Acheropita, a Rossano. Ricordiamo ancora che S. Foca, questo nome così prossimo al nostro assunto, è patrono di Francavilla Angitola; e un borgo di Focà è frazione di Caulonia. Un paese di S. Foca è anche nella Calabria antica, il Salento. Molti di questi culti, e le stesse immagini, sono spesso avvolte in un’aura di prodigio che si richiama ad arrivi miracolosi dall’Oriente, come per i santi Agazio e Gregorio Taumaturgo2, o a ritrovamenti in boschi e caverne come per le immagini mariane di Schiavonea o di Conflenti e varie altre. È verosimile che i soldati e i coloni abbiano portato con sé anche le proprie tradizioni religiose. Secondo la tradizione, la creazione del sistema fortificato obbedisce ad una definita ideologia, come abbiamo letto nel Gariano: “[Decisero di fondare la città] spinti da una orazione, fatta da Cataro, il quale, detto loro di levarsi dal pensiero d’imitare quelli, che per paura e viltà di animo se n’erano fuggiti nelle montagne per stare più sicuri dai nemici, poiché i popoli della Magna Grecia erano sempre usciti vittoriosi in tutto le imprese fatte dai barbari e dalla imperial corona, e che si facesse una nuova Città, in luogo forte, ove si potesse stare incontro ai nemici, come conviene a soldati coraggiosi, e non ai vili, che per paura nelle montagne se ne sono fuggiti…”. La fondazione delle fortezze e dei kavstra è dunque intesa come un atto di virile volontà, esplicitamente contrapposto alla cieca fuga delle precedenti generazioni ancora impreparate alla guerra, e flaccidi di una pace che durava da undici secoli.

Basìlissa, “imperatrice”. Le urne di questi santi e dei santi Bartolomeo, Puppiano e Luciano mossero miracolosamente dal Ponto, e per mare giunsero a Lipari, Milazzo, Messina, Stalettì e Squillace. 106

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Difendersi e attaccare, giovarsi delle posizioni strategiche sì, ma non neghittosamente, bensì secondo criteri marziali volti non solo a dissuadere passivamente il predone per mezzo di mura e posizione ardua, ma a respingerlo con le armi in pugno, romanamente combattendo pro aris et focis, contro un barbaro che è nemico della religione cristiana come della patria; e, al momento opportuno, contrattaccare e attaccare. Abbiamo letto nelle Cronache che “i Calabresi sconfissero” ripetutamente il nemico. Troviamo nella Vita di San Nilo che il pio eremita venne un giorno assalito da una banda di predoni arabi. Ma quando gli si avvicinarono, scesero da cavallo e si inginocchiarono a baciargli il saio: erano dei giovani cavalieri calabresi che si servivano di questo espediente per ingannare i pirati e farne strage. Un episodio fra i tanti che mostrano come sia insostenibile l’immagine pietistica1 che vuole i nostri avi lacrimanti “vittime” inermi dei Saraceni, come poi dei Turchi, e di nulla capaci se non di scappare di fronte a loro. Una immagine troppo ripetuta, e in troppo evidente contrasto con quanto la storia, e la cronaca anche dei giorni nostri ci dicono dei costumi dei Calabresi, che di pacifico hanno ben poco, e di inoffensive vittime di chicchessia ancor meno! Piuttosto che pensare a poveri fuggiaschi in preda al terrore, un calabrese trova più facile immaginare, e soprattutto se ne compiace, i suoi avi di quei tempi partire dal paese prima dell’alba con attrezzi ed armi per raggiungere i campi da lavorare, anzi in schiera ordinata ed assetto di marcia, in testa un capo riconosciuto, un “arconte” del villaggio, come leggiamo che fu il padre di S. Giovanni Terestì. Un costume che durò a lungo, questo di portare armi dovunque si andasse. Dalla Sila trasse Roberto Guiscardo quei Il luogo comune è intanto una moda politically correct, poi e soprattutto una reazione freudiana di intellettuali, giornalisti e professori rigorosamente militesenti! 107

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soldati “piccoli di statura e neri di pelle” che a Civitate, penetrando coraggiosamente sotto le lance e gli scudi, fecero scempio degli altissimi e corazzati Svevi mercenari di Leone IX. Nutrite schiere calabresi seguirono Ruggero I alla conquista della Sicilia: alla battaglia del Cerami ventimila Saraceni vennero battuti da solo centoquaranta Normanni, accompagnati, è evidente, da ben più numerose schiere di Calabresi. Altri salirono sulle navi vittoriose di Margaritone, altri di Ruggero di Lauria, quando la Calabria ghibellina si schierò con il Vespro, e pagò per secoli, forse sta ancora pagando, la sua fedeltà all’aquila imperiale di Federico II e Manfredi. Nelle guerre d’Italia ebbero fama i capitani di ventura Troilo da Rossano e Fabrizio Maramaldo, quest’ultimo troppo ingiustamente calunniato1. Marinai delle nostre coste equipaggiarono le navi del Regno e quelle spagnole che assieme a quelle veneziane batterono la flotta ottomana a Lepanto nel 1571, cui presero parte vascelli armati da città calabresi: dove però non vogliamo dimenticare che militava nelle file del Sultano il celebre Ulugh Alì, o Dionigi di Bini dalle Castella o da Cutro, schiavo divenuto re di Tunisi ed Algeri, sicuramente il nostro conterraneo che compì la carriera militare e politica più luminosa della nostra storia2! Le nostre città presero le armi con sacrificio e successo per difendersi dai Turchi nei secoli XVI e XVII, e gli infedeli poterono a volte saccheggiare, mai insediarsi da conquistatori. I reggimenti spagnoli del XVII si alimentarono spesso anche di Calabresi, e di qualcuno c’è rimasto il nome, e un giorno ne parleremo. Nel 1799 la Calabria rispose a tutt’uomo all’appello di Fabrizio Ruffo, e l’Armata Cristiana e Reale della Santa Fede liberò il Regno di Semplicemente, non fu peggiore né migliore dei suoi contemporanei, compreso quel Ferrucci che a Volterra impiccò il parlamentare mandatogli a chiedere la resa. 2 Gli contendono il primato Cassiodoro e Cicco Simonetta; lo otterrebbe, se nacque a Mileto, Ruggero II. 108 1

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Napoli dai Francese atei e giacobini; e tra il 1806 e il 1815 furono ancora le Calabrie a battersi fieramente e spesso vittoriosamente contro i sedicenti re Giuseppe Buonaparte e Gioacchino Murat. Ma al fianco di questi troviamo valorosi soldati come Florestano Pepe e i generali Ambrosio e Arcovito. Sebbene le osservazioni che qui seguono non possano pretendere valore scientifico - ma la storia non è scienza da alambicchi e da formule - tuttavia non rinunciamo a svolgerle, guardando a certi caratteri tipicamente calabresi1, e molto diversi da quelli del resto del Meridione, che ci piace pensare richiamino una qualche antica tradizione guerriera e militare: - rigide, riconosciute e rispettate gerarchie di stato, di sesso e di età; mai fondate su di un qualche potere economico, ma su un complesso di fattori che chiameremmo prestigio, reputazione, rispetto, autorevolezza: in un antico nostro paese verrebbero al primo posto i nobili di sangue, poi i “magnifici” delle professioni liberali, poi i contadini proprietari o massari, poi gli artigiani, infine il popolo basso, mentre il denaro è fatto oggetto di disprezzo, e comunque non è mai di per sé nobilitante. La pensava così anche il grande Niceforo II Foca! - stretti legami naturali ereditari di parentele, comparaggi, scrupolosamente e sacralmente mantenuti; e, in particolare, il legame di vicinato, che ha spesso una storia secolare di rapporti tra famiglie della stessa ruga; - costumi maschi, spicci, sovente rudi fino a sembrare rozzi. La rusticità di certi modi, che fa arricciare il naso alle persone bene educate, è molto spesso in Calabria, a ben vedere, una consapevole ostentazione di forza, una versione popolare della

Ci riferiamo alla Calabria tradizionale. Quasi tutto quello che si leggerà in queste righe è oggi scomparso, in una terra che ha subito una modernizzazione artificiosa che le ha tolto i suoi vizi e le sue virtù senza dare nulla in cambio. 109

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castiglionesca “sprezzatura”, ed era assai diffusa anche tra i nobili di mentalità più tradizionale. Più esattamente, un comportamento fine e gentile viene ammesso solo tra gli ecclesiastici (per i quali però non è affatto un obbligo), e tollerato, ma con malcelato non so quale compatimento, nel ceto borghese. Una siffatta mentalità coinvolge anche le donne, che evitano di solito eccessi di delicatezza nei confronti dei figli e del marito; e che nelle scelte amorose, e soprattutto matrimoniali, guardano all’uomo forte e rude piuttosto che a quello mite e delicato, ritenendo questo incapace di reggere e difendere una famiglia. - senso anche esasperato dell’onore, e dovere (non diritto!) della vendetta, intesa non tanto come soddisfazione dell’ira, quanto come riequilibrio di una gerarchia e di una reputazione messe in discussione dall’offesa: infatti chi non si vendicasse ammetterebbe una propria inferiorità e debolezza, esponendosi così ad altre offese ed umiliazioni; - laconicità di eloquio e seriosità di modi fino a sembrare, ad un superficiale osservatore, tristi e scostanti; disprezzo degli atteggiamenti effemminati, della ipersensibilità psicologica e dello scarso autocontrollo; e che si estende fino alla scarsa libertà di esplicitazione dei sentimenti; - tendenza, fin da giovanissimi, a mostrare assennatezza e maturità per guadagnare considerazione sociale agli occhi degli anziani e delle donne; - separazione tra i due sessi, e abitudine degli uomini al convito maschile dei coetanei; - né saremmo esaurienti (e nemmeno sinceri), se scordassimo gli aspetti meno nobili di queste millenarie abitudini, cioè la tracotanza e la facile violenza, non esclusa quella organizzata e delinquenziale. Si vuole che la parola famigerata ‘ndrangheta significhi in origine “atteggiamento di andreia1, 1

Andreia, pronunzia bizantina andrìa. 110

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valore guerriero?”, una sorta di versione greca della omertà1, diritto e dovere dell’uomo di farsi giustizia. O potrebbe avere a che fare con il droungos, reparto bizantino. È noto comunque che la vecchia organizzazione segreta obbediva ad una disciplina ed aveva gerarchie, e stili di vita che ricordavano molto da vicino quelli di un esercito. Funzionò, il sistema difensivo di Niceforo Foca? A questa domanda risponde a pieno la storia e degli assalti saraceni dei secoli X ed XI, sanguinosi ma inefficaci; e di quelli turchi dei secoli XVI e XVII, che ottennero qualche successo locale, ma non lo scopo di stabile conquista che si prefiggevano. Le grandi fortezze aragonesi e spagnole e la difesa dei borghi collinari furono sufficienti a ridurre la minaccia ottomana da guerra a pirateria. È un quesito storico rilevante chiedersi perché il sistema dei kavstra, efficace contro i Saraceni e che tale si rivelerà contro i Turchi, non resse ai Normanni. La prima risposta è di una sconcertante semplicità: i Normanni non venivano dal mare, ma proprio da quell’interno che i borghi difendevano, e da cui non si aspettavano minacce. È vero che gli audaci ed astuti avventurieri mettevano timore con la loro baldanza e ferocia; ma il catapano Basilio Bojannes li aveva pure battuti in campo aperto nel 1020, ed anche Reggio e Gerace resistettero al loro assedio. Ricordiamo però, solo in estrema sintesi e rinviando l’analisi a quando l’arte lunga e la vita breve ce lo consentiranno, che l’unificazione, e, per quanto ci riguarda, la latinizzazione del Meridione hanno una causa politica prima che una militare. È che il dominio greco volge al declino per la natura delle cose, accelerato proprio dalla riconquista del Meridione dell’887, che, abbattendo le frontiere, consentiva ai Latini di penetrare nelle Dal latino homo, che nel linguaggio feudale indica il vassallo armato di un signore. 111

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terre di più antica ellenizzazione e dove i grecofoni erano ben pochi. Il governo greco comincia ad essere sentito come straniero; tanto più che si acuiscono i contrasti tra la Chiesa romana e quella costantinopolitana, che nel 1054 proclamerà il definitivo suo scisma: le coscienze ne vengono lacerate; e già San Nilo da Rossano, abbandonata la Calabria, era passato a Roma, fondando quell’abbazia di Grottaferrata cui si deve la conservazione del rito greco cattolico in Italia. Infine tutti i Meridionali – Latini, Longobardi, Greci – accettarono il dominio degli Altavilla perché assicurava la pace interna e la sicurezza contro ogni pericolo esterno. Gli irriducibili emigrarono a Costantinopoli per non vivere sotto “i lupi eretici”; e qualcuno tentò la via della rivolta armata, come quel capitano Sergio sotto Capua, forse calabrese, la cui vicenda, diede origine a Serra San Bruno. Ma la grecità si acconciò a convivere sempre più stentatamente con una latinità dominante, ed anche la lingua si perse, lasciando solo, a suo ricordo, parole disperse in una lingua altrui.

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ANGELO GAMBELLA Rainulfo di Alife. Uomo di guerra normanno

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La figura che si delinea dalle cronache è coerente e viva. Rainulfo era soprattutto un uomo di guerra e, fra tutte le doti che gli sono da riconoscere, s’impongono l’abilità militare ed il coraggio grandissimo. In lui emerge la straordinaria capacità di espressione, tanto da saper parlare ai cuori dei principi come della gente comune e dimostrava di sostenere i reali interessi dei popoli: in lui la gente del Sud vedeva il difensore delle libertà comunali dalle ingerenze del potere centrale siculo-normanno. Nato, forse, nel 1093, dal conte Roberto1, e da Gaitelgrima, nel 1108 aveva già ricevuto l’investitura comitale. Si è da sempre

Questa nota aggiorna ed amplia la biografia contenuta in A. GAMBELLA, Potere e Popolo nello stato normanno di Alife, Napoli, 2000, e successivamente in A. GAMBELLA, Medioevo Alifano, Roma, 2007, cui rimando per una più ampia bibliografia. Sul personaggio v. anche G. BENEDUCE, Un difensore della Chiesa nel secolo XII. Rainulfo III Quarrel, Napoli, 1938; D. B. MARROCCO, Ruggero II e Rainulfo di Alife, Piedimonte d’Alife, 1951. Il nome del conte appare, sulle cronache italiane, nelle forme Raynulfus, Raynulphus, Raynulfo, Rannulfus, Rannulfi, Raydulfo ecc., in Germania Rehinaldo, in Francia Rannulfum. Sulle pergamene del padre è detto Rannulfi, i suoi notai scrivono Raynulfus, ma egli si sottoscrive anche Rainulfi. Alla voce contemporanea Rainolfo preferiamo, per la tradizione alifana, la dizione Rainulfo. 1 Figli del conte Roberto sono Rainulfo, Riccardo di Ravecanina, Gaitelgrima moglie di Guglielmo duca di Puglia, Bansolino (figlio naturale) e forse Alessandro. Il conte Roberto possedeva feudi anche in Valle di Maddaloni, Aversa e quasi certamente in Casertavecchia: G. TESCIONE, Roberto conte normanno di Alife, Caiazzo e Sant’Agata dei 113 *

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ritenuto che Rainulfo dovesse dimostrare qualità eccezionali per un fanciullo, tanto da ricevere l’investitura quando non aveva i requisiti minimi di età neppure per cingere il cingulum militiae ed essere fatto miles, cavaliere1. Il giovane Rainulfo sottoscrive alcuni diplomi del padre a cui è associato nella contea fino alla morte del genitore, avvenuta, nel 1115 o 1116, forse il 12 marzo2. Il conte Rainulfo sembra rimanere stabilmente in Alife, la sua («suae potestatis»3) città e castello. I possessi di Rainulfo fino Goti, estratto da Archivio Storico di Terra di Lavoro, Caserta, 1975, pp. 49-50. 1 La discordanza fra le date inserite nel diplomatico superstite non consente una datazione univoca dell’inizio del principato né permette di risalire con sicurezza all’anno di nascita. Dalle charte del padre Roberto, gli anni di comitato di Rainulfo sono: primo nel maggio 1108 «primo anno comitatus Rannulfi comitis filii eius bonae indolis pueri» (G. TESCIONE cit., pp. 49-50); secondo il 30 agosto 1109 «IJ anno com(itatus) Rannulfi filii eius bone indolis pueri» (ora in Le più antiche carte del capitolo di Benevento, Roma, 2002, n. 54, pp. 165-167); quarto nel luglio 1111 «IIII anno comitatus filii eius bone indolis Rannulfi comitis» (G. TESCIONE, cit. pp. 51-52). Da due diplomi di Caiazzo del 13 maggio 1124 e del 24 marzo 1129, risultano rispettivamente il 18° «octavo decimo anno Comitatus ejusdem gloriosissimi Comitis» (N. GIORGIO, Notizie storiche della vita martirio e sepoltura del glorioso S. Sisto..., Napoli, 1721 pp. 72-74) e il 23° anno di comitato «vigesimo tertio decimo anno Comitatus ejusdem gloriosissimi Comitis» (Originale all’ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, cm 44x24, foto in A. GAMBELLA, Medioevo Alifano cit.; N. GIORGIO, cit. pp. 74-77). 2 Necrologio cassinese (cod. 47), ed. a cura di M. INGUANEZ, Montecassino, 1941, per «Robbertus comes» è riportata la data del 12 marzo di un anno imprecisato, che deve essere il 1115 o il 1116. Gaitelgrima è ancora vivente e ricordata dal figlio negli anni 1117 e 1119 in donazioni fatte a Caiazzo proprio per «consilio et ortatu» di «Gaitelgryma Comitissa nostra piissima genitricis» e «Domina Gaitelgryma nostra dilectissima genitricis» N. GIORGIO, cit. pp. 65 e 68. 3 FALCONE DI BENEVENTO (Chronicon Beneventanum. Città e feudi nell’Italia dei normanni, a cura di E. D’ANGELO, Impruneta, 1998, p. 114

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al 1126 consistono in almeno 5 città “elevate della dignità comitale” quali Alife, Caiazzo, Telese, Sant’Agata de’Goti e Casertavecchia, e castrum maggiori come Airola, Tocco Caudio, Montesarchio, Maddaloni ed altri centri tenuti in feudo dai suoi baroni. Rainulfo1 – sull’esempio del padre – iniziò il proprio governo coltivando rapporti privilegiati col pontefice Pasquale II 206) (a. 1137). Contrariamente a quanto affermato da D. MARROCCO (Note storiche sulla contea di Alife, in Annuario ASMV 1975, pp. 122-25) ripreso da altri, assolutamente Rainulfo non fu conte di Aversa – basta a dimostrarlo il Codice diplomatico normanno di Aversa a cura di A. GALLO, Napoli, 1926 – pur ricevendo, di fatto, un riconoscimento feudale nel 1135, né feudatario di Morcone, né possedeva, in origine, feudi in Puglia. Quanto alla complessa questione del possesso di Avellino rimando alla nota archivistica e bibliografica in A. GAMBELLA, Medioevo Alifano cit. 1 Le fonti per una biografia di Rainulfo sono soprattutto FALCONE DI BENEVENTO cit. per un ventennio dal 1119, ed ALESSANDRO DI TELESE dal 1127 fino al 1135-6 (letto in Alexandri Telesini abbatis ystoria Rogerii II regis, a cura di L. DE NAVA, commento di D. CLEMENTI, Fonti per la storia d’Italia 112, Roma, 1991). In Falcone vediamo la maturazione di Rainulfo dal giovane quasi inconcludente di una prima campagna militare in terra d’Ariano, all’adulto ponderato ed avveduto, “padre amorevole di tutti” ed intrepido condottiero. Falcone ritraeva favorevolmente Rainulfo tessendone le lodi sul piano della capacità di governo e della strategia militare. Al contrario Alessandro svolgeva propaganda politica a favore del grande avversario, il re Ruggero, di cui era esageratamente partigiano, ma per far questo aveva bisogno di una sistematica demolizione del potere normanno pre-esistente. Come è ben evidente dal confronto con Falcone, Alessandro evitava di fornire particolari e di spiegare vicende di cui non gli conveniva parlare; se di taluni episodi favorevoli al conte di Alife taceva, altre volte era costretto a parlarne, ma non mancava occasione per condannarlo. Così Rainulfo alcune volte è definito “acerrimo” e “strenuo”, ma poi “è mal consigliato”, “reagisce al suo solito”, “sbaglia”. L’abate di S. Salvatore di Telese, pur vivendo nella terra di Rainulfo si limita a brevi interventi sulle città di Alife, Caiazzo, Sant’Agata de’Goti, Capua, sul suo monastero ed è privo di riferimenti alla città telesina. 115

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(m. 1118), e con papa Gelasio II (m. 1119) che incontrò sicuramente a Gaeta e Capua. Già col padre aveva partecipato a spedizioni militari in terra di S. Pietro (1108 e 1111) per difendere i papi dalla minacciosa presenza degli imperatori germanici. Nel 1120 incontrò a Benevento papa Callisto II, gli promise appoggio, gli fece atto di omaggio e prestò giuramento (hominium e fidelitas), cosa che pochi anni prima spettava esclusivamente al principe di Capua1. La presenza del suo nome comes Rannulfi de Airola al terzo posto di una ristretta lista di signori provenienti da tutto il Sud, subito dopo il duca di Puglia e il “principe della città di Capua”, ci mostra la sua indipendenza, e quindi delle sue terre dal principato, come pure altri avvenimenti dimostrano che per le sue città esisteva una limitata dipendenza militare da Capua2. Le Liber Pontificalis ed. DUCHESNE, Parigi, 1892, II, pp. 322-323; consultato anche nell’ed. Liber Pontificalis, a cura di C. VOGEL, 1956, p. 167, e v. p. 169 per il successivo intervento di Rainulfo nel basso Lazio. Le fonti documentarie ci confermano che i conti Roberto «Alifanorum atque multorum aliorum Comes», e Rainulfo non dovevano il potere ad alcuno e governavano «divina favente clementia» come sovrani assoluti, pure insigniti del predicato imperiale di «Serenissimae Potestatis». Documenti editi in A. GAMBELLA, Medioevo Alifano cit. nn. III e IV. 2 Anni addietro, il padre Roberto, primo vassallo del principato, fu spesso impegnato a corte in Aversa e Capua accanto al giovane principe Riccardo II, quale «magister et consobrinus»; l’accresciuta importanza produsse pian piano il distacco della grande contea dal principato. Le testimonianze narrative in tal senso sono numerose, ad iniziare da Falcone di Benevento, che dimostra notevole attenzione in quel che chiama «Aliphanos fines», «finibus Alifanis», e sin dal 1127 fa una netta distinzione fra il «principatus» del signore capuano e il «comitatus» del signore alifano-caiatino. Alessandro di Telese vede nelle persone del principe di Capua (consanguineo di Rainulfo), del conte Rainulfo di Alife, del capitano della milizia (duca di Napoli) Sergio, del duca Guglielmo di Puglia (con sede a Salerno – marito della sorella di Rainulfo) e del conte Ruggero di Sicilia (fratello della consorte), i cinque potentati dell’Italia Meridionale. Il dominio di Rainulfo è ben distinto dal principato capuano anche per il cronista anonimo di Montecassino: «Robertus 116 1

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Nello schema è tracciato, secondo le evidenze documentarie, l’albero genealogico della casa dei conti normanni di Alife; si noti il grado di parentela con la famiglia dei principi normanni di Capua (sulla destra).

princeps abiit Pisas et rex Rogerius venit super principatum et comitem Raynonem. Principatum cepit, comiti dimisit terram, et reddidit ei comitissam» (ANONIMO CASSINESE, in G. DEL RE, Cronisti e scrittori sincroni napoletani, I, 1848, ad an. 1133, gli avvenimenti sono del 1134). 117

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A Capua, nel settembre 1126, Rainulfo presenziò ad un atto del principe Giordano II; questi (nella formulazione del notaio) per riferirsi a lui, Raynulfi Comitis Calatie, usò l’espressione nostri consanguinei, mentre rivolto ad un barone usò il termine nostrorum baronum1. Rainulfo sposò Matilde, figlia del gran conte di Sicilia Ruggero I (morto nel 1101) e di Adelaide del Vasto. Fu dunque Ruggero II conte di Sicilia (nato nel 1095), il futuro re, a concedere la sorella in sposa a Rainulfo. Dal matrimonio con Matilde nacque Roberto, che è segnalato in tenera età nel 1131 e fanciullo, ma già pratico dell’arte militare, nel 1135. Sua sorella Gaitelgrima aveva sposato il duca di Puglia, Guglielmo, altro discendente di Roberto il Guiscardo, nel 1114: «Willelmus Dux accepit uxorem nomine Gaitelgrimam filiam Comitis Robberti de Airola»2. Abbiamo asserito che Rainulfo è stato essenzialmente un guerriero. Detto dal monaco di S. Maria di Ferraria «comes Raynulphus Al(i)fie et A(i)reole»3 già nel biennio 1119-20, lo troviamo in conflitto col conte di Ariano, tradizionale avversario dei conti di Alife, per i comuni interessi su Benevento e, stavolta, anche di Avellino. Rainulfo si presentò in assetto di guerra, con la sua veloce cavalleria di 400 unità, nello stato di Ariano. Su di un colle nel beneventano gli uomini costruirono una fortificazione, apparentemente più efficiente della tipica motte normanna: “essi

1 J. MAZZOLENI, Le pergamene di Capua, Napoli, 1957, II, n. 21, pp. 4758. Nell’intolazione si dovrebbe riconoscere Calatus, ovvero Casertavecchia, dato che ancora nel sec. XII i vescovi casertani conservano il titolo di Episcopus Calatine Ecclesie (cfr. DIOCESI DI CASERTA, Cronologia dei vescovi casertani, Caserta, 1984), e non Caiazzo (Caiatia). 2 ROMUALDO DI SALERNO, Chronicon, ed. C. A. GARUFI, in RIS, VII, I, p. 207. 3 A. GAUDENZI, S. Maria de Ferraria Chronica e Ryccardi de Sancto Germano Chronica, Napoli, 1888, p. 17 (a. 1119). 118

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salirono sopra un monte e si misero a costruire formidabili fortificazioni per il castello, lo circondarono di vallo e di argine, e lo rinforzarono da ogni parte con macchine belliche di legno, e quindi con grande destrezza attaccarono continuamente il castello di Tufo”1. Con una duplice spedizione costrinse Giordano di Ariano ad avanzare richiesta di pace per non subire ulteriori danni e perdite ed impose – dove il padre era riuscito solo parzialmente – la sua preponderanza su Benevento. Agì da solo è a lui che i beneventani si rivolsero per un accordo di tregua2. Mentre il padre era stato un benefattore di chiese e monasteri, almeno apparentemente il figlio era l’esatto contrario. Alla fine del 1120, per contrasti con l’abate cassinese, concesse il monastero di S. Maria in Cingla, in territorio alifano, con i suoi sconfinati beni alla badessa Alferada di S. Maria in Capua. Iniziò così la disputa con papa Callisto II che inviò al conte almeno tre lettere – passando dalla parziale comprensione delle richieste alla minaccia di scomunica – nel suo palazzo in Alife fra il 1121 e il 1122. La prima epistola è indirizzata al “diletto figlio, illustre conte Rainulfo” ed inizia con la benedizione apostolica; la seconda è inviata al “figlio e fedele nostro conte Rainulfo”. Nel testo della terza il vescovo di Roma al “conte Rainone, uomo nobile e potente” scrive, pressappoco in questi termini: “poiché sei fedele nostro e dello stato di S. Pietro, noi amorevolmente ti amiamo, e fra tutti gli strenui ed illustri uomini abbracciamo la tua persona

FALCONE DI BENEVENTO cit. (a. 1120). Il monaco dell’abbazia della Ferraria, non distante da Alife, utilizza ampiamente la cronaca di FALCONE DI BENEVENTO. Nella nuova ed. della cronaca beneventana curata da E. D’Angelo cit. si legge comitis Rainulphi senza toponimi (p. 42). Restano tutti i dubbi sulla presenza del toponimo de Airole nell’ed. G. DEL RE, cit., I, 1848; non necessariamente frutto delle “contaminazioni” del Pratilli. 119 1

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con particolare affetto” ma segue la richiesta perentoria di restituire il monastero a Montecassino1. La contesa culminò con la restituzione di Cingla, nel settembre 1122, attraverso solenne atto redatto nella stessa località da Giovanni notaio, nel quale si ricostruisce la storia della lite dal punto di vista alifano. L’intitolazione del conte è «Rainulfus Dei gratia Comes filius bone memorie Roberti comitis». Il sigillo cereo del privilegio cassinese è tondo, attorno ha tracce leggibili dell’iscrizione Rainulfus Comes, al centro la riproduzione di una creatura mitologica, un cavallo alato2. Rainulfo, che doveva rimangiarsi una parola data, ne usciva paradossalmente elevato nel prestigio. Nello stesso anno 1122 convinceva il cognato Guglielmo duca di Puglia a risparmiare la vita allo sconfitto Giordano di Ariano. L’anno successivo si trovava ARCHIVIO DELL’ABBAZIA DI MONTECASSINO copia degli anni 1131-1133, Registrum Petri Diaconi f. 31v, nn. 53-54-55. Ed. in U. ROBERT, Bullaire du pape Calixte II, Paris, 1891, I, pp. 349-50, n. 236; II, p. 51; II, p. 52, n. 307. Cfr. Italia Pontificia, Berlin, VIII, pp. 165-168, nn. 190-200 e pp. 273-74, nn. 3-7. Papa Callisto II chiama Rainulfo «beati Petri et noster fideles», e il conte (v. nota successiva) lo riconosce come «Domino meo Calixto summo pontefici secundo». Il tutto si svolge nell’imminenza del concordato di Worms fra il papa e l’imperatore del 23 settembre 1122. 2 E. GATTOLA, Ad Historiam Abbatiae Cassinensis Accessiones, Venetiis, 1734, II, p. 716. Presenti sull’atto due importanti baroni di Rainulfo, feudatari nell’Alifano e nel Beneventano e pertanto protagonisti del Chronicum Beneventanum di Falcone, sono Ugone filio Arnaldi, che si sottoscrive come Ugone di Castelpoto, e Landolfo Borrello. Si sottoscrivono anche il giudice Giovanni, il procuratore Zoffo Citrulo e, forse per parte di Montecassino, Landolfo di Aquino. La disputa fra S. Maria di Capua e Montecassino era iniziata sul finire del secolo precedente e riprendeva i contrasti fra i conti longobardi di Alife e gli abati di Montecassino dei secoli X e XI. Al conte, come già a suo padre, furono mostrati quali autentici, documenti certamente artefatti alla fine dell’XI secolo, per legare Cingla a Montecassino sin dalla fondazione del 743, come ha dimostrato Zielinski (Codice diplomatico longobardo, a cura di H. ZIELINSKI, Roma, 2003, IV, 2, introd. pp. 141-157). 120 1

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a Ceccano, a concordare la pace fra i conti di Ceccano e lo stesso pontefice. Poi si recava a Troia in Puglia, dove è uno dei partecipanti ad un’assemblea presieduta dal vescovo Guglielmo II, di nobile stirpe, amico suo e dei pontefici romani1. Aveva riacquistato immediatamente il favore della Chiesa e vanno ricordate le donazioni al vescovo di Caiazzo, effettuate qualche anno prima (1117 e 1119) e qualche anno più tardi (1134), oltre a quelle al suo cappellano Probo (1124) e a privati come Giovanni figlio di Paldo e Giovanni de Colonis, zio e nipote (1129). Resta tuttora controversa una donazione al monastero di Montevergine2. Nel luglio 1127 morì, senza successori diretti, Guglielmo duca di Puglia. Rainulfo, cognato del duca, dovette rivendicare, per la vedova sua sorella, il possesso feudale di Avellino e Mercogliano3, com’è certo che iniziò manovre per evitare la successione del vasto ducato nelle mani di una sola persona. Tuttavia, il principale pretendente, il conte Ruggero II di Sicilia, sbarcò prontamente a Salerno ed in poco tempo impose la sua autorità sulla Puglia unificandola alla Calabria.

1 J. M. MARTIN, Les Chartes de Troia (1024-1266), Bari, 1976, n. 46 (novembre 1123), detto sulla fonte «comite Raynulfo de Ayrola». 2 I diplomi di Caiazzo sono stati pubblicati per la prima volta a stampa da N. GIORGIO, cit. pp. 65-79 con la notizia (p. 55) di una donazione effettuata congiutamente al figlio Roberto nel 1135 a favore dell’episcopato di S. Agata de’Goti retto dal vescovo Enrico; per le pergamene superstiti ed. in Le pergamene dell’Archivio Vescovile di Caiazzo, a cura di C. SALVATI ed altri, Caserta-Napoli, 1984, I, n. 7; 13; 16; vol. II, e riedizione in appendice nn. I, II, III dei documenti perduti, tratti dal Giorgio. Per la donazione a Montevergine e due presunti precetti a favore di Montecassino elencati nel “Rotolo V” rimando alla nota archivistica e bibliografica in A. GAMBELLA, Medioevo Alifano cit. 3 Su uno iudicatum securitas del marzo 1148, datato Mercogliano, si fa esplicito riferimento alla situazione di beni «a tempore Gaitelgrima comitixa»; Codice Diplomatico Verginiano a cura di P. M. TROPEANO, vol. III, n. 288. 121

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Il conte di Alife strinse un patto con il cognato, annunciò una limitata sottomissione, ma pretese, ed ottenne, il riconoscimento del possesso feudale dello stato di Ariano. Alessandro di Telese, ricostruisce l’incontro fra Rainulfo e Ruggero sotto forma di dialogo1. La richiesta di Rainulfo era insolita, ma giungeva comunque nel momento opportuno, essendo il giovane Ruggero di Ariano non in condizione di opporsi. Mentre il giovane conte di Ariano, Ruggero, figlio del defunto arcinemico Giordano, si preparava a fornire lo scomodo giuramento di fedeltà a Rainulfo, il più intraprendente Riccardo di Ravecanina, fratello del conte, aveva già preso possesso dei castelli di Avellino e Mercogliano. Di lì a poco intervenne sulla scena papa Onorio II, deciso a combattere “l’usurpatore siculo”, nelle vesti di supremo signore feudale della Puglia. A Capua, il 30 dicembre 1127, Onorio II investì Roberto II del principato capuano e confermò Rainulfo nei suoi possessi. Ci riferisce Falcone di Benevento che al termine di una solenne assemblea, il papa tenne un discorso davanti a migliaia di convenuti. Presero la parola il principe Roberto di Capua ed il conte Rainulfo, che ribadirono, commossi, il giuramento di fedeltà al pontefice e l’inizio della lotta. Presto anche i conti maggiori pugliesi, che pure non riconoscevano l’autorità di Ruggero, si unirono in lega ai campani, sempre in presenza del pontefice, a Troia, città che aveva raggiunto uno stretto legame di collaborazione con Rainulfo. Roberto di Capua e Rainulfo di Alife ordinarono che “ciascuno andasse in aiuto del pontefice” Onorio II; subito, ad alta voce, i banditori («praeconibus tonantibus») annunciarono nel

ALESSANDRO DI TELESE, cit. I, 7 fa parlare Rainulfo in questi termini: “At ille (Comes Ranulphus): «Volo, inquit, quatinus si mei submissione hominii honorem consequeris sic versa vice Rogerii Arianensis Comitis me subditione honores»”. 122

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«principatus orbem et comitatus»1 (principato di Capua e contea di Rainulfo) il richiamo al servizio militare. Una parte consistente della popolazione locale era sottoposta al servizio militare. L’esercito di Rainulfo comprendeva uomini a cavallo (genericamente equites) appartenenti ai reparti di cavalleria pesante (milites) e leggera (servientes) – come il cavaliere in atto di suonare il corno dell’archivolto della cattedrale di Alife – fanti (pedites) e balestrieri (balestrarii) agli ordini del conte. I cavalieri appartenevano alla feudalità normanna, in numero minore erano esponenti dell’antica nobiltà longobarda. Nei primi mesi del 1128, Rainulfo col principe capuano e i beneventani espugnò rapidamente alcuni castelli dell’area beneventana come Apolossa e Torre di Palazzo, in mano a baroni filoruggeriani. Ma la lega, complici le defezioni dei pugliesi e l’incapacità manifesta di Roberto di Capua, si spezzò – se avesse tenuto, avremmo forse avuto una “Pontida” del Sud, cinquant’anni prima di quella – e la crisi culminò con l’investitura papale di Ruggero II a duca di Puglia. Nel 1129 i cittadini di Troia chiesero soccorso al conte di Alife che vi si recò in appoggio, ma dopo contatti fra i rispettivi ambasciatori, Rainulfo, che pure avrebbe preferito proseguire la lotta, e Ruggero fecero pace come se nulla fosse accaduto, poiché ognuno temeva la reazione dell’altro. Nel febbraio 1130, alla morte di Onorio II, in Roma ci fu la duplice elezione di Innocenzo II, subito costretto all’esilio, e di Anacleto II, che s’impose grazie al sostegno dei cardinali del Sud ed al supporto del duca di Puglia. Per ricambiare il sostegno normanno, nel mese di settembre Anacleto costituì il regno di Sicilia: con la bolla Ruggero ebbe il titolo reale e la conferma di Sicilia, Calabria e Puglia, ma anche l’investitura di terre che non possedeva direttamente, quali l’alta signoria feudale di Capua, 1

FALCONE DI BENEVENTO cit. p. 96 (a. 1128). 123

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l’honor di Napoli e la difesa di Benevento. Tecnicamente, com’è stato riconosciuto, per Capua ed Alife fu un colpo di stato costituzionale. Rainulfo non ci appare sorpreso dalla forte legittimazione del cognato. Se si può essere più precisi, il conte era tutt’altro che avvilito: aveva un re per cognato, per giunta potente come nessun pari in Europa. Nel giro di pochi anni Rainulfo aveva guadagnato, con un accordo dietro l’altro, molte terre ed un enorme prestigio: il possesso feudale di castelli in Capitanata; il diritto, per sé o per il fratello, di successione alla sorella in Avellino; e soprattutto diritti feudali sulla grande contea di Ariano in Irpinia. Nella scala gerarchica era appena divenuto il secondo vassallo di un regno, dopo il congiunto Roberto di Capua. Rainulfo aveva un solo punto fermo: la sua indipendenza non poteva essere oggetto di discussione, già da quando, anni prima, ne aveva sposato la sorella, aveva imparato a non fidarsi di Ruggero. E si trattava di una diffidenza reciproca, che prima o poi avrebbe portato allo scontro i due più abili comandanti normanni del dodicesimo secolo. In Alife era intanto in costruzione la nuova cattedrale, quando con l’immancabile principe di Capua, Rainulfo stava a Roma in difesa di Anacleto II. Il conte colse al volo l’occasione per acquisire reliquie di un importante santo della chiesa romana. Ottenne da Anacleto II, i resti di un papa temporaneamente vicino a Pietro, il santo Sisto I, che fece collocare nella basilica inferiore della cattedrale, da lui espressamente voluta1. Alla base della sua edificazione ci sono gli impulsi di rinascita sociale, civile ed artistica ma soprattutto la contrapposizione fra Rainulfo ed il In occasione della traslazione sistina il vescovo Roberto commissionò una Historia ad Alessandro abate del cenobio di San Salvatore di Telese. Su questa fonte perduta v. A. GAMBELLA, La documentazione esistente sulla Historia Allifana di Alessandro di Telese, estratto da Annuario ASMV 98, 1999 ed altri dati in Medioevo Alifano cit. 124

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cognato: il conte dei siculi annetteva la Puglia, il conte degli alifani l’Irpinia e parte della Capitanata; Ruggero divenuto re edificava la cattedrale di Cefalù, Rainulfo rimasto conte gli rispondeva con quella di Alife. Nella primavera del 1131, quando Rainulfo si trovava presso Anacleto II, re Ruggero da Salerno entrò in Terra di Lavoro. Prontamente si registrarono contrasti fra il re e Riccardo di Ravecanina circa lo stanziamento delle truppe siculo-normanne nelle terre dei Drengot1. Il re diceva di voler andare a Roma ma Riccardo, che non era certo uno sciocco, aveva compreso l’inganno: interrogò l’emissario di Ruggero e, col furore proprio della stirpe, gli fece tagliare il naso e strappare gli occhi. Da Alife2, con un’azione repentina, Ruggero aveva fatto muovere Matilde con il piccolo Roberto verso Salerno, dove i due rimasero qualche tempo prima di salpare per la Sicilia. Rainulfo implorò Anacleto II affinché mandasse emissari, ciò che, ad onor del vero, il papa fece. Il conte chiese con insistenza a re Ruggero la restituzione immediata di figlio e moglie e delle città di Avellino e Mercogliano, mentre egli stesso scendeva in Alife portandosi appresso i suoi cavalieri e quelli di un solidale principe Roberto. Ricevendone risposta negativa, quello che prima era stato antagonismo duro, divenne guerra civile. Rainulfo, secondo la testimonianza di Falcone di Benevento, sollevò il «principatum totum capuanum et totius terrae sua auxilium»3, per quella che si annunciava come una guerra d’indipendenza. Rainulfo trascorse un anno intero a rinforzare le fortificazioni e ad istruire i combattenti; Ruggero passò l’estate in Sicilia e tornò sul

Alessandro di Telese, a proposito del carattere di Riccardo, afferma che non riconosceva alcuno al di sopra di se: «neminem inde dominum super se cognoscere, nec cuiquam famulari deberet». 2 ALESSANDRO DI TELESE cit. II, 14: «advenisse de Alifis». 3 FALCONE DI BENEVENTO cit. p. 156 (a. 1132). 125 1

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continente all’inizio dell’anno successivo con un esercito ben organizzato e sicuro del successo. Il 24 luglio 1132 numerosi militi e fanti alifani e della valle del Volturno, presero parte alla battaglia del Sarno, dove si manifestò, in una brillante vittoria, la superiorità militare di Rainulfo. La battaglia del Sarno Le nitide testimonianze di Falcone di Benevento e di Alessandro di Telese, ed una lettera di Enrico vescovo di Sant’Agata de’Goti, ci consentono di ricostruire con dovizia di particolari le fasi della battaglia. Lungo le rive del Sarno presso il castello di Nocera, il conte di Alife ed il principe di Capua, si apprestano ad affrontare in battaglia il re di Sicilia. Lo scontro è preceduto da operazioni preliminari: una compagnia regia di guastatori abbatte un ponte sul fiume nei pressi di Scafati. Gli artigiani e gli altri uomini al seguito di Rainulfo riescono a costruire un ponte di fortuna in modo da consentire a cavalleria e fanteria di schierarsi nella pianura di Nocera. Nell’accampamento Rainulfo invita i suoi a prepararsi all’imminente battaglia; nella ricostruzione del cronista Falcone, ci perviene l’incitamento del conte ai suoi guerrieri1: “un giorno in tutto il mondo si racconterà gloriosamente, come noi, confidando nella giustizia e difendendo il nostro, preferimmo morire di spada, piuttosto di vedere da viventi mani straniere invadere la nostra terra e trasformarne i cittadini in esuli!” Rainulfo comanda 1500 uomini a cavallo, cinquecento in più degli equites di Roberto di Capua. I fanti sono dieci volte i cavalieri. Rainulfo suddivide la cavalleria pesante in cinque gruppi 1

FALCONE DI BENEVENTO cit. p. 122 (a. 1132). 126

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e la pone in prima linea col sostegno della cavalleria leggera e la fanteria, ai quali assegna compiti ausiliari e di rinforzo con l’ordine di agire in caso di sfondamento della cavalleria pesante. L’esercito regio dispone, sembra, di forze analoghe. Ruggero schiera cavalieri normanni, molti saraceni ed alcuni dei principali baroni del regno. Dalle fortificazioni di Nocera si può osservare, in un fazzoletto di terra, una concentrazione di cinquemila cavalli e migliaia di uomini di tutte le etnie. Il conte invia subito 250 cavalieri sotto le mura di Nocera per creare un diversivo nell’assetto regio. Al centro dello schieramento, la cavalleria del principe di Capua accenna all’attacco, ma è il re a comandare la prima carica. Per gli alleati normanni l’impatto è disastroso; il ponte non contiene la disperata ritirata, e un migliaio di uomini che cercano salvezza attraverso il fiume, incuranti delle pesanti armature, vi annegano. Di fronte all’imminente capitolazione, Rainulfo lancia due gruppi in rapida successione sui fianchi delle schiere regie. La terza carica, portata frontalmente alla cavalleria ruggeriana è devastante. Rainulfo getta l’asta, estrae la spada, invita gli uomini a seguirlo nell’affondo. Audace come solo lui sa essere, si lancia all’attacco tenendo il tronco scoperto all’ufficiale del re che gli si presenta agguerrito. Rainulfo lo schiva e abbatte con tale forza da gettare nella disperazione i militi vicini. Questi uomini vedendosi rapidamente sopraffatti dagli armati del conte, cercano la precipitosa fuga nelle retrovie, ma sono gli ultimi istanti della loro vita; l’intervento dei cavalieri più motivati e della fanteria consuma la strage. Il re, attorniato da soli quattro cavalieri, compie una lunga galoppata fino a Salerno. Rainulfo lo insegue, poi desiste. Settecento cavalieri e venti alti feudatari del regno vengono catturati. Il bottino di guerra è enorme1. 1 FALCONE DI BENEVENTO cit. pp. 136-140 (a. 1132); ALESSANDRO DI TELESE cit. II, 30-31; Importante la testimonianza del vescovo di S. Agata dei 127

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Meritano attenzione due monete, una d’argento (1), l’altra in rame (2), emissioni del conte Rainulfo, forse coniate a Capua nelle settimane successive. La prima moneta (n. 1) è un denaro d’argento: vi figurano militi in atto di passare un ponte e un monogramma del tipo croce cristiana. È chiara la rappresentazione dei preliminari della battaglia del Sarno. Con l’emissione del denaro furono probabilmente pagate le truppe e risarcite le famiglie dei caduti. La seconda (n. 2), di dimensioni inferiori, è un follare di rame. Presenta nel dritto un busto di persona con copricapo e nel rovescio monogramma simile al primo. Della “serie commemorativa” (usando, ovviamente, termini moderni) è noto un follare di rame (n. 3) che presenta associati nel dritto Roberto principe di Capua e Rainulfo di AlifeCaiazzo, in tenuta da condottiero. I due tengono la lancia in alto e con l’altra mano sostengono una grossa palma che li copre. Sul rovescio è ritratto un cavallo in corsa voltato all’indietro. I maestri coniatori non poterono essere più espressivi per magnificare la vittoria dei Quarrel Drengot di Alife e Capua, e la disfatta degli Altavilla di Sicilia1. Goti: Epistola Henricus Episcopus S. Agathae in Monumenta Bambergensia, Berolini, 1869, V, n. 259, pp. 442-444. 1 In mancanza di un controllo diretto delle monete – da quanto risulta stanno nella medesima urna che raccoglie le reliquie del santo – ci affidiamo alla descrizione del Giorgio, sacerdote e notaio, “Dottor dell’una e dell’altra Legge”, cronista del ritrovamento del 1716. Disegni delle monete in N. GIORGIO, cit. p. 203, qui riprodotti. La descrizione è ricca di particolari, ma la tecnica di pulitura è rudimentale e mancano dati sul peso. I repertori consultati non presentano monete simili a quelle alifane (Cfr. G. Sambon, Repertorio delle monete…, Parigi, 1912, ristampa Forni, Bologna, 1975, pp. 146-67, con illustrazioni delle monete emesse dai principi di Capua). Felice intuzione ebbe L. DELL’ERBA, Attribuzione di un follaro a Roberto II Drengot, Principe di Capua con Rainolfo, Conte di Alife battuto il 1132 nella zecca di Capua, Napoli, 1930, che, pur ignorando le monete alifane, attribuiva, dopo puntuale ricostruzione storica, a Roberto e Rainulfo la moneta Papadopoli (n. 3). 128

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Monete normanne; nn. 1 - 2 da Alife (ill. da N. Giorgio, 1721), n. 3 da coll. privata (ill. da L. Dell’Erba, 1930).

La battaglia si era conclusa con il successo personale di Rainulfo. La superiore strategia, la maggiore determinazione del conte, avevano avuto ragione della presunzione di forza del re, che subiva una disastrosa sconfitta, una tremenda umiliazione. Se prendere Salerno era un compito davvero arduo, l’azione dell’esercito di Rainulfo si diresse su Fragneto ed altri piccoli castrum del Sannio. Sentita la notizia dell’arrivo di Lotario II a Roma, il conte ed il principe si recarono con trecento uomini nella città pontificia, dove furono accolti da papa Innocenzo II e dall’imperatore. Nonostante l’appoggio verbale di Lotario, venne a mancare la possibilità di una discesa imperiale nel sud, e la guerra vera fu rimandata all’anno successivo. Il 1133 non fu anno di particolari sofferenze per la gente di Alife e di Caiazzo, mentre gli uomini partecipavano a lunghe campagne sul fronte campano dove Rainulfo opponeva tenace resistenza. Diversamente in Puglia l’esercito siculo-normanno dilagava – con stragi di inermi cittadini – ed alcuni baroni esuli,

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ma anche fuggiaschi di ogni tipo, si rifugiarono presso Rainulfo, quasi certamente in Alife, sempre più capoluogo della resistenza. Rainulfo inviò in Puglia quaranta cavalieri agli ordini di Ruggero di Plenco “milite coraggiosissimo e molto ostile al re”, in soccorso di Tancredi di Conversano. A Montepeloso (Irsina), dopo tre settimane di assedio l’esercito regio penetrò in città: Tancredi e Ruggero di Plenco furono riconosciuti e catturati. A Rainulfo giunse una vera e propria intimidazione: Ruggero ordinò allo stesso Tancredi, in cambio della vita, di tirare il cappio dell'impiccagione al capo dei quaranta! Rainulfo si assicurava l’appoggio dei suoi vescovi, certamente Enrico di Sant’Agata de’Goti schierato apertamente con papa Innocenzo II, Roberto di Alife, dove era in costruzione la cattedrale, e Stanzione di Caiazzo a cui prometteva solennemente “super quatur Dei evangelia” una larga donazione che si concretizzava nell’aprile 1134 con la cessione di feudi e latifondi appartenuti a baroni ribelli1. Mentre si assisteva a schermaglie tattiche fra gli opposti eserciti, la flotta con equipaggio al completo promessa da Pisa e Genova, pure pagata col denaro di chiese e privati cittadini, non si faceva affatto vedere. Le elevate spese per il sostentamento della cavalleria costrinsero il conte a dichiarare i suoi militi liberi di tornare a casa e così, nel giugno 1134, il secondo Rainulfo2 col nemico preponderante alle porte fu costretto alla pace e finalmente il re gli restituì il figlio e la moglie. La lunga campagna di guerra si concludeva – nelle partecipate sequenze di Alessandro La promissio a Stanzione già nota agli eruditi caiatini del seicento e all’Ughelli è nuovamente edita in Le pergamene dell’Archivio Vescovile di Caiazzo cit. mentre la donazione è in N. GIORGIO, cit. pp. 77-79. 2 Così nominato in un documento di Caiazzo di quell’anno: «Nos Secundus Rainulfus Dei gratia Caiatinorum aliorumque multorum comes filius bone memorie Rodberti egregii comitis» (N. GIORGIO, cit. pp. 77). 130 1

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telesino – con un prolungato e fraterno abbraccio fra i due contendenti tra le lacrime di gioia dei presenti. Dal punto di vista geopolitico, era caduto il principato di Capua, veniva ridimensionata la terra dei conti di Boiano; sola a restare in piedi, non sappiamo con quale grado di autonomia, la terra di Rainulfo. L’anno successivo si diffusero notizie incontrollate e infondate sulla morte del re. Il conte di Alife, mai così imbarazzato e sospettoso, si lasciò convincere ad unirsi alla nuova rivolta dal principe di Capua e dal duca di Napoli. Lo consigliarono male: Ruggero era vivo. Nella tarda primavera del 1135, per la prima volta dopo tre anni di conflitto, Alife aprì le porte all’avanguardia dell’esercito del re. Nella versione del telesino il popolo si consegnò immediatamente all’autorità regia: «Veniente itaque Cancellario [Guarinum] ad urbem que dicitur Alifa, ipso die quo venit, universibus eius populus Regi sine ulla refragatione subicitur»1. Il giorno successivo le truppe presero Sant’Angelo e la rocca di Ravecanina, fuggito Riccardo: «Quo facto, posterea die ad oppidum Sancti Angeli cognomento Rabicanum suscipiendum tendit; cuius videlicit Ricardus frater eiusdem [Ranulphus] comit domininatus fuerat [...]»2. All’atto del suo ingresso trionfale in Alife, Ruggero si compiacque della bellezza del luogo, come ci ritrae Alessandro di Telese in versi idilliaci. Le rocche di Caiazzo e Sant’Agata de’Goti, che erano cadute solo dopo breve assedio, richiamarono l’attenzione di Ruggero che si compiacque molto della solidità delle fortificazioni e diede disposizioni per interventi di perfezionamento. Con l’editto di Caiazzo ordinava la demolizione delle fortificazioni minori dello stato di Rainulfo, ed era libero di visitare qualsiasi borgo e castello come assoluto padrone. Matilde 1 2

ALESSANDRO DI TELESE cit. III, 14. ALESSANDRO DI TELESE cit. idem. 131

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che si trovava in un castello della Valle caudina, fu rispedita in Sicilia1. Napoli rimase l’unica città ribelle del Sud; lì Rainulfo avrebbe guidato col duca Sergio, la disperata difesa dei napoletani: due anni di privazioni inimmaginabili. Nonostante l’accerchiamento totale, Rainulfo riuscì, con gli altri capi della resistenza ed un contingente pisano, a forzare il blocco in mare e penetrare in Amalfi, saccheggiata dai pisani. Pure si distinse con sortite notturne che col tempo piegarono il morale degli assedianti opportunamente avvicendati dal re. Con il conte si trovava il giovanissimo figlio Roberto, già nominato cavaliere, che al dire di un avversario come Alessandro di Telese, dimostrava doti di virtù ed audacia2. Riccardo di Ravecanina, con Roberto di Capua, riuscì a portare a termine una difficile missione diplomatica a Pisa, dove stava papa Innocenzo II, ed alla corte imperiale a Spira, per convincere l’imperatore a discendere in Italia. Lo stato di Rainulfo restava sotto l’occupazione militare del cancelliere Guarino. Nell’autunno del 1136, finalmente convinto da Riccardo di Ravecanina e Roberto di Capua, da Innocenzo II e da Bernardo di Chiaravalle, anche con l’appoggio economico del suo omologo bizantino, il vecchio imperatore Lotario II decise l’attacco contro il “tiranno siculo”. Rainulfo, prelevato a Napoli dalla flotta pisana con Roberto di Capua, si unì alla marcia imperiale, che era iniziata a rilento, tanto che Lotario si avvicinò ai confini del regno solo nella primavera del 1137. Rainulfo inviò una lettera di conforto ai napoletani assediati, e sicuramente inviò messaggi ai suoi fedeli in Alife, dove l’attesa del conte e dei cavalieri tedeschi si faceva sempre più spasmodica. ALESSANDRO DI TELESE cit. III, 18. ALESSANDRO DI TELESE cit. III, 27: «optimam audacie virtutisque laudem iam consequi incipiebat». 132 1

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Rainulfo e gli esuli contribuirono allo sfondamento dell’armata imperiale attraverso l’Abruzzo. Nell’estate il conte ingaggiò battaglia con le truppe ruggeriane e finalmente liberò Alife, per l’immensa felicità dei suoi cittadini. Rainulfo partecipò attivamente alla campagna militare, che culminò con le cadute di Bari e Melfi, e in particolare di Salerno, dove operò al comando di un contingente di mille tedeschi. Il pretendente al ducato di Puglia non poteva che essere Rainulfo, riconosciuto da tutti come il capo della coalizione. Presso Salerno, senza minimamente informare Innocenzo II, l’imperatore Lotario elesse Rainulfo duca di Puglia. Di qui la lite fra i due grandi della cristianità, chi doveva essere il supremo signore feudale della Puglia, il papa o l’imperatore? Alla fine decisero di effettuare insieme l’investitura, il prescelto sarebbe stato comunque il conte di Alife e Caiazzo. Può essere sufficiente il resoconto della cerimonia d’investitura, unica nel suo genere, per farci concretamente percepire l’alto prestigio del conte degli alifani: l’imperatore teneva il simbolico stendardo per l’asta, il papa per la punta ed insieme lo posero nelle mani di Rainulfo1. Era il 30 agosto 1137; ai primi di settembre la porta del duomo di Benevento si apriva al papa Innocenzo II ed al duca Rainulfo che riceveva la simbolica unzione.

Vale la pena di riportare tutte le fonti consultate: FALCONE DI BENEVENTO cit. p. 190; ROMUALDO DI SALERNO, Chronicon cit. p. 224; Chronica Monasterii Casinensis, ed. a cura di H. HOFFMANN, MGH SS. XXIV, Hannover, 1980, IV, 124, p. 599; Liber pontificalis cit. p. 383; Annales Cavenses MGH SS. III, p. 192, ad an.; ANONIMO CASSINESE cit. ad an.; Annales ceccanenses MGH SS. XIX ad. an; ANNALISTA SAXO, ad an. MGH SS. VI, pp. 774-5); OTTONE DI FRISINGA, MGH SS. XX, VII, ed. G.H. PERTZ, Stuttgart, 1868, p. 258; CINNAMUS, Epitome in CSHB, ed. MEINEKE, Lipsia, 1836, III, 1. Importante anche il ricordo di ORDERICO VITALE: «Rannulfo probissimo duce», Historia ecclesiastica, I, MGH SS. XX, p. 53. 133 1

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Le fonti non ci consentono di stabilire il destino del dominio originario di Rainulfo e di Alife in particolare: non sappiamo se la contea fosse aggregata alla Puglia o se mantenesse gli antichi legami con le città associate e con il principato capuano. Di sicuro Riccardo, signore del castello di Sant’Angelo, rientrato dopo aver condotto la liberazione delle ultime città di Puglia, governava una parte del territorio. Già a settembre, partita l’armata germanica, Ruggero sbarcò a Salerno ed occupò Capua che fece mettere a ferro e fuoco, e la “città del conte Riccardo”, ma in ottobre, fu costretto per la seconda volta ad affrontare Rainulfo in una battaglia campale. La battaglia di Rignano Nel nord della Puglia, Bernardo di Chiaravalle tenta la difficile mediazione fra i due condottieri normanni, ma Ruggero rifiuta ogni intesa con Rainulfo, subendo il severo richiamo del religioso francese. Bernardo invita gli uomini del duca ad avere fede. Il 30 ottobre, nella sconfinata pianura del Tavoliere, in un luogo non distante da Rignano Garganico, l'exercitum militum di Rainulfo composto da 1500 cavalieri e le milizie delle città marittime pugliesi, sono opposte all'esercito siculo-normanno. Quest’esercito di siciliani, saraceni e calabresi è suddiviso a sua volta in due distinti schieramenti, il primo al comando dello stesso Ruggero re di Sicilia, l'altro del giovane figlio Ruggero. Con il re ci sono, ora, anche i napoletani del duca Sergio, e quei baroni del beneventano che prima avevano appoggiato la resistenza. La battaglia inizia all'insegna dei regi. L’armata del giovane Ruggero respinge le truppe pugliesi che sono inseguite in direzione di Siponto (Manfredonia), ma commette il grave errore di lasciare il padre solo con la cavalleria scelta di Rainulfo. I cavalieri del re attaccano ordinatamente ed energicamente e si incuneano fra gli armati del duca, ma così facendo sono 134

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immediatamente accerchiati e sconfitti. L’azione di Rainulfo è ancora una volta straordinariamente e terribilmente efficace: sotto i colpi dei cavalieri cadono Sergio di Napoli, Iderno, Sarolo, ed altri vecchi amici passati all’altro campo. Nella mischia Rainulfo cerca il viso di Ruggero che è il primo a voltarsi e fuggire. S. Bernardo è intento a pregare quando sente le grida di inseguiti ed inseguitori, subito comprende che il re scappa e che il duca rincorre. Rainulfo scende da cavallo e ringrazia l’abate: «Gratias, ago Deo, et fideli servo ejus, quia non nostris viribus, sed ejus fidei collata haec victoria est»1, rimonta sul veloce destriero e riprende l’inseguimento del nemico. Tremila morti, secondo Falcone, è il bilancio della giornata di guerra. Ancora una volta, Rainulfo uscì pienamente vincitore da una battaglia campale; Ruggero, sconfitto ed umiliato, si ritirò in Sicilia, lasciando le truppe a presidiare Terra di Lavoro. Mantenuta indenne la Puglia, Rainulfo si lanciò alla riconquista della sua città. Queste le parole di Falcone di Benevento: «[Dux Rainulfus] in finibus Alifanis secessit; qui continuo civitatem illam, et munitionem castelli comprehendit, et sue obtinuit potestati»2. Città e castello fortificato tornavano nelle mani del legittimo proprietario. Nel marzo del 1138, morto Anacleto II, gli scismatici elessero un nuovo antipapa, ma questi si sottomise presto a Innocenzo II S. Bernardi vita prima liber II auctore Ernaldo, in Patrologia Latina, vol. 185, Parisio, 1833, coll. 293-94 con racconto della battaglia, descritta succintamente anche da FALCONE DI BENEVENTO cit. pp. 196-198 (a. 1137) Proserpina la vedova di Iderno di Montefusco nel ricordare il marito e la sua caduta in battaglia, si esprimeva in questo modo (nella versione del notaio): «mortus est in fidelitate domini nostri Rogerii magnifici regis in bello quod fuit inter predictum dominum regem et comitem Rainulfum subter Rinnavum» Codice diplomatico verginiano a cura di P. M. TROPEANO, cit. III, n. 243, pp. 179-182. 2 FALCONE DI BENEVENTO cit. p. 204-206 (a. 1137). 135 1

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che fu finalmente accolto da tutti i romani come legittimo pontefice. Dopo pochi giorni il papa, radunato un esercito, si portò ad Albano avendo in animo di andare in appoggio del duca Rainulfo, ma perché ammalato o forse convinto da altri, si fermò in quel luogo. Nel frattempo, il duca sollevò le città pugliesi perché resistessero a Ruggero appena ripiombato in Puglia. Il re di Sicilia, di fronte alla notizia della capitolazione del fronte anacletiano in Roma, riconobbe Innocenzo II come legittimo papa. Fu costretto a cedere, ma lo scisma era finito e poteva così portarsi su di un piano di parità con Rainulfo agli occhi dell’alta autorità religiosa. I pensieri di Rainulfo erano altri. Si attestò a guardia di Alife, avvertendo la popolazione che il re stava meditando di attaccare proprio la sua città: «novissime apud Alifas moratur, existimans regem illum Alifis venire»1. Il re, fingendo una sortita altrove, lo fece muovere e, dopo aver devastato numerosi suoi feudi compresa Telese, attaccò Alife. Rainulfo fu presto avvertito e ritornò precipitosamente, ma gli assalitori vinsero la disperata difesa degli alifani: gli “avanzi di galera” e la soldataglia saracena invasero le vie della città, e si diedero al saccheggio e alla strage. Ruggero II assistette soddisfatto ad un atto criminale da lui intenzionalmente voluto, per piegare l’odiato rivale ed il suo popolo, quindi abbandonò di corsa il teatro della battaglia. Alife ancora in fiamme si presentò ad uno sconsolato Rainulfo, «dolore cordis concussus circa Alifanos fines morabatur»2. Nonostante i duri colpi inferti, Ruggero rientrò in Sicilia per l’ennesima volta senza aver risolto la situazione. Del grande ducato di Puglia, Rainulfo aveva perso Salerno e parte dell’odierna Basilicata; del suo territorio conservava sicuramente Tocco Caudio e forse tutte le città da Caiazzo a Sant’Agata de’Goti, da Alife a Telese e presto avrebbe fatto ricostruire le ultime due, 1 2

FALCONE DI BENEVENTO cit. p. 210 (a. 1138). FALCONE DI BENEVENTO cit. p. 212 (a. 1138). 136

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selvaggiamente rovinate. Le truppe regie si attestavano su una verticale che andava da Montecassino alla martire Capua, fortificando la costa tirrenica. Rainulfo si portò prima in difesa di Ariano e poi in soccorso di Melfi liberandola dall’assedio, poi si recò a Bari per sincerarsi della situazione, quindi percorse le città della costa pugliese esortando il popolo a raccogliere le forze e a riprendere le armi nel momento nuovamente favorevole, cosa che i pugliesi prontamente fecero1. Per un’improvvisa malattia, e forse per complicazioni dovute ad una cattiva cura, il 30 aprile 1139 a Troia, si spegneva Rainulfo. Fu seppellito dopo enorme partecipazione di folla; la testimonianza del lutto popolare resa da Falcone, non è più propria della cultura occidentale. L’eco della sua morte raggiunse qualsiasi posto del mondo conosciuto2. 1

Due documenti pugliesi da S. Leonardo di Siponto sono datati con gli anni di regno di Rainulfo: giugno 1138 «primo anno regni domino Reinulfo Apulie Duce» e marzo 1139 «regnante domino Rainulfo Apulie Magnifico Duce», per entrambi il notaio è Gaderisio. C. MINIERI RICCIO, Saggio di codice diplomatico, Napoli, 1878, vol. I nn. 28 e 33; cfr. Regesto di S. Leonardo di Siponto a cura di F. CAMOBRECO, Regesta chartarum Italiae, Roma, 1913. 2 FALCONE DI BENEVENTO cit. p. 216 (a. 1139), «ultimo die stante mensis Aprilis». Falcone che è ben informato parla di una lunga e “ardentissima febbre”, ROMUALDO DI SALERNO, p. 226, di «occasione flebothomie». Il Necrologio cassinese cit. riporta per «Raynulfus comes» la data del primo maggio, concordando così (la differenza è di un solo giorno) con Falcone. Occorre dire che era molto praticata a fini medici la flebotomia e la scuola medica salernitava (Regimen Sanitatis Salerni) vietava tale pratica e simultaneamente di mangiare carne d’oca il 30 settembre, il 1 maggio e il 30 aprile, data della morte di Rainulfo! Le raccomandazioni di non praticare il salasso nei giorni lunari sono piuttosto antiche e risalgono almeno a Galieno, come ci conferma G. PALMERO, Entre culture thérapeutique et culture matérielle: les domaines du savoir d’un anonyme génois à la fin du Moyen-Age. Le manuscrit inédit “Medicinalia quam plurima”, thèse de Doctorat sous la direction du prof. Henri Bresc, Université de Nice - Sophia Antipolis, Decembre 1998, 137

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Rainulfo rimane il più grande capo politico e militare della storia di Alife. L’uomo che l’ha portata al massimo splendore in un’epoca in cui contava solo la lotta per il potere. La sua sfida ad oltranza, il sacrificio di tanti cittadini, non potranno mai essere dimenticati.

Bibliografia 0. Pergamene e manoscritti coevi Archivio dell’Abbazia di Montecassino, pergamene varie; Archivio dell’Abbazia di Montecassino, Registrum Petri Diaconi; Archivio dell’Abbazia di Montevergine, pergamene varie; Archivio di Stato di Napoli, pergamene varie. 1. Fonti narrative e documentali a stampa 1.1. Raccolte di Fonti (Sigle) RIS. Rerum Italicarum Scriptores; MGH. Monumenta Germaniae Historica; PL. Patrologia… series latina (in particolare: vol. 158 Eadmero de vita et conversatione Anselmi; 163 Gelasio II; 166 Onorio II; 179 Innocenzo II e Anacleto II; 182 e 185 Bernardo di Chiaravalle); FSI. Fonti per la storia d’Italia pubblicate dell’Istituto Storico Italiano; CSHB. Corpus scriptorum historiae byzantine; DR. Cronisti e scrittori sincroni napoletani, 2 volumi, Napoli, 1845—.

vol. II, p. 333. Nulla può dirsi se Romualdo, che curerà personalmente re Guglielmo I, fosse realmente al corrente di un salasso praticato al duca o se semplificasse le cose basandosi sulle conoscenze astrologiche proprie della tradizione medica. E va anche detto che un imperatore come Federico II ebbe molto a patire a causa di un salasso praticato male. 138

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1.2. Fonti Narrative 1.2.1. Cronache anonime Annalista Saxo, nei MGH SS. VI; Annales Beneventani, a cura di O. Bertolini, in Bullettino Istituto Storico Italiano, XLII, 1923 (è tratto dal Chronicon S. Sophiae); Annales Casinenses, nei MGH SS. XIX (DR, I, in due versioni); Annales Cavenses, nei MGH SS. III; Annales Ceccanenses, nei MGH SS. XIX (detto Chronicon Fossae Novae, è in DR, I); S. Maria De Ferraria Chronica, ed. A. Gaudenzi, Napoli, 1888. 1.2.2. Cronache latine e greche Alessandro di Telese: Alexandri Telesini abbatis ystoria Rogerii II regis, a cura di L. De Nava, commento storico di D. Clementi, FSI 112, Roma, 1991; Falcone di Benevento, Chronicon Beneventanum, ed E. D’Angelo, Firenze, 1998; Giovanni Monaco?: Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, a cura di V. Federici, FSI, Roma, 1935-1938; Giovanni Kinnamos, Epitome rerum ab Joanne et Alexio Comnenis gestarum, in CSHB, Bonn, 1836; Guglielmo di Tiro, Historia, in PL 201; Ed. R.B.C. Huygens, nel Corpus Christianorum continuatio medievalis LXIIIA, Turnhoute, 1986; Leone Marsicano, Chronica monasterii casinensis a cura di H. Hoffmann, M.G.H. SS. XXIV, 1980, continuata da Guido, e fino al 1139, da Pietro Diacono; Orderico Vitale, Historia ecclesiastica, a cura di M. Chibnall, Oxford, 1980-86; Ottone di Frisinga, Gesta Friderici I imperatoris, nei MGH SS. XX; preferibile A. Hofmeister, ed. altera MGH Scriptores rer. germ. ad us. schol., Hannover, 1912; 139

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Romualdo Guarna Salernitano, Chronicon, a cura di C. A. Garufi, RIS, VII, t.I, Bologna, 1935. 1.3. Fonti documentarie 1.3.1. Edizioni di documenti Bullaire du pape Callixte II, (U. Robert), 2 v., Paris, 1891; Catalogus Baronum, (E. Jamison), FSI, Roma, 101, 1972; Chronicon Sanctae Sophiae..., a cura di J-M. Martin, Roma, 2000; Codice Diplomatico Longobardo, (H. Zielinski), Roma, 2003, IV, 2; Codice Diplomatico Normanno di Aversa, (A. Gallo) Napoli, 1927; Codice Diplomatico Pugliese, dal 1897— volumi I [duomo di Bari], III [Terlizzi], IV [S. Nicola, Bari], V-VI [S. Nicola, Bari], VIII [Barletta], IX [Corato], X [Barletta]; Codice Diplomatico Verginiano, vari volumi (P. M. Tropeano) 1979—; Codex diplomaticus regni Siciliae, [Ruggero II (a cura di C. Brühl)]; Diplomi inediti dei principi normanni di Capua, conti di Aversa, (M. Inguanez) Montecassino, 1926; Le pergamene dell’Archivio Vescovile di Caiazzo, (Catello Salvati ed altri), Caserta, 1983; Le pergamene della Società Napoletana di Storia Patria, I (J. Mazzoleni), II (C. Salvati), Napoli, 1966—; Les chartes…de Troia (1024-1226), a cura di J. M. Martin, 1976 (C.D. Pugliese, XXI); Pergamene di Capua, (J. Mazzoleni) Napoli, 1957, vol I-III; Regii Neapolitani Archivi Monumenta edita ac illustrata, Napoli 1845-1861.

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1.3.2. Altri regesti, annali, fonti Abbazia di Montecassino, I regesti dell’archivio, a cura di T. Leccisotti e poi T. Leccisotti e F. Avagliano, 11 volumi, Roma, 1964—; Acta Sanctorum, Anversa, MDCLXXV, Aprilis, I, Appendix; Elenco delle pergamene già appartenute alla famiglia Fusco, in Archivio Storico Napoletano, Napoli, a. 1887; Italia Pontificia, vol. VIII [Campania] (P.F. Kher), Berlin, 1928, vol. IX [Sannio, Puglia, Lucania] (W. Holtzmann), Berlin, 1962; Erasmo Gattola, Historiam Abbatie Cassinensis, Venezia, 1742; Erasmo Gattola, Accessiones ad Historiam, Venezia, 1743; Liber Pontificalis (le), (Duchesne), 1892, vol. I-II; Alessandro Di Meo, Annali critico diplomatici del regno di Napoli, volumi 9, 10, 11. Napoli, 1797; Necrologio cassinese (cod. 47), (M. Inguanez), Montecassino, 1941; Regesto delle pergamene di Montevergine, (G. Mongelli), Roma, I-II, 1957; Regesta chartarum Italiae: regesto di S. Leonardo di Siponto (F. Camobreco), Roma, 1913; Regesta chartarum, regesto delle pergamene dell’archivio Caetani, (G. Caetani), Città del Vaticano, 1936, vol I-II; Regesta Imperii, (J.F. Bohmer), Wien-Innsbruck, 1881-95; Ferdinando Ughelli, Italia Sacra, 2a ed. Coleti, Venezia, 1717—. 2. Studi a stampa Si segnala solo una minima parte degli studi posteriori recepiti per questo lavoro, con una preferenza per le pubblicazioni locali, meno note nell’ambito degli studiosi del medioevo italiano. Vincenzo d’Alessandro, Fidelitas normannorum. Note sulla fondazione dello stato normanno e sui rapporto col papato, Napoli, 1969; 141

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Annuario ASMV = Annuario Associazione Storica del Medio Volturno (già del Sannio Alifano) vari volumi; Archivio storico pugliese, XII, 1959; Herbert Bloch, Montecassino in the Middle Age, Roma, 1986, 3 vol.; Ferdinand Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicilie, Paris, 1907, 2 vol.; Luigi R. Cielo, La cattedrale normanna di Alife, Napoli, 1984; Gian Vincenzo Ciarlanti, Memorie historiche del Sannio, Isernia, 1644; 2a ed. Campobasso, 1822; Errico Cuozzo, Catalogus Baronum, Commentario, Roma, 1984; Errico Cuozzo, «Quei maledetti normanni» Cavalieri e organizzazione, Napoli, 1989; Josef Deer, Papsttum und Normannen, Koln-Wien, 1972; Paolo Delogu, I Normanni in Italia. Cronache della conquista e del regno, Napoli, 1984; Francesco S. Finelli, Città di Alife e diocesi, Scafati, 1928; Angelo Gambella, La documentazione esistente sulla Historia Allifana di Alessandro di Telese, in Annuario ASMV 98, 1999; Angelo Gambella, Le origini latine della famiglia bizantina Petralifa, («Rassegna Storica online», 1, 2000), a stampa in Annuario ASMV ‘99, 2000; Angelo Gambella, Fede medievale nella Valle del Volturno al tempo dei normanni, Roma, 2003; Angelo Gambella, Alife normanno-sveva, Roma, 2003; Angelo Gambella, L’Italia meridionale normanna e la Dalmazia. Aspetti storici e documentali (XI-XII secolo) in Rassegna Storica Giuliano Dalmata I, a cura di R. Fidanzia, Roma, 2006; Angelo Gambella, Medioevo Alifano, Roma, 2007; Niccolò Giorgio, Notizie istoriche della vita, martirio e sepoltura del glorioso San Sisto I Papa e Martire, di varie traslazioni del 142

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suo sacro corpo e dell'ultimo ritrovamento fattone nella città di Alife, Napoli, 1721; Ludovico Giustiniani, Dizionario geografico del regno di Napoli, Napoli, 1797–, vari vol; Graham A. Loud, Church and Society in the Norman Principality of Capua, Oxford, 1985; Dante B. Marrocco, Il monastero di S. Maria in Cingla, Napoli, 1966; Dante B. Marrocco, Il vescovato alifano nel Medio Volturno, Napoli, 1979; Donald Matthew, Normanni in Italia, trad. it., Bari, 1997; Ottaviano Melchiorri, Descrittione dell’antichissima città di Caiazzo, Napoli, 1619; Nicola Occhibove, De canone studiorum dissertatio, Napoli, 1728; Antonio de Sisto, Raviscanina paese mio, Ercolano, 1988; Società potere e popolo nell'età di Ruggero II, Bari (Centro studi normanno-svevi), 1979; Storia del Mezzogiorno, vol II tomo I-II, Napoli, 1989; Storia di Napoli, diretta da E. Pontieri, vol II tomo I, Napoli, 1969; Giuseppe Tescione, Roberto conte normanno di Alife, Caiazzo, S. Agata dei Goti, estr. da «Archivio storico di Terra di Lavoro», Caserta, 1975; Gianfrancesco Trutta, Dissertazioni historiche delle antichità alifane, Napoli, 1776; Riccardo U. Villani, La Terra dei Sanniti Pentri, Curti, 1983.

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UMBERTO MAIORCA La battaglia di Bouvines

Domenica 27 luglio 1214, giorno del Signore. Campagna nei dintorni di Bouvines, nelle Fiandre, tra Lille e Tournay. L’aria è calda e ferma. I cavalieri e i fanti francesi di Filippo Augusto (1180-1223) sono in posizione, schierati in linea, tre fronti su due file ciascuno. Alle loro spalle il ponte di Bouvines e il territorio del Sacro romano impero. Di fronte, le truppe dell’imperatore Ottone IV di Brunswick (1198-1218). L’unico modo per salvare la vita e poter tornare a casa è vincere la battaglia che si appresta. In tutto 20.000 uomini in armi che si fronteggiano. Tra i tanti simboli e le innumerevoli insegne che sventolano sul campo, al di sopra di tutto si ergono due stemmi: i gigli del re di Francia Filippo Augusto, che ha deciso di impugnare l’orifiamma di Saint-Denis e l’Aquila, circondata d’oro, dell’imperatore sassone, scomunicato, Ottone IV di Brunswick. È una calda domenica estiva e si combatte per il destino dell’Europa. Ma come si è arrivati a questo momento? Bisogna fare un passo indietro per comprendere la situazione. Le armi che si fronteggiano sono quelle del re di Francia e dell’imperatore, ma una complessa trama politica, con logiche di potere che si dipanano dal Mare del Nord alla Sicilia, coinvolge i veri protagonisti dello scontro. A fianco dei due combattenti, infatti, si scorgono gli uomini, le speranze e le ombre del giovane Federico II di Svevia (1196-1250), re di Sicilia, e la lunga mano di papa Innocenzo III (1198-1216), che ha deciso di sbarazzarsi del poco fidato Ottone IV. Legato alle sorti di quest’ultimo c’è re Giovanni 145

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d’Inghilterra (1199-1216), il Senza Terra, alleatosi con l’imperatore nel tentativo di conquistare alcuni territori sul suolo di Francia e impegnato in una feroce guerra nell’Anjou e nel Poitou. La casa di Svevia, tra conquiste territoriali e politiche matrimoniali era riuscita a concentrare nelle proprie mani i territori europei dell’Impero ed il regno di Sicilia. Alla morte di Enrico VI (1190-1197), il figlio del Barbarossa, la moglie Costanza aveva assunto la reggenza e affidato la tutela del piccolo Federico al pontefice Innocenzo III. Nel 1208 i baroni e i prelati del regno di Sicilia giurano fedeltà a Federico. Ma il giovane svevo, adesso re di Sicilia, avrebbe potuto trasformarsi in una grave minaccia. Se Federico, infatti, fosse divenuto anche imperatore, avrebbe unificato le due corone e la Sicilia, territorio vassallo della Santa Sede, avrebbe fatto parte dell’Impero. L’appoggio alla candidatura imperiale di Ottone IV di Brunswick, da parte di Innocenzo III, fu il passo successivo per evitare che Federico potesse vantare diritti sulla nomina imperiale. Una scelta che, però, suscitò i sospetti di Filippo Augusto di Francia, che temeva un’alleanza tra il futuro imperatore e Giovanni Senza Terra, in chiave anti-francese. Ma a risolvere la situazione ci pensò lo stesso Ottone, quando decise di muovere alla conquista della Sicilia. Il pontefice reagì scomunicando l’imperatore, il 18 novembre 1210. La scomunica ebbe l’effetto di scatenare la ribellione della maggiornanza dei feudatari tedeschi, che deposero Ottone, designando Federico II di Hohenstaufen nuovo imperatore. Intanto Innocenzo III aveva fatto sposare il diciassettenne Federico con Costanza, sorella di Pietro III d’Aragona. E il giovane imperatore si era impegnato a non unificare mai le due corone. Ma per conquistare la corona imperiale era necessario toglierla dal capo di Ottone. Federico, allora, strinse accordi con Filippo Augusto di Francia, che fu ben lieto di trovare un alleato potente per contrastare Ottone e Giovanni Senza Terra. 146

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Sulla piana di Bouvines, il 27 luglio 1214, si decise la partita. Due imperatori e due re: il vincitore sarebbe rimasto l’unico pretendente alla corona imperiale, l’alleato sarebbe diventato padrone della Francia. Ottone aveva radunato il suo esercito, circa 3.000 cavalieri e 6-7.000 fanti, compresi gli alleati inglesi e alcuni vassalli francesi, nei pressi di Nivelles. Il re di Francia, invece, tramite i legami feudali era riuscito a richiamare 1.300 cavalieri nobili e, grazie al denaro e alla coscrizione forzata circa 1.000 sergenti e 4-5.000 fanti, concentrandosi a Péronne. I due eserciti si cercarono per giorni, rincorrendosi fino a rovesciare le posizioni, con i francesi a nord e gli imperiali a sud. Avute nuove notizie, alquanto incomplete, circa le mosse del nemico, i due sovrani mossero nuovamente l’esercito. Filippo Augusto salendo ancora più a nord, Ottone seguendolo inconsapevolmente. Quando il re francese seppe che l’imperatore si trovava in marcia dietro di lui, decise di fermarsi e di dare battaglia. Una decisione pericolosa. Alle sue spalle, infatti, si aprivano i territori dell’Impero, del nemico.

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Schieramento del re di Francia

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Schieramento dell’imperatore

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Quando Ottone giunse sul campo di battaglia, con sua sorpresa, trovò i francesi già schierati; nonostante fosse venuto a mancare l’effetto sorpresa, l’imperatore decise ugualmente di attaccare e senza pensarci un attimo lanciò i suoi contro il fronte francese. L’aria fu squarciata dal grido di guerra di migliaia di uomini; lance, spade, mazze risuonarono sugli scudi, mentre il nitrito umido dei cavalli spezzava il lungo urlo dei fanti. Insegne e stendardi garrivano al vento, mentre trombe e buccine squillavano. Gli armati di Ottone, si lanciarono sul fianco destro dello schieramento francese, tenuto da cavalieri non nobili, detti sergenti, e dai primi gruppi di fanteria mercenaria, il “ceto” professionista della guerra del XIII secolo. Sotto la spinta della cavalleria imperiale l’ala destra francese sembrò cedere, ma l’intervento dei cavalieri francesi, che caricarono a lancia bassa, respinse gli imperiali. Lo scontro si allargò alle altre schiere, e da una parte e dall’altra, tutti i gruppi di armati si lanciarono nel combattimento. Le cariche della cavalleria imperiale vennero respinte dai fanti francesi; la fanteria tedesca ebbe la meglio del centro avversario, ma fu spazzata via dalla carica dei cavalieri francesi. La mischia si protrasse per ben tre ore, quando Ottone tentò il tutto per tutto, puntando con i cavalieri al centro dello schieramento francese, dritti contro il re Filippo. Lo schieramento francese nemico, però, dopo un leggero sbandamento indietro, si compattò dietro le picche della fanteria francese, passando al contrattacco. L’imperatore stesso venne disarcionato, rischiando di finire prigioniero. Fu salvato dall’intervento dei cavalieri sassoni, che lo portarono via dal campo di battaglia. Con la fuga dell’imperatore il fronte si ruppe definitivamente in favore di Filippo Augusto che, con questa vittoria affermò il suo potere sovrano nei suoi confini e in Europa.

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L’aquila conquistata dai francesi fu portata a Federico II, il nuovo imperatore. Ottone si ritirò in Sassonia, mentre il re Giovanni, sconfitto anche nell’Anjou, dovette rientrare in patria senza nessuna conquista territoriale e politicamente indebolito, tanto che, l’anno successivo, fu costretto a concedere ai nobili la Magna Charta.

Bibliografia F. Cardini, Quell’antica festa crudele, Guerra e cultura della guerra dal medioevo alla rivoluzione francese, Milano, Mondadori, 1995; F. Cardini, Guerre di primavera: studi sulla cavalleria e la tradizione cavalleresca, Firenze, 1992; P. Contamine, La guerra nel medioevo, Bologna, il Mulino, 1986; G. Duby, La domenica di Bouvines, Torino, Einaudi, 1977.

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PAOLO GRAVINA La società feudale e la cultura cavalleresca nella Napoli angioina, da Carlo I a Roberto il saggio (1266 - 1343)

Introduzione Il tema, oggetto della ricerca, ha numerose implicazioni sociali, giuridiche, politiche e sociali, in quanto intendo analizzare le ragioni ideologiche del predominio culturale, politico e, di conseguenza, giuridico della nobiltà feudale sulla società dell’epoca; giuridiche, in quanto sarà esaminato anche il corpus di leggi, emanate nel periodo prescelto, ed aventi, come oggetto, lo status giuridico dei feudi e la sua evoluzione storica; politiche, in quanto saranno analizzati i contrasti interni alla nobiltà feudale del Regno, e le modalità di esercizio del potere messe in atto dalla dinastia angioina nel periodo compreso tra il 1266 ed il 1343. L’indagine partirà dallo studio di quel radicale mutamento, avvenuto nel 1266, che vide la fine del Regno Svevo, con la sconfitta di Benevento e la morte in battaglia di Manfredi, figlio di Federico II, e l’avvento al potere della dinastia angioina. La ricerca inoltre, descriverà la diffusione e le diverse forme di radicamento nel territorio delle nuove famiglie nobili di origine francese, insediatesi in Italia Meridionale al seguito di Carlo I d’Angiò. Esaminerà, inoltre, il passaggio della vecchia nobiltà feudale dal predominio svevo alla nuova dominazione angioina. La ricerca studierà nel dettaglio, il complesso di diritti e di doveri derivanti dalla concessione di feudi nel periodo angioino, le varie forme di servizio militare in auge nel Regno, la composizione dell’esercito 155

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regio, l’armamento dei soldati, le tattiche di guerra, e le diverse strutture difensive. La presente ricerca ha, poi, come scopo, anche l’analisi, lo studio e l’evoluzione della cultura e dell’ideologia cavalleresche, in un contesto così particolare, quasi un unicum nell’Italia dell’epoca, come quello della corte angioina di Napoli. Cultura che contemplava, tra l’altro, non solo la lettura dei più noti poemi dell’epopea cavalleresca francese, o lo studio degli autori classici, di cui lo stesso re Roberto fu grande conoscitore; ma anche la produzione di testi musicali, letterari e poetici, e di opere d’arte destinate ad un pubblico di estrazione nobile o alto – borghese. Si tratterà, quindi, di un’approfondita indagine ad ampio raggio, di quella atmosfera ideologica e culturale che caratterizzò la corte angioina di Napoli, soprattutto durante il regno di Roberto d’Angiò; corte che vide la presenza non solo di grandi nomi della letteratura italiana (come Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio), ma anche di poeti e musicisti francesi o provenzali (come Adam de la Halle, detto “Adam le Bossu”) e dei più grandi artisti dell’epoca (come i pittori Pietro Cavallini, Giotto e Simone Martini, o lo scultore Tino da Camaino). Si analizzerà, quindi, sia pure in sintesi ed in chiave puramente documentale, la produzione artistica napoletana dell’epoca, in particolare pittorica e scultorea, ed il legame con la Toscana che in essa, e in parte della documentazione a noi pervenuta, e conservata presso archivi toscani e campani, come l’Archivio di Stato di Napoli, risulta essere particolarmente evidente. L’Italia meridionale era stata divisa fra tre dominazioni: nei ducati longobardi di Capua, Benevento e Salerno, le relazioni di sudditanza personale non si svilupparono in un sistema gerarchico rigido. Nelle regioni bizantine – la Puglia, la Basilicata, la Calabria, e la Sicilia fino alla conquista araba – alcune oligarchie militari, come quella del catapano di Bari, dominavano sulle masse degli umili, legati a loro da una sorta di patronato. Nella 156

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Sicilia, come del resto in tutto il mondo arabo, non esisteva nulla di simile al vassallaggio occidentale; ma, nonostante questi forti contrasti, la diffusione delle strutture feudali fu favorita dal loro carattere d’istituzioni d’elite. Numerosi documenti attestano che la diffusione delle istituzioni feudali nell’Italia meridionale non portò alla scomparsa della vecchia nobiltà locale e delle sue tradizioni, com’è stato dimostrato dagli scritti di Enrico Cuozzo1; infatti, accanto ai feudi, continuarono a sopravvivere gli allodi delle vecchie aristocrazie cittadine. In Inghilterra e negli stati crociati del Medio-Oriente, le proprietà allodiali non furono ammesse. Jean Richard si è chiesto se in Terra Santa siano esistiti uno o più feudalesimi. Le testimonianze storiche m’inducono a ritenere che in quella regione vi sia stato un solo modello di feudalesimo: quello franco2. La testimonianza inconfutabile, penso che sia costituita dal fatto che, fin dagli inizi, i ruoli di comando, in quelle organizzazioni statali, sono stati occupati soltanto da coloro che parteciparono alla prima crociata e dai loro discendenti. Dopo la liberazione di Gerusalemme dal dominio musulmano, in Terra Santa furono fondati dai Crociati quattro stati, tutti correlati tra loro e dalla vita relativamente breve: il Regno di Gerusalemme, il Principato d’Antiochia, e le contee di Edessa e Tripoli. Questo modello era caratterizzato da una fitta serie d’infeudazioni e subinfeudazioni, che influirono profondamente sull’assetto politico e amministrativo del territorio. L’Italia meridionale, invece, fu conquistata a poco a poco, per effetto di guerre e di trattati. A differenza di quanto avvenne in Inghilterra, la conquista del Mezzogiorno d’Italia fu più lunga e E. CUOZZO, I Normanni. Nobiltà e cavalleria, Gentile, Salerno, 1995. J. RICHARD, La grande storia delle crociate, Newton & Compton, Roma, 1999, p. 100. 157

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difficile; si può ritenere che il dominio normanno sia stato legittimato soltanto dal Concordato di Melfi del 1059, che ebbe come protagonisti Roberto d’Altavilla (detto “il Guiscardo” da Wiskard, l’astuto), Riccardo Quarrel, papa Niccolò II; e, come mediatore, l’abate Desiderio di Montecassino. Quest’accordo concluse una sanguinosa guerra, che vide sconfitta la coalizione anti-normanna (battaglia di San Paolo di Civitate del 1053); ma, soprattutto, sancì il riconoscimento del dominio normanno nel Meridione da parte del pontefice, e lo stesso Roberto il Guiscardo fu nominato duca di Puglia e di Calabria. L’elemento decisivo fu l’appoggio di una parte della vecchia aristocrazia longobarda, in cambio di terre cedute in feudo; i Normanni, infatti, esportarono in Italia meridionale, quel sistema di relazioni feudali e vassallatiche, che contrassegnavano la Normandia. In questo modo, si creò un sistema di dipendenze feudali. Una svolta decisiva si registrò con l’avvento al potere di Ruggero II, il quale, dopo aver ottenuto l’appoggio della classe feudale, nella notte di Natale del 1130 si fece incoronare nella cattedrale di Palermo re di Sicilia, e duca di Puglia e di Calabria. Ruggero fu il primo ad intraprendere dopo il 1140, con le Assise di Ariano, una riforma radicale del sistema feudale. Bisogna specificare che nei documenti relativi alle varie Assise ricorre spesso la parola “regalia”, che, probabilmente, indicava i beni, mobili ed immobili, concessi dallo stesso re. In quest’accezione, essa compare una sola volta, in un documento del 1147, rilasciato nel castello regio di Terracena, presso Salerno, con il quale il re concesse al vescovo Berardo di Forcona, la possibilità di costruire il castello di Collepaldone, e gli donò il casale di Sant’Eusanio; infatti, il nome del vescovo compare nel Catalogus Baronum come titolare in capite de domino Rege (perché aveva ricevuto il beneficio direttamente dal re) di Castellum Roge.

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In cambio, la parola “feudo” non ricorre nei testi delle Assise, e compare in un solo diploma di Ruggero II. Il termine “beneficium” ricorre soltanto nell’Assisa Vaticana XVIII, che sancisce, per i figli dei rei di lesa maestà, il divieto di ereditare i beni paterni; e in un diploma regio del 1134. Di conseguenza, se nel linguaggio burocratico delle Assise, la categoria dei “regalia” comprendeva tutti i feudi, sembra chiaro che Ruggero II e i suoi funzionari consideravano il sistema feudale come una struttura gerarchica strettamente dipendente dal re. Con le Assise di Silva Marca (presso Ariano Irpino) Ruggero il Normanno ordinò un’indagine patrimoniale, i cui passaggi possono essere meticolosamente ricostruiti grazie al Catalogus Baronum. In questo liber censualis sono elencati: i nomi dei feudatari, sia di quelli che detenevano feudi in capite de domino Rege (ossia, ricevuti direttamente dal re), sia di coloro che li avevano ottenuti da un conte o da un barone; lo stato giuridico dei feudi, e l’entità del servizio militare dovuto in relazione al loro possesso. All’indagine seguì la riforma vera e propria, che consistette nella creazione di una nuova categoria di feudi: i feuda quaternata o in baronia, detti così perché registrati nei quaterniones curiae (dove per curia s’intende la curia regia). Il Catalogus Baronum ci consente di individuare quei criteri in base ai quali fu possibile includere nella nuova categoria i vecchi feudi. È probabile che tali criteri siano stati patteggiati tra feudatari e re in una riunione successiva all’assemblea di Silva Marca. Sembra, in ogni modo, sicuro che questa categoria comprendesse i feudi più importanti e, in particolar modo, le contee nate in seguito alla conquista. I titolari avevano la possibilità di riscuotere il diritto regio del plateaticum; dovevano prestare il servizio militare direttamente al re, anche quando avevano ricevuto il feudo da un conte o da un barone; ed erano personalmente responsabili verso il sovrano del servizio militare 159

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dei propri suffeudatari. Il re si riservò il diritto di concedere i feuda quaternata ai conti, ai baroni e ai loro suffeudatari. In questo modo, Ruggero II trasformò le strutture feudali in una forma di governo e di controllo territoriale del regno. Le vecchie contee, sorte in seguito alla conquista, furono trasformate in una serie di feuda quaternata, non sempre confinanti tra di loro, detenuti dai conti, o dai baroni, in servitio o in demanio. Ne poterono conservare il possesso solo le famiglie nobili imparentate con gli Altavilla. Questa disposizione rende evidente come Ruggero II, con tali misure, intendesse esercitare un controllo diretto sul territorio e sulla nobiltà feudale. Non furono inclusi in questa categoria i feudi meno importanti, i cui titolari poterono fornire il servizio militare non all’esercito regio, ma a quello dei loro feudatari in capite. Quest’opera di riforma fu sostenuta anche da un’attività legislativa. Nel 1144 fu emanato da Ruggero II, un editto scritto in greco, valido solo per la Calabria e la Sicilia, che obbligava tutti i detentori di un privilegio, a presentarlo alla cancelleria regia per la conferma. Quest’editto fu seguito da due leggi: la prima introdusse l’obbligo di non modificare i servigi e le prestazioni dovute al re; la seconda introdusse il divieto di alienare i beni senza l’autorizzazione regia. La redazione, nel 1150, del Catalogus Baronum, fu l’atto finale della riforma feudale ordinata da Ruggero II con le Assise di Silva Marca nel 1142. Il documento fu l’esito della grande inchiesta, attuata dagli organi provinciali dell’amministrazione regia, e di una serie di decisioni assunte in alcune corti provinciali presiedute dagli stessi camerari, e, talvolta, dal re, allo scopo di stabilire l’esatto ammontare del contributo dovuto da ciascun feudatario alla leva straordinaria per la difesa del regno. Il documento fu redatto in conformità a quell’elenco di feudi stilato, nel 1142, a Silva Marca. Sia nell’inventario di Silva Marca, che nel Catalogus Baronum vi erano elencati tutti i feudi che dovevano il 160

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servitium militis all’esercito regio. Tale servizio era proporzionato al valore del feudo, a sua volta calcolato in base all’unità di misura del feudum unius militis. Il servitium militis consisteva nel versamento periodico di una quantità di risorse sufficienti al sostentamento di un cavaliere armato alla pesante. Essendo, poi, proporzionato al valore del possesso feudale, i criteri di calcolo utilizzati nei due casi, erano identici. L’espressione feudum unius militis indicava l’ammontare del servizio di cavalieri dovuto da ciascun feudatario. Il Catalogus Baronum, oltre ad altri documenti importanti, indica che i camerari provinciali ebbero il compito di attuare indagini volte ad acquisire i dati necessari a fissare l’entità del servizio militare dovuto da ciascun feudatario in relazione al proprio feudo. Evelyn Jamison ha evidenziato due inchieste: la prima, svolta nel 1140 dal camerario Ebolo di Mallano, per stabilire i diritti regi della curia di Atina; la seconda, attuata da Samaro di Trani, per conto di Simone Senescalco. L’uso di determinare, ed eventualmente variare, il valore dei possessi feudali, fu introdotto da Ruggero II, non solo per imporre ai feudatari il dovuto servitium militis, ma anche per regolare le numerose tasse che i feudatari dovevano pagare. Si ritiene che tale prassi si sia diffusa precocemente nei domini normanni dell’Italia meridionale. La prima testimonianza si trova in un documento salernitano del 1077, quando Roberto il Guiscardo, dopo aver restituito a titolo feudale agli originari proprietari longobardi le loro terre, per ottenere l’adeguata prestazione di un cavaliere armato alla pesante, permise a costoro di versare una somma in denaro, sostituendo così il servitium militis con un servitium pecuniarum; in questo modo, medici, giudici, notai, e chierici poterono pagare il servitium militis dovuto per i propri feudi. In conclusione, Ruggero II con questa riforma, realizzò un modello di società feudale che lo poneva, incontrastato, al vertice, e che, nonostante la rivolta contro Guglielmo I tra il 1160 e il 1162, 161

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era destinato a mantenersi sostanzialmente invariato anche in età federiciana. In seguito, ben otto delle venti Assise di Capua, emanate da Federico II tra il 17 e il 22 Dicembre 1220, riguardarono la nobiltà feudale. La Cronica priora di Riccardo di San Germano, è l’unica testimonianza contemporanea che ci consenta di ricostruire l’incidenza legislativa che le Assise ebbero nel regno. È significativo il testo del titolo XV: “Volumus et districte iubemus ut quia post obitum domini imperatoris Henrici sigillum nostrum devenit ad manus Marcualdi (Marcovaldo di Anweiler), qui de ipso sigillo plura confecisse dicitur que sunt in preiudicium nostrum, et simile factum putatur de sigillo imperatricis matris nostre post obitum eius, universa privilegia, que facta sunt et concessa ab hiis qui sunt citra Farum usque ad Pascha resurrectionis Domini presentetur (11. 4. 1221): et ab illis de Sicilia usque ad Pentecostem (30. 5. 1221). Omnia etiam privilegia et concessionum scripta cuilibet hactenus facta in eisdem terminis precipimus presentari. Quod si non presentaverint, in ipsis privilegis non impune utantur; sed irritatis penitus qui ea conculcaverint, indignationem imperialem incurrant”1. E. CUOZZO, Piccola antologia fridericiana (1208-1231), Gentile, Salerno, 1993, p. 62, e La nobiltà dell’Italia meridionale gli Hohenstaufen, Gentile, Salerno, 1995, p. 85. Traduzione di E. D’ANGELO: “Vogliamo e comandiamo rigorosamente che, poiché al tempo della morte dell’imperatore Enrico il nostro sigillo è andato a finire nelle mani di Marcovaldo (di Anweiler), che sembra aver fatto con quel sigillo cose che possono recarci danno, e la stessa cosa deve esser pensata per quanto riguarda il sigillo dell’imperatrice Nostra madre dopo la sua morte, vengano presentati fino al termine ultimo di Pasqua (11. 4. 1221) tutti i privilegi che sono stati fatti e concessi da quelli che abitano al di là dello Stretto, e da quelli che abitano in Sicilia fino al giorno di Pentecoste (30. 5. 1221). Ordiniamo di presentare all’interno dei predetti termini anche tutti i privilegi e gli scritti di concessione fatti da Noi a chicchessia; e chi 162 1

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Il problema che pone questo testo, è quello di individuare le sue fonti legislative. Alcuni studiosi hanno ritenuto di poter identificare nel già citato editto di Ruggero II, emanato prima del 18 Ottobre 1144, forse scritto in greco e destinato ai feudatari di Sicilia e di Calabria, il precedente legislativo cui si sarebbe ispirato Federico II. Carlrichard Bruhl, nella sua pubblicazione dei diplomi di Ruggero II, ha rilevato l’esistenza di una serie di documenti che vanno dall’Ottobre 1144 al Maggio 1145, in cui, sulla base del perduto editto, la cancelleria regia confermò i privilegi presentati. Bisogna precisare che furono confermati non solo i privilegi concessi dal re, ma anche quelli concessi dai precedenti signori normanni. Risulta, quindi, evidente che Ruggero II avvertì la necessità di procedere in Sicilia e in Calabria al computo delle terre del demanio regio che erano state donate, e di quelle che appartenevano al patrimonio regio. Non si può, pertanto, sostenere che Federico II, nella stesura del titolo XV, possa essersi ispirato a tale provvedimento; tanto è vero che l’imperatore dovette agire in un contesto storico ed ambientale completamente diverso da quello del regno di Enrico VI, suo padre. È stato constatato che la cancelleria regia di Enrico VI adottò due diversi atteggiamenti verso i privilegi che dovevano presentati per la riconferma. In un primo momento, non vi furono difficoltà confermare i privilegi esaminati; successivamente, però, poiché furono presentati documenti falsi, compresi alcuni diplomi imperiali, Enrico VI ordinò alla sua cancelleria di verificare l'autenticità dei diplomi rilasciati da lui. Poiché era impossibile analizzare tutti i documenti presentati, per riprodurne integralmente i testi, si pensò di sottoporre a verifica i documenti, non li presenterà, non potrà far uso senza conseguenze di quegli stessi privilegi; invece, resi completamente nulli, quelli che avranno disprezzato queste disposizioni, incorreranno nella rabbia dell’imperatore”. Da E. CUOZZO, La nobiltà dell’Italia meridionale e gli Hohenstaufen, Gentile, Salerno, 1995, p. 174. 163

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e di rilasciare soltanto un certificato di autenticazione - detto apodixis - consistente in un foglietto di pergamena in cui si precisava che il documento era stato controllato, che ne era stata riscontrata l’autenticità, e che era stato restituito al presentatore affinché lo custodisse. Questa disposizione implicò alcune importanti conseguenze nella stesura dei diplomi: da una parte, divenne importante che i documenti avessero caratteristiche tali da non consentirne una facile falsificazione, e da permetterne un efficace e rapido controllo; dall’altra, divenne fondamentale la conservazione del documento originale. Per attuare tale dovere, si diffuse tra i feudatari del regno, la tendenza a far stilare copie conformi all’originale, ma prive di valore legale. Per risolvere un simile problema, agli inizi del ‘200 fu inventata la prassi del vidimus, che consisteva nel sottoporre il documento alla convalida da parte di un collegio giudicante, che, dopo averne accertata l’autenticità, doveva farne stilare una copia fedele, in un nuovo documento, rilasciato dallo stesso collegio; questo certificato si chiamava vidimus e documentava le varie fasi del procedimento cui era stato sottoposto l’originale. Da ciò si desume quale peso abbia avuto la società feudale tra l’XI e il XIII secolo, in Italia meridionale.

1. Legislazione feudale e struttura dell’esercito nel Mezzogiorno angioino Dopo il 1266, con l’avvento della dinastia angioina, l’egemonia dei feudatari e, soprattutto, del baronaggio divenne ancora più preponderante. Sul finire del Duecento, i rapporti di forza interni al Regno di Napoli, cambiarono radicalmente. La crisi provocata dai Vespri siciliani del 10 Giugno 1282, e i tentativi di riconquista attuati nei decenni successivi, indussero la dinastia angioina a consolidare i 164

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rapporti con il baronaggio. I baroni ebbero, pertanto, la possibilità di incrementare la loro pressione sulla Casa Reale, facendo imporre i loro diritti. In realtà, già ben prima che la stirpe dei re “potenti e valorosi” si estinguesse con Roberto, e che il governo del regno cadesse nelle mani di Giovanna I (1343-1381) e Giovanna II (14141435), emersero quei radicali cambiamenti che i Vespri siciliani impressero ai rapporti di forza del Regno. Una prima politica filobaronale fu intrapresa da Carlo II (re di Napoli tra il 1285 e il 1309). Fu ristabilita la dipendenza dei servi della gleba dai padroni. Furono tutelati i caratteri fondamentali della società feudale. Giuseppe Galasso pone alla radice di questo fenomeno i “capitoli di San Martino”, promulgati il 30 Marzo 1283; tuttavia, anche in precedenza furono emanate disposizioni normative riguardanti l’assetto feudale del Regno. La competenza regia nei processi penali fu “solennemente ribadita” da Carlo I (re di Sicilia dal 1265, e re di Napoli tra il 1282 e il 1285) nel 1275; sembra, comunque, che lo stesso Carlo abbia attribuito ai baroni un potere giudiziario limitato ai soli reati che non contemplavano la pena di morte, la mutilazione o l’esilio. A tal riguardo, pare del tutto priva di significato la concessione – fatta nel 1269 da Carlo I a suo figlio, il futuro re Carlo II – di alcune importanti città demaniali, tra cui Salerno, rafforzata dalla possibilità di esercitare poteri giurisdizionali, entro le mura cittadine. Tale concessione si configurava, infatti, come un atto di politica dinastica che, oltre a non privare la famiglia regia dei diritti ad essa spettanti, li concedeva – per di più, in via temporanea – ad un suo alto rappresentante. I “capitoli di San Martino” furono emanati quando il giovane Carlo II regnava pro tempore in nome del padre assente; ma nel 1289, durante la sua reggenza, li confermò. Tali provvedimenti rientrano in quella serie di misure che Carlo I 165

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introdusse dopo i Vespri, per assicurare e salvaguardare il buon governo del Regno. L’intero diritto feudale fu profondamente modificato. Ai baroni fu concessa la possibilità di fornire, a proprie spese, un servizio militare limitato a soli tre mesi l’anno. Alla Curia regia spettava, invece, il compito di sostenere le spese relative ad un eventuale servizio volontario. Fu, poi, riconosciuto ai baroni il diritto di essere giudicati da loro pari nelle cause da dibattere presso i tribunali regi; furono abolite tutte le mansioni non adeguate al loro rango; ma, soprattutto fu liberalizzato l’ordinamento matrimoniale abolendo, in molti casi, l’obbligo del consenso regio, purché non si concedessero in dote beni feudali e non si stipulassero accordi matrimoniali con nemici della Corona. Nello stesso tempo, però, si facilitò la concessione in dote di beni feudali, stabilendo un limite massimo di otto giorni, per consentire alla Curia di fornire una risposta adeguata alle richieste inoltrate. La conferma di Carlo II introdusse, nel 1289, un’altra innovazione di fondo: dopo aver abrogato quelle disposizioni che escludevano dalla successione feudale i secondogeniti, fu ribadito il solo principio primogeniture ac masculini sexus prerogativa; fu, inoltre, prevista la possibilità di concedere beni feudali in dote alla moglie, senza alcuna distinzione tra feudi nuovi e feudi antichi, purché fossero garantiti i diritti e le consuetudini già istituite in passato. Nel 1285, poi, i capitoli di papa Onorio IV (1285-1287), corroborarono ulteriormente l’invadenza baronale nel Regno. I baroni furono liberati dall’obbligo di fornire mezzi navali; fu eliminata la presenza dei magistri iurati1 fu prevista la possibilità di affidare la tutela dei loro figli minori ai parenti più stretti; fu introdotta l’ereditarietà dei possedimenti feudali di famiglia fino alla quarta generazione, mentre i feudi nuovi sarebbero stati 1

Pubblici funzionari con poteri di polizia. 166

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ereditati dai fratelli; fu prevista la possibilità di concedere, previo assenso regio, i suffeudi quaternati a persone di fiducia (mentre per i feudi non quaternati il consenso regio non era obbligatorio); fu introdotto l’obbligo, per la Curia regia, di non affidare incarichi privati ai vassalli. I baroni, a loro volta, furono esentati dall’obbligo di rispondere dei debiti contratti dai loro vassalli, e di fornire prestazioni al di fuori del regno, a meno che tale obbligo non derivasse da usanze preesistenti. Nello stesso tempo, all’interno del regno i loro obblighi furono ridotti a soli tre mesi l’anno. I capitoli di papa Onorio furono, per lungo tempo, oggetto di discussione tra i giuristi napoletani. Il dibattito verteva sulla potenziale forza vincolante di queste leggi. Pare, tuttavia, che esse non abbiano avuto alcuna applicazione, giacché la conferma dei “capitoli di San Martino” ad opera di Carlo II nel 1289, si configura come un tentativo di ripristinare l’autorità del re sia contro il progressivo strapotere dei baroni, sia contro le limitazioni al potere regio che Carlo II intravide nei capitoli di papa Onorio, soprattutto in relazione ai rapporti tra Stato e Chiesa. I capitoli di papa Onorio rivestono, a mio parere, un’importanza fondamentale, sia perché descrivono implicitamente i problemi e le aspirazioni del ceto feudale nel Regno di Napoli, sia perché anticipano gli orientamenti posteriori della classe baronale. Possono essere, quindi, apprezzati come chiave di lettura degli eventi successivi. La grande istruzione ordinata da Carlo II nel 1295, conferma l’orientamento in tal senso assunto dall’amministrazione regia. In primo luogo, furono sanciti la libertà di scelta dei tutori per i figli minori, e il diritto di prelazione della vedova sull’eredità, in caso di morte del marito senza testamento. Le vedove, poi, ebbero anche la possibilità di usufruire di doti sull’eredità, qualora non vi fossero figli; e, comunque, avrebbero potuto incassarne le rendite, 167

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senza dover prestare omaggio al nuovo proprietario del feudo, a patto che non fosse stata stabilita da un precedente accordo la riconsegna dei beni al loro originario titolare, dopo la morte del marito. In ogni caso, l’eredità delle vedove senza figli fu equiparata a quella dei discendenti maschi. In questi essenziali provvedimenti già si delinea la politica di sostegno, se non di vero e proprio cedimento1, attuata dalla dinastia angioina a favore delle famiglie baronali. Questo orientamento si consolida sotto la reggenza di Roberto d’Angiò (1309-1343). È proprio in questo periodo che emerse il legame tra le difficoltà militari, in parte dovute all’incessante conflitto con gli Aragonesi, e lo strapotere del ceto baronale all’interno del regno. Nel 1312, infatti, Roberto si vide costretto a richiamare quei baroni che, dovendo fornire obbligatoriamente il servizio militare, tendevano a ridurlo nel tempo, se non ad ignorarlo del tutto. In questa occasione furono richiamati anche quei baroni che, non essendo tenuti a fornire il servizio militare con armamento completo, avrebbero dovuto presentarsi davanti al re, perché la Curia scegliesse, tra di loro, i cavalieri più adatti al servizio militare completo, da espletarsi previo pagamento di una somma integrativa di denaro (ad ulteriore conferma delle difficoltà militari). Nel 1313 furono richiamati i feudatari de tabula, ossia coloro che non dipendevano direttamente dalla Corona. Qualora costoro fossero risultati detentori di più feudi, avrebbero dovuto prestare personalmente il servizio militare per il feudo di maggiore estensione, e assoldare un sostituto per quelli di minore entità. Qualora fossero, invece, titolari di porzioni di feudo tanto piccole da non poter fornire un servizio militare sufficiente, avrebbero dovuto assolvere tale obbligo sostituendolo con un adeguato contributo in denaro. Nel 1316, Roberto d’Angiò emanò 1 G. GALASSO, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino-aragonese (1266 -1494), Utet, Torino, 1992, p. 363. 168

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leggi destinate a contrastare gli abusi in materia di exceptio hostica, l’esenzione dal servizio di leva già introdotta dalla dinastia sveva, che i baroni tentarono più volte di sfruttare. Nell’esercito, quindi, il rapporto tra la monarchia e i baroni pendeva nettamente a favore dei secondi. Nel 1317 furono anche confermate le disposizioni in materia di discendenza feudale, varate da Carlo I, e troppo spesso ignorate, se non infrante, dai baroni. Nel 1323 fu sancito l’obbligo, per le vedove, di non assegnare feudi ai figli del loro secondo marito. In un anno indefinito si statuì il diritto, per i baroni, di richiamare anche i vassalli stabilitisi altrove, anche qualora costoro non fossero tenuti a fornire nessuna prestazione di carattere personale. Nel 1332, furono elencate, in un’unica lista, le infrazioni compiute dai baroni a danno della Curia. In quell’occasione si ritenne opportuno trovare un accordo. Tale orientamento fu confermato, in un anno imprecisato, dichiarando di non voler diseredare tutti quei baroni che, al momento della successione, non avevano prestato il relativo omaggio, a patto che dichiarassero di voler assolvere tale obbligo. Giuseppe Galasso sintetizza efficacemente queste circostanze, ribadendo una convinzione comune a buona parte della storiografia napoletana: “È… da notare che anche per Roberto la linea di lento, ma progressivo cedimento normativo risulta parallela a quella di una prassi amministrativa ancora meno rigida”1.

2. La nuova nobiltà feudale angioina Il 18 Febbraio 1266, a Benevento, le milizie imperiali capeggiate da Manfredi, figlio di Federico II di Svevia, furono clamorosamente sconfitte dalle truppe comandate da Carlo I 1

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d’Angiò, con il sostegno dei Comuni guelfi dell’Italia centrale, e sotto la tutela della Chiesa di Roma. L’evento segnò una svolta epocale per le sorti dell’Italia e dell’Europa occidentale. Carlo impiegò in battaglia truppe composte, per la maggior parte, da soldati francesi, che egli ricompensò generosamente con la concessione in feudo delle terre conquistate. L’assetto sociale dell’aristocrazia feudale napoletana, quindi, mutò radicalmente. In un breve arco di tempo, dal 1267 alla prima metà del Trecento, tutte le più alte cariche, civili e religiose, del Regno, furono gestite dai membri di quella aristocrazia feudale francese che aveva sostenuto militarmente l’impresa italiana di Carlo I, ricevendo in cambio potere e prestigio. Famiglie come i Della Ratta, i Del Balzo, i Merloto acquisirono onori e cariche, fino a conquistare i gradi nobiliari più alti. Dopo la conquista, Carlo I scelse Napoli quale capitale del nuovo Regno, trasformando la città in un polo d’aggregazione della classe nobiliare, ove insediare la corte e dispensare cariche ed onori. Attratta dalle grandi possibilità di affermazione politica, sociale, che la città offriva, la nuova aristocrazia costruì palazzi, conventi, chiese; commissionò dipinti, sculture, oggetti di oreficeria sacra e profana, eresse monumenti sepolcrali grandiosi. Uno dei primi segni tangibili del dominio angioino, fu la nascita di imponenti complessi religiosi. La dinastia angioina, vincolata alla Chiesa di Roma, si prodigò nella fondazione di chiese e conventi. Nella sola Napoli, sotto Carlo I e Carlo II furono edificati S. Eligio al Mercato, S. Lorenzo Maggiore, S. Agrippino a Forcella, S. Agostino alla Zecca e, soprattutto, il Duomo. I due sovrani sostennero i Domenicani e Giovanni Pipino nella costruzione dei conventi di S. Domenico Maggiore, di S. Pietro Martire, e di S. Pietro a Maiella. Roberto I e la regina Sancha di Maiorca fondarono il convento e la basilica di Santa Chiara. La nobiltà feudale fece erigere monumenti funerari sfarzosi ed 170

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imponenti; le chiese napoletane traboccano di lapidi con l’immagine del defunto disteso con le proprie armi, e con i piedi poggianti su canolini, simbolo di fedeltà; ma l’insediarsi di nobiltà feudale nuova, che si identificava pienamente nell’ideologia cavalleresca, influì profondamente su tutta l’arte napoletana dell’epoca. L’appartenenza alla società feudale e cavalleresca doveva essere esibita ovunque. Si può notare a tal riguardo come nell’apparato decorativo dei dipinti, delle sculture, e delle suppellettili sacre e profane databili a questo periodo, prevalga l’elemento araldico. Dipinti, affreschi, oggetti d’oro e d’argento commissionati dagli Angioini, recano tutti l’emblema della dinastia: il giglio. Si pensi al busto-reliquiario di S. Gennaro, opera degli orefici francesi Guillaume de Verdelay, Milet d’Auxerre, Etienne Goidefroy; o alla croce argentea che, secondo alcuni studiosi, Carlo II avrebbe donato alla Basilica di San Nicola a Bari. Si pensi ancora alla tavola con “San Ludovico da Tolosa” dipinta da Simone Martini nel 1317, dove l’accostamento di raffinate tonalità turchesi e dorate trasforma la raffigurazione di un convinto pauperista francescano, che consegna la corona del regno al fratello Roberto, in una scena di gusto prettamente cavalleresco. Si pensi, inoltre, ai dipinti e agli affreschi di S. Maria Incoronata, attribuiti a Roberto d’Oderisio, alla “Maestà” dipinta da Montano d’Arezzo per l’Abbazia di Montevergine, alle pitture a fresco di Santa Maria Donnaregina Vecchia e della Cappella Leonessa in S. Pietro a Maiella. Il giglio compare, poi, nei sepolcri reali scolpiti da Tino da Camaino e dai suoi seguaci, così come anche nella decorazione dei manoscritti, come la “Bibbia di Niccolò d’Alife”, miniata da Cristoforo Origina. L’insistente presenza di stemmi nobiliari nelle opere d’arte dimostra a sufficienza come, secondo un costume diffuso presso tutta l’aristocrazia feudale europea, la nobiltà napoletana tendesse ad esaltare e ad onorare il lignaggio e le tradizioni familiari. 171

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3. La cultura cavalleresca nella Napoli angioina Con l’avvento al potere di una classe dirigente per buona parte costituita da elementi di origine francese, Napoli divenne centro di consumo e di produzione di componimenti d’argomento cavalleresco. Dalla fine del Duecento cominciarono a circolare, nei colti ambienti aristocratici del Regno, componimenti di autori meridionali scritti in francese. Un’importante testimonianza al riguardo, è offerta dai due autori che, tra il 1305 e il 1310, lavorano per un certo “conte de Militrèe”, l’altro per il conte di Caserta Bartolomeo Siginulfo, appartenente ad una illustre famiglia aristocratica napoletana. Il primo, che aveva tradotto dal latino al francese, la Cronaca di Isidoro di Siviglia, la Historia romana e la Historia langobardorum di Paolo Diacono, la Historia normannorum di Amato da Montecassino, e la Historia sicula di un anonimo, in un francese denso di “napoletanismi”, che il suo signore “monseignor conte de Militrèe”, non solo comprende il francese, ma che ha fatto tradurre le opere “per il diletto suo e dei suoi amici”1. Il secondo, che per Bartolomeo Siginulfo tradusse le lettere di Seneca a Lucilio, rivolgendosi ai lettori, dichiara la non perfetta padronanza della lingua. Tale delucidazione sarebbe stata del tutto superflua se i due autori fossero stati francesi; ma, la scelta linguistica è, di per sé, significativa, in quanto indica l’esistenza di un pubblico capace non solo di apprezzare i contenuti delle opere, ma anche di comprenderne l’idioma. La circolazione di componimenti d’argomento cavalleresco, fu favorita anche dalla produzione di preziosi manoscritti, meravigliosamente miniati ed ornati. Napoli divenne, quindi, un importante centro di lettura e diffusione della letteratura epica cavalleresca; tuttavia, mentre nel resto della penisola, accanto ad F. SABATINI Napoli angioina. Cultura e società, Edizioni Scientifiche, Italiane, Napoli, 1975. 172

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opere in francese, fecero la loro prima comparsa testi letterari scritti in un volgare intriso di latinismi e di francesismi, nel Regno angioino di Napoli si assiste all’imporsi di una cultura letteraria che adotta il francese come unico mezzo di espressione. La mancanza di una produzione letteraria in lingua napoletana si spiega non solo con l’esistenza di una nobiltà feudale che continua a riconoscersi unicamente nell’ideologia cavalleresca e cortese; ma anche, forse, con l’apparente assenza di una tradizione letteraria partenopea; occorre, nondimeno, precisare che, mentre nei Comuni dell’Italia centro-settentrionale, l’ascesa sociale della borghesia mercantile si riflesse nella produzione di opere in volgare italiano ispirate alla poesia provenzale e francese, si assiste al consolidarsi di una società feudale, che pone il sovrano al vertice, e che considera l’ideologia cavalleresca quale unica fonte d’ispirazione letteraria e linguistica. Numerose testimonianze documentarie e letterarie attestano quanto fosse diffuso l’uso di celebrare riti propri del costume cavalleresco francese a Napoli: i tornei che si svolgevano nei larghi di Carbonara e delle Corregge, le cerimonie d’investitura cavalleresca in Castel Nuovo o presso S. Pietro ad Aram, i matrimoni tra i rampolli delle famiglie nobili, dovevano diffondere l’idea di un’aristocrazia feudale che ispirava la propria condotta di vita ad una raffinata etica cavalleresca. Le ragioni di questo predominio linguistico-letterario possono essere identificate, a mio parere, in due elementi: la presenza, a corte, di esponenti dell’aristocrazia francese che hanno diffuso i costumi, la lingua e la cultura della loro terra d’origine; e la natura feudale dei rapporti che legavano il re alla nobiltà del regno. La ripresa dei temi e delle istanze tipiche della poesia francese e provenzale ha, nell’Italia meridionale, una lunga tradizione. I Normanni, assoldati come mercenari dalle signorie longobarde e bizantine, diffusero nel nostro Mezzogiorno i 173

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romanzi dell’epopea cavalleresca francese, come dimostrano i rilievi scultorei di facciata dell’Abbazia di Santa Maria della Strada a Matrice, presso Campobasso; alcuni studiosi ritengono che la Chanson de Roland sia stata ideata e composta presso la corte normanna di Salerno. Nel corso del XIII secolo, i poeti della “Scuola siciliana”, raccolti attorno alla figura dell’imperatore Federico II di Svevia, ripresero, nei loro componimenti, le forme e i temi cari alla poesia trobadorica provenzale. Nel regno angioino l’ispirazione all’ideologia cavalleresca e cortese – che appare non solo formale, ma anche sostanziale – fu anche favorita dalla presenza, nel regno, di autori appartenenti ai due movimenti poetici. Carlo II intrattenne contatti con la “Scuola poetica di Arras”; accolse e protesse presso la sua corte poeti come Raoul de Soissons, Perrin d’Angicourt, Sordello da Goito, Rutebeuf, Jean de Meung o Adam de la Halle (detto Adam le Bossu) che, giunto nel 1283 presso la corte del padre, Carlo I, al seguito del conte d’Artois Roberto II, vi avrebbe composto la sua opera più famosa: Le jeu de Robin et Marion; prese parte a numerosi duelli poetici, detti jeux partis, in uno dei quali gareggiò con Perrin d’Angicourt. Dopo aver sposato Beatrice, figlia del conte di Provenza Raimondo Berengario IV, venne in contatto con la poesia provenzale, contribuendo a formare quella cultura eclettica che troverà piena espressione nel figlio Roberto e nella sua corte. 4. Re Roberto Questo lento, ma graduale, processo d’identificazione della classe feudale del regno con l’ideologia cavalleresca e la sua deontologia, raggiunse il culmine durante il regno di Roberto I D’Angiò. La cultura del sovrano, ancora oggi oggetto di dibattito storico, fu piuttosto eterogenea. Se gli scritti di religione, come il “Tractatus de paupertate Christi”, la “Visione beatifica”, o i 174

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“Sermoni”, mostrano quanto profondo sia stato l’ascendente esercitato dal misticismo e dal pauperismo francescano sulla sua formazione spirituale, la protezione e i favori concessi al Boccaccio e al Petrarca – che gli dedicò un poemetto scritto in latino, intitolato “Africa”, e che dal sovrano volle farsi esaminare nel 1343, prima di farsi incoronare poeta a Roma, sul Campidoglio – dimostrano l’interesse per la nascente cultura umanistica. La biblioteca di Roberto comprendeva, in prevalenza, opere di teologia, diritto e medicina. In passato, molti studiosi hanno rilevato come l’ideologia cavalleresca costituisse l’elemento più aggiornato di una cultura ancora prettamente medievale; e come trovasse piena espressione nell’arte figurativa. Roberto si fa rappresentare seduto sul trono in dipinti, miniature, sculture, tra lo sfavillare di mille preziosi colori, e dei gigli che ovunque lo circondano. Questa sua immagine compare in numerose opere, come il sepolcro che gli scultori fiorentini Giovanni e Pacio Bertini scolpirono per il sovrano nella basilica di Santa Chiara, dopo la sua morte, avvenuta nel 1343; oppure una miniatura della “Bibbia di Niccolò d’Alife”. Nel “S. Ludovico da Tolosa”, autentico manifesto di propaganda, che Simone Martini dipinse nel 1317 su commissione dello stesso sovrano per la basilica di S. Lorenzo Maggiore, Roberto sembra sottoporsi ad una duplice incoronazione, sacra e cavalleresca; nel dipinto, il maggior risalto conferito alla figura del santo, che domina fisicamente e psicologicamente quella del sovrano, sembra studiato in modo tale da rimarcare il ruolo fondamentale svolto dal sovrano nella cultura e nella società della sua epoca. Lo stesso significato religioso dell’opera si dissolve in un’atmosfera dorata da leggenda cavalleresca; infatti, mentre nelle scene della predella prevale un tono aneddotico e narrativo, nella tavola principale, l’immagine statica e perfettamente frontale di S. Ludovico sembra voler sottolineare non solo la sacralità sua, ma anche quella di tutta la famiglia. 175

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Questo concetto di “sacralità” della figura del sovrano ha accompagnato tutta l’evoluzione della società feudale europea fin dalle origini; gli Angioini seppero sfruttare sapientemente questa nozione: gigli compaiono nella cornice, nel fondo dorato e sulle vesti nel “S. Ludovico da Tolosa”, nei drappi e nelle vesti del “Trionfo della religione” e dei “Sette Sacramenti” affrescati da Roberto d’Oderisio nella chiesa di Santa Maria Incoronata, e in molti altri opere a soggetto religioso eseguite sotto il regno di Roberto. Nel rispetto delle tradizioni familiari, il sovrano accolse e protesse poeti francesi e provenzali; fu appassionato lettore di romanzi dei cicli carolingio, arturiano, bretone e troiano, che custodì gelosamente nella propria biblioteca; passione che egli espresse anche negli affreschi con le immagini degli “Uomini illustri” che, su suo desiderio, Giotto dipinse in Castel Nuovo; tema caro alla nobiltà feudale e cavalleresca, e ancor di più ad un sovrano che volle propagandare di sé l’immagine di un cavaliere giusto e devoto. Bibliografia M. Bloch, La società feudale, Einaudi, Torino, 1999; E. Cuozzo, La nobiltà meridionale e gli Hohenstaufen, Gentile, Salerno, 1995; ID., Normanni. Nobiltà e cavalleria, Gentile, Salerno, 1995; ID., La cavalleria nel Regno normanno di Sicilia, Mephite, Atripalda, 2002; G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino – aragonese (1266 – 1494), Utet, Torino, 1992; ID., Storia d’Europa, Laterza, Bari, 2001; P. Leone De Castris, Arte di corte nella Napoli angioina, Contini, Firenze, 1986; F. Sabatini, Napoli angioina. Cultura e società, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1975. 176

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NOTE BIO-BIBLIOGRAFICHE

Angelo Gambella è Presidente del Medioevo Italiano Project e Vice Presidente della SISAEM. Ha all’attivo la pubblicazione di opere di carattere storico, segnatamente sull’Italia meridionale normanna. Giornalista pubblicista, è autore di numerosi articoli per testate telematiche e a stampa. Editore ed imprenditore, è impegnato nell’ICT e, particolarmente, nell’applicazione dell’Informatica alle Scienze Storiche, sia da un punto di vista propriamente direttivo ed amministrativo, sia da un punto di vista più strettamente tecnico e specialistico. Ha conseguito l’Attestato del Corso di “Tecniche di Comunicazione della Didattica in Rete” presso l’Università degli Studi di Ferrara.

Paolo Gravina è laureato in Conservazione dei Beni Culturali, titolo conseguito presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, con tesi in Storia Medievale dal titolo “La società feudale e la cultura cavalleresca”. Autore di articoli di Storia e di Storia dell’arte medievale su diversi siti Internet.

Umberto Maiorca è laureato in Lettere con indirizzo storico, ed ha conseguito un Master universitario in Storia e Storiografia multimediale. È giornalista pubblicista e scrive articoli di storia e di storia militare su varie riviste fra cui Storiadelmondo.

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Ulderico Nisticò, nato nel 1950, docente di Lettere, dedica gran parte della sua attività culturale alla riscoperta della storia meridionale e calabrese, all’edizione critica di testi dei secoli XVI e XVII, e alla divulgazione della conoscenza storica.

Renzo Paternoster è laureato in Scienze Politiche con indirizzo economico-internazionale, titolo conseguito presso l’Università degli Studi di Bari, con tesi di Storia dei rapporti fra Stato e Chiesa. Autore di numerosi articoli per il web, s’interessa di storia della guerra e del terrorismo.

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INDICE

RENZO PATERNOSTER La “bella” contesa: la guerra nel Medioevo

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ULDERICO NISTICÒ Ascendant ad montes. La difesa passiva e attiva dello Ionio calabrese in età bizantina

pag. 51

ANGELO GAMBELLA Rainulfo di Alife. Uomo di guerra normanno

pag. 113

UMBERTO MAIORCA La battaglia di Bouvines

pag. 145

PAOLO GRAVINA La società feudale e la cultura cavalleresca nella Napoli angioina, da Carlo I a Roberto il saggio (1266 - 1343)

pag. 155

NOTE BIO-BIBLIOGRAFICHE

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INDICE

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Studi storici sul Medioevo Italiano I. A. Gambella, Alife normanno-sveva, Drengo, Roma, 2003, pp. 40 + VIII tav. ISBN 88-88812-03-2 II. A. Gambella, Medioevo Alifano. Potere e Popolo nello stato normanno di Alife, Drengo, Roma, 2007, pp. 350 + XVI tav., Drengo, Roma, 2007, ISBN 978-88-88812-18-2 III. Medioevo in Guerra, a cura di A. Gambella, Drengo, Roma, 2008, pp. 180. ISBN 978-88-88812-19-9 180