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Italian Pages XXII,1024 [1050] Year 2017
MANUALE DI DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA
RobeRto AdAm - Antonio tizzAno
MANUALE DI DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA Seconda edizione
G. Giappichelli Editore
© Copyright 2017 - G. GiAPPiCHeLLi editoRe - toRino ViA Po, 21 - teL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100
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Presentazione
C’è stata, o meglio ci sarà, la Brexit; c’è stata poi l’ondata migratoria; e poi l’evoluzione della crisi economica; e poi … tutto il resto. Nei tre anni che sono trascorsi dalla prima edizione di questo Manuale, l’Unione europea ha conosciuto importanti novità, come del resto accade in modo ricorrente per il processo d’integrazione europea, che ci ha abituati fin dalle origini a un succedersi incessante di sviluppi politici e istituzionali, che ne affinano i meccanismi e le modalità di funzionamento, ne riaggiustano la struttura istituzionale, ne riorientano, talvolta, le stesse finalità, o quanto meno alcune di esse. Gli sviluppi prodottisi in questi tre anni non sono stati da meno; e in più sono intervenuti in un periodo della vita politica dell’Unione particolarmente complesso, perché attraversato da eventi che si stanno ripercuotendo in maniera e in misura significativa, ma non ancora del tutto prevedibile sulle prospettive future del processo d’integrazione europea. In questa situazione la pubblicazione di una nuova edizione del Manuale era diventata ormai improcrastinabile. Si trattava non solo di fornire ai suoi lettori, e in primo luogo agli studenti che vorranno servirsene per i corsi universitari, un panorama aggiornato di quel processo; ma anche di fare emergere le implicazioni delle diverse novità di legislazione, prassi e giurisprudenza intervenute in questi tre anni per il funzionamento di diversi aspetti della macchina europea e per il senso profondo di tale processo. Non sappiamo se ci siamo riusciti; ma certamente questa seconda edizione rappresenta una nuova tappa di quel percorso di riflessione sull’Europa che abbiamo avviato tre anni fa con la pubblicazione di questo Manuale, e ancor prima con quella del suo “fratello minore”, i “Lineamenti”, ugualmente edito da Giappichelli. Ma rispetto alla prima edizione, quella che ora presentiamo si caratterizza anche per la diversa strutturazione che abbiamo voluto dare al testo. Nella speranza infatti che ciò possa renderne più fluida, e quindi più comprensibile, la lettura abbiamo deciso di abolire le note a piè di pagina accorpando la sostanza delle stesse (con i ne-
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Presentazione
cessari riferimenti bibliografici e/o documentali) all’interno di parti del testo evidenziate mediante un corpo più piccolo. Per finire, desideriamo rivolgere un vivo ringraziamento al dr. Francesco Pili, referendario alla Corte di giustizia dell’UE, per l’aiuto prezioso che ci ha dato nella preparazione di questa nuova edizione. R.A. – A.T.
Presentazione della prima edizione
Il presente Manuale trova le sue origini in una nostra precedente opera, i Lineamenti di diritto dell’Unione europea, avviata nel 2008 e destinata a proseguire il suo autonomo percorso con la prossima uscita, sempre per i tipi della Giappichelli Editore, della terza edizione. Un semplice sguardo al “Piano” generale di questa nuova opera è peraltro sufficiente per cogliere le sue differenze dai Lineamenti, e le ragioni che ci hanno indotto a darne conto anche nella titolazione. Se invero i Lineamenti avevano – e conservano – l’originario intento di fornire uno strumento, a fini essenzialmente didattici, per lo studio dei principali profili del sistema giuridico-istituzionale dell’Unione europea (istituzioni, fonti, tutela giurisdizionale dei diritti), il presente e ben più ampio volume ha l’ambizione di rappresentare un’opera manualistica tendenzialmente completa, destinata a consentire una lettura di quei profili anche alla luce delle competenze materiali dell’Unione e delle concrete realizzazioni in cui esse si sono tradotte. Nelle sei Parti in cui essa è suddivisa, vengono infatti illustrati tanto i diversi aspetti in cui si articola l’assetto istituzionale, normativo e giurisdizionale dell’Unione, quanto gli specifici ambiti di attività nei quali le sue istituzioni sono chiamate ad esercitare le loro competenze. Questi ultimi sono anzi oggetto di una trattazione analitica che, partendo da alcuni temi generali quali i valori e gli obiettivi del processo d’integrazione, la cittadinanza dell’Unione e il sistema delle sue competenze, esamina i contenuti e gli sviluppi di ciascuna delle politiche e azioni dell’Unione, ivi incluse quelle attraverso cui si esprime la sua presenza sulla scena internazionale. La ragione che ci ha indotto ad affrontare questa ben più impegnativa impresa risiede essenzialmente nella convinzione che fosse ormai non più procrastinabile il momento di integrare l’offerta editoriale italiana, al pari di quanto avviene da tempo in altri Paesi, con una trattazione tendenzialmente completa, e al tempo stesso condensata all’interno di un unico volume, della dimensione giuridica del processo d’integrazione europea. Scelta, questa, che ci ha ovviamente costretto a uno sforzo supplementare per contenere quanto più possibile le dimensioni dell’opera senza tuttavia compromettere la qualità e la completezza della trattazione e la comprensione del senso e della portata delle concrete realizzazioni del processo d’integrazione.
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Presentazione alla prima edizione
Trovare la sintesi tra queste due esigenze non è stato sempre facile, dato che, come ben sanno i cultori della materia, l’ampiezza e la complessità di alcuni dei temi sopra elencati, specie di quelli riguardanti le competenze materiali, avrebbero sicuramente meritato sviluppi ben più estesi. Giudicherà il lettore se ci siamo, almeno in parte, riusciti; per parte nostra, siamo comunque consapevoli che l’opera può e deve essere ulteriormente migliorata, e speriamo di poterlo fare nelle prossime edizioni, specie se non ci mancheranno le notazioni critiche e i costruttivi consigli dei Colleghi e dei cultori della materia. Del resto, se anche volessimo illuderci di riposare su presunti allori, ne saremmo risvegliati dalla necessità di inseguire gli sviluppi del processo d’integrazione europea, che impongono non solo aggiornamenti continui, ma anche una permanente riflessione critica sulla natura e sul senso degli stessi, specie in un periodo in cui quel processo è esposto ai tempestosi venti di una sconvolgente crisi economica e di un umore assai tiepido (per essere eufemistici) di una sfiduciata opinione pubblica. Sull’impostazione del Manuale non abbiamo molto da aggiungere, perché crediamo che la lettura del Piano generale dell’opera sia già di per sé esplicativa. Ci limitiamo a sottolineare, da una parte, e soprattutto per gli studenti, l’opportunità, per non dire la necessità, di consultare questo volume avendo accanto i testi dei Trattati; dall’altra, che abbiamo deciso di contenere al massimo i riferimenti bibliografici, per le ragioni che indichiamo nella Nota bibliografica e di documentazione. All’impegno richiesto da un lavoro di tale portata è stato possibile far fronte solo grazie all’aiuto di preziosi collaboratori. Vogliamo quindi esprimere la nostra gratitudine a Fabrizio Barzanti, Piero De Luca e Massimiliano Puglia per avercelo offerto a tutto campo e con grande generosità, così come siamo grati a Susanna Fortunato e Paolo Iannuccelli, che si sono ad essi affiancati con esperienza e competenza. Per alcuni temi abbiamo potuto contare anche sulla collaborazione di Roberto Cisotta, Celeste Pesce, Antonello Schettino e Luca Visaggio, ai quali ugualmente rivolgiamo un vivo ringraziamento. R.A. – A.T.
Piano dell’opera
INTRODUZIONE CAP. I: CAP. II:
L’Unione europea e il suo diritto Origini e sviluppi del processo di integrazione europea
PARTE PRIMA L’ORDINAMENTO GIURIDICO DELL’UNIONE CAP. I: CAP. II: CAP. III: CAP. IV:
Profili generali Il quadro istituzionale Le fonti Il processo decisionale
PARTE SECONDA LA TUTELA DEI DIRITTI Introduzione CAP. I: Considerazioni generali CAP. II: Organizzazione e funzionamento della Corte di giustizia dell’Unione europea CAP. III: I giudizi sui comportamenti degli Stati membri CAP. IV: Il controllo sui comportamenti delle istituzioni dell’Unione CAP. V: La competenza pregiudiziale CAP. VI: Le competenze “minori” CAP. VII: La tutela giudiziaria in ambito nazionale
Piano dell’opera
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PARTE TERZA OBIETTIVI E COMPETENZE DELL’UNIONE CAP. I: CAP. II: CAP. III:
Valori e obiettivi dell’Unione La cittadinanza dell’Unione Il sistema delle competenze
PARTE QUARTA LE POLITICHE DELL’UNIONE Introduzione Il mercato interno CAP. I: CAP. II: La libera circolazione delle merci CAP. III: La politica agricola comune e della pesca CAP. IV: La libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali CAP. V: Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia CAP. VI: La politica comune dei trasporti CAP. VII: Concorrenza, fiscalità e ravvicinamento delle legislazioni CAP. VIII: La politica economica e monetaria CAP. IX: Occupazione e politiche sociali CAP. X: Le politiche settoriali
PARTE QUINTA L’AZIONE ESTERNA DELL’UNIONE CAP. I: CAP. II:
Profili generali I singoli settori dell’azione esterna
PARTE SESTA LA PARTECIPAZIONE DELL’ITALIA AL PROCESSO D’INTEGRAZIONE EUROPEA CAP. I: CAP. II: CAP. III:
Profili generali Il diritto dell’Unione e l’ordinamento giuridico italiano Organizzazione e procedure per la partecipazione dell’Italia all’Unione europea
Abbreviazioni
AG: avvocato generale Alto Rappresentante: Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza art.: articolo artt.: articoli AUE: Atto Unico europeo BCE: Banca centrale europea BCN: Banche centrali nazionali BEI: Banca europea per gli investimenti BvE: Bundesverfassungsgericht entscheidung (decisione della Corte costituzionale tedesca) BVG: Bundesverfassungsgericht (Corte costituzionale tedesca) c.c.: codice civile c.p.: codice penale c.p.c.: codice di procedura civile c.p.p.: codice di procedura penale CAG: Consiglio Affari Generali Carta dir. fond.: Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea Cass. civ.: Cassazione civile Cass. pen.: Cassazione penale CDR: Comitato delle regioni CE: Comunità europea CECA: Comunità europea del carbone e dell’acciaio CEE: Comunità economica europea CEEA/Euratom: Comunità europea dell’energia atomica CEDU: Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali CES: Comitato economico e sociale CIAE: Comitato interministeriale per gli affari europei CIG: Conferenza intergovernativa Cons. Stato: Consiglio di Stato
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Abbreviazioni
COREPER: Comitato dei rappresentanti permanenti Corte Cass.: Corte di Cassazione Corte conti: Corte dei conti Corte cost.: Corte costituzionale Corte EDU: Corte europea dei diritti dell’uomo Corte giust.: Corte di giustizia delle Comunità europee (fino al 30 novembre 2009); Corte di giustizia dell’Unione europea (dal 1° dicembre 2009) Cost.: Costituzione della Repubblica italiana d.lgs.: decreto legislativo d.l.: decreto-legge d.p.c.m.: decreto del Presidente del Consiglio dei ministri d.P.R.: decreto del Presidente della Repubblica dec.: decisione dich.: Dichiarazione dir.: direttiva GUCE: Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee GURI: Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana GUUE: Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea l. cost.: legge costituzionale l.: legge MES: Meccanismo europeo di stabilità o.c.m.: organizzazione comune dei mercati OCSE: Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico OLAF: Ufficio europeo per la lotta antifrode OMC: Organizzazione mondiale del commercio ONU: Organizzazione delle Nazioni Unite PAC: Politica agricola comune par.: paragrafo PE: Parlamento europeo PESC: Politica estera e di sicurezza comune PMI: piccole e medie imprese Prot.: Protocollo PSDC: Politica di sicurezza e difesa comune racc.: raccomandazione reg. int.: regolamento interno reg. proc.: regolamento di procedura reg.: regolamento ris.: risoluzione SEAE: Servizio europeo di azione esterna SEBC: Sistema europeo di banche centrali
Abbreviazioni
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SEE: Spazio economico europeo SLSG: Spazio di libertà, sicurezza e giustizia s.o.: supplemento ordinario St.: Statuto TAR: Tribunale Amministrativo Regionale TCE: Trattato istitutivo della Comunità europea TCECA: Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio TCEE: Trattato che istituisce la Comunità economica europea TCEEA: Trattato istitutivo della Comunità europea dell’energia atomica TFP: Tribunale della funzione pubblica dell’Unione europea TFUE: Trattato sul funzionamento dell’Unione europea TPI: Tribunale di primo grado Trib.: Tribunale dell’Unione europea TUE: Trattato sull’Unione europea UE: Unione europea UEM: unione economica e monetaria
Standard di citazione della giurisprudenza dell’Unione europea a) Per i motivi indicati infra a p. 14, la giurisprudenza prodotta fino al 31 dicembre 2011 è citata nel modo seguente: sigla della giurisdizione (Corte giust./Trib.), data della pronuncia, numero della causa, nome delle parti, numero della pagina della Raccolta della giurisprudenza. Esempi: – Corte giust. 9 agosto 1994, C-327/91, Francia c. Commissione, I-3641; – Trib. ord. 23 novembre 1999, T-173/98, UPA c. Consiglio, II-3357. b) Nelle citazioni della giurisprudenza successiva, invece, è omesso il numero della pagina della Raccolta. Standard di citazione degli articoli dei Trattati Il numero dell’articolo è seguito immediatamente dall’abbreviazione corrispondente al pertinente Trattato. Esempi: art. 267 TFUE; art. 14 TUE. Per i testi precedenti il Trattato di Lisbona: art. 177 TCEE; art. 230 TCE; art. 14 TUE preLisbona.
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Abbreviazioni
Nota bibliografica e di documentazione
Si forniscono qui di seguito alcune indicazioni bibliografiche e di documentazione, selezionate in funzione delle finalità del presente volume e quindi essenzialmente della loro utilità didattica. Va peraltro avvertito che, per quanto riguarda la bibliografia, le indicazioni sono limitate alle opere di carattere generale e, in principio, successive al Trattato di Lisbona. Non sono invece fornite, né qui né all’interno dei singoli capitoli, indicazioni bibliografiche su temi specifici. Si è dovuto, in effetti, prendere atto che ormai anche la più rigorosa selezione della sovrabbondante produzione scientifica sul diritto dell’Unione si tradurrebbe in lunghi e indistinti elenchi di titoli, per giunta inevitabilmente lacunosi e quindi anche a rischio di … spiacevoli omissioni. D’altra parte, l’esigenza delle tradizionali elencazioni bibliografiche è oggi di molto attenuata grazie ai moderni strumenti informatici, che permettono un facile accesso a ogni informazione utile per ulteriori ricerche e approfondimenti. Tra di essi si segnala in modo particolare, per quanto qui interessa, il catalogo della biblioteca della Corte di giustizia, che fornisce, nelle diverse lingue ufficiali dell’Unione, sistematiche e compiute indicazioni su tutte le tematiche oggetto del presente volume. Tale catalogo è consultabile al seguente indirizzo: http://bib-curia.eu/client/curia
Manuali e trattati italiani ADAM R.-TIZZANO A., Lineamenti di diritto dell’Unione europea, 2ª ed., Torino, 2016. BARGIACCHI P., Diritto dell’Unione europea, Ariccia, 2015. BIN R.-CARETTI P.-PITRUZZELLA G., Profili costituzionali dell’Unione europea, 2ª ed., Bologna, 2015. CALAMIA A.M.-VIGIAK V., Diritto dell’Unione europea. Manuale Breve, Milano, 2017. CANNIZZARO E., Il diritto dell’integrazione europea, Torino, 2015. CHITI M.P.-GRECO G. (a cura di), Trattato di diritto amministrativo europeo, Milano, 2007. COSTANZO P.-MEZZETTI L.-RUGGERI A., Lineamenti di Diritto costituzionale dell’Unione europea, 4ª ed., Torino, 2014. DANIELE L., Diritto dell’Unione europea, 5ª ed., Milano, 2014. DANIELE L., Diritto del mercato unico europeo, 3ª ed., Milano, 2016. DRAETTA U., Elementi di diritto dell’Unione europea. Parte istituzionale, Ordinamento e struttura dell’Unione europea, 5ª ed., Milano, 2014. DRAETTA U.-PARISI N., Elementi di diritto dell’Unione europea. Parte speciale. Il diritto sostanziale, Milano, 4a ed., Milano, 2014. GAJA G.-ADINOLFI A., Introduzione al diritto dell’Unione europea, 4a ed., Bari, 2016. GUIZZI V., Manuale di diritto e politica dell’Unione europea, 4a ed., Napoli, 2015. MENGOZZI P.-MORVIDUCCI C., Istituzioni di diritto dell’Unione europea, Padova, 2014.
XVI
Nota bibliografica e di documentazione
PARISI N.-PETRALIA V., Elementi di diritto dell’Unione europea, Milano, 2016. STROZZI G.-MASTROIANNI R., Diritto dell’Unione europea. Parte istituzionale, 7a ed., Torino, 2016. STROZZI G. (a cura di), Diritto dell’Unione europea. Parte speciale, 5a ed., Torino, 2017. TESAURO G., Diritto dell’Unione europea, 7a ed., Padova, 2012. TIZZANO A. (a cura di), Il diritto privato dell’Unione europea, 2a ed., 2 tomi, Torino, 2006. VILLANI U., Istituzioni di Diritto dell’Unione europea, 5a ed., Bari, 2017. ZANGHÌ C., Istituzioni di diritto dell’Unione europea – Verso una costituzione europea, 5a ed., Torino, 2010. ZILLER J., Diritto delle politiche e delle istituzioni dell’Unione europea, Bologna, 2013.
Manuali e trattati stranieri ALONSO GARCÌA R., Sistema juridico de la Union Europea, 4a ed., Madrid, 2014. ARNULL A.-DASHWOOD A.-DOUGAN M.-WYATT D., Wyatt and Dashwood’s European Union Law, 6a ed., London, 2011. CLERGERIE J.L.-GRUBER A.-RAMBAUD P., L’Union européenne, 11a ed., Paris, 2016. DONY M., Droit de l’Union européenne, 6a ed., Bruxelles, 2015. DUBOUIS L.-BLUMANN C., Droit institutionnel de l’Union européenne, 6a ed., Litec, 2016. GAUTRON J.-C., Droit européen, 14a ed., Paris, 2012. HARATSCH A.-KOENIG C.-PECHSTEIN M.-FUCHS T., Europarecht, 10a ed., Tübingen, 2016. HARTLEY T., The Foundations of European Union Law, 8a ed., Oxford, 2014. HERDEGEN M., Europarecht, 18a ed., München, 2016. HOBE S., Europarecht, 9a ed., Köln, 2017. HORSPOOL M.-HUMPHREYS M.-WELLS-GRECO M., European Union Law, 9a ed., Oxford, 2016. ISAAC G.-BLANQUET M., Droit général de l’Union européenne, 10a ed., Paris, 2012. JACQUÉ J.P., Droit institutionnel de l’Union européenne, 8a ed., Paris, 2015. LENAERTS K.-MASELIS I.-GUTMAN K., EU Procedural Law, Oxford, 2014. LENAERTS K.-VAN NUFFEL P., European Union Law, 3a ed., London, 2011. LOUIS J.V.-RONSE T., L’ordre juridique de l’Union européenne, Paris-Bruxelles, 2005. MASSON A., Droit de l’Union européenne: droit institutionnel et droit matériel. Théorie, exercices et éléments de méthodologie, Bruxelles, 3a ed., 2011. MATHIJSEN P.S.R.F., A 2. A guide to European Union law: as amended by the Treaty of Lisbon, 11a ed., London, 2014. OPPERMANN T.-CLASSEN C.D.-NETTESHEIM M., Europarecht: ein Studienbuch: [berücksichtigt, Lissabon-Vertrag], 7a ed., München, 2016. PERTEK J., Droit des institutions de l’Union européenne, 5a ed., Paris, 2016. RIDEAU J., Droit institutionnel de l’Union européenne, 6a ed., Paris, 2010. ROSAS A.-ARMATI L., EU Constitutional Law: an Introduction, 2a ed., Oxford, 2012. ROUX J., Droit général de l’Union européenne, 5a ed., Paris, 2016. STEINER J.-WOODS L., EU Law, 13a ed., Oxford, 2017. STREINZ R., Europarecht, 10a ed., Heidelberg, 2016. VAN RAEPENBUSCH S., Droit institutionnel de l’Union européenne, 2a ed., Bruxelles, 2016. WATHELET M.-WILDEMEERSCH J., Contentieux européen, Bruxelles, 2014.
Raccolte di testi normativi e giurisprudenziali ADINOLFI A., Materiali di diritto dell’Unione europea, 5a ed., Torino, 2013. CHALMERS D., European Union law: text and materials, 3a ed., Cambridge, 2014. CRAIG P.-DE BÚRCA G., EU law: text, cases, and materials, 6a ed., Oxford, 2015. CURTI GIALDINO C., Codice breve dell’Unione europea, 10a ed., Napoli, 2017.
Nota bibliografica e di documentazione
XVII
FRIGO M.-LANG A.-VALENTI M., Diritto della Comunità internazionale e dell’Unione europea – Casi e materiali, 3a ed., Torino 2015. KADDOUS C.-PICOD F., Traité sur l’Union européenne; Traité sur le fonctionnement de l’Union européenne, 7a ed., Berne-Bruxelles-Paris, 2016. KARPENSCHIF M.-NOURISSAT C., Les grands arrêts de la jurisprudence de l’Union européenne, 3a ed., Paris, 2016. LENAERTS K.-TIZZANO A., Code de l’Union européenne, Bruxelles, 2014. MENGOZZI P., Casi e materiali di diritto comunitario e dell’Unione europea, Padova, 2006. NASCIMBENE B., Unione europea. Trattati, 3a ed., Torino, 2016. NASCIMBENE B.-CONDINANZI M., Giurisprudenza di diritto comunitario. Casi scelti, Milano, 2007. TIZZANO A., Codice dell’Unione europea, 5a ed., Padova, 2012. TIZZANO A.-PUGLIA M., I "grands arrêts" della giurisprudenza dell’Unione europea, Torino, 2012. WEATHERILL S., Cases & Materials on EU Law, 12a ed., Oxford, 2016.
Commentari AMALFITANO C.-CONDINANZI M.-IANNUCCELLI P., Le regole del processo dinanzi al giudice dell’Unione europea, Napoli, 2017. BLANKE H.J.-MANGIAMELI S., The Treaty on European Union (TEU): a Commentary, Berlino, 2013. CURTI GIALDINO C., Codice dell’Unione Europea operativo - TUE e TFUE commentati articolo per articolo, Napoli, 2012. MASTROIANNI R.-POLLICINO O.-ALLEGREZZA S.-PAPPALARDO F.-RAZZOLINI O., Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Milano, 2017. MÉGRET J. e a., Le droit de la CE et de l’Union européenne, Bruxelles, dal 1970. PEERS S.-HERVEY T.-KENNER J.-WARD A., The EU Charter of Fundamental Rights – A Commentary, Oxford, 2014. PINGEL I., De Rome à Lisbonne: commentaire article par article des traités UE et CE, 2a ed., Paris, 2010. POCAR F.-BARUFFI M.C., Commentario breve ai Trattati dell’Unione europea, 2a ed., Padova, 2014. PORTO M.L.-ANASTÁCIO G, Tratado de Lisboa – Anotado e Comentado, Coimbra, 2012. PRIOLLAUD F.X.-SIRITZKY D., Le Traité de Lisbonne, Paris, 2008. QUADRI R.-MONACO R.-TRABUCCHI A., Trattato istitutivo della Comunità economica del carbone e dell’acciaio. Commentario, Milano, 1970. QUADRI R.-MONACO R.-TRABUCCHI A., Trattato istitutivo della Comunità economica europea. Commentario, Milano, 1965. SCHWARZE J., EU Kommentar, 3a ed., Baden-Baden, 2012. SMIT H.-HERZOG P., The Law of the European Community: A Commentary on the EEC Treaty, New York, dal 1976. TIZZANO A., Trattati dell’Unione europea, 2a ed., Milano, 2014.
Riviste specializzate Cahiers de droit européen Columbia Journal of European Law Common Market Law Review Contratto e Impresa/Europa Diritto comunitario e degli scambi internazionali Diritto e politiche dell’Unione europea Diritto pubblico comparato ed europeo Europa e diritto privato
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Nota bibliografica e di documentazione
Europäische Grundrechte-Zeitschrift Europärecht European Constitutional Law Review European Law Journal European Law Review European Papers Il diritto dell’Unione europea Il Foro Italiano Journal de droit européen Journal of Common Market Studies Maastricht Journal of European and Comparative Law Rassegna di diritto pubblico europeo Revista de Derecho Comunitario Europeo Revista Española de Derecho Europeo Revista General de Derecho Europeo Revue de l’Union européenne Revue des affaires européennes Revue du droit de l’Union européenne Revue du marché commun et de l’Union européenne Revue trimestrielle de droit européen Rivista di diritto pubblico comparato ed europeo Rivista italiana di diritto pubblico comunitario Studi sull’integrazione europea
Pubblicazioni ufficiali dell’Unione europea Bollettino dell’Unione europea Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea – Serie L (Legislazione) – Serie C (Comunicazioni) Raccolta della giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale Relazione generale della Commissione europea sull’attività dell’Unione europea
Siti web utili Archivio dei Trattati europei: http://eur-lex.europa.eu/collection/eu-law/treaties.html?locale=it Archivio dei lavori preparatori: http://eur-lex.europa.eu/collection/eu-law/pre-acts.html EURLEX: http://eur-lex.europa.eu Giurisprudenza degli Stati membri in materia di diritto dell’Unione europea: http://eur-lex.euro pa.eu/collection/n-law/n-case-law.htm Portale Europa (Il portale dell’UE): http://europa.eu Repertorio della giurisprudenza dell’Unione europea: http://curia.europa.eu/jcms/jcms/j_6/ Repertorio della legislazione in vigore: http://eur-lex.europa.eu/collection/eu-law.html
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Cronologia essenziale
1950: 1951: 1952: 1954: 1955: 1957: 1958: 1960: 1963: 1965: 1966: 1967: 1969: 1970:
1972: 1973: 1974:
9 maggio: Dichiarazione Schuman. 18 aprile: firma a Parigi del Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). 27 maggio: firma del Trattato che istituisce la Comunità europea di difesa (CED). 23 luglio: entrata in vigore del Trattato CECA. 30-31 agosto: il Trattato CED è respinto dall’Assemblea nazionale francese. 23 ottobre: creazione dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO). 1-2 giugno: conferenza di Messina per il rilancio del processo di integrazione. 25 marzo: firma a Roma dei Trattati istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità dell’energia atomica (Euratom). 1° gennaio: entrata in vigore di tali Trattati. 4 maggio: entrata in vigore della Convenzione che crea l’Associazione europea di libero scambio (AELE/EFTA). 20 luglio: firma a Yaoundé (Camerun) della prima Convenzione di associazione tra la CEE e 18 Stati africani e malgascio. 8 aprile: firma a Bruxelles del Trattato che istituisce un Consiglio unico e una Commissione unica delle Comunità europee (c.d. Trattato sulla fusione degli Esecutivi). 1-6 luglio: la Francia abbandona i lavori del Consiglio (c.d. crisi della “sedia vuota”). 28-29 gennaio: c.d. «Compromesso di Lussemburgo». La Francia riprende il suo posto nel Consiglio. 1° luglio: entrata in vigore del Trattato sulla fusione degli Esecutivi. 31 dicembre: conclusione del periodo transitorio di 12 anni previsto dal Trattato CEE per l’instaurazione del mercato comune. 21 aprile: decisione del Consiglio relativa alla sostituzione dei contributi finanziari degli Stati membri con risorse proprie delle Comunità. 22 aprile: firma del Trattato di Lussemburgo che modifica alcune disposizioni di bilancio dei Trattati comunitari e che conferisce al Parlamento europeo maggiori poteri in materia di bilancio. 22 gennaio: firma a Bruxelles dell’Atto di adesione del Regno Unito, dell’Irlanda, della Danimarca e della Norvegia alle Comunità europee. 1° gennaio: adesione del Regno Unito, dell’Irlanda e della Danimarca alle Comunità europee. 9-10 dicembre: i capi di Stato o di governo iniziano a riunirsi come «Consiglio europeo».
Cronologia essenziale
XX 1975:
28 febbraio: firma della prima Convenzione tra la Comunità e 46 Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP). 22 luglio: firma a Bruxelles del Trattato che modifica talune disposizioni finanziarie dei Trattati comunitari, attribuisce maggiori poteri di bilancio al Parlamento e istituisce la Corte dei conti delle Comunità europee.
1976:
20 settembre: approvazione dell’Atto relativo all’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale diretto.
1977:
5 aprile: Dichiarazione comune del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione sul rispetto dei diritti fondamentali.
1978:
4-5 dicembre: il Consiglio europeo decide di creare il Sistema monetario europeo (SME).
1979:
28 maggio: firma ad Atene dell’Atto di adesione della Grecia alle Comunità europee. 7-10 giugno: prime elezioni a suffragio universale diretto del Parlamento europeo.
1981:
1° gennaio: adesione della Grecia alle Comunità europee.
1983:
17-19 giugno: Consiglio europeo di Stoccarda. Approvazione della «Dichiarazione solenne sull’Unione europea».
1984:
14 febbraio: adozione, da parte del Parlamento europeo, di un progetto di trattato che istituisce l’Unione europea (c.d. «Trattato Spinelli»). 25-26 giugno: Consiglio europeo di Fontainebleau. Creazione del Comitato Dooge per le questioni istituzionali e del Comitato Adonnino per l’Europa dei cittadini.
1985:
12 giugno: firma a Lisbona e a Madrid degli Atti di adesione della Spagna e del Portogallo alle Comunità europee. 14 giugno: firma dell’Accordo di Schengen fra il Belgio, la Francia, la Repubblica federale di Germania, il Lussemburgo e i Paesi Bassi. 28-29 giugno: Consiglio europeo di Milano. Convocazione di una conferenza intergovernativa per la modifica dei Trattati istitutivi delle Comunità europee.
1986:
1° gennaio: adesione della Spagna e del Portogallo alle Comunità europee. 17 e 28 febbraio: firma dell’Atto unico europeo a Lussemburgo e all’Aja.
1987:
1° luglio: entrata in vigore dell’Atto unico europeo.
1988:
24 ottobre: decisione che istituisce il Tribunale di primo grado delle Comunità europee.
1989:
1° novembre: entrata in funzione del Tribunale di primo grado delle Comunità europee. 9 novembre: caduta del Muro di Berlino.
1990:
29 maggio: firma a Parigi dell’Accordo istitutivo della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS). 19 giugno: firma della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen. 3 ottobre: riunificazione tedesca. 14-15 dicembre: Consiglio europeo di Roma: apertura delle Conferenze intergovernative sull’unione politica e sull’unione economica e monetaria.
1991:
9-10 dicembre: Consiglio europeo di Maastricht. Approvazione del progetto di Trattato sull’Unione europea. 7 febbraio: firma a Maastricht del Trattato sull’Unione europea. 1° maggio: firma dell’Accordo tra l’UE e l’EFTA per la creazione dello Spazio economico europeo (SEE). 2 giugno: vittoria del “no” nel referendum danese sul Trattato di Maastricht. 20 settembre: esito positivo del referendum francese sulla ratifica di tale Trattato. 6 dicembre: vittoria del «no» nel referendum svizzero sulla ratifica del SEE.
1992:
Cronologia essenziale
1993: 1994:
1995: 1996: 1997: 1999:
2000:
2001:
2002:
2003:
2004: 2005:
XXI
11-12 dicembre: Consiglio europeo di Edimburgo. Approvata la “Dichiarazione sulla Danimarca” per risolvere il problema della ratifica del Trattato di Maastricht. 18 maggio: esito positivo del nuovo referendum danese su tale ratifica. 1° novembre: entrata in vigore del Trattato di Maastricht sull’UE. 1° gennaio: entrata in vigore del SEE. 24 giugno: firma a Corfù degli Atti relativi all’adesione di Norvegia, Austria, Finlandia e Svezia all’UE. 28 novembre: esito negativo in Norvegia del referendum sull’adesione all’UE. 1° gennaio: adesione di Austria, Finlandia e Svezia all’UE. 26 marzo: entrata in vigore della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen. 29 marzo: apertura della Conferenza intergovernativa per l’adozione del Trattato di Amsterdam. 2 ottobre: firma del Trattato di Amsterdam. 1° gennaio: introduzione ufficiale dell’euro in Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna. 15 marzo: dimissioni della Commissione europea a seguito della relazione del c.d. “Comitato dei Saggi” su presunti casi di frode, cattiva gestione e nepotismo. 1° maggio: entra in vigore il Trattato di Amsterdam. 14 febbraio: apertura della Conferenza intergovernativa per l’adozione del Trattato di Nizza. 7-9 dicembre: Consiglio europeo di Nizza. Il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione proclamano solennemente la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. 2 gennaio: la Grecia diventa il dodicesimo paese della zona euro. 26 febbraio: firma del Trattato di Nizza. 14-15 dicembre: il Consiglio europeo di Laeken adotta una dichiarazione sul futuro dell’UE e decide la convocazione di una Convenzione per preparare una nuova conferenza intergovernativa. 1° gennaio: i biglietti e le monete in euro entrano in circolazione nei dodici paesi membri aderenti all’unione monetaria. 28 febbraio: l’euro diventa l’unica moneta a corso legale in seguito alla fine del periodo di doppia circolazione nei dodici Paesi membri. Apertura a Bruxelles della Convenzione sull’avvenire dell’Europa. 23 luglio: scadenza del Trattato CECA dopo 50 anni dalla sua entrata in vigore. 1° febbraio: entrata in vigore del Trattato di Nizza. 16 aprile: firma ad Atene del Trattato di adesione di Repubblica ceca, Estonia, Cipro, Lettonia, Lituania, Ungheria, Malta, Polonia, Slovenia e Slovacchia all’Unione europea. 4 ottobre: apertura della Conferenza intergovernativa per l’adozione del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. 1° maggio: entrata in vigore del Trattato di adesione all’UE dei 10 nuovi Stati membri. 29 ottobre: firma a Roma del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. 2 novembre: decisione che istituisce il Tribunale della funzione pubblica dell’UE (TFP). 25 aprile: firma a Lussemburgo del Trattato di adesione della Romania e della Bulgaria all’UE. 29 maggio: esito negativo del referendum francese sulla ratifica del Trattato costituzionale. 1° giugno: esito negativo del referendum olandese sulla ratifica del medesimo Trattato. 3 ottobre: avvio dei negoziati per l’adesione della Turchia e della Croazia all’UE. 12 dicembre: entrata in funzione del TFP.
Cronologia essenziale
XXII 2007:
2008: 2009:
2010: 2011: 2012:
1° gennaio: adesione di Romania e Bulgaria all’UE. La Slovenia adotta l’euro. 25 marzo: 50° anniversario della firma dei Trattati di Roma. 23 luglio: apertura della Conferenza intergovernativa per la preparazione di un Trattato di riforma. 18-19 ottobre: approvazione al Consiglio europeo di Lisbona del Trattato di riforma. 12 dicembre: il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione proclamano solennemente una versione modificata della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. 13 dicembre: firma del Trattato di riforma a Lisbona. 21 dicembre: Repubblica ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Malta, Polonia, Slovenia e Slovacchia entrano nello Spazio Schengen. 1º gennaio: Cipro e Malta adottano l’euro. 12 giugno: esito negativo del referendum irlandese sulla ratifica del Trattato di Lisbona. 12 dicembre: la Svizzera entra nello Spazio Schengen. 1° gennaio: la Slovacchia adotta l’euro. 18-19 giugno: Consiglio europeo di Bruxelles. Garanzie giuridiche all’Irlanda per la convocazione di un nuovo referendum sulla ratifica del Trattato di Lisbona. 23 luglio: l’Islanda presenta la candidatura per l’adesione all’UE. 3 ottobre: il nuovo referendum irlandese approva la ratifica del Trattato di Lisbona. 1° dicembre: entrata in vigore del Trattato di Lisbona. 22 dicembre: la Serbia presenta la candidatura per l’adesione all’UE. 17 giugno: apertura dei negoziati di adesione con l’Islanda. 1° gennaio: l’Estonia adotta l’euro. 25 marzo: il Consiglio europeo adotta la decisione che modifica l’art. 136 TFUE. 9 dicembre: firma a Bruxelles dell’Atto di adesione della Croazia all’UE. 2 febbraio: firma a Bruxelles del Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità (MES) tra i 17 Stati membri della zona euro. 2 marzo: firma a Bruxelles del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’UEM (c.d. “Fiscal Compact”) tra gli Stati membri dell’UE (ad eccezione del Regno Unito e della Repubblica ceca). 27 settembre: entra in vigore il Trattato sul Meccanismo europeo di stabilità (MES). 10 dicembre: l’UE riceve il premio Nobel per la pace 2012.
2013:
1° gennaio: entrata in vigore del Fiscal Compact. 1° luglio: adesione della Croazia all’UE.
2014:
1° gennaio: la Lettonia adotta l’euro.
2015:
1° gennaio: la Lituania adotta l’euro. 16 dicembre: riforma dell’architettura della Corte di giustizia dell’UE.
2016:
23 giugno: esito negativo del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’UE (c.d. “Brexit”). 1° settembre: estinzione del Tribunale della Funzione Pubblica Europea.
2017:
29 marzo: il Regno Unito notifica formalmente al Consiglio europeo l’intenzione di uscire dall’UE a norma dell’articolo 50 TUE.
Introduzione
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Introduzione
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L’Unione europea e il suo diritto
CAPITOLO I
L’Unione europea e il suo diritto Sommario: 1. La nozione di Unione europea. – 2. Il diritto dell’Unione europea. – 3. La sua autonomia. – 4. La dottrina e i metodi di studio. – 5. Fonti di informazione, ricerca e documentazione. Rinvio.
1. La nozione di Unione europea Se il primo compito di un’opera manualistica è di definire la disciplina che ne è oggetto, va detto subito che nel caso del diritto dell’Unione europea l’impresa è particolarmente ardua. E questo anzitutto perché non è facile definire lo stesso oggetto della disciplina di cui ci occupiamo. Per quanto infatti possa apparire paradossale per una nozione di cui si parla tantissimo e da tantissimo tempo, non si può certo dire che sia chiaro – o che lo sia per tutti allo stesso modo e nello stesso senso – cosa sia o cosa dovrebbe essere l’Unione europea. In effetti, al pari delle «Comunità europee» che l’hanno preceduta, l’Unione è stata ed è segnata in modo straordinario, come vedremo lungo tutto il presente volume, da caratteristiche così originali e peculiari da non consentire di assimilarla né alle tante organizzazioni internazionali nate dalla metà del secolo scorso, né ad alcun altro modello di unioni di Stati storicamente realizzato (federale, quasi-federale, confederale, ecc.). Neppure i numerosi testi che hanno costellato il percorso del processo d’integrazione nel continente sono riusciti a dare una risposta definitiva al riguardo, anche quando hanno formalmente «istituito un’Unione europea». In nessuno di essi, infatti, la nozione di Unione europea è stata chiaramente definita; al contrario se ne è indicato, anche in modo fermo e solenne, l’obiettivo della sua realizzazione, senza mai precisare però in che cosa essa dovesse realmente consistere. Tralasciando i richiami … mitologici, l’idea di «Unione europea», almeno in senso lato e atecnico, può essere fatta risalire addirittura al Medio Evo o ai progetti dell’abbé de Saint-Pierre (da allora ad oggi pare che ne siano stati contati quasi 200!). Ma in un senso più coerente e omogeneo con i processi in atto, essa comincia ad apparire alla fine della seconda guerra mondiale con lo sviluppo della cooperazione istituzionalizzata tra gli Stati dell’Europa occidentale e, in particolare, con la creazione della prima Comunità europea (la CECA), e viene indirettamente evocata nel preambolo del Trattato CEE (gli Stati membri si dichiarano «determinati a porre le fondamenta di
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Introduzione
un’unione sempre più stretta tra i popoli europei»). È solo in tempi relativamente recenti, comunque, che l’espressione “Unione europea” ha assunto un significato specifico e tecnico di più avanzata forma di sviluppo del processo d’integrazione europea. Come tale, essa appare per la prima volta in un testo ufficiale nelle conclusioni del Vertice dei capi di Stato o di governo di Parigi del 19 e 20 ottobre 1972, quando gli allora 9 paesi membri si fissarono come «obiettivo capitale quello di trasformare, entro la fine dell’attuale decennio e nell’assoluto rispetto dei trattati già sottoscritti, l’insieme delle relazioni degli Stati membri, in una Unione europea» (corsivo aggiunto). Nel successivo Vertice di Parigi del 9-10 dicembre 1974, essi davano quindi mandato all’allora Primo Ministro belga Leo Tindemans di presentare una relazione al riguardo. La relazione fu in effetti tempestivamente predisposta già per il Consiglio europeo di Roma del 1-2 dicembre 1975 («Rapporto Tindemans sull’Unione europea»), ma fu esaminata solo nel novembre 1976 al Consiglio europeo dell’Aja, dove però finì praticamente per essere accantonata. Seguì poi la «Dichiarazione solenne sull’Unione europea» o «Dichiarazione di Stoccarda», adottata dai capi di Stato o di governo il 19 giugno 1983, a seguito della c.d. iniziativa Genscher-Colombo. Dopo un periodo piuttosto opaco della vita comunitaria furono infatti i Ministri degli esteri tedesco e italiano a presentare nel 1981 un progetto di «Atto europeo» per rilanciare l’idea di Unione europea. Il progetto, con varie e non marginali modifiche, fu finalmente adottato in quel Vertice sotto forma appunto di «Dichiarazione solenne», per ribadire la volontà degli Stati membri, in vista della creazione di un’Europa unita, di trasformare l’insieme delle loro relazioni in un’Unione europea. La Dichiarazione non produsse risultati immediati, ma alcuni suoi effetti si sono spiegati nel tempo, come provano gli echi diffusi ed importanti che si ritrovano nell’AUE e successivamente nel Trattato di Maastricht. Un accenno merita poi al riguardo anche il «Trattato sull’Unione europea», c.d. Trattato Spinelli, approvato il 14 febbraio 1984 dal PE, sotto l’impulso di Altiero Spinelli (GUCE C 77, 53). Anche tale «Trattato», tuttavia, non ebbe seguito, almeno nell’immediato, tanto più che esso veniva proposto non già come base di un negoziato intergovernativo, ma come testo che al contrario avrebbe dovuto «bypassare» i governi per essere sottoposto direttamente alla ratifica dei parlamenti nazionali. Molte delle idee che avevano ispirato gli autori del progetto hanno però fecondato iniziative e proposte che hanno finalmente influenzato anch’esse il successivo Trattato di Maastricht. Si arriva così all’Atto unico europeo (AUE) del 1986, dove l’espressione appare per la prima volta in un testo di Trattato. Il riferimento si ritrova per la verità solo nel corpo dell’AUE, ma fino all’ultimo momento essa era inserita nel titolo stesso del documento, che in effetti avrebbe dovuto intitolarsi: «Trattato (o Atto) sull’Unione europea». Ad ostacolare tale denominazione concorse una singolare convergenza tra gli avversari dell’opzione federalista che temevano per l’appunto che essa potesse costituire un segnale in favore di quella opzione, e i loro avversari, i quali ritenendo che di Unione europea si potesse parlare solo in presenza di significativi elementi federalistici, ma che di questi non vi fosse adeguata traccia nel testo in preparazione, ugualmente si opposero a quella denominazione. È comunque il Trattato di Maastricht (Trattato sull’Unione europea) del 1992, quello che «istituisce» tra le Parti Contraenti, cioè tra gli Stati membri, «un’Unione europea» fondata sulle Comunità europee e sulle altre forme di cooperazione. Per la verità, fino all’ultimo momento quel Trattato si presentava come «una nuova tappa nel processo graduale verso l’Unione a vocazione federale», con l’intesa che la revisione dello stesso, prevista per il 1996, avrebbe dovuto svolgersi «nella prospettiva di un rafforzamento del carattere federale dell’Unione» (corsivi aggiunti). Tali formule resteranno nei vari progetti fino al Consiglio europeo di Maastricht per poi cedere finalmente il passo a quella poc’anzi riportata. Il Trattato di Lisbona non solo conferma l’istituzione dell’Unione, ma dichiara altresì che essa sostituisce e succede alle Comunità europee (art. 1, comma 3, TUE).
Emergeva solo, dagli intensi dibattiti politici e dottrinari che si svolgevano in materia, che le difficoltà non erano, evidentemente, di natura terminologica, visto che di per sé quella denominazione si prestava ad ogni interpretazione e quindi poteva essere da tutti (o quasi) sottoscritta. Esse nascevano invece, palesemente, dal contra-
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sto tra i diversi, se non opposti modi di concepire lo sviluppo dell’integrazione europea, e soprattutto, per dirla in modo assai schematico, tra chi preconizzava un mero rafforzamento della cooperazione in atto, senza mutamenti qualitativi del processo, e chi invece auspicava che l’Unione segnasse un aumento dei poteri delle istituzioni sopranazionali, che fosse non solo consistente, ma qualitativamente significativo, in vista di uno sbocco in senso federale di quel processo. Neppure la formalizzazione dell’espressione nei Trattati ha comunque risolto il problema, sicché si può dire che ancor oggi la nozione di Unione europea si presenta in termini tali da giustificare la felice definizione che ne fu data già vari anni fa, come di una nozione «meravigliosamente ambigua» [v. R. BIEBER, J.-P. JACQUÈ, J.H.H. WEILER (sous la direction de), L’Europe de demain: une Union sans cesse plus étroite, Bruxelles, 1985, p. 7]. Va detto, tuttavia, che dopo essersi trascinata, con accenti e sfumature assai diversificati, fin dagli albori del processo d’integrazione europea, la disputa intorno al significato di quella espressione denuncia ormai una crescente stanchezza e sembra sempre più ridursi ad una questione nominalistica e del tutto improduttiva, visto che i suoi risultati appaiono di molto inferiori a quelli che, incurante della propria qualificazione formale, il processo d’integrazione europea ha intanto saputo per conto suo conseguire. Ad ogni modo, e tornando alla nozione e alla natura dell’Unione, se proprio si vuole insistere sul punto, si può dire, con formula poco tecnica ma forse più efficace, che l’Unione europea è un’entità che non si può certo definire, sul piano formale, come «federale», ma che è, per così dire, «più federale» delle precedenti Comunità e ha i mezzi per diventarlo ancora di più. Con ciò però si è solo descritta una linea di tendenza; non si è data una risposta sulla definizione formale dell’Unione, né la si è ricondotta ad un preciso modello storico o teorico. Ma il problema è proprio di sapere se i modelli in campo si attaglino a questa originale costruzione, e più particolarmente: se il modello o i modelli federali (e quale?) siano davvero l’obiettivo cui puntano i protagonisti del processo e se quindi, anche a prescindere dalla mera ripetizione di altre esperienze storiche, la creazione di un Superstato federale europeo o di qualcosa di simile costituisca una prospettiva plausibile per il processo d’integrazione europea; o se invece tale processo, per ragioni intrinseche alla sua peculiare natura, non abbia seguito, e non voglia continuare a seguire, un proprio percorso. Orbene, è apparso col tempo sempre più chiaro che a prevalere è stato proprio questo secondo termine dell’alternativa. Chi percorra la storia dell’Unione, infatti, non potrà non notare che essa si presenta, per gli aspetti che qui interessano, come una sorta d’ininterrotto esercizio d’ingegneria costituzionale, volto non già a rincorrere un preciso obiettivo o a perseguire improbabili modelli, ma piuttosto a definire via via l’impianto istituzionale più appropriato per assicurare la convivenza tra Stati che hanno accettato di condividere una parte importante della loro sovranità e al tempo stesso, però, non vogliono perdere la propria individualità in un «Superstato federale». L’originalità dell’esperienza comunitaria sta anzi proprio in questa sorta di paradosso, che costringe il processo in una condizione per tanti aspetti singolare, per non dire schizofrenica. Da un lato, la volontà, e per certi versi anche la necessità, per gli Stati che l’hanno promossa e che la animano, di mantenere e anzi rafforzare quel
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Introduzione
processo e la solidarietà che lo sottende; dall’altro, la resistenza che essi oppongono alle iniziative volte a imprimere allo stesso sviluppi tali da superare il punto massimo di compatibilità tra la loro condizione di Stati sovrani e l’integrazione in una più ambiziosa struttura associativa. Ed è proprio in questa dialettica tra lo Stato-nazione, che non intende lasciarsi sopprimere, e la struttura sopranazionale, che vuole invece accentuare la propria connotazione in senso federale, che si scandiscono le fasi di un processo necessariamente instabile, in quanto destinato alla continua e difficile ricerca di punti di equilibrio che rischiano di non diventare mai punti di arrivo, proprio perché la stessa dinamica del suo sviluppo alimenta quella dialettica. Non è dunque un caso che si sia evitato di seguire questo o quel modello, e che sia stata invece preferita una scelta, come spesso si dice, di «libertà dai modelli», una scelta cioè che salvaguardasse il carattere originale ed evolutivo di quel processo e lasciasse aperte tutte le opzioni nell’ingegneria istituzionale che auspicabilmente deve marcare, nelle forme via via praticabili, il progresso verso un’integrazione sempre più spinta. Che seguendo altri modelli (e ancora una volta: quali?), ammesso pure che fossero praticabili, si sarebbe potuto (o si potrebbe) giungere a migliori risultati non v’è oggi chi possa dirlo con certezza, anche se al tempo della grave crisi che l’Europa attraversa l’esercizio stimola molte e contrastanti fantasie. Ma non è questo che qui rileva; rileva invece il fatto che, per gli indicati motivi, si sia preferito evitare di irrigidire l’Unione in uno schema predefinito. E si è trattato, da questo punto di vista, di una scelta indubbiamente felice perché ha permesso al processo d’integrazione di subire le più profonde evoluzioni e al tempo stesso mantenere una condizione di almeno apparente continuità. In questa ottica, anche l’iniziale opzione per il c.d. funzionalismo (procedere cioè per settori e per questa via far crescere progressivamente l’integrazione) appare meno riduttiva del previsto. Essa ha anzi prodotto risultati ben più importanti di quanti se ne potessero immaginare agli esordi, confermando che il problema non è quanto la Comunità si avvicini a questo o quel modello tradizionale, ma quanto essa abbia avanzato sulla via del «non-modello» che ha scelto: che è atipico, non è rigorosamente federale, ma non è necessariamente meno «integrante» degli altri, tant’è che ha consentito, specie sul piano dell’integrazione giuridica ed economica, risultati perfino più avanzati di quelli conseguiti in alcuni Stati federali. In questo senso, si può dire che la costruzione europea ha fatto come il celebre personaggio di Molière, quel Monsieur Jourdain che parlava in prosa senza saperlo: anch’essa cioè ha fatto a modo suo del federalismo … senza saperlo o, quanto meno, senza dirlo apertamente.
Cosa hanno in comune infatti la prima Comunità del 1951, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), ma anche le successive Comunità economica europea (CEE, poi CE) e Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom) del 1957 e l’Unione nata a Maastricht e poi rinnovata a Lisbona? Là dove esistevano tre Comunità è poi sopravvenuta l’Unione, che è prima coesistita con esse e poi le ha assorbite. Là dove il sistema normativo si fondava alle origini su tre distinti Trattati (uno per ciascuna Comunità) e poi solo su quelli istitutivi della UE (TUE preLisbona) e della CE (TCE), oggi c’è in sostanza un solo Trattato, anche se formalmente articolato su due testi, il TUE e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), dato che il secondo, come emerge dal suo stesso titolo, costituisce in
L’Unione europea e il suo diritto
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realtà un mero svolgimento dei principi e delle regole generali enunciati nel primo. Là dove al processo partecipavano i soli sei paesi fondatori, oggi si contano ben 28 Stati membri (o 27 se si considera la Brexit). Là dove a livello politico-legislativo c’era, in sostanza, la sola diarchia Consiglio-Commissione, oggi giocano un ruolo decisivo anche altre istituzioni (Consiglio europeo e Parlamento europeo). Là dove l’edificio complessivo si articolava sui famosi tre «pilastri», oggi c’è un impianto unico, sia pure articolato al proprio interno. Là dove l’orizzonte del processo era limitato ai profili economici, oggi esso si estende a materie che rientrano per tradizione nella sfera più gelosa della sovranità statale (politica estera, difesa, giustizia, moneta, ecc.), con un grado d’incisività e d’interferenza nelle prerogative degli Stati membri che non ha precedenti. E si potrebbe continuare a lungo, anche a non voler qui evocare la trasformazione delle stesse motivazioni storico-politiche del processo d’integrazione, perché l’evoluzione verificatasi nel tempo ha interessato ogni aspetto di tale processo ed è stata di ampiezza e profondità straordinarie. Non è questa la sede per soffermarsi su tali aspetti. Ci limitiamo a ricordare che il processo d’integrazione nacque all’indomani di una devastante guerra fratricida nel Continente e che all’interno stesso dell’Europa, anzi all’interno di uno dei grandi protagonisti dell’impresa (la Germania), passavano le frontiere tra i due blocchi all’epoca totalmente e duramente contrapposti. Oggi le motivazioni indotte da queste situazioni sono superate e in ogni caso appaiono, specie alle generazioni che non le hanno vissute, estremamente remote, quando non del tutto astratte, di certo inidonee a nutrire le ragioni di un’aggregazione. Altre certo se ne possono ancora trovare: dalla necessità di far fronte comune nella competizione internazionale che è alimentata da nuovi protagonisti di quella scena e che la globalizzazione accentua e radicalizza, alle nuove minacce che si sono profilate all’orizzonte, quali il terrorismo, la criminalità organizzata, l’esplosione dei movimenti migratori, la crisi economico-finanziaria, e così via. Ma a spingere per il proseguimento del processo d’integrazione sembra essere oggi soprattutto la dinamica indotta dalle stesse realizzazioni di tale processo e dal tessuto connettivo che, nell’arco di un sessantennio, esso ha intrecciato tra gli Stati membri, i loro apparati, i loro cittadini, le loro culture, le loro società anche se tutto ciò avviene ormai in un clima di sfiducia e delusione che è tanto più frustrante quanto più diffuso e convinto era stato il consenso che aveva circondato alle origini e per lungo tempo la costruzione europea.
Eppure, malgrado quella che potremmo definire un’autentica mutazione genetica del sistema, esso ha mantenuto, almeno all’apparenza, una continuità formale e sostanziale e una carica identitaria, che si riflettono, pur al di là della linea ufficiale e per l’appunto «continuista» di Bruxelles, anche nel linguaggio, nelle prassi (istituzionali e non), nelle analisi e negli approcci ricostruttivi dello stesso sistema. E questo, a nostro avviso, è per l’appunto il frutto di quella opzione pragmatica, più volte sottolineata, che ha consentito di adattare volta a volta le soluzioni istituzionali alle concrete occasioni di crescita, preservando non solo la specificità del sistema, ma anche le sue possibilità di sviluppo. La stessa nozione di «Comunità», che ha connotato le prime forme istituzionali del processo d’integrazione con una terminologia assolutamente originale per l’epoca, esprimeva proprio il senso di una scelta che, evitando di irrigidire detto processo nei modelli preesistenti, permetteva ed ha concretamente permesso di coprire fasi diverse dell’integrazione. Ma anche il passaggio dalla Comunità all’Unione, che pure rappresenta una forma più avanzata e matura
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Introduzione
del processo, ugualmente non si è tradotto né in uno schema comparabile a quelli preesistenti, né in un assetto definitivo. Al contrario, il fatto stesso che anche il Trattato di Lisbona, come i suoi predecessori, dichiari di essere solo un’ulteriore «tappa» verso la creazione di un’unione «sempre più» stretta tra i popoli d’Europa (art. 1, comma 2, TUE), evoca con tutta evidenza non già l’idea di un risultato acquisito e neppure di un obiettivo preciso da raggiungere, ma quella, per l’appunto, di un processo dinamico e di un’evoluzione continua verso un traguardo tuttora indefinito. Il quadro non sarebbe però completo e fedele se non si riconoscesse che, seppure non si è svolto e non si svolge lungo un itinerario lineare e predeterminato, il processo d’integrazione si è sviluppato finora in una direzione univoca, quella del suo continuo consolidamento: lento e contraddittorio quanto si voglia, segnato da frequenti battute d’arresto, da un ricorrente clima di crisi, dalle forti e profonde difficoltà che lo hanno attraversato e, specie oggi, lo attraversano; e tuttavia sempre più radicato nella realtà storica, negli apparati giuridico-istituzionali, nel tessuto economico e sociale e, in senso più lato, nella stessa cultura politica, e non solo politica, degli Stati membri. Ed è, crediamo, da questa costatazione che occorre partire per tentare di immaginare il futuro della costruzione europea e la sua capacità di sopravvivenza alla drammatica crisi di questi anni, inclusa quella indotta dalla decisione del popolo inglese di abbandonare l’Unione.
2. Il diritto dell’Unione europea Alla luce di quanto precede, si comprende perché non sia facile dare una rigorosa e compiuta definizione di una disciplina che trae origine e resta diretta espressione di un processo storico-politico che si presenta con quella connotazione dinamica ed evolutiva di cui si è appena detto. Alle origini, in effetti, quello che oggi chiamiamo diritto dell’Unione europea era, com’è ben noto, il diritto delle Comunità europee o diritto comunitario (come allora si chiamava la nostra disciplina) e si risolveva essenzialmente nello studio degli aspetti giuridico-istituzionali delle tre Comunità allora esistenti. Il termine «comunitario», peraltro, non è del tutto scomparso dal linguaggio comune, e non solo per la forza dell’abitudine. Esso è stato infatti un termine identitario per oltre cinquant’anni e il tentativo di sostituirlo con un equivalente altrettanto efficace e condiviso incontra molte difficoltà e comunque non pare aver trovato adeguata eco nell’uso comune. Questo vale, ad es., per il termine «europeo», utilizzato spesso anche nel linguaggio ufficiale per qualificare strutture, procedimenti, atti e quant’altro sia riconducibile all’Unione europea (salvo a notare, peraltro, che nella sua genericità, esso finisce per sottolineare ancor più il carattere preminente, se non «dominante», che con il tempo l’Unione ha assunto nel panorama delle organizzazioni internazionali del continente europeo), e vale anche per il termine «unionale», di cui si avvalgono sempre più frequentemente i testi ufficiali dell’Unione. Non deve pertanto stupire che l’aggettivo «comunitario» non solo non sia caduto in disuso, ma ricorra ancora molto spesso, talvolta anche in questo volume.
Ma già allora il processo d’integrazione non si esauriva nelle predette Comunità, perché gli stessi suoi progressi favorivano in parallelo lo sviluppo di altre forme di
L’Unione europea e il suo diritto
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cooperazione, che pur collocandosi formalmente all’esterno delle Comunità «in senso stretto» (come allora si diceva), potevano comunque essere riconducibili a detto processo, in quanto finalizzate ai medesimi obiettivi e anzi propedeutiche a suoi ulteriori sviluppi («Comunità in senso lato»). Si pensi alla cooperazione intergovernativa in materia politica o comunque in materie c.d. di confine non ancora attratte dalla competenza comunitaria, che si svolgeva sì fuori dal quadro formale delle tre Comunità, ma era direttamente funzionale al disegno dell’integrazione e lo predisponeva anzi a quegli ulteriori sviluppi che poi si sono effettivamente realizzati. Riteniamo quindi che la tendenza a criticare queste forme di cooperazione essenzialmente intergovernative in quanto derogatorie dell’ortodossia del «metodo comunitario» (v. infra, p. 34 ss.), trascuri il ruolo che le stesse hanno svolto, e possono continuare a svolgere, per far avanzare l’integrazione europea nei casi in cui sviluppi necessari o auspicabili della stessa siano resi impossibili dalla difficoltà di una formale revisione dei Trattati. Finora, infatti, il ricorso a dette forme di cooperazione ha quasi sempre permesso di preparare il terreno alla successiva «comunitarizzazione» delle materie che ne sono oggetto (si pensi, oltre appunto alla cooperazione politica, allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, ed ora all’unione economica e monetaria), e ciò proprio perché, seppur non si inseriscono formalmente nel sistema (cioè nella Comunità/Unione in senso stretto), in qualche modo esse «istituzionalizzano» la cooperazione, riportandola nel più ampio alveo della Comunità/Unione in senso lato, e quindi facilitando, anche sul terreno della prassi, la sua successiva «comunitarizzazione». Su di esse va formulato quindi un giudizio «laico», legato non a una valutazione ontologica delle stesse, ma alla loro funzionalità per il progresso dell’integrazione in una situazione storica data. Semmai, c’è da chiedersi se, per contenerne i rischi di un uso improprio, una simile prassi non debba essere in qualche modo «inquadrata», fissandone i criteri e le condizioni di utilizzazione e alcune modalità di funzionamento (ad es. quanto alla possibilità di avvalersi, anche in tale contesto, delle istituzioni dell’Unione, come avvenuto nel caso del Trattato sul c.d. Fiscal Compact: infra, p. 697 ss.).
A seguito comunque degli incessanti progressi della costruzione europea, nonché dei vari passaggi formali ad essi conseguenti, quelle Comunità hanno assorbito quasi tutti i fenomeni che ad esse in vario modo si erano venuti ricollegando proprio in conseguenza della loro crescita, per poi sfociare finalmente, con il Trattato di Lisbona, nell’unica struttura formale oggi esistente, e cioè l’Unione europea, anche se ancora restano, o possono intervenire in futuro, modalità di cooperazione tra gli Stati membri che non rientrano formalmente nel diritto dell’Unione, ma che a quest’ultima si ricollegano direttamente e funzionalmente (come appunto nel caso appena ricordato del Fiscal Compact). Il diritto dell’Unione europea si è quindi ampliato e conformato in parallelo con quei progressi, includendo in essi non solo gli sviluppi per così dire quantitativi della costruzione comunitaria (aumento degli Stati membri, ampliamento delle competenze delle istituzioni europee, e così via), ma anche quelli qualitativi, quali sono stati indotti dalla progressiva mutazione di quel processo che, come appena accennato, ha via via connotato la costruzione europea, e di conseguenza il suo diritto, in modo sempre più netto e peculiare rispetto alle altre esperienze giuridiche. Si può quindi dire oggi, anche in coerenza con quanto osservato al paragrafo precedente, che il diritto dell’Unione europea ha bensì ad oggetto lo studio degli aspetti giuridico-istituzionali di quest’ultima, ma più in generale esso si presta ad includere lo studio di tutte le forme e gli strumenti giuridici volti a realizzare il processo
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d’integrazione europea. Si potrebbe certo obiettare che una simile definizione resta ancora un po’ vaga, se non tautologica; ma a ben vedere, in quanto per l’appunto riflette le segnalate caratteristiche del processo sottostante e l’eccezionale mobilità delle sue frontiere, essa non può essere cristallizzata in termini più puntuali e definitivi.
3. La sua autonomia Proprio in quanto collegato al definirsi progressivo ed originale della costruzione europea, il diritto dell’Unione europea ha faticato non poco per affermare la propria autonomia e la propria identità. Il problema si è posto anzitutto rispetto al diritto internazionale. Inizialmente, infatti, l’allora diritto delle Comunità europee era considerato una mera (e assai ridotta) branca di quella disciplina, alla quale esso venne subito e naturalmente ricondotto, visto che quelle Comunità si presentavano come organizzazioni costituite da e tra Stati attraverso accordi internazionali. In particolare, esse erano generalmente, anche se non unanimemente, qualificate come organizzazioni internazionali a carattere regionale, al pari delle altre già esistenti nel continente (NATO, OCSE, Consiglio d’Europa, ecc.). Ma lo sviluppo del processo d’integrazione e la progressiva accentuazione delle specificità degli enti che ne erano oggetto, hanno via via portato prima ad ampliare il rilievo della materia all’interno del diritto internazionale e poi a singolarizzarne lo studio. E questo non soltanto per le dimensioni «quantitative» che essa aveva nel frattempo assunto, ma soprattutto per le peculiari caratteristiche che già all’inizio avevano contraddistinto le Comunità europee rispetto alle altre organizzazioni internazionali, e che si erano poi così accentuate da connotare quegli enti (e il relativo studio) in termini del tutto specifici e qualitativamente diversi da qualsiasi altra precedente o coeva esperienza di cooperazione istituzionalizzata tra Stati. In particolare, è apparso da tempo chiaro che l’Unione europea presenta tratti assai più simili a quelli di un’entità statale che di un’organizzazione internazionale e che essa tende a fondarsi su principi e regole più vicini a quelli del diritto interno che del diritto internazionale. In effetti, come si vedrà in seguito, pur se a differenza degli Stati resta ancora controverso il carattere «originario» del suo ordinamento, l’Unione è dotata, al pari appunto di un’entità statale, di una propria e compiuta struttura giuridico-istituzionale, di una propria «costituzione», un peculiare insieme di valori, un corpo di principi formali e materiali, apparati organizzativi, processi decisionali, un sistema di garanzie soprattutto giurisdizionali e competenze sempre più estese ed invasive nei diritti interni. Non solo, ma l’articolazione dei suoi rapporti con i soggetti privati appare più simile a quella degli ordinamenti statali, visto che si confronta con situazioni di carattere più interindividuale che interstatale. Com’è infatti ben noto, tra le sue tante peculiarità, il processo d’integrazione ha una chiara vocazione a penetrare la sfera interna degli Stati membri, ad operare come fenomeno invasivo, come potente strumento federatore dall’interno degli Stati membri, nel senso di interferire sulle loro strutture istituzionali, sulle politiche economiche e sociali, sui fattori del processo produttivo, sull’organizzazione degli scambi e delle atti-
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vità economiche, e perfino, come si è visto, su materie che rientrano per tradizione nella sfera più gelosa della sovranità statale; ma soprattutto a rivolgersi direttamente ai cittadini degli Stati membri, a regolarne i comportamenti ed attribuire loro diritti e doveri, anche senza passare per il tramite dello Stato nazionale. L’idea di un’Unione che opera «il più vicino possibile ai cittadini» (art. 1, comma 2, TUE) vuole per l’appunto esprimere quella vocazione a superare lo schermo degli Stati membri o per lo meno a ridurne il ruolo di mediazione nei rapporti tra l’Unione stessa e i cittadini, che ha da sempre costituito una caratteristica fondamentale e un forte elemento di originalità della costruzione europea. Certo, il collegamento con il diritto internazionale è rimasto perché le istituzioni europee traggono pur sempre origine da un trattato internazionale, hanno come fondatori e protagonisti entità statuali e operano come attori della comunità internazionale che a quel diritto restano soggetti. Ma il loro studio è ormai autonomo, così come lo è, nei limiti in cui il confronto è possibile, quello del diritto di qualsiasi altro soggetto di quella comunità. Proprio però per i motivi appena indicati, il diritto dell’Unione europea si è trovato a dover rivendicare la propria autonomia anche rispetto al diritto degli Stati membri. Come si è appena accennato, infatti, in ragione delle sue finalità e del suo oggetto, l’Unione opera soprattutto in direzione del diritto interno di quegli Stati, nel senso che l’ambito delle sue competenze insiste in massima parte su aspetti dell’esperienza giuridica che sono tradizionalmente oggetto di tale diritto. Si può dire anzi che il diritto dell’Unione interferisce con (ormai praticamente tutte) le branche del diritto interno, perché non vi è oggi quasi più alcun settore dell’esperienza statale che sfugga alla sua presa. Principi materiali e interpretativi o anche un vero e proprio corpo di norme comuni sono intervenuti o si annunciano in quasi tutti quei settori per modificare, integrare o sovrapporsi alla precedente normativa nazionale, al punto che si parla ormai della c.d. «europeizzazione» delle diverse branche del diritto interno, come un dato di assoluta evidenza e come lo sviluppo forse più importante da esse registrato in questi decenni, di certo, come la prospettiva di gran lunga più stimolante. Va però precisato che, ancor oggi, solo in parte il diritto dell’Unione europea regola autonomamente e compiutamente le materie oggetto della sua competenza; più spesso, esso si limita a interferire, attraverso il filtro del legislatore nazionale, sulle corrispondenti branche del diritto statale, imponendo l’adozione di specifiche norme uniformi o conformando quelle esistenti a regole e principi comuni. Sicché, nella maggior parte dei casi, le pertinenti discipline sono oggetto di una sorta di condominio del diritto europeo e del diritto interno, di un mix cioè di regole europee e nazionali. Secondo alcuni, ciò avrebbe dirette conseguenze sulla stessa autonomia e identità del diritto dell’Unione europea, perché in ragione di quanto precede, esso si «scioglierebbe» all’interno di quelle discipline e verrebbe così, in maggiore o minore misura, «nazionalizzato», sicché lo si dovrebbe «leggere» nella chiave dei principi, delle categorie logiche e degli schemi concettuali propri del diritto interno o peggio della disciplina di provenienza. Una simile conclusione sarebbe però del tutto infondata, perché a dover prevale-
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re è esattamente l’approccio metodologico opposto. Il fatto che la disciplina di determinate materie si presenti sotto forma di disciplina «nazionale» e sia destinata a operare e ad imporsi all’interno degli Stati, non significa infatti che essa sia sottratta alla presa del diritto dell’Unione europea o che addirittura si «appropri» di quest’ultimo. Accade invece il contrario, nel senso cioè che è il diritto dell’Unione ad attrarre quella disciplina nella propria orbita, conformandola e penetrandola con il proprio sistema e i propri principi. Sicché detta disciplina non solo trae diretta origine da una normativa europea, ma resta per tutta la sua esistenza condizionata da quella origine: quanto alla sua stessa sopravvivenza, alle sue eventuali variazioni, alla sua interpretazione, alle sue garanzie. In questi casi, insomma, non di una «nazionalizzazione» del diritto europeo si deve parlare, ma al contrario di una «europeizzazione» della pertinente disciplina nazionale. L’identità del diritto dell’Unione europea e del suo studio viene dunque confermata anche sotto questo profilo, e viene anzi addirittura meglio precisata, perché emerge che essa non tocca solo lo studio del complessivo sistema costituzionale e normativo dell’Unione, ma anche i profili europei delle singole discipline nazionali o meglio il complesso di principi e regole che in esse si calano e che devono guidarne l’interpretazione e l’applicazione.
4. La dottrina e i metodi di studio Anche se oggi il diritto dell’Unione europea incontra una crescente fortuna nella dottrina e vede di continuo ampliarsi la cerchia dei suoi studiosi, così non è stato per lungo tempo. Va infatti ricordato, anche a voler rifuggire dal facile esercizio del senno di poi, che l’attenzione e la sensibilità della dottrina per tale diritto è stata a lungo inadeguata, in Italia come negli altri Stati membri, rispetto alla sua importanza e alle sue implicazioni. È certo vero che la sua portata e la sua capacità di penetrazione nelle altre branche del diritto non si sono disvelate subito con chiarezza. Inizialmente, infatti, l’obiettivo principale della CEE era essenzialmente la rimozione delle restrizioni alla libera circolazione dei fattori produttivi per realizzare il mercato comune. La sua azione si qualificava dunque in senso funzionale piuttosto che materiale, in quanto tendeva molto più ad esigere dagli Stati membri l’eliminazione di quelle restrizioni che a influenzare essa stessa la pertinente legislazione nazionale e a imporre (o fare imporre dagli Stati) regole uniformi di origine comunitaria. E tutto ciò non poteva non influire sulle modalità, la portata e gli effetti della penetrazione del diritto comunitario negli ordinamenti statali e dunque sulla sua percezione da parte della dottrina del diritto interno. Lo studio della materia fu così lasciato per molti anni quasi in esclusiva alle cure di sparute pattuglie di cultori del diritto internazionale, con occasionali incursioni da parte di studiosi di altre discipline: gli uni e gli altri costretti a dispiegare ogni sforzo per divulgare il nuovo fenomeno a fronte dell’indifferenza, se non dello scetticismo dei più. Il che peraltro non impedì a quegli studiosi di giocare per lo sviluppo della materia un ruolo assai importante, e comunque più incisivo e gratificante di quello attuale: vuoi perché all’epoca si dovevano definire ab imis le caratteristiche del neo-
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nato sistema comunitario, vuoi perché la giurisprudenza della Corte di giustizia delle allora Comunità europee non svolgeva ancora quel ruolo così condizionante che ha via via assunto nel corso degli anni e che ha inevitabilmente ristretto gli spazi di «inventiva» della dottrina. Della segnalata disattenzione furono palese testimonianza, in Italia e fuori, l’assenza totale o quasi di riferimenti al diritto comunitario nella manualistica dell’epoca, perfino in quella relativa alle branche del diritto interno da esso più influenzate; i ritardi delle giurisdizioni nazionali, specie apicali, nel riconoscere l’autorità e i caratteri di quel diritto; lo spazio molto limitato ad esso riservato nelle riviste giuridiche non specializzate; la mancanza di uno specifico insegnamento nei programmi universitari ed in genere la diffusa indifferenza del mondo accademico verso la disciplina. Col tempo, però, lo sviluppo della costruzione europea e, con esso, la crescente incidenza del diritto comunitario nel dominio delle varie branche del diritto interno non poteva non indurre una comprensione più profonda e diffusa del fenomeno e stimolare le reazioni di una dottrina che, per la sua prestigiosa tradizione e per il contributo dato alla fondazione della moderna scienza del diritto nel Continente, non poteva restare ai margini e ancor meno fuori del processo d’integrazione anche giuridica in esso in atto. A partire quindi dalla metà degli anni ’80, ma soprattutto dal Trattato di Maastricht e ancor più dopo l’avvio del progetto di una «Costituzione» europea, l’attenzione degli studiosi si è progressivamente e significativamente accentuata, fino a registrare un’autentica inversione di tendenza. Si è assistito così in questi ultimi anni, e si assiste tuttora, a una straordinaria esplosione d’interesse per la materia, che si traduce in una serie di iniziative scientifiche e accademiche impensabili fino a qualche tempo fa e di cui costituiscono significativa testimonianza, fra l’altro, la pubblicazione di corposi volumi di inquadramento generale, di manuali ed opere monografiche; l’ampio spazio che le riviste riservano al diritto dell’Unione europea e anzi la nascita stessa di nuove riviste o di apposite sezioni all’interno di quelle esistenti; la diffusione di convegni, seminari, corsi universitari e perfino di dottorati di ricerca, destinati a dare uno sfogo all’interesse che in misura crescente i giovani studiosi avevano da ben prima manifestato per la materia. Certo, questa evoluzione è stata a volte troppo accelerata e impetuosa per non lasciare qualche segno negativo; ma essi si vanno ormai sbiadendo e non è il caso qui di insistervi. Quel che conta oggi è che la segnalata evoluzione si è ormai realizzata e che essa non può che essere salutata con la più viva soddisfazione. È di tutta evidenza infatti che per il diritto dell’Unione europea, forse ancor più che per altre discipline, ed oggi molto più che ieri, l’apporto della dottrina del diritto interno è assolutamente indispensabile, visto che le competenze coinvolte sono molteplici e assai diversificate. Lo conferma, del resto, il fatto che la segnalata evoluzione ha inciso anche sugli sviluppi e sulla direzione dello studio della materia, che per lungo tempo era stato quasi tutto incentrato sugli aspetti istituzionali dell’Unione europea e che poi si è sempre più esteso a quelli del diritto materiale. Sforzi sono infatti in atto ormai in quasi tutte le branche del diritto interno per approfondire e singolarizzare i rapporti di queste con il diritto dell’Unione europea e per dare, anche nella denominazione, corpo e visibilità allo sviluppo e alle implicazioni di tali rapporti. E si spiegano anzi, proprio in tale pro-
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spettiva, i tentativi, non più solo d’isolati pionieri, di «scomporre» il diritto dell’Unione e sviluppare una sorta di parallela specializzazione delle singole discipline: «diritto commerciale europeo»; «diritto amministrativo europeo»; «diritto penale europeo»; «diritto tributario europeo»; ecc., che spesso si traducono anche in autonomi e utili insegnamenti universitari (ovviamente quando non mirino solo a soddisfare appetiti accademici e quindi di «europeo» non abbiano che … la denominazione). Certo, il diffondersi e l’arricchirsi di tali specializzazioni meritano incoraggiamento, specie perché permettono maggiori approfondimenti scientifici e didattici e favoriscono anche su questo piano lo sviluppo del processo d’integrazione tra gli ordinamenti. Va tuttavia precisato che le partizioni di cui è questione sono proponibili solo in un senso lato e atecnico, con riguardo cioè alle materie sulle quali il diritto dell’Unione europea esercita, con la segnalata tecnica normativa, la propria incidenza. Questo non significa invece che tale diritto si scomponga anch’esso secondo quelle partizioni, invertendone le denominazioni («diritto europeo commerciale», «diritto europeo amministrativo», ecc.), visto che di regola la sua interferenza in questa o quella branca del diritto interno non si svolge (almeno finora) in modo ordinato e sistematico, e ancor meno con la consapevole ed intenzionale finalità di procedere alla loro risistemazione a livello europeo. Né, per altro verso, significa, come si è sopra accennato, che il diritto dell’Unione si «nazionalizzi» o si «sciolga» in quelle discipline; e questo va sottolineato perché ancor troppo diffusa è la comprensibile ma impropria tendenza a «leggere» il diritto europeo nella chiave dei principi, delle categorie logiche e degli schemi concettuali propri del diritto interno o peggio della disciplina di provenienza.
5. Fonti di informazione, ricerca e documentazione. Rinvio Com’è noto, le principali fonti ufficiali di cognizione del diritto dell’Unione sono: per la legislazione, la Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea (GUUE); per la giurisprudenza, la Raccolta della giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale dell’Unione. Dal 1° luglio 2013 fa però fede solo l’edizione elettronica della GUUE, salvo circostanze impreviste ed eccezionali (nel quale caso dovrà farsi riferimento alla versione cartacea). Si veda in proposito il reg. (UE) n. 216/2013 del Consiglio, del 7 marzo 2013, relativo alla pubblicazione elettronica della Gazzetta ufficiale dell’UE (GUUE L 69, 1). Quanto alla giurisprudenza, va segnalato che, visti i ritardi e i costi della «Raccolta» e considerato che gli sviluppi tecnologici di cui diciamo nel testo permettono ormai di accedere alla giurisprudenza in tempo reale, la Corte ha deciso di porre fine alla sua versione cartacea al 31 dicembre 2011. Le decisioni rese successivamente a tale data sono quindi pubblicate, in via ufficiale, soltanto in formato elettronico sul sito internet della Corte (www.curia.europa.eu), mentre la Corte ha attivato un’apposita applicazione per la ricerca delle proprie sentenze (“cvria”).
Ma in realtà, i documenti prodotti dall’Unione sono ben più vari e numerosi, perché se qualcosa non manca alle sue istituzioni è proprio la incessante produzione di pubblicazioni di ogni tipo. In effetti, vuoi per il tramite dell’apposito «Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione europea», vuoi attraverso i propri servizi, tutte le istituzioni, or-
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gani e agenzie dell’Unione provvedono con largo spiegamento di mezzi ad assicurare ogni (a loro avviso) necessaria informazione. A queste deve poi aggiungersi la documentazione che in tutta Europa (e non solo) producono i governi nazionali, i singoli ministeri, le diverse entità locali, le istituzioni settoriali, le organizzazioni economiche, sociali, culturali, le associazioni di categoria, le singole imprese, e via dicendo. Tutto ciò si traduce in un profluvio di documenti, di utilità e valore diversissimi, che pur frutto di buone e apprezzabili intenzioni, finiscono con l’annegare in un mare indistinto di titoli, e quindi col creare spesso confusione e disorientamento perfino tra gli addetti ai lavori, in base al noto e quanto mai attuale principio secondo cui troppe informazioni rischiano di fatto con l’equivalere a nessuna informazione. In passato, anche per i tempi e le modalità delle pubblicazioni comunitarie, tutto questo ha provocato non pochi problemi di «conoscenza» delle attività della o connesse all’Unione europea: in termini di completezza, tempestività, diffusione, accessibilità ed in genere di organizzazione e qualità degli strumenti di informazione e divulgazione. Ma oggi, grazie allo sviluppo dei moderni mezzi tecnologici, l’apparato di informazione è assai migliorato sotto tutti i profili. È diventato in effetti molto più agevole accedere alla documentazione dell’Unione per il tramite dei suoi siti ufficiali, come pure attraverso altri siti specializzati, anche se per il pubblico degli utenti, che già fatica a familiarizzare con i complessi meccanismi dell’Unione europea, resta comunque ancora arduo orientarsi tra l’autentica alluvione di testi di cui si è detto. A tal fine, peraltro, un imprescindibile aiuto viene dal crescente impegno della dottrina nel produrre supporti didattici e scientifici per lo studio della materia. Sempre più si diffonde, infatti, la pubblicazione di codici, commentari ai Trattati, raccolte sistematiche, generali o settoriali, di materiali di documentazione (della legislazione, della giurisprudenza e della prassi delle istituzioni europee), che cercano di essere completi e aggiornati, malgrado la difficoltà di rincorrere la continua evoluzione di tale prassi. Al tempo stesso, lo studio della materia è ormai favorito da una ricca e abbondante manualistica, oltre che da una produzione scientifica incessante sui diversi temi del diritto europeo e dalla pubblicazione di riviste (o sezioni di riviste) specializzate. Su tutti questi aspetti il lettore troverà le opportune informazioni nell’apposita Nota bibliografica e di documentazione (retro, p. XIII ss.). Va qui solo aggiunto che nel quadro appena delineato non sfigura affatto la dottrina italiana, che in passato è stata addirittura all’avanguardia nella materia con la pubblicazione già negli anni ’60 di corposi commentari ai Trattati CEE e CECA (v. il Trattato istitutivo della CEE. Commentario, in 4 volumi, e il Trattato istitutivo della CECA. Commentario, in 3 volumi, entrambi diretti da R. QUADRI, R. MONACO e A. TRABUCCHI, Milano, rispettivamente 1965 e 1970), e che comunque rimane ancora attivamente presente nel dibattito scientifico europeo, con manuali, riviste, codici, raccolte di prassi, ecc. Va detto, peraltro, che la crescente supremazia dell’inglese penalizza sempre più tale dottrina come tutte quelle non anglofone, le quali, malgrado i lodevoli ma faticosi tentativi di resistenza, rischiano inevitabilmente di subire una sorta di … restrizione occulta alla libera circolazione delle loro opere e soprattutto delle loro idee. E questo, per una disciplina che per definizione supera le frontiere nazionali, non è certo il miglior viatico.
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CAPITOLO II
Origini e sviluppi del processo di integrazione europea Sommario: 1. Il processo di integrazione europea: dalle origini all’Atto unico europeo. – 2. Il Trattato di Maastricht e la creazione dell’Unione europea. – 3. L’allargamento e il cammino verso il Trattato di Lisbona. – 4. Dall’attuazione del Trattato di Lisbona al referendum sulla Brexit.
1. Il processo di integrazione europea: dalle origini all’Atto unico europeo La fine della seconda guerra mondiale segna per l’Europa non solo la fine di quel conflitto, ma anche l’uscita da un periodo politicamente ed economicamente drammatico, che, iniziato con la precedente guerra mondiale, aveva poi visto succedersi, nel vecchio continente, non poche crisi e tensioni di varia natura, sfociate appunto nell’ultimo conflitto. Con la cessazione di questo prende infatti il via una nuova epoca politica. Rafforzata dalla ovvia reazione alle devastazioni conosciute negli anni precedenti, si fa strada in Europa la convinzione della necessità di una nuova dimensione politica tra gli Stati, ispirata a una diffusa cooperazione tra di essi da realizzare attraverso la creazione di una serie di enti internazionali operanti in campi diversi e con geometrie differenti. Nel decennio successivo alla fine delle ostilità è un fiorire di queste iniziative. Alcune di queste, pur se insediate in Europa, vanno anche oltre i confini del continente, vedendo la partecipazione pure di paesi non europei, come l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) del 1949 (alleanza militare costituita fin dall’inizio con Stati Uniti e Canada). Altre, invece, nascono con un carattere decisamente paneuropeo: l’Organizzazione europea di cooperazione economica (OECE) del 1948 (creata da sedici paesi europei per gestire il Piano Marshall di ricostruzione dell’Europa postbellica e poi trasformatasi nel 1960 in OCSE: Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico); l’Unione europea occidentale (UEO) sempre del 1948 (organizzazione di sicurezza militare e cooperazione politica, costituita da sette paesi europei); il Consiglio d’Europa del 1949 (fondato da dieci paesi europei, a tutela dei diritti dell’uomo e dei valori democratici).
Accanto a queste iniziative, cui non era certo estranea la volontà di una contrap-
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posizione al blocco sovietico che in quegli stessi anni stava estendendo la sua influenza sull’Europa orientale, si fa però strada anche l’idea di una collaborazione più stretta da porre in essere tra solo alcuni paesi europei, capace di portare a un’integrazione tra di essi a partire dai rispettivi mercati ed economie. L’idea, già delineata in chiave federalista dal «Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita» del 1941 ad opera di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni (allora al confino in quell’isola delle Pontine), viene declinata in termini funzionalisti e graduali da Robert Schumann, ministro degli esteri francese, in una sua Dichiarazione del 9 maggio 1950. La Dichiarazione, nel riconoscere che l’Europa «non potrà farsi in una sola volta» e «tutta insieme», indica nella creazione di un’organizzazione aperta ad altri paesi europei», che metta «l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità», il primo passo da compiere in vista di quell’obiettivo. Quel primo passo del processo di integrazione tra gli Stati europei, oggi identificato dall’Unione europea, viene realizzato con l’entrata in vigore, il 23 luglio 1952, del Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), firmato a Parigi il 18 aprile 1951 da Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. A questa prima Comunità, il cui assetto istituzionale ha rappresentato nelle sue grandi linee il modello intorno al quale il processo d’integrazione si è andato ulteriormente sviluppando, se ne aggiungeranno sei anni dopo altre due. Nonostante, infatti, la contestuale battuta d’arresto provocata dalla mancata ratifica da parte della Francia di un trattato del 27 maggio 1952 volto a dar vita a una Comunità europea di difesa (CED), cinque anni dopo, il 25 marzo 1957, gli stessi sei Stati firmano a Roma i Trattati istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea per l’energia atomica (CEEA o Euratom), i quali entreranno in vigore il 1° gennaio dell’anno successivo. Attraverso queste tre Comunità, formalmente distinte tra loro, prendeva le mosse un disegno unitario, volto principalmente, nella sua prima fase, a dar vita nel territorio dei sei Stati fondatori a un mercato comune basato sulla libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali e caratterizzato da condizioni di concorrenza non falsate né da comportamenti degli attori economici, né dall’azione dei poteri pubblici. A questo obiettivo principale si affiancava la previsione di alcune politiche comuni, identificate in quel primo momento dalla politica agricola, dalla politica commerciale e dalla politica dei trasporti, nonché dai settori di competenza della CECA e dell’Euratom: i prodotti carbosiderurgici e l’energia nucleare. L’unitarietà di quel disegno ha trovato riflesso anche nelle vicende dell’apparato istituzionale cui la sua realizzazione è stata affidata. Va subito detto che questo si presentava per certi versi simile in tutte e tre le Comunità originarie, registrando ciascuna di esse la presenza di quattro istituzioni principali, che si configuravano due come organi di governo, in senso lato, delle Comunità, e le altre come organi di controllo delle prime due. E tuttavia se queste ultime – il Parlamento europeo e la Corte di giustizia – avevano natura e funzioni omogenee nelle tre Comunità, consistenti, per il primo, nell’esercizio di un controllo politico, oltre che di poteri consultivi nel quadro del processo decisionale, e per la seconda nella connaturata funzione di controllo giurisdizionale, in modo decisamen-
Origini e sviluppi del processo di integrazione europea
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te differente si atteggiavano i compiti delle altre due istituzioni all’interno della Comunità originaria, rispetto a quanto fu poi previsto nelle due Comunità successive. Nella CECA, infatti, l’istituzione chiave del sistema, perché detentrice in via esclusiva del potere normativo ed esecutivo dell’ente, era l’Alta Autorità, organo indipendente dai governi e portatore dell’interesse generale; mentre l’istituzione tipicamente intergovernativa, il Consiglio speciale dei Ministri degli Stati membri, si trovava in una condizione formalmente secondaria, avendo come compiti quello di armonizzare l’azione dell’Alta Autorità con quella dei Governi nazionali attraverso la formulazione di pareri e la trasmissione di informazioni sull’attività della stessa Alta Autorità. Nella CEE e nella CEEA, al contrario, il centro di gravità del sistema era rappresentato proprio, come vedremo essere anche nell’Unione europea odierna, dal Consiglio, mentre alla Commissione era riservato sì un ruolo essenziale di impulso normativo e di controllo, ma certamente non paragonabile a quello della sua omologa della CECA. Con la conseguenza, perciò, che le due nuove Comunità furono costruite paradossalmente, anche in ragione del loro ben più ampio raggio d’azione, in senso «meno sopranazionale» della Comunità-capostipite del processo d’integrazione europea, caratterizzando nello stesso senso anche la successiva evoluzione di questo. Ciò non ha impedito che l’apparato istituzionale delle tre Comunità abbia finito per unificarsi progressivamente nei suoi elementi costitutivi, pur mantenendo le peculiarità che, all’interno di ciascuna di esse, ne caratterizzavano le competenze. Già al momento della firma dei Trattati di Roma, infatti, venne ad essi allegata una «Convenzione relativa a talune istituzioni comuni», che unificava il Parlamento europeo (allora denominato Assemblea parlamentare), la Corte di giustizia e il Comitato economico e sociale. Con la conclusione poi, nell’aprile del 1965, del Trattato sulla fusione degli esecutivi (firmato a Bruxelles l’8 aprile 1965 ed entrato in vigore il 1° luglio 1967), furono istituiti un Consiglio e una Commissione unici delle Comunità europee (quest’ultima assorbendo in se stessa l’Alta Autorità della CECA) e vennero unificati il sistema di finanziamento delle attività comunitarie e la struttura di bilancio, basata su un bilancio generale e una procedura di adozione unica; struttura di bilancio che fu ulteriormente modificata dal Trattato di Bruxelles del 22 luglio 1975 (entrato in vigore il 1° giugno 1977), che instituì la Corte dei conti delle Comunità europee in sostituzione dei precedenti analoghi organi delle tre Comunità.
Costruito formalmente intorno alla prospettiva economico-commerciale del mercato comune, il processo d’integrazione europea conteneva fin dall’inizio i germi di una sua successiva caratterizzazione politica. L’art. 138, par. 3, TCEE (divenuto oggi l’art. 223 TFUE) prevedeva, infatti, che si dovesse passare da un Parlamento europeo composto di rappresentanti dei parlamenti nazionali da questi stessi designati, come inizialmente stabilito, a un Parlamento eletto direttamente dai cittadini degli Stati membri. Grazie all’adozione da parte del Consiglio, il 20 settembre 1976, dell’«Atto relativo all’elezione dei rappresentanti nell’Assemblea a suffragio universale diretto» (vedi in proposito, infra, p. 90 s.), tra il 7 e il 10 giugno 1979 si svolgono in effetti le prime elezioni europee. La legittimazione democratica diretta che ne deriva al nuovo Parlamento europeo costituirà una spinta importante per i successivi sviluppi dell’integrazione europea. Nel decennio seguente, in effetti, prende il via un vero e proprio processo di riforma del sistema. Il primo passo viene compiuto con l’Atto Unico europeo (AUE), del 17-28 febbraio 1986, che dà luogo per la prima volta a una revisione significativa
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dei Trattati originari, orientata in tre direzioni: viene semplificata la presa di decisione del Consiglio con un maggior ricorso alla procedura di voto a maggioranza qualificata; viene per la prima volta riconosciuto al Parlamento europeo un ruolo più incisivo nella formazione degli atti della Comunità; viene introdotta formalmente nel perimetro del processo di integrazione europea, seppur al di fuori dei Trattati comunitari, una prima forma di cooperazione politica in materia di politica estera. In particolare, per quanto riguarda il voto in seno al Consiglio viene sostituita l’unanimità con la maggioranza qualificata per le sue deliberazioni in alcuni settori particolarmente importanti per lo sviluppo del processo di integrazione europea. Ad esempio, grazie ad un nuovo art. 100 A TCEE (ora art. 114 TFUE) e attraverso la procedura di cooperazione di cui di seguito, il voto a maggioranza qualificata fu introdotto nel settore dell’armonizzazione delle legislazioni in vista della realizzazione del mercato comune, sbloccando la situazione di stallo che fino a quel momento aveva conosciuto tale obiettivo in ragione dell’unanimità richiesta dall’allora art. 100 dello stesso Trattato. L’accelerazione verso quell’obiettivo trovò peraltro ulteriore impulso nella previsione direttamente nell’AUE di una formale, seppur simbolica, scadenza, il 31 dicembre 1992, entro la quale il mercato interno (nuova denominazione data da quello stesso trattato al mercato comune) avrebbe dovuto trovare completamento con l’adozione dei circa 300 atti indicati a questo scopo in un Libro bianco della Commissione del 14 giugno 1985 indirizzato al Consiglio europeo di Milano del successivo 28 giugno: entro quella scadenza fu effettivamente adottato oltre il 90% di tali atti. Quanto invece al ruolo del Parlamento europeo, le modifiche recate dall’Atto unico ai Trattati originari introdussero, da un lato, la c.d. procedura di cooperazione con il Parlamento, che consentiva a quest’ultimo, a certe condizioni, di aggravare le modalità di voto con cui il Consiglio era chiamato ad adottare determinati atti, e, dall’altro lato, la c.d. procedura di parere conforme, che, in materia di adesione di nuovi Stati membri alla Comunità e di conclusione da parte di questa di accordi di associazione con Stati terzi, finiva per dare al Parlamento un ruolo ancora più incisivo, prevedendo la necessità di un suo parere favorevole perché il Consiglio potesse prendere le relative decisioni (per maggiori dettagli, si veda infra, p. 206 s.). Infine, con riguardo alla politica estera, l’art. 2 AUE formalizzò, sotto la denominazione di Consiglio europeo, la prassi dei vertici semestrali, che, seppur con cadenze diverse, i capi di Stato o di governo, accompagnati dai ministri degli affari esteri, avevano cominciato a tenere fin dai primi anni ’60, anche se va detto che già in occasione del Vertice di Parigi del dicembre 1974 i capi di Stato o di governo degli Stati membri avevano deciso di procedere da quel momento in poi, con la denominazione di Consiglio europeo, ad incontri periodici, con cadenza quadrimestrale, dedicati a un approfondimento della cooperazione reciproca soprattutto in materia di politica estera.
2. Il Trattato di Maastricht e la creazione dell’Unione europea Uno sviluppo ben più significativo del processo di integrazione europea si ha però con la firma, il 7 febbraio 1992 a Maastricht, del Trattato sull’Unione europea (TUE), che entrerà in vigore il 1° novembre 1993, dopo che una dichiarazione dei capi di Stato o di governo riuniti in sede di Consiglio europeo del dicembre del 1992 aveva permesso alla Danimarca di ratificarlo, superando l’esito negativo di un primo referendum svoltosi al riguardo in quel paese. Questo Trattato non prosegue solo, infatti, nell’opera di ampliamento delle competenze delle Comunità e di perfezionamento dei loro meccanismi di funzionamento, ma dà anche luogo a una profonda mutazione della costruzione avviata nel 1957.
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Questa viene ricollocata in un edificio nuovo e più grande, l’Unione europea appunto, della quale le Comunità europee, senza perdere formalmente le loro identità, diventano parte costituente accanto a due nuovi settori di cooperazione tra gli Stati membri – la cooperazione in materia di politica estera e sicurezza comune (PESC) e quella in materia di giustizia e affari interni (GAI) –, governati dallo stesso apparato istituzionale creato dai Trattati originari, ma sulla base di regole e procedure diverse tra loro e da quelle comunitarie. Il processo di integrazione europea viene così ad identificarsi, a partire da Maastricht, con questo nuovo edificio, l’Unione europea, che si regge, secondo una suggestiva immagine subito invalsa nel linguaggio comune, su tre «pilastri»: il primo pilastro o pilastro comunitario, composto dalle Comunità europee, il secondo pilastro, costituito dalla PESC, e il terzo pilastro, formato dalla GAI. Con il Trattato di Maastricht, peraltro, il sistema comunitario non solo mantiene la sua identità formale, ma viene anche rafforzato nei suoi contenuti. Il suo elemento centrale, la Comunità economica europea, vede ulteriormente attenuata l’esclusività della sua originaria caratterizzazione economico-commerciale, tanto da vedersi simbolicamente ridenominata in Comunità europea tout court. Nel relativo Trattato (d’ora in poi TCE) viene infatti inserita per la prima volta la nozione di cittadinanza dell’Unione, quale status comune a tutti i cittadini degli Stati membri, che si aggiunge alla cittadinanza nazionale arricchendola di propri specifici diritti. Si ampliano le competenze della Comunità a materie quali l’istruzione e la formazione professionale, le reti transeuropee, l’industria, la sanità, la cultura, la cooperazione allo sviluppo, la tutela dei consumatori; e si rafforzano quelle già esistenti in materia di politica sociale, coesione economica e sociale, ricerca e sviluppo tecnologico, ambiente. Vengono modificati taluni meccanismi di funzionamento, introducendo in particolare la procedura di codecisione con il Parlamento europeo, procedura che dà a quest’ultimo un ruolo paritario con il Consiglio nel processo di adozione di taluni atti comunitari. Viene infine creata, sempre all’interno del TCE, l’unione economica e monetaria in vista del successivo passaggio ad una moneta unica. Il disegno istituzionale delineato a Maastricht viene perfezionato cinque anni dopo ad Amsterdam con la firma, il 2 ottobre 1997, dell’omonimo Trattato, entrato poi in vigore il 1° maggio 1999. Pur se apparentemente più modeste, le modifiche da questo recate ai Trattati istitutivi, ivi compreso il TUE, non sono meno significative, per certi versi, di talune di quelle decise a Maastricht. I principi di libertà, democrazia e di rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, oltre che dello Stato di diritto vengono consacrati nel TUE come valori fondanti dell’Unione (art. 6, par. 1), una cui violazione «grave e persistente» da parte di uno Stato membro può aprire la strada a sanzioni nei suoi confronti da parte del Consiglio (art. 7). Si procede per la prima volta a una semplificazione dei Trattati attraverso l’abrogazione delle disposizioni divenute obsolete e la rinumerazione degli articoli. Parte del terzo pilastro creato a Maastricht viene trasferito nel TCE, «comunitarizzando», assoggettando cioè ai meccanismi e alle regole di questo, la materia dei visti, asilo e immigrazione e la cooperazione giudiziaria in materia civile. Viene infine prevista la possibilità che gruppi di Stati membri siano autorizzati dal Consiglio ad avviare tra di essi, nel quadro delle competenze dell’Unione, cooperazioni rafforzate in un determinato settore o materia, utilizzando le istituzioni, le procedure e i meccanismi previsti dai Trattati.
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Introduzione
L’esigenza di permettere questa possibile evoluzione per gruppi ristretti di Stati del processo d’integrazione europea si era andata in effetti progressivamente evidenziando in parallelo con l’aumento del numero degli Stati membri. E le conseguenze di questo allargamento avevano cominciato a farsi sentire non solo sull’efficienza delle istituzioni create dai Trattati, ma anche sul permanere di una visione comune circa il futuro dell’Unione e delle sue politiche. In effetti, nel corso dei due decenni precedenti gli Stati membri erano più che raddoppiati, passando a seguito di successivi trattati di adesione dai sei paesi fondatori a 15: il 1° gennaio del 1973 avevano aderito Regno Unito, Irlanda e Danimarca, seguiti il 1° gennaio 1981 dalla Grecia, il 1° gennaio 1986 da Spagna e Portogallo e il 1° gennaio 1995 da Austria, Finlandia e Svezia.
3. L’allargamento e il cammino verso il Trattato di Lisbona Proprio l’allargamento diventa, non a caso, il tema dominante dei successivi sviluppi dell’integrazione europea. La caduta nel 1989 del Muro di Berlino e la conseguente dissoluzione del blocco sovietico avevano del resto aperto la prospettiva di un ulteriore ampliamento dell’Unione, prospettiva concretizzatasi, in coincidenza con la conclusione del Trattato di Amsterdam, con la decisione del Consiglio europeo del dicembre 1997 di avviare il processo di adesione di ben altri dieci nuovi Stati, nella gran parte provenienti appunto da quel blocco (Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica ceca, Slovenia, Slovacchia e Ungheria). Si poneva quindi la necessità di adattare i meccanismi di funzionamento dell’Unione a un probabile incremento massiccio del numero degli Stati membri. Un Protocollo allegato allo stesso Trattato di Amsterdam annunciava perciò la convocazione («almeno un anno prima che il numero degli Stati membri dell’Unione sia superiore a venti») di «una conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri allo scopo di procedere ad un riesame globale delle disposizioni dei Trattati concernenti la composizione e il funzionamento delle istituzioni». Il «riesame» realizzato con il trattato che ne scaturirà, il Trattato di Nizza firmato il 26 febbraio 2001 ed entrato in vigore il 1° febbraio 2003, sarà tutt’altro che «globale». Se si esclude la riforma del sistema giurisdizionale, dal nuovo Trattato vengono modifiche circoscritte dei meccanismi istituzionali: sostanzialmente esso si limita a intervenire sulla composizione di alcuni organi tra cui la Commissione, sulle modalità di formazione e sull’estensione del voto a maggioranza qualificata del Consiglio e sull’ambito di applicazione della procedura di codecisione. Il risultato è che, ancora una volta, mentre si dà luogo a una modifica dei Trattati, già se ne prefigura una nuova. Una Dichiarazione relativa al futuro dell’Unione approvata dalla stessa Conferenza di Nizza pone le basi, infatti, di un’ulteriore conferenza intergovernativa di revisione. In parte come reazione e rimedio alla ridotta portata degli emendamenti decisi a Nizza, in parte per un’esigenza di rivisitazione complessiva del sistema dopo tre lustri di successive modifiche, il nuovo esercizio di riforma si avvia con il progetto ambizioso di una revisione generale e radicale dell’impianto dei Trattati.
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Al termine di un percorso negoziale innovativo deciso con la Dichiarazione di Laeken del Consiglio europeo del dicembre 2001, e che vede coinvolti, all’interno di una «Convenzione per l’avvenire dell’Europa» preparatoria della formale Conferenza intergovernativa prevista dall’art. 48 TUE, rappresentanti dei governi, dei parlamenti nazionali, del Parlamento europeo e della Commissione, il 29 ottobre 2004 viene firmato a Roma il «Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa» destinato a rimpiazzare integralmente i Trattati esistenti. La creazione della Convenzione per l’avvenire dell’Europa fu decisa con la Dichiarazione di Laeken adottata dal Consiglio europeo del 14-15 dicembre 2001. Oltre che da un presidente e da due vicepresidenti, la Convenzione era composta da 15 rappresentanti dei capi di Stato o di governo degli Stati membri (uno per Stato membro), 30 membri dei Parlamenti nazionali (2 per Stato membro), 16 membri del Parlamento europeo e due rappresentanti della Commissione. Essa era inoltre aperta alla partecipazione, con lo stesso formato, anche dei dieci paesi candidati all’adesione poc’anzi ricordati. Era poi previsto che la Convenzione operasse sotto il coordinamento di un Presidium formato dal presidente, dai due vicepresidenti della Convenzione e da nove suoi membri rappresentativi delle diverse anime, il cui segretariato era assicurato dal Segretariato generale del Consiglio. Il presidente e i vicepresidenti furono indicati dalla stessa Dichiarazione di Laeken nelle persone, rispettivamente, di Valéry Giscard d’Estaing, Giuliano Amato e Jean-Luc Dehaene. La Convenzione iniziò i suoi lavori il 28 febbraio 2002 per concluderli il 10 luglio 2003, con la presentazione di un progetto di Trattato che costituì la base di lavoro della Conferenza intergovernativa del 2003-2004. Merita peraltro segnalare che, come vedremo più avanti (vedi infra, p. 137), il modello della Convenzione, come strumento per la modifica dei Trattati è stato poi formalizzato dal Trattato di Lisbona nella disciplina del procedimento di revisione ordinaria inserita nel nuovo art. 48, parr. 2-5, TUE.
L’obiettivo di questo nuovo Trattato è quello di inserire l’intero processo di integrazione in un quadro che evochi a livello non solo della sua intitolazione, ma anche di taluni dei suoi meccanismi di funzionamento, un acquisito carattere costituzionale della costruzione europea (gli atti principali denominati leggi e leggi quadro europee, la rappresentanza esterna dell’Unione affidata ad un ministro degli esteri, bandiera, inno, motto, moneta e festa dell’Europa eretti formalmente a simboli dell’Unione). Il disegno formale per realizzarlo è quello di dare vita, pur nel segno di una continuità giuridica che faccia salvi il diritto derivato preesistente e la giurisprudenza della Corte di giustizia, a una nuova Unione europea, che riassuma in sé, nel quadro di un’unica entità giuridica, tanto il pilastro comunitario che il secondo e il terzo pilastro, con la sola eccezione della CEEA, oggetto però di specifiche modifiche ad opera di un protocollo allegato al Trattato costituzionale. Lo strumento giuridico è quello, appunto, di un nuovo e unico Trattato, piuttosto lungo (448 articoli), cui fanno da cornice una serie di protocolli riproducenti sia parte di quelli preesistenti, sia le disposizioni ancora vigenti dei diversi Trattati di adesione. I 448 articoli del testo risultano però ripartiti in quattro parti contenenti: la prima, i principi, gli obiettivi e le regole generali di funzionamento dell’Unione; la seconda, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (sulla quale infra, p. 146 ss.); la terza, le norme di dettaglio, sostanzialmente riprese dai Trattati precedenti, sulle politiche ed il funzionamento dell’Unione; la quarta, le disposizioni generali e finali, riguardanti in particolare le procedure di modifica e di entrata in vigore del Trattato.
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Introduzione
Il nuovo Trattato si prospetta quindi come interamente sostitutivo dei Trattati allora in vigore, così come l’Unione europea da esso creata è formalmente una nuova entità rispetto alle Comunità e all’Unione creata dal Trattato di Maastricht, pur nella continuità, come si è detto, del diritto e della giurisprudenza precedenti. Secondo l’art. IV-438 del nuovo Trattato, infatti, «gli atti delle istituzioni, organi e organismi adottati sulla base dei trattati e atti abrogati […] restano in vigore» (par. 3, comma 1); «[g]li altri elementi dell’acquis comunitario e dell’Unione esistenti al momento dell’entrata in vigore del presente Trattato […] sono anch’essi mantenuti» (par. 3, comma 2); «la giurisprudenza [della Corte e del Tribunale] relativa all’interpretazione e all’applicazione dei trattati e atti abrogati […], così come degli atti e convenzioni adottati per la loro applicazione, resta, mutatis mutandis, la fonte d’interpretazione del diritto dell’Unione e in particolare delle disposizioni analoghe della Costituzione» (par. 4); «la continuità delle procedure amministrative e giurisdizionali avviate prima dell’entrata in vigore del presente Trattato è assicurata nel rispetto della Costituzione» (par. 5).
Mentre l’Unione si appresta a passare a 27 Stati membri – dopo l’ingresso, il 1° maggio 2004, dei dieci Stati prima citati, il 1° gennaio 2007 aderiranno Bulgaria e Romania –, l’entrata in vigore del Trattato costituzionale viene però bloccata da due referendum negativi in Francia e Paesi Bassi, che ne bocciano la ratifica da parte di questi due paesi. Dopo due anni di incertezza il progetto di Trattato costituzionale è formalmente abbandonato, ma i suoi contenuti diventano la base di partenza di una nuova Conferenza intergovernativa che, apertasi nel luglio 2007, conduce rapidamente alla redazione e alla firma, il successivo 13 dicembre a Lisbona, di un nuovo trattato di revisione, intitolato «Trattato di riforma» ma ormai universalmente noto come Trattato di Lisbona. Anche il processo di ratifica di questo nuovo Trattato avrà un percorso travagliato. La prospettiva di una sua entrata in vigore il 1° gennaio 2009, auspicata dal suo art. 6, sembra infatti essere messa in discussione dal risultato negativo, il 12 giugno 2008, di un nuovo referendum, questa volta nella Repubblica d’Irlanda. E tuttavia in questo caso il processo di ratifica non si arresta. Nonostante il no irlandese, la procedura di ratifica prosegue nella maggior parte degli altri Stati membri (non appena approvata la legge di autorizzazione del 2 agosto 2008, n. 130, l’Italia ratifica l’8 agosto dello stesso anno), mentre si cerca di trovare una soluzione che consenta al Governo irlandese di riconvocare gli elettori per un secondo referendum. La soluzione viene trovata con l’approvazione da parte dei capi di Stato o di governo degli Stati membri, in occasione del Consiglio europeo del 18 e 19 giugno 2009, di «una serie di garanzie giuridiche intese a rispondere alle preoccupazioni del popolo irlandese, creando così le premesse per una nuova loro consultazione sul trattato». Tali garanzie, formalizzate in una decisione e in una Dichiarazione dei capi di Stato o di governo, consistono in realtà in una serie di rassicurazioni esplicite richieste dal Governo irlandese circa l’assenza di qualsiasi impatto del Trattato di Lisbona su talune questioni politicamente sensibili in Irlanda (politica fiscale, diritto alla vita, all’istruzione e alla famiglia, neutralità dello Stato, politica sociale e diritti dei lavoratori). Viene inoltre deciso, da un lato, di integrare di 18 membri supplementari il Parlamento europeo per la sola legislatura 2009-2014, dall’altro, di prevedere, con decisione da formalizzare subito dopo l’entrata in vigore del Trattato, che la Commissione continui a comprendere un cittadino di ogni Stato membro, vanificando così la riduzione dei componenti della Commissione decisa con il Trattato di Nizza e inizialmente confermata dal Trattato di Lisbona (in proposito si rinvia alla p. 97). Il nuovo referendum irlandese, svoltosi il 2 ottobre 2009, ha esito positivo e sblocca definitivamente il processo di ratifica del Trattato di Lisbona. La Polonia e l’Irlanda ratificano rispettivamente il 12 e il 23 ottobre dello stesso anno. E dopo che il 13 novembre anche la Repubblica ceca ha depositato, ultimo tra gli Stati membri, il proprio strumento di ratifica, il Trattato entra in vigore, come originariamente previsto, il 1° dicembre 2009.
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4. Dall’attuazione del Trattato di Lisbona al referendum sulla Brexit Il Trattato di Lisbona segna una ulteriore importante tappa nel cammino del processo di integrazione europea. Le novità da esso recate incidono profondamente, infatti, sui profili istituzionali e sullo stessa costruzione complessiva assunta negli anni precedenti da questo processo. Esse saranno esaminate più avanti (e nel corso di tutto questo volume). Va invece subito osservato in questa sede, che era aspettativa diffusa che, con l’entrata in vigore del nuovo Trattato, l’Unione europea si sarebbe potuta concentrare negli anni immediatamente successivi principalmente sulla sua attuazione. Non erano poche, infatti, le novità cui si sarebbe dovuto dare applicazione concreta attraverso un’attività normativa e amministrativa delle istituzioni. In più, per alcune di esse, la portata effettivamente innovativa si sarebbe potuta misurare solo in funzione della prima prassi applicativa. I lavori al riguardo si sono in effetti avviati quasi immediatamente dopo l’insediamento delle nuove figure istituzionali e delle istituzioni che da queste figure erano direttamente interessate. Tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010 vengono nominati tanto il nuovo Presidente eletto del Consiglio europeo, quanto l’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza (infra, Parte Prima, Cap. II, parr. 6 e 11), consentendo così sia al Consiglio europeo, che alla Commissione, di cui l’Alto Rappresentante è membro con rango di Vicepresidente, di iniziare ad operare nella pienezza della composizione e dei poteri loro attribuiti con il Trattato di Lisbona. E con le nuove istituzioni post-Lisbona installate e funzionanti, si avviano i lavori preparatori che portano ben presto alla formalizzazione di una serie di provvedimenti di attuazione di talune novità rilevanti introdotte da quel Trattato. In attuazione, poi, del compromesso generale raggiunto in seno al Consiglio europeo per sbloccare l’impasse creata dal risultato negativo del primo referendum svoltosi in Irlanda sulla ratifica del Trattato di Lisbona, vengono convocate, ai sensi dell’art. 48 TUE, tre brevi conferenze intergovernative per adottare altrettanti protocolli aggiuntivi ai Trattati, il primo diretto a portare per la sola legislatura in corso i membri del Parlamento europeo dai 751 fissati dall’art. 14 TUE ai 754 concordati nel quadro di quel compromesso; il secondo volto a fornire le necessarie garanzie giuridiche che, come si è poc’anzi ricordato, il Consiglio europeo aveva promesso di dare in risposta alle c.d. «preoccupazioni» del popolo irlandese che avevano portato a una prima bocciatura da parte sua del Trattato di Lisbona (si veda la dec. 2013/106/UE del Consiglio europeo, dell’11 maggio 2012, in GUUE L 60, 129, di apertura della conferenza intergovernativa, con in allegato il protocollo concernente le preoccupazioni del popolo irlandese relative al Trattato di Lisbona, protocollo che però non ha ancora ricevuto le ratifiche necessarie alla sua entrata in vigore); e il terzo, ancora in fase di elaborazione da parte della conferenza intergovernativa appositamente convocata nel giugno 2013, destinato ad estendere alla Repubblica ceca il Protocollo n. 30 sull’applicabilità della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea a Polonia e Regno Unito (in proposito si veda infra, p. 150 s.).
E tuttavia, nello stesso torno di tempo in cui si apre questa serie di cantieri applicativi di Lisbona, l’Unione viene investita dalla grave crisi finanziaria ed economica scoppiata negli Stati Uniti nel 2008. Proprio in coincidenza con l’entrata in vigore del nuovo Trattato, essa si propaga infatti in Europa, colpendo il debito sovrano di
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Introduzione
alcuni Stati membri dell’eurozona, a cominciare dalla Grecia. Ciò costringe l’Unione a modificare buona parte della sua agenda di lavoro. Come si vedrà, infatti, la risposta da dare alla crisi impone, da un lato, la messa in campo di strumenti di solidarietà finanziaria nei confronti degli Stati più colpiti, per evitare che la stessa crisi metta a rischio la stabilità dell’intera zona euro; dall’altro lato, una revisione profonda dei meccanismi di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio degli Stati membri, sui quali si era fino ad allora basata la gestione del pilastro economico dell’unione economica e monetaria. Dai primi mesi del 2010, il tema della crisi e delle misure per farvi fronte diventa il tema dominante delle riunioni del Consiglio europeo. Anche sotto l’impulso datogli dalla sua nuova presidenza elettiva, tale Consiglio prende, infatti, la leadership del processo di riforma della c.d. governance economica europea, negoziando direttamente al suo livello la gran parte delle misure da adottare. E ciò anche quando queste, come sarà nella maggior parte dei casi, sono destinate ad assumere la veste di atti di diritto derivato. Come si vedrà (Cap. VIII, par. 8, della Parte Quarta), la riforma viene in effetti realizzata quasi esclusivamente con modifiche non di norme del Trattato, bensì del quadro applicativo previgente degli artt. 121 e 126 TFUE. Avallata politicamente da un accordo raggiunto in seno al Consiglio europeo del 24 e 25 marzo 2011 e, per il coordinamento delle politiche di competitività, da un apposito Patto concluso tra i capi di Stato o di governo della zona euro (il c.d. «Patto Euro plus»), la riforma si è infatti tradotta sul piano giuridico soprattutto in un complesso articolato di atti, il c.d. Six Pack, adottato formalmente l’8 novembre 2011 e costituito da cinque regolamenti e una direttiva strettamente interconnessi tra loro, che vanno ad incidere sui precedenti assetti di governance economica dell’Unione, in taluni casi modificando le norme previgenti di diritto derivato, in altri integrando in via di applicazione la disciplina dettata dal Trattato. E al Six Pack fa poi seguito l’adozione di altri due regolamenti in materia di vigilanza delle politiche di bilancio nella zona euro (il c.d. Two Pack), che rafforzano particolarmente i poteri di supervisione della Commissione sui bilanci nazionali della stessa zona euro. E benché, paradossalmente, abbiano ricevuto negli ambienti ufficiali, come nell’opinione pubblica, una risonanza inversamente proporzionale, numericamente più ridotti sono rimasti gli interventi operati attraverso il ricorso a una fonte superiore o diversa dal diritto derivato: si allude in particolare alla modifica dell’art. 136 TFUE, realizzata dal Consiglio europeo attraverso la procedura di revisione semplificata di cui all’art. 48, par. 6, TUE, di cui però la stessa Corte di giustizia sconfesserà poi la reale necessità giuridica, affermando che la costituzione da parte degli Stati membri di un meccanismo di stabilizzazione finanziaria, che quella modifica tendeva a legittimare, rientrava di per sé nella competenza degli Stati (Corte giust. 27 novembre 2012, C-370/12, Pringle); e al Trattato concluso nel 2012 sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria, che con il nome di Fiscal Compact diventa il simbolo della riforma complessiva di tale governance, benché esso si limiti per lo più a ribadire, ma in maniera molto sintetica, disposizioni già introdotte dagli atti di diritto derivato sopra ricordati e benché lo stesso, stipulato da solo 25 Stati su 27 (ne sono rimasti fuori Regno Unito e Repubblica ceca), sia in realtà un accordo esterno ai Trattati, pur se ad essi connesso per materia e destinato, sulla carta, a confluire solo col tempo nell’ordinamento giuridico dell’Unione (v. ancora infra, p. 700 ss.).
A crisi economica e finanziaria non ancora risolta, poi, l’Unione si trova a fronteggiare un’altra crisi dovuta al numero sempre crescente di richiedenti asilo e di migranti economici che soprattutto dal 2014 si riversano attraverso il Mediterraneo sulle coste della Grecia e dell’Italia, per poi spostarsi verso gli altri Stati membri. La
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nuova crisi viene anzi a porsi al centro dell’agenda europea in maniera, se possibile, ancor più drammatica di quella precedente, o, quanto meno, come tale viene percepita dalle opinioni pubbliche di tutti i paesi. Nessuno Stato membro, infatti, ne è o se ne sente immune. E, tuttavia, ciò non solo finisce per rendere più difficile la ricerca di soluzioni comuni da parte delle istituzioni dell’Unione, ma induce anzi molti governi a rimettere in discussione, sull’onda di umori delle proprie opinioni pubbliche, finanche principi fondamentali del processo d’integrazione europea, quali la libera circolazione delle persone e l’abolizione dei controlli alle frontiere interne. Non può così meravigliare che in questi stessi anni si siano viste crescere, in molti Stati membri, posizioni politiche improntate all’euroscetticismo, se non addirittura favorevoli all’uscita dall’Unione. E ancor meno può meravigliare il fatto che, messo incautamente alla prova di una consultazione sulla permanenza o meno nell’Unione, voluta per motivi puramente interni nel 2013 dal premier David Cameron, l’elettorato del paese membro tradizionalmente “campione” dell’euroscetticismo, il Regno Unito, abbia votato in maggioranza per la c.d. Brexit nel referendum tenutosi il 23 giugno 2016, nonostante il tentativo di evitare tale esito compiuto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri con l’adozione, su richiesta dello stesso Cameron, di una loro decisione che rispondeva a tutta una serie di asserite “preoccupazioni” del popolo britannico attraverso interpretazioni conseguenti di alcune norme dei Trattati e l’impegno a successive modifiche di altre (v. Allegato I alle Conclusioni del Consiglio europeo del 18 e 19 febbraio 2016). Il Governo britannico ha dato seguito all’esito del referendum notificando quasi un anno dopo, il 29 marzo 2017, come previsto dall’art. 50 TUE (infra, p. 47 ss.), la sua intenzione di recedere dall’Unione europea; e come sempre lì previsto, si è pertanto avviato il periodo di due anni entro il quale il Regno Unito e l’Unione dovrebbero arrivare alla conclusione di un accordo di recesso al fine dell’effettiva uscita del primo dalla seconda. Il risultato è che, paradossalmente, mentre in questi stessi anni l’Unione europea ha visto l’adesione di un nuovo Stato membro (con l’entrata in vigore, il 1° luglio 2013, del relativo Trattato di adesione, la Croazia è divenuta il 28° Stato membro) e altri paesi dei Balcani hanno chiesto e ottenuto lo status di candidati o di potenziali candidati all’ingresso nell’Unione, essa si avvia ora, per la prima volta nella sua storia ormai sessantennale, a fare i conti con il recesso di uno Stato già membro.
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Parte Prima
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L’ordinamento giuridico dell’Unione
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Profili generali
CAPITOLO I
Profili generali Sommario: 1. Struttura e contenuti dei Trattati istitutivi dopo Lisbona. – 2. L’architettura dell’Unione tra metodo comunitario e metodo intergovernativo. – 3. Caratteri generali dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea. – 4. Il ruolo degli Stati membri. L’acquisto e le vicende dello status di membro. – 5. Segue: Il recesso dall’Unione di uno Stato membro – 6. Segue: L’applicazione differenziata del diritto dell’Unione agli Stati membri. In particolare, la cooperazione rafforzata.
1. Struttura e contenuti dei Trattati istitutivi dopo Lisbona Pur senza riprendere le prospettive «costituzionali» del progetto di Trattato che adotta(va) una Costituzione per l’Europa, il Trattato di Lisbona ha portato a un risultato in buona parte simile, dal punto di vista della sostanza, a quello immaginato nel 2004. Se vengono, infatti, abbandonati, insieme con l’intitolazione costituzionale del precedente progetto, tutti gli elementi che davano corpo alla suggestione evocata da quel titolo – come si vedrà, gli atti principali delle istituzioni mantengono la tradizionale denominazione, non vi è più menzione formale dei simboli dell’Unione, il ministro degli esteri ridiviene più modestamente l’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza –, il nuovo Trattato ha confermato, insieme alla gran parte delle novità contenute nel Trattato costituzionale, il venir meno della Comunità europea come entità giuridica a sé stante e la conseguente riconduzione del nucleo principale del processo d’integrazione europea alla sola Unione europea, visto che, al pari ugualmente di quanto era previsto dal Trattato costituzionale, anche l’Euratom, pur rimanendo formalmente in vita, viene di fatto assorbita nelle strutture dell’Unione da un protocollo allegato al Trattato di Lisbona (il Protocollo n. 2 che modifica il trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica), il quale sostanzialmente ne trasforma il Trattato istitutivo in una sorta di Trattato sul funzionamento dell’Unione europea nel settore dell’energia atomica. Il risultato è stato raggiunto però, questa volta, senza una sostituzione integrale dei Trattati esistenti con un unico Trattato, ma attraverso un’ampia revisione del Trattato sull’Unione europea e del Trattato istitutivo della Comunità europea, realizzata con la tecnica tradizionale degli emendamenti puntuali ai singoli articoli. In
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particolare, mentre il primo di questi due Trattati conserva la propria denominazione, ma accoglie al suo interno i principi e le regole generali di funzionamento dell’Unione, assumendo così la veste di testo di base dell’intera costruzione, il secondo, emendato nei contenuti ma soprattutto nel nome, cessa d’essere il Trattato istitutivo della Comunità per diventare, fin dalla sua nuova denominazione (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, d’ora in poi TFUE), un trattato «servente» del nuovo TUE, perché riservato alla disciplina specifica dei settori in cui l’Unione esercita le sue competenze e degli strumenti e modalità attraverso i quali tali competenze sono esercitate. Una volta consolidati i testi precedenti con gli emendamenti recati dal Trattato di Lisbona e rinumerati gli articoli come da questo previsto, il quadro che ne risulta è quello di due Trattati, che regolano congiuntamente un’unica entità giuridica, l’Unione europea, che assorbe in sé la personalità giuridica della Comunità europea succedendole nei rapporti giuridici preesistenti. Si tratta peraltro di due Trattati che, benché formalmente distinti, compongono un complesso normativo unico. E ciò non solo perché essi hanno, per espressa previsione dei rispettivi articoli 1, «lo stesso valore giuridico» (artt. 1, comma 3, TUE e 1, par. 2, TFUE). È la stessa distribuzione tra di essi delle diverse disposizioni che governano la vita dell’Unione a far sì, infatti, che l’operatività di ciascuno dei due dipenda strettamente dalle norme dell’altro. All’interno del nuovo TUE sono, in effetti, collocati, come già ricordato, i principi fondanti e le regole di base dell’Unione. Accanto agli obiettivi generali di questa (art. 3 TUE), in cui sono stati ovviamente integrati quelli specifici della soppressa Comunità, sono innanzitutto enumerati i valori «comuni agli Stati membri» su cui si fonda l’Unione (art. 2 TUE). Tra questi sono peraltro oggetto di norme specifiche, da un lato, il principio del rispetto dei diritti fondamentali della persona umana, quali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali (infra, Cap. III, par. 6), alla quale, pur se non inserita nel Trattato, viene riconosciuto «lo stesso valore giuridico» di questo (art. 6 TUE); dall’altro lato, il principio di democrazia, cui sono dedicate una serie di disposizioni (artt. 9-12 TUE), che ne tratteggiano il ruolo nel funzionamento dell’Unione pur rinviando, per i profili applicativi, alle norme del TFUE. Nel TUE è dato ugualmente conto, seppur limitatamente agli aspetti principali, tanto del sistema delle competenze dell’Unione e del loro rapporto con quelle degli Stati membri (artt. 4 e 5 TUE), quanto delle istituzioni che ne compongono il quadro istituzionale (artt. 13-19 TUE). Un’apposita norma descrive inoltre, per linee essenziali, l’istituto delle cooperazioni rafforzate (art. 20 TUE), rinviando anche qui al TFUE per la disciplina di dettaglio. A questi articoli si aggiungono una serie di disposizioni concernenti l’acquisto e le vicende dello status di membro dell’Unione. Completa questo insieme di regole generali un lungo articolo che disciplina le modalità di modifica dei Trattati (art. 48 TUE). Un certo numero di articoli del TUE è infine dedicato all’azione esterna dell’Unione e in particolare alla politica estera e di sicurezza comune (PESC). Per una gran parte della materia (politica commerciale comune, cooperazione allo sviluppo, cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i paesi terzi, aiuto umanitario, misure restrittive contro paesi terzi o persone fisiche o giuridiche, relazioni con le organizzazioni internazionali) il TUE si limita anche in questo caso alla sola enuncia-
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zione degli obiettivi da perseguire (art. 21 TUE) e delle responsabilità generali del Consiglio europeo (art. 22 TUE), lasciando alle disposizioni del TFUE il compito di fissare i contenuti specifici e le modalità concrete dell’azione da svolgere. La disciplina della PESC vi è invece dettata, anche per quanto riguarda i dettagli operativi, in maniera sostanzialmente completa (artt. 23-46 TUE). Sebbene ciò appaia in chiara dissonanza rispetto all’impianto generale del nuovo TUE e alle funzioni rispettivamente assegnate ad esso e al TFUE, visto che per tutti gli altri settori di attività dell’Unione è in questo secondo Trattato che la corrispondente regolamentazione trova unicamente collocazione, la scelta è stata palesemente guidata da ragioni politiche legate alla volontà di alcuni Stati di marcare anche attraverso questa collocazione, che riprende quella precedente al Trattato di Lisbona, la perdurante specificità della PESC. A parte questa eccezione, è comunque il TFUE che, per sua espressa affermazione, organizza «il funzionamento dell’Unione e determina i settori, la delimitazione e le modalità di esercizio delle sue competenze» (art. 1, par. 1, TFUE). Ed è quindi al suo interno che, dopo alcuni articoli introduttivi dedicati ai criteri di funzionamento del sistema delle competenze dell’Unione, ai principi cui si conformano le politiche e le azioni di questa, e alla cittadinanza dell’Unione, sono radunate le disposizioni che individuano i contenuti dei diversi settori di competenza della stessa Unione e ne disciplinano concretamente l’esercizio. Si va dagli articoli concernenti il mercato interno, inteso come uno «spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali secondo le disposizioni dei Trattati» (art. 26, par. 2, TFUE), a quelli relativi ai controlli alle frontiere, all’asilo ed all’immigrazione, che mirano, insieme con la cooperazione giudiziaria in materia civile e in materia penale e con la cooperazione di polizia, a fare dell’Unione uno «spazio di libertà, sicurezza e giustizia»; dalle norme sulla concorrenza, la fiscalità e il ravvicinamento delle legislazioni alle disposizioni in materia di politica economica e monetaria; dalla politica agricola e della pesca a quella dei trasporti; dalle regole relative all’occupazione, alla politica sociale, all’istruzione, alla formazione professionale, alla gioventù e allo sport, a quelle riguardanti la cultura, la sanità pubblica, la protezione dei consumatori, l’industria, la ricerca, lo sviluppo tecnologico e lo spazio; dalla disciplina delle reti transeuropee, della coesione economica, sociale e territoriale, del turismo e della protezione civile alle politiche dell’ambiente e dell’energia. Completano il TFUE, oltre ad un gruppo di articoli concernenti, come già ricordato, gli aspetti dell’azione esterna dell’Unione diversi dalla PESC, le disposizioni istituzionali e finanziarie. Le prime regolano aspetti specifici del funzionamento sia delle istituzioni già descritte nel TUE, che di taluni organi che ugualmente compongono il quadro istituzionale dell’Unione, disciplinando inoltre gli atti attraverso i quali le istituzioni agiscono e le procedure che presiedono alla loro adozione. Quanto invece alle disposizioni finanziarie, esse riguardano in particolare il finanziamento dell’Unione e la disciplina di bilancio.
2. L’architettura dell’Unione tra metodo comunitario e metodo intergovernativo La novità principale prodotta dal Trattato di Lisbona è senz’altro da indicare nella semplificazione che ne deriva del sistema giuridico che fino alla sua entrata in vi-
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gore ha governato il processo di integrazione europea. L’assetto formale che era venuto nel tempo assumendo quel sistema era tale, in effetti, da creare più di un’incertezza – pur se paradossalmente più tra gli addetti ai lavori, che negli altri osservatori – sulla sua vera natura e sull’inquadramento giuridico che dello stesso andava dato. Le ragioni essenziali di queste incertezze risiedevano di tutta evidenza nella circostanza che il disegno unitario che fin dall’inizio ha caratterizzato il processo di integrazione non si era riflesso, per le resistenze di taluni degli Stati membri che si sono venuti in tappe successive ad affiancare ai sei fondatori, in una struttura anch’essa formalmente unitaria. Prima di Lisbona, in effetti, l’unica semplificazione era venuta, come si è già ricordato, da un evento per così dire «naturale», il venir meno della CECA il 23 luglio 2002 a seguito dello scadere, previsto dall’art. 97 TCECA, dei cinquant’anni dalla sua creazione. Mentre le revisioni dei Trattati istitutivi succedutesi negli anni avevano al contrario vieppiù complicato, sul piano formale, l’impianto originario. Essendo sopravvenuta a suo tempo l’Unione, infatti, l’architettura del sistema restava sì basata ancora su tre Trattati, ciascuno istitutivo di una diversa struttura giuridica: la CE, la CEEA e, appunto, l’UE. Tuttavia quest’ultima non si era semplicemente aggiunta alle Comunità, ma ne costituiva allo stesso tempo il contenitore all’interno del quale erano ad esse affiancate due nuove forme di cooperazione (i già ricordati secondo e terzo pilastro) create dallo stesso TUE: la PESC e la cooperazione giudiziaria in materia penale e di polizia. Inoltre, proprio queste nuove forme di cooperazione avevano fatto venir meno l’omogeneità che, pur nel quadro di una pluralità di Comunità, aveva fino a quel momento caratterizzato il funzionamento del sistema. Questo si trovava ora a essere organizzato su metodi di azione impostati secondo principi, procedure e strumenti differenziati in ragione dei settori di competenza in gioco: da un lato il metodo c.d. intergovernativo, operante nei due settori di cooperazione disciplinati dal TUE e fortemente dipendente dalla volontà dei governi, perché basato sul potere decisionale del solo Consiglio da esercitare per lo più all’unanimità e con atti privi di efficacia diretta sui diritti nazionali, oltre che sottratti a un effettivo controllo da parte della Commissione e della Corte di giustizia; dall’altro lato, il c.d. metodo comunitario, caratterizzato fin dall’inizio, come si vedrà più avanti, da un processo decisionale in cui giocavano un ruolo non secondario anche interessi diversi da quelli dei governi dei singoli Stati membri e dal quale scaturivano norme soggette al controllo e alla interpretazione della Corte e al contempo suscettibili di essere fatte valere direttamente dai cittadini anche nei confronti di norme nazionali contrastanti. Anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, con l’espressione «metodo comunitario» si intende esprimere sinteticamente il modo di funzionamento dei meccanismi c.d. sopranazionali propri del diritto comunitario (e ora del diritto dell’Unione: v. il paragrafo successivo), descritti nei Trattati e via via definitisi nella prassi di applicazione degli stessi. E quindi, in particolare: attribuzione di competenze all’organizzazione; esercizio delle stesse da parte delle istituzioni dell’Unione; potere di iniziativa normativa affidato in linea di principio alla Commissione, come espressione dell’interesse generale; procedure decisionali basate su un ricorso generalizzato al voto a maggioranza qualificata dei governi in sede di Consiglio e, come espressione del principio
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democratico, su un ruolo attivo del PE, spesso colegislatore insieme al Consiglio; adozione di atti organici tipizzati e dotati di determinati effetti negli Stati membri; sottoposizione degli stessi al controllo giudiziario della Corte di giustizia e del loro rispetto da parte degli Stati alla vigilanza della Commissione; applicazione dei principi sistematici, delle regole interpretative e in genere della specifica tecnica giuridica che, soprattutto per l’azione della Corte, qualificano ormai l’ordinamento giuridico dell’Unione.
Non può perciò sorprendere che il sistema giuridico che ha governato fino al Trattato di Lisbona il processo di integrazione europea sia stato per lo più descritto come un sistema allo stesso tempo frazionato in più enti giuridici separati e distinti (le due Comunità e l’Unione), ma anche articolato in tre pilastri (quello comunitario, più la PESC e la cooperazione giudiziaria penale e di polizia) e operante secondo due metodi di funzionamento diversi (il metodo comunitario e quello intergovernativo). Con l’ulteriore particolarità che mentre la separatezza formale delle due Comunità veniva meno all’interno del primo pilastro, l’unicità dell’Unione si scomponeva nel secondo e nel terzo pilastro in ragione delle specificità dei due settori di cooperazione ad essa riconducibili; settori di cooperazione che, tuttavia, venivano a riunificarsi sotto l’insegna di un comune metodo di funzionamento, quello, appunto, intergovernativo. In realtà, al di là della sua apparente complessità, frutto unicamente del modo progressivo in cui era venuto costruendosi, il sistema creato dai Trattati era nonostante tutto caratterizzato da una forte unitarietà già da prima del Trattato di Lisbona. Questa emergeva del resto dalle stesse disposizioni dei Trattati allora vigenti: per espressa previsione del suo Trattato istitutivo l’Unione era «fondata sulle Comunità europee, integrate dalle politiche e forme di cooperazione instaurate» dallo stesso Trattato (art. 1, comma 3, TUE pre-Lisbona); unici ne erano i principi e valori che la guidavano (artt. 6 e 11 TUE pre-Lisbona); i settori di cooperazione disciplinati dal vecchio TUE e le politiche ed azioni della Comunità concorrevano tutti alla realizzazione degli obiettivi indicati nell’art. 2 dello stesso TUE; l’Unione era chiamata dall’art. 3, comma 1, dello stesso Trattato a rispettare e sviluppare il patrimonio giuridico comunitario quale progressivamente consolidatosi nell’applicazione dei Trattati (il c.d. acquis comunitario); l’apparato istituzionale era unico e assicurava la coerenza e la continuità delle azioni svolte nei diversi pilastri (art. 3 TUE pre-Lisbona); gli orientamenti politici generali dell’azione delle istituzioni erano fissati dal Consiglio europeo in relazione al sistema nel suo complesso (art. 4 TUE pre-Lisbona); unica era la struttura di bilancio, basata su di un bilancio generale e una procedura di adozione unica; l’adesione di nuovi Stati membri, oltre ad essere disciplinata da una procedura unica (art. 49 TUE pre-Lisbona), poteva aversi solo all’Unione quale inclusiva delle Comunità; una procedura unica era ugualmente prevista per la revisione dei Trattati istitutivi di queste ultime e dell’Unione (art. 48 TUE pre-Lisbona). Dal canto suo la Corte di giustizia aveva ulteriormente rafforzato l’idea di una unitarietà sostanziale del sistema, grazie ad una giurisprudenza fortemente caratterizzata dal filo conduttore di una «coerenza sistematica dei Trattati» (22 febbraio 1990, C-221/88, Busseni, I-495, punto 16).
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Essa ha così giustificato, ad esempio, interpretazioni parallele di disposizioni simili presenti in ciascuno dei Trattati, ovvero il ricorso alle disposizioni di uno di essi per interpretare disposizioni oscure degli altri due. Non solo: nella stessa prospettiva la Corte è arrivata anche a dichiarare l’utilizzabilità, nel quadro degli altri Trattati istitutivi, di una via di ricorso giurisdizionale prevista da uno solo di essi, in ragione del carattere strutturale e quindi inseparabile della domanda che le veniva posta, affermando che il PE, «poiché è un’istituzione comune alle tre Comunità, opera necessariamente nell’ambito dei tre Trattati, ivi compreso quello del [TCECA], allorché adotta una risoluzione relativa al suo funzionamento istituzionale e all’organizzazione della sua segreteria. Ne consegue che la competenza della Corte e i mezzi d’impugnazione contemplati [dall’art. 38, comma 1, TCECA] si applicano ad atti quali la risoluzione impugnata, i quali riguardano, in modo simultaneo ed indivisibile, i settori dei tre Trattati» (10 febbraio 1983, 230/81, Lussemburgo c. Parlamento, 255, punto 19). È vero che questa giurisprudenza si era inizialmente formata con riferimento specifico ai Trattati comunitari. Tuttavia, in tempi successivi la Corte aveva significativamente esteso questa esigenza di «coerenza sistematica» anche al vecchio TUE, affermando l’applicabilità nel quadro di quest’ultimo di principi generali elaborati a partire dal TCE, quale l’obbligo dei giudici di interpretare il diritto nazionale conformemente alle norme europee (infra, p. 178 ss.), che la stessa Corte aveva a suo tempo ricavato dal dovere di leale cooperazione con le istituzioni posto formalmente a carico degli Stati dal solo art. 10 TCE (16 giugno 2005, C-105/03, Pupino, I-5285, punto 33 ss.).
Già prima del 1° dicembre 2009, perciò, le Comunità europee potevano essere nei fatti considerate non entità distinte e ulteriori, ma parti integranti di un unico ente, l’Unione europea, al cui interno esse e i due settori della cooperazione in materia di politica estera e di sicurezza e della cooperazione giudiziaria in materia penale e di polizia delimitavano diversi ambiti materiali di attività, nei quali l’azione dell’Unione si svolgeva per mezzo delle stesse istituzioni, ma secondo regole e criteri di funzionamento differenti, riassuntivamente identificati, come si è detto, sotto la denominazione rispettiva di metodo comunitario e metodo intergovernativo. Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’unitarietà sostanziale del sistema si traduce in una unità anche formale del quadro giuridico di riferimento. Il processo d’integrazione viene sostanzialmente a identificarsi, per il venir meno della CE, con una sola entità, l’Unione europea. E benché alla base di questa vi siano ancora due distinti Trattati, questi costituiscono in realtà, come si è visto, un complesso normativo unico, la cui collocazione in due separati strumenti giuridici risponde alla volontà di differenziare le norme che lo compongono in ragione della funzione assolta nella disciplina del sistema, ma non comporta alcun frazionamento di questo, e tanto meno il sopravvivere, anche dopo la riforma, di pilastri o aspetti dell’attività dell’Unione soggetti ad un quadro giuridico separato. È vero che la PESC rimane anche con il Trattato di Lisbona «soggetta a norme e procedure specifiche» (art. 24, par. 1, comma 1, TUE). Tuttavia, a differenza di quanto avveniva in precedenza, queste sono ora inserite all’interno di un sistema giuridico unico fondato sul TUE e sul TFUE, e ai cui principi e criteri interpretativi risultano quindi, in mancanza di diversa previsione, pienamente soggette. Anche da un punto di vista formale, perciò, la PESC si configura ora non più come un pilastro separato, ma come uno dei settori di competenza dello stesso ente, l’Unione, nel cui ambito le istituzioni di questa agiscono secondo, appunto, norme e procedure specifiche.
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Se la riunificazione del sistema dell’Unione europea attraverso il Trattato di Lisbona si è realizzata, come si dirà tra poco, all’insegna della generalizzazione del metodo comunitario come metodo di funzionamento dell’Unione nel suo complesso, ciò non significa che il metodo intergovernativo non mantenga tuttora una sua presenza non secondaria nel funzionamento del sistema. Da punto di vista formale, questa presenza trova espressione proprio nelle regole appena citate in materia di PESC, le quali continuano a caratterizzare in tale senso il funzionamento di questa competenza dell’Unione. Ma indipendentemente dalle previsioni formali, il metodo intergovernativo tende periodicamente a riapparire nella realtà della vita istituzionale, sia attraverso la prassi applicativa di alcune delle novità istituzionali di Lisbona – si veda più avanti (p. 72 s.) il ruolo sempre più pervasivo che tende ad assumere il Consiglio europeo sulla spinta anche della sua nuova presidenza permanente –, sia grazie alla legittimazione che gli viene fornita da teorizzazioni non certo disinteressate, da parte di taluni leader politici europei dell’importanza del ruolo dei governi nazionali nella governance dell’Europa. Appare emblematico in proposito il discorso tenuto il 2 novembre 2010 al Collège d’Europe di Bruges da Angela Merkel (https://www.coleurope.eu/fr/speeches), nel quale il Cancelliere tedesco ha esplicitamente sostenuto l’importanza di un maggior coinvolgimento degli Stati accanto alle istituzioni nella gestione dell’Unione, coinvolgimento che essa ha definito come un nuovo «metodo dell’Unione» nel quale si dovrebbero combinare il metodo comunitario e l’azione coordinata degli Stati membri.
Non va poi dimenticato il ruolo ancor oggi giocato, ai fini del funzionamento del sistema, dalla cooperazione intergovernativa realizzata in materie c.d. di confine. Ci si riferisce a quelle iniziative (si pensi al c.d. Fiscal Compact o al Meccanismo europeo di stabilizzazione di cui parleremo più avanti, rispettivamente p. 700 ss. e p. 697 ss.) avviate dagli Stati membri (o da alcuni soltanto di essi) al di fuori del quadro formale dell’Unione in materie non ancora attratte dalla competenza dell’Unione, ma allo stesso tempo strettamente funzionali a un avanzamento del processo d’integrazione europea. Qui, per la verità, come dimostrano analoghe iniziative del passato (Schengen prima tra tutte: p. 531 ss.), il ricorso alla cooperazione intergovernativa può finire per preparare il terreno alla successiva «comunitarizzazione» delle materie che ne sono oggetto, e ciò proprio perché, seppur non si inseriscono formalmente nel sistema, in qualche modo esse «istituzionalizzano» la cooperazione, riportandola nel più ampio alveo dell’Unione in senso lato, e quindi facilitando, anche sul terreno della prassi, la sua successiva «comunitarizzazione».
3. Caratteri generali dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea Come si è già ricordato, la fine della CE a seguito del suo «assorbimento» nell’Unione europea ha fatto venir meno, nel linguaggio ufficiale come nel gergo comune, anche i termini e le espressioni ad essa collegati (diritto comunitario, comunitarizzare, ecc.).
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L’art. 2, n. 2, lett. a), del Trattato di Lisbona ha disposto che «i termini “la Comunità” o “la Comunità europea” sono sostituiti da “l’Unione”, i termini “delle Comunità europee” o “della CEE” sono sostituiti da “dell’Unione europea” e l’aggettivo “comunitario”, comunque declinato, è sostituito da “dell’Unione”».
Non è però venuto meno ciò che quei termini e quelle espressioni da sempre identificano. Se, infatti, la Comunità, in quanto entità giuridica autonoma, si è dissolta nell’Unione europea, il suo sistema giuridico è diventato il sistema giuridico dell’Unione, e il c.d. metodo comunitario da metodo di funzionamento di un pilastro seppur quantitativamente dominante, è diventato il metodo di funzionamento dell’Unione. Ciò fa sì che sia pienamente applicabile a quest’ultima, come ha confermato la Corte di giustizia nel suo parere n. 2/13 del 18 dicembre 2014 sulla compatibilità con i Trattati del progetto di accordo di adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), quanto la stessa Corte aveva avuto modo di affermare, fin da una delle sue più antiche sentenze (5 febbraio 1963, 26/62, van Gend & Loos, 3), in relazione alla Comunità europea. In quella prima sentenza, che sconfessava la già ricordata e prevalente tendenza dei primi commentatori a vedere nel diritto comunitario poco più che una branca di quel diritto internazionale da cui traevano origine i suoi strumenti fondativi, la Corte sottolineò (punti 22-23) come il Trattato istitutivo della Comunità europea andasse «al di là di un accordo che si limit[ava] a creare degli obblighi reciproci fra gli Stati contraenti», concludendo «che la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini». E la rivendicazione di «novità» dell’ordinamento giuridico comunitario operata dalla Corte era fondata su alcuni profili dello stesso che lo caratterizzavano in modo del tutto originale, delineati in quella stessa sentenza: la presenza «di organi investiti istituzionalmente di poteri sovrani da esercitarsi nei confronti sia degli Stati membri sia dei loro cittadini»; la partecipazione dei cittadini al funzionamento della Comunità e alla formazione delle sue norme attraverso il Parlamento europeo; l’esistenza di una Corte di giustizia volta ad assicurare l’uniforme applicazione del diritto comunitario da parte dei giudici nazionali; il riconoscimento a questo diritto di «un’autorità tale da poter essere fatto valere dai […] cittadini davanti a detti giudici». Oggi, con il ricordato parere 2/13, la Corte ribadisce quella giurisprudenza rispetto all’Unione scaturita dal Trattato di Lisbona, sottolineando come essa «sia dotata di un ordinamento giuridico di nuovo genere, avente una sua specifica natura, un quadro costituzionale e principi fondativi che sono suoi propri, una struttura istituzionale particolarmente elaborata, nonché un insieme completo di norme giuridiche che ne garantiscono il funzionamento» (punto 158). Il sistema cui gli Stati membri hanno dato vita negli anni ’50 con la creazione delle Comunità europee e ora dell’Unione è, in effetti, basato sull’attribuzione alle istituzioni di questa di competenze su settori rilevanti della vita nazionale, competenze
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che quelle istituzioni sono chiamate a esercitare non all’indirizzo esclusivo degli stessi Stati membri, ma, nella maggior parte dei casi, direttamente in capo ai cittadini di questi. Come si vedrà, cioè, a differenza di quanto generalmente avviene nel quadro della cooperazione giuridica internazionale, gli atti normativi adottati dalle istituzioni dell’UE, e più in generale le norme di questa, raggiungono o sono suscettibili di raggiungere i soggetti interni agli Stati senza bisogno di o indipendentemente dall’intermediazione del diritto nazionale. Non solo, in molti dei settori attribuiti alla competenza dell’Unione – si pensi per tutti alla concorrenza – tale competenza non è solo normativa, ma anche di amministrazione diretta in capo ai privati: spetta in altri termini alle stesse istituzioni dell’Unione la gestione di una data materia e il controllo sul rispetto delle relative norme da parte degli amministrati. La diretta efficacia del diritto dell’Unione sulla situazione giuridica soggettiva dei singoli si accompagna strettamente, peraltro, a un’altra caratteristica fondamentale di questo diritto, consistente nella supremazia delle sue norme su quelle dei diritti nazionali: la norma statale contrastante, sia essa successiva o anteriore, cede dinanzi alla norma europea e non può essere quindi applicata dai giudici nazionali nell’ambito di una controversia giudiziaria in cui una parte abbia invece ritenuto di invocarla. Le due caratteristiche citate in realtà si sovrappongono, finendo per rappresentare due facce della stessa medaglia. La supremazia della norma europea, infatti, è da considerare, come si vedrà, il riflesso non tanto di un rapporto gerarchico tra fonti, quanto dell’appartenenza di quella norma a un ordinamento, quello dell’Unione, caratterizzato appunto dall’efficacia diretta delle sue norme. In una delle sue più note sentenze (15 luglio 1964, 6/64, Costa c. ENEL, 1141), sempre riferita in quel momento all’ordinamento comunitario, la Corte di giustizia sottolineava il punto, osservando come l’efficacia diretta «sarebbe priva di significato se uno Stato potesse unilateralmente annullarne gli effetti con un provvedimento legislativo che prevalesse sui testi comunitari» (p. 1145). In un quadro di questo genere, è evidente che, di fronte al diritto dell’Unione, il privato non è, come nel caso delle norme internazionali, il destinatario «materiale» di norme prodotte all’esterno dello Stato, ma è soggetto a pieno titolo dell’ordinamento cui quelle norme appartengono. Questa soggettività «europea» dell’individuo, affermata fin dall’inizio, come si è detto, dalla Corte di giustizia, emerge del resto anche in altri aspetti del funzionamento del sistema dell’Unione, i quali ne confermano ulteriormente, l’originalità. In quanto cittadino di questa, infatti, l’individuo partecipa alla formazione del diritto dell’Unione attraverso il canale istituzionale del Parlamento europeo, che ne esprime la rappresentanza a livello di processo decisionale. Ma soprattutto, l’individuo può essere protagonista in prima persona del controllo giurisdizionale sul rispetto del diritto europeo. Grazie all’efficacia diretta, egli può far valere dinanzi ai giudici nazionali norme di quel diritto; allo stesso tempo egli ha accesso diretto ai meccanismi giurisdizionali previsti dai Trattati quando i suoi diritti siano lesi dalle istituzioni da essi create. Il sistema giurisdizionale rappresenta peraltro l’ulteriore elemento distintivo della costruzione europea rispetto alle classiche forme di cooperazione istituzionalizzata tra Stati. Va infatti sottolineato, anticipando ciò che sarà detto più diffusamente altrove, che la particolarità di quella costruzione non sta di per sé nella pre-
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senza, nell’apparato istituzionale dell’Unione, di una Corte e di un Tribunale, oltre che, eventualmente, di tribunali specializzati. Sono da un lato le caratteristiche del sistema giurisdizionale, dall’altro la sua funzione nell’ordinamento, le vere note distintive. Quanto alle prime, basti pensare al fatto che le istanze giudiziarie dell’Unione non sono accessibili, come si è detto, solo agli Stati, ma anche agli individui; al fatto che esse non giudicano solo del comportamento degli Stati, ma anche di quello delle istituzioni; al fatto, infine, che esse non si limitano a constatare l’eventuale illegittimità degli atti delle istituzioni, ma ne dichiarano anche la nullità. Per quanto attiene invece al secondo aspetto, l’accento va posto soprattutto sulla funzione di garanzia dell’uniforme interpretazione e applicazione del diritto che il giudice europeo è chiamato ad assolvere, in particolare attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale da parte dei giudici nazionali, di cui all’art. 267 TFUE, meccanismo che, «instaurando un dialogo da giudice a giudice proprio tra la Corte e i giudici degli Stati membri», costituisce la «chiave di volta» del sistema giurisdizionale dell’Unione (Corte giust., parere 2/13 cit., punto 176). L’uniformità di interpretazione e applicazione del diritto appare, infatti, indispensabile in un ordinamento che abbia come destinatari diretti anche gli individui. Come ha osservato la stessa Corte di giustizia (6 dicembre 1977, 55/77, Maris, 2327, punto 17), sempre con riferimento allora all’ordinamento comunitario, la portata del diritto dell’Unione non può variare da uno Stato all’altro, senza che sia messa in pericolo la sua efficacia e l’applicazione uniforme che esso deve ricevere nell’insieme degli Stati membri e nei confronti di tutti i destinatari delle sue norme. A quest’ultimo aspetto si ricollega peraltro un ulteriore elemento di distinzione dell’ordinamento dell’Unione dai tradizionali sistemi di cooperazione tra Stati: l’accentramento in capo alle istituzioni dell’Unione della reazione alle violazioni del diritto. Mentre di regola nei rapporti tra Stati chi sia stato leso dall’inadempimento altrui ha il diritto di non adempiere a sua volta ai propri obblighi, il sistema dei Trattati implica – come ha sottolineato la Corte (13 novembre 1964, 90/63 e 91/63, Commissione c. Lussemburgo e Belgio, 1217, pag. 1213) – «il divieto per gli Stati membri di farsi giustizia da sé». Come si vedrà (p. 259 ss.), infatti, di fronte a una violazione degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione, la reazione è affidata alle stesse istituzioni e ai meccanismi previsti dai Trattati; o, quand’anche venga da un altro Stato membro, quella reazione è comunque canalizzata attraverso essi. Ciò comporta, tra l’altro, che non è consentito a uno o ad altri Stati membri, anche laddove una di quelle istituzioni rimanga inerte, di porre in essere unilateralmente provvedimenti correttivi o di difesa destinati ad ovviare alla trasgressione altrui (Corte giust. 23 maggio 1996, C-5/94, Hedley Lomas, I-2553, punti 20-21). Tanto meno essi possono giustificare il mancato adempimento da parte loro degli obblighi imposti dai Trattati con la circostanza che altri Stati membri trasgrediscono del pari i loro obblighi o abbiano provveduto con ritardo ad adempierli (Corte giust. 26 febbraio 1976, 52/75, Commissione c. Italia, 271, punto 11). Del resto, nell’ordinamento dell’Unione non vi è interdipendenza fra gli obblighi incombenti ai vari soggetti, per cui «l’adempimento degli obblighi imposti dal Trattato […] o dal diritto derivato agli Stati membri non può essere soggetto a condizione di reciprocità» (Corte giust. 29 marzo 2001, C-163/99, Portogallo c. Commissione, I-2613, punto 22).
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Quanto finora osservato non deve portare però a credere che, nel quadro del funzionamento del sistema giuridico dell’Unione, il ruolo degli Stati come entità sovrane portatrici di un proprio ordinamento giuridico risulti indebolito o alterato. Come abbiamo già avuto modo di rilevare, quel sistema, pur se visto in prospettiva, appare difficilmente assimilabile a un modello federale, almeno nell’accezione che a questo termine normalmente si dà. Da un lato, come ha ricordato ancora di recente la Corte di giustizia, «l’Unione, dal punto di vista del diritto internazionale, non può, per sua stessa natura, essere considerata come uno Stato» (parere 2/13, cit., punto 156). Dall’altro lato, gli Stati membri rimangono al centro del sistema, cui partecipano come enti unitari: sono essi, come vedremo, attraverso il Consiglio europeo e il Consiglio, il vero centro di gravità del processo decisionale dell’Unione; spetta ad essi adottare «ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione» delle norme dei Trattati e degli atti dell’Unione (art. 4, par. 3, comma 2, TUE); sono essi i responsabili del corretto adempimento degli obblighi imposti da quelle norme e da quegli atti; ed è in capo ad essi che è sanzionato l’eventuale inadempimento, «anche allorché l’inadempimento risulti dall’azione o dall’inerzia delle autorità di uno Stato federato, di una regione o di una comunità autonoma» dello Stato membro interessato (Corte giust. 13 dicembre 1991, C-33/90, Commissione c. Italia, I-5987, punto 24). A questo proposito va rilevato che, come ha sottolineato la Corte, «emerge con chiarezza dal sistema generale dei Trattati che la nozione di Stato membro, ai sensi delle norme istituzionali e, in particolare, di quelle relative ai ricorsi giurisdizionali, comprende le sole autorità di governo degli Stati membri delle Comunità europee e non può estendersi agli esecutivi di regioni o di comunità autonome, indipendentemente dalla portata delle competenze attribuite a questi ultimi. Ammettere il contrario equivarrebbe a mettere in pericolo l’equilibrio istituzionale voluto dai Trattati» (v. ordinanza 21 marzo 1997, C-95/97, Régione wallonne c. Commissione, I-1787, punto 6; nonché ordinanza 1° ottobre 1997, C-180/97, Regione Toscana c. Commissione, I-5245, punto 6). Ciò vale, evidentemente, come vedremo, anche per gli eventuali inadempimenti agli obblighi europei, nel senso che il ricorso con il quale «la Commissione, in forza [dell’art. 169 TCEE, poi art. 226 TCE, ora art. 258 TFUE], o uno Stato membro, in forza [dell’art. 170 TCEE, poi art. 227 TCE, ora art. 259 TFUE], può chiedere alla Corte di giustizia di dichiarare che un altro Stato membro è venuto meno agli obblighi che gli incombono, riguarda soltanto il governo di tale ultimo Stato membro, anche allorché l’inadempimento risulti dall’azione o dall’inerzia delle autorità di uno Stato federato, di una regione o di una comunità autonoma» (v. ancora ordinanza 21 marzo 1997, cit., punto 7, nonché sentenza 13 dicembre 1991, C-33/90, Commissione c. Italia, I-5987, punto 24).
Dal canto suo, l’ordinamento dell’Unione non è dotato di strumenti diretti di correzione delle possibili antinomie con l’ordinamento nazionale, dato che la Corte può sì sanzionare l’eventuale antinomia, ma non annullare la norma nazionale che ne è causa. Infine, dell’apparato (amministrativo e giudiziario) degli Stati l’Unione è costretta a servirsi per l’esercizio della funzione coercitiva e di applicazione del diritto, mancando essa di strumenti propri a questo fine.
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4. Il ruolo degli Stati membri. L’acquisto e le vicende dello status di membro Fin dalle sue origini il processo d’integrazione europea nasce con la vocazione ad ampliarsi verso tutti gli Stati europei. E in effetti, come si è visto, l’Unione è passata, attraverso successivi allargamenti, dagli originari sei Stati fondatori agli attuali 28 Stati membri; e altri paesi del continente bussano alla sua porta per entrare a farne parte. Questa vocazione si riflette, fin dagli originari Trattati istitutivi, in una clausola di questi che fissa la procedura per l’adesione di nuovi Stati membri. Secondo l’art. 49 TUE, infatti, «ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all’art. 2 [TUE] e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell’Unione». Alla luce di questa disposizione, le condizioni per aderire all’Unione sono, oltre a quella di essere uno Stato nel senso del diritto internazionale, l’appartenenza all’Europa e la rispondenza a una serie di requisiti politici che si ricollegano ai valori su cui la stessa Unione è fondata. Non sarebbe perciò concepibile l’adesione di un’entità infrastatale, per quanto ampia possa esserne l’autonomia nello Stato cui appartenesse. D’altra parte, se una simile entità dovesse acquisire piena indipendenza e quindi una propria soggettività di diritto internazionale (come sembra essere l’aspirazione di entità regionali di alcuni Stati membri quali la Scozia e la Catalogna, la quale ultima ha del resto già indetto per il 1° ottobre 2017 un referendum per la secessione dalla Spagna), essa non resterebbe automaticamente membro dell’Unione; al contrario, in quanto nuovo Stato, dovrebbe candidarsi all’adesione se ne volesse entrare a far parte.
La prima condizione è essenzialmente, ma non solo, geografica, nel senso che l’appartenenza anche di una sola parte del territorio di uno Stato al continente europeo può essere sufficiente, se, come è stato finora ritenuto per la Turchia, quell’elemento geografico è accompagnato da fattori storico-culturali che corroborano la natura sostanzialmente o prevalentemente «europea» di quello Stato e della sua società. In ragione di ciò, alla Turchia è stato riconosciuto lo status di candidato all’adesione. Questo status è stato negato invece al Marocco, il quale presentò nel 1987 la sua candidatura alle allora Comunità europee: nel caso del Marocco, però, e a prescindere dalla sussistenza o meno dei fattori storico-culturali di cui sopra, l’unico aggancio geografico con l’Europa era dato non dalla presenza di una porzione di suo territorio nel continente europeo, ma dalla situazione inversa dell’esistenza nel territorio marocchino delle due enclaves spagnole di Ceuta e Melilla.
Quanto invece ai requisiti «politici», essi possono riassumersi essenzialmente nella necessità che lo Stato aspirante a diventare membro dell’Unione risponda ai criteri di democrazia e di rispetto dei diritti fondamentali della persona umana, che permeano l’Unione e i suoi Stati membri e con cui si identificano i valori fondanti della prima, sanciti dall’art. 2 TUE. Questa condizione può ritenersi soddisfatta, ha stabilito il Consiglio europeo, quando «il paese candidato abbia raggiunto una stabilità istituzionale che garantisca la democrazia, il principio di legalità, i diritti umani, il rispetto e la protezione delle minoranze».
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Oltre a precisare tali parametri di valutazione della condizione «politica» prevista dall’art. 49 TUE, il Consiglio europeo ha convenuto ulteriori criteri di ammissibilità alla luce dei quali vanno valutate le candidature all’Unione. Si tratta dei c.d. «criteri di Copenaghen» (dalla città in cui si svolse la riunione del Consiglio europeo che li ha definiti nel giugno 1993), i quali aggiungono appunto a quelle sopra esaminate una condizione «giuridica» e una «economica»: la prima consiste nella capacità di assumere e far fronte al complesso degli obblighi connessi all’appartenenza all’Unione e, quindi, al c.d. acquis comunitario; la seconda attiene invece all’esistenza nello Stato candidato di un’economia di mercato funzionante e basata sui principi della libera concorrenza. Tali criteri di ammissibilità sono stati formalizzati nelle conclusioni della presidenza del Consiglio europeo di Copenaghen, del 21-22 giugno 1993. Il potere del Consiglio europeo di fissarli è oggi riconosciuto dallo stesso art. 49, comma 1, ultima frase, TUE, secondo la quale ai fini della valutazione di nuove candidature «[s]i tiene conto dei criteri di ammissibilità convenuti dal Consiglio europeo».
Il soddisfacimento di queste e delle altre condizioni indicate nell’art. 49 TUE viene verificato nel corso della procedura di adesione, la quale è disciplinata dallo stesso articolo. Essa si avvia formalmente con la presentazione della propria candidatura da parte dello Stato richiedente, candidatura sulla quale il Consiglio chiede alla Commissione di esprimere un parere per poi decidere, previa approvazione del Parlamento europeo, se dichiararne l’ammissibilità. In caso positivo, la fase istituzionale della procedura si chiude, e si apre quella del negoziato di adesione, che si svolge tra gli Stati membri e il paese candidato. Ma questa prima fase può essere, e spesso è stata, preceduta da una fase (anche lunga) di preparazione alla candidatura, per quei paesi che aspirino a divenire membri dell’Unione, senza ancora essere tuttavia in possesso dei necessari standard di cui si è detto, e ai quali quindi l’Unione offre il proprio sostegno attraverso accordi bilaterali di stabilizzazione e associazione per consentire appunto un più rapido adeguamento a detti standard. La pratica degli accordi di stabilizzazione e associazione è stata avviata in particolare nei confronti dei paesi dei Balcani occidentali, divenuti indipendenti dopo la dissoluzione della exJugoslavia. Accordi di questo tipo sono in vigore con l’ex-Repubblica jugoslava di Macedonia, con l’Albania, con il Montenegro, con la Serbia, con il Kosovo e con la Bosnia-Erzegovina.
Ma il processo di preparazione continua in realtà, e non solo per i paesi candidati di cui si è appena detto, anche dopo l’avvio della fase «intergovernativa» di negoziato in vista della conclusione dell’accordo di adesione, perché questa implica l’immediata destinatarietà in capo al nuovo Stato membro di tutti gli obblighi derivanti dall’acquis comunitario, fatte salve le eventuali eccezioni dovute a deroghe transitorie previste dal Trattato di adesione; e quindi presuppone la sua capacità di far fronte a quegli obblighi dal momento in cui l’ingresso diventa effettivo. Ne consegue che il processo negoziale per l’adesione ha una durata non predeterminabile (finora essa ha oscillato tra uno e nove anni), perché varia in funzione dei progressi compiuti dal
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paese candidato nell’adeguamento della propria legislazione a quell’acquis e del giudizio espresso sugli stessi da parte degli Stati membri. D’altra parte, la Corte di giustizia ha parlato esplicitamente, con riguardo all’adesione di nuovi Stati membri, di un fondamentale principio dell’accettazione del complessivo «acquis» comunitario, di cui è parte «il complesso degli atti istituzionali adottati fino al momento in cui prende effetto la […] adesione» (Corte giust. 2 ottobre 1997, C259/95, Parlamento c. Consiglio, I-5303, punti 17 e 19). Più specificamente essa ha poi osservato che «l’atto di adesione di un nuovo Stato membro si fonda essenzialmente sul principio generale dell’applicazione immediata e integrale delle disposizioni del diritto dell’Unione a tale Stato, mentre deroghe sono ammesse solo e in quanto previste espressamente da disposizioni transitorie» (Corte giust. 28 aprile 2009, C-420/07, Apostolides, I-3571, punto 33; ma così anche Cort. giust. 28 ottobre 2010, C-350/08, Commissione c. Lituania, I-10525, punto 55; 21 dicembre 2011, C424/10 e C-425/10, Ziolkowski e Szeja, I-14035, punto 56; nonché, più di recente, 27 ottobre 2016, C-465/14, Wieland e Rothwangl, punto 68).
Come si è detto, il negoziato tra gli Stati membri e il paese candidato è diretto alla conclusione di un accordo internazionale, il Trattato di adesione, che è poi sottoposto alla firma di tutti gli Stati contraenti ed entra in vigore una volta ratificato da tutti loro secondo le rispettive norme costituzionali. In un accordo ad esso allegato (c.d. «Atto di adesione») sono definite «le condizioni per l’ammissione e gli adattamenti dei Trattati su cui è fondata l’Unione» (art. 49, comma 2, TUE). Anche se l’accordo è tra gli Stati membri e il paese terzo candidato, il Parlamento europeo ha previsto nel proprio regolamento interno (art. 74 quater, par. 5) che prima della firma il progetto di accordo gli sia sottoposto per approvazione. Si tratta di un adempimento diverso da quello della previa approvazione della decisione di ammissibilità della candidatura da parte del Consiglio, prevista formalmente dal comma 1 dell’art. 49 TUE e precedentemente ricordata nel testo. Esso, pertanto, non può considerarsi dotato della medesima efficacia preclusiva.
L’adesione comporta, con l’acquisizione dello status di membro dell’Unione, la piena integrazione del nuovo Stato nel sistema istituzionale e giuridico di questa, con conseguente applicazione del diritto dell’Unione allo Stato e ai territori sui quali lo stesso esercita la propria giurisdizione. Il principio dell’applicazione del diritto dell’Unione alla totalità del territorio degli Stati membri (art. 52 TUE) presenta però alcune limitazioni elencate nell’art. 355 TFUE, di cui diremo al paragrafo seguente. D’altro canto, quello stesso principio non esclude, come ha precisato la Corte di giustizia (30 aprile 1996, C-214/94, Boukhalfa, I-2253, punto 14), che le norme dell’Unione possano esplicare effetti anche al di fuori del suo territorio. L’ambito di applicazione del diritto dell’Unione non è limitato, infatti, alle aree su cui si esercita la sovranità territoriale degli Stati membri, ma si estende altresì a tutte le situazioni nelle quali uno di essi eserciti, a qualunque titolo, la sua giurisdizione o imponga il proprio diritto. Per altro verso, il diritto dell’Unione può trovare applicazione in relazione a rapporti o comportamenti svolti fuori del territorio dell’Unione, quando gli stessi conservino un nesso abbastanza stretto con tale territorio (come nel caso di rapporti di lavoro esercitati all’estero per conto di un’impresa di uno Stato membro o a bordo di una nave battente la sua bandiera: Corte giust. 12 luglio 1984, 237/83, Prodest, 3153, punto 6; 27 settembre 1989, 9/88, Lopes da Veiga, 2989, punto 15; 7 giugno 2012, C-106/11, Bakker, punto 28; nonché sentenza Boukhalfa cit.), ovvero esplichino i loro effetti sul territorio dell’Unione (come nel caso di comportamenti di società di paesi terzi che producano effetti anticoncorrenziali nel mercato interno: cfr. da ultimo, Trib. 9 settembre 2015, T-104/13, Toshiba c. Commissione, punti 154-157 e Corte giust. 6 settembre 2017, C-413/14 P, Intel c. Commissione, punto 43 ss.). Nel caso poi delle misure restrittive adottate nell’ambito della PESC (infra, p. 821 s.), il Tribunale
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dell’Unione ha osservato come quest’ultima sia legittimata ad adottare misure comportanti sanzioni economiche destinate a produrre i loro effetti in paesi terzi direttamente dai Trattati (gli allora artt. 60 e 301 TCE): infatti, «le misure adottate ai sensi degli artt. 60 CE e 301 CE sono intese precisamente all’attuazione, da parte della Comunità, di posizioni comuni o di azioni comuni adottate in forza delle disposizioni del Trattato UE relative alla PESC, che prevedono un’azione nei confronti di paesi terzi. Occorre aggiungere che, a norma dell’art. 11, n. 1, UE, uno degli obiettivi della PESC è il mantenimento della pace e il rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite. Un obiettivo siffatto non potrebbe con tutta evidenza essere raggiunto se la Comunità dovesse limitare la propria azione ai casi in cui la situazione all’origine del suo intervento produce effetti nel suo territorio» (31 gennaio 2007, T362/04, Minin c. Commissione, II-2003, punti 106-108).
Come regola generale, lo si è ricordato nel paragrafo precedente, in assenza di una norma che lo consenta, i diritti discendenti dallo status di membro non possono essere limitati o sospesi dagli altri Stati membri o dalle istituzioni, anche a fronte e come reazione a una violazione da parte di uno Stato di obblighi ugualmente collegati a quello status. Un’eccezione è costituita dall’art. 7 TUE, a suo tempo introdotto dal Trattato di Amsterdam. In riferimento proprio a quei valori fondanti dell’Unione previsti dall’art. 2 TUE, i quali costituiscono una precondizione per la concessione dello status di membro a un nuovo Stato, l’art. 7 TUE dà la possibilità all’Unione di sospendere alcuni dei diritti, ivi inclusi quelli di voto, di uno Stato membro che ponga in essere una violazione grave e persistente di tali valori. Il procedimento per arrivarvi comporta una prima fase di accertamento dell’esistenza di tale violazione. Esso passa dapprima per una decisione del Consiglio, da prendere a maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri su proposta motivata di un terzo degli stessi o della Commissione o del Parlamento europeo, e previa approvazione di quest’ultimo, che constati l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave da parte di quello Stato dei valori di cui all’art. 2 TUE (par. 1). Prima di decidere, il Consiglio deve però sentire lo Stato e può rivolgergli raccomandazioni secondo la procedura appena descritta. Se nonostante questo primo «avvertimento» lo Stato non cessa dai comportamenti contestatigli, spetta al Consiglio europeo con la stessa procedura, ma votando all’unanimità, fare stato dell’esistenza non più di un rischio, ma di «una violazione grave e persistente» dei valori dell’Unione (par. 2). Questa seconda decisione consentirà infine, di nuovo al Consiglio, di decidere di sospendere, a maggioranza qualificata, «alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei Trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio», il quale Stato «continua in ogni caso ad essere vincolato dagli obblighi che gli derivano dai Trattati» (par. 3). È previsto che il Consiglio debba tener conto, ai fini della decisione su quali diritti sospendere, delle possibili conseguenze che essa può avere sui diritti e sugli obblighi delle persone fisiche e giuridiche. Sempre il Consiglio può, ovviamente, modificare o revocare a maggioranza qualificata tale sanzione, a fronte di un cambiamento della situazione che l’ha motivata (par. 4). Va osservato che, come stabilito espressamente dall’art. 354 TFUE, lo Stato membro «imputato» ovviamente non partecipa al voto in Consiglio o in Consiglio europeo in nessun passaggio del procedimento, né è considerato tra gli Stati membri ad altri fini procedurali.
La gravità di una decisione del genere spiega le modalità procedurali e decisionali particolarmente gravose cui si è voluto assoggettare il procedimento appena descritto. È evidente però che ciò non ne facilita l’utilizzo, come del resto conferma il sostanziale mancato ricorso, finora, all’art. 7.
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Finora la procedura dell’art. 7 TUE non è stata mai espletata fino in fondo, pur essendone stato più volte minacciato l’avvio dal PE. La volta in cui essa è andata più avanti è stata nei confronti dell’Austria, a seguito dell’ingresso nel governo di quel paese del partito di estrema destra xenofoba di Jorge Haider. Peraltro quell’iniziativa, avviatasi sulla base della precedente versione della procedura, portò a modificare la stessa nel senso appena descritto in occasione della successiva Conferenza intergovernativa di Nizza, in ragione delle carenze che la procedura evidenziò proprio in quel caso.
Ciò ha spinto recentemente le istituzioni direttamente coinvolte nel funzionamento dell’art. 7 a introdurre informalmente dei meccanismi di dialogo con gli Stati laddove si profilino situazioni di minaccia sistemica allo Stato di diritto. La Commissione, in particolare, ha deciso di porre in essere, con una sua Comunicazione dell’11 marzo 2014 (COM(2014) 158 final), un procedimento preliminare (e strettamente funzionale) all’eventuale esercizio del suo potere di presentare una proposta motivata a norma dei citati paragrafi dell’art. 7. Grazie ad esso la Commissione può attivarsi non appena vi siano chiare indicazioni di una minaccia sistemica allo Stato di diritto in uno Stato membro, perché vi appaiono minacciati l’ordinamento politico, istituzionale e/o giuridico, la sua struttura costituzionale, la separazione dei poteri, l’indipendenza o l’imparzialità della magistratura, ovvero il suo sistema di controllo giurisdizionale compresa, ove prevista, la giustizia costituzionale. In pratica, laddove una valutazione preliminare, compiuta avvalendosi anche dei contributi di altri organismi internazionali, la porti a ritenere che si prospetti effettivamente una minaccia del genere, la Commissione può trasmettere allo Stato membro interessato un «parere sullo Stato di diritto», cui può successivamente far seguire, a meno che la questione non si risolva in modo soddisfacente, una «raccomandazione» formale, il cui mancato rispetto entro il termine fissato potrà poi portarla ad attivare uno dei meccanismi previsti dall’art. 7. Il nuovo procedimento messo in atto dalla Commissione ha già trovato una prima applicazione nel caso della Polonia, Stato membro che a partire dall’autunno 2015 ha adottato una serie di riforme, riguardanti in particolare il potere giudiziario e la composizione e il funzionamento della Corte costituzionale, che hanno suscitato forti preoccupazioni rispetto alla situazione dello Stato di diritto in quel paese. In conseguenza di ciò la Commissione dopo aver inviato il 1° giugno 2016 un primo Parere in materia al governo polacco, ha adottato il 27 luglio 2016 una Raccomandazione sullo Stato di diritto (raccomandazione (UE) 2016/1374, GUUE L 217, 53), con la quale, dopo aver constatato che «nell’attuale situazione sussista una minaccia sistemica allo Stato di diritto in Polonia», ha invitato «il governo polacco a risolvere i problemi individuati nella […] raccomandazione entro tre mesi dalla ricezione della stessa e a informare la Commissione delle misure adottate in tal senso». La Raccomandazione è stata integrata dalla Raccomandazione complementare del 21 dicembre 2016 (C(2016) 8950, GUUE L 22, 65) e dalla Raccomandazione complementare del 26 luglio 2017 (C(2017) 5320, GUUE L 228, 19), che hanno sollecitato da parte polacca ulteriori iniziative. Quanto invece ai meccanismi “preliminari” in materia di Stato di diritto posti in essere dalle altre istituzioni dell’Unione, il Consiglio ha creato con delle sue formali Conclusioni del 16 dicembre 2016 un meccanismo di Dialogo politico sullo Stato di diritto da svolgersi con cadenza annuale fra tutti gli Stati membri in sede di Consiglio Affari generali (sul quale v. infra, p. 79 ss.); mentre il Parlamento europeo si è fatto promotore di un tentativo di sintesi tra le iniziative rispettive del Consiglio e della Commissione, proponendo, con una Risoluzione del 25 ottobre precedente, l’adozione di un accordo interistituzionale tra le tre istituzioni che riprenda e sviluppi, rafforzandole, tali iniziative.
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5. Segue : Il recesso dall’Unione di uno Stato membro Dopo Lisbona, i Trattati prevedono anche la possibilità di un recesso dall’Unione. In precedenza, infatti, quasi a sottolineare il carattere permanente attribuito fin dall’inizio al processo d’integrazione europea, attraverso la previsione formale della durata illimitata dei Trattati, contenuta negli artt. 53 TUE e 356 TFUE, questi non disciplinavano in alcun modo l’ipotesi dell’uscita dall’Unione di uno Stato membro. In realtà, come è stato da più parti osservato, questo silenzio non comportava l’impossibilità giuridica del recesso, visto che la Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, del 23 maggio 1969, lo consente, anche in assenza di una clausola esplicita, quando vi sia stato un mutamento fondamentale delle circostanze che hanno spinto ad aderire a un determinato trattato (art. 62 di tale Convenzione), ovvero quando vi sia il consenso di tutte le parti di questo (art. 54 della stessa Convenzione). Una conferma di ciò è stata vista da qualcuno nella c.d. uscita della Groenlandia dalle Comunità europee, a seguito all’acquisizione da parte della Groenlandia nel 1979 di uno status di forte autonomia dalla Danimarca, formalizzata nel 1984 con un apposito accordo concluso tra gli Stati membri di allora. In quel caso, però, a ben vedere, si trattava più che del recesso di uno Stato membro, di una modifica dell’ambito di applicazione territoriale del Trattato, che cessava di essere applicabile ad un territorio autonomo legato da un rapporto particolare a uno Stato membro (la Danimarca). Il Trattato del 13 marzo 1984 che modifica i Trattati che istituiscono le Comunità europee per quanto riguarda la Groenlandia (GUCE L 29/1985, 1), cui non partecipò la Groenlandia, si presenta non a caso come un atto di revisione dei Trattati istitutivi. Il presunto recesso era perciò, in realtà, l’effetto del mutato status di una regione autonoma che in precedenza era parte di uno Stato membro.
Fatto sta che ora, con un nuovo art. 50 TUE, la possibilità del recesso dall’Unione è diventata esplicita; e lo è diventata nella forma di un recesso unilaterale, nel senso che il recesso di uno Stato dall’Unione non richiede il consenso degli altri Stati membri. L’articolo disciplina, per la verità, una procedura complessa, la cui prima fase si presenta come una procedura di recesso negoziato. È infatti previsto che, qualora uno Stato membro notifichi al Consiglio europeo la sua intenzione di lasciare l’Unione, si avvia un negoziato tra esso e l’Unione per la conclusione di un accordo volto a definire le modalità del recesso (par. 2); e laddove il negoziato abbia successo, il recesso diventa effettivo al momento dell’entrata in vigore dell’accordo (par. 3). In mancanza di accordo, però, lo Stato perderà comunque lo status di membro, e i Trattati cesseranno di applicarglisi, dopo due anni dalla notifica di cui sopra o allo scadere dell’ulteriore termine eventualmente fissato all’unanimità dal Consiglio europeo, previa intesa con lo Stato in questione (ivi). La previsione in prima battuta di una fase negoziale è chiaramente diretta a tenere conto delle inevitabili difficoltà che pone, soprattutto in capo allo Stato recedente, l’uscita da un sistema istituzionale e giuridico complesso e integrato come quello creato in sessant’anni di vita dall’Unione: si pensi per tutte alla sorte di tutta una serie di situazioni giuridiche, anche individuali, strettamente collegate allo status di membro (diritti acquisiti dai rispettivi cittadini nei rispettivi territori, ecc.); o a quella di attività o progetti finanziati da fondi europei; o ancora al venir meno dei rap-
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porti (commerciali e non) con Stati terzi disciplinati da accordi conclusi dall’Unione. Difficoltà che spiegano anche la previsione, appena citata, dell’art. 50, secondo la quale, a fronte di un ritardo nella conclusione dell’accordo di recesso, il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, può decidere all’unanimità di prorogare il termine su indicato di due anni, al fine di proseguire il negoziato.
Venendo più nei dettagli alla procedura disciplinata dall’art. 50, essa prende le mosse, dopo la notifica da parte dello Stato che intende recedere, con l’adozione da parte del Consiglio europeo degli orientamenti sui quali dovrà essere impostata la posizione dell’Unione nel negoziato dell’accordo di recesso, negoziato che è previsto si debba svolgere secondo quanto stabilito dall’art. 218, par. 3, TFUE per gli accordi internazionali dell’Unione con paesi terzi. Dati i contenuti generali dell’accordo da negoziare, ciò comporta che, come si vedrà più avanti (infra, p. 835 s.), spetterà alla Commissione condurlo, sulla base delle direttive decise dal Consiglio su raccomandazione della stessa Raccomandazione. L’accordo sarà poi concluso, al termine del negoziato, dal Consiglio previa approvazione del Parlamento. Su questa, come sulle altre decisioni da prendere nel corso della procedura, il Consiglio è chiamato a pronunciarsi con una maggioranza qualificata rafforzata indicata dal par. 4 dello stesso art. 50 nel 72% dei membri (quindi 20, attualmente), che rappresentino il 65% della popolazione dell’Unione. In essa non è evidentemente calcolato lo Stato recedente, visto che esso è tenuto a non partecipare, nel corso di tutta la procedura di recesso, «né alla deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano» (ivi). A parte questa esclusione parziale dai lavori del Consiglio europeo e del Consiglio, lo Stato recedente rimane membro a pieno titolo dell’Unione fino al momento in cui il recesso diventa effettivo. Esso partecipa quindi a tutte le altre riunioni e delibere dei due Consigli e i membri delle altre istituzioni da esso designati o nominati in sua quota mantengono la pienezza delle loro funzioni all’interno delle stesse (membro della Commissione, parlamentari europei, giudici e avvocati generali della Corte di giustizia dell’Unione). Così come lo Stato recedente rimane destinatario di tutti i diritti ed obblighi previsti dal diritto dell’Unione e soggetto a tutte le procedure da questo previste per assicurarne il rispetto.
L’accordo di recesso, pur se negoziato con uno Stato ancora membro dell’Unione, è un accordo internazionale dell’Unione a tutti gli effetti, perché destinato ad entrare in vigore con il recesso e ad applicarsi quindi, a quel punto, a un Paese terzo. Né può essere assimilato, proprio perché concluso dall’Unione e non dagli Stati membri, agli accordi per l’adesione di nuovi Stati membri. Ne deriva, in particolare, che esso deve rimanere, al pari di tutti gli altri accordi internazionali, e in generale degli atti dell’Unione, nei limiti di quanto previsto dai Trattati: non potrà derogare alle norme di questi e l’eventuale incompatibilità con queste delle sue disposizioni potrà essere censurata dalla Corte di giustizia. D’altra parte, proprio perché previsto da una specifica base giuridica, l’art. 50 TUE, l’accordo di recesso non può nemmeno essere confuso con l’eventuale accordo che potrà successivamente regolare i rapporti tra l’Unione e l’ex Stato membro. Come espressamente prevede il par. 2 dell’art. 50, esso dovrà essere concluso «tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione», ma queste potranno essere
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regolate solo attraverso accordi diversi e stipulati sulla base delle pertinenti basi giuridiche contenute nei Trattati per la conclusione degli “ordinari” accordi internazionali tra l’Unione e uno Stato terzo. Del resto, anche il contenuto rispettivo dovrà essere finalisticamente diverso: mentre l’accordo di recesso è destinato a definire esclusivamente le modalità del recesso e le eventuali norme transitorie per accompagnare il passaggio al futuro rapporto che potrà essere stabilito con il “nuovo” Stato terzo, l’altro o gli altri accordi avranno proprio la funzione (più ampia) di porre in essere e disciplinare in modo stabile questo nuovo rapporto. In modo per certi versi apodittico, l’art. 50 afferma che «se lo Stato che ha receduto dall’Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all’articolo 49» (par. 5), cioè la procedura ordinaria di adesione. Nulla dice invece l’articolo sulla possibilità o meno dello Stato che ha notificato la sua intenzione di lasciare l’Unione, di revocare tale notifica interrompendo la procedura di recesso. Il silenzio non può essere interpretato come diniego di tale possibilità. Da un lato, pur se si è ora esplicitata e regolamentata nei Trattati l’eventualità del recesso di uno Stato membro, l’impostazione degli stessi rimane sostanzialmente orientata sull’idea di una permanenza del processo di integrazione europea e quindi di un’interpretazione delle loro norme capace di assecondare tale idea; dall’altro lato, non sarebbe ragionevole ritenere che, di fronte a un cambiamento di idea dello Stato interessato, a seguito ad esempio di una pronuncia parlamentare o popolare a favore della permanenza nell’Unione, si debba comunque completare la procedura di recesso, per poi espletare subito dopo una nuova, e sia pur rapida, procedura di adesione. È appena il caso di dire, infine, che il recesso è immaginabile rispetto allo status di membro nel suo complesso. Non sarebbe cioè ipotizzabile il ricorso alle previsioni di tale articolo, per invocare la legittimità di un sedicente recesso da una parte soltanto dei Trattati, o, per meglio dire, degli obblighi da essi previsti. Un’ipotesi del genere sarebbe possibile solo con una modifica dei Trattati, che consentisse a uno o più Stati membri di non essere più vincolati da quegli obblighi.
6. Segue : L’applicazione differenziata del diritto dell’Unione agli Stati membri. In particolare, la cooperazione rafforzata Lo status di membro dell’Unione europea comporta, come si è detto, l’applicazione integrale allo Stato interessato dell’acquis comunitario, del complesso, cioè, delle norme e dei principi ricavabili dai Trattati, dalla prassi delle istituzioni e dalla giurisprudenza della Corte, nonché dagli atti di varia natura adottati in applicazione dei Trattati o che ad essi si ricollegano. Come regola generale, quindi, il sistema dell’Unione è basato su un principio rigoroso di applicazione generale e uniforme del suo diritto. Ciò non esclude che tale principio possa conoscere deroghe ed eccezioni, a condizione che le stesse siano direttamente previste o comunque consentite da norme dei Trattati o di altri atti di diritto primario. Questo è anzi del tutto normale nel caso dell’adesione di nuovi Stati membri, per i quali l’applicazione integrale e immediata
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dell’acquis comunitario può risultare in taluni casi impossibile o particolarmente difficile. Rispetto ad essi, perciò, l’atto di adesione prevede in genere una serie di deroghe a norme e atti puntuali dell’Unione, che hanno tuttavia carattere transitorio, proprio perché dirette a consentire, seppur con gradualità, la piena integrazione dei nuovi Stati membri nel sistema dell’Unione. Accanto a queste deroghe a termine, i Trattati contengono però anche un certo numero di disposizioni che danno luogo a forme non necessariamente temporanee di applicazione differenziata di norme del diritto dell’Unione o che comunque aprono la strada a una possibilità di questo genere. Le ipotesi contemplate sono le più diverse sia per quanto riguarda i limiti materiali e soggettivi della deroga autorizzata o possibile, che per le modalità di funzionamento della stessa. Una prima ipotesi è quella presente in alcune norme del Trattato che prevedono un’applicazione differenziata di carattere territoriale, nel senso che pongono limiti, all’applicazione di tutta o di parte della normativa dell’Unione a parti del territorio metropolitano di Stati membri o a territori comunque soggetti alla sovranità di uno Stato membro o ad essa riconducibili sulla base di un particolare rapporto giuridico con lo stesso. Ben più numerose e variegate sono invece le forme di applicazione differenziata del diritto dell’Unione, che escludono l’applicazione di normative dell’Unione o di interi settori di competenza della stessa nei confronti di interi Stati membri. Alcune di queste sono costruite come clausole «aperte», che abilitano qualsiasi Stato membro a non essere vincolato da norme o atti dell’Unione da adottare in un determinato settore. Per lo più, però, queste forme di applicazione differenziata del diritto dell’Unione sono costituite da deroghe espressamente riguardanti specifici Stati membri, e la cui portata e il cui ambito materiale sono indicati direttamente in norme di diritto primario. E tra queste ve ne sono alcune che escludono l’applicabilità ad uno Stato di norme specifiche del diritto dell’Unione, come quella prevista dal Protocollo (n. 32), che consente alla Danimarca, «in deroga alle disposizioni dei Trattati», di «mantenere la sua legislazione vigente in materia di acquisto di residenze secondarie»; mentre altre, più rilevanti, investono invece parti significative del diritto dell’Unione o interi settori di competenza di questa, dai quali per una serie di motivi diversi alcuni Stati hanno preferito rimanere esclusi attraverso una formale deroga inserita anche qui in un Protocollo allegato ai Trattati. A parte il già citato caso della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, della quale, come vedremo (infra, p. 150 s.), un apposito Protocollo ha sancito la non applicabilità alla Polonia e al Regno Unito nel momento in cui, con il Trattato di Lisbona, essa ha acquisito lo stesso valore giuridico dei Trattati, questa seconda ipotesi riguarda in particolare il c.d. spazio di libertà, sicurezza e giustizia (SLSG), l’insieme delle disposizioni del TFUE, cioè, relative alle politiche dei controlli alle frontiere, l’asilo e l’immigrazione, nonché la cooperazione giudiziaria in materia civile e in materia penale e la cooperazione di polizia, dalle quali sono rimasti fuori, sulla base di una serie di protocolli allegati ai Trattati, tanto il Regno Unito e l’Irlanda, che la Danimarca. Un esempio di deroga per così dire “territoriale” – perché pone una deroga all’art. 52 TUE, il quale, stabilendo l’applicabilità del diritto dell’Unione a tutti gli Stati membri, nominativamente
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indicati, ne dispone invece, implicitamente, l’applicabilità all’integralità del territorio soggetto alla loro sovranità – è costituito dall’art. 355 TFUE, che esclude l’applicazione integrale dei Trattati a talune isole o zone di sovranità del Regno Unito e della Danimarca contigue alle coste europee (si tratta delle isole Faeröer che fanno parte del Regno di Danimarca e di talune zone di sovranità britannica a Cipro, nonché, sempre per il Regno Unito, delle isole Normanne e dell’isola di Man, le quali vengono escluse integralmente o quasi dall’applicazione dei Trattati), mentre prevede un regime speciale per altri territori accomunati dall’essere situati fuori del continente europeo pur essendo parte integrante di alcuni Stati membri o mantenendo con gli stessi relazioni particolari: è questo il caso di un gruppo di regioni c.d. ultraperiferiche di Francia (Guadalupa, Guyana, Martinica, Réunion e Saint Martin), Portogallo (Azzorre e Madera) e Spagna (Canarie), e dei c.d. paesi e territori d’oltremare che mantengono relazioni particolari con Danimarca, Francia, Paesi Bassi e Regno Unito. Alle prime si applica, in ragione delle condizioni di isolamento geografico, economico e sociale dalla madre patria in cui si trovano, un regime giuridico particolare definito dal Consiglio su proposta della Commissione e previa consultazione del PE ai sensi dell’art. 349 TFUE; i secondi sono oggetto di uno speciale regime di associazione disciplinato negli artt. 198204 TFUE e attuato, da ultimo, con la dec. 2013/755/UE del Consiglio, del 25 novembre 2013, relativa all’associazione dei paesi e territori d’oltremare (GUUE L 344, 1). Tra le clausole che abbiamo definito «aperte» possono invece citarsi i casi, da un lato, della c.d. astensione costruttiva di cui all’art. 31 TUE, che, come vedremo, consente a uno Stato membro di non essere vincolato da un atto in materia di politica estera e di sicurezza comune qualora il suo rappresentante in Consiglio accompagni con una Dichiarazione formale in questo senso la sua astensione nella votazione all’unanimità su quell’atto (cfr. infra, p. 853); e, dall’altro lato, delle clausole derogatorie contenute nell’art. 114, parr. 4 e 5, TFUE, che prevedono che uno Stato membro, dopo l’adozione di una di una misura di armonizzazione nel settore del mercato interno, possa mantenere o introdurre, subordinatamente però ad un’autorizzazione della Commissione, disposizioni nazionali difformi, giustificate da esigenze specifiche di protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro (si veda al riguardo p. 663 s.). Quanto alle deroghe specifiche riguardanti singoli Stati membri, oltre a quella poc’anzi ricordata per la Danimarca può essere menzionata, anche se allo stato non comporta una esenzione da una norma specifica dei Trattati, la disposizione del Protocollo (n. 35) che stabilisce che nessuna norma dei Trattati «pregiudica l’applicazione in Irlanda dell’art. 40.3.3 della Costituzione irlandese», che vieta l’aborto. E nella stessa linea si pone con riguardo a vari aspetti dell’ordinamento irlandese il nuovo Protocollo, in corso di adozione, volto a fornire all’Irlanda talune garanzie giuridiche che il Consiglio europeo aveva promesso di dare in risposta alle c.d. «preoccupazioni» del popolo irlandese che avevano portato a una prima bocciatura da parte sua del Trattato di Lisbona: vedi sopra p. 25. Venendo infine alle deroghe relative a Regno Unito, Irlanda e Danimarca esse sono disciplinate dal Protocollo (n. 21) sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda rispetto allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, cui è collegato il Protocollo (n. 20) sull’applicazione di alcuni aspetti dell’art. 26 del TFUE al Regno Unito e all’Irlanda, e dal Protocollo (n. 22) sulla posizione della Danimarca ugualmente con riferimento allo SLSG (sul contenuto di merito di questi protocolli si veda p. 536). Quest’ultimo Stato membro gode poi, sempre per via di Protocollo, di una deroga generale anche per quanto riguarda le decisioni e le azioni dell’Unione che hanno implicazioni in materia di difesa, alla cui elaborazione e attuazione esso non partecipa. La deroga, che riguarda le misure basate sugli artt. 26, par. 1, e 42-46 TUE, è disposta dall’art. 5 del citato Protocollo (n. 22).
Sostanzialmente, le ipotesi finora ricordate danno luogo a una limitazione dell’applicazione a specifici o singoli Stati membri di normative dell’Unione di portata generale, motivata per lo più da problemi di carattere politico o ordinamentale unicamente riguardanti gli Stati interessati. In coincidenza con l’incremento esponen-
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ziale del numero degli Stati membri dell’Unione verificatosi negli ultimi due decenni, si è prospettata però anche un’esigenza diversa, quella di consentire, cioè, a gruppi di Stati membri, di fronte alla difficoltà crescente di trovare le maggioranze necessarie in seno al Consiglio per avviare iniziative normative evolutive in taluni settori di competenza dell’Unione, di dar vita a tali iniziative in un numero più ristretto di Stati, mantenendole però all’interno del sistema dell’Unione e dei meccanismi istituzionali e giuridici su cui si basa il suo funzionamento. Il rischio era infatti che, come era già avvenuto con la conclusione nel 1985 da parte di alcuni Stati membri dell’Accordo di Schengen per l’abolizione dei controlli alle frontiere comuni (infra, p. 531 ss.), quelle stesse iniziative venissero realizzate, ove non vietate dai Trattati per quello specifico settore, attraverso strumenti di diritto internazionale operanti al di fuori dell’Unione. a) L’esigenza indicata ha trovato risposta con l’introduzione nei Trattati, da parte del Trattato di Amsterdam, dell’istituto della c.d. cooperazione rafforzata, poi sviluppato e perfezionato con i successivi Trattati di revisione e in particolare con il Trattato di Lisbona. In pratica, essa consiste nella decisione di un gruppo di Stati membri di realizzare tra di essi, ma nel quadro dell’Unione e avvalendosi delle sue istituzioni e applicando le pertinenti disposizioni dei Trattati, un obiettivo dei Trattati che non possa essere conseguito per il momento dall’Unione nel suo insieme per la mancanza, come si è detto, delle necessarie maggioranze in Consiglio. Si tratta all’evidenza di una situazione differente da quella creata dalle ipotesi di applicazione differenziata precedentemente esaminate. Lì si ha uno Stato membro che, grazie alla deroga concessagli, si sottrae, con il consenso degli altri, all’applicazione della normativa comune. Qui, nella cooperazione rafforzata, un gruppo di Stati, più o meno ampio, dà vita a una normativa pur sempre dell’Unione, ma speciale, perché più «avanzata», la quale continua a convivere con la normativa comune, che resta di applicazione per gli Stati membri non partecipanti alla cooperazione rafforzata. Questo nuovo istituto è previsto oggi, in via generale, da un articolo del TUE, l’art. 20, e, nei particolari, da una serie di altre disposizioni contenute nel TFUE, che ne disciplinano le procedure di avvio e le modalità generali di funzionamento. L’iniziativa di instaurare una cooperazione deve essere presa da un gruppo di almeno nove Stati e il suo oggetto deve rientrare nei limiti delle competenze dell’Unione, ma non riguardare una competenza esclusiva di questa. Sul piano del merito, essa non solo deve rispettare i Trattati e il diritto dell’Unione, nonché le competenze, i diritti e gli obblighi degli Stati membri che non vi partecipano (artt. 326 e 327 TFUE), ma non può «recare pregiudizio né al mercato interno né alla coesione economica e territoriale», o «costituire un ostacolo [o] una discriminazione per gli scambi tra gli Stati membri» o, ancora, «provocare distorsioni di concorrenza tra questi ultimi». D’altro canto, l’art. 327 TFUE prevede anche che gli altri Stati membri non devono a loro volta ostacolare l’attuazione della cooperazione rafforzata da parte di quelli che vi partecipano. Se per certi versi le disposizioni rilevanti dei Trattati sembrano concepire la cooperazione rafforzata come una modalità di azione da porre in essere rispetto ad un
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ambito normativo ampio dell’Unione, se non addirittura rispetto ad un intero settore di competenza della stessa, esse non escludono nemmeno l’ipotesi di un ricorso ad essa ai fini di un’iniziativa isolata. Del resto, le prime applicazioni delle norme di Lisbona sono andate piuttosto in quest’ultima direzione, essendo state utilizzate per dar vita a iniziative legislative specifiche. La prima cooperazione rafforzata basata sull’art. 20 TUE è consistita, infatti, nell’adozione tra 14 Stati membri di un regolamento in materia di legge applicabile al divorzio e alla separazione legale (Reg. (UE) n. 1259/2010 del Consiglio, del 20 dicembre 2010, GUUE L 343, 10, adottato sulla base dell’autorizzazione concessa con la dec. 2010/405/UE del Consiglio, del 12 luglio 2010, GUUE L 189, 12. La cooperazione rafforzata era stata originariamente richiesta da Belgio, Bulgaria, Germania, Grecia, Spagna, Francia, Italia, Lettonia, Lussemburgo, Ungheria, Malta, Austria, Portogallo, Romania e Slovenia. Successivamente la Grecia ha ritirato la propria richiesta, per poi aderire nuovamente, in un secondo tempo, a cooperazione rafforzata ormai avviata (dec. 2014/39/UE della Commissione, del 27 gennaio 2014, che conferma la partecipazione della Grecia alla cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale, GUUE L 23, 41). Alla cooperazione rafforzata hanno poi aderito anche la Lituania (si veda l’analoga dec. 2012/714/UE della Commissione, del 21 novembre 2012, GUUE L 343, 10) e l’Estonia (dec. 2016/1366/UE della Commissione, del 10 agosto 2016, GUUE L 216, 23). A questa prima cooperazione rafforzata hanno fatto seguito i due regolamenti tra loro collegati concernenti l’istituzione di una tutela brevettuale unitaria tra 25 Stati membri (meno Italia e Spagna). Si tratta dei reg. (UE) n. 1257/2012 del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2012, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore dell’istituzione di una tutela brevettuale unitaria (GUUE 31 L 361, 1) e n. 1260/2012 del Consiglio, del 17 dicembre 2012, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore dell’istituzione di una tutela brevettuale unitaria con riferimento al regime di traduzione applicabile (GUUE L 361, 89). La decisione di autorizzazione del Consiglio 2011/167/UE, del 10 marzo 2011 (GUUE L 76, 10), è stata oggetto di ricorsi per annullamento da parte di Spagna e Italia, respinti dalla Corte di giustizia con la sentenza 16 aprile 2013, C-274/11 e C-295/11, Spagna e Italia c. Consiglio. L’Italia ha successivamente aderito alla cooperazione rafforzata (dec. 2015/1753/UE della Commissione del 30 settembre 2015, GUUE L 256, 19). Nel 2016 è stata poi data attuazione a una cooperazione rafforzata in materia di regimi patrimoniali tra coniugi e tra coppie registrate, rispettivamente con il reg. (UE) 2016/1103 e con il reg. (UE) 2016/1104 del 24 giugno 2016, GUUE L 183, 1 e 30, sulla base dell’autorizzazione concessa ad Austria, Belgio, Bulgaria, Repubblica ceca, Cipro, Croazia, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia, dalla dec. 2016/954/UE del Consiglio, del 9 giugno 2016, GUUE L 159, 16. È stata inoltre autorizzata, ma non ancora realizzata, una cooperazione rafforzata riguardante l’adozione di un direttiva in materia di transazioni finanziarie (dec. 2013/52/UE del Consiglio, del 22 gennaio 2013, GUUE L 22, 11). Essa è stata adottata su richiesta di 11 Stati membri: Belgio, Germania, Grecia, Spagna, Estonia, Francia, Italia, Austria, Portogallo, Slovacchia e Slovenia. Anche in questo caso la decisione di autorizzazione è stata impugnata dinanzi alla Corte di giustizia, che ha ugualmente respinto il ricorso (sentenza 30 aprile 2014, C-209/13, Regno Unito c. Consiglio). Si veda infine, più avanti nel testo, la cooperazione rafforzata, in via di formalizzazione, relativa all’istituzione di una Procura europea ai sensi dell’art. 86 TFUE.
L’avvio di una cooperazione rafforzata deve essere autorizzata dal Consiglio a maggioranza qualificata, sulla base di una proposta della Commissione preparata su richiesta del gruppo di Stati che intendono procedervi, e previa approvazione del Parlamento europeo. Se l’iniziativa riguarda i settori della PESC, il Consiglio delibe-
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ra all’unanimità sulla base dei pareri rilasciati dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e dalla Commissione circa la coerenza della cooperazione rafforzata con le aree di rispettiva competenza (art. 329 TFUE). L’art. 20, par. 2, TUE, prevede che la decisione di autorizzazione debba essere adottata dal Consiglio «in ultima istanza», quando, cioè, sia chiaro che non vi sono possibilità di realizzare con un’iniziativa dell’Unione in quanto tale l’obiettivo perseguito dalla cooperazione rafforzata. Spetta al Consiglio verificare in concreto la sussistenza di questa condizione, che è chiaramente diretta, come ha detto la Corte (16 aprile 2013, C-274/11 e C-295/11, Spagna e Italia c. Consiglio, punto 48 ss.), a evitare che il primo insuccesso di un negoziato in seno al Consiglio possa condurre all’instaurazione di una cooperazione rafforzata, senza che si faccia un serio tentativo di trovare un compromesso tra gli Stati membri che consenta all’Unione di procedere nella sua interezza. La verifica richiesta al Consiglio non è evidentemente agevole, potendo essere discutibile il momento in cui non sia più possibile trovare quel compromesso, ed è facile che essa sia influenzata da considerazioni più che altro politiche. Ciò tanto più che, nell’opinione della Corte, la facoltà di ricorrere a una cooperazione rafforzata non è necessariamente limitata «alla sola ipotesi in cui uno o più Stati membri dichiarino di non essere ancora pronti a partecipare ad un’azione legislativa dell’Unione nel suo insieme», ma anche a quella in cui gli Stati non trovino l’accordo sul contenuto di tale azione per mancanza dell’unanimità richiesta dai Trattati per la relativa delibera del Consiglio (ivi, punto 36 s.). Il TFUE contempla anche dei casi in cui l’autorizzazione di una cooperazione rafforzata va ritenuta concessa de jure. L’ipotesi è disciplinata in alcune norme del TFUE che prevedono, per i settori della cooperazione penale e in materia giudiziaria penale e di polizia, che laddove non sia possibile procedere all’adozione di un atto per la mancanza di un accordo in Consiglio europeo, investito dello stesso sulla base del c.d. «freno d’emergenza» (infra, p. 72) o in ragione della mancanza di una unanimità in Consiglio (art. 86, par. 1, comma 3, TFUE), almeno nove Stati membri possono informare il Parlamento, il Consiglio e la Commissione della loro intenzione di instaurare una cooperazione rafforzata sulla base di quell’atto: in tal caso la cooperazione si considera automaticamente concessa, senza verifica della condizione dell’«ultima istanza», che, evidentemente, si ritiene in questo caso soddisfatta per il fatto stesso dell’assenza di un accordo in Consiglio europeo. Il Consiglio europeo può essere investito del problema da un solo Stato membro che attivi il citato freno d’emergenza, ritenendo che un dato progetto di direttiva in materia penale o di polizia incida su aspetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico (artt. 82, par. 3; 83, par. 3; e 87, par. 3, TFUE), o da un gruppo di almeno nove Stati membri nel caso, previsto dall’art. 86 TFUE, in cui manchi l’unanimità nel Consiglio dell’Unione per l’istituzione della Procura europea per il contrasto dei reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione (EPPO). In ambedue i casi l’autorizzazione alla cooperazione rafforzata scatta automaticamente allo scadere dei quattro mesi concessi al Consiglio europeo per trovare un accordo che consenta al Consiglio di procedere con la totalità degli Stati membri. Lo scenario si è recentemente prodotto in relazione alla Procura europea. Dopo che il Consiglio dell’Unione ha registrato il 7 febbraio 2017 la mancanza di unanimità a sostegno della proposta di regolamento volto ad istituirla, il Consiglio europeo, investito da 17 Stati membri, ha preso atto nella sua riunione del 9-10 marzo dell’impossibilità di procedere a 28 (Conclusioni del Presi-
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dente del Consiglio europeo, par. 14). Ciò ha consentito al Consiglio dell’Unione, dopo che 16 Stati hanno notificato con lettera del 3 aprile alle tre istituzioni la loro intenzione di avviare la cooperazione rafforzata, di approvare nella seduta dell’8 giugno il progetto di regolamento istitutivo dell’EPPO, con il voto favorevole di 20 Stati (agli originari Belgio, Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica ceca, Germania, Grecia, Spagna, Finlandia, Francia, Lituania, Lussemburgo, Portogallo, Romania, Slovenia e Slovacchia, si sono infatti aggiunti Austria, Estonia, Italia e Lettonia). Il progetto è ora dinanzi al Parlamento europeo per la necessaria approvazione di questa istituzione.
Una cooperazione rafforzata deve consentire l’adesione di qualsiasi altro Stato membro che desideri unirsi al gruppo iniziale al momento del suo avvio ovvero in un momento successivo, purché il nuovo Stato partecipante soddisfi le eventuali condizioni di partecipazione stabilite nella decisione di autorizzazione (art. 20, par. 1, comma 2, seconda frase, TUE, e art. 328, par. 1, TFUE). Nel caso in cui l’adesione avvenga in un momento successivo, spetterà alla Commissione verificare che tali condizioni siano soddisfatte e adottare le eventuali misure transitorie necessarie a consentire l’applicazione degli atti già approvati nell’ambito della cooperazione rafforzata, che lo Stato aderente è tenuto ad accettare nella loro integralità (art. 331 TFUE). Qualora la Commissione ritenga e successivamente confermi che le condizioni di partecipazione non sono soddisfatte, lo Stato interessato può rivolgersi al Consiglio, che deciderà al riguardo, adottando lui stesso, in caso positivo, le eventuali misure transitorie di cui sopra. Nel caso di cooperazioni rafforzate nel quadro della PESC, la verifica necessaria all’adesione di un nuovo Stato spetta invece direttamente al Consiglio in consultazione con l’Alto Rappresentante. Una volta instaurata, la cooperazione rafforzata funzionerà attraverso le istituzioni, gli strumenti e le procedure previste dagli articoli dei Trattati che costituiscono la base giuridica della materia oggetto della cooperazione, fermo restando che solo gli Stati partecipanti potranno partecipare al voto sulle deliberazioni prese dal Consiglio nel suo quadro (artt. 20, par. 3, TUE e 330 TFUE). Così gli artt. 20, par. 3, TUE e 330 TFUE. L’unanimità e la maggioranza semplice saranno costituite unicamente sulla base dei voti dei rappresentanti dei membri partecipanti e la soglia della maggioranza qualificata sarà adattata proporzionalmente al numero di questi. Rimane però fermo che gli Stati non partecipanti possono prendere parte alle deliberazioni, pur se senza diritto di voto. L’art. 332 TFUE prevede poi che le spese derivanti dall’attuazione di una cooperazione rafforzate siano a carico degli Stati partecipanti, salvo diversa decisione presa all’unanimità dal Consiglio dell’Unione. Analoga esclusione dal voto degli Stati non partecipanti non è prevista invece per il Consiglio europeo. Né subisce alcuna limitazione lo status dei membri delle altre istituzioni dell’Unione (Parlamento europeo, Commissione, Corte di giustizia), che siano espressione di quegli stessi Stati.
È tuttavia previsto, in sintonia con il carattere evolutivo che tendenzialmente dovrebbero avere le cooperazioni rafforzate rispetto al diritto comune, che, fatta eccezione per le decisioni che hanno implicazioni militari o che rientrano nel settore della difesa, il Consiglio possa decidere, all’unanimità degli Stati partecipanti, di applicare il voto a maggioranza qualificata o la procedura legislativa ordinaria a deliberazioni per le quali, in base ai Trattati, sarebbe necessaria l’unanimità e l’utilizzo della procedura legislativa speciale (art. 333 TFUE).
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Gli atti adottati nel quadro di una cooperazione rafforzata devono essere fondati sulle pertinenti basi giuridiche dei Trattati e costituiscono diritto dell’Unione, ma vincolano evidentemente solo gli Stati membri partecipanti e non sono considerati parti dell’acquis che deve essere accettato da un nuovo Stato membro che aderisca all’Unione (art. 20, par. 4, TUE). b) Oltre ad aprire in via generale la possibilità di avviare cooperazioni rafforzate in uno dei settori di competenza non esclusiva dell’Unione, i Trattati prevedono anche due ipotesi specifiche di cooperazione rafforzata direttamente disciplinate al loro interno. La prima è la c.d. «cooperazione strutturata permanente» che l’art. 42, par. 6, TUE contempla in materia di missioni che l’Unione può essere chiamata ad effettuare, nel quadro della politica di sicurezza e difesa comune, per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale. In pratica, tale articolo e il successivo art. 46 TUE prevedono che, non appena gli Stati membri «che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari» abbiano notificato al Consiglio e all’Alto Rappresentante la loro intenzione di partecipare a tale cooperazione, il Consiglio provveda a istituirla con decisione presa a maggioranza qualificata (artt. 42, par. 6 e 46, par. 1, TUE). Una volta istituita, essa è aperta all’adesione di altri Stati membri che rispondano a quei criteri, fermo restando che, a differenza della cooperazione rafforzata generale, la partecipazione è reversibile: è infatti possibile sia la sospensione della partecipazione di uno Stato che non soddisfi più i criteri richiesti, che il recesso volontario (art. 46, par. 3 ss., TUE). I «criteri più elevati in termini di capacità militari» che consentono la partecipazione alla cooperazione strutturata permanente sono indicati direttamente in un Protocollo allegato ai Trattati, il quale definisce anche i contenuti specifici della cooperazione. Si tratta del Protocollo (n. 10) sulla cooperazione strutturata permanente istituita dall’art. 42 TUE. L’adesione e la sospensione della partecipazione sono disposte dal Consiglio con una decisione presa sempre a maggioranza qualificata (art. 46, parr. 3 e 4, TUE). La sospensione può essere decisa allorché «uno Stato membro partecipante non soddisfa più i criteri o non può più assolvere gli impegni di cui agli articoli 1 e 2 del protocollo sulla cooperazione strutturata permanente». Per il recesso è invece sufficiente, ai sensi del par. 5 dello stesso articolo, che lo Stato che intenda uscire da tale cooperazione lo notifichi al Consiglio, il quale è tenuto a prendere atto del fatto che la partecipazione dello Stato membro in questione termina.
L’altra cooperazione rafforzata istituita direttamente dai Trattati è quella riguardante la materia dell’eliminazione dei controlli alle frontiere comuni oggetto dell’Accordo di Schengen del 1985. Nata, come poc’anzi ricordato, al di fuori del sistema dell’Unione come cooperazione di puro diritto internazionale tra alcuni Stati membri, essa è stata infatti integrata nei Trattati proprio a titolo di cooperazione rafforzata, autorizzata direttamente da un Protocollo allegato al Trattato di Amsterdam, che definisce nel dettaglio anche la posizione del Regno Unito, dell’Irlanda e della Danimarca, i quali sono gli unici Stati membri non partecipanti. La particolarità della posizione di questi ultimi sta infatti nella circostanza che, a differenza di quanto è previsto per la cooperazione rafforzata generale, ad essi è consentito non solo di ade-
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rire, quando lo vorranno, a questa specifica cooperazione, ma anche di partecipare all’elaborazione o di accettare singole misure adottate nel quadro della cooperazione, sulla base di un meccanismo che è stato definito di opting in. Si tratta del Protocollo (n. 19) sull’acquis di Schengen integrato nell’ambito dell’UE. La posizione della Danimarca è in realtà disciplinata all’interno di un altro protocollo (Protocollo (n. 22) sulla posizione della Danimarca), cui rinvia il suddetto Protocollo (n. 19). Su ambedue i Protocolli si veda comunque, per maggiori dettagli, alla Parte Quarta, Cap. V, par. 2.
All’ipotesi della cooperazione rafforzata istituita direttamente dai Trattati viene da alcuni ricondotta anche la disciplina dell’euro, che, com’è noto, non è applicabile a tutti gli Stati membri. L’adozione della moneta unica è infatti condizionata al rispetto da parte dell’economia di ciascuno di essi di determinati criteri fissati dall’art. 140, par. 1, TFUE e ulteriormente specificati nel Protocollo (n. 13) sui criteri di convergenza; e, allo stato, non tutti i paesi soddisfano tali criteri, rimanendo pertanto fuori dalla c.d. «zona euro» con lo status di «Stati con deroga». Al di là di ciò cui potrebbe far pensare quest’ultima espressione, la posizione di questi Stati non è però formalmente frutto, come è regola nel caso di una cooperazione rafforzata, di una loro scelta deliberata, ma dell’esito negativo della verifica sul rispetto da parte loro dei criteri di convergenza che il Consiglio è tenuto a dettare almeno ogni due anni. Mentre una vera deroga è stata concessa ai soli Regno Unito e Danimarca, dando però così luogo a un’ipotesi non di vera e propria cooperazione rafforzata, ma di più generica applicazione differenziata. Per ambedue questi Stati, infatti, due Protocolli ad hoc escludono espressamente l’obbligo di adottare la moneta unica. Si tratta, rispettivamente, del Protocollo (n. 15) su talune disposizioni relative al Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e del Protocollo (n. 16) su talune disposizioni relative alla Danimarca. Per quest’ultima, l’esclusione è costruita come una deroga analoga a quella in cui si trovano i citati Stati con deroga, ma, per così dire, di carattere permanente: le si applicano tutti gli articoli del Trattato riguardanti quegli Stati, ma la procedura di accertamento periodico da parte del Consiglio del rispetto dei criteri di convergenza non opera, in base al par. 2 del Protocollo, rispetto alla Danimarca. In ogni caso, per ambedue gli Stati l’eventuale successiva adesione all’euro non comporta una modifica del rispettivo Protocollo, ma è possibile sulla base di una loro formale richiesta in questo senso e, ovviamente, alla verifica del soddisfacimento da parte loro delle condizioni poste a questo scopo per tutti gli altri Stati membri. Come si è appena detto, infatti, non tutti gli Stati membri sono oggi parte dell’eurozona, ma solo 19 di essi (Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia e Spagna). Sono invece Stati membri con deroga, fintantoché non saranno in linea con i criteri di convergenza poc’anzi citati, Svezia, Romania, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria. Un caso particolare è però quello della Svezia, che, pur rimanendo formalmente vincolata ad aderire all’euro al momento del soddisfacimento di quei criteri, ha indetto nel 2003 un referendum popolare sul tale adesione, che ha avuto esito negativo. In proposito si veda anche p. 693 s.
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CAPITOLO II
Il quadro istituzionale Sommario: 1. Profili introduttivi. – 2. La nozione di «istituzione». – 3. Principi di funzionamento del sistema istituzionale. L’equilibrio istituzionale e la leale collaborazione. – 4. Sistema istituzionale dell’Unione e parlamenti nazionali. – 5. Le istituzioni politiche. – 6. a) Il Consiglio europeo. – 7. b) Il Consiglio. – 8. Segue: La maggioranza qualificata in sede di Consiglio europeo e di Consiglio. – 9. c) Il Parlamento europeo. – 10. d) La Commissione. – 11. L’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. – 12. Le istituzioni di controllo: la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte dei conti. – 13. Gli organismi monetari e finanziari: a) la Banca centrale europea. – 14. b) La Banca europea per gli investimenti. – 15. Gli organi consultivi: a) il Comitato economico e sociale. – 16. b) Il Comitato delle regioni. – 17. Le agenzie europee. – 18. L’apparato amministrativo dell’Unione. – 19. Il regime linguistico delle istituzioni. – 20. Le finanze dell’Unione e in particolare l’adozione e l’esecuzione del bilancio e il controllo sulle frodi.
1. Profili introduttivi L’Unione europea dispone, come recita l’art. 13, par. 1, comma 1, TUE, di «un quadro istituzionale che mira a promuoverne i valori, perseguirne gli obiettivi, servire i suoi interessi, quelli dei suoi cittadini e quelli degli Stati membri, garantire la coerenza, l’efficacia e la continuità delle sue politiche e delle sue azioni». Di questo quadro istituzionale fanno parte, in primo luogo, le istituzioni elencate dal comma 2 dello stesso art. 13, par. 1: Parlamento europeo, Consiglio europeo, Consiglio, Commissione europea, Corte di giustizia dell’Unione europea, Banca centrale europea e Corte dei conti. La formulazione dell’articolo legittima tuttavia un’accezione più ampia di «quadro istituzionale», tale da ricomprendere indistintamente tutte le istituzioni e gli organismi operanti nell’ambito dell’Unione. Va da sé, infatti, che l’esigenza di assicurare la coerenza complessiva dell’azione di questa, affermata dall’art. 13 TUE, ha ragion d’essere in relazione al funzionamento del sistema istituzionale nel suo complesso. D’altra parte, rispetto all’essenzialità delle origini, l’apparato organico dell’Unione si è andato strutturando nel tempo in modo assai più esteso e articolato di quello fotografato ora dal par. 1, comma 2, dell’art. 13. Alle istituzioni delle originarie Comunità europee si sono progressivamente affiancati ulteriori organi, di diverso livello
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e funzioni, nati non solo sulla base di decisioni prese a livello di Trattati o di previsioni esplicite di questi, ma anche di decisioni autonome delle stesse istituzioni dell’Unione. Si sono in particolare moltiplicati, negli ultimi anni, gli organi istituiti da atti del Consiglio (o del Consiglio e del Parlamento), dando vita a un fenomeno che appare influenzato da e direttamente proporzionale alla crescita dei compiti di amministrazione diretta che l’Unione ha cominciato a riservarsi in molti settori di sua competenza: invece di concentrare le relative funzioni nelle mani della Commissione, l’assunzione di tali compiti è stata infatti accompagnata dal decentramento di quelle stesse funzioni in capo ad organi appositamente istituiti e talvolta chiamati a svolgere un ruolo per certi versi simile a quello di agenzie indipendenti (infra, par. 17). Quando si guardi a questa complessità del sistema istituzionale dal punto di vista non solo quantitativo, ma anche qualitativo, se ne ricava una conferma ulteriore della peculiarità dell’Unione europea in rapporto ai tradizionali enti composti da Stati. All’interno di quel sistema si riflettono, infatti, varie forme di rappresentanza, nonché la pluralità delle funzioni proprie dell’Unione. Per quanto riguarda il primo profilo, è da notare che la composizione intergovernativa è ben lungi dal costituire la caratteristica dominante degli organi appartenenti al sistema. Almeno per quelli principali, quella caratteristica si ritrova unicamente – ma non per tutti e due con le stesse modalità – nel Consiglio europeo e nel Consiglio. Al contrario, benché quasi tutti nominati pur sempre dai governi degli Stati membri (in quanto tali o in quanto membri del Consiglio europeo o del Consiglio), gli altri organi del sistema si caratterizzano per una composizione formalmente indipendente dagli Stati, nel senso che i loro membri non rappresentano il governo del paese di appartenenza, ma fanno parte dell’organo a titolo personale. Ferma restando tale caratteristica, la composizione di questi altri organi assume peraltro forme diverse, le quali appaiono espressione di differenti rappresentatività. Diversamente infatti, ancora una volta, da ciò che di regola si constata in altri enti internazionali, l’apparato organico dell’Unione affianca ad organi, quali la Commissione o (nelle sue varie articolazioni) la Corte di giustizia, la cui indipendenza dagli Stati membri è messa unicamente a servizio dell’interesse in quanto tale dell’enteUnione, altri organi per i quali quella caratteristica è funzionale al fatto di esprimere, nel funzionamento del processo di integrazione europea, interessi e istanze nazionali diversi da quelli governativi. Accanto all’organo a rappresentanza popolare (il Parlamento europeo) si hanno ad esempio organi rappresentativi delle istanze del decentramento (il Comitato delle regioni), o degli interessi di categoria (il Comitato economico e sociale), o finanche delle banche centrali nazionali (la Banca centrale europea). Come si vedrà meglio più avanti (parr. 15 e 16), il Comitato delle regioni (CDR) è «composto di rappresentanti delle collettività regionali e locali che sono titolari di un mandato elettorale nell’ambito di una collettività regionale o locale, o politicamente responsabili dinanzi ad un’assemblea eletta» (art. 300, par. 3, TFUE) e il Comitato economico e sociale (CES) è «costituito da rappresentanti delle organizzazioni di datori di lavoro, di lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile, in particolare nei settori socioeconomico, professionale e culturale» (art. 300, par. 2, TFUE); ai sensi poi dell’art. 283 TFUE, il Consiglio direttivo della BCE comprende i membri del comitato esecutivo (un Presidente, un Vicepresidente e quattro membri no-
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minati dal Consiglio europeo, «tra persone di riconosciuta levatura ed esperienza professionale nel settore monetario o bancario»), nonché i governatori delle banche centrali nazionali degli Stati membri la cui moneta è l’euro.
L’elemento peculiare non sta peraltro solo nel fatto che attraverso questi organi gli interessi e le istanze corrispondenti godono all’interno dell’Unione di una rappresentanza in prima persona, non mediata cioè attraverso il canale governativo, come per lo più avviene invece negli enti internazionali in ossequio al carattere unitario dello Stato quale membro di quegli enti. È invece da notare come il compito degli organi di cui si parla non si esaurisce nella mera rappresentanza di quegli interessi e istanze a livello del sistema istituzionale; essi al contrario contribuiscono, seppur in forme e con efficacia diverse, al funzionamento di quel sistema, arrivando talvolta ad assolvere a tale livello funzioni analoghe a quelle proprie, sul piano nazionale, delle istanze da essi rappresentate. Un esempio illuminante è dato al riguardo dalla Banca centrale europea, organo tecnico sottratto al controllo o agli indirizzi delle altre istituzioni e degli stessi Stati membri (art. 130 TFUE), cui è affidata la funzione di governo della moneta all’interno dell’unione economica e monetaria, funzione che essa esercita in uno schema di reciproca indipendenza dalle istituzioni politiche, analogo a quello di regola operante nei sistemi nazionali. Con ciò si viene all’altro profilo rilevante del sistema istituzionale dell’Unione: la varietà di competenze e poteri che questa si è vista progressivamente assegnare si è riflessa in una crescente complessità del suo sistema istituzionale, che ha allontanato ancor più l’Unione dai canoni istituzionali tipici degli enti composti da Stati. Al suo interno ritroviamo, infatti, non solo molte delle funzioni tipiche degli Stati, ma allo stesso tempo l’esercizio di quelle funzioni vi appare di regola ripartito tra più organi, secondo schemi ispirati più alla complessità dei sistemi statali, che all’essenzialità di quelli internazionali. Il potere normativo non è strettamente riservato all’organo intergovernativo, ma è in buona parte condiviso, come si vedrà, da Consiglio e Parlamento europeo nel quadro di un triangolo istituzionale che riserva un ruolo essenziale alla Commissione. Analogamente avviene per il potere esecutivo, esercitato nelle sue diverse accezioni tanto dal Consiglio che dalla Commissione, al punto che per ambedue è invalso nel gergo ormai abituale l’appellativo di «esecutivo». La funzione giurisdizionale infine, inizialmente concentrata, secondo un modello di tipo internazionalistico, nelle mani di un solo organo giurisdizionale, risulta oggi potenzialmente organizzata sull’operato di più istanze e gradi di giurisdizione: dopo un primo affiancamento, negli anni ’80, del Tribunale di primo grado (ora Tribunale) alla Corte di giustizia, i Trattati attuali prevedono ora la possibilità di creare «tribunali specializzati […] incaricati di conoscere in primo grado di talune categorie di ricorsi proposti in materie specifiche» e le cui decisioni sono impugnabili dinanzi al Tribunale (infra, Parte Seconda, Cap. II, par. 4). Fa eccezione a quanto finora osservato da un punto di vista generale il settore della PESC, che mantiene anche nel quadro dei nuovi Trattati le caratteristiche istituzionali che lo hanno contraddistinto fin dalle origini. Rispetto ad esso, infatti, l’apparato istituzionale dell’Unione interviene in misura «essenziale», tanto dal pun-
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to di vista quantitativo, che da quello qualitativo. Come vedremo, tutto ruota, in buona sostanza, intorno al ruolo delle istituzioni composte dai governi, il Consiglio europeo e il Consiglio, mentre le altre istituzioni vi giocano un ruolo del tutto marginale se non altro in rapporto alla portata di quello che è loro proprio nel funzionamento complessivo dell’Unione. Come vedremo (p. 853 ss.), l’intervento del Parlamento europeo, pervasivo sulle decisioni relative agli altri settori di attività, è ridotto, per quanto riguarda la PESC, a poco più di una generica consultazione da parte dell’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza sulle scelte fondamentali. Nel caso della Commissione viene del tutto meno la sua generale funzione di vigilanza sul rispetto del diritto, così come il potere di iniziativa, che rimane confinato alla sola possibilità di «appoggiare» le proposte formulate dall’Alto Rappresentante. Quanto alla Corte di giustizia, se si esclude quella di pronunciarsi sulla legittimità delle decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di persone fisiche o giuridiche adottate dal Consiglio a titolo di sanzioni internazionali, essa si vede riconoscere solo una competenza indiretta sulle decisioni in materia PESC, attraverso il controllo che può essere chiamata ad esercitare sulla non interferenza tra l’azione svolta dalle istituzioni in attuazione della stessa PESC e quella svolta in attuazione delle altre politiche ed azioni dell’Unione.
2. La nozione di «istituzione» Nel sistema istituzionale dell’Unione la nozione di «istituzione» risulta riservata fin dalle origini alle sole elencate nel par. 1, comma 2, dell’art. 13 TUE. È questa stessa disposizione che utilizza tale termine per indicarle. E unicamente ad esse si riferisce il Capo I (dedicato appunto a «Le istituzioni»), del Titolo I, della Parte VI del TFUE. Da tempo, le ragioni di questa «denominazione riservata» hanno finito per non essere più tanto evidenti. Alcuni tratti comuni alle istituzioni originarie sono venuti meno col tempo, e sono invece entrati nel panorama istituzionale dell’Unione nuovi organismi a esse assimilabili. Non è ad esempio più da loro condivisa, come in passato, la caratteristica di non vedere la propria nomina dipendere da un’altra istituzione. Questa comune caratteristica era già venuta meno con l’inserimento nell’allora art. 7 TCE, da parte del Trattato di Maastricht, della Corte dei conti, i cui componenti sono nominati dal Consiglio; mentre dopo il Trattato di Nizza e il Trattato di Lisbona anche la nomina della Commissione dipende ormai dal Consiglio europeo (e dal Parlamento europeo). Grazie al Trattato di Nizza non è poi neanche più vero, peraltro, che sia comune alle istituzioni il potere di auto-organizzazione, almeno nella misura in cui esso si esprima nella competenza ad adottare in piena autonomia il proprio regolamento interno, visto che secondo una modifica allora apportata all’art. 248 TCE (ora art. 287 TFUE) quello della Corte dei conti deve essere approvato dal Consiglio. Mentre è vero piuttosto che il potere di auto-organizzazione e un’autonomia di funzionamento, per certi versi anche più marcati, sono oggi patrimonio di altre componenti del sistema.
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Non smentisce quanto appena osservato il fatto che già prima del Trattato di Nizza la Corte di giustizia potesse stabilire il proprio regolamento di procedura solo con «l’approvazione unanime del Consiglio» (art. 245, comma 3, TCE). Ciò era (ed è) motivato dalla particolare natura di tale regolamento, diretto com’è soprattutto ai soggetti che possono prendere parte al processo dinanzi alla Corte. In proposito cfr. comunque Parte Seconda, Cap. II, par. 5.
In ogni caso, dal possesso della qualità di «istituzione» discende, oltre a una certa autonomia sul piano finanziario e della gestione del personale, l’applicabilità delle norme dei Trattati che genericamente si riferiscono alle istituzioni, quali ad esempio l’art. 341 TFUE relativo alla fissazione della loro sede («[l]a sede delle istituzioni dell’Unione è fissata d’intesa comune dai governi degli Stati membri») e l’art. 342 dello stesso Trattato concernente il regime linguistico («[i]l regime linguistico delle istituzioni dell’Unione è fissato, senza pregiudizio delle disposizioni previste dallo statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, dal Consiglio, che delibera all’unanimità mediante regolamenti»). Non è però sempre vero il contrario, nel senso che la mancanza di quella qualità non esclude necessariamente che una data norma dei Trattati non si applichi anche ad organismi diversi dalle istituzioni. Sarebbe del resto illogico ritenere, almeno quando si tratti di norme risalenti al testo originario del TCEE, che gli autori di questo abbiano voluto limitare l’ambito di applicazione delle norme in questione attraverso l’uso del termine istituzioni, dato che al momento della loro formulazione il panorama istituzionale della Comunità si esauriva effettivamente nelle istituzioni di cui all’allora art. 4, par. 1, di quel Trattato (poi art. 7, par. 1, TCE). È quindi da pensare che l’effettiva limitazione o meno alle sole istituzioni delle norme il cui ambito di applicazione è definito facendo ricorso a tale termine, debba dipendere da un’interpretazione caso per caso. Si è fatto ad esempio esplicito ricorso al citato art. 341 TFUE, benché vi si parli esclusivamente di «sede delle istituzioni», per fissare la sede non solo di queste, ma anche degli altri organismi previsti dal diritto primario, così come delle c.d. agenzie europee. La sede della BEI, del CES, del CDR e di Europol, ora fissata con quella delle istituzioni nel Protocollo (n. 6) sulle sedi delle istituzioni e di determinati organi, organismi e servizi dell’UE, allegato ai Trattati, è stata infatti inizialmente stabilita con dec. 12 dicembre 1992, adottata di comune accordo dai rappresentanti dei governi degli Stati membri (GUCE C 341, 1). Quanto alle agenzie, si vedano le decisioni adottate di comune accordo dai rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti a livello di capi di Stato o di governo, del 29 ottobre 1993 (GUCE C 323, 1), del 13 dicembre 2003 (dec. 2004/97/CE, Euratom, GUUE L 29/2004, 15), e dell’11 dicembre 2006 (sulla sede dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere: dec. 2006/996/CE, GUUE L 403, 61), nonché la decisione presa direttamente a livello di capi di Stato o di governo sulla sede dell’Agenzia dell’UE per i diritti fondamentali e dell’Agenzia comunitaria per la pesca (Consiglio europeo del 12-13 dicembre 2003, Allegato alle conclusioni della presidenza). Di recente, e già sotto il vigore del Trattato di Lisbona, si veda la dec. 2009/913/UE adottata di comune accordo dai rappresentanti dei governi degli Stati membri, del 7 dicembre 2009, relativa alla fissazione della sede dell’Agenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia (GUUE L 322, 39), agenzia creata con reg. (CE) n. 713/2009 del PE e del Consiglio, del 13 luglio 2009 (GUUE L 211, 1). Va peraltro osservato che un riferimento esplicito, accanto alle istituzioni, ad organismi creati da quest’ultime, quali le agenzie europee, compare per la prima volta nei Trattati in occasione del Trattato di Amsterdam, con l’introduzione nel TCE dell’art. 286 relativo alla protezione dei dati personali: «… gli atti comunitari sulla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento
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dei dati personali …. Si applicano alle istituzioni e agli organismi istituiti dal presente trattato o sulla base del medesimo» (par. 1) e si crea «un organo di controllo indipendente incaricato di sorvegliare l’applicazione di detti atti alle istituzioni e agli organismi comunitari».
La giurisprudenza della Corte di giustizia sembra, in effetti, confermare questa conclusione. In particolare, facendo leva sul principio del rispetto dell’equilibrio istituzionale la Corte ha escluso l’applicabilità a un organo non enumerato tra le istituzioni dell’allora art. 7, par. 1, TCE, di una norma che menzionava unicamente queste ultime, quando ciò avrebbe portato ad attribuire prerogative ulteriori a tale organo. Al contrario, essa ha ritenuto che il riferimento alle istituzioni contenuto in una norma dei Trattati vada inteso come non limitato alle sole istituzioni, ma inclusivo di ogni altro organismo dagli stessi previsto o in applicazione di essi istituito con il compito di contribuire alla realizzazione degli scopi dell’Unione, quando ciò serviva a meglio assicurare la tutela dei diritti dei terzi. Per un esempio della prima ipotesi si veda le sentenze della Corte 4 febbraio 1982, 828/79, Adam c. Commissione, 269, e 1253/79, Battaglia c. Commissione, 297, rispettivi punti 26: «[i] trattati istitutivi delle Comunità contengono disposizioni che precisano quali sono le istituzioni delle tre Comunità. Il Comitato economico e sociale e la Corte dei conti non rientrano fra queste istituzioni. Ne consegue che la consultazione del Comitato economico e sociale e della Corte dei conti non era obbligatoria». Per la seconda ipotesi si rinvia, innanzitutto, a talune pronunce riguardanti la Banca europea degli investimenti (BEI): «il termine “istituzione” usato dall’art. 215, comma 2, [TCEE (poi art. 288, comma 2 TCE e ora art. 340 TFUE)] non va inteso nel senso che comprende solo le istituzioni della Comunità elencate nell’art. 4, par. 1, [TCEE (poi art. 7, par. 1, TCE)], ma come includente anche, in considerazione del sistema di responsabilità extracontrattuale sancito dal Trattato, gli organismi come la Banca» (Corte giust. 2 dicembre 1992, C-370/89, SGEEM e Etroy c. BEI, I2583, punto 16); «organismo comunitario», la Banca, che «ha il compito di contribuire alla realizzazione degli scopi della Comunità e pertanto si colloca, in base al Trattato, nel contesto comunitario» (Corte giust. 3 marzo 1988, 85/86, Commissione c. BEI, 1281, punto 29). Ciò perché sarebbe «in contrasto con l’intenzione degli autori del Trattato il fatto che, quando la Comunità agisce attraverso un organismo comunitario istituito dal Trattato e autorizzato ad agire in nome e per conto di essa, essa possa eludere le conseguenze del combinato disposto degli artt. 178 [poi 235 TCE ed ora 352 TFUE] e 215, comma 2, del Trattato [TCEE], che intendono riservare alla competenza della Corte i casi in cui la responsabilità extracontrattuale della Comunità nel suo insieme può sorgere nei confronti di terzi» (Sentenza SGEEM e Etroy c. BEI, cit., punto 15). Si veda anche, per lo stesso ragionamento svolto nei confronti del Mediatore europeo, Trib. 10 aprile 2002, T-209/00, Lamberts c. Mediatore europeo, II-2203, punto 49. In relazione, invece, a norme diverse dei Trattati e a un differente organismo della Comunità (il Centro europeo per lo sviluppo della preparazione professionale), ma comunque in senso analogo, Corte giust. 13 maggio 1982, 16/81, Alaimo c. Commissione, 1559, punto 12 ss.
3. Principi di funzionamento del sistema istituzionale. L’equilibrio istituzionale e la leale collaborazione Nell’affermare che «ciascuna istituzione agisce nei limiti delle attribuzioni che le sono conferite dai Trattati», l’art. 13, par. 2, TUE trasporta sul piano dei rapporti tra le istituzioni il principio delle competenze di attribuzione che l’art. 5, par. 2, dello stesso Trattato sancisce in relazione all’azione dell’Unione in quanto tale.
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Nelle attribuzioni conferite a ciascuna istituzione, da esercitare «secondo le procedure, condizioni e finalità» previste dai Trattati, si riflette l’equilibrio istituzionale voluto dai redattori di questi. Come ha osservato, infatti, la Corte di giustizia (22 maggio 1990, C-70/88, Parlamento c. Consiglio, I-4529, punti 21-22), parlando dell’allora TCE, questo ha «instaurato un sistema di ripartizione delle competenze fra le varie istituzioni della Comunità secondo il quale ciascuna svolge una propria specifica funzione nella struttura istituzionale della Comunità e nella realizzazione dei compiti affidatile. Il rispetto dell’equilibrio istituzionale comporta che ogni istituzione eserciti le proprie competenze nel rispetto di quelle delle altre istituzioni. Esso impone altresì che possa essere sanzionata qualsiasi eventuale violazione di detta regola». Da questo punto di vista, l’equilibrio istituzionale disegnato dai Trattati costituisce «una garanzia fondamentale» non solo delle prerogative delle istituzioni in quanto tali, ma anche, attraverso quelle prerogative, della posizione di tutti i soggetti di diritto (Stati membri o soggetti individuali), cui si indirizza l’ordinamento. Quell’equilibrio è perciò da considerare violato sia quando un’istituzione affidi l’esercizio delle proprie prerogative ad altri, delegando poteri discrezionali che implicano un’ampia libertà di valutazione (Corte giust. 13 giugno 1958, 9/56 e 10/56, Meroni c. Alta Autorità, 11, p. 41), sia quando essa voglia invece estendere le proprie attribuzioni a discapito di quelle spettanti alle altre istituzioni (Corte giust. 10 luglio 1986, 149/85, Wybot, 2391, punto 23). Nel quadro delle rispettive attribuzioni, ciascuna istituzione gode di un potere di auto-organizzazione, che tanto le altre istituzioni, quanto gli Stati membri devono rispettare. D’altra parte, l’autonomia che le istituzioni traggono dal potere di autoorganizzazione incontra anch’essa un limite nel rispetto dell’equilibrio istituzionale e, più in generale, delle norme dei Trattati. Ad esempio, come ha sottolineato la Corte di giustizia in una serie di sentenze, al centro delle quali vi erano talune decisioni del PE volte a dislocare a Bruxelles parti delle sue strutture alterando la ripartizione delle sue sedi di lavoro stabilita, come abbiamo visto, dai governi degli Stati membri, il potere del Parlamento europeo di «garantire il proprio buon funzionamento e lo svolgimento delle sue procedure» non può spingersi fino a vanificare le disposizioni dei Trattati – nella fattispecie l’art. 289 TCE (ora art. 341 TFUE) sulla sede delle istituzioni – che attribuiscono ad altri la competenza a decidere di aspetti del proprio funzionamento (10 febbraio 1983, 230/81, Lussemburgo c. Parlamento, 255, punto 38). Analogamente, ma con riferimento questa volta alla Commissione, la Corte ha anche precisato che le procedure di delega interna di poteri a singoli membri di questa non potrebbero attentare al principio di collegialità su cui, come si dirà, si basa il funzionamento della Commissione. E ciò perché «il principio di collegialità così stabilito si fonda sull’eguaglianza dei membri della Commissione nella partecipazione all’adozione di una decisione e, in particolare, implica, da un lato, che le decisioni siano deliberate in comune e, dall’altro, che tutti i membri del collegio siano collettivamente responsabili, sul piano politico, del complesso delle decisioni adottate» (23 settembre 1986, 5/85, Akzo Chemie c. Commissione, 2585, punto 30).
L’altro principio che governa i rapporti tra le istituzioni è quello di leale cooperazione. Tale principio è ora esplicitamente consacrato nell’art. 13, par. 2, TUE, ma è anch’esso di origine giurisprudenziale. La Corte lo ha a suo tempo desunto, infatti, dal dovere di cooperazione con le istituzioni dell’Unione imposto agli Stati membri dall’allora art. 10 TCE (ora art. 4, par. 3, TUE), affermando l’esistenza di un corrispondente obbligo di leale cooperazione tra le istituzioni.
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Una prima affermazione in questo senso la Corte di giustizia l’ha fatta in relazione al dialogo che si instaura tra le istituzioni nel quadro della procedura di bilancio: nell’ambito di quel dialogo, disse la Corte in una sentenza del 1988, «prevalgono gli stessi obblighi reciproci di leale cooperazione che […] disciplinano i rapporti fra gli Stati membri e le istituzioni comunitarie» e che impongono di rispettare le rispettive prerogative (sentenza 27 settembre 1988, 204/86, Grecia c. Consiglio, punto 16). Essa ha poi ribadito di recente e in via generale il punto, sottolineando come ciascuna istituzione sia tenuta a «rispettare il dovere di leale cooperazione tra le istituzioni riconosciuto dalla giurisprudenza […] e dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, esplicitamente sancito dall’art. 13, par. 2, seconda frase, TUE» (sentenza 24 novembre 2010, C-40/10, Commissione c. Consiglio, I-12043, punto 80; ma si veda già prima di Lisbona sentenza 10 dicembre 2002, C-29/99, Commissione c. Consiglio, I-11221, punto 69).
Il principio di leale cooperazione tra le istituzioni non impone solo di rispettare le attribuzioni rispettive, ma autorizza anche la messa in atto di procedure che permettono di assicurare il buon svolgimento del processo decisionale. È stato così ritenuto che la violazione di questo obbligo possa giustificare una lesione delle prerogative dell’istituzione responsabile, consentendo, ad esempio, l’adozione di un atto da parte del Consiglio senza attendere il prescritto parere del Parlamento europeo, per il fatto che quest’ultimo ne aveva ritardato ingiustificatamente l’emanazione (Corte giust. 30 marzo 1995, C-65/93, Parlamento c. Consiglio, I-643, punto 27 s.). Sempre facendo leva sul principio della leale cooperazione, la Corte ha poi concluso (19 marzo 1996, C-25/94, Commissione c. Consiglio, I-1469, punto 49 s.) per l’invalidità di un atto del Consiglio adottato in violazione di un accordo interistituzionale da lui concluso con la Commissione, proprio perché un accordo del genere è espressione dell’obbligo di cooperazione tra le istituzioni e la sua violazione si configura come una violazione di quell’obbligo (vedi anche infra, p. 185 s.).
4. Sistema istituzionale dell’Unione e parlamenti nazionali Prima di passare all’esame delle singole istituzioni, va osservato come, a seguito del Trattato di Lisbona, nell’esercizio di alcune delle loro funzioni le istituzioni dell’Unione a carattere più marcatamente politico sono tenute a confrontarsi anche con i parlamenti nazionali. Come prevede, infatti, il nuovo art. 12 TUE, questi sono oggi chiamati a contribuire attivamente al buon funzionamento dell’Unione. A questo fine, i Trattati coinvolgono formalmente i parlamenti degli Stati membri in una serie di procedure dell’Unione, facendo degli stessi, in una certa misura, dei protagonisti in prima persona della vita istituzionale dell’Unione. A parte il ruolo che, come si vedrà (p. 429 s.), essi esercitano nel quadro del controllo sul rispetto del principio di sussidiarietà disciplinato dal relativo Protocollo (n. 2), si tratta nella maggior parte dei casi dell’esplicita previsione di una loro informazione diretta da parte delle istituzioni dell’Unione responsabili di determinate procedure, accompagnata dall’obbligo di quelle istituzioni di sospendere la procedura per un tempo sufficiente a permettere un’eventuale reazione dei parlamenti nazionali. È poi prevista l’associazione di questi al controllo politico sulle due agenzie dell’Unione (Eurojust ed Europol) operanti nei settori della cooperazione giudiziaria in
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materia penale e di polizia, e alla valutazione sull’attuazione delle politiche dell’Unione nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. I parlamenti nazionali possono infine bloccare direttamente, senza la mediazione dei rispettivi governi, decisioni delle istituzioni: nel quadro del procedimento legislativo di adozione di atti dell’Unione in materia di diritto di famiglia, ad esempio, è sufficiente che un parlamento nazionale comunichi entro sei mesi dal ricevimento della proposta della Commissione la sua opposizione a questa, perché la decisione del Consiglio non possa più essere adottata. Per quanto riguarda l’informazione diretta dei parlamenti nazionali di cui alla lett. a) del citato art. 12 TUE, il Protocollo (n. 1) sul ruolo dei parlamenti nazionali nell’UE, da un lato prevede l’obbligo della Commissione di trasmettere ad essi i suoi documenti di consultazione, il programma legislativo e gli altri strumenti di programmazione legislativa o di strategia politica contestualmente alla loro trasmissione al Parlamento europeo e al Consiglio (art. 1), nonché quello dei rispettivi proponenti (vedi al riguardo p. 195 s.) di trasmettere loro tutti i progetti di atti legislativi indirizzati al Parlamento europeo e al Consiglio (art. 2); dall’altro lato, e in relazione a questo secondo adempimento, dispone che tra l’invio del progetto legislativo e la data della sua iscrizione all’ordine del giorno del Consiglio per adozione deve trascorrere un periodo di otto settimane (art. 4), così da permettere ai parlamenti nazionali di formulare eventuali pareri in materia di sussidiarietà (art. 3), ovvero eventuali osservazioni o pareri sul merito delle proposte, come previsto dal meccanismo del c.d. «dialogo politico» con i parlamenti nazionali, instaurato in via unilaterale dalla Commissione fin dal 2006, quasi a titolo di anticipo di quanto sarebbe poi stato stabilito dal Trattato di Lisbona (si veda la Comunicazione del 10 maggio 2006, COM (2006) 211, 10, con cui la Commissione manifestò appunto l’intenzione di “trasmettere direttamente tutte le nuove proposte e i documenti di consultazione ai parlamenti nazionali, chiedendo loro di esprimere osservazioni e pareri al fine di migliorare il processo di elaborazione delle politiche»; intenzione poi confermata il 1° dicembre 2009, giorno dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, da una lettera del Presidente Barroso). È poi previsto (lett. d) che i parlamenti nazionali siano informati di ogni domanda di adesione all’UE (art. 49 TFUE) e (lett. d) che partecipino alle procedure di revisione dei Trattati disciplinate dall’art. 48 TUE. In quest’ultimo quadro, peraltro, il par. 7 di questo articolo consente al parlamento di uno Stato membro, con un meccanismo analogo a quello previsto dal citato art. 81 TFUE per l’adozione di atti dell’Unione in materia di diritto di famiglia, di bloccare l’adozione da parte del Consiglio europeo di una decisione di revisione semplificata, manifestando la sua opposizione alla relativa proposta entro sei mesi dalla sua trasmissione da parte dello stesso Consiglio europeo (al riguardo cfr. anche p. 137 s.). Quanto invece al coinvolgimento dei parlamenti nazionali nel funzionamento dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia di cui alla lett. c) dell’art. 12, esso si è finora concretizzato solo per quanto riguarda la loro associazione al controllo politico su Europol: l’art. 51 del reg. (UE) 2016/794 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2016, che è venuto a disciplinare l’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione nell’attività di contrasto (Europol) in sostituzione dell’originaria decisione istitutiva del 6 aprile 2009 (decisione 2009/371/GAI del Consiglio), ha creato infatti un «gruppo specializzato di controllo parlamentare congiunto», composto dai parlamenti nazionali e dalla commissione competente del Parlamento europeo (par. 1), incaricato di esercitare «un monitoraggio politico delle attività di Europol nell’adempimento della sua missione, anche per quanto riguarda l’impatto di tali attività sui diritti e sulle libertà fondamentali delle persone fisiche» (par. 2). Non sono stati invece ancora attuati né l’analogo coinvolgimento previsto per Eurojust, né le modalità di informazione dei parlamenti nazionali sulla valutazione generale delle politiche dell’Unione nel quadro dello spazio di libertà sicurezza e giustizia, secondo quanto previsto dall’art. 70 TUE. In ogni caso essi sono tenuti informati anche dei lavori del Comitato permanente per la cooperazione operativa in materia di sicurezza interna del Consiglio
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dell’Unione, che è stato creato in attuazione dell’art. 71 TFUE (si veda l’art. 6, par. 2, della dec. 2010/131/UE del Consiglio del 25 febbraio 2010, istitutiva del Comitato). Per la verità forme di partecipazione dei parlamenti nazionali alla vita dell’Unione sono attive anche da prima di Lisbona, in particolare sotto la veste di una cooperazione interparlamentare strutturata tra il Parlamento europeo e i parlamenti degli Stati membri. L’organismo principale di questa cooperazione è la Conferenza degli organi parlamentari specializzati negli affari europei dei parlamenti dell’Unione europea (COSAC), da questi ultimi autonomamente istituita fin dalla fine degli anni ’80, e oggi formalizzata negli stessi Trattati, insieme con l’idea stessa della cooperazione interparlamentare, attraverso gli artt. 9 e 10 del citato Protocollo (n. 1) sui parlamenti nazionali. Essa è diretta a permettere lo scambio tra di essi (Parlamento europeo e parlamenti degli Stati membri) di informazioni e di buone pratiche nonché una discussione congiunta di temi europei di interesse comune al fine dell’eventuale invio alle istituzioni dell’Unione di contributi non vincolanti né per esse, né per i singoli parlamenti nazionali. In tempi più recenti, poi, alla COSAC, organismo a competenza generale sulle questioni europee, sono venuti ad affiancarsi due analoghe conferenze interparlamentari specializzate, rispettivamente competenti per il settore della politica estera e di sicurezza comune e per l’area della governance economica e delle politiche di bilancio dell’Unione. La sessione istitutiva della COSAC si è tenuta in effetti a Parigi il 16-17 novembre 1989. Essa è composta da sei membri degli organismi specializzati negli affari europei di ogni parlamento nazionale (in pratica le commissioni parlamentari competenti per gli affari europei) e da sei membri in rappresentanza del Parlamento europeo. È prevista inoltre la partecipazione di tre osservatori dei parlamenti dei paesi candidati all’adesione. Le sue riunioni, che sono disciplinate da un regolamento interno del maggio 2011 (vedilo in GUUE C 229, 1), si svolgono una volta a semestre nella capitale dello Stato cui spetta in quel semestre la presidenza del Consiglio dell’Unione. Le delibere sono prese in linea di principio per consenso, o, laddove questo non vi sia, con la maggioranza qualificata di almeno ¾ dei voti espressi che rappresenti almeno la metà di tutti i voti, voti che sono assegnati alla delegazione di ciascun parlamento in numero di due. Quanto invece alle Conferenze specializzate, ambedue sono state istituite dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Si tratta della Conferenza interparlamentare per la politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) e della Conferenza interparlamentare sulla stabilità, il coordinamento economico e la governance nell’Unione europea. A differenza dell’altra conferenza specializzata e della COSAC, entrambe nate su decisione autonoma dei parlamenti interessati, quest’ultima è stata istituita dall’art. 13 del già citato Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria del 2012 (meglio noto come Fiscal Compact, e meglio descritto più avanti, p. 700 ss.). Ma ambedue queste conferenze specializzate nascono all’inizio di questo decennio non casualmente, ma in ragione, la prima, degli sviluppi recati dal Trattato di Lisbona al settore della PESC, la seconda, di quelli impressi alla governance economica europea dalla risposta data dall’Unione europea alla crisi economica e finanziaria scoppiata alla fine del decennio precedente; sviluppi tradottisi, in un caso come nell’altro, in un riconoscimento di maggior poteri all’Unione senza che gli stessi fossero più di tanto accompagnati, per il carattere spiccatamente governativo delle soluzioni prese, da un maggior controllo parlamentare europeo e nazionale. Va precisato che organo promotore della cooperazione interparlamentare europea, ispiratore se non creatore delle conferenze appena citate, è la Conferenza dei presidenti dei parlamenti dell’Unione europea, nata negli anni ’60. Il sistema complessivo della cooperazione interparlamentare europea è sostenuto da una piattaforma per lo scambio elettronico delle informazioni relative alle attività parlamentari attinenti all’Unione europea, denominata IPEX (InterParliamentary EU information eXchange).
Non c’è dubbio, però, che il coinvolgimento dei parlamenti nazionali prodotto dai meccanismi introdotti dal Trattato di Lisbona (o almeno da alcuni di essi) rap-
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presenta di per sé una novità rispetto alle forme di cooperazione interparlamentare appena citate. E ciò non solo per la sua maggiore incisività – produttivo com’è, per lo più, di conseguenze formali –, ma anche perché esso non ha come finalità di far emergere ed esprimere una generica posizione comune del sistema parlamentare europeo, ma di far intervenire in via “individuale” i singoli parlamenti nazionali nella sfera europea. L’idea sulla quale è stato finora modellato il sistema istituzionale dell’Unione è quella di una rappresentanza unitaria degli Stati attraverso i rispettivi governi: sono sempre stati questi ad esprimere la posizione del relativo Stato in seno all’Unione, senza che assumessero rilevanza le modalità di formazione di quella posizione a livello nazionale, né l’eventuale divergenza tra la volontà del parlamento nazionale e la posizione manifestata dal governo in seno al Consiglio. Adesso invece, con i meccanismi di Lisbona, i parlamenti nazionali sono chiamati a esprimere, se del caso, proprie posizioni autonome e potenzialmente contrastanti con quelle dei rispettivi esecutivi, dando vita, di conseguenza, a un loro controllo politico diretto su aspetti del funzionamento dell’Unione. Il loro coinvolgimento in queste forme finisce però per modificare in qualche modo anche la valutazione finora invalsa dell’assetto istituzionale dell’Unione in quanto tale. Quando si guardi a quel coinvolgimento dal punto di vista del Parlamento europeo, infatti, appare inevitabile ricordare come sia stato finora principio indiscusso che a livello dell’Unione i cittadini partecipano all’esercizio del potere attraverso il Parlamento europeo, e lo stesso art. 10 TUE, come si vedrà, consacra oggi quel principio. La scelta fatta dal Trattato di Lisbona di affiancare formalmente i parlamenti nazionali al Parlamento europeo nell’esercizio del controllo democratico su talune attività dell’Unione appare quindi non solo poco coerente con quel principio, ma rischia anche di mettere in discussione la piena legittimità del Parlamento europeo a rappresentare i cittadini degli Stati membri all’interno del sistema istituzionale.
5. Le istituzioni politiche Tra le istituzioni elencate nell’art. 13, par. 1, TUE spiccano in primo luogo quelle che si potrebbero definire «politiche»: il Consiglio europeo, il Consiglio, il Parlamento europeo, la Commissione. Questo loro carattere è motivato non solo dall’impronta politica che, come si vedrà, contraddistingue comunque la loro composizione, ma anche dalle funzioni che le stesse assolvono all’interno del sistema istituzionale. Ciascuna di esse partecipa – con ruoli per lo più differenti, ma in ogni caso da protagonista – al processo decisionale dell’Unione; ciascuna orienta, attraverso le proprie specifiche funzioni, la vita e gli indirizzi politici dell’Unione. È quindi comprensibile che il rapporto esistente tra queste istituzioni, quale definito dalle successive modifiche dei Trattati, ma anche dalle dinamiche della prassi, abbia finito per conformare l’effettivo assetto istituzionale dell’Unione e gli equilibri di potere al suo interno. In passato, quel rapporto si giocava soprattutto all’interno del triangolo formato da Consiglio, Parlamento europeo e Commissione, quali organi rappresentativi ri-
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spettivamente degli Stati membri (intesi come apparati di governo), dei popoli dell’Unione e dell’interesse generale di questa. E grazie anche alle successive modifiche avutesi nel tempo, il rapporto tra di essi è venuto gradualmente costruendosi all’insegna di un sostanziale equilibrio tra la componente governativa (il Consiglio) e quella non governativa (Parlamento europeo e Commissione) di questo triangolo. In questo assetto il Consiglio europeo occupava prima del Trattato di Lisbona una posizione peculiare e del tutto originale. Pur facendone sostanzialmente parte, esso non era annoverato tra le istituzioni dell’Unione, né operava come una di loro: era sottratto ai controlli e ai limiti, e più in generale alle regole che governano l’agire delle istituzioni e il rapporto tra di esse; e le sue deliberazioni non si traducevano né in voti, né in atti formali. Insomma il Consiglio europeo si presentava come un’istanza caratterizzata da grande informalità, in cui i capi di Stato o di governo, insieme con i rispettivi ministri degli esteri e il Presidente della Commissione, definivano in comune, senza però entrare nei normali meccanismi decisori dell’Unione, i grandi orientamenti politici e le linee di sviluppo di questa, e all’occorrenza componevano in via di fatto, nella loro veste di massime istanze politiche, i contrasti che ostacolavano o bloccavano l’azione del Consiglio. Con il suo inserimento tra le istituzioni dell’Unione, il Consiglio europeo ha subito oggi un’evoluzione che si ripercuote sugli equilibri complessivi dell’assetto istituzionale sopra descritto, anche perché la trasformazione in istituzione è stata accompagnata da modifiche rilevanti delle sue regole di funzionamento. In primo luogo, come si vedrà, almeno quando è chiamato al voto la sua composizione finisce per coincidere in buona sostanza con quella del Consiglio. Probabilmente unica nel panorama degli enti interstatali, l’Unione si trova così ad avere due organi a composizione intergovernativa formalmente distinti, ma sostanzialmente identici. In questo modo, peraltro, la rappresentanza dei governi a livello dell’Unione cessa di essere unitaria, per dare invece rilievo formale al suo interno, attraverso la previsione di una sede istituzionale distinta per i capi di Stato o di governo e per i ministri, all’articolazione «gerarchica» interna agli esecutivi nazionali. In secondo luogo, essendo stata accompagnata dall’attribuzione al Consiglio europeo di una serie di funzioni produttive di conseguenze formali sui processi decisionali dell’Unione, questa riorganizzazione della rappresentanza dei governi sembra ripercuotersi anche sull’equilibrio istituzionale che ha finora governato il processo d’integrazione europea. Pur senza modifiche formali del rapporto tra le istituzioni che abbiamo visto comporre il triangolo istituzionale, quell’equilibrio appare oggi spostato a vantaggio della componente governativa. Sdoppiata in due istituzioni solo apparentemente dissimili, ma formalmente separate, questa è allo stesso tempo parte (attraverso il Consiglio) di quel triangolo istituzionale e (attraverso il Consiglio europeo) istanza ad esso esterna e sovraordinata.
6. a) Il Consiglio europeo Il Consiglio europeo riunisce i capi di Stato o di governo degli Stati membri insieme al Presidente della Commissione. Per composizione e funzioni, esso è l’istitu-
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zione di carattere più squisitamente politico nel panorama istituzionale dell’Unione. L’art. 15, par. 1, TUE gli attribuisce, non a caso, una generale competenza a dare «all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e [a definirne] gli orientamenti e le priorità politiche generali». Oltre a questo ruolo generale di indirizzo politico, le cui modalità di esercizio non sono regolate puntualmente nei Trattati, questi ultimi assegnano al Consiglio europeo anche compiti più specifici, che riflettono però anch’essi la natura politica dell’istituzione. Spettano, infatti, al Consiglio europeo le decisioni «istituzionali» di maggior sensibilità politica per la vita dell’Unione: è lui che propone o nomina le cariche più rilevanti non affidate direttamente alla competenza degli Stati membri; è lui che decide di aspetti importanti della composizione e del funzionamento di altre istituzioni; è lui che ha la responsabilità principale in materia di revisione dei Trattati o di modifica di talune delle loro disposizioni; è ancora lui che prende decisioni di rilievo politico per la membership dell’Unione. Oltre a nominare il suo Presidente, il Consiglio europeo, come si vedrà nei paragrafi successivi, propone al PE il Presidente della Commissione e nomina la Commissione nella sua interezza dopo l’approvazione da parte del PE (art. 17 TUE); nomina (e revoca) l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (art. 18 TUE); nomina il comitato esecutivo della BCE (art. 283 TUE). Ad esso spetta decidere della ripartizione dei seggi al PE tra gli Stati membri (art. 14 TUE), così come dell’eventuale modifica del numero dei membri della Commissione e del loro sistema di rotazione in caso di composizione ridotta della stessa (art. 17 TUE); ed è ugualmente di sua competenza la decisione sulle formazioni in cui si riunisce il Consiglio dell’Unione e sul sistema di rotazione della loro presidenza (art. 236 TFUE). Il Consiglio europeo decide inoltre dell’estensione dei casi di votazione a maggioranza qualificata del Consiglio nell’ambito della PESC (art. 31 TUE); del passaggio ad una difesa comune dell’Unione (art. 42 TUE); delle revisioni semplificate dei Trattati, così come dell’avvio e delle modalità di svolgimento delle procedure di revisione ordinaria (art. 48 TUE); dell’eventuale estensione delle attribuzioni della futura procura europea (art. 86 TFUE); del passaggio alla maggioranza qualificata per l’adozione del quadro finanziario pluriennale dell’Unione (art. 312 TFUE); di talune modifiche dello Statuto della BCE (art. 40 del Protocollo (n. 4) sullo Statuto del SEBC e della BCE). Infine, i criteri di ammissibilità di nuovi Stati membri sono fissati, come si è visto (supra, p. 42 s.), dal Consiglio europeo (art. 49 TUE), cui spetta anche formulare gli orientamenti per la fissazione delle condizioni di recesso di uno Stato già membro all’Unione e prorogare se del caso la data in cui tale recesso diviene effettivo (art. 50 TUE). Ed è di sua competenza la constatazione dell’esistenza di una violazione grave e persistente dei valori dell’Unione da parte di uno Stato membro, che può giustificare l’adozione di sanzioni nei confronti dello stesso (art. 7 TUE). Così come è ancora il Consiglio europeo che può modificare lo status nei confronti dell’Unione dei paesi e territori rispetto ai quali alcuni Stati membri esercitano un legame particolare di sovranità (art. 355 TFUE). In relazione al suo ruolo di indirizzo politico, va osservato che in due casi anch’esso trova attuazione attraverso atti formali. Si tratta dell’art. 22 TUE, che affida al Consiglio europeo il compito di individuare gli interessi e gli obiettivi strategici dell’Unione nell’ambito della PESC e negli altri settori dell’azione esterna, e dell’art. 68 TFUE, dal quale – come si dirà – è chiamato a definire gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. È da notare che, prima del Trattato di Lisbona, molte delle decisioni sopra citate spettavano non al Consiglio europeo, bensì al Consiglio dell’unione, seppur riunito, per imposizione degli stessi Trattati, a livello dei capi di Stato o di governo.
Benché lo stesso art. 15 TUE escluda che il Consiglio europeo eserciti funzioni
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legislative, alcune delle sue attribuzioni non sono prive di impatti sull’azione legislativa delle istituzioni. Spetta ad esempio al Consiglio europeo, come si è appena detto, definire gli orientamenti strategici della programmazione legislativa dell’Unione nel settore dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Tradizionalmente, poi, il Consiglio europeo è chiamato a svolgere un ruolo di «arbitraggio» politico sui dossier, anche legislativi, di particolare rilevanza, quando gli stessi siano oggetto di contrasti suscettibili di bloccare l’azione dell’Unione. E soprattutto dopo il Trattato di Lisbona, alcune espressioni di quest’ultimo ruolo trovano una formalizzazione in disposizioni dei Trattati, che attribuiscono al Consiglio europeo il compito, in alcuni casi di trovare tra gli Stati membri l’accordo necessario a sbloccare una decisione del Consiglio dell’Unione (artt. 86 e 87 TFUE), in altri casi di mediare, prima dell’adozione da parte di quest’ultimo di un atto a maggioranza qualificata, tra la posizione della maggioranza e quella di uno Stato minorizzato. Si tratta delle ipotesi, già ricordate nel precedente Capitolo (p. 54 s.), in cui il Consiglio europeo può essere formalmente investito da almeno 9 Stati membri del compito di trovare un compromesso capace di ottenere il consenso di tutti i membri del Consiglio nel caso in cui non sia stato possibile trovare in seno a quest’ultimo l’unanimità necessaria per istituire la Procura europea (art. 86, par. 1, TFUE) o per stabilire misure riguardanti la cooperazione operativa di polizia tra le autorità competenti degli Stati membri (art. 87, par. 1, TFUE), ovvero può essere investito dello stesso compito da uno Stato membro che ritenga che una proposta di direttiva in materia di cooperazione giudiziaria penale (art. 82, par. 3, TFUE) o di diritto penale (art. 83, par. 3, TFUE) in corso di adozione da parte del Consiglio a maggioranza qualificata «incida su aspetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico penale». Quest’ultima ipotesi, che è comunemente definita «freno d’emergenza» (emergency brake), ricorre anche nel caso, citato di seguito nel testo, dell’adozione di atti in materia di sicurezza sociale, laddove gli stessi rischino di ledere aspetti importanti del relativo sistema di uno Stato membro (art. 48 TFUE), nonché in quelle limitate ipotesi in cui, come vedremo (p. 854 s.) il Consiglio può decidere nel quadro della PESC a maggioranza qualificata e uno Stato membro vi si opponga «per specificati motivi di politica nazionale». Una situazione intermedia tra quelle appena descritte è poi quella di cui all’art. 5, par. 4, del Protocollo (n. 19) sull’acquis di Schengen integrato nell’ambito dell’UE, ai sensi del quale uno Stato membro può chiedere al Consiglio europeo di adottare una decisione, che il Consiglio non sia stato in grado di prendere entro la scadenza prevista, cui l’Irlanda e/o il Regno Unito abbiano notificato di non voler partecipare.
Ma indipendentemente da esplicite previsioni dei Trattati, quali quelle appena ricordate, interventi del Consiglio europeo sull’attività legislativa delle istituzioni tendono in realtà a manifestarsi, ora come in passato, anche sotto altre forme. Non solo il Consiglio europeo continua a giocare il suo tradizionale ruolo di arbitraggio politico anche al di fuori delle ipotesi e dei meccanismi regolati nei Trattati. Ma sempre più spesso esso tende a discutere direttamente al suo livello dossier legislativi indipendentemente dall’esistenza o meno di un contrasto su di essi in seno al Consiglio. Lo fa assumendo direttamente l’iniziativa politica su taluni di questi dossier, come ha fatto, ad esempio, in occasione della sua riunione di dicembre 2012, con il c.d. pacchetto sulla vigilanza bancaria (v. Conclusioni del Consiglio europeo del 13-14 dicembre 2012, par. 9 ss.), ovvero intervenendo su proposte di atti già all’esame del Parlamento europeo e del Consiglio, come nel caso della proposta di regolamento di attuazione della cooperazione rafforzata in materia di protezione unitaria dei brevetti, rispetto alla quale il Consiglio europeo ha «proposto» modifiche puntuali del
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testo, sebbene lo stesso fosse ormai concordato tra le istituzioni legislative (Conclusioni del Consiglio europeo del 28-29 giugno 2012, par. 3). È anche successo che il Consiglio europeo abbia “imposto” al Consiglio, per l’adozione di una determinata decisione, scelte procedurali divergenti da quelle previste dai Trattati, come ha fatto con le sue conclusioni del 25 giugno 2015 (par. 4, lett. b), chiedendo agli Stati membri di decidere “per consenso” (come è in effetti avvenuto il 20 luglio successivo) in merito alla ripartizione tra gli Stati membri dei migranti provenienti dall’Italia e dalla Grecia, ripartizione poi integrata nell’art. 4 della decisione n. 2015/1523/UE del Consiglio del 14 settembre 2015 (GUUE L 239, 146), adottata questa a maggioranza qualificata, come previsto dalla sua base giuridica, l’art. 78, par. 3, TFUE. Investita indirettamente della questione, la Corte di giustizia ha osservato che «il principio dell’equilibrio istituzionale vieta che il Consiglio europeo modifichi tale regola [la maggioranza qualificata] imponendo al Consiglio, mediante conclusioni formulate ai sensi dell’art. 68 TFUE, una regola di voto all’unanimità» (Corte giust. 6 settembre 2017, C-643/15 e C-647/15, Slovacchia e Ungheria c. Consiglio, punto 148). In effetti, come si ricorderà, l’art. 68 si limita a stabilire che «il Consiglio europeo definisce gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa nello spazio di libertà sicurezza e giustizia».
Sul piano formale ovviamente, collocandosi al di fuori di espresse previsioni dei Trattati, questi interventi del Consiglio europeo hanno valore essenzialmente politico. Ciò fa sì che non sia di per sé automatico che la posizione assunta dai capi di Stato o di governo trovi poi seguito al livello dell’ordinario processo decisionale. Anche se nulla esclude che la traduzione in regole tecniche del compromesso politico può dar luogo, come talvolta è avvenuto, ad ulteriori motivi di contrasto tra gli Stati membri, questo risultato sarà evidentemente più probabile, in ragione della comune composizione governativa, quando il destinatario dell’intervento del Consiglio europeo è il solo Consiglio, e nella misura in cui spetti ad esso solamente tradurre in atti formali l’eventuale compromesso raggiunto a livello dei capi di Stato o di governo. Ma laddove il processo decisionale coinvolga altre istituzioni, come ad esempio il Parlamento europeo nel caso della procedura legislativa ordinaria, vi dovrà ovviamente essere anche il consenso di quest’ultimo perché ciò avvenga. Quando, invece, l’intervento del Consiglio europeo è fondato su una disposizione dei Trattati, questa gli ricollega talvolta conseguenze formali che si ripercuotono anche su altre istituzioni. Ai sensi del già citato art. 48 TFUE, ad esempio, il coinvolgimento del Consiglio europeo da parte di uno Stato membro che ritenga che una proposta in discussione nel quadro della procedura legislativa ordinaria lede aspetti importanti del suo sistema di sicurezza sociale, ha, come si vedrà meglio più avanti, l’effetto di impedire il proseguimento di una procedura decisionale di cui sono protagonisti, insieme al Consiglio, anche il Parlamento europeo e la Commissione: una volta adito il Consiglio europeo, infatti, la procedura legislativa è sospesa per essere poi, in caso di mancata pronuncia dello stesso Consiglio europeo entro quattro mesi che possa farla riassumere dal Consiglio, definitivamente interrotta. E stesso esito è da ritenere che abbia, anche nel silenzio al riguardo del Trattato, il ricorso al c.d. freno di emergenza nei casi disciplinati dagli ugualmente ricordati artt. 82 e 83 TFUE. Nell’ipotesi prevista, poi, dal Protocollo Schengen, come in quella di cui all’art. 31 TUE per la PESC, il Consiglio europeo, laddove raggiunga l’accordo al suo interno, rileva direttamente dal Consiglio la competenza ad adottare l’atto.
i) Con l’inserimento tra le istituzioni elencate all’art. 13 TUE, il Consiglio europeo vede completare la sua parabola «istituzionale» iniziata all’inizio degli anni ’60,
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quando i capi di Stato o di governo degli allora sei Stati membri della CEE iniziarono a riunirsi, per ragioni di volta in volta diverse, al di fuori dei normali meccanismi della Comunità. Queste riunioni, inizialmente saltuarie, divennero regolari a partire dal 1975 a seguito della decisione presa nel dicembre del 1974 dal Vertice di Parigi di procedere da quel momento in poi, sotto la nuova denominazione di Consiglio europeo, ad incontri periodici (tre per anno) dei capi di Stato o di governo accompagnati dai rispettivi ministri degli esteri.
Dopo un primo, e già citato, riconoscimento formale nell’AUE come istanza di cooperazione politica tra gli Stati membri, il Consiglio europeo, in cui era stato nel frattempo integrato come membro a pieno titolo il Presidente della Commissione, viene definitivamente inquadrato nel contesto dell’integrazione europea dal Trattato di Maastricht che, senza trasformarlo in una istituzione dell’appena creata Unione europea, ne fa appunto l’organo che «dà all’Unione l’impulso necessario al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti politici generali» (art. 4 TUE pre-Lisbona). Se l’acquisizione dello status di istituzione fa uscire il Consiglio europeo dall’ambiguità precedente, inserendolo a pieno titolo nel sistema istituzionale dell’Unione, non viene tuttavia meno la distinzione preesistente tra di esso e il Consiglio. Formalmente, del resto, mentre di quest’ultimo, come si vedrà, fanno parte i soli governi degli Stati membri, il Consiglio europeo è «composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal suo Presidente e dal Presidente della Commissione» (art. 15, par. 2, TUE). La differenza è duplice. Da un lato, la cerchia dei membri de jure del Consiglio europeo è più ampia di quella del Consiglio, ospitando anche il Presidente dello stesso Consiglio europeo che, come si vedrà, è ora distinto dagli altri membri governativi essendo un Presidente eletto, e il Presidente della Commissione, che nel caso del Consiglio può anche partecipare alle sue riunioni in luogo di un commissario, ma non ne è mai membro ufficiale. Dall’altro lato, ferma restando la natura intergovernativa del Consiglio europeo, perché i capi di Stato o di governo sono rappresentanti dei governi degli Stati membri, questi vi partecipano intuitu personae o, per meglio dire, officii. È non a caso esclusa la possibilità di un capo di Stato o di governo di farsi sostituire da un ministro, in caso di suo impedimento a partecipare a una riunione del Consiglio europeo. La previsione che al Consiglio europeo partecipano «i capi di Stato o di governo» è sostanzialmente costruita in funzione della necessità di tenere conto della particolare situazione della Francia, dove il capo dello Stato può presiedere l’Esecutivo e ha poteri di indirizzo in materia di politica estera ed europea. E infatti il Presidente della Repubblica francese è il solo capo di Stato a prendere parte al Consiglio europeo. Va poi osservato che in passato partecipavano al Consiglio europeo, per espressa previsione dell’art. 4, comma 2, TUE pre-Lisbona, anche i ministri degli affari esteri e un commissario, i quali assistevano rispettivamente i capi di Stato o di governo e il Presidente della Commissione nella trattazione dei punti all’ordine del giorno. Oggi è invece stabilito che ai lavori partecipa di pieno diritto solo l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, il quale, come si vedrà, è anche Vicepresidente della Commissione; mentre per i ministri è unicamente previsto che lo stesso Consiglio europeo possa decidere, ove l’ordine del giorno di una riunione lo
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richieda, che i capi di Stato o di governo possano farsi assistere da un ministro, senza peraltro che questo debba necessariamente essere il ministro degli esteri. In questo caso la decisione su quale ministro debba assistere il Capo di Stato o di governo spetta evidentemente a quest’ultimo, mentre quella sulla possibilità di farsi assistere è una decisione collegiale del Consiglio europeo: benché il testo italiano dell’art. 15, par. 3, TUE, sembri lasciare intendere il contrario, i testi nelle altre lingue ufficiali dell’articolo sono del tutto espliciti al riguardo.
ii) Un’ulteriore novità recata dal Trattato di Lisbona è che la presidenza del Consiglio europeo non è più assicurata, come avveniva in precedenza, dal capo di Stato o di governo dello Stato membro cui spetta per rotazione la presidenza del Consiglio, bensì da un Presidente eletto dallo stesso Consiglio europeo, a maggioranza qualificata, per un mandato di due anni e mezzo rinnovabile una volta (art. 15, par. 5, TUE). La durata quinquennale del mandato, che nei fatti si rende così possibile, corrisponde a quella del PE e della Commissione, circostanza che dà conto della volontà di rendere possibile una coincidenza temporale tra la nomina del Presidente del Consiglio europeo e quella di alcuni degli altri principali incarichi di vertice delle istituzioni (anche il Presidente della Commissione ha un mandato di cinque anni). In effetti, il primo Presidente, Hermann Van Rompuy, è stato eletto dal Consiglio europeo per il periodo dal 1° dicembre 2009 al 31 maggio 2012 (dec. 2009/879/UE, del 1° dicembre 2009, GUUE L 315, 48), per essere poi confermato, per il periodo dal 1° giugno 2012 al 30 novembre 2014 (dec. 2012/151/UE, del 1° marzo 2012, GUUE L 77, 17), anno in cui si sono svolte le elezioni del PE ed è stata rinnovata la Commissione; a Van Rompuy è poi succeduto Donald Tusk, nominato dal 1° dicembre 2014 per un primo mandato (dec. 2014/638/UE del 30 agosto 2014, GUUE L 262, 5) e recentemente confermato per un secondo mandato che partirà il 1° giugno 2017 e scadrà il 30 novembre 2019 (dec. 2017/444/UE del 9 marzo 2017, GUUE L 67, 87), anno di scadenza dell’attuale legislatura europea e della Commissione attualmente in carica. Tale coincidenza agevola l’obiettivo perseguito dalla dichiarazione n. 6 allegata all’Atto finale della Conferenza intergovernativa di Lisbona, la quale invita a tener debitamente conto della necessità di rispettare la diversità geografica e demografica dell’Unione e dei suoi Stati membri nella scelta delle persone chiamate a occupare la carica di Presidente del Consiglio europeo, di Presidente della Commissione e di Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
La nomina a Presidente è incompatibile con un mandato nazionale. Laddove quindi venga scelto tra gli stessi membri del Consiglio europeo, egli deve dimettersi da capo di Stato o di governo. Dato che l’incompatibilità sussiste formalmente solo con un mandato nazionale, è invece in astratto ipotizzabile che possa essere eletto alla presidenza del Consiglio europeo il Presidente della Commissione, senza che lo stesso sia obbligato a lasciare l’incarico ricoperto. Al Presidente del Consiglio europeo spettano innanzitutto le funzioni strettamente legate alla preparazione e gestione dei lavori dell’istituzione: assicura la preparazione e la continuità delle riunioni, guida il dibattito e facilita il compromesso tra i membri, rappresenta l’istituzione dinanzi al Parlamento europeo, al quale riferisce dopo ogni riunione. Egli, inoltre, assicura, al suo livello, la rappresentanza esterna dell’Unione per le materie relative alla PESC. L’esercizio di queste funzioni da parte dei primi Presidenti eletti ha dato conto di una loro interpretazione estensiva rispetto a quanto sembrerebbe trasparire dalla lettera della norma. In particolare, il ruolo sempre più pervasivo acquisito dall’istituzione da lui presieduta, e sopra ricordato, ha talvolta portato il Presidente, nella ri-
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cerca del compromesso tra i capi di Stato o di governo, a sostituirsi alla Commissione nei compiti di riflessione e preparazione di iniziative legislative, contribuendo a sua volta alla deriva cui si è in precedenza accennato. iii) Il Consiglio europeo, che si è ora dato un proprio regolamento interno (dec. 2009/882/UE del Consiglio europeo, del 1° dicembre 2009, GUUE L 315, 51), si riunisce a Bruxelles due volte a semestre, ferma restando la possibilità di riunioni straordinarie su convocazione del suo Presidente. Mentre in passato le riunioni del Consiglio europeo si tenevano tradizionalmente nello Stato membro cui spettava la presidenza di turno, a seguito di una dichiarazione degli Stati membri adottata nel 2000 in occasione della Conferenza intergovernativa di Nizza (Dichiarazione n. 22, relativa al luogo di riunione dei Consigli europei), le riunioni si svolgono ora tutte a Bruxelles. Essa prevedeva, infatti, che «a decorrere dal 2002 una riunione del Consiglio europeo per ciascuna presidenza si terrà a Bruxelles. Quando l’Unione conterà diciotto membri, tutte le riunioni del Consiglio europeo avranno luogo a Bruxelles».
Prima del Trattato di Lisbona, in sintonia con il carattere esclusivamente politico delle sue deliberazioni, non erano previste le modalità di voto attraverso le quali si formava la volontà del Consiglio europeo; ma proprio perché l’efficacia delle sue deliberazioni non era affidata ad un carattere formalmente vincolante delle stesse, la regola era che esse fossero prese in ogni caso per consensus: la decisione era cioè considerata raggiunta, senza esercizio formale di un diritto di voto, quando il Presidente constatava dall’andamento della discussione che non vi erano obiezioni ostative da parte di nessun componente del Consiglio stesso, ivi compreso il Presidente della Commissione, che così contribuiva alla formazione della volontà collegiale. Anche dopo la trasformazione del Consiglio europeo in istituzione dell’Unione dotata di un suo formale potere di decisione, l’assunzione delle sue delibere rimane subordinata, in via generale, alla regola del consensus: secondo l’art. 15, par. 4, TFUE, infatti, «il Consiglio europeo si pronuncia per consenso, salvo nei casi in cui i Trattati dispongano diversamente». Nei casi, tuttavia, in cui è previsto che esso debba adottare atti formali, i Trattati gli impongono ora il ricorso a regole di voto formali. Queste sono le stesse che si applicano da sempre al Consiglio. Al pari di questo, infatti, il Consiglio europeo può essere ora chiamato a votare, a seconda di quanto stabilito dalla disposizione dei Trattati sulla cui base esso delibera, all’unanimità, a maggioranza semplice o a maggioranza qualificata. E queste regole di voto presentano, peraltro, quando applicate al Consiglio europeo, caratteristiche del tutto analoghe a quelle previste, come meglio si vedrà nei paragrafi successivi, per il Consiglio. L’unanimità si forma anche in presenza dell’astensione di uno o più membri del Consiglio europeo (art. 235, par. 1, comma 3, TFUE). La maggioranza semplice, data dalla metà più uno dei suoi membri, si applica alle delibere riguardanti il suo regolamento interno o, più genericamente, alle questioni di procedura (art. 235, par. 3, TFUE). Quanto infine alla maggioranza qualificata, anche per il Consiglio europeo essa si basa su di un sistema che tiene conto del peso demografico di ciascuno degli Stati membri, sistema che per la sua complessità conviene tuttavia trattare più avanti congiuntamente per il Consiglio europeo e il Consiglio (infra, par. 8).
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L’art. 235, par. 1, comma 2, TFUE prevede che «allorché il Consiglio europeo delibera mediante votazione, il Presidente e il Presidente della Commissione non partecipano al voto». Ciò pare certamente logico nel caso della votazione a maggioranza qualificata, proprio perché essa è costruita su un diverso peso, come si dirà, dei partecipanti al voto. Meno comprensibile è che ciò si applichi anche al voto all’unanimità o maggioranza semplice, visto che il Presidente e il Presidente della Commissione sono comunque membri a pieno titolo del Consiglio europeo. L’esclusione dei due comporta peraltro, in questi casi, l’annullamento di fatto di ogni differenza tra il Consiglio europeo e il Consiglio quanto alla rispettiva composizione, visto che indipendentemente dal rango dei partecipanti la volontà collegiale espressa dalle due istituzioni finisce per essere comunque quella dei soli governi degli Stati membri. iv) In passato, a parte l’ipotesi specifica prevista dall’art. 13, par. 2, TUE preLisbona, in cui era chiamato ad adottare un atto prestabilito come le c.d. strategie comuni, non era nemmeno stabilita la forma che dovevano assumere le deliberazioni del Consiglio europeo. Le determinazioni da esso assunte erano così per lo più cumulativamente contenute nelle conclusioni della Presidenza, che il Consiglio europeo adottava alla fine dei suoi lavori. Non sono mancati casi, però, nei quali si è preferito individualizzare una certa decisione consacrandola in uno specifico atto, al fine di darle un particolare rilievo politico, o in ragione del particolare valore che le si voleva riconoscere nei confronti degli Stati membri. Si vedano ad es. la decisione concernente alcuni problemi attinenti al Trattato sull’Unione europea sollevati dalla Danimarca, adottata dal Consiglio europeo di Edimburgo dell’11 dicembre 1992, o la dichiarazione di Birmingham, del 16 ottobre 1992, sulla democrazia, la trasparenza e la sussidiarietà.
Ora il ricorso a uno strumento formale, nello specifico a quello della decisione, gli è imposto dagli stessi Trattati tutte quelle volte in cui il Consiglio europeo è chiamato a prendere delibere formali in adempimento di una specifica disposizione di questi. Al di là delle ipotesi appena citate, quello delle conclusioni rimane comunque ancora oggi lo strumento ordinario di manifestazione della volontà del Consiglio europeo. Dopo il Trattato di Lisbona, tuttavia, esse non appaiono più formalmente come «conclusioni della presidenza», ma dello stesso Consiglio europeo. Da un lato, infatti, questo ha perso il carattere di una mera conferenza tra governi, per assumere quello di vera e propria istituzione che esprime una volontà unitaria distinta da quella dei suoi componenti; dall’altro lato, il suo Presidente non esprime più la volontà «sovrana» di una presidenza statale, ma è il portavoce dell’istituzione che presiede. Mentre le conclusioni difficilmente possono considerarsi produttive di effetti giuridici formali, dagli altri atti del Consiglio europeo deriveranno gli effetti giuridici previsti dalla norma dei Trattati che abilita questa istituzione ad adottarli. Si può trattare di effetti di carattere meramente procedurale, come quando ne risultano attenuate le condizioni di voto in base alle quali il Consiglio può a sua volta adottare una determinata delibera (art. 31, par. 2, TUE), o di effetti «esortativi» tipici di una raccomandazione, come quella che il Consiglio europeo può indirizzare agli Stati
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membri affinché adottino una decisione, «conformemente alle rispettive norme costituzionali», che istituisca una difesa comune dell’Unione (art. 42, par. 2, TUE), ovvero si può trattare di veri e propri effetti vincolanti, come quando gli è richiesto di pronunciarsi con una decisione. In ogni caso, quando producono effetti giuridici nei confronti dei terzi, gli atti del Consiglio europeo sono, per espressa previsione del nuovo art. 263 TFUE, impugnabili dinanzi alla Corte di giustizia. Un esempio del primo tipo è quello fornito dalla previsione dell’art. 31, par. 2, TUE, secondo la quale le decisioni del Consiglio che siano prese in attuazione di una decisione del Consiglio europeo relativa agli obiettivi e interessi strategici dell’Unione nel settore della PESC possono essere adottate a maggioranza qualificata, invece che all’unanimità. Gli effetti propri di una raccomandazione si ritrovano invece in quella che il Consiglio europeo può indirizzare agli Stati membri affinché adottino una decisione, «conformemente alle rispettive norme costituzionali», che istituisca una difesa comune dell’Unione (art. 42, par. 2, TUE). Riguardo all’impugnabilità degli atti del Consiglio europeo si veda infra, p. 281 s. Va invece qui segnalato che in passato questa possibilità era stata esclusa, nel silenzio del corrispondente articolo di allora, tanto dal Tribunale, che dalla Corte (Trib., ordinanze 14 luglio 1994, T-584/93, Roujansky, II-585, punto 12, e T-179/94, Bonammy c. Consiglio, inedita: «gli atti del Consiglio europeo non sono compresi […] fra quelli la cui legittimità può essere sindacata dal giudice comunitario»; le ordinanze sono state confermate dalla Corte con ordinanze 13 gennaio 1995, C-253/94 P, Roujansky c. Consiglio, punto 11 e C-264/94 P, Bonnamy c. Consiglio, punto 11).
7. b) Il Consiglio La veste ordinaria che assume la riunione dei rappresentanti dei governi degli Stati membri è quella di Consiglio dell’Unione. Va tuttavia precisato che essi possono anche riunirsi come conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, laddove si tratti di prendere decisioni che per il Trattato spettano ai governi degli Stati membri di comune accordo, quale la nomina dei membri della Corte di giustizia (art. 253 TFUE). Dette conferenze non possono essere evidentemente confuse con il Consiglio in quanto tale.
Fermo restando il ruolo preminente a vario titolo giocato dal Consiglio europeo, il Consiglio rappresenta il centro di gravità dell’equilibrio istituzionale dell’Unione, benché le altre istituzioni, e in particolare il Parlamento europeo, abbiano visto nel tempo crescere considerevolmente i propri poteri rispetto a quanto originariamente previsto. L’art. 16, par. 1, TUE sintetizza il suo ruolo sottolineando che «il Consiglio esercita […] la funzione legislativa e la funzione di bilancio. Esercita funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite nei Trattati». Più generalmente si può dire che esso concentra una serie di attribuzioni e funzioni che lo caratterizzano come titolare al tempo stesso del potere legislativo e di quello esecutivo. Il Consiglio è, in effetti, lo snodo istituzionale attraverso cui passano sostanzialmente tutte le decisioni formali su cui si muove l’azione quotidiana dell’Unione. Altre istituzioni o organi, rappresentativi di interessi diversi da quelli dei governi, lo affiancano talvolta nell’assunzione delle decisioni e talaltra ne condividono la titola-
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rità. Ma è comunque il Consiglio il protagonista principale, quando non unico, dell’esercizio del potere decisionale a livello dell’Unione. È compito suo, in collegamento con il Consiglio europeo di cui prepara i lavori (art. 16, par. 6, comma 2, TUE), fornire all’Unione gli indirizzi politici e definirne gli orientamenti generali; spettano al Consiglio le decisioni istituzionali non riservate al Consiglio europeo; è al Consiglio che, insieme (per lo più) al Parlamento europeo, fa capo l’attività legislativa; è in seno al Consiglio che viene assicurato il coordinamento delle politiche economiche generali degli Stati membri; è ancora il Consiglio che, attraverso la funzione di conclusione degli accordi internazionali dell’Unione e la gestione della politica estera comune, detiene la titolarità effettiva del potere estero. i) Fermo restando che esso è formato da «un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale, abilitato a impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto» (art. 16, par. 2, TUE), il Consiglio, che si riunisce di regola a Bruxelles dove ha sede il suo Segretariato, vede modificarsi la sua composizione di volta in volta a seconda degli argomenti all’ordine del giorno delle sue riunioni. Per dare ordine ai lavori e all’alternarsi dei ministri nel corso delle diverse sessioni del Consiglio, queste sono, infatti, convocate sulla base di ordini del giorno omogenei per materia. Si hanno così sessioni del Consiglio composte dai ministri dell’agricoltura o dai ministri dei trasporti, piuttosto che dai ministri del lavoro o da quelli delle comunicazioni. Se Bruxelles è la sede ordinaria dei lavori del Consiglio, questo però si riunisce a Lussemburgo nei mesi di aprile, giugno e ottobre per espressa previsione del suo regolamento interno (art. 1, par. 3), adottato do l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona con la dec. 2009/937/UE del 1° dicembre 2009, in GUUE L 325, 35, più volte modificata. Il regolamento prevede anche, nello stesso articolo, la possibilità che «in circostanze eccezionali e per ragioni debitamente motivate, il Consiglio …, deliberando all’unanimità, [possa] decidere che una sessione si tenga in un altro luogo».
L’elenco delle diverse formazioni (attualmente 10) in cui il Consiglio può riunirsi in ragione di questa composizione variabile è deciso dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata, salvo che per le formazioni «Affari generali» e «Affari esteri», le quali sono previste direttamente a livello dei Trattati dall’art. 16, par. 6, commi 2 e 3, TUE, che ne stabilisce anche le funzioni: «il Consiglio “Affari generali” assicura la coerenza dei lavori delle varie formazioni del Consiglio; esso prepara le riunioni del Consiglio europeo e ne assicura il seguito in collegamento con il Presidente del Consiglio europeo e la Commissione»; dal canto suo, «il Consiglio “Affari esteri” elabora l’azione esterna dell’Unione secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo e assicura la coerenza dell’azione dell’Unione». Prima del Trattato di Lisbona, la decisione al riguardo era di spettanza dello stesso Consiglio dell’Unione nel quadro del proprio regolamento interno (e quindi, come si vedrà, era presa a maggioranza semplice dei suoi membri). A titolo transitorio, l’elenco preesistente è stato confermato, anche sotto l’impero del Trattato di Lisbona, ancora dal Consiglio dell’Unione e secondo la vecchia regola di voto, sulla base dell’art. 4 del Prot. (n. 36) sulle disposizioni transitorie. Secondo tale articolo, infatti, «fino all’entrata in vigore della decisione di cui [all’art. 16, par. 6, comma 1,
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TUE], il Consiglio può riunirsi nelle formazioni previste al comma 2 e 3 di detto paragrafo, nonché nelle altre formazioni il cui elenco è stabilito con decisione del Consiglio “Affari generali” deliberante a maggioranza semplice». Tale decisione, adottata il 1° dicembre 2009 (dec. 2009/878/UE, GUUE L 315, 46), fissa nell’allegato I del regolamento interno (allegato poi leggermente modificato dalla dec. 2010/594/UE del Consiglio europeo, del 16 settembre 2010, GUUE L 263, 12) l’elenco delle seguenti formazioni: «Affari generali» (denominata anche CAG), «Affari esteri», «Economia e finanza» compreso il bilancio (denominata anche ECOFIN), «Giustizia e affari interni» (compresa la protezione civile), «Occupazione, politica sociale, salute e consumatori», «Competitività (mercato interno, industria, ricerca e spazio)» (compreso il turismo), «Trasporti, telecomunicazioni e energia», «Agricoltura e pesca», «Ambiente», «Istruzione, gioventù, cultura e sport» (compresi gli audiovisivi). Al di fuori di quelle menzionate in questo elenco nessun’altra formazione del Consiglio può essere convocata, se non, eventualmente, a titolo di Consiglio informale e quindi, come tale, non collegata al normale funzionamento dell’istituzione, né dotata di potere decisionale.
Come emerge anche dalle disposizioni prima citate, in corrispondenza di questa composizione variabile del Consiglio è invalso l’uso, nel gergo comune, di denominazioni conseguenti che richiamano le diverse formazioni in cui esso può riunirsi (Consiglio giustizia e affari interni, Consiglio agricoltura e pesca, Consiglio ambiente, ecc.). Queste denominazioni non stanno evidentemente a significare che si sia in presenza di organi differenti, bensì solo di composizioni fisicamente diverse della stessa istituzione. Rimane perciò ferma l’unicità del Consiglio in quanto istituzione. È del resto frequente che, per ragioni di urgenza e di calendario, decisioni in una data materia che non richiedano una discussione da parte dei ministri siano formalmente adottate da una formazione «competente» per altra materia. Va in proposito ricordato che, secondo quanto previsto dall’art. 3, par. 6, del regolamento interno del Consiglio, l’ordine del giorno di questo è diviso nelle parti A e B: nella parte A vengono iscritti i punti per i quali un’approvazione da parte del Consiglio è possibile senza dibattito, punti che possono essere quindi iscritti all’ordine del giorno anche di una formazione non competente per materia rispetto ad essi.
Non costituisce invece una vera e propria formazione del Consiglio, benché sia composto dai ministri delle finanze, l’Eurogruppo, oggi ufficializzato da un apposito Protocollo allegato ai Trattati, che si limita però a prevedere che i ministri degli Stati membri la cui moneta è l’euro si riuniscono «a titolo informale», con la partecipazione della Banca centrale europea e della Commissione, per discutere questioni attinenti alle responsabilità specifiche che condividono in materia di moneta unica. Si tratta del Protocollo (n. 14) sull’Eurogruppo, il cui art. 2 stabilisce anche che i suoi componenti ne eleggono a maggioranza il Presidente per due anni e mezzo. L’Eurogruppo è inoltre menzionato anche, con un rinvio al Protocollo di cui sopra, dall’art. 137 TFUE. Non va confuso con l’Eurogruppo il Vertice euro, previsto dall’art. 12 del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria del 2 marzo 2012 (il più volte citato Fiscal Compact). Esso, infatti è costituito dai capi di Stato o di governo degli Stati membri che hanno adottato l’euro; ed è quindi semmai maggiormente assimilabile al Consiglio europeo, rispetto al quale sta però, per il suo carattere informale, come l’Eurogruppo sta al Consiglio.
In ragione dell’importanza delle materie per le quali è competente, una data formazione del Consiglio può tuttavia finire per rivestire nei fatti un ruolo maggiore di
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altre rispetto al funzionamento dell’Unione. Ferma restando l’unicità dell’istituzione, ciò può dar luogo a una qualche forma di gerarchia sostanziale tra le diverse formazioni. È questo il caso del Consiglio Affari generali, cui spetta, come si è visto per previsione espressa del TUE, un ruolo di coordinamento dei lavori del Consiglio (e quindi delle altre formazioni di questo) che gli deriva evidentemente dal carattere generale e orizzontale delle sue competenze. Sul piano della prassi un ruolo parimenti significativo è stato ugualmente assunto, in coincidenza temporale con il consolidarsi dell’unione economica e monetaria, anche dal Consiglio ECOFIN, il Consiglio, cioè, cui partecipano i ministri dell’economia e delle finanze. Il ruolo di coordinamento del Consiglio Affari generali è ribadito anche dal regolamento interno, che precisa ulteriormente che questa formazione del Consiglio «è responsabile del coordinamento generale delle politiche, delle questioni istituzionali e amministrative, dei fascicoli orizzontali con implicazioni per diverse politiche dell’Unione europea, quali il quadro finanziario pluriennale e l’allargamento, così come di qualsiasi fascicolo affidatogli per esame dal Consiglio europeo» (art. 2, par. 2).
La scelta del rappresentante da inviare a ciascuna riunione del Consiglio è rimessa al singolo Stato membro, purché quel rappresentante abbia livello ministeriale. Ciò comporta tra l’altro che al Consiglio possano partecipare non necessariamente ministri, ma anche sottosegretari di governo o, come avviene talvolta per taluni Stati membri a spiccato assetto federale, finanche membri dei governi di entità infrastatali quali i Länder tedeschi o le regioni belghe, fermo restando che, come si è visto essere espressamente disposto dall’art. 16 TUE, la loro volontà impegnerà in ogni caso il governo dello Stato membro in quanto tale. Benché questa possibilità sembri subordinata alla circostanza che l’ordinamento dello Stato membro equipari formalmente come, in effetti, avviene nei due casi sopra citati, i componenti dei governi locali a quelli del governo centrale, anche in Italia si sono recentemente previste forme di partecipazione delle Regioni e Province autonome alle riunioni del Consiglio e dei suoi organi preparatori, che possono giungere, come si dirà, fino all’affidamento ad esse del ruolo di rappresentante del Governo in tali istanze. Al riguardo cfr. anche infra, p. 933 s.
ii) A parte la ricordata articolazione orizzontale per formazioni, il Consiglio conosce anche un’articolazione verticale a forma quasi di clessidra, destinata a facilitare lo svolgimento dei suoi lavori. Alla base della clessidra vi sono, in gran numero (oltre 170), i gruppi di lavoro, specializzati per materia e composti da funzionari degli Stati membri, ai quali è affidato l’esame tecnico dei singoli dossier. La preparazione delle deliberazioni del Consiglio viene poi ulteriormente perfezionata in seno al Comitato dei Rappresentanti permanenti degli Stati membri a Bruxelles, il COREPER. Dopodiché spetta al Consiglio a livello di ministri, in una delle sue diverse formazioni, prendere la deliberazione finale. I rappresentanti permanenti dei governi degli Stati membri che compongono il COREPER sono gli ambasciatori di questi ultimi presso l’Unione europea, capi delle relative rappresentanze diplomatiche situate a Bruxelles. Il ruolo del COREPER è stabilito direttamente nei Trattati, il cui art. 16, par. 7, TUE dispone appunto che «un comitato costituito dai rappresentanti permanenti dei governi
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degli Stati membri è responsabile della preparazione dei lavori del Consiglio», mentre l’art. 240, par. 1, TFUE aggiunge che esso è responsabile anche degli ulteriori compiti che il Consiglio gli assegna. Pur essendo un organo unico, per ragioni di carico di lavoro (che lo costringono a riunirsi ogni settimana per più giorni) esso è diviso in due formazioni distinte per materie: il COREPER II, composto dai rappresentanti permanenti, e il COREPER I, formato dai rappresentanti permanenti aggiunti (i numeri due delle citate rappresentanze diplomatiche), rispettivamente competenti, il primo, per la preparazione dei Consigli Affari generali, Affari esteri, Giustizia e affari interni e Affari economici e finanziari, e, il secondo, per le restanti sei formazioni del Consiglio.
Ciascuna delle istanze preparatorie ora ricordate (gruppi tecnici e COREPER) riproduce nella composizione (intergovernativa) e nelle procedure di funzionamento il livello ministeriale. Esse però, in quanto articolazioni interne del Consiglio, sono prive di una propria identità e di un potere deliberativo autonomo. Ciò è vero anche per il COREPER, benché l’art. 240, par. 1, TFUE gli riconosca il potere di «adottare decisioni di procedura nei casi previsti dal regolamento interno del Consiglio». Al di fuori di questa limitata ipotesi, infatti, rimane ancora valida l’osservazione a suo tempo fatta dalla Corte di giustizia (19 marzo 1996, C-25/94, Commissione c. Consiglio, 1469, punto 27), secondo la quale «[l]a funzione di esecuzione dei mandati affidati dal Consiglio non autorizza il COREPER ad esercitare il potere decisionale, che spetta, in base al Trattato, al Consiglio». Della citata articolazione verticale, proprio il COREPER finisce però per essere un elemento essenziale. Esso canalizza infatti, come la strozzatura appunto di una clessidra, il lavoro del gran numero di gruppi di lavoro specializzati verso le dieci formazioni ugualmente settoriali del Consiglio; ma nel contempo non si presenta come un’istanza «specializzata», composto com’è, nelle sue due articolazioni, dagli ambasciatori degli Stati membri presso l’Unione (COREPER II) e dai loro aggiunti (COREPER I). Esso rappresenta così, per il suo carattere «generalista», lo snodo che permette di assicurare, nei limiti del possibile, la coerenza generale dei lavori e delle decisioni del Consiglio. E ciò spiega anche perché, nonostante siano state col tempo create ulteriori istanze preparatorie specializzate, intermedie tra i gruppi di lavoro e il Consiglio, le quali finiscono per giocare un ruolo per certi versi assimilabile, seppur in chiave settoriale, a quello del COREPER, la loro istituzione sia sempre avvenuta facendo formalmente salva la posizione di quest’ultimo. Ci si riferisce, ad es., al Comitato economico e finanziario, al Comitato politico e di sicurezza (competente per i settori della PESC) di cui all’art. 38 TUE e, da ultimo, al Comitato permanente previsto dall’art. 71 TFUE nel settore della cooperazione operativa in materia di sicurezza interna, il quale al pari dei suoi omologhi opera, per espressa previsione della disposizione istitutiva, «fatto salvo [l’art. 240 TFUE]». Unica eccezione a quanto appena detto è costituita dal Comitato speciale agricoltura (CSA). Istituito fin dal 1960 (decisione del 12 settembre 1960 dei rappresentanti dei governi degli Stati membri della Comunità economica europea riuniti in seno al Consiglio, relativa all’acceleramento del ritmo di attuazione degli obiettivi del Trattato, GUCE 58, 1217, art. 5), esso è composto da alti funzionari degli Stati membri responsabili della politica agricola e dalla Commissione, e prepara i lavori del Consiglio Agricoltura e pesca per i temi specificamente riguardanti la politica agricola comune, riunendosi, abitualmente, il lunedì di ogni settimana.
iii) Il Consiglio, nelle sue varie formazioni e articolazioni, è presieduto a turno dagli Stati membri, come previsto dall’art. 16, par. 9, TUE, sulla base di un sistema di rota-
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zione, che è disciplinato da una decisione dal Consiglio europeo (dec. 2009/881/UE del 1° dicembre 2009, GUUE L 315, 50), adottata a maggioranza qualificata ai sensi dell’art. 236, lett. b), TFUE, e, per i suoi meccanismi di dettaglio, da una contestuale decisione applicativa del Consiglio (dec. 2009/908/UE, GUUE L 322, 28) approvata con la stessa maggioranza. La prima decisione prevede una presidenza per gruppi predeterminati di tre Stati, che, salvo diverso accordo, se ne ripartiscono l’esercizio per 18 mesi, all’interno dei quali ciascuno Stato esercita a turno la presidenza per sei mesi con l’assistenza degli altri due e sulla base di un programma comune. Ciascun gruppo è composto secondo un sistema di rotazione paritaria, che tiene conto della diversità degli Stati membri e degli equilibri geografici dell’Unione. E la composizione dei gruppi, così come l’ordine di successione tra loro, è stata fissata, per il periodo fino al 2020, dalla seconda decisione. In base all’art. 1, par. 2, della dec. 2009/881, i membri di ciascun gruppo di presidenza possono decidere tra loro modalità alternative di ripartizione dei compiti rispettivamente da assolvere nel corso dei 18 mesi della presidenza di gruppo. Va inoltre ricordato che ai sensi dell’art. 19, par. 4, comma 3, del regolamento interno del Consiglio, la presidenza di comitati diversi dal COREPER o di gruppi di lavoro può essere affidata con decisione del Consiglio a maggioranza qualificata a persone diverse dal rappresentante del governo dello Stato membro che esercita la presidenza di turno; e così è stato effettivamente disposto per taluni comitati e gruppi, che sono affidati alla presidenza di singole personalità ovvero di funzionari del Segretariato generale del Consiglio (si veda l’allegato III della decisione del Consiglio citata nel testo).
L’innovazione rispetto al sistema di presidenza operante prima del Trattato di Lisbona è solo apparente, visto che anche quel sistema era basato su una rotazione semestrale tra gli Stati membri, seppur al di fuori di un meccanismo di gruppo (così, fin dalle origini, l’art. 203 TCE). La reale novità è data invece dal fatto che al sistema sopra descritto fa eccezione la presidenza del Consiglio Affari esteri, che è sottratta agli Stati ed è riservata dall’art. 27, par. 1, TUE, all’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (sul quale si veda il successivo par. 11); novità che si estende peraltro anche alla filiera preparatoria di questa formazione del Consiglio, nel senso che la presidenza dei gruppi di lavoro o comitati più direttamente coinvolti nella preparazione delle decisioni del Consiglio in materia di politica estera e di sicurezza comune è affidata a rappresentanti dell’Alto Rappresentante, con la sola eccezione del COREPER, la cui presidenza rimane comunque nella responsabilità del Rappresentante permanente dello Stato membro che esercita la presidenza di turno del Consiglio Affari generali, con una soluzione perciò che, intaccando l’identità nazionale tra le presidenze dei diversi livelli di negoziato, rischia di non garantire in ogni caso la necessaria fluidità tra quei livelli di lavoro nella gestione e preparazione dei dossier. Il Consiglio è assistito da un apparato amministrativo, il Segretariato generale, al cui vertice è posto il Segretario generale nominato a maggioranza qualificata dallo stesso Consiglio (art. 240, par. 2, TFUE). iv) Prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, laddove una norma del Trattato o un atto delle istituzioni che affidavano al Consiglio il compito di prendere
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una certa decisione non indicassero una modalità di voto specifica e diversa, il Consiglio deliberava a maggioranza semplice (la metà più uno dei suoi membri). Ora la regola di voto è diventata, in questi casi, la maggioranza qualificata (art. 16, par. 3, TUE). Il cambiamento è, nella sua portata effettiva, meno significativo di quanto appaia, dato che in precedenza la procedura di voto da seguire da parte del Consiglio era comunque quasi sempre specificata e nella grande maggioranza dei casi si trattava proprio della maggioranza qualificata, per cui ora come allora è questa la regola di voto di più frequente applicazione per le deliberazioni del Consiglio. Così come la maggioranza semplice rimane la regola in linea generale applicabile – seppur sulla base, adesso, di una previsione esplicita – per l’adozione del regolamento interno e più in generale per le decisioni di procedura (art. 240, par. 3, TFUE). Quanto all’unanimità, di applicazione diffusa in passato all’interno dei Trattati, essa ha visto progressivamente ridursi, ad ogni revisione degli stessi, il proprio ambito di applicazione in connessione con l’aumento del numero degli Stati membri, e resta ora confinata alle sole decisioni politicamente più sensibili. Proprio in ragione della sensibilità della materia, l’unanimità è però rimasta di applicazione generale per le decisioni da prendere nell’intero settore della PESC, risultando anzi qui, con un’eccezione a quanto abbiamo visto essere previsto dall’art. 16, par. 3, TUE, la regola di voto residuale in caso di mancata previsione di una regola diversa (art. 31, par. 1, TUE). E, anche in quei rari casi in cui il TUE consente al Consiglio di votare a maggioranza qualificata decisioni da prendere nel quadro della PESC, come abbiamo in precedenza visto «se un membro del Consiglio dichiara che, per specificati e vitali motivi di politica nazionale, intende opporsi all’adozione di una decisione che richiede la maggioranza qualificata, non si procede alla votazione»; e laddove l’Alto Rappresentante, in stretta consultazione con tale Stato, non trovi una soluzione per esso accettabile, il Consiglio a maggioranza qualificata potrà investire della questione il Consiglio europeo, che si pronuncerà all’unanimità. Ai sensi dell’art. 31, par. 2, TUE, il Consiglio può votare a maggioranza qualificata nel quadro della PESC solo «quando adotta una decisione che definisce un’azione o una posizione dell’Unione, sulla base di una decisione del Consiglio europeo relativa agli interessi e obiettivi strategici dell’Unione» o in base a una proposta dell’Alto Rappresentante «in seguito a una richiesta specifica rivolta a quest’ultimo dal Consiglio europeo di sua iniziativa» o su iniziativa dell’Alto Rappresentante, ovvero «quando adotta decisioni relative all’attuazione di una decisione che definisce un’azione o una posizione dell’Unione» o «nomina un rappresentante speciale» dell’Unione. Ad ogni modo, il par. 3 dello stesso articolo consente al Consiglio europeo di adottare all’unanimità una decisione che preveda che il Consiglio delibera a maggioranza qualificata in casi diversi da quelli citati. Sia il par. 3, che quello precedente, non si applicano alle decisioni che hanno implicazioni nel settore militare o della difesa (par. 4).
Va osservato che l’astensione del rappresentante di uno Stato in seno al Consiglio non osta al raggiungimento dell’unanimità (art. 238, par. 4, TFUE), ma non rende evidentemente inapplicabile l’atto allo Stato che si è astenuto. Tuttavia, quando il Consiglio delibera all’unanimità nell’ambito della PESC, quest’ultima regola può trovare un’eccezione, nel senso che se uno Stato accompagna la sua astensione con una dichiarazione formale ai sensi dell’art. 31, par. 1, comma 2, TUE, di non voler
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essere vincolato dalla decisione del Consiglio, esso non sarà destinatario degli obblighi da questa posti. Come suggerisce la denominazione comunemente invalsa per questa ipotesi («astensione costruttiva»), la sua previsione è evidentemente diretta ad evitare che Stati non disponibili ad impegnarsi in una azione dell’Unione in quest’ambito, si trovino per questo necessariamente costretti ad impedire che essa agisca, non avendo altra alternativa che il voto contrario. Lo stesso TUE pone d’altra parte un limite numerico alla possibilità di avvalersi dell’astensione costruttiva, nel senso che quando gli Stati che vi fanno ricorso rappresentano almeno un terzo dei membri del Consiglio che totalizzano almeno un terzo della popolazione dell’Unione, la decisione del Consiglio non è comunque adottata. Si è ritenuto infatti che, in un’eventualità del genere, il sostegno a quell’azione dell’Unione sarebbe troppo limitato per giustificare la decisione di andare comunque avanti.
8. Segue : La maggioranza qualificata in sede di Consiglio europeo e di Consiglio A differenza della maggioranza semplice e dell’unanimità, nell’ambito delle quali il voto di ciascuno Stato ha un peso identico, la maggioranza qualificata si fonda, tanto nel caso del Consiglio europeo che del Consiglio, su un sistema che tiene conto della diversa «grandezza» degli Stati membri (v. per una sintesi la Scheda n. 6). Come si è già ricordato, prima del Trattato di Lisbona questa modalità di voto era applicabile al solo Consiglio; e lo era fin dalle origini sulla base di un sistema di c.d. voto ponderato. In pratica, ai fini del raggiungimento della soglia della maggioranza qualificata, a ciascuno Stato membro spettava un numero di voti previsto direttamente nei Trattati e commisurato, con qualche aggiustamento, al suo peso economico e demografico, combinato con delle regole di equilibrio politico. Tale numero oscillava, dopo le modifiche apportate alla ponderazione originaria dal Trattato di Nizza del 2000, tra un massimo di 29 voti spettanti all’Italia e agli altri tre Stati «grandi» (Francia, Germania e Regno Unito) e un minimo di 3 assegnati a Malta. Su un totale conseguente di 352 voti, la maggioranza qualificata si considerava raggiunta, quando il Consiglio votava su proposta della Commissione, con 260 voti che esprimessero il voto favorevole della maggioranza degli Stati membri, fermo restando che un membro del Consiglio europeo o del Consiglio poteva «chiedere che, allorché il Consiglio europeo o il Consiglio adotta un atto a maggioranza qualificata, si verifichi che gli Stati membri che compongono tale maggioranza qualificata rappresentino almeno il 62% della popolazione totale dell’Unione. Qualora tale condizione non sia soddisfatta, l’atto non è adottato». In assenza di proposta della Commissione, la quota di Stati membri da cui provenivano i 260 voti favorevoli doveva invece corrispondere ai due terzi del totale. Fino al 31 marzo 2017 questo sistema di voto ponderato è coesistito, per il solo Consiglio, con il nuovo sistema introdotto dal Trattato di Lisbona (su cui v. di seguito), nel senso che fino a tale data uno Stato membro poteva domandare che il Consiglio adottasse una determinata decisione a maggioranza qualificata con il voto ponderato in luogo della doppia maggioranza (Protocollo n. 36 sulle disposizioni transitorie, art. 3, par. 2).
Il 1° aprile 2017, allo scadere dell’appena citato periodo transitorio previsto dal Trattato di Lisbona, il sistema del voto ponderato è stato radicalmente sostituito da
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un meccanismo di doppia maggioranza, ai sensi del quale la maggioranza qualificata è raggiunta con una maggioranza di Stati membri che rappresentino una certa maggioranza della popolazione dell’Unione (art. 16, par. 4, TUE). E ciò si verifica, in particolare, quando una delibera del Consiglio europeo o del Consiglio ottiene il voto favorevole di almeno il 55% degli Stati membri, che comprendano almeno 15 di questi e rappresentino almeno il 65% della popolazione residente dell’Unione, fermo restando, tuttavia, che la minoranza di blocco deve comprendere almeno quattro membri del Consiglio europeo o del Consiglio, altrimenti la maggioranza qualificata si considera raggiunta anche se quelle soglie non sono rispettate (art. 16, par. 4, TUE). Analogamente però a quanto era previsto fin dalle origini nel sistema di voto ponderato, laddove una delle due istituzioni sia chiamata a deliberare non sulla base di una proposta della Commissione, è invece richiesto, in ragione del venir meno della salvaguardia dell’interesse generale che in linea di principio tale proposta assicura, il voto favorevole di un numero più elevato di Stati membri, la cui soglia minima passa dal 55% al 72%. A differenza dall’altro sistema, tuttavia, l’aggravamento si ha qui anche quando la delibera non è proposta, evidentemente nel quadro della PESC, dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (art. 238, par. 2, TUE). La percentuale più alta di Stati membri finisce, peraltro, per essere quella di regola applicabile nel caso di votazioni a maggioranza qualificata del Consiglio europeo, dato che, tranne che in un caso (lo si veda in art. 5, par. 4, del Protocollo (n. 19) sull’acquis di Schengen integrato nell’ambito dell’UE), questo non delibera mai sulla base di una proposta della Commissione; e, quando lo fa su proposta dell’Alto Rappresentante, esso vota comunque all’unanimità per disposizione dei Trattati. È opportuno segnalare che tra i vari criteri di definizione della nozione di «popolazione totale dell’Unione» prevista da questa disposizione, e sulla cui base va quindi calcolata la soglia minima del 65%, in sede di applicazione è stato scelto quello della popolazione residente nel territorio di ciascuno Stato membro. Tale criterio sembra per il momento avvantaggiare ulteriormente la Germania (e gli altri paesi di tradizionale immigrazione, come Francia e Regno Unito) più di quanto non avrebbe fatto una nozione di popolazione basata sul criterio della cittadinanza. Quest’ultimo criterio avrebbe avvantaggiato più i paesi, come l’Italia, che hanno storicamente conosciuto una forte emigrazione verso altri Stati dell’Unione, oltre che verso paesi terzi. Si veda comunque al riguardo, dopo una prima decisione dell’11 ottobre 2004 (dec. 2004/701/ CE, Euratom, GUUE L 319, 15), con cui il Consiglio ha modificato il proprio regolamento interno per dare applicazione alla previsione dell’art. 205, par. 4, TCE, l’attuale allegato III al regolamento interno del Consiglio, allegato che viene aggiornato annualmente. Per il momento, nulla è stato invece previsto al riguardo nel nuovo regolamento interno del Consiglio europeo approvato il 1° dicembre 2009.
iii) Indipendentemente dalle successive modifiche che ha subito il meccanismo di voto a maggioranza qualificata, sull’effettivo ricorso ad esso da parte del Consiglio ha fortemente pesato, almeno in un passato non recente, il c.d. «Compromesso di Lussemburgo», con il quale i governi degli Stati membri previdero nel 1966, senza peraltro formalizzarla in un vero e proprio atto (si tratta di conclusioni pubblicate al termine di una riunione del Consiglio del 29 gennaio 1966, in Boll. CEE n. 3/66, 8 ss.), la possibilità di un rinvio dell’adozione a maggioranza di una delibera del Con-
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siglio nel caso in cui uno Stato membro invocasse il pregiudizio di «propri interessi molto importanti». Interpretato nella pratica come un diritto di veto, il Compromesso di Lussemburgo ha, infatti, per lungo tempo impedito che si procedesse a maggioranza qualificata anche nei casi in cui essa era formalmente prevista dai Trattati. Benché dalla metà degli anni ’80 esso non sia stato quasi più invocato, non significa che ciò non possa più avvenire in futuro. Rappresentando un accordo di carattere unicamente politico sullo svolgimento dei lavori del Consiglio, nulla esclude che la presidenza e la maggioranza di questo possano decidere di dar seguito, non passando immediatamente al voto, a una richiesta in tal senso di uno Stato membro che faccia appunto leva sul pregiudizio che una certa decisione del Consiglio potrebbe avere per «propri interessi molto importanti». D’altra parte, è prassi costante e indipendente dal Compromesso del Lussemburgo, che in seno al Consiglio, evitando di mettere in minoranza Stati membri, si cerchi comunque il consenso più largo intorno ad ogni decisione, anche quando i Trattati ne prevedano l’adozione a maggioranza qualificata. Meccanismi diretti a tener conto di particolari difficoltà che possono incontrare singoli Stati membri di fronte a decisioni a maggioranza del Consiglio sono ad ogni modo ora previsti anche formalmente nei Trattati o in atti delle istituzioni. Alcuni di questi operano anzi, seppur limitatamente a specifici settori, in modo sostanzialmente analogo al Compromesso di Lussemburgo. Come si è visto nel precedente par. 6, infatti, nel settore della sicurezza sociale (ma altrettanto è previsto in quelli della cooperazione giudiziaria in materia penale e della PESC) uno Stato membro che lamenti la possibile lesione di propri interessi fondamentali può appellarsi al Consiglio europeo contro una proposta di atto legislativo dell’Unione, azionando quello che è stato definito suggestivamente «freno di emergenza». Di fronte poi all’accresciuta difficoltà di coagulare minoranze di blocco nel quadro del nuovo sistema di doppia maggioranza, è stato anche introdotto, in applicazione di una Dichiarazione (n. 7) allegata Trattato di Lisbona, un meccanismo di carattere generale ai sensi del quale, in presenza di una «quasi» minoranza di blocco, il Consiglio è tenuto a proseguire le discussioni alla ricerca, entro un tempo ragionevole, di una soluzione soddisfacente che tenga conto delle preoccupazioni espresse dagli Stati membri che si oppongono ad una sua delibera. Va da sé che, scaduto questo tempo ragionevole, il Consiglio potrà passare al voto. Il meccanismo è stato formalizzato con la dec. 2009/857/CE del Consiglio, del 13 dicembre 2007 (GUUE L 314/2009, 73), il cui progetto era contenuto direttamente nella Dichiarazione (n. 7) e la cui data (molto anticipata) si spiega con la previsione contenuta nella citata Dichiarazione n. 7 che tale decisione dovesse essere «adottata dal Consiglio alla data della firma del [Trattato di Lisbona]», pur dovendo entrare in vigore il giorno dell’entrata in vigore del Trattato. La decisione prevede come condizione per l’applicazione del meccanismo in questione che il ricorso ad esso sia invocato da un numero di Stati membri che rappresentino almeno il 55% della popolazione o degli Stati membri necessari per costituire una minoranza di blocco. Tale soluzione riprende, per molti versi, un analogo meccanismo oggetto di una decisione del Consiglio adottata in occasione dell’adesione all’Unione di Austria, Finlandia e Svezia, e nota come «Compromesso di Ioannina» (decisione del Consiglio, del 1° gennaio 1995, GUCE C 1, 1). Tale decisione, che ha cessato di applicarsi con il successivo allargamento del 2004, prevedeva, in relazione allora alla maggioranza qualificata basata sul voto ponderato, che quando un gruppo di
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membri del Consiglio avesse espresso un numero di voti contrari a una decisione, sì consistente, ma comunque non suscettibile di costituire una minoranza di blocco, il Consiglio avrebbe fatto «tutto il possibile per raggiungere, entro un tempo ragionevole e senza pregiudicare i limiti di tempo obbligatori stabiliti dai Trattati e dal diritto derivato, […] una soluzione soddisfacente che po[tesse] essere adottata» con un consenso più ampio.
9. c) Il Parlamento europeo Il Parlamento europeo è l’istituzione attraverso la quale, in via principale, il principio di democrazia ha modo di esprimersi a livello dell’ordinamento dell’Unione europea. Esso è, infatti, composto da rappresentanti dei cittadini degli Stati membri (e quindi dell’Unione) eletti a suffragio diretto (art. 14 TUE). E d’altra parte, come afferma l’art. 10, par. 2, TUE, «i cittadini sono direttamente rappresentati, a livello dell’Unione, nel Parlamento europeo». Il principio democratico di cui il Parlamento europeo è espressione, si riflette ovviamente nelle sue competenze. Ciò è vero innanzitutto per la sua partecipazione al processo decisionale dell’Unione, del quale è uno dei protagonisti. Secondo la Corte, anzi, è proprio la partecipazione del Parlamento che garantisce la valenza democratica di tale processo. Essa ha, infatti, osservato (29 ottobre 1980, 138/79, Roquette Frères c. Consiglio, 3333, punto 33) che quella partecipazione «riflette, sia pure limitatamente, sul piano della Comunità, un fondamentale principio della democrazia, secondo cui i popoli partecipano all’esercizio del potere per il tramite di una assemblea rappresentativa». Va però detto che il grado in cui questo principio risulta effettivamente realizzato è tutt’altro che uniforme nel sistema dei Trattati. Come si vedrà, infatti, il livello di coinvolgimento del Parlamento europeo nello stesso processo decisionale dell’Unione varia notevolmente, avvenendo secondo modalità che vanno da una semplice consultazione sulle proposte di atti del Consiglio a una vera e propria condivisione del potere normativo con quest’ultimo. Quanto poi al settore della politica estera e di sicurezza comune, il suo ruolo è sostanzialmente inesistente: in luogo di una consultazione sui singoli atti, qui è previsto unicamente (art. 36 TUE) che «[l]’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza consulta regolarmente il Parlamento europeo sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali della politica estera e di sicurezza comune e della politica di sicurezza e di difesa comune e lo informa dell’evoluzione di tali politiche». Sempre l’Alto Rappresentante provvede, inoltre, «affinché le opinioni del Parlamento europeo siano debitamente prese in considerazione». Il carattere democratico-rappresentativo del Parlamento europeo si esprime anche in un generale ruolo di controllo politico che i Trattati gli riservano sotto forme diverse e verso le altre istituzioni. Ne è destinataria in particolare la Commissione. Come si vedrà nel paragrafo successivo, il Parlamento da un lato partecipa alla sua nomina; dall’altro ha un potere di censura nei suoi confronti. Inoltre il Parlamento o singoli suoi membri possono rivolgerle interrogazioni (art. 230, comma 2, TFUE). Dal canto suo la Commissione presenta ogni anno al Parlamento una relazione gene-
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rale sull’attività dell’Unione (artt. 233 e 249, par. 2, TFUE), nonché relazioni riguardanti specifici settori di attività. Seppur in forma decisamente più attenuata, un ruolo di interlocuzione politica diretta è previsto poi anche nei confronti di altre istituzioni o organi: interrogazioni (e raccomandazioni) possono essere rivolte anche al Consiglio e all’Alto Rappresentante (art. 36, comma 2, TUE); quest’ultimo è tenuto anch’esso, come si è visto, ad informare regolarmente il Parlamento degli sviluppi intervenuti nei settori della politica estera e di sicurezza comune; analogo obbligo è posto in capo finanche al Consiglio europeo, che è previsto debba presentare all’Assemblea una relazione dopo ciascuna delle sue riunioni (art. 15, par. 6, lett. d), TUE). Un potere più generale di controllo è poi esercitato dal Parlamento anche attraverso gli strumenti dell’inchiesta e del Mediatore europeo. Il primo consiste nella possibilità di costituire, d’ufficio o sulle basi di petizioni rivoltegli da uno o più cittadini dell’Unione o persone fisiche o giuridiche residenti in uno Stato membro, commissioni d’inchiesta incaricate di esaminare denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto dell’Unione. Il Mediatore europeo è invece un organo permanente nominato dallo stesso Parlamento, e competente a esaminare, su richiesta, casi di cattiva amministrazione imputabili a istituzioni o organi dell’Unione (infra, p. 226 s.). Infine, il Parlamento europeo partecipa direttamente al procedimento di formazione e approvazione del bilancio dell’Unione (v. il successivo par. 20). i) L’art. 14 TUE stabilisce che il numero dei membri del Parlamento non può essere superiore a 751 («settecentocinquanta, più il Presidente»). Benché fissato (anche in passato) nel Trattato, il numero dei membri del Parlamento è sovente andato al di là del tetto lì indicato per le necessità (di rappresentanza) derivanti dall’adesione a legislatura già avviata di nuovi Stati membri. Ciò è avvenuto anche con il tetto fissato dal Trattato di Lisbona: a seguito infatti dell’adesione il 1° luglio 2013 della Croazia, a questo Paese sono stati assegnati, sempre fino al termine della legislatura terminata nel giugno 2014, 12 ulteriori membri, con un conseguente, ma provvisorio innalzamento del numero complessivo di questi. Dando luogo ad una modifica di una norma del Trattato, l’art. 14 TUE appunto, ciò è stato possibile, come nel caso di altre precedenti adesioni, prevedendo quel numero aggiuntivo di parlamentari nell’art. 19 dell’Atto di adesione della Croazia, le cui norme hanno lo stesso rango formale di quelle dei Trattati.
I membri sono ripartiti tra gli Stati membri in modo da far riflettere anche a livello di deliberazioni del Parlamento, così come si è visto avvenire in Consiglio, il diverso peso di ciascuno Stato. Il criterio di ripartizione è però qui unicamente demografico, nel senso che il numero di parlamentari spettanti a ciascun paese membro è direttamente commisurato alla popolazione dello stesso. Ciò non significa che per tutti gli Stati vi sia un’identica proporzione tra i parlamentari europei eletti e la rispettiva popolazione. Lo stesso TUE specifica ora (art. 14, par. 2) che all’interno del Parlamento «la rappresentanza dei cittadini è garantita in modo degressivamente proporzionale, con una soglia minima di sei membri» e un tetto massimo di 96. In altri termini, sulla base di questa proporzionalità degressiva agli Stati membri con una popolazione più elevata sono assegnati più seggi rispetto agli Stati di minori dimensioni, ma questi ultimi ottengono un numero di seggi superiore a quello che
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avrebbero sotto il profilo puramente proporzionale, con la conseguenza che un parlamentare europeo di un paese più popolato rappresenta più cittadini di quelli rappresentati da un suo collega di un paese meno popolato e viceversa. A differenza di quanto avveniva in passato, nel quadro dei nuovi Trattati la ripartizione dei seggi non è più fissata in un articolo degli stessi, ma viene lasciata a una decisione del Consiglio europeo, da prendere all’unanimità, nel rispetto del citato principio di proporzionalità degressiva, su iniziativa e approvazione del Parlamento europeo (art. 14, par. 2, comma 2, TUE). La ripartizione per l’attuale legislatura 2014-2019, che ha visto il numero complessivo dei membri del PE ritornare ai 751 previsti dal Trattato, è stata fissata dalla dec. 2013/312/UE del Consiglio europeo, del 28 giugno 2013, GUUE L 181, 57, nel modo seguente: Germania 96, Francia 74, Italia e Regno Unito 73, Spagna 54, Polonia 51, Romania 32, Paesi Bassi 26, Belgio, Repubblica ceca, Grecia, Portogallo e Ungheria 21, Svezia 20, Austria 18, Bulgaria 17, Danimarca, Finlandia e Slovacchia 13, Croazia, Irlanda e Lituania 11, Lettonia e Slovenia 8, Cipro, Estonia, Lussemburgo e Malta 6. L’art. 4 della decisione stabilisce che la ripartizione dei seggi da essa fissata, e appena riportata, dovrà essere rivista prima delle elezioni 2019, sulla base di una proposta del PE da presentare possibilmente entro la fine del 2016.
ii) La corrispondenza più o meno diretta tra seggi al Parlamento e popolazione di uno Stato membro non deve far credere che la rappresentatività dei parlamentari europei si fondi strettamente sul principio di nazionalità. Per espressa disposizione del Trattato, nulla esclude che su di un seggio spettante a uno Stato membro possa essere eletto un cittadino di un altro Stato membro, o che all’elezione della quota di parlamentari di uno Stato partecipino cittadini degli altri Stati. Gli artt. 20, par. 2, lett. b), e 22, par. 2, TFUE riconoscono, infatti, ai cittadini degli Stati membri, in quanto «cittadini dell’Unione», il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni europee anche in Stati diversi dal proprio (infra, Parte Terza, Cap. II, par. 7). Si aggiunga, poi, che la Corte di giustizia ha ammesso (12 settembre 2006, C-145/04, Spagna c. Regno Unito, I7917, punto 70) che l’elettorato al Parlamento europeo possa essere legittimamente attribuito da uno Stato membro anche a soggetti privi della cittadinanza dell’Unione. Le elezioni europee si svolgono sulla base delle regole previste dall’Atto del 20 settembre 1976 relativo all’elezione dei rappresentanti nel Parlamento europeo a suffragio universale diretto, regole che, ai sensi dell’allora art. 190, par. 4 TCE (ora diventato art. 223, par. 1, TFUE), spettava al Consiglio approvare all’unanimità su proposta e previo parere conforme del Parlamento europeo, e successiva “ratifica” da parte degli Stati membri, «conformemente alle loro rispettive norme costituzionali». Secondo quanto originariamente previsto dal TCE, l’Atto avrebbe dovuto stabilire una procedura elettorale uniforme. L’impossibilità di arrivare a un accordo al riguardo ha permesso solo che una successiva modifica dell’Atto indicasse alcuni «principi [elettorali] comuni a tutti gli Stati membri», consistenti in realtà in alternative lasciate alla scelta degli stessi Stati. Al di fuori di queste limitate indicazioni, la procedura elettorale rimane perciò disciplinata in ciascuno Stato membro dalle disposizioni nazionali (in proposito cfr. Corte giust. 12 settembre 2006, C-145/04, Spagna c. Regno Unito, cit., punto 69, e C-300/04, Eman e Sevinger, I-8055, punti 42 e 66 s.). L’Atto elettorale europeo è stato adottato dal Consiglio con dec. 76/787/CECA, CEE, Euratom, del 20 settembre 1976 (GUCE L 278, 1), ed è stato da ultimo modificato con dec. 2002/772/CE, Euratom del Consiglio, del 25 giugno 2002 e del 23 settembre 2002 (GUCE L 283,
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1). Le alternative lasciate agli Stati membri dalle poche indicazioni di principio indicate nella disciplina europea attuale del procedimento elettorale europeo sono in pratica le seguenti: gli Stati membri possono optare per un sistema a scrutinio di lista o con l’uninominale preferenziale con riporto di voti di tipo preferenziale; possono consentire o meno il voto di preferenza secondo le modalità da essi stabilite; possono costituire circoscrizioni elettorali o prevedere altre suddivisioni elettorali, pur senza pregiudicare il carattere proporzionale del voto; possono, infine, prevedere o meno una soglia minima, non superiore al 5% dei voti espressi, per l’attribuzione dei seggi. L’Atto elettorale europeo è stato inizialmente recepito in Italia con la legge 24 gennaio 1979, n. 18 (GURI 30 gennaio 1979, n. 29), più volte modificata. In particolare la legge 20 febbraio 2009, n. 10 (GURI 23 febbraio 2009, n. 44) vi ha introdotto, recependo l’indicazione già citata contenuta nella menzionata dec. 2002/772 di modifica dell’Atto del 1976, una soglia di sbarramento del 4% dei voti validi espressi ai fini dell’ottenimento di seggi da parte dei partiti partecipanti alle elezioni. Si veda in materia anche la sentenza della nostra Corte cost. 22 luglio 2010, n. 271.
Il regime delle incompatibilità dei parlamentari europei, tra le quali vanno in particolare segnalate quelle con il mandato di parlamentare nazionale e con la partecipazione a un governo nazionale o ad un’altra istituzione dell’Unione, trova invece disciplina direttamente a livello europeo per mezzo dell’Atto del 1976, cui possono però aggiungersi incompatibilità di origine nazionale disposte dalla legislazione dei singoli Stati membri (per l’Italia cfr. la già citata legge n. 18/1979, art. 5, 5 bis e 6). iii) Il Parlamento europeo è eletto per 5 anni (art. 14, par. 3, TUE); e all’inizio di ogni legislatura esso provvede a nominare tra i suoi membri il Presidente e un certo numero di Vicepresidenti, i quali rimangono in carica per due anni e mezzo per consentire un avvicendamento in tali cariche dei diversi gruppi politici (art. 13 ss. del regolamento interno del PE). I membri del Parlamento, il cui statuto è fissato con regolamenti adottati dallo stesso Parlamento ai sensi dell’art. 223, par. 2, TFUE, si accorpano, infatti, per gruppi politici, per la cui costituzione sono richiesti, oltre che un numero minimo di componenti, la provenienza degli stessi da più di uno Stato membro e l’esistenza tra loro di affinità politiche (art. 30 del regolamento interno). Lo statuto dei membri del Parlamento attualmente in vigore è stato adottato dal PE con dec. 2005/684/CE, Euratom, del 28 settembre 2005 (GUUE L 262, 1), ed è entrato in vigore nel 2009 con l’avvio della precedente legislatura. Per la disciplina dei gruppi politici si veda invece l’art. 30 del regolamento interno del PE. Benché la condizione dell’esistenza di affinità politiche, da esso posta, non possa considerarsi facoltativa (Trib. 2 ottobre 2001, T-222/99, T-327/99 e T-329/99, Martinez e a. c. Parlamento, II-2823), il controllo che il PE effettua sulla sua effettiva sussistenza è di carattere unicamente formale. Nei fatti esso lo esercita solo quando l’esistenza di affinità è espressamente negata – com’era in effetti avvenuto nei casi di giurisprudenza citati – dagli stessi soggetti che richiedono di formare un gruppo politico. L’Unione ha anche adottato – con reg. (UE, Euratom) n. 1141/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 ottobre 2014 (GUUE L 317, 1) – lo statuto e le regole di finanziamento dei partiti politici europei e delle fondazioni politiche europee. E successivamente, con un regolamento delegato (2015/2401/UE, del 2 ottobre 2015, GUUE L 333, 50) adottato in sua attuazione, la Commissione ha definito il contenuto e il funzionamento del registro dei partiti politici europei e delle fondazioni politiche europee, istituito dal regolamento di base.
I membri del Parlamento beneficiano di immunità ai sensi del Protocollo (n. 7) sui privilegi e sulle immunità dell’Unione europea. In forza di questo (art. 8), essi non possono essere ricercati, detenuti o perseguiti a motivo dei voti o delle opinioni
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espressi nell’esercizio delle loro funzioni. Inoltre, per la durata delle sessioni del Parlamento europeo, i membri beneficiano sul loro territorio nazionale delle immunità riconosciute ai membri del parlamento dello Stato di appartenenza, e sul territorio di ogni altro Stato membro dell’esenzione da ogni provvedimento di detenzione o da ogni procedimento giudiziario (art. 9). L’immunità li copre anche quando si recano al luogo di riunione del Parlamento o ne ritornano. Essa può essere revocata in taluni casi dallo stesso Parlamento europeo. Secondo la Corte di giustizia, le opinioni dei membri del PE sono coperte dall’immunità di cui all’art. 8 nei limiti dell’esistenza di un nesso tra le stesse, ovunque espresse, e le funzioni parlamentari (v. sentenza 6 settembre 2011, C-163/10, Patriciello, I-7565, punto 33). Sul potere del PE di revocare l’immunità di un proprio membro o di non difenderla dinanzi alle autorità nazionali, si veda recentemente Trib. 17 gennaio 2013, T-346/11 e T-347/11, Gollnisch c. Parlamento, punto 58 ss. Sugli obblighi, invece, del giudice nazionale al riguardo, v. Corte giust. 21 ottobre 2008, C200/07 e C-201/07, Marra, I-7929, punto 31 ss.
L’attività dei parlamentari si divide tra le Commissioni parlamentari e la sessione plenaria, cui unicamente spetta il potere deliberativo. L’esercizio di questo avviene a maggioranza dei suffragi espressi, a meno che non sia diversamente stabilito dai Trattati (art. 231 TFUE). Regole differenti sono ad esempio previste per l’approvazione di una mozione di sfiducia nei confronti della Commissione (maggioranza di due terzi dei voti espressi e maggioranza dei membri che compongono il Parlamento europeo: art. 234 TFUE) e per esprimere il parere su una domanda di adesione di un nuovo Stato membro (maggioranza assoluta dei membri: art. 49 TUE). I lavori parlamentari si ripartiscono tra Strasburgo, dove si tengono nell’arco dell’anno le dodici sedute plenarie ordinarie previste dal Protocollo (n. 6) sulle sedi delle istituzioni e di determinati organi, organismi e servizi dell’UE, e Bruxelles, dove si svolgono le riunioni delle Commissioni e dei gruppi politici e alcune brevi sedute plenarie supplementari. Dal canto suo, a incremento della complessità logistica del funzionamento del Parlamento europeo e dei relativi costi di esercizio, il Segretariato è installato per la gran parte a Lussemburgo.
10. d) La Commissione La Commissione costituisce la quarta istituzione «politica» del sistema istituzionale dell’Unione. Essa vi gioca, per il ventaglio delle sue competenze, un ruolo essenziale. Si assommano, infatti, nella Commissione più competenze che essa è chiamata a esercitare rispetto a tutti i settori di attività dell’Unione, con la sola eccezione della PESC, dove funzioni di sua spettanza nel quadro delle altre attività sono invece qui assolte, come si vedrà più avanti, dall’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Alla Commissione spetta, in primo luogo, un ruolo determinante nell’attività normativa dell’Unione, il quale si esprime, da un lato, nella partecipazione alla formazione degli atti del Consiglio e del Parlamento europeo, dall’altro, nell’adozione di atti normativi propri.
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Quanto alla partecipazione alle decisioni altrui, questa è conseguenza diretta del potere di iniziativa legislativa che in linea di massima i Trattati riconoscono in via esclusiva alla Commissione (infra, Cap. IV, par. 4). Non solo, infatti, tale potere è condizionante dell’avvio del procedimento di adozione di un atto – tranne rari casi, il Consiglio e il Parlamento non possono deliberare se non a partire da una proposta della Commissione –, ma lo è anche del successivo svolgimento di quel procedimento, dato che in base all’art. 293 TFUE il Consiglio non può discostarsi dalla proposta della Commissione se non votando all’unanimità, anche là dove sia prevista la maggioranza qualificata per l’adozione di quel determinato atto. E, d’altra parte, in virtù della medesima disposizione, la stessa Commissione può modificare in ogni momento la propria proposta iniziale. Con il risultato che, a partire dal proprio potere di iniziativa, essa svolge in realtà un ruolo attivo nello stesso negoziato in seno al Consiglio, dato che, mantenendo ferma o modificando la proposta in funzione degli schieramenti che si profilano tra gli Stati membri, essa può contribuire al coagularsi di una maggioranza qualificata. Non a caso una rappresentanza della Commissione partecipa di regola alle riunioni del Consiglio nelle sue varie articolazioni, agendovi sostanzialmente alla stregua di una vera e propria delegazione. Altrettanto importante è poi il potere normativo diretto della Commissione. Infatti, anche se i Trattati glielo attribuiscono formalmente in casi estremamente limitati, in realtà la Commissione finisce per disporne in maniera molto più ampia in ragione del ricorso frequente che gli atti adottati dal Consiglio e dal Parlamento fanno, come si vedrà (infra, Cap. IV, par. 8), alla delega alla stessa Commissione dell’emanazione di successive misure generali di integrazione o applicazione degli atti in questione. In effetti, la maggioranza degli atti giuridici adottati ogni anno dall’Unione sono atti della Commissione adottati in conformità dei poteri ad essa conferiti dal legislatore, o a titolo di delega di cui all’art. 290 TFUE, o come competenze di esecuzione ai sensi dell’art. 291 dello stesso Trattato. Nel 2016, ad esempio, la Commissione ha adottato ben 1494 atti di esecuzione e 137 atti delegati. Quanto, invece, ai rari casi in cui i Trattati attribuiscono in via diretta alla Commissione il potere di adottare atti normativi generali, può ricordarsi in particolare l’art. 45, par. 3, lett. d), TFUE, che dà alla Commissione il compito di fissare, per mezzo di regolamenti, le condizioni alle quali i lavoratori comunitari possono rimanere sul territorio di uno Stato membro dopo avervi occupato un impiego. Si vedano anche l’art. 106, par. 3, TFUE, in materia di concorrenza applicabile alle imprese pubbliche, alle imprese cui gli Stati riconoscono diritti speciali o esclusivi e alle imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale, ai sensi del quale la Commissione può adottare direttive o decisioni, e, in una certa misura, il precedente art. 105, par. 3, TUE, che le riconosce il potere di adottare regolamenti riguardanti determinati accordi tra imprese.
In secondo luogo, i Trattati attribuiscono alla Commissione un generale potere di esecuzione del diritto, che essa è chiamata a esercitare sia sul piano dell’applicazione «amministrativa» degli atti dell’Unione – anch’essa subordinata a una delega da parte del Consiglio e del Parlamento –, sia su quello della vigilanza rispetto alla corretta osservanza delle norme dell’Unione da parte dei destinatari delle stesse. Per quanto riguarda in particolare questo secondo compito, esso si concretizza da un lato nel potere di portare dinanzi alla Corte di giustizia uno Stato membro inadempiente agli
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obblighi che gli sono posti da quelle norme (infra, Parte Seconda, Cap. III), dall’altro nel potere di sanzionare direttamente, in particolare a tutela della concorrenza, i comportamenti contrari al diritto dell’Unione di soggetti privati, così come degli stessi Stati (artt. 101 ss. e 107 ss. TFUE). In terzo luogo, è alla Commissione che in linea di massima spetta la rappresentanza dell’Unione sulla scena internazionale nei settori diversi dalla PESC, sia sotto il profilo della negoziazione degli accordi con Stati terzi, che della gestione successiva degli stessi in particolare per quanto riguarda la presenza e l’azione dell’Unione negli organismi da essi creati (infra, Parte Terza, Cap. V, par. 3). La somma delle competenze sopra descritte finisce per dare alla Commissione una responsabilità determinante nell’orientare l’azione legislativa dell’Unione. Che sia, infatti, attraverso l’esercizio di un potere di iniziativa, oltre che condizionante quasi esclusivo, ovvero attraverso le scelte concretamente assunte in materia di vigilanza sulle violazioni del diritto dell’Unione, la Commissione svolge inevitabilmente un ruolo di impulso e di indirizzo dell’attività normativa di questa. Tutto ciò ne fa un organismo senza precedenti, né emuli nel panorama delle organizzazioni internazionali. Lungi dall’essere un segretariato servente degli organi politici dell’Unione, essa è a sua volta, come si è detto, organo politico, che, cumulando in sé compiti di iniziativa normativa, di gestione di politiche, di vigilanza sul rispetto delle norme, di programmazione delle attività, si pone come «motore» del processo d’integrazione europea, il cui interesse generale è chiamata a rappresentare e garantire. E questa peculiarità ne fa uno degli elementi identificativi della c.d. «sopranazionalità» di quel processo. In ragione di quanto appena osservato, alla Commissione si attribuisce frequentemente la qualifica di «esecutivo», trasferendo nel contesto dell’Unione una formula che, pur se in qualche modo riassuntiva dei compiti ad essa affidati, è elaborata in funzione delle esperienze costituzionali statali. In verità, già di per sé sarebbe azzardato trasporre meccanicamente nella realtà istituzionale dell’Unione formule elaborate in quelle esperienze. Ma, in ogni caso, il parallelo così prospettato tra la Commissione e un governo nazionale, seppur suggestivo, non sarebbe del tutto calzante, se non altro perché, come si è in precedenza osservato, nel sistema istituzionale dell’Unione le funzioni tipiche di un esecutivo nazionale si ritrovano semmai ripartite, insieme con altre attribuzioni, tra Consiglio e Commissione.
i) Il ruolo assolto dalla Commissione nel sistema istituzionale spiega perché essa venga definita dai Trattati come espressione e garante dell’interesse generale dell’Unione (art. 17, par. 1, TUE). Se l’identificazione nella sola Commissione di questo interesse potrebbe oggi apparire a qualcuno discutibile, vista la presenza di un organo di diretta espressione dei cittadini dell’Unione, qual è il Parlamento europeo, quella identificazione continua a contrassegnare in maniera originale la composizione della Commissione. Essa è, infatti, organo di individui, visto che, benché siano proposti dai governi degli Stati membri e in funzione del possesso della cittadinanza di uno di questi (art. 17, parr. 4, 5 e 7, TUE), i suoi membri non sono dal punto di vista formale rappresentanti dello Stato membro di cui hanno la cittadinanza e dal quale il loro nome è stato indicato, ma sono membri a titolo personale dell’istituzione. Del resto, dal pun-
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to di vista formale essi esercitano le loro funzioni «in piena indipendenza», non sollecitando né accettando «istruzioni da alcun governo, istituzione, organo o organismo» (art. 17, par. 3, comma 3, TUE), e dovrebbero essere scelti, come precisa il comma 2 dello stesso art. 17, par. 3, unicamente «in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo» e alle garanzie d’indipendenza che offrono. L’effettivo possesso di questi requisiti da parte dei candidati rientra ovviamente nella piena valutazione politica delle istituzioni che presiedono alla loro nomina e difficilmente sarebbe contestabile in sede giurisdizionale dinanzi alla Corte di giustizia. Fatto sta che la mancanza dell’uno o dell’altro di essi è stata in effetti eccepita talvolta dal Presidente designato della Commissione per opporsi a una determinata candidatura proposta da uno Stato membro. E sulla stessa base è avvenuto che, sempre nel quadro della procedura di nomina di cui si dirà tra poco, il Parlamento europeo abbia espresso un giudizio di inadeguatezza su un singolo commissario proposto dal Consiglio, costringendo così quest’ultimo a sostituirlo prima della sottoposizione della Commissione, nella sua interezza, all’approvazione dello stesso Parlamento. È anche vero, però, che nelle valutazioni al riguardo del Presidente della Commissione e del Parlamento europeo sembrano aver giocato un ruolo più i primi due requisiti, che quello relativo alle garanzie d’indipendenza offerte dal singolo candidato. Negli ultimi anni, infatti, sempre più spesso è successo che siano state proposte (e poi nominate) come membri della Commissione personalità che provenivano, senza soluzione di continuità, da un incarico di governo a livello nazionale; circostanza che, in quanto tale, potrebbe far dubitare, almeno sul piano delle apparenze, delle garanzie di piena indipendenza offerte dall’interessato, dato che elemento centrale dell’indipendenza richiesta ai membri della Commissione dal Trattato è proprio quella rispetto al governo nazionale e che, in generale, un intervallo temporale tra l’esercizio due cariche potenzialmente confliggenti (il c.d. cooling off) è condizione che meglio garantisce l’indipendenza richiesta nell’esercizio di un determinato incarico. La procedura di nomina della Commissione era in origine articolata essenzialmente su due elementi principali: era identica per tutti i membri, tanto che il Presidente era designato tra di essi solo successivamente alla loro nomina, sulla base della stessa procedura utilizzata per la nomina; e la nomina era di spettanza esclusiva dei governi degli Stati membri che vi procedevano con una decisione presa di comune accordo. L’evoluzione successiva della procedura, oggetto nel tempo di varie modifiche, è stata ispirata a tre linee direttrici del tutto diverse: il passaggio a una procedura di nomina di carattere istituzionale, e non più basata sulla volontà dei soli Stati membri; la separazione e la differenziazione della procedura di nomina del Presidente da quella usata per gli altri membri; l’implicazione crescente del Parlamento europeo nella procedura. Il senso di questa evoluzione si ritrova nell’attuale disciplina della procedura, quale dettata dall’art. 17, par. 7, TUE. Essa si articola in tre fasi. Nella prima si procede alla designazione del Presidente, il cui nome deve essere proposto a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo al Parlamento europeo, che deve «eleggerlo» a maggioranza dei suoi membri. Laddove il secondo non approvi la proposta del primo, questo deve ripresentare una proposta entro un mese. La seconda fase è diretta
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invece all’individuazione degli altri membri della Commissione: spetta al Consiglio, in accordo con il Presidente eletto, adottarne l’elenco sulla base delle proposte presentate dagli Stati membri, tenendo conto dei requisiti di competenza e indipendenza che abbiamo visto essere prescritti dal Trattato. Infine, si ha la terza fase, che vede la Commissione nella sua interezza sottoporsi all’approvazione del Parlamento, per poi, in caso di voto positivo di questo, essere formalmente nominata a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo. Sfugge in parte a questa procedura l’Alto Rappresentante, che si è detto essere un membro della Commissione di cui è anzi uno dei vicepresidenti. L’Alto Rappresentante è infatti nominato, come i vedrà tra poco, direttamente dal Consiglio europeo; ed è soggetto unicamente al voto di approvazione che il Parlamento europeo è chiamato a dare sulla Commissione nella sua interezza nella terza fase della procedura sopra descritta.
Va osservato che il Parlamento europeo ha tradizionalmente mirato a caricare di significati politici l’investitura parlamentare della Commissione, anche oltre quanto esplicitamente previsto dai Trattati. In particolare, nel disciplinare nel suo regolamento interno la procedura di elezione del Presidente designato e di approvazione della Commissione (artt. 105 e 106 di detto regolamento), esso vi ha formalizzato la pratica, non imposta dai Trattati, di procedere ad audizioni pubbliche dei singoli candidati: il Presidente designato vi viene invitato «a fare una dichiarazione e a presentare i suoi orientamenti politici al Parlamento» ai fini di una loro discussione in seduta plenaria (art. 105, par. 1); così come, analogamente, i candidati commissari sono invitati «a comparire dinanzi alle varie Commissioni parlamentari secondo le loro prevedibili competenze» per «formulare una dichiarazione» e «rispondere a domande» (art. 106, par. 1). Soprattutto quest’ultima previsione consente nei fatti al Parlamento un’approvazione anche individuale dei futuri commissari, permettendogli di ottenere la sostituzione del o dei candidati rispetto ai quali la sua valutazione sia risultata negativa. È evidente, infatti, che laddove il Presidente designato non procedesse, di concerto con il Consiglio e lo Stato o gli Stati membri interessati, a tale sostituzione, l’approvazione che il Parlamento è chiamato a dare della Commissione nel suo insieme sarebbe a rischio. Ciò si è del resto già verificato nella prassi, costringendo al ritiro di alcune candidature o a un cambiamento del portafoglio previsto per un determinato candidato. In occasione delle ultime elezioni europee, poi, il Parlamento è riuscito a imporre anche la necessità di un collegamento diretto tra il Presidente della Commissione e la maggioranza politica affermatasi nelle elezioni europee. Al riguardo i Trattati prevedono sì che la proposta iniziale del nome da presentare al Parlamento europeo per la sua elezione debba essere formulata dal Consiglio europeo tenendo «conto delle elezioni al Parlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate» (art. 17, par. 7, comma 1, prima frase, TUE). Ma con una risoluzione del 22 novembre 2012 che esortava i partiti politici europei a indicare ciascuno, in vista delle successive elezioni europee del 2014, il proprio candidato alla presidenza della Commissione (il c.d. sistema degli Spitzenkandidaten), il Parlamento ha finito per indirizzare la scelta del Consiglio europeo, nonostante le resistenze di alcuni membri di questo, verso il candidato (Jean-Claude Junker) del partito (il PPE) uscito vincitore, seppur a maggioranza relativa, dalle elezioni.
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ii) I membri della Commissione sono 28 – vi sono inclusi il Presidente e l’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza –, e rimangono in carica per cinque anni. Il loro numero corrisponde quindi al numero degli Stati membri. In realtà, non sono mancati negli anni i tentativi, per ora infruttuosi, di giungere a una composizione più ristretta della Commissione, che non riflettesse più, dato il loro continuo incremento, il numero degli Stati membri. Già sulla base di quanto stabilito in un Protocollo allegato al Trattato di Nizza, il quale innovava rispetto alla precedente regola che consentiva agli Stati più «grandi» (Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Spagna) di designare due commissari ciascuno, il numero dei commissari sarebbe dovuto diventare «inferiore al numero degli Stati membri» a partire dal momento in cui l’Unione avesse contato 27 Stati membri (e quindi dal 2009, data di nomina della prima Commissione successiva all’adesione di Bulgaria e Romania). L’entrata in vigore del Trattato di Lisbona differì però tale data, disponendo in un nuovo art. 17, par. 4, TUE che «la Commissione nominata tra la data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona e il 31 ottobre 2014» sarebbe stata composta da un cittadino di ciascuno Stato membro. Per la verità, nell’ispirazione originaria dell’articolo, questo differimento avrebbe dovuto essere solo transitorio, visto che il suo successivo par. 5 prevede che dopo il 1° novembre 2014 il numero dei commissari avrebbe dovuto corrispondere ai due terzi degli Stati, sulla base di una scelta degli stessi da operare «in base ad un sistema di rotazione assolutamente paritaria tra gli Stati membri che consenta di riflettere la [loro] molteplicità demografica e geografica» (cfr. inoltre, più puntualmente, l’art. 244 TFUE e la dichiarazione (n. 10) allegata ai Trattati). La necessità però di superare le resistenze sopravvenute al riguardo da taluni Stati nel corso dell’iter di ratifica del Trattato di Lisbona (supra, p. 24), ha indotto il Consiglio europeo a ritornare, ancora una volta, a una piena corrispondenza numerica tra i membri della Commissione e gli Stati membri, avvalendosi di quanto stabilito dallo stesso art. 17, par. 5, il cui comma 1 precisa che lo stesso Consiglio europeo, deliberando all’unanimità, può comunque decidere di modificare la composizione della Commissione rispetto al numero di due terzi degli Stati membri indicato in prima battuta da tale articolo. Il 22 maggio 2013 il Consiglio europeo ha infatti adottato la dec. 2013/272/UE (GUUE L 165, 98), il cui art. 1 stabilisce appunto che «[l]a Commissione è composta da un numero di membri, compreso il Presidente e l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, pari al numero degli Stati membri». Benché questa soluzione non corrisponda pienamente alla ratio della disposizione utilizzata (essa è stata palesemente concepita non per vanificare il passaggio a una Commissione ridotta nelle sue dimensioni, ma per consentire al Consiglio europeo, a fronte di eventuali nuovi allargamenti dell’Unione, l’eventuale fissazione di un numero dei membri della Commissione diverso da quello risultante dalla proporzione indicata nell’art. 17), quanto meno lascia aperta la porta ad un successivo ritorno, per la stessa via, a una composizione ridotta della Commissione.
Quanto invece alla durata del mandato dei commissari, essa appare fissata in funzione di quella, ugualmente quinquennale, della «legislatura» del Parlamento europeo. L’obiettivo evidente è quello di stabilire un collegamento temporale (e quindi politico) tra la «vita» delle due istituzioni. Obiettivo che spiega del resto il fatto che la sostituzione per qualsiasi motivo di uno o più dei suoi membri, come dell’intera Commissione, possa avvenire, in linea di massima, solo per la parte restante del mandato del o dei commissari sostituiti (artt. 234, comma 2, e 246, comma 2, TFUE). A parte l’ipotesi di decesso, la cessazione anticipata dal mandato di uno o più dei membri della Commissione può aversi per dimissioni volontarie o d’ufficio (art. 246 TFUE). Queste ultime possono essere decise dalla Corte di giustizia, su istanza del Consiglio (a maggioranza semplice) o della stessa Commissione, quando un membro di questa «non risponda più alle condizioni necessarie all’esercizio delle sue funzioni
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o […] abbia commesso una colpa grave» (art. 247 TFUE), in quanto si sia reso colpevole di una violazione degli obblighi professionali che il Trattato gli impone a tutela dell’indipendenza dell’istituzione. Come ha precisato la Corte di giustizia nella sentenza 11 luglio 2006, causa C-432/04, Commissione c. Cresson, I-6387, punto 70, la nozione di obblighi derivanti dalla carica di commissari va «intesa nel senso che comprende, oltre gli obblighi di onestà e delicatezza espressamente menzionati all’art. 213, n. 2, terzo comma, CE [attuale art. 245, comma 2, TFUE], il complesso dei doveri derivanti dalla carica di membro della Commissione, tra i quali figura l’obbligo, sancito dall’art. 213, n. 2, primo comma, CE [ora art. 17, par. 3, comma 3, TUE], di agire in piena indipendenza e nell’interesse generale della Comunità». Ne deriva l’obbligo dei membri di astenersi non solo dal sollecitare o accettare istruzioni dai governi nazionali, ma anche dall’agire autonomamente in modo «incompatibile con le loro funzioni o con l’esecuzione dei loro compiti», non mantenendo ad esempio la necessaria indipendenza nei confronti di interessi privati e professionali. Ciò comporta che i membri della Commissione non possono esercitare, durante il mandato, alcuna attività professionale, anche non remunerata, e sono tenuti a un vincolo di integrità e lealtà, astenendosi da commistioni tra l’interesse generale di cui sono portatori e qualsiasi interesse privato o particolare, sia durante che dopo la cessazione dalla carica, non accettando ad esempio, in quest’ultimo caso, funzioni e vantaggi che possano confliggere con le responsabilità precedentemente assolte in qualità di commissario (art. 245 TFUE). Come è ovvio, una violazione grave dei propri obblighi commessa dopo la cessazione del mandato o scoperta o provata solo dopo la scadenza di questo (sentenza Cresson sopra cit., punto 74), non avrà come conseguenza le dimissioni d’ufficio, ma potrà essere sanzionata dalla Corte, come previsto dall’art. 245, ultima frase, TFUE, con «la decadenza dal diritto a pensione … o da altri vantaggi sostitutivi» dell’interessato.
Sono per certi versi assimilabili alle dimissioni d’ufficio anche quelle rassegnate da un membro della Commissione su richiesta del Presidente, come previsto dall’art. 17, par. 6, TUE. Sebbene, infatti, esse non conseguano automaticamente a tale richiesta, l’articolo le configura chiaramente come un atto dovuto. Mentre la precedente versione di questa disposizione, contenuta nell’art. 217, par. 4, TCE, condizionava la richiesta del Presidente alla previa approvazione del collegio dei commissari, oggi la responsabilità al riguardo è del solo Presidente. È però da osservare che il PE ha ottenuto di inserire nell’Accordo quadro sui rapporti tra il PE e la Commissione (se ne veda l’ultima versione del 20 ottobre 2010 in GUUE L 304, 47) una previsione ai sensi della quale «qualora il Parlamento chieda al Presidente della Commissione di ritirare la fiducia a un singolo membro della Commissione, il Presidente prende seriamente in considerazione la possibilità di chiedere a tale membro di rassegnare le dimissioni, in conformità dell’art. 17, par. 6, TUE. Il Presidente chiede le dimissioni di tale membro ovvero illustra al Parlamento il motivo del suo rifiuto di farlo nel corso della tornata successiva» (punto 5).
La cessazione anticipata dal mandato può anche interessare la Commissione nel suo insieme. Ciò può derivare dall’approvazione di una mozione di censura da parte del Parlamento europeo (artt. 17, par. 8, TUE e 234 TFUE), dato che in questo caso è stabilito che la Commissione debba abbandonare collettivamente (e obbligatoriamente) il suo mandato. Ma questo passo può conseguire anche a una decisione volontariamente assunta dal collegio dei Commissari. In un caso come nell’altro, è però previsto che, a differenza dall’ipotesi di dimissioni individuali, la Commissione di-
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missionaria rimanga in carica fino alla sua sostituzione secondo la procedura ordinariamente prevista, per assicurare la gestione degli affari correnti. L’ipotesi di dimissioni volontarie collettive dell’intera Commissione si è in effetti già prodotta quando il 15 marzo 1999, a seguito della relazione di una commissione di esperti indipendenti nominata dal PE, che aveva imputato ad alcuni commissari la responsabilità politica di vari «episodi di frode, irregolarità o cattiva amministrazione» verificatisi all’interno della Commissione presieduta da Jacques Santer, questa rassegnò volontariamente e simultaneamente le sue dimissioni. Allora, peraltro, questa fattispecie non era contemplata da alcuna norma del TCE, ricadendo piuttosto sotto la disciplina delle dimissioni volontarie individuali. Se ciò consentì la prosecuzione del mandato fino alla nomina di una nuova Commissione, dato che il Trattato di allora prevedeva questa forma di prorogatio anche per le dimissioni individuali, sorse però il dubbio se la Commissione volontariamente dimissionaria incorresse in una limitazione dell’esercizio delle proprie funzioni, del tipo di quella conseguente a dimissioni per mozione di censura, rispetto alle quali era invece anche allora espressamente previsto che i membri della Commissione dovessero continuare solo «a curare gli affari di ordinaria amministrazione fino alla loro sostituzione». Venendone comunque travolta la funzionalità dell’intero collegio, sarebbe stato logico pensare che simile limitazione fosse da applicare per analogia anche all’ipotesi di dimissioni volontarie collettive. Il Tribunale però, investito del punto da un ricorso, concluse in senso opposto, affermando che in tal caso i membri dimissionari erano da ritenere giuridicamente autorizzati e tenuti a esercitare tutti i poteri loro attribuiti sino alla nomina di una nuova Commissione (Trib. 17 dicembre 2003, T-219/99, British Airways c. Commissione, II-2331, punto 55 s.).
In caso di cessazione anticipata di un singolo membro della Commissione, l’art. 246 prevede una procedura diversa per la nomina del successore a seconda che si tratti di un qualsiasi commissario ovvero dell’Alto Rappresentante, se non, addirittura, del Presidente della Commissione. Ai sensi del comma 2 dell’articolo, infatti, nel primo caso vi provvede il solo Consiglio a maggioranza qualificata, ma di comune accordo con il presidente della Commissione e previa semplice consultazione del Parlamento europeo; nel secondo caso, invece, i commi 4 e 5 stabiliscono che si applichi rispettivamente la procedura di cui all’art. 17, par. 7, comma 1, TUE, per la nomina del nuovo Presidente, e la procedura dettata dall’art. 18 TUE per quella del nuovo Alto Rappresentante (vedila nel par. successivo). Il ricorso a una procedura semplificata di nomina per i “semplici” commissari è evidentemente motivata dal fatto che per essi, nel caso di una nuova Commissione, l’approvazione parlamentare avviene, ai sensi dell’art. 17, par. 7, TUE, nella forma di un’approvazione della Commissione in quanto collegio: trattandosi qui della nomina di un singolo membro, un voto del Parlamento nei suoi confronti finirebbe per dar luogo a un’investitura politica diretta, che mancherebbe invece per gli altri commissari singolarmente considerati. Venendo infine all’organizzazione interna della Commissione, che ha sede a Bruxelles, va osservato che il Presidente della Commissione gode di una posizione autonoma e preminente rispetto agli altri membri del collegio. Spetta formalmente a lui decidere (ed eventualmente modificare in corso di mandato) la distribuzione dei portafogli tra i membri della Commissione (art. 248 TFUE); così come, più generalmente, è lui che definisce gli orientamenti nel cui quadro la Commissione esercita i suoi compiti, ne decide l’organizzazione interna per assicurare la coerenza, l’efficacia e la collegialità della sua azione, e ne nomina – con l’esclusione dell’Alto Rappresentante che lo è di diritto (cfr. par. successivo) – i vicepresidenti (art. 17, par. 6, TUE).
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Quanto agli altri membri, essi operano sulla base appunto di una ripartizione di deleghe conferite loro dal Presidente, analoga a quella che si ha tra i portafogli di un esecutivo nazionale, fermo restando che essi comunque «esercitano le funzioni loro attribuite dal Presidente, sotto la sua autorità» (art. 248 TFUE). A ciascun commissario fanno poi capo, in funzione della delega ricevuta, una o più direzioni generali a competenza settoriale. Ferma restando questa ripartizione tra i diversi membri delle competenze settoriali della Commissione, le decisioni a essa imputabili devono essere comunque approvate dal collegio dei commissari nella sua interezza, il quale delibera «a maggioranza del numero dei suoi membri» (art. 250 TFUE). Il funzionamento della Commissione è, infatti, ispirato al principio di collegialità; principio che riposa sull’uguaglianza dei membri della Commissione nella partecipazione alla presa di decisione e implica in particolare che le decisioni siano prese in comune e che tutti i membri del collegio siano collettivamente responsabili, sul piano politico, del complesso delle decisioni prese. Si vedano al riguardo Trib. 8 luglio 1999, T-266/97, Vlaamse Televisie Maatschappij c. Commissione, II-2329, punto 49; nonché Corte giust. 13 dicembre 2001, C-1/00, Commissione c. Francia, I-9989, punto 79 ss. (ma già 8 giugno 1999, C-198/97, Commissione c. Germania, I-3257, punto 19 s.). La Corte ha comunque affermato la piena compatibilità con il principio di collegialità di un sistema di abilitazione di singoli membri della Commissione a prendere determinate decisioni in nome e sotto il controllo della stessa Commissione (per tutte in particolare, sentenza 23 settembre 1986, 5/85, AKZO Chemie c. Commissione, cit., punto 40).
11. L’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza L’art. 18 TUE prevede la figura dell’Alto Rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Non si tratta di una novità assoluta, dato che fin dal Trattato di Amsterdam era stato previsto che il Segretario generale del Consiglio svolgesse anche le funzioni di Alto Rappresentante (allora «per la politica estera e di sicurezza comune»: art. 207, par. 2, TCE). A seguito del Trattato di Lisbona, però, l’Alto Rappresentante assume un rilievo e caratteristiche sensibilmente diversi, che spiegano perché nel Trattato costituzionale, le cui norme sono all’origine di quelle che lo prevedono nei Trattati attuali, egli fosse definito, con un titolo enfatico venuto meno con il Trattato di Lisbona, il «ministro degli affari esteri dell’Unione». In precedenza, infatti, l’Alto Rappresentante era una stretta emanazione del Consiglio ed esauriva le sue funzioni nell’ambito della PESC, limitandosi ad assistere il Consiglio nelle questioni rientranti in tale settore, «in particolare contribuendo alla formulazione, preparazione e attuazione delle decisioni politiche e conducendo all’occorrenza, a nome del Consiglio e su richiesta della presidenza, un dialogo politico con i terzi» (art. 26 TUE pre-Lisbona). Ora l’Alto Rappresentante, pur rimanendo strettamente collegato al Consiglio e al Consiglio europeo da cui è nominato, è anche membro della Commissione, della quale è anzi uno dei vicepresidenti per disposizione degli stessi Trattati (art. 18, par. 4, TUE). In questa duplice veste egli diventa responsabile dell’intero ventaglio della dimensione
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esterna dell’Unione. Se, infatti, nell’ambito della PESC egli è chiamato a guidare in prima persona l’azione dell’Unione, ivi compresa quella attinente alla sicurezza e difesa comune, contribuendo con le sue proposte alla sua elaborazione e attuandola in qualità di mandatario del Consiglio (artt. 18, par. 2, e 27 TUE), in seno alla Commissione l’Alto Rappresentante è formalmente «incaricato delle responsabilità che incombono a tale istituzione nel settore delle relazioni esterne e del coordinamento degli altri aspetti dell’azione esterna dell’Unione» (art. 18, par. 4, TUE). E questo duplice ruolo trova una sintesi e un ulteriore strumento di esercizio nella già ricordata presidenza del Consiglio Affari esteri, che il par. 3 di quest’ultimo articolo gli affida, in deroga al sistema di presidenza statale che caratterizza tutte le altre formazioni del Consiglio. Rinviando alla Parte Quinta di questo volume per un’analisi più approfondita del compiti dell’Alto Rappresentante, si deve invece qui osservare come il doppio incarico di Alto Rappresentante e Vicepresidente della Commissione è motivo delle particolarità che contraddistinguono la procedura per la sua nomina e il suo statuto. Egli è infatti nominato dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata con l’accordo del Presidente della Commissione (e con la stessa procedura può essere revocato), ma al tempo stesso, come si è detto, la sua nomina è approvata dal Parlamento europeo nel quadro dell’approvazione della Commissione nella sua interezza, come si evince dall’art. 17, par. 7, comma 3, TUE. A questo fine egli è perciò anche soggetto all’audizione dei singoli membri della Commissione da parte delle Commissioni parlamentari competenti, che abbiamo visto precedere per prassi questa approvazione. Allo stesso tempo, in caso di approvazione di una mozione di censura del Parlamento europeo nei confronti della Commissione, l’Alto Rappresentante è tenuto a dimettersi con gli altri commissari dalle funzioni che ricopre all’interno della Commissione (art. 17, par. 8, TUE), ma rimane in carica (in attesa evidentemente della nomina di una nuova Commissione) per le funzioni che egli assolve nel quadro della PESC. Se invece è il Presidente della Commissione che gli chiede di dimettersi, è previsto che l’Alto Rappresentante debba farlo conformemente alla procedura di cui all’art. 18, par. 1, TUE; circostanza, questa, che lascia intendere che le dimissioni rimangono comunque subordinate a una delibera a maggioranza qualificata del Consiglio europeo. Indipendentemente da queste ultime eventualità, essendo al tempo stesso membro della Commissione, il mandato dell’Alto Rappresentante è legato a quello quinquennale di tale istituzione.
12. Le istituzioni di controllo: la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte dei conti Accanto alla generale funzione di vigilanza svolta dalla Commissione, il sistema istituzionale conosce forme più specifiche di controllo sul funzionamento dell’Unione delle quali sono incaricate le rimanenti istituzioni elencate nell’art. 13 TUE: il
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controllo giurisdizionale esercitato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea e il controllo contabile svolto dalla Corte dei conti. Se per l’organizzazione e le competenze della Corte di giustizia si rinvia alla Parte Seconda del volume, e in particolare al suo Cap. II, va qui osservato come la Corte dei conti sia, in effetti, l’istituzione incaricata del controllo esterno sui conti dell’Unione, delle cui istituzioni, organi e organismi esamina le entrate e le spese. Tale controllo riguarda tutte le spese effettuate nel quadro delle attività dell’Unione, con la sola eccezione di quelle operative derivanti da operazioni che hanno implicazioni nel settore militare e della difesa, a meno che il Consiglio non decida all’unanimità di porle a carico degli Stati membri (art. 41, par. 2, TUE). La Corte dei conti è composta di un cittadino per ciascuno Stato membro, che, benché nominato su proposta di questo, ne fa parte a titolo personale, essendo tenuto a esercitare le sue funzioni in piena indipendenza e nell’interesse generale dell’Unione (artt. 285-286 TFUE). Oltre ad offrire garanzie d’indipendenza, i membri devono provenire dalle istituzioni di controllo esterno dei rispettivi paesi o comunque essere dotati di qualificazioni specifiche per la funzione da ricoprire. Essi sono nominati per sei anni (rinnovabili) dal Consiglio che delibera a maggioranza qualificata, previa consultazione del Parlamento europeo e sulla base appunto delle proposte presentate da ciascuno Stato membro. Nel quadro di questa procedura il Parlamento europeo procede, ai sensi dell’art. 108 del proprio regolamento interno, a una audizione dei singoli candidati sui quali esprime una valutazione di rispondenza a taluni criteri che esso stesso ha autonomamente fissato. Il parere del Parlamento (con la valutazione in esso contenuta) rimane tuttavia non vincolante per il Consiglio, né da esso si sentono necessariamente vincolati gli Stati membri da cui provengono le candidature. Il PE ha fissato i criteri cui si ispira la sua valutazione delle candidature con una risoluzione del 19 gennaio 1995 (vedila in GUCE C 43, 75): tra gli altri criteri indicati dal PE vi sono quello della cessazione da qualsiasi mandato elettivo o responsabilità in un partito politico e quello dell’età massima che non deve superare i 65 anni al termine del primo mandato e i 70 al termine del secondo. Quanto invece agli effetti del parere del PE, il citato art. 108 del suo regolamento interno prevede che «qualora il Parlamento abbia espresso parere negativo su una singola candidatura, il Presidente invita il Consiglio a ritirare la proposta e a presentare al Parlamento una nuova proposta». Finora solo una volta si è avuto il ritiro di una candidatura come conseguenza del parere sfavorevole espresso dal Parlamento.
Oltre che per decesso, la fine anticipata del mandato di un membro può aversi per dimissioni volontarie o a seguito di decadenza dichiarata dalla Corte di giustizia, su richiesta della stessa Corte dei conti, per il venir meno dei requisiti necessari o per violazione dei propri obblighi istituzionali. Il sostituto è nominato per la parte restante del mandato. La Corte dei conti, che ha sede a Lussemburgo, nomina al suo interno un Presidente che resta in carica per tre anni, rinnovabili. Essa adotta anche il proprio regolamento interno, che è però soggetto, in contraddizione con il carattere di istituzione della stessa Corte e l’autonomia che ne dovrebbe derivare, all’approvazione a mag-
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gioranza qualificata da parte del Consiglio (art. 287, par. 4, ultimo comma, TFUE). Quello vigente è stato adottato l’11 marzo 2010 (ed è pubblicato in GUUE L 103, 1). Il 2 giugno 2016 la Corte dei conti ha adottato, con propria dec. 38-2016, anche una nuova versione delle modalità di applicazione dello stesso.
La Corte dei conti svolge la sua missione sulla base di una duplice funzione, di controllo e consultiva (art. 287 TFUE). Per quanto riguarda la prima, la Corte dei conti compie un esame delle entrate e delle spese delle istituzioni e degli organi e organismi dell’Unione, che ha ad oggetto sia la legittimità e la regolarità delle une e delle altre, che la sana gestione finanziaria. A questo fine essa può svolgere le indagini necessarie presso i locali delle altre istituzioni, di qualunque organismo di gestione delle entrate e delle spese dell’Unione e di qualunque persona fisica o giuridica che riceva contributi a carico del bilancio della stessa, e tali soggetti, a loro volta, sono tenuti a trasmettere alla stessa Corte ogni documento o dato utile allo scopo. Al termine di ciascun esercizio, questa redige una relazione annuale sull’esecuzione del bilancio, che include una dichiarazione di affidabilità concernente, appunto, l’affidabilità dei conti e la legittimità e la regolarità delle operazioni sottostanti. Alla relazione generale si aggiungono relazioni specifiche riguardanti taluni organismi dell’Unione, quali, in particolare, le agenzie europee di cui parleremo più avanti. La Corte può inoltre presentare in ogni momento le sue osservazioni su problemi particolari sotto forma di relazioni speciali. La funzione consultiva si estrinseca invece in pareri che la Corte dei conti può produrre di propria iniziativa o su richiesta di una delle altre istituzioni dell’Unione. In due casi tale richiesta è anzi obbligatoria, perché espressamente prevista dai Trattati (artt. 322 e 325 TFUE): ciò comporta che, come accade in altre forme di consultazione obbligatoria, la mancanza del parere, fermo restandone il carattere non vincolante, rende illegittimo l’atto per la cui adozione sia previsto. E, come stabilisce l’art. 263, comma 3, TFUE, tale illegittimità può essere fatta valere dinanzi alla Corte di giustizia dalla stessa Corte dei conti.
13. Gli organismi monetari e finanziari: a) la Banca centrale europea All’interno del sistema istituzionale si ritrovano poi taluni organismi operanti nei settori monetario (la Banca centrale europea o BCE) e finanziario (la Banca europea per gli investimenti o BEI), i quali pur se caratterizzati, in funzione delle specificità delle rispettive competenze, da un’ampia indipendenza o autonomia nell’assolvimento dei compiti e nel perseguimento degli obiettivi loro assegnati, sono comunque parte integrante di quel sistema. Del resto, con il Trattato di Lisbona, almeno la BCE, come si è visto, ha formalmente assunto lo status di «istituzione» dell’Unione. Ambedue le banche, in effetti, sono dotate di una propria personalità giuridica in forza dei Trattati (rispettivamente artt. 282, par. 3, e 308 TFUE); ambedue dispongono di risorse e di un bilancio propri, nonché di loro organi decisionali cui spetta assicurarne l’amministrazione e la gestione; e ambedue, nell’assolvimento dei rispet-
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tivi compiti, operano in una posizione di marcata autonomia dalle altre istituzioni, così da essere in grado, la BCE, di svolgere in maniera indipendente la sua funzione di governo della moneta (Corte giust. 10 luglio 2003, C-11/00, Commissione c. BCE, I-7147, punto 130 ss.), e la BEI, «di agire in piena indipendenza sui mercati finanziari, alla stregua di qualsiasi altra banca» (Corte giust. 3 marzo 1988, 85/86, Commissione c. BEI, I-1281, punto 28). Per la BCE ciò è espressamente previsto dall’art. 130 TFUE, secondo il quale «[n]ell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dai Trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE, né la Banca centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione nonché i governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio e a non cercare di influenzare i membri degli organi decisionali della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali nell’assolvimento dei loro compiti».
Tuttavia, come la Corte di giustizia ha avuto modo di sottolineare nel quadro dei precedenti Trattati con le sentenze appena ricordate, ambedue le banche non perdono per questo il loro carattere di organismi dell’Unione e del suo sistema istituzionale, visto che hanno il compito di contribuire, ciascuna per la propria competenza, alla realizzazione degli scopi dell’Unione (artt. 282, par. 2, e 309 TFUE); e che la loro particolare condizione di autonomia è strettamente funzionale e limitata a quanto necessario all’assolvimento dei loro compiti, restando per il resto soggette, ambedue, alle norme e ai principi che disciplinano il sistema istituzionale e alle misure generali adottate dal legislatore europeo, oltre che al controllo della Corte di giustizia. La stessa personalità giuridica, che come si è detto i Trattati attribuiscono loro, va pertanto intesa non nel senso di una soggettività delle due banche separata da quella dell’Unione, quanto piuttosto come una manifestazione ulteriore della loro autonomia funzionale e organizzativa all’interno della struttura istituzionale di questa. a) La BCE costituisce il nucleo centrale del Sistema europeo di banche centrali (SEBC), cui è dato l’obiettivo di garantire la stabilità dei prezzi e di sostenere le politiche economiche generali nell’Unione (art. 282 TFUE). Il SEBC, di cui fanno parte le banche centrali nazionali della zona euro, è infatti diretto dagli organi decisionali della BCE, ai cui indirizzi ed istruzioni le banche centrali devono attenersi. La composizione e il funzionamento della BCE (e del SEBC) sono disciplinati dalle norme dei Trattati e del Protocollo (n. 4) sullo Statuto del SEBC e della BCE. Il Consiglio direttivo della BCE è l’organo cui spettano la definizione degli indirizzi generali del SEBC e della politica monetaria dell’Unione e l’esercizio delle funzioni consultive che il Trattato attribuisce alla Banca. Esso comprende i 6 membri del comitato esecutivo, di cui di seguito nel testo, e i governatori delle banche centrali degli Stati aderenti all’euro. Ogni membro del Consiglio dispone di un voto e, salvo se diversamente previsto dallo Statuto, le decisioni sono prese a maggioranza semplice (art. 10.2, comma 4, Statuto). Oggi, però, il diritto di voto non spetta sempre a tutti i membri. A partire infatti dal 1° gennaio 2015, data di adesione della Lituania all’euro, è diventato di applicazione un sistema di votazione assai complesso,
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basato su un esercizio a rotazione del diritto di voto da parte dei governatori delle banche centrali. Il sistema di rotazione, che è disciplinato dal citato art. 10.2 dello Statuto, è stato istituito da una decisione del 21 marzo 2003 di modifica della precedente versione dello Statuto, adottata, come previsto dall’allora par. 6 dell’art. 10, dal Consiglio dell’Unione riunito a livello dei capi di Stato o di governo (2003/223/CE, GUUE L 83, 66) e poi ratificata da tutti gli Stati membri secondo le rispettive procedure costituzionali. La decisione, presa per salvaguardare l’efficienza e la tempestività del processo decisionale del Consiglio direttivo a fronte del previsto allargamento dell’area dell’euro e del conseguente aumento del numero dei governatori delle banche centrali presenti nel Consiglio direttivo, pur mantenendo il principio cardine “un membro, un voto” fissa un tetto di 15 al numero dei voti esprimibili dai governatori e stabilisce di conseguenza che questi esercitino il loro voto a rotazione nel limite di quel tetto, così da mantenere anche l’equilibrio originario dei diritti di voto tra i sei membri del Comitato esecutivo e gli altri membri del Consiglio direttivo. La rotazione è organizzata in modo da assicurare che i governatori aventi di volta in volta il diritto di voto siano quelli di banche centrali di Stati membri rappresentativi, nell’insieme, dell’economia dell’intera area dell’euro. A questo fine i governatori, che esercitano a turno i diritti di voto con una rotazione mensile, sono suddivisi in gruppi composti in base alle dimensioni delle economie e dei settori finanziari dei singoli Stati membri euro. I governatori dei paesi che occupano dalla prima alla quinta posizione (attualmente Germania, Francia, Italia, Spagna e Paesi Bassi) dispongono collettivamente di 4 voti, mentre i restanti 14 condividono 11 voti. Ad ogni modo, tutti i membri del Consiglio direttivo assistono alle riunioni e hanno titolo a prendere la parola, indipendentemente dalla disponibilità dei diritti di voto rispetto alla delibera da prendere. Originariamente era stato previsto che questo sistema di rotazione divenisse d’applicazione al momento in cui il numero dei membri del Consiglio direttivo fosse diventato superiore a 21 per l’aumento a 15 degli Stati membri euro e, quindi, dei governatori presenti in Consiglio. Questo numero è stato raggiunto con l’adesione all’euro della Slovacchia il 1° gennaio 2009. Ma con una decisione del 18 dicembre 2008 dello stesso Consiglio direttivo, consentita dall’art. 10.2, comma 1, ultimo trattino, dello Statuto, la data di entrata in vigore del nuovo sistema di voto è stata differita al momento in cui il numero dei governatori nel Consiglio direttivo fosse diventato superiore a 18 (art. 1 della dec. BCE/2008/29 sulla proroga dell’avvio del sistema di rotazione nel Consiglio direttivo della Banca centrale europea, GUUE L 3 del 7 gennaio 2009, 4).
Il Comitato esecutivo, cui competono la gestione corrente della Banca e l’attuazione degli indirizzi di politica monetaria decisi dal Consiglio direttivo, è organo permanente composto da un Presidente, che è anche il Presidente della BCE e del Consiglio direttivo, da un Vicepresidente e da altri quattro membri, tutti nominati di comune accordo, per otto anni non rinnovabili, dal Consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata su raccomandazione del Consiglio e previa consultazione del Parlamento europeo e del Consiglio direttivo della BCE (art. 283 TFUE). Il Comitato decide di regola a maggioranza semplice, con il voto decisivo del Presidente in caso di parità. Fintantoché non tutti gli Stati membri faranno parte dell’euro, il Consiglio direttivo e il Comitato esecutivo saranno affiancati da un Consiglio generale, composto dal Presidente e dal Vicepresidente della BCE e dai governatori delle banche centrali di tutti gli Stati membri, deputato a essere l’istanza di consultazione tra gli Stati aderenti e non all’euro, in particolare con riguardo ai tassi di cambio tra questo e le monete degli altri Stati membri. La BCE ha le funzioni consuete di una banca centrale di emissione e in particola-
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re può emettere, unitamente alle banche centrali nazionali, le banconote della moneta unica. Conformemente all’art. 37 dello Statuto, la sede è stata fissata a Francoforte di comune accordo tra i governi degli Stati membri. In capo alla Banca si ritrova indubbiamente un’insolita concentrazione di poteri: le spetta quello di adottare atti normativi (art. 132, par. 1, TFUE), ma allo stesso tempo essa svolge una funzione di controllo sull’esercizio di competenze altrui, dovendo essere consultata per parere – seppur non vincolante – su molte deliberazioni di spettanza del Consiglio, nonché sui progetti di norme nazionali che gli Stati vogliano adottare in materie che riguardino le competenze della Banca (art. 282, par. 5, TFUE); in altri casi spetta poi a questa un potere d’iniziativa legislativa nei confronti del Consiglio (art. 129, par. 4, TFUE); e infine essa è finanche dotata di un potere sanzionatorio nei confronti delle imprese che violino gli obblighi imposti dai regolamenti e dalle decisioni da essa adottati (art. 132, par. 3, TFUE). Ciò non toglie che con riferimento ad alcuni aspetti del funzionamento della moneta unica compiti essenziali siano assegnati anche al Consiglio dell’Unione – il quale può peraltro, attraverso il proprio Presidente, partecipare alle riunioni del Consiglio direttivo della Banca, nonché sottoporre «mozioni» alla delibera dello stesso (art. 284, par. 1, TFUE) – e alla Commissione. Spetta in particolare al Consiglio il ruolo centrale per quanto riguarda il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, l’altro volet cioè dell’unione economica e monetaria, nell’ambito del quale esso detiene tanto un potere decisionale e di indirizzo, che un potere sanzionatorio nei confronti degli Stati membri per quel che riguarda eventuali situazioni di eccessivo disavanzo pubblico, potere che esso esercita su impulso esclusivo e determinante della Commissione (al riguardo si veda infra, p. 684 ss.).
14. b) La Banca europea per gli investimenti b) Come si è già accennato, la BEI è l’organismo finanziario dell’Unione. Essa ha, infatti, la missione di contribuire a uno sviluppo equilibrato del mercato interno, finanziando, mediante la concessione di prestiti e garanzie, progetti diretti alla valorizzazione delle regioni meno sviluppate o all’ammodernamento o riconversione di imprese, ovvero più in generale progetti di interesse comune per più Stati membri, e dei quali questi non sarebbero in grado di assicurare autonomamente l’integrale finanziamento (art. 309 TFUE). La sua attività si è inoltre estesa, in tempi più recenti, anche ad interventi al di fuori dell’Unione e in particolare verso i paesi in via di sviluppo e verso quelli dell’Europa centrale e orientale aspiranti all’adesione. Al pari della BCE, la BEI, che ha sede a Lussemburgo, è disciplinata, oltre che da norme dei Trattati, da un proprio Statuto contenuto in un Protocollo, il n. 5, ad essi allegato. E sempre al pari della BCE, essa è dotata di un proprio apparato organico e amministrativo che ne assicura la gestione politica e operativa. Al vertice di questo vi è il Consiglio dei governatori composto da un ministro per Stato membro (in generale il ministro delle finanze), che ha il compito, tra l’altro, di fissare le direttive generali delle politiche di credito della BEI e di decidere gli aumenti di capitale. Con l’eccezione di talune deliberazioni per le quali è richiesta l’unanimità,
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il Consiglio decide a maggioranza semplice dei suoi membri (che deve però rappresentare almeno il 50% del capitale sottoscritto), o, laddove espressamente stabilito, alla maggioranza qualificata prevista dai Trattati per il Consiglio dell’Unione. La concreta concessione di crediti e garanzie e più in generale la gestione operativa della BEI sono invece assicurate da un Consiglio di amministrazione, formato da 26 amministratori (e 16 sostituti). Questi sono nominati a titolo personale dal Consiglio dei governatori per un mandato di 5 anni rinnovabile, in ragione di un amministratore per ciascuno Stato membro e uno per la Commissione, e sono responsabili solo dinanzi alla BEI. Il Consiglio di amministrazione, che vota, se non altrimenti previsto, alla maggioranza di 1/3 dei membri, rappresentanti almeno il 50% del capitale sottoscritto, è affiancato da un Comitato direttivo che si occupa della preparazione delle sue decisioni e dell’ordinaria amministrazione. Tale Comitato, formato da un Presidente, che presiede anche il Consiglio di amministrazione, e da 8 vicepresidenti, è nominato per 6 anni dal Consiglio dei governatori su proposta del Consiglio di amministrazione.
15. Gli organi consultivi: a) il Comitato economico e sociale Ai sensi dell’art. 13, par. 4, TUE, il «Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione sono assistiti da un Comitato economico e sociale e da un Comitato delle regioni, che esercitano funzioni consultive». Non si tratta dei soli organi operanti nel quadro dell’Unione ai quali siano assegnate funzioni consultive. I Trattati ne prevedono altri – si pensi al Comitato per l’occupazione (art. 150 TFUE) o al Comitato per la protezione sociale (art. 160 TFUE) – e altri ancora ne sono stati creati con autonome decisioni delle istituzioni. Del resto, attraverso questo tipo di organi si mira a far sì che il processo decisionale si svolga nella consapevolezza degli specifici interessi di volta in volta in gioco e della valutazione degli ambienti direttamente coinvolti, così che gli atti delle istituzioni «siano emanati con la massima circospezione e prudenza» (Corte giust. 21 marzo 1955, 6/54, Paesi Bassi c. Alta Autorità, 222). Tanto che, laddove i Trattati espressamente prevedano l’obbligo dell’istituzione competente ad adottare un atto di ottenere previamente il parere, seppur non vincolante, di un dato organo consultivo, la mancata consultazione di questo è suscettibile di rendere illegittimo l’atto per violazione delle forme sostanziali (a contrario, Corte giust. 9 luglio 1987, 281/85, da 283/85 a 285/85 e 287/85, Germania e a. c. Commissione, 3203, punto 39). Ciò detto, è indubbio che, nel panorama istituzionale dell’Unione, il Comitato economico e sociale e il Comitato delle regioni occupano un posto a sé stante e non molto lontano da quello riservato alle istituzioni. A differenza di tutti gli altri organi consultivi, ivi compresi quelli previsti dai Trattati, per i quali questi ultimi si limitano a rinviare, per la loro concreta istituzione e la fissazione delle rispettive regole di funzionamento, a una successiva decisione del Consiglio, la composizione e il funzionamento del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni sono disciplinati direttamente nei Trattati. In questo quadro, inoltre, essi sono i soli, come si vedrà, ad avere una composizione strettamente non governativa; sono i soli a godere
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di un’effettiva autonomia regolamentare e finanziaria; sono i soli ad avere competenze ampie e non limitate a uno specifico settore di attività dell’Unione. Per quanto riguarda l’autonomia regolamentare e finanziaria, una dichiarazione annessa all’Atto finale della Conferenza intergovernativa di Maastricht ha, in effetti, previsto che «il Comitato economico e sociale [CES] goda della stessa indipendenza di cui ha finora goduto la Corte dei conti per quanto riguarda il bilancio e la gestione del personale». L’abrogazione da parte del Trattato di Amsterdam del Protocollo (n. 16) adottato ugualmente a Maastricht e che assegnava al Comitato delle regioni (CDR) «una struttura organizzativa comune con il [CES]», ha comportato l’assunzione di analoga indipendenza anche da parte del CDR.
a) Come suggerito già dalla sua denominazione, il Comitato economico e sociale è l’organo consultivo rappresentativo «della società civile, in particolare nei settori socioeconomico, civico, professionale e culturale» (art. 300, par. 2, TFUE). In particolare esso riunisce rappresentanti delle organizzazioni di datori di lavoro, di lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi di quella società civile, anche se è ora previsto che la natura della sua composizione debba essere riesaminata a intervalli regolari dal Consiglio, per permettergli eventualmente di modificarla, con una decisione a maggioranza semplice su proposta della Commissione, di fronte a un’eventuale evoluzione economica, sociale e demografica dell’Unione (par. 5). Nel rappresentare gli interessi suddetti, i componenti del Comitato ne fanno comunque parte a titolo personale. Il Trattato espressamente prevede, infatti, che essi non sono vincolati da alcun mandato imperativo essendo chiamati a esercitare le loro funzioni in piena indipendenza nell’interesse generale dell’Unione (art. 300, par. 4, TFUE). Ciò vale a maggior ragione nei confronti degli Stati membri, su proposta dei quali, come si vedrà, essi sono nominati. Il Trattato fissa in un massimo di 350 il numero dei membri, la cui ripartizione tra gli Stati membri è decisa all’unanimità del Consiglio (art. 301, comma 2, TFUE). E anche in questo caso essa è basata sull’assegnazione a ciascuno Stato di un numero di membri più o meno commisurato alle dimensioni demografiche dello stesso. Nella composizione attuale, relativa al mandato 2015-2020, i 350 membri del CES sono ripartiti tra gli Stati membri in ragione di 24 ciascuno per Francia, Germania, Italia e Regno Unito, 21 per Polonia e Spagna, 15 per la Romania, 12 per Austria, Belgio, Bulgaria, Grecia, Paesi Bassi, Portogallo, Repubblica Ceca, Svezia e Ungheria, 9 per Croazia, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Lituania e Slovacchia, 7 per Lettonia e Slovenia, 6 per l’Estonia e 5 per Cipro, Lussemburgo e Malta. Va peraltro rilevato che seguito di una modifica recata dal Trattato di Nizza i membri del Comitato possono anche non essere cittadini degli Stati membri che li designano.
I membri sono nominati dal Consiglio a maggioranza qualificata per un mandato di 5 anni, rinnovabile, che, seppur commisurato anch’esso alla durata legislatura europea, prende il via, per consuetudine, l’anno successivo a quello del PE e della Commissione. Il Consiglio delibera sulla base delle proposte formulate dagli Stati membri ed è tenuto a consultare al riguardo solo la Commissione, il cui parere, seppur obbligatorio, non è vincolante. Peraltro, il margine di discrezionalità del Consiglio rispetto alle proposte provenienti dagli Stati membri è ridotto, non essendo nemmeno più chiamato, com’era invece in precedenza previsto, ad assicurare
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un’adeguata rappresentanza alle diverse categorie della vita economica e sociale. Tale rappresentanza dovrebbe comunque essere in qualche modo garantita a livello di proposte formulate dagli Stati membri, visto che anch’essi sono destinatari dell’indicazione puntuale, contenuta nell’art. 300 TFUE, delle categorie che dovrebbero essere in ogni caso rappresentate nel Comitato. Inoltre, ai sensi dell’art. 302, par. 2, TFUE, prima di procedere alla nomina dei membri del Comitato il Consiglio può anche decidere, senza esservi obbligato, di chiedere il parere, oltre che della Commissione, anche delle organizzazioni europee rappresentative dei diversi settori economici e sociali interessati dall’attività dell’Unione. In ogni caso, il margine di manovra del Consiglio in fase di nomina del Comitato risulta oggi ulteriormente ridotto rispetto al passato dalla soppressione, anch’essa dovuta al Trattato di Nizza, dell’obbligo degli Stati membri di proporre un numero di candidati doppio rispetto al numero dei membri spettante a ciascuno di essi.
Spetta al Comitato designare (tra i membri) il suo Presidente e adottare il proprio regolamento interno. Questo prevede in particolare che il Comitato si articola in tre gruppi di membri, che rappresentano rispettivamente i datori di lavoro, i lavoratori dipendenti e le altre componenti economiche e sociali della società civile organizzata (art. 27). La sua organizzazione per sezioni specializzate, competenti per i principali settori di attività dell’Unione, prima prevista direttamente a livello di TCE (art. 261), è ora lasciata alla disciplina del regolamento interno. Questo stabilisce, in effetti, le modalità di composizione e le norme relative alla competenza delle sezioni specializzate. Esse sono attualmente sei, competenti per i principali settori di azione dell’Unione attinenti alla missione del Comitato: Agricoltura, sviluppo rurale e ambiente; Unione economica e monetaria e coesione economica e sociale; Impiego, affari sociali e cittadinanza; Relazioni esterne; Mercato interno, produzione e consumo; Trasporti, energia, infrastrutture e società dell’informazione.
L’attività del Comitato consiste essenzialmente nella formulazione di pareri su proposte di atti specifici o su tematiche generali di competenza dell’Unione. I pareri possono essere formulati d’iniziativa dello stesso Comitato o su richiesta del Parlamento europeo, del Consiglio o della Commissione. In taluni casi, queste istituzioni sono anzi tenute dallo stesso TFUE a consultare il Comitato prima dell’adozione di loro atti. Quando ciò è previsto, e fermo restando il valore non vincolante del parere del Comitato, la sua mancanza è motivo d’illegittimità dell’atto adottato senza richiedere o attendere il parere. Rispetto a quest’ultima ipotesi, tuttavia, il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione hanno comunque la possibilità, quando lo considerino necessario, di imporre al Comitato un termine, non inferiore a un mese, per la formulazione del parere, superato il quale l’atto può essere adottato anche in assenza dello stesso (art. 304, comma 2, TFUE). I settori nei quali il TFUE richiede la consultazione obbligatoria del Comitato economico e sociale sono assai numerosi, coprendo praticamente tutto il ventaglio del mercato interno, ivi compresa l’armonizzazione delle legislazioni, nonché i trasporti, l’occupazione e la politica sociale, la sanità pubblica, la protezione dei consumatori, le reti transeuropee, la politica industriale, la coesione economica e sociale, la ricerca e l’ambiente.
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16. b) Il Comitato delle regioni b) Il Trattato di Maastricht ha affiancato al Comitato economico e sociale, fin dal 1993, il Comitato delle regioni. Con la sua creazione si è voluto dar voce, nel funzionamento del processo d’integrazione europea, alle collettività politiche locali, permettendo loro di rappresentare il loro punto di vista direttamente e senza la mediazione degli Stati. Il Comitato delle regioni è, infatti, composto di rappresentanti delle collettività regionali e locali degli Stati membri. Al pari di quanto previsto per i membri del Comitato economico e sociale, anch’essi non sono vincolati da alcun mandato imperativo e sono chiamati a esercitare le loro funzioni in piena indipendenza nell’interesse generale dell’Unione, sedendo perciò formalmente nel Comitato a titolo personale. Nel loro caso, tuttavia, il rapporto esistente con l’istanza regionale o locale di provenienza riveste un valore formale. A seguito di una modifica recata dal Trattato di Nizza, infatti, i membri del Comitato delle regioni devono essere «titolari di un mandato elettorale nell’ambito di una collettività regionale o locale, o politicamente responsabili dinanzi ad un’assemblea eletta» (sempre a livello regionale o locale) (art. 300, par. 3, TFUE). Pertanto, se tale qualità viene meno in corso di mandato, essi cessano automaticamente di far parte del Comitato e devono essere sostituiti da un nuovo membro per la restante durata del mandato (art. 305, comma 3, TFUE). Ancora al pari del Comitato economico e sociale, anche il Comitato delle regioni conta attualmente 350 membri, ai quali si aggiungono qui altrettanti supplenti, nominati gli uni e gli altri per 5 anni sulla base di una procedura e di una ripartizione tra gli Stati membri anch’esse identiche a quelle previste per l’altro Comitato. Spetta perciò a ogni Stato membro designare i propri candidati al Comitato delle regioni, così come spetta a ciascuno Stato membro determinare la proporzione, all’interno della quota di membri assegnatagli, tra i rappresentanti dei diversi livelli del decentramento. In Italia, cui spettano 24 membri (e 24 supplenti), quella proporzione è stata fissata, per l’attuale Comitato, dal d.P.C.M del 9 gennaio 2015 (GURI 2 febbraio 2015, n. 26), in ragione di 14 membri titolari per le regioni e province autonome (di cui 4 rappresentanti delle assemblee legislative e gli altri delle giunte), 3 per le province e 7 per i comuni; mentre la proporzione cambia per i 24 membri supplenti, dei quali 10 spettano alle regioni e province autonome (sempre con 4 di loro di spettanza delle assemblee legislative), 3 alle province e 11 ai comuni (art. 1, rispettivamente commi 1 e 3). Il d.P.C.M., che è stato adottato sulla base dell’art. 27 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, recante norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’UE (GURI 4 gennaio 2013, n. 3), e di cui si dirà ampiamente nel Cap. III della Parte Sesta, stabilisce anche che le relative designazioni sono fatte al Governo, cui spetta comunicarle al Consiglio dell’Unione europea, dalle rispettive conferenze rappresentative (comma 2, che comunque riprende il comma 2 del citato art. 27 della legge n. 234/2012) e che ne possono essere oggetto i presidenti delle regioni e delle province autonome, i rappresentanti delle assemblee regionali, i presidenti delle province, i sindaci nonché i componenti dei rispettivi consigli o giunte (comma 4). Dal canto suo, l’art. 305, comma 3, TFUE stabilisce che i membri del CdR non possono essere nel contempo membri del PE.
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Quanto all’organizzazione interna del Comitato, anche qui i punti di contatto con il Comitato economico e sociale sono molti, in particolare per quanto riguarda la nomina del Presidente, l’adozione del regolamento interno e lo svolgimento dei lavori per Commissioni specializzate (ugualmente in numero di sei). A differenza di quanto avviene nel Comitato economico e sociale, però, i membri del Comitato delle regioni si aggregano per gruppi politici, che riflettono i principali orientamenti presenti anche nel Parlamento europeo. Si tratta infatti del Gruppo del Partito popolare europeo (PPE), del Gruppo del Partito dei Socialisti europei (PSE), del Gruppo dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE), del Gruppo Alleanza europea (UEN-EA) e del Gruppo dei Conservatori e Riformisti europei (ECR). Le sei Commissioni specializzate sono invece: la Commissione per l’Ambiente, il cambiamento climatico e l’energia (ENVE), la Commissione per la cittadinanza, la governance, gli affari istituzionali e le relazioni esterne (CIVEX), la Commissione per la Politica economica (ECON), la Commissione per la politica sociale, l’educazione, l’impiego, la ricerca e la cultura (SEDEC), la Commissione per la Politica di coesione territoriale e il bilancio dell’Unione europea (COTER) e la Commissione per le risorse naturali (NAT).
Anche la funzione consultiva del Comitato delle regioni è esercitata, in base all’art. 307 TFUE, secondo modalità identiche a quelle previste per il Comitato economico e sociale: esso è consultato dal Parlamento europeo, dal Consiglio o dalla Commissione nei casi previsti dai Trattati ovvero ogni volta che le stesse istituzioni lo ritengano opportuno, «in particolare nei casi concernenti la cooperazione transfrontaliera» (comma 1); quando la consultazione è imposta dai Trattati, l’atto adottato senza richiedere o attendere il parere del Comitato è illegittimo, a meno che il Parlamento, il Consiglio o la Commissione non abbiano imposto invano un termine di (almeno) un mese per l’emanazione del parere (comma 2); il Comitato può infine, quando lo ritenga utile, formulare pareri di sua iniziativa (comma 4). Quanto alle materie oggetto della sua consultazione, questa è obbligatoriamente prevista in un numero minore di settori rispetto al Comitato economico e sociale. È tuttavia stabilito che, ogniqualvolta quest’ultimo debba essere consultato in base ai Trattati, il Parlamento, il Consiglio o la Commissione devono informarne il Comitato delle regioni, affinché esso possa a sua volta formulare su quella data questione un proprio parere, «qualora ritenga che sono in causa interessi regionali specifici» (comma 3). In relazione a questa sua funzione consultiva va peraltro ricordato che il Protocollo (n. 2) sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità (sul quale si veda diffusamente infra, p. 429 ss.) consente al Comitato di far valere direttamente dinanzi alla Corte di giustizia l’eventuale contrasto con il principio di sussidiarietà di atti legislativi dell’Unione per l’adozione dei quali i Trattati richiedano la sua consultazione (art. 8, comma 2, di detto Protocollo); ciò, evidentemente, in ragione della rappresentanza, che il Comitato esprime, di livelli di governo che negli Stati membri possono essere direttamente coinvolti dal funzionamento o meno del principio di sussidiarietà nell’esercizio delle competenze dell’Unione.
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17. Le agenzie europee Occorre infine ricordare che il sistema istituzionale dell’Unione si è andato ulteriormente arricchendo nel corso degli anni con l’affiancamento alle istituzioni e agli organi consultivi menzionati nell’art. 13 TUE di ulteriori organismi, di diverso livello e funzioni, nati non solo sulla base di decisioni prese a livello dei Trattati o di previsioni esplicite di questi, ma anche di decisioni autonome delle stesse istituzioni dell’Unione. Tra questi un particolare rilievo sul piano tanto quantitativo, che qualitativo, ha assunto la creazione, attraverso atti del Consiglio, o del Consiglio e del Parlamento, di c.d. agenzie europee. Queste, che hanno oggi quasi raggiunto il numero di quaranta (se ne veda l’elenco completo in allegato nella Scheda 7), hanno come tratto comune il fatto di configurarsi come organismi specializzati dotati di personalità giuridica e di una certa autonomia organizzativa e finanziaria, incaricati di assicurare una migliore attuazione di atti e normative dell’Unione riguardanti materie tecnicamente complesse, fornendo assistenza alle istituzioni sotto forma di pareri e raccomandazioni, ovvero esercitando compiti ispettivi o, ancora, adottando decisioni individuali nei confronti dei soggetti dell’ordinamento. Ciò non deve far credere, però, che le agenzie europee siano del tutto assimilabili alle agenzie o «autorità» indipendenti, che molti ordinamenti nazionali, tra cui il nostro, conoscono. Se ad esse le accomuna in molti casi la funzione regolatoria o esecutiva che sono chiamate a svolgere, sulla base di un’alta qualificazione tecnica, in settori specifici di competenza dell’Unione, non può dirsi altrettanto del carattere di indipendenza, visto che nella struttura gestionale delle agenzie europee sono di regola formalmente rappresentati tanto gli Stati membri che la Commissione europea. Esse rappresentano così nel sistema dell’Unione più l’espressione di un decentramento della funzione amministrativa in capo ad organi tecnici, che una volontà di sottrarre l’esercizio di quella funzione al condizionamento del potere politico. Il decentramento della agenzie non è solo amministrativo, ma anche fisico, nel senso che le loro sedi non sono concentrate, come quelle delle istituzioni e degli altri organi e organismi dell’Unione, in una sola città (in linea di principio Bruxelles), ma sono distribuite in tutto il territorio dell’Unione. Oggi, infatti, quasi tutti gli Stati membri ospitano almeno un’agenzia: in Italia, in particolare, sono collocate la sede dell’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA) e quella della Fondazione europea per la formazione (ETF), situate rispettivamente a Parma e a Torino. Come per le istituzioni, la decisione sulla sede delle agenzie è presa anch’essa direttamente dai governi degli Stati membri, ai sensi dell’art. 341 TFUE. I capi di Stato o di governo hanno peraltro deciso, con delle Conclusioni adottate a margine del Consiglio europeo del 12-13 dicembre 2003, e allegate alle Conclusioni della Presidenza, di dare priorità per il futuro, nella scelta della sede delle agenzie, ai nuovi Stati membri (in effetti, attualmente 24 su 28 Stati hanno la sede di un’agenzia, rimanendone esclusi solo Croazia, Bulgaria, Cipro e Romania).
Il fenomeno, che ha assunto fin dagli anni ’70 un’ampiezza notevole, ha visto mutare nel corso del tempo il suo inquadramento giuridico. A parte le poche previste direttamente nei Trattati, come Europol, l’Ufficio europeo di polizia previsto ora dall’art. 88 TFUE, o successivamente Eurojust (art. 85 TFUE) e l’Agenzia europea per la difesa (artt. 42, par. 3, e 45 TUE), alla istituzione di agenzie europee si è pro-
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ceduto per lungo tempo per mezzo di regolamenti del Consiglio fondati sulla c.d. clausola di flessibilità dell’antico art. 235 TCEE, poi 308 TCE (ora art. 352 TFUE: infra, Parte Terza, Cap. III, par. 2), secondo la quale, quando un’azione delle istituzioni risultava «necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità», senza che il Trattato avesse previsto i poteri di azione a tal uopo richiesti, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo, poteva prendere le disposizioni del caso. Unica eccezione di quel periodo è stata l’Agenzia europea dell’ambiente creata con reg. (CEE) n. 1210/90 del Consiglio, del 7 maggio 1990 (GUCE L 120, 1), basato sull’allora art. 130 S TCEE (poi art. 175 TCE; ora art. 192 TFUE), concernente appunto l’azione comunitaria in materia di ambiente. Prevaleva evidentemente la convinzione, a quell’epoca, che nei Trattati non vi fossero altre basi giuridiche, neppure implicite, per creare organismi dotati di un’autonoma personalità giuridica. D’altra parte, per molte delle agenzie sembrava rappresentare un ostacolo a una diversa soluzione – quand’anche i poteri loro conferiti rimanessero nei limiti di quelli espressamente riconosciuti alle istituzioni in un dato settore –, il fatto che, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia, non appariva comunque lecita l’esternalizzazione in capo ad altri, da parte delle stesse istituzioni, di funzioni il cui esercizio comporti un margine di discrezionalità implicante un’ampia libertà di valutazione (Corte giust. 13 giugno 1958, 9/56 e 10/56, Meroni c. Alta Autorità, 65). Più in generale, poi, vi era il dubbio che la creazione di un organismo dotato di personalità giuridica, quali sono appunto le agenzie, potesse considerarsi riconducibile al mero esercizio di una competenza materiale e, quindi, alla base giuridica su cui quest’ultima si fonda, e non piuttosto a una decisione di carattere istituzionale. Del resto, nel corso della Conferenza intergovernativa che ha a suo tempo portato al Trattato di Nizza fu anche proposto, e non a caso, di creare a questo scopo un’apposita base giuridica per sottrarre l’istituzione di future agenzie all’esigenza dell’unanimità del Consiglio prevista dall’allora art. 308 TCE; anche se poi la proposta non ebbe seguito, proprio perché il carattere istituzionale di tali decisioni fece ritenere più opportuno mantenerle ancora soggette all’unanimità.
A partire dagli anni 2000, però, il legislatore dell’Unione ha finito per orientarsi verso una scelta diversa. Da allora, infatti, gli atti istitutivi di agenzie europee sono stati costantemente fondati sull’articolo (o gli articoli) del TCE concernenti la materia oggetto dell’attività dell’agenzia da istituire. Negli ultimi anni, sembra essere quindi prevalsa l’idea che, almeno laddove le funzioni conferite a tali agenzie non eccedano i poteri d’azione attribuiti alle istituzioni dagli articoli relativi al rispettivo settore, esse possano essere considerate come meri strumenti di attuazione della corrispondente politica comune. Non può certamente ritenersi in contraddizione con questa nuova prassi il fatto che per due tra le agenzie create in quegli anni – l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali e l’Autorità di vigilanza europea (GNSS) – si sia fatto ricorso nuovamente alla clausola di flessibilità. I regolamenti istitutivi di ambedue (rispettivamente reg. (CE) n. 168/2007 del Consiglio, del 15 febbraio 2007, GUUE L 53, 1, e reg. (CE) n. 1321/2004 del Consiglio, del 12 luglio 2004, GUUE L 246, 1) hanno infatti avuto come base giuridica l’art. 308 TCE per la semplice ragione che i settori di competenza di queste specifiche Agenzie non trovavano comunque corrispondenza in una disposizione sostanziale dell’allora TCE. Merita piuttosto osservare come la nuova prassi legislativa in materia di agenzie abbia trovato
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all’epoca l’avallo anche dell’altro legislatore europeo, il Parlamento europeo; un avallo, va detto, mosso probabilmente anche da considerazioni “politiche”: mentre, infatti, il ricorso alla clausola di flessibilità consentiva allora al Parlamento un ruolo meramente consultivo sulla decisione di creare un’agenzia, il passaggio ad altre basi giuridiche ha aperto la strada nella maggior parte dei casi ad un intervento parlamentare molto più incisivo, dato che molte delle basi giuridiche di merito utilizzabili a questo scopo contemplavano già allora, per l’adozione dei relativi atti, la c.d. procedura di codecisione, e quindi la necessità dell’accorso al riguardo tra Parlamento e Consiglio. Seppur a distanza di tempo, questa idea ha trovato anche il conforto della Corte di giustizia. In una sentenza del 2006, infatti, questa ha ritenuto che l’art. 95 TCE (ora art. 114 TFUE) costituisse la corretta base giuridica del regolamento istitutivo dell’Agenzia europea per la sicurezza delle reti e dell’informazione (l’originario reg. (CE) n. 460/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 10 marzo 2004, GUUE L 77, 1), pur a fronte dell’argomento del ricorrente secondo cui il potere conferito al legislatore comunitario dall’art. 95 sarebbe quello di armonizzare le legislazioni nazionali e non di istituire organismi comunitari attribuendo loro determinati compiti (2 maggio 2006, C-217/04, Regno Unito c. Parlamento e Consiglio, I-3771, punto 44 ss.). Secondo la Corte, infatti, «nulla nel tenore testuale dell’art. 95 CE permette di concludere che i provvedimenti adottati dal legislatore comunitario sul fondamento di tale disposizioni debbano limitarsi, quanto ai loro destinatari, ai soli Stati membri. Può infatti rendersi necessario prevedere, sulla scorta di una valutazione rimessa al detto legislatore, l’istituzione di un organismo comunitario incaricato di contribuire alla realizzazione di un processo di armonizzazione nelle situazioni in cui, per agevolare l’attuazione e l’applicazione uniformi di atti fondati su tale norma, appaia appropriata l’adozione di misure di accompagnamento e di inquadramento non vincolanti».
Oggi, in ogni caso, pur senza nominarle esplicitamente, alcune norme inserite nei Trattati dal Trattato di Lisbona hanno dato di fatto «cittadinanza» alle agenzie all’interno del sistema istituzionale dell’Unione. Ai sensi degli artt. 15, 16 e 228 TFUE e dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali, «le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione» sono tenuti a rispettare il principio di «buona amministrazione», mentre gli artt. 287 e 325 TFUE assoggettano gli stessi al sistema di controllo finanziario e di audit dell’Unione. Ed è incontestabile che tra gli «organismi» rientrano appunto le agenzie. Nel dar loro cittadinanza, talune delle nuove disposizioni introdotte dal Trattato di Lisbona hanno anche legittimato alcune delle funzioni loro conferite, soprattutto in tempi recenti. Le agenzie, infatti, sempre più spesso si sono viste attribuire compiti regolatori da esercitare attraverso l’adozione, nel settore specifico di propria competenza, tanto di atti di portata generale a carattere normativo, che di decisioni giuridicamente vincolanti nei confronti di persone fisiche e giuridiche. Ebbene, la stessa Corte di giustizia ha osservato come la legittimità del conferimento di funzioni di questo tipo alle agenzie debba ritenersi chiaramente presupposta dal nuovo “quadro istituzionale stabilito dal TFUE” attraverso una serie di norme (artt. 263, 265, 267, 277) che hanno ricompreso gli organi e gli organismi dell’Unione tra gli enti sui quali essa è chiamata ad esercitare, nelle sue diverse forme, il suo controllo giurisdizionale (22 gennaio 2014, C-270/12, Regno Unito c. Consiglio e Parlamento, punti 65 e 79 ss.). In altri termini, sembra suggerire la Corte, se il Trattato ha previsto che essa può giudicare della legittimità di un atto di un’agenzia, ovvero pronunciarsi in via pregiudiziale sulla sua interpretazione o validità, o ancora stabilirne l’inapplicabilità quando si tratti di un atto di portata generale messo in causa in una controversia di-
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nanzi alla Corte, va da sé che la legittimità di quel potere decisionale sia da considerare implicitamente, ma formalmente riconosciuta direttamente dal Trattato, a condizione, naturalmente, che tale potere rimanga nell’ambito di una funzione esecutiva di scelte normative comunque operate dal legislatore, ma da attuare attraverso valutazioni tecniche complesse (ivi). Non vanno confuse con quelle appena esaminate le c.d. agenzie esecutive, create sulla base del reg. (CE) n. 58/2003 del Consiglio, del 19 dicembre 2002 (GUUE L 11, 1). Queste, che lo stesso regolamento definisce organismi comunitari (ora dell’Unione europea) investiti di una missione di servizio pubblico, sono incaricate di compiti legati alla gestione di programmi finanziari operanti, sotto la responsabilità della Commissione, nelle diverse politiche dell’Unione. Esse sono istituite direttamente dalla Commissione, sotto la cui autorità agiscono, con decisione presa sulla base di una procedura di comitato (infra, Cap. IV, par. 10), che ne fissa la durata e ne stabilisce la struttura e l’organizzazione interna in conformità a quanto previsto dal regolamento poc’anzi citato. A differenza poi dalle agenzie di cui in precedenza, le agenzie esecutive sono obbligatoriamente situate presso una delle sedi della Commissione o di uno dei suoi servizi.
18. L’apparato amministrativo dell’Unione L’apparato amministrativo attraverso il quale opera il sistema istituzionale dell’Unione è costituito da circa 55.000 dipendenti distribuiti tra le diverse entità (istituzioni, organi e organismi) che lo compongono, per un costo complessivo pari a circa il 6% del bilancio generale dell’Unione. Ben più della metà di questo personale (circa 35.000 unità) è peraltro inquadrata nei ruoli della Commissione europea. La circostanza non può meravigliare: la Commissione è la vera «amministrazione» dell’Unione europea, perché è l’unica tra le istituzioni il cui personale non è principalmente diretto a servire l’istituzione di appartenenza, ma svolge anche un complesso assai articolato di funzioni verso l’Unione nella sua interezza e verso gli Stati membri in particolare. In considerazione della vastità delle competenze e delle funzioni svolte e del fatto che le stesse sono esercitate oggi nei confronti di 28 Stati membri, il numero dei dipendenti dell’Unione europea può considerarsi, al contrario di quanto viene talvolta detto, tutt’altro che elevato. A titolo di raffronto si consideri che la città di Milano conta circa 1 dipendente comunale ogni 83 abitanti e quella di Roma 1 ogni 108, mentre i dipendenti dell’Unione sono 1 ogni 9.145. Va poi osservato che, in ragione del regime linguistico cui sono tenute le sue istituzioni (cfr. il paragrafo successivo), dei 55.000 dipendenti di ruolo dell’Unione, ben 5.000 sono traduttori e interpreti.
Indipendentemente dall’istituzione (e organo o organismo) cui è assegnato (ma con l’eccezione della BCE e della BEI), il rapporto di lavoro del personale di ruolo dell’Unione è regolato da uno Statuto unico, adottato dal Parlamento europeo e dal Consiglio previa consultazione delle altre istituzioni interessate (art. 336 TFUE), che disciplina i diversi aspetti di quel rapporto: diritti e doveri, procedure di assunzione, condizioni di lavoro, trattamento retributivo e pensionistico, regime disciplinare,
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ecc. Lo Statuto delinea ovviamente anche la struttura delle carriere dei dipendenti dell’Unione. L’ultima versione dello Statuto è contenuta nel reg. (CE, Euratom) n. 723/2004 del Consiglio, del 22 marzo 2004 (GUUE L 124, 1). Lo Statuto non si applica ai dipendenti della BCE e della BEI, le quali in ragione dell’indipendenza loro riconosciuta disciplinano autonomamente il relativo rapporto di servizio. Per loro si vedano quindi, rispettivamente, Conditions of Employment for Staff of the European Central Bank, del 9 giugno 1998 (modificate da ultimo il 1° agosto 2013), e EIB’s Board of Directors, Staff Regulations of the European Investment Bank, 4 giugno 2013. Lo Statuto si applica invece alle agenzie europee in virtù degli atti istitutivi delle stesse (cfr. art. 1 bis, par. 2, dello Statuto). Lo Statuto articola le carriere dei dipendenti in due gruppi di funzioni: la categoria degli AD (i c.d. amministratori), suddivisa a seconda del livello delle funzioni in dodici gradi (dal grado 5 fino al più elevato grado 16), e la categoria degli AST (gli assistenti) ripartita in 11 gradi. Gli AD corrispondono a funzioni direttive, di progettazione e di studio, nonché a funzioni linguistiche o scientifiche; gli AST a funzioni esecutive, tecniche o d’ufficio. Nella categoria degli AD si collocano sia i funzionari (tra i quali gli interpreti), che i dirigenti (c.d. funzionari apicali), cui sono riservate le due posizioni più elevate dei dodici gradi della categoria.
Accanto ai funzionari e all’altro personale di ruolo, le istituzioni si avvalgono entro una certa misura, per soddisfare esigenze di flessibilità dell’amministrazione, anche di personale contrattualizzato a tempo determinato, nonché di esperti nazionali distaccati, i c.d. END, che sono funzionari delle amministrazioni degli Stati membri distaccati presso la Commissione per un limitato periodo a fini di esperienza e scambio di conoscenze. Il personale con contratto a tempo determinato è composto da agenti temporanei, agenti ausiliari, agenti contrattuali, e consiglieri speciali (così, rispettivamente, gli artt. 2, 3, 4 e 5 del Regime applicabile agli altri agenti delle Comunità – Allegato XIII.1 allo Statuto). Mentre gli agenti temporanei possono essere assunti anche per occupare un posto permanente a titolo temporaneo (massimo 3 anni), gli altri sono destinati a coprire unicamente posti non di organico. Per la disciplina degli END si veda invece la dec. C (2008) 6866 della Commissione, del 12 novembre 2008, relativa al regime applicabile agli esperti nazionali distaccati e agli esperti nazionali in formazione professionale presso i servizi della Commissione. Durante il distacco, che può variare da un minimo di 6 mesi a un massimo di 2 anni, prorogabili fino a 4, l’END continua a percepire la retribuzione dall’amministrazione di appartenenza, ricevendo dalla Commissione solo un’indennità giornaliera di missione (c.d. indennità di soggiorno). È ora previsto il distacco di END anche presso il Servizio europeo per l’azione esterna: vedi la decisione dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza del 23 marzo 2011, «establishing the rules applicable to National Experts Seconded to the European External Action Service». In Italia, il distacco come END di funzionari dell’amministrazione è disciplinato oltre che dall’art. 21, legge 24 dicembre 2012, n. 234, dal d.P.C.M. 30 ottobre 2014, n. 184 (GURI 15 dicembre 2014, n. 290), di attuazione del citato art. 21.
L’insieme di queste diverse figure professionali è incardinato nel segretariato generale delle diverse istituzioni (o organi e organismi), al cui vertice amministrativo è posto un Segretario generale (nel caso della Corte di giustizia, il Cancelliere). I segretariati generali sono organizzati in direzioni generali (a carattere settoriale) e servizi (di natura orizzontale), a loro volta suddivisi in direzioni composte da unità.
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L’accesso alla funzione pubblica europea avviene per regola generale mediante concorso, salvo alcune specifiche deroghe in relazione, in particolare, a posti apicali; i vincitori sono poi assunti dalla «autorità investita del potere di nomina» (AIPN) di ciascuna istituzione. La gestione dei concorsi è assicurata, tranne che in casi eccezionali, da un ufficio unico di selezione del personale, l’EPSO, che vi provvede organizzando concorsi generali interistituzionali o per singola istituzione e stabilendo, all’esito degli stessi, la lista dei candidati risultati idonei (c.d. lista di riserva), all’interno della quale le singole istituzioni sceglieranno poi, in funzione dei propri bisogni ed entro il termine di validità della lista (normalmente due o tre anni dalla sua ufficializzazione), i candidati da assumere. L’EPSO è stato creato con dec. 2002/621/CE del 25 luglio 2002 di Parlamento europeo, Consiglio, Commissione, Corte di giustizia, Corte dei conti, Comitato economico e sociale, Comitato delle regioni e Mediatore europeo (GUCE L 197, 53). In pari data i segretari generali delle istituzioni e degli organi consultivi coinvolti, il cancelliere della Corte di giustizia e il rappresentante del Mediatore, hanno adottato la dec. 2002/61/CE, che ne ha fissato l’organizzazione e le modalità di funzionamento (ibidem, 56). L’AIPN varia in funzione del livello dell’incarico a cui deve essere effettuata la nomina. In pratica, mentre la nomina dei funzionari apicali (Segretario generale e direttori generali) spetta al vertice politico (il Presidente dell’istituzione), l’AIPN per le altre categorie di funzionari è il Segretario generale, il quale può in determinati casi delegare ai singoli direttori generali tale funzione.
I principali requisiti di base per accedere alla funzione pubblica europea sono la cittadinanza di uno Stato membro e la conoscenza approfondita di una lingua ufficiale e soddisfacente di un’altra nella misura necessaria alle funzioni che si è chiamati a esercitare (art. 28 Statuto). Come regola generale l’AIPN deve selezionare i funzionari unicamente nell’interesse del servizio e senza alcuna considerazione della nazionalità (art. 7, par. 1, Statuto); tuttavia, la «multinazionalità» dell’Unione si riflette inevitabilmente anche sulla composizione del suo apparato burocratico, tanto che lo stesso Statuto prevede che i funzionari devono essere reclutati su una base geografica più ampia possibile, in modo che all’interno delle istituzioni siano in qualche misura rappresentate tutte le nazionalità e tutte le culture e che nessun impiego finisca per essere riservato ai cittadini di un determinato Stato membro (art. 27 Statuto). È vero che l’autorità che ha il potere di nomina può prendere in considerazione la cittadinanza di un candidato, quale uno dei possibili criteri di scelta, unicamente quando vi sia parità di merito e competenze (v. di recente Corte giust. 27 novembre 2012, C-566/10 P, Italia c. Commissione, punto 88: «l’interesse del servizio può costituire un obiettivo legittimo idoneo ad essere preso in considerazione. […] È necessario però che tale interesse del servizio sia oggettivamente giustificato e che il livello di conoscenze linguistiche richiesto risulti proporzionato alle effettive esigenze del servizio»). Ma ciò non impedisce che, se giustificato dall’interesse del servizio, un bando di concorso possa richiedere il possesso da parte dei candidati di una preparazione e di un’esperienza specifica a un determinato ordinamento giuridico nazionale; o che per le stesse ragioni possa essere chiesta anche la conoscenza di determinate lingue, facilitando così, indirettamente, i cittadini di uno o più Stati membri specifici. Ad ogni modo, in occasione di ogni adesione di nuovi Stati membri, una formale deroga al divieto di ricorso al criterio della nazionalità ha consentito lo svolgimento di concorsi riservati per l’immissione nei ruoli di un certo numero di cittadini di tali Stati. Si veda da ultimo, a titolo di es., il reg. (UE) n. 1216/2012 del PE e del Consiglio, del 12 dicembre 2012, che istituisce, in occasione dell’adesione della Croazia all’Unione europea, misure particolari e temporanee per l’assunzione
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di funzionari e agenti temporanei dell’Unione europea (GUUE L 351, 33), che ha apportato una specifica deroga agli articoli rilevanti dello Statuto.
Come si è detto, lo Statuto specifica anche i diritti e i doveri dei dipendenti delle istituzioni. In particolare, esso vincola i funzionari a un dovere d’indipendenza nei confronti tanto degli Stati, quanto di interessi privati (art. 11), e di riservatezza rispetto alle informazioni di cui vengono a conoscenza nell’esercizio delle loro funzioni, obblighi che si prolungano dopo la cessazione dal servizio (art. 17) e la cui violazione può dar luogo a sanzioni disciplinari. Per contro, i funzionari delle istituzioni sono coperti da una serie di privilegi e immunità. In particolare, i funzionari hanno bisogno di un’autorizzazione per pubblicare testi che si ricollegano alle attività dell’Unione. La Corte di giustizia (sentenza 6 marzo 2001, C-274/99 P, Connolly c. Commissione, I-1611) ha però affermato che questi obblighi e la procedura di autorizzazione devono conciliarsi con il diritto fondamentale dell’individuo alla libertà di espressione. Inoltre, prima di testimoniare dinanzi a un giudice nazionale su fatti di cui siano venuti a conoscenza a causa del proprio ufficio, essi sono obbligati a chiedere l’autorizzazione alle proprie gerarchie (art. 19 dello Statuto). In proposito vedi Corte giust. 18 febbraio 1992, C-54/90, Weddel & co. c. Commissione, I-871, secondo la quale, in caso di diniego dell’autorizzazione, incombe all’istituzione di dimostrare «l’esistenza di interessi delle Comunità i quali, ai sensi della norma di cui sopra, imponessero il diniego dell’autorizzazione a testimoniare» (punto 21). Per quanto attiene alle immunità e privilegi rispetto alle autorità nazionali degli Stati membri, i funzionari godono dell’immunità dalla giurisdizione nazionale per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni, ma ciò unicamente nell’interesse del servizio (art. 23 Statuto, che richiama implicitamente il Protocollo (n. 7) sui privilegi e sulle immunità dell’UE, i cui artt. 11-15 disciplinano nel dettaglio quelli spettanti ai funzionari e agenti dell’Unione); e dell’immunità fiscale, ma limitatamente ai redditi percepiti dal bilancio dell’Unione, in quanto tutti gli altri redditi rimangono soggetti all’imposizione fiscale nazionale (art. 12 del predetto Protocollo). Le retribuzioni pagate dalle istituzioni ai funzionari sono però assoggettate a un’imposta a profitto dell’Unione.
Oltre agli obblighi specificamente previsti dallo Statuto in capo ai singoli funzionari, ulteriori obblighi gravano sull’apparato amministrativo dell’Unione in quanto tale, e quindi anche sui suoi componenti, come conseguenza della previsione dell’art. 298, par. 1, TFUE, secondo la quale «nell’assolvere i loro compiti le istituzioni, organi e organismi dell’Unione si basano su un’amministrazione europea aperta, efficace e indipendente». A questo fine possono essere adottati regolamenti con procedura legislativa ordinaria. Ma i principi cui, secondo l’art. 298 TFUE, deve conformarsi l’amministrazione dell’Unione, sono oggi enunciati anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 41), la quale fa del diritto a una buona amministrazione un diritto di ogni persona che entri in contatto con l’apparato amministrativo dell’Unione. L’art. 41 della Carta precisa, infatti, che «ogni persona ha diritto a che le questioni che la riguardano siano trattate in modo imparziale ed equo ed entro un termine ragionevole». E questo generale diritto si traduce, tra gli altri, in alcuni specifici obblighi del personale dell’Unione: quello di ascoltare l’interessato prima di adottare un provvedimento pregiudizievole nei suoi confronti; quello di consentire l’accesso al fascicolo dello stesso; e quello di motivare le proprie decisioni. Inoltre, nel caso di eventuali danni causati da un’istituzione o dai suoi agenti a un individuo, questo essere risarcito conformemente ai principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri (così del resto anche l’art. 340, commi 2-4, TFUE).
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Al diritto a una buona amministrazione si ricollega anche quello di ogni persona di potersi rivolgere all’apparato amministrativo dell’Unione in una delle lingue ufficiali di questa, ricevendone risposta nella stessa lingua (per maggiori dettagli infra, pp. 121 e 409).
19. Il regime linguistico delle istituzioni In un sistema come quello dell’Unione europea, in cui, come si è detto, sono soggetti del suo ordinamento non solo gli Stati membri, ma anche i loro cittadini, il regime linguistico sulla cui base sono chiamate a operare le istituzioni riveste evidentemente una importanza particolare e del tutto differente da quella che si prospetta nel quadro delle organizzazioni internazionali classiche. Qui, infatti, l’uso delle lingue incide sulla fluidità e sulla completezza dell’accesso al diritto e alle istituzioni dell’Unione, condizionando di conseguenza il rapporto con questa dei cittadini degli Stati membri e l’ampiezza effettiva della loro posizione giuridica. A questa importanza di sistema del regime linguistico si collega poi una sua importanza non meno rilevante, ma di carattere più politico, derivante dal fatto che nell’Unione, per previsione degli stessi Trattati, il tema delle lingue investe, al contempo, tanto il rispetto dell’identità nazionale degli Stati membri, di cui, com’è stato osservato (Corte giust. 16 aprile 2013, C-202/11, Las, punto 26), la lingua è un elemento essenziale, quanto quello, per così dire, dell’«identità europea» dell’Unione, che vede proprio nella sua diversità (anche) linguistica uno dei valori fondanti (art. 3, par. 3, comma 4, TUE). Il rispetto tanto dell’una, che dell’altra è imposto alle istituzioni dai Trattati, e più esattamente dall’art. 4, par. 2, TUE («[l]’Unione rispetta […] l’identità nazionale [degli Stati membri]») e dall’art. 3, par. 3, comma 4, TUE («[e]ssa rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica»). Oltre a ribadire esplicitamente quest’ultimo obbligo nell’art. 22, la Carta dei diritti fondamentali opera per così dire una sintesi delle norme appena ricordate del TUE, prevedendo nel suo Preambolo che «l’Unione contribuisce alla salvaguardia e allo sviluppo [dei suoi] valori comuni nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli d’Europa, nonché dell’identità nazionale degli Stati membri». Un accostamento tra le due «identità» è operato anche dalla Corte di giustizia nella sentenza appena cit., nonché in Corte giust. 12 maggio 2011, C-391/09, Runevič-Vardyn e Wardyn, punto 86. Quanto alla componente linguistica dell’«identità europea», la molteplicità delle lingue ufficiali e la parità delle stesse costituiscono in effetti un aspetto essenziale e caratterizzante (la «diversità linguistica») di un’Unione, che ha fatto dell’«unità nella diversità» il suo motto, consacrato ufficialmente, come si è all’inizio ricordato, anche nell’art. I-8, comma 3, del Trattato costituzionale. V. al riguardo anche le conclusioni dell’AG Poiares Maduro, del 16 dicembre 2004, nella causa C160/03, Spagna c. Eurojust, I-2079, par. 35: «il principio del rispetto della diversità linguistica […] è una specifica espressione della pluralità costitutiva dell’Unione europea».
Ciò spiega perché il funzionamento dell’Unione è formalmente organizzato intorno a un generale principio di piena parità delle lingue ufficiali di tutti gli Stati membri, a tutela del quale i Trattati, come si vedrà, hanno posto l’argine del consenso unanime degli Stati in seno al Consiglio quale condizione per eventuali modifiche. Fin dall’origine, in effetti, un articolo dei Trattati istitutivi ha stabilito che il testo di questi fa ugualmente fede in ciascuna di tali lingue; e con le successive adesioni ci
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si è limitati ad aggiungere a quell’articolo – attualmente l’art. 55 TUE – le lingue ufficiali dei nuovi Stati, fino ad arrivare alle attuali 24 lingue in cui i Trattati sono appunto ufficialmente redatti. Ai sensi dell’art. 55, par. 1, TUE, quale modificato con l’adesione della Croazia, le attuali lingue ufficiali dell’Unione, in cui fanno ugualmente fede il TUE e il TFUE, sono le lingue bulgara, ceca, croata, danese, estone, finlandese, francese, greca, inglese, irlandese, italiana, lettone, lituana, maltese, olandese, polacca, portoghese, rumena, slovacca, slovena, spagnola, svedese, tedesca e ungherese. Dall’elenco si evince che non tutte le lingue ufficiali nazionali sono anche lingue ufficiali dell’UE: il Lussemburgo ad es. non ha a suo tempo rivendicato questo status per il lussemburghese, dato che tra le sue lingue ufficiali vi erano già il francese e il tedesco. Per contro, una lingua di recente acquisizione all’elenco dell’art. 55 TUE (l’irlandese o gaelico che vi è stato aggiunto su richiesta dell’Irlanda solo dal 1° gennaio 2007, cioè 34 anni dopo l’adesione) è soggetta, per ragioni legate alla carenza di traduttori, a un regime transitorio che esenta le istituzioni dall’obbligo di redigere, tradurre e pubblicare in tale lingua tutti i propri atti e sentenze con l’eccezione dei regolamenti adottati in codecisione (si veda l’art. 2 del reg. (CE) n. 920/2005 del Consiglio, del 13 giugno 2005, GUUE L 156, 3, e il successivo reg. (UE) n. 1257/2010 del Consiglio, del 20 dicembre 2010, GUUE L 343, 5, che ha prorogato questo regime transitorio fino al 31 dicembre 2016). Un regime transitorio analogo, ora terminato, è stato applicato anche alla lingua maltese dal 2004 (anno dell’adesione) al 2007 (cfr. reg. (CE) n. 930/2004 del Consiglio, del 1° maggio 2004, GUUE L 169, 1, e successivo reg. (CE) n. 1738/2006 del Consiglio, del 23 novembre 2006, GUUE L 329, 1). Va poi osservato che il par. 2 del citato art. 55 TUE contempla ora anche la possibilità che i Trattati siano tradotti, su richiesta dello Stato membro interessato, «in qualsiasi altra lingua determinata da uno Stato membro che, in base all’ordinamento costituzionale dello Stato in questione, sia lingua ufficiale in tutto il suo territorio o in parte di esso. Lo Stato membro interessato fornisce copia certificata conforme di tale traduzione affinché sia depositata negli archivi del Consiglio». Di questa possibilità si è avvalsa la sola Spagna a vantaggio del gallego, del basco e del catalano. Inoltre, sulla base di intese amministrative concluse con alcune delle istituzioni, la Spagna ha ottenuto anche la possibilità che, con le spese a suo carico, suoi cittadini si rivolgano ad esse in una di queste lingue ricevendone risposta nella stessa lingua (analoghe intese sono state concluse dal Regno Unito per il gallese e lo scozzese). In ogni caso queste lingue «aggiuntive» non godono dello status di lingue ufficiali dell’Unione, ma hanno solo la funzione di valorizzarne la diversità linguistica.
Quanto appena detto in tema di lingue ufficiali dell’Unione vale evidentemente anche per gli atti presi in applicazione dei Trattati. Da un lato infatti, come ha osservato la Corte di giustizia, l’indispensabile pubblicità che va assicurata almeno a quelli che hanno portata generale, affinché gli stessi siano opponibili ai soggetti dell’ordinamento, può essere garantita esclusivamente dalla loro regolare pubblicazione nella GUUE in tutte le lingue ufficiali (11 dicembre 2007, C-161/06, Skoma-Lux, I-10841, punto 38 ss.). Dall’altro lato, la stessa Corte ha più volte precisato che, essendo tali atti redatti in diverse lingue, la loro interpretazione comporta un raffronto tra le diverse versioni linguistiche, proprio perché «a tutte le versioni linguistiche va riconosciuto, in via di principio, lo stesso valore»; con la conseguenza che, in caso di divergenza tra le stesse, va ricercata l’interpretazione basata sulla reale volontà del legislatore e sullo scopo da questo perseguito, alla luce di tutte le versioni in questione. Così già Corte giust. 12 novembre 1969, 29/69, Stauder, 419. Più recentemente la Corte ha puntualmente osservato che, «[s]econdo una giurisprudenza consolidata, la formulazione utilizza-
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ta in una delle versioni linguistiche di una disposizione comunitaria non può essere l’unico elemento a sostegno dell’interpretazione di questa disposizione né si può attribuire ad essa, a tal riguardo, un carattere prioritario rispetto alle altre versioni linguistiche. Infatti, tale modo di procedere sarebbe in contrasto con la necessità di applicare in modo uniforme il diritto comunitario» (Corte giust. 3 aprile 2008, C-187/07, Endendijk, I-2115, punto 23).
Per quanto riguarda poi specificamente l’uso delle lingue nelle e da parte delle istituzioni, pur nel silenzio dei Trattati, che si limitano a rinviare per la sua definizione a un atto del Consiglio da prendere all’unanimità senza l’intervento di altre istituzioni (art. 342 TFUE), anch’esso è stato fin da subito costruito sullo stesso principio. Nella sua versione attuale, infatti, il reg. n. 1/1958, con cui il Consiglio ha esercitato a suo tempo la competenza riconosciutagli dall’allora art. 217, riconosce quali lingue ufficiali e di lavoro delle istituzioni tutte le 24 poco sopra ricordate (art. 1). A questo fine, oltre a esplicitare l’obbligo di redigere «i regolamenti e gli altri testi di portata generale» (art. 4) e di pubblicare la Gazzetta Ufficiale (art. 5) in tutte le lingue ufficiali, il regolamento stabilisce che le comunicazioni inviate da uno Stato membro o da una persona «soggetta alla giurisdizione di uno Stato membro» alle istituzioni, così come le risposte di queste, debbano essere scritte nella lingua ufficiale scelta dallo Stato o dalla persona in questione, mentre i testi inviati da un’istituzione ad uno Stato o ad una persona devono essere redatti nella lingua di quello Stato o dello Stato alla cui giurisdizione è soggetta tale persona; disposizione, questa, che come si vedrà più avanti (p. 409) ha assunto ora rango di norma primaria, divenendo, attraverso gli artt. 20 e 24 TFUE, uno degli elementi costitutivi dello status di cittadino dell’Unione. Va inoltre precisato che nel dare al Consiglio la competenza di fissare le lingue ufficiali e di lavoro, l’art. 342 TFUE fa salve le disposizioni in materia riguardanti la Corte di giustizia, che sono contenute nello Statuto di questa (e per le quali si rimanda quindi a p. 244 s.). In realtà, l’art. 64 dello Statuto della Corte rinvia ugualmente a un regolamento del Consiglio da prendere all’unanimità. La diversità sta però, in questo caso, nel fatto che, in ragione della particolare sensibilità del regime linguistico della Corte per le parti processuali, il Consiglio è chiamato a deliberare su richiesta della stessa Corte previa consultazione della Commissione e del PE, ovvero su proposta della Commissione previa consultazione delle altre due istituzioni.
Quanto invece all’uso delle lingue all’interno delle istituzioni (le «lingue di lavoro»), il reg. n. 1/1958 si limita a rinviare ai regolamenti interni di queste, prevedendo che nel quadro degli stessi le istituzioni possono determinare le rispettive modalità di applicazione del regime linguistico generale (art. 6). Di questa possibilità, per la verità, esse non si sono avvalse che in misura molto circoscritta. E tuttavia, tutte operano di fatto, al loro interno, sulla base di un regime linguistico semplificato rispetto a quello generale. In effetti, esse si sono limitate tutt’al più a formalizzare nei loro regolamenti interni, come nel caso del Consiglio europeo e del Consiglio, una disposizione che consente in caso di urgenza, ma previa delibera all’unanimità dei rispettivi collegi, di fare eccezione alla regola secondo cui questi ultimi deliberano e decidono solo sulla base di documenti e progetti disponibili in tutte le lingue ufficiali (art. 9 del regolamento interno del Consiglio europeo e art. 14 di quello del Consiglio). Nel caso invece di riunioni informali sempre più spesso si tende ad utilizzare un regime penta o esalinguistico (inglese, francese, tedesco, italiano e spagnolo, più, eventualmente il polacco) con interpreti per tali lingue. Anche per le riunioni delle istanze preparatorie delle decisioni di dette istituzioni la presenza di tutte le lingue non è garantita (al contrario, i documenti negoziali succes-
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sivi all’eventuale proposta iniziale della Commissione circolano solo in inglese, o tutt’al più, in francese, quando la presidenza di turno è assicurata dalla Francia). Quanto poi alle discussioni orali in riunione, quelle dei gruppi di lavoro tecnici, quando sono assistite da un sistema di interpretariato si svolgono per lo più sulla base di un’interpretazione limitata alle lingue più diffuse, mentre negli altri casi (quando vi sono ragioni di urgenza e per regola nei settori della PESC), le riunioni si tengono o in francese e inglese o, sempre più spesso, solo in questa seconda lingua, ma comunque senza alcun interpretariato. Per il COREPER, poi, è di applicazione regolare un regime specifico trilingue in inglese, francese e tedesco, con interpreti, frutto di una decisione informale presa a suo tempo dallo stesso COREPER. Un regime analogo è utilizzato anche per le riunioni dei membri della Commissione, la quale tende anzi ad accreditare, seppur al di fuori di ogni sua codificazione ufficiale, la tesi che l’inglese, il francese e il tedesco costituiscano in generale le sue sole lingue di lavoro. Limitandoci a quelle politiche, l’istituzione che è rimasta più fedele al regime fissato dal reg. n. 1/1958 è il PE, nel quale in linea di principio i lavori interni continuano a basarsi sul principio di parità delle 24 lingue ufficiali (v. la risoluzione sull’impiego delle lingue ufficiali nelle istituzioni dell’UE, GUCE C 43/1995, 91, nella quale lo stesso PE ha sottolineato come «il diritto di un eletto a esprimersi e a lavorare nella propria lingua sia parte indissociabile tanto del diritto democratico quanto del suo mandato»). Lo stesso avviene per le riunioni ufficiali del Consiglio europeo e del Consiglio, per le quali viene assicurata l’interpretazione e la circolazione dei documenti in tutte le lingue, almeno quando si tratti di riunioni a livello dei membri ufficiali (capi di Stato o di governo e ministri) di queste due istituzioni.
Il ricorso crescente delle istituzioni a regimi linguistici semplificati è più che comprensibile, considerato l’aumento del numero degli Stati membri e quindi delle lingue ufficiali, con il conseguente, sproporzionato aumento dei costi amministrativi e delle difficoltà pratiche e organizzative per assicurare traduzioni e interpretazioni in tutte le lingue. Tuttavia, da un lato, esso deve basarsi su una regolamentazione formale adottata conformemente a quanto previsto dai Trattati e dal reg. n. 1/1958 preso in loro applicazione, e non essere il frutto di mere prassi delle istituzioni; dall’altro lato, esso non deve in ogni caso dar luogo a discriminazioni tra le lingue ufficiali dell’Unione, che non siano giustificate da ragioni obiettive e motivate. Fatto sta che la giurisprudenza dell’Unione sembra aver circoscritto entro confini precisi il possibile ricorso a questo genere di regimi linguistici. Sulla base di una serie di ricorsi presentati soprattutto dall’Italia, la Corte e il Tribunale hanno infatti escluso che limitazioni delle lingue ufficiali possano risultare giustificate quando applicate a rapporti esorbitanti la vita interna delle istituzioni, e comunque, anche rispetto a questi ultimi, hanno subordinato a determinate condizioni la libertà delle istituzioni in materia. Si vedano, per tutte, Corte giust. 27 novembre 2012, C-566/10 P, Italia c. Commissione, che riforma una precedente sentenza del Trib. 13 settembre 2010, T-166/07 e T-285/07, Italia c. Commissione, inedita, che aveva invece respinto il ricorso italiano; e Trib. 24 settembre 2015, T124/13 e T-191/13, Italia c. Commissione. Ed è opportuno precisare che al centro di questa giurisprudenza è stato, al di là delle specificità dei singoli casi e delle applicazioni concrete che sono state fatte di questo regime, il regime linguistico ridotto basato sull’uso unicamente delle lingue francese, inglese e tedesca, lingue che la Commissione in particolare (ma con un atteggiamento indulgente anche di altre istituzioni) tende ad accreditare, nonostante la lettera dell’art. 1 del regolamento 1/58, come lingue di lavoro dell’Unione. Ebbene, i giudici europei hanno censurato, perché discriminatoria, la decisione della Commissione di pubblicare in Gazzetta Ufficiale nelle sole tre lingue di cui sopra bandi di concorso generali per funzionari o avvisi di posto vacante relativi a posti apicali aperti a candidati esterni o, ancora, inviti a
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manifestare interesse per la costituzione di elenchi di candidati da assumere in qualità di agenti contrattuali; e ciò anche se questa pubblicazione integrale limitata fosse accompagnata da forme alternative di pubblicità diffuse in tutte le altre lingue ufficiali o, finanche, da una pubblicazione solo sintetica del bando nelle altre Gazzette Ufficiali. Un candidato di lingua materna diversa dall’inglese, francese e tedesco sarebbe infatti comunque svantaggiato sia sotto il profilo della corretta comprensione di tali bandi, sia relativamente al termine per preparare ed inviare una candidatura a tali concorsi, dovendo comunque prima procurarsi la versione integrale del bando pubblicata in altra lingua. La questione è stata poi affrontata dai giudici di Lussemburgo anche in relazione all’ipotesi che il reclutamento di funzionari avvenga sulla base di una conoscenza obbligatoria, come seconda lingua, di una delle tre sopra ricordate o che le prove di concorso debbano essere necessariamente effettuate in una di queste lingue, laddove, come si è detto, l’art. 28 dello Statuto stabilisce tra i requisiti di base per l’accesso alla funzione pubblica europea la conoscenza approfondita di una lingua ufficiale e soddisfacente di un’altra nella misura necessaria alle funzioni che si è chiamati ad esercitare. Ora, la Corte e il Tribunale hanno sì ammesso la possibilità delle istituzioni di limitare direttamente o indirettamente la scelta della seconda lingua da parte dei candidati nell’interesse del servizio (Trib. 20 novembre 2008, T-185/05, Italia c. Commissione, II-3207). Tuttavia essi hanno precisato che tale possibilità deve essere disciplinata da norme adottate ai sensi dell’art. 6 del reg. n. 1/1958 o ad altro titolo, ma che comunque stabiliscano «criteri chiari, oggettivi e prevedibili, affinché i candidati possano sapere con sufficiente anticipo, quali requisiti linguistici debbono essere soddisfatti, e ciò al fine di potersi preparare ai concorsi nelle migliori condizioni» (Corte giust. 27 novembre 2012, C-566/10 P, Italia c. Commissione, punto 90). Più in generale, infine, è stata censurata la stessa scelta delle tre lingue sopra ricordate per il fatto che «l’affermazione secondo cui le tre lingue di cui sopra sono le lingue maggiormente utilizzate, alla luce, in particolare, della prassi consolidata delle istituzioni dell’Unione per quanto riguarda le lingue di comunicazione interna» è da ritenere «un’affermazione vaga, non completata da indicazioni concrete» (Trib. 24 settembre 2015, T-124/13 e T-191/13, cit., punto 110).
20. Le finanze dell’Unione e in particolare l’adozione e l’esecuzione del bilancio e il controllo sulle frodi Le spese di funzionamento dell’apparato istituzionale dell’Unione, così come quelle per l’attuazione delle sue attività e delle sue politiche, sono finanziate attraverso un sistema di c.d. risorse proprie (art. 311, comma 2, TFUE), introdotto e disciplinato per la prima volta nel 1970 in sostituzione del precedente sistema basato su contributi finanziari obbligatori versati dagli Stati membri secondo una chiave di ripartizione inizialmente stabilita nei Trattati, ma modificabile dal Consiglio all’unanimità. Il passaggio da questo originario sistema, tipico delle organizzazioni internazionali tradizionali e comunque per certi versi inevitabile in una fase di avvio delle Comunità, a un sistema di risorse proprie ha risposto ad un’esigenza di maggior autonomia finanziaria delle stesse dagli Stati membri. Il sistema è regolato oggi dalla dec. 2014/335/UE, Euratom del Consiglio, del 26 maggio 2014, relativa al sistema delle risorse proprie dell’Unione europea (GUUE L 168, 105), che ha abrogato l’originaria dec. 70/243/CECA, CEE, Euratom del Consiglio, del 21 aprile 1970 (GUCE L 94, 19), più volte modificata nel corso degli anni.
Il termine risorse proprie non sta in realtà a significare che queste scaturiscano da prelievi fiscali o d’altro tipo percepiti direttamente dall’Unione. Si tratta, infatti, pur
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sempre di imposte riscosse e di prelievi operati comunque dagli Stati membri, e poi da questi trasferiti al bilancio dell’Unione. Tuttavia, il loro ammontare preciso non è più unicamente affidato, come avveniva a suo tempo con il sistema dei contributi obbligatori, a una trattativa puntuale (e difficile) tra gli Stati membri, ma è il frutto di un’imposta fissata direttamente a livello europeo (prelievi agricoli e dazi doganali) e di percentuali predeterminate di un’imposta armonizzata a quello stesso livello (l’IVA) o di un parametro universalmente accettato di prosperità degli Stati membri (il reddito nazionale lordo: RNL); circostanza che fa sì che la discussione in materia tra gli Stati membri verta ora sul volume complessivo delle risorse destinate all’Unione, e non sul contributo dovuto da ciascuno Stato, dato che lo stesso dipende unicamente dal rispettivo livello di prosperità economica. Data la natura delle risorse proprie, anche la loro riscossione avviene a livello nazionale. Come ha però precisato la Corte di giustizia, la corrispondente attività delle amministrazioni nazionali deve svolgersi secondo modalità e condizioni che non rendano tale riscossione meno efficace di quella concernente le imposte e gli oneri unicamente nazionali dello stesso tipo:: «[è] compito quindi dell’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro, se non vi sono disposizioni comunitarie in materia, stabilire le modalità e le condizioni di riscossione degli oneri finanziari comunitari in generale, e dei prelievi agricoli in particolare, nonché designare le autorità incaricate della riscossione ed il giudice competente a conoscere delle controversie cui tale riscossione possa dar luogo, purché dette modalità e condizioni non rendano il sistema di riscossione delle tasse e degli oneri comunitari meno efficace di quello relativo alle tasse ed agli oneri nazionali dello stesso tipo» (Corte giust. 27 marzo 1980, 66/79, 127/79 e 128/79, Meridionale Industria Salumi e a., 1237, punto 18). Ai sensi del reg. (UE, Euratom) n. 609/2014 del Consiglio, del 26 maggio 2014, concernente le modalità e la procedura di messa a disposizione delle risorse proprie tradizionali e delle risorse proprie basate sull’IVA e sull’RNL, nonché le misure per far fronte al fabbisogno di tesoreria (GUUE L 168, 39), il trasferimento delle corrispondenti somme al bilancio dell’Unione deve avvenire da parte degli Stati membri con cadenza mensile, e quindi in collegamento quasi automatico con la loro riscossione in sede nazionale, a pena di pagamento di interessi di mora.
Pur nel quadro di questo sistema di risorse proprie, gli Stati membri (e i loro Parlamenti) si sono comunque mantenuti un potere esclusivo sulla definizione della natura e delle dimensioni delle stesse. Secondo quanto previsto dall’art. 311, comma 3, TFUE, infatti, le disposizioni relative al sistema delle risorse proprie dell’Unione, ivi comprese l’istituzione di nuove categorie di queste e la soppressione di categorie esistenti, sono adottate dal Consiglio con decisioni prese all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, le quali, peraltro, entrano in vigore solo previa approvazione da parte di tutti gli Stati membri conformemente alle rispettive regole costituzionali. Tuttavia, una volta che le risorse proprie siano state istituite, le necessarie misure di esecuzione sono fissate sì dal Consiglio (a maggioranza qualificata), ma previa approvazione del Parlamento europeo, a rimarcare il carattere ormai «europeo» di quelle risorse. Le risorse proprie dell’Unione sono costituite, prime fra tutte, anche se ormai di ammontare meno significativo che in passato, dalle c.d. risorse tradizionali, rappresentate dai prelievi agricoli e dai contributi sulla produzione di zucchero, da un lato, e dai dazi doganali, dall’altro. Ad esse si è aggiunto successivamente – si è dovuta attendere l’armonizzazione negli anni ’70 dei sistemi IVA tra gli Stati membri (infra, p. 655 ss.) – il c.d. prelievo sull’IVA, costituito dal trasferimento all’Unione di un’ali-
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quota dell’IVA riscossa da ciascuno Stato membro (nei limiti del 50% del reddito nazionale lordo). Nel 1988 è stato poi introdotto un prelievo sul RNL di ciascuno Stato membro secondo un’aliquota stabilita nel quadro del bilancio annuale, prelievo (detto quarta risorsa) che finanzia ora la maggior parte del bilancio UE (oltre il 70%). Le risorse proprie definite “tradizionali”, perché introdotte per prime nel 1970, sono le sole risorse proprie ad essere espressione di un vero potere fiscale europeo, poiché si tratta di entrate prelevate nel quadro delle politiche dell’Unione e non già provenienti dagli Stati membri e calcolate come contributi nazionali. Oggi esse rappresentano poco più del 13% delle entrate complessive dell’Unione. Quanto alle risorse derivanti dall’IVA, la cui aliquota massima di prelievo è dello 0,30%, esse corrispondono a un po’ meno dell’11% del bilancio complessivo dell’Unione. Vi sono poi altre risorse proprie minori rappresentate, tra le altre, dalle imposte europee sulle retribuzioni dei membri e dei funzionari delle istituzioni, dalle sanzioni pecuniarie comminate dalla Corte di giustizia agli Stati membri ai sensi dell’art. 260 TFUE e dalle ammende imposte alle imprese che violano le norme europee in materia di concorrenza (infra, rispettivamente p. 272 ss. e p. 638), tutte entrate, queste, che assommano complessivamente a circa l’1% del bilancio. Le risorse proprie così calcolate sono soggette a un massimale annuo indicato nella decisione sulle risorse proprie di cui all’art. 311, comma 3, TFUE, al cui rispetto si provvede con l’aggiustamento annuale della quarta risorsa, che ha così un carattere complementare rispetto alle altre. Il massimale attuale è pari all’1,24% del RNL dell’Unione europea, tetto entro il quale deve rimanere l’importo massimo del contributo collettivamente dovuto a titolo di risorse proprie dagli Stati membri.
Sulla base di queste entrate il bilancio dell’Unione appare molto modesto in rapporto alle competenze esercitabili e alle attività da essa effettivamente svolte. Esso corrisponde infatti a circa il 2% del totale dei bilanci nazionali degli Stati membri. Nonostante ciò, e benché il finanziamento dell’Unione non si basi più su una contribuzione diretta degli Stati membri, ma, come si è detto, sul rispettivo livello di prosperità economica, alcuni di essi lamentano di essere «contribuenti netti» della stessa, nel senso che l’ammontare dei fondi da loro provenienti attraverso il sistema delle risorse proprie è superiore al totale dei fondi di cui sono direttamente o indirettamente beneficiari a titolo dei diversi programmi dell’Unione. Il primo Stato membro ad aver contestato questo presunto squilibrio di contribuzione al bilancio dell’Unione è stato il Regno Unito, anche se esso non è il solo contribuente netto (lo sono, infatti, anche Austria, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi e Svezia). Lo squilibrio deriverebbe, nella originaria contestazione britannica, dalla dimensione importante del contributo che la sua economia fornisce all’Unione a titolo di risorse proprie IVA e PIL a fronte degli scarsi contributi di cui, a causa delle dimensioni ridotte del comparto agricolo britannico, il Regno Unito fruisce a titolo della politica agricola comune, che è ancora oggi la posta di bilancio dell’Unione più importante (circa metà del totale). A seguito di tale contestazione, comunque, il Regno Unito ha ottenuto dal Consiglio europeo di Fontainebleau del 25-26 giugno 1984 che fosse istituito un meccanismo di correzione, consistente in una riduzione a suo favore del prelievo sull’IVA e dei contributi basati sul RNL, meccanismo conosciuto come lo «chéque britannico» e finanziato da tutti gli altri Stati membri con una correzione a favore di alcuni di essi (Germania, Paesi Bassi, Austria e Svezia). In quella decisione si prevedeva anche la possibile estensione futura del meccanismo ad altri Stati membri, ma essendo prevista a tal fine l’unanimità (art. 311, comma 3, TFUE), non si è realizzata né tale estensione, né la soppressione del privilegio in capo al Regno Unito.
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a) L’insieme delle entrate derivanti dalle risorse proprie confluisce, con le spese previste per ciascun esercizio finanziario, nel bilancio annuale dell’Unione. Secondo quanto previsto dalle norme rilevanti del TFUE (artt. 310, par. 1, commi 1 e 3, e 311, comma 2,), si tratta di un bilancio generale e unico per tutta l’Unione, che oltre a dover essere finanziato integralmente tramite le risorse proprie, deve dar conto di tutte le entrate e le spese previste per quel determinato anno, facendo sì che le stesse risultino in pareggio. Quest’ultimo obbligo comporta che il bilancio dell’Unione riguardi di fatto solo le uscite, visto che il plafond delle entrate è prefissato attraverso il sistema delle risorse proprie. La formazione del bilancio trova disciplina, oltre che nei principi generali appena indicati, in alcune ulteriori regole fissate tanto nel Trattato, che nel regolamento finanziario che, secondo quanto stabilito dall’art. 322, par. 1, lett. a), TFUE, il Parlamento europeo e il Consiglio sono chiamati ad adottare previa consultazione della Corte dei conti, per stabilire «le modalità relative alla formazione e all’esecuzione del bilancio, al rendiconto e alla verifica dei conti». Alla luce del regolamento finanziario attualmente vigente (reg. (UE, Euratom) n. 966/2012 del PE e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, GUUE L 298, 1, le cui regole di applicazione sono state adottate dalla Commissione il 29 ottobre dello stesso anno con il reg. delegato (UE) n. 1268/2012, GUUE L 362, 1) e delle diverse disposizioni contenute nel TFUE, il bilancio dell’Unione deve ispirarsi, nella sua struttura, ad una serie di principi, la cui violazione può dar luogo all’annullamento del bilancio, quali il principio dell’unità del bilancio, secondo cui in linea di massima tutte le entrate e le spese dell’Unione devono essere riportate in un documento unico; il principio dell’annualità, ai sensi del quale tutte le entrate e le spese devono fare oggetto di previsioni per ciascun esercizio di bilancio; e il principio dell’equilibrio di bilancio, che impone che il totale delle spese resti nei limiti del totale delle risorse proprie, senza possibilità di ricorrere al debito. Altri trovano invece specificazione prevalentemente nel regolamento finanziario, come, ad esempio, il principio dell’universalità di bilancio, che prevede che tutte le entrate sono finalizzate a coprire indistintamente ogni spesa iscritta a bilancio; il principio di specialità, secondo cui l’autorizzazione di bilancio è data in modo specifico per determinate spese, pur rimanendo la possibilità di storni di stanziamenti per garantire un margine di flessibilità nella gestione del bilancio, sicché l’eventuale eccedenza di un esercizio può essere riportata solo all’esercizio finanziario successivo (Corte giust. 31 marzo 1992, C-284/90, Consiglio c. Parlamento, I-2277); il principio dell’unità di conto, secondo cui il bilancio è di regola formato ed eseguito ed è oggetto di rendiconto in euro; il principio della trasparenza, che va garantita nella formazione ed esecuzione del bilancio e nella sua rendicontazione; e il principio della sana gestione finanziaria che va assicurata con economia (crediti resi disponibili in tempo utile), efficienza (miglior rapporto tra i mezzi impiegati e i risultati conseguiti) ed efficacia (raggiungimento degli obiettivi fissati e dei risultati attesi). La Corte ha ad es. annullato, su ricorso del Consiglio, l’atto dell’11 luglio 1990, con il quale il Presidente del PE aveva adottato il bilancio rettificativo e supplementare n. 2 per l’esercizio 1990, per violazione dei principi di annualità e unità di bilancio, perché il bilancio così stabilito non dava conto di tutte le entrate di cui disponeva l’allora Comunità per tale esercizio (vi si dava conto di una parte solo delle entrate eccedenti dell’anno precedente, mentre è stabilito che l’insieme delle entrate eccedenti di un esercizio vanno riportate al bilancio dell’esercizio successivo). Cfr. sentenza 31 marzo 1992, Consiglio c. Parlamento, appena cit.
L’adozione del bilancio avviene nel quadro di una procedura legislativa speciale che a partire da una proposta della Commissione vede confrontarsi il Consiglio e il Parlamento europeo sotto la responsabilità finale, però, di quest’ultimo. Tale proce-
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dura è disciplinata in maniera molto precisa dall’art. 314 TFUE, il quale detta tempi molto stretti e cadenzati su scadenze che, se non rispettate, comportano un’approvazione tacita da parte dell’istituzione inerte. La finalità, al pari di quello che avviene anche negli Stati nazionali, è quella di evitare l’avvio di un nuovo esercizio finanziario annuale senza che vi sia un bilancio debitamente adottato. Ciò avrebbe la conseguenza che l’Unione dovrebbe operare sulla base del sistema dei c.d. dodicesimi di cui all’art. 315 TFUE, che prevede che le spese dell’Unione possono essere effettuate mensilmente nei limiti di un dodicesimo degli stanziamenti aperti nel Capitolo in questione del bilancio dell’anno precedente, senza poter superare il dodicesimo degli stanziamenti previsti nello stesso Capitolo del progetto di bilancio. I diversi passaggi della procedura e il relativo calendario sono i seguenti: entro il 1° settembre di ogni anno la Commissione trasmette al Parlamento europeo e al Consiglio una proposta di bilancio formulata sulla base degli stati previsionali preparati da ciascuna istituzione; entro il 1° ottobre, sulla base di questa proposta, il Consiglio decide, a maggioranza qualificata, la propria posizione e la trasmette al Parlamento, il quale dispone di 42 giorni per la sua prima lettura. Se il Parlamento la approva o non si pronuncia nei termini, il bilancio si considera adottato. In caso diverso (nel caso cioè che il PE proponga emendamenti che, ovviamente, non possono che riguardare le spese, visto che il livello delle entrate è fissato unicamente dal Consiglio nel quadro del già citato art. 311, comma 3, TFUE), viene convocato senza indugio un comitato di conciliazione composto dai membri del Consiglio e da altrettanti rappresentanti del Parlamento, più la Commissione con funzioni di mediazione e conciliazione tra le due autorità di bilancio, che deve elaborare entro 21 giorni un progetto comune a maggioranza qualificata dei membri del Consiglio e a maggioranza dei rappresentanti del PE, a meno che entro dieci giorni dalla ricezione degli emendamenti parlamentari il Consiglio non li approvi. Se entro 14 giorni il progetto comune non viene approvato anche da una sola delle due istituzioni, il bilancio si considera non adottato, a meno che il Parlamento, di fronte a un dissenso proveniente dal Consiglio, non confermi entro ulteriori 14 giorni, a maggioranza dei suoi membri e a quattro quinti dei voti espressi, tutti o parte dei suoi emendamenti. In tal caso il bilancio s’intende adottato in conformità a quest’ultima deliberazione del Parlamento e il Presidente di questo può formalmente «constatare» che il bilancio è definitivamente adottato, dopo aver verificato la regolarità della procedura svoltasi e la conformità del bilancio ai Trattati. In caso invece di esito negativo della procedura, la Commissione è tenuta a sottoporre a Parlamento e Consiglio un nuovo progetto di bilancio. La “constatazione” di adozione del bilancio è oggetto di un atto sui generis, firmato dal solo Presidente del PE e a questo solo imputabile, benché la procedura si presenti, come si è visto, come un’azione congiunta del PE e del Consiglio. Esso è comunque impugnabile dinanzi alla Corte di giustizia, com’è in effetti avvenuto recentemente (v. Corte giust. 17 settembre 2013, C-77/11, Consiglio c. Parlamento, punti 56 e 60, la quale sottolinea come, pur non essendo un atto legislativo tipico, l’atto del Presidente del PE che constata l’adozione del bilancio dell’Unione è l’atto che conferisce forza vincolante a questo nei confronti tanto delle istituzioni, che degli Stati membri, ed è quindi impugnabile ai sensi dell’art. 263 TFUE). Con la stessa procedura appena descritta può essere adottato un bilancio rettificativo, ove nel corso dell’anno sopravvengano circostanze inevitabili, eccezionali o impreviste.
L’adozione del bilancio è tradizionalmente motivo di contrasto tra il Parlamento europeo e il Consiglio, e non solo come espressione di un conflitto di potere tra le due autorità di bilancio, l’una tendenzialmente favorevole ad un aumento del bilancio anche a costo di un incremento delle entrate (il Parlamento) e l’altra prevalentemente restia ad un aumento delle stesse (il Consiglio). Si tratta in realtà di un contra-
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sto squisitamente politico, ben noto anche ai sistemi nazionali, sulle scelte di fondo dell’Unione e le relative priorità, che si esprimono per l’appunto nell’impostazione del bilancio. In passato il terreno di scontro formale è stata la distinzione tra spese obbligatorie («spese […] derivanti obbligatoriamente dal Trattato o dagli atti adottati a sua norma») e spese non obbligatorie, prevista dall’art. 272, par. 9, TCE, e la fissazione del tasso minimo di aumento delle seconde. Attraverso quella distinzione, che rifletteva un’epoca in cui il potere decisionale era quasi interamente nelle mani del Consiglio, si mirava in effetti ad evitare che il PE, usando dei suoi poteri di bilancio, potesse condizionare il potere legislativo (in effetti il PE ha sostenuto la possibilità di decidere un’azione dell’Unione sulla sola base di un’iscrizione della stessa a bilancio, ma Corte giust. 12 maggio 1998, C-106/96, Regno Unito c. Commissione, I-2729, punto 26 ss., stabilì che solo azioni dell’Unione non significative non richiedono la previa adozione di un regolamento di base secondo le ordinarie procedure decisionali; l’art. 49 del regolamento finanziario ha poi codificato la nozione di azioni non significative). Di conseguenza l’ultima parola sulle spese obbligatorie spettava al Consiglio, mentre al PE era lasciata voce in capitolo solo sulle spese non obbligatorie, per le quali era però previsto un tasso minimo di aumento fissato dalla Commissione sulla base di parametri prefissati. E ben presto tanto i concreti criteri di classificazione tra i due tipi di spesa, che l’adeguatezza o meno del tasso minimo di aumento di quelle non obbligatorie divennero oggetto di ricorrente disaccordo in sede di discussione del bilancio, solo in parte attenuato dal tentativo di inquadrare questi profili in accordi interistituzionali a valenza pluriennale tra le due autorità di bilancio e la Commissione (v. l’accordo interistituzionale tra le tre istituzioni del 17 maggio 2006 sulla disciplina di bilancio e il miglioramento della procedura di bilancio per il periodo 2006-2013, GUUE C 139, 1). Con la riforma approvata a Lisbona si è abolita la distinzione tra spese obbligatorie e spese non obbligatorie e si è cercato di fissare un nuovo punto di equilibrio tra i poteri rispettivi del PE e del Consiglio in materia di bilancio. Ciò non ha tuttavia eliminato i rischi di un confronto politico anche aspro tra le due autorità di bilancio, tanto è vero che l’applicazione delle nuove regole non è andata immune da problemi: si è avuto il rigetto in prima battuta del bilancio 2011 a seguito del mancato accordo in comitato di conciliazione tra le due istituzioni; e anche l’approvazione di quello per il 2013 ha incontrato non poche difficoltà, poi superate.
Va anche detto, però, che l’esercizio annuale di bilancio è ormai da tempo inquadrato in una cornice programmatoria che copre più anni, costituita dal c.d. quadro finanziario pluriannuale (QFP), il quale precisa l’ampiezza massima e la composizione delle spese dell’Unione prevedibili e riflette le principali priorità di bilancio per il periodo di riferimento. Il QFP nasce nel 1988, con il nome di prospettive finanziarie pluriannuali, nel quadro del primo degli accordi interistituzionali di bilancio di cui sopra, per essere finalmente integrato nei Trattati con il Trattato di Lisbona. L’art. 312 TFUE stabilisce, infatti, che almeno ogni 5 anni (nella pratica portati oggi a 7) il Consiglio adotta all’unanimità, con l’approvazione del Parlamento a maggioranza dei suoi membri, un QFP che «mira ad assicurare l’ordinato andamento delle spese dell’Unione entro i limiti delle sue risorse proprie». Il QFP non sostituisce i bilanci annuali, ma vincola le autorità di bilancio in sede di approvazione degli stessi. b) L’esecuzione del bilancio generale dell’Unione spetta alla Commissione, ferma restando la responsabilità delle singole istituzioni o dei singoli organi o organismi per l’esecuzione delle singole sezioni di bilancio che li riguardano direttamente. La Commissione vi provvede conformemente alle procedure fissate nelle misure d’applicazione del già citato regolamento finanziario.
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L’esecuzione data al bilancio dell’Unione è oggetto di un duplice controllo esterno, contabile e politico. Quello contabile spetta alla Corte dei conti che lo esercita a posteriori in conformità all’art. 287 TFUE, e riguarda la legalità e la regolarità delle entrate e delle uscite e il rispetto del principio di sana gestione finanziaria (par. 2). Esso, operato in via documentale, ma anche con controlli in loco, nei locali delle istituzioni o di ogni persona fisica o giuridica che sia stata beneficiaria di pagamenti provenienti dal bilancio dell’Unione, si traduce in una relazione annuale redatta dopo la chiusura dell’esercizio di bilancio, che viene trasmessa alle istituzioni al fine di riceverne eventuali risposte prima della sua pubblicazione nella GUUE (par. 4). Ai sensi infine del par. 1 dello stesso art. 287 TFUE, la Corte trasmette alle istituzioni e agli organi e organismi di cui verifica i conti, una dichiarazione di attestazione dell’affidabilità degli stessi e della legittimità e regolarità delle relative operazioni. Quello politico è esercitato dal Parlamento europeo, che è chiamato a dare atto alla Commissione dell’esecuzione del bilancio e quindi a deliberare «lo scarico di bilancio», dopo che la Commissione abbia presentato allo stesso Parlamento e al Consiglio i conti annuali dell’esercizio trascorso. L’art. 319 TFUE prevede infatti che, dopo questa trasmissione e alla luce del rapporto della Corte dei conti e di ogni altro documento utile, il PE, su raccomandazione del Consiglio, delibera lo scarico. Il Parlamento ha interpretato la procedura di scarico di bilancio non solo come un adempimento tecnico di chiusura dei conti, ma anche in chiave di giudizio politico sull’operato della Commissione. In taluni casi, infatti, il Parlamento si è rifiutato di concedere lo scarico (nel 1982 e nel 1998) o ne ha ritardato l’adozione (nel 1996), con motivazioni più politiche che strettamente di bilancio. Benché una decisione del genere esprima una critica politica forte nei confronti della Commissione, da essa non discendono le stesse conseguenze di una mozione di censura, anche se in un caso di quelli appena citati, la Commissione ha poi deciso di presentare collettivamente le sue dimissioni “volontarie”. Si tratta del caso già ricordato delle dimissioni volontarie collettive nel 1998 della Commissione Santer (supra, p. 99), sulle quali ebbe una forte incidenza non solo la decisione di rifiuto dello scarico di bilancio (risoluzione del 14 gennaio 1999, GUCE C 104, 106), ma soprattutto la nomina da parte del PE di un comitato di esperti indipendenti chiamato a redigere un rapporto sull’operato della Commissione, rapporto che finì per esprimere forti critiche su di esso.
c) A tutela ulteriore delle finanze dell’Unione, il Trattato prevede l’obbligo tanto dell’Unione che degli Stati membri, in quanto beneficiari diretti o indiretti di fondi europei, di contrastare la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione (artt. 310, par. 6, e 325 TFUE); espressione questa, «interessi finanziari», che «deve essere interpretata nel senso che comprende non solo le entrate e le spese rientranti nel bilancio comunitario, ma, in linea di principio, anche quelle facenti parte del bilancio di altri organi o organismi istituiti dal [TCE]» (Corte giust. 10 luglio 2003, C-11/00, Commissione c. BCE, cit., punto 89). A questo fine l’Unione ha creato un apposito ufficio, l’OLAF (Ufficio per la lotta antifrode), che, pur avendo la veste formale di Servizio della Commissione, opera come un organismo indipendente incaricato di indagare e contrastare ogni attività
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illegale che rechi pregiudizio alle finanze dell’Unione, sia che la stessa si realizzi all’interno dell’apparato istituzionale dell’Unione, sia che essa si produca a livello nazionale. L’OLAF è stato istituito con la dec. 1999/352/CE, CECA, Euratom della Commissione, del 28 aprile 1999 (GUCE L 136, 20). Esso è entrato in funzione il 1° giugno 2000, in contemporanea con il reg. (CE) n. 1073/1999 del PE e del Consiglio, del 25 maggio 1999, relativo alle inchieste effettuate dall’OLAF, e con il reg. (Euratom) n. 1074/1999 del Consiglio, di pari data, sullo stesso oggetto (GUCE L 136, rispettivamente, 1 e 8). Il carattere sui generis dell’OLAF è sottolineato dal fatto che il suo direttore è nominato dalla Commissione di concerto con il Parlamento e il Consiglio, e che allo stesso tempo dispone di un diritto di ricorso autonomo alla Corte di giustizia contro misure della Commissione che possano pregiudicare la sua indipendenza. Inoltre, le sue attività sono controllate da un comitato di vigilanza composto da cinque personalità esterne indipendenti, nominate da PE, Consiglio e Commissione di comune accordo, per un mandato di tre anni, rinnovabile una volta (art. 11, par. 2, dei due regolamenti appena cit.). Questa indipendenza, del resto, è strettamente funzionale al potere attribuito all’OLAF di effettuare indagini rispetto a qualsiasi istituzione, organo o organismo dell’Unione. Non a caso, è proprio in ragione di questa sua «rigorosa indipendenza», che la Corte di giustizia ha dichiarato infondati gli argomenti con cui la BCE e la BEI avevano contestato come lesivi della propria indipendenza i poteri di indagine riconosciuti all’OLAF anche nei loro confronti (Corte giust. 10 luglio 2003, C-11/00, Commissione c. BCE, cit., in particolare punto 139; e 10 luglio 2003, C-15/00, Commissione c. BEI, cit., punto 107).
Nel caso di indagini all’interno di uno Stato membro, l’OLAF agisce per lo più in stretto coordinamento con le autorità nazionali, e in particolare con i servizi antifrode degli Stati membri. Questi, d’altronde, sono destinatari al pari dell’Unione, come si è detto, di un obbligo di contrastare qualsiasi frode o attività illegale che rechi pregiudizio agli interessi finanziari dell’Unione. E uno specifico articolo, l’art. 325 TFUE, integra questi due obblighi simmetrici con un obbligo comune di coordinamento e cooperazione delle rispettive attività (par. 3). Le sue indagini sfociano in un rapporto con osservazioni e raccomandazioni, che viene trasmesso all’istituzione dell’Unione o allo Stato membro interessato. Le informazioni ottenute nel corso di un’indagine possono essere trasmesse alle autorità giudiziarie nazionali. Indipendentemente dal citato obbligo di coordinamento con l’Unione, e con l’OLAF in particolare, l’art. 325 TFUE impone agli Stati membri di adottare, nella loro attività di contrasto, le stesse misure previste per combattere le frodi ai danni dei propri interessi finanziari (par. 2). Si tratta del c.d. «principio di assimilazione» nella tutela degli interessi finanziari europei e nazionali, che la Corte di giustizia aveva già ricavato, prima ancora che lo prevedesse esplicitamente il Trattato, dal principio di leale collaborazione con le istituzioni imposto agli Stati membri dall’art. 10 TCE (attuale art. 4, par. 3, TUE). Il principio comporta che le autorità nazionali debbano procedere nei confronti delle frodi contro le finanze dell’Unione con la stessa diligenza usata nell’esecuzione delle rispettive legislazioni nazionali, in particolare applicando a quelle frodi sanzioni che siano, sotto il profilo sostanziale e procedurale, analoghe a quelle previste per condotte puramente interne, ma simili per natura e importanza, purché tali sanzioni abbiano un carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva.
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Su questo principio si veda in origine la sentenza c.d. del mais greco (Corte giust. 21 settembre 1989, 68/88, Commissione c. Grecia, 2965, punto 22 ss.), riguardante l’accertamento e la messa a disposizione di risorse proprie della allora Comunità. Il principio è stato ribadito in relazione all’uso indebito dei contributi concessi dal FSE nella sentenza 8 luglio 1999, C-186/98, Nunes e de Matos, I-4883, punto 10 ss. Sul punto si veda poi soprattutto, anche perché riguardante l’Italia, la sentenza 8 settembre 2015, C-105/14, Taricco e a. Qui la Corte ha ben esplicitato che, da un lato, «l’articolo 325 TFUE obbliga gli Stati membri … ad adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi finanziari» (punto 37); dall’altro lato, però, «se è pur vero che gli Stati membri dispongono di una libertà di scelta delle sanzioni applicabili, che possono assumere la forma di sanzioni amministrative, di sanzioni penali o di una combinazione delle due, al fine di assicurare la riscossione di tutte le entrate provenienti dall’IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione …, possono tuttavia essere indispensabili sanzioni penali per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinate ipotesi di gravi frodi in materia di IVA» (punto 39). Ma allo stesso tempo la Corte ha anche precisato che, pur in presenza di sanzioni penali, l’obbligo posto dall’art. 325 potrebbe considerarsi non soddisfatto, laddove la legislazione nazionale prevedesse per quel tipo di reati un termine di prescrizione dalla cui applicazione «consegue, in un numero considerevole di casi, l’impunità penale», date le complessità e la lunghezza dei procedimenti penali che caratterizza il sistema giudiziario di quel determinato Paese (punto 46 s.).
Ad ogni modo, l’art. 325, par. 4, TFUE prevede anche la possibilità del Consiglio di adottare misure specifiche al fine di pervenire a una protezione efficace ed equivalente degli interessi finanziari dell’Unione in tutti gli Stati membri. Nella versione pre-Lisbona l’articolo escludeva espressamente tra le misure che il Consiglio avrebbe potuto prendere quelle penali, in ragione dell’inclusione in quel momento della cooperazione in materia penale in un pilastro esterno al TCE, in cui era invece inserito l’articolo corrispondente all’attuale art. 325 TFUE. Con Lisbona e il venir meno della separazione in pilastri, è venuta meno anche quell’esclusione. E sulla base di tale disposizione, è stata da poco adottata la dir. 2017/1371/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2017, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale (c.d. direttiva PIF), GUUE L 198, 29, la quale prevede definizioni comuni per una serie di reati a danno del bilancio dell’Unione e introduce norme minime sulle sanzioni, incluse le pene detentive per i casi più gravi, nonché sui termini di prescrizione entro cui devono essere svolte le indagini e avviate le azioni giudiziarie. Ma non solo. Come si vedrà, l’art. 86 TFUE prevede ora, addirittura, che per combattere i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo una procedura legislativa speciale, possa istituire una Procura europea, competente per individuare, perseguire e rinviare a giudizio gli autori di reati che ledono tali interessi. La proposta di regolamento istitutivo presentata al riguardo dalla Commissione (COM(2013) 534 def.) non ha trovato l’unanimità necessaria in Consiglio e quindi, come si è già anticipato (supra, p. 54 s.), essa è in corso di adozione a titolo di cooperazione rafforzata tra 20 Stati membri sulla base della procedura prevista dal par. 1 dell’art. 86. Sulla Procura europea, come su Eurojust e Europol, vedi comunque Parte Quarta, Cap. V, parr. 9 e 10.
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CAPITOLO III
Le fonti Sommario: 1. Profili introduttivi. Il diritto primario e il diritto derivato. – 2. I Trattati: il loro carattere «costituzionale». – 3. Segue: I Trattati e le altre norme di diritto primario. – 4. Segue: Gli effetti delle norme di diritto primario sui soggetti dell’ordinamento. – 5. I principi generali di diritto. In particolare il principio del rispetto dei diritti fondamentali. – 6. Segue: La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’adesione alla Convezione europea dei diritti dell’uomo. – 7. Il diritto internazionale. In particolare gli accordi internazionali dell’Unione. – 8. Gli atti normativi tipici di diritto derivato. – 9. Segue: Il rapporto tra gli atti normativi tipici. – 10. Segue: Il regime comune agli atti normativi tipici. – 11. a) I regolamenti. – 12. b) Le direttive. – 13. c) Le decisioni. – 14. Gli altri atti tipici dell’Unione e gli atti atipici.
1. Profili introduttivi. Il diritto primario e il diritto derivato Al pari di ogni altro ordinamento giuridico, anche quello creato dai Trattati istitutivi appare organizzato intorno a un sistema di fonti. Questo sistema risulta ben più ampio e articolato della coppia diritto primario-diritto derivato nell’ambito della quale si tende spesso a ridurre il diritto dell’Unione europea. In primo luogo – lo si vedrà tra breve – questi due termini sono di per sé espressione di una realtà complessa: il diritto primario non si esaurisce nei Trattati istitutivi in quanto tali; dal canto suo il diritto derivato, pur quando inteso con riferimento esclusivo alla produzione normativa basata su previsioni espresse dei Trattati, si identifica comunque con un complesso di atti assai vari per caratteristiche ed effetti. In secondo luogo, il sistema creato dai Trattati annovera, accanto alle due ora indicate, altre categorie di fonti che arricchiscono quel sistema in un modo che appare più consono alla complessità dell’azione di governo che l’Unione è chiamata a svolgere. Alcune di queste ulteriori fonti erano previste fin dall’inizio nel testo dei Trattati: si pensi ad esempio agli accordi internazionali che possono essere conclusi con Stati terzi, e che già prima che lo ribadisse l’attuale art. 216, par. 2, TFUE, i Trattati istitutivi affermavano essere vincolanti per le istituzioni e per gli Stati membri. Altre scaturiscono invece da un processo di graduale arricchimento dell’ordinamento, frutto da un lato delle successive modifiche dei Trattati originari, dall’altro lato dell’elaborazione giurisprudenziale della Corte di giustizia, come nel caso dei principi generali
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del diritto dell’Unione, che come si vedrà, inizialmente evocati da sentenze della Corte, hanno poi trovato consacrazione formale nell’art. 6 TUE. È dato infine constatare, accanto alle fonti ora indicate, la presenza di una serie di fenomeni o procedimenti paranormativi che, pur se per lo più difficilmente ascrivibili alla nozione di fonte normativa in senso proprio, rappresentano pur sempre elementi importanti di condizionamento dell’assetto e del funzionamento del sistema giuridico creato dai Trattati.
2. I Trattati: il loro carattere «costituzionale» Al vertice di questo complesso di fonti vi sono evidentemente i Trattati istitutivi. Se per la loro origine, infatti, questi sono atti di diritto internazionale, quando li si consideri dal punto di vista dell’ordinamento cui hanno dato vita, essi assumono evidentemente natura diversa. Il TUE e il TFUE, unitariamente considerati, costituiscono, in effetti, l’atto fondante dell’Unione e, allo stesso tempo, l’atto che disciplina, da un lato, le competenze di questa e le sue procedure di funzionamento e, dall’altro, i principi e le regole materiali di base su cui è modellato l’intervento delle istituzioni nei diversi settori di loro competenza. Le norme contenute nei Trattati sono quindi norme sovraordinate rispetto a tutte le altre norme dell’ordinamento, in quanto i procedimenti produttivi di quest’ultime traggono la loro idoneità a farlo, e i relativi limiti materiali, dalle norme dei Trattati. La collocazione dei Trattati al vertice del sistema delle fonti da essi create spiega il fatto che si sia parlato più di una volta degli stessi in termini di «Costituzione» del relativo ordinamento, e ciò anche prima che si procedesse al già ricordato tentativo, poi fallito, di dare a questa idea una veste formale con il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. Almeno in relazione al TCEE, la stessa Corte di giustizia ha del resto dato un forte contributo a quella assimilazione. In più di un’occasione essa ha affermato che questo Trattato, «benché sia stato concluso in forma d’accordo internazionale, costituisce la Carta costituzionale di una comunità di diritto» (parere 14 dicembre 1991, 1/91, I-6079, punto 21, ma così già la sentenza 23 aprile 1986, 294/83, Les Verts c. Parlamento, 1339, punto 23). In quella stessa occasione, l’assimilazione con una costituzione è stata anzi spinta dalla Corte fino al punto di suggerire, quasi a richiamare un fenomeno tipico delle esperienze costituzionali nazionali, che la possibilità di revisione dei Trattati incontrerebbe un limite nei «principi fondamentali della Comunità», i quali non tollererebbero modifiche, pur se queste venissero adottate in conformità al procedimento di emendamento previsto dagli stessi Trattati. Si tratta ancora del parere 1/91, cit., punto 69 ss. Nel caso di specie si trattava dell’eventualità di legittimare, attraverso una modifica dell’allora art. 238 TCEE (poi art. 310 TCE, ora art. 217 TFUE), la conclusione di un accordo di associazione che prevedeva la creazione di un sistema giurisdizionale ritenuto lesivo delle competenze della Corte di giustizia; e la Corte ha osservato che quell’eventuale modifica avrebbe incontrato un limite di contenuto rispetto alla «istituzione di un sistema giurisdizionale che pregiudichi [l’art. 164 TCEE (poi art. 220 TCE, ora, nella sostanza, art. 19 TUE)] e, più in generale, gli stessi principi fondamentali della Comunità» (punto 71).
Le fonti
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L’assimilazione indicata ha naturalmente un peso più politico, che formale. Ai Trattati istitutivi manca in fondo la stessa struttura di una Carta costituzionale, dato che lungi dal contenere solo i principi strutturali e materiali dell’ordinamento cui danno fondamento, essi ne disciplinano fin nei dettagli, per effetto dei compromessi negoziali da cui ne scaturisce il testo, i settori di competenza e le relative regole di funzionamento. Era così per il TCE rispetto al quale quella assimilazione, come si è detto, fu originariamente prospettata. Ma lo è stato ugualmente per il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, il cui testo, comunque troppo lungo per la sua vocazione costituzionale (ben 448 articoli), recuperava nella sua terza parte la quasi integralità del TCE. E lo è infine, oggi, per i Trattati usciti dal Trattato di Lisbona. È vero, infatti, che la costruzione in due testi separati dei Trattati usciti dal Trattato di Lisbona prefigura per la prima volta, nel TUE, l’esistenza di un Trattato base del processo d’integrazione europea e quindi di un nucleo di norme del diritto primario sul piano logico superiori alle altre, dato che il «Trattato sul funzionamento dell’Unione europea» ha fin dall’intitolazione una funzione servente ed è per di più caratterizzato, significativamente, da una rigidità attenuata rispetto al TUE, in ragione delle differenti regole che rispettivamente presiedono, come vedremo, alla loro modifica. Tuttavia, sul piano normativo il TUE e il TFUE hanno pur sempre uguale valore giuridico e costituiscono perciò, allo stato attuale, un complesso normativo unico, all’interno del quale sarebbe difficile subordinare l’interpretazione delle norme dell’uno a un principio di conformità con le norme dell’altro.
È però indubbio che la ricordata tendenza a vedere nei Trattati istitutivi un fenomeno costituzionale ha avuto e ha il merito di cogliere e ben sottolineare le peculiarità che ad ogni modo caratterizzano tali Trattati in rapporto ai normali accordi internazionali. Ciò è vero in primo luogo per quel che riguarda proprio il modo in cui le norme dei Trattati vanno interpretate. Sviluppata in relazione a quelle contenute nel TCE, la giurisprudenza al riguardo della Corte di giustizia è illuminante. In ragione, infatti, della funzione che tali norme svolgono rispetto all’ordinamento cui hanno dato vita, ai fini della loro interpretazione le considerazioni di carattere sistematico hanno finito per prevalere nella maggior parte dei casi sul dato testuale. Anzi, ricorrendo appunto a un metodo usuale rispetto a una Carta costituzionale, ma non rispetto ad atti internazionali, nella lettura di articoli del TCE, la Corte ha più di una volta sacrificato la lettera della norma alla necessità di salvaguardare o affermare principi o valori dell’ordinamento. D’altra parte, come proprio la Corte ha specificato, «ogni disposizione di diritto comunitario va ricollocata nel proprio contesto e interpretata alla luce dell’insieme delle disposizioni del suddetto diritto, delle sue finalità, nonché del suo stadio di evoluzione al momento in cui va data applicazione alla disposizione di cui trattasi» (6 ottobre 1982, 283/81, CILFIT, 3415, punto 20). Quanto poi alle supposte limitazioni che incontra il potere di emendamento dei Trattati, anche qui l’affermazione del carattere «costituzionale» degli stessi esprime una parte di verità. Non ci si riferisce evidentemente all’eventuale esistenza di limiti materiali all’esercizio di quel potere. È, infatti, difficile pensare che gli Stati membri non siano padroni di modificare a loro piacimento con una volontà esplicita le norme dei Trattati, pur se, ovviamente, vi potrebbero essere emendamenti suscettibili di cambiare in profondità la natura stessa del sistema giuridico che oggi governa il processo d’integrazione europea.
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È però vero che, a differenza di ciò che normalmente avviene nel diritto internazionale, gli Stati non sono liberi circa il procedimento da seguire per arrivare a quelle modifiche. La Corte di giustizia ha, infatti, affermato che «il Trattato [CEE] non può […] essere modificato […] se non mediante una revisione da effettuarsi ai sensi [dell’art. 236 TCEE; ora art. 48 TUE]» (8 aprile 1976, 43/75, Defrenne, 455, punti 56-58). Ciò significa non solo che la Corte possa essere chiamata a pronunciarsi sulla correttezza o meno del modo con cui sono stati utilizzati i procedimenti di revisione dei Trattati nell’approvare una modifica degli stessi, in particolare dopo l’introduzione, come si vedrà tra poco, di procedure semplificate di revisione accanto a quella ordinaria; ma può anche comportare che, laddove le se ne offrisse l’occasione, essa potrebbe trovarsi nella condizione di non poter riconoscere come validamente avvenute, dal punto di vista dei Trattati, eventuali modifiche decise dagli Stati membri attraverso i normali metodi di ricambio del diritto internazionale, anche laddove queste assumessero, formalmente, la veste di interpretazioni da parte di tutti gli Stati membri di norme dei Trattati. La Corte lo ha in realtà già fatto in riferimento a prassi degli Stati membri modificative dei Trattati. Essa ha cioè escluso, a suo tempo, la possibilità di riconoscere effetti nell’ordinamento comunitario a prassi pur unanimemente e costantemente seguite dagli Stati membri in deroga a norme del TCE: così Corte giust. 23 febbraio 1988, 68/86 e 131/86, Regno Unito c. Consiglio, rispettivamente, 855 e 905; ma v. anche sentenza 9 agosto 1994, C-327/91, Francia c. Commissione, I-3641. Ad ogni modo, ipotesi di modifiche dei Trattati sulla base di un accordo unanime degli Stati membri realizzatosi fuori del procedimento disciplinato dall’art. 48 TUE sono state anche prospettate, ad esempio, nel caso del cosiddetto «Compromesso danese», approvato dal Consiglio europeo di Edimburgo del dicembre 1992 (GUCE C 348, 1) per risolvere il problema sorto in seguito al risultato negativo del referendum danese sulla ratifica del Trattato di Maastricht; o anche con riferimento alla decisione, presa dal Consiglio europeo di Madrid del dicembre 1995 (Boll. UE n. 12/95, p. 10 ss.), di sostituire al termine «ecu», previsto dall’allora TCE, il termine «euro», quale denominazione della moneta unica. In entrambi i casi, tuttavia, pur essendo stati investiti della questione, i giudici dell’Unione non hanno avuto modo di pronunciarsi al riguardo, dato che le decisioni del Consiglio europeo sono state sì oggetto di un ricorso di privati al Tribunale dell’Unione, ma per ambedue il ricorso è stato dichiarato irricevibile per difetto di legittimazione ad agire del ricorrente (v., Trib., ordinanze 14 luglio 1994, T-584/93, Roujansky c. Consiglio, II585; 14 luglio 1994, T-179/94, Bonnamy c. Consiglio, inedita; e 15 maggio 1997, T-175/96, Berthu c. Commissione, II-811). Un’ulteriore, e più recente, ipotesi in cui si è profilato un intervento di modifica dei Trattati da parte degli Stati per vie diverse da quelle formalmente previste è quello, già ricordato, della decisione adottata il 19 febbraio 2016 dai capi di Stato o di governo riuniti in sede di Consiglio europeo per rispondere ad alcune richieste del governo britannico in vista del referendum sulla Brexit (vedila nell’Allegato I alle Conclusioni del Consiglio europeo del 18 e 19 febbraio 2016), parti della quale miravano a chiarire, a suo stesso dire, «alcune questioni di particolare importanza per gli Stati membri, di modo che tale chiarimento debba essere preso in considerazione quale strumento di interpretazione dei trattati» (2° considerando della decisione). È vero infatti che, come vedremo più avanti, che i Trattati sono accompagnati da numerose dichiarazioni degli Stati membri che danno conto del significato con cui gli Stati hanno concordato determinate norme degli stessi Trattati, influenzando così l’interpretazione successiva di tali norme in linea con quando disposto dall’art. 31.1 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, secondo la quale un trattato internazionale va interpretato nel suo contesto, di cui fa parte, ai sensi dello stesso art. 31.2, lett. b), «ogni strumento disposto da una o più parti in occasione della conclusione
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del trattato ed accettato dalle altre parti in quanto strumento relativo al trattato». Ma ciò appare legittimo dal punto di vista del diritto dell’Unione unicamente nella misura in cui una dichiarazione “interpretativa” sia stata adottata contestualmente alla norma “interpretata” dando così conto delle condizioni alle quali si è formato il consenso degli Stati membri parti dei Trattati. Laddove invece si tratti di un atto di interpretazione che, riguardando norme già vigenti, pretenda di proporne un’interpretazione “innovativa”, esso, pur astrattamente ammissibile dal punto di vista del diritto internazionale, che consente di tener conto «di ogni accordo ulteriore intervenuto tra le parti circa l’interpretazione del trattato o l’attuazione delle disposizioni in esso contenute» (Convenzione di Vienna cit., art. 31.3, lett. a), non lo sarebbe per il diritto dell’Unione, visto che i Trattati affidano in via esclusiva alla Corte di giustizia il compito di interpretare le norme dei Trattati e degli atti delle istituzioni (infra, p. 227 ss.).
I Trattati, in effetti, disciplinano puntualmente il procedimento attraverso cui si può realizzare una modifica delle loro norme. Nella sua versione attuale, l’art. 48 TUE prevede in primo luogo una «procedura di revisione ordinaria». In base ad essa, quando uno Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione presentino una proposta di revisione dei Trattati, e il Consiglio europeo, previa consultazione del Parlamento europeo e, se del caso, della Commissione (e della BCE se si tratti di «modifiche istituzionali nel settore monetario»), esprima a maggioranza semplice il proprio parere favorevole, è convocata una convenzione composta da rappresentanti dei parlamenti nazionali, dei Capi di Stato o di governo degli Stati membri, del Parlamento europeo e della Commissione, a meno che ciò appaia inutile in ragione dell’entità ridotta delle modifiche proposte e così disponga il Consiglio europeo, sempre a maggioranza semplice, previa approvazione del Parlamento europeo. In questa seconda ipotesi sarà convocata direttamente una conferenza intergovernativa tra gli Stati membri sulla base di un mandato fissato dallo stesso Consiglio europeo; altrimenti spetterà alla convenzione elaborare quel mandato nella veste di un progetto, sulla base del quale la conferenza intergovernativa predisporrà l’accordo di modifica dei Trattati, che entrerà in vigore una volta ratificato da tutti gli Stati secondo le rispettive procedure costituzionali. Va osservato che il par. 2 dell’art. 48 TUE prevede esplicitamente, dopo Lisbona, che eventuali proposte di modifica dei Trattati possano essere dirette non solo ad accrescere, ma anche a ridurre le competenze attribuite all’Unione dagli stessi Trattati. Si tratta di una novità rispetto al testo originario di questo articolo che ha un significato più politico che giuridico, dato che sotto questo secondo profilo sarebbe stato astrattamente possibile anche prima di Lisbona modificare i Trattati nel senso di una riappropriazione da parte degli Stati di competenze attribuite all’Unione.
Accanto a questa procedura ordinaria, l’art. 48 TUE disciplina anche, a seguito del Trattato di Lisbona, due «procedure di revisione semplificate», la prima riguardante proposte di modifica di disposizioni della Parte Terza del TFUE che non comportino un’estensione delle competenze dell’Unione (par. 6), la seconda riservata all’eventuale passaggio dall’unanimità alla maggioranza qualificata per l’adozione di decisioni del Consiglio nel quadro del TFUE e del Titolo V del TUE, ovvero dalla procedura legislativa speciale a quella ordinaria per l’adozione di atti legislativi nel quadro sempre del TFUE (par. 7). Spetta al Consiglio europeo decidere all’unanimità su tali modifiche su iniziativa di uno Stato membro, del Parlamento europeo o
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della Commissione e previa consultazione di queste ultime due ed eventualmente della BCE, nel primo caso, e su sua propria iniziativa e previa approvazione del solo Parlamento europeo nel secondo. E nel primo caso la decisione del Consiglio dovrà ricevere l’approvazione degli Stati membri secondo le rispettive procedure costituzionali per entrare in vigore, mentre nel secondo essa entrerà direttamente in vigore a meno che il parlamento di uno Stato membro non vi si opponga entro sei mesi dalla sua trasmissione ufficiale ai parlamenti nazionali. Per quanto riguarda l’ambito di applicazione rispettivo delle due procedure di revisione semplificate, è bene precisare, rispetto a quella prevista dal par. 6 dell’art. 48, che l’espressa previsione di questo secondo cui essa non può servire ad «estendere le competenze attribuite all’Unione» nelle materie cui si applica (la Parte Terza del TFUE concernente le «Politiche e azioni interne dell’Unione»), non sembra poter significare, quando la si legga nel contesto dell’art. 48 TUE, che questa procedura semplificata possa essere al contrario utilizzata per ridurre quelle competenze. Quanto invece alla seconda procedura, quella prevista dal par. 7 dell’articolo, è da ricordare che il Titolo V TUE riguarda le «Disposizioni generali sull’azione esterna dell’Unione e disposizioni specifiche sulla politica estera e di sicurezza comune», al cui interno, per espressa eccezione dello stesso par. 7, TUE, la procedura di revisione semplificata non è però applicabile alle decisioni che hanno implicazioni militari o che rientrano nel settore della difesa. Va poi rilevato che l’art. 31, par. 3, TUE prevede già di per sé, con una norma che sembra avere carattere di specialità rispetto a quella qui esaminata, la possibilità del Consiglio europeo di deliberare, con una propria autonoma decisione, il passaggio alla maggioranza qualificata di alcune decisioni del Consiglio nel settore della PESC.
Rispetto alle procedure di revisione semplificata risulta evidentemente ancor più facile immaginare un controllo della Corte di giustizia circa il modo in cui si è proceduto a una modifica dei Trattati e rispetto allo stesso contenuto della modifica. Dato, infatti, che il ricorso a questo tipo di procedure è soggetto a precise condizioni dall’art. 48 TUE, la Corte deve poter esaminare la validità della decisione presa dal Consiglio europeo sulla base di tale articolo. La stessa Corte ha avuto modo di precisarlo con riferimento alla procedura di cui al par. 6, sottolineando che nel suo ambito essa è tenuta a «verificare, da un lato, che siano state seguite le regole procedurali previste [dal citato par. 6], e, dall’altro, che le modifiche decise riguardino solo la Parte Terza del [TFUE], il che comporta che esse non contengano alcuna modifica delle disposizioni di un’altra parte dei Trattati sui quali si fonda l’Unione, e che non estendano le competenze di quest’ultima» (così la Corte di giustizia nella sentenza 27 novembre 2012, C-370/12, Pringle, punto 36, con cui è stata chiamata a pronunciarsi sulla revisione in via semplificata dell’art. 136 TFUE, di cui a p. 697).
3. Segue: I Trattati e le altre norme di diritto primario Come si è accennato all’inizio, con il ricorso al termine «Trattati» si fa uso di un’espressione sintetica che serve a indicare in realtà un complesso di atti piuttosto vasto, e che richiede pertanto qualche chiarimento. Accanto ai due Trattati che oggi costituiscono l’asse portante dell’Unione europea scaturita dalla sua fusione con la Comunità europea, esiste, infatti, tutta una serie di altri atti a essi ricollegati, che, ve-
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nuti nel tempo a integrare o modificare le precedenti versioni dei Trattati istitutivi, continuano oggi a esplicare la loro efficacia pure in relazione ai Trattati attuali. Si pensi in primo luogo a tutti quegli atti internazionali già ricordati, scaturiti nel corso degli anni dal ricorso al procedimento di emendamento formale previsto inizialmente da ciascun Trattato istitutivo e oggi, per tutti, dall’art. 48 TUE: il Trattato di Bruxelles del 1965 sulla fusione degli esecutivi (Consiglio e Commissione), i due Trattati di Lussemburgo e Bruxelles del 1970 e del 1975 sull’accrescimento delle competenze finanziarie, sui poteri di bilancio del Parlamento europeo e sulla creazione della Corte dei conti, l’AUE del 1986, il Trattato di Maastricht del 1992 sull’Unione europea, il Trattato di Amsterdam del 1997, il Trattato di Nizza del 2001, il Trattato di Lisbona del 2007. Accanto a questi va naturalmente posto anche il Trattato che disciplina il funzionamento dell’Euratom, che, come ricordato a p. 31, è formalmente sopravvissuto, insieme alla Comunità da esso istituito, alla fusione dei Trattati operata dal Trattato di Lisbona, dal quale è stato però profondamente modificato, attraverso un Protocollo (n. 2) allegato allo stesso Trattato di Lisbona, che ha sostituito buona parte degli articoli in materia istituzionale e finanziaria con i corrispondenti articoli del TUE e del TFUE.
Ora come in passato, i Trattati istitutivi sono poi affiancati da una serie di Protocolli ad essi allegati, all’interno dei quali si ritrova la disciplina di taluni aspetti del funzionamento dell’Unione non regolati o contemplati per vie solo generali all’interno degli stessi Trattati. Si tratta, in molti casi, di discipline che hanno un rilievo tutt’altro che secondario, l’inserimento delle quali in un Protocollo annesso è chiaramente dovuto non a una loro minore importanza intrinseca, ma alla volontà di non appesantire ulteriormente il testo del Trattato e di facilitare nel contempo l’eventuale successiva integrazione della disciplina dettata dal Protocollo: si pensi ad esempio al Protocollo (n. 7) sui privilegi e sulle immunità dell’Unione europea (in precedenza delle Comunità europee) o ai Protocolli sugli Statuti di alcuni organi e istituzioni dell’Unione (Corte di giustizia dell’Unione europea, Banca europea per gli investimenti, Sistema europeo di banche centrali e Banca centrale europea), o ancora al più volte ricordato Protocollo (n. 2) sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. Altre volte, invece, il ricorso allo strumento del Protocollo appare motivato dal carattere transitorio della disciplina dettata, carattere che è talora solo apparente o parziale (come nel caso ieri del Protocollo sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione europea, divenuto oggi, con i necessari adattamenti, il Protocollo (n. 19) sull’acquis di Schengen integrato nell’ambito dell’Unione europea), e in altri casi effettivo, nel senso che il relativo Protocollo è destinato ad esaurire i suoi effetti in un periodo più o meno determinato (si pensi per tutti, ora, al più volte citato Protocollo (n. 36) sulle disposizioni transitorie). Sempre più spesso, infine, questo tipo di strumento è stato utilizzato per introdurre nel sistema discipline ad applicazione differenziata senza formalmente intaccare, però, la portata unitaria dei Trattati principali e del diritto dell’Unione: è il caso dei vari Protocolli adottati contestualmente al Trattato di Amsterdam e rinnovati oggi dal Trattato di Lisbona, volti a consentire a singoli Stati membri una posizione differenziata dagli altri rispetto a taluni settori di attività dell’Unione, e di cui si è già in precedenza parlato (Cap. I, par. 6).
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Quale ne sia la finalità, le norme di questi Protocolli hanno comunque, così come avviene per ogni accordo o trattato fra Stati in base al diritto internazionale, lo stesso valore giuridico delle norme dei Trattati ai quali si ricollegano. Lo ribadisce esplicitamente lo stesso TUE, che all’art. 51 li dichiara «parte integrante» del Trattato. E lo ha fin dall’inizio ricordato la Corte di giustizia, parlando di una loro «efficacia imperativa» uguale a quella degli stessi Trattati (23 aprile 1956, 7/54 e 9/54, Groupement des industries sidérurgiques luxembourgeoises c. Alta Autorità, 53). Alla nozione di Trattati, quali fonti di diritto primario, vanno poi ricondotti anche gli atti di adesione, attraverso i quali hanno acquistato lo status di membro i diversi Stati che, in momenti successivi, si sono venuti ad aggiungere ai sei originari. Come si è visto, infatti, la procedura di adesione regolata dall’art. 49 TUE sfocia in un accordo internazionale tra gli Stati già membri e lo Stato o gli Stati aderenti, destinato a fissare gli adattamenti istituzionali resi necessari dall’ingresso di uno o più nuovi Stati membri, nonché le condizioni per l’ammissione e le eventuali deroghe alle norme esistenti che permettano di tenere conto (per lo più con carattere transitorio) di problemi specifici dello Stato aderente. Le norme corrispondenti dell’atto di adesione vanno pertanto a integrare i Trattati istitutivi, dei quali condividono del resto l’originaria natura giuridica di accordi internazionali; così come «i protocolli e gli allegati di un atto d’adesione costituiscono disposizioni di diritto primario che, a meno che l’atto di adesione non disponga diversamente, possono essere sospese, modificate o abrogate soltanto mediante i procedimenti contemplati per la revisione dei Trattati originari» (Corte giust. 11 settembre 2003, C-445/00, Austria c. Consiglio, I-8549, punto 62). Peraltro, il fatto che tali norme siano direttamente riconducibili alla volontà degli Stati comporta che vada riconosciuta natura di diritto primario anche a quelle tra di esse che, nel quadro delle condizioni per l’ammissione del nuovo Stato membro, comportino eventualmente modifiche ad atti di diritto derivato. Benché, infatti, le disposizioni modificate siano contenute in atti di quest’ultima natura, quelle di modifica sono comunque parte dell’accordo di adesione, con la conseguenza che esse non possono essere considerate alla stregua di «un atto del Consiglio, ma disposizioni di diritto primario che […] possono essere sospese, modificate o abrogate soltanto mediante i procedimenti contemplati per la revisione dei Trattati originari» (Corte giust. 28 aprile 1988, 31/86 e 35/86, LAISA c. Consiglio, 2285, punto 12).
La diretta riconducibilità a una volontà formale espressa dagli Stati quali soggetti sovrani fa sì che vadano poi riportate alla nozione di Trattati (e quindi alla categoria del diritto primario) anche quelle modifiche o integrazioni degli stessi che sono avvenute (o possono avvenire) sulla base di procedure semplificate ulteriori rispetto a quelle che abbiamo visto essere disciplinate dall’art. 48 TUE, che, pur se incentrate su un atto di un’istituzione, sfociano comunque in una manifestazione di volontà degli Stati in quanto tali. Ci si riferisce, in particolare, a quelle ipotesi in cui i Trattati prevedono la possibilità di dare corpo a una previsione dei Trattati attraverso la definizione della relativa disciplina da parte del Consiglio per mezzo di una decisione, di cui viene poi raccomandata l’adozione da parte di tutti gli Stati membri secondo le rispettive procedure costituzionali. Circostanza questa che fa appunto sì che le norme che ne scaturiscono finiscono per trovare la propria fonte direttamente nella volontà dei parlamenti nazionali, più che nell’atto del Consiglio a partire dal quale tale volontà è stata espressa.
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In realtà, mentre in passato questa soluzione era decisamente più diffusa nei Trattati istitutivi, oggi essa appare sostanzialmente confinata a un solo caso, l’art. 42, par. 2, TUE, il quale in maniera del tutto esplicita dispone che, laddove il Consiglio europeo decida all’unanimità il passaggio a una difesa comune europea, esso raccomanderà «agli Stati membri di adottare una decisione in tal senso conformemente alle rispettive norme costituzionali». Dopo Lisbona, infatti, anche gli articoli dei precedenti Trattati che prevedevano un’identica procedura per l’integrazione delle proprie disposizioni risultano basati su un’impostazione significativamente diversa, che valorizza piuttosto il profilo istituzionale della stessa, nel senso che, pur rimanendo la necessità di un’espressione favorevole di volontà da parte dei parlamenti nazionali per l’effettiva entrata in vigore di quella determinata disciplina integrativa dei Trattati, l’atto finale della procedura si identifica formalmente, ora, con la decisione del Consiglio; circostanza che porta a inquadrare la stessa più come una misura di attuazione dei Trattati, che come un procedimento semplificato di integrazione o modifica del diritto primario (su queste disposizioni, comunemente denominate «clausole passerella», si veda anche più avanti, p. 165 s.). Ne è un esempio, l’art. 311 TFUE che ha sostituito l’art. 269 TCE, che fin dall’inizio contemplava una procedura del genere di quelle prima citate per l’istituzione del sistema delle risorse proprie comunitarie (supra, p. 124). Mentre allora il secondo disponeva che «[i]l Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, stabilisce le disposizioni relative [...] di cui raccomanda l’adozione da parte degli Stati membri, in conformità delle loro rispettive norme costituzionali», oggi il primo prevede che «il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale, all’unanimità e previa consultazione del Parlamento europeo, adotta una decisione che stabilisce le [medesime] disposizioni [...] Tale decisione entra in vigore solo previa approvazione degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali». Altri esempi sono poi quello, ugualmente già citato (p. 90), dell’introduzione dell’elezione a suffragio diretto del Parlamento europeo e della definizione della relativa legge elettorale europea, disciplinate in termini analoghi a quelli appena visti dal precedente art. 190, par. 4, TCE e dall’attuale 223, par. 1, TFUE; e quello, di cui si dirà invece più diffusamente in seguito (p. 410), degli art. 22 TCE e 25 TFUE, riguardanti la possibile integrazione dei diritti che compongono lo status di cittadino dell’Unione europea.
Va infine considerato, quando ci si riferisce ai Trattati, che tanto quelli istitutivi, quanto alcuni degli atti ad essi collegati, quali quelli di adesione di nuovi Stati membri, sono accompagnati da una serie anche piuttosto numerosa di dichiarazioni concernenti specifiche parti o norme degli stessi ovvero aspetti ad essi in qualche modo connessi, adottate in occasione delle conferenze intergovernative che hanno portato all’approvazione di quei Trattati o di quegli atti. Ovviamente tali dichiarazioni sono prive di valore normativo, ma, come ricorda l’art. 31, par. 2 b, della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969, esse fanno pur sempre parte del «contesto» del Trattato o dell’atto in occasione della cui adozione sono state formulate. Per cui, nei limiti in cui siano riferibili all’insieme degli Stati membri (e, come si è detto, non riguardino norme preesistenti), esse costituiscono certamente strumenti di interpretazione delle norme alle quali direttamente si riferiscono.
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La Corte di giustizia ha esplicitamente riconosciuto tale possibilità anche in riferimento a una dichiarazione unilaterale di uno Stato membro, nel caso in cui la stessa sia servita a chiarire da parte del suo autore una questione particolarmente importante per gli altri Stati membri ai fini del formarsi del loro consenso alla conclusione del Trattato cui la dichiarazione si accompagna. La Corte lo ha affermato per la dichiarazione con cui nel 1972, al momento della sua adesione alle Comunità europee, il Regno Unito ha specificato agli altri Stati membri quali fossero le categorie di cittadini che dovevano essere considerati suoi cittadini ai sensi del diritto comunitario (20 febbraio 2001, C-192/99, Kaur, I-1237, punto 23).
Discorso a parte va fatto per la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, proclamata congiuntamente da Parlamento, Consiglio e Commissione il 7 dicembre 2000 a margine del Consiglio europeo di Nizza, e sulla quale si ritornerà più avanti. Nata con un intento ricognitivo dei diritti fondamentali il cui rispetto era imposto all’Unione da una norma del TUE (l’art. 6), e quindi destinata a fungere, alla stregua di una Dichiarazione allegata ai Trattati, da mero strumento di ausilio in sede di interpretazione e di applicazione di quella disposizione, con il Trattato di Lisbona essa ha acquistato, alla stregua questa volta di un Protocollo, valore formale di diritto primario: il nuovo testo del par. 1 dell’art. 6 TUE dispone, infatti, che essa «ha lo stesso valore giuridico dei Trattati». Con la conseguenza che una sua eventuale futura modifica sarà subordinata all’espletamento delle procedure di revisione dei Trattati previste dall’art. 48 TUE.
4. Segue: Gli effetti delle norme di diritto primario sui soggetti dell’ordinamento La collocazione dei Trattati e delle altre norme di diritto primario al vertice dell’ordinamento dell’Unione comporta che essi abbiano come destinatari tutti i soggetti di questo. Primi fra questi sono naturalmente gli Stati membri, i quali sono innanzitutto obbligati, attraverso i giudici nazionali e i propri organi, a disapplicare qualsiasi disposizione nazionale contrastante con una norma dei Trattati che imponga loro un obbligo di risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione quanto all’applicazione della regola da essa enunciata, dato che, come ha osservato la Corte di giustizia, le disposizioni del Trattato direttamente applicabili, perché fonte immediata di obblighi per gli Stati che ne sono vincolati, devono esplicare la pienezza dei loro effetti in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità (8 settembre 2010, C-409/06, Winner Wetten, I-8015, punto 53 s., ribadendo la più volte cit. sentenza Simmenthal, del 9 marzo 1978, punto 14 ss.) Ma ciò spiega anche perché, facendo riferimento al TCE, la Corte abbia ugualmente affermato, fin dal 1963, che, in un «ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini», è del tutto concepibile che dal Trattato derivino diritti soggettivi per i singoli, e ciò «non soltanto nei casi in cui il Trattato espressamente li menziona, ma anche come contropartita di precisi obbli-
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ghi imposti dal Trattato ai singoli, agli Stati membri o alle istituzioni comunitarie» (5 febbraio 1963, 26/62, van Gend & Loos, 1 e 23). Ciò non significa che tutte le norme dei Trattati siano suscettibili di produrre effetti direttamente in capo a persone fisiche o giuridiche, dato che l’origine internazionalistica di tali norme implica che le stesse siano per lo più strutturate avendo a modello destinatari di natura statuale. La possibilità di ricavarne diritti direttamente in capo ai privati dipenderà quindi, nel loro caso, dalla rispondenza della norma considerata a determinate caratteristiche che ne evidenzino la capacità di esplicare in concreto quegli effetti, nel senso di creare per i singoli situazioni giuridiche soggettive che possano essere invocate davanti ad un giudice nazionale. Fin dalla sentenza appena citata la Corte di giustizia ha indicato anche in questo caso tali caratteristiche nella chiarezza, la precisione, la completezza e il carattere incondizionato della norma invocata. In quella occasione si trattava di una disposizione del Trattato, l’art. 12 dell’allora TCEE (ora art. 30 TFUE) concernente i dazi doganali e le tasse di effetto equivalente, che poneva «un divieto chiaro e incondizionato che si concreta in un obbligo [degli Stati membri] non già di fare, bensì di non fare», al quale non si ricollegava «alcuna facoltà degli Stati di subordinare l’efficacia all’emanazione di un provvedimento di diritto interno». In altri casi il carattere incondizionato di norme di quel Trattato – e quindi i loro effetti diretti – è stato riconosciuto dalla Corte in relazione all’avvenuta scadenza del periodo transitorio che quelle norme avevano concesso agli Stati membri per liberalizzare un certo settore, nel senso che solo a partire da quel momento i relativi divieti imposti agli Stati da tali norme sono divenuti invocabili dai singoli dinanzi ai giudici e agli organi nazionali (21 giugno 1974, 2/74, Reyners, 631, punti 24-27). Naturalmente, così come possono attribuire loro diritti, le norme dei Trattati possono essere per i privati anche fonte diretta di obblighi nei confronti di altri privati. Ciò è stato ad esempio affermato rispetto all’art. 141 TCE (ex art. 119 TCEE, ora art. 157 TFUE), che sancisce il principio della parità di retribuzione fra uomo e donna per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore: tale principio è da ritenere, infatti, applicabile non solo alle «pubbliche autorità, ma vale del pari per tutte le convenzioni che disciplinano in modo collettivo il lavoro subordinato, come pure per i contratti fra singoli» (Corte giust. 8 aprile 1976, 43/75, Defrenne, cit., punti 3839). Analogo effetto diretto orizzontale è stato riconosciuto al divieto di discriminazione per motivi di nazionalità in materia di lavoro subordinato e di prestazione di servizi, che discende dagli artt. 12 (ex art. 6 TCEE, ora art. 18 TFUE), 39 (ex art. 48 TCEE, ora art. 45 TFUE) e 43 (ex art. 52 TCEE, ora art. 49 TFUE) del TCE e che la Corte di giustizia ha ritenuto operare anche nei confronti di «associazioni od organismi non di diritto pubblico» (12 dicembre 1974, 36/74, Walrave, 1405, punti 16-19).
5. I principi generali di diritto. In particolare il principio del rispetto dei diritti fondamentali Una considerazione particolare meritano, nell’esame delle fonti del diritto dell’Unione, i principi generali di diritto. Della loro esistenza è fatta esplicita menzione
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nel TUE, là dove esso afferma che «[i] diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» (art. 6, par. 3). A sua volta nel TFUE si trova un riferimento ai «principi generali comuni ai diritti degli Stati membri» nel quadro della responsabilità extracontrattuale dell’Unione, la quale può essere fatta valere conformemente, appunto, a detti principi (art. 340, comma 2). Tuttavia, la categoria è prima di tutto frutto dell’elaborazione della Corte di giustizia, la quale ha consolidato nel tempo l’esistenza di una serie di principi propri dell’ordinamento creato dai Trattati, in taluni casi mutuandoli da altri sistemi giuridici, in altri ricavandoli da norme degli stessi Trattati considerate quali espressioni di un principio generale valevole anche al di fuori del loro specifico campo di applicazione, in altri ancora ricostruendoli come principi di per sé inerenti al sistema giuridico dell’Unione intesa come una comunità di diritto. Il ricorso a principi generali, quali quelli di leale collaborazione tra le istituzioni e con gli Stati membri (3 luglio 1986, 34/86, Consiglio c. Parlamento, 2155), di rispetto dell’equilibrio istituzionale (22 maggio 1990, C-70/88, Parlamento c. Consiglio, cit.), di certezza del diritto (21 settembre 1983, da 205/82 a 215/82, Deutsche Milchkontor e a, 2633), del legittimo affidamento (3 maggio 1978, 112/77, Töpfer, 1019) o di rispetto dei diritti quesiti (27 settembre 1979, 230/78, Eridania, 2479), si è d’altra parte rivelato necessario di fronte al carattere inevitabilmente generale o parziale di molte parti e regole di funzionamento del sistema giuridico dell’Unione. Tali principi sono perciò serviti, di volta in volta o congiuntamente, a consentire una più compiuta ricostruzione di un dettato normativo altrimenti generico o incompleto; a rafforzare una certa interpretazione di disposizioni del diritto dell’Unione che si prestavano a più di un significato; a costruire ulteriori parametri di legittimità del comportamento delle istituzioni o degli Stati membri. Quest’ultima funzione si è espressa soprattutto con riferimento al principio di tutela dei diritti fondamentali della persona umana, rispetto al quale i Trattati nulla dicevano fino alla introduzione nel TUE, attraverso il Trattato di Maastricht, del citato art. 6. È stata però la Corte di giustizia che si è autonomamente incaricata, prima di allora, di affermare l’esistenza nel sistema giuridico dell’Unione di un obbligo di rispetto dei diritti fondamentali da parte delle istituzioni, provvedendo essa stessa a ricostruirne concretamente il contenuto. Per la verità, la Corte aveva inizialmente escluso la sua stessa possibilità di censurare l’eventuale violazione di diritti fondamentali da parte di una delle istituzioni (4 febbraio 1959, 1/58, Stork, 43, punto 4), legittimando così le valutazioni critiche di alcune corti costituzionali, quale quella italiana (27 dicembre 1965, n. 98, Acciaierie San Michele) e tedesca (29 maggio 1974, Solange I), e la loro conseguente rivendicazione della competenza a esercitare esse stesse un controllo al riguardo sugli atti comunitari. Ma anche in ragione di ciò la Corte ha poi rivisto la propria posizione, dando il via a una sua importante giurisprudenza in materia.
L’idea centrale di questa giurisprudenza, sviluppatasi originariamente con riferimento al diritto della Comunità europea, è stata appunto che «i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto, di cui [la Corte] ga-
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rantisce l’osservanza; nel garantire la tutela di tali diritti essa è tenuta a ispirarsi alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e non potrebbe, quindi, ammettere provvedimenti incompatibili con i diritti fondamentali riconosciuti e garantiti dalle Costituzioni di tali Stati; i Trattati internazionali in materia di tutela dei diritti dell’uomo, cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito, possono del pari fornire elementi di cui occorre tenere conto nell’ambito del diritto comunitario» (13 dicembre 1979, 44/79, Hauer, 3727, punto 15). L’esplicito richiamo ai diritti fondamentali quali garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni, sopravvenuto nell’allora art. F (poi 6) TUE grazie al Trattato di Maastricht, ha confermato la natura formale di parametro di legittimità di tali diritti nel sistema dell’Unione. La medesima disposizione provvedeva del resto anche a specificare in maniera esplicita, in quella sua prima versione, l’impegno dell’Unione a rispettare i diritti fondamentali («L’Unione rispetta i diritti fondamentali […]»). Per certi versi, questo rispetto si impone non solo da parte degli atti di diritto derivato. Esso rappresenta anche un criterio ermeneutico al quale conformare l’interpretazione delle norme degli stessi Trattati. La tutela dei diritti fondamentali rappresenta, infatti, secondo la giurisprudenza della Corte, un legittimo interesse che può giustificare, in linea di principio, una limitazione degli obblighi imposti dal diritto dell’Unione, anche quando derivanti da una libertà fondamentale garantita dai Trattati, come la libera circolazione delle merci o la libera prestazione dei servizi (rispettivamente, 12 giugno 2003, C-112/00, Schimdberger, I-5659, punto 74, e 14 ottobre 2004, C-36/02, Omega, I-9609, punto 35). Salvo che nel caso di quei diritti fondamentali che per la loro assolutezza non tollerano restrizioni (il diritto alla vita, il divieto della tortura, ecc.), ha osservato ancora la Corte, questa limitazione di principio va ovviamente conciliata con le esigenze relative ai diritti tutelati dai Trattati, rispetto ai quali, quindi, l’esercizio dei diritti fondamentali (e il suo rispetto da parte dell’autorità pubblica) deve essere conforme al principio di proporzionalità (11 dicembre 2007, C-438/05, International Transport Workers’ Federation e Finnish Seamen’s Union (c.d. sentenza Viking), I-10779, punto 46, e 18 dicembre 2007, C341/05, Laval un Partneri, I-11767, punto 94). Quanto invece al rispetto dei diritti fondamentali nell’applicazione dei Trattati, la Corte non si è limitata ad affermare l’obbligo di tale rispetto da parte degli atti delle istituzioni e a valutare conseguentemente la compatibilità di tali atti con i diritti fondamentali (12 novembre 1969, 29/69, Stauder, 419). Essa ha anche precisato, con affermazione che, pur se originariamente fatta rispetto al TCE, aveva portata generale, che il limite che deriva da quell’obbligo si pone anche nei confronti dei comportamenti delle autorità nazionali quando queste agiscono in attuazione del diritto posto in essere dai Trattati: poiché le «esigenze inerenti alla tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento giuridico comunitario […] vincolano parimenti gli Stati membri quando essi danno esecuzione alle discipline comunitarie di cui trattasi, questi sono comunque tenuti, per quanto possibile, ad applicare tali discipline nel rispetto delle esigenze ricordate» (13 luglio 1989, 5/88, Wachauf, 2609, punto 19); e allo stesso modo, ha osservato sempre la Corte, gli atti adottati nel quadro del TUE (quello pre-
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Lisbona) devono essere interpretati dal giudice nazionale in maniera tale che siano rispettati i diritti fondamentali e che sia accertato che l’applicazione delle misure prese sul piano nazionale nell’attuazione di tali atti non sia tale da determinare una violazione dei diritti fondamentali contemplati dall’art. 6 TUE (16 giugno 2005, C105/03, Pupino, I-5285, punto 59). Per quanto concerne l’individuazione concreta dei diritti fondamentali oggetto del citato obbligo di rispetto, la Corte ha, già prima che lo facesse l’art. 6 TUE, individuato la fonte cui ispirarsi, da un lato, nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, dall’altro, e soprattutto, nella CEDU e negli altri strumenti internazionali di cui siano parti tutti gli Stati membri (21 settembre 1989, 46/87 e 227/88, Hoechst c. Commissione, 2859, punto 13). Essa ha così avuto modo di pronunciarsi sul rispetto nell’ambito dei Trattati, tra gli altri, del divieto della tortura o di trattamenti inumani o degradanti (17 febbraio 2009, C-465/07, Elgafaji, 921), del diritto alla libertà di associazione sindacale (28 ottobre 1975, 36/75, Rutili, 1219), del diritto alla proprietà privata (13 dicembre 1979, 44/79, Hauer, cit.) e al libero esercizio di un’attività economica o professionale (13 novembre 1990, C-370/88, Marshall, I-4071), del diritto alla libertà religiosa (27 ottobre 1976, 130/75, Prais c. Consiglio, 1589), del diritto alla libertà di espressione e di informazione (18 giugno 1991, C-260/89, ERT, 295), della tutela della vita privata e familiare (7 novembre 1985, 145/83, Adams c. Commissione, 3539), del diritto all’inviolabilità del domicilio (17 ottobre 1989, 85/87, Dow Benelux c. Commissione, 3137), del diritto alla riservatezza (18 maggio 1982, 155/79, AM&S Europe c. Commissione, 1575), del diritto ad un processo equo (1° luglio 2008, C-341/06 P e C-342/06 P, Chronopost e La Poste c. UFEX e a, I-4777), del diritto di difesa e ad una tutela giurisdizionale piena ed effettiva (15 maggio 1986, 222/84, Johnston, 3651), della irretroattività delle norme penali (10 luglio 1984, 63/83, Kirk, 2869), e del diritto all’uguaglianza (15 giugno 1978, 149/77, Defrenne, cit.). Tutti diritti che operano nel sistema giuridico dell’Unione con limitazioni analoghe a quelle che di solito li caratterizzano negli ordinamenti interni, limitazioni da applicare però in funzione dei valori dell’ordinamento creato dai Trattati.
La Corte ha infine precisato che i diritti fondamentali non vanno intesi come «prerogative assolute e devono essere considerati in relazione alla funzione da essi svolta nella società. È pertanto possibile operare restrizioni all’esercizio di detti diritti, in particolare nell’ambito di un’organizzazione comune di mercato, purché dette restrizioni rispondano effettivamente a finalità di interesse generale perseguite [dall’Unione] e non si risolvano, considerato lo scopo perseguito, in un intervento sproporzionato ed inammissibile che pregiudicherebbe la stessa sostanza di tali diritti» (13 luglio 1989, 5/88, Wachauf, cit., punto 15).
6. Segue: La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’adesione alla Convezione europea dei diritti dell’uomo Dopo aver sviluppato il principio del rispetto dei diritti fondamentali attraverso la giurisprudenza della Corte e aver consacrato lo stesso nell’art. 6 TUE sostanziandolo con un riferimento esplicito a quelli garantiti dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali comuni, l’Unione si è dotata di uno strumento autonomo di rilevazione di quei diritti, adottando nel 2000 una Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Come si è già ricordato, la Carta fu, in effetti, proclamata congiuntamente da Parlamento, Consiglio e Commissione il 7 dicembre 2000 a margine del Consiglio euro-
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peo di Nizza. Essa si presentava allora come uno strumento formalmente privo di valore vincolante, che ritraeva però un indubbio valore interpretativo dal fatto di essere comunque ricognitivo di diritti in buona parte già altrove consacrati in forma giuridica. Al suo interno si ritrovano, infatti, tutti i diritti sanciti dalla CEDU, oltre che la sostanza dei diritti proclamati dalla Carta sociale europea del 1961 (e dalla Carta sociale europea riveduta del 1996) e tutti quei diritti intorno ai quali risulta costruito, nei Trattati, lo status di cittadino dell’Unione. Allo stesso tempo, però, molti di questi sono formulati in modo non pienamente coincidente con quello usato da tali fonti, e in più, accanto a essi, è fatta menzione di una serie di nuovi diritti, che si ricollegano ai primi all’interno di una strutturazione della Carta anch’essa sicuramente innovativa: essa è suddivisa in sei capitoli (più uno di disposizioni finali), rispettivamente dedicati ai temi della dignità, della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà, della cittadinanza e della giustizia, in cui si mescolano diritti individuali classici, diritti collettivi e principi. Data la forma assunta dalla sua proclamazione, la Carta esprimeva in modo solenne una lettura di questi diritti condivisa dalle tre istituzioni politiche dell’Unione. Non stupisce pertanto che negli anni successivi siano stati frequenti i cenni che la giurisprudenza ha dedicato alla Carta – benché priva di formale efficacia vincolante –, quale ulteriore testo di riferimento (accanto alla CEDU e alle tradizioni costituzionali comuni) per la ricostruzione dei diritti fondamentali operanti in quanto principi generali di diritto all’interno dell’ordinamento creato dai Trattati. Per la Corte si veda (oltre alle varie menzioni fatte dagli avvocati generali, tra i quali per primo l’AG Tizzano nelle sue conclusioni dell’8 febbraio 2001, nella causa C-173/99, BECTU, punti 27 e 28) l’ordinanza del Presidente del 18 ottobre 2002, C-232/02 P, Commissione c. Technische Glaswerke Ilmenau, I-8977 punto 115, e sentenza 27 giugno 2006, C-540/03, Parlamento c. Consiglio, I-5769, punto 38; nonché, in maniera particolarmente esplicita, le sentenze Viking e Laval, cit., rispettivamente punti 44 e 91. Quanto al Tribunale, cfr., tra le sentenze più recenti, 15 gennaio 2003, T-377/00, T-379/00, T-380/00, T-260/01 e T-272/01, Philip Morris International e a. c. Commissione, II-1, punto 122; 9 luglio 2003, T-224/00, Archer Daniels Midland e Archer Daniels Midland Ingredients c. Commissione, II-2597, punto 93; 5 agosto 2003, T-116/01 e T-118/01, P & O European Ferries (Vizcaya) e Diputación Foral de Vizcaya c. Commissione, II-2957, punto 209; 8 luglio 2004, T67/00, T-68/00, T-71/00 e T-78/00, JFE Engineering Corp. e a. c. Commissione, II-2501, punto 178.
a) Con il Trattato di Lisbona la Carta dei diritti fondamentali, in una versione leggermente modificata rispetto a quella del 2000, è venuta ora ad acquistare efficacia vincolante. Il nuovo testo riprende sostanzialmente quello che era stato integrato nel Trattato costituzionale del 2004 (supra, p. 23). Per questo motivo, essendo stata ora allegata ai Trattati nella sua veste originaria di Dichiarazione, seppur acquisendone il loro valore giuridico, essa ha dovuto essere riproclamata da PE, Consiglio e Commissione il 12 dicembre 2007 (GUUE C 303, 1).
Il nuovo testo dell’art. 6, par. 1, comma 1, TUE stabilisce, infatti, come si è visto nel precedente par. 3, che essa «ha lo stesso valore giuridico dei Trattati». Questo valore ne modifica evidentemente, agli occhi dei giudici del diritto dell’Unione, il rapporto con le fonti originarie di molti dei diritti in essa sanciti. Se prima, come si è
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appena detto, le sue norme fungevano da ausilio all’interpretazione della CEDU e degli altri strumenti di tutela di quei diritti, ora la Carta diventa il vero catalogo dei diritti fondamentali dell’Unione e quindi il primo documento di riferimento per l’individuazione del parametro su cui va commisurato l’effettivo rispetto di tali diritti da parte dei soggetti che ne sono vincolati. La giurisprudenza successiva al Trattato di Lisbona mostra in effetti come siano ormai le disposizioni della Carta ad essere in linea di principio invocate dai ricorrenti e utilizzate dai giudici, mentre le norme degli altri strumenti di tutela dei diritti fondamentali fungono ora loro da eventuale elemento ulteriore di conferma di quanto già si ricava dalla Carta. Se ne veda un es. per tutti in Corte giust. 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni, punto 50; e, più di recente, 5 aprile 2017, Orsi e Baldetti, C-217/15 e C-350/15, punti 24 e 25.
Come recita l’art. 51, par. 1, della stessa Carta, i soggetti che ne sono vincolati sono le «istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure [gli] Stati membri», seppur, questi ultimi, «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione». Pertanto i suddetti soggetti ne «rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite all’Unione nei Trattati». Le disposizioni citate non fanno che confermare, quindi, l’orientamento che abbiamo visto essere già emerso, prima dell’adozione della Carta, nella giurisprudenza della Corte di giustizia riguardante la portata del principio di rispetto dei fondamentali. La stessa Corte ha ribadito (sentenza 26 febbraio 2013, C-617/10, Åkerberg Fransson, punto 18), che in effetti «tale articolo della Carta conferma […] la giurisprudenza della Corte relativa alla misura in cui l’operato degli Stati membri deve conformarsi alle prescrizioni derivanti dai diritti fondamentali garantiti nell’ordinamento giuridico dell’Unione» (punto 20). Si vedano ugualmente, in precedenza, Corte giust., ordinanze 11 novembre 2010, C-20/10, Vino, I-148, punto 52 (pubblicazione sommaria), e 22 giugno 2011, C-161/11, Vino, I-91, punto 23 s. (pubblicazione sommaria). Anche le Spiegazioni all’art. 51 Carta dir. fond. (sulle quali si veda più avanti) ricordano che «per quanto riguarda gli Stati membri, la giurisprudenza della Corte sancisce senza ambiguità che l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali definiti nell’ambito dell’Unione vale per gli Stati membri soltanto quando agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione».
Non deve perciò meravigliare che, nell’interpretare l’art. 51 della Carta, la Corte abbia sostanzialmente ribadito concetti già espressi, confermandoli peraltro anche nelle sentenze successive all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Secondo una sua recente sentenza, infatti, «i diritti fondamentali garantiti nell’ordinamento giuridico dell’Unione si applicano in tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, ma non al di fuori di esse. A tal proposito la Corte ha già ricordato che essa, per quanto riguarda la Carta, non può valutare una normativa nazionale che non si colloca nell’ambito del diritto dell’Unione. Per contro, una volta che una siffatta normativa rientra nell’ambito di applicazione di tale diritto, la Corte, adita in via pregiudiziale, deve fornire tutti gli elementi di interpretazione necessari per la valutazione, da parte del giudice nazionale, della conformità di tale normativa con i diritti fondamentali di cui essa garantisce il rispetto» (26 febbraio 2013, C-617/10, Åkerberg Fransson, punto 19).
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Dall’applicabilità della Carta dei diritti fondamentali alle normative di diritto interno che danno attuazione al diritto dell’Unione deriva la conseguenza che, nel caso di conflitto tra disposizioni di diritto interno e diritti garantiti dalla Carta, «il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto dell’Unione ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme». Così la sentenza Åkerberg Fransson, cit., la quale precisa anche che, alla stregua del principio che presidia in generale ai rapporti tra diritto dell’Unione e diritto interno garantendo il primato del primo sul secondo, il giudice deve farlo, «disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale» (punto 45).
Nel confermare l’inapplicabilità della Carta ai casi in cui la normativa nazionale non è rivolta a dare attuazione al diritto dell’Unione o rispetto a situazioni giuridiche puramente interne (Corte giust. 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB., I-8965, punto 51), la Corte ha però sottolineato come anche in questi casi non venga meno la tutela dei diritti fondamentali dedotti in giudizio, ma cambia eventualmente lo strumento su cui va parametrata quella tutela: ad esempio, dato che tutti gli Stati membri hanno aderito alla CEDU, i giudici nazionali saranno comunque tenuti, ha precisato la Corte, a verificare la compatibilità con essa delle legislazioni nazionali che non ricadono sotto la sfera d’efficacia della Carta (15 novembre 2011, C-256/11, Dereci, I-11315, punto 72). b) L’art. 6, par. 1, comma 3, TUE e l’art. 52, par. 7, della Carta prescrivono che, nell’interpretare e applicare le sue disposizioni, si debba tener conto delle Spiegazioni che fin dall’inizio accompagnano senza valore ufficiale il testo di questa. Queste richiamano, per ciascuno dei suoi articoli, i principali riferimenti interpretativi utilizzabili, seppur circoscrivendo in maniera talvolta restrittiva, attraverso essi, la portata di alcuni dei diritti enunciati nella Carta, e in particolare di quelli sociali. Le Spiegazioni sono state elaborate dal Presidium della Convenzione che ha portato nel 2000 all’elaborazione della Carta, senza essere però approvate dalla stessa Convenzione. Il loro testo fu peraltro ritoccato anch’esso in occasione della Conferenza intergovernativa del 2003/2004 che approvò il Trattato costituzionale.
Nel caso tuttavia dei diritti che trovano corrispondenza in diritti garantiti dalla CEDU o desunti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, si deve ritenere, per espressa previsione dell’art. 52, parr. 3 e 4, della Carta, che il loro significato e la loro portata siano uguali a quelli propri di quei diritti «corrispondenti» e che quindi in armonia con essi vadano definiti. Ciò non preclude tuttavia che, come esplicitamente previsto dallo stesso par. 3 dell’art. 52 della Carta, «il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa» (Corte giust. 21 dicembre 2016, C203/15 e C-698/15, Tele2 Sverige, punto 129). Per converso, l’art. 53 della Carta contiene una clausola di salvaguardia del più elevato standard di protezione eventualmente riconosciuto, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione o tutti gli Stati membri sono parti, e in particolare dalla CEDU e dalle costituzioni de-
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gli Stati membri. Rispetto al rapporto con le norme costituzionali degli Stati, la Corte ha però precisato che, quando un atto di diritto dell’Unione richieda misure nazionali di attuazione, la previsione dell’art. 53 della Carta consente sì alle autorità e ai giudici nazionali di applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali; tuttavia tale applicazione non deve compromettere il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione, in particolare per quel che riguarda l’uniformità dello standard di tutela dei diritti fondamentali definito dall’atto dell’Unione di cui si tratta (Corte giust. 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni, punto 60 ss.). Limitazioni ai diritti e alle libertà riconosciuti dalla Carta sono possibili, ai sensi del suo art. 52, par. 1, purché le stesse siano «previste dalla legge» e non pregiudichino il contenuto essenziale di quei diritti e di quelle libertà. Esse, inoltre, devono rispondere a effettive finalità di interesse generale perseguite dall’Unione o ad una reale esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui; e non devono risolversi, considerato lo scopo perseguito, in un intervento sproporzionato e inammissibile che pregiudicherebbe la stessa sostanza di tali diritti (Corte giust. 17 ottobre 2013, C291/12, Schwarz, punto 34 ss.). La possibilità di ingerenze o restrizioni ai diritti fondamentali è dunque condizionata al rispetto tanto del principio di legalità nella scelta della base legale, che del principio di proporzionalità nell’esercizio da parte del legislatore della sua discrezionalità politica quanto al bilanciamento dei diritti e delle libertà cui conformare la norma di legge. Sebbene l’art. 52, par. 1, della Carta, sia formulato in termini generali e appaia pertanto destinato a trovare applicazione rispetto a tutti i diritti sanciti nella stessa Carta, la Corte, richiamando la CEDU, ha evidenziato l’esistenza tra quei diritti di alcuni, come il diritto alla vita, il divieto di tortura o di trattamenti inumani e degradanti, che non tollerano alcuna restrizione (12 giugno 2003, C-112/00, Schmidberger, I-5659, punto 80). Come principio di carattere generale, infine, l’art. 6, par. 1, comma 2, TUE, avverte che le disposizioni della Carta «non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione» definite nei Trattati istitutivi. Da questo punto di vista, i diritti riconosciuti nella Carta che corrispondono a diritti previsti nei Trattati devono essere esercitati alle condizioni e nei limiti da questi stabiliti (art. 52, par. 2, Carta). c) Sulla base di un compromesso raggiunto nel corso del faticoso cammino che ha portato al Trattato di Lisbona, un Protocollo (n. 30) allegato ai Trattati limita apparentemente l’applicabilità della Carta a Regno Unito e Polonia. Esso stabilisce, in sostanza, che tanto la Corte di giustizia quanto i giudici di questi due paesi non possono giudicare della conformità di norme o pratiche degli stessi alle disposizioni della Carta, e che tra tali disposizioni quelle relative ai diritti sociali, contenute nel Titolo IV della Carta, non creano «diritti azionabili dinanzi a un organo giurisdizionale applicabili alla Polonia o al Regno Unito, salvo nella misura in cui la Polonia o il Regno Unito abbiano previsto tali diritti nel rispettivo diritto interno». Un ulteriore Protocollo, il cui iter di approvazione non è stato ancora perfezionato, è stato poi richiesto dalla Repubblica ceca per vedersi applicare a sua volta il citato Protocollo (n. 30). Se ne veda il testo in allegato alle Conclusioni del Consiglio europeo del 29-30 ottobre 2009. Su di esso
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si veda anche, da ultimo (22 maggio 2013) il parere espresso dal PE nel quadro della procedura prevista dall’art. 48, par. 3, TUE per la modifica in via ordinaria dei Trattati. Anche questa «esenzione» della Repubblica ceca era frutto di un compromesso raggiunto durante l’iter di approvazione del Trattato di Lisbona per sbloccare la ratifica di questo Stato. In proposito si veda anche la Dichiarazione n. 53 della Repubblica ceca sulla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, allegata ai Trattati.
La portata effettivamente derogatoria del Protocollo (n. 30) è stata però smentita dalla Corte di giustizia, la quale ha rilevato come il suo stesso preambolo riconosca che l’art. 6 TUE dispone che la Carta deve essere applicata e interpretata dagli organi giurisdizionali della Polonia e del Regno Unito rigorosamente in conformità con le spiegazioni allegate alla stessa Carta; e quindi, conclude la Corte, se ne deve ritenere che «il Protocollo (n. 30) non rimette in questione l’applicabilità della Carta al Regno Unito o alla Polonia»: tanto è vero che l’art. 1, n. 1, del Protocollo si limita a esplicitare il contenuto dell’art. 51 della Carta, relativo all’ambito di applicazione di quest’ultima, e «non ha per oggetto di esonerare la Repubblica di Polonia e il Regno Unito dall’obbligo di rispettare le disposizioni della Carta, né di impedire ad un giudice di uno di questi Stati membri di vigilare sull’osservanza di tali disposizioni» (21 dicembre 2011, C-411/10 e C-493/10, NS, I-13905, punti 119-120). d) Oltre a riconoscere alla Carta dei diritti fondamentali lo stesso valore giuridico dei Trattati, l’art. 6 TUE, par. 2, quale modificato a Lisbona, ha previsto anche l’adesione dell’Unione europea alla CEDU, colmando così, con l’attribuzione della competenza a farlo, una lacuna nei Trattati che aveva impedito finora tale adesione, benché da tempo auspicata a livello politico e istituzionale. In effetti, già nel 1996 era stato tentato un passo del genere, pur in mancanza di un’apposita base giuridica nei Trattati, e fu negoziato con il Consiglio d’Europa un progetto di accordo di adesione alla CEDU dell’allora Comunità europea. Chiamata però a dare il suo parere consultivo sulla compatibilità di tale progetto con il TCE, la Corte di giustizia concluse nel senso che in quel momento la Comunità non aveva competenza per concluderlo, perché, da un lato, nessuna disposizione del TCE attribuiva alle istituzioni comunitarie, in termini generali, il potere di dettare norme in materia di diritti dell’uomo o di concludere convenzioni internazionali in tale settore, e, dall’altro lato, non sarebbe stato possibile ricorrere alla c.d. clausola di flessibilità di cui all’allora art. 235 TCE (attuale art. 352 TFUE): l’inserzione della Comunità in un sistema istituzionale internazionale distinto, così come l’integrazione dell’insieme delle disposizioni della Convenzione europea nell’ordinamento comunitario, hanno infatti delle implicazioni di portata «costituzionale» – ha sottolineato la Corte – che sarebbero andate oltre quanto consentito dalla clausola di flessibilità, potendo essere perciò realizzate solo attraverso una modifica formale del Trattato (parere del 28 marzo 1996, 2/94, sulla Adesione della Comunità alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, I-1759, punti 27 e 34 s.).
Un passo del genere è particolarmente significativo non ai fini di una maggiore vincolatività delle norme della CEDU per l’Unione, visto che le istituzioni vi risultano comunque già obbligate attraverso la Carta, ma per il fatto che l’adesione comporta la sottoposizione dell’Unione al sistema di controllo previsto dalla CEDU. In altri termini, con l’adesione la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (la Corte EDU) potrebbe essere chiamata, sulla base di ricorsi individuali o di altre parti
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contraenti della CEDU, a pronunciarsi sul rispetto da parte dell’Unione delle norme della CEDU, rafforzando per questa via, nell’intenzione dei redattori del Trattato di Lisbona, il controllo già esercitato dalla Corte di giustizia e, quindi, il livello di protezione dei diritti dell’uomo nell’Unione. Sebbene la CEDU già preveda (art. 59, par. 2) la possibilità dell’Unione europea di aderirvi, questo passo richiede evidentemente la conclusione di un apposito accordo dell’Unione con le parti già contraenti (tra cui, si ricorda, vi sono tutti gli Stati membri dell’Unione), che nel disporre l’adesione apporti alla stessa CEDU le modifiche necessarie a consentire la partecipazione ad essa di una parte che ha natura profondamente diversa da quella, statale, delle altre parti contraenti, sulla quale il sistema della CEDU è stato costruito. Dal lato dell’Unione, poi, l’accordo, per la cui conclusione l’art. 218 TFUE prevede regole di procedura specifiche (infra, p. 838), è chiamato in particolare a garantire, come richiesto da un Protocollo (n. 8) allegato ai Trattati e da una Dichiarazione (n. 2) della Conferenza di Lisbona, che siano preservate le caratteristiche specifiche dell’ordinamento giuridico dell’Unione e che l’adesione non incida né sulle competenze dell’Unione, né sulle attribuzioni delle sue istituzioni. A questo fine, il Protocollo indica infatti, tra l’altro, la necessità che nell’accordo di adesione siano definiti i meccanismi necessari a individuare il corretto destinatario, tra l’Unione e gli Stati membri, di un ricorso alla Corte EDU, visto che questa potrà essere chiamata a pronunciarsi sulla conformità di norme dell’Unione alla CEDU sia quando la asserita violazione derivi direttamente da un atto dell’Unione, sia quando essa derivi invece da un atto di uno Stato membro posto in essere in attuazione di quelle norme. La preoccupazione è evidentemente quella di evitare che, in ragione del margine di discrezionalità che il diritto dell’Unione può lasciare agli Stati, la decisione su chi sia responsabile tra questi e l’Unione sia lasciata interamente alla Corte EDU, perché ciò equivarrebbe a darle il potere di giudicare del riparto di competenze tra di loro, in contrasto con il monopolio dato al riguardo alla Corte di giustizia dai Trattati. La fondatezza di questa e altre preoccupazioni ha trovato conferma nel parere negativo formulato dalla Corte di giustizia (parere 2/13, cit.) quanto alla compatibilità del progetto di accordo di adesione nel frattempo negoziato dalla Commissione e sul quale quest’ultima aveva appunto chiesto un parere consultivo alla Corte ai sensi dell’art. 218, par. 11, TFUE. In effetti, come richiesto dall’art. 6, par. 2, TFUE, il negoziato tra la Commissione e il Comitato direttivo per i diritti umani (CDDH) del Consiglio d’Europa è partito poco dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e ha portato nel 2013 a un progetto complessivo di accordo di adesione. Vi si prevede, tra l’altro, la responsabilità dell’Unione unicamente per propri atti, mentre gli atti degli Stati membri, anche se posti in essere in esecuzione del diritto dell’Unione, sono «attribuiti» agli stessi Stati, ferma restando però la possibilità che l’Unione risponda di eventuali violazioni della CEDU in solido con loro; e a questo proposito si crea un complesso meccanismo di litisconsorzio (co-respondent mechanism), in virtù del quale si ha la chiamata in giudizio dell’Unione nei ricorsi contro uno o più Stati membri e di questi ultimi nei ricorsi diretti contro l’Unione (ma in questo caso limitatamente a quelli che riguardino la compatibilità con la CEDU di norme dell’Unione di diritto primario), con la possibilità che la parte così chiamata in causa sia dichiara-
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ta, in caso di accertamento della violazione, corresponsabile in solido per tale violazione. È inoltre stabilito, al fine di salvaguardare il ruolo della Corte di giustizia quale interprete ultimo del diritto dell’Unione, che qualora questa non abbia ancora avuto modo di esprimersi sulla compatibilità con la CEDU di una norma dell’Unione sottoposta al giudizio della Corte EDU, il procedimento dinanzi a quest’ultima viene sospeso per dare modo alla Corte di giustizia di pronunciarsi sul punto. Quanto infine alla partecipazione agli organi della CEDU (Corte EDU e Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa), è previsto che l’Unione possa designare un suo giudice alla prima e partecipare, seppur parzialmente, alle riunioni del secondo.
Secondo la Corte di giustizia, infatti, tale progetto non riesce, nella sua forma attuale, a garantire la salvaguardia delle caratteristiche specifiche e dell’autonomia del diritto dell’Unione, ivi compresa la Carta dei diritti fondamentali che di tale diritto è, come si è detto, parte integrante. Ciò, tra l’altro, non solo perché esso (e alcuni dei meccanismi dallo stesso previsti) non permetterebbe di evitare che l’interpretazione di norme di quel diritto e della stessa Carta possano essere messe in discussione da un organo esterno all’Unione quale la Corte EDU, ma anche perché, trattando l’Unione e i suoi Stati membri nei loro reciproci rapporti, quando disciplinati dal diritto dell’Unione, alla stregua di tutte le altre parti contraenti della CEDU, non escluderebbe la possibilità che talune controversie tra di essi possano essere portate dinanzi alla Corte EDU in violazione dell’art. 344 TFUE, articolo che, come si è a suo tempo visto, obbliga gli Stati membri a non sottoporre le controversie relative all’interpretazione e applicazione dei Trattati a giudici diversi da quelli dell’Unione. Infine, l’accordo in questione finirebbe per affidare in via esclusiva alla Corte EDU il controllo sul rispetto dei diritti fondamentali da parte degli atti in materia PESC, che sono invece sottratti, come noto, alla competenza della Corte di giustizia.
7. Il diritto internazionale. In particolare gli accordi internazionali dell’Unione In linea con l’affermazione enunciata in uno dei primi articoli del TUE, secondo la quale l’Unione «contribuisce … alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite» (art. 3, par. 5, TUE), un’ulteriore fonte di norme per l’ordinamento dell’Unione va indicata nel diritto internazionale, e in particolare negli accordi internazionali che, come si vedrà, possono essere conclusi dall’Unione con Stati terzi o organizzazioni internazionali sulla base delle procedure stabilite dall’art. 218 TFUE (infra, p. 834 ss.), nonché nelle decisioni che possono essere adottate dagli organi paritetici eventualmente operanti in seno a tali accordi. La Corte di giustizia ha avuto, infatti, occasione di affermare in via generale che «le norme del diritto consuetudinario internazionale […] vincolano le istituzioni […] e fanno parte dell’ordinamento giuridico» dell’Unione (16 giugno 1998, C162/96, Racke, 69, punto 46), condizionando l’interpretazione di atti delle istituzioni anche in senso eventualmente limitativo. Di conseguenza, «non può negarsi a un amministrato […] la facoltà di mettere in discussione la validità di un regolamento», invocando, «al fine di contestarne la validità, gli obblighi derivanti dalle norme del diritto consuetudinario internazionale» (ivi, punto 51).
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Oltre la sentenza appena cit., si veda anche, per la considerazione di carattere più generale sulla vincolatività per l’Unione delle regole del diritto internazionale consuetudinario che ne emerge, Corte giust. 25 febbraio 2010, C-386/08, Brita, I-1289, punto 41: «le regole contenute nella Convenzione di Vienna si applicano ad un accordo concluso tra uno Stato ed un’organizzazione internazionale, quale l’accordo di associazione CE-Israele, nella misura in cui tali regole costituiscono espressione del diritto internazionale generale di natura consuetudinaria. L’accordo di associazione CE-Israele dev’essere conseguentemente interpretato alla luce di tali regole». Analogamente, nella sentenza 19 luglio 2012, C-154/11, Mahamandia, punto 54 ss., la Corte si è trovata ad utilizzare le norme internazionali in materia di immunità dalla giurisdizione di Stati nell’interpretare il reg. (CE) n. 44/2001 del Consiglio, concernente la competenza giudiziaria, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GUCE L 12, 1). Un ricorso al diritto internazionale generale limitativo del diritto dell’Unione e nella specie di un suo principio fondamentale, è stato poi fatto dalla Corte di giustizia nella sentenza 16 ottobre 2012, C-364/10, Ungheria c. Slovacchia, là dove essa ha ritenuto che, poiché «lo status di capo di Stato presenta [...] una specificità, derivante dal fatto di essere regolato dal diritto internazionale, […] idonea a distinguere la persona che gode di tale status da tutti gli altri cittadini dell’Unione, […] all’ingresso di detta persona nel territorio di un altro Stato membro non si applicano le stesse condizioni che sono applicabili agli altri cittadini. Ne consegue che la circostanza che un cittadino dell’Unione ricopra la funzione di capo di Stato è idonea a giustificare una limitazione, fondata sul diritto internazionale, all’esercizio del diritto di circolazione che l’art. 21 TFUE gli conferisce» (punti 49-51). Con riferimento, poi, alla questione del Sahara occidentale, la Corte ha richiamato di recente il principio consuetudinario di autodeterminazione dei popoli in relazione ad un accordo tra l’Unione europea e il Marocco (accordo del 13 dicembre 2010, relativo a misure di liberalizzazione in materia di agricoltura e di pesca, GUUE L 241/2012, 4), affermando che «detto principio fa parte delle norme di diritto internazionale applicabili nelle relazioni tra l’Unione e il Regno del Marocco» (Corte giust. 21 dicembre 2016, C-104/16 P, Consiglio c. Front Polisario, in particolare punto 89).
Con riguardo specifico agli accordi internazionali, la Corte ha poi precisato che dal momento in cui entrano in vigore sul piano internazionale gli accordi conclusi con paesi terzi (o organizzazioni internazionali) diventano «parte integrante dell’ordinamento» (30 aprile 1974, 181/73, Haegeman, 449, punti 3-5). Si tratta, infatti, di una conseguenza automatica di quell’entrata in vigore, e non di un effetto dell’atto con cui il Consiglio decide la stipulazione di un accordo. Secondo l’art. 216, par. 2, TFUE, infatti, un accordo vincola «le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri», operando quindi nell’ordinamento dell’Unione per il solo fatto di essere stato concluso «alle condizioni indicate» nei Trattati. Pronunciandosi infine in relazione agli accordi conclusi sulla base dell’allora TCE, la Corte ha sottolineato come ciò valga anche per le decisioni adottate da organi operanti nel quadro di un accordo, nel senso che esse esplicano effetti nell’ordinamento dell’Unione dalla data della loro approvazione da parte dell’organo paritetico, senza che a questo scopo vi sia bisogno dell’emanazione di alcun atto da parte delle istituzioni europee. Infatti, «dato il loro collegamento diretto con l’accordo di cui costituiscono l’attuazione, gli atti provenienti dagli organi istituiti con un accordo internazionale del genere e incaricati della sua attuazione fanno parte dell’ordinamento giuridico comunitario» (21 gennaio 1993, C-188/91, Deutsche Shell, I-363, punto 17). A questo fine, le decisioni adottate da organi creati da un accordo con uno o più Stati terzi e sulla base di tale accordo sono di regola oggetto di pubblicazione nella GUUE, sulla base dell’art. 17, par. 5, del regolamento interno del Consiglio, secondo cui «qualora un accordo concluso tra
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l’Unione e uno o più Stati o organizzazioni internazionali istituisca un organo competente a prendere decisioni, il Consiglio decide, al momento della conclusione dell’accordo, se si debbono pubblicare nella Gazzetta ufficiale le decisioni che saranno prese da tale organo».
Il fatto che l’efficacia nell’ordinamento dell’Unione europea dell’accordo internazionale non dipenda da un atto delle istituzioni non esclude che l’atto con cui il Consiglio decide la conclusione dell’accordo possa contenere norme di attuazione specifica di singole disposizioni convenzionali; così come può talvolta avvenire che una decisione dell’organo di un accordo venga recepita in un atto delle istituzioni. In un caso come nell’altro, però, questa sarà la conseguenza del fatto che una certa disposizione convenzionale o una certa decisione non appare in grado di esplicare appieno la propria efficacia nell’ordinamento dell’Unione in mancanza di un’integrazione da parte di norme di questo. a) Dal fatto che un accordo con un paese terzo (o una decisione adottata nel suo quadro) diventi parte integrante dell’ordinamento dell’Unione, vincolando le istituzioni e gli Stati membri, non consegue necessariamente che le sue disposizioni possano essere invocate in giudizio da parte dei singoli; e tanto meno ciò dipende dalla natura dell’atto (regolamento o decisione) con cui l’Unione ha approvato la conclusione di quell’accordo (Corte giust. 20 maggio 2010, C-160/09, Ioannis Katsivardas – Nikolaos Tsitsikas, I-4591, punto 34). Questa possibilità è stata invece condizionata dalla Corte di giustizia – anche in questo caso pronunciandosi rispetto ad accordi dell’allora Comunità europea –, alla rispondenza della disposizione invocata agli stessi requisiti che giustificano l’esplicazione di effetti diretti di norme dei Trattati o, come vedremo, di direttive e decisioni: tale disposizione deve porre un obbligo chiaro e preciso, la cui esecuzione o i cui effetti non risultino subordinati all’adozione di alcun atto ulteriore (sentenza Demirel cit., punto 14). La Corte ha però aggiunto la necessità, nel caso di disposizioni di origine convenzionale, di «esaminare [le stesse] alla luce sia dell’oggetto e dello scopo, sia del contesto dell’Accordo» di cui fanno parte (26 ottobre 1982, 104/81, Kupferberg, punto 23). Affermazione analoghe sono state fatte dalla Corte anche in riferimento a disposizioni contenute in decisioni adottate da organi paritetici operanti nel quadro di accordi con Stati terzi: v. sentenza 20 settembre 1990, C-197/89, Sevince, 3461, punto 15, nonché 4 maggio 1999, C-262/96, Sürül, I-2685, punto 60; 8 maggio 2003, C-171/01, Wählergruppe Gemeinsam, I-4301, punto 55; e ordinanza 25 luglio 2008, C-152/08, Real Sociedad de Fùtbol e Kahveci, I-6291, punto 28. Va poi sottolineato che nel caso di un accordo misto, concluso cioè sia dall’Unione che dagli Stati membri (infra, p. 832 ss.), la giurisprudenza della Corte non esclude che, in relazione a norme dell’accordo rientranti nella competenza degli Stati membri, il diritto dei singoli di invocarle direttamente dinanzi al giudice interno possa essere riconosciuto dall’ordinamento nazionale. Al riguardo, fra le altre, Corte giust. 14 dicembre 2000, C-300/98 e C-392/98, Dior e a., I-11307, punto 48; e 11 settembre 2007, C-431/05, Merck Genéricos, I-7001, punto 34.
Quest’ultimo test potrebbe anche portare a negare alla radice la possibilità di riconoscere effetti diretti alle disposizioni di un accordo benché le stesse sembrino, per il loro tenore letterale, soddisfare i criteri dell’incondizionalità e precisione
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dell’obbligo posto. Così del resto è avvenuto nel caso dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT): la Corte di giustizia ha costantemente escluso che norme di questo potessero esplicare effetti diretti nell’ordinamento dell’Unione, sulla base della considerazione di ordine generale della «grande flessibilità delle [disposizioni del GATT], in specie di quelle relative alla possibilità di deroghe, ai provvedimenti ammessi in caso di difficoltà eccezionali ed alla composizione delle controversie fra i contraenti» (12 dicembre 1972, da 21/72 a 24/72, International Fruit Company e a., 1219, punto 21). La Corte ha ritenuto di confermare rispetto all’Accordo istitutivo dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), che dal 1994 ha sostituito il GATT, il giudizio a suo tempo espresso relativamente a quest’ultimo, e ha affermato che, «tenuto conto della loro natura e della loro economia, gli accordi OMC non figurano in linea di principio tra le normative alla luce delle quali la Corte controlla la legittimità degli atti delle istituzioni», a meno che attraverso l’atto contestato l’Unione non «abbia inteso dare esecuzione ad un obbligo particolare assunto nell’ambito dell’OMC», ovvero esso «rinvii espressamente a precise disposizioni degli accordi OMC» (23 novembre 1999, C-149/96, Portogallo c. Consiglio, I-8395, punto 49). Va detto che tale conclusione, già di per sé poco convincente in relazione all’Accordo generale, lo sembrerebbe ancor di meno rispetto all’Accordo istitutivo dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) che dal 1994 ha sostituito il GATT, vista la maggior «incisività» e puntualità che la struttura normativa del nuovo Accordo presenta in rapporto a quella del suo predecessore. Questa diversità tra i due accordi pare del resto indirettamente confermata dal fatto che il Consiglio abbia tenuto a specificare espressamente, in un considerando della decisione di conclusione dell’Accordo OMC, di ritenere che questo «non è di natura tale da essere invocato direttamente dinanzi alle autorità giudiziarie della Comunità e degli Stati membri» (così l’ultimo considerando della dec. 94/800/CE del Consiglio, del 22 dicembre 1994, relativa alla conclusione a nome della Comunità europea, per le materie di sua competenza, degli accordi dei negoziati multilaterali dell’Uruguay Round (1986-1994), GUCE L 336, 1). Un’affermazione del genere non sarebbe di per sé decisiva per escludere che la Corte possa arrivare a riconoscere effetti diretti a disposizioni di questo Accordo. È vero che secondo la Corte, «in conformità ai principi del diritto internazionale, le istituzioni [dell’Unione], che sono competenti a negoziare e concludere un accordo con un paese terzo, sono libere di convenire con questo degli effetti che le disposizioni dell’accordo devono produrre nell’ordinamento interno delle parti contraenti» (sentenza Kupferberg, cit., punto 17). Ma nel caso di specie l’affermazione dell’esclusione degli effetti diretti dell’Accordo OMC è frutto di una valutazione unilaterale dell’Unione; e, come la stessa Corte ha comunque precisato, «se tale questione non [è] stata disciplinata dall’accordo incombe ai giudici competenti, e in particolare alla Corte, nell’ambito della competenza attribuitale dal Trattato, risolverla al pari di qualunque altra questione d’interpretazione relativa all’applicazione dell’accordo» nell’Unione (ibidem; e, più di recente, 9 settembre 2008, C-120/06 P e C-121/06 P, FIAMM c. Consiglio e Commissione, I-6513, punto 108; nonché 13 gennaio 2015, C-404/12 P e C-405/12, Consiglio e Commissione c. Stichting Natuur en Milieu e Pesticide Action Network Europe, punto 45).
Analogo giudizio la Corte di giustizia ha poi successivamente formulato nei confronti della Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982 sul diritto del mare: secondo la Corte, infatti, tale Convenzione «non stabilisce norme destinate ad applicarsi direttamente ed immediatamente ai singoli né a conferire a questi ultimi diritti
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o libertà che possano essere invocati nei confronti degli Stati, indipendentemente dal comportamento dello Stato di bandiera della nave. [Per cui] ne risulta che la natura e la struttura della Convenzione di Montego Bay ostano a che la Corte possa valutare la validità di un atto comunitario alla luce di tale Convenzione» (3 giugno 2008, C308/06, Intertanko, I-4057, punti 64-65). La Convenzione di Montego Bay, entrata in vigore il 16 novembre 1994, è stata approvata a nome della Comunità europea con la dec. 98/392/CE del Consiglio, 23 marzo 1998 (GUCE L 179, 1). Recentemente la Corte è arrivata a simili conclusioni anche per quel che riguarda un accordo concluso nell’ambito dell’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (OMPI), il Trattato sulle interpretazioni ed esecuzioni e sui fonogrammi (concluso con dec. 2000/278/CE, del 16 marzo 2000, GUCE L 89, 6), sulla base dell’argomento che «esso prevede che le parti contraenti si impegnano ad adottare, conformemente alla propria legislazione, i provvedimenti necessari per l’applicazione del Trattato stesso. Ne discende che l’applicazione delle disposizioni [di questo], per quanto concerne la loro esecuzione o i loro effetti, è subordinata all’intervento di atti ulteriori. Disposizioni del genere non hanno pertanto efficacia diretta nel diritto dell’Unione e non sono idonee a creare in capo ai privati diritti che questi possano invocare direttamente dinanzi al giudice ai sensi di tale ordinamento giuridico» (sentenza 15 marzo 2012, C-135/10, SCF Consorzio fonografici, punti 47-48).
L’oggetto e lo scopo di un accordo, così come il suo contesto, possono però anche portare ad affermare, rispetto ad una disposizione dello stesso che non contenga alcun obbligo chiaro e preciso idoneo a regolare direttamente la situazione giuridica dei cittadini, la necessità di interpretare, nei limiti del possibile, le norme interne in modo conforme alla disposizione convenzionale. La Corte è arrivata a questa conclusione, per esempio, nel caso di un articolo della Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998, sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale. Facendo leva sul fine di tutela effettiva dell’ambiente perseguito da tale convenzione, essa ha infatti affermato che «il giudice nazionale è tenuto ad interpretare, nei limiti del possibile, le norme processuali concernenti le condizioni che devono essere soddisfatte per proporre un ricorso amministrativo o giurisdizionale in conformità sia degli scopi dell’art. 9, n. 3, della suddetta convenzione sia dell’obiettivo di tutela giurisdizionale effettiva dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, al fine di permettere ad un’organizzazione per la tutela dell’ambiente […] di contestare in giudizio una decisione adottata a seguito di un procedimento amministrativo eventualmente contrario al diritto ambientale dell’Unione» (8 marzo 2011, C-240/09, Lesoochranárske zoskupenie, I-1255, punto 52). b) Gli accordi conclusi con paesi terzi o organizzazioni internazionali sono evidentemente subordinati ai Trattati, dato che l’esercizio delle competenze internazionali dell’Unione deve avvenire nel rispetto delle regole materiali e procedurali in essi stabilite. Essi, d’altronde, non devono porsi in contrasto con un principio generale del diritto dell’Unione. Nei limiti delle competenze riconosciutele dai Trattati, la Corte può essere pertanto investita della questione della compatibilità di un accordo con il diritto primario. Ciò può avvenire sia prima della conclusione dell’accordo, sulla base di una richiesta di parere consultivo avanzata, ai sensi del poc’anzi citato
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art. 218, par. 11, TFUE, dal Parlamento europeo, dal Consiglio, dalla Commissione o da uno Stato membro; sia dopo la conclusione dello stesso, nel quadro di una delle competenze di legittimità spettanti alla Corte. È a questo secondo titolo che, ad esempio, la Corte ha annullato la conclusione di un accordo in materia di concorrenza stipulato con gli Stati Uniti dalla Commissione, in ragione dell’incompetenza di questa a contrarre impegni internazionali per conto della allora Comunità europea (9 agosto 1994, C-327/91, Francia c. Commissione, I-3641). E altrettanto essa ha fatto per quanto riguarda un accordo quadro sulle banane concluso nel quadro dell’OMC, ma questa volta annullando l’atto di conclusione dello stesso per violazione non di una norma del Trattato, ma di un principio generale del diritto dell’Unione (10 marzo 1998, C-122/95, Germania c. Consiglio, I-973). Per un caso in cui un contrasto di questo genere è stato invece rilevato dalla Corte prima della conclusione dell’accordo, può citarsi il parere consultivo 26 luglio 2017, 1/15, sulla compatibilità del progetto di accordo tra il Canada e l’Unione europea sul trasferimento e sul trattamento dei dati del codice di prenotazione (Passenger Name Record – PNR), in cui la Corte ha giudicato varie norme dell’accordo incompatibili, tra l’altro, con gli artt. 7, 8, 21 e 52, 1, della Carta dei diritti fondamentali, in quanto non escludeva il trasferimento dei dati sensibili dall’Unione europea al Canada nonché l’uso e la conservazione di tali dati.
Come si ricava dal già citato art. 216, par. 2, TFUE («gli accordi conclusi dall’Unione vincolano le istituzioni»), il rispetto degli accordi con Stati terzi e delle decisioni di organi da tali accordi previsti costituisce al contrario un limite di legittimità degli atti di diritto derivato, che può portare all’annullamento di questi e che comunque implica l’obbligo di interpretare tali atti in maniera per quanto possibile conforme ai detti accordi (Corte giust. 10 gennaio 2006, C-344/04, IATA, I-403, punto 35 ss.). La Corte ha però subordinato l’eventualità che un atto delle istituzioni possa essere oggetto di annullamento per contrasto con un obbligo internazionale dell’Unione, alla circostanza che la norma internazionale della cui violazione si tratta presenti i caratteri che ai sensi della giurisprudenza sopra ricordata ne fondano l’invocabilità in giudizio (sentenza International Fruit Company, cit., punti 7-9). Ciò è stato peraltro affermato non solo con riferimento alla possibilità che l’incompatibilità dell’atto delle istituzioni con la norma internazionale venga invocata da un privato, ma anche quando tale incompatibilità sia fatta valere da uno Stato membro (5 ottobre 1994, C-280/93, Germania c. Consiglio, I-4973, punto 109 ss.). Quanto all’obbligo di interpretare gli atti di diritto derivato alla luce di un accordo internazionale, la Corte ha affermato la sussistenza di detto obbligo anche in relazione a un accordo di cui non sia parte contraente l’Unione, ma tutti gli Stati membri. La Corte è arrivata a tale conclusione, in riferimento alla Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento causato da navi, firmata a Londra il 2 novembre 1973 quale parametro per l’interpretazione di alcune norme della direttiva 2005/35/CE del Parlamento e del Consiglio, del 7 settembre 2005, relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni (GU L 255, 11), in ragione «del principio consuetudinario di buona fede, che fa parte del diritto internazionale generale, e [dell’art. 10 TCE (ora art. 4 TUE)]», che pone in capo alle istituzioni dell’Unione un obbligo di leale collaborazione con gli Stati membri (sentenza Intertanko, cit., punto 52).
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c) Pur potendo in certi casi esplicare una funzione in relazione al funzionamento di competenze dell’Unione, non sono invece parte integrante dell’ordinamento giuridico di questa, nel senso che non costituiscono diritto dell’Unione, gli accordi internazionali conclusi tra gli Stati membri o tra questi e Stati terzi. Per quanto attiene ai primi, l’ipotesi potrebbe porsi ovviamente solo per quelli, tra di essi, successivi all’acquisto dello status di membro, visto che gli accordi precedenti riguardanti materie per la cui disciplina sono successivamente intervenuti i Trattati, devono considerarsi implicitamente abrogati, in tutto o in parte, per il tradizionale principio della successione nel tempo fra accordi incompatibili conclusi tra le stesse parti contraenti (Corte giust. 27 settembre 1988, 235/87, Matteucci, 5589, punto 22). Ma anche per gli accordi successivi essi rimangono formalmente estranei al diritto dell’Unione, pur se eventualmente stipulati sulla base di una disposizione dei Trattati, com’è stato in passato per le c.d. convenzioni comunitarie previste dall’art. 293 TCE (ora abrogato) in relazione a una serie di materie riguardanti in specie la cooperazione giudiziaria civile, e com’è avvenuto recentemente per il Trattato del 2 febbraio 2012, che ha istituito un meccanismo europeo di stabilità (finanziaria) alla luce dell’art. 136, par. 3, TFUE (infra, p. 697 ss.). Del resto la Corte ha escluso la natura di diritto dell’Unione anche per accordi conclusi tra gli Stati membri in una sede istituzionale come quella del Consiglio e riguardanti materie strettamente connesse con il funzionamento dell’Unione, quali sono le c.d. decisioni dei rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio (30 giugno 1993, C-181/91 e C-248/91, Parlamento c. Consiglio e Commissione, I-3685, punto 25), benché gli stessi siano tradizionalmente considerati dagli Atti di adesione di nuovi Stati membri come parti dell’acquis complessivo dell’Unione cui questi sono tenuti ad aderire. Quanto agli accordi stipulati tra gli Stati membri e paesi terzi, pur rimanendo a maggior ragione estranei al diritto dell’Unione, essi possono trovarsi comunque a incidere indirettamente su tale diritto, se conclusi da uno Stato membro prima dell’ingresso nell’Unione. Come ha sottolineato la stessa Corte, infatti, alla luce delle regole del diritto internazionale generale «l’applicazione del Trattato […] non pregiudica l’impegno dello Stato membro interessato di rispettare i diritti degli Stati terzi derivanti da una convenzione anteriore e di adempiere gli obblighi corrispondenti» (15 settembre 2011, C-264/09, Commissione c. Slovacchia, punto 41). Tanto che, fin dalla sua versione originaria, l’art. 351 TFUE dispone in conformità a quelle regole che «le disposizioni dei Trattati non pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da convenzioni concluse, anteriormente al 1° gennaio 1958 o, per gli Stati aderenti, anteriormente alla data della loro adesione, tra uno o più Stati membri da una parte e uno o più Stati terzi dall’altra». Ciò comporta che una norma dell’Unione possa essere resa inoperante da una convenzione internazionale di questo tipo che imponga allo Stato membro che l’ha conclusa obblighi, il cui adempimento può essere ancora preteso dagli Stati terzi che ne sono parti contraenti (Corte giust. 2 agosto 1993, C-158/91, Levy, I-4287, punto 13). Ma tale conseguenza si produce solo se e nei limiti in cui il rispetto degli obblighi dell’Unione interferisca con il puntuale adempimento di questi ultimi.
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Si veda in questo senso, implicitamente, Corte giust. 9 luglio 1991, C-146/89, Commissione c. Regno Unito, I-3533, punti 25 e 38 ss. Come ha altrove precisato sempre la Corte (14 ottobre 1980, 812/79, Burgoa, 2787, punto 9), ciò implica peraltro «l’obbligo delle istituzioni comunitarie di non ostacolare l’adempimento degli obblighi degli Stati membri derivanti da una convenzione anteriore».
Pur salvaguardando gli impegni internazionali precedentemente assunti con paesi terzi da uno Stato membro, l’art. 351 impone a questo di eliminare nei modi possibili le «incompatibilità» esistenti tra tali impegni e i Trattati (comma 2). L’individuazione di questi modi spetta allo Stato membro interessato. Tuttavia, quando, ad esempio, la via negoziale non riesca a portare alla modifica dell’accordo con il paese terzo, lo Stato membro è tenuto a «procedere alla denuncia di detto accordo» (sentenza Commissione c. Slovacchia, cit., punto 44). A certe condizioni, da accordi precedentemente conclusi da tutti gli Stati membri con paesi terzi può derivare un vincolo diretto in capo all’Unione, o perché è lo stesso Trattato a porre un obbligo di rispetto dei principi perseguiti da tali accordi, come fa per i principi della Carta delle Nazioni Unite l’art. 3, par. 5, TUE, o addirittura per un effetto di sostituzione dell’Unione nei diritti e negli obblighi spettanti agli Stati membri ai sensi di quegli accordi. La Corte ha così interpretato, infatti, i rapporti tra l’allora CEE e il GATT, argomentando sul fatto che in questo caso non solo la Comunità aveva sostanzialmente aderito agli scopi del GATT (art. 110 TCEE), ma che essa deteneva una competenza esclusiva nella materia della politica commerciale oggetto dell’Accordo generale, che era stata riconosciuta anche dalle altre parti contraenti di questo (sentenza International Fruit Company e a., cit., punti 14-18).
8. Gli atti normativi tipici di diritto derivato Come si è già ricordato, nell’ordinamento creato dai Trattati operano ugualmente, in posizione evidentemente subordinata a questi, una serie di fonti di diritto derivato frutto dell’attività normativa delle istituzioni. L’art. 288, comma 1, TFUE specifica i diversi tipi di atti di cui le istituzioni si possono avvalere nell’esercizio di questa attività: «per esercitare le competenze dell’Unione, le istituzioni adottano regolamenti, direttive, decisioni». Per il fatto stesso di rispondere a dei modelli predeterminati nei Trattati, questi atti vengono comunemente indicati come gli «atti tipici» del diritto derivato. L’art. 288 non innova rispetto ai Trattati precedenti, ricalcando sostanzialmente il testo del vecchio art. 249 TCE. Il Trattato di Lisbona non ha, infatti, ripreso la novità contenuta nella Costituzione europea, che poneva al vertice delle fonti di diritto derivato la categoria delle leggi europee e delle leggi quadro europee, riservando le attuali categorie, seppur con una eccezione, agli atti emanati in attuazione di leggi o leggi quadro ovvero di talune disposizioni specifiche della Costituzione (art. I-33 Trattato costituzionale). Questo articolo faceva venir meno, nominalmente, la sola categoria delle direttive, le cui caratteristiche erano però riprese all’interno di quella dei regolamenti, che diventavano così uno strumento ibrido: un regolamento avrebbe potuto avere cioè, a seconda dei casi, tanto le caratteristiche tradizionali (e attuali) di questo tipo di strumento, quanto quelle tipiche della direttiva (par. 1, comma 4).
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Prima del Trattato di Lisbona, la categoria degli atti tipici era in realtà più ampia, ricomprendendo anche taluni tipi di atti che il TUE di allora metteva a disposizione delle istituzioni nei due settori della cooperazione in materia di politica estera e difesa comune e la cooperazione in materia penale e di polizia. Si trattava di atti che, pur se talvolta omonimi di taluni di quelli appena citati, o avevano comunque differente natura rispetto a essi, perché si trattava per lo più, come nel caso della PESC, di strumenti di un’azione meramente politica od operativa dell’Unione piuttosto che di atti produttivi di norme giuridiche, o producevano differenti effetti sugli ordinamenti giuridici degli Stati membri, dato che, anche laddove diretti a stabilire normative destinate ad operare all’interno di quegli ordinamenti (le decisioni e le decisioniquadro del c.d. terzo pilastro), il TUE ne escludeva esplicitamente ogni efficacia diretta. In ogni caso la loro violazione non era suscettibile di reazione da parte dell’Unione attraverso i meccanismi comunemente applicabili alle violazioni degli atti comunitari. Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona questi tipi di atti sono venuti meno, essendo stata estesa a tutti i settori di azione dell’Unione, attraverso il citato art. 288, la tipologia operante nel TCE, ma, naturalmente, gli effetti di quelli adottati prima di Lisbona sono stati fatti salvi fino a quando gli stessi non siano «abrogati, annullati o modificati in applicazione dei [nuovi] trattati» (art. 9 del Protocollo n. 36 sulle disposizioni transitorie). Nel contempo, però, dopo un primo periodo transitorio previsto da questo Protocollo sono stati loro estesi, ma con l’esclusione di quelli operanti in ambito PESC, i comuni meccanismi di controllo sulla corretta applicazione del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri. Con la conseguenza che il mancato rispetto di una decisione o il mancato recepimento nell’ordinamento interno di una decisione-quadro vigente nei settori della cooperazione giudiziaria penale o di polizia potranno essere oggetto di una procedura d’infrazione e di una condanna da parte della Corte di giustizia nei confronti dello Stato inadempiente. Pur mantenendo la tipologia degli atti di diritto derivato storicamente operante nel TCE, che come abbiamo detto viene anzi estesa, pur se non nella sua interezza, a tutti i settori di attività dell’Unione, i nuovi Trattati innestano su quella tipologia un’ulteriore caratterizzazione degli atti delle istituzioni, la quale si intreccia, senza alterarla, con quella delineata dall’art. 288 TFUE. Con una soluzione, infatti, in cui si ritrovano tracce di quanto era stato previsto dalla Costituzione europea, gli atti enumerati in questo articolo assumono una diversa natura a seconda della procedura con cui sono adottati. In particolare, secondo quanto dispone l’art. 289, par. 3, TFUE, quando ciò avvenga sulla base di una c.d. procedura legislativa, i regolamenti, le direttive e le decisioni hanno natura legislativa. Allorché, invece, questi stessi atti sono emanati su delega di un atto legislativo (art. 290 TFUE) o, in generale, in esecuzione di un atto giuridicamente vincolante dell’Unione (art. 291 TFUE), essi assumono rispettivamente la veste di atti delegati o di esecuzione, integrando conseguentemente tali qualificativi nella propria intitolazione (regolamento delegato, regolamento di esecuzione, ecc.). Rimane naturalmente ferma l’eventualità di atti normativi adottati al di fuori di queste due ultime ipotesi o di una procedura legislativa, i quali, pur senza essere ascrivibili alle categorie degli atti delegati o degli atti di esecuzione, non rivestono formalmente carattere legislati-
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vo. Casi del genere sono tutt’altro che rari nei Trattati, costituendo anzi la regola nell’ambito della PESC, dove è espressamente esclusa, come si vedrà, l’adozione di atti legislativi (art. 31, par. 1, comma 1, TFUE). Sebbene i Trattati ricolleghino sul piano formale il carattere legislativo di un atto non alle caratteristiche intrinseche che normalmente vengono associate a tale carattere (portata generale e astratta delle norme dettate, ecc.), ma alla procedura (legislativa) con cui esso viene adottato, ciò non significa che la scelta operata a livello dei Trattati di applicare la procedura legislativa all’adozione di un determinato atto non sia basata sulle caratteristiche specifiche delle misure che andranno prese. Una lettura anche veloce dei Trattati dimostra facilmente che in tutti i casi in cui è previsto il ricorso alla procedura legislativa l’atto da adottare è diretto a fissare la regolamentazione di base di un determinato intervento o materia di competenza dell’Unione. È tuttavia ugualmente vero il contrario, e cioè che non in tutti casi in cui le istituzioni sono chiamate a prendere misure con quelle stesse caratteristiche gli articoli rilevanti dei Trattati prevedono il ricorso alla procedura legislativa. Se ne veda un es. nell’art. 103 TFUE, sulla base del quale il Consiglio è chiamato ad adottare «i regolamenti e le direttive utili ai fini dell’applicazione dei principi contemplati dagli [artt. 101 e 102 TFUE]» in materia di concorrenza tra imprese. Un altro es. può essere indicato nell’art. 74 TFUE, che dà sempre al Consiglio il compito di prendere, ugualmente al di fuori di una procedura legislativa, misure dirette ad assicurare la cooperazione amministrativa tra i servizi competenti degli Stati membri e fra tali servizi e la Commissione nei settori rientranti nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, disciplinato dal Titolo V dello stesso TFUE.
Anche ciò spiega perché il carattere legislativo di un atto non sta a indicare di per sé una determinata collocazione di quell’atto nella gerarchia delle fonti dell’ordinamento dell’Unione. Al di fuori della specifica relazione che può porsi tra due atti in ragione di altri profili (si veda al riguardo il paragrafo successivo), un atto non legislativo non è, infatti, subordinato a un atto legislativo. Come vedremo più sotto, è anzi possibile constatare casi in cui può verificarsi l’inverso, nel senso di atti legislativi che risultano subordinati a un atto non legislativo. Così come, del resto, vi sono anche ipotesi di atti ugualmente legislativi tra i quali sussiste però un rapporto di natura gerarchica. D’altra parte, come ha rilevato di recente anche la Corte di giustizia (6 settembre 2017, C-643/15 e C-647/15, Slovacchia e Ungheria c. Consiglio, in particolare punto 68 ss.), l’attribuzione di un carattere legislativo a un atto appare in realtà legata, nel sistema dei Trattati, non tanto ad un’esigenza di rafforzamento del rango gerarchico dello stesso, quanto alla volontà dei redattori degli stessi Trattati di sottoporre una parte dell’attività normativa delle istituzioni a determinate regole in tema di trasparenza della stessa e di rapporto con le prerogative dei parlamenti degli Stati membri. I progetti di atti legislativi, così come gli atti intermedi che portano alla loro adozione, devono essere infatti direttamente trasmessi ai parlamenti nazionali (Protocollo (n. 1) sul ruolo dei parlamenti nazionali); gli stessi progetti sono soggetti alla procedura di controllo sul rispetto del principio di sussidiarietà (Protocollo (n. 2) sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità); gli atti legislativi possono essere impugnati direttamente dai parlamenti nazionali (e dal Comitato delle regioni) dinanzi alla Corte di giustizia per violazione di quel principio (art. 8 di quest’ul-
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timo Protocollo); le sessioni del Consiglio dirette alla loro adozione sono aperte al pubblico (art. 16, par. 8, TUE), così come devono essere a questo accessibili i documenti inerenti alla relativa procedura di adozione (art. 15, par. 3, comma 5, TFUE). Anche sotto questo profilo stupisce che, come vedremo anche successivamente, gli atti delegati, gli atti cioè adottati, come si è detto, dalla Commissione su delega di un atto legislativo per dettare disposizioni «di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo» siano espressamente considerati dall’art. 290, par. 1, TFUE, «atti non legislativi». Già di per sé può lasciare perplessi il fatto che, benché adottati su delega di un atto di carattere legislativo, essi non condividano questo stesso carattere, visto che, almeno secondo i canoni degli ordinamenti nazionali, il potere delegato ha logicamente la stessa natura del potere delegante. Ma lascia soprattutto perplessi il fatto che attraverso l’esclusione del loro carattere legislativo si finisca per sottrarre agli adempimenti e agli obblighi che si è visto essere collegati al possesso di quel carattere una fetta anche importante di attività legislativa, seppur di «secondo grado», delle istituzioni. Ad ogni modo, tra le conseguenze collegate alla natura legislativa di un atto dell’Unione va aggiunto anche il fatto che solo in caso di una procedura d’infrazione per mancato recepimento di una direttiva di carattere legislativo la Commissione può proporre alla Corte di comminare sanzioni pecuniarie nei confronti dello Stato membro responsabile (art. 260, par. 3, TFUE). Ma su questo si veda infra, p. 273 s.
Indipendentemente dall’ulteriore caratterizzazione o meno come atti legislativi, gli atti elencati nell’art. 288, comma 1, TFUE, si differenziano tra loro per le caratteristiche e gli effetti che questo stesso articolo gli attribuisce, e che esprimono, come si vedrà, un diverso modo di operare di ciascuno di essi nei confronti dei soggetti destinatari e degli ordinamenti degli Stati membri. La scelta, tra regolamento, direttiva e decisione, del tipo di atto da utilizzare nel caso concreto è evidentemente basata sulle diverse caratteristiche di ciascuno di essi. Tale scelta è talvolta operata direttamente dai Trattati, nel senso che è lo stesso articolo di questi sul quale si fonda la competenza ad agire dell’Unione in una determinata materia, a stabilire attraverso quale strumento tale competenza debba essere esercitata: ad esempio, mentre l’art. 109 TFUE, in materia di aiuti di Stato, impone il ricorso a regolamenti, gli artt. 53 (riconoscimento dei diplomi ed accesso alle attività salariate), 59 (liberalizzazione di servizi), 115 (ravvicinamento delle legislazioni), 116 (distorsioni di concorrenza nel mercato interno) dello stesso Trattato, prevedono unicamente lo strumento della direttiva. Altre volte la scelta è invece rimessa al legislatore, attraverso la generica previsione che una data azione debba realizzarsi con l’adozione di «disposizioni» (art. 77, par. 3, TFUE) ovvero di «misure» (art. 82, par. 1, TFUE). In un caso come nell’altro tale scelta è evidentemente condizionata in primo luogo dalla maggiore o minore rispondenza delle caratteristiche specifiche di ogni atto al contenuto e agli obiettivi dell’intervento normativo di cui si tratta, dato che, come si vedrà, quelle diverse caratteristiche esprimono un diverso modo di esercitare la competenza attribuita all’Unione. Ma soprattutto quando è rimessa al legislatore, tale scelta deve tener conto anche dei principi generali del sistema. Secondo l’art. 296 TFUE, infatti, «qualora i Trattati non prevedano il tipo di atto da adottare, le istituzioni lo decidono di volta in volta, nel rispetto delle procedure applicabili e del principio di proporzionalità».
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Sotto quest’ultimo profilo tale previsione non fa che riprendere una giurisprudenza costante che, richiamando proprio il principio di proporzionalità (sul quale infra, p. 432 s.), ha sottolineato che qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva. In passato ciò ha anzi indotto a suggerire che «a parità di altre condizioni, le direttive dovrebbero essere preferite ai regolamenti, e le direttive quadro a misure dettagliate» (Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, allegato al TCE, par. 6). Il fatto che lo strumento della direttiva preveda, come si vedrà, una riserva di competenza a favore del legislatore nazionale, lasciandogli un certo grado di flessibilità nella sua trasposizione nell’ordinamento interno, ha fatto infatti ritenere questo tipo di strumento più consono del regolamento ai principi di sussidiarietà e proporzionalità.
9. Segue: Il rapporto tra gli atti normativi tipici Gli atti elencati nell’art. 288, comma 1, TFUE, si differenziano tra loro per le caratteristiche e gli effetti che a ciascuno di essi tale articolo riconosce. Limitandoci per ora ai profili più generali – un esame più dettagliato sarà svolto nei paragrafi successivi –, mentre il regolamento ha portata generale ed è obbligatorio in tutti suoi elementi, oltre che direttamente applicabile negli ordinamenti degli Stati membri, la direttiva vincola questi ultimi per quanto riguarda il risultato da raggiungere, ma, lasciando loro la competenza quanto alla forma ed i mezzi per farlo, deve essere recepita in un provvedimento nazionale per esplicare appieno i suoi effetti nell’ordinamento di ciascuno Stato; quanto infine alla decisione, essa, obbligatoria in tutti i suoi elementi, ha a seconda dei casi carattere individuale o generale e, in dipendenza di questo carattere, è direttamente efficace o meno all’interno degli Stati membri. Da questa diversità di caratteristiche ed effetti non consegue un rapporto gerarchico tra i tre tipi di atti. Non sono rari del resto, come si è appena visto, i casi di disposizioni dei Trattati che abilitano esplicitamente le istituzioni a fare indifferentemente ricorso a uno qualsiasi degli strumenti normativi previsti dall’art. 288 TFUE per disciplinare una data materia. In via generale, perciò, nulla esclude che una decisione modifichi o deroghi a un regolamento o che altrettanto faccia un regolamento rispetto a una direttiva. In alcuni settori l’ipotesi è del resto ricorrente, in particolare quando si tratta di apportare modifiche ad aspetti tecnici di un determinato atto: nel campo ad esempio della regolamentazione delle qualifiche professionali, gli allegati alla direttiva principale che disciplina la materia sono stati più volte modificati da atti successivi adottati sotto la forma di regolamento. Si vedano così i regg. (CE) n. 1430/2007, del 5 dicembre 2007, e n. 755/2008, del 31 luglio 2008 (rispettivamente, GUUE L 320, 3, e L 205, 10), che recano modifica agli allegati II e III della dir. 2005/36/CE del PE e del Consiglio, del 7 settembre 2005, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali (GUUE L 255, 22). Per ulteriori esempi in altri settori si possono citare la dec. 2009/83/CE della Commissione, del 23 gennaio 2009, recante modifica del reg. (CE) n. 725/2004 del PE e del Consiglio per quanto concerne il regime IMO relativo al numero d’identificazione unico della società e del proprietario registrato (GUUE L 29, 53); nonché il reg. (CE) n. 1907/2006 del PE e del Consiglio, del 18 dicembre 2006, concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e
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la restrizione delle sostanze chimiche (REACH), che istituisce un’Agenzia europea per le sostanze chimiche, che modifica la dir. 1999/45/CE e che abroga il reg. (CEE) n. 793/93 del Consiglio e il reg. (CE) n. 1488/94 della Commissione, nonché la dir. 76/769/CEE del Consiglio e le direttive della Commissione 91/155/CEE, 93/67/CEE, 93/105/CE e 2000/21/CE (GUUE L 136/2007, 3).
Ciò non significa, tuttavia, che tra gli atti adottati dalle istituzioni non possa esistere un rapporto di tipo gerarchico. Solo che tale rapporto dipenderà, appunto, non dalla forma degli atti utilizzati – è ben possibile infatti, come si vedrà, che un rapporto di quel genere venga a stabilirsi anche tra due atti dello stesso tipo –, ma da altre circostanze. Una di queste può essere la particolare funzione cui, per espressa previsione dei Trattati, un determinato atto delle istituzioni assolve. Un’ipotesi di questo genere si presenta innanzitutto nel caso delle c.d. «clausole passerella», di quelle disposizioni dei Trattati, cioè, che attribuiscono alle istituzioni il compito di provvedere direttamente, attraverso atti di diritto derivato da adottare il più delle volte nel quadro di una procedura legislativa, a integrazioni o modifiche del diritto primario (art. 25, comma 2, TFUE). Tali atti, il cui contenuto può essere vincolato (il passaggio, ad esempio, dall’unanimità alla maggioranza qualificata per una determinata deliberazione del Consiglio, o l’estensione della procedura legislativa ordinaria a un settore regolato fino a quel momento da una procedura legislativa speciale) o lasciato alla discrezionalità dell’istituzione o delle istituzioni competenti, sono in taluni casi adottati definitivamente da queste, in altri, una volta adottati, vedono subordinata la loro entrata in vigore alla previa approvazione o ad una sorta di «silenzio assenso» dei parlamenti nazionali. Ma anche in quest’ultimo caso si tratta pur sempre di atti di diritto derivato, visto che l’atto finale della procedura rimane l’atto dell’Unione e non certo l’ulteriore manifestazione di volontà degli Stati rispetto a quella già espressa all’unanimità dai governi nell’adottare lo stesso in sede di Consiglio. Contengono una clausola passerella basata su un procedura legislativa speciale, che affida al Consiglio il compito di adottare l’atto su consultazione o approvazione del Parlamento europeo, l’art. 25, comma 2, TFUE (estensione dei diritti che compongono lo status di cittadino dell’Unione), l’art. 126 TFUE (per la modifica delle disposizioni relative alla procedura in materia di deficit eccessivi precisate nel Protocollo (n. 12) sulla procedura per i disavanzi eccessivi allegato ai Trattati) e l’art. 308 TFUE (modifica degli articoli dello Statuto della BEI). Nel caso, invece, degli artt. 129 (modifica di articoli dello Statuto del SEBC e della BCE) e 281 (modifica dello Statuto della Corte di giustizia) dello stesso Trattato si prevede addirittura il ricorso alla procedura legislativa ordinaria. Tra le clausole passerella sono poi a contenuto “vincolato” quelle previste dall’art. 153, par. 2, ultimo comma, TFUE, ai sensi del quale il Consiglio può decidere il passaggio da una procedura legislativa speciale alla procedura legislativa ordinaria di alcuni aspetti della politica sociale, e dall’art. 192, par. 2, comma 2, TFUE, che apre alla stessa possibilità nel settore dell’ambiente; mentre l’art. 31, par. 3, TUE, riguardante la PESC, ha come oggetto l’eventuale passaggio dall’unanimità alla maggioranza qualificata per talune deliberazioni in tale settore. Come si comprende dalla sua formulazione (eventuale adozione di «opportune disposizioni» in sostituzione di quelle concernenti l’attuazione della procedura in materia di deficit eccessivi), il già citato art. 126, par. 14, TFUE affida alla discrezionalità del Consiglio il contenuto delle integrazioni o modifiche da apportare al Protocollo (n. 12) sulla procedura per i disavanzi eccessivi; e lo stesso fanno le clausole
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passerella, ugualmente già citate, relative agli Statuti della Corte di giustizia, del SEBC e della BCE, e della BEI. Ritornando invece alle differenze di tipo procedurale sopra menzionate, l’adozione dell’atto previsto dalla clausola passerella spetta in via definitiva al Consiglio nel caso dell’art. 86, par. 4, TFUE (per l’estensione delle attribuzioni della costituenda Procura europea), e degli artt. (prima citati) 31 TUE, e 126, 129, 153, 192, 281 e 308 TFUE. L’entrata in vigore di quell’atto è invece subordinata alla successiva approvazione (esplicita o implicita) dei parlamenti nazionali nel caso dell’art. 81, par. 3, TFUE, riguardante il diritto di famiglia.
Va da sé che, benché subordinati ai Trattati dovendo ovviamente rimanere nei limiti di quanto previsto dalla clausola di questi che ne costituisce la base giuridica, tali atti recano disposizioni che integrano sostanzialmente il diritto primario (Corte giust. 27 novembre 2012, C-370/12, Pringle, punto 32). Da questo punto di vista, che abbiano o meno natura legislativa e quale ne sia la forma, essi si presentano come atti normativi rinforzati o «supralegislativi», perché evidentemente sovraordinati agli altri atti di diritto derivato anche di identici carattere e forma. Una situazione per certi versi analoga a quella appena descritta scaturisce poi da quelle disposizioni dei Trattati che attribuiscono nei fatti carattere ugualmente «supralegislativo», in ragione della funzione che lo stesso è chiamato ad assolvere nel quadro del funzionamento dell’Unione, a un atto delle istituzioni che si presenta però qui come atto di mera applicazione di quelle disposizioni (Corte giust. 21 gennaio 2003, C378/00, Commissione c. Parlamento e Consiglio, I-937, punto 39). Un esempio è fornito dal c.d. regolamento «comitologia» del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 febbraio 2011 (reg. (UE) n. 182/2011), che, in attuazione dell’art. 291 TFUE, stabilisce le regole e i principi generali relativi alle modalità di controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione, sostituendo una precedente decisione del Consiglio del 1999 fondata sull’allora art. 202 TCE. Come vedremo più avanti (p. 214 ss.), questo regolamento prevede delle procedure standard da richiamare nei singoli atti di base nel momento in cui gli stessi attribuiscono alla Commissione quelle competenze. In ragione di ciò, pur essendo anch’esso un atto di diritto derivato, i principi e le norme da esso stabiliti – ha osservato la Corte seppur con riferimento alla decisione del 1999 – «devono essere rispettati al momento dell’adozione degli atti che conferiscono competenze di esecuzione alla Commissione» (21 gennaio 2003, C-378/00, Commissione c. Parlamento e Consiglio, punto 40). Con la conseguenza che sarebbe da considerare illegittimo, per violazione di una regola di diritto relativa all’applicazione dei Trattati (art. 263, comma 2, TFUE), l’atto di base che si discostasse da quanto prescritto nel regolamento comitologia, ricorrendo a modalità di esecuzione diverse da quelle lì disciplinate. Un’altra circostanza in cui può prodursi un rapporto gerarchico tra atti di diritto derivato è poi proprio quella che si ricollega all’ipotesi ora menzionata del conferimento di competenze di esecuzione di un atto adottato ai sensi dei Trattati o, più in generale, dell’attribuzione di una delega all’esercizio di competenze normative. Prima del Trattato di Lisbona, l’ipotesi era nel suo complesso unicamente riconducibile al meccanismo della comitologia sopra ricordato. Oggi essa ricade, come vedremo nel prossimo Capitolo (p. 207 ss.), in parte sotto l’applicazione del già ricordato art. 290 TFUE, in base al quale «un atto legislativo può delegare alla Com-
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missione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo»; e in parte nell’attività di esecuzione degli atti delle istituzioni, ora disciplinata, come si è detto, dal nuovo art. 291 dello stesso Trattato. Ma che si tratti di una competenza normativa delegata o di una competenza di esecuzione, il suo esercizio troverà comunque un limite nell’atto delegante o nell’atto cui va data esecuzione. L’art. 290 TFUE lo specifica ora per l’ipotesi di delega di competenze normative, precisando che l’atto legislativo delegante deve delimitare esplicitamente «gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere», e che «gli elementi essenziali di un settore sono riservati all’atto legislativo». Già prima però, e con riferimento in generale all’esecuzione di atti delle istituzioni, la Corte di giustizia aveva osservato che la legittimità del conferimento di competenze di esecuzione è da ritenere subordinata alla condizione che i «punti essenziali» della disciplina la cui attuazione viene delegata siano precisati nell’atto di base, e quindi «stabiliti in modo conforme al procedimento» decisionale contemplato dai Trattati per l’intervento delle istituzioni in quel determinato settore (17 dicembre 1970, 25/70, Köster, 1161); con la conseguenza che gli atti di attuazione successivamente emanati non potranno evidentemente derogare a quei «punti essenziali» o andare al di là degli «obiettivi generali essenziali della normativa» di base (Corte giust. 23 ottobre 2007, C-403/05, Parlamento c. Commissione, I-9045, punto 51 ss.), e ciò tanto se la delega sia stata concessa alla Commissione, quanto se il Consiglio abbia invece riservato a se stesso, come pure può eccezionalmente avvenire, il compito di emanare quegli atti (Corte giust. 16 giugno 1987, 46/86, Romkes, 2671, punto 16). Un rapporto gerarchico quale quello che si stabilisce tra un atto di base e l’atto preso in sua attuazione si presenta, nel sistema dei Trattati, anche al di fuori delle ipotesi disciplinate oggi dagli artt. 290 e 291 TFUE e in precedenza dall’art. 202 TCE. Vi sono, infatti, casi in cui gli stessi Trattati configurano l’esistenza di un rapporto di quel tipo tra due atti, indipendentemente dal conferimento puntuale da parte del primo di una competenza a emanare il secondo in sua attuazione. Un’ipotesi di questo genere la si ritrova, ad esempio, nella previsione contenuta nell’art. 75, comma 2, TFUE, secondo cui «il Consiglio, su proposta della Commissione, adotta misure per attuare l’insieme di misure» di contrasto al terrorismo, che l’Unione può prendere, ai sensi del comma 1 dello stesso articolo, conformemente a una procedura legislativa ordinaria. Ma essa è addirittura ipotesi di carattere generale nel settore della PESC, dove l’art. 31, par. 2, TUE stabilisce che il Consiglio possa adottare a maggioranza qualificata decisioni relative all’attuazione di una decisione che definisce un’azione o una posizione dell’Unione approvata da lui stesso all’unanimità. Indipendentemente dal fatto che il rapporto tra la misura di esecuzione e l’atto o gli atti della cui esecuzione si tratti possa inquadrarsi o meno nell’ambito delle previsioni di cui all’art. 291 TFUE (il che non è nel caso dell’art. 75 TFUE, tanto che i relativi atti non integreranno l’aggettivazione “di esecuzione” nella loro intitolazione), va da sé che il ricorso a una procedura non legislativa (o alla maggioranza qualificata nel caso dell’art. 31 TUE) per l’adozione dell’atto di esecuzione in tanto si giustifica, in quanto lo stesso rimanga nei limiti di quanto previsto dall’atto da attuare.
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Più generalmente, infine, l’idea dell’esistenza di un rapporto gerarchico tra atti delle istituzioni è stata prospettata, anche al di fuori di una relazione formalmente definita tra due atti, con riferimento alla portata generale o particolare degli stessi. È stato, infatti, affermato dalla Corte che un atto particolare o individuale non potrebbe restringere o limitare gli effetti di un atto normativo di carattere generale, senza perturbare il sistema legislativo dell’Unione e rompere l’uguaglianza dei privati dinanzi alla legge (29 marzo 1979, 113/77, NTN Toyo Bearing e a. c. Consiglio, 1185, punto 21).
10. Segue: Il regime comune agli atti normativi tipici Ferma restando la diversità di caratteristiche ed effetti tra loro esistenti, gli atti normativi tipici dell’Unione sono soggetti a un regime in linea di principio comune per quanto attiene a certi requisiti di forma e alla loro entrata in vigore. In primo luogo, l’art. 296, comma 2, TFUE pone un obbligo di motivazione. Questa va intesa come una formalità sostanziale, la cui omissione o insufficienza comporta l’invalidità dell’atto, in quanto suo scopo è quello di mettere in grado i destinatari di apprezzare le ragioni che hanno indotto le istituzioni ad agire e gli eventuali vizi che inficino la validità dell’atto, nonché di permettere alla Corte di giustizia di esercitare il suo controllo di legalità (Corte giust. 8 febbraio 1968, 3/67, Fonderie Mandelli, 42). Il dispositivo di un atto è inoltre indissociabile dalla sua motivazione, perché questa è indispensabile a determinare la corretta interpretazione dello stesso dispositivo (Corte giust. 29 aprile 2004, C-298/00 P, Italia c. Commissione, I-4087, punto 97). Da questo punto di vista, la sufficienza della motivazione va valutata in rapporto alla natura dell’atto di cui si tratta, in quanto «la necessità di motivare varia a seconda che si tratti di decisioni generali di carattere normativo o di decisioni cui manchi tale carattere», per le quali in linea di principio la motivazione deve essere più dettagliata (Corte giust. 16 dicembre 1963, 18/62, Barge, 556); ma, ferma restando questa distinzione di massima, la Corte ha ritenuto ugualmente determinanti nella valutazione del rispetto dell’obbligo di motivazione – quale che sia l’atto interessato – il contesto normativo e di fatto nel quale questo è adottato, perché ad esempio il destinatario dello stesso è stato coinvolto nel procedimento di adozione o perché si tratta di un atto ripetitivo di una serie di identica portata (14 gennaio 1981, 819/79, Germania c. Commissione, 36). In quest’ultimo caso, «se è vero che una decisione della Commissione, qualora rientri nell’ambito di una prassi costante in materia, può essere motivata sommariamente, in particolare con un richiamo a tale prassi, nell’ipotesi in cui essa vada notevolmente al di là delle decisioni precedenti, spetta alla Commissione sviluppare esplicitamente l’iter logico seguito» (11 dicembre 2008, C295/07 P, Commissione c. Département du Loiret, I-9363, punto 44). Non può invece considerarsi capace di integrare la motivazione di un atto un’eventuale Dichiarazione adottata al momento dell’adozione dell’atto in questione, dato che «la motivazione [di un atto comunitario] deve figurare nell’atto stesso» (Corte giust. 16 novembre 2000, C-291/98 P, Sarriò c. Commissione, 9991, punto 350); e ciò tanto più quando la Dichiarazione provenga da una sola delle istituzioni da cui è emanato l’atto.
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Parte integrante della motivazione è l’indicazione della «base giuridica» dell’atto, la quale, soprattutto per gli atti di portata generale, contribuisce a fornire elementi essenziali per una migliore comprensione della portata e della validità dell’atto stesso. La menzione dell’articolo dei Trattati su cui quest’ultimo è fondato dà, infatti, conto della sussistenza e dei limiti della competenza delle istituzioni ad adottarlo, dell’effettivo rispetto del procedimento richiesto per l’adozione, nonché della riconducibilità dell’atto alle finalità e all’oggetto di quell’articolo (Corte giust. 16 giugno 1993, C-325/91, Francia c. Commissione, I-3283, punto 26). L’applicazione di un atto delle istituzioni è subordinata a una pubblicità preventiva che ne condiziona l’opponibilità ai soggetti dell’ordinamento (Corte giust. 25 gennaio 1979, 98/78, Racke, 69, punto 15). Come ha osservato infatti la Corte, «il principio di certezza del diritto esige che una normativa [dell’Unione] consenta agli interessati di conoscere esattamente la portata degli obblighi che essa impone loro», dato che i soggetti dell’ordinamento «devono poter conoscere senza ambiguità i propri diritti ed obblighi e regolarsi di conseguenza» (21 giugno 2007, C-158/06, ROM-projecten, I-5103, punto 25). E ciò «può essere garantito esclusivamente dalla regolare pubblicazione della suddetta normativa nella lingua ufficiale del destinatario» sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea (Corte giust. 11 dicembre 2007, C161/06, Skoma-Lux, punto 38). Nella sentenza 10 marzo 2009, C-345/06, Heinrich, I-1659, peraltro, la Corte di giustizia ha precisato che «l’osservanza di questi principi è necessaria con le stesse conseguenze quando una regolamentazione comunitaria obbliga gli Stati membri ad adottare, ai fini della sua attuazione, provvedimenti che impongano obblighi ai privati. Infatti, i provvedimenti adottati dagli Stati membri in esecuzione del diritto comunitario devono rispettare i principi generali di tale ordinamento. […] Di conseguenza, i provvedimenti nazionali che, in esecuzione di una regolamentazione comunitaria, impongono obblighi ai privati devono essere pubblicati affinché gli interessati possano prenderne conoscenza […]. [D]evono essere pubblicati, in una situazione del genere, non solo la normativa nazionale di cui trattasi, ma anche il regolamento comunitario che obbliga gli Stati membri ad adottare provvedimenti che impongano obblighi ai privati» (punti 45 e 47).
In realtà, come avviene anche in altri ordinamenti, la pubblicità degli atti è assicurata con modalità diverse a seconda del tipo di atto adottato dalle istituzioni. L’art. 297 TFUE impone la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale nel caso degli atti legislativi, nonché, al di fuori di questi, dei regolamenti, delle direttive indirizzate a tutti gli Stati membri e delle decisioni che non designano i propri destinatari; mentre per le altre direttive e per le decisioni che non rientrano in una delle categorie di cui sopra l’articolo prevede che sia sufficiente la notifica ai loro destinatari. Queste ultime sono di regola ugualmente oggetto di pubblicazione in Gazzetta, dato che il regolamento interno del Consiglio stabilisce che esse sono comunque pubblicate salvo decisione contraria del Consiglio o del COREPER (art. 17, par. 2). In compenso, con una previsione che non appare interamente in linea con l’art. 297 TFUE, perché non tiene conto del loro carattere generale o meno, lo stesso regolamento dispone che la pubblicazione delle decisioni adottate nell’ambito della PESC è comunque subordinata a una decisione «caso per caso» del Consiglio o del COREPER, da prendere all’unanimità nel caso delle decisioni basate sull’art. 25 TUE e a maggioranza qualificata per quelle di loro applicazione (art. 17, parr. 3 e 4).
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Se nulla di diverso è specificato nell’atto, questo entrerà in vigore, come stabilito sempre dall’art. 297 TFUE, il ventesimo giorno dalla sua pubblicazione o dal momento dell’avvenuta notifica.
11. a) I regolamenti Secondo la stessa definizione che ne dà l’art. 288, comma 2, TFUE, «il regolamento ha portata generale [,] è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri». Ciò ne fa, come ha avuto modo di osservare la Corte di giustizia, un atto che «ha natura essenzialmente normativa» (14 dicembre 1962, 16/62 e 17/62, Confédération nationale des producteurs des fruits et légumes e a. c. Consiglio, 893). Peraltro si tratta dell’atto, tra quelli enumerati nello stesso art. 288 TFUE, che meglio concretizza il trasferimento di competenze dagli Stati membri alle istituzioni dell’Unione, dato che attraverso il regolamento la normativa da queste adottata viene a sostituirsi integralmente, nel settore da essa regolato, alle norme nazionali; e dal momento in cui l’Unione emana regolamenti in quel settore, «gli Stati membri sono tenuti ad astenersi da qualsiasi provvedimento che deroghi a tali regolamenti o ne pregiudichi l’efficacia» (Corte giust. 2 febbraio 1977, 50/76, Amsterdam Bulb, punto 8). Proprio le caratteristiche elencate dall’art. 288 TFUE danno compiutamente conto di quanto ora osservato. Il regolamento ha prima di tutto portata generale, nel senso che, come ha precisato la Corte, tale atto si rivolge «non già ad un numero limitato di destinatari, indicati espressamente oppure facilmente individuabili, bensì a una o più categorie di destinatari determinate astrattamente e nel loro complesso» (sentenza 16/62 e 17/62, Confédération nationale des producteurs de fruits et des légumes e a. c. Consiglio, cit., 893). Ciò non significa che non debba essere possibile determinare, con maggiore o minore precisione, il numero o addirittura l’identità dei destinatari ultimi dell’atto, purché, naturalmente, «la qualità di destinatario dipenda da una situazione obiettiva di diritto o di fatto, definita dall’atto in relazione con la sua finalità» (Corte giust. 11 luglio 1968, 6/68, Zückerfabrik Watenstedt c. Consiglio, 550); in caso contrario, ci si troverebbe di fronte a «una pluralità di decisioni individuali […] sotto forma di regolamento» (Corte giust. 13 maggio 1971, da 41/70 a 44/70, International Fruit Company e a. c. Commissione, 471, punti 20-22). E benché essi abbiano in linea di principio, in quanto atti presi dalle istituzioni sulla base dei Trattati, lo stesso ambito di applicazione geografica di questi (Corte giust. 16 febbraio 1978, 61/77, Commissione c. Irlanda, 417), la portata generale dei regolamenti non sta nemmeno a significare che questo tipo di atto debba necessariamente applicarsi a tutto il territorio dell’Unione. Non mancano, infatti, esempi di regolamenti espressamente riguardanti solo uno Stato membro o comunque diretti a regolare fattispecie territorialmente circoscritte. Un esempio assai noto è quello dei regolamenti concernenti i Länder della ex Repubblica democratica tedesca, dopo la riunificazione della Germania (per tutti cfr. il reg. (CEE) n. 2684/90 del Consiglio, del 17 settembre 1990, relativo alle misure provvisorie applicabili dopo l’unifica-
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zione della Germania prima dell’adozione delle misure transitorie che devono essere prese dal Consiglio in cooperazione o consultazione con il PE, GUCE L 263, 1). Per la giurisprudenza rilevante al riguardo cfr. Corte giust. 13 marzo 1968, 30/67, Industria molitoria imolese e a. c. Consiglio, 156 (riguardante un regolamento del Consiglio che fissava i prezzi di intervento derivati per il grano tenero nei centri di commercializzazione di Bologna e Ancona); e 16 aprile 1970, 64/69, La Compagnie française commerciale et financière c. Commissione, 221 (concernente un regolamento della Commissione volto ad adeguare il funzionamento dei sistemi di intervento nel mercato agricolo alla svalutazione del franco francese del 1969).
Il regolamento è poi «obbligatorio in tutti i suoi elementi». Ciò comporta non solo che, com’è evidente, uno Stato non può «applicare in modo incompleto o selettivo un regolamento» (Corte giust. 7 febbraio 1979, 128/78, Commissione c. Regno Unito, 419, punto 9), ma anche che esso vi si deve conformare in maniera rigorosa (Corte giust. 11 febbraio 1971, 39/70, Norddeutsches Vieh- und Fleischkontor, 49), dato che questo tipo di atto non lascia ai suoi destinatari, a differenza di quanto si vedrà essere per le direttive, alcuna discrezionalità quanto al modo di applicare le sue norme. Tuttavia, tale caratteristica non implica necessariamente una completezza di contenuto normativo del regolamento. Nulla esclude infatti che, affinché la disciplina da esso dettata possa concretamente operare, la stessa debba essere oggetto di integrazione mediante atti ulteriori. Ciò può essere esplicitamente previsto dallo stesso regolamento, prevedendo ad esempio – come si vedrà parlando della delega di competenze normative alla Commissione e di competenze di esecuzione – la successiva emanazione di una normativa specifica di dettaglio di un regolamento di base; ovvero stabilendo che gli Stati membri debbano integrare la disciplina regolamentare con provvedimenti di loro competenza, quali quelli necessari a stabilire le misure sanzionatorie necessarie per assicurare l’applicazione effettiva di divieti sanciti dallo stesso regolamento. Un esempio ricorrente è quello dell’obbligo imposto agli Stati membri di adottare le misure sanzionatorie necessarie per assicurare l’applicazione effettiva di divieti sanciti da un regolamento. Cfr. in proposito Corte giust. 27 settembre 1979, 230/78, Eridania, 2749, punto 33 ss.; nonché 30 novembre 1978, 31/78, Bussone, 2429, punto 26 ss. Più recentemente la Corte (sentenza 11 gennaio 2001, C403/98, Monte Arcosu, I-103, punto 25 ss.) ha ricordato tale eventualità con riferimento alla disposizione di un regolamento che, per le persone diverse da quelle fisiche, lasciava agli Stati membri il compito di definire la nozione di imprenditore agricolo a titolo principale, tenendo conto dei criteri usati per le persone fisiche. V. anche Trib. 17 dicembre 2003, T-146/01, D.L.D. Trading, II-6005, punto 77 ss.
Ma anche là dove il regolamento nulla dica, potrebbe porsi la necessità di una tale integrazione; ed essa sarà comunque oggetto di un obbligo per gli Stati membri, visto che l’art. 4, par. 3, comma 2, TUE impone loro di prendere «ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi […] conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione». La Corte lo ha ricordato esplicitamente, sottolineando come «la facoltà di cui godono i cittadini di far valere le disposizioni di un regolamento dinanzi ai giudici nazionali non dispensa gli Stati membri dall’adottare le misure interne che permettano di assicurarne la piena e completa applicazione qualora ciò si renda necessario» (26 febbraio 2008, C-132/05, Commissione c. Germania, 957, punto 68).
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Nei casi ora indicati, tuttavia, un intervento normativo degli Stati membri si giustifica esclusivamente «solo per quanto sia necessario all’attuazione dei regolamenti» (sentenza Norddeutsches Vieh- und Fleischkontor, cit., punto 4), senza che le misure prese a livello nazionale possano in alcun caso sostituirsi alle norme di questi. L’ultima, ma certamente la principale caratteristica dei regolamenti è, infatti, la loro diretta applicabilità «in ciascuno degli Stati membri». Essa sta a significare che «l’entrata in vigore [del regolamento] e la sua applicazione nei confronti degli amministrati non abbisognano di alcun atto di ricezione nel diritto interno» (Corte giust. 10 ottobre 1973, 34/73, F.lli Variola, 981, punto 10). Quest’ultima eventualità è anzi addirittura incompatibile con il diritto dell’Unione, dato che deve ritenersi in contrasto con i Trattati ogni forma di attuazione che possa avere la «conseguenza di ostacolare l’efficacia diretta dei regolamenti […] e di comprometterne quindi la simultanea ed uniforme applicazione nell’intera» Unione europea (Corte giust. 7 febbraio 1973, 39/72, Commissione c. Italia, 101, punto 17). Questo sarebbe l’effetto anche di una legge interna meramente riproduttiva di un regolamento dell’Unione, la quale potrebbe finire per condizionare o differire l’entrata in vigore del regolamento che riproduce, e comunque potrebbe «nascondere», come ha a suo tempo osservato la Corte di giustizia in relazione ai regolamenti della Comunità europea, «la natura comunitaria» delle relative norme agli occhi degli amministrati e degli operatori interni, ostacolando le possibilità di ricorso ai meccanismi giurisdizionali dell’Unione (sentenza F.lli Variola, cit., punto 11). L’applicabilità diretta dei regolamenti comporta che essi sono per loro stessa natura suscettibili di porre situazioni giuridiche soggettive in capo ai privati, tanto nei loro rapporti con altri privati (Corte giust. 12 dicembre 1974, 36/74, Walrave, 1420), che nei rapporti con gli Stati o le istituzioni dell’Unione. Questi effetti non possono essere messi in causa nemmeno dal fatto che per l’ordinamento dello Stato sarebbe necessario un ulteriore intervento normativo per permettere il pieno operare della disciplina regolamentare. Come ha precisato infatti la Corte, «i regolamenti […] entrano a far parte dell’ordinamento giuridico nazionale, il quale deve rendere possibile l’efficacia diretta di cui [all’art. 189 TCEE (poi art. 249 TCE, ora art. 288 TFUE)], di guisa che i singoli possono farli valere senza vedersi opporre delle disposizioni o prassi di carattere nazionale»; ad esempio, com’era nel caso di specie, norme di bilancio dello Stato non potrebbero «ostare all’efficacia immediata di una disposizione comunitaria né, di conseguenza, all’esercizio immediato dei diritti soggettivi che detta disposizione attribuisca ai singoli» (17 maggio 1972, 93/71, Leonesio, 287, punti 22-23). Tuttavia, rispetto all’eventualità, sopra ricordata, che sia lo stesso regolamento a richiedere, per l’applicazione di talune sue disposizioni, l’adozione di misure di esecuzione da parte degli Stati membri, la stessa Corte ha ammesso che «il margine di valutazione» lasciato a questi ultimi può essere tale da far escludere «che i privati possano far valere diritti sulla base di tali disposizioni in assenza di misure di esecuzione adottate dagli Stati membri» (11 gennaio 2001, C-403/98, Monte Arcosu, I103, punto 28).
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12. b) Le direttive Se il regolamento dà conto di un sistema di competenze basato sulla concentrazione del potere normativo nelle mani delle istituzioni dell’Unione, lo strumento della direttiva esprime invece un modo di funzionamento delle competenze dell’Unione articolato su di una ripartizione di quel potere tra questa e gli Stati membri. La direttiva opera, infatti, sulla base di una riserva di competenza a favore di questi ultimi, nel senso che essa implica la permanenza di normative nazionali e, sia pure nei limiti delle finalità da realizzare, una parziale varietà delle stesse. Secondo l’art. 288, comma 3, TFUE, in effetti, questo strumento «vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi»; definizione che comporta che, per poter svolgere i suoi effetti all’interno dello Stato, la direttiva abbisogna dell’intervento delle autorità nazionali alle quali spetta il compito di tradurre in norme interne le sue disposizioni. Per la verità, in molti casi la riserva di competenza a favore degli Stati può risultare molto ridotta sul piano sostanziale. Non è raro, infatti, che le direttive presentino un contenuto tanto dettagliato da far apparire molto esigui i margini di discrezionalità degli Stati nella traduzione delle stesse in disposizioni di diritto nazionale. La Corte di giustizia non ha considerato questa prassi di per sé in contrasto con il dettato dell’art. 288 TFUE, almeno nella misura in cui la direttiva dettagliata intervenga in un settore in cui «la realizzazione di una rigorosa identità fra le disposizioni» nazionali si riveli indispensabile al risultato da raggiungere (23 novembre 1977, 38/77, Enka, 2203, punto 12). Così come essa ha ritenuto che in talune materie, quale la tutela dell’ambiente, l’accuratezza del recepimento da parte dello Stato è particolarmente importante, imponendo una riproduzione formale e letterale delle sue norme nell’ordinamento nazionale (20 ottobre 2005, C-6/04, Commissione c. Regno Unito, I-9017, punto 25 ss.). Al di fuori di questa ipotesi, è però indubbio che la direttiva dovrebbe essere costruita in modo da dar luogo a una armonizzazione, più che all’identità delle legislazioni nazionali che ne conseguono, e la sua trasposizione nel diritto interno non dovrebbe necessariamente riguardare anche quelle, tra le sue norme, che riguardano unicamente i rapporti tra lo Stato e le istituzioni dell’Unione, quali quelle che pongono in capo al primo, ad esempio, un obbligo di trasmettere rapporti alla Commissione (Corte giust. 24 giugno 2003, C-72/02, Commissione c. Portogallo, I-6597, punto 19 s.). L’attuazione delle direttive nell’ordinamento interno è quindi oggetto di un preciso obbligo che gli Stati membri sono tenuti ad adempiere mediante l’emanazione e la comunicazione alla Commissione, entro il termine che ciascuna direttiva imperativamente stabilisce, di un atto di recepimento della stessa (Corte giust. 27 aprile 1989, 324/87, Commissione c. Italia, 1103). Benché l’art. 288 TFUE sembri lasciare una notevole latitudine agli Stati quanto alla scelta delle modalità formali atte a soddisfare questo obbligo, la giurisprudenza del Lussemburgo è venuta a porre dei limiti a tale scelta. La Corte di giustizia ha, infatti, precisato che l’attuazione di una direttiva nell’ordinamento nazionale non solo
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deve avvenire con «le forme e i mezzi più idonei a garantire l’efficacia reale» (8 aprile 1976, 48/75, Royer, 497, punto 69 ss.) delle disposizioni della direttiva, ma deve anche corrispondere «pienamente alle esigenze di chiarezza e di certezza delle situazioni giuridiche volute» da tale atto (6 maggio 1980, 102/79, Commissione c. Belgio, 1473, punto 11). Per cui la Corte ha indicato nell’emanazione da parte dell’autorità nazionale competente di un atto vincolante a carattere normativo equivalente a quello che sarebbe stato preso nel diritto interno per realizzare spontaneamente un obiettivo analogo a quello voluto dalla direttiva (15 marzo 1990, C-339/87, Commissione c. Paesi Bassi, 880), la via più corretta per la trasposizione di questa nell’ordinamento degli Stati membri. È stata ad esempio esclusa l’idoneità a questo scopo di una «semplice circolare» (Corte giust. 2 dicembre 1986, 239/85, Commissione c. Belgio, 3645, punto 7) o di «semplici prassi amministrative, per loro natura modificabili a piacimento dell’amministrazione e prive di una adeguata pubblicità» (Corte giust. 10 maggio 2007, C-508/04, Commissione c. Austria, I-3787, punto 80); e ciò anche quando, per effetto dei principi del diritto pubblico di uno Stato membro, una pratica seguita dall’amministrazione e consistente nel rinunciare all’esercizio di un potere discrezionale conferito dalla legge può avere un carattere irreversibile e far nascere diritti suscettibili di essere invocati in giudizio: mancherebbe comunque «una situazione sufficientemente precisa, chiara e trasparente che permetta ai cittadini degli altri Stati membri di sapere quali siano i loro diritti e di avvalersene» (Corte giust. 23 maggio 1985, 29/84, Commissione c. Germania, 1661, punto 28). Quanto invece all’individuazione dell’organo nazionale competente, ancora la Corte ha precisato come «ciascuno Stato membro sia libero di ripartire nel modo che ritiene opportuno le competenze sul piano interno e di dare attuazione ad una direttiva mediante provvedimenti adottati dalle autorità regionali o locali» (sentenza 25 maggio 1982, 96/81, Commissione c. Paesi Bassi, 1791, punto 12).
Le stesse esigenze di chiarezza e di certezza sono state peraltro prospettate anche con riferimento all’eventualità che l’ordinamento nazionale sia già di per sé conforme a una determinata direttiva o comunque consenta il risultato da essa voluto. La Corte ha sì ammesso che una situazione del genere può far ritenere in linea di principio soddisfatto l’obbligo di attuazione gravante sullo Stato, senza bisogno che quest’ultimo debba procedere all’emanazione di un provvedimento di trasposizione formale della direttiva. Tuttavia essa ha subordinato la valutazione di superfluità di tale trasposizione alla condizione che le norme interne previgenti «garantiscano effettivamente la piena applicazione della direttiva ad opera dell’amministrazione nazionale e che, qualora la direttiva miri ad attribuire dei diritti ai singoli, la situazione giuridica scaturente da detti principi sia sufficientemente precisa e chiara e che i destinatari siano posti in grado di conoscere la piena portata dei loro diritti ed eventualmente di avvalersene dinanzi ai giudici nazionali» (23 maggio 1985, 29/84, Commissione c. Germania, cit., punto 23). Nella stessa sentenza la Corte ha fatto riferimento all’esistenza nello Stato di «principi generali di diritto costituzionale o amministrativo» che possono rendere «superflua la trasposizione mediante provvedimenti legislativi o regolamentari specifici» (punto 23). In altre sue pronunce la Corte ha parlato di esistenza di «un contesto giuridico generale [che] garantisca effettivamente la piena applicazione della direttiva» (per tutte sentenza 9 aprile 1987, 363/85, Commissione c. Italia, 1733, punto 7; e successivamente 6 aprile 2006, C-428/04, Commissione c. Austria, I-3325, punto 99). In
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tali casi lo Stato membro è comunque tenuto a comunicare alla Commissione, prima della scadenza del termine impartito per la trasposizione della direttiva, le ragioni che rendono inutile l’adozione di nuove misure di esecuzione, così da consentire alla Commissione di esprimersi in merito (Corte giust. 13 dicembre 1991, C-69/90, Commissione c. Italia, I-6011, punto 14 s.). Si veda inoltre Corte giust. 5 luglio 2007, C-321/05, Kofoed, I-5795, punto 40 ss.
La chiarezza e la precisione richieste per soddisfare questa esigenza di certezza giuridica devono peraltro essere caratteristiche intrinseche della normativa nazionale in questione, e non possono essere surrogate dal fatto che esista una giurisprudenza nazionale consolidata che interpreti le disposizioni di diritto interno in un senso conforme alle esigenze della direttiva dell’Unione (Corte giust. 10 maggio 2001, C144/99, Commissione c. Paesi Bassi, I-3541, punto 21). E in ogni caso, quando la direttiva imponga espressamente agli Stati membri di adottare disposizioni le quali contengano un riferimento alla detta direttiva o che siano corredate da detto riferimento, una legislazione nazionale preesistente non può considerarsi sufficiente ad assicurare la piena trasposizione (Corte giust. 27 novembre 1997, C-137/96, Commissione c. Germania, I-6749, punto 8). i) Il fatto che lo strumento della direttiva richieda comunque una mediazione del diritto interno per operare nell’ordinamento degli Stati membri, non esclude che, anche indipendentemente da quella mediazione, norme di una direttiva possano esplicare effetti in tale ordinamento, in particolare aprendo ai privati la possibilità di far valere dinanzi ai giudici nazionali obblighi che le norme in questione pongano a carico dello Stato. Come la Corte ha ormai da tempo affermato, «nei casi in cui le autorità [dell’Unione] abbiano, mediante direttive, obbligato gli Stati membri ad adottare un determinato comportamento, la portata dell’atto sarebbe ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di diritto» dell’Unione (4 dicembre 1974, 41/74, Van Duyn, 1337, punto 12). La giurisprudenza della Corte ha tuttavia costruito la possibilità che le direttive esplichino effetti diretti non come un’estensione alle stesse del carattere di immediata applicabilità che l’art. 288 TFUE riconosce espressamente ai soli regolamenti. La Corte ha, infatti, ricordato che la possibilità che si abbiano effetti diretti costituisce niente più che una «garanzia minima» a vantaggio degli individui, che non è alternativa al fatto che, ai sensi dello stesso art. 288, l’esecuzione delle direttive, pur dove produttive di effetti diretti, debba comunque essere assicurata dagli Stati membri con l’adozione di misure di applicazione appropriate (6 maggio 1980, 102/79, Commissione c. Belgio, 1473, punto 12); per cui «in tutti i casi in cui [una direttiva] è correttamente attuata, [essa] produce effetti nei confronti dei singoli attraverso le disposizioni di esecuzione adottate dallo Stato membro interessato» (15 luglio 1982, 270/81, Felicitas, 2771, punto 24). Solo quando quell’attuazione non vi sia stata o sia avvenuta in modo incompleto, il singolo deve potere avvalersi in giudizio dei diritti che la direttiva gli vuole riconosciuti, fondandoli direttamente sulle disposizioni di questa. In caso contrario lo Stato membro finirebbe per giovarsi del proprio inadempimento all’obbligo di trasposizione della direttiva per non far fronte agli obblighi che questa gli pone verso il singolo (Corte giust. 5 aprile 1979, 148/78, Ratti, 1629, punto 20 ss.).
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È quindi solo dalla scadenza del termine dato agli Stati per l’attuazione di una data direttiva che questa potrà esplicare effetti diretti nell’ordinamento nazionale, perché solo a partire da allora potrà essere valutata l’esistenza e la misura precisa dell’adempimento a quell’obbligo. Prima di allora, del resto, l’unico obbligo che grava sugli Stati è quello di «astenersi dall’adottare disposizioni che possano gravemente compromettere la realizzazione del risultato che la direttiva prescrive» (Corte giust. 18 dicembre 1997, C-129/96, Inter-Environnement Wallonie, I-7411, punti 47-48); obbligo che peraltro si impone anche ai giudici nazionali, i quali devono comunque astenersi per quanto possibile da interpretazioni del diritto interno suscettibili di compromettere gravemente, dopo la scadenza del termine di attuazione, la realizzazione del risultato voluto dalla direttiva (Corte giust. 23 aprile 2009, C-261/07 e C299/07, VTB-VAB e Galatea, I-2949, punti 38-39). Va inoltre notato che, secondo la Corte, «il giudice nazionale dovrà accertare, in particolare, se le disposizioni [interne adottate prima della scadenza del termine] si presentino come completa trasposizione della direttiva ed esaminare gli effetti concreti dell’applicazione di queste disposizioni non conformi alla direttiva e della loro durata nel tempo. Ad esempio, ove le disposizioni di cui trattasi si presentino come trasposizione definitiva e completa della direttiva, la loro difformità potrebbe far presumere che il risultato da questa prescritto non sarà realizzato entro i termini stabiliti se una loro modifica in tempo utile risulti impossibile» (18 dicembre 1997, C-129/96, InterEnvironnement Wallonie, cit., punti 47-48).
Ferma restando la condizione di portata generale dell’avvenuta scadenza del termine dato agli Stati per l’attuazione della direttiva, l’adozione entro quel termine di misure nazionali di trasposizione non comporta l’esaurimento degli effetti della direttiva, dato che gli Stati rimangono obbligati ad assicurarne effettivamente la piena applicazione anche dopo l’adozione di quelle misure. Di conseguenza, i singoli sono legittimati a invocare direttamente dinanzi ai giudici nazionali le disposizioni di una direttiva, al fine di garantirne la piena applicazione, non solo in caso di mancata o inesatta trasposizione della direttiva, ma anche nell’ipotesi che le misure nazionali di trasposizione non vengano applicate in modo tale da garantire il risultato al quale la direttiva è rivolta (Corte giust. 11 luglio 2002, C-62/00, Marks & Spencer, I-6325, punto 27). Va naturalmente precisato che eventuali effetti diretti di una direttiva non possono considerarsi propri di questa in quanto tale, ma solo di sue specifiche disposizioni, nella misura in cui le stesse presentino caratteristiche tali da potere essere concretamente applicate dal giudice dinanzi al quale siano invocate. Ciò comporta che appare necessario esaminare caso per caso «se la natura, lo spirito e la lettera della disposizione di cui trattasi consentano di riconoscerle efficacia immediata nei rapporti fra gli Stati membri e i singoli» (sentenza Van Duyn, cit., punto 12). E le caratteristiche dalle quali la Corte fa dipendere l’esistenza di tale efficacia sono nella sostanza le stesse sulle quali essa ha fondato il riconoscimento di effetti diretti di norme del Trattato: la disposizione invocata deve cioè avere un contenuto precettivo sufficientemente chiaro e preciso, e non condizionato o subordinato, per quanto riguarda la sua osservanza o i suoi effetti, all’emanazione di atti ulteriori da parte delle istituzioni dell’Unione o degli Stati membri (23 febbraio 1994, C-236/92, Comitato di coordinamento per la difesa della cava e a., I-483, punto 9).
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Con la sentenza 19 gennaio 1982, 8/81, Becker, 53, punto 29 s., è stato peraltro osservato che, «benché la … direttiva [nella specie la sesta direttiva relativa all’imposta sul valore aggiunto] implichi incontestabilmente, a favore degli Stati membri, un margine di discrezionalità più o meno ampio per l’attuazione di talune delle sue disposizioni, non si può tuttavia negare ai singoli il diritto d’invocare quelle disposizioni che, tenuto conto del loro specifico oggetto, sono atte ad essere isolate dal contesto e applicate come tali [...]. Non si può quindi far valere il carattere generale della direttiva di cui trattasi, o l’ampiezza del potere discrezionale ch’essa lascia d’altra parte agli Stati membri, per negare qualsiasi efficacia a quelle disposizioni che, tenuto conto del loro oggetto, sono atte ad essere utilmente fatte valere in giudizio, nonostante il fatto che la direttiva non sia stata attuata nel suo complesso»). La Corte ha anche osservato che «così come un singolo deve poter far valere il diritto che trae da una disposizione precisa e incondizionata di una direttiva qualora tale disposizione sia separabile da altre disposizioni della stessa direttiva che non siano, quanto ad esse, allo stesso modo precise e incondizionate, lo stesso deve essere legittimato a far valere le disposizioni che gli conferiscono in maniera precisa e incondizionata la qualità di beneficiario di una direttiva, una volta completamente utilizzato il potere discrezionale riconosciuto allo Stato membro nei confronti di altre disposizioni di tale direttiva a la cui mancata attuazione costituiva il solo ostacolo all’esercizio effettivo del diritto conferito al singolo dalla direttiva» (sentenza 18 ottobre 2001, C-441/99, Gharehveran, I-7687, punto 44).
ii) A differenza tuttavia da quanto si è visto affermato rispetto alle norme dei Trattati, nel caso delle direttive la giurisprudenza della Corte ha limitato la possibilità dei privati di far valere eventuali effetti diretti di norme di queste soltanto alle ipotesi che ciò avvenga nei confronti dello Stato; è cioè escluso che queste stesse norme possano essere fonte diretta di diritti individuali nei confronti di altri privati (10 marzo 2005, C-235/03, QDQ Media, I-1937, punto 16), a meno che una determinata direttiva non dia applicazione a un principio generale del diritto dell’Unione che esplichi lui, in quanto tale, effetti diretti anche orizzontali. In questo caso infatti, come ha osservato la Corte (22 novembre 2005, C-144/04, Mangold, I9981), tali effetti derivano dal principio e non dalla direttiva: «la [dir. 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GUCE L 303, 16)] non sancisce essa stessa il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro. Infatti, tale direttiva, ai sensi del suo art. 1, ha il solo obiettivo di “stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”, dal momento che il principio stesso del divieto di siffatte forme di discriminazione, come risulta dai “considerando” 1 e 4 della detta direttiva, trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. […] Di conseguenza, il rispetto del principio generale della parità di trattamento, in particolare in ragione dell’età, non dipende, come tale, dalla scadenza del termine concesso agli Stati membri per trasporre una direttiva intesa a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sull’età» (punti 74 e 76).
Allo stesso modo la Corte ha escluso che, in assenza di trasposizione, le direttive possano essere fatte valere in quanto tali dallo Stato membro contro singoli (3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e a., I-3565, punti 73-74), opponendo ad esempio loro, a fini penali, i limiti derivanti da disposizioni di una direttiva, ovvero pretendendo da loro l’esecuzione di obblighi da questa scaturenti (9 aprile 2004, C-102/02, Beuttenmüller, I-3565, punto 63). La negazione di possibili effetti diretti «orizzontali» – o «verticali all’inverso»
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(dallo Stato contro il privato) – delle direttive è stata formalmente motivata sulla circostanza che, vincolando in base all’art. 288 TFUE solo gli Stati – che ne sono peraltro anche gli unici destinatari –, «la direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo» (Corte giust. 26 febbraio 1986, 152/84, Marshall, 723, punto 48); in caso contrario, è detto in una nota sentenza, si finirebbe per «riconoscere in capo [all’Unione] il potere di emanare norme che facciano sorgere con effetto immediato obblighi a carico di questi ultimi, mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di adottare regolamenti» (14 luglio 1994, C-91/92, Faccini Dori, I-3325, punto 24). La limitazione degli effetti diretti delle direttive ai soli effetti verticali sembrerebbe del resto giustificarsi anche alla luce dell’argomento che gli effetti diretti valgono ad impedire che lo Stato inadempiente al suo obbligo di trasporre la direttiva possa giovarsene a discapito del singolo: il carattere quasi «sanzionatorio» nei confronti dello Stato di questi effetti non giustificherebbe una loro estensione ai rapporti tra privati (sentenza Marshall, cit., punto 47). Va anche detto, però, che la Corte ha ritenuto applicabili tali effetti anche ai rapporti in cui lo Stato non si presenta come autorità pubblica, ammettendo ad esempio la possibilità di un lavoratore di invocare disposizioni di una direttiva inattuata nei confronti del proprio datore di lavoro, in ragione della qualità di azienda pubblica di questo; ovvero a quei casi in cui la direttiva venga fatta valere nei confronti di un privato al quale lo Stato abbia affidato l’esercizio, sotto il suo controllo (diretto o indiretto), di un servizio di interesse pubblico e che disponga a tal fine di poteri che oltrepassino quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti fra singoli. Se ne veda un esempio in relazione ad una concessionaria autostradale controllata dallo Stato austriaco, in Corte giust. 5 febbraio 2004, C-157/02, Rieser Internationale Transporte, I-1477, punto 24. Più in generale la Corte (12 luglio 1990, C-188/89, Foster, I-3313) ha osservato che «fa comunque parte degli enti ai quali si possono opporre le norme di una direttiva idonea a produrre effetti diretti un organismo che, indipendentemente dalla sua forma giuridica, sia stato incaricato, con un atto della pubblica autorità, di prestare, sotto il controllo di quest’ultima, un servizio di interesse pubblico e che dispone a questo scopo di poteri che eccedono i limiti di quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti fra singoli» (punto 20). V. anche, successivamente, sentenze 18 novembre 2010, C250/09 e C-268/09, Georgiev, I-11869, punto 70; e 10 maggio 2011, C-147/08, Römer, I-3591, punto 55: «qualora sussistano i presupposti necessari affinché i singoli possano invocare le disposizioni di una direttiva dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato, essi possono farlo indipendentemente dalla veste nella quale agisce quest’ultimo, ossia datore di lavoro o pubblica autorità».
Nel quadro di un’interpretazione ampia della funzione sanzionatoria degli effetti diretti, ciò può apparire sostanzialmente giustificato; anche se il risultato può essere quello, al contrario non del tutto giustificabile, di una discriminazione tra i beneficiari dei diritti che la direttiva vorrebbe tutelare, a seconda della natura pubblica o privata del titolare dell’obbligo corrispondente. iii) L’obbligo gravante sugli Stati membri di conseguire il risultato voluto da una direttiva non si esaurisce con la trasposizione formale di questa nell’ordinamento nazionale da parte degli organi normativi, ma si impone anche agli altri organi dello Stato, i quali sono perciò tenuti a garantire, nell’ambito di loro competenza, l’ap-
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plicazione effettiva della direttiva. Questo obbligo vale in particolare per gli organi giurisdizionali, i quali, «a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva», devono «nella misura del possibile interpretare il diritto interno, a partire dalla scadenza del termine di attuazione, alla luce del testo e della finalità della direttiva di cui trattasi al fine di raggiungere i risultati perseguiti da quest’ultima, privilegiando l’interpretazione delle disposizioni nazionali che è maggiormente conforme a tale finalità, per giungere così ad una soluzione compatibile con le disposizioni della detta direttiva» (Corte giust. 4 luglio 2006, C-212/04, Adeneler e a., I-6057, punto 124). L’esigenza di un’interpretazione conforme del diritto nazionale attiene infatti al sistema dei Trattati, «in quanto permette ai giudici nazionali di assicurare, nell’ambito delle rispettive competenze, la piena efficacia del diritto dell’Unione quando risolvono le controversie ad essi sottoposte» (Corte giust. 24 maggio 2012, C-97/11, Amia, punto 28). Tanto che la questione se una disposizione nazionale contraria al diritto dell’Unione debba essere disapplicata, «si pone solo se non risulta possibile alcuna interpretazione conforme di tale disposizione» (Corte giust. 24 gennaio 2012, C-282/10, Dominguez, punto 23). Ciò vale a maggior ragione quando la controversia sottoposta al giudice nazionale verte sull’applicazione di norme interne che sono state introdotte proprio al fine di recepire una direttiva volta a conferire diritti ai singoli: si deve, infatti, «presumere che lo Stato, essendosi avvalso del margine di discrezionalità di cui gode in virtù di tale norma, abbia avuto l’intenzione di adempiere pienamente gli obblighi derivanti dalla direttiva considerata» e pertanto il giudice nazionale deve poter prendere «in considerazione tutto il diritto nazionale per valutare in quale misura possa essere applicato in modo tale da non addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la direttiva» (Corte giust. 5 ottobre 2004, da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., I8835, punto 115). Il risultato può essere quindi che, anche in assenza di effetti diretti orizzontali, una direttiva non attuata nello Stato finisca in realtà per esplicare la sua efficacia sui rapporti tra privati, grazie all’interpretazione conforme che, quando possibile, il giudice è tenuto a dare alla normativa interna applicabile a quei rapporti. Se ne veda un es. nella sentenza 13 novembre 1990, C-106/89, Marleasing, I-5135, dove la Corte ha affermato l’obbligo del giudice spagnolo di «interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della [dir. 68/151/CEE del Consiglio, del 9 marzo 1968, intesa a coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società a mente dell’art. 58, comma 2, TCEE per proteggere gli interessi dei soci e dei terzi (GUCE L 65, 8), direttiva che non risultava ancora attuata in Spagna], al fine di impedire la dichiarazione di nullità di una società per azioni per una causa diversa da quelle elencate all’art. 11» della direttiva in questione (punto 7). Nella sentenza 26 settembre 1996, C-168/95, Arcaro, I-4705, la Corte ha però precisato che l’obbligo «del giudice nazionale di fare riferimento al contenuto della direttiva nell’interpretare le norme rilevanti del suo diritto nazionale incontra un limite qualora tale interpretazione comporti che ad un singolo venga opposto un obbligo previsto da una direttiva non trasposta ovvero, a maggior ragione, qualora abbia l’effetto di determinare o aggravare, in forza della direttiva e in mancanza di una legge emanata per la sua attuazione, la responsabilità penale di coloro che ne trasgrediscono le disposizioni» (punto 42).
Il rischio è però che, dipendendo quella efficacia dall’attività interpretativa del giudice nazionale, prima dell’intervento di questo possa esservi incertezza per i pri-
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vati con riguardo a quale tra le due normative (quella nazionale e quella della direttiva) conformare la propria condotta. Ad ogni modo, l’obbligo di interpretazione conforme trova il suo limite «nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale» (Corte giust. 15 aprile 2008, C-268/06, Impact, I-2483, punto 100). Questi principi ostano in particolare a che detto obbligo possa condurre «a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione quadro e indipendentemente da una legge adottata per l’attuazione di quest’ultima, la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni» (Corte giust. 16 giugno 2005, C-105/03, Pupino, I-5285, punto 45). Fermo restando questo limite, l’obbligo di interpretazione conforme impone ai giudici nazionali di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi dell’atto dell’Unione; e nel caso in cui l’interpretazione conforme sia ostacolata da un’«interpretazione data a siffatta disposizione nazionale da [una sentenza interpretativa] di ultima istanza …, [un giudice] deve assicurare la piena efficacia della decisione quadro disapplicando ove necessario, di propria iniziativa, l’interpretazione accolta dal giudice nazionale di ultima istanza, allorché tale interpretazione non è compatibile con il diritto dell’Unione» (Corte giust. 29 giugno 2017, C-579/15, Poplawski, punto 35 s.).
13. c) Le decisioni La decisione è il terzo degli atti normativi tipici elencati nell’art. 288 TFUE, il quale la definisce come «obbligatoria in tutti i suoi elementi» (comma 4). Fino al Trattato di Lisbona, l’art. 249 TCE specificava che tale obbligatorietà sussisteva solo «per i destinatari da essa designati». Con un significativo cambiamento l’art. 288 TFUE dispone invece ora che la decisione «[s]e designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi», facendo così della decisione un atto ambivalente, suscettibile cioè di avere, a seconda dei casi, portata individuale o generale, o anche indefinita. La modifica riflette e formalizza un’evoluzione che questo tipo di atto dell’Unione aveva già conosciuto negli anni precedenti. La decisione nasce, infatti, nel sistema originario dei Trattati, come un atto a portata spiccatamente individuale, perché chiamato ad assolvere all’interno di quel sistema una funzione precisa, e ben distinta da quella degli altri strumenti giuridici a disposizione delle istituzioni. Quel suo originario carattere la connotava, in effetti, come l’espressione di un’attività amministrativa dell’Unione. Questa è del resto stata ed è ancora oggi la sua vocazione principale. La decisione è lo strumento per mezzo del quale le istituzioni comunemente provvedono ad applicare al caso concreto le previsioni normative astratte contenute nei Trattati o in altri atti dell’Unione. E ciò, tanto che questa applicazione concreta si debba avere nei confronti di soggetti privati (si pensi alle decisioni indirizzate dalla Commissione alle imprese in materia di concorrenza in base all’art. 105 TFUE), quanto che suoi destinatari siano gli stessi Stati membri (come avviene, rimanendo nello stesso ambi-
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to, nel caso delle decisioni loro indirizzate ai sensi dell’art. 108 dello stesso Trattato, in relazione alla compatibilità o meno con l’art. 107 TFUE di aiuti pubblici concessi a una o più imprese). Questa vocazione bene si lega, d’altronde, con i caratteri specificamente attribuiti in origine alla decisione. Si tratta di atto a portata individuale come la direttiva, ma a differenza di questa, che si rivolge ai soli Stati membri, essa non ha destinatari predeterminati e può indirizzarsi a tutte le categorie di soggetti del diritto dell’Unione; e ancora a differenza della direttiva, la decisione appare comunque dotata dell’efficacia necessaria a «raggiungere» i suoi destinatari: vincolando questi pur quando essi siano soggetti interni agli Stati membri, essa risulta, infatti, in questi casi, direttamente applicabile negli ordinamenti giuridici nazionali al pari dei regolamenti, fino al punto di costituire, nel caso in cui essa imponga ai singoli obblighi pecuniari, titolo esecutivo da far valere negli Stati membri attraverso le procedure nazionali (art. 299 TFUE). In realtà, a differenza del precedente testo, contenuto nell’art. 256 TCE, il nuovo articolo non parla più di decisioni, ma genericamente di «atti»; è però evidente, per le considerazioni svolte (v. retro, p. 163) in relazione ai criteri che guidano le istituzioni nella scelta dell’atto da utilizzare quando un articolo dei Trattati non predetermina lo strumento cui ricorrere, che proprio per la sua vocazione indicata nel testo le istituzioni si avvarranno in linea di principio della decisione anche sotto l’impero dell’attuale art. 299.
Anche le decisioni indirizzate agli Stati membri possono, peraltro, esplicare effetti diretti nell’ordinamento nazionale. La Corte di giustizia lo ha affermato con espressioni analoghe a quelle che si è visto essere state utilizzate con riferimento alle direttive. Anche per le decisioni, infatti, la Corte ha osservato che il carattere obbligatorio sancito allora dall’art. 249 TCE e ora dall’art. 288 TFUE «s’impone a tutti gli organi dello Stato destinatario», e che «le giurisdizioni nazionali devono astenersi dall’applicare ogni disposizione interna […] la cui attuazione sarebbe suscettibile d’ostacolare l’esecuzione di una decisione» dell’Unione (21 maggio 1987, 249/85, Albako, 2345, punto 17). E al pari che per le direttive, essa ha concluso che «le disposizioni di una decisione del Consiglio hanno efficacia immediata nei rapporti tra gli Stati membri ed i singoli, in quanto esse producono, nei confronti di questi ultimi, diritti che i giudici nazionali hanno il dovere di tutelare, allorché dette disposizioni impongono agli Stati membri un obbligo assoluto e sufficientemente chiaro e preciso» (12 dicembre 1990, C100/89 e C-101/89, Kaefer e Procacci, I-4647, punto 24). Ma, sempre in linea con la giurisprudenza più ampiamente formatasi in materia di direttive, anche nel caso delle decisioni indirizzate agli Stati membri la Corte ha escluso la possibilità di ricavarne effetti diretti orizzontali: esse sono vincolanti solo per gli Stati che ne sono i destinatari e le loro norme non possono essere quindi fatte valere, imponendogli obblighi, nei confronti di un singolo (7 giugno 2007, C-80/06, Carp, I-4473, punto 21). Per una prima eloquente affermazione rispetto agli effetti delle decisioni si veda comunque Corte giust. 6 ottobre 1970, 9/70, Grad: «sarebbe in contrasto con la forza obbligatoria attribuita [dall’art. 189 TCEE (ora art. 288 TFUE)] alla decisione l’escludere, in generale, la possibilità che l’obbligo da essa imposto sia fatto valere dagli eventuali interessati. In particolare, nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante decisione, obbligato uno Stato membro o tutti gli Stati
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membri ad adottare un determinato comportamento, la portata dell’atto sarebbe ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di diritto comunitario. Gli effetti di una decisione possono non essere identici a quelli di una disposizione contenuta in un regolamento, ma tale differenza non esclude che il risultato finale, consistente nel diritto del singolo di far valere in giudizio l’efficacia dell’atto, sia lo stesso nei due casi» (punto 5).
Ferma restando la loro vocazione a essere usate come strumento di un’azione amministrativa, già nel quadro dei precedenti Trattati le decisioni erano sovente utilizzate, nonostante la descrizione fattane dall’art. 249 TCE, in chiave più propriamente normativa. Talvolta ciò è avvenuto con l’adozione di decisioni indirizzate a tutti gli Stati membri, con cui si specificava, ad esempio nel quadro dell’esercizio delle competenze di esecuzione della Commissione, la disciplina di dettaglio di procedure previste in un regolamento o in una direttiva. Più frequentemente, però, si è cominciato a far uso di decisioni costruite direttamente come atti generali. Ciò si è verificato tutte quelle volte in cui si trattava di assumere disposizioni non destinate a esplicare efficacia negli ordinamenti degli Stati membri, perché rivolte essenzialmente alle stesse istituzioni dell’Unione o agli Stati membri in quanto attori della vita istituzionale di questa. Prima del Trattato di Lisbona, decisioni di questo tipo sono diventate gradualmente la regola per l’adempimento di compiti strutturali – nomina di membri delle istituzioni, decisioni di scarico per l’esecuzione del bilancio (art. 276 TCE), ecc. – o per la regolazione di questioni tipicamente istituzionali – fissazione dello statuto del Mediatore europeo (art. 195 TCE), istituzione di tribunali specializzati (art. 225 A TCE) o ancora per la disciplina di aspetti generali di funzionamento del sistema (decisione «comitologia», decisioni di firma e conclusione di accordi internazionali, ecc.). Tanto che in alcuni casi gli stessi Trattati, nel contemplare decisioni di questo tipo, hanno previsto la loro adozione mediante procedure decisionali tipiche degli atti normativi generali quali la procedura di codecisione (ad es. art. 148 TCE), oggi divenuta, come si vedrà, la procedura legislativa ordinaria. Proprio in ragione della loro diversità dal modello di decisione inizialmente delineato dai Trattati, in passato queste decisioni sono state ascritte da alcuni alla categoria degli atti atipici. Ciò poteva già allora non apparire del tutto fondato, visto che in taluni degli stessi articoli sulla cui base si erano adottate decisioni di questo tipo era fatta esplicita menzione dello strumento della decisione (si veda per tutti ancora il testo dell’art. 148 TCE). Della loro sostanziale riconducibilità agli atti tipici ha preso comunque atto il Trattato di Lisbona, il quale nel modificarne come si è precedente visto la definizione originaria, ha finito per ricomprendervi ambedue i tipi di decisione.
Indipendentemente dalla nuova definizione contenuta nell’art. 288 TFUE, gli attuali Trattati ufficializzano definitivamente la decisione come strumento normativo generale anche in una serie di altri articoli che ne prevedono specificamente l’uso a questi fini. In alcuni casi essa risulta anzi essere, da questo punto di vista, l’unico strumento a disposizione delle istituzioni. Unicamente con decisione è, infatti, stabilito che agisca il Consiglio europeo quando è previsto che esso assolva ai suoi compiti istituzionali con atto formale: per citare due soli esempi già ricordati, è con decisione che devono essere da lui fissate le formazioni in cui si riunisce il Consiglio; ed è
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con decisione che esso è chiamato a disciplinare il sistema di presidenza dello stesso Consiglio. E come si vedrà più avanti (p. 821), la decisione è addirittura il solo strumento a disposizione del Consiglio (e del Consiglio europeo) nel quadro della PESC.
14. Gli altri atti tipici dell’Unione e gli atti atipici Accanto ai tre tipi di atti appena esaminati, il sistema giuridico dell’Unione conosce una serie di altri atti di varia natura e configurazione. Alcuni di questi sono contemplati dagli stessi Trattati, altri sono frutto unicamente della prassi delle istituzioni, ma tutti sono accomunati dal fatto di non costituire in linea di principio fonti formali di norme. Ciò non significa che si tratti in tutti i casi di atti privi di efficacia obbligatoria o comunque di effetti giuridici. Questo è certamente vero per gli altri due atti «tipici» menzionati nell’art. 288 TFUE: le raccomandazioni e i pareri, che lo stesso articolo definisce espressamente come «non […] vincolanti». Non sono peraltro indicate ulteriori caratteristiche dei due atti. Ma in sintonia con la loro denominazione, mentre i pareri sono di solito lo strumento attraverso cui un’istituzione fa conoscere la propria valutazione su una determinata questione o su un determinato atto, le raccomandazioni sono per lo più utilizzate dal Consiglio o dalla Commissione (cui l’art. 292 TFUE riconosce un potere generale di formularne) per indirizzare agli Stati membri o ad altri soggetti norme di comportamento di carattere non vincolante. Questa distinzione è in realtà abbastanza approssimativa, così come lo sarebbe il negare qualsiasi effetto giuridico a tutti i pareri e raccomandazioni. Nella categoria dei pareri ve ne sono alcuni, ad esempio, che in conseguenza della loro funzione all’interno di un determinato procedimento o in ragione dell’espressa previsione di un articolo del Trattato appaiono produttivi di effetti giuridici assai significativi (ad es. i pareri motivati previsti dall’art. 258 TFUE nel quadro delle procedure d’infrazione), ed in alcuni casi addirittura preclusivi dell’attività di un’altra istituzione. Ad es., il parere che può essere richiesto alla Corte, ai sensi dell’art. 218, par. 11, TFUE, circa la compatibilità con i Trattati di un progetto di accordo che l’Unione intenda concludere con uno o più Stati terzi o con un’organizzazione internazionale preclude, laddove sia negativo, la conclusione dell’accordo, salvo modifiche dello stesso o revisione dei Trattati (in proposito si rinvia per maggiori dettagli a p. 351 s.). In passato analogo effetto poteva avere il previo parere conforme del PE richiesto per talune deliberazioni del Consiglio, che ora ha assunto la denominazione di «approvazione» (cfr. infra, p. 206 s.).
Per quanto riguarda poi le raccomandazioni, a parte taluni effetti particolari riconosciuti ad alcune di esse da specifiche norme dei Trattati, la Corte di giustizia ha ammesso in via generale che «i giudici nazionali sono tenuti a prendere in considerazione le raccomandazioni ai fini della soluzione delle controversie sottoposte al loro giudizio, in particolare quando esse sono di aiuto nell’interpretazione di norme nazionali adottate allo scopo di garantire la loro attuazione, o mirano a completare norme comunitarie aventi natura vincolante» (13 dicembre 1989, C-322/88, Grimaldi, 4407, punto 18).
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Un caso di raccomandazioni della Commissione cui i Trattati attribuiscono formalmente effetti specifici, ulteriori rispetto a quelli (eventuali) riconosciuti dalla Corte, è quello delle raccomandazioni che essa può indirizzare, ai sensi dell’art. 117 TFUE, ad uno Stato membro che voglia emanare norme interne suscettibili di provocare una distorsione di concorrenza sul mercato comune: se lo Stato non vi si conforma, «non si potrà richiedere agli altri Stati membri, nell’applicazione dell’art. 116 [TFUE], di modificare le loro disposizioni nazionali per eliminare tale distorsione». Si pensi poi agli effetti riconosciuti alle raccomandazioni (in questo caso del Consiglio) attraverso le quali quest’ultimo definisce «gli indirizzi di massima» per le politiche economiche degli Stati membri e della Comunità (art. 121 TFUE), e sulle quali v. infra, p. 685 s.
Nonostante l’esistenza degli strumenti della raccomandazione e del parere, il Consiglio e la Commissione fanno sovente ricorso, per far conoscere il loro punto di vista su di una determinata questione, anche a ulteriori tipi di atti non espressamente menzionati nei Trattati. È ad esempio frequente l’adozione da parte del Consiglio di «conclusioni» o «risoluzioni», nelle quali l’istituzione preannuncia le possibili linee di sviluppo di una successiva attività normativa dell’Unione, ovvero fissa la sua posizione rispetto ad una questione particolarmente delicata o controversa di interpretazione del diritto dell’Unione. Spesso, peraltro, conclusioni del Consiglio sono adottate per consacrare un accordo politico tra i membri di questo su sviluppi successivi del negoziato al suo interno su di una determinata proposta della Commissione, specialmente in quei casi in cui, per la complessità di quel negoziato o per la necessità di attendere che il Parlamento si pronunci a sua volta ufficialmente sulla proposta, il Consiglio si trova nell’impossibilità di passare direttamente all’adozione di un atto formale. Non meno frequente è, infine, il ricorso da parte della Commissione a «comunicazioni», «orientamenti» o «linee direttrici», tutti atti che la Commissione utilizza soprattutto per esplicitare all’indirizzo dei soggetti interessati (Stati membri o privati) il proprio modo di interpretare una sua competenza, ovvero le modalità con le quali essa intende esercitarla. Benché nel caso delle risoluzioni e delle conclusioni del Consiglio la giurisprudenza della Corte sia costante nell’affermarne il carattere non vincolante (23 novembre 1999, C-149/96, Portogallo c. Consiglio, I-8395, punto 56), vi è quanto meno da osservare che il ricorso a delle conclusioni all’interno dell’iter legislativo può determinare uno sviamento di procedura, nella misura in cui attraverso l’approvazione delle stesse per consensus si voglia vincolare politicamente i membri del Consiglio al contenuto finale di un atto per il quale i Trattati prevedano invece l’adozione a maggioranza qualificata. Non a caso, un nuovo art. 296, comma 3, TFUE cerca di porre un freno a tale pratica, prevedendo formalmente che, nel corso della discussione di una proposta legislativa, il Consiglio e il Parlamento europeo debbano astenersi dall’adottare atti non previsti dalla procedura applicabile alla materia di cui si tratta. Nel caso invece degli atti atipici della Commissione poc’anzi citati, è stato talvolta legittimo il dubbio che attraverso la veste apparentemente innocua di strumenti privi di portata normativa, se non addirittura di istruzioni formalmente dirette all’interno della Commissione, questa finisca in realtà per porre a carico dei soggetti direttamente interessati obblighi ulteriori rispetto a quelli derivanti dai Trattati o dagli atti da questi previsti, ovvero per attribuirsi ulteriori poteri di intervento nei confronti di quegli stessi soggetti. La Corte ha confermato la legittimità di questi dubbi, ammet-
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tendo a suo tempo la ricevibilità di un ricorso diretto proprio contro delle istruzioni interne della Commissione volte a definire le competenze dei suoi agenti nei confronti dei terzi nel quadro dei controlli sul rispetto della regolamentazione dell’Unione sui finanziamenti nel settore agricolo (9 ottobre 1990, C-366/88, Francia c. Commissione, I-3571, punto 9 ss.). Più recentemente, poi, la Corte ha osservato rispetto a comunicazioni od orientamenti adottati dalla Commissione in materia di aiuti di Stato, che nell’esercizio del potere discrezionale che il Trattato gli riconosce al riguardo la Commissione può certamente autolimitarsi nell’esercizio di un suo potere discrezionale, definendo e pubblicizzando in anticipo le regole di comportamento cui essa intende attenersi nei confronti degli Stati membri (e a cui essa si vincola «nei limiti in cui non si discostino dalle norme del Trattato FUE … e la loro applicazione non violi i principi generali»: Corte giust. 8 marzo 2016, C-431/14 P, Grecia c. Commissione, punto 70). In questo caso, però, quelle regole avranno «un effetto circoscritto all’autolimitazione della Commissione nell’esercizio del proprio potere discrezionale», ma non possono creare obblighi autonomi in capo agli Stati membri, i quali manterranno la facoltà di notificare progetti di aiuti di Stato che non soddisfino i criteri previsti da detta comunicazione che la Commissione dovrà poter autorizzare quando ricorrano le circostanze eccezionali previste dalle norme pertinenti del Trattato (Corte giust. 19 luglio 2016, C-526/14, Kotnik e a., punto 39 ss.). Un ultimo cenno va fatto agli accordi interistituzionali, ai quali è oggi dedicato un apposito articolo del TFUE. Secondo l’art. 295 di detto Trattato, infatti, il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione possono concludere, al fine di definire di comune accordo le modalità di una reciproca collaborazione in settori delle loro relazioni, «accordi interistituzionali». Tale categoria è nella realtà più ampia di quanto appaia dal testo dell’art. 295 TFUE. Ad essa possono essere, infatti, ricondotti una serie variegata di atti frutto, talvolta sotto un’etichetta diversa da quella di accordo interistituzionale, non solo della volontà congiunta di due o più istituzioni in vista della disciplina di un certo aspetto delle loro relazioni, ma anche dell’esternazione di una comune posizione su una data questione di rilievo politico o su determinati principi generali. Per alcuni esempi della prima categoria di questi atti, anche sotto il profilo delle diverse denominazioni, si vedano l’accordo interistituzionale del 20 dicembre 1994, recante un metodo di lavoro accelerato ai fini della codificazione ufficiale dei testi legislativi; la decisione di PE, Consiglio e Commissione, del 19 aprile 1995, relativa alle modalità per l’esercizio del potere d’inchiesta del PE; le due dichiarazioni comuni sulle modalità pratiche della nuova procedura di codecisione, del 4 maggio 1999 e del 13 giugno 2007; l’accordo interistituzionale, del 2 dicembre 2013, tra il PE, il Consiglio e la Commissione sulla disciplina di bilancio, sulla cooperazione in materia di bilancio e sulla sana gestione finanziaria (GUUE C 373, 1). Per la seconda categoria, di carattere puramente dichiarativo, cfr. le dichiarazioni comuni di PE, Consiglio e Commissione, del 5 aprile 1977, sui diritti fondamentali, e dell’11 giugno 1986 (questa con la partecipazione anche degli Stati membri in quanto tali), contro il razzismo e la xenofobia; ma soprattutto si pensi alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, almeno nella sua versione originaria, di cui si è parlato nel precedente par. 5.
Mentre nel secondo caso la rilevanza dell’atto è anch’essa di carattere esclusivamente politico, o tutt’al più interpretativo di principi o norme dell’ordinamento
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dell’Unione, nel primo si tratta invece di atti che in linea di principio impegnano giuridicamente le istituzioni che li concludono. Questa efficacia non derivava in passato da un’apposita previsione dei Trattati, né deriva oggi dall’art. 295 TFUE, il quale si limita a constatare che gli accordi interistituzionali «possono assumere carattere vincolante». Essa è in realtà il frutto dell’essere questi atti espressione dell’obbligo di cooperazione tra le istituzioni, che, come si è già visto, la Corte ha ricavato dall’art. 10 TCE (ora art. 4, par. 3, TUE). Ma com’è ovvio, trattandosi pur sempre di un’efficacia collegata a un principio generale del sistema e non a una esplicita attribuzione a questo specifico tipo di atti da parte degli stessi Trattati, il carattere cogente degli accordi interistituzionali non sussiste di per sé, ma va affermato caso per caso, in particolare alla luce del loro contenuto e della loro formulazione concreti. In un caso come nell’altro si tratta comunque di atti che non hanno evidentemente rilievo diretto per la posizione dei singoli, anche se, quando rivestono carattere vincolante, il loro mancato rispetto può essere causa dell’illegittimità di un atto dell’Unione (Corte giust. 19 marzo 1996, C-25/94, Commissione c. Consiglio, I-1469, punto 49 s.). Va da sé che l’eventuale carattere vincolante di un accordo interistituzionale sussisterà solo nei confronti delle istituzioni che lo hanno concluso. Solo in questa chiave va letto l’art. 295 TFUE. Il fatto che esso parli di accordi interistituzionali con riferimento esclusivo all’ipotesi che gli stessi siano conclusi da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione, non può certo significare, infatti, che non siano leciti accordi di questo tipo tra due sole istituzioni, tanto più che esempi in questo senso non sono mancati, né mancano nella prassi dell’Unione. Si vedano gli Accordi quadro sui rapporti tra il PE e la Commissione conclusi ad ogni inizio di legislatura tra le due istituzioni (l’ultimo è quello del 20 ottobre 2010, GUUE L 304, 47), nonché l’Accordo interistituzionale del 2002 tra PE e Consiglio relativo all’accesso da parte del PE alle informazioni sensibili del Consiglio nel settore della politica di sicurezza e difesa (GUUE C 300 E/2003, 297). In passato, un accordo «bilaterale» era peraltro previsto esplicitamente da una norma del TCE: l’art. 272, par. 9, stabiliva infatti che modifiche del tasso massimo d’aumento per le spese non obbligatorie nel bilancio comunitario sono fissate «mediante accordo tra il Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata, e il Parlamento europeo, che delibera alla maggioranza dei membri che lo compongono e dei tre quinti dei suffragi espressi».
Gli accordi interistituzionali devono ovviamente rimanere nei limiti di quanto previsto dai Trattati, nel senso che, soprattutto quando servono per disciplinare aspetti dei rapporti tra le istituzioni, essi possono sì integrare o specificare le disposizioni dei Trattati, ma non modificarle, alterando l’equilibrio istituzionale da queste delineato. Proprio in ragione della funzione assolta da questo tipo di accordi interistituzionali, ciò non dovrebbe di per sé portare ad escludere che attraverso essi le istituzioni che li concludono possano auto-limitare le proprie prerogative, ad esempio ponendo limiti, in casi specifici, alla reciproca libertà d’azione nel processo decisionale, attraverso la previsione di una procedura accelerata di adozione di certi tipi di atti. Si pensi ai limiti che si sono reciprocamente posti PE e Consiglio in relazione allo svolgimento della procedura di codecisione attraverso l’Accordo interistituzionale del 20 dicembre 1994, concernente un metodo di lavoro accelerato ai fini della codificazione ufficiale dei testi legislativi (GUCE C 102, 2).
CAPITOLO IV
Il processo decisionale Sommario: 1. I profili generali. – 2. Le procedure normative dell’Unione. Le procedure legislative. – 3. Segue: La scelta della procedura applicabile. – 4. Segue: Il potere d’iniziativa. In particolare, il potere di proposta della Commissione. – 5. Le singole procedure: a) la procedura di consultazione. – 6. b) La procedura legislativa ordinaria. – 7. c) La procedura di approvazione. – 8. Le procedure basate sulla delega di competenze normative e di esecuzione. – 9. a) La procedura di delega legislativa. – 10. b) La procedura di adozione di atti di esecuzione.
1. I profili generali Il processo decisionale dell’Unione europea, il processo cioè che porta all’adozione di uno degli atti previsti dai Trattati, vede di regola la partecipazione di più istituzioni o organi. Tale partecipazione, peraltro, non avviene ogni volta con le medesime modalità. Sia queste, che l’identità delle istituzioni o degli organi di volta in volta coinvolti dipendono, infatti, dal contenuto dell’atto da adottare, dato che è la base giuridica di questo (in altri termini, l’articolo dei Trattati che fonda la competenza a regolare una certa materia) che designa come e quali tra le istituzioni intervengono nell’elaborazione della relativa disciplina. La combinazione tra questi diversi interventi introduce nel processo decisionale dell’Unione un numero assai elevato di varianti. Il Consiglio ne rimane pur sempre, come si è già avuto modo di sottolineare, il centro di gravità, nel senso che non vi è praticamente atto la cui emanazione non richieda l’intervento del Consiglio, che sia in sede di adozione finale dell’atto, ovvero a titolo di approvazione previa di decisioni spettanti ad altre istituzioni. Tuttavia il potere decisionale dell’istituzione intergovernativa è di regola bilanciato dalla partecipazione alla presa di decisione, in forme e con intensità diverse, di istituzioni e organi espressivi di interessi differenti da quelli dei governi. Ciò fa sì che le procedure attraverso cui si arriva all’adozione di un atto siano appunto particolarmente numerose. Anche a considerare solo quelle principali, quelle accomunate cioè dalla caratteristica di sfociare comunque in una decisione finale (se non esclusiva) del Consiglio, esse superano allo stato attuale la ventina. A queste vanno poi aggiunti una serie di altri procedimenti, ugualmente diretti all’adozione di atti normativi, che si incentrano però sul potere decisionale di altre istituzioni. Si
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pensi per tutti a quelli legati alla competenza, già ricordata, della BCE a emanare regolamenti o decisioni nel quadro dell’unione economica e monetaria, così come previsto dall’art. 132 TFUE in materia, ad esempio, di riserve minime degli enti creditizi, di vigilanza prudenziale e di sistemi di compensazione e di pagamento, nonché, più in generale, per l’assolvimento dei compiti attribuiti al Sistema europeo di banche centrali (SEBC); o ancora all’ipotesi, di cui si dirà nel dettaglio più avanti nel par. 8, dell’adozione da parte della Commissione di disposizioni di integrazione, modifica o esecuzione di un atto adottato con un procedimento «principale». Discorso a parte va fatto, invece, per le procedure decisionali sulle quali si basa l’attività delle istituzioni nel quadro dell’azione esterna dell’Unione. Infatti, tranne che in quei pochi casi in cui tale attività si concretizza in atti di regolamentazione interna, come ad esempio nella politica commerciale comune, le sue procedure decisionali presentano caratteristiche peculiari o in ragione delle regole specifiche che governano in base ai Trattati una parte dell’azione esterna, o a motivo delle particolarità degli atti da adottare (accordi internazionali), che per sua natura coinvolge anche soggetti esterni all’Unione. Anche in ragione di ciò si ritiene utile parlare di queste procedure all’interno del Cap. V della Parte Terza, capitolo specificamente dedicato a questo settore di azione dell’Unione. Ciò detto, va anche precisato fin d’ora che le norme relative alla formazione della volontà delle istituzioni dell’Unione trovano la loro fonte nei Trattati e che esse non sono derogabili né dagli Stati membri né dalle stesse istituzioni. Soltanto i Trattati possono, in casi specifici, autorizzare un’istituzione a modificare una procedura decisionale da essi prevista. Non sarebbe pertanto legittimo, al di fuori di quella specifica autorizzazione, riconoscere a un’istituzione la facoltà di porre in essere, attraverso ad esempio un atto legislativo adottato in applicazione dei Trattati, basi giuridiche derivate che consentano la successiva adozione di atti dell’Unione secondo una procedura decisionale semplificata o comunque non corrispondente a quella prevista dagli stessi Trattati per quella determinata materia. Ciò significherebbe attribuire a tale istituzione un potere legislativo che eccede quanto previsto dai Trattati (da ultimo Corte giust. 10 settembre 2015, C-363/14, Parlamento c. Consiglio, punto 43).
2. Le procedure normative dell’Unione. Le procedure legislative La funzione normativa primaria dell’Unione, quella cioè attraverso cui sono adottate le discipline di base nei vari settori di competenza di questa, si fonda naturalmente sui procedimenti che, sfociando in una decisione finale del Consiglio, si sono definiti «principali». Come si è detto, essi sono anche quelli maggiormente caratterizzati da varianti. Nella partecipazione, e con differenti modalità, dei diversi organi e istituzioni si riflette, infatti, l’equilibrio di ruoli che il Trattato ha voluto di volta in volta individuare rispetto ad ogni decisione normativa importante dell’Unione. E ciò, com’è ovvio, in funzione del tipo di rappresentatività e quindi, in ultima analisi, delle istanze e degli interessi che ciascuno di quegli organi o istituzioni esprime. È così che, ad esempio, il Comitato economico e sociale (CES) deve essere consultato
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quando si tratta di adottare atti in materia di libera circolazione dei lavoratori o di diritto di stabilimento, o ancora di politica industriale e di coesione economica e sociale; e ugualmente avviene per il Comitato delle regioni (CDR) con riguardo alla coesione economica e sociale, nonché per le decisioni in materia di reti transeuropee o di sanità pubblica. Il principale punto di equilibrio che questi diversi procedimenti riflettono è comunque quello tra le tre istituzioni «politiche», che intervengono in ogni caso in tali procedimenti: il Consiglio, quale organo rappresentativo degli Stati membri intesi come apparati di governo; il Parlamento europeo, quale organo rappresentativo dei cittadini dell’Unione; la Commissione, quale organo rappresentativo dell’interesse generale di questa. L’equilibrio tra queste tre istituzioni è stato peraltro quello più difficile da costruire, in quanto esso finisce per rappresentare l’equilibrio tra interesse generale dell’Unione e interessi particolari degli Stati nella formazione degli atti normativi, e al tempo stesso per assicurare la trasposizione a livello dell’Unione del principio democratico. Mano a mano che il processo di integrazione europea è andato allontanandosi dai caratteri internazionalistici delle sue origini, quell’equilibrio ha dovuto perciò essere modificato per accentuare i profili democratico-rappresentativi del sistema a discapito di quelli propriamente intergovernativi. Un elemento importante di questa evoluzione del processo decisionale dell’Unione è stato peraltro rappresentato dalla contemporanea, seppur più lenta, evoluzione delle modalità di formazione della volontà del legislatore europeo. Il progressivo allontanamento, infatti, dai profili più tipicamente intergovernativi del sistema delle origini ha non solo portato, con la procedura di codecisione, a una formale equiparazione, come vedremo, dell’organo intergovernativo (il Consiglio) e di quello democratico-rappresentativo (il Parlamento europeo) ai fini dell’adozione della grande maggioranza degli atti dell’Unione (comunque per quasi tutti quelli destinati a disciplinare le sue politiche settoriali); ma esso è stato anche accompagnato da una definitiva caratterizzazione in senso democratico delle modalità di voto del legislatore dell’Unione, dato che non solo il Parlamento europeo ma anche il Consiglio deliberano oggi, nella maggior parte dei casi, sulla base di modalità di voto strettamente basate su un criterio demografico. Per il Parlamento ciò è implicito nella proporzionalità (seppur degressiva) rispetto alla popolazione degli Stati membri su cui si basa la sua composizione; per il Consiglio questo carattere, proprio della votazione a maggioranza qualificata da sempre sganciata dal principio uno Stato/un voto, è stato definitivamente consacrato dal Trattato di Lisbona con il passaggio, per il calcolo di tale modalità di voto, a un sistema di doppia maggioranza, che come abbiamo visto finisce per valorizzare anche qui la proporzione di popolazione europea rappresentata da ciascun membro del Consiglio. Il risultato è che, oggi, la maggior parte delle decisioni del legislatore dell’Unione riflettono necessariamente la volontà maggioritaria della popolazione europea. Anche nella sua versione più articolata, tuttavia, l’assetto di partenza del processo decisionale dell’Unione attribuiva al solo Consiglio il potere decisionale, lasciando al Parlamento europeo la semplice formulazione di un parere sulle proposte presentate dalla Commissione. Di conseguenza i successivi cambiamenti apportati a quel pro-
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cesso sono stati tutti all’insegna del riconoscimento di un diverso e più incisivo ruolo per il Parlamento, in quanto organo attraverso cui, come si è già ricordato, trova attuazione al livello dell’Unione il «fondamentale principio di democrazia secondo cui i popoli partecipano all’esercizio del potere per il tramite di un’assemblea rappresentativa» (Corte giust. 29 ottobre 1980, 138/79, Roquette Frères, 3333, punto 33). Il risultato è stato quello di un graduale passaggio di questo dall’iniziale ruolo consultivo a quello di vero e proprio legislatore, grazie all’introduzione, con il Trattato di Maastricht, della c.d. procedura di codecisione. Con essa, infatti, si compie il passo decisivo per il rovesciamento dell’impostazione originaria del processo decisionale dell’Unione, visto che essa porta, soprattutto dopo alcune modifiche intervenute con il Trattato di Amsterdam, a una sostanziale equiparazione di ruoli tra Parlamento europeo e Consiglio all’interno del processo decisionale, grazie alla previsione che non si ha adozione dell’atto senza accordo tra le due istituzioni. Il primo passo verso questo diverso ruolo del Parlamento europeo fu compiuto con l’introduzione grazie all’AUE del 1986 della c.d. procedura di cooperazione, ai sensi della quale, dopo un primo parere sulla proposta della Commissione, il Parlamento era chiamato ad esprimere un secondo parere – questa volta sulla posizione comune successivamente formulata dal Consiglio sulla proposta – condizionante per l’adozione finale dell’atto da parte dello stesso Consiglio: questo poteva procedervi a maggioranza qualificata di fronte ad un parere favorevole del Parlamento, mentre era obbligato all’unanimità in caso di parere contrario; laddove invece con il suo parere il Parlamento avesse richiesto modifiche, la Commissione era tenuta a riesaminare alla luce di quel parere la proposta iniziale prima che il Consiglio potesse adottarla definitivamente, a maggioranza qualificata se senza modifiche, all’unanimità in caso contrario. Con l’avvento della c.d. procedura di codecisione, dovuto al Trattato di Maastricht, la funzione della procedura di cooperazione viene progressivamente meno, tanto che essa vede ridursi mano a mano il proprio campo di applicazione, per rimanere confinata da ultimo a soli quattro casi (artt. 99, par. 5, 102, par. 2, 103, par. 2, e 106, par. 2, TCE) e scomparire poi del tutto con il Trattato di Lisbona.
Questo cammino è arrivato oggi a definitivo compimento con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. La partecipazione a qualsiasi titolo del Parlamento europeo accanto al Consiglio nella procedura di adozione di un atto dell’Unione fa, infatti, della relativa procedura, in linea di principio, una procedura legislativa e dell’atto che ne deriva un atto legislativo: la procedura di codecisione diventa la «procedura legislativa ordinaria» (art. 289, par. 1, TFUE); mentre l’adozione di un atto «da parte del Parlamento europeo con la partecipazione del Consiglio o da parte di quest’ultimo con la partecipazione del Parlamento europeo costituisce una procedura legislativa speciale» (art. 289, par. 2, TFUE). L’introduzione di queste nuove categorie non dà luogo a un riassetto sostanziale del processo decisionale, ma a una semplice ridenominazione delle procedure tradizionalmente a disposizione dell’Unione. Se si escludono, infatti, alcune modifiche apportate alla procedura di codecisione nella sua nuova veste di procedura legislativa ordinaria (infra, par. 6), la novità consiste essenzialmente nell’attribuzione a preesistenti procedure di una nuova caratterizzazione, quella di «procedure legislative». Peraltro, mentre tale caratterizzazione è assoluta nel caso della procedura legislativa ordinaria, nel senso che vi è piena identificazione tra quest’ultima e la preesistente
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procedura di codecisione, sicché tutte le volte in cui è previsto il ricorso alla procedura legislativa ordinaria l’atto è adottato sulla base di questa sorta di «nuova» procedura di codecisione, diversamente avviene per la procedura legislativa speciale. Questa, infatti, non solo identifica più tipi di procedura decisionale, ma soprattutto questi non assumono tutti la caratterizzazione di «procedura legislativa speciale». Il loro comune denominatore sta invece, come si è detto, nel fatto di prevedere comunque la partecipazione sia del Parlamento europeo che del Consiglio, benché tale partecipazione assuma forme anche assai diverse a seconda dei casi. Il più delle volte, infatti, l’adozione dell’atto spetta al Consiglio (all’unanimità o a maggioranza qualificata) e il Parlamento europeo è chiamato o a dare la sua previa approvazione, ovvero a formulare, in linea con la tradizionale procedura di consultazione (infra, par. 5), un parere non vincolante sulla proposta di atto (eventualmente insieme ad altre istituzioni o organi, quali la BCE negli artt. 126, par. 14, e 127, par. 6, TFUE, il CES negli artt. 113, 115, 153, 182 e 192 TFUE, il CDR negli artt. 153 e 192 TFUE, nonché la stessa Commissione nell’art. 308 TFUE). In alcuni casi, invece, è previsto che l’atto sia adottato dal Parlamento europeo, e qui l’intervento del Consiglio riveste sempre la forma di una sua previa approvazione della delibera del Parlamento (così gli artt. 223, par. 2, 228, par. 4, e 225 TFUE). E vi è finanche un’ipotesi, come la già descritta procedura di bilancio, in cui benché l’atto sia adottato sulla base di un’azione congiunta del Parlamento europeo e del Consiglio assimilabile a quella che caratterizza la procedura legislativa ordinaria, si è in presenza di una procedura legislativa speciale, perché l’atto conclusivo della procedura che dà forza vincolante all’oggetto della stessa è previsto che debba essere adottato dal solo Parlamento.
Va soprattutto sottolineato, però, che, al di là delle diverse modalità con cui essa si realizza, non in tutti i casi in cui si ha partecipazione del Parlamento e del Consiglio al di fuori della procedura legislativa ordinaria, la relativa procedura costituisce una procedura legislativa speciale. L’art. 289, par. 2, TFUE precisa, infatti, che ciò avviene solo nei «casi specifici previsti dai Trattati». In altri termini, l’adozione di un atto dell’Unione da parte del Consiglio con la partecipazione del Parlamento europeo, o l’adozione di quell’atto da parte del Parlamento europeo con la partecipazione del Consiglio, si caratterizza come una procedura legislativa speciale solo nel caso in cui lo stesso articolo dei Trattati che prevede la competenza a farlo specifichi che l’adozione dell’atto avviene «conformemente ad una procedura legislativa speciale». Se per quanto attiene al criterio che pare aver guidato le scelte fatte al riguardo dai redattori dei Trattati ci si può limitare a ricordare quanto osservato in precedenza rispetto al carattere legislativo o meno degli atti dell’Unione (p. 161 ss.), qui va tuttavia detto che il principio secondo il quale quella scelta è operata direttamente a livello dei Trattati trova comunque un’eccezione. Come si vedrà, infatti, l’art. 352 TFUE, che disciplina la c.d. clausola di flessibilità (infra, p. 415 ss.), lascia quella scelta alle stesse istituzioni. Spetta cioè ad esse stabilire se l’adozione di uno specifico atto sulla base della procedura disciplinata da tale articolo (adozione all’unanimità da parte del Consiglio su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo) avviene nel quadro di una procedura legislativa speciale o meno. Pare logico immaginare che la decisione al riguardo, che sarà in linea di principio presa dalla Commissione in sede di proposta, si baserà sulle caratteristiche intrinseche («legislative» o meno) dell’atto da adottare, visto che ai sensi di questo articolo l’Unione può prendere tanto misure di portata generale, che provvedimenti puntuali.
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Nello stesso senso dell’art. 352 TFUE risultano atteggiati gli artt. 203 e 349 TFUE, riguardanti rispettivamente le modalità e procedure di associazione all’Unione dei paesi e territori d’oltremare, e le condizioni di applicazione dei Trattati a talune regioni. Una particolarità ulteriore è però data, nell’art. 203 TFUE, dal fatto che quando l’atto non è preso in conformità ad una procedura legislativa speciale, non vi è affatto coinvolgimento del PE, il quale viene invece consultato quando la procedura si caratterizza come procedura legislativa speciale. Va peraltro osservato che gli artt. III-291 e III-424 Trattato costituzionale, corrispondenti rispettivamente agli attuali artt. 203 e 349 TFUE, prevedevano, non a caso, che in applicazione degli stessi il Consiglio avrebbe potuto adottare «leggi, leggi quadro, regolamenti e decisioni europei».
3. Segue : La scelta della procedura applicabile Al di là della loro caratterizzazione o meno come procedura legislativa ordinaria o speciale, l’applicabilità nel caso concreto dell’una o dell’altra procedura prevista dai Trattati dipende dal contenuto dell’atto da adottare, dato che è la base giuridica di questo, in altri termini l’articolo dei Trattati che fonda la competenza a regolare una certa materia, che designa con quale procedura decisionale ciò debba avvenire. Spetta quindi a chi propone l’atto ovvero, attraverso una modifica della proposta, all’istituzione che lo adotta, individuare la base giuridica e quindi la procedura da seguire. Questa scelta non è però libera, nel senso che non può dipendere da una valutazione soggettiva delle istituzioni circa il fine perseguito con l’atto che si intende adottare. Del resto la scelta del fondamento giuridico appropriato, ai fini di un’azione dell’Unione, riveste un’importanza di natura costituzionale, dato che questa, disponendo soltanto di competenze di attribuzione, deve necessariamente ricondurre l’atto che vuole adottare a una disposizione del Trattato che la legittimi ad approvare un simile atto (Corte giust. 1° ottobre 2009, C-370/07, Commissione c. Consiglio, I8917, punto 38 ss.). Secondo la Corte di giustizia, perciò, quella scelta va operata sulla base di criteri oggettivi, suscettibili di sindacato giurisdizionale (26 marzo 1987, 45/86, Commissione c. Consiglio, 1493, punto 11); e tra questi elementi figurano, in particolare, lo scopo e il contenuto dell’atto (26 aprile 1996, C-271/94, Parlamento c. Consiglio, 1689, punto 14). In questo quadro, inoltre, laddove esista nel Trattato una disposizione specifica che possa costituire il fondamento giuridico dell’atto da adottare, quest’ultimo deve fondarsi su tale disposizione a preferenza di altre eventuali disposizioni di portata più generale, cui possano essere ugualmente ricondotti lo scopo e il contenuto dell’atto (Corte giust. 6 settembre 2012, C-490/10, Parlamento c. Consiglio, punto 45). Quando, in ragione dei criteri sopra indicati, a un atto siano applicabili più basi giuridiche che prevedano a loro volta differenti procedure per la sua adozione, può porsi l’interrogativo se si debba scegliere tra una di queste o se, invece, l’atto possa richiamarsi a tutte le basi giuridiche astrattamente applicabili. Benché la prassi sia ricca di atti adottati sulla base di più articoli dei Trattati, la Corte di giustizia ha dato una risposta in linea di principio sfavorevole a questa seconda ipotesi. Secondo la Corte, infatti, anche quando un atto persegue più di una finalità o ha più di una componente, esso deve essere fondato unicamente sulla base giuridica richiesta dalla finalità o componente che, caratterizzando in via prevalente
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non tanto un numero maggiore di disposizioni, quanto l’atto nel suo complesso, appaia «principale o preponderante» rispetto alle altre (22 ottobre 2013, C-137/12, Commissione c. Consiglio, punto 53). La Corte non ha tuttavia escluso del tutto l’ipotesi che si possano cumulare più basi giuridiche: essa ha ammesso tale evenienza, seppur «in via eccezionale», ove «si tratti di un atto che persegue contemporaneamente più scopi o che ha più componenti tra loro inscindibili, senza che l’uno sia accessorio all’altro» (6 novembre 2008, C-155/07, Parlamento c. Consiglio, I-8103, punto 36) o «senza che l’uno di essi assuma importanza secondaria e indiretta rispetto all’altro» (8 settembre 2009, C-411/06, Commissione c. Parlamento e Consiglio, I-7585, punto 47). Ciò non significa che al di fuori dell’ipotesi «eccezionale» di cui sopra il ricorso contemporaneo a più basi giuridiche sia di per sé motivo di illegittimità dell’atto che ne deriva, né, viceversa, che ogniqualvolta questo cumulo sia «eccezionalmente» ammissibile alla luce della giurisprudenza della Corte, esso sia anche possibile. Come ha precisato, infatti, la stessa Corte, «quando le procedure [decisionali] previste relativamente all’uno o all’altro fondamento normativo siano incompatibili», perché la loro applicazione combinata determina un’alterazione della posizione delle istituzioni coinvolte nel processo decisionale (10 gennaio 2006, C-178/03, Commissione c. Parlamento e Consiglio, I-107, punto 57), non si potrà comunque fondare l’atto su quelle basi giuridiche anche laddove l’atto persegua finalità o presenti componenti ad esse inscindibilmente riconducibili; e d’altro canto se l’applicazione congiunta di più basi giuridiche non produce quell’alterazione della posizione rispettiva delle istituzioni, il vizio dell’atto sarà da ritenere comunque solo formale e quindi non suscettibile di determinare di per sé l’illegittimità dello stesso (9 settembre 2004, C-184/02 e C-223/02, Spagna e Finlandia c. Parlamento e Consiglio, I-7789, punto 41 ss.). Può d’altra parte non essere sempre chiaro quando due procedure decisionali siano da ritenere tra loro incompatibili, rendendone impossibile il cumulo. Dalla giurisprudenza della Corte non emerge, infatti, un criterio univoco su cui basare un giudizio di incompatibilità. In passato la Corte ha espresso tale giudizio con riferimento alla possibilità di applicare cumulativamente la procedura di cooperazione (come si è ricordato ora soppressa) e una procedura basata sul voto all’unanimità in seno al Consiglio, sulla base della considerazione che l’elemento essenziale della procedura di cooperazione (l’aggravio delle modalità di voto in seno al Consiglio cui poteva dar luogo il parere negativo del Parlamento europeo) sarebbe stato compromesso dal voto comunque all’unanimità cui sarebbe stato obbligato il Consiglio dalla simultanea applicazione dell’altra base giuridica. Secondo la Corte, infatti, ciò avrebbe perciò messo «a repentaglio lo scopo stesso del procedimento di cooperazione, che è quello di rafforzare la partecipazione del Parlamento europeo al processo legislativo» (sentenza 11 giugno 1991, C-300/89, Commissione c. Consiglio, I-2867, punto 20). Successivamente però, in un’altra occasione (Corte giust. 3 settembre 2009, C-166/07, Parlamento c. Consiglio, I-7135, punto 69), la stessa Corte ha ritenuto invece lecito fondare l’adozione di un atto su due articoli che avrebbero cumulato il voto unanime del Consiglio con la procedura di codecisione (ora procedura legislativa ordinaria), nonostante che ciò avrebbe prodotto un risultato chiaramente non dissimile da quello precedentemente citato. Facendo leva su un altro profilo del processo decisionale, essa ha poi ritenuto ugualmente incompatibili due procedure basate l’una sulla maggioranza qualificata e l’altra sull’unanimità in seno al Consiglio, perché ad uscirne alterata sarebbe stata in questo caso la posizione dello stesso Consiglio (Corte giust. 29 aprile 2004, C-338/01, Commissione c. Parlamento, I-4829, punto 58). Ma successivamente essa ha escluso tale incompatibilità nel caso di un’applicazione congiunta della procedura di consultazione con voto a maggioranza qualificata del Consiglio e di quella di codecisione – in
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alcuni scenari della quale, come si vedrà, il Consiglio è obbligato a votare all’unanimità –, per il solo fatto che non ne sarebbero messi a repentaglio i diritti del Parlamento europeo, il quale ne ricaverebbe anzi una più rilevante partecipazione all’adozione dell’atto di cui trattasi (Corte giust. 6 novembre 2008, C-155/07, Parlamento c. Consiglio, I-8103, punto 79).
È ovvio che, quando non fosse possibile rintracciare un carattere di prevalenza in nessuno degli obiettivi o delle componenti di un atto riconducibile a più basi giuridiche che prevedano procedure decisionali tra loro incompatibili, l’unica alternativa sarebbe l’inazione o l’adozione di due atti separati. La seconda soluzione potrebbe non essere sempre agevole da realizzare sul piano sostanziale. Ma è in ogni caso evidente che essa eviterebbe le conseguenze dell’incompatibilità tra procedure solo dal punto di vista formale, visto il condizionamento reciproco che a quel punto inevitabilmente si stabilirebbe tra gli iter negoziali dei due atti. Laddove comunque tra le basi giuridiche astrattamente utilizzabili per l’adozione di un atto dell’Unione ve ne sia una che riguarda l’esercizio di una competenza riconducibile alla PESC, il cumulo pare difficilmente immaginabile, almeno al di fuori di una previsione espressa dei Trattati che lo consenta. Nel quadro dei precedenti Trattati, la Corte aveva ritenuto di escluderlo alla radice in ragione dell’art. 47 del vecchio TUE, secondo il quale «nessuna disposizione del presente Trattato pregiudica i Trattati che istituiscono le Comunità europee né i Trattati e atti successivi che li hanno modificati o completati»: poiché questo articolo ostava all’adozione sulla base di quel Trattato di una misura suscettibile di essere validamente presa ai sensi del TCE, l’Unione non avrebbe potuto ricorrere a un fondamento normativo rientrante nella PESC per adottare un atto contenente disposizioni riconducibili ugualmente ad una competenza attribuita dal TCE alla Comunità europea (Corte giust. 20 maggio 2008, C-91/05, Commissione c. Consiglio, I-3651, punto 36). Fatto sta che allora, quando un’eventualità del genere si è prospettata, si è in effetti proceduto ad adottare due atti paralleli dal contenuto sostanzialmente analogo. Si veda, ad esempio, con riferimento rispettivo al terzo ed al primo pilastro, la dec. 2007/533/GAI del Consiglio, del 12 giugno 2007, sull’istituzione, l’esercizio e l’uso del sistema d’informazione Schengen di seconda generazione (SIS II) (GUUE L 205, 63), e il reg. (CE) n. 1987/2006 del PE e del Consiglio, del 20 dicembre 2006, sull’istituzione, l’esercizio e l’uso del sistema d’informazione Schengen di seconda generazione (SIS II) (GUUE L 381, 4). Anche la firma dell’accordo tra l’Unione europea, la Comunità europea e la Confederazione Svizzera riguardante l’associazione della Confederazione Svizzera all’attuazione, all’applicazione e allo sviluppo dell’acquis di Schengen è stata autorizzata con l’adozione di due decisioni separate del Consiglio, del 25 ottobre 2004, una basata su vari articoli del TCE (dec. 2004/860/CE, GUUE L 370, 78), l’altra basata sugli artt. 24 e 38 TUE pre-Lisbona (dec. 2004/849/CE, GUUE L 368, 26), e relativa alla firma a nome dell’Unione europea, nonché all’applicazione provvisoria di alcune disposizioni.
Benché oggi siano venute meno tanto la distinzione tra l’Unione e la Comunità, quanto la divisione tra il pilastro comunitario e quelli prima riconducibili all’Unione in quanto tale, la specificità della PESC trova pur sempre salvaguardia nei nuovi Trattati attraverso il divieto, posto dall’art. 40 TUE, di reciproche invasioni di campo tra le disposizioni che regolano questa competenza dell’Unione e quelle relative a tutte le altre competenze: secondo tale articolo, infatti, l’azione delle istituzioni ai
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sensi degli altri settori dei Trattati deve lasciare «impregiudicata l’applicazione delle procedure e la rispettiva portata delle attribuzioni previste […] per l’esercizio delle competenze dell’Unione» nel quadro della PESC, e viceversa. Anche alla luce della formulazione di questo articolo, tuttavia, l’ipotesi di un’applicazione cumulativa di altre basi giuridiche con una riconducibile alla PESC, più che da escludere formalmente, appare difficilmente immaginabile nei fatti, dato che ancor più che rispetto ad altri settori di attività dell’Unione quel cumulo sembra prospettarsi qui in termini di incompatibilità procedurale, proprio in considerazione delle specificità che caratterizzano il processo decisionale della PESC, quali l’assenza di un ruolo del Parlamento europeo e della Commissione. È infatti sulla base di questo ragionamento che la Corte è arrivata di recente ad escludere la cumulabilità di due basi giuridiche (l’art. 75 TFUE e l’art. 215 dello stesso Trattato), che pure hanno oggetto analogo nell’adozione di misure restrittive individuali, l’una a fini di lotta al terrorismo e l’altra nel quadro della PESC (sentenza 19 luglio 2012, C-130/10, Parlamento c. Consiglio). La Corte lo ha fatto da un lato perché, a differenza dell’art. 75, «il ricorso all’art. 215, par. 2, TUE richiede la previa esistenza di una pertinente decisione della PESC, vale a dire una decisione adottata ai sensi del Capo 2 del Titolo V del [TUE]» (punto 47). Dall’altro lato, essa ha ritenuto ulteriormente decisiva la considerazione che l’implicazione più blanda del PE nella procedura decisionale dell’art. 215 TFUE (semplice informazione) rispetto a quella dell’art. 75 TFUE (procedura legislativa ordinaria) è frutto «della scelta, operata dagli autori del Trattato di Lisbona, di conferire un ruolo più limitato al Parlamento riguardo all’azione dell’Unione nel contesto della PESC» (punto 82). Un’eccezione specifica al divieto posto dall’art. 40 TUE è però prevista dai Trattati rispetto a fattispecie in cui un esercizio separato dei due ambiti di competenza appare concretamente impossibile. Come vedremo (infra, p. 839), infatti, un’ipotesi del genere la ritrova in relazione alla conclusione di accordi internazionali dell’Unione con Stati terzi che riguardino anche materie PESC, per i quali, significativamente, è lo stesso articolo rilevante del TFUE (art. 218) che risolve l’incompatibilità procedurale di cui nel testo, dettando specifiche regole di procedura.
4. Segue: Il potere d’iniziativa. In particolare, il potere di proposta della Commissione Ai fini dell’attività normativa dell’Unione europea, il potere d’iniziativa spetta di regola alla Commissione, tranne che nel settore della PESC, dove, come vedremo, l’Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza è subentrato interamente alla Commissione in questa funzione (infra, p. 854 s.). Il potere d’iniziativa di cui la Commissione è titolare al di fuori di questo specifico settore non è comunque esclusivo. Ciò è specificato dall’art. 17, par. 2, dello stesso TUE, che pure identifica la Commissione come il titolare principale di quel potere. Pur sottolineando, infatti, che un «atto legislativo dell’Unione può essere adottato solo su proposta della Commissione», esso precisa che ciò avviene «salvo che i Trattati non dispongano diversamente». Quanto agli altri atti dell’Unione (quelli non legislativi) – continua l’articolo – essi «sono adottati su proposta della Commissione se i Trattati lo prevedono». La disposizione fotografa bene la situazione. In relazione agli atti legislativi, in effetti, il potere di iniziativa della Commissione appare connaturato alla procedura le-
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gislativa (ordinaria o speciale) che porta alla loro adozione, tanto che se in una base giuridica che prevede il ricorso a tale procedura nulla è specificato riguardo all’autore della proposta, spetterà alla Commissione presentarla. L’art. 289, par. 4, TFUE enumera sì i soggetti o le istituzioni da cui può ugualmente venire un’iniziativa legislativa («gli atti legislativi possono essere adottati su iniziativa di un gruppo di Stati membri o del Parlamento europeo, su raccomandazione della Banca centrale europea o su richiesta della Corte di giustizia o della Banca europea per gli investimenti»). Ma questa possibilità dipenderà poi concretamente dalla specifica designazione di uno di questi come titolare del potere d’iniziativa legislativa all’interno dell’articolo dei Trattati che fornirà la base giuridica all’atto da adottare. Nel caso invece degli atti non legislativi, l’autore della proposta, quand’anche fosse la Commissione, deve essere puntualmente indicato nella base giuridica dell’atto. Il silenzio di quest’ultima comporta, infatti, che l’atto debba essere adottato su iniziativa della stessa istituzione competente ad adottarlo. In un caso come nell’altro, le ipotesi in cui il potere è attribuito a istituzioni o soggetti diversi dalla Commissione sono comunque del tutto sporadiche, non superando la decina. Si tratta inoltre di ipotesi limitate a specifici atti, con la sola eccezione della previsione del potere di iniziativa riconosciuto a un quarto degli Stati membri dall’art. 76 TFUE in relazione all’adozione di tutti gli atti concernenti la cooperazione giudiziaria in materia penale, la cooperazione di polizia e la cooperazione amministrativa nel settore dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. In questa, come in alcune delle altre ipotesi citate, peraltro, il potere d’iniziativa è attribuito a soggetti o istituzioni diversi senza escludere che esso possa essere esercitato anche dalla Commissione. Ed è anzi talvolta previsto che se non è questa a esercitarlo nel caso concreto, essa debba comunque intervenire ad altro titolo nella procedura di adozione dell’atto. Il citato art. 76 TFUE specifica, infatti, che gli atti indicati nel testo sono adottati «su proposta della Commissione, oppure […] su iniziativa di un quarto degli Stati membri». Mentre l’art. 257 TFUE dispone, dal canto suo, che l’istituzione di un tribunale specializzato dell’Unione può essere decisa da Parlamento europeo e Consiglio in procedura legislativa ordinaria, «su proposta della Commissione e previa consultazione della Corte di giustizia o su richiesta della Corte di giustizia e previa consultazione della Commissione».
In tutti i casi in cui il potere di presentare una proposta spetta alla sola Commissione, esso si identifica come una prerogativa assoluta che non può essere limitata o vincolata né rispetto all’eventualità del suo esercizio, né rispetto al contenuto. È ad esempio previsto che il Parlamento europeo possa chiedere alla Commissione di presentare una proposta (art. 225 TFUE); e analoga possibilità è data al Consiglio (art. 241 TFUE). Con riguardo ad alcune decisioni da prendere nel quadro dell’unione economica e monetaria, poi, una richiesta in questo senso alla Commissione può venire, ai sensi dell’art. 135 TFUE, oltre che dal Consiglio, anche da uno Stato membro. Ma in questo, come negli altri due casi, la Commissione non è tenuta a presentare la proposta, ma solo a fornire all’autore della richiesta le motivazioni della sua eventuale decisione di non accoglierla. Ciò non toglie che nella pratica, quando il Consiglio o il Parlamento europeo le chiedono di presentare una proposta, la Commissione in linea di principio dà comunque seguito alla richiesta. Ciò è poi la regola,
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anche se l’ipotesi non è nemmeno oggetto di una previsione esplicita dei Trattati, quando tale richiesta viene dal Consiglio europeo, se non altro perché di questo è membro anche il Presidente della Commissione. In relazione alla possibilità che la Commissione sia sollecitata a presentare una proposta di atto dell’Unione, un’importante novità è stata introdotta dal Trattato di Lisbona. L’art. 11, par. 4, TUE stabilisce, infatti, che una richiesta in questo senso possa venire anche da un gruppo di cittadini dell’Unione (almeno un milione) rappresentativi di un numero significativo di Stati membri. Come richiesto da tale articolo, le procedure e le condizioni per la presentazione di questa sorta d’iniziativa normativa popolare (ufficialmente denominata «iniziativa dei cittadini») sono state stabilite da un regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio, adottato in applicazione dell’art. 24, comma 1, TFUE. Si tratta del reg. (UE) n. 211/2011 del PE e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, riguardante l’iniziativa dei cittadini (GUUE L 65, 1), i cui allegati I, II e III sono stati modificati rispettivamente dal regolamento delegato (UE) n. 268/2012 del 25 gennaio 2012 (GUUE L 8, 1), dal regolamento delegato (UE) n. 887/2013 dell’11 luglio 2013 (GUUE L 247, 11) e dal regolamento delegato (UE) n. 531/2014 del 12 marzo 2014 (GUUE L 148, 52), tutti della Commissione. Il 17 novembre 2011, inoltre, la Commissione ha anche adottato un regolamento di esecuzione (UE) n. 1179/2011, che fissa le specifiche tecniche per i sistemi di raccolta elettronica delle adesioni ad una iniziativa dei cittadini (GUUE L 30, 3). In Italia sono state emanate norme di attuazione del reg. n. 211/2011 attraverso il d.P.R. 18 ottobre 2012, n. 193, recante il «Regolamento concernente le modalità di attuazione del regolamento (UE) n. 211/2011 riguardante l’iniziativa dei cittadini» (GURI 15 novembre 2012, n. 267). Va infine segnalato che la Commissione ha attivato un portale internet specificamente dedicato all’iniziativa dei cittadini: http://ec.europa.eu/citizens-initiative/public/welcome. Oltre a fissare la soglia minima dei firmatari di un’iniziativa dei cittadini in un milione di cittadini di Stati membri, provenienti da almeno un quarto degli stessi e in possesso dell’età minima per l’esercizio dell’elettorato attivo al Parlamento europeo, il regolamento n. 211/2011 prevede un duplice filtro della Commissione, consistente innanzitutto in una verifica del rispetto delle condizioni legali di presentazione dell’iniziativa, che può portare al rigetto della stessa. Il regolamento dispone, infatti, che la proposta d’iniziativa non deve esulare manifestamente dalla competenza della Commissione di presentare una proposta di atto legislativo dell’Unione e che non deve essere né manifestamente ingiuriosa (o futile o vessatoria), né manifestamente contraria ai valori dell’Unione quali stabiliti nell’art. 2 TUE. A questa prima verifica fa seguito una seconda valutazione concernente il merito di questa, da cui può conseguire la decisione della Commissione, da motivare adeguatamente, di non dare corso all’iniziativa. In caso di esito negativo, l’uno e l’altra possono essere oggetto di un ricorso per annullamento dinanzi ai giudici dell’Unione. L’ipotesi si è del resto già verificata; e in due casi il ricorso dei promotori dell’iniziativa bocciata è stato accolto, con conseguente annullamento della decisione della Commissione di respingere la richiesta di registrazione dell’iniziativa ai fini della sua apertura alla firma dei cittadini interessati. Nel primo di questi casi (Trib. 3 febbraio 2017, T-646/13, Bürgerausschuss für die Bürgerinitiativ Minority SafePack – one million signatures for diversity in Europe c. Commissione), la decisione è stata annullata per difetto di motivazione (punto 34); nel secondo (Trib. 10 maggio 2017, T754/14, Michael Efler e a. c. Commissione), il Tribunale ha invece ritenuto, contrariamente a quanto argomentato dalla Commissione per rifiutare la registrazione di un’iniziativa diretta a bloccare la conclusione dell’Accordo di libero scambio (CETA) tra Unione e Canada e l’Accordo di partenariato transatlantico (TTIP) con gli Stati Uniti, che un’ICE può legittimamente proporre di modificare o abbandonare la conclusione di accordi internazionali dell’Unione con Stati terzi, non dando luogo né ad un’ingerenza inammissibile nello svolgimento di una procedura legislativa in corso, né ad un’alterazione dell’equilibrio istituzionale (punti 36 e 45 ss.).
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Ferme restando le eccezioni precedentemente ricordate in cui esso è attribuito ad altri, il potere d’iniziativa della Commissione rappresenta un elemento chiave del processo decisionale e, quindi, dello stesso equilibrio istituzionale dell’Unione. Come si è già ricordato, oltre ad essere condizione dell’avvio del procedimento, la proposta della Commissione, salvo che in alcuni specifici casi tutti riguardanti decisioni in materia di bilancio e risorse finanziarie dell’Unione (artt. 310, 312, 314 e 315, comma 2, TFUE), non può essere modificata dal Consiglio se non all’unanimità (art. 293, par. 1, TFUE); e anche in questo caso la sua modificabilità non è illimitata, dato che gli eventuali emendamenti devono comunque mantenere l’atto da adottare nell’ambito sostanziale definito dalla proposta iniziale della Commissione, a pena di dover considerare l’atto conseguente del Consiglio non più fondato su una proposta di questa (Corte giust. 11 novembre 1997, C-408/95, Eurotunnel e a., I-6315, punto 39). La proposta può essere invece modificata dalla stessa Commissione fino a che l’atto non viene adottato (art. 293, par. 2, TFUE), possibilità che, come si è già osservato, consente alla Commissione di assumere un ruolo negoziale importante, soprattutto laddove il Consiglio potrebbe votare a maggioranza qualificata: con modifiche successive della proposta, infatti, la Commissione può aiutare il formarsi di una maggioranza sul testo definitivo all’interno del Consiglio. Questo ruolo è agevolato dall’informalità attraverso cui può esprimersi questo potere di modificare la proposta iniziale. Salvo che nei casi in cui vi è una rivisitazione significativa di questa, infatti, le sue successive modifiche sono presentate direttamente nel corso del negoziato dal rappresentante della Commissione, senza necessariamente bisogno di un documento ufficiale preventivamente approvato dal Collegio dei commissari. D’altra parte, come ha sottolineato la stessa Corte di giustizia, l’art. 293 non richiede «che tali proposte modificate si presentino necessariamente in forma scritta. Siffatte proposte modificate fanno parte dell’iter legislativo comunitario, caratterizzato da una certa flessibilità, necessaria per raggiungere una convergenza di vedute tra le istituzioni. Esse si distinguono fondamentalmente dagli atti che la Commissione adotta e che riguardano direttamente i singoli. Pertanto, per l’adozione di queste proposte non si può imporre la rigida osservanza delle forme prescritte per l’adozione degli atti riguardanti direttamente i singoli» (Corte giust. 5 ottobre 1994, Germania c. Consiglio, I-4973, C-280/93, punto 36). Ciò che conta, ha ribadito la Corte più recentemente, è che ne sia comunque salvaguardato il potere d’iniziativa della Commissione, obiettivo cui mira l’art. 293, par. 2, TFUE (Corte giust. 6 settembre 2017, C643/15 e C-647/15, Slovacchia e Ungheria c. Consiglio, punto 181).
Nonostante la lettera dell’art. 293, la Commissione ha sempre rivendicato il potere non solo di modificare, ma anche di ritirare del tutto le sue proposte. E in effetti essa ha fatto più volte uso in questo senso di questo suo potere. Per lo più lo ha in realtà fatto al di fuori di un singolo processo decisionale, procedendo periodicamente a ritiri “collettivi” di proposte, o per sfoltire lo stock della proposte pendenti da quelle non più attuali o ormai superate da evidenze scientifiche, ovvero per ricalibrare alla luce dei propri orientamenti programmatici la successiva azione legislativa dell’Unione. Ma non sono mancati casi in cui essa ha “minacciato”, e da ultimo anche usato, questo potere di ritiro in chiave strettamente negoziale, per bloccare cioè l’adozione da parte del legislatore dell’Unione, seppur all’unanimità, di un atto a suo giudizio troppo divergente dalla sua proposta e quindi ad essa “non gradito”.
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Va peraltro ricordato che questa lettura dell’art. 293 ha trovato il sostegno “politico” anche del PE, visto che questo ha da tempo richiesto e ottenuto dalla Commissione, da ultimo con l’«Accordo quadro sui rapporti tra il Parlamento europeo e la Commissione» del 20 ottobre 2010 (GUUE L 304, 47), l’impegno «a ritirare, se del caso, le proposte legislative [da esso] respinte».
La Corte di giustizia ha recentemente avallato questa interpretazione della Commissione, riconoscendole il potere di ritirare una sua proposta e di porre così fine al processo decisionale, quando ritenga che una modifica della stessa rischi di snaturarne le finalità (14 aprile 2015, C-409/13, Consiglio c. Commissione, punto 83). La Corte sembra averlo ricavato più che dà un’interpretazione estensiva del potere di modifica, dal generale potere d’iniziativa assegnato alla Commissione in quanto portatrice dell’interesse generale dell’Unione, nel senso che la responsabilità propria della Commissione di promuovere l’interesse dell’Unione attraverso le sue proposte legislative implicherebbe, quasi simmetricamente, anche il potere di ritirare le stesse a garanzia e in funzione dell’interesse generale, quale individuato nella proposta inizialmente presentata.
5. Le singole procedure: a) la procedura di consultazione Come si è già ricordato, all’attuale quadro delle procedure normative principali dell’Unione si è arrivati per tappe successive, che hanno visto la progressiva introduzione nei Trattati di nuove procedure decisionali. La varietà che oggi contraddistingue quel quadro è dovuta del resto proprio al fatto che le nuove procedure di volta in volta ideate si sono quasi sempre aggiunte, senza sostituirvisi, a quelle già esistenti. Basti pensare che, ad esempio, quella che è stata per lungo tempo la procedura decisionale «ordinaria» del sistema di integrazione europea, l’adozione di un atto del Consiglio sulla base di una mera consultazione del Parlamento europeo (la c.d. procedura di consultazione), continua ancor oggi a operare, rappresentando anzi, pur con un ambito di applicazione decisamente ridotto, la procedura più diffusa dopo la procedura legislativa ordinaria. Inoltre, essa è sovente ascritta dai Trattati alla categoria delle procedure legislative speciali, risultando anche tra queste la procedura più frequentemente ricorrente. Va peraltro osservato che alcune delle procedure che compongono il quadro attuale altro non sono che innesti di ulteriori fasi di procedura sul nucleo originario della procedura di consultazione, o quanto meno varianti di questa. Anche in ragione di ciò pare opportuno dare in primo luogo conto, nei dettagli, proprio della procedura di consultazione. Il suo schema è già stato in parte delineato. Una volta che la Commissione abbia presentato una proposta, spetta al Consiglio adottare l’atto, dopo avere però chiesto il parere del Parlamento europeo (ed eventualmente di altri organi) su quella proposta. Il parere che il Parlamento è chiamato a formulare e indirizzare al Consiglio è obbligatorio, ma, salvo casi particolari (infra, par. 7), non vincolante. In altri termini, il Consiglio può discostarsene nell’adottare l’atto, ma è obbligato a richiederlo, a pena dell’invalidità dell’atto stesso per violazione delle forme sostanziali (sul cui con-
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cetto, infra, p. 287 ss.). Quell’obbligo non si esaurisce anzi con la richiesta del parere, perché, come ha affermato la Corte di giustizia, il Consiglio è tenuto ad attenderne la pronuncia da parte del Parlamento prima di deliberare: il parere rappresenta, infatti, «uno strumento che consente al Parlamento l’effettiva partecipazione al processo legislativo» dell’Unione (29 ottobre 1980, 138/79, Roquette Frères c. Consiglio, 3333, e 139/79, Maizena c. Consiglio, 3393, rispettivamente punti 33 e 34). A differenza di quanto si è visto essere previsto per la consultazione di taluni altri organi, non è stabilito alcun termine preciso entro il quale il Parlamento europeo debba dare il suo parere. Ed è d’altra parte ovvio che esso debba disporre del tempo necessario per formulare lo stesso con cognizione di causa. Ciò non significa però che il Parlamento potrebbe, semplicemente astenendosi dal formulare il parere, impedire l’adozione di un atto a lui non gradito: ancora la Corte ha osservato infatti che, laddove l’inerzia del Parlamento concretizzi una violazione del principio di leale collaborazione tra le istituzioni, il Consiglio può adottare l’atto senza attendere oltre il parere. Occasione della pronuncia della Corte (30 marzo 1995, C-65/93, Parlamento c. Consiglio, I653, punto 23 ss.) è stata una vicenda riguardante il parere del PE sulla proposta di regolamento volto a prorogare per il 1993 una serie di regolamenti per l’applicazione delle preferenze tariffarie generalizzate a favore di taluni prodotti originari dei paesi in via di sviluppo. A fronte della richiesta formale e adeguatamente giustificata, presentata fin dall’ottobre 1992 dal Consiglio, di approvare rapidamente tale parere, così da consentire di adottare il regolamento in questione prima della fine dell’anno e da evitare le difficoltà che un’interruzione brutale dell’applicazione delle preferenze tariffarie generalizzate a favore di taluni prodotti originari di tali paesi avrebbe potuto comportare, il PE prima aveva deciso di discutere la proposta secondo la procedura d’urgenza, ma aveva poi immotivatamente annullato la seduta plenaria del 18 dicembre, ultima seduta dell’anno in cui la proposta avrebbe potuto essere esaminata in tempo utile, senza che il Consiglio avesse più, a così breve tempo dal 31 dicembre, la possibilità di richiedere la convocazione entro l’anno, ai sensi dell’allora art. 139 TCE, di una sessione straordinaria del PE. A fronte della decisione presa dal Consiglio di adottare comunque, a quel punto, il regolamento, la Corte ha appunto ritenuto che il PE non potesse fondatamente rimproverare al Consiglio di non avere atteso il suo parere, essendo venuto meno al proprio obbligo di leale cooperazione con il Consiglio.
L’obbligo di attesa altrimenti gravante sul Consiglio non significa nemmeno, però, che esso non possa cominciare l’esame della proposta della Commissione, prima che il Parlamento si sia pronunciato. Di regola, anzi, ciò è quanto effettivamente avviene, tanto che è prassi che, in attesa della pronuncia del Parlamento, il Consiglio formalizzi provvisoriamente in atti atipici, quali «orientamenti comuni» o «accordi politici», i punti d’accordo già delineatisi nel negoziato tra gli Stati membri in corso al suo interno. Del resto, la stessa Corte di giustizia ha di fatto ammesso la legittimità di tale pratica, a condizione però che la posizione definitiva del Consiglio sulla proposta non sia adottata prima che lo stesso abbia effettivamente preso conoscenza del parere del Parlamento. Nella sua sentenza (10 maggio 1995, C-417/93, Parlamento c. Consiglio, I-1185, punto 10 s.), la Corte ha per la verità non solo precisato che, «nell’ambito della procedura di consultazione, nessuna disposizione del diritto comunitario impone al Consiglio di astenersi totalmente dall’esame della
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proposta della Commissione o dalla ricerca di un orientamento generale, se non di una posizione comune, al suo interno prima dell’emanazione del parere del Parlamento, purché non adotti la sua posizione definitiva prima di averne preso conoscenza», tanto più che «un divieto del genere non risulta da nessuna finalità di ordine istituzionale o procedurale»; ma essa ha anche osservato che tale prassi del Consiglio «corrisponde al legittimo intento di sfruttare il periodo durante il quale attende il parere del Parlamento al fine curare la propria preparazione ed evitare quindi inutili ritardi».
La necessità di garantire al parere, comunque non vincolante, del Parlamento un effetto utile rispetto alla delibera del Consiglio comporta, inoltre, «l’obbligo di una nuova consultazione [del Parlamento] ogni volta che l’atto infine adottato, considerato complessivamente, sia diverso quanto alla sua sostanza da quello sul quale il Parlamento sia stato già consultato» (Corte giust. 25 settembre 2003, C-58/01, Océ van der Grinten, I-9809, punto 100). Ciò si verifica quando le modifiche apportate non si iscrivono nel quadro dell’obiettivo perseguito dalla proposta su cui il Parlamento ha espresso il suo primo parere e ne alterano l’impianto fondamentale (Corte giust. 11 novembre 1997, C-408/95, Eurotunnel e a., cit., punto 47 ss.). In tal caso, come si è già verificato, la mancata riconsultazione è motivo di annullamento dell’atto (Corte giust. 16 luglio 1992, C-65/90, Parlamento c. Consiglio, I-4593, punti 19-21). Peraltro, l’obbligo di riconsultazione scatta tanto che a decidere modifiche sostanziali della proposta sia stato il Consiglio, quanto che lo abbia fatto direttamente la Commissione, a meno che quelle modifiche non «corrispondano essenzialmente al desiderio espresso dallo stesso Parlamento» (Corte giust. 1° giugno 1994, C-388/92, Parlamento c. Consiglio, I-2067, punto 10). Ma non per questo la riconsultazione può essere ritenuta superflua sulla mera presupposizione che il Parlamento condividesse in pieno le modifiche in questione, per il solo fatto che esso era già prima di esprimere il suo parere sostanzialmente al corrente delle modifiche che il Consiglio avrebbe apportato alla proposta (Corte giust. 10 giugno 1997, C-392/95, Parlamento c. Consiglio, I-3213, punti 21-23). Va infine osservato che nel quadro della procedura di consultazione il Consiglio può essere chiamato dai Trattati a votare tanto all’unanimità, che a maggioranza qualificata, che a maggioranza semplice. Mentre le basi giuridiche che prevedono quest’ultima modalità di voto sono in verità del tutto eccezionali, il voto all’unanimità e quello a maggioranza qualificata si ripartiscono equamente le restanti ipotesi di ricorso alla procedura di consultazione, anche se va notato che l’unanimità appare quasi la regola quando tale procedura si applica a titolo di procedura legislativa speciale, mentre lo stesso è vero per la maggioranza qualificata negli altri casi. Il voto a maggioranza semplice è previsto in soli due casi di ricorso alla procedura di consultazione (artt. 150 e 160 TFUE); e in ambedue i casi essa non si identifica con una procedura legislativa speciale. Quanto alle altre due modalità di voto, della circa ventina di casi di procedura di consultazione considerata dai Trattati come una procedura legislativa speciale, solo in due (artt. 182, par. 4, e 349 TFUE) si prevede il voto del Consiglio a maggioranza qualificata; mentre, là dove la procedura di consultazione non è considerata come tale, il rapporto è esattamente inverso: due sole basi giuridiche (artt. 77, par. 3, e 81, par. 3, comma 2, TFUE) impongono al Consiglio il voto all’unanimità, contro un totale di quasi venti.
In uno dei casi in cui il Consiglio vota all’unanimità nel quadro di una procedura
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di consultazione che si caratterizza come procedura legislativa speciale, peraltro, il voto del Consiglio non è sufficiente a porre fine alla procedura. Come si è già ricordato (p. 124), infatti, in relazione alla definizione del sistema delle risorse proprie dell’Unione l’art. 311 TFUE richiede, perché l’atto relativo del Consiglio, pur adottato, entri in vigore, che gli Stati membri debbano approvarlo secondo le rispettive procedure costituzionali. Questa approvazione costituisce nulla più che un passaggio di una procedura che vede comunque il suo momento terminale nell’adozione dell’atto (legislativo) da parte del Consiglio nel quadro della procedura di consultazione. Tanto che, come si è lì detto, la subordinazione dell’entrata in vigore alla manifestazione di una volontà espressa degli Stati membri si prospetta, nella sostanza, in maniera non dissimile da quei casi in cui su una decisione del Consiglio pur condivisa da tutti i suoi membri, uno o più di questi appongono una riserva parlamentare, dovendo avere il via libera del proprio Parlamento perché il loro consenso all’atto possa effettivamente unirsi a quello degli altri ponendo termine alla procedura. La differenza è qui che questa sorta di riserva parlamentare è generalizzata e imposta dagli stessi Trattati. In un altro caso di procedura (legislativa) di consultazione, invece, questa può arricchirsi di una variante destinata a facilitare il raggiungimento dell’unanimità in seno al Consiglio. Si è visto, infatti, che l’art. 87 TFUE, che regola l’adozione di misure di cooperazione operativa tra autorità di polizia degli Stati membri, prevede che laddove non vi sia unanimità del Consiglio al riguardo, un gruppo di almeno nove Stati membri possa investire del progetto di misura in discussione il Consiglio europeo. Questo entro quattro mesi dovrà trovare un accordo tra i governi che consenta di far adottare al Consiglio l’atto; in caso contrario quei nove Stati membri (o altri nello stesso numero) saranno considerati autorizzati ad avviare tra loro una cooperazione rafforzata sulla base di quel progetto di misure.
6. b) La procedura legislativa ordinaria Con il Trattato di Lisbona, la procedura legislativa ordinaria ha preso il posto occupato dalla procedura di codecisione nei precedenti Trattati. Essa ha preso quel posto innanzitutto in termini quantitativi: oltre a rimpiazzare la procedura di codecisione in tutti quei casi in cui era prima previsto che si dovesse far ricorso a questa per l’adozione di un atto dell’Unione, la procedura legislativa ordinaria vede esteso il suo ambito di applicazione a una quarantina di ulteriori basi giuridiche per un numero complessivo che supera così le settanta. Essa ha inoltre sostituito la procedura di codecisione anche sotto il profilo qualitativo, visto che, come emerge da un confronto tra gli articoli ad esse rispettivamente dedicati prima nel TCE (art. 251) ora nel TFUE (art. 294), la nuova procedura riproduce sostanzialmente l’impostazione della precedente, apportandovi solo alcuni aggiustamenti. Il primo di questi è più d’immagine, che di sostanza. L’avvio della procedura di codecisione si basava su uno schema analogo a quello, precedentemente descritto, della procedura di consultazione: presentazione di una proposta da parte della Commissione, parere su di essa del Parlamento europeo, pronuncia del Consiglio, pronuncia che però qui poteva portare sia all’adozione dell’atto, in caso di condivi-
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sione del parere del Parlamento, sia ad una c.d. posizione comune del Consiglio su cui si innestava la seconda fase della procedura. Nel caso della procedura legislativa ordinaria, invece, il Parlamento è chiamato non a esprimere un parere, ma ad adottare anch’esso, al pari del Consiglio, una «posizione in prima lettura». Ma al di là dell’equiparazione nominalistica delle rispettive pronunce, il ruolo di ciascuna delle due istituzioni in questa, come nelle successive fasi della nuova procedura, non differisce rispetto a quello che era loro riservato nella codecisione. Il primo passo spetta comunque al Parlamento europeo, il quale deve adottare la propria posizione in prima lettura e trasmetterla al Consiglio. Se questo approva la posizione del Parlamento, l’atto è adottato nella formulazione che corrisponde a tale posizione, anche se essa si discosta dalla proposta della Commissione. Nel caso invece in cui il Consiglio non concordi con la posizione del Parlamento, esso adotterà a sua volta una posizione in prima lettura e la trasmetterà al Parlamento, dando così inizio alla seconda fase («seconda lettura») del procedimento. E benché non sia esplicitamente detto, ciò potrebbe avvenire anche perché è il Consiglio a non condividere una proposta della Commissione pur approvata dal Parlamento. Il Parlamento europeo ha tre mesi per pronunciarsi e a seconda della sua valutazione della posizione in prima lettura del Consiglio si produrranno tre diversi scenari. I primi due – approvazione esplicita o implicita (per mancata pronuncia entro la scadenza prescritta) della posizione, ovvero sua bocciatura (a maggioranza dei membri del Parlamento) – hanno lo stesso esito di porre fine al procedimento: nel primo caso l’atto si considera definitivamente adottato, nel secondo definitivamente non adottato. La terza eventualità è che il Parlamento, sempre a maggioranza dei suoi membri, proponga emendamenti alla posizione del Consiglio. Su questi la Commissione è chiamata a formulare un suo parere; e a questo punto, e di nuovo entro tre mesi, il Consiglio potrà approvare a maggioranza qualificata tutti gli emendamenti parlamentari (all’unanimità se si tratta di emendamenti che hanno avuto parere contrario della Commissione) e potrà di conseguenza adottare formalmente l’atto così emendato; ovvero dovrà convocare entro sei settimane, d’intesa con il Parlamento europeo, un comitato di conciliazione composto dai membri del Consiglio (o da loro rappresentanti: di regola i membri del COREPER) e da altrettanti membri del Parlamento, al quale partecipa anche la Commissione. Il comitato di conciliazione ha il compito di trovare, sulla base delle posizioni espresse dal Parlamento e dal Consiglio in seconda lettura, ed entro un termine di sei settimane, un accordo su un «progetto comune» che possa dar luogo, entro un identico termine, all’adozione dell’atto da parte del Consiglio (a maggioranza qualificata) e del Parlamento (a maggioranza dei voti espressi) nel quadro di quella che viene definita dallo stesso art. 294 TFUE la «terza lettura» della procedura legislatura ordinaria. Come ha avuto modo di osservare la stessa Corte di giustizia (10 gennaio 2006, C-344/04, IATA e ELFAA, I-403, punto 57 s.), nella ricerca dell’accordo su un progetto comune il Comitato di conciliazione gode di una significativa libertà. Secondo la Corte, infatti, «il comitato di conciliazione, una volta convocato, non ha il compito di raggiungere un accordo sugli emendamenti proposti dal Parlamento, ma, come risulta dalla stessa formulazione dell’art. 251 CE, “di giungere ad un accordo su un progetto comune”, esaminando la posizione comune adottata dal Consiglio, sulla base degli emendamenti proposti dal Parlamento. Il testo dell’art. 251 CE non comporta quin-
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di, di per sé, alcuna restrizione per quanto riguarda il contenuto delle misure adottate che consentono di raggiungere un accordo su un progetto comune». In effetti, prosegue la Corte, «ricorrendo al termine “conciliazione”, gli autori del Trattato hanno voluto attribuire un effetto utile alla procedura prescelta e attribuire al comitato di conciliazione un ampio potere discrezionale. Adottando tali modalità di risoluzione del disaccordo, essi hanno precisamente cercato di ottenere che il ravvicinamento dei punti di vista del Parlamento e del Consiglio avvenga sulla base di un esame di tutti gli aspetti di tale disaccordo, e con l’attiva partecipazione della Commissione delle Comunità europee ai lavori del comitato di conciliazione, al quale spetta di prendere “tutte le iniziative necessarie per favorire un ravvicinamento fra le posizioni del Parlamento (…) e del Consiglio”».
In caso di mancato accordo in comitato di conciliazione, «l’atto in questione si considera non adottato». Nulla esclude però che lo stesso possa prodursi anche laddove quell’accordo ci sia, visto che il progetto uscito dal comitato di conciliazione potrebbe non trovare nella terza lettura dinanzi al Consiglio o al Parlamento le maggioranze necessarie a tradurlo in un atto definitivo. Del resto, se ciò è improbabile che si verifichi da parte del Consiglio, vista la partecipazione al comitato di conciliazione di tutti i suoi membri, non può dirsi altrettanto per il Parlamento, la cui plenaria potrebbe non condividere l’operato della sua delegazione nel comitato. L’ipotesi si è finora prodotta in tre soli casi: nel 1995, con il progetto di accordo sulla proposta di direttiva sulla protezione delle invenzioni biotecnologiche, bocciato con 240 voti contro 188 e 23 astensioni; nel 2001, quando il PE non ratificò, con una votazione conclusasi in perfetta parità (273 voti a favore e 273 contrari), che comporta per il Regolamento interno del PE non adozione della delibera, il progetto di accordo raggiunto dal comitato di conciliazione su una proposta di direttiva sulle offerte pubbliche d’acquisto; e infine nel 2003 con la bocciatura per 229 a 209 (e 16 astensioni) del compromesso del Comitato di conciliazione sulla proposta di direttiva sui servizi portuali. Dal canto suo, il Consiglio non ha ovviamente mai respinto un progetto comune. Abbastanza rari sono finora stati, peraltro, anche i casi in cui è stato il Comitato di conciliazione che non è riuscito a raggiungere un accordo su un testo comune. Se ne contano infatti solo quattro, che hanno riguardato le proposte relative al servizio di telefonia vocale (1994), alla sicurezza dei prodotti (1998), alla direttiva sull’orario di lavoro (2009) e al regolamento sui nuovi prodotti alimentari (2011).
La procedura legislativa ordinaria si associa per sua natura alla votazione a maggioranza qualificata in seno al Consiglio. E di conseguenza è ad essa di piena applicazione la previsione del già ricordato art. 293, par. 1, TFUE, secondo cui, quando «in virtù dei Trattati delibera su proposta della Commissione, il Consiglio può emendare la proposta solo deliberando all’unanimità». Qualche dubbio potrebbe sussistere che debba essere così anche quando l’atto sia adottato perché il Consiglio approva una posizione del Parlamento che si discosti dalla proposta della Commissione. Nel quadro della procedura di codecisione sembrava possibile interpretare questo passaggio nel senso che ciò potesse avvenire anche a maggioranza qualificata del Consiglio. Il nuovo art. 293 TFUE pare invece escludere un’interpretazione del genere, visto che esso fa esplicita menzione dei casi in cui nella procedura legislativa ordinaria è fatta eccezione alla regola dell’unanimità per una pronuncia del Consiglio in difformità dalla proposta: il Consiglio non è tenuto ad applicarla solo quando vota sul progetto comune del comitato di conciliazione, che ciò avvenga durante la stessa fase della conciliazione o in terza lettura.
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Proprio la circostanza che la procedura legislativa ordinaria si basi sulla votazione a maggioranza qualificata in seno al Consiglio, ha comportato che la sua estensione a taluni settori sensibili (sicurezza sociale e cooperazione giudiziaria in materia penale) decisa con il Trattato di Lisbona sia stata possibile solo alla condizione, imposta da alcuni Stati membri, di associarvi in quei settori un meccanismo che, come abbiamo visto, è stato definito nel gergo comune di «freno d’emergenza». In base ad esso, quando un membro del Consiglio ritenga che l’atto che si sta adottando con procedura legislativa ordinaria in uno di quei settori incide su aspetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico, esso può investire della questione il Consiglio europeo e la procedura è sospesa (artt. 48, 82 e 83 TFUE). Se entro quattro mesi il Consiglio europeo trova un accordo al suo interno, la questione viene riassunta dal Consiglio facendo così riprendere il corso normale della procedura di adozione. In caso contrario, questa si interrompe definitivamente e l’atto inizialmente proposto si considera non adottato. Questa eventualità si accompagna però in due casi (artt. 82, par. 3, e 83, par. 3, TFUE) alla previsione, analoga a quella che si è già visto caratterizzare altre forme di intervento del Consiglio europeo nel processo legislativo dell’Unione, che se almeno nove Stati membri intendono avviare tra loro una cooperazione rafforzata sulla base di quel progetto di atto, l’iniziativa si considera automaticamente autorizzata.
Come si è già accennato, in casi eccezionali specificamente previsti nei Trattati, l’iniziativa di adottare un atto dell’Unione con procedura legislativa ordinaria può venire, invece che dalla Commissione, dagli Stati membri, dalla BCE o dalla Corte di giustizia. Quando sia questo il caso, lo svolgimento della procedura non vede evidentemente la partecipazione della Commissione secondo le modalità precedentemente ricordate. Essa può essere tuttavia ugualmente coinvolta, sia esprimendo un parere di sua iniziativa o su richiesta del Parlamento o del Consiglio, sia decidendo di partecipare al comitato di conciliazione. Quale ne sia il promotore, la procedura legislativa ordinaria mette definitivamente sullo stesso piano, come si è visto, il Consiglio e il Parlamento europeo nel processo di adozione degli atti dell’Unione, nel senso che risulta indispensabile, per il buon esito di questo, la volontà concorde di ambedue le istituzioni. Peraltro questa condizione esercita la sua influenza anche sulla durata del procedimento, in quanto è previsto che esso possa chiudersi (positivamente o negativamente) senza ulteriori appendici, non appena si configura un accordo ovvero un dissenso radicale tra le due istituzioni. Dato l’esteso ambito di applicazione della procedura legislativa ordinaria, quest’ultimo aspetto appare particolarmente importante. È stato, infatti, calcolato che nella sua interezza la durata media della procedura è di circa due anni. La possibilità di una ricerca anticipata alla prima lettura di un accordo tra i due colegislatori può evidentemente consentire di mantenere lo svolgimento di buona parte del processo decisionale entro tempi più ragionevoli. Proprio per questo Parlamento, Consiglio e Commissione hanno concluso da tempo un accordo interistituzionale che tende ad agevolare il funzionamento della procedura sotto questo aspetto. Si tratta della Dichiarazione comune sulle modalità pratiche della nuova procedura di codecisione del 13 giugno 2007, la quale prevede, tra l’altro, contatti frequenti tra le tre istituzioni, per mezzo dei c.d. triloghi, durante tutta la procedura e in particolare fin dalla prima lettura, nonché una sincronizzazione dei rispettivi calendari di lavoro. In pratica i triloghi sono incontri informali tra la presidenza di turno del Consiglio, la Commissione e i presidenti o i relatori delle Commissioni competenti del PE, incontri che accompagnano tutto lo svolgimento della procedura prepa-
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rando le riunioni formali delle istituzioni coinvolte e del comitato di conciliazione (cfr. i parr. 7 e 8 della Dichiarazione comune). La sostanza della Dichiarazione è stata ripresa, con qualche aggiornamento, all’interno del già citato Accordo interistituzionale “Legiferare meglio” del 13 aprile 2016, par. 32 ss. L’efficacia delle soluzioni concordate con questa Dichiarazione comune è dimostrata dalla circostanza che ormai quasi l’80% delle procedure legislative ordinarie si chiude positivamente in prima lettura. Mentre il numero dei casi in cui si è dovuto arrivare al comitato di conciliazione è andato progressivamente e drasticamente riducendosi: si è passati dal 20% delle procedure della legislatura europea 1999-2004 al 2% della legislatura 2009-2014, per attestarsi, in quella attuale, su una o due conciliazioni l’anno.
7. c) La procedura di approvazione Per taluni atti dell’Unione è infine applicabile una procedura di adozione che, apparentemente modellata su quella di consultazione, prevede non solo che sia necessario il parere del Parlamento europeo affinché il Consiglio possa adottare l’atto, ma che tale parere debba essere anche positivo. In altri termini, un parere negativo del Parlamento o la semplice mancanza dello stesso impedisce l’adozione dell’atto. Questa procedura, che originariamente era chiamata di parere conforme mentre ha assunto oggi la denominazione di procedura di approvazione, è stata prevista per la prima volta dall’AUE per l’adozione delle decisioni del Consiglio sulla conclusione degli accordi di associazione (si trattava allora dell’art. 300, par. 3, TCE) e sull’adesione di nuovi Stati membri (art. 49 TUE pre-Lisbona), per essere successivamente estesa ad altre decisioni attribuite dai Trattati alla competenza del Consiglio. Oggi, il suo ambito di applicazione è equamente ripartito tra ipotesi di procedura legislativa speciale e decisioni del Consiglio (e talvolta del Consiglio europeo) di rilievo istituzionale, quali nomine di componenti di istituzioni, clausole c.d. passerella, decisioni in materia di membership dell’Unione. Nel caso di queste ultime, essa è prevista, oltre che per l’adesione di nuovi Stati membri, anche per l’adozione della decisione con cui il Consiglio può sanzionare, ai sensi dell’art. 7, parr. 1 e 2, TUE, uno Stato membro per violazioni gravi dei principi di libertà e democrazia e di rispetto dei diritti fondamentali di cui all’art. 6 dello stesso Trattato, sulla quale decisione si veda quanto già detto in precedenza a p. 45.
Per quanto riguarda i casi in cui essa si caratterizza come una procedura legislativa speciale, la procedura di approvazione è sembrata evidentemente preferibile alla procedura legislativa ordinaria in certi settori di intervento dell’Unione, proprio in ragione del diverso ruolo che essa riconosce al Consiglio e al Parlamento europeo. È vero, infatti, che attribuendo sostanzialmente un diritto di veto al secondo, la procedura di approvazione mette anch’essa la volontà di questo sullo stesso piano di quella del Consiglio rispetto alla decisione finale circa l’adozione di determinati atti di competenza di quest’ultimo. Non per questo, però, essa appare totalmente assimilabile alla procedura legislativa ordinaria. Mentre questa consente al Parlamento europeo di contribuire direttamente e formalmente alla definizione del contenuto dell’atto, l’approvazione o meno del Par-
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lamento interviene su di un atto già definito, costituito dalla decisione che intende prendere il Consiglio. Va da sé, naturalmente, che nella dialettica istituzionale la prospettiva (o la minaccia) di una mancata approvazione da parte del Parlamento comporterà un’adeguata considerazione delle posizioni di questo da parte del Consiglio in sede di elaborazione dell’atto. Tuttavia la decisione finale spetterà comunque al solo Consiglio. Non a caso questa procedura fu originariamente introdotta nei Trattati in relazione all’adozione di atti in realtà non emendabili (decisione di conclusione di un accordo di associazione, su cui infra, p. 827 ss.) o che ponevano dinanzi a una scelta di principio (adesione o meno di un nuovo Stato membro).
8. Le procedure basate sulla delega di competenze normative e di esecuzione Nel sistema dei Trattati, una parte importante dell’attività normativa è tradizionalmente assicurata anche per mezzo dell’esercizio diretto di poteri decisionali da parte della Commissione. In realtà però, come si è già ricordato, solo in pochissimi casi poteri di questo genere le sono attribuiti in via specifica dagli stessi Trattati. Quasi sempre, quell’attività normativa è frutto di un’attribuzione di tali poteri da parte del legislatore, che esso sia il solo Consiglio ovvero, nel quadro della procedura legislativa ordinaria, il Parlamento e il Consiglio congiuntamente. Prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, questa possibilità si inquadrava unicamente nel più generale potere di esecuzione della Commissione, disciplinato dall’art. 202 TCE. Ai sensi di questo articolo, infatti, il legislatore comunitario poteva conferire «alla Commissione, negli atti che esso adotta, le competenze di esecuzione delle norme che [esso] stabilisce». E quest’ipotesi non contemplava solo il conferimento di competenze meramente esecutive, ma consentiva il trasferimento alla Commissione di un vero e proprio potere regolamentare, visto che, per giurisprudenza consolidata della Corte, la nozione di esecuzione comprende «al tempo stesso, l’elaborazione delle norme di attuazione e l’applicazione di norme a fattispecie particolari per mezzo di atti di portata individuale» (così, a distanza di tempo, 24 ottobre 1989, 16/88, Commissione c. Consiglio, 3457, punto 11, e 1° marzo 2016, C440/14 P, National Iranian Oil Company c. Consiglio, punto 36). E proprio in ragione della prima possibilità, era divenuta prassi normale che il legislatore lasciasse alla Commissione il compito di adottare la normativa di dettaglio di una disciplina da esso dettata solo in via generale nell’atto di base: ciò consentiva peraltro, soprattutto in certi settori in cui si applicava la procedura di codecisione, di procedere agli eventuali successivi aggiustamenti di quella normativa attraverso una procedura decisionale più rapida di quella che sarebbe stata altrimenti necessaria se quella data materia fosse stata interamente lasciata alla regolazione del legislatore. A ciò si aggiunga che anche la portata della normazione di dettaglio la cui emanazione poteva essere delegata alla Commissione in applicazione dell’art. 202 TCE è stata interpretata in senso estensivo. Essa non si limitava alla formulazione di regole tecniche o procedurali, ma comprendeva anche la competenza della Commissione di definire nozioni cui il legislatore dell’Unione si era limitato ad accennare, senza me-
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glio precisarne il contenuto, e di determinare dei criteri o addirittura d’imporre degli obblighi agli operatori economici, eventualmente anche attraverso modifiche di aspetti non essenziali dell’atto di base, quali quelle necessarie ad adattare ad esigenze imprevedibili l’ambito di applicazione di una determinata normativa o di adeguare al progresso tecnico iniziali valori fissati dal legislatore negli allegati tecnici all’atto di base. Del resto, la giurisprudenza ha ulteriormente precisato, su un piano più generale, che la delega di cui all’art. 202 TCE poteva legittimamente comportare l’attribuzione alla Commissione di «ampie facoltà di valutazione e d’azione» (30 ottobre 1975, 23/75, Rey Soda, 1279, punto 11), autorizzando la stessa «ad adottare tutti i provvedimenti esecutivi necessari o utili per l’attuazione della disciplina di base, purché essi non siano contrastanti con quest’ultima» (15 maggio 1984, 121/83, Zückerfabrik Franken, 2039, punto 13). Peraltro, la stessa Corte ha ritenuto che «il Consiglio, in quanto ha fissato nel suo regolamento di base le norme essenziali della materia di cui trattasi, può delegare alla Commissione il potere generale di adottare le modalità di applicazione senza dover precisare gli elementi essenziali delle competenze delegate e che, a tal fine, una disposizione redatta in termini generici fornisce una base di autorizzazione sufficiente» (27 ottobre 1992, C-240/90, Germania c. Commissione, 5383, punto 41).
Nei nuovi Trattati, almeno in relazione agli atti legislativi questa competenza della Commissione vede significativamente modificata la sua portata dalla distinzione, introdotta dal Trattato di Lisbona, tra la c.d. delega alla stessa Commissione di veri e propri poteri normativi e l’esercizio di meri poteri di esecuzione. Come si è già avuto modo di ricordare, infatti, l’art. 290 TFUE prevede che un «atto legislativo» possa delegare alla Commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale destinati a integrare o modificare elementi non essenziali dell’atto legislativo. Dal canto suo, l’art. 291 dello stesso Trattato disciplina l’«esecuzione» degli «atti giuridicamente vincolanti», stabilendo che, laddove vi sia la necessità di condizioni uniformi di esecuzione a livello europeo di tali atti, «questi conferiscono competenze di esecuzione alla Commissione» (o, in casi debitamente motivati, al Consiglio). Un’attività di esecuzione a livello di Unione degli atti normativi di questa è oggi formalmente prospettata dai Trattati in via solo subordinata. L’art. 291 precisa, infatti, che, in linea di principio, tale attività spetta agli Stati membri, i quali sono tenuti ad adottare «tutte le misure di diritto interno necessarie per l’attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione» (par. 1). Mentre un intervento dell’Unione è appunto previsto solo «allorché sono necessarie condizioni uniformi di esecuzione» di tali atti.
Se nel regime pre-Lisbona la distinzione tra questi due diversi ambiti presentava interesse prevalentemente teorico, o comunque meno fondamentale, ricadendo l’esercizio della corrispondente competenza della Commissione sotto uno schema procedurale, quello della c.d. comitologia, sostanzialmente unitario, pur se caratterizzato da una serie di varianti collegate alle due «anime», regolamentare ed esecutiva, di quella competenza, la stessa distinzione acquista ora, al contrario, un’importanza decisiva. L’esercizio della delega che può essere conferita alla Commissione ai sensi dell’art. 290 TFUE è soggetto infatti, come vedremo, a procedure ben diverse
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da quelle che caratterizzano, invece, il «controllo da parte degli Stati membri» che l’art. 291 TFUE prevede debba aversi sull’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla stessa Commissione. Come dimostra la prassi precedente al Trattato di Lisbona, la distinzione tra le ipotesi disciplinate dai due articoli sopra citati può non essere sempre facile, anche se essi forniscono degli elementi che sicuramente differenziano in maniera netta una parte dei rispettivi ambiti di applicazione. Uno di questi è certamente il concetto di «modifica» di elementi non essenziali dell’atto legislativo, che, ai sensi dell’art. 290 TFUE, può essere affidato alla Commissione solo per la via della delega disciplinata da questo articolo. Esso infatti indentifica un’attività che sarebbe difficile definire di mera esecuzione, e che è allo stesso tempo chiaramente individuata da un elemento oggettivo come è appunto quello di «modifica». In modo simmetrico, esclusivamente nell’idea di «esecuzione», cui si riferisce l’art. 291 TFUE, rientra senza dubbio l’adozione di provvedimenti di attuazione a carattere individuale di un atto giuridicamente vincolante dell’Unione, i quali possono essere affidati alla Commissione, invece che lasciati alla competenza dei singoli Stati membri, quando appaia necessario, come recita quell’articolo, che essi siano soggetti a condizioni uniformi di emanazione; ma certamente ciò non consente alla Commissione di «modificare … l’atto legislativo, neppure nei suoi elementi non essenziali» (16 luglio 2015, C-88/14, Commissione c. Parlamento e Consiglio, punto 31). Ma fermi restando questi due estremi, meno chiara può risultare invece, nella pratica, la distinzione tra la necessità di integrare elementi non essenziali di un atto legislativo, ricorrendo all’art. 290 TFUE, e quella di dare esecuzione a quell’atto, al fine di facilitarne l’applicazione uniforme negli Stati membri, attraverso disposizioni di portata generale adottate ai sensi dell’art. 291 TFUE, che ne definiscano in maniera più dettagliata il contenuto. Manca infatti, in questo caso, un criterio distintivo oggettivo che consenta di tracciare una demarcazione netta tra le due ipotesi, né questo si può ricavare indirettamente dalla giurisprudenza riguardante il precedente art. 202 TCE, visto che essa riconduceva all’epoca, come abbiamo visto, ambedue le attività sotto la stessa nozione di esecuzione. Dal canto suo, la giurisprudenza sugli attuali art. 290 e 291 non elimina del tutto l’incertezza al riguardo. Pronunciandosi, infatti, sulla portata del potere “di esecuzione”, la Corte di giustizia ha affermato che nel suo esercizio la Commissione «è chiamata a precisare il contenuto di un atto legislativo, per garantire la sua attuazione a condizioni uniformi in tutti gli Stati membri” (da ultimo, 16 luglio 2015, C-88/14, cit., punto 30). Allo stesso tempo, però, chiamata a distinguere tra il potere “delegato” di modificare e quello di integrare elementi non essenziali dell’atto di base, essa ha precisato che quest’ultimo autorizza la Commissione ad attuare tale atto, sviluppando in dettaglio, nel rispetto dell’integralità dell’atto legislativo adottato dal legislatore, degli elementi non essenziali della specifica normativa che il legislatore non ha definito (17 marzo 2016, C286/14, Parlamento c. Commissione, punto 41).
La conseguenza è che può prestarsi a interpretazioni non necessariamente univoche, ai fini dell’alternativa tra il ricorso all’art. 290 TFUE o invece all’art. 291 dello stesso Trattato, la circostanza se in un caso specifico si tratta di completare elementi non essenziali di un atto legislativo o di dettare condizioni uniformi di esecuzione
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dello stesso. Un elemento distintivo potrebbe essere fornito dal grado e dalla natura della discrezionalità spettante alla Commissione nell’esercizio del potere conferitole dall’atto di base: mentre l’esercizio di un’attività normativa, come quella comunque configurata dall’art. 290 TFUE, implica inevitabilmente un certo livello di discrezionalità politica, per quanto limitata agli elementi non essenziali di una determinata disciplina, nel caso dell’esecuzione la discrezionalità della Commissione non può che rimanere confinata nella mera definizione tecnica di scelte «politiche» operate nell’atto da eseguire (Corte giust. 18 marzo 2014, C-427/12, Commissione c. Parlamento e Consiglio, punto 38). Questo apprezzamento dipenderà ovviamente dall’economia complessiva dell’atto che attribuirà alla Commissione l’uno o l’altro compito. Per cui, ferma restando la competenza finale della Corte in materia, nella prassi quotidiana il dubbio dovrà essere in ogni caso sciolto dall’istituzione o dalle istituzioni cui spetta adottare l’atto in questione. Del resto, ferme restando le condizioni rispettivamente poste dagli artt. 290 e 291, esse dispongono di un «potere discrezionale» quando decidono se ricorrere all’uno o all’altro di questi due articoli (Corte giust. 16 luglio 2015, C-88/14, cit., punto 28). È probabile che la loro scelta sarà condizionata anche dal loro concreto interesse a che l’adozione dell’atto normativo secondario che ne conseguirà sia assoggettata all’una o all’altra delle forme di controllo che, come qui di seguito si vedrà, l’art. 290 e l’art. 291 TFUE prevedono sull’esercizio da parte della Commissione delle relative competenze.
9. a) La procedura di delega legislativa Come si è detto, l’art. 290 TFUE permette al legislatore dell’Unione (Consiglio e/o Parlamento europeo), al momento di adottare un atto legislativo, di delegare con quello stesso atto alla Commissione il potere di adottare a sua volta degli atti non legislativi di portata generale che integrino o modifichino elementi non essenziali di quell’atto legislativo. Alla luce dei principi propri di alcuni ordinamenti nazionali, quale quello italiano, potrebbe discutersi della correttezza dell’uso del termine «delega» rispetto a un’ipotesi in cui la Commissione è chiamata ad esercitare un potere diverso, perché non legislativo, da quello del legislatore «delegante», come dimostra la precisazione esplicita dell’art. 290 TFUE che nell’esercizio di quel potere la Commissione adotta «atti non legislativi» che integrano o modificano elementi non essenziali di un «atto legislativo». Da questo punto vista, infatti, la fattispecie disciplinata da tale articolo sembra piuttosto evocare l’ipotesi, frequente anche negli ordinamenti nazionali, di una «delegificazione» affidata alla Commissione attraverso un’autorizzazione concessale dal legislatore.
L’art. 290 prospetta due ipotesi di delega nettamente distinte: nel primo caso il legislatore si astiene dal dettare una disciplina completa ed esaustiva, limitandosi a fissarne gli elementi essenziali e lasciando alla Commissione il compito di definirne i particolari; nel secondo caso, invece, la Commissione è delegata ad apportare modifiche formali al testo legislativo, aggiungendovi nuovi elementi non essenziali ovvero sostituendo o eliminando tali elementi. Ciò «impone al legislatore di stabilire la na-
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tura della delega che intende conferire alla Commissione» in modo chiaro, non spettando a quest’ultima di decidere al riguardo (Corte giust. 17 marzo 2016, C-286/14, cit. punto 46). Rispetto all’atto legislativo che conferisce la delega, comunemente definito «atto di base», l’atto della Commissione sarà comunque un atto delegato, assumendo anche ufficialmente questa qualificazione che andrà ad aggettivare lo strumento normativo concretamente usato (regolamento delegato, direttiva delegata, ecc.). Ma mentre l’attribuzione alla Commissione del potere di modificare elementi non essenziali dell’atto legislativo comporterà che le disposizioni dell’atto delegato andranno comunque ad inserirsi in tale atto, nel caso in cui il potere delegato alla Commissione sia quello di integrare la disciplina dettata a livello legislativo l’atto delegato dovrebbe rimanere in tutto e per tutto un atto distinto da quello legislativo, per potere essere successivamente modificabile dalla stessa Commissione. In questo senso si veda la sentenza da ultimo cit. punti 54-56, secondo la quale «occorre ricordare che la possibilità di delegare poteri previsti dall’articolo 290 TFUE è diretta a consentire al legislatore di concentrarsi sugli elementi essenziali di una normativa nonché sugli elementi non essenziali sui quali esso ritenga opportuno legiferare, affidando tuttavia alla Commissione il compito di «integrare» determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo adottato ovvero di «modificare» tali elementi nell’ambito di una delega conferita a quest’ultima. Orbene, un elemento adottato dalla Commissione nell’esercizio di un potere conferitole di «integrare» un atto legislativo, ma che forma parte integrante di tale atto, non può, di conseguenza, essere sostituito o eliminato nell’esercizio di tale potere che ha portato alla sua adozione, atteso che tali interventi richiedono un potere di «modificare» detto atto. Spetterebbe quindi al legislatore intervenire ove divenga necessario sostituire o eliminare l’elemento aggiunto, o dettando esso stesso un atto legislativo o conferendo alla Commissione un potere delegato di «modificare» l’atto in questione. L’inserimento, nell’ambito dell’esercizio di un potere di «integrare» un atto legislativo, di un elemento nel testo stesso di tale atto osterebbe infatti a un’applicazione effettiva di un tale potere. Laddove la Commissione invece «integri» un atto legislativo adottando un atto distinto, essa può, nella misura necessaria, modificare quest’ultimo atto senza essere tenuta a modificare l’atto legislativo stesso».
L’art. 290 non precisa cosa si debba intendere per elementi non essenziali di un atto di base. E dal canto suo la giurisprudenza ha fornito al riguardo delle indicazioni necessariamente di carattere generale: da un lato, la Corte di giustizia ha definito come elementi essenziali di un atto quelle «disposizioni che hanno a oggetto di tradurre gli orientamenti fondamentali della politica comunitaria» su cui verte l’atto in questione (27 ottobre 1992, C-240/90, Germania c. Consiglio, I-5383, punto 37), implicando quindi «scelte politiche rientranti necessariamente nelle responsabilità proprie del legislatore dell’Unione» (5 settembre 2012, C-355/10, Parlamento c. Consiglio, punto 65); dall’altro lato, essa ha ritenuto come non essenziali altre disposizioni per il fatto che le stesse non pregiudicavano «l’economia generale» dell’atto di cui facevano parte (23 ottobre 2007, C-403/05, Parlamento c. Commissione, I-9045, punto 51). Spetterà perciò al legislatore, nel conferire la delega, decidere sulla base della proposta della Commissione quali elementi dell’atto devono essere considerati essenziali e quali non essenziali. È vero che la stessa Corte ha precisato che «nell’accertare quali siano gli elementi di una materia che devono essere qualificati come es-
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senziali non ci si deve basare sulla sola valutazione del legislatore dell’Unione, bensì su elementi oggettivi che possano essere sottoposti a sindacato giurisdizionale» (Corte giust. 5 settembre 2012, C-355/10, Parlamento c. Consiglio, punto 67 s.). Va da sé, tuttavia, che il legislatore manterrà un notevole margine di apprezzamento, dato che il suo giudizio andrà formulato anche alla luce del margine d’azione più o meno ampio che egli intende lasciare alla Commissione. L’art. 290 TFUE stabilisce, in effetti, che l’atto di base deve delimitare esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega. Esso indica, inoltre, alcune condizioni cui può essere soggetta, in base alle previsioni dell’atto legislativo di base, l’attribuzione della stessa. In particolare, vi è previsto che l’atto legislativo possa stabilire che il Parlamento europeo o il Consiglio possano decidere di revocare la delega, ovvero che l’atto delegato possa entrare in vigore solo se entro un certo termine, da fissare nell’atto di base, nessuna delle due istituzioni ha sollevato un’obiezione (par. 2, comma 1). A questi fini, il Parlamento e il Consiglio deliberano a maggioranza dei propri membri, l’uno, a maggioranza qualificata, l’altro (par. 2, comma 2). A differenza di quanto vedremo essere stabilito in relazione all’esercizio di competenze di esecuzione, non è previsto qui un atto che debba predeterminare con valore vincolante per il legislatore le condizioni e modalità di funzionamento di questi due meccanismi di controllo (ad esempio, i motivi che possono giustificare una revoca o gli effetti dell’obiezione). La loro definizione è quindi affidata al negoziato tra le istituzioni che porta all’adozione dell’atto, il quale dovrà anche stabilire a quale dei due meccanismi ricorrere nel caso concreto o se applicarli entrambi, visto che la formulazione dell’art. 290 TFUE e la loro funzione non escludono questa possibilità, operando l’uno sul singolo atto delegato (l’obiezione) e l’altro sul perdurare della delega in capo alla Commissione (la revoca). Per assicurare un’applicazione coerente degli stessi, così come degli altri aspetti della disciplina dettata dall’art. 290 TFUE, Parlamento europeo, Consiglio e Commissione hanno però concluso il 13 aprile 2016 una «Convenzione d’intesa sugli atti delegati» (allegata al citato Accordo interistituzionale «Legiferare meglio» della stessa data) diretta a specificare nei dettagli il modo in cui le tre istituzioni intendono dare applicazione a tale articolo. La Convenzione ha in primo luogo precisato che la delega alla Commissione per l’adozione di atti delegati in una certa materia può essere disposta dall’atto legislativo tanto a tempo indeterminato, che per una scadenza prefissata. In questo secondo caso, però, è stabilito che si dovrebbe in linea di principio prevedere un rinnovo automatico di quel termine per periodi di identica durata, fatta salva la possibilità del Parlamento o del Consiglio di opporsi al rinnovo fino a tre mesi prima di quella scadenza. La soluzione seguita al riguardo dalla Convenzione trova così un punto di equilibrio ragionevole tra quanto stabilito dall’art. 290 TFUE, che prescrive, al pari di quanto normalmente previsto anche dagli ordinamenti nazionali rispetto all’istituto della delega di competenze legislative dal Parlamento al governo, che nell’attribuire la delega alla Commissione il legislatore europeo debba delimitarne esplicitamente la durata; e la funzione di semplificazione e velocizzazione del processo decisionale che l’introduzione al suo interno del meccanismo della delega ha puntato a soddisfare. L’indicazione di un termine invalicabile oltre il quale la delega non può essere più esercitata potrebbe infatti apparire poco coerente, se non addirittura in aperta contraddizione con quella funzione e quindi con la stessa finalità che il più delle volte induce a conferire tale competenza alla Commissione, visto che questa sarebbe costretta, per modificare dopo lo scadere di quel termine un precedente atto delegato, a dover presentare una proposta di
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modifica dell’atto di base per potere effettivamente procedere a quell’adeguamento. Peraltro, le obiezioni che generalmente militano nel diritto interno contro la concessione di deleghe temporalmente aperte, non hanno ragione di porsi nel quadro del sistema previsto dall’art. 290 TFUE, visto che qui, come abbiamo visto, il legislatore ha comunque a disposizione lo strumento (la revoca) attraverso cui porre termine in qualsiasi momento alla delega conferita alla Commissione, oltre a poter obiettare all’atto con cui questa l’ha concretamente esercitata. Per quanto riguarda proprio l’esercizio della delega una volta concessa, la Convenzione disciplina anche il potere di obiezione che il legislatore può riservarsi sugli atti delegati adottati dalla Commissione. Essa dispone infatti che, salvo diversa previsione dell’atto di base, questo potere dovrebbe essere esercitabile in linea generale entro due mesi dalla notifica dell’atto delegato a Parlamento europeo e Consiglio. Inoltre, pur nel silenzio dell’art. 290 TFUE al riguardo, la Convenzione consente che a fronte di ragioni d’urgenza, legate alla protezione della salute o a crisi umanitarie, la Commissione possa eccezionalmente adottare l’atto delegato immediatamente, salvo revocarlo a seguito di una successiva obiezione del Parlamento o del Consiglio. Infine, in ragione della piena libertà di cui dispone la Commissione nella definizione del contenuto degli atti delegati, la Convenzione la vincola a svolgere consultazioni con gli esperti degli Stati membri, nonché consultazioni pubbliche prima dell’adozione di tali atti. È inoltre previsto che il Parlamento e il Consiglio abbiano pari accesso alle informazioni relative a dette consultazioni di esperti.
L’art. 290 TFUE non prospetta all’apparenza alcuna differenza nel funzionamento dei meccanismi di revoca della delega e di obiezione all’atto delegato, ricollegabile al tipo di atto legislativo che conferisce la delega alla Commissione. In particolare esso non distingue se l’atto legislativo è stato adottato sulla base della procedura legislativa ordinaria o di quella speciale. È però evidente che, pur se nulla dice, l’articolo va interpretato nel senso che in questo secondo caso quei meccanismi debbano adattarsi al tipo di procedura legislativa applicabile, diventando utilizzabili solo dall’istituzione che ha adottato l’atto legislativo di base. In caso contrario ne deriverebbe un’asimmetria tra la posizione del Parlamento europeo e del Consiglio nella fase di adozione dell’atto legislativo e in quella di controllo sull’esercizio della delega da parte della Commissione: se, ad esempio, l’atto fosse stato adottato con una procedura legislativa speciale che prevede la sola consultazione del Parlamento europeo, questo si troverebbe a esercitare un controllo ben più intenso e soprattutto paritario con quello del Consiglio sull’operato della Commissione in fase di delega. La prassi d’applicazione è in effetti in questo senso. Si veda, a titolo di es., il reg. (UE) n. 973/2010 del Consiglio, del 25 ottobre 2010, recante sospensione temporanea dei dazi autonomi della tariffa doganale comune sulle importazioni di taluni prodotti industriali nelle regioni autonome delle Azzorre e di Madera (GUUE L 285, 4), adottato con procedura legislativa speciale dal solo Consiglio e i cui artt. 7, 8 e 9, nel prevedere la delega alla Commissione per l’adozione di determinati atti delegati, dispone che tali atti siano notificati al solo Consiglio, che la delega possa essere revocata unicamente da questo, cui solo compete inoltre formulare eventuali obiezioni.
10. b) La procedura di adozione di atti di esecuzione Dal canto suo, l’art. 291 TFUE disciplina, come si è detto, l’attribuzione della competenza a prendere a livello dell’Unione misure «uniformi» di esecuzione di atti
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giuridicamente vincolanti, adottati o meno dalle istituzioni sulla base di una procedura legislativa. La competenza di esecuzione spetta in linea generale alla Commissione, con la sola eccezione del settore della PESC, dove, quale ulteriore aspetto della specificità che si è voluto ad esso conservare, quella competenza appartiene allo stesso Consiglio per espressa previsione del par. 2 dell’art. 291. Anche negli altri settori, tuttavia, il compito di prendere misure esecutive di un atto può essere eccezionalmente affidato in casi specifici al Consiglio. Costituendo una deroga alla competenza generale di esecuzione riconosciuta dai Trattati alla Commissione, questa decisione deve essere però motivata «in modo circostanziato» (Corte giust. 24 ottobre 1989, 16/88, Commissione c. Consiglio, punto 10). Per un caso di ricorso a questa possibilità (sul quale si è peraltro pronunciata in senso positivo la Corte, nella sentenza 18 gennaio 2005, C-257/01, Commissione c. Consiglio, I-345), si vedano i reg. (CE) del Consiglio, del 24 aprile 2001, n. 789/2001, contenente disposizioni dettagliate e modalità pratiche relative all’esame delle domande di visto, e n. 790/2001, sull’esecuzione dei controlli e della sorveglianza alla frontiera (GUCE L 116, rispettivamente 2 e 5). Con la sentenza 6 maggio 2008, C-133/06, Parlamento c. Consiglio, I-3189, la Corte ha invece censurato l’insufficiente motivazione con cui il Consiglio aveva deciso di riservare a se stesso competenze di esecuzione di un atto di base, invece di conferire delega alla Commissione.
Quanto alla portata di questa competenza di “esecuzione”, la Corte di giustizia ha confermato anche sotto l’impero del Trattato di Lisbona che nel suo ambito, fermi restando i confini posti dal parallelo potere di delega previsto dall’art. 290, l’istituzione delegata (nella specie la Commissione) «è autorizzata ad adottare tutti i provvedimenti esecutivi necessari o utili per l’attuazione della disciplina di base, purché essi non siano contrastanti con quest’ultima» (15 ottobre 2014, C-65/13, Parlamento c. Commissione, punto 44). In particolare, la Corte ha ritenuto che anche misure di esecuzione non espressamente previste dall’atto di base possano considerarsi legittime, quando il loro obiettivo «concorda con l’obiettivo generale essenziale» di tale atto (ivi, punto 52 s.). La competenza della Commissione (o del Consiglio) a dare esecuzione a disposizioni di un determinato atto giuridicamente vincolante dell’Unione è disposta in astratto nello stesso art. 291 TFUE, ma il suo esercizio nel caso concreto richiede di essere attivato da un atto del Consiglio o del Consiglio e del Parlamento. Al pari di quanto avviene nel caso degli atti delegati, infatti, l’attribuzione di una competenza di esecuzione è disposta dallo stesso atto della cui esecuzione si tratta, al quale spetta anche definire le modalità che la Commissione (o il Consiglio) deve seguire nell’esercitare la competenza attribuitale. In questo caso, però, a differenza da quanto si è detto essere per gli atti delegati, un regolamento da adottare secondo la procedura legislativa ordinaria deve preventivamente fissare le regole e i principi relativi alle modalità con cui gli Stati membri possono esercitare un controllo sull’operato della Commissione (art. 291, par. 3, TFUE) e a cui si deve attenere il legislatore dell’Unione nel prevedere l’assoggettamento nel caso concreto della Commissione a tale controllo. Questa previsione riprende sostanzialmente quanto era a suo tempo disposto dal-
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l’art. 202 TCE, che affidava al Consiglio il compito di fissare anche in quel caso in un apposito atto i principi e le norme su cui avrebbero dovuto essere basate le modalità di esercizio della competenza di esecuzione della Commissione. Su questa base, il Consiglio aveva adottato con due successive decisioni (comunemente note come decisioni «comitologia» dal termine francese di comitato: «comité») la necessaria disciplina, la quale, nel prevedere che l’emanazione di misure esecutive da parte della Commissione potesse essere subordinata alla consultazione di un comitato composto da rappresentanti degli Stati membri (e presieduto da un rappresentante della Commissione senza diritto di voto), delineava anche i differenti tipi e procedure di comitato che l’atto di base avrebbe potuto decidere di applicare a questo fine nel caso concreto. Alcune di queste riconoscevano espressamente un ruolo di ultima istanza, nel controllo sull’operato della Commissione, al Consiglio e al Parlamento europeo. La prima decisione comitologia fu adottata il 13 luglio 1987 (GUCE L 197, 33), per venire poi interamente sostituita il 28 giugno 1999 dalla dec. 1999/468/CE (GUCE L 184, 23).
Il reg. (UE) n. 182/2011, del 6 febbraio 2011, con cui il Parlamento europeo e il Consiglio hanno appunto adottato, sulla base del par. 3 dell’art. 291, «le regole e i principi generali relativi alle modalità di controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione», è venuto ora a disciplinare la “nuova” comitologia post-Lisbona, in sostituzione di quelle precedenti decisioni. Esso, pur rimanendo incentrato, semplificandolo, sul precedente modello delle procedure di comitato, se ne discosta proprio sotto l’ultimo profilo indicato. In sintonia, infatti, con l’espresso riconoscimento da parte dell’art. 291 della competenza di principio degli Stati membri a eseguire gli atti dell’Unione e con la conseguente attribuzione agli stessi del controllo sulla Commissione quando tale competenza sia invece ad essa attribuita, il nuovo regolamento «comitologia» riserva al Parlamento europeo e al Consiglio unicamente la possibilità di eccepire, in qualsiasi momento, l’«eccesso di delega» da parte di un progetto di atto di esecuzione che la Commissione si accinga ad adottare. Quest’ultima ha il solo obbligo, in tal caso, di riesaminare il progetto e di informare le due istituzioni se intende modificarlo, ritirarlo o mantenerlo. Così l’art. 11 del regolamento comitologia. Questa possibilità è peraltro formalmente limitata all’esecuzione di atti di base adottati con procedura legislativa ordinaria. Le ragioni di questa limitazione non sono evidenti. Il meccanismo che vi è delineato, infatti, non è un vero e proprio meccanismo di controllo sul merito dell’esecuzione data dalla Commissione all’atto di base, ma riguarda un aspetto di legittimità della stessa, che potrebbe essere comunque oggetto di un ricorso alla Corte da parte di un’istituzione.
Come si è accennato, il controllo degli Stati membri sull’esercizio da parte della Commissione delle sue competenze di esecuzione rimane sostanzialmente imperniato, in base al reg. n. 182/2011, sul meccanismo delle procedure di comitato che caratterizzavano la precedente disciplina di comitologia. In pratica, ai sensi del regolamento, un atto di base che preveda la necessità di condizioni uniformi di esecuzione di alcune sue disposizioni può decidere che la Commissione debba adottare i
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conseguenti atti di esecuzione applicando una delle due procedure di comitato previste dal regolamento. La prima di queste è la c.d. «procedura consultiva», ai sensi della quale la Commissione è unicamente obbligata a sottoporre il progetto di misura esecutiva all’esame di un comitato (anche qui composto da rappresentanti degli Stati membri e presieduto dalla stessa Commissione) e di tenere poi in massima considerazione, ai fini del testo finale dell’atto da adottare, le opinioni emerse nel quadro di quell’esame o l’eventuale parere espresso a maggioranza semplice dal comitato. L’altra procedura, denominata «procedura d’esame» e di applicazione alle sole ipotesi espressamente indicate nel regolamento comitologia, riconosce una maggiore incisività all’intervento del comitato, nel senso che esso è chiamato a pronunciare, con un voto a maggioranza qualificata analogo a quello previsto per il Consiglio, un parere che solo se è positivo consente l’immediata adozione dell’atto di esecuzione da parte della Commissione. Laddove, invece, esso sia negativo, tale atto non può essere adottato; mentre se il comitato non riesce a formulare alcun parere, la Commissione può adottarlo solo a condizione che esso non riguardi alcune materie sensibili (fiscalità, servizi finanziari, protezione della salute e della sicurezza umana, animale e vegetale, misure multilaterali di salvaguardia), ovvero se l’atto di base non glielo vieta o se non vi è la contrarietà di una maggioranza semplice del comitato. L’art. 2, par. 2 del regolamento comitologia prevede l’applicabilità della procedura di esame all’adozione di atti di esecuzione di portata generale o di atti di esecuzione riguardanti programmi con implicazioni sostanziali, la politica agricola comune e la politica comune della pesca, l’ambiente, la sicurezza, o la protezione della salute o la sicurezza delle persone, degli animali o delle piante, la politica commerciale comune e la fiscalità. Il par. 3 dello stesso articolo precisa invece che la procedura consultiva è applicabile in linea di principio ad atti di esecuzione diversi da quelli appena citati.
Di fronte a un parere negativo del comitato d’esame, la Commissione ha l’ulteriore possibilità, oltre che di sottoporre a quest’ultimo un nuovo progetto di atto entro due mesi dalla sua bocciatura, di ripresentare il progetto precedentemente bocciato a un c.d. comitato di appello, comitato di analoga composizione degli altri. E in caso di parere positivo a maggioranza qualificata da parte di questo, essa potrà adottare l’atto. Il comitato di appello è un comitato di analoga composizione degli altri, ma nel quale gli Stati membri dovrebbero essere rappresentati a «livello adeguato» (eventualmente anche ministri) alla funzione di riesame politico cui tale comitato è chiamato (art. 3, par. 7, del regolamento comitologia). Dal canto suo, l’art. 1, par. 5, del regolamento interno del comitato di appello, adottato dallo stesso comitato di appello il 29 marzo 2011 (GUUE C 183, 13), precisa che, «di norma, il livello della rappresentanza non dev’essere inferiore a quello dei membri del comitato dei rappresentanti permanenti dei governi degli Stati membri», fermo restando che «gli Stati membri possono … indicare il livello di rappresentanza che ritengono opportuno, che dev’essere sufficientemente elevato e di natura orizzontale, compreso il livello ministeriale». La possibilità di rivolgersi al comitato di appello è peraltro aperta alla Commissione anche nel caso in cui l’adozione dell’atto di esecuzione bocciato dal comitato d’esame o bloccato dalla mancata pronuncia da parte di questo di un parere sia necessaria e urgente, «per evitare il verificarsi di crisi significative nel settore dell’agricoltura o di un rischio agli interessi finanziari dell’Unione».
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In tal caso, infatti, la Commissione può adottare immediatamente l’atto di esecuzione, ma deve immediatamente dopo sottoporlo al comitato di appello per parere, che se è negativo costringe la Commissione ad abrogare l’atto in questione (art. 7 del regolamento comitologia). L’urgenza può motivare anche in modo più generale un’adozione immediata delle misure di esecuzione da parte della Commissione in deroga alle procedure di comitato appena descritte. Se l’atto di base così preveda, infatti, la Commissione può anche, a fronte di motivi di urgenza debitamente giustificati, sottoporre un atto di esecuzione direttamente al comitato di appello solo dopo la sua adozione. L’atto rimarrà però d’applicazione per un massimo di sei mesi, a meno che lo stesso non debba essere abrogato prima dalla stessa Commissione: è infatti previsto che per gli atti urgenti cui si sarebbe dovuto ordinariamente applicare la procedura d’esame, il successivo parere negativo del comitato obbliga comunque la Commissione a procedere immediatamente alla loro abrogazione (art. 8 del regolamento comitologia).
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Parte Seconda
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Introduzione
Introduzione L’azione che l’Unione svolge nel quadro del complesso sistema normativo ed istituzionale descritto nei precedenti capitoli si presta a determinare tanto nei rapporti interni della stessa Unione quanto nei confronti dei destinatari di quella azione, in particolare in capo ai soggetti privati, una pluralità di situazioni giuridiche che, trovando il proprio fondamento appunto nel diritto dell’Unione, non possono non ricevere da questo, o grazie a questo, un’apposita e adeguata tutela. Per rispondere a una siffatta esigenza, peraltro, il sistema dell’Unione appare particolarmente attrezzato, perché esso può contare non solo su un apparato giudiziario che non ha uguali in alcun altro ente internazionale, ma altresì su un’ampia gamma di strumenti destinati a soddisfare – come si deve in quella che la stessa Corte di giustizia ha qualificato come una «Comunità/Unione di diritto» – le esigenze di un ordinamento che vuole e deve essere improntato al principio di legalità e quindi anche assicurare la pienezza della tutela giurisdizionale: dalle azioni che tendono ad accertare l’osservanza degli obblighi imposti agli Stati membri a quelle che mirano a salvaguardare le prerogative degli organi dell’Unione e il rispetto degli equilibri interistituzionali; da quelle volte a controllare la legittimità dei comportamenti delle istituzioni a quelle relative alla responsabilità aquilana delle stesse, alle procedure di collaborazione con i giudici nazionali; e così via. Come ha sottolineato la Corte, in una giurisprudenza assolutamente univoca, «l’Unione è un’Unione di diritto, nel senso che le sue istituzioni sono soggette al controllo della conformità dei loro atti, segnatamente, ai Trattati, ai principi generali del diritto nonché ai diritti fondamentali» (sentenze 3 ottobre 2013, C-583/11 P, Inuit Tapiriit Kanatami e a. c. Parlamento e Consiglio, punto 99; 19 dicembre 2013, C-274/12 P, Telefónica c. Commissione, punto 56; 6 ottobre 2015, C-362/14, Schrems, punto 60).
È stata del resto proprio la Corte a esaltare l’importanza della tutela giurisdizionale dei diritti, elevandola a principio generale, anzi a «fondamento» e a «garanzia costituzionale», del sistema ordinamentale dell’Unione, in termini che sono stati poi ripresi anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il cui art. 47 esplicitamente include tra gli stessi il «diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale». Da tempo, infatti, la Corte ha sancito che «il principio di tutela giurisdizionale costituisce un principio generale di diritto [dell’Unione] che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, che è stato sancito dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali».
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V., per tutte, sentenza 13 marzo 2007, C-432/05, Unibet, I-227, 37. Com’è noto, la Corte EDU ha ritenuto che l’Unione europea «accorde aux droits fondamentaux (cette notion recouvrant à la fois les garanties substantielles offertes et les mécanismes censés en contrôler le respect) une protection à tout le moins équivalente à celle assurée par la Convention» di Roma per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (sentenza 30 giugno 2005, Bosphorus, 45036/98, punti 155 e 165).
Con questo, naturalmente, non s’intende dire che la situazione possa considerarsi pienamente appagante, soprattutto con riferimento alla posizione delle persone fisiche e giuridiche. Talune limitazioni, infatti, persistono tuttora a questo riguardo, ad esempio per quanto attiene al rispetto dei principi di trasparenza, delle garanzie procedimentali, della tutela dei diritti della difesa nelle procedure amministrative (che non sempre sono ammesse e/o adeguatamente regolamentate). Ma soprattutto esse sembrano persistere, come vedremo, per quanto attiene all’ampiezza delle vie di ricorso di quei soggetti, a causa delle restrizioni imposte dai testi alla ricevibilità dei ricorsi per l’annullamento (o per l’omessa adozione) degli atti di portata generale delle istituzioni e a quella delle azioni per i danni provocati da quegli atti a titolo di responsabilità aquilana dell’Unione, limiti che neppure la giurisprudenza è riuscita pienamente a rimuovere in via interpretativa. Occorre peraltro tener presente che la valutazione delle garanzie apprestate nell’ambito dell’Unione non va operata solo sulla base di quelle previste direttamente dai Trattati, ma anche tenendo conto di quelle accordate dagli Stati membri, le une e le altre costituendo, da questo punto di vista, un sistema unitario che concorre a definire nel suo complesso il quadro di quelle garanzie. Tale configurazione, più volte sottolineata dalla Corte nel corso degli anni, è stata oggi finalmente sancita dallo stesso Trattato di Lisbona, il cui art. 19 (TUE), dopo aver definito ruolo e competenze dei giudici dell’Unione (par. 1, comma 1), dispone per l’appunto che «[g]li Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione» (par. 1, comma 2). Come ha chiarito la Corte nella citata sentenza Inuit, i giudici nazionali «adempiono, in collaborazione con la Corte, una funzione loro attribuita congiuntamente al fine di garantire il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati» (punto 99). Anzi, «le funzioni attribuite, rispettivamente, ai giudici nazionali e alla Corte sono essenziali alla salvaguardia della natura stessa dell’ordinamento istituito dai Trattati»: v. parere 8 marzo 2011, 1/09, I-1137, punto 85.
Ne consegue che, per apprezzare la portata della tutela apprestata nell’ambito dell’Unione, occorre avere riguardo non solo a quella direttamente sancita dai Trattati a livello della stessa Unione, ma anche a quella che gli Stati membri hanno previsto, o devono prevedere, per conformarsi alla previsione dell’art. 19 TUE. Ad essi incombe, invero, «prevedere un sistema di rimedi giurisdizionali e di procedimenti inteso a garantire il rispetto del diritto fondamentale ad una tutela giurisdizionale effettiva», in particolare designando «i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione» (v. la citata sentenza Inuit, punti 100 e 102), col risultato che «è compito dei giudici degli Stati membri, in applicazione del principio di leale
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collaborazione enunciato dall’art. 4 TUE, garantire la tutela giurisdizionale dei diritti di cui i soggetti dell’ordinamento sono titolari in forza del diritto dell’Unione» (Corte giust. 15 settembre 2011, C-310/09, Accor, I-8115, punto 78). Tutto ciò, peraltro, con l’avvertenza che questo non significa necessariamente alterare i sistemi di tutela vigenti negli Stati membri, a meno che «dall’ordinamento giuridico nazionale in questione, considerato nel suo complesso, (non risulti) che non esiste alcun rimedio giurisdizionale che permetta, anche solo in via incidentale, di garantire il rispetto dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione o, ancora, se l’unico modo per poter adire un giudice da parte di un singolo fosse quello di commettere violazioni del diritto» (v. ancora la citata sentenza Inuit, punto 104) Quanto precede assume rilievo ancor maggiore se si considera che le situazioni giuridiche di cui si discute possono essere lese non solo direttamente dalle norme dell’Unione e nell’ambito del relativo ordinamento; esse possono esserlo anche, se non più spesso, nell’ambito degli ordinamenti nazionali, in relazione agli effetti che quelle norme vi producono, oppure in conseguenza dei provvedimenti che gli Stati membri adottano in esecuzione delle stesse o comunque dei comportamenti di tali Stati con esse incompatibili. Di regola, quindi, sarà negli ordinamenti interni che i privati dovranno chiedere adeguata tutela delle situazioni giuridiche in parola, investendone il giudice nazionale, che per questo motivo e in questo senso opera come «giudice comune del diritto dell’Unione». Del resto, proprio per questo motivo, tale diritto non si disinteressa affatto della portata e della modalità dei rimedi nazionali destinati ad assicurare quella tutela; al contrario, la prassi ha registrato al riguardo, specie su impulso della Corte, sviluppi di grande interesse, sui quali ci soffermeremo in seguito. Stante dunque l’evidente rapporto di complementarietà che lega gli strumenti giurisdizionali dell’Unione e quelli nazionali nella tutela delle situazioni giuridiche soggettive di origine comunitaria, una considerazione globale dei due profili risulta imprescindibile se si vuole offrire una visione corretta e compiuta delle peculiarità dell’architettura giurisdizionale e del sistema di rimedi predisposti nell’ambito dell’Unione. Nelle prossime pagine, quindi, articoleremo l’indagine occupandoci prima degli strumenti di tutela istituiti nel e dal sistema dell’Unione e successivamente, alla fine di questa Parte, di quelli utilizzabili all’interno degli ordinamenti nazionali, in quanto siano imposti direttamente dal diritto dell’Unione o traggano comunque origine dalle esigenze di tale diritto.
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CAPITOLO I
Considerazioni generali Sommario: 1. Premessa. – 2. Cenni alla tutela non giudiziaria. In particolare, il Mediatore europeo. – 3. La tutela giudiziaria. L’istituzione di un organo giudiziario ad hoc. La Corte di giustizia. In generale. – 4. Segue: Il ruolo svolto dalla Corte. Il rafforzamento del sistema e delle sue garanzie. La tutela dei diritti fondamentali. – 5. Segue: Lo sviluppo del diritto dell’Unione e la sua integrazione con gli ordinamenti nazionali. – 6. Considerazioni conclusive.
1. Premessa Le forme di tutela apprestate a livello dell’Unione sono, come si è accennato, ampie e molteplici e configurano un sistema giurisdizionale assai articolato e complesso, che si è imposto fin dall’inizio all’attenzione generale per la sua originalità e per le peculiari caratteristiche di cui diremo. Si tratta per giunta di un sistema che ha mantenuto nel tempo una sostanziale continuità. In effetti, pur essendo stato oggetto, nel corso degli oltre 60 anni di vita, di alcune inevitabili modifiche, soprattutto strutturali, esso non ha subito sconvolgimenti quanto al suo ruolo e alla sua funzione in occasione delle pur numerose revisioni che hanno interessato i Trattati in quell’arco di tempo. Se si esclude, infatti, la previsione dell’istituzione del Tribunale di primo grado (già TPI; ora Tribunale) da parte dell’AUE, le altre revisioni avevano praticamente ignorato o appena sfiorato la Corte. Innovazioni più significative nella disciplina relativa alla Corte, ancorché non radicali, furono invece introdotte dal Trattato di Nizza, sebbene la revisione di quella disciplina non figurasse all’ordine del giorno all’apertura del negoziato e non fosse stata quindi oggetto di un vero dibattito pubblico di preparazione. Il Trattato di Lisbona, che ha ripreso quasi integralmente le pertinenti disposizioni del Trattato costituzionale, ha poi ulteriormente affinato un sistema al quale le recenti riforme hanno dato un assetto ancor più organico e compiuto. Nei prossimi Capitoli, dopo la descrizione dell’apparato giudiziario dell’Unione, si dedicherà ampio spazio all’analisi di tale sistema. Prima però conviene ricordare che gli strumenti di garanzia non si esauriscono nelle vie giudiziarie; ve ne sono anche di azionabili in altro modo. Conviene quindi fare preliminarmente un rapido cenno anche a questi ultimi.
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2. Cenni alla tutela non giudiziaria. In particolare, il Mediatore europeo Tra gli strumenti di tutela non giudiziaria va anzitutto segnalata la possibilità offerta ai cittadini dell’Unione di rivolgere petizioni al Parlamento europeo e, per questa via, anche di provocare l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta. Tale possibilità, che era già prevista dal regolamento interno del Parlamento europeo, è oggi formalmente contemplata dall’art. 226 TFUE, ai sensi del quale la commissione d’inchiesta può entro certi limiti esaminare «le denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto dell’Unione» da parte delle istituzioni e degli Stati membri. A fini analoghi può inoltre essere utilizzato il ricorso al «Mediatore europeo», istituito ai sensi dell’art. 195 TCE (oggi art. 228 TFUE) a seguito delle apposite innovazioni introdotte dal Trattato di Maastricht. Disposizioni relative al Mediatore europeo si rinvengono altresì nell’art. 43 Carta dir. fond., negli artt. 194-196 reg. int. PE, nella decisione di applicazione dell’art. 195 TCE, adottata dal PE il 9 marzo 1994 (dec. 94/262/CECA, CE, Euratom, in GUCE L 113, 15), e dallo stesso modificata il 14 marzo 2002 (dec. 2002/262/CE, CECA, Euratom, in GUCE L 92, 13) e il 18 giugno 2008 (dec. 2008/587/CE, Euratom, in GUUE L 189, 25).
Anche tale organo, in effetti, è competente ad esaminare denunce del tipo indicato, ma solo se indirizzate nei confronti delle istituzioni dell’Unione: il che non esclude del tutto la possibilità di iniziative nei confronti dei comportamenti abusivi delle autorità nazionali, ma certo le riduce ad interventi indiretti e mediati. In particolare, il Mediatore riceve le denunce (ma può agire anche di ufficio) provenienti da qualunque soggetto abbia sede in uno Stato membro e riguardanti casi di cattiva amministrazione non solo delle istituzioni, ma di qualsiasi organo dell’Unione, ad eccezione di quelli giurisdizionali, e purché esse non riguardino casi che formino o abbiano formato oggetto di procedure giudiziarie. Si tratta, dunque, di un organo le cui funzioni mirano essenzialmente, da un lato, ad accertare casi di cattiva amministrazione all’interno dell’Unione, dall’altro, ad assicurare ai soggetti interessati una qualche forma di tutela, ove non sia possibile attivare i più efficaci strumenti giurisdizionali. In effetti, per quanto il ruolo del Mediatore si sia accresciuto nella prassi e le istituzioni tendano a rispondere positivamente ai suoi rilievi, quella che egli assicura resta pur sempre una tutela attenuata. Ove, infatti, accerti un caso di cattiva amministrazione e salvo che non riesca a trovare una conciliazione amichevole tra il ricorrente e l’istituzione, il Mediatore può solo chiedere a quest’ultima di dare entro tre mesi un parere sulla denuncia. Successivamente, egli può inviare al Parlamento europeo e all’istituzione interessata una relazione corredata di raccomandazioni, cui però né l’una né l’altra sono tenuti a dar seguito. A maggior ragione, esse non vincolano la Corte (sentenza 25 ottobre 2007, C-167/06 P, Komminou e a. c. Commissione, I-141, pubblicazione sommaria. Ovviamente, il Mediatore può essere chiamato, all’occorrenza, a rispondere dei danni provocati dal mancato rispetto dei suoi doveri di diligenza: Corte giust. 4 aprile 2017, C-337/15 P, Mediatore c. Claire Staelen). Oltre a non disporre di poteri vincolanti, il Mediatore ha incontrato difficoltà an-
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che quanto alla determinazione dell’ambito di applicazione oggettivo del suo potere di indagine, dato che i testi parlano genericamente di casi di «cattiva amministrazione». Al riguardo peraltro, a parte l’enunciazione di principio di cui all’art. 41 della Carta, nel quale si afferma il diritto di ogni individuo «a che le questioni che [lo] riguardano siano trattate in modo imparziale ed equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione», il Mediatore può ora contare su un punto di riferimento oggettivo nel c.d. «Codice europeo di buona condotta amministrativa» applicabile a tutte le amministrazioni e a tutti i funzionari e agenti dell’Unione, che il Parlamento europeo ha approvato nel 2001 nell’intento appunto di dare concretezza a quei principi. In particolare, esso è stato modificato nel 2005, e poi integrato nel 2012 da parte del Mediatore con una serie di «principi del servizio pubblico» adottati da quest’ultimo: per il testo integrale v. http://www.ombudsman. europa.eu/resources/code.faces#/page/1, contenente nell’introduzione il resoconto dettagliato di tali principi. Va peraltro tenuta presente anche la giurisprudenza che la Corte va via via elaborando in materia: v. ad es., significativamente, ancora la sentenza Komminou appena citata.
Tra gli strumenti non giurisdizionali, inoltre, può essere utile anche ricordare che qualsiasi cittadino dell’Unione, come pure qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda in uno Stato membro o vi abbia la sede sociale, può presentare, eventualmente anche in collegamento con altre persone, una petizione al Parlamento europeo su una materia che rientra nel campo di attività dell’Unione e che lo concerna direttamente (art. 227 TFUE). Sulla possibilità di impugnare la decisione del PE su una petizione, la Corte ha ritenuto che il ricorso sia ammissibile solo se l’istituzione abbia respinto la petizione; in caso diverso, tale istituzione resta libera di darle il seguito che crede e quindi non c’è spazio per un ricorso (v. sentenza 9 dicembre 2014, C-261/13 P, Schönberger c. Parlamento).
Infine, va segnalata la possibilità per i privati di indirizzare un reclamo alla Commissione per denunciare le violazioni del diritto dell’Unione commesse da autorità nazionali. Ciò al fine di indurre quella istituzione ad attivare l’apposita procedura di infrazione prevista dai Trattati, procedura che, come vedremo, può sfociare – ma solo per iniziativa della Commissione o di un altro Stato membro, non già degli stessi privati – in un’azione davanti alla Corte perché accerti l’eventuale inadempienza.
3. La tutela giudiziaria. L’istituzione di un organo giudiziario ad hoc. La Corte di giustizia. In generale Ma se era doveroso menzionarli per completezza di informazione, non si può certo dire che quelli appena indicati siano strumenti di tutela particolarmente incisivi. Molto di più lo sono, evidentemente, quelli di carattere giurisdizionale, che fanno leva soprattutto sull’apparato giudiziario di cui l’Unione si è dotata e sul quale conviene preliminarmente soffermarsi per alcune considerazioni di carattere generale.
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Come si è già accennato, invero, fin dalle origini le Comunità europee hanno potuto contare su un autonomo apparato in grado di assicurare l’esercizio della funzione giurisdizionale nell’ambito dello specifico ordinamento e di farlo nelle forme e con la pienezza dei poteri tipici di tale funzione nei confronti tanto delle stesse istituzioni comunitarie e degli Stati membri quanto dei singoli cittadini. L’importanza di tale apparato è stata espressamente sottolineata dalla stessa Corte che lo ha ritenuto così essenziale al sistema dell’Unione da considerarne la salvaguardia quasi come un limite materiale alle possibilità di revisione di tale sistema: in questo senso, v. per tutti i pareri resi in occasione della conclusione dell’Accordo sullo Spazio economico europeo (14 dicembre 1991, 1/91, I-6079), sul brevetto europeo (8 marzo 2011, 1/09, I-1137), e sull’adesione alla CEDU (18 dicembre 2014, 2/13).
Si può dire anzi che la creazione della Corte di giustizia, della CECA prima, delle Comunità europee poi e dell’Unione europea oggi, abbia rappresentato e rappresenti uno dei più originali e felici risultati raggiunti dai redattori dei Trattati europei, e che poche altre istituzioni dell’Unione si siano imposte con ugual forza all’attenzione generale ed abbiano rivelato una altrettanto fortunata vitalità. Ciò si spiega, in larga misura, per la posizione di primo piano che la Corte occupa all’interno del sistema e per l’importanza che la sua azione ha rivestito e riveste ai fini dello sviluppo di tale sistema. Torneremo tra breve sul punto; va prima detto però che tra le ragioni del grande interesse che fin dall’inizio ha circondato la Corte c’è anzitutto l’indiscutibile novità del fenomeno, il fatto, cioè, che sia stato inserito nello schema istituzionale delle Comunità europee prima e dell’Unione dopo, un organo giurisdizionale che, in ragione del suo ruolo e dei suoi peculiari aspetti, si caratterizza in termini assolutamente originali rispetto a tutti gli altri tribunali internazionali che lo hanno preceduto o che con esso coesistono. Per la prima volta, infatti, in un ente internazionale, è stato assicurato l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte di un organo ad hoc, che afferma, in termini esclusivi e non occasionali, la propria competenza obbligatoria sulle questioni rilevanti per la vita dell’ente medesimo e che presenta tutte le caratteristiche di struttura e di funzionamento di un vero proprio organo giurisdizionale. E ciò diversamente dalla prassi allora nota per gli organi c.d. di giustizia internazionale, i quali di regola (facevano eccezione alcuni tribunali amministrativi interni alle relative istituzioni, come il Tribunale amministrativo dell’organizzazione internazionale del lavoro e poi quello, analogo, delle Nazioni Unite) erano istituiti volta a volta per singole controversie e/o avevano natura arbitrale o comunque potevano affermare la propria competenza subordinatamente all’accettazione della stessa da parte degli Stati. La creazione della Corte è stata tuttavia di esempio ed impulso per l’istituzione di altre giurisdizioni simili, anche se è dubbio che esse siano dotate dell’ampiezza dei poteri, delle competenze e del ruolo attribuiti a quella in esame.
Gli stessi Trattati, del resto, stabilendo in modo del tutto conforme che «la Corte di giustizia assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione» delle loro norme rispettive (così si esprimevano gli artt. 31 TCECA, 136 TCEEA e 164 TCEE, poi l’art. 220 TCE, e oggi l’art. 19 TUE), rivelano come a tale istituzione si sia inteso assegnare un compito che attiene manifestamente alle finalità proprie
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della funzione giurisdizionale, consistenti nel mantenimento e nell’attuazione dell’ordinamento giuridico: una funzione giurisdizionale, cioè, in senso puro, in cui l’organo, svincolato dall’influsso di considerazioni extragiuridiche e altresì dal compito della realizzazione dei comportamenti previsti dai testi, esplica la propria azione a garanzia del sistema giuridico in cui opera attraverso il controllo sull’interpretazione e sull’applicazione delle relative norme. Sono presenti d’altra parte, nell’ambito dell’Unione, tutte le condizioni volte a rendere addirittura necessaria una simile funzione e la stabile presenza di un organo deputato a esercitarla. In particolare, l’inevitabile nesso che, per le esigenze di integrazione perseguite dai Trattati europei, lega l’attività delle istituzioni dell’Unione a quella degli Stati membri nei loro rapporti reciproci, ha fatto sì che alla Corte fosse affidato il controllo del rispetto da parte di quegli Stati degli obblighi a essi incombenti. Ma tale controllo appariva essenziale anche in senso inverso, nei confronti cioè delle istituzioni, come garanzia per gli stessi Stati membri in relazione al corretto esercizio dei rilevanti poteri a esse attribuiti. Ancora, la complessa dialettica dei rapporti fra queste ultime rendeva imprescindibile il reciproco controllo giurisdizionale sul rispetto delle sfere di competenze di ciascuna di esse. Infine, poiché l’attività dell’Unione può spesso incidere formalmente e materialmente sulle situazioni giuridiche degli individui, la presenza della Corte s’imponeva anche al fine di garantire la tutela giurisdizionale di quei soggetti. Tutto ciò spiega perché nelle Comunità europee prima e nell’Unione oggi si sia potuto e voluto inserire un organo giurisdizionale ad hoc; e perché, anzi, l’edificio dell’Unione sarebbe addirittura inconcepibile senza di esso. Le finalità ora indicate non potevano certo essere perseguite che in minima parte da un tribunale internazionale che operasse secondo gli schemi tradizionali; né tanto meno da parte dei giudici nazionali, la cui azione – a parte l’impossibilità di coprire tutto l’ambito di giurisdizione che s’intendeva assegnare alla Corte – sarebbe stata necessariamente condizionata dai particolarismi dei singoli sistemi giuridici e comunque avrebbe comportato il rischio di giudicati diversi, se non contrastanti. Occorreva, invece, creare un giudice che operasse esclusivamente per le Comunità/Unione, assicurando l’unicità della funzione giurisdizionale in seno alle stesse. E ciò è stato appunto realizzato attribuendo alla Corte un ambito d’azione molto ampio, cui corrisponde una limitazione, giuridica o di fatto, della giurisdizione sia dei tribunali internazionali che di quelli nazionali su materie a essi tradizionalmente riservate. Con riferimento all’attività istituzionale dell’Unione – ed è questa un’altra caratteristica da sottolineare – la funzione giurisdizionale è, almeno tendenzialmente, monopolio esclusivo della Corte: e ciò sia all’interno dell’Unione, dato che nessun’altra istituzione partecipa di quella funzione; sia sul piano esterno a essa, con la tutela apprestata a quel monopolio oltre che dallo stesso sistema, anche da espresse disposizioni dei Trattati. In particolare, per quanto concerne gli ordinamenti interni, non solo l’insieme delle norme relative alla Corte, ma anche specifiche previsioni sanciscono con chiarezza la sua competenza esclusiva nelle materie a essa assegnate e l’esclusione della giurisdizione dei giudici nazionali al riguardo. L’art. 274 TFUE esplicitamente stabilisce che la competenza dei giudici nazionali nelle materie concernenti l’Unione sussiste solo nei casi in cui non sia prevista la giurisdizione della Corte. Ana-
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loga disposizione si ritrova nel Protocollo sullo Statuto del Sistema europeo di Banche centrali (SEBC) e della Banca centrale europea (BCE), con riguardo alle controversie tra la BCE e i terzi (art. 35.2 di detto Protocollo).
Sul piano internazionale, poi, il monopolio della Corte è garantito attraverso l’imposizione agli Stati membri dell’obbligo di non risolvere al di fuori del sistema le controversie eventualmente insorte fra loro circa l’interpretazione e l’applicazione dei Trattati. In tal modo, se è vero che non si è imposto agli Stati membri l’obbligo positivo di deferire le suddette controversie alla Corte, si è però vietato agli stessi di rimetterne la soluzione a un diverso tribunale (v. infra, p. 349 ss.).
4. Segue: Il ruolo svolto dalla Corte. Il rafforzamento del sistema e delle sue garanzie. La tutela dei diritti fondamentali Nel corso di una storia che ormai supera i 60 anni, la Corte non ha deluso le aspettative, come del resto, al di là di sporadiche e contingenti polemiche, è generalmente riconosciuto. Essa ha svolto, in effetti, un ruolo fondamentale per lo sviluppo dell’integrazione europea ed è stata in particolare determinante, forse più di ogni altra istituzione, nel connotare le caratteristiche del sistema giuridico dell’Unione, nell’imprimere una straordinaria accelerazione alla sua evoluzione e nell’indirizzarla nel senso del rafforzamento del processo d’integrazione. Grazie a un’esperienza giurisdizionale che resta unica e straordinaria, è proprio sulla configurazione complessiva del sistema dell’Unione che la Corte ha inciso in modo profondo e qualificante, facendo del diritto un fattore decisivo e anzi «costitutivo» della costruzione europea. In questo senso, si può dire che il ruolo da essa svolto non è stato puramente giurisdizionale, ma ha avuto addirittura carattere strutturale, in quanto ha influito sullo stesso modo di essere dell’ordinamento dell’Unione. Ciò è avvenuto in varie forme e direzioni. In primo luogo, il suo contributo al processo d’integrazione si è espresso con riguardo alla stessa ricostruzione del sistema giuridico dell’Unione come un ordinamento giuridico omogeneo e tendenzialmente compiuto, dato che è stata appunto la Corte a dargli organicità, coerenza e sistematicità, rilevandone i principi qualificanti, definendone le nozioni e caratterizzandolo rispetto agli altri ordini giuridici. Ai fini di tale azione di ricostruzione del sistema, e più in generale della propria azione interpretativa, la Corte si è avvalsa di tutti gli utili canoni ermeneutici. Sarebbe dunque vano tentare di individuare al riguardo la prevalenza di questo o quel criterio interpretativo, perché nella sua monumentale giurisprudenza se ne troverebbero, com’è, diremmo, naturale in simili situazioni, di ogni tipo. E ciò anche per la cautela con la quale la Corte svolge normalmente il proprio ruolo, nel senso che essa cerca quanto più possibile di restare su un piano specifico, rifuggendo da affermazioni di principio, da valutazioni teoriche e da posizioni nette e precise che possano definitivamente impegnarla in un senso o nell’altro. Certo, essa parte di regola dalla lettera della norma da interpretare, ma poi ricorre, secondo i casi, a tutti i consueti canoni: dai lavori preparatori, all’interpretazione più ragionevole, più conforme alla ratio legis, all’argomentazione a contrario o per assurdo, ai motivi, allo scopo e alla finalità della norma, e così via, oltre che a una combinazione degli stessi. Se tutto questo pare fuori discussione, non si darebbe tuttavia un quadro attendibile
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della prassi in materia se non si ricordasse che complessivamente un ruolo preminente hanno giocato in questi anni alcune nitide tendenze della giurisprudenza della Corte. E in particolare, da un lato, quella a un’interpretazione sistematica, intesa soprattutto alla valorizzazione del carattere unitario, omogeneo e autonomo dell’ordinamento dell’Unione, le cui norme «si completano e si sostengono reciprocamente formando un tutto unico» (v. già Corte giust. 12 luglio 1962, 9/61, Paesi Bassi c. Alta autorità, 405, 440) e le cui nozioni – come vedremo tra breve – devono essere per l’appunto interpretate in modo «autonomo». Dall’altro, la tendenza a un’interpretazione funzionale o, come suol dirsi, dinamica del diritto dell’Unione, imperniata sulla preminenza degli obiettivi, dello scopo, della specificità, delle finalità di quel diritto, e quindi con il ricorso a tutti quegli strumenti logici che consentano di dare alle sue disposizioni un significato e una portata che si coordinino armonicamente con il complesso delle valutazioni normative in cui esse sono inserite e conferiscano alla norma il massimo di funzionalità per il conseguimento delle finalità generali dei Trattati.
Il suo lavorio sulle disposizioni dei Trattati, interpretate e collegate organicamente e funzionalmente, ha valorizzato tali disposizioni, specie quelle fondamentali, elevandole al livello di principi di struttura o materiali, in un quadro d’insieme che ha permesso alla stessa Corte di definire il Trattato – prima che la nozione diventasse patrimonio comune – come la «carta costituzionale di una Comunità di diritto». Una «carta», va aggiunto, nella quale trovano posto altresì – e sempre su input della Corte – principi fondamentali, quale quello di libertà, democrazia, legalità, uguaglianza, di rispetto dei diritti dell’uomo, e così via. A tale nozione di «Comunità/Unione di diritto», la Corte ha dato sostanza anzitutto imponendo rigorosamente a istituzioni e Stati membri l’osservanza delle regole comuni, ma anche precisando e rafforzando la portata di queste ultime in funzione delle finalità del processo e del rispetto dei suoi principi fondamentali. E ciò sia quando ha dovuto giudicare in ordine alla realizzazione del mercato unico, che era il suo compito principale fino agli anni ’90, sia quando altre e più ampie tematiche si sono affacciate sulla scena europea e hanno costretto la Corte ad occuparsi di problemi ancor più importanti e delicati (sviluppi della nozione di cittadinanza, migrazioni, unione economica e monetaria, tutela dei dati personali, e così via), che l’hanno messa a confronto con nuove e più complesse realtà. Lo ha fatto, ad esempio, con riguardo all’importante profilo, di natura autenticamente costituzionale, che concerne il riparto di competenze tra l’Unione e gli Stati membri, riparto che è stato salvaguardato dalla Corte, ma anche interpretato, in coerenza con il disegno generale dell’integrazione, in una prospettiva dinamica, e quindi orientato nel senso dello sviluppo del sistema e delle competenze materiali dell’Unione. Lo ha fatto per la salvaguardia del riparto di competenze interne all’Unione, e quindi per il rispetto degli equilibri interistituzionali, oltre che in relazione alle più diffuse ipotesi di voto a maggioranza in seno al Consiglio, che ha permesso a ciascuna istituzione di far salve le proprie prerogative, ma anche, ad alcune di esse (in particolare al Parlamento europeo), di recuperare ruolo e responsabilità più conformi alla missione generale loro conferita dai Trattati. Lo ha fatto, ancora, con riguardo all’affermazione di alcuni principi qualificanti della costruzione europea, che hanno permesso a quest’ultima – attraverso appunto un’elaborazione puramente giurisprudenziale – di diventare quel sistema assoluta-
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mente originale che tutti conoscono. Basti pensare, in particolare, ai notissimi principi del primato e dell’efficacia diretta del diritto dell’Unione, con tutte le implicazioni che simili principi comportano in termini di effettività e di pervasività di quel diritto. E lo ha fatto soprattutto per quanto riguarda la tutela dei diritti fondamentali, dalla Corte elevati – malgrado l’iniziale silenzio dei testi – al livello di principi generali dell’ordinamento giuridico dell’Unione (v. in proposito anche supra, p. 144 ss.). Se oggi questo risultato è acquisito e formalizzato nei testi, non va dimenticato che ben diversa era la situazione prima che la Corte, dopo alcune iniziali esitazioni, procedesse con decisione in tale direzione. È ben vero che a partire dal Trattato di Maastricht del 1992 (art. F, poi art. 6 TUE, ripreso dai successivi trattati di revisione) il principio è stato enunciato nei testi e che quei diritti sono poi stati proclamati in modo articolato dalla ricordata Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata a Nizza nel dicembre 2000 e resa ora obbligatoria dal Trattato di Lisbona (art. 6, par. 1, TUE). Ma in realtà la protezione dei diritti fondamentali era già entrata nell’ordinamento giuridico dell’Unione grazie alla giurisprudenza della Corte, della quale del resto la menzionata disposizione del Trattato di Maastricht riprese la ben nota formula secondo cui «[i] diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizionali costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali». Senza nulla togliere dunque ai meriti degli autori dei testi evocati, non si può sottacere che essi hanno potuto raccogliere i frutti di un attento e mirato lavorio della giurisprudenza della Corte. Va aggiunto, per completezza, che il Trattato di Lisbona (art. 6, par. 2, TUE) ha ora previsto l’adesione dell’Unione alla ricordata Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950, adesione per il momento sospesa dopo il parere negativo formulato dalla Corte sul primo progetto di accordo raggiunto tra l’Unione europea e il Consiglio d’Europa (v. supra, p. 147 ss.). Se essa sarà conclusa, questo avrà riflessi anche sull’azione della Corte di giustizia, visto che naturalmente la sua omologa di Strasburgo (la Corte europea dei diritti dell’uomo), specificamente competente ad assicurare l’osservanza della Convenzione, sarà chiamata, anche (se non soprattutto) essa, a controllare direttamente che l’Unione abbia rispettato i diritti di cui alla predetta Convenzione. Ritornando al ruolo della Corte di cui si sta discorrendo in questo paragrafo, è stato già ricordato (p. 221 ss.) il rilievo particolare che, nel contesto della tutela dei diritti fondamentali, essa ha dato al principio della protezione giudiziaria nel sistema dell’Unione. E ciò soprattutto al fine di garantire le situazioni giuridiche individuali fondate sul diritto dell’Unione, e in particolare dei diritti dei cittadini della stessa, il cui specifico status ha da ciò ricevuto contenuti e sostanza più pregnanti di quelli che le poche disposizioni ad esso dedicate dai Trattati lasciassero desumere. Detta tutela, in effetti, è stata garantita anzitutto nei confronti delle istituzioni dell’Unione e nel modo più ampio, attraverso il riconoscimento del diritto dei privati di ricorrere contro ogni atto produttivo di effetti giuridici nei loro confronti, quale che sia l’organo comunitario che lo ha adottato o la veste formale che esso assume. Ma essa è stata garantita ai privati anche nei confronti degli Stati membri e perfino nei con-
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fronti del loro Stato nazionale. E ciò perché, come si vedrà, la Corte ha saputo dedurre ogni utile implicazione dai principi appena ricordati del primato e dell’efficacia diretta delle norme dell’Unione (talvolta anche di quelle che si voleva puramente programmatiche e quindi condizionate ad appositi provvedimenti di attuazione), con la conseguenza che ai privati è stato reso possibile invocare i diritti fondati su quelle norme, non solo innanzi alla Corte, ma anche direttamente nei giudizi interni. In questo modo, e grazie altresì alla collaborazione che la Corte è riuscita a sviluppare con i giudici nazionali, il sistema dell’Unione ha potuto acquisire maggiore concretezza ed effettività negli ordinamenti degli Stati membri, e quindi «vivere» e incidere in essi con una pervasività in precedenza sconosciuta.
5. Segue: Lo sviluppo del diritto dell’Unione e la sua integrazione con gli ordinamenti nazionali Per quanto rilevanti, però, le evocate espressioni del ruolo svolto dalla Corte non esauriscono tutte le implicazioni che l’azione di quest’ultima ha prodotto sulla configurazione complessiva del sistema. Se, infatti, si ha riguardo a questo sistema come costituito dall’insieme degli ordinamenti dell’Unione e nazionali, si vedrà che la giurisprudenza della Corte ha avuto altri importanti riflessi, meno appariscenti forse, ma non meno significativi, sui quali conviene ugualmente spendere qualche parola. Come già rilevato, il diritto dell’Unione ha prodotto sui sistemi giuridici degli Stati membri un impatto straordinario. Una vasta e penetrante attività normativa e una prassi, specie giurisprudenziale, ricca e intensa hanno influito in modo profondo ed incisivo su molti aspetti di quei sistemi, investendone anche principi fondamentali ed istituti tradizionali, e perfino rimettendo in discussione soluzioni e situazioni che apparivano, per necessità, per convinzione o per pigrizia mentale, pacifiche ed immodificabili. Parti importanti di numerose discipline sono così cadute, e continuano a cadere, sotto l’impresa del diritto dell’Unione; così come principi materiali e interpretativi o anche un vero e proprio corpo di norme comuni hanno modificato, integrato o si sono sovrapposti (e continuano a farlo) alla precedente normativa nazionale. Quel che però va qui sottolineato è che tale diritto tanto più incide profondamente nei confronti dei sistemi giuridici nazionali in quanto può contare sulle peculiari caratteristiche del sistema dell’Unione, e in particolare sull’azione di autorità sopranazionali che presiedono alla formazione delle relative norme e che dispongono degli appropriati strumenti per controllarne ed imporne il rispetto; nonché sulla posizione di primazia e sulla diretta applicabilità di dette norme rispetto a quelle degli Stati membri. Ma soprattutto perché si avvale della predisposizione di meccanismi d’interpretazione autonomi, riservati appunto ad un’istituzione, come la Corte di giustizia, la cui azione esplica i propri riflessi non solo sulla compattezza e la coerenza intrinseca del corpo normativo comune, ma anche sulla sua capacità di resistenza rispetto ai sistemi nazionali, dato che lo sottrae alla presa di questi ultimi ed evita così che se ne possano indebolire gli effetti e la portata armonizzatrice.
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Questo aspetto del ruolo della Corte merita di essere sottolineato. Dato il contesto in cui la Corte opera e data l’assenza di norme che orientino e delimitino il diritto da essa applicabile (diversamente, ad es., da quanto accade per la Corte internazionale di giustizia ai sensi dell’art. 38, par. 1, del relativo Statuto), non sorprenderà che il naturale riferimento per la ricostruzione e la definizione delle nozioni giuridiche impiegate dai Trattati sia stato individuato anzitutto nei diritti interni degli Stati membri. Anzi, specie nei primi tempi, una parte della dottrina insisteva sul fatto che la Corte avrebbe dovuto attingere a tali diritti e soprattutto far ricorso ai principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri, i quali sarebbero venuti in rilievo come “fonte sussidiaria” del diritto dell’Unione. Per la verità, la prassi della Corte non ha confermato tale orientamento. Intanto, essa ha mantenuto una rigorosa neutralità rispetto ai singoli ordinamenti nazionali, e ciò perfino nella prassi giurisprudenziale relativa al Trattato CECA (redatto, com’è noto, solo in lingua francese), la quale, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni autori, non rivela l’esplicita utilizzazione di categorie giuridiche desunte dal diritto francese, ma una considerazione dei sistemi giuridici di tutti gli Stati membri e, comunque, la ricerca di un’autonoma soluzione. Tutto ciò, ovviamente, non perché la Corte considerasse e consideri irrilevanti i diritti interni ai fini della ricostruzione del significato di una nozione giuridica. Al contrario, la stessa Corte, già nei primi anni di attività chiarì che, se non voleva operare un diniego di giustizia di fronte ad un problema ben noto ai diritti degli Sati membri, essa era obbligata a risolverlo “ispirandosi” alla legislazione, alla dottrina e alla giurisprudenza degli Stati membri (Corte giust. 12 luglio 1957, cause riunite 7/56 e da 3/57 a 7/57, Algera, Racc. III, 114, punto 81). Ma la loro utilizzazione è restata e resta, per così dire, nell’ombra, senza essere mai formalizzata. Anche quando si avvale, ma normalmente senza dirlo o svilupparlo apertamente negli specifici casi, del metodo comparativo, il richiamo è generico e operato in via di fatto, sicché il riferimento ai diritti interni, quando c’è, è solo un punto molto generico di partenza, di solito “camuffato” – specie nei primi anni di attività della Corte – da un generico riferimento ai “principi generali di diritto”, “ai principi generalmente accolti”, “ai principi di diritto amministrativo ammessi in tutti gli Stati membri della CEE”, e simili. Da esso, comunque, la Corte non esita a dipartirsi in funzione delle esigenze del diritto dell’Unione e ad adattarlo o a conformarlo a queste ultime. In altri termini, la considerazione dei diritti interni viene in rilievo solo come mezzo d’interpretazione, nel senso che all’occorrenza dall’esame di tali diritti (nonché della relativa dottrina e giurisprudenza) si parte per l’analisi del significato delle espressioni impiegate dai Trattati, per poi però pervenire all’elaborazione di una nozione “autonoma”, “comunitaria” delle medesime, definita nel modo più conforme alle caratteristiche proprie e alle finalità dello specifico sistema, una nozione quindi che diviene “altra” rispetto a quella dei singoli diritti nazionali.
Questo processo c.d. di europeizzazione dei diritti nazionali non si sviluppa però solo attraverso la rilevata incidenza diretta della normativa dell’Unione, ma anche, e per certi versi soprattutto, per vie meno formali e istituzionalizzate, ma non meno pervasive. Si allude segnatamente a quella sorta di «creazione» e diffusione «spontanea» di principi, metodi e prassi legali che si realizza nel contesto dell’Unione in conseguenza del «naturale» processo di recezione, armonizzazione e talvolta perfino unificazione delle regole giuridiche. Un processo che è indotto dallo sviluppo stesso della costruzione europea, grazie a quell’osmosi di valori giuridici che proprio la peculiarità del sistema dell’Unione favorisce in sommo grado, visto che esso ha vocazione ad operare come fattore di integrazione anche e soprattutto all’interno delle strutture giuridiche degli Stati membri, con ciò obbligando al confronto, ma anche alla convivenza e alla ricerca della massima compatibilità reciproca, tutti i sistemi in causa. Il che ha determinato un intreccio a volte addirittura inestricabile tra le normative dell’Unione e quelle nazionali, che si pongono in un rapporto di continuità, se non di commistione, e continua ad alimentare quel circuito orizzontale che favori-
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sce l’integrazione anche giuridica tra gli Stati membri e costituisce uno degli aspetti più originali e qualificanti della costruzione europea. Stimolato anche dagli apporti della dottrina e dalla prassi degli operatori giuridici, tale processo si traduce nell’affermazione di regole e principi comuni, talvolta apparentemente «nuovi», ma in realtà più spesso definiti o ridefiniti sulla base degli stessi diritti nazionali. E, in effetti, se sul piano normativo sono di regola questi ultimi ad essere influenzati dal sistema dell’Unione, a loro volta sono essi a costituire l’humus e la fonte di ispirazione dei valori, dei principi, delle nozioni e delle prassi legali che sostanziano l’ambito di riferimento del diritto comune in formazione. E del resto è appunto a questo orizzonte naturale che la Corte ha sempre guardato per la rilevazione e la definizione delle norme e dei principi di un ordinamento che non ne aveva e che quindi si chiedeva inevitabilmente ad essa di individuare o, come un po’ impropriamente si dice, di «creare». Quel che però, ancora una volta, preme qui sottolineare è che questa originale ed esaltante sintesi tra sistemi giuridici diversi, che funge evidentemente da autentico e potente fattore d’integrazione, non avrebbe potuto essere alimentata e non avrebbe trovato sbocchi così significativi e incisivi, quali quelli fin qui registrati, senza per l’appunto l’azione della Corte di giustizia. Grazie, infatti, alla sua autorità d’interprete supremo del diritto dell’Unione e di garante del rispetto di tale diritto e della sua applicazione negli Stati membri, e quindi della coerenza del complessivo sistema giuridico su cui poggia la costruzione europea, la Corte ha potuto fin dall’inizio esercitare anche sotto il profilo che qui interessa un ruolo determinante. Un ruolo che per giunta essa ha in concreto svolto senza esitazioni e talvolta perfino con una certa audacia, ma la cui utilità non è mai stata realmente revocata in dubbio, malgrado qualche critica di tanto in tanto rivolta al c.d. «attivismo» dell’istituzione.
6. Considerazioni conclusive A proposito di queste critiche, peraltro, conviene svolgere ancora una conclusiva considerazione. Come si è detto fin dall’inizio, la giurisprudenza della Corte ha profondamente connotato il sistema, conformandolo in coerenza con le finalità perseguite con le Comunità prima e con l’Unione poi. In tale prospettiva essa non poteva quindi non ispirarsi a un intento ben preciso: quello di valorizzare il processo d’integrazione. Lo ha fatto tra molte difficoltà, con tutti i condizionamenti che provenivano dalla complessità, dalle contraddizioni e dalle esitazioni di quel processo. Ma lo ha fatto; ed è opinione assai diffusa che lo abbia fatto anche con equilibrio e coerenza, visto appunto il difficile contesto nel quale ha operato e tuttora opera. Le critiche, pur legittime, che talvolta vengono rivolte a un simile indirizzo giurisprudenziale restano allora in debito di una spiegazione. Esse dovrebbero cioè spiegare cos’altro la Corte avrebbe dovuto (e dovrebbe) fare, rimanendo fedele ai testi e alla sua missione, se non contribuire alla costruzione dell’edificio le cui fondamenta (i Trattati) sono state affidate alle sue cure. Piuttosto quindi che parlare al riguardo, come spesso si è fatto, di «governo dei giudici», o anche di «eccessivo attivismo della
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Corte» o addirittura di «derive» giurisprudenziali, sarebbe più appropriato sottolineare che si è trattato invece dell’esercizio coerente della propria missione da parte del giudice dell’Unione. Si può essere, in effetti, a favore o contro la costruzione comunitaria, ma dalle parti di Lussemburgo non è data al riguardo (e non è mai stata data) alcuna facoltà di scelta, per il semplice motivo che la Corte non è un … osservatore esterno a quel processo, ma opera all’interno di esso e del sistema giuridicoistituzionale che lo sorregge. Essa quindi non ha avuto – e non ha – altra scelta che conformarsi alla propria missione, che è di garantire il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati, in conformità ai principi che ispirano il processo d’integrazione e che sono proclamati in quei Trattati dei quali proprio la Corte è chiamata ad assicurare l’osservanza. Non è questione quindi di essere dalla parte dell’Unione o degli Stati membri o dei cittadini di questi ultimi; la Corte è stata ed è sempre e solo dalla parte del diritto e dei principi generali sanciti oggi anche dalla Carta dei diritti fondamentali. Ed è, riteniamo, una fortuna che ciò sia avvenuto, perché le sorti dell’Unione ne sono state segnate in modo profondo, per non dire decisivo.
CAPITOLO II
Organizzazione e funzionamento della Corte di giustizia dell’Unione europea Sommario: 1. Origini e sviluppi. – 2. Gli organi: la Corte di giustizia. – 3. Segue: Il Tribunale. – 4. Segue: I tribunali specializzati. Il Tribunale della funzione pubblica. – 5. La procedura. – 6. Le competenze. In generale. – 7. Segue: Sintesi delle stesse.
1. Origini e sviluppi La storia della Corte di giustizia dell’UE si lega strettamente a quella del processo d’integrazione europea. La prima previsione di un organo giurisdizionale nel quadro delle organizzazioni comunitarie risale infatti all’ormai estinto Trattato istitutivo della CECA, firmato a Parigi il 18 aprile 1951 ed entrato in vigore il 23 luglio 1952. Tale Trattato dedicava, oltre qualche norma particolare sparsa nelle sue varie parti, l’intero Capo IV del Titolo II (artt. 31-45) alla Corte di giustizia (appunto della CECA), il cui Statuto era invece stabilito da un Protocollo allegato al Trattato. I Trattati di Roma, firmati il 25 marzo 1957 ed entrati in vigore il 1° gennaio 1958, segnarono poi anche per la Corte una tappa fondamentale. Attraverso le numerose norme a essa dedicate da tali Trattati, da un lato si ribadiva la funzione essenziale dell’Istituzione nell’ambito del sistema comunitario, dall’altro le si attribuivano nuove competenze e se ne precisavano altre. Sebbene tuttavia ciascuno dei due nuovi Trattati prevedesse l’istituzione di una Corte di giustizia per la «propria» Comunità, accanto a quella preesistente della CECA, in realtà le due «nuove» Corti non sono mai venute ad esistenza. Con un’apposita «Convenzione relativa a talune istituzioni comuni alle Comunità europee», firmata ed entrata in vigore insieme ai Trattati di Roma, si istituì infatti una Corte di giustizia unica, «composta e designata» conformemente alle pertinenti (ed identiche) norme del TCEE e del TCEEA, la quale avrebbe esercitato le competenze attribuite alle Corti previste da tali Trattati ed avrebbe sostituito, fin dalla propria entrata in funzione, la Corte di giustizia della CECA esercitandone le relative competenze. Con l’occasione, si armonizzavano anche le disposizioni dei tre Statuti della Corte allegati ai Trattati esistenti, che sono rimasti distinti fra loro fino al Trattato di Nizza, mentre poco dopo (il 3 marzo 1959) veniva adottato un regolamento di procedura unico.
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Fin dall’inizio, dunque, la Corte CECA fu rimpiazzata da un’unica Corte per le tre Comunità (divenuta appunto la «Corte di giustizia delle Comunità europee»), regolata da una serie uniforme di norme sull’organizzazione e sulla procedura. L’unicità era però solo strutturale; essa non si estendeva alle competenze attribuite all’organo dai singoli Trattati, le quali restavano diverse fra loro. Ne derivava che l’attività che la Corte unica svolgeva, pur essendo posta in essere dallo stesso organo, era imputabile di volta in volta all’una o all’altra Comunità (nonché, dopo il Trattato di Maastricht, all’uno o all’altro pilastro), secondo che la Corte agisse come organo dell’una o dell’altra. Essa era, insomma, come si diceva allora, “una e trina”. Grazie a tale singolare costruzione, si evitò così di appesantire la struttura istituzionale comunitaria con la creazione di tre Corti di giustizia, distinte e tuttavia fondamentalmente simili tra loro; ma soprattutto si evitò che il compito di interpretare Trattati che costituivano, nel disegno dei loro redattori, un armonico complesso di norme tendenti a finalità comuni, fosse consegnato ad una pluralità di istanze giurisdizionali operanti ciascuna per proprio conto. Dal punto di vista formale, la descritta situazione non è molto cambiata con il Trattato di Lisbona, perché quest’ultimo lascia sussistere il TCEEA e le competenze della Corte da esso previste. Tuttavia, vuoi per l’ancor più modesto rilievo di quest’ultimo Trattato, vuoi soprattutto per la soppressione della precedente struttura a pilastri dell’Unione e per la razionalizzazione e ricomposizione del relativo apparato normativo, si sono ora di molto accentuati gli aspetti di unitarietà del sistema e quindi dell’azione della Corte, che in effetti ora è realmente “unica” per l’Unione. Entrata in funzione il 7 ottobre 1958, la nuova Corte di giustizia iniziava la propria attività giurisdizionale a partire dalla pubblicazione del regolamento di procedura (e cioè dal 3 marzo 1959); e l’ha proseguita a lungo nel tempo senza sostanziali variazioni rispetto all’impianto iniziale, salvo per quanto attiene alla composizione dell’organo (cresciuta, di pari passo con l’aumento del numero degli Stati membri, da 7 a 28 giudici e da 2 a 11 avvocati generali). Nel 1989, tuttavia la Corte è stata «affiancata» da un nuovo organo, il «Tribunale di primo grado» (TPI), con competenza a giudicare appunto in primo grado un numero di casi inizialmente assai limitato, ma poi col tempo notevolmente ampliato. Inoltre, a seguito dell’introduzione da parte del Trattato di Nizza dell’art. 225A nel TCE, il Consiglio è stato autorizzato ad affiancare al TPI organi giurisdizionali di primo grado competenti a conoscere di materie specifiche (le c.d. «camere giurisdizionali»; dopo il Trattato di Lisbona: «tribunali specializzati»). Su questa base fu istituito nel 2005 (ma poi soppresso nel 2016, come tra breve vedremo) il Tribunale della funzione pubblica (TFP) dell’Unione europea, competente in primo grado per lo specifico settore cui deve la sua denominazione. In questo modo, la Corte di giustizia si connota sempre più come giudice di mera legittimità e supremo garante dell’unità giuridica del sistema, mentre il «Tribunale di primo grado» (proprio per questo motivo, divenuto con il Trattato di Lisbona: il «Tribunale») tende ad assumere il ruolo di giudice di diritto comune, salvo a diventare esso stesso giudice di seconda istanza in caso di impugnazione delle sentenze pronunciate in primo grado, negli specifici ambiti di competenza, dai ricordati tribunali specializzati.
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Ma al di là di tali distinzioni (e dei confronti non sempre appropriati con i sistemi giudiziari nazionali), quel che preme sottolineare è che, sebbene distinti quanto alla composizione, alle attribuzioni e alle regole di funzionamento, gli organi menzionati sono tra loro strettamente coordinati sul piano organico, funzionale e strutturale. E la loro configurazione unitaria è stata ora definitivamente sancita dall’art. 19 TUE, che riassume (e ridenomina) all’interno dell’unica e complessiva Istituzione «Corte di giustizia dell’Unione europea», tanto «la Corte di giustizia», quanto gli organi (ossia, il «Tribunale» e i «tribunali specializzati») che prima erano solo «affiancati» o (il primo) alla Corte o (gli altri) al TPI. Ed essi concorrono tutti ad assolvere, nell’ambito delle competenze rispettive, alla missione dell’Istituzione di assicurare «il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati» (art. 19, par. 1, comma 1, TUE). Tale missione, inizialmente attribuita per ovvie ragioni al solo organo giurisdizionale esistente (ossia la Corte di giustizia), è stata estesa, grazie al Trattato di Nizza (art. 220 TCE), all’allora TPI, ma non anche alle allora camere giurisdizionali, che all’epoca non erano state ancora istituite. All’integrazione ha ora provveduto per l’appunto il Trattato di Lisbona con il citato art. 19 TUE. La ridenominazione dell’istituzione non è stata comunque agevole e non può dirsi tuttora pienamente soddisfacente. Intanto, l’istituzione nel suo complesso è ora denominata «Corte di giustizia dell’Unione europea» e include, come si è detto, la «Corte di giustizia», il «Tribunale» e i «tribunali specializzati», con una totale sovrapposizione delle prime due espressioni quando la Corte deve identificarsi all’esterno con una denominazione completa. Più singolare è poi la soluzione trovata per superare le difficoltà che provocava la nuova denominazione del «Tribunale». La distinzione tra Corte e Tribunale di primo grado, agevole quando i due organi erano così denominati è, infatti, risultata più problematica quando il secondo è diventato semplicemente «Tribunale», dato che in alcune lingue non vi è distinzione tra Corte e Tribunale (ad es. in inglese viene usata in entrambi i casi la parola «Court», mentre in spagnolo e portoghese la traduzione è in entrambi i casi «Tribunal»). La difficoltà, dopo tentativi piuttosto problematici e talvolta anche fantasiosi, è stata superata con una qualificazione ulteriore del «Tribunale» in dette lingue, che non pare particolarmente felice (in inglese, esso è ora «General Court», in spagnolo «Tribunal General», in portoghese «Tribunal Geral»). Problemi simili si presentano anche in altre lingue, ma su di essi non è il caso qui di soffermarsi.
2. Gli organi: la Corte di giustizia Venendo a un esame più analitico del descritto apparato giudiziario dell’Unione e cominciando dalla Corte, conviene anzitutto ricordare che le norme relative alla composizione, al funzionamento e alle competenze della stessa si rinvengono, oltre che nei Trattati istitutivi, nel Protocollo sullo Statuto e nel regolamento di procedura, che viene stabilito dalla stessa Corte, ma deve essere approvato dal Consiglio a maggioranza qualificata (v. art. 253, comma 6, TFUE). Fino al Trattato di Nizza era invece richiesta l’unanimità in seno al Consiglio. Il reg. proc. Corte, più volte modificato già in passato, ha subito una profonda ristrutturazione sfociata, il 25 settembre 2012, nell’adozione di una rinnovata versione dello stesso (GUUE L 265, 1), poi ulteriormente rivista il 18 giugno 2013 (GUUE L 173, 65) e il 19 luglio 2016 (GUUE L 217, 69). Per quanto concerne lo Statuto, esso era inizialmente distinto per ciascuna Comunità, ma è
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stato poi unificato grazie all’art. 7 del Trattato di Nizza. Ai sensi dell’art. 281, comma 2, TFUE, salvo che il Titolo I e l’art. 64 dello Statuto (per i quali è richiesta l’unanimità), questo può essere modificato congiuntamente da PE e Consiglio con procedura legislativa ordinaria, su richiesta della Corte di giustizia, previa consultazione della Commissione, o su richiesta di quest’ultima, previa consultazione della Corte. In precedenza, la decisione spettava al solo Consiglio che deliberava all’unanimità, su richiesta della Corte o della Commissione, previa consultazione del PE e dell’istituzione non richiedente. Lo Statuto è stato più volte modificato nel corso del tempo, in particolare con il reg. (UE, Euratom) n. 741/2012 del PE del Consiglio, dell’11 agosto 2012 (GUUE L 228, 1), che ha introdotto le importanti modifiche di cui si dirà via via; nonché dal reg. (UE, Euratom) 2015/2422 del PE e del Consiglio, del 16 dicembre 2015 (GUUE L 341, 14) e dal reg. (UE, Euratom) 2016/1192 del PE e del Consiglio, del 6 luglio 2016 (GUUE L 200, 137).
a) Attualmente la Corte è composta da un giudice per ogni Stato membro (e quindi da 28 giudici), assistiti nello svolgimento delle loro funzioni da 11 avvocati generali (AG). Per quanto riguarda i giudici, v. art. 19, par. 2, TUE. Fino alla modifica del Trattato di Nizza, i Trattati indicavano un numero preciso di giudici: 7 inizialmente, quando gli Stati membri erano solo 6, e poi aumentati via via, a seguito delle varie adesioni, a 9, 11, 13, 15 e 25: un numero quindi non necessariamente corrispondente a quello degli Stati membri, anche perché esso doveva essere sempre dispari. L’innovazione introdotta dal Trattato di Nizza ha invece formalmente irrigidito il legame tra il numero degli Stati membri e quello dei giudici, anche se la nuova formula non significa necessariamente (ma molto in teoria, per la verità) che ogni Stato membro abbia il diritto di designare un giudice della propria nazionalità. Manca in effetti tuttora, per i membri della Corte (diversamente che per quelli della Commissione) la condizione della loro nazionalità «comunitaria», sicché resterebbe possibile (sempre molto in teoria) la nomina di cittadini di Stati terzi e forse perfino la nomina di più giudici della stessa nazionalità, purché nell’ambito del numero totale di giudici. Ma a parte tali improbabili ipotesi (da tenere comunque presenti ai fini della Brexit), rimane ferma la disposizione di cui all’art. 18 dello Statuto, secondo la quale: «[u]na parte non può invocare la nazionalità di un giudice, né l’assenza in seno alla Corte o ad una sua sezione di un giudice della propria nazionalità, per chiedere la modificazione della composizione della Corte o di una delle sue sezioni». Quanto agli avvocati generali, se l’art. 19, par. 2, TUE, stabilisce genericamente che la Corte «[è] assistita da avvocati generali», l’art. 252, comma 1, TFUE, da un lato, ne precisa il numero (8), dall’altro però prevede la possibilità che lo stesso subisca variazioni, sia pur solo per essere aumentato, con delibera del Consiglio all’unanimità, previa richiesta della Corte. In effetti, come i giudici, anche gli AG (inizialmente solo 2) sono via via diventati più numerosi in ragione dei progressivi allargamenti dell’Unione (da 4 a 8). Ciò non era però avvenuto, a differenza di quanto accaduto per i giudici, in occasione dei recenti allargamenti dell’Unione a ben 13 nuovi Stati. In compenso, una dichiarazione (n. 38), allegata al Trattato di Lisbona, impegnava il Consiglio, ove la Corte avesse richiesto un aumento del numero complessivo degli AG (di cui la Dichiarazione indicava anche la cifra: 11), ad accogliere tale richiesta, riservando un posto «permanente» alla Polonia. E questo è quanto appunto avvenuto con dec. 2013/336/UE del Consiglio, del 25 giugno 2013 (GUUE L 179, 92), che ha portato il numero degli AG da subito a 9 (e ad essa ha fatto quindi seguito nell’ottobre 2013 la nomina di un AG polacco) e poi, dal 7 ottobre 2015, ad 11. A questo proposito, va ricordato che il sistema di rotazione degli AG opera sulla base di un criterio di nazionalità, definito da accordi informali tra gli Stati membri. In pratica, 6 Stati membri (i c.d. «Grandi»: Germania, Francia, Spagna, Italia, Polonia e Regno Unito) hanno il diritto ad un posto permanente di AG, mentre gli altri 22 Stati partecipano ad un sistema di rotazione, in ordine alfabetico, sui 5 posti restanti.
b) Compito degli AG è di «presentare pubblicamente, con assoluta imparzialità e in piena indipendenza, conclusioni motivate sulle cause che, conformemente allo
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Statuto della Corte di giustizia, richiedono il [loro] intervento» (art. 252, comma 2, TFUE). In precedenza, com’è noto, le loro conclusioni erano richieste in tutte le cause; con la nuova formulazione della disposizione appena riportata e con le precisazioni apportate dall’art. 20, comma 5, dello Statuto, viene invece previsto che, «ove ritenga che la causa non sollevi nuove questioni di diritto, la Corte può decidere, sentito l’avvocato generale, che la causa sia giudicata senza conclusioni». Il ruolo degli AG non si esaurisce tuttavia nella presentazione delle conclusioni alla fine della fase orale del procedimento; essi in realtà assistono la Corte – secondo i casi, con consultazioni, audizioni e pareri – in quasi tutti i passaggi della procedura (salvo ovviamente la fase decisionale della camera di consiglio, riservata ai giudici), partecipando inoltre alla gestione delle attività amministrative dell’istituzione. Ugualmente membri della Corte a ogni effetto e con uno status del tutto identico a quello dei giudici (salvo l’elettorato attivo e passivo per l’elezione del Presidente della Corte e dei Presidenti di sezione), gli AG rappresentano un istituto assai peculiare del sistema giurisdizionale dell’Unione, assimilabile in qualche modo al procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Come la stessa Corte ha avuto modo di chiarire, le loro conclusioni non costituiscono pareri di un’autorità estranea alla Corte destinati ai giudici o alle parti, ma l’opinione di un membro dell’Istituzione, motivata ed espressa pubblicamente. Per questo motivo, anche se non partecipano alla fase deliberativa della sentenza, gli AG concorrono ugualmente al processo di elaborazione della stessa e quindi allo svolgimento della funzione giudiziaria attribuita alla Corte. V. Corte giust. ordinanza 4 febbraio 2000, C-17/98, Emesa Sugar c. Aruba, I-665. E proprio sulla base di una simile configurazione del ruolo degli AG, la Corte ha potuto respingere la pretesa di una parte che intendeva depositare osservazioni sulle conclusioni dell’AG, invocando a proprio sostegno la sentenza della Corte EDU (sentenza 20 febbraio 1996, Vermeulen c. Belgio, Recueil des arrêts et décisions, 1996, I, p. 224), nella quale l’impossibilità per le parti di replicare alle conclusioni presentate dal pubblico ministero presso la Cour de Cassation (Belgio) era stata tacciata di violazione del diritto ad un processo contraddittorio, di cui all’art. 6, n. 1, CEDU. Il che non esclude, come vedremo tra breve (infra, p. 250), che in determinate circostanze la Corte possa, con propria autonoma decisione, riaprire la fase orale per consentire alle parti di produrre osservazioni su elementi nuovi emersi dalle o dopo le conclusioni.
Va fatto infine cenno alla figura del «primo» AG, inizialmente nominato dalla Corte, su proposta degli stessi AG, ogni anno, ma dall’ottobre 2015 eletto dalla Corte per un triennio. Egli opera come primus inter pares, ma ha il compito, oltre che di promuovere il procedimento di riesame (infra, p. 253), di distribuire le cause tra i singoli AG, ben potendo, ovviamente, riservarne alcune a se stesso. c) I giudici e gli AG sono nominati per sei anni dai governi degli Stati membri, di comune accordo, tra «personalità che offrano tutte le garanzie d’indipendenza e che soddisfino le condizioni richieste per l’esercizio, nei rispettivi paesi, delle più alte funzioni giurisdizionali, ovvero che siano giureconsulti di notoria competenza» (art. 253, comma 1, TFUE, nonché art. 19, par. 2, comma 3, TUE). Il Trattato non richiede altri requisiti, né pone altre condizioni (età, nazionalità, ecc.). Tuttavia, dalla prassi del Comitato di cui subito diremo, emerge una particolare attenzione alla tra-
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sparenza delle procedure di selezione delle candidature da parte degli Stati membri, prima della loro presentazione agli altri Stati membri e soprattutto al predetto Comitato. In molti Stati membri, in effetti, apposite procedure (talvolta anche assai complesse) sono previste da tempo o sono state introdotte di recente. In Italia si è dovuto attendere la legge 24 dicembre 2012, n. 234, Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea (GURI 4 gennaio 2013, n. 3), per trovare un primo tentativo di superare l’opacità e le incertezze della procedura di designazione. L’art. 17 di tale legge prevede, in effetti, che il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per gli affari europei informino le Camere all’atto della proposta o della designazione da parte del Governo dei membri italiani di una serie di istituzioni dell’Unione, tra cui appunto la Corte di giustizia, indicando la procedura seguita al riguardo e le motivazioni della scelta. Peraltro, le competenti Commissioni parlamentari possono chiedere l’audizione delle persone designate solo dopo l’effettiva assunzione delle loro funzioni.
Con il Trattato di Lisbona, tuttavia, la nomina è stata subordinata alla previa consultazione di un Comitato ad hoc, composto di sette personalità scelte tra ex membri della Corte e tra giuristi di notoria competenza, nominati dal Consiglio su proposta del Presidente della Corte (v. art. 255 TFUE). Uno dei membri del Comitato deve essere proposto dal PE. Sempre secondo il dettato dell’art. 255 TFUE, su iniziativa del Presidente della Corte, il Consiglio ha fissato le norme di funzionamento del Comitato (v. dec. 2010/124/UE, del 25 febbraio 2010, in GUUE L 50, 18, e ivi, p. 20, la dec. 2010/125/UE del Consiglio con la prima designazione del Comitato). Diversamente dunque dall’analogo Comitato operante, come subito vedremo, per le nomine al TFP, il Comitato in discorso non incide sulla scelta del candidato, ma si limita a esprimere un parere sull’adeguatezza di quello proposto dallo Stato, anche se tale parere è stato finora sempre rispettato (v. artt. 253 e 255 TFUE).
La nomina interviene secondo un sistema di rinnovo parziale triennale, che interessa a turno 14 giudici e, alternativamente, 6 e 5 AG. Per gli uni e per gli altri, però, il mandato può essere rinnovato (non però, ovviamente, per gli AG “non permanenti”); mentre può cessare, oltre che per la scadenza temporale o per cause naturali, a seguito delle volontarie dimissioni dell’interessato o delle dimissioni d’ufficio decise dalla Corte all’unanimità dei suoi membri (e previa consultazione del Tribunale se la questione riguarda un membro di quest’ultimo) (v. art. 6 Statuto, nonché infra, p. 347). Salvo ovviamente i casi di conclusione temporale del mandato, il successore è nominato per il resto del mandato del membro cui subentra. Prima di assumere le loro funzioni, i membri della Corte prestano giuramento in seduta pubblica. La loro indipendenza e correttezza nell’esercizio delle funzioni sono assicurate da un’apposita disciplina contenuta nello Statuto (art. 3 ss.) e nel regolamento di procedura (art. 4 ss.); essa riguarda in particolare l’immunità dalla giurisdizione, che può essere tolta solo dalla Corte; le incompatibilità con ogni funzione politica e amministrativa; l’inamovibilità; gli obblighi di astensione per motivi di opportunità; e in genere i doveri di riservatezza, imparzialità e correttezza connessi alle loro funzioni. A tal fine, comunque, prima nel 2007 (GUUE C 223/2007, 1) e poi nel 2017 (GUUE C 483/2016, 1), la Corte si è anche dotata, al pari di altre istituzioni, di un «Codice di condotta» per i propri membri.
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d) Il Presidente della Corte è eletto fra e dai soli giudici. Il primo Presidente sia della Corte CECA (1952) che della Corte unica (1958) furono però designati dai Governi degli Stati membri (v. art. 5, comma 1, della Convenzione sulle disposizioni transitorie, allegata al TCECA, e art. 244 dell’originario TCEE).
Egli rappresenta la Corte, ne presiede le riunioni generali nonché le udienze e le deliberazioni della seduta plenaria e della grande sezione, e vigila sul corretto funzionamento dei servizi dell’Istituzione (artt. 8 e 9 reg. proc. Corte; ai sensi dell’art. 11, par. 4, reg. proc. Corte, per le cause rimesse alle sezioni a 3 e a 5 giudici i poteri del Presidente della Corte sono esercitati dal Presidente della sezione competente). È inoltre compito del Presidente della Corte distribuire le cause tra i giudici, designando, dopo il deposito dell’atto introduttivo del giudizio, il giudice relatore incaricato della causa (art. 15 reg. proc. Corte). A seguito delle modifiche dello Statuto apportate nel 2012, è stata istituita la funzione di Vicepresidente, con il compito di coadiuvare il Presidente della Corte nell’esercizio delle sue funzioni. Come quest’ultimo, anche il Vicepresidente della Corte è eletto fra e dai soli giudici, per un mandato di tre anni (rinnovabile). Spetta a lui decidere circa l’adozione delle misure provvisorie e di urgenza previste dal Trattato. V. art. 9 bis dello Statuto (inserito dall’art. 1 del reg. n. 741/2012, cit.), nonché artt. 8, 10 e 13 reg. proc. Corte. V. anche la dec. 2012/671/UE della Corte, del 23 ottobre 2012, relativa alle funzioni giurisdizionali del Vicepresidente della Corte (GUUE L 300, 47), tra le quali si segnala, per l’appunto, quella concernente l’adozione delle misure provvisorie e di urgenza (artt. 278, 279 e 299 TFUE; art. 39, comma 2, dello Statuto, come modificato dall’art. 1 del reg. n. 741/2012, cit.; nonché art. 160 reg. proc. Corte).
e) Ai sensi dell’art. 251 TFUE, in combinato disposto con l’art. 16 dello Statuto, la Corte si riunisce in sezioni composte da tre o, nella maggior parte dei casi, da cinque giudici (anche per tal motivo i Presidenti delle sezioni a 5 giudici sono eletti per tre anni, con mandato rinnovabile una sola volta, mentre per quelle a 3 giudici è prevista una presidenza a rotazione annuale). Può però anche decidere, in relazione all’importanza della causa, di riunirsi in grande sezione (quindici giudici); ed è anzi tenuta a farlo quando lo richiedano uno Stato membro o un’istituzione dell’Unione che siano parti in causa. Ai sensi dell’art. 16, comma 2, dello Statuto (come modificato dall’art. 1 del reg. n. 741/2012, cit.), la grande sezione è presieduta dal Presidente della Corte, che ne fa parte di diritto insieme al Vicepresidente. Oltre ad essi, compongono la grande sezione, in conformità alle disposizioni del reg. proc. Corte (in particolare, art. 27), tre Presidenti delle sezioni di cinque giudici (designati secondo un criterio di rotazione predeterminato e reso pubblico dalla Corte), nonché tanti altri giudici (anch’essi individuati con l’indicato sistema di rotazione) quanti sono necessari per arrivare al numero di 15.
Si riunisce invece in assemblea plenaria nei casi indicati dallo stesso art. 16 dello Statuto (giudizi sul comportamento dei membri di alcuni organi dell’Unione) e, sen-
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tito l’AG, ogniqualvolta reputi che un giudizio pendente dinanzi ad essa rivesta un’importanza eccezionale. Per ciascuna causa, la scelta della formazione competente è operata dalla Corte, su proposta del giudice relatore e dell’AG, in occasione della riunione amministrativa (c.d. riunione generale) cui prendono parte, con cadenza di regola settimanale, tutti i membri dell’istituzione, di solito con l’assistenza del cancelliere. In questa sede, vengono decisi anche altri aspetti organizzativi di una causa: se richiedere o meno le conclusioni dell’AG, se accordare un’udienza alle parti che ne abbiano fatto richiesta, se autorizzare la formazione a limitarsi a decidere il caso con ordinanza motivata, e così via. In sede giurisdizionale, invece, la Corte delibera in camera di consiglio, in presenza dei soli giudici membri del collegio giudicante e sulla base dei voti espressi dalla maggioranza degli stessi. Le delibere sono prese in numero dispari: per la loro validità occorre, per le sezioni a tre e cinque giudici, la presenza di almeno tre giudici; per la grande sezione, di perlomeno undici giudici; e per l’assemblea plenaria, di almeno diciassette giudici. A differenza di quanto avviene per altre giurisdizioni nazionali e internazionali, non sono rese note le opinioni dissidenti o individuali dei giudici, perché «[l]e deliberazioni della Corte di giustizia sono e restano segrete» (v. art. 35 dello Statuto, ripreso anche dall’art. 32, par. 1, reg. proc. Corte). A giustificazione di questa disposizione si invoca la necessità di salvaguardare l’autorità della Corte, che sarebbe affievolita se fossero pubblicate opinioni dissenzienti e/o individuali dei propri membri; e ciò tanto più che, diversamente da altre giurisdizioni, nel processo comunitario ci sono le conclusioni degli avvocati generali, che danno conto delle diverse tesi in campo nelle singole cause.
f) La Corte è assistita da un cancelliere, da essa stessa nominato per un periodo di sei anni (rinnovabile), e ne fissa lo Statuto (art. 253, comma 5, TFUE; nonché art. 18, par. 4, reg. proc. Corte). Oltre a dirigere la cancelleria, con l’assistenza di un cancelliere aggiunto, il cancelliere è al vertice dell’apparato burocratico della Corte, e ne cura la gestione amministrativa e finanziaria. Va comunque segnalato che, per l’esercizio delle più elevate funzioni amministrative, la Corte ha istituito nel proprio seno un apposito Comitato amministrativo, presieduto dal Presidente della Corte e composto dal vice-presidente e da membri della stessa Corte e del Tribunale, oltre che dal cancelliere. g) Il regime linguistico della Corte è disciplinato in modo autonomo rispetto a quello generale dell’Unione (art. 342 TFUE), essendo rimesso a una disciplina ad hoc da definire secondo la procedura indicata dallo Statuto (art. 64, par. 1). Nell’attesa, si applicano le pertinenti norme dei regolamenti della Corte e del Tribunale, la cui eventuale modifica è tuttavia circondata da particolari garanzie, dato che – diversamente dalle altre modifiche del regolamento (artt. 253 e 254 TFUE) – a essa il Consiglio può procedere solo all’unanimità (art. 64, par. 2, dello Statuto); così come, in deroga alla regola generale (ossia alla procedura legislativa ordinaria, con voto dunque a maggioranza qualificata), solo all’unanimità può essere modificato lo stesso art. 64 dello Statuto (v. art. 281 TFUE). Ciò a testimonianza dell’estrema delicatezza di quel regime, come in genere delle questioni linguistiche nell’Unione (v. più ampiamente, retro, p. 120 ss.).
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Molto sinteticamente, e per l’essenziale, viene previsto che tutte le lingue ufficiali dell’Unione sono lingue processuali; che in linea di principio la lingua processuale nei ricorsi diretti è quella del ricorrente, nelle impugnazioni e nel riesame quella della decisione impugnata o oggetto di riesame, nei procedimenti pregiudiziali quella del giudice del rinvio. Deroghe a tali regole sono però previste, o possono essere concesse dal Presidente della Corte, per casi specifici. h) La sede della Corte è a Lussemburgo. Essa vi fu stabilita inizialmente, e dopo qualche esitazione, a titolo provvisorio (come, del resto, quella di tutte le istituzioni dell’Unione), ma lo è poi rimasta anche a titolo definitivo (v. Protocollo n. 6, allegato al Trattato di Lisbona).
3. Segue: Il Tribunale Come si è detto, la Corte non svolge da sola la missione che le è conferita dai Trattati. Essa è in primo luogo affiancata dal Tribunale, la cui istituzione con decisione del Consiglio fu resa possibile dall’apposita modifica introdotta nel TCE dall’AUE, per essere poi sancita direttamente nei testi istitutivi grazie ad un’ulteriore modifica introdotta dal Trattato di Maastricht del 1992 e completata dai successivi Trattati di revisione. Con l’AUE fu, infatti, inserito nel TCE l’art. 168A, il quale abilitava il Consiglio ad adottare una decisione per l’istituzione di un tribunale di primo grado (TPI), destinato ad «affiancare» la Corte: ciò che è avvenuto, proprio grazie a questa base giuridica, con la dec. 88/591/CECA, CEE, Euratom del Consiglio, del 24 ottobre 1988 (GUCE L 319, 1). Con il Trattato di Nizza, il Tribunale è addirittura menzionato insieme alla Corte nella definizione della missione della giurisdizione dell’Unione (art. 220, comma 1, TCE), mentre ora l’art. 19, par. 1, TUE come si è visto, lo ingloba, insieme alla Corte e ai tribunali specializzati, sotto la dizione «Corte di giustizia».
a) Istituito nel dichiarato intento di assicurare anche nell’ambito del sistema dell’Unione il principio del doppio grado di giudizio, ma in realtà soprattutto per sgravare il carico di lavoro della Corte, specialmente per le cause che esigono un esame dei fatti assai complesso, l’allora TPI fu autorizzato inizialmente a giudicare in primo grado (e quindi con riserva d’impugnazione alla Corte per i soli motivi di diritto) unicamente le controversie d’impiego e i ricorsi in tema di concorrenza. In breve tempo, però, le sue competenze sono state progressivamente estese (sempre in primo grado) anzitutto a tutti i ricorsi introdotti da persone fisiche o giuridiche. V. la dec. 93/350/CECA, CEE, Euratom del Consiglio, dell’8 giugno 1993, recante modifica della decisione n. 88/591/CECA, CEE, Euratom che istituisce un Tribunale di primo grado delle CE (GUCE L 144, 21), nonché l’allora art. 168 TCE, come modificato dal Trattato di Maastricht per consentire al Consiglio di ampliare ulteriormente le attribuzioni del TPI, ad eccezione della competenza a conoscere delle questioni pregiudiziali.
Successivamente, grazie alle modifiche introdotte dal Trattato di Nizza (art. 225 TCE, ripreso ora dall’art. 256 TFUE), dette competenze sono state ampliate a tutti i
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seguenti ricorsi, quale che sia la natura del ricorrente: ricorsi di annullamento, ricorsi in carenza, ricorsi in materia di responsabilità extracontrattuale dell’Unione, ricorsi dei dipendenti, nonché al contenzioso in materia contrattuale, ad eccezione, in tale ambito, dei ricorsi attributi a un tribunale specializzato e di quelli che lo stesso Statuto riserva alla Corte. Più specificamente, l’art. 51 dello Statuto riserva alla Corte i ricorsi di annullamento o in carenza (artt. 263 e 265 TFUE) proposti da uno Stato membro e diretti: a) contro un atto o un’astensione dal decidere del PE o del Consiglio, o di queste due istituzioni quando decidono congiuntamente, salvo che si tratti: di decisioni adottate dal Consiglio in forza dell’art. 108, par. 2, comma 3, TFUE; di atti del Consiglio adottati in forza di un regolamento del Consiglio relativo alle misure di difesa commerciale ai sensi dell’art. 207 TFUE; di atti del Consiglio con i quali quest’ultimo esercita competenze di esecuzione conformemente all’art. 292, par. 2, TFUE (non quindi anche gli atti di esecuzione eventualmente fondati su altre norme del Trattato: in proposito si veda la causa ancora pendente C-521/15, Spagna c. Consiglio); b) contro un atto o un’astensione dal decidere della Commissione in forza dell’art. 331, par. 1, TFUE. Sono del pari sottratti al Tribunale e riservati alla Corte i ricorsi di annullamento o per carenza che sono proposti da un’istituzione dell’Unione contro un atto o un’astensione dal decidere del PE, del Consiglio, di queste due istituzioni quando decidono congiuntamente, della Commissione e della BCE. Sulle varie categorie di ricorsi evocate nel testo, v. i prossimi capitoli.
Non si tratta, peraltro, di un’elencazione tassativa di competenze, perché l’art. 256, par. 1, TFUE prevede che lo stesso Statuto (senza quindi che occorra una modifica dei Trattati) possa ulteriormente includervi altre categorie di ricorsi. Inoltre, la competenza del Tribunale può essere estesa, «per materie specifiche», anche ai procedimenti in via pregiudiziale, ferma restando la possibilità di sottoporre al riesame della Corte le relative decisioni al fine di garantire l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione (art. 256, par. 3, TFUE). Per ora, tuttavia, questo trasferimento di competenze non si è ancora realizzato. b) Disciplinato in parte dagli stessi Trattati (in particolare: artt. 254 e 256), in parte dallo Statuto (Titolo IV) e, per il resto, dall’apposito regolamento di procedura (adottato il 2 maggio 1991, GUCE L 136, 1, ma poi varie volte modificato: da ultimo, v. il citato reg. 2016/1192 del PE e del Consiglio, del 6 luglio 2016), il Tribunale si caratterizza, sul piano organizzativo e strutturale, anzitutto per essere composto di soli giudici, la nomina di AG essendo solo eventuale e decisa volta per volta per singole cause, ma nella prassi effettuata solo all’inizio dell’attività dell’istituzione (v. art. 49, comma 1, dello Statuto e artt. 17-19 reg. proc. Tribunale), nonché per avere una composizione tendenzialmente variabile, nel senso che il numero dei giudici è fissato non già nel Trattato, ma nello Statuto e quindi è più facilmente modificabile, fermo restando però che deve esservi «almeno un giudice per Stato membro» (art. 19, par. 2, comma 2, TUE). A lungo, quindi, i giudici del Tribunale sono stati in numero pari a quello degli Stati membri dell’Unione. Di recente, tuttavia, per far fronte al crescente carico di lavoro e per accelerare i tempi dei relativi processi, il Consiglio ha deciso di portare da 28 a 56, e quindi di raddoppiare, in tre tappe e comunque entro il 2019, il numero dei membri del Tribunale, stabilendo però al contempo la soppressione, al 31 agosto 2016, del Tribunale della funzione pubblica. Nel corso del
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2016/17 dovevano quindi essere nominati i primi due gruppi di giudici (per un totale di 19, 7 dei quali, per così dire, hanno ereditato le posizioni dell’estinto TFP), mentre i restanti 9 saranno nominati nel 2019 (v. reg. n. 2015/2422, cit.). Per il resto, lo Statuto e il regime dei membri del Tribunale è quasi identico a quello dei membri della Corte, anche se ai fini della loro nomina si richiede solo «la capacità per l’esercizio di alte funzioni giurisdizionali». V. art. 254, comma 2, TFUE. Il Tribunale elegge anch’esso un Presidente, nonché – a seguito delle modifiche apportate allo Statuto Corte nel 2012 – un Vicepresidente.
c) Come la Corte, anche il Tribunale si organizza in sezioni (composte da tre o cinque giudici) che esso stesso crea nel proprio seno; determinati casi, individuati dal regolamento di procedura, devono però essere decisi dalla grande sezione (composta da quindici giudici) o in seduta plenaria (v. artt. 13-15 e 42 reg. proc. Tribunale). Peraltro, considerato il crescente carico di lavoro, specie dopo l’attribuzione della competenza sulle controversie in materia di diritti di marchi, e anche in vista dell’arrivo di ulteriori competenze, il Consiglio ha autorizzato il Tribunale, in casi tassativamente indicati, a «statuire nella persona di un giudice unico», e ha modificato di conseguenza il regolamento di procedura. V. dec. 1999/291/CE, CECA, Euratom del Consiglio, del 26 aprile 1999, che modifica la citata dec. 88/591 allo scopo di consentire al Tribunale di statuire nella persona di un giudice unico (GUCE L 114, 52). Ai sensi dell’art. 29 reg. proc. Trib., anche nei casi previsti, la decisione di statuire in via monocratica è comunque subordinata all’assenza di difficoltà nelle questioni di diritto o di fatto sollevate, all’importanza limitata della causa e all’insussistenza di altre circostanze particolari. Merita ancora di essere segnalata, nel nuovo reg. proc. del Tribunale, l’inserzione di una disposizione (art. 105) tesa ad assicurare un regime particolare di riservatezza agli atti o alle informazioni che interessano la sicurezza degli Stati membri, soprattutto nel contenzioso relativo alle c.d. misure restrittive adottate dal Consiglio nel quadro della PESC.
4. Segue: I tribunali specializzati. Il Tribunale della funzione pubblica Come già accennato, già il Trattato di Nizza aveva introdotto una nuova disposizione (art. 225A TCE) che autorizzava il Consiglio a istituire, sulla base di un’apposita procedura, delle «camere giurisdizionali incaricate di conoscere in primo grado di talune categorie di ricorsi in materie specifiche», fissando contestualmente le regole relative alla loro composizione e precisando la portata delle loro competenze. Il Trattato di Lisbona ha sostanzialmente confermato tale disciplina, anche se ha ridenominato le «camere giurisdizionali» come «tribunali specializzati», ne ha affidato l’istituzione non già al solo Consiglio ma allo stesso e al Parlamento europeo in procedura legislativa, e ha precisato che essi sono «affiancati» al Tribunale (art. 257 TFUE). Ai sensi di tale disposizione, i «tribunali specializzati» sono composti da membri, nominati dal Consiglio all’unanimità e scelti «tra persone che offrano tutte le garanzie di indipendenza e possiedano la capacità per l’esercizio di funzioni giurisdizionali».
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I loro provvedimenti potranno essere oggetto d’impugnazione per i «soli motivi di diritto o, qualora la decisione sull’istituzione del tribunale specializzato lo preveda, anche per motivi di fatto, dinanzi al Tribunale». Le conseguenti decisioni di quest’ultimo, come vedremo al prossimo paragrafo, possono a loro volta essere eccezionalmente oggetto di un particolare ricorso, c.d. «riesame», innanzi alla Corte, «ove sussistano gravi rischi che l’unità o la coerenza del diritto dell’Unione siano compromesse» (infra, p. 253). Finora, peraltro, il solo tribunale specializzato istituito è stato il TFP, composto di sette giudici nominati per sei anni all’unanimità dal Consiglio, che era competente in primo grado a pronunciarsi in merito alle controversie tra l’Unione e i suoi agenti, ai sensi dell’art. 270 TFUE e dell’art. 152 TCEEA, comprese le controversie tra gli organi o tra gli organismi dell’Unione e il loro personale, se attribuite in linea generale alla giurisdizione dell’Unione. V. la dec. 2004/752/CE, Euratom del Consiglio, del 2 novembre 2004 (GUUE L 333, 7), che per l’appunto istituiva il TFP e aggiungeva allo Statuto un allegato contenente la relativa disciplina. Esso fu costituito il 2 dicembre 2005 ed entrò in funzione il 12 dicembre 2005, a seguito dell’apposita dichiarazione del Presidente della Corte di giustizia (GUUE L 325, 1). Il 25 luglio 2007 il TFP si dette il proprio regolamento di procedura (GUUE L 225, 1; l’ultima versione pubblicata è reperibile in GUUE L 206/2014, 1). Ai sensi della decisione istitutiva, il TFP era composto di sette giudici nominati all’unanimità dal Consiglio (e non, come i loro omologhi della Corte e del Tribunale, dai Rappresentanti dei Governi degli Stati membri), previa consultazione di un comitato ad hoc, composto di sette personalità scelte tra ex magistrati dell’Unione e tra giuristi di notoria competenza. Nella nomina il Consiglio doveva assicurare «una composizione equilibrata del [TFP] secondo una base geografica quanto più ampia possibile» rispetto ai cittadini e agli ordinamenti giuridici degli Stati membri. I giudici del TFP erano anch’essi nominati per sei anni; in caso però di cessazione anticipata, il successore restava in carica per un intero mandato e non, come accade invece per i membri della Corte e del Tribunale, solo per la restante durata del mandato del predecessore.
Ma, come si è detto, il TFP ha avuto una vita breve, essendo stato soppresso nel 2016 con il già citato reg. n. 2016/1192, il quale ha trasferito al Tribunale la competenza a decidere (in primo grado) sulle controversie in materia di funzione pubblica europea.
5. La procedura La procedura davanti ai descritti organi si svolge secondo regole sostanzialmente comuni alle tre giurisdizioni, fatte salve le peculiarità legate alla specifica natura del rispettivo contenzioso. Per comodità espositiva, si farà qui riferimento alla procedura innanzi alla Corte, che è disciplinata per linee generali dallo Statuto e più analiticamente dal regolamento di procedura della Corte, avendo presente che quest’ultimo, come già accennato, è stato recentemente oggetto di una profonda revisione, per tener conto dell’evoluzione del relativo contenzioso. Va anche segnalato che, sul piano processuale, lo Statuto della Corte regola le questioni eventualmente sollevate dalla coesistenza di più organi giurisdizionali in seno all’Istituzione. In parti-
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colare, ai sensi del suo art. 54, gli atti inviati per errore alla Corte sono rimessi dalla sua cancelleria al Tribunale (e viceversa). Allo stesso modo, se il Tribunale constata di non essere competente su un ricorso, esso rinvia la causa alla Corte e lo stesso fa la Corte con il Tribunale. Quest’ultimo però, anche se ne dubita, non è libero di declinare la propria competenza. Per la particolare ipotesi di cause aventi lo stesso oggetto, v. infra, p. 279.
In effetti, la struttura del precedente regolamento di procedura risentiva palesemente delle caratteristiche originarie di quel contenzioso, che era imperniato soprattutto intorno ai ricorsi diretti e al contenzioso di legalità, e relegava in un ruolo marginale la competenza pregiudiziale, avendo questa effettivamente avuto all’inizio un simile ruolo. Col tempo, però, la situazione si è rovesciata e oggi quella competenza impegna quasi i due terzi del contenzioso innanzi alla Corte, così come, dopo la creazione del Tribunale e poi del TFP, hanno acquistato rilievo le procedure d’impugnazione e, ancora più recentemente, quelle di riesame delle sentenze rese dal Tribunale stesso su impugnazione di decisioni dei tribunali specializzate. Il nuovo regolamento di procedura ha pertanto aggiornato la disciplina della materia, e con l’occasione ne ha anche razionalizzato l’impianto complessivo e codificato alcune regole che si erano intanto affermate in via pretoria. Esso si articola oggi in una prima parte con regole di procedura comuni e destinate quindi ad applicarsi, salvo eventuali aggiustamenti minori, alla maggior parte delle azioni di cui la Corte è competente a conoscere, e poi in una serie di discipline specifiche per i vari tipi di ricorso. a) Quanto alle regole comuni, esse riguardano la rappresentanza delle parti ed il regime giuridico degli agenti e rappresentanti; le notifiche degli atti giudiziari; i termini processuali; le modalità di trattamento delle cause, alcune delle quali potendo ricevere, «a motivo di circostanze particolari», un trattamento prioritario oppure essere oggetto, come vedremo, di un procedimento accelerato o di urgenza. Secondo l’art. 19 Statuto, in tutte le procedure le parti devono essere rappresentate da un agente nominato ad hoc, se si tratta delle istituzioni dell’Unione o degli Stati membri, o da un avvocato o da un professore, abilitato al patrocinio dinanzi ad un organo giurisdizionale di uno Stato membro, se si tratta di privati. Naturalmente, le persone giuridiche devono provare la loro esistenza in vita per tutta la durata del procedimento (v. Corte giust. 15 giugno 2017, C-19/16 P, AlFaqih e a.).
Normalmente, il procedimento si articola in una fase scritta e in una fase orale. La prima si apre in ogni caso con il deposito dell’atto introduttivo alla cancelleria; le tappe successive dipendono invece dal tipo di ricorso introdotto e sono pertanto disciplinate nei pertinenti titoli del regolamento di procedura. Ove una fase istruttoria si renda necessaria, la Corte o il giudice relatore (o anche l’AG) possono disporre l’esperimento di misure di organizzazione della procedura, come la produzione di documenti o domande di chiarimenti, ovvero di mezzi istruttori, quali perizie o l’assunzione di prove testimoniali. Contrariamente alla fase scritta, lo svolgimento della fase orale è sostanzialmente simile in tutti i tipi di ricorso. Essa è eventuale ed è aperta, d’ufficio o su istanza di parte, solo qualora la Corte non si ritenga sufficientemente edotta sulla base delle memo-
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rie scritte. Seguendo l’ordine determinato dalla data di chiusura della fase scritta, e salvo l’applicazione di una procedura prioritaria, il Presidente del collegio fissa la data dell’udienza (normalmente) pubblica, nella quale intervengono gli agenti, i consulenti e gli avvocati delle parti, nonché, se del caso, testimoni e periti. In una successiva udienza vengono presentate, laddove previste, le conclusioni dell’AG, la cui lettura segna la conclusione della fase orale e il passaggio alla deliberazione della causa. Come si è detto più sopra, dopo la presentazione delle conclusioni, le parti non possono depositare osservazioni o memorie in replica alle stesse. Esse possono tuttavia chiedere la riapertura della fase orale ai sensi dell’art. 83 reg. proc. Corte, riapertura che comunque la Corte può disporre anche d’ufficio o su proposta dello stesso AG, qualora ritenga di non avere sufficienti chiarimenti sulla causa o che questa debba essere decisa sulla base di un argomento che non sia stato oggetto di discussione tra le parti (v. ad es. Corte giust. 19 febbraio 2002, C-309/99, Wouters e a., I-1577; 10 febbraio 2009, C-110/05, Commissione c. Italia, I-519; 8 settembre 2009, C-42/07, Liga Portuguesa, I-7633; 25 gennaio 2011, C-382/08, Neukirchinger, I-139; 6 settembre 2012, C262/10, Döhler Neuenkirchen; 4 maggio 2016, C-346/14, Commissione c. Austria; 23 novembre 2016, C-442/14, Bayer CropScience e Stichting De Bijenstichting).
b) Regole procedurali specifiche sono poi previste per il rinvio pregiudiziale. L’atto introduttivo di questo procedimento è costituito dalla domanda trasmessa dal giudice nazionale. Esso deve contenere un’illustrazione sommaria dell’oggetto della controversia nonché dei fatti rilevanti, quali accertati dal giudice del rinvio o, quanto meno, un’illustrazione delle circostanze di fatto sulle quali si basano le questioni; il contenuto delle norme nazionali applicabili alla fattispecie e, se del caso, la giurisprudenza nazionale in materia; e, infine, l’illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull’interpretazione o sulla validità di determinate disposizioni del diritto dell’Unione, nonché il collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla causa principale. L’assenza o la carenza di tali indicazioni è suscettibile di determinare l’irricevibilità della domanda se rende impossibile la decisione della Corte. La domanda di rinvio è notificata a tutti i soggetti legittimati a depositare osservazioni, vale a dire le parti del giudizio a quo (incluse quelle intervenute in tale giudizio), gli Stati membri, la Commissione (che interviene di regola in tutti i procedimenti, in funzione del suo ruolo istituzionale e quindi a titolo per così dire di amicus curiae), nonché, quando sono in causa atti da esse adottati, le altre istituzioni V. art. 23 dello Statuto. Tale disposizione autorizza altresì la partecipazione degli Stati parti contraenti dell’accordo sullo Spazio economico europeo diversi dagli Stati membri e dell’Autorità di vigilanza AELS (EFTA) prevista da detto accordo, quando la questione pregiudiziale rientri nell’ambito di applicazione dello stesso. E questo vale anche per gli Stati terzi contraenti con l’Unione di accordi che attribuiscano a detti Stati la facoltà di presentare memorie e osservazioni nelle procedure pregiudiziali, purché appunto si tratti di questioni rientranti nell’ambito di applicazione dell’accordo.
Le osservazioni devono essere presentate entro due mesi dalla notifica dell’ordinanza di rinvio; se ciò non accade, però, gli interessati possono ugualmente partecipare alla fase orale, qualora questa abbia luogo.
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Come si è detto, i passaggi della procedura in esame possono essere ridotti in alcuni casi. Anzitutto, quando la natura della causa richiede un suo rapido trattamento, la Corte può accordare in via eccezionale un procedimento accelerato, che comporta una rilevante contrazione dei tempi e dei passaggi processuali. Ma soprattutto merita di essere segnalata la c.d. «procedura pregiudiziale di urgenza», istituita per i rinvii nel settore c.d. dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia (SLSG), di cui al Titolo V del TFUE, al fine di tener conto del crescente coinvolgimento della Corte in materia e delle specialissime esigenze da questa sollevate (v. p. 336). In effetti, i rinvii pregiudiziali possono qui riguardare situazioni (ad esempio, affidamenti di minori, persone detenute) per le quali appare quanto mai necessaria una sollecita risposta ai quesiti del giudice nazionale. V. art. 23 bis dello Statuto e artt. 107-114 reg. proc. Corte. Il ricorso a tale procedura può essere richiesto dal giudice del rinvio o deciso d’ufficio dalla Corte, ed è deciso da una sezione che viene designata all’inizio di ogni anno giudiziario (con possibilità, tuttavia, di rinviare la questione alla Grande Sezione se il caso lo richiede). La procedura si articola sulla base di regole speciali e più semplificate: in particolare, quanto alle modalità e all’ampiezza della notifica dei pertinenti atti processuali, al relativo regime linguistico, alle conclusioni degli AG, ai tempi concessi alle parti per presentare le proprie osservazioni, alla possibilità di sopprimere anche la fase scritta. Va anche sottolineato che le esigenze di cui si parla nel testo sono esplicitamente ribadite anche dall’art. 267, comma 4, TFUE, che proprio in vista di esse ha inserito nella precedente formulazione dell’art. 234 TCE un nuovo comma, l’ultimo, ai sensi del quale, come si è visto, quando eventuali questioni di interpretazione o validità riguardano, quale che sia l’organo giurisdizionale nazionale competente, «una persona in stato di detenzione, la Corte statuisce il più rapidamente possibile».
c) Il Titolo IV del regolamento di procedura contiene invece la disciplina dei procedimenti aventi a oggetto ricorsi diretti (ricorsi per inadempimento del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri; ricorsi per annullamento degli atti dell’Unione o per la mancata adozione degli stessi, ricorsi per risarcimento dei danni). Per questi procedimenti, l’atto introduttivo della fase scritta è il ricorso depositato dal ricorrente presso la cancelleria della Corte entro i termini prefissati per i vari casi dai testi. Il ricorso deve indicare il nome e il domicilio del ricorrente, la parte convenuta, l’oggetto della controversia e l’esposizione sommaria dei motivi dedotti, le conclusioni nonché i mezzi di prova eventualmente offerti. Il ricorso è notificato a cura della cancelleria al convenuto, il quale ha un mese di tempo per presentare un controricorso, cui l’attore può essere autorizzato dal presidente (e nei tempi da questi stabiliti) a rispondere con una replica, alla quale a sua volta il convenuto avrà all’occorrenza il diritto di controreplicare. In questa fase è consentito ai terzi di chiedere di intervenire (peraltro solo in adesione alle richieste di una parte) nella causa, ma con significative differenze. Gli Stati membri e le istituzioni hanno il diritto di intervenire in tutte le cause. Gli organi e organismi dell’Unione possono farlo invece solo se dimostrano di avere interesse alla soluzione della controversia. La medesima limitazione vale anche per i soggetti privati, i quali comunque non possono mai intervenire nelle cause instaurate tra Stati membri o tra istituzioni, o tra gli uni e le altre (art. 40 dello Statuto). Va peraltro segnalato che anche per questo procedimento è prevista una variante «accelerata» per i casi in cui la particolare urgenza della causa richieda che la Corte
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statuisca il più rapidamente possibile. Decisa dal Presidente della Corte su proposta del giudice relatore, sentiti l’AG e la controparte, tale procedura, normalmente, deve essere richiesta da una delle parti con separata istanza, e si traduce in una limitazione dei passaggi processuali e soprattutto in una riduzione dei tempi degli stessi. Solo in via eccezionale, il Presidente della Corte può disporla d’ufficio, sentite le parti, il giudice relatore e l’AG. Da ultimo, va segnalato che i ricorsi in parola non hanno effetto sospensivo, ma le parti possono chiedere provvedimenti provvisori consistenti nella sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato o in qualsiasi altra misura cautelare eventualmente necessaria (artt. 278 e 279 TFUE). d) Conclusa la fase orale e udite, se del caso, le conclusioni dell’AG, la causa passa in camera di consiglio per decisione, salvo che non vi sia stata, secondo i casi, una transazione tra le parti o una rinuncia agli atti o il ritiro di una domanda pregiudiziale. La decisione finale assume la forma della sentenza ovvero dell’ordinanza. Le sentenze della Corte, lette in pubblica udienza, hanno forza obbligatoria dal giorno della pronuncia; se comportano un obbligo pecuniario, esse possono anche costituire titolo esecutivo (artt. 280 e 299 TFUE). Inoltre la Corte può, in determinate circostanze, limitarne gli effetti nel tempo (v. in particolare, p. 308 s.). Le sentenze diverse da quelle rese in via pregiudiziale e da quelle che decidono direttamente su un’impugnazione, e quindi senza rinvio al Tribunale, dispongono anche sulle spese processuali, che normalmente sono a carico della parte soccombente, salvo eventuale loro compensazione; per casi specificamente indicati, poi, è possibile ammettere una parte al gratuito patrocinio. Tenuto conto del fatto che il procedimento pregiudiziale costituisce un incidente di procedura nell’ambito del giudizio a quo, spetta invece al giudice nazionale decidere sulle spese relative a tali procedimenti. Essendo rese da un organo giurisdizionale di ultima istanza, le sentenze della Corte non sono soggette ad impugnazione se non con mezzi straordinari (opposizione in caso di sentenza adottata in contumacia del convenuto, opposizione di terzo, revocazione a seguito della scoperta di un fatto nuovo, essenziale ai fini della decisione della causa). Alla Corte può però essere richiesto di interpretare una sentenza, entro due anni dalla sua pronuncia, in caso di difficoltà sul senso e la portata della stessa. La procedura d’interpretazione delle sentenze della Corte è prevista dall’art. 43 dello Statuto e dall’art. 158 reg. proc. Corte, ai sensi dei quali, in caso di difficoltà sul senso e la portata di una sentenza o di un’ordinanza, spetta alla Corte interpretarla, su richiesta di una parte o di un’istituzione dell’Unione che dimostri di avervi interesse. Peraltro, date le stringenti regole di ricevibilità delle domande d’interpretazione, l’ultima sentenza in materia risale al 19 gennaio 1999, C-245/95 P-INT, NSK c. Commissione, le altre essendo state dichiarate tutte irricevibili (v. anche infra, p. 276).
e) Un’altra disciplina specifica viene poi dettata dal regolamento di procedura per l’impugnazione delle sentenze del Tribunale (e, mutatis mutandis, quelle dei tribunali specializzati). L’impugnazione è consentita (secondo i casi, dinanzi alla Corte o al Tribunale) alle parti principali o intervenute (ma Stati membri e istituzioni possono farlo anche se non presenti nel giudizio di primo grado), nel termine di due
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mesi a decorrere dalla data della notifica della decisione impugnata e solo per motivi di diritto. La Corte non potrà quindi riesaminare la valutazione dei fatti operata dal Tribunale, salvo che non s’imputi allo stesso uno «snaturamento» degli elementi di prova. Inoltre, trattandosi per così dire di un giudizio di cassazione e non di appello, le parti non possono sollevare nuovi motivi, né riproporre le questioni già decise dal Tribunale, se non per denunciarne i presunti errori di diritto nella relativa valutazione. L’eventuale accoglimento del gravame comporta l’annullamento del provvedimento di primo grado. In tal caso, la Corte può statuire definitivamente sulla controversia «qualora lo stato degli atti lo consenta», oppure può rinviare la causa al Tribunale, il quale sarà vincolato dai punti di diritto contenuti nella pronuncia della Corte. f) Nel caso in cui sia invece investita di un ricorso contro sentenze emesse dal Tribunale in sede d’impugnazione di decisioni dei tribunali specializzati o in sede di procedimenti pregiudiziali (se e quando la relativa competenza sarà attribuita al Tribunale), la Corte procede, come si è già accennato, al mero «riesame» del provvedimento impugnato (art. 256, rispettivamente par. 2, comma 2, e par. 3, comma 3, TFUE). Per entrambe le ipotesi, infatti, l’art. 62 dello Statuto ha previsto che «il primo avvocato generale, allorché ritiene che esista un grave rischio per l’unità o la coerenza del diritto dell’Unione, può proporre alla Corte di riesaminare la decisione del Tribunale. La proposta deve essere presentata entro un mese a decorrere dalla pronuncia della decisione del Tribunale. La Corte decide, entro un mese a decorrere dalla proposta presentatale dal primo avvocato generale, sull’opportunità o meno di riesaminare la decisione». La procedura di riesame, essendo per molti aspetti derogatoria rispetto a quella prevista per gli altri tipi di azione, è specificamente disciplinata al Titolo VI del regolamento di procedura. Essa comporta un controllo diverso e più limitato dei normali mezzi d’impugnazione. In particolare, si distingue da questi anzitutto per il suo carattere eccezionale, per la procedura semplificata e accelerata e per la sua portata, essendo destinata unicamente ad assicurare che la decisione impugnata non pregiudichi l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione. V. artt. 62 bis e 62 ter dello Statuto. L’eccezionalità del riesame e l’esigenza di configurare la relativa procedura in termini di rapidità e urgenza erano state particolarmente sottolineate in due dichiarazioni allegate al Trattato di Nizza (dichiarazioni n. 13 e n. 15).
g) Apposite disposizioni sono poi dettate per le procedure relative ai pareri consultivi richiesti alla Corte circa la conclusione degli accordi dell’Unione, ma di essi si dirà in seguito nella specifica sede (p. 351 ss.).
6. Le competenze. In generale Alla Corte di giustizia i Trattati attribuiscono, come si è più volte accennato, un’ampia gamma di competenze, che copre tendenzialmente l’intero arco delle questioni che l’azione dell’Unione può sollevare. Proprio per questo motivo, essa si presenta non solo estremamente ricca ed articolata, ma costituisce altresì il tratto di
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gran lunga più distintivo del ruolo della Corte nell’ambito della stessa Unione e, più in generale, uno degli aspetti più qualificanti dell’intero sistema. All’esame analitico di quelle competenze saranno dedicati i prossimi capitoli; in questa sede se ne illustreranno le caratteristiche generali. Anzitutto, si deve osservare che esse si affermano su materie e su piani molto diversi fra loro. Da qui l’estrema eterogeneità delle loro manifestazioni, che conferma, anche sotto questo profilo, l’originalità della Corte, dato che certamente un siffatto ambito di giurisdizione non trova alcun precedente. Si è bensì tentato più volte di inquadrare singole competenze entro schemi già noti soprattutto ai diritti interni; ma tali tentativi hanno un valore assai limitato, essendo i termini del paragone solo in apparenza omogenei, data la specificità del sistema dell’Unione. In realtà, la disciplina dei Trattati in materia non ha bisogno di simili confronti, la sua originalità incontestabile imponendosi come chiara e diretta conseguenza di tutto quanto si è detto in precedenza circa la natura del processo d’integrazione e la funzione all’interno di esso assegnata alla Corte. Più in particolare, poi, a determinare la peculiare articolazione della giurisdizione della Corte concorrono, in varia misura e sotto differenti profili, un insieme di elementi che ugualmente riflettono le caratteristiche del sistema. Vi è anzitutto un elemento esterno, di ovvia evidenza, che incide sulla complessità delle attribuzioni della Corte. Esso era rappresentato inizialmente dall’esistenza di tre Trattati, istitutivi di altrettante Comunità, le quali, sorte in situazioni storiche diverse, restavano distinte non solo quanto all’oggetto della loro azione, ma altresì quanto ai principi ispiratori, all’impianto istituzionale e ai meccanismi decisionali. Ciò appariva particolarmente evidente per la Comunità carbo-siderurgica (CECA) rispetto alle due più recenti (CEE ed Euratom) e si traduceva, per quel che qui interessa, in una diversità delle attribuzioni della Corte nell’una e nelle altre, sia su un piano globale sia in relazione alle singole competenze. Con l’estinzione della CECA, il problema si è sostanzialmente risolto, anche se qualche questione per così dire successoria ha continuato ad impegnare la giustizia dell’Unione ancora per un po’ di tempo. In compenso, il peso della diversità dei testi di base si è riproposto rispetto alla più complessa articolazione in pilastri che ha caratterizzato l’Unione europea a partire dal Trattato di Maastricht (supra, p. 21 ss.). Assai diversa era infatti la definizione delle attribuzioni della Corte in relazione ai singoli pilastri: quello comunitario (il primo), il pilastro della politica estera e di sicurezza comune (PESC, secondo pilastro) e quello della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale (terzo pilastro). Solo nel primo la giurisdizione della Corte si esercitava con sostanziale pienezza; negli altri due, in ragione della natura delle materie che ne erano oggetto, essa o era sostanzialmente assente (nel secondo), o incontrava limiti rilevanti (nel terzo). Con il Trattato di Lisbona, e con la soppressione dei «pilastri», la giurisdizione della Corte si è estesa in principio a tutte le materie rientranti nella competenza dell’Unione; ma alcune delle limitazioni di cui si è detto sopravvivono, per le medesime ragioni, anche nella nuova disciplina. In particolare, il TFUE ha esplicitamente escluso la competenza della Corte per quanto attiene al settore della PESC (cioè il settore oggetto in precedenza del secondo pilastro).
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V. art. 24, par. 1, comma 2, TUE e art. 275, comma 1, TFUE. In compenso, ai sensi del secondo comma di quest’ultima disposizione, spetta alla Corte assicurare il rispetto dell’art. 40 TUE, di cui diciamo subito nel testo, mentre sempre in base a quella disposizione e all’art. 24, par. 1, comma 2, TUE, viene riconosciuta alla Corte la competenza a pronunciarsi sui ricorsi di annullamento proposti, ai sensi dell’art. 263 TFUE, contro le misure restrittive eventualmente adottate dal Consiglio nei confronti di persone fisiche o giuridiche nell’esercizio dei poteri che gli sono riconosciuti nell’ambito della PESC (v. sul punto infra, p. 819), come pure nel caso dei relativi rinvii pregiudiziali (sentenza 18 marzo 2017, C-72/15, Rosneft), oppure nel caso di ricorsi dei funzionari operanti nel contesto della PESC (Corte giust. 19 luglio 2016, C-455/14 P, H. c. Consiglio) e altri soggetti a esso riconducibili (sentenza 12 novembre 2015, C-439/13 P, Elitaliana c. Eule Kosovo). Peraltro la Corte aveva già esercitato la propria competenza in simili casi anche prima del Trattato di Lisbona: sentenza 18 gennaio 2007, C-229/05 P, PKK e KNK c. Consiglio, I-439; 3 settembre 2008, C-402/05 P e C-415/02 P, Kadi e Al Barakaat International Foundation c. Consiglio e Commissione, I-6351.
Invece, per quanto attiene al precedente terzo pilastro, e cioè alle materie rientranti nel c.d. Spazio di libertà, sicurezza e giustizia (SLSG), di limitazioni ne sono rimaste ben poche (v. infra, p. 535). Spetta comunque alla Corte, ai sensi dell’art. 24, par. 1, comma 2, TUE e dell’art. 275, comma 1, TFUE, il compito di vegliare sul rispetto dell’art. 40 TUE, che definisce i criteri per la delimitazione dei confini tra il settore della PESC e gli altri settori di competenza dell’Unione, stabilendo che l’attuazione dell’uno non deve pregiudicare quella degli altri e viceversa. Compete quindi alla Corte, ancora una volta, dirigere, per così dire, il traffico in caso d’interferenze o sovrapposizioni tra i vari settori di competenza dell’Unione. Questo avveniva anche prima del Trattato di Lisbona nella vigenza del sistema dei pilastri (v. Corte giust. 12 maggio 1998, C-170/96, Commissione c. Consiglio, I-2763; ma soprattutto la nota sentenza del 13 settembre 2005, resa nella causa C-176/03, Commissione c. Consiglio, I-7879, nella quale la Corte non ha esitato ad annullare una decisione-quadro adottata nell’ambito del terzo pilastro che aveva a oggetto sanzioni penali in materia di ambiente, sul presupposto che nella specifica materia la Comunità poteva considerarsi essa stessa abilitata ad imporre questo tipo di sanzioni. Al riguardo, peraltro, la giurisprudenza ha precisato che «se l’esame di un atto [dell’Unione] dimostra che esso persegue una duplice finalità o che ha una doppia componente e se una di queste è identificabile come principale, mentre l’altra è solo accessoria, l’atto deve fondarsi su un solo fondamento normativo, ossia quello richiesto dalla finalità o dalla componente principale o preponderante» (Corte giust. 10 gennaio 2006, C-94/03, Commissione c. Consiglio, I-1, punto 35 e giurisprudenza ivi cit.; nonché, di recente, sentenza 19 luglio 2012, C-130/10, Parlamento c. Consiglio). Cambiano però ora profondamente i criteri ispiratori per la soluzione di eventuali conflitti. Prima del Trattato di Lisbona, infatti, dalla lettura del combinato disposto degli artt. 46 e 47 dell’allora TUE si deduceva che nessuna norma del secondo e terzo pilastro poteva pregiudicare le competenze attribuite all’Unione in base al primo pilastro, le quali, quindi, ove applicabili, dovevano ritenersi prevalenti. In altri termini, la competenza comunitaria era la regola mentre le altre, in quanto derogatorie, l’eccezione; sicché, prima ancora di accertare se un determinato atto portato alla sua attenzione rientrasse o meno nelle competenze previste dagli altri pilastri, la Corte doveva verificare che lo stesso non ricadesse nel primo pilastro. L’attuale art. 40 TUE colloca invece, da questo punto di vista, la PESC e le altre aree di competenza dell’Unione sullo stesso piano, escludendo quindi la prevalenza dell’una sulle altre e viceversa.
A spiegare inoltre l’eterogeneità delle competenze della Corte rileva un insieme molto vario di elementi a esse più intrinseci, in quanto attinenti alla sfera di
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giurisdizione materiale e personale dell’organo, nonché al tipo di attività esplicata. È anzi proprio sotto questi aspetti che maggiormente assume rilievo detta eterogeneità e più evidente appare la correlazione fra la varietà delle attribuzioni della Corte e la sfera d’azione dell’Unione. Ratione personarum, infatti, la giurisdizione della Corte è quanto mai ampia e differenziata, dato che concerne una vasta categoria di soggetti, la cui posizione processuale per di più è regolata in modo molto diverso, sia in generale che rispetto alle singole ipotesi di giurisdizione. Quanto poi alla competenza ratione materiae, la sua evidente e più volte sottolineata varietà sarà analiticamente illustrata in seguito, quando si metterà in luce anche come tale varietà incida ugualmente su altri aspetti, quali le modalità d’azione della Corte, i suoi poteri di riesame, le regole procedurali e perfino la natura delle sue decisioni. Inoltre, sia pur su piani differenti, concorrono a caratterizzare la diversità delle attribuzioni della Corte altri significativi aspetti, quali la loro natura, che ha normalmente, ma non sempre, carattere giurisdizionale, o il fondamento della relativa competenza, la quale se è di regola obbligatoria, può in qualche caso avere carattere facoltativo, in quanto subordinata all’accordo delle parti controvertenti (v. infra, p. 347 ss.). Infine, va ricordato che se in principio le ipotesi d’intervento della Corte sono già fissate dai Trattati, altre possono esserne istituite in base alle stesse previsioni di questi ultimi (v., ad es., l’art. 262 TFUE che abilita il legislatore dell’Unione ad attribuire alla Corte la competenza a pronunciarsi su controversie connesse agli atti adottati dalle istituzioni dell’Unione che creano titoli europei di proprietà intellettuale), oppure, come in concreto è avvenuto, da testi diversi ma a vario titolo collegati al sistema giuridico dell’Unione (v., ad es., in materia di competenza pregiudiziale, infra, p. 339 ss.)
7. Segue : Sintesi delle stesse Ciò posto, possiamo riassuntivamente distinguere le competenze della Corte nei seguenti termini (si noti che l’art. 19, par. 3, TUE per la prima volta reca un elenco, sia pur assai sommario, di quelle competenze). Anzitutto, si può ribadire che di regola esse hanno natura giurisdizionale, anche se in alcuni casi, del tutto limitati ma di rilievo per nulla marginale, la Corte può essere chiamata a svolgere altresì una funzione consultiva. Quanto alle competenze di natura giurisdizionale, esse sono di regola di tipo contenzioso, ma in un caso, peraltro di grande importanza, la Corte si trova ad esercitare anche una competenza non contenziosa: si allude, come è ovvio, alla c.d. competenza pregiudiziale. L’area più consistente e articolata delle attribuzioni della Corte è dunque rappresentata dalla giurisdizione a carattere contenzioso. Per quanto varie e numerose, peraltro, le diverse ipotesi che rientrano in tale giurisdizione possono essere accorpate in pochi gruppi, ciascuno con una propria definita autonomia e rispondente di massima ad uno dei compiti principali della Corte. In particolare, sulla base di criteri si-
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stematici divenuti col tempo assai correnti nella dottrina, si possono distinguere, in tale ambito, le seguenti attribuzioni della Corte. In primo luogo, la giurisdizione sulle questioni che oppongono l’Unione ai suoi Stati membri, o questi fra loro in ordine all’interpretazione e all’applicazione dei Trattati. Attraverso tale competenza si concretizza soprattutto quella funzione della Corte di garantire sul piano giurisdizionale il controllo dell’osservanza del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri, contenendo nei limiti e nei modi convenzionalmente fissati la loro azione. Per la sua materia, per i soggetti che vengono in rilievo e per i suoi scopi, questa ipotesi di giurisdizione ha una propria autonomia ben precisa, anche se poi nei dettagli le singole fattispecie che vi rientrano presentano qualche differenziazione. In secondo luogo, viene in rilievo l’ampia e articolata ipotesi di giurisdizione sui comportamenti delle istituzioni dell’Unione. Essa concerne i vari casi in cui la Corte esercita il suo sindacato su tali comportamenti, controllando, soprattutto in via diretta ma talvolta anche in via incidentale, la legittimità sia degli atti delle istituzioni, sia dei comportamenti omissivi (l’inazione) delle stesse, nonché, a determinate condizioni, la liceità degli uni e degli altri, al fine di accertare l’eventuale responsabilità extracontrattuale dell’Unione, in relazione ai danni provocati dai suoi organi nell’esercizio delle funzioni istituzionali. La struttura e le modalità di questa ipotesi di giurisdizione, per quanto appunto assai articolata, presenta tuttavia una spiccata identità ed una netta autonomia, e richiama con evidenza le analoghe situazioni che nei diritti interni oppongono i cittadini alla pubblica amministrazione. Come si è detto, i due gruppi appena enucleati costituiscono, insieme con la competenza pregiudiziale, la parte di gran lunga più importante delle attribuzioni della Corte e quella che nella prassi ne assorbe quasi per intero l’attività. Essi però non esauriscono il panorama di tali attribuzioni, essendone ancora previste di ulteriori, di rilievo certo minore, ma ugualmente meritevoli di attenzione. Anche a esse dedicheremo un apposito Capitolo.
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CAPITOLO III
I giudizi sui comportamenti degli Stati membri Sommario: 1. Premessa. – 2. I ricorsi della Commissione per inadempimento degli obblighi incombenti agli Stati membri. I presupposti generali. La nozione d’inadempimento. – 3. La procedura d’infrazione: la fase precontenziosa. – 4. Segue: La fase giudiziaria. – 5. Segue: La pronuncia della Corte e i suoi effetti. – 6. Segue: I ricorsi per la sua inosservanza. – 7. I ricorsi per inadempimento promossi da uno Stato membro.
1. Premessa Tra le segnalate ipotesi di competenza, quella che attiene al controllo sui comportamenti degli Stati membri (il c.d. ricorso per inadempimento o procedura d’infrazione) assume indubbiamente un rilievo particolare, dato che riguarda l’osservanza dei Trattati da parte di quegli Stati e quindi si presta a mettere in causa direttamente il comportamento degli enti che, oltre ad aver dato vita alle organizzazioni europee, restano i principali garanti della loro effettiva funzionalità. I fini dell’Unione non potrebbero invero essere perseguiti, la loro attività non potrebbe efficacemente svolgersi, l’uniforme applicazione delle regole comuni non potrebbe essere assicurata, se gli Stati membri, protagonisti del processo, non concorressero con il proprio impegno, non apprestassero la propria organizzazione e non fornissero i necessari strumenti per la realizzazione degli obiettivi comuni. Ma non occorre insistere sull’importanza che assume la loro adesione a una posizione di assoluto rispetto dei Trattati. Va invece sottolineato che questi ultimi si sono preoccupati di predisporre, per le controversie che potessero insorgere in materia, una disciplina volta da un lato ad imporre la soluzione di quelle controversie nell’ambito del sistema, dall’altro, a istituire a tal fine appositi meccanismi nei quali giocano un ruolo di primo piano le stesse istituzioni dell’Unione. Per un verso, quindi, si è previsto l’obbligo degli Stati membri di risolvere eventuali controversie sull’interpretazione e sull’applicazione dei Trattati nel quadro e secondo le procedure previste dal sistema, rendendo così quest’ultimo, anche su tale versante, tendenzialmente chiuso e autosufficiente. Per l’altro verso, sono state istituite apposite procedure tendenti ad assicurare l’osservanza dei Trattati da parte degli Stati membri, nelle quali è fatto largamente posto, come appena accennato, all’iniziativa e/o alla
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partecipazione delle istituzioni, ed in particolare della Commissione, proprio per incardinare strettamente quelle procedure all’interno del sistema ai fini di corretto funzionamento dello stesso. Nelle pagine che seguono ci occuperemo di tali procedure, di gran lunga le più importanti, mentre esamineremo più avanti la competenza della Corte rispetto alle controversie tra Stati membri connesse con l’oggetto del Trattato (v. infra, p. 348 ss.). Vengono invece tralasciate, per il loro minor rilievo, le corrispondenti competenze attribuite alla Corte in alcuni specifici settori. Si allude in particolare alle competenze della Corte previste dall’art. 271 TFUE, per gli analoghi giudizi relativi agli obblighi imposti agli Stati membri dallo Statuto della BEI, o a quelli imposti alle Banche centrali dallo Statuto del Sistema europeo di banche centrali (SEBC) (v. anche art. 35, par. 6, di tale Statuto, nonché p. 229). Ma v. anche infra, p. 700 s., per le infrazioni al c.d. Fiscal compact. Per la particolare ipotesi di grave violazione dei valori dell’Unione da parte di uno Stato membro (art. 7 TUE), oggetto in principio di procedure non giurisdizionali, v. retro, p. 45 ss., nonché infra, p. 375 ss.
2. I ricorsi della Commissione per inadempimento degli obblighi incombenti agli Stati membri. I presupposti generali. La nozione d’inadempimento. Fra le procedure cui poc’anzi si accennava, quella che assume di gran lunga maggior rilievo riguarda le azioni promosse dalla Commissione contro gli Stati membri per inadempimento degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione (artt. 258 e 260 TFUE). Come vedremo più avanti in questo stesso Capitolo, le medesime azioni possono essere promosse anche da un altro Stato membro (artt. 259 e 260 TFUE); non vi è dubbio però, come del resto prova la prassi, che ad assumere preminente interesse è l’altra ipotesi, e ciò non solo per il già sottolineato significato istituzionale che riveste la presenza della Commissione, ma anche per la sua pratica rilevanza. La procedura in questione viene infatti normalmente attivata soprattutto grazie all’iniziativa dell’esecutivo, tra i cui principali compiti rientra appunto il controllo sul rispetto dei Trattati, anche da parte degli Stati membri (art. 17 TUE), e che, proprio in ragione di tale compito, riceve altresì, sotto forma di reclami o denunce, le sollecitazioni dei privati interessati ad agire contro le eventuali infrazioni. Più rari, per contro, sono i casi in cui l’iniziativa è assunta dagli stessi Stati membri, perché questi, piuttosto che affrontare direttamente una controversia con un altro Stato membro, preferiscono sollecitare in vario modo la Commissione ad avviare essa la procedura d’infrazione. Peraltro, le procedure promosse dalla Commissione si sono da un po’ di tempo di molto ridotte, perché la Commissione ha condotto una seria riflessione per un approccio “più strategico” a tali procedure. In effetti, ci si chiede, in particolare (ma non solo), se valga la pena mettere in moto, in una Comunità a 27/28 Stati membri, il complesso procedimento previsto per le procedure in questione e impegnare la Commissione in un compito abbastanza gravoso, per promuovere azioni per inadempimenti di scarso o marginale rilievo o comunque di rilevanza “locale” o limitata comunque a situazioni che non abbiano una certa risonanza generale. Per ora questa riflessione si è tradotta in un’importante comunicazione della Commissione, nella quale si delinea il suo nuovo atteggiamento in materia, segnalando da una parte, che, oltre a migliorare l’attività legislativa
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(programma “Legiferare meglio”) per facilitare il compito degli Stati membri nell’attuazione del diritto dell’Unione, essa intende occuparsi in modo fermo del mancato recepimento o scorretta trasposizione delle direttive, o del mancato rispetto delle sentenze della Corte di giustizia, o dei casi di danni gravi agli interessi finanziari dell’Unione o, ancora, di violazioni delle competenze esclusive dell’Unione; e dall’altra che essa preferisce che le azioni stimolate dai privati siano introdotte davanti ai giudici nazionali, i quali sono pur sempre competenti ad accordare riparazione per violazione del diritto dell’Unione. A questo fine essa conta sul rafforzamento dei piani d’azione introdotti in materia (ad es. SOLVIT, creato nel 2002, che è il piano d’azione volto a fornire informazioni e assistenza ai cittadini e si occupa dei problemi di scorretta applicazione del diritto dell’Unione da parte delle autorità nazionali nelle situazioni transfrontaliere; o la Rete di centri europei dei consumatori, che fornisce consulenza e assistenza in merito ai diritti dei consumatori in materia di acquisti effettuati in altro paese o online e alla composizione delle controversie con le imprese): v. Comunicazione della Commissione “Diritto dell’Unione europea: risultati migliori attraverso una migliore applicazione” (C 18/2017, 10).
Oggetto delle procedure d’infrazione è dunque l’accertamento della sussistenza di un inadempimento da parte degli Stati membri degli obblighi loro derivanti dal diritto dell’Unione. Per quanto rileva ai presenti fini, tali obblighi sono quelli enunciati dai Trattati istitutivi, nonché dagli atti vincolanti adottati dalle istituzioni e dagli accordi internazionali da queste stipulati; ma vi rientra anche, nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, il rispetto dei diritti fondamentali proclamati dalla Carta di Nizza, nonché di quelli garantiti dalla Convenzione di Roma sulla salvaguardia di quei diritti e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali dell’ordinamento dell’Unione (art. 6 TUE, e retro, p. 144 ss.). Peraltro, non può ritenersi esclusa l’eventualità che venga in rilievo il comportamento di uno Stato membro che, pur non contrastando con una specifica disposizione, possa pregiudicare la funzionalità degli organi dell’Unione, in relazione all’obbligo generale, che incombe agli Stati membri, di favorire la realizzazione dei compiti dell’Unione e di astenersi da qualsiasi comportamento con essi confliggente. In effetti, la Corte ha tratto dal c.d. principio di leale collaborazione, sotteso a tale obbligo generale, deduzioni molto ampie e rigorose per dichiarare l’incompatibilità di comportamenti degli Stati e dei loro organi che non contrastavano direttamente con specifiche disposizioni e tuttavia si prestavano ad indebolire l’efficacia del diritto dell’Unione e la realizzazione delle finalità comuni (art. 4, par. 3, commi 2 e 3, TUE, nonché supra, p. 65 ss.; nella giurisprudenza, v. per tutte, Corte giust. 11 dicembre 1985, 192/84, Commissione c. Grecia, 3967; 20 aprile 2010, C-246/07, Commissione c. Svezia, I3317; 18 dicembre 2014, C-640/13, Commissione c. Regno Unito). La responsabilità per l’inadempimento incombe, conformemente ai principi, allo Stato nella sua unità e nella sua complessità: che esso sia dunque ascrivibile al governo o ad altri poteri costituzionali, incluso quello legislativo e giudiziario; o agli apparati pubblici centrali o alle articolazioni territoriali e locali, o perfino ad enti di diritto privato le cui attività siano controllate e finanziate dallo Stato. Come ha sottolineato la Corte: «[s]e nell’ordinamento giuridico internazionale lo Stato la cui responsabilità sorgerebbe in caso di violazione di un impegno internazionale viene considerato nella sua unità, senza che rilevi la circostanza che la violazione da cui ha avuto origine il danno sia
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imputabile al potere legislativo, giudiziario o esecutivo, tale principio deve valere a maggior ragione nell’ordinamento giuridico comunitario, in quanto tutti gli organi dello Stato, ivi compreso il potere legislativo, sono tenuti, nell’espletamento dei loro compiti, all’osservanza delle prescrizioni dettate dal diritto comunitario e idonee a disciplinare direttamente la situazione dei singoli»: Corte giust. 30 settembre 2003, C-224/01, Kobler, I-10239, punto 32. Ma v. già sentenze 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame, I-1029; 1° giugno 1999, C-302/97, Konle, I-3099; e poi 28 luglio 2016, C-168/15, Tomášova. Per la responsabilità degli altri organi dello Stato, v. in generale, Corte giust. 9 dicembre 2003, C-129/00, Commissione c. Italia, I-4637, e 12 marzo 2009, C-458/07, Commissione c. Portogallo, I29. Con riferimento ad es. al Parlamento, v. Corte giust. 5 maggio 1970, 77/69, Commissione c. Belgio, 237. Per gli organi giurisdizionali, v. più avanti in questo stesso paragrafo, nonché p. 363 ss. Per gli altri organi, v. ad es. Corte giust. 13 aprile 2000, C-274/98, Commissione c. Spagna, I2823; 6 luglio 2000, C-236/99, Commissione c. Belgio, I-5657; 10 giugno 2004, C-87/02, Commissione c. Italia, I-5975; 4 ottobre 2007, C-179/06, Commissione c. Italia, I-8131; 4 marzo 2010, C297/08, Commissione c. Italia, I-1749. Per gli enti di diritto privato, v. Corte giust. 24 novembre 1982, 249/81, Commissione c. Irlanda, 4005; nonché 5 novembre 2002, C-325/00, Commissione c. Germania, I-9977.
L’inadempimento può concretizzarsi tanto in un’azione quanto in un’omissione. Com’è noto, sotto quest’ultimo profilo, le ipotesi più ricorrenti d’infrazione riguardano la mancata trasposizione delle direttive o anche l’omessa comunicazione alla Commissione delle misure adottate ai fini di detta trasposizione (come pure, evidentemente, le ipotesi in cui quest’ultima sia tardiva o non corretta). Come si è già evidenziato, la responsabilità che incombe allo Stato nella materia de qua ha carattere assoluto e oggettivo: non rilevano, infatti, né l’eventuale insussistenza di una «colpa» dello Stato agente, né la natura o la gravità dell’inadempimento, né l’assenza di un pregiudizio da questo provocato. Ad essa lo Stato può sottrarsi solo in caso di difficoltà insormontabili provocate da cause di forza maggiore, e per il periodo strettamente necessario a un’amministrazione diligente per porvi rimedio. Per contro, ed è questa ormai una formula di rito nella giurisprudenza della Corte, uno Stato non può invocare norme o prassi del proprio ordinamento interno o circostanze o difficoltà che si verifichino in quell’ordinamento per giustificare un eventuale inadempimento. Né può farlo invocando un’eventuale infrazione compiuta da un altro Stato membro cui esso abbia reagito, sia pur a fini correttivi o di difesa, con misure unilaterali incompatibili, perché l’ordinamento dell’Unione esclude ogni forma di reciprocità o di ritorsione, avendo per l’appunto apprestato apposite procedure per reagire in via istituzionale in simili ipotesi. E lo stesso dicasi, ancora, ove lo Stato intendesse reagire unilateralmente al comportamento illegittimo di un’istituzione, visto che – come vedremo nei prossimi Capitoli – anche per questi casi sussistono appositi rimedi giurisdizionali. Nell’ordinamento dell’Unione, insomma, gli Stati non possono farsi giustizia da sé (supra, p. 40). V., ad es., Corte giust. 11 aprile 1978, 95/77, Commissione c. Paesi Bassi, 863; 19 dicembre 2012, C-68/11, Commissione c. Italia. Sull’irrilevanza della mancanza di conseguenze negative dell’inadempimento, v. anche Corte giust. 1° febbraio 2001, C-333/99, Commissione c. Francia, I1025; 18 ottobre 2007, C-19/05, Commissione c. Danimarca, I-8597. Sulla giustificazione per causa di forza maggiore (nozione sulla quale comunque la giurisprudenza della Corte è assai restrittiva, cfr. per tutte, sentenza 17 settembre 1987, 70/86, Commissione c. Grecia, 3560), v. Corte giust. 11
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luglio 1985, 101/84, Commissione c. Italia, 2629; 4 marzo 2010, C-297/08, Commissione c. Italia, cit.; e 19 dicembre 2012, C-68/11, Commissione c. Italia; 11 settembre 2014, C-527/12, Commissione c. Germania. Sul divieto di ritorsioni, v. tra le tante, Corte giust. 11 gennaio 1990, C-38/89, Blanguernon, I-83; 16 maggio 2002, C-142/01, Commissione c. Italia, I-4541.
Perché si possa escludere l’infrazione occorre che il rispetto degli obblighi ad essi incombenti sia assicurato dagli Stati non tanto su un piano meramente formale, quanto in termini di effettività. Per adempiere, ad esempio, all’obbligo di trasposizione di una direttiva non occorre necessariamente adottare una legge ad hoc se i principi o il contesto giuridico generale dell’ordinamento assicurano comunque la conformità di quest’ultimo alle disposizioni della direttiva. Occorre però che tale contesto sia «sufficientemente chiaro e preciso» e che i titolari dei diritti conferiti dalla normativa dell’Unione siano messi in grado di conoscere pienamente i propri diritti (v., per tutte Corte giust. 5 marzo 2009, C-388/07, Age Concerned England, I1569). Per contro, una prassi amministrativa che, con un certo grado di costanza e di generalità, si ponga in contrasto con le esigenze del diritto dell’Unione può essere di per sé idonea a costituire un inadempimento, anche se la legislazione dello Stato sia formalmente conforme alle pertinenti norme dell’Unione (v., ex multis, Corte giust. 29 aprile 2004, C-387/99, Commissione c. Germania, I-3773; 26 aprile 2005, C494/01, Commissione c. Irlanda, I-3331). Ne consegue che, ai fini che qui interessano, disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali non vanno valutate per se, ma tenendo conto anche e soprattutto dell’interpretazione che ne danno i giudici nazionali in sede di concreta applicazione (v., in particolare, Corte giust. 8 giugno 1994, C-382/92, Commissione c. Regno Unito, I-2435; 9 dicembre 2003, C129/00, Commissione c. Italia, cit.; 12 novembre 2009, C-154/08, Commissione c. Spagna, I-187). Sicché un filone giurisprudenziale può giustificare una procedura d’infrazione a carico dello Stato ove ad esso consegua l’applicazione di una norma interna in termini incompatibili con il diritto dell’Unione. Ciò, però, in ragione non già della «errata» prassi giurisprudenziale, ma per la permanenza nell’ordinamento interno della normativa su cui tale prassi, a torto o a ragione, si fonda: e quindi per responsabilità non già del giudice, ma del legislatore (v. Corte giust. 9 dicembre 2003, C-129/00, Commissione c. Italia, cit.). Oltre che la sostanza del risultato, però, alla Corte interessa, come si è detto, anche la chiarezza delle situazioni. Di regola quindi una normativa nazionale in contrasto con il diritto dell’Unione non solo non deve essere applicata, ma va anche formalmente rimossa, perché non si possono tollerare situazioni d’incertezza e ambiguità che rischino di compromettere la piena osservanza di quel diritto (Corte giust. 15 ottobre 1986, 168/85, Commissione c. Italia, I-2945; 18 dicembre 2008, C-338/06, Commissione c. Spagna, I-10139). Sicché, ed è questa l’ipotesi inversa rispetto a quella poc’anzi evocata, uno Stato non potrà difendere una disciplina nazionale confliggente con il diritto dell’Unione limitandosi a invocare l’esistenza di indirizzi giurisprudenziali conformi a tale diritto o prassi amministrative che, di fatto, ne assicurerebbero ugualmente il rispetto. Come la Corte ha avuto modo di sottolineare a più riprese, «[s]emplici prassi amministrative, per natura modificabili a piacimento dall’amministrazione e prive di adeguata pubblicità, non
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possono essere considerate valido adempimento degli obblighi del Trattato» (sentenza 13 marzo 1997, C-197/96, Commissione c. Francia, I-1489, punto 14). Ma in realtà a tali principi non si può derogare neppure se lo Stato, per rimuovere sollecitamente situazioni d’inadempimento senza dover attendere i tempi lunghi dell’iter legislativo, faccia ricorso a circolari amministrative irrevocabili e immodificabili, debitamente pubblicate nelle sedi ufficiali (come una volta aveva fatto per un breve periodo l’Italia per far fronte ad una di quelle situazioni: v. Corte giust. 15 ottobre 1986, 168/85, Commissione c. Italia, cit.).
L’inadempimento può essere contestato anche se è solo parziale, purché sia attuale: deve cioè sussistere nel momento in cui è contestato, a nulla rilevando che in un momento successivo lo Stato vi abbia posto fine. Come vedremo, infatti, la Corte ha ritenuto a tal segno importante la sua pronuncia in materia, da considerare irrilevante il fatto che, nelle more del giudizio, lo Stato accusato d’inadempimento vi abbia posto termine. E ciò perché essa ritiene che, anche in tale eventualità, permane l’interesse delle istituzioni dell’Unione «a vedere accertato in diritto se sia stata effettivamente commessa una violazione del Trattato» (Corte giust. 19 dicembre 1961, 7/61, Commissione c. Italia, 621). Senza contare che tale accertamento giudiziale può costituire il fondamento dell’eventuale responsabilità dello Stato membro nei confronti di altri soggetti (infra, p. 362 ss.).
3. La procedura d’infrazione: la fase precontenziosa In considerazione dell’importanza della materia e dell’esigenza di contemperare gli opposti interessi in campo, il Trattato definisce una disciplina dettagliata delle varie fasi della procedura di accertamento della violazione commessa dagli Stati membri. La medesima disciplina si ritrova pure nel TCEEA, che prevede però anche, al suo art. 145, un’ipotesi particolare di ricorso quando uno Stato membro, ancorché sollecitatovi dalla Commissione, non abbia inflitto una sanzione a una persona o impresa che abbia commesso una violazione del Trattato. Ben diversa era invece la disciplina dettata dal TCECA (art. 88), ormai non più in vigore, nella quale la contestazione dell’inadempimento era rimessa, con l’attribuzione di ampi poteri, all’esecutivo di quella Comunità (l’Alta Autorità), il quale, se riteneva sussistere una violazione del Trattato da parte di uno Stato membro, emanava una decisione motivata con cui accertava l’inadempimento e concedeva un termine per porvi fine. Contro tale decisione lo Stato poteva presentare ricorso alla Corte. In caso d’inerzia dello Stato o se il ricorso era stato respinto, l’Alta Autorità poteva disporre nei confronti dello Stato medesimo provvedimenti ulteriori, impugnabili a loro volta innanzi alla Corte. Ove, poi, tali provvedimenti si fossero rivelati inefficaci, l’Alta Autorità ne poteva riferire al Consiglio.
Sintetizzando quanto s’illustrerà più ampiamente nelle prossime pagine, si può dire che tale procedura si articola in due passaggi essenziali: una fase precontenziosa, che è interamente nelle mani della Commissione, essendo questa la sola a poter contestare l’inadempimento, prima direttamente allo Stato membro e poi ricorrendo alla Corte in caso di persistenza dell’infrazione; una seconda fase, di natura giudiziaria, nella quale entra invece in scena la Corte, cui spetterà accertare l’effettiva sussistenza dell’illecito e pronunciarsi quindi sul comportamento dello Stato ed eventualmente imporgli delle sanzioni.
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La prima delle indicate fasi è attivata d’ufficio o su reclamo di un soggetto, che denuncia il supposto inadempimento, e riflette il più volte richiamato compito istituzionale della Commissione di vigilare sull’osservanza degli obblighi assunti dagli Stati membri. Non sempre però il sospetto o la certezza di una violazione del Trattato mettono in moto la procedura in esame, giacché tra la rilevazione o la denuncia dell’inadempimento e l’avvio di tale procedura non sussiste un necessario rapporto di conseguenzialità. Data invero la varietà e la complessità delle situazioni, la contestazione formale allo Stato è subordinata a un giudizio discrezionale della Commissione, cui viene lasciato un ampio margine di libertà sul se e quando avviare la procedura, così come sui tempi e sulle condizioni della sua prosecuzione. Spetterà in sostanza alla Commissione valutare la consistenza, la continuità e le conseguenze, attuali o presumibili, del comportamento illecito, le indicazioni desumibili al riguardo dall’atteggiamento dello Stato inadempiente, come pure l’opportunità, anche politica, di risolvere la questione ricorrendo alla procedura in esame. Potrà quindi verificarsi, anche in considerazione degli altri mezzi di cui dispone, che la Commissione ritenga eccessivo o intempestivo avviare quella procedura, nonostante l’obiettiva esistenza di un illecito; così come, d’altro canto, può darsi che decida di farvi ricorso anche se sussistano serie incertezze al riguardo. I Trattati, del resto, esprimono chiaramente questa situazione prevedendo che, ai fini dell’avvio della procedura in esame, occorre solo che la Commissione «reputi» sussistere l’inadempimento, senza porre alcun’altra condizione (v., ad es., Corte giust. 11 agosto 1995, C-431/92, Commissione c. Germania, I-2189; 12 novembre 2009, C-199/07, Commissione c. Grecia, I-10669). Proprio per le ragioni appena indicate, la Commissione non può essere obbligata ad avviare la procedura in discorso, né da parte di un altro Stato membro (che comunque, ripetiamo, può promuovere una propria autonoma iniziativa al riguardo), né da parte dei privati interessati. Questi ultimi possono certo denunciare – e, di fatto, ciò avviene molto spesso – le violazioni del diritto dell’Unione commesse da autorità nazionali e chiedere l’avvio di una procedura di infrazione. La stessa Commissione ha anzi a più riprese sottolineato il ruolo essenziale che svolgono tali denunce per l’individuazione delle infrazioni commesse dagli Stati membri e ha addirittura preso apposite iniziative per favorirle. Ma tutto ciò, come si è detto, non attribuisce in alcun modo ai denuncianti il diritto di ricorrere alla Corte sulle successive scelte della Commissione, e in particolare sul punto se avviare o meno la procedura in esame e sul momento in cui farlo. Sulla discrezionalità della Commissione per l’avvio della procedura di infrazione, v., per tutte, Corte giust. 1° marzo 1966, 48/65, Lutticke, 27; 9 luglio 1970, 26/69, Commissione c. Francia, 565. In particolare, non potrà essere promosso né un ricorso in carenza contro l’inerzia della Commissione rispetto all’avvio della procedura in esame (Corte giust. 14 febbraio 1989, 247/87, Star Fruit c. Commissione, 291), né un ricorso per l’annullamento della decisione di archiviazione di una procedura eventualmente avviata (v., ex multis, Corte giust. 17 maggio 1990, C-87/89, Sonito, I1981; 17 luglio 1998, C-422/97 P, Sateba c. Commissione, I-4913), né un ricorso per il risarcimento dei danni eventualmente sofferti a causa di tale decisione (Corte giust. ordinanza 23 maggio 1990, C-72/90, Asia Motor France c. Commissione). Quanto alle denunce dei privati, nel 1999 la Commissione ha pubblicato un formulario tipo di
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denuncia (v. GUCE C 119, 5), cui ha fatto seguito nel 2002 una comunicazione (COM (2002) 141 def., del 20 marzo 2002) nella quale sono illustrate le garanzie amministrative per l’autore della denuncia, che la Commissione si impegna a rispettare nell’esame e nell’istruzione delle relative pratiche (obbligo di emettere un avviso di ricevimento della denuncia; obbligo di informare per iscritto l’autore della stessa su qualsiasi decisione della Commissione in materia, ecc.). Nel 2012, poi, anche per tenere conto delle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona, la Commissione ha deciso di rivedere e aggiornare ulteriormente la comunicazione del 2002 (v. COM (2012) 154 def., del 2 aprile 2012).
Discende inoltre dalla discrezionalità riconosciuta in materia alla Commissione che essa può avviare la procedura anche a distanza di molto tempo da quando l’inadempimento le è stato denunciato o da essa rilevato d’ufficio. E questo vale anche per quanto riguarda la durata della fase precontenziosa che, in effetti, spesso si protrae per lungo tempo. Con l’avvertenza tuttavia che, seppur ampiamente discrezionale, il potere della Commissione di cui si discute non può essere esercitato in modo irragionevole o tale da pregiudicare i diritti di difesa dello Stato (v. ad es. le sentenze 12 maggio 2005, C-287/03, Commissione c. Belgio, I-3761; 8 dicembre 2005, C-33/04, Commissione c. Lussemburgo, I-10629; e 24 aprile 2007, C-523/04, Commissione c. Paesi Bassi, I-3267). Ove comunque decida di contestare l’illecito, la Commissione avvia la fase precontenziosa, che si articola a sua volta in due fasi: quella della c.d. lettera di messa in mora (o diffida) e quella, eventuale, del «parere motivato». i) Con la prima, la Commissione comunica formalmente allo Stato interessato l’apertura della procedura e lo mette in condizione di presentare le proprie osservazioni entro un termine fissato dalla stessa Commissione. La fissazione di tale termine non è prevista dai Trattati, ma essa è abituale, anche se di solito il termine è molto elastico, perché adattato volta a volta all’andamento del «negoziato» che normalmente si apre, dopo la messa in mora, tra la Commissione e lo Stato interessato. In giurisprudenza, v. ad es. Corte giust. 28 ottobre 1999, C-328/96, Commissione c. Austria, I-7479; 30 novembre 2006, C-293/05, Commissione c. Italia, I-122 (pubblicazione sommaria).
In realtà, però, già prima dell’invio della diffida, quest’ultima chiede spiegazioni allo Stato sull’inadempimento che essa, di ufficio o su denuncia di terzi, ritiene sussistere. Solo se insoddisfatta di tali spiegazioni, l’esecutivo invia la lettera di messa in mora, che segna appunto l’avvio formale della procedura. Va sottolineato che la fase che si apre con l’invio della predetta lettera deve essere considerata essenziale e necessaria nella procedura in esame. Esistono tuttavia delle procedure, per così dire, «semplificate» all’interno del Trattato che permettono di giungere più rapidamente a un accertamento in sede giurisdizionale, senza passare per la fase procedurale in esame. Esse sono previste dall’art. 108, par. 2, comma 2, TFUE, in materia di inosservanza di una decisione della Commissione su aiuti ritenuti incompatibili con il mercato comune; dall’art. 114, par. 9, TFUE, che consente alla Commissione, o a qualsiasi Stato membro, di adire direttamente la Corte a fronte di un utilizzo abusivo del potere concesso agli Stati di mantenere misure derogatorie in settori sottoposti all’azione armonizzatrice dell’Unione; e dall’art. 348, comma 2, TFUE, che consente l’accesso diretto alla Corte in presenza di un uso abusivo da parte degli Stati del potere di adottare misure volte a proteggere la sicurezza interna, con
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riferimento anche alla produzione e alla commercializzazione di armi e materiale bellico, o in caso di agitazioni interne o anche di crisi internazionali. Ma va altresì segnalato il reg. (CE) n. 2679/98 del Consiglio, del 7 dicembre 1998 (GUCE L 337, 8), noto anche come «regolamento fragole», perché occasionato dai blocchi alla frontiera e dalla distruzione da parte degli agricoltori francesi di fragole provenienti dalla Spagna. Tale regolamento istituisce infatti una procedura ancor più accelerata per i casi di grave perturbazione delle regole sulla libera circolazione delle merci tra Stati membri e che, proprio per questo motivo, esigono un intervento urgente.
Questa fase è considerata essenziale e necessaria non solo perché quella procedura rappresenta l’ultimo tentativo di componimento della controversia in sede extragiudiziale, tendente ad impedire che si portino alle ultime conseguenze questioni che possono avere carattere di estrema delicatezza sotto l’aspetto politico. Ma soprattutto perché essa tende a garantire il rispetto del diritto di difesa dello Stato interessato e al tempo stesso a definire con chiarezza i termini della questione che potrà poi essere eventualmente deferita alla Corte. In effetti, è proprio nel corso di questa fase che si precisano le varie posizioni, attraverso la formulazione della contestazione da parte dell’esecutivo e le osservazioni presentate dallo Stato a propria difesa. Ora, ha chiarito la Corte, proprio perché «la possibilità per lo Stato di presentare le proprie osservazioni costituisce, anche se esso preferisce non servirsene, una garanzia fondamentale voluta del [T]rattato, l’osservanza di tale garanzia è un presupposto della ritualità della procedura per la dichiarazione della trasgressione di uno Stato membro» (Corte giust. 15 dicembre 1982, 211/81, Commissione c. Danimarca, 4547, punto 9). Va detto peraltro che i requisiti formali e sostanziali del passaggio procedurale in esame sono disciplinati assai genericamente nel Trattato. E, in effetti, emerge dalla prassi che la messa in mora non è sottoposta a particolari requisiti formali, essendo sufficiente una semplice lettera dell’esecutivo. Questa deve però almeno contenere l’esplicito riferimento alla violazione contestata e gli elementi necessari alla preparazione della difesa dello Stato, insieme con l’avvertimento che, in mancanza di una risposta adeguata entro un termine fissato, la Commissione proseguirà la procedura fino al ricorso alla Corte. V., tra tante, Corte giust. 8 aprile 2008, C-337/05, Commissione c. Italia, I-2173, nella quale la Corte per l’appunto chiarisce che mentre il parere motivato «deve contenere un’esposizione coerente e particolareggiata dei motivi che hanno condotto la Commissione alla convinzione che lo Stato membro interessato è venuto meno a uno degli obblighi che ad esso incombono ai sensi del Trattato, la lettera di diffida non deve soddisfare requisiti di esaustività così rigidi, dato che, necessariamente, può consistere solo in un primo e succinto riassunto degli addebiti» (punto 23).
ii) Lo Stato membro non è tenuto a reagire alla lettera di messa in mora: ove però non risponda o risponda con argomenti che non convincono la Commissione, quest’ultima può emettere un «parere motivato», con il quale, senza modificare la sostanza degli addebiti mossi nella diffida, ribadisce e, all’occorrenza, precisa la propria posizione e sollecita lo Stato a porre fine al comportamento contestato entro un certo termine, che è di solito di due mesi. Al pari di tutti i pareri della Commissione, quello di cui ora si discute non ha carattere vincolante per il suo destinatario, ma si limita a suggerire la cessazione del comportamento contestato. A differenza però dei pareri «tipici» (supra, p. 183 ss.),
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esso, oltre a dover essere motivato, adempie ad una specifica funzione nel quadro della procedura in esame e ne costituisce quindi un passaggio formale essenziale, anche se resta pur sempre un passaggio intermedio e perciò non conclusivo. Ed è proprio per quest’ultimo motivo, ancor più che per la sua natura giuridica (come noto, i «pareri» non rientrano nel novero degli atti impugnabili innanzi alla Corte, infra, p. 283), che né l’adozione né l’omissione del parere motivato possono essere oggetto di ricorso alla Corte. Come subito vedremo, del resto, il ricorso che la Commissione eventualmente presenterà alla Corte non è rivolto contro la mancata osservanza del parere, ma contro la violazione del Trattato. Come già accennato, i requisiti formali e sostanziali del parere motivato sono più rigidi di quelli richiesti per la diffida. In primo luogo, esso non può modificare l’oggetto della contestazione indirizzata allo Stato nella diffida; anche se non si pretende una perfetta coincidenza tra i due atti, detto oggetto non può essere ampliato o modificato, se non nel senso della sua limitazione. V., in particolare, Corte giust. 17 gennaio 2008, C-152/05, Commissione c. Germania, I-39, nella quale la Corte ha chiarito che «se è vero che l’oggetto del ricorso proposto ai sensi dell’art. 226 [TCE; ora art. 258 TFUE] è circoscritto dal procedimento precontenzioso previsto da tale disposizione e che, di conseguenza, la lettera di diffida, il parere motivato e il ricorso devono essere fondati su identici addebiti, tale esigenza non può tuttavia giungere fino ad imporre in ogni caso una formulazione perfettamente coincidente di tali atti, qualora l’oggetto della controversia non sia stato esteso o modificato» (punto 9). Allo stesso modo, ove l’infrazione si traduca in un comportamento continuato, la Commissione non dovrà avviare una nuova procedura, ma potrà estendere quella in corso e il successivo ricorso anche alle manifestazioni di quel comportamento proseguite dopo l’avvio della procedura e fino alla scadenza del termine fissato nel parere motivato (v. Corte giust. 18 maggio 2006, C-221/04, Commissione c. Spagna, I-4515; 10 novembre 2011, C212/09, Commissione c. Portogallo, I-10889).
Il parere deve anche essere adeguatamente motivato, sicché l’assenza o il difetto di motivazione rendono irricevibile l’eventuale ricorso giurisdizionale della Commissione. In particolare, la motivazione può ritenersi adeguata quando il parere contiene un’esposizione coerente e dettagliata delle ragioni che hanno spinto la Commissione a considerare inadempiente lo Stato; non è invece necessario che esso prenda anche posizione su tutte le osservazioni presentate da quest’ultimo. Quanto infine al termine concesso allo Stato, emerge dalla prassi che esso è di solito di due mesi; può però essere ridotto o ampliato in funzione delle circostanze, ma sempre salvaguardando i diritti di difesa dello Stato.
4. Segue: La fase giudiziaria Se, dopo la decorrenza del termine fissato, lo Stato membro non si conforma al parere motivato, la Commissione può adire la Corte (art. 258 TFUE). Va subito precisato però che l’apparente nesso di causalità fra le due proposizioni non significa, come appena rilevato, che il ricorso venga proposto per l’inosservanza del parere: questa costituisce unicamente il presupposto necessario del ricorso, mentre l’oggetto
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ne resta comunque la violazione del diritto dell’Unione. Se è vero che di regola il fatto di disattendere il parere conferma (ovviamente dal punto di vista della Commissione) l’inadempimento del Trattato da parte dello Stato e giustifica il ricorso giurisdizionale, tuttavia la distinzione va tenuta ugualmente ferma per ben individuare l’oggetto del giudizio. Il che nulla toglie ovviamente all’importanza del parere motivato, non solo per le ragioni fin qui indicate, ma anche perché l’eventuale ricorso dovrà contenere le medesime censure mosse allo Stato membro nel parere e, prima ancora, nella lettera di messa in mora (v., ex multis, Corte giust. 22 aprile 1999, C340/96, Commissione c. Regno Unito, I-2023; 14 giugno 2007, C-422/05, Commissione c. Belgio, I-4749; 6 settembre 2012, C-38/10, Commissione c. Portogallo). Come per i passaggi precedenti, anche la decisione sul se e quando introdurre il ricorso rientra nella discrezionalità della Commissione. Questa è libera, in effetti, di procedere subito al ricorso giudiziario, di attendere ancora o perfino di non procedervi affatto. Del resto, i testi non fissano alcun termine al riguardo, nell’evidente intento di lasciar libero l’esecutivo di svolgere ogni tentativo di soluzione e comunque di valutare il momento più opportuno per impegnare la Corte (v., tra tante, Corte giust. 4 marzo 2010, C-297/08, Commissione c. Italia). Il ricorso resta quindi in principio sempre possibile finché sussistono l’attività o la situazione contrarie al diritto dell’Unione. Nella prassi, in effetti, avviene di frequente che la Commissione si conceda un ampio margine di tempo prima di procedere al ricorso (spesso, peraltro, proprio a causa dell’insistenza degli stessi Stati membri, che annunciano come imminenti le misure loro richieste). Come si disse, però, essa non può ritardare la propria decisione fino al punto di incorrere in uno sviamento di procedura o comunque (ma questo vale per tutti i passaggi della procedura) di rendere più difficile l’esercizio dei diritti di difesa dello Stato membro in causa (in tal caso, però, spetterà allo Stato provare una siffatta conseguenza: v., ad es., Corte giust. 16 maggio 1991, C96/89, Commissione c. Paesi Bassi, I-2461; 22 dicembre 2008, C-283/07, Commissione c. Italia, I-198; 28 ottobre 2010, C-350/08, Commissione c. Lituania). Anche il giudizio sul punto se lo Stato si sia conformato o meno al parere, o se, comunque, abbia posto fine alla trasgressione, è rimesso pienamente alla Commissione, la quale, valutata la portata e l’adeguatezza dei provvedimenti eventualmente adottati, decide liberamente se presentare o meno il ricorso giurisdizionale (come pure di rinunciarvi successivamente). Trattandosi di una valutazione discrezionale, sfugge al controllo della Corte il sindacato sull’opportunità della scelta, laddove le eventuali rimostranze dello Stato riguardo a tale scelta, non possono trovare altra sede, evidentemente, che nel procedimento innanzi alla Corte. V., in particolare, Corte giust. 6 luglio 2000, C-236/99, Commissione c. Belgio, I-5657. Per questo motivo, l’eventuale decisione di non ricorrere non può essere oggetto di ricorso giurisdizionale (v., ad es., sentenza 20 febbraio 1997, C-107/95 P, Bundesverband der Bilanzbuchhalter c. Commissione, I-947).
Alla luce di quanto precede, si può quindi riassuntivamente osservare che il ricorso della Commissione sarà ricevibile: se è stata svolta correttamente ed esaurientemente la fase precontenziosa; se vi è coincidenza tra le censure mosse allo Stato in
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tale fase e quelle invocate nel ricorso giurisdizionale; se è decorso inutilmente, nel senso di cui subito si dirà, il termine fissato nel parere motivato. Non rientra invece fra le condizioni di ricevibilità la sussistenza di un interesse ad agire della Commissione, posto che essa è tenuta a vigilare d’ufficio, nell’interesse generale dell’Unione, sull’applicazione delle disposizioni del Trattato da parte degli Stati membri (Corte giust. 4 aprile 1974, 167/73, Commissione c. Francia, 359; 11 agosto 1995, C-431/92, Commissione c. Germania, I-2189). Nel merito, il ricorso potrà essere accolto se la Commissione provi la sussistenza dell’inadempimento contestato: secondo una giurisprudenza costante, infatti, è a essa che incombe l’onere di fornire alla Corte gli elementi necessari per l’accertamento della violazione, senza potersi fondare su alcuna presunzione. Come emerge da quanto precede, la fondatezza del ricorso, così come l’interesse della Commissione a ricorrere, vengono meno in principio solo se l’adempimento è intervenuto entro il termine fissato dal parere. Ove esso intervenisse successivamente, anche in pendenza del giudizio, la Commissione manterrebbe pur sempre un interesse all’accertamento giudiziale dell’illecito e potrebbe quindi insistere nel ricorso per ottenere che sia riconosciuto che uno Stato membro ha mancato a uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù del Trattato. V. retro, par. 2. Senza contare, come notato in quella sede, le conseguenze che la pronuncia della Corte può produrre ai fini della responsabilità dello Stato inadempiente. Se dunque la Commissione insiste nell’azione giudiziaria, la Corte deve pronunciarsi sulla fondatezza della stessa, a nulla rilevando che successivamente alla presentazione del ricorso – o anche prima di essa e talvolta perfino prima della scadenza del termine fissato nel parere motivato (come nel caso degli inadempimenti «insanabili», quali quelli consistenti nel mancato rispetto di precisi termini imposti dal diritto dell’Unione per adottare un atto, trasmettere dati, ecc.) – lo Stato di cui trattasi abbia preso i provvedimenti richiesti (cfr. sentenze 19 dicembre 1961, 7/61, Commissione c. Italia, 640; 4 febbraio 1988, 113/86, Commissione c. Italia, 607; 9 novembre 2006, C-236/05, Commissione c. Regno Unito, I-10817; 3 giugno 2010, C-487/08, Commissione c. Spagna).
Quanto infine alla disciplina processuale applicabile ai ricorsi in esame, essa non si discosta di molto da quella comune, peraltro con qualche deroga. Anzitutto, conviene ricordare la disposizione di cui all’art. 40 dello Statuto della Corte, che preclude alle persone fisiche e giuridiche di intervenire nelle controversie fra Stati membri, fra istituzioni dell’Unione ovvero fra Stati membri da una parte e istituzioni dall’altra. Ciò col risultato che quelle persone non solo, come si è visto, non hanno strumenti per imporre alla Commissione di avviare e proseguire la procedura esaminata, ma neppure possono partecipare al giudizio che venga eventualmente instaurato a seguito della loro denuncia. Inoltre va segnalato che la Corte può adottare provvedimenti urgenti anche nei giudizi in esame, e quindi, ad esempio, ordinare la sospensione dell’applicazione di una normativa o di una prassi nazionale (v. ad es. Corte giust. ordinanza 12 luglio 1990, C-195/90 R, Commissione c. Germania, I-3351; nonché ordinanza del Presidente della Corte del 30 luglio 2003, C-320/03 R, Commissione c. Austria, I-7929; 24 aprile 2008, C-76/08 R, Commissione c. Malta).
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5. Segue : La pronuncia della Corte e i suoi effetti Ove accerti l’inadempimento, la Corte pronuncia una sentenza che, seppur definita nell’uso corrente come di «condanna», è in realtà una sentenza meramente dichiarativa, in quanto esaurisce la sua funzione nell’accertare l’esistenza dell’inadempimento (v., fra le tante, Corte giust. 16 dicembre 1960, 6/60, Humblet c. Belgio, 1095; 19 dicembre 1961, 7/61, Commissione c. Italia, 645). È vero che, ai sensi della pertinente disposizione del Trattato (art. 260, par. 1, TFUE), lo Stato è tenuto a prendere i provvedimenti necessari per l’esecuzione della sentenza; ma l’obbligo discende da questa disposizione, non direttamente dalla pronuncia della Corte. Dato quanto precede, si comprende perché nella sentenza non vengano (e non possano essere) altresì indicati i provvedimenti che lo Stato è tenuto ad assumere per porre termine all’inadempimento, e ancor meno eventuali misure «riparatorie» o «sanzionatorie» dello stesso. Spetterà allo Stato decidere le misure e le modalità dell’adempimento, e ciò in coerenza con la peculiarità dei giudizi in esame, che vedono la sottoposizione di entità così complesse alla giurisdizione della Corte. Se è, in effetti, naturale che a quest’ultima, in quanto organo giurisdizionale dell’Unione, sia rimessa la decisione sull’esistenza dell’illecito dello Stato, è altrettanto naturale che la determinazione delle misure necessarie a porvi fine sia lasciata allo Stato, data la complessità delle situazioni normative e di fatto di cui esso deve tener conto e le difficoltà cui può andare incontro per conformare immediatamente e completamente il proprio ordinamento agli obblighi impostigli. D’altra parte, data la discontinuità tuttora esistente tra ordinamento comunitario e ordinamento degli Stati membri, la Corte, come ha essa stessa chiarito, non ha «il potere di ingerirsi direttamente nella legislazione e l’amministrazione degli Stati membri» e quindi non può «annullare od abrogare leggi interne di uno Stato membro od atti amministrativi dei suoi organi» (v. per tutte la citata sentenza Humblet, 1112-1113). Ma tutto questo nulla toglie all’obbligo dello Stato di conformarsi pienamente alla sentenza. Vige, infatti, «per le autorità nazionali competenti l’assoluto divieto di applicare una disposizione nazionale dichiarata incompatibile col Trattato e, se del caso, l’obbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per agevolare la piena efficacia del diritto [dell’Unione]». Corte giust. 13 luglio 1972, 48/71, Commissione c. Italia, 529, punto 7. Nella giurisprudenza italiana, Cass. 28 marzo 1997, n. 2787, in Foro it., 1997, p. 3275, in cui si afferma che «le statuizioni delle sentenze interpretative della Corte di giustizia […] pronunciate in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 177 TCEE (ora art. 267 TFUE) hanno diretta e immediata applicazione nel nostro ordinamento interno e determinano l’effetto della non applicazione della legge nazionale dichiarata incompatibile con l’ordinamento comunitario».
Destinatario dell’obbligo di osservare la sentenza, in conformità a quanto detto in precedenza (retro, par. 2), è lo Stato nella sua unità e non i singoli organi responsabili dell’attività ritenuta illecita dalla Corte. Né può distinguersi fra destinatari della sentenza (lo Stato convenuto) e titolari dell’obbligo di osservarla (gli organi dello Stato autori specifici dell’illecito). Come la Corte ha chiarito, tutti gli organi dello Stato membro di cui essa dichiara l’inadempimento devono garantire, nei settori di loro rispettiva competenza, l’esecuzione della sentenza. Pertanto, se accerta l’incom-
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patibilità di talune disposizioni legislative di detto Stato membro, la sentenza implica, per le autorità che partecipano all’esercizio del potere legislativo, l’obbligo di modificare tali disposizioni, in modo da conformarle alle esigenze del diritto dell’Unione; e lo stesso vale per gli organi giurisdizionali (Corte giust. 14 dicembre 1982, da 314/81 a 316/81 e 83/82, Waterkeyn e a., 4337; nonché supra, par. 2). Tutto ciò senza contare, come più volte anticipato, l’eventuale responsabilità cui lo Stato va incontro nei confronti dei terzi, ed in particolare dei privati, per l’accertata infrazione (p. 362 ss.).
6. Segue: I ricorsi per la sua inosservanza Conviene comunque ribadire che la segnalata libertà degli Stati membri nella scelta dei mezzi non attenua la rigidità del loro obbligo di assicurare con effetto immediato la piena osservanza della sentenza. Nel caso in cui ciò non avvenisse, la Commissione potrebbe presentare un nuovo ricorso alla Corte per l’inadempimento di tale obbligo. In passato, peraltro, un simile ricorso avrebbe potuto al più, ove accolto, portare ad una nuova sentenza di accertamento dell’illecito, e poi, nel caso, ad un altro ricorso ancora, e così via all’infinito (almeno in teoria, perché in realtà, per non svilire il sistema, la Commissione non è mai andata oltre il secondo ricorso). Nelle ipotesi di persistenza dell’inadempimento, insomma, l’efficacia della procedura d’infrazione veniva messa a dura prova; e di ciò suonava conferma una prassi che presentava, in troppi casi, aspetti poco edificanti. Proprio per questi motivi, già nel 1992 il Trattato di Maastricht apportava all’allora art. 228 TCE importanti modifiche volte a rafforzare il sistema; ma ulteriori miglioramenti sono stati poi introdotti dal Trattato di Lisbona. L’art. 260, par. 2, TFUE, prevede ora che «[s]e ritiene che lo Stato membro in questione non abbia preso le misure che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta, la Commissione, dopo aver posto tale Stato in condizione di presentare osservazioni, può adire la Corte. Essa precisa l’importo della somma forfettaria o della penalità, da versare da parte dello Stato membro in questione, che essa consideri adeguato alle circostanze» (comma 1); «[l]a Corte, qualora riconosca che lo Stato membro in questione non si è conformato alla sentenza da essa pronunciata, può comminargli il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità» (comma 2).
Grazie a tali modifiche la Commissione si è vista attribuire il potere di ricorrere nuovamente alla Corte contro lo Stato doppiamente inadempiente, ma questa volta per chiederle di imporre a carico di quest’ultimo una somma forfettaria o una penalità di cui la stessa Commissione propone l’importo in funzione delle circostanze. Peraltro, malgrado la formulazione alternativa della disposizione, la Corte ha chiarito che i due tipi di misure possono essere cumulati: v. Corte giust. 12 luglio 2005, C-304/02, Commissione c. Francia, I-6263, in cui, appunto, la Corte ha per la prima volta applicato entrambe le sanzioni contro quello Stato. Successivamente, v. ad es. Corte giust. 4 giugno 2009, C-568/07, Commissione c. Grecia, I-4657; 7 luglio 2009, C-369/07, Commissione c. Grecia, I-5703; 11 dicembre 2012, C-610/10, Commissione c. Spagna; 19 dicembre 2012, C-374/11, Commissione c. Irlanda.
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I tratti essenziali di questa nuova procedura non si discostano da quelli del primo ricorso. Nel sistema precedente l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona era previsto anche in questo caso, per la fase precontenziosa del secondo ricorso della Commissione, la previa diffida dello Stato e poi l’emissione del parere motivato. Il Trattato di Lisbona ha invece soppresso il passaggio del parere motivato, sicché alla Commissione incombe solo l’obbligo di mettere lo Stato in condizione di presentare le proprie osservazioni e poi può direttamente investire la Corte sollecitando l’imposizione delle indicate misure pecuniarie. Le richieste della Commissione al riguardo, evidentemente, non vincolano in alcun modo il giudice dell’Unione; gli orientamenti da essa fissati al riguardo costituiscono tuttavia un’utile base di riferimento. V. la citata sentenza 12 luglio 2005, C-304/02, Commissione c. Francia, secondo la quale se siffatti orientamenti contribuiscono effettivamente a garantire la trasparenza, la prevedibilità e la certezza del diritto dell’azione condotta dalla Commissione, non è meno vero che l’esercizio del potere conferito in materia alla Corte non è subordinato alla condizione che la Commissione abbia fissato regole del genere, le quali, in ogni caso, non potrebbero vincolare la Corte. V. anche, più in generale, Corte giust. 4 luglio 2000, C-387/97, Commissione c. Grecia, I-5047 (la prima doppia condanna con sanzione pecuniaria); 12 luglio 2005, C-304/02, Commissione c. Francia, cit.; 7 luglio 2009, C-369/07, Commissione c. Grecia, cit.
Del resto, la Corte non ha bocciato gli indirizzi che la Commissione si è proposta di seguire per quantificare le sanzioni e che ha reso pubblico in tre successive comunicazioni. Secondo tali indirizzi, l’importo della misura da richiedere a carico dello Stato deve essere calcolato in funzione di tre criteri fondamentali: gravità dell’infrazione; durata di quest’ultima; necessità di imprimere alla sanzione un effetto dissuasivo onde prevenire le recidive. V. le comunicazioni: 5 giugno 1996 (GUCE C 242, 6); 8 gennaio 1997 (GUCE C 63, 2); 13 dicembre 2005 (SEC (2005) 1658, in GUCE C 126/2007, 15). Si noti che per definire il terzo criterio è stato scelto un fattore «n» pari ad una media geometrica basata sul PIL dello Stato membro in causa e sulla ponderazione dei voti dei singoli Stati all’interno del Consiglio. Con una successiva comunicazione, la Commissione ha poi modificato i criteri economici di calcolo delle sanzioni per tener conto dell’inflazione (SEC (2010) 923, del 20 luglio 2010). Questa comunicazione è stata aggiornata nel 2011 (SEC (2011) 1024 def., del 1° settembre 2011) e nel 2012 (C (2012) 6106 def., del 31 agosto 2012) per l’adeguamento annuale dei dati economici. Ulteriori aggiornamenti apportati di recente, quanto ai dati utilizzati per il calcolo delle somme forfettarie e delle penalità che la Commissione propone alla Corte nell’ambito dei procedimenti d’infrazione, sono contenuti da ultimo nella comunicazione del 10 agosto 2016, C (2016) 5091, GUUE C 290, 3.
Il Trattato di Lisbona aggiunge infine una specifica disciplina per le ipotesi in cui l’inadempimento riguardi la mancata comunicazione dei provvedimenti nazionali di trasposizione di una direttiva adottata secondo la procedura legislativa. In tal caso, la Commissione, se lo ritiene opportuno, può chiedere l’imposizione delle predette misure già nel primo ricorso alla Corte; se accoglie il ricorso, però, quest’ultima deve mantenersi nei limiti delle richieste formulate dalla Commissione quanto all’importo della sanzione (v. anche la comunicazione della Commissione, dell’11 novembre 2010
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(SEC (2010) 1371 def.). Il pagamento di quest’ultima è esigibile alla data fissata nella sentenza (art. 260, par. 3, TFUE). Finora comunque la Commissione ha fatto un uso assai prudente, se non parsimonioso, del nuovo sistema e quindi rari sono i casi di procedimenti di doppia condanna conclusi con l’applicazione delle indicate misure (ma v. ad es. di recente, Corte giust. 2 dicembre 2014, C-378/13, Commissione c. Grecia; e C-196/13, Commissione c. Italia). In proposito va piuttosto segnalato che, come emerge dalla prassi più recente, nel corso dell’esecuzione della seconda pronuncia di condanna non di rado sorgono divergenze tra la Commissione e lo Stato interessato in ordine alla effettiva e completa esecuzione della sentenza, sotto il profilo vuoi dell’avvenuto adempimento da parte dello Stato, vuoi del completo ed esatto pagamento delle sanzioni. Nel silenzio dei Trattati la Commissione ha rivendicato la propria competenza ad adottare una decisione per imporre allo Stato l’esecuzione della sentenza nei termini da essa ritenuti corretti, fatto salvo evidentemente il diritto dello Stato di impugnare tale decisione davanti alla Corte (ma nella specie, al Tribunale). La Corte ha però respinto una simile pretesa, specie perché essa altererebbe il sistema di ripartizione delle competenze giudiziarie previsto dai Trattati rimettendo al Tribunale la soluzione, sia pure in primo grado, di controversie che quei testi hanno sempre voluto riservare alla Corte. Essa ha invece ritenuto di poter dedurre dall’art. 260, par. 2, TFUE, una propria competenza implicita al riguardo, inerente al sistema stesso e alla sua efficacia, e ha quindi concluso che simili situazioni debbano essere risolte promuovendo un nuovo ricorso alla Corte ai sensi di quella norma; ovvero, se le divergenze vertono su misure statali che non sono state ancora esaminate dalla Corte, attivando una nuova procedura ai sensi dell’art. 258 TFUE (v., Corte giust. 15 gennaio 2014, C-292/11 P, Commissione c. Portogallo). Per contro, i giudici di Lussemburgo non hanno ritenuto praticabile ai fini indicati, se non nei ristretti limiti consentiti dal Trattato, e quindi respingendone ogni utilizzazione abusiva, la via della procedura d’interpretazione della propria sentenza di condanna, attivata in qualche caso dallo Stato che si opponeva alle pretese della Commissione in sede di esecuzione di detta sentenza. V. Corte giust. 18 luglio 2007, C-503/04, Commissione c. Germania, I-6153 e giurisprudenza ivi citata, nonché ordinanza 11 luglio 2013, C-496/09 INT, Italia c. Commissione, nella quale la Corte ha per l’appunto chiarito che una questione relativa all’identificazione dei provvedimenti necessari per l’esecuzione di una sentenza ex artt. 258 o 260 TFUE è estranea all’oggetto di una simile procedura (sulla quale v. retro, p. 252).
7. I ricorsi per inadempimento promossi da uno Stato membro La procedura fin qui descritta può essere attivata, come già accennato, anche da uno Stato membro per denunciare alla Corte una violazione del diritto dell’Unione da parte di un altro Stato membro. Su di essa, peraltro, non occorre spendere molte parole, perché la relativa disciplina si sviluppa sulla falsariga di quella che abbiamo fin qui esaminato a proposito dei ricorsi della Commissione contro gli Stati membri.
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Secondo l’art. 259 TFUE, «[c]iascuno degli Stati membri può adire la Corte di giustizia dell’Unione europea quando reputi che un altro Stato membro ha mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù dei trattati» (comma 1); «[u]no Stato membro, prima di proporre contro un altro Stato membro un ricorso fondato su una pretesa violazione degli obblighi che a quest’ultimo incombono in virtù dei trattati, deve rivolgersi alla Commissione» (comma 2); «[l]a Commissione emette un parere motivato dopo che gli Stati interessati siano posti in condizione di presentare in contraddittorio le loro osservazioni scritte e orali» (comma 3); «[q]ualora la Commissione non abbia formulato il parere nel termine di tre mesi dalla domanda, la mancanza del parere non osta alla facoltà di ricorso alla Corte» (comma 4).
Anche qui, infatti, la giurisdizione della Corte ha ad oggetto le questioni relative all’inosservanza dei Trattati da parte degli Stati membri. Anche qui, si svolge una fase precontenziosa molto simile a quella illustrata a proposito delle procedure d’infrazione promosse dalla Commissione. Anche qui quest’ultima partecipa, e con un ruolo di primo piano, alla soluzione delle controversie tra gli Stati membri di cui ora si discute. In effetti, lo Stato che intenda promuovere un’azione contro un altro Stato membro per violazione del diritto dell’Unione, prima di poter ricorrere alla Corte, deve di regola rivolgersi alla Commissione. Anche in questo caso, tuttavia, si applicano le disposizioni del Trattato che consentono, in deroga alla regola generale di cui nel testo, l’immediato ricorso alla Corte, senza il previo esperimento della procedura conciliativa (retro, p. 266).
Quest’ultima viene così investita del compito di esperire i necessari tentativi perché il conflitto fra gli Stati si chiarisca e possibilmente si risolva in via preliminare, senza l’intervento della Corte. In tal modo, essa potrà svolgere un ruolo essenziale per conciliare le contrastanti posizioni degli Stati e, soprattutto, per far giocare l’interesse generale dell’Unione rispetto a un conflitto che diversamente rischierebbe di restare tutto interno agli interessi e all’ottica particolare dei due Stati. Va aggiunto a questo riguardo che il carattere istituzionale delle procedure in esame è anche testimoniato dalla particolare posizione degli Stati membri nell’ambito delle stesse. Per l’avvio di tali procedure, infatti, non occorre che lo Stato agente abbia subito, come conseguenza della violazione del Trattato, una lesione di un proprio interesse materiale; la legitimatio ad causam gli deriva automaticamente dalla sua posizione di Stato membro. Ciò, da un lato, conferma che le controversie in questione non hanno una vera natura di controversie internazionali, ma restano interne al sistema dell’Unione; dall’altro, consente agli Stati membri di concorrere direttamente ad assicurare il rispetto dei Trattati e di contribuire in tal modo alla tutela del diritto nell’Unione. È ben vero, infatti, che alla base dei ricorsi degli Stati vi saranno normalmente loro specifiche e particolari esigenze di natura politica o economica, ma rimane pur sempre significativo che la facoltà di ricorrere sia attribuita prescindendo da considerazioni di questo tipo. Va detto tuttavia che, in pratica, gli Stati membri preferiscono evitare di instaurare un contenzioso con un altro Stato membro, preferendo invece sollecitare la Commissione ad attivarsi in tal senso. Ciò spiega perché finora la Corte si sia pronunciata solo pochissime volte a titolo della
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competenza in esame (e in vari casi abbia reso un’ordinanza di cancellazione dal ruolo a seguito della rinuncia agli atti dello Stato ricorrente): v. Corte giust. 4 ottobre 1979, 141/78, Francia c. Regno Unito, 2923; 20 maggio 2000, C-388/95, Belgio c. Spagna, I-3123; 16 ottobre 2012, C-364/10, Ungheria c. Slovacchia.
Venendo ora a un esame più analitico, va precisato che la procedura è avviata da una domanda dello Stato denunciante alla Commissione. In essa, lo Stato non può limitarsi a una generica denuncia, ma deve espressamente dichiarare di voler dare inizio alla procedura in esame, indicando, almeno in termini generali, i motivi su cui basa le proprie contestazioni. Ricevuta la domanda, la Commissione deve darne comunicazione allo Stato chiamato in causa e istituire, fra questo e lo Stato agente, un contraddittorio nel quale entrambi sono messi in grado di presentare le loro osservazioni scritte e orali. L’eventuale inattività della Commissione autorizzerebbe lo Stato che ha avviato la procedura ad adire immediatamente la Corte. Al termine del contraddittorio, la Commissione emette un parere motivato, con il quale esprime il proprio giudizio sulla domanda rivoltale dallo Stato che ha iniziato la procedura. Il parere deve altresì contenere l’illustrazione dei fatti e l’esposizione delle questioni di diritto che vengono in rilievo. Il giudizio in esso espresso dalla Commissione potrà essere: interlocutorio, se essa non ritiene sufficientemente provate le affermazioni dello Stato che l’ha adita o comunque non è in grado di assumere un atteggiamento definitivo in alcun senso; favorevole alle tesi dello Stato accusato; o, infine, conforme alle pretese dello Stato che ha avviato la procedura. Nei primi due casi a tale ultimo Stato non è preclusa in principio la via del ricorso alla Corte ove esso non concordi sul giudizio della Commissione. Ciò, per l’appunto, in ragione della natura non vincolante del parere, il quale esaurisce la propria funzione nel consentire la presa di posizione dell’esecutivo senza, quindi, avere l’effetto di decidere autoritativamente la controversia (al più, potrà avere l’effetto di sconsigliare il ricorso). Nel caso in cui, invece, la Commissione accolga la tesi dello Stato che l’ha adita, il parere avrà contenuto analogo a quello previsto nelle procedure promosse dalla stessa Commissione (retro, par. 3). Con esso, quindi, si constaterà l’illecito dello Stato chiamato in causa e lo si inviterà a prendere gli opportuni provvedimenti entro un certo termine. Il ricorso giurisdizionale dell’altro Stato sarà allora possibile solo dopo il decorso di tale termine. Dato, infatti, l’evidente parallelismo con la procedura prevista per i ricorsi della Commissione, è da escludere che lo Stato che ha avviato la procedura possa adire la Corte prima del decorso di quel termine. Quanto, poi, a stabilire se, allo spirare di questo, sia stato effettivamente posto fine all’inadempimento, la questione va valutata dallo Stato che intende adire la Corte, il quale resta giudice dell’opportunità della propria azione. La stessa Commissione, del resto, potrebbe ricorrere alla Corte, ove lo Stato interessato si astenesse dal farlo direttamente. Qualora, infine, decorsi tre mesi dalla domanda, la Commissione non emetta il parere, lo Stato che l’ha sollecitata può ugualmente adire la Corte. Per il resto vale quanto si è detto più sopra a proposito dei ricorsi della Commissione, non senza ricordare peraltro che anche in questi giudizi possono intervenire gli altri Stati membri e le istituzioni, ma non i privati (art. 40 dello Statuto della Corte).
CAPITOLO IV
Il controllo sui comportamenti delle istituzioni dell’Unione Sommario: 1. Introduzione. – I. I ricorsi di annullamento. – 2. Premessa. – 3. La legittimazione passiva. – 4. Gli atti impugnabili. – 5. I vizi degli atti. In generale. – 6. Segue: I singoli vizi. – 7. La legittimazione attiva: i) delle istituzioni; ii) degli Stati membri. – 8. Segue: iii) dei soggetti privati. – 9. Il ricorso: termini ed effetti. – 10. Segue: La portata del sindacato della Corte. La competenza di piena giurisdizione. – 11. La sentenza di annullamento. – 12. L’accertamento incidentale dell’illegittimità di un atto. – II. I ricorsi in carenza. – 13. Condizioni generali. – 14. Gli aspetti procedurali. – III. L’azione di danni. – 15. Caratteristiche e specificità di tale azione. – 16. Le condizioni per la sua promozione.
1. Introduzione Oltre che sui comportamenti degli Stati membri, la Corte esercita un controllo giurisdizionale sui comportamenti degli organi dell’Unione europea, un controllo – come si è già accennato – molto ampio, variamente articolato ed esteso pressoché a tutte le manifestazioni che assume la loro attività di governo dell’Unione. Concerna la sola legittimità o consideri anche il merito di tali comportamenti; si realizzi in modo diretto, in via incidentale o su rinvio pregiudiziale; verta sugli atti o sull’inazione degli organi; sia sollecitato dalle istituzioni o dagli Stati membri o da soggetti privati, detto controllo assume, nel quadro delle funzioni attribuite alla Corte, una posizione di tutto rilievo e, in quanto permette di garantire il rispetto del principio di legalità, costituisce forse la più efficace conferma della ricordata qualificazione dell’Unione, come «Unione di diritto». Non sorprende quindi che fin dall’avvio del processo d’integrazione europea la competenza in esame abbia attirato l’attenzione della dottrina e si sia affermata, anche nella prassi, come importante strumento non solo di tutela dei diritti individuali, ma altresì di sviluppo dell’intero sistema giuridico dell’Unione; e ciò anche se oggi, a causa dello sviluppo della competenza pregiudiziale, essa è molto meno utilizzata che in passato. Nella sua proiezione all’interno di tale sistema, la competenza in questione costituisce, in effetti, una delle garanzie essenziali nel delicato equilibrio di poteri realizzato dai Trattati tra i diversi attori (Stati membri, istituzioni) in esso operanti; e nella sua proiezione esterna, uno strumento efficace per la tutela giurisdizio-
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nale dei soggetti lesi dall’azione degli organi dell’Unione. La sua valutazione, perciò, non soltanto rileva per la considerazione complessiva del ruolo della Corte, ma appare altresì decisiva per ogni giudizio che voglia darsi sul sistema dell’Unione. Le garanzie predisposte dai Trattati nei confronti dei comportamenti delle istituzioni offrono, infatti, alla Corte gli opportuni strumenti per quell’azione, ampiamente ricordata in precedenza, volta sia ad assicurare il funzionamento del sistema secondo le regole tracciate dai Trattati, sia ad incidere sulla stessa configurazione dell’Unione, precisando e perfino rielaborando i principi e le norme che ne regolano l’azione. Sotto questo profilo, e proprio per il più ampio ruolo svolto dalla Corte, la competenza in esame va anche al di là dei modelli di contenzioso amministrativo familiari al giurista continentale. È peraltro proprio a tali modelli che, con tutta evidenza, i redattori dei Trattati si sono ispirati per definire i tratti essenziali di quella competenza. In effetti, le analoghe esperienze di molti ordinamenti degli Stati membri costituivano a questo fine un esempio assai calzante, certo più calzante di quelli offerti dal diritto internazionale, data la più stretta analogia delle situazioni riscontrabile tra detti ordinamenti e quello dell’Unione: autorità preposte a funzioni di governo e tenute al rispetto del principio di legalità; struttura verticale dei rapporti autorità/amministrati; conseguente necessità di assicurare la tutela giurisdizionale dei soggetti; esistenza nel sistema di un organo deputato appunto ad assicurare tale tutela. In questo modo, i redattori dei Trattati hanno potuto affermare anche nell’ambito dell’Unione i principi e gli strumenti di garanzia che sostanziano la stessa natura dello Stato di diritto, innestando l’ipotesi di giurisdizione in esame sulla linea tradizionale dei sistemi giuridici nazionali, e in particolare di quelli continentali. In tale contesto, non vi è dubbio che il modello maggiormente tenuto presente sia stato il contenzioso amministrativo del diritto francese, che per diversi motivi meglio si prestava a essere utilizzato a tal fine (si noti, tra l’altro, che il TCECA, per giunta redatto unicamente in francese, aveva utilizzato una terminologia giuridica chiaramente mutuata da quel diritto). Con l’avvertenza tuttavia che se il modello francese ha esercitato, specie inizialmente, notevole influsso in materia, ciò non significa che la Corte sia stata o si sia sentita vincolata all’esclusivo ossequio a esso, così come a nessun altro specifico modello. L’infondatezza di una simile conclusione, del resto già rilevabile nei primi anni di vita della Corte, è stata vieppiù confermata dalla prassi successiva (v. retro, p. 234, nonché infra, in questo Capitolo, par. 5).
Tutto ciò premesso, si può ora passare all’analisi specifica della competenza in esame. Va avvertito peraltro che l’oggetto dell’indagine che ci accingiamo a compiere è molto vasto, dato che, come più volte sottolineato, il controllo sui comportamenti delle istituzioni dell’Unione si specifica in forme diversificate. Nell’intento di rendere più semplice e più chiara l’esposizione, dedicheremo a ciascuna di esse una separata trattazione. Esamineremo quindi anzitutto la competenza della Corte a controllare la legittimità di quei comportamenti, cominciando dalla sua manifestazione più importante, e cioè il sindacato sugli atti delle istituzioni, distinguendo nell’ordine tra le ipotesi in cui tale sindacato può essere operato in forma diretta, in via incidentale o in sede pregiudiziale. Quest’ultima ipotesi, peraltro, in quanto si realizza all’interno della c.d. competenza pregiudiziale, sarà trattata nella specifica sede (v. il successivo Capitolo V).
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A tale esame seguirà, sempre nell’ambito della medesima ipotesi di giurisdizione, lo studio della speculare competenza della Corte a controllare i comportamenti omissivi (cioè la carenza o l’inazione) degli organi dell’Unione. Successivamente si passerà ad illustrare la competenza della Corte a giudicare non già la legittimità, ma la liceità dei comportamenti in questione e quindi le azioni eventualmente introdotte per ottenere i danni provocati dalle istituzioni a titolo di responsabilità extracontrattuale dell’Unione. Si noti peraltro che la competenza a giudicare su tali ricorsi è essenzialmente devoluta, in primo grado, al Tribunale, fatti salvi – come si è già detto (retro, p. 246) – alcuni casi espressamente riservati alla Corte e indicati dall’art. 51 dello Statuto e, fino al 2016, le controversie d’impiego, che erano riservate al TFP (v. p. 247 ss. e p. 345 ss.). In caso d’impugnazione di uno stesso atto davanti alla Corte e al Tribunale, ciascuna giurisdizione può sospendere il procedimento in attesa che l’altra si pronunci; ma il Tribunale può anche declinare del tutto la propria competenza a favore della Corte. Se però si tratta di un ricorso promosso da un’istituzione o da uno Stato membro, è il Tribunale che deve sospendere il procedimento eventualmente pendente innanzi ad esso. V. art. 54 Statuto Corte (nonché art. 55 reg. proc. Corte e art. 77 reg. proc. Tribunale). Per un caso di applicazione della disposizione: ordinanza 13 dicembre 2007, T-215/07, Donnici c. Parlamento, II-4673, cui ha fatto seguito Corte giust. 30 aprile 2009, C-393/07 e C-9/08, Italia e Donnici c. Parlamento, I-3679.
I. I ricorsi di annullamento 2. Premessa Delle varie ipotesi di giurisdizione appena delineate quella relativa al controllo sulla legittimità degli atti dell’Unione è, come si è detto, di gran lunga la più importante, anche dal punto di vista della prassi, e merita quindi una trattazione più estesa. Viene in particolare in rilievo al riguardo l’art. 263 TFUE, che costituisce la disposizione centrale della materia ed è stata quindi a giusto titolo oggetto di un’ampia elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. In sintesi, la disposizione attribuisce agli Stati membri e alle istituzioni dell’Unione, da una parte, e ai soggetti privati dall’altra, il diritto di ricorrere alla Corte per motivi di legittimità contro gli atti delle istituzioni medesime al fine di chiederne l’annullamento. Su ciascuno di questi punti ci fermeremo nelle pagine che seguono. La disposizione, che si articola in sei commi, recita come segue: «[l]a Corte di giustizia dell’Unione europea esercita un controllo di legittimità sugli atti legislativi, sugli atti del Consiglio, della Commissione e della Banca centrale europea che non siano raccomandazioni o pareri, nonché sugli atti del Parlamento europeo e del Consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi. Esercita inoltre un controllo di legittimità sugli atti degli organi o organismi
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dell’Unione destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi» (comma 1); «[a] tal fine, la Corte è competente a pronunciarsi sui ricorsi per incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione dei trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione, ovvero per sviamento di potere, proposti da uno Stato membro, dal Parlamento europeo, dal Consiglio o dalla Commissione» (comma 2); «[l]a Corte è competente, alle stesse condizioni, a pronunciarsi sui ricorsi che la Corte dei Conti, la Banca centrale europea ed il Comitato delle regioni propongono per salvaguardare le proprie prerogative» (comma 3); «[q]ualsiasi persona fisica o giuridica può proporre, alle condizioni previste al primo e secondo comma, un ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente e individualmente, e contro gli atti regolamentari che la riguardano direttamente e che non comportano misure di esecuzione» (comma 4); «[g]li atti che istituiscono gli organi e organismi dell’Unione possono prevedere condizioni e modalità specifiche relative ai ricorsi proposti da persone fisiche o giuridiche contro gli atti di detti organi o organismi destinati a produrre effetti giuridici nei loro confronti» (comma 5); «[i] ricorsi previsti dal presente articolo devono essere proposti nel termine di due mesi a decorrere, secondo i casi, dalla pubblicazione dell’atto, dalla sua notificazione al ricorrente ovvero, in mancanza, dal giorno in cui il ricorrente ne ha avuto conoscenza» (comma 6). La disposizione ha sostituito, con varie e importanti modifiche, il precedente art. 230 TCE, che a sua volta aveva sostituito, ma con minori modifiche, l’art. 173 TCEE; ed è quindi anche a queste ultime due disposizioni che si riferisce la giurisprudenza cui si farà riferimento nelle prossime pagine. Peraltro, l’art. 263 TFUE corrisponde all’art. 146 TCEEA e all’art. 33 TCECA. Mette conto segnalare, che, anche se quest’ultimo Trattato è ormai estinto e il suo ricordato art. 33 era formulato in modo assai diverso dalle omologhe disposizioni del TCE e del TFUE, esso ha comunque costituito a lungo un punto di riferimento per l’interpretazione di varie nozioni di quelle disposizioni.
3. La legittimazione passiva Oggetto del giudizio, come si è accennato, sono i comportamenti delle istituzioni. Di norma quindi solo queste ultime possono essere convenute in giudizio, mentre non possono esserlo le autorità nazionali, neppure quando adottano atti di esecuzione di norme dell’Unione. In passato la legittimazione passiva era limitata al Consiglio e alla Commissione, in quanto a questi due organi era, in effetti, riservato il potere decisionale all’interno della Comunità. Con riguardo al Consiglio, peraltro, la Corte ha fin dall’inizio chiarito che l’impugnazione di un suo atto è ricevibile solo se, avendo riguardo alla sua sostanza e non alla denominazione, si tratta di un provvedimento imputabile a detta istituzione come tale, non già se costituisce – come a volte può accadere – un atto adottato dagli Stati membri (o dai rappresentanti dei governi di tali Stati) in quanto riuniti in seno allo stesso Consiglio (v. già la nota sentenza 31 marzo 1971, 22/70, Commissione c. Consiglio, 263, c.d. sentenza AETS; nonché sentenze 30 giugno 1993, C-181/91 e C-248/91, Parlamento c. Consiglio e Commissione, I-3685; e 2 marzo 1994, C-316/91, Parlamento c. Consiglio, I-625).
In seguito, vuoi per l’evoluzione che ha subito l’articolazione dei poteri all’interno dell’Unione (in particolare, con riferimento al ruolo del Parlamento europeo), vuoi per gli indirizzi giurisprudenziali volti ad assicurare la più ampia tutela giurisdizionale dei soggetti a fronte dell’azione comunitaria, comunque identificata, la disposizione fu modificata nel senso di sottoporre al controllo della Corte anche gli at-
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ti emanati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio con la procedura legislativa e quelli autonomamente adottati dal Consiglio, dalla Commissione o dalla BCE, nonché gli atti del Parlamento europeo e del Consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi. Un caso particolare è previsto dallo Statuto del Sistema europeo di banche centrali (SEBC): nell’eventualità che il Governatore di una Banca centrale sia sollevato dal proprio incarico, egli può impugnare la decisione davanti alla Corte (art. 14.2 Statuto SEBC). Per i ricorsi contro gli atti della BEI, invece, l’art. 271 TFUE detta una specifica, ma nell’essenziale non molto difforme, disciplina (v. Corte giust. 15 giugno 1976, 110/75, Mills c. BEI, 955; 3 marzo 1988, 85/86, Commissione c. BEI, 1281; 2 dicembre 1992, C-370/89, SGEEM e Etroy c. BEI, I-6211; 10 luglio 2003, C15/00, Commissione c. BEI, I-7281).
Ma perfino l’elencazione che precede non poteva ritenersi esaustiva, perché in conformità ai ricordati indirizzi, la Corte aveva col tempo precisato che anche atti provenienti da altri organismi dell’Unione possono essere impugnati, se suscettibili di produrre effetti giuridici in capo al ricorrente. Tale giurisprudenza è stata quindi formalmente recepita dal Trattato di Lisbona, il quale, proprio in omaggio ad esso, ha ora esplicitamente esteso la legittimazione passiva al Consiglio europeo, malgrado la peculiare natura di tale organo (retro, p. 70 ss.), nonché a tutti gli organi ed organismi dell’Unione. Com’è noto, in effetti, anche prima del Trattato di Lisbona, la Corte aveva ampliato in via giurisprudenziale l’ambito degli organi soggetti al suo controllo. E lo aveva fatto anzitutto riconoscendo la legittimazione passiva del PE, malgrado che al riguardo il TCE menzionasse, come si è visto, solo il Consiglio e la Commissione (v. la notissima Corte giust. 23 aprile 1986, 294/83, Les Verts, 1339).
4. Gli atti impugnabili Se è agevole determinare le istituzioni da cui promanano gli atti impugnabili, altrettanto non può dirsi circa l’individuazione di questi ultimi. Certo, alcune indicazioni in negativo le fornisce la stessa disposizione in esame quando prevede che sono impugnabili gli atti delle indicate istituzioni, «che non siano raccomandazioni e pareri», e quando esclude gli atti che non siano «destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi». Ma tutt’altro è il discorso allorché si tenta di definire in positivo il quadro degli atti impugnabili. A rendere meno agevole tale tentativo è anzitutto, e in linea generale, la particolare disciplina predisposta dai Trattati in ordine alle modalità e agli strumenti per l’esercizio delle competenze dell’Unione. Stanti invero le limitazioni derivanti dal principio di attribuzione (v. p. 411 ss.), i testi non consentono alle istituzioni di perseguire la realizzazione degli obiettivi statutari utilizzando gli strumenti decisionali volta a volta più opportuni e conformi alla portata ed al livello dell’azione prescelta (legislativa, regolamentare, amministrativa). Essi impongono invece che quell’azione sia canalizzata all’interno di specifici «contenitori», e cioè che si esplichi, nei congrui
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casi, attraverso atti tipici espressamente indicati da apposite norme e dalle stesse sommariamente definiti nelle loro caratteristiche essenziali: e cioè regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri (supra, p. 160 ss.). Al controllo della Corte, perciò, vengono sottoposti solo gli atti che rientrano in (alcune di) queste tipologie. Per la soluzione del nostro problema, basterebbe quindi individuare quali tipi di atti sono indicati come impugnabili dai Trattati e verificare poi in concreto se un determinato provvedimento sia ad essi riconducibile. E in effetti la giurisprudenza della Corte si esercita spesso proprio in tal senso, avendo all’occorrenza cura anche di classificare il provvedimento fra l’uno o l’altro di detti tipi di atti, stanti le diverse conseguenze processuali che (come vedremo più avanti) derivano da tale operazione. In concreto però una simile verifica non è sempre agevole, data la tecnica normativa scelta dai Trattati al riguardo. In effetti, da un lato, questi hanno evitato di fissare con la necessaria precisione le caratteristiche formali e sostanziali di ogni tipo di atto, sicché in concreto non sempre è agevole ricondurre con sicurezza un determinato provvedimento all’una o all’altra categoria. Dall’altro lato, non sempre viene precisato, nelle singole norme materiali che autorizzano o impongono un comportamento alle istituzioni, quale di quei «tipi» di atti debba essere utilizzato all’occorrenza, perché a volte si tace del tutto al riguardo, altre volte si lasciano le istituzioni libere di scegliere tra più «tipi» di atti (art. 296, comma 1, TFUE). Con il risultato che, ai fini dei ricorsi di annullamento, anche dopo aver accertato quali tipi di atti sono designati come impugnabili dai Trattati, può restare ancora in piedi il problema di inquadrare uno specifico provvedimento in una di quelle tipologie. Ma prima ancora o anche contestualmente a tale operazione, si pone talvolta nella prassi il problema, più radicale, di accertare se si sia o meno in presenza di un atto impugnabile. In effetti, l’azione delle istituzioni si esprime in forme, certo meno disordinate che in passato, ma tuttora molto varie, che sollevano dubbi, prima ancora appunto che sull’identificazione del «tipo» di atto nel quale inquadrare un determinato comportamento, sulla stessa qualificazione di quest’ultimo come «atto» impugnabile. La prassi offre un’ampia conferma di tali difficoltà, perché la Corte si è spesso trovata in passato, ma tuttora non di rado ancora si trova, nella necessità di risolvere dubbi al riguardo. E invero è stata proprio la sua giurisprudenza ad apportare un decisivo contributo alla soluzione di quei problemi. Sollecita soprattutto nel garantire l’effettiva tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’Unione, la Corte ha anzitutto sancito, con una giurisprudenza costante ed univoca, che ai fini del controllo giurisdizionale non rileva né la forma con cui un qualsivoglia «atto» delle istituzioni si presenta esternamente (anche dunque se assume la veste di una lettera, un invito, una presa di contatto, una comunicazione, ecc.), né la denominazione ufficiale che esso stesso si attribuisce (autoqualificandosi, come avviene di regola, come regolamento, direttiva, decisione, o altro). Ciò che deve interessare sono unicamente il suo contenuto e i suoi effetti, vale a dire la sussistenza di determinati requisiti sostanziali che consentano di qualificare detto «atto» come impugnabile e poi, all’occorrenza, ricondurlo a una delle ricordate tipologie (v. in questo senso già sentenza AETS, cit.). Ora, mentre per quest’ultima operazione è stato ed è possibile far leva, grazie all’indicato indirizzo giurisprudenziale, sulle caratteristiche sostanziali dei singoli tipi
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di atti desumibili dagli stessi testi, più laboriosa è risultata, nello specifico silenzio dei testi, l’altra e preliminare operazione, ossia l’individuare i requisiti idonei a qualificare un comportamento di un’istituzione come atto impugnabile. Ancora una volta, però, si è rivelata preziosa a tal fine la Corte, che con una giurisprudenza peraltro risalente, ha via via enucleato dal sistema stesso dei Trattati i pertinenti criteri. In estrema sintesi, può dirsi che la nozione di «atto impugnabile» che emerge da tale giurisprudenza può riassumersi nella formula, non molto dissimile da quelle corrispondenti dei diritti interni, secondo cui sono impugnabili gli atti definitivi emanati dalle istituzioni nell’esercizio del loro potere d’imperio e produttivi di effetti obbligatori nei confronti di terzi. Passando a specificare tali requisiti, non occorre aggiungere molto sul punto relativo alla provenienza dell’atto dalle istituzioni. Quali siano tali istituzioni, in effetti, è stato già detto più sopra. Qui va solo aggiunta una precisazione dettata dalla prassi, specie nei primi tempi assai diffusa, di ricorrere a comportamenti di vario tipo tenuti dai servizi dell’istituzione o addirittura da singoli funzionari che, in determinate circostanze, sembravano presentarsi come prese di posizione dell’intero organo. La Corte ha chiarito al riguardo che l’atto «deve presentarsi come un atto del collegio […] destinato a produrre effetti giuridici, il quale rappresenti lo stadio finale del procedimento interno [all’istituzione] e mediante il quale questa statuisca definitivamente, in forma che consenta di identificarne la natura» (Corte giust. 5 dicembre 1963, 23/63, 24/63 e 52/63, Henricot e a. c. Alta Autorità, 437, 450; 28/63, Hoogovens en Staalfabrieken c. Alta Autorità, 465; 53/63 e 54/63, Lemmerz-Werke e a. c. Alta Autorità, 483). Di conseguenza l’atto è imputabile all’istituzione, e quindi impugnabile, solo ove risulti da essa deliberato, adottato o delegato, e rechi la firma di uno dei suoi membri. Il comportamento dell’istituzione deve inoltre tradursi in un atto giuridico che sia espressione del potere d’imperio dell’organo; deve essere cioè un atto autoritativo, capace di produrre unilateralmente effetti obbligatori nella sfera dei suoi destinatari, innovando rispetto alle posizioni giuridiche preesistenti. È questo un requisito fondamentale che si connette al carattere demolitorio e ripristinatorio dei giudizi in esame e che si desume anzitutto dallo stesso sistema dei Trattati. Questi, infatti, consentono il sindacato di legittimità della Corte solo sugli atti delle istituzioni e degli organi cui sono devoluti i poteri normativi e amministrativi dell’Unione, escludendolo in linea di principio per gli atti degli organi che siffatti poteri non hanno ricevuto e rispetto ai quali, quindi, un’esigenza di tutela giurisdizionale non sussiste. Non solo ma, come si è visto, rispetto agli atti tipici di quelle istituzioni, i Trattati escludono espressamente proprio l’impugnabilità di quelli che non hanno efficacia vincolante (raccomandazioni e pareri), assumendo così, in principio, una posizione negativa rispetto agli atti che non producono effetti obbligatori per i loro destinatari. Ne è riprova anche il fatto che l’impugnabilità degli atti del PE, del Consiglio europeo e degli altri organismi è ammessa, come si è visto, solo se essi siano «destinati a produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi». È vero che la stessa condizione non è imposta anche per l’impugnazione degli atti delle altre istituzioni, ma ciò è dovuto al fatto che tali atti possono talvolta produrre effetti obbligatori anche limitatamente al funzionamento interno del sistema istituzionale dell’Unione.
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In coerenza con tale indirizzo, la Corte ha quindi considerato inammissibile il ricorso contro un provvedimento che non detta «alcuna norma atta a produrre un qualsiasi effetto giuridico, vuoi sotto il profilo normativo, vuoi nel caso concreto» (v. già Corte giust. 12 febbraio 1960, da 16/59 a 18/59, Geitling RuhrkohlenVerkaufsgesellschaft e a. c. Alta Autorità, 45, 62, e più recentemente sentenza 12 settembre 2006, C-131/03 P, Reynolds Tobacco e a. c. Commissione, I-7795), che «non impone alcun dovere giuridico alla ricorrente” (Corte giust. 10 dicembre 1957, 1/57 e 14/57, Usines à tubes de la Sarre c. Alta Autorità, 199, 217), e che «non introduce alcuna regola generale, né incide in modo definitivo su alcun interesse individuale». Corte giust. 22 marzo 1961, 42/59 e 49/59, S.N.U.P.A.T. c. Alta Autorità, 99, 138; 14 marzo 1990, C-133/87 e C-150/87, Nashua Corporation e a. c. Commissione e Consiglio, I-719; e più recentemente tra le altre, in una giurisprudenza costante: sentenze 13 ottobre 2011, C-463/10 P e C475/10 P, Deutsche Post e Germania c. Commissione, I-9639; 24 ottobre 2013, C-77/12 P, Deutsche Post c. Commissione; 20 settembre 2016, da C-105 P a C-109/15 P, Mallis e a. c. Commissione e BCE; 19 gennaio 2017, C-351/15 P, Commissione c. Total e Elf Aquitaine. In tale prospettiva, ad es., è stato dichiarato ricevibile il ricorso diretto contro un atto contenente un «Codice di condotta» (Corte giust. 13 novembre 1991, C-303/90, Francia c. Commissione, I-5315) o ancora contro le «comunicazioni» interpretative della Commissione (Corte giust. 16 giugno 1993, C-325/91, Francia c. Commissione, I-3283; 20 marzo 1997, C-57/95, Francia c. Commissione, I-1627). Sono state inoltre ritenute impugnabili anche le «conclusioni» del Consiglio che sospendono una procedura per disavanzo eccessivo ex art. 104, par. 9, TCE (ora art. 126 TFUE: Corte giust. 13 luglio 2004, C-27/04, Commissione c. Consiglio, I-6649).
Ma la Corte ha precisato anche gli altri requisiti di cui si è detto poc’anzi. Così, per limitarci a qualche affermazione di maggiore interesse, la Corte ha chiarito che un atto è impugnabile quando con esso l’istituzione prenda comunque una posizione definitiva rispetto a una determinata questione: non rileva se con effetti immediati o futuri, purché, in quest’ultimo caso, sia inequivocabile l’atteggiamento che l’istituzione prenderà al momento stabilito. V. Corte giust. 17 dicembre 1959, 14/59, Société des fonderies de Pont-à-Mousson c. Alta Autorità, 437. V. anche Corte giust. 17 novembre 1987, 142/84 e 156/84, BAT e Reynolds c. Commissione, 4487; 6 dicembre 2007, C-516/06 P, Commissione c. Ferriere Nord, I-10685; 26 gennaio 2010, C-362/08 P, Internationaler Hilfsfonds c. Commissione. Secondo la Corte, è ricevibile il ricorso contro un provvedimento che fissi «una norma atta ad essere applicata qualora le circostanze lo richiedano» (sentenza 29 novembre 1956, 8/55, Fédération charbonnière de Belgique c. Alta Autorità, 197, 220), quando, cioè, «nell’atto si stabilisca inequivocabilmente e sin dalla sua emanazione, quale sarà la condotta [dell’istituzione] ove determinate condizioni si avverino» (sentenza Usines à tubes de la Sarre, cit., 216).
Per questi motivi, quindi, non sono impugnabili gli atti che si pongono come passaggi intermedi per l’emanazione dell’atto definitivo, in quanto di per sé inidonei a determinare le indicate conseguenze, né gli atti destinati ad avere effetti solo all’interno dell’istituzione, nel senso di rivolgersi ad uffici dipendenti onde stabilire direttive per la loro azione, ancorché ciò delinei l’atteggiamento che l’organo intende assumere in futuro.
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V. Corte giust. 17 luglio 1959, 42/58, S.A.F.E. c. Alta Autorità, 377; Geitling RuhrkohlenVerkaufsgesellschaft e a., cit.; 6 aprile 2000, C-443/97, Spagna c. Commissione, I-2415. Per gli atti “intermedi”, v., per tutte, Corte giust. 17 dicembre 1964, 102/63, Boursin c. Alta Autorità, 1330; 7 aprile 1965, 11/64, Weighardt c. Commissione CEEA, 352: «ogni censura nei confronti degli atti preparatori può essere validamente mossa solo se connessa con l’impugnazione di una decisione della Commissione costituente l’atto formale che suggella la procedura» (368); 14 dicembre 1965, 21/65, Morina c. Parlamento, 1240. Altro è a dire invece nei casi in cui il procedimento si componga di atti interdipendenti: «considerata la fondamentale unità dei vari atti di questo (procedimento), si deve ammettere che, in caso di ricorso diretto contro atti intervenuti in un secondo tempo, il ricorrente può denunziare i vizi degli atti precedenti, ai primi strettamente collegati» (Corte giust. 31 marzo 1965, 12/64 e 29/64, Ley c. Commissione, 140, 154; nonché 16/64, Rauch c. Commissione, 174. V. anche, più recentemente, ordinanza 1° marzo 2012, C-208/11 P, Internationaler Hilfsfonds c. Commissione).
Ancora, perché l’atto sia impugnabile occorre che esso innovi nelle posizioni giuridiche preesistenti. Un provvedimento che si limitasse a confermare o a dare esecuzione a un atto precedente non potrebbe essere suscettibile di ricorso, a meno che non sia intervenuto un fatto nuovo che abbia modificata la situazione presupposta dall’atto precedente. Ciò in conformità al principio secondo cui il ricorso di annullamento è ammesso solo contro gli atti che presentano carattere di novità rispetto a precedenti provvedimenti (v. ad es. Corte giust. 16 dicembre 1960, 41/59 e 50/59, Hamborner Bergbau AG e a. c. Alta Autorità, 921; 17 novembre 1965, 20/65, Collotti c. Corte di giustizia, 874; 14 dicembre 1965, 47/65, Kalkuhl c. Parlamento, 1217; 27 settembre 1988, 114/86, Regno Unito c. Commissione, 5289; 5 maggio 1998, C-180/96, Regno Unito c. Commissione, I-2265; e, più di recente, Commissione c. Total e Elf Aquitaine, cit.). L’impugnativa della comunicazione di un provvedimento già adottato è quindi possibile solo ove tale comunicazione costituisca l’unico mezzo attraverso il quale la parte ricorrente ha avuto conoscenza del provvedimento (12 luglio 1957, 7/56 e da 3/57 a 7/57, Algera e a. c. Assemblée commune, 81). Il ricorso è altresì ammesso ove si impugni la comunicazione di un futuro provvedimento dell’istituzione e questo intervenga in corso di causa a conferma di detta comunicazione (12 febbraio 1960, 15/59 e 29/59, Société metallurgique de Knutange c. Alta Autorità, 11). Non può invece considerarsi misura confermativa l’applicazione di un atto generale ad un caso concreto: in tal caso si ha un provvedimento autonomamente impugnabile (sentenza S.N.U.P.A.T., cit.). Ma l’atto generale non per questo sfugge ad ogni controllo, perché in tal caso assume rilievo, come vedremo più avanti, la possibilità di un controllo giurisdizionale in via incidentale.
5. I vizi degli atti. In generale. In ossequio al più volte ricordato principio di legalità, gli atti dell’Unione devono essere conformi alle norme contenute nei Trattati o negli atti di applicazione degli stessi. La violazione di tali norme determina l’invalidità del provvedimento e la possibilità di far funzionare i rimedi all’uopo predisposti. Fra questi ha preminente rilievo per l’appunto l’annullamento dell’atto in via giurisdizionale, il quale, se non costituisce l’unica sanzione del provvedimento invalido (l’atto potendo essere altresì disapplicato in via incidentale o revocato dalla stessa istituzione che lo ha emanato: v. parr. 11 e 12), si presenta senz’altro come la più radicale reazione all’eventuale
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esercizio illegale delle proprie funzioni da parte delle istituzioni dell’Unione. L’annullabilità opera in presenza dei vizi che inficiano la validità degli atti ed è espressamente prevista dai Trattati. È da ritenere, tuttavia, che abbia cittadinanza nel sistema dell’Unione anche la teoria dell’inesistenza (o nullità assoluta) degli atti delle istituzioni, ove questi risultino inficiati da vizi tanto gravi da travolgerne la stessa «esistenza giuridica». Si tratta peraltro, come ha notato la stessa Corte, di un’ipotesi del tutto eccezionale e da valutare con estrema cautela. V. Corte giust. 15 giugno 1994, C-137/92 P, Commissione c. BASF e a., I-2555, in cui si legge che, sebbene «gli atti delle istituzioni comunitarie si presumono, in linea di principio, legittimi e producono pertanto effetti giuridici, anche se sono viziati da irregolarità, finché non siano stati annullati o revocati», tuttavia, «in deroga a questo principio, gli atti viziati da un’irregolarità la cui gravità sia così evidente che non può essere tollerata dall’ordinamento giuridico comunitario non possono vedersi riconosciuto alcun effetto giuridico, devono cioè essere considerati giuridicamente inesistenti»; e che «[l]a gravità delle conseguenze che si ricollegano all’accertamento dell’inesistenza di un atto delle istituzioni comunitarie esige che, per ragioni di certezza del diritto, l’inesistenza venga constatata soltanto in casi del tutto estremi» (punti 48-50).
Anche nel sistema dell’Unione i difetti dell’atto non rilevano direttamente, ma in quanto si presentino con una determinata veste. Ed è, in effetti, lo stesso Trattato a disegnare tale veste, elencando quali cause d’invalidità dell’atto quattro figure di vizi, che possono tradursi in altrettanti motivi di ricorso da parte dei soggetti interessati o, per quelli qualificabili, come vedremo, di ordine pubblico, di accertamento d’ufficio da parte della Corte dell’invalidità dell’atto. Esse coprono nella loro reale portata tutti i difetti suscettibili di inficiare la legittimità dell’atto: l’incompetenza, la violazione di forme essenziali, la violazione del Trattato e lo sviamento di potere. Si tratta, com’è facile intendere, di una classificazione ampiamente mutuata da quella classica del «recours pour excès de pouvoir» del diritto amministrativo francese, qual è stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza del Conseil d’Etat. Tuttavia, considerati complessivamente, i difetti dell’atto che questa classificazione individua trovano in qualche modo un sostanziale riscontro anche nei diritti interni di altri paesi dell’Unione e costituiscono, per molti versi, l’espressione di una valutazione fondamentalmente unitaria dei vizi che possono inficiare un atto amministrativo. Sicché può dirsi, con una certa approssimazione, che nel sistema dell’Unione l’annullamento colpisce un atto nelle stesse ipotesi in cui ciò avverrebbe per gli atti amministrativi negli Stati membri di tradizione continentale. Ciò detto, va comunque sottolineato che anche in questo caso, la prassi della Corte ha privilegiato una valutazione dei vari vizi alla luce dei caratteri propri del sistema dell’Unione, limitandosi ad un richiamo solo indiretto e implicito ai diritti nazionali ed evitando quindi ogni tentativo di confronto e di selezione fra gli stessi. Nonostante insomma le sollecitazioni della dottrina e le indagini di diritto comparato talvolta condotte dagli AG, si cercherebbe invano nella giurisprudenza della Corte un’esplicita utilizzazione o un formale riferimento ai sistemi giuridici degli Stati membri, o anche solo una loro comparazione tendente a enucleare principi unitari. Ma soprattutto la Corte sembra avere eliminato la necessità stessa di tali riferimenti, dato che ha evitato di procedere a una diretta e compiuta definizione di quei motivi
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di ricorso, risolvendo generalmente con pronunce di specie le questioni prospettate. D’altra parte, è anche vero che, se non sempre è agevole la distinzione fra i singoli motivi di ricorso, i quali anzi spesso interferiscono reciprocamente, ciò non provoca conseguenze di rilievo, dato che essi determinano sostanzialmente le medesime conseguenze ai fini dell’annullamento di un atto.
6. Segue: I singoli vizi Ciò premesso, possiamo ora procedere all’esame dei singoli vizi di cui si è detto. i) Non occorre spendere molte parole sul vizio d’incompetenza, dato che esso non si discosta nella sua configurazione complessiva dall’analogo vizio ben noto agli ordinamenti nazionali. Il vizio in parola ricorre, com’è noto, allorché un atto eccede (ratione temporis, materiae, personarum o loci) i poteri conferiti all’autorità che lo ha posto in essere. Nell’ambito dell’Unione, ciò può tradursi nell’invasione delle attribuzioni di un’altra istituzione (e ciò anche nel caso in cui l’organo agente trascenda i poteri conferitigli da un altro organo per l’esecuzione di un atto generale di quest’ultimo) o addirittura nella fuoruscita dalle competenze dell’Unione (sempre che in tal caso non si configuri addirittura un’ipotesi d’inesistenza dell’atto). Tali essendone le possibili manifestazioni, si comprende perché anche nel sistema dell’Unione, l’incompetenza costituisca un vizio molto grave, rilevabile d’ufficio in quanto motivo di ordine pubblico, e invocabile in qualsiasi momento del procedimento. Sebbene possa rivendicare senz’altro la propria autonomia, tanto per il dato formale della sua espressa e distinta previsione, quanto per il carattere «estrinseco e pregiudiziale» del relativo esame rispetto a quello sulla violazione del Trattato, resta il fatto che anche nel diritto dell’Unione, come negli ordinamenti interni, l’incompetenza non appare chiaramente caratterizzata rispetto agli altri mezzi di impugnazione e in particolare viene spesso considerata come una figura particolare del vizio di violazione di norme giuridiche. ii) Anche il vizio di violazione di forme sostanziali, non appare del tutto definito nei suoi contorni e non sempre è tenuto distinto da quello di violazione del Trattato e di sviamento di potere. Ma la principale difficoltà che esso solleva deriva dal fatto che, sebbene vi ricadano i vizi degli atti che investono le «forme sostanziali», si cercherebbe invano nei testi una definizione di tale nozione. È ben vero che gli stessi testi prescrivono alcuni requisiti di forma necessari alla valida emanazione dell’atto, ma si tratta di previsioni isolate, le quali, per di più, non eliminano ogni dubbio circa l’essenzialità dei requisiti che prescrivono. D’altro canto, nel sistema dell’Unione, come conferma una costante e inequivoca giurisprudenza (v. per tutte, già la sentenza 31 marzo 1965, 21/64, Macchiorlati Dalmas e Figli c. Alta Autorità, 222), proprio per evitare intralci non strettamente necessari all’azione delle istituzioni, vige il principio della libertà delle forme degli atti. Come si è visto più sopra, ad esempio, è irrilevante la veste esterna che l’atto assume, essendo invece essenziale l’individuazione dei requisiti sostanziali che ne caratterizzano la natura e il tipo.
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Ne consegue allora che la qualificazione come «sostanziali» delle poche prescrizioni formali previste dai Trattati va operata con cautela e in termini restrittivi, tenuto conto appunto del generale orientamento antiformalistico del sistema. In particolare, è da ritenere che, ai fini di quella qualificazione, assuma rilievo soprattutto l’incidenza delle forme sulla sostanza del provvedimento finale, vale a dire la loro idoneità a condizionarne l’esistenza, il contenuto e l’efficacia giuridica. E ciò specie in considerazione del fatto che, come nei diritti interni, la prescrizione di determinate forme mira, da un lato, ad assicurare il rispetto delle esigenze di tutela dei soggetti, dall’altro a predisporre determinate garanzie di «serietà» e «attendibilità» dei provvedimenti. Ciò sembra confermato anche dalle rare previsioni normative che vengono in rilievo in questa materia. Esse attengono da un lato alla procedura di formazione degli atti, dall’altro ai requisiti intrinseci degli stessi. Le prime concernono quei casi – peraltro fra loro assai eterogenei, in quanto rispondenti a finalità diverse – in cui è imposta dai Trattati la consultazione (o, talvolta, l’iniziativa) di persone fisiche o giuridiche, degli Stati o di altri organi dell’Unione ai fini dell’emanazione di un provvedimento. Per quanto riguarda proprio quest’ultima ipotesi e, in particolare, l’adozione di atti che vedono la partecipazione di più istituzioni, risulta dai testi che l’atto non può considerarsi validamente emanato quando non vi sia stata la prescritta consultazione o iniziativa dell’altro organo, ovvero quando il parere o la proposta siano stati disattesi senza il rispetto delle formalità imposte. Proprio per consentire la verifica dell’avvenuto rispetto di un simile obbligo, il Trattato richiede che gli atti facciano «riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste o pareri» previsti dai Trattati (art. 296, comma 2, TFUE), restando inteso ovviamente che, in caso di contestazioni, spetta alla Corte accertare l’«effettiva osservanza» di detto obbligo (v., ad es., di recente, con riguardo alla consultazione del Parlamento Europeo, sentenze 24 giugno 2014, C-658/11, Parlamento c. Consiglio; 18 dicembre 2014, C-81/13, Regno Unito c. Consiglio; 23 dicembre 2015, C-595/14, Parlamento c. Consiglio; 14 giugno 2016, C-263/14, Parlamento c. Consiglio; 23 dicembre 2016, C-595/14, Parlamento c. Consiglio). Altri casi di violazione di forme nell’ambito dell’ipotesi in esame potrebbero, poi, riguardare l’irregolare costituzione dell’organo consultato, l’inosservanza da parte dello stesso delle norme in materia di votazione, ecc. Quanto invece ai vizi che attengono ai requisiti formali intrinseci all’atto, si considerano solitamente rilevanti in proposito – benché non tutti sembrino integrare ipotesi di violazione di «forme sostanziali» – quelli che investono la composizione dell’organo, le modalità di votazione e i quorum necessari, il rispetto delle norme relative al suo funzionamento (regolamenti interni), la scelta della base giuridica dell’atto, la sua pubblicazione o notificazione, il relativo regime linguistico, ecc. Rilievo assolutamente preminente assumono però a questo riguardo i vizi relativi al rispetto dell’obbligo di motivazione che i testi prescrivono per gli atti dell’Unione, obbligo la cui eventuale violazione è considerata così grave da poter essere rilevata anche d’ufficio, come motivo di ordine pubblico (v. ancora art. 296, comma 2, TFUE, nonché supra, p. 168 ss.). In effetti, anche nel sistema dell’Unione la motivazione degli atti costituisce uno strumento essenziale per la garanzia dei soggetti e mira a consentire il
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controllo giurisdizionale su quegli atti. Come ha chiarito la stessa Corte, l’obbligo di motivare imposto alle istituzioni «non trae origine da considerazioni di pura forma, bensì ha lo scopo di dare la possibilità alle parti di tutelare i loro diritti, alla Corte di esercitare il controllo giurisdizionale, ed agli Stati membri, come a qualsiasi altro interessato, di sapere come [l’istituzione] abbia applicato il Trattato». Sicché non è tanto importante l’aspetto strettamente formale della motivazione, quanto la sua idoneità a raggiungere gli scopi per i quali è richiesta, e in particolare, ripetiamo, quello di permettere agli interessati di conoscere le ragioni del provvedimento adottato e, al tempo stesso, di consentire il controllo giurisdizionale. Ciò avverrà, per dirla ancora con la Corte, qualora l’atto «enunci, in modo sia pure sommario, purché chiaro e pertinente, i principali punti di diritto e di fatto sui quali è basat[o] e che sono necessari per rendere comprensibile l’iter logico seguito» dall’organo che lo ha adottato. V., in una giurisprudenza assolutamente univoca, già Corte giust. 4 luglio 1963, 24/62, Germania c. Commissione, 129; nonché 9 settembre 2004, C-304/01, Spagna c. Commissione, I-7655, in cui però opportunamente si precisa che la «motivazione non deve necessariamente specificare tutti gli elementi di fatto e di diritto pertinenti. Infatti l’accertamento della circostanza se la motivazione di un atto soddisfi o meno i requisiti dell’art. 253 [TCE; ora art. 296 TFUE] va effettuato alla luce non solo del suo tenore, ma anche del suo contesto e del complesso delle norme giuridiche che disciplinano la materia in questione» (punto 50).
iii) Con il terzo motivo di ricorso, la violazione dei Trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla sua applicazione, si passa a quei vizi che attengono non già alla veste esterna degli atti, bensì alla loro sostanza, ovvero, come si suol dire, alla loro «legalità interna», e come tali quindi suscettibili di provocare un riesame del contenuto materiale di quegli atti da parte della Corte. Anche il vizio in esame non si presta agevolmente a una completa e soddisfacente definizione, né a una netta distinzione dagli altri, dato che i testi si limitano in definitiva a designarlo secondo la terminologia più diffusa, senza specificare ulteriormente. In linea molto generale, si può dire che tale vizio tende a racchiudere tutti i difetti che attengono alla legittimità di un atto, al punto da poter essere invocato pressoché ad ogni occasione, anche in relazione a difetti che difficilmente potrebbero ricondursi alla nozione di violazione di norme giuridiche. Nel suo significato tecnico, invece, esso viene delimitato per lo più in via d’esclusione rispetto agli altri più specifici vizi. Sicché, mentre, da un lato, esso occupa lo spazio lasciato da questi ultimi, dall’altro, per la sua tendenziale onnicomprensività, si presta anche ad assorbirli o comunque tende con essi a confondersi. Alla luce della prassi, giurisprudenziale e non, si può dire che nel sistema dell’Unione il vizio di cui si discute riguarda i più numerosi e i più frequenti difetti degli atti e, in particolare, tanto quelli derivanti dalla mancata o inesatta applicazione di una norma, quanto quelli concernenti la valutazione della fattispecie concreta cui essa è stata applicata. Accertare l’esistenza di una violazione del Trattato significa quindi, nei casi più complessi, superare la mera verifica formale della conformità dell’atto alla regola di diritto ed esaminare i presupposti di fatto che hanno determinato l’adozione dell’atto medesimo, nonché le valutazioni operate sulla base di quei
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presupposti dall’organo agente. La qual cosa appare di evidente importanza, ove si consideri che le istituzioni dell’Unione godono di un largo margine di discrezionalità nella realizzazione dei loro compiti, sicché il sindacato della Corte può tradursi nell’esercizio di un penetrante controllo sull’azione di quegli organi, ivi compresi di quelli di natura più squisitamente politica. Sul potere della Corte di sindacare l’esercizio del potere discrezionale delle istituzioni convenute in giudizio v., fra le altre, sentenze 15 giugno 1993, C-225/91, Matra c. Commissione, I-3203; 12 dicembre 2002, C-456/00, Francia c. Commissione, I-11949; 23 febbraio 2006, C-346/03 e C529/03, Atzeni e a., I-1875; 6 settembre 2006, C-88/03, Portogallo c. Commissione, I-7115, nonché più di recente, 9 marzo 2017, C-105/16 P, Polonia c. Commissione.
Tali essendo, nelle loro linee generali, i caratteri del vizio in esame, si comprende agevolmente la sua importanza e la complessa problematica che esso solleva. Ma esso merita considerazione anche per l’interesse che suscita l’espressione «violazione dei Trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione». Tale espressione conferma, infatti, esplicitamente, ove mai ve ne fosse stato bisogno, che ai fini della valutazione della legalità di un atto non vengono in rilievo soltanto i trattati istitutivi, ma anche altre norme giuridiche, siano esse scritte o non, e in particolare: gli atti delle istituzioni, inclusi gli accordi stipulati dall’Unione (v. Corte giust. 16 giugno 1998, C-162/96, Racke, I-3655), nonché i principi generali di diritto, siano essi comuni agli Stati membri o propri del sistema dell’Unione, e siano essi individuati in astratto o sulla base dei richiami alle pertinenti dichiarazioni e convenzioni internazionali o attraverso la giurisprudenza della Corte. Al riguardo, un posto di particolare rilievo assume ormai la Carta dei diritti fondamentali, che, come più volte ricordato, è oggi vincolante per le istituzioni dell’Unione. V. supra, p. 147. La Corte ha di recente riconosciuto la responsabilità aquiliana dell’Unione per violazione del principio della durata ragionevole del processo di cui all’art. 47 Carta dir. fond. (v. Corte giust. 26 novembre 2013, C-40/12 P, Gascogne Sack Deutschland c. Commissione, C50/12 P, Kendrion c. Commissione, e C-58/12 P, Groupe Gascogne c. Commissione); e ora sono in corso processi per tale risarcimento (v. infra, p. 318). Sulla base di violazioni della Carta, la Corte ha già provveduto ad annullare atti dell’Unione: v., ad es., sentenze 9 novembre 2010, C-92/09 e C-93/09, Volker und Markus Schecke e Eifert, I-11063; 1° marzo 2011, C-236/09, Association belge des Consommateurs Test-Achats e a., I-773 e 8 aprile 2014, C-293/12 e C-594/12, Digital Rights Ireland e a.
Quanto infine alla valutazione della legalità di un atto in rapporto a un altro, una chiara gerarchia tra le fonti di diritto derivato emerge ora, dopo il Trattato di Lisbona, solo tra gli atti legislativi e gli altri (art. 289 TFUE), specie per quanto riguarda il rispetto della delega che gli stessi possono conferire alla Commissione (art. 290 TFUE, nonché supra, p. 212 ss.). Per il resto, rilevano al riguardo i tradizionali principi della prevalenza della legge posteriore sulla precedente, della legge speciale su quella generale, dell’atto generale rispetto a quello di esecuzione dello stesso, ecc. iv) Per quanto attiene infine al vizio di sviamento di potere, va anzitutto ricordato che, specie agli albori del processo d’integrazione, esso è stato, molto più di quelli
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finora esaminati, ampiamente analizzato dalla dottrina, che ne ha fatto oggetto di attento studio, anche sul piano comparativistico. Ciò soprattutto in ragione della particolare disciplina dettata per i ricorsi ora in esame dall’art. 33 TCECA, il quale ricollegava all’invocazione di quel vizio due importanti conseguenze: la possibilità che le imprese impugnassero anche un atto di portata generale e l’estensione del sindacato della Corte alla valutazione delle circostanze di fatto operata dall’istituzione convenuta (allora, l’Alta Autorità) nel provvedimento impugnato. Non avendo però i successivi Trattati riproposto la medesima disciplina, il vizio in esame non suscita più la medesima attenzione né nella dottrina né nella prassi. Già piuttosto rari, i casi di annullamento di un atto in nome specificamente del vizio di sviamento di potere si sono ulteriormente ridotti nel tempo (v. ad es. sentenze 29 settembre 1987, 351/85 e 360/85, Fabrique de fer de Charleroi c. Commissione, 3639; 21 giugno 1988, 32/87, 52/87 e 57/87, ISA c. Commissione, 3305; 14 luglio 1988, 33/86, 44/86, 110/86, 226/86 e 285/86, Stahlwerke Peine-Salzgitter e a. c. Commissione, 4309).
Non si può dire comunque che l’elaborazione di cui è stata oggetto in passato abbia consentito di delineare la nozione di sviamento di potere in modo chiaro e definitivo. Il processo di chiarificazione che sembrava possibile avviare sulla base di una generale, benché non unanime, concordanza di vedute nella dottrina intorno a taluni aspetti di fondo del vizio in esame, è stato, in effetti, ostacolato da un insieme di motivi di varia natura, tra i quali vanno in particolare ricordate non solo le divergenze che sussistono in questa materia tra i diritti interni degli Stati membri, ma anche la segnalata disciplina del TCECA, che in qualche modo ha condizionato la configurazione giurisprudenziale del vizio. Per ovvi motivi, infatti, quella disciplina ha spinto i ricorrenti privati a invocare lo sviamento di potere ad ogni piè sospinto e, per converso, la Corte a intraprenderne l’esame con una certa generosità ai fini della ricevibilità del ricorso, senza preoccuparsi eccessivamente, cioè, di contestare in limine – se non nei casi più evidenti – la possibilità di ricondurre i motivi di impugnazione nel quadro dello sviamento di potere, salvo poi a dichiarare, nel merito, non sufficientemente provato o inesistente il vizio.
A parte ciò, comunque, si deve osservare che anche in questo caso la Corte ha preferito evitare definizioni di carattere generale e procedere piuttosto in modo pragmatico. Il che certamente non ha giovato alla chiarificazione di una nozione che tradizionalmente si presenta come una di quelle tipiche creazioni giurisprudenziali, in continua evoluzione, che abbisognano appunto dell’apposito lavorio dei giudici che ne definisca i contorni e ne delimiti la funzione in relazione ai caratteri di uno specifico ordinamento. E tuttavia deve ritenersi che l’atteggiamento della Corte non sia stato casuale, ma dettato piuttosto dall’intento di non vincolarsi a rigide definizioni per adattare la nozione alle caratteristiche proprie del sistema in cui essa opera, alla particolare natura dei poteri attribuiti alle istituzioni dell’Unione e alle finalità in vista delle quali è sancita tale attribuzione, nonché alle esigenze della tutela giurisdizionale dei soggetti. Tutto ciò premesso, va osservato che, di norma, si considera «sviato» il potere esercitato per un fine diverso da quello in vista del quale esso era stato attribuito.
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Secondo la giurisprudenza della Corte, costituisce uno sviamento di potere «l’adozione, da parte di un’istituzione comunitaria, di un atto allo scopo esclusivo, o quanto meno determinante, di raggiungere fini diversi da quelli dichiarati o di eludere una procedura appositamente prevista dal Trattato per far fronte alle circostanze del caso di specie» (così sentenza 13 luglio 1995, C-156/93, Parlamento c. Commissione, I-2019, punto 31). L’atto è conforme al dettato normativo quanto alla competenza dell’organo, alla forma, ai singoli elementi costitutivi, agli aspetti procedurali. Pur tuttavia esso contrasta con i fini perseguiti dalla norma sulla base della quale è stato emanato, dato che l’organo agente, intenzionalmente – o, secondo taluni, anche per errore – ne ha fatto un’applicazione diversa da quella voluta dalla norma medesima e contrastante con i principi che dovevano ispirare, in generale o in concreto, la sua azione; di talché, pur nel formale rispetto di quella norma, si adotta un atto che ne contraddice gli scopi, in quanto ispirato – ma qui le opinioni divergono – a considerazioni illecite o soltanto scorrette o comunque inadeguate al caso di specie. L’accento è quindi posto soprattutto sui «motivi» che hanno guidato l’organo nell’esercizio dei suoi poteri, attraverso la ricerca dell’elemento subiettivo, delle «intenzioni» di chi ha posto in essere l’atto. All’occorrenza, peraltro, la Corte può estendere l’ambito dell’indagine esaminando altresì gli aspetti «obiettivi» dell’atto; ma ciò, riteniamo, non tanto perché detti aspetti possano integrare di per sé uno sviamento di potere, quanto piuttosto perché essi si prestano ad offrire indizi significativi per rilevare una «deviazione» dell’organo dal quadro degli obiettivi che la norma lo autorizzava a perseguire. Il fatto comunque che la Corte ponga l’accento sul «fine perseguito», sullo «scopo voluto» dall’organo, sembra confermare il suo orientamento di fondo favorevole alla nozione «subiettiva» del vizio in esame. V. Corte giust. 15 maggio 2008, C-442/04, Spagna c. Consiglio, I-3517, in cui la Corte ha stabilito che «un atto è viziato da sviamento di potere solo se, in base ad indizi oggettivi, pertinenti e concordanti, risulta adottato allo scopo esclusivo, o quanto meno determinante, di raggiungere fini diversi da quelli dichiarati o di eludere una procedura appositamente prevista dal Trattato CE per far fronte alle circostanze del caso di specie» (punto 42 e giurisprudenza citata); ed ancora, più di recente, v. sentenza 14 dicembre 2013, C-121/10, Commissione c. Consiglio; 5 maggio 2015, C-146/13, Spagna c. Parlamento e Consiglio.
Resta ad ogni modo il fatto che, allargandone l’esame, consentendo di provarlo con la massima ampiezza, ricostruendo lo «sviamento» anche attraverso gli indicati fattori «obiettivi», la Corte ha finito col dare al vizio un contenuto più ampio rispetto alla nozione classica, rendendolo così più funzionale a quelle esigenze di tutela giurisdizionale che costituiscono in assoluto la sua prioritaria preoccupazione. In questo modo, e proprio in relazione a tali esigenze, vengono a sfumarsi talune questioni che pur si presterebbero, in astratto, a contrastanti soluzioni. Così accade, ad esempio, per quanto concerne la distinzione fra il vizio di violazione del Trattato e quello di sviamento di potere, distinzione che, nei suoi aspetti meno sicuri, non viene risolta dalla Corte in termini rigidi, giacché, avendo essa esteso nel modo indicato la nozione di sviamento di potere, diviene possibile valutare taluni difetti degli atti ai fini di entrambi i vizi, accentuando l’uno o l’altro aspetto in relazione alle specifiche esigenze rilevanti. Analogamente, il fatto che taluni difetti propri degli atti c.d. vin-
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colati rilevino anche ai fini dello sviamento di potere, consente qualche opportuna eccezione alla tesi, peraltro a nostro avviso esatta, secondo cui di sviamento di potere può parlarsi solo in presenza di un potere discrezionale. Va vieppiù ricordato che non tutti i possibili motivi che legittimano l’azione dell’organo devono essere perseguiti allo stesso modo o nello stesso tempo; non solo, ma neppure l’eventuale presenza di un motivo illegittimo inficia la validità dell’atto, ove ciò non impedisca di perseguirne lo scopo essenziale (v. sentenza 21 dicembre 1954, 1/54, Francia c. Alta Autorità, 7).
7. La legittimazione attiva: i) delle istituzioni; ii) degli Stati membri Il controllo di legittimità sugli atti delle istituzioni non è esercitato d’ufficio dalla Corte, ma deve essere attivato con la presentazione di un apposito ricorso. A tal fine sono legittimati ad agire le istituzioni dell’Unione, gli Stati membri e i soggetti di diritto interno, ai quali, su diversi presupposti e per differenti ragioni, è consentito sollecitare l’intervento della Corte. i) Poche osservazioni merita la legittimazione attiva delle istituzioni. Essa, come già si disse, è una conseguenza dell’articolata struttura dell’Unione e del delicato equilibrio di poteri realizzato tra i suoi organi. Il ricorso di questi ultimi si situa, infatti, proprio sul piano dei rapporti inter-istituzionali e costituisce uno dei mezzi più incisivi per assicurare il rispetto delle competenze di ciascuno. Ciò spiega altresì il carattere «pieno» e «obbiettivo» del ricorso medesimo, il fatto cioè che da un lato nessuna specifica limitazione sia a esso posta dai testi quanto agli atti impugnabili e ai motivi di impugnazione, dall’altro che la sua ricevibilità non sia condizionata alla sussistenza di un interesse ad agire in capo all’organo ricorrente (v., ex multis, Corte giust. 21 gennaio 2003, C-378/00, Commissione c. Parlamento e Consiglio, I-937). In effetti, tale interesse viene qui presunto sul presupposto che le istituzioni, al pari di quanto subito vedremo per quegli altri «ricorrenti privilegiati» che sono gli Stati membri, agiscono per definizione in funzione della tutela dell’ordinamento. Per le prime, anzi, la presunzione è ancor più forte, posto che esse non sono titolari di interessi distinti da quelli dell’Unione, alla quale le lega un rapporto di immedesimazione. Quanto alla determinazione delle istituzioni legittimate a proporre un ricorso d’annullamento, va segnalato che la disciplina della materia ha subito un’evoluzione significativa. Inizialmente, infatti, il diritto di ricorso era concesso solo al Consiglio e alla Commissione, ma la situazione è cambiata a seguito della giurisprudenza della Corte e dell’evoluzione del riparto delle competenze inter-istituzionali. Già la prima aveva esteso la legittimazione attiva al Parlamento europeo in nome del diritto alla tutela giurisdizionale (v. Corte giust. 22 maggio 1990, C-70/88, Parlamento c. Consiglio, I-2041). Successivamente, lo stesso Trattato ha preso atto di tale evoluzione ed oltre a formalizzare la nuova situazione, ha esteso quel diritto alla Corte dei conti, alla BCE e al Comitato delle regioni, sia pur limitatamente alla difesa delle loro prerogative.
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ii) Analoga disciplina è riservata al ricorso degli Stati membri. Come si è appena detto, anche questi ultimi, come le istituzioni, sono «ricorrenti privilegiati», vale a dire che la loro legittimazione attiva è piena e soprattutto che essi non sono tenuti ad allegare la lesione di un interesse materiale per chiedere l’annullamento dell’atto impugnato (Corte giust. Parlamento c. Consiglio, cit.). Il che, ovviamente, non significa ignorare che, di fatto, la loro azione sarà pur sempre volta alla tutela dei loro interessi e che questi non sempre coincidono con quelli dell’Unione; ai fini della ricevibilità del ricorso, però, non rilevano le specifiche considerazioni che lo hanno provocato, ma il fatto che gli Stati membri possano in tal modo contribuire alla tutela della legalità nell’ordinamento che essi stessi hanno creato e al cui funzionamento concorrono in modo decisivo. Anche per questo motivo, la legittimazione ad agire è riservata allo Stato nella sua unità e in particolare alle autorità di governo; essa non spetta quindi ai singoli organi, né alle articolazioni interne dello Stato (regioni, comuni, ecc.). Queste ultime potranno tuttavia ricorrere alla stregua di una persona giuridica ai sensi (ma anche con i limiti) della disposizione relativa ai ricorsi dei privati, di cui passiamo subito ad occuparci (v. ad es. Corte giust. 22 novembre 2001, C-452/98, Nederlandse Antillen c. Consiglio, I-8973; 22 marzo 2007, C-15/06 P, Regione Siciliana c. Commissione, I2591). Lo stesso statuto di ricorrente ordinario è riconosciuto anche agli Stati terzi. Riguardo al ricorso delle articolazioni interne dello Stato, una significativa innovazione è stata introdotta dal Trattato di Lisbona, e in particolare dal Protocollo (n. 2) sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, ad esso allegato, il quale riconosce la legittimazione a proporre un ricorso di annullamento contro un atto legislativo dell’Unione non solo agli Stati membri, ma anche ai parlamenti nazionali o a una delle loro camere, che però devono trasmettere il loro ricorso per il tramite dello Stato. L’azione è consentita per la sola violazione del principio di sussidiarietà, in relazione appunto alle nuove attribuzioni che il Protocollo conferisce ai parlamenti nazionali, in materia d’informazione, consultazione e partecipazione all’attività legislativa dell’Unione. Analogo diritto è riconosciuto al Comitato delle regioni (v. art. 8 di detto Protocollo).
8. Segue: iii) dei soggetti privati iii) Come si è più volte accennato, anche i soggetti di diritto interno (i c.d. «privati» o, nel linguaggio dei testi, «le persone fisiche e giuridiche») possono sollecitare il controllo della Corte sulla legittimità degli atti dell’Unione. Conviene precisare che, ai fini che qui interessano, la nozione di persona giuridica va intesa in senso molto ampio, indipendentemente dalla natura pubblica o privata del soggetto (v. Corte giust. 29 giugno 1993, C-298/89, Gibilterra c. Consiglio, I-3605), e perfino dal possesso della personalità giuridica nel proprio ordinamento (in quanto la nozione di persona giuridica «non coincide necessariamente con quelle proprie dei vari ordinamenti giuridici degli Stati membri»), purché esso abbia autonomia necessaria per agire come entità responsabile nei rapporti giuridici (v. Corte giust. 28 ottobre 1982, 135/81, Groupement des agences de voyages c. Commissione, 3799, punto 10; nonché 11 maggio 1989, 193/87 e 194/87, Maurissen e Union syndicale c. Corte dei conti, 1045). Secondo la Corte, in caso di situazioni eccezionali nelle quali i ricorsi siano stati proposti da parte di organizzazioni prive di personalità giuridica, «le regole di procedura che disciplinano
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la ricevibilità di un ricorso di annullamento devono essere applicate adattandole, nella misura necessaria, alle circostanze del caso di specie». Si tratta, in effetti, «di evitare un formalismo eccessivo che condurrebbe a negare ogni possibilità di agire per l’annullamento anche nel caso in cui l’entità in questione sia stata oggetto di misure restrittive comunitarie» (v. Corte giust. 18 gennaio 2007, C-229/05 P, PKK e KNK c. Consiglio, I-439, punto 114).
È questa indubbiamente, dato il rilievo complessivo dell’ipotesi di giurisdizione in esame, la più importante fra le varie forme dirette di garanzia apprestate dal sistema giurisdizionale dell’Unione per i soggetti in questione e, più in generale, la conferma di quanto sia avanzata la risposta offerta da quel sistema al problema della tutela giurisdizionale degli individui presso istanze internazionali. Né tale osservazione è contraddetta dalla diversa e più restrittiva disciplina predisposta per i ricorsi dei soggetti in parola rispetto a quelli delle istituzioni e degli Stati membri. Invero, i limiti che i primi incontrano, e di cui subito diremo, non discendono da una presunta necessità di armonia con i classici schemi di un diritto «interstatale», come tradizionalmente è (ma meglio sarebbe ormai dire: era) considerato il diritto internazionale, quanto da esigenze corrispondenti a quelle che giustificano le analoghe limitazioni esistenti nei diritti interni degli Stati membri per i ricorsi promossi dai privati contro i pubblici poteri innanzi alle giurisdizioni amministrative. È per questi stessi motivi, infatti, che anche i Trattati hanno escluso ogni idea di «azione popolare» e hanno invece imposto alcune specifiche condizioni per la ricevibilità dei ricorsi di cui ora si discute. Il problema però è che fin dall’inizio tali condizioni sono apparse ai più troppo severe. In effetti, discostandosi in parte anche dalla disciplina più comune ai diritti interni degli Stati membri, il Trattato non si è accontentato di subordinare l’ammissibilità del ricorso dei privati alla condizione che essi possano invocare una lesione attuale e diretta di un interesse giuridicamente tutelato. Esso ha invece imposto ulteriori limitazioni sia quanto alla natura dell’atto impugnato, sia quanto al particolare tipo di rapporto che deve intercorrere fra l’atto stesso e il ricorrente, rendendo così più difficile, ed anzi talvolta addirittura impossibile, l’impugnabilità degli atti dell’Unione aventi portata generale. Vivissimo è stato quindi il dibattito che si è sviluppato riguardo a tali limitazioni, dibattito che con ogni probabilità non sarà spento neppure dalle pur significative innovazioni che sono state introdotte in materia dal Trattato di Lisbona. Anche per questo motivo, conviene fare un rapido cenno alla situazione precedente a quelle innovazioni, tanto più che rispetto ad essa la giurisprudenza della Corte ha definito una serie di importanti principi che in gran parte rilevano altresì per l’interpretazione della nuova disciplina. Nel sistema precedente, com’è ben noto, la disposizione corrispondente all’attuale art. 263 TFUE, vale a dire l’art. 230 TCE, regolava la materia al suo comma 4. In sostanza, si prevedeva che le persone fisiche e giuridiche potevano impugnare: le decisioni prese nei loro confronti; le decisioni che appaiono come regolamenti ma che concernono direttamente e individualmente il ricorrente; ed, infine, le decisioni prese nei confronti di altre persone, ma che del pari concernono il ricorrente direttamente e individualmente.
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Come si vede, un primo limite nasceva già dalla individuazione degli atti impugnabili. La disposizione conferiva, infatti, ai privati una piena ed indiscutibile tutela giurisdizionale solo contro quelli aventi natura di decisioni; laddove tale tutela appariva molto limitata quanto all’impugnativa dei regolamenti e del tutto assente, almeno sulla carta, rispetto alle direttive, oltre che beninteso per le raccomandazioni e i pareri, che anche la disposizione ora in esame espressamente escludeva dal novero degli atti impugnabili. Tali limitazioni, per la verità, non erano casuali, ma riflettevano alcune caratteristiche specifiche del sistema dell’Unione. Rilevava, in effetti, da un lato, il carattere quasi «legislativo» dei regolamenti e quindi la riluttanza ad ammettere ricorsi dei privati volti all’annullamento di un simile tipo di atto; dall’altro, il fatto che spesso il rapporto fra gli organi dell’Unione e i soggetti di diritto interno non è diretto, ma mediato dall’intervento dello Stato: vuoi con le misure nazionali che questo deve talvolta adottare ai fini dell’integrazione del dettato normativo dell’atto dell’Unione (perfino se direttamente applicabile, come nel caso dei regolamenti); vuoi e soprattutto ai fini della trasposizione dell’atto nel proprio ordinamento (come nel caso delle direttive). Con il risultato, quindi, che l’effettiva esigenza di una tutela giurisdizionale diretta dei privati si restringeva a un ambito più specifico, in funzione appunto della natura degli atti realmente suscettibili di recare loro un immediato pregiudizio; mentre acquistavano maggior rilievo, oltre che le procedure promosse contro gli Stati membri, quelle predisposte all’interno di questi ultimi contro gli atti di esecuzione delle norme dell’Unione: procedure che peraltro a loro volta non precludevano, come tuttora non precludono l’intervento della Corte di giustizia in sede di competenza pregiudiziale.
Ma oltre che in relazione alla natura degli atti impugnabili, limiti erano posti anche sotto altri profili. Come si è visto, infatti, ai fini della ricevibilità del ricorso dei privati, non bastava che l’atto rientrasse tra quelli che il ricorrente aveva il diritto di impugnare, occorreva altresì che questi ne fosse «direttamente» e «individualmente» colpito. L’esatto significato di questi due avverbi e quindi la portata delle limitazioni che essi comportavano – e comportano tuttora, anche dopo il Trattato di Lisbona – non è affatto pacifico; ma grazie alla giurisprudenza della Corte, si può oggi dire, molto sinteticamente, che un atto è riferibile «individualmente» a un soggetto quando lo riguarda come singolo, e non invece in quanto inserito in una generalità di soggetti, in un’associazione, in un gruppo, in una categoria. Chi non sia destinatario di una decisione può quindi sostenere che questa lo riguarda «individualmente» soltanto qualora il provvedimento lo tocchi a causa di determinate qualità personali, ovvero di particolari circostanze atte a distinguerlo dalla generalità, e quindi lo identifichi alla stregua dei destinatari. Non è necessario che l’atto incida su interessi esclusivi del ricorrente; occorre però che la posizione di quest’ultimo sia specificamente qualificata, differenziandosi da quella della generalità dei soggetti. Il che non accade se, quanto ai suoi effetti, l’atto colpisce un numero indeterminato, ancorché ristretto, di persone, a meno che non concerna una cerchia precisata, o almeno precisabile, di soggetti. V., in particolare, la nota sentenza 15 luglio 1963, 25/62, Plaumann, 197, i cui principi sono stati ripresi dalla giurisprudenza successiva. L’interpretazione dell’avverbio in questione è stata confermata dalla Corte anche dopo il Trattato di Lisbona e le innovazioni da questo introdotte (v. sentenze 3 ottobre 2013, C-583/11 P, Inuit, Tapiriit Kanatami e a. c. Parlemento e Consiglio; 19 dicembre 2013, C-274/12 P, Telefónica c. Commissione; 27 febbraio 2014, C-132/12 P, Stichting
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Woonpunt, e C-133/12 P, Stichting Woonlinie; 21 dicembre 2016, C-524/14 P, Commissione c. Hansestadt Lübeck.
Un atto riguarda invece «direttamente» il ricorrente quando i suoi effetti in capo a quest’ultimo si realizzano in conseguenza diretta dell’emanazione dell’atto stesso, e quindi indipendentemente dall’intervento di altri soggetti o di altri provvedimenti. Il requisito in esame, com’è chiaro, presenta un particolare rilievo – e anche le maggiori difficoltà – nell’ipotesi di ricorso contro le decisioni aventi un destinatario diverso dal ricorrente (in particolare, uno Stato membro); ed è appunto a tal proposito che ne discuteremo più ampiamente tra poco. Ciò posto, e tornando alle tre ipotesi sopra delineate, va detto subito che la prima di esse non sollevava molti problemi interpretativi. In effetti, nel caso di una decisione (o anche di un atto, comunque qualificato, che presenti nella sostanza la natura e gli effetti di una decisione) «presa nei confronti» del soggetto agente e quindi a esso formalmente indirizzata, i due requisiti appena esaminati possono considerarsi in principio soddisfatti automaticamente. Più complessa si presentava invece l’interpretazione della seconda ipotesi, quella cioè del ricorso delle persone fisiche e giuridiche «contro le decisioni che, pur apparendo come un regolamento [...] riguardano direttamente e individualmente altre persone», e segnatamente il ricorrente. Il caso che tale ipotesi evocava era anzitutto quello dei c.d. regolamenti «mascherati», cioè di atti che formalmente si presentano come un regolamento, ma che in realtà, per portata ed effetti, costituiscono vere e proprie decisioni. Si noti che, secondo la Corte, un atto riveste portata generale quando si applica a situazioni determinate oggettivamente e spiega effetti giuridici nei confronti di categorie di persone considerate in modo astratto (Corte giust. 13 maggio 1971, da 41/70 a 44/70, International Fruit Company e a. c. Commissione, 411; 18 novembre 1975, 100/74, CAM c. Commissione, 1393; 21 novembre 1989, C-244/88, UCDV c. Commissione, 3811). D’altra parte, stando a una risalente giurisprudenza, «la possibilità di determinare più o meno esattamente il numero o anche l’identità dei soggetti ai quali un atto si applica in un dato momento non influisce sulla natura normativa dell’atto stesso, purché sia pacifico che l’applicazione avviene in base ad una situazione obiettiva di diritto o di fatto definita dall’atto in rapporto alla sua finalità» (Corte giust. 16 aprile 1970, 64/69, Cie Française commerciale, 221, punto 11).
Al riguardo, coerentemente con la giurisprudenza, più volte ricordata, che privilegia la sostanza dell’atto rispetto alla sua denominazione, deve ritenersi che fossero impugnabili nell’ipotesi ora in esame gli atti che, quale che ne fosse la veste, producessero effetti diretti ed individuali in capo al ricorrente. In questa prospettiva, non si può escludere che, malgrado la formulazione del brano in esame («pur apparendo»), il ricorso fosse esperibile anche nelle ipotesi, certo assai meno frequenti, in cui un autentico regolamento concernesse, in alcune sue disposizioni, un singolo soggetto e incidesse in maniera immediata sui suoi interessi. In tal caso, invero, il provvedimento conservava la sua natura di regolamento, posto che la singola disposizione ipotizzata non ne modificava i caratteri, anche a voler applicare un rigido criterio sostanziale nella loro definizione; ma in alcune parti e per taluni effetti, esso equivaleva ad una decisione presa nei confronti del soggetto su cui incideva e avrebbe potuto quindi essere da questo impugnato, sempre beninteso che si fosse riusciti a dimostrare che si trattava di un’incidenza diretta e soprattutto individuale.
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Quanto infine all’ipotesi dei ricorsi contro le decisioni che pur essendo emanate nei confronti di altri soggetti, riguardassero «direttamente e individualmente altre persone», essa rifletteva l’evidente necessità di consentire non solo il ricorso dei destinatari formali dell’atto, ma anche quello dei terzi interessati. Su questa ipotesi la Corte ha avuto più volte occasione di pronunciarsi, specie in sede di applicazione delle regole di concorrenza e con riguardo alla tutela dei terzi interessati alle relative procedure, i quali sono considerati individualmente riguardati da una decisione di valutazione dell’aiuto adottata nei confronti di un’impresa concorrente, a condizione che «la loro posizione sul mercato sia sostanzialmente danneggiata dal provvedimento di aiuto che costituisce oggetto della decisione di cui trattasi»: v. Corte giust. 22 novembre 2007, C-260/05 P, Sniace c. Commissione, I-10005, punto 54; nonché già sentenze 28 gennaio 1986, 169/84, Cofaz c. Commissione, 391; 23 maggio 2000, C-106/98 P, Comité d’entreprise de la Société française de production e a. c. Commissione, I-3659; 22 novembre 2007, C-525/04 P, Spagna c. Lenzig, I-9947; 17 settembre 2009, C-519/07, Koninklijke FrieslandCampina; 27 febbraio 2014, C-132/12 P, Stichting Woonpunt, e C-133/12, Stichting Woonlinie. A parte quanto precede, però, l’ipotesi in esame aveva sollevato in passato un ulteriore problema, che riguardava la definizione dell’espressione «altre persone» e in particolare la possibilità di includere tra queste anche gli Stati membri. Alla luce della giurisprudenza della Corte, però, le iniziali esitazioni sono state superate. In nome soprattutto della necessità di non limitare in modo eccessivo la tutela giurisdizionale dei soggetti di diritto interno, la Corte ha precisato che in questi casi un atto dell’Unione rivolto a uno Stato membro possa colpire «direttamente» un soggetto di diritto interno quando alcun ulteriore intervento dello Stato è necessario perché l’atto produca i suoi effetti in capo al ricorrente. Il che può verificarsi, in particolare, quando l’atto impugnato imponga obblighi di non fare ovvero anche obblighi di fare, senza però nulla concedere alla discrezionalità dello Stato. Secondo un consolidato orientamento della Corte, occorre verificare se l’atto impugnato sia immediatamente esecutivo, cioè se ne derivino automaticamente effetti per i privati, o se tra l’uno e gli altri si frapponga l’intervento di un’altra entità – in particolare, gli Stati membri – dotata di potere discrezionale (Corte giust. 23 novembre 1971, 62/70, Bock c. Commissione, 897; 6 marzo 1979, 92/78, Simmenthal c. Commissione, 777; 29 marzo 1979, 113/77, NTN Toyo Bearing e a. c. Consiglio, 1185). Col tempo peraltro la Corte ha seguito un indirizzo interpretativo ancor meno formalistico, giungendo ad affermare che un interessato è toccato direttamente e sostanzialmente quando, benché l’atto delle istituzioni dell’Unione richieda un ulteriore provvedimento di esecuzione da parte delle autorità nazionali, è tuttavia possibile prevedere con certezza o con grande probabilità che – e con quali modalità – il provvedimento di esecuzione toccherà il ricorrente (Corte giust. 17 gennaio 1985, 11/82, Piraiki-Patraiki c. Commissione, 207); o quando la possibilità per il destinatario dell’atto di non conformarvisi è puramente teorica (Corte giust. 5 maggio 1998, C-386/96, Dreyfus c. Commissione, 2309; 29 giugno 2004, C-486/01 P, Front National c. Parlamento, I-6289).
Come già si è ricordato, le segnalate limitazioni poste ai ricorsi dei privati hanno alimentato un vivace dibattito nella dottrina, gran parte della quale ha mosso critiche anche severe a detta disciplina, considerando gravi ed ingiustificate le restrizioni che ne derivavano ai ricorsi dei privati. Ma col tempo i dubbi sono affiorati addirittura nella giurisprudenza dell’Unione, specie per bocca degli AG, per poi trovare ulteriore alimento con l’approvazione, nel dicembre 2000, della Carta dei diritti fondamentali, che sancendo all’art. 47 il «diritto ad un ricorso effettivo», pareva prestarsi a fornire altri argomenti ai critici del descritto sistema, anche se, come già ricordato, la vigenza di un simile principio nell’ordinamento dell’Unione era stata affermata da tempo dalla stessa giurisprudenza della Corte (retro, p. 221 s.).
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Per le conclusioni degli AG, v. quelle dell’AG Slynn, presentate il 6 maggio 1982, nella causa 246/81, Bethell c. Commissione, 2299; dell’AG Jacobs, rese il 21 marzo 1991, nella causa C358/89, Extramet Industrie c. Consiglio, I-2501, e il 15 settembre 1993, nella causa C-188/92, TWD Textilwerke Deggendorf, I-833; nonché quelle dell’AG Ruiz-Jarabo Colomer, rese il 12 settembre 1996, nella causa C-142/95 P, Associazione agricoltori della provincia di Rovigo e a. c. Commissione e a., I-6669.
Nell’immediato però l’innovazione non produsse effetti. Malgrado, infatti, le aperture prima di qualche AG (v. conclusioni Jacobs, il 21 marzo 2002, nella causa C-50/00 P, Unión de Pequeños Agricultores c. Consiglio, conclusasi con sentenza 25 luglio 2002, I-6677) e poi dello stesso TPI (ordinanza 23 novembre 1999, T-173/98, Unión de Pequeños Agricultores c. Consiglio, II-3357), la Corte ritenne di dover ribadire la propria giurisprudenza, osservando che nell’insieme (inclusi in particolare il controllo incidentale di validità degli atti e quello in via pregiudiziale, di cui diremo più avanti) il sistema dei rimedi approntato nell’ambito dell’Unione appariva completo e idoneo a garantire il rispetto del principio di legalità. E ciò specie se si considera, aggiungeva la Corte, che esso deve trovare il suo necessario completamento nelle norme processuali nazionali e che incombe quindi agli Stati membri, in ossequio al principio di leale collaborazione, provvedere in conformità, apprestando le opportune forme di tutela (retro, p. 222 s.). Per parte sua – concludeva la Corte – pur riconoscendo che il principio di una protezione giurisdizionale effettiva deve trovare piena applicazione nel sistema dell’Unione, essa non poteva stravolgere il dato letterale dell’art. 230 TCE. Altra ovviamente avrebbe potuto essere la conclusione – faceva intendere tra le righe la Corte nella sentenza pronunciata proprio mentre era in corso la Convenzione sul futuro dell’Europa destinata a preparare il Trattato costituzionale – se quella disposizione fosse stata modificata in vista di un ampliamento delle condizioni di ricevibilità dei ricorsi dei privati. V. la citata sentenza UPA. Sulla stessa linea, v. la successiva pronuncia del TPI, ordinanza 2 aprile 2004, T-231/02, Gonnelli e AIFO c. Commissione, II-1051; e Corte giust., ordinanza 12 dicembre 2003, C-258/02 P, Bactria c. Commissione, I-15105; 1° aprile 2004, C-263/02 P, Commissione c. Jégo-Quéré, I-3425.
Il segnale era chiaro; ed esso fu, in effetti, raccolto dalla Convenzione, anche se dopo un dibattito assai vivace e segnato da una gran varietà di proposte, e quindi trasfuso nel Trattato costituzionale con una modifica poi ripresa dall’art. 263, comma 4, TFUE. Come si è visto, infatti, secondo la nuova disciplina, una persona fisica o giuridica può ora proporre un ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente e individualmente, e contro gli «atti regolamentari che la riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura d’esecuzione». Venendo a un apprezzamento di tali innovazioni, si può anzitutto notare che, rispetto all’art. 230 TCE, la prima parte dell’art. 264, comma 4, TFUE abbandona il sistema dell’indicazione limitativa degli atti tipici impugnabili, allargandone la gamma al di là delle «decisioni» e dei «regolamenti». Tali atti però sono impugnabili, ancora una volta, solo se presi nei confronti del ricorrente o, in caso diverso, se lo riguardino direttamente e individualmente; e ciò a qualsiasi titolo, senza quindi che
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occorra, in tale eventualità, che essi «appaiano» come un regolamento o come una decisione «presa nei confronti di altre persone». Ma l’aspetto più interessante e innovativo della disposizione è certamente l’ultima ipotesi, quella dei ricorsi contro gli «atti regolamentari». Per impugnare questi atti, infatti, non occorre più soddisfare una delle condizioni più limitative (e controverse) della precedente disciplina, non occorre cioè che l’atto abbia colpito «individualmente» il ricorrente; si esige solo che esso lo riguardi direttamente (e si è già visto cosa significhi tale condizione) e non comporti misure di esecuzione. In effetti, se tali misure sono previste, il privato potrà tutelarsi impugnandole direttamente, secondo che esse competano all’Unione o agli Stati membri, innanzi ai giudici dell’una o degli altri, e per questa via potrà mettere in causa anche l’atto regolamentare: nel primo caso, attraverso l’eccezione di illegalità prevista dall’art. 277 TFUE (infra, p. 309 s.); nel secondo caso, sollecitando il giudice nazionale a sottoporne la validità alla Corte di giustizia attraverso la procedura pregiudiziale (infra, p. 325 ss.). Se invece non occorrono misure di esecuzione, e sempre beninteso se l’atto impugnato lo riguarda direttamente, egli non dovrà più dimostrare anche di esserne stato colpito in modo «individuale». Come risulta chiaro da quanto precede, ai fini della nuova disciplina un rilievo fondamentale assume la definizione di «atto regolamentare», definizione peraltro tutt’altro che scontata, visto che i Trattati non prevedono tale tipo di atto, ma parlano solo di regolamenti, direttive o decisioni (oltre che di raccomandazioni o pareri) e operano tra gli stessi un’unica a distinzione: quella tra «atti legislativi» e non, i primi essendo identificati non già sulla base della loro natura, ma della specifica procedura (appunto legislativa) di adozione (artt. 288-291 TFUE). Si poneva dunque la questione di sapere se tra gli «atti regolamentari» di cui all’art. 264, comma 4, TFUE, dovessero rientrare tutti gli atti di portata generale o se da essi dovessero ritenersi esclusi quelli che i Trattati identificano, sulla base appena indicata, come «atti legislativi». Essendo stata sottoposta ai giudici dell’Unione poco dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la questione è stata risolta nell’arco di poco tempo e nel senso della seconda alternativa. Un ricorso di annullamento ex art. 263, comma 4, TFUE, fu infatti presentato al Tribunale già l’11 gennaio 2010, e fu deciso con ordinanza 6 settembre 2011, T-18/10, Inuit Tapiriit Kanatami e a. c. Parlamento e Consiglio, II-5599, oggetto a sua volta di un’impugnazione sulla quale la Corte si è pronunciata con sentenza 3 ottobre 2013, C-583/11 P Inuit Tapiriit Kanatami e a. c. Parlamento e Consiglio. Sul punto, v. anche sentenza 19 dicembre 2013, C-274/12 P, Telefónica c. Commission; 28 aprile 2015, causa C-456/13, T & L. Sugars; 10 dicembre 2015, C-553/14 P, Kyocera Mita Europe c. Commissione; 10 dicembre 2015, C-552/14 P, Canon Europe c. Commissione.
Procedendo infatti da un’interpretazione di ampio respiro della disposizione, quei giudici hanno sottolineato: che, nell’ambito degli atti dell’Unione che possono formare oggetto di un controllo di legittimità, l’art. 263, comma 1, TFUE menziona separatamente, e tiene quindi distinti, gli «atti legislativi» e gli altri atti oggetto di quel controllo; che a sua volta lo stesso all’art. 263, comma 4, terza parte di frase, TFUE, delinea gli atti regolamentari come una categoria più ristretta rispetto a quella degli «atti» a portata generale di cui all’art. 263, comma 4, prima e seconda parte
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di frase, TFUE, che palesemente identifica tutte le tipologie di atti che possono essere impugnati da persone fisiche e giuridiche; che anche dai lavori preparatori della conferenza intergovernativa sopra ricordata emergeva che il nuovo art. 264, comma 4, TFUE non era destinato a imporre anche la ricevibilità dei ricorsi di annullamento contro gli atti legislativi. Da tale analisi i giudici dell’Unione hanno quindi dedotto che la nozione di «atto regolamentare» ai sensi dell’art. 263, comma 4, TFUE deve essere interpretata nel senso che include qualsiasi atto di portata generale a eccezione degli «atti legislativi». Né si può obiettare, secondo quei giudici, che una simile conclusione inficerebbe il diritto dei privati a un ricorso effettivo, consacrato dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali, e ciò perché, da un lato, quella disposizione non può pretendere di modificare il sistema di controllo giurisdizionale previsto dai Trattati e imporre dunque che al privato sia riconosciuto il diritto di contestare davanti al giudice dell’Unione anche gli atti legislativi; dall’altro, perché i Trattati istituiscono un sistema integrato di rimedi giurisdizionali, che include, come si è detto a suo tempo (supra, p. 222 s.), anche quelli previsti negli Stati membri, a cominciare dalla possibilità di far valere l’invalidità di un atto dell’Unione davanti ai giudici nazionali attraverso una procedura pregiudiziale. Quanto poi alla questione consistente nel verificare se l’atto regolamentare impugnato comporti o meno misure di esecuzione ai sensi di tale disposizione (e quindi, in caso negativo, produca esso stesso direttamente effetti su situazioni giuridiche individuali), la Corte ha avuto di recente occasione di precisare che a tal fine occorre fare riferimento unicamente alla posizione del soggetto ricorrente e quindi all’incidenza della misura nei confronti di quest’ultimo, a nulla rilevando che esso possa comportare misure esecutive nei confronti di altri soggetti (Corte giust. 19 dicembre 2013, C-274/12 P, Telefónica; ma v. anche Corte giust. 28 aprile 2015, C-456/13, T & L. Sugars). Si può dunque dire, in conclusione e riassuntivamente, che secondo la nuova disciplina, per valutare la ricevibilità di un ricorso di una persona fisica e giuridica contro un atto dell’Unione che non sia stato adottato nei suoi confronti, la Corte deve anzitutto accertare se si è in presenza di un «atto regolamentare». Se la risposta è negativa perché si tratta di un «atto legislativo» o di un atto a portata individuale, il ricorrente dovrà dimostrare di essere stato colpito dall’atto direttamente e individualmente. Se invece la risposta è positiva, la Corte deve successivamente verificare se l’atto si indirizza direttamente al ricorrente e non comporta misure di esecuzione. Se è così, il ricorso sarà ricevibile, almeno per quanto riguarda le condizioni ora in esame; in caso diverso, il ricorrente dovrà dimostrare di essere stato colpito dall’atto non solo direttamente, ma anche individualmente.
9. Il ricorso: termini ed effetti Il ricorso di annullamento deve essere presentato entro due mesi a partire dalla pubblicazione dell’atto o dalla notifica dello stesso al proprio destinatario o comunque dal momento in cui il soggetto ne ha avuto conoscenza.
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V., tra le tante, Corte giust. 6 luglio 1988, 236/86, Dillinger Hüttenwerke, 3761. Unica eccezione alla regola dei due mesi dalla pubblicazione dell’atto ha riguardato i nuovi Stati membri, per i quali il termine d’impugnazione degli atti adottati prima dell’adesione è decorso dalla data di quest’ultima, poiché è solo a partire da quel momento che essi hanno acquisito la qualità di ricorrenti privilegiati (Corte giust. 26 giugno 2012, C-335/09 P, Polonia c. Commissione). Ai sensi dell’art. 297 TFUE, gli atti diversi dalle direttive non rivolte a tutti gli Stati membri e dalle decisioni che designano i propri destinatari, vengono pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea ed entrano in vigore alla data da essi stabilita o, in mancanza, nel ventesimo giorno successivo alla loro pubblicazione (ma ora anche dalla loro pubblicazione su Internet: v. Corte giust. 26 settembre 2013, C-625/11 P e C-626/11, Polyelectrolyte Producers Group GEIE – PPG). Alla pubblicazione, quindi, fa riferimento il Trattato per fissare la regola generale sul momento di decorrenza del termine di ricorso. Tuttavia l’art. 50 reg. proc. Corte – con innovazione di dubbio fondamento – dispone che detto termine decorre dalla fine del quattordicesimo giorno successivo a quello della pubblicazione del provvedimento. Per le altre direttive e decisioni è previsto invece che esse siano notificate ai loro destinatari ed esplichino efficacia in virtù di tale notifica (e ciò anche nel caso in cui l’atto sia successivamente pubblicato in Gazzetta: v. sentenza 17 maggio 2017, C-339/16 P, Portogallo c. Commissione). Si considera pubblicato in Gazzetta anche un atto che vi è riprodotto in forma sintetica con rinvio al testo integrale reso accessibile sul sito Internet dell’istituzione (v. per tutte Trib. 15 giugno 2005, T-17/02, Olsen c. Commissione, II2031; 21 novembre 2005, T-426/04, Tramarin c. Commissione, II-4765; 11 marzo 2009, T-354/05, TF1 c. Commissione, II-471). E ancora, per gli organi il cui regolamento interno prevede la sola pubblicazione sul sito Internet, il termine inizia a decorrere proprio dal giorno di tale pubblicazione (Trib. 21 settembre 2011, T-268/11, PPG e SNF c. ECHA, II-6595). Quanto alla notifica individuale, va segnalato che ove essa sia irregolare, il termine d’impugnazione non comincia a decorrere (Corte giust. 14 luglio 1972, 48/69, ICI c. Commissione, 619; 52/69, Geygy AG c. Commissione, 787; 53/69, Sandoz AG c. Commissione, 845). La notifica s’intende regolarmente effettuata quando sussiste la prova che il destinatario, e non un terzo, ha ricevuto una lettera contenente il testo della decisione e la sua motivazione (Corte giust. 21 novembre 1990, C12/90, Infoterc c. Commissione, I-4265; 9 gennaio 1997, C-143/95 P, Commissione c. Socurte e a., I-1).
A tale termine vanno aggiunti i c.d. termini di distanza, vale a dire un termine forfettario di 10 giorni in ragione della distanza dalla sede della Corte (ma il precedente regolamento di procedura della Corte differenziava tale termine in funzione della diversa distanza degli Stati membri rispetto a Lussemburgo). Per il computo del termine non si tiene conto del giorno in cui si verifica il fatto dal quale il termine stesso decorre, mentre il dies ad quem, secondo una regola valida per ogni tipo di ricorso, è calcolato con riferimento alla data di deposito dell’istanza presso la cancelleria della Corte. V. artt. 49-52 reg. proc. Corte e artt. 58-62 reg. proc. Tribunale per tutte le regole sul computo dei termini. Al riguardo si ricorda che il ricorso può essere presentato con il deposito dell’originale presso la cancelleria oppure trasmesso via telefax o qualsiasi altro mezzo telematico. In tale ipotesi, ai fini del calcolo dei termini per il ricorso, si considera la data di tale trasmissione purché l’originale pervenga alle rispettive cancellerie entro i dieci giorni successivi (art. 57, par. 7, reg. proc. Corte, nonché art. 73, par. 3, reg. proc. Tribunale). Qualora, invece, si proceda all’utilizzo dell’applicazione informatica e-Curia, l’atto depositato è considerato come l’originale (art. 3 della dec. della Corte, del 13 settembre 2011, relativa al deposito e alla notifica di atti di procedura mediante l’applicazione e-Curia, GUUE C 289, 7, nonché art. 3 della dec. del Tribunale, del 14 settembre 2011, GUUE C 289, 9).
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Il rispetto del termine di presentazione del ricorso è una regola di ordine pubblico, rilevabile d’ufficio. Essa mira a «garantire la chiarezza e la certezza delle situazioni giuridiche» (Corte giust. 23 gennaio 1997, C-246/95, Coen, I-403). Un ricorso intempestivo è dunque ricevibile solo qualora il ricorrente provi che il mancato rispetto di tale regola è dovuto ad un errore scusabile, ad un caso fortuito o di forza maggiore. Art. 45, comma 2, Statuto Corte. Tali cause giustificative sono interpretate in modo restrittivo dalla giurisprudenza. Quanto alla nozione di forza maggiore o caso fortuito, v. Corte giust. 15 dicembre 1994, C-195/91 P, Bayer c. Commissione, I-5619; 18 gennaio 2005, C-325/03 P, Zuazaga Meabe c. UAMI, I-403. Sull’errore scusabile, cfr. invece Corte giust. 14 gennaio 2010, C-112/09 P, SGAE c. Commissione, I-351; 16 novembre 2010, C-73/10 P, Internazionale Fruchtimport Gesellschaft Weichert c. Commissione, I-11535.
Una volta introdotto il ricorso, la procedura che si svolge innanzi alla Corte per il suo esame segue le regole già esposte in precedenza (p. 251 ss.) fino alla pronuncia della sentenza della Corte. Questa deve intervenire entro un termine ragionevole, ora anche in conformità all’art. 47, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali che sancisce per l’appunto il principio secondo cui un processo deve avere una durata ragionevole. In caso diverso, si avrà la responsabilità extracontrattuale dell’Unione (v. infra, p. 318). Mette conto infine segnalare che la proposizione del ricorso non sospende l’esecuzione dell’atto impugnato, perché anche il diritto dell’Unione, come in genere i diritti interni degli Stati membri, attribuisce una forza obbligatoria assoluta ai provvedimenti delle istituzioni, come logico corollario dell’autoritatività e della presunzione di legittimità degli stessi. Fino al loro annullamento ad opera della Corte, quindi, e salvo l’eventuale revoca da parte delle istituzioni che li hanno emanati, quegli atti esplicano una piena efficacia. La Corte può tuttavia concedere in via provvisoria la sospensione dell’esecuzione dell’atto (come pure ogni altro provvedimento provvisorio che si renda necessario) «quando reputi che le circostanze lo richiedano» (v. i già ricordati artt. 278 e 279 TFUE).
10. Segue: La portata del sindacato della Corte. La competenza di piena giurisdizione In sede di esame dei ricorsi di annullamento degli atti dell’Unione, la Corte esercita, come più volte sottolineato, un controllo di mera legittimità, in conformità alla natura dell’ipotesi di competenza in esame. Ciò significa che le è precluso, con riserva delle eccezioni di cui subito diremo, il sindacato sulle scelte di merito che sono alla base di quegli atti. Naturalmente si parla qui dell’estensione del controllo giurisdizionale in occasione dell’impugnazione di un atto (che spetta di regola al Tribunale), e non del controllo della Corte in sede di impugnazione delle conseguenti sentenze di primo grado, che, come si è detto (p. 253), è limitato ai motivi di diritto, salvo ovviamente quando la Corte si risolve a decidere essa stessa la causa, sostituendosi al Tribunale, perché ritiene di avere tutti gli elementi all’uopo necessari.
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Peraltro, se questa linea di confine è in principio facile da enunciare, ben più difficile è verificarne in concreto il rispetto, visto che l’art. 263 TFUE, come i suoi predecessori, si limita per l’appunto ad affermare che la Corte esercita «un controllo di legittimità» sugli atti impugnati, senza neppure riproporre i tentativi di precisazione fatti a suo tempo al riguardo dal TCECA. Tale Trattato, in effetti, affrontava la questione in termini più articolati, anche perché nel corso del relativo negoziato la stessa era stata assai dibattuta e aveva registrato il contrasto tra quanti facevano valere l’opportunità di non intralciare l’azione dell’Alta Autorità (l’organo, come noto, corrispondente all’attuale Commissione) con un controllo giurisdizionale troppo penetrante che avrebbe portato ad una confusione dei ruoli, e quanti ponevano invece l’accento sulla necessità di non limitare i poteri della Corte, la cui pienezza era necessaria a garantire il rispetto del diritto da parte di quell’organo (v. Rapport de la délégation francaise sur le Traité instituant la CECA, Paris 1951, p. 35 s.). Il Trattato optò, in linea generale, per la prima tesi, perché sottrasse alla Corte «l’appréciation de la situation découlant des faits ou circonstances économiques au vu de laquelle sont intervenues les [...] décisions ou recommandations» dell’Alta Autorità, consentendola però in via d’eccezione in alcuni casi, dei quali i più importanti, per quanto qui interessa, erano quelli in cui si faceva carico alla stessa Alta Autorità di uno sviamento di potere o di un palese misconoscimento delle norme del Trattato e delle regole di applicazione dello stesso (art. 33 TCECA, ma v. anche art. 37 di tale Trattato per il sindacato sugli atti che potevano provocare turbamenti fondamentali e persistenti nell’economia di uno Stato membro).
E, in effetti, è difficile dire fin dove la Corte può spingersi nell’indagine sui presupposti di fatto che hanno giustificato un provvedimento, come lo è del resto anche nei diritti interni degli Stati membri, che non offrono soluzioni univoche al riguardo. Del resto, non sono pochi a notare che, a parte una certa artificiosità della distinzione tra esame del «fatto» ed esame del «diritto», il problema in discussione non può essere risolto aprioristicamente e ancor meno con una semplice formula normativa. Vero è che, al riguardo, i giudici godono inevitabilmente di un certo spazio di manovra tra i due limiti estremi, cioè tra il mero giudizio formale del provvedimento impugnato e il riesame dell’opportunità e della congruità del medesimo, sia pure in funzione del relativo controllo di legittimità. Per quanto ci interessa in questa sede, va detto che la Corte di giustizia, anche se, in conformità ai suoi abituali, e più volte sottolineati, indirizzi interpretativi, non ha mai preso una posizione di principio sul punto, essa è stata di regola abbastanza prudente nel portare il suo giudizio sulle situazioni di fatto che erano alla base dei provvedimenti impugnati. Ciò era già avvenuto, come si è detto, nell’ambito del TCECA, salvo appunto nei casi eccezionali prima richiamati, e anche in essi, limitatamente agli scopi per i quali il più ampio potere di riesame le veniva attribuito. Ma questa prassi si è ancor più confermata nella vigenza dei Trattati successivi, visto che questi, con maggiore coerenza, non hanno preteso indicare normativamente i limiti del controllo della Corte, ma ne hanno devoluto la definizione al suo prudente appezzamento, tanto più che la prassi precedente la loro firma aveva fornito ampie garanzie sul corretto esercizio del potere di controllo della Corte sulle altre istituzioni. In effetti, confermando l’indirizzo sopra delineato, la Corte svolge il controllo sull’esercizio del potere discrezionale dell’istituzione convenuta al solo fine di accertare se tale potere sia stato mantenuto nei limiti fissati dal Trattato. Tuttavia, sebbe-
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ne in questo ambito e a questi fini, essa si spinge anche ad apprezzare la valutazione delle circostanze economiche che giustificano un provvedimento, quando tale valutazione sia il presupposto che condiziona la validità del provvedimento medesimo: come, ad esempio, nello stabilire quali delle varie finalità contemplate da una norma l’istituzione convenuta possa perseguire in presenza di una determinata situazione; o nel giudicare la valutazione che l’istituzione ha fatto di una determinata circostanza nell’emanare un provvedimento il cui contenuto è direttamente condizionato da quella valutazione. Ciò posto, va però ancora segnalato che, oltre alla giurisdizione di legittimità, che costituisce per così dire, la regola generale del contenzioso dell’Unione, i Trattati attribuiscono altresì alla Corte una «competenza giurisdizionale anche di merito» sugli atti delle istituzioni dell’Unione (art. 261 TFUE). Per essere più precisi, e a differenza del TCECA e del TCEEA, che conferiscono direttamente tale competenza alla Corte, quei Trattati si limitano a stabilire che i regolamenti dell’Unione possono prevedere tale tipo di competenza quando istituiscono sanzioni, come del resto è puntualmente avvenuto con i regolamenti in materia di concorrenza. Va detto però che, anche se finora applicato nel solo settore della concorrenza, l’art. 261 TFUE ha in principio una portata generale, come conferma indirettamente anche il fatto che, in
caso contrario, esso avrebbe fatto specifico rinvio alla norma del Trattato rilevante al riguardo, cioè all’art. 102, par. 2, lett. a), TFUE. Com’è noto, questa disposizione, oltre ad abilitare il Consiglio per l’appunto ad adottare regolamenti che contemplino tra l’altro la possibilità di comminare sanzioni e penalità di mora alle imprese che violino le regole di concorrenza dell’Unione, prevede esplicitamente che quei regolamenti definiscano «i rispettivi compiti della Commissione e della Corte di giustizia nell’applicazione» dei regolamenti medesimi. Questo, come già detto, è quanto di fatto avvenuto: v. già l’art. 17 del noto reg. (CEE) n. 17/62, primo regolamento di applicazione delle norme del Trattato sulla concorrenza, e ora l’art. 31 del reg. (CE) n. 1/2003 del Consiglio, del 16 dicembre 2002, che attribuisce alla Corte la competenza in esame, precisando che nell’esercizio della stessa, essa può «estinguere, ridurre o aumentare l’ammenda o la penalità di mora inflitta». V. anche l’art. 16 del reg. (CE) n. 139/2004, del Consiglio relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese (su questa materia e per notizie sugli atti citati in questa nota, v. più ampiamente infra, p. 640 ss.). Altre ipotesi in cui alla Corte è stata attribuita una competenza giurisdizionale anche di merito erano previste dall’art. 88 TCECA e lo sono tuttora dall’art. 144, lett. a), TCEEA, con riguardo ai ricorsi proposti perché la Corte fissi le condizioni per la concessione, da parte della Commissione, di licenze o sub-licenze di uso non esclusivo sui brevetti, sui titoli di protezione temporanea, sui modelli di utilità o domande di brevetto, che sono proprietà della Comunità. La giurisdizione di merito sussiste, inoltre, in alcune ipotesi previste dagli Statuti dei funzionari delle tre Comunità. L’art. 91, par. 1, di tale Statuto istituisce, infatti, la giurisdizione di merito della Corte nei casi previsti dagli Statuti medesimi e «nelle controversie di natura pecuniaria» tra le Comunità e i loro funzionari (ma v. anche art. 22 di quello Statuto).
Si tratta, in questi casi, della c.d. competenza di piena giurisdizione della Corte, più nota nella sua formulazione francese (compétence de pleine juridiction), anche perché come tale appare per la prima volta nei Trattati europei, in particolare nel TCECA (art. 36), ancorché poi tradotta nei testi ufficiali dei successivi Trattati con formule varie, non sempre semplici e neppure necessariamente fedeli, vista l’assenza di nozioni corrispondenti negli ordinamenti di molti Stati membri.
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Dei testi italiano e francese dell’art. 261 TFUE si è già detto; quello inglese recita: «unlimited jurisdiction»; quello spagnolo: «competencia jurisdiccional plena»; quello tedesco: «eine Zuständigkeit übertragen, welche die Befugnis zu unbeschränkter Ermessensnachprüfung und zur Änderung oder Verhängung solcher Maßnahmen umfasst». Per un’ampia ricostruzione del significato e della portata della competenza in esame, v., in termini corrispondenti a quelli esposti nel testo, le conclusioni dell’AG Wathelet, pronunciate il 26 settembre 2013, nella causa C-295/12 P, Telefónica e Telefónica de España c. Commissione (segnatamente, ai parr. 107-145), la cui sentenza è stata resa il 10 luglio 2014.
I tratti caratteristici di tale tipo di giurisdizione non risultano definiti dai Trattati, né, per le ragioni appena indicate, la nozione può essere agevolmente ricostruita con l’aiuto dei diritti interni degli Stati membri. Malgrado ciò, la Corte, pur non affrontando il problema ex professo, non ha avuto alcuna esitazione nell’esercitare la propria competenza di piena giurisdizione, mostrando in concreto di intenderne in modo ben preciso il significato. Certo, inizialmente tale atteggiamento fu agevolato dal fatto che la pertinente giurisprudenza era stata elaborata essenzialmente rispetto al TCECA, il solo allora vigente e facente fede unicamente nella versione francese. Ciò ha quindi consentito alla Corte di orientarsi con maggior sicurezza nel definire i caratteri del contenzioso di piena giurisdizione, ispirandosi appunto al diritto amministrativo francese, nel quale tale contenzioso ha trovato la sua più completa elaborazione, costituendo una delle quattro categorie in cui solitamente la dottrina ripartisce il contenzioso amministrativo. Anche in questo caso, però, non può parlarsi di recezione nel diritto comunitario di istituti propri del diritto francese: sia per le ragioni di cui già si disse a suo tempo; sia, più specificamente, per le diversità che pur sussistevano in materia fra quel diritto e il TCECA. Sembra invece più esatto ritenere che la Corte abbia utilizzato solo taluni aspetti della nozione francese di «pleine juridiction», costruendo anche qui una nozione autonoma dell’istituto, che, in quanto tale, ha potuto essere riproposta anche ai fini dell’interpretazione dei successivi Trattati.
Alla luce della sua giurisprudenza, la caratterizzazione del tipo di giurisdizione in esame può essere rapidamente delineata, mettendo soprattutto in luce le differenze che lo separano dalla giurisdizione di legittimità. Quest’ultima, come si visto, è posta anzitutto a garanzia del diritto obiettivo e solo indirettamente tende anche alla tutela degli interessi individuali. La Corte deve qui verificare soltanto la legalità dell’atto impugnato e, a tal fine, il suo sindacato si limita al mero controllo della conformità al diritto dell’atto medesimo, rispetto al quale, d’altro canto, l’unico potere del giudice è di pronunciare una sentenza di annullamento. Quando, invece, sussiste la competenza giurisdizionale anche di merito, il giudizio della Corte verte non tanto sull’atto impugnato, quanto sulle situazioni giuridiche subiettive che trovano in quell’atto il loro fondamento. A tal fine, quindi, il sindacato giurisdizionale non risulta in alcun modo limitato, perché la Corte deve esaminare sotto ogni profilo la questione che le viene sottoposta. Essa può di certo apprezzare la legittimità dell’atto impugnato, dato che i ricorrenti hanno ovviamente la possibilità di denunciare i relativi vizi. Ma la mera valutazione della legittimità del provvedimento non consentirebbe un’efficace tutela giurisdizionale, dato che l’atto, sia pur formalmente valido, potrebbe essere ugualmente inficiato sul piano sostanziale, ad esempio da una sproporzione fra l’effettiva gravità o durata dell’infrazione e la sanzione in concreto comminata. Pertanto la Corte è autorizzata ad esercitare, in tal caso, un pieno potere di riesame della que-
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stione che le è sottoposta, al fine non solo di accertare l’esistenza dell’infrazione, ma anche di sindacare i criteri di fatto e di diritto che hanno ispirato l’istituzione convenuta nel valutare il comportamento del ricorrente. E può, in seguito a tale valutazione, sia limitarsi ad annullare l’atto impugnato, sia modificarlo fissando direttamente, in diminuzione o in aumento, la misura delle sanzioni da esso inflitte. V. ad es. in tal senso, Corte giust. 15 ottobre 2002, C-238/99 P, C-244/99 P, C-245/99 P, C247/99 P, da C-250/99 P a C-252/99 P e C-254/99 P, Limburgse Vinyl Maatschappij e a. c. Commissione, I-8375; 8 febbraio 2007, C-3/06 P, Groupe Danone c. Commissione, I-1331; 3 settembre 2009, C-534/07 P, Prym e Prym Consumer c. Commissione, I-7415; 8 dicembre 2011, C-389/10 P, KME Germany e a. c. Commissione, I-13125; 7 settembre 2016, C-101/15 P, Pilkington Group e a. c. Commissione; 27 aprile 2017, C-469/15 P, FSL c. Commissione.
11. La sentenza di annullamento In caso di accoglimento del ricorso, la Corte dichiara «nullo e non avvenuto l’atto impugnato»; tuttavia, ove lo reputi necessario, essa può precisare «gli effetti dell’atto annullato che devono essere considerati definitivi» (v., rispettivamente, i commi 1 e 2 dell’art. 264 TFUE). Tale previsione riflette in pieno le caratteristiche proprie della giurisdizione di legittimità. La Corte non ha alcun potere di condanna nei confronti dell’istituzione convenuta, non può imporle alcun comportamento specifico, non può modificare o sostituire l’atto impugnato: essa può solo pronunciare l’annullamento di tale atto, salvo evidentemente che nelle ipotesi di competenza di piena giurisdizione, di cui si è appena detto. Posto peraltro che la competenza di cui si discute mira alla tutela del sistema giuridico dell’Unione, attraverso una verifica della legittimità dell’atto sul piano obiettivo, la sentenza che pronuncia l’annullamento non esaurisce i propri effetti nell’ambito del giudizio e limitatamente alle parti in causa, ma esplica una efficacia assoluta, in quanto elimina l’atto dal mondo del diritto con effetti erga omnes e sin dal momento in cui esso è stato emanato. Sotto questo profilo appare indubbiamente efficace la riferita formula secondo cui la Corte «dichiara nullo e non avvenuto l’atto impugnato», anche se, come subito vedremo, essa non è del tutto corretta. In effetti, non si è qui in presenza di una mera declaratoria di nullità: l’annullamento dell’atto procede proprio dalla sentenza della Corte, la quale ha quindi natura di sentenza di accertamento costitutivo, dato che modifica, nel senso indicato, la situazione di diritto preesistente. Sul piano processuale, dunque, l’annullamento dell’atto preclude a chiunque la presentazione di un nuovo ricorso, perché l’efficacia della sentenza si dispiega anche al di là delle parti in causa. Di gran lunga più importanti sono, però, gli effetti sostanziali della pronuncia della Corte. In seguito a questa, infatti, l’atto viene considerato come «non avvenuto»; il che significa – al di là della finzione giuridica racchiusa in tale formula – che deve essere ricostituita la situazione preesistente all’emanazione dell’atto, eliminando gli effetti da esso già prodotti e che sopravvivono al momento del suo annullamento. Ciò implica, quindi, una serie di attività cui deve provvedere
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l’istituzione convenuta nei modi e nei limiti di cui subito diremo, ma eventualmente anche lo Stato membro interessato, al quale incombe ugualmente l’obbligo di ristabilire lo status quo ante e che verrà normalmente soddisfatto mediante l’esecuzione dei provvedimenti presi dall’istituzione convenuta per l’osservanza della sentenza. Non sempre però il ripristino della precedente situazione si presenta possibile e opportuno. È, infatti, evidente che, sebbene i testi parlino di atto «non avvenuto», in realtà fino al momento della sentenza quest’ultimo ha prodotto normalmente i suoi effetti, alcuni dei quali possono essersi già del tutto esauriti, sicché risulta impossibile ristabilire interamente la situazione preesistente all’emanazione dell’atto (factum infectum fieri nequit). D’altra parte, va tenuto presente che il provvedimento annullato può aver prodotto una serie di effetti diretti o indiretti, la cui eliminazione, seppur possibile, potrebbe risultare ingiusta e contraria al principio della certezza del diritto e del rispetto dei diritti acquisiti. Di tale esigenza, come vedremo, le istituzioni devono tener conto nel provvedere all’esecuzione della sentenza della Corte. Ma di essa tiene conto lo stesso Trattato quando, come si è visto, consente alla Corte di precisare, «ove lo reputi necessario», gli effetti dell’atto annullato che devono essere considerati come definitivi. Viene dato così alla Corte il potere di tenere in vita una parte degli effetti prodotti dall’atto e anzi meglio sarebbe dire: di creare essa stessa tali effetti, perché in realtà questi non procedono dal regolamento annullato che, in quanto illegittimo, non può certo produrre alcun valido effetto, ma derivano proprio dalla pronuncia giurisdizionale. Si è dunque, qui, in presenza di una vera e propria sentenza dispositiva della Corte. In effetti, la Corte ha più volte provveduto a mantenere in vita taluni effetti dell’atto annullato, ma solo per un limitato periodo di tempo (anche se questo non sempre è detto espressamente: Corte giust. 14 giugno 2016, C-263/14, Parlamento c. Consiglio): v. ad es. Corte giust. 10 gennaio 2006, C-178/03, Commissione c. Parlamento e Consiglio, I-107; 3 settembre 2008, C-402/05 P e C415/05 P, Kadi e Al Barakaat International Foundation c. Consiglio e Commissione, I-6351; 6 maggio 2014, C-43/12, Commissione c. Parlamento e Consiglio.
Va aggiunto che la giurisprudenza – pur utilizzandolo in concreto con parsimonia – ha però provveduto ad ampliare di molto le ipotesi in cui detto potere può essere esercitato. Anzitutto, già in vigenza della normativa precedente il Trattato di Lisbona, che limitava l’ipotesi in esame all’annullamento dei regolamenti, essa vi aveva incluso anche i casi di annullamento di altri atti, come le direttive (Corte giust. 7 luglio 1992, C-295/90, Parlamento c. Consiglio, I-4193) e perfino le decisioni (v. ad es. Corte giust. 7 marzo 1996, C-360/93, Parlamento c. Consiglio, I-1195; 12 maggio 1998, C-106/96, Regno Unito c. Commissione, I-2729; 11 settembre 2003, C-211/01, Commissione c. Consiglio, I-8913; 1° aprile 2008, C-14/06 e C-295/06, Parlamento e Danimarca c. Commissione, I-1649). Inoltre, ne ha fatto applicazione anche con riferimento ad ipotesi di giurisdizione diverse da quella di annullamento (soprattutto in sede di esercizio della competenza pregiudiziale: v. p. 339 s.). E ciò in virtù di quelle stesse «preminenti considerazioni legate al principio di certezza del diritto» che hanno ispirato la disposizione in esame (così già Corte giust. 7 luglio 1992, C295/90, Parlamento c. Consiglio, cit.).
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L’ipotesi appena considerata va naturalmente tenuta distinta da quella dell’annullamento parziale dell’atto, che si riferisce ai casi in cui quest’ultimo sia per così dire divisibile quanto alle sue parti o anche ai suoi effetti. Ad es. in caso di annullamento limitato a una o più delle sole disposizioni dell’atto che siano state impugnate; o di un atto con più destinatari per gli effetti prodotti nei confronti del solo ricorrente. Secondo la giurisprudenza, comunque, l’annullamento parziale di un atto di diritto dell’Unione è possibile solo se gli elementi di cui si chiede l’annullamento siano separabili dal resto dell’atto (v., tra le più recenti in tal senso, Corte giust. 11 dicembre 2008, C-295/07 P, Commissione c. Département du Loiret, I-9363; 6 dicembre 2012, C-441/11 P, Commissione c. Verhuizingen Coppens; 18 marzo 2014, C-427/12, Commissione c. Parlamento e Consiglio).
In conseguenza della pronuncia della Corte, l’istituzione da cui emana l’atto annullato deve prendere i provvedimenti necessari ad assicurare la piena osservanza della sentenza (art. 266 TFUE). In particolare, come si è detto, essa deve porre in essere un complesso di attività tali da assicurare, nei limiti del possibile, il ripristino della situazione esistente prima dell’emanazione dell’atto annullato, con l’adozione di nuovi provvedimenti o con la revoca di altri con effetto ex nunc o addirittura (ove compatibile con i principi della certezza del diritto) con effetto retroattivo. La stessa disposizione in esame prevede infine che l’obbligo di ripristinare la situazione precedente al comportamento censurato dalla Corte non esclude, come tra poco si vedrà, l’eventualità di un risarcimento dei danni da esso provocati. V. Corte giust. 9 agosto 1994, C-412/92 P, Parlamento c. Meskens, I-3757, nella quale già allora si precisò che «l’art. 176 [TCE; ora, appunto, art. 266 TFUE] impone all’amministrazione non solo l’obbligo di prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte importa, ma anche quello di risarcire il danno ulteriore eventualmente derivante dall’atto illegittimo annullato, a condizione che sussistano i presupposti di cui all’art. 215, [comma 2, TCEE; ora art. 340 TFUE]. L’art. 176 [TCE] non subordina quindi il risarcimento del danno all’esistenza di un nuovo illecito dell’amministrazione distinto dall’originario atto illegittimo annullato, ma prevede il risarcimento del danno che deriva da quell’atto e che continua a sussistere dopo il suo annullamento e dopo l’esecuzione, da parte dell’amministrazione, della sentenza di annullamento» (punto 24).
12. L’accertamento incidentale dell’illegittimità di un atto Prima di chiudere sui ricorsi di annullamento, conviene ancora ricordare che il sistema delle garanzie giurisdizionali contro gli atti illegittimi dell’Unione non si esaurisce con l’impugnativa diretta di tali atti, ma è completato dall’ulteriore possibilità di un controllo sulla validità degli stessi (oltre che in via pregiudiziale: v. il prossimo Capitolo) in via incidentale. Un controllo che, sia pure a condizioni e con risultati più limitati, consente di mettere in causa la legittimità degli atti a portata generale anche dopo il termine previsto per la loro impugnabilità, e attenuare in tal modo gli effetti negativi delle indicate limitazioni poste al ricorso d’annullamento dei privati. Si noti peraltro che l’eccezione può essere sollevata anche nel corso dei giudizi sui comportamenti degli Stati membri, quando l’atto contestato è la fonte dell’obbligo di cui si addebita allo Stato l’inadempimento (Corte giust. 11 ottobre 2016, C-601/14, Commissione c. Italia, punto 33).
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Il Trattato prevede, infatti, la possibilità che una parte (ma non è escluso che possa farlo di ufficio anche la Corte) eccepisca l’illegittimità di un atto dell’Unione in occasione di un giudizio nel corso del quale tale atto venga in rilievo, al fine di provocarne, se non l’annullamento, dato il carattere incidentale dell’accertamento, almeno la disapplicazione nel procedimento in corso. V. art. 277 TFUE, il cui testo recita: «[n]ella eventualità di una controversia che metta in causa un atto di portata generale adottato da un’istituzione, organo o organismo dell’Unione, ciascuna parte può, anche dopo lo spirare del termine previsto dall’[art. 263, comma 6, TFUE], valersi dei motivi previsti dall’[art. 263, comma 2, TFUE], per invocare davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea l’inapplicabilità dell’atto stesso».
L’eccezione in parola è peraltro subordinata alla sussistenza di varie condizioni. Anzitutto, e in termini generali, va detto che essa non può essere utilizzata per aggirare il sistema dei ricorsi di annullamento: sicché non potrà essere sollevata da un soggetto che, in relazione alla natura e agli effetti dell’atto, avesse avuto titolo per chiederne direttamente l’annullamento alla Corte. V. Corte giust. 15 febbraio 2001, C-239/99, Nachi Europe, I-1197; 22 ottobre 2002, C-241/01, National Farmers’Union, I-9079. Con riferimento invece ai soggetti privati, anche nel sistema precedente il Trattato di Lisbona si doveva in linea di principio ammettere l’eccezione d’illegittimità nei confronti di provvedimenti di natura generale, dato che, come si disse, la ricevibilità di un ricorso di annullamento contro tale tipo di provvedimenti non era affatto scontata: v. Corte giust. 12 dicembre 1996, C-241/95, Accrington Beef e a., I-6699; 8 luglio 2010, C-343/09, Afton Chemical, I-7027. Si noti peraltro che la Corte tende a interpretare con ampiezza le condizioni di ricevibilità dell’eccezione e in tale prospettiva ha dato spazio anche alle eccezioni sollevate dagli Stati membri (v., ad es., Corte giust. 15 maggio 2008, C-442/04, Spagna c. Commissione, cit.) e perfino dagli organi dell’Unione (Corte giust. 10 luglio 2003, C-11/00, Commissione c. BCE, I-7147).
Occorre inoltre che la controversia oggetto del giudizio «metta in causa» direttamente l’atto, il che significa che quest’ultimo deve presentare una rilevanza decisiva e diretta per la soluzione della questione principale. Per quanto riguarda gli atti di cui si può eccepire in via incidentale l’illegittimità, l’art. 241 TCE (oggi art. 276 TFUE) indicava solo quelli di tipo regolamentare, ma la Corte aveva già provveduto ad ampliare la sfera di applicazione della norma ritenendola espressione di un principio generale di tutela giurisdizionale e quindi riferendola a tutti gli atti che producessero effetti analoghi ai regolamenti. Proprio in quanto espressione di quel principio, «la sfera d’applicazione del suddetto articolo deve pertanto comprendere gli atti delle istituzioni che, pur non avendo la forma di regolamento, producono tuttavia effetti analoghi e che, per questo motivo, non potevano essere impugnati da soggetti giuridici diversi dalle istituzioni e dagli Stati membri in base all’art. 173 [TCEE]»: Corte giust. 6 marzo 1979, 92/78, Simmenthal c. Commissione, cit., punto 40; nonché 7 novembre 1991, C-313/89, Commissione c. Spagna, I-5231.
Questo indirizzo giurisprudenziale è stato poi formalmente recepito, come si è visto, nel Trattato di Lisbona e generalizzato per tutti gli atti di portata generale adottati da qualsiasi istituzione, organismo o organo dell’Unione.
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Nessun limite è invece posto quanto ai soggetti che possono sollevare l’eccezione, sempre beninteso che siano parti nella causa, né quanto ai motivi invocabili per chiedere l’inapplicabilità dell’atto. Per quel che concerne, infine, gli effetti dell’accertamento incidentale dell’illegittimità di un atto, essi consistono nella mera «inapplicabilità» dello stesso nel giudizio in corso, e quindi incidono sull’efficacia dell’atto solo ai fini di quel giudizio e solo per gli aspetti dell’atto che vengono in rilievo. In altri termini, e diversamente dall’annullamento, la disapplicazione dell’atto non ha efficacia ex tunc ed erga omnes, ma produce il più limitato effetto di operare ex nunc, e nel senso detto, fra le parti in causa. Per il resto non solo permangono invariati gli effetti già prodotti dall’atto, ma questo, benché riconosciuto illegittimo, conserva in linea teorica un’immutata efficacia ai fini delle sue successive applicazioni. In pratica, però, l’accertamento operato dalla Corte non resta senza conseguenze sull’atto illegittimo. Se è vero, infatti, che l’istituzione che ha emanato l’atto non ha l’obbligo di revocarlo (ovvero di rinnovarlo, se ciò è consentito dalla natura dei vizi che inficiano il provvedimento), è anche vero che tale istituzione difficilmente potrà ignorare la pronuncia della Corte: sia per ovvie ragioni di correttezza, sia per evitare che una serie di eccezioni d’illegittimità rendano in pratica inoperante l’atto.
II. I ricorsi in carenza 13. Condizioni generali Detto con ampiezza del ricorso di annullamento, si può ora passare all’altra ipotesi di controllo giurisdizionale sui comportamenti degli organi dell’Unione, che riguarda questa volta non già i comportamenti attivi, ma quelli omissivi. Essa è quindi speculare all’ipotesi appena esaminata e ne costituisce anzi, in un certo senso, il logico complemento, dato che una violazione del diritto dell’Unione può venire non solo da un comportamento positivo di un suo organo, ma anche dall’astensione da un’azione prevista dai testi. La Corte stessa ha da sempre affermato che il ricorso di annullamento e il ricorso in carenza «sono l’espressione di uno stesso rimedio giuridico» e perseguono lo stesso scopo di tutela (Corte giust. 18 novembre 1970, 15/70, Chevalley c. Commissione, 975; Corte giust. 26 ottobre 1971, 15/71, Mackprang c. Commissione, 797).
Per tale motivo, dunque, l’art. 265 TFUE, con riguardo alle ipotesi in cui gli organi dell’Unione si astengano, in violazione dello stesso Trattato, dall’emanare un atto, consente agli Stati membri, alle altre istituzioni e alle persone fisiche e giuridiche di adire la Corte, dopo aver messo in mora l’istituzione, per far constatare l’illegittima inazione di quest’ultima.
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Il termine «inazione» (come anche i termini «carenza», «omissione», ecc.) è impiegato per comodità di linguaggio. Va detto, però, che in realtà nelle ipotesi in esame ciò che viene in rilievo non è tanto l’inazione delle istituzioni, quanto il loro «silenzio». Come vedremo più avanti, infatti, ai fini della ricevibilità dei ricorsi in esame, non è sufficiente che l’istituzione si sia astenuta dall’emanare un atto, ma occorre altresì che essa abbia evitato di manifestare esplicitamente il proprio atteggiamento negativo, dato che in caso contrario la Corte potrà essere adita solo con un ricorso d’annullamento. L’art. 265 così recita: «[q]ualora, in violazione dei Trattati, il Parlamento europeo, il Consiglio europeo, il Consiglio, la Commissione o la Banca centrale europea si astengano dal pronunciarsi, gli Stati membri e le altre istituzioni dell’Unione possono adire la Corte di giustizia dell’Unione europea per far constatare tale violazione. Il presente articolo si applica, alle stese condizioni, agli organi e organismi dell’Unione che si astengano dal pronunciarsi» (comma 1); «[i]l ricorso è ricevibile soltanto quando l’istituzione, l’organo o l’organismo in causa siano stati preventivamente richiesti di agire. Se, allo scadere di un termine di due mesi da tale richiesta, l’istituzione, l’organo o l’organismo non hanno preso posizione, il ricorso può essere proposto entro un nuovo termine di due mesi» (comma 2); «[o]gni persona fisica o giuridica può adire la Corte alle condizioni stabilite dai commi precedenti per contestare ad una istituzione, organo o organismo dell’Unione di avere omesso di emanare nei suoi confronti un atto che non sia una raccomandazione o un parere» (comma 3).
La disposizione delinea così i tratti fondamentali dei giudizi in esame ed anche le ragioni della loro autonoma previsione rispetto a quelli d’annullamento. Ma al tempo stesso conferma che i due tipi di giudizi di cui si discute sono tra loro intimamente collegati, rispondono alla medesima finalità di permettere il controllo giurisdizionale sui comportamenti delle istituzioni dell’Unione e si completano quindi a vicenda in un rapporto di genere a specie, nel senso cioè, che i giudizi in esame, concernendo una specifica manifestazione del comportamento di dette istituzioni, hanno riguardo ad un’ipotesi per così dire residuale rispetto a quelle che vengono in rilievo nei giudizi di annullamento. Per tali ragioni, la disciplina predisposta per le due ipotesi risponde ai medesimi principi generali e, comunque, va interpretata in modo da eliminare, per quanto possibile, le eventuali contraddizioni fra le norme che le regolano. Le istituzioni dell’Unione alle quali può essere contestata l’omissione sono espressamente indicate dalla disposizione in esame e sono, in effetti, tutte quelle che, in virtù delle loro specifiche competenze, possono, attraverso i loro comportamenti positivi o negativi, incidere sugli interessi tutelati dal diritto dell’Unione. Il ricorso può essere proposto solo ove tali istituzioni «si astengano dal pronunciarsi», «in violazione dei Trattati». Ciò autorizza a ritenere anzitutto che d’illegittima inazione possa parlarsi solo quando l’istituzione abbia l’obbligo di provvedere, non quando abbia il mero potere di farlo; in secondo luogo, che, diversamente da quanto si è visto per quello di annullamento, il ricorso di cui ora si parla è consentito in tutte le ipotesi in cui sia prevista l’emanazione di un atto, senza alcuna distinzione fra i diversi tipi di misure, neppure in relazione all’efficacia, vincolante o meno, delle stesse. Esclusi quindi, per ovvie ragioni, gli atti meramente interni, gli atti di organizzazione, i meri comportamenti materiali delle istituzioni, vengono in rilievo ai presenti fini tutti gli atti formalmente o sostanzialmente riconducibili alle categorie tipiche definite dal Trattato, incluse (con riserva di quanto si dirà tra breve) le raccomandazioni e i pareri, nonché le proposte della Commissione. Quanto a queste
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ultime, in effetti, se è vero che la loro formulazione non può essere oggetto di un ricorso di annullamento, non avendo l’atto i necessari requisiti di obbligatorietà e definitività, resta il fatto che la loro omissione può determinare l’impossibilità per l’organo che ne è destinatario di provvedere validamente, a meno che esso non voglia emanare un atto viziato per difetto di forme essenziali. Quanto ai motivi di ricorso, è da ritenere che l’unico mezzo di cui possono valersi in questo caso gli interessati è la violazione dei Trattati o dei regolamenti di applicazione. Data la mancanza di un atto, infatti, non può evidentemente parlarsi né di incompetenza, né di violazione di forme. Quanto allo sviamento di potere, esso resta, in questo caso, assorbito dal vizio di violazione dei Trattati, data l’esistenza di un obbligo di agire. Legittimati a ricorrere sono gli Stati membri, le altre istituzioni e i soggetti di diritto interno. Peraltro, al pari di quanto si è visto a proposito dei giudizi di annullamento, sussiste tra gli stessi una disparità di trattamento. Gli Stati membri hanno infatti, anche in questo caso, uno Statuto privilegiato e godono quindi del più ampio potere d’azione: da un lato, sono legittimati a contestare l’omissione di tutti gli atti innanzi indicati; dall’altro, anche in questo caso il loro ricorso è rivolto, almeno sul piano formale, alla tutela del diritto obbiettivo, e quindi non risulta condizionato all’esistenza di un interesse materiale leso dall’azione degli organi dell’Unione. Ma ricorrenti privilegiati sono anche questi ultimi, dato che a essi è concesso un diritto d’azione altrettanto ampio. Quanto invece ai ricorsi delle persone fisiche e giuridiche, essi incontrano nei giudizi in esame limiti corrispondenti, in larga misura, a quelli indicati a proposito dei giudizi di annullamento. Quei soggetti, infatti, possono solo contestare all’istituzione «di aver omesso di emanare nei [loro] confronti un atto che non sia una raccomandazione o un parere». Il che significa, in ultima analisi, che quei soggetti possono adire la Corte solo nel caso in cui l’atto omesso avrebbe dovuto avere natura di decisione. Invero, escluse dalla stessa disposizione in esame le raccomandazioni e i pareri; escluse le direttive, che, com’è noto, possono essere indirizzate solo agli Stati membri, potrebbero venire in considerazione solo i regolamenti. Ma questi, come noto, hanno carattere generale e non possono, per tal motivo, indirizzarsi a singoli destinatari, sicché un riferimento a essi da parte della disposizione sembra da escludere. In tale prospettiva, sono stati dichiarati irricevibili i ricorsi in carenza proposti da soggetti privati per la mancata adozione sia di provvedimenti a carattere generale, quali i regolamenti (Corte giust. 15 gennaio 1974, 134/73, Holtz & Willemsen c. Consiglio e Commissione, 1; 28 marzo 1979, 90/78, Granaria c. Consiglio e Commissione, 1081), sia di decisioni indirizzate a Stati (Corte giust. 26 ottobre 1971, 15/71, Mackprang c. Commissione, cit.), sia di decisioni destinate a terzi (Corte giust. 10 giugno 1982, 246/81, Bethell c. Commissione, I-2277).
È vero che in talune ipotesi potrebbe sussistere l’interesse dei soggetti di diritto interno all’emanazione di un regolamento, ma questo non si presenterebbe mai, in questi casi, come suscettibile di ledere un interesse diretto e individuale, e quindi tale da giustificare un ricorso alla Corte. Non restano dunque che le decisioni, per le quali va segnalato che il ricorso contro la loro omissione è ricevibile anche se l’atto
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di cui si chiedeva l’adozione non avrebbe dovuto indirizzarsi formalmente al ricorrente, purché sia dimostrato che, nel caso, esso avrebbe interessato quest’ultimo direttamente ed individualmente (cfr. ad es. Corte giust. 16 febbraio 1993, C-107/91, ENU c. Commissione, I-599; Trib. 26 novembre 1996, T-68/95, T. Port, I-6065; 10 maggio 2006, T-395/04, Air One c. Commissione, II-1343).
14. Gli aspetti procedurali Anche in presenza delle condizioni finora indicate, il ricorso in carenza è subordinato al corretto espletamento di una procedura precontenziosa imposta dalla natura stessa dei comportamenti che vengono in rilievo in questo caso. I Trattati, infatti, esigono la previa messa in mora dell’istituzione contro la cui inazione s’intende ricorrere, sia per darle la possibilità di evitare un ricorso giurisdizionale adottando l’atto, sia per permettere che sia fissato, con riferimento a una data precisa, il momento di decorrenza dei termini di ricorso. Per tali motivi la messa in mora è sempre necessaria, anche se l’atteggiamento negativo dell’istituzione sia già scontato (Corte giust. 4 febbraio 1959, 17/57, De gezamenljike Steenkolemjinen in Limburg c. Alta Autorità, 11). Ove poi per l’emanazione dell’atto sia necessario l’intervento di più istituzioni, la richiesta va indirizzata all’organo che deve emanare il provvedimento definitivo.
La messa in mora può essere utilmente presentata solo dai soggetti cui è possibile successivamente adire la Corte; deve essere formulata chiaramente come una diffida che tende ad avviare la procedura di contestazione dell’inazione; e deve indicare con precisione il provvedimento la cui emanazione si invoca, dato che il ricorso può avere per oggetto unicamente il rifiuto di adottare l’atto che l’istituzione è stata diffidata ad emanare. Il mancato rispetto di tali condizioni costituisce motivo d’irricevibilità del ricorso. V., tra le altre, Corte giust. 10 giugno 1986, 81/85 e 119/85, Usinor c. Commissione, cit.; 18 novembre 1999, C-249/99 P, Pescados Congelados Jogamar c. Commissione, I-8333; ordinanza 26 ottobre 2011, C-52/11 P, Fernando Marcelino Victoria Sánchez c. Parlamento e Commissione, I-158 (pubblicazione sommaria). Quanto alla diffida, va detto che, secondo la Corte, sebbene si debbano «classificare gli atti giuridici in base alla loro natura piuttosto che in base alla loro forma», la diffida non può conseguire i suoi effetti se «non ha [...] carattere perentorio o comminatorio e non ne emerge con sufficiente chiarezza che essa dà inizio al decorso del termine per ricorrere» (Corte giust. 13 luglio 1961, 22/60 e 23/60, Elz c. Alta Autorità, 347, 363; nonché 6 maggio 1986, 25/85, Nuovo Campsider c. Commissione, 1531).
Dalla messa in mora – e, più precisamente, dal giorno successivo a quello in cui l’istituzione adita ne ha avuto conoscenza – decorre un termine di due mesi, entro il quale la stessa istituzione può adottare il provvedimento richiesto e impedire così il ricorso giurisdizionale. Quid se invece ciò non accade? Nell’estinto TCECA (art. 35), il silenzio dell’istituzione, una volta decorso quel termine, era assimilato ad una «decisione implicita di rifiuto», impugnabile come tale innanzi alla Corte. A partire dal TCE, invece, viene previsto che se, decorso il termine, l’istituzione non abbia «preso
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posizione», l’interessato ha altri due mesi per presentare un ricorso alla Corte. Non è però chiaro, anche a causa di talune incertezze della giurisprudenza, cosa debba intendersi con quella espressione. A nostro avviso e in coerenza con la segnalata ratio del sistema, deve ritenersi che la reazione dell’istituzione in tanto sarà qualificabile come «presa di posizione» idonea a interrompere il termine e a precludere così il ricorso giurisdizionale, in quanto si traduca in un comportamento suscettibile (quale che ne sia la forma) di essere impugnato innanzi alla Corte attraverso un ricorso di annullamento. Una diversa conclusione, infatti, permetterebbe di comprendere nell’espressione anche una risposta generica o interlocutoria, col risultato che l’interessato non potrebbe né proseguire l’azione in carenza (perché in qualche modo una «presa di posizione» ci sarebbe stata), né promuovere un ricorso d’annullamento, data la natura di quella reazione. Decorso il termine di due mesi senza che sia stata soddisfatta la richiesta di agire, la Corte può essere adita, come si è detto, con un ricorso per carenza; e ciò anche se successivamente l’istituzione dovesse prendere posizione, perché in tale eventualità il ricorso sarebbe ugualmente ricevibile, salvo a vedere se intanto non sia divenuto privo di oggetto. V. Corte giust. 2 luglio 1964, 103/63, Rhenania c. Commissione, 833; 24 novembre 1993, C15/91 e C-108/91, Buckl e a. c. Commissione, I-6061; ordinanza 13 dicembre 2000, C-44/00 P, Sodima c. Commissione, I-11231; 19 novembre 2013, C-66/12, Consiglio c. Commissione, e C196/12, Commissione c. Consiglio. Come si è visto in precedenza (retro, p. 264), peraltro, nei ricorsi per inadempimento, la tardiva sanatoria da parte dello Stato membro, perfino se avvenuta prima della presentazione del ricorso della Commissione, non preclude l’interesse di quest’ultima a chiedere la «condanna» dello Stato. Occorre chiedersi dunque perché la stessa conseguenza non debba ricollegarsi, nel caso ora in esame, all’eventuale tardiva adozione dell’atto da parte dell’istituzione convenuta.
In ogni caso, il ricorso deve essere diretto allo stesso scopo perseguito con la diffida: ha infatti precisato la Corte che «il silenzio-rifiuto è compreso nei limiti della richiesta e della causa giuridica invocata a sostegno. È perciò irricevibile un ricorso, diretto contro il silenzio-rifiuto, il quale contenga una nuova pretesa e si basi su di una diversa causa petendi» (v. Corte giust. 16 dicembre 1960, 41/59 e 50/59, Hamborner Bergbau AG e a. c. Alta Autorità, 985). La sentenza della Corte che accoglie il ricorso ha natura di sentenza meramente dichiarativa dell’illegittimità del comportamento omissivo. Per ciò che concerne i suoi effetti vale in parte quanto detto a proposito delle sentenze di annullamento di un atto. In particolare, l’istituzione la cui astensione sia stata dichiarata illegittima deve prendere i provvedimenti necessari ad assicurare la piena osservanza della sentenza (art. 266 TFUE; Corte giust. 14 giugno 2016, C-361/14, Commissione c. Mc Bride). In questo caso, tuttavia, la portata degli obblighi dell’istituzione convenuta si precisa più agevolmente, dato che di norma, per osservare il giudicato della Corte, basterà prendere il provvedimento di cui è stata contestata l’omissione. Se è vero, in effetti, che l’istituzione convenuta è libera nella scelta dell’atto da emanare in esecuzione della sentenza, è tuttavia chiaro che la pronuncia della Corte condizionerà pesantemente tale scelta.
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III. L’azione di danni 15. Caratteristiche e specificità di tale azione Il quadro dei principali strumenti di tutela diretta nei confronti dei comportamenti delle istituzioni dell’Unione si completa con la previsione di un’apposita azione per il risarcimento dei danni nei confronti di queste ultime. Va ricordato, con l’occasione, che l’Unione può essere chiamata a rispondere anche di una responsabilità contrattuale, dato che essa può concludere contratti di diritto pubblico o privato. In tal caso, però, la competenza a giudicare spetta ai giudici nazionali (art. 274 TFUE), salvo che, ai sensi dell’art. 272 TFUE, nel contratto non sia stata inserita una clausola compromissoria (o non sia stipulato all’occorrenza un compromesso) a favore della competenza della Corte (infra, p. 347 ss.).
È noto, infatti, che in materia di responsabilità extracontrattuale, «l’Unione deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni» (art. 340, comma 2, TFUE). Orbene, anche le azioni promosse ai fini di tale risarcimento rientrano nella competenza (del Tribunale in prima battuta e poi) della Corte. V. art. 268 TFUE. In giurisprudenza, v. Corte giust. 18 aprile 2013, C-103/11 P, Commissione c. Systran e Systran Luxembourg. La competenza del Tribunale sussiste anche, come si è detto, se l’azione di danni è promossa contro lo stesso Tribunale (ma in tal caso, esso deciderà in altra formazione) per violazione del principio della ragionevole durata del processo (v. più avanti). Da notare che, in deroga all’art. 268 TFUE, la BCE è responsabile per i danni cagionati da essa o dai suoi agenti (v. anche art. 35.3 del Protocollo n. 4, sullo Statuto del SEBC e della BCE, allegato ai Trattati).
Conviene subito specificare che tali azioni mantengono una precisa autonomia rispetto a quelle, sopra esaminate, rivolte all’annullamento di un atto dell’Unione. Come la stessa Corte ha chiarito, infatti, superando iniziali incertezze, l’azione di danni è stata concepita dal Trattato come «un rimedio dotato di una propria funzione che lo distingue dalle altre azioni esperibili, e sottoposto a condizioni di esercizio che tengano conto del suo oggetto specifico». V. Corte giust. 28 aprile 1971, 4/69, Lutticke c. Commissione, 325; 2 dicembre 1971, 5/71, Zuckerfabrick Schöppenstedt c. Consiglio, 975; 13 giugno 1972, 9/71 e 11/71, Compagnie d’approvisionnement, de transport et de crédit e a. c. Commissione, 391; 17 maggio 1990, C-87/89, Sonito, I-1981; 23 marzo 2004, C-234/02 P, Mediatore europeo c. Lamberts, I-2803. In un primo tempo, la Corte aveva subordinato l’esperibilità dell’azione alla previa declaratoria d’illegittimità dell’atto (o dell’omissione) in causa, affermando che «un atto amministrativo che non sia stato annullato non può di per sé costituire un illecito, né causare quindi un danno agli amministrati. La domanda di risarcimento non sarebbe perciò ammissibile, non potendo la Corte eliminare per tale via le conseguenze giuridiche di un provvedimento che non è stato annullato» (sentenza 15 luglio 1963, 25/62, Plaumann c. Commissione, 197).
L’azione di danni si differenzia, in particolare, dai ricorsi per annullamento e in carenza in quanto è diretta non già a far costatare l’illegittimo comportamento di
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un’istituzione con effetti erga omnes, ma al risarcimento dei danni provocati da tale comportamento; ciò beninteso sempre che essa non sia in realtà un ricorso per annullamento dissimulato al fine di aggirare i termini di decadenza previsti per quest’ultimo. Nella prassi, peraltro, le due azioni vengono quasi sempre promosse congiuntamente, ma proprio in ragione della reciproca autonomia, l’irricevibilità del ricorso di annullamento non comporta l’automatica irricevibilità dell’azione di danni. Per quanto concerne invece gli eventuali rimedi offerti dagli ordinamenti nazionali, il problema del loro rapporto con l’azione in esame si pone ogniqualvolta il danno lamentato derivi dagli atti nazionali di esecuzione di un provvedimento dell’Unione. In questo caso, l’interessato potrà promuovere azione di risarcimento davanti ai giudici nazionali e, con l’occasione, mettere eventualmente in discussione la legittimità di quel provvedimento. Il giudice allora potrà (o, all’occorrenza, dovrà) sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale sulla validità di quella misura. L’esperibilità dell’azione di risarcimento innanzi alla Corte si trova quindi, in simili ipotesi, subordinata all’esaurimento dei rimedi giurisdizionali interni; ma ciò solo a condizione che tali rimedi garantiscano in maniera efficace la tutela dei singoli interessati. Ove così non fosse, perché ad esempio sul piano interno si garantisce esclusivamente l’annullamento degli atti di esecuzione, che, di per sé, non assicura il ristoro del danno subito, l’azione di danni innanzi alla Corte potrà essere ricevibile. V. Corte giust. 12 aprile 1984, 281/82, Unifrex c. Consiglio e Commissione, 1969; 26 febbraio 1986, 175/84, Krohn c. Commissione, 753; 29 settembre 1987, 81/86, De Boer Buizen c. Consiglio e Commissione, 3677; 30 maggio 1989, 20/88, Roquette Frères c. Commissione, 1553; 13 marzo 1992, C-282/90, Vreugdenhil c. Commissione, I-1937.
Legittimate a proporre il ricorso sono le persone fisiche o giuridiche, nonché gli Stati membri, senza distinzione, questa volta, tra ricorrenti privilegiati e non. È da escludere invece che a promuovere l’azione possano essere le stesse istituzioni dell’Unione, dato il rapporto d’immedesimazione tra le une e l’altra. Quanto infine alla legittimazione passiva, essa spetta a tutte le istituzioni e organi cui possa essere imputato il comportamento illecito che ha provocato il danno, e sarà ciascuna di esse (e non la sola Commissione) a rispondere (e a stare) in giudizio in questi casi. Ciò, come si è accennato, anche quando l’azione è promossa per i danni cagionati dalla Corte di giustizia nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali, e per quelli provocati dagli agenti delle istituzioni «nell’esercizio delle loro funzioni», perché in tal caso starà in giudizio l’istituzione di appartenenza dell’agente. Con l’avvertenza peraltro che in una simile eventualità in tanto sussisterà la responsabilità dell’istituzione in quanto vi sia nella specie un rapporto di lavoro e il comportamento illecito sia stato posto in essere dall’agente nell’esercizio delle sue funzioni. In caso di condanna, peraltro, l’istituzione potrà rivalersi nei confronti dell’agente (art. 22 Statuto dei funzionari). Quanto alla legittimazione passiva, non si applica in questi casi la regola, di cui all’art. 335 TFUE, secondo cui l’Unione è rappresentata in giudizio dalla Commissione (Corte giust. 13 novembre 1973, da 63/72 a 69/72, Werhahn Hansamuehle e a. c. Consiglio, 1229; 2 maggio 1990, C-358/88, Hopermann, I-1687). Nel senso che possano rispondere dei danni anche organi diversi dalle istituzioni, tra cui, ad es., la BEI o il Mediatore europeo, cfr. rispettivamente:
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Corte giust. 2 dicembre 1992, C-370/89, SGEEM e Etroy c. BEI, cit.: per la responsabilità della Corte, v. supra, 290. Per un caso particolare, v. Corte giust. 22 marzo 1990, C-201/89, Le Pen e Front National c. Puhl e a., I-1183, in cui è stata esclusa la responsabilità del PE per fatti imputabili ad un gruppo politico facente parte del Parlamento stesso. Quanto alla responsabilità della Corte, v. di recente sentenze 26 novembre 2013, C-40/12 P, Gascogne Sack Deutschland c. Commissione, C-50/12 P, Kendrion c. Commissione, e C-58/12 P, Groupe Gascogne c. Commissione, nelle quali la Corte ha riconosciuto tale responsabilità anche in caso di ritardi dovuti a comportamenti degli stessi giudici dell’Unione, riconoscendo in tal caso il diritto a un ricorso per risarcimento dei danni provocati dall’irragionevole durata di un processo innanzi al Tribunale, ricorso che dovrà essere deciso dallo stesso Tribunale (ma in altra formazione) in ragione della ripartizione delle competenze interne alle giurisdizioni dell’Unione.
16. Le condizioni per la sua promozione Venendo alle condizioni cui è subordinata la responsabilità extracontrattuale dell’Unione, va detto anzitutto che il Trattato esplicitamente richiama «i principi generali comuni ai diritti degli Stati membri» per l’identificazione di quelle condizioni. Nella prassi però molto di rado si è proceduto in questa direzione; in realtà, anche per la difficoltà di individuare la «comunanza» di quei principi, la Corte ha direttamente elaborato i criteri rilevanti al riguardo, pur ispirandosi, come di consueto, ai diritti nazionali (v. di recente Corte giust. 26 novembre 2013, C-40/12 P, Gascogne Sack Deutschland c. Commissione, C-50/12 P, Kendrion c. Commissione, e C-58/12 P, Groupe Gascogne c. Commissione; 12 giugno 2014, C-578/11 P, Deltafina c. Commissione). In particolare, essa ha stabilito, con una giurisprudenza assolutamente costante, che si ha responsabilità aquilana dell’Unione ove si accerti la contestuale presenza dei seguenti presupposti: l’illiceità del comportamento contestato alle istituzioni, l’esistenza di un danno e un nesso di causalità tra quest’ultimo e il comportamento contestato. Nel senso del carattere cumulativo di tali presupposti, per cui «l’assenza di uno di essi è sufficiente per determinare il rigetto di un ricorso per risarcimento danni», v., ex multis, Corte giust. 9 settembre 1999, C-257/98 P, Lucaccioni c. Commissione, I-5251; 8 maggio 2003, C-122/01 P, T. Port c. Commissione, I-4261; 9 novembre 2006, C-243/05 P, Agraz e a. c. Commissione, I-10833; 18 aprile 2013, C-103/11 P, Commissione c. Systran e Systran Luxembourg.
Quanto alla prima condizione, va premesso che si fa qui riferimento non all’illegittimità, ma alla «illiceità» del comportamento contestato, e quindi non necessariamente alla violazione di norme giuridiche. L’ipotesi di una responsabilità oggettiva o da fatto lecito, che pur sembrava essersi delineata nella giurisprudenza dell’Unione, a condizione che il comportamento contestato avesse causato un danno «anormale e speciale», non pare confermata nelle più recenti pronunce in materia, sicché la questione resta ancora aperta. In un primo momento, in effetti, la Corte aveva dato l’impressione di non escludere la possibilità di una simile responsabilità (sentenza 15 giugno 2000, C-237/98, Dorsch Consult c. Consiglio e Commissione, I-4549), incoraggiando le conseguenti e più decise deduzioni del TPI (sentenza 14
Il controllo sui comportamenti delle istituzioni dell’Unione
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dicembre 2005, T-69/00, FIAMM e FIAMM Technologies c. Consiglio e Commissione, II-5393). In sede d’impugnazione avverso quest’ultima sentenza, però, la Corte ha negato che la giurisprudenza avesse consacrato il principio della responsabilità extracontrattuale dell’Unione in assenza di un comportamento illecito delle sue istituzioni. A suo avviso, infatti, e contrariamente a quanto ritenuto dal TPI nelle sentenze impugnate, la Corte si sarebbe finora limitata a indicare soltanto talune condizioni al verificarsi delle quali detta responsabilità potrebbe eventualmente sorgere qualora ne fosse effettivamente ammessa l’esistenza nel diritto dell’Unione (sentenza 9 settembre 2008, C-120/06 P e C-121/06 P, FIAMM e a. c. Consiglio e Commissione, cit.).
Ciò posto, va precisato che all’origine della responsabilità dell’Unione può esservi qualsiasi suo comportamento illecito, anche se di carattere omissivo. Quanto alla gravità dello stesso, poi, la Corte ha chiarito che, se il comportamento riguarda un settore in cui l’Unione gode di un certo potere discrezionale, la responsabilità può sorgere solo se l’organo agente ha disconosciuto, in modo palese e grave, i limiti che s’impongono all’esercizio dei suoi poteri. Sia pur in via eccezionale, inoltre, la responsabilità dell’Unione può sussistere anche se il comportamento contestato si sostanzia in un atto normativo. Qualora però tale atto implichi scelte di politica economica, la giurisprudenza richiede che si sia in presenza di una violazione grave («sufficientemente caratterizzata») di una norma superiore intesa a tutelare i singoli (così Corte giust. 2 dicembre 1971, 5/71, Zuckerfabrick Schöppenstedt c. Consiglio, 975, la cui formula è stata ripresa dalla giurisprudenza successiva, tra cui, ex multis, 19 aprile 2007, C-282/05 P, Holcim (Deutschland) c. Commission, I-2941). E ciò perché «il potere legislativo, anche nei casi in cui esiste il controllo giurisdizionale sulla validità dei suoi atti, non deve essere ostacolato nelle sue decisioni dalla prospettiva di azioni di danni ogni volta che debba adottare, nell’interesse generale, provvedimenti normativi che possono ledere interessi di singoli» (Corte giust. 25 maggio 1978, 83/76, 94/76, 4/77, 15/77 e 40/77, HNL c. Consiglio e Commissione, I-1209). Quanto, poi, alla seconda condizione, e cioè la sussistenza di un danno rilevante, la Corte richiede che, oltre ad essere certo ed attuale, tale danno sia «speciale», abbia cioè leso una categoria di soggetti ben individuata, e che la sua entità ecceda l’ambito dei normali rischi economici insiti nell’attività rilevante nella specie. V. ad es. Corte giust. 4 ottobre 1979, 238/78, Ireks-Arkady c. Consiglio e Commissione, 2955; 241/78, 242/78, da 245/78 a 250/78, DGV c. Consiglio e Commissione, 3017; 64/76, 113/76, 167/78, 239/78, 27/79, 28/79 e 45/79, Dumortier c. Consiglio, 3091; 26 giugno 1990, C-152/88, Sofrimport c. Commissione, I-2477; 19 maggio 1992, C-104/89 e C-37/90, Mulder e a. c. Consiglio e Commissione, 203. Nel senso che il danno deve essere certo e attuale, v. Corte giust. 27 gennaio 1982, 51/81, De Franceschi c. Consiglio e Commissione, 117; 27 gennaio 1982, 256/80, 257/80, 265/80, 267/80 e 5/81, Birra Wührer, 85. Non si esclude, tuttavia, la possibilità di agire in giudizio per il risarcimento di danni imminenti e prevedibili con una certa sicurezza, anche se l’entità del danno stesso non è ancora esattamente determinata (Corte giust. 2 giugno 1976, da 56/74 a 69/74, Kampffmeyer c. Consiglio e Commissione, 711; 2 marzo 1977, 44/76, Eier-Kontor c. Consiglio e Commissione, 393; 29 gennaio 1985, 147/83, Binderer c. Commissione, 257; 14 gennaio 1987, 281/84, Zuckerfabrik Bedburg c. Consiglio e Commissione, 49).
Per quel che concerne, infine, la condizione della sussistenza di un nesso di causalità «diretto» tra il comportamento illegittimo delle istituzioni e il danno subito dal
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singolo, basterà ricordare che la responsabilità dell’Unione ricorre solo se detto comportamento sia espressione di un intervento diretto delle istituzioni e se, d’altro canto, non vi sia stato un atteggiamento negligente del soggetto interessato (Corte giust. 12 luglio 1962, 18/60, Worms c. Alta Autorità, 371; 4 febbraio 1975, 169/73, Compagnie Continentale France c. Consiglio, 117). Ove la responsabilità dell’Unione sia accertata, il risarcimento riguarderà sia il danno materiale che quello immateriale, relativamente tanto al danno emergente che al lucro cessante. Per il risarcimento del danno immateriale, v. di recente Corte giust. 26 novembre 2013, C-40/12 P, Gascogne Sack Deutschland c. Commissione, C-50/12 P, Kendrion c. Commissione, e C-58/12 P, Groupe Gascogne c. Commissione; 30 maggio 2017, C-45/15 P, Safa Nicu Sepahan c. Consiglio.
L’azione di danni si prescrive in cinque anni a decorrere dal momento in cui avviene il fatto che dà origine al danno; il che è stato interpretato dalla Corte nel senso che il computo decorre non dalla data del fatto, ma da quando sorge effettivamente il diritto al risarcimento, ovvero dal momento in cui si verifica il danno lamentato (Corte giust. 27 gennaio 1982, 256/80, 257/80, 265/80, 267/80 e 5/81, Birra Wührer, cit.; 17 luglio 2008, C-51/05 P, Commissione c. Cantina sociale di Dolianova e a., I5341; 11 giugno 2009, C-335/08 P, Transports Schiocchet – Excursions c. Commissione, I-104, pubblicazione sommaria; 28 febbraio 2013, C-460/09 P, Inalca e Cremonini c. Commissione). Essa s’interrompe con l’azione giudiziaria, ma anche con la previa richiesta dei danni all’istituzione in causa (art. 46 dello Statuto della Corte). Al riguardo, va notato che il termine di prescrizione quinquennale non è un termine procedurale e non beneficia dunque dell’aumento di dieci giorni in ragione della distanza ex art. 51 reg. proc. Corte (v. Corte giust. 8 novembre 2012, C-469/11 P, Evropaïki Dynamiki c. Commissione).
CAPITOLO V
La competenza pregiudiziale Sommario: 1. Premessa. – 2. Le finalità della competenza pregiudiziale. – 3. Le condizioni per il suo esercizio. – 4. Gli aspetti procedurali. – 5. Gli sviluppi della competenza pregiudiziale prima del Trattato di Lisbona. – 6. Segue: Le attuali limitazioni.
1. Premessa Accanto a quelle fin qui esaminate, la Corte vanta anche una peculiarissima competenza giurisdizionale a carattere non contenzioso. Si tratta della ben nota «competenza pregiudiziale», in virtù della quale la Corte può pronunciarsi, in via appunto pregiudiziale, su questioni d’interpretazione di disposizioni del diritto dell’Unione o anche d’interpretazione e validità di atti delle istituzioni, a seguito degli appositi rinvii che le giurisdizioni dagli Stati membri sono obbligate (se di ultima istanza) o abilitate (negli altri casi) a operare ove la soluzione di simili questioni sia necessaria per risolvere la controversia innanzi a esse pendente. V. art. 267 TFUE (già art. 234 TCE e, prima ancora, art. 177 TCEE). La norma dispone che: «[l]a Corte di giustizia dell’Unione europea è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale: a) sull’interpretazione dei trattati; b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi e dagli organismi dell’Unione» (comma 1); «[q]uando una questione del genere è sollevata dinanzi ad un organo giurisdizionale di uno degli Stati membri, tale organo giurisdizionale può, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione» (comma 2); «[q]uando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale organo giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla Corte» (comma 3); «[q]uando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale e riguardante una persona in stato di detenzione, la Corte statuisce il più rapidamente possibile» (comma 4). La norma corrisponde quasi integralmente all’art. 150 TCEEA, nonché (ma con molte differenze) all’art. 41 TCECA (oramai estinto).
Già da questa prima sintesi della pertinente disposizione del Trattato, appare evidente il carattere non contenzioso della competenza in esame. Essa, infatti, non è attivata su ricorso delle parti di una controversia (malgrado sia ormai invalso nella
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prassi anche l’uso dell’espressione «ricorso» pregiudiziale), ma a seguito del rinvio del giudice nazionale innanzi al quale quella controversia pende; si svolge con riferimento alle sole questioni sottoposte da quel giudice; e non è destinata in principio a risolvere la controversia in atto, ma unicamente a fornire gli elementi necessari alla sua soluzione nel processo principale. A differenza insomma di quanto accade per le competenze contenziose, la controversia che oppone le parti s’incardina, si sviluppa e si conclude innanzi ai giudici nazionali, mentre la Corte è chiamata a svolgere un ruolo «ancillare», cioè di supporto e di collaborazione con questi ultimi. Con l’avvertenza però che tale ruolo non si traduce in un’attività meramente consultiva perché la sua pronuncia è vincolante per il giudice del rinvio, sicché in realtà si resta anche qui, come vedremo, all’interno della funzione giurisdizionale che è propria della Corte. Com’è stato ben detto, si è qui in presenza di una competenza che si articola in un dialogo «da giudice a giudice», e nella quale, ferma restando la distinzione dei ruoli e delle responsabilità di ciascuno, assume rilievo essenziale il rapporto di stretta collaborazione che si instaura tra le due istanze giudiziarie in causa. Un rapporto del quale col tempo sono stati anche meglio chiariti i termini e dal quale soprattutto sono state rimosse le ombre che inizialmente avevano provocato una certa resistenza da parte di alcune giurisdizioni nazionali, segnatamente con riguardo ai supposti rischi di «subordinazione» di queste ultime alla Corte di giustizia. Di un siffatto tipo di relazioni invero non solo non c’è traccia alcuna nei Trattati o in qualsiasi altro testo normativo, ma soprattutto non ve n’è nella prassi della Corte di giustizia, si riferisca essa alle più alte giurisdizioni o al più modesto e periferico dei giudici nazionali. Al contrario, da sempre e con voluta insistenza la Corte non ha perso occasione per sottolineare che il rapporto che essa mantiene con quei giudici in sede di esercizio della competenza in esame (ma non solo!) si qualifica in termini non già di «sovra o sotto-ordinazione», ma di autentica collaborazione. Una collaborazione che essa presta come una sorta di ausiliario di giustizia e che appare tanto più utile, se non necessaria, se si considera che nelle ipotesi in esame i giudici nazionali sono chiamati a confrontarsi con un sistema normativo estremamente complesso, qual è quello dell’Unione: un sistema che si articola in una vasta ed intricata panoplia di testi, tutti facenti fede a pari titolo nelle numerose lingue ufficiali, e destinati a produrre effetti in modo uniforme per una pluralità di Stati e di ordinamenti. Ad ogni modo, lo straordinario successo della procedura pregiudiziale (che si è tradotta finora in molte migliaia di sentenze e si avvia ormai a coprire quasi i due terzi del contenzioso innanzi alla Corte) conferma che i giudici nazionali hanno ben compreso che nessun ridimensionamento del loro ruolo e nessuna deminutio del loro prestigio viene dalla sottoposizione di una questione pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo. E anche questo spiega perché, dopo qualche iniziale esitazione, i rinvii pregiudiziali rappresentino oggi una pratica del tutto normale e diffusa per le giurisdizioni nazionali, quale che ne sia il grado o lo Stato di appartenenza; una pratica, va aggiunto, che, nonostante i problemi che il suo stesso successo ha accentuato, si svolge con piena soddisfazione da una parte e dall’altra. Questo, naturalmente, nulla toglie alle inevitabili difficoltà che possono sorgere all’interno di tale rapporto, dovute alle più varie ragioni: difficoltà interne per il giudice del rinvio; mancata o
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erronea comprensione del ruolo della Corte; legittime divergenze di valutazione nell’interpretazione dei confini delle rispettive competenze o della portata di una disposizione dell’Unione; e così via (v. anche più avanti, in questo Capitolo). Ma si tratta di difficoltà comprensibili in un sistema così complesso, che comunque finora non hanno prodotto risultati per questo dirompenti. Si pensi, ad esempio, al caso Gauweiler, nel quale la Corte costituzionale tedesca chiamò in causa la legittimità di talune misure della BCE, mettendo in dubbio la propria disponibilità ad accettare una risposta della Corte di segno diverso, ma poi si conformò alla stessa (v. sentenza 16 giugno 2015, C-62/14; BundesVerfassungsGericht, 21 giugno 2016, 2 bvr 2728/13, nonché infra, p. 705); o al caso Dansk Industri, nel quale la Corte suprema danese rifiutò di conformarsi alla sentenza della Corte, adducendo la mancanza di una base giuridica interna per riconoscere l’effetto orizzontale del principio di non discriminazione in funzione dell’età (sentenza 19 aprile 2016, C-441/14, Ajos, cui fece seguito la sentenza della Corte suprema danese 6 dicembre 2016, 15/2014); o ancora al caso Taricco nel quale la Corte costituzionale italiana ha manifestato seri dubbi sull’applicabilità nell’ordinamento italiano di quella sentenza (che sancisce l’immediata efficacia dell’art. 325 TFUE, con l’effetto di bloccare il gioco della prescrizione per alcuni reati di frode), per contrasto con il principio di legalità delle pene e d’irretroattività della legge penale, e ha riproposto una questione pregiudiziale alla Corte (sentenza 8 settembre 2015, C-105/14, seguita poi dalla causa C-42/17, M.A.S. e M.B.).
2. Le finalità della competenza pregiudiziale La previsione della competenza di cui si discute fu essenzialmente dovuta, in origine, ad una finalità ben precisa: assicurare, grazie alla presenza di un organo giurisdizionale ad hoc, la (tendenziale) uniformità dell’interpretazione del diritto (allora) comunitario. Si trattava in particolare di evitare quanto normalmente accade per i trattati internazionali (specie multilaterali), e cioè che col tempo si arrivasse a una sorta di «nazionalizzazione» delle regole comuni e della loro interpretazione da parte delle singole giurisdizioni nazionali, con conseguente progressiva diversificazione del loro senso e della loro portata da uno Stato all’altro. Un risultato questo che, evidentemente, avrebbe avuto effetti ancor più pregiudizievoli e distorsivi in un sistema normativo che non solo è caratterizzato dalla complessità appena evocata, ma soprattutto è destinato a sorreggere la creazione e il funzionamento di un grande spazio unico tra tutti gli Stati membri dell’Unione. Come ha precisato la stessa Corte, «l’art. 267 TFUE, essenziale ai fini della tutela del carattere comunitario del diritto istituito dai Trattati, ha lo scopo di garantire in qualsiasi circostanza a detto diritto il medesimo effetto in tutti gli Stati membri. La procedura pregiudiziale così istituita mira a prevenire divergenze interpretative del diritto dell’Unione che i giudici nazionali devono applicare e tende a garantire quest’applicazione, conferendo al giudice nazionale un mezzo per eliminare le difficoltà che possa generare il dovere di dare al diritto dell’Unione piena esecuzione nella cornice dei sistemi giurisdizionali degli Stati membri» (parere 8 marzo 2011, 1/09, I-1137, punto 83. V., tra gli altri, anche parere 18 dicembre 2014, 2/13, punto 172 ss.).
L’attribuzione alla Corte della competenza in esame mirava quindi, e naturalmente mira ancora, a rafforzare la capacità di questo corpus normativo comune di «resistere» alle particolarità dei sistemi nazionali, assicurando al tempo stesso quella funzione «ancillare» di cui si è detto poc’anzi a supporto dell’azione dei giudici nazionali nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto dell’Unione. In questo modo, la
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Corte avrebbe potuto, come in effetti ha fatto, garantire l’unità e la coerenza di quel diritto non solo rispetto al relativo ordinamento, ma anche rispetto agli ordinamenti degli Stati membri, assicurando al tempo stesso la salvaguardia del fondamentale principio della certezza del diritto. Le tante nozioni disseminate nei testi, e da questi utilizzate senza ulteriori precisazioni, sono state così via via definite dalla giurisprudenza elaborata dalla Corte in sede di competenza pregiudiziale; e lo sono state per l’appunto non già rinviando alle corrispondenti nozioni dei diritti nazionali, ma ricostruendole come nozioni «autonome», «comunitarie», in modo conforme alla natura e alle finalità del sistema (v. sul punto anche supra, p. 231). Ma tale funzione della Corte ha prodotto risultati ancor più importanti di quella appena illustrata, fino a diventare la “chiave di volta” del sistema giudiziario dell’Unione (così la Corte nel citato parere 2/13, punto 176; ma v. anche sentenza 5 luglio 2016, C-614/14, Ognyanov, punto 15). Anzitutto, la Corte non si è limitata all’interpretazione delle specifiche nozioni in causa, ma si è spinta, per le inevitabili implicazioni sistematiche, a rilevare i principi cardine dell’ordinamento giuridico dell’Unione. Come si è più volte anticipato, in effetti, è proprio nell’esercizio della competenza in esame che la Corte ha potuto elaborare una giurisprudenza fondamentale per la definizione delle caratteristiche di quell’ordinamento: dal principio del primato del relativo diritto, alla c.d. efficacia diretta di talune sue disposizioni, alla responsabilità dello Stato per la violazione delle norme dell’Unione, all’affermazione e alla valorizzazione della tutela dei diritti fondamentali, e così via. Ma soprattutto la Corte ha saputo utilizzare con grande efficacia la competenza di cui si discute ponendola al centro non solo del sistema giurisdizionale dell’Unione, ma più in generale dei rapporti fra il diritto di quest’ultima e il diritto nazionale e soprattutto tra i rispettivi apparati giudiziari. Essa ha fatto invero di detta competenza uno straordinario strumento di cooperazione con i giudici nazionali, favorendo il loro crescente coinvolgimento nell’applicazione del diritto dell’Unione ed esaltandone così il ruolo di giudici «decentrati» di quel diritto. E l’importanza di tale risultato appare evidente ove si consideri che nell’attuale fase di evoluzione del sistema dell’Unione, l’applicazione e il controllo dell’osservanza delle relative norme si realizzano anzitutto all’interno degli Stati membri e devono quindi tuttora far conto, come si è visto (p. 222 ss.), sull’apparato giuridico-istituzionale di quegli Stati. Sicché, quando operano all’interno del meccanismo dei rinvii pregiudiziali, ma più in generale quando applicano il diritto dell’Unione, i giudici nazionali agiscono appunto come una sorta di organi decentrati della giurisdizione europea, dato che concorrono anch’essi a garantire l’osservanza di quel diritto. Come ha ribadito la Corte, «[i]l sistema introdotto dall’art. 267 TFUE istituisce […] una cooperazione diretta tra la Corte e i giudici nazionali, nell’ambito della quale questi ultimi partecipano strettamente alla corretta applicazione e all’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione, nonché alla tutela dei diritti attribuiti da quest’ordinamento giuridico ai privati», sicché essi adempiono, in collaborazione con la Corte, «ad una funzione loro attribuita congiuntamente al fine di garantire il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati», funzione che è «essenziale» «alla salvaguardia della natura stessa dell’ordinamento istituito dai Trattati» (parere 1/09, cit., rispettivamente punti 84, 69 e 85; ma v. anche, da ultimo, sentenza 3 ottobre
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2013, C-583/11 P, Inuit Tapiriit Kanatami e a. c. Parlamento e Consiglio; parere 18 dicembre 2014, 2/13, punto 176).
In questo modo, la Corte ha creato le condizioni per assicurare un controllo diffuso sul rispetto del diritto dell’Unione e quindi per rafforzare complessivamente l’efficacia e le garanzie del sistema, essendo evidentemente impensabile che le istituzioni europee possano da sole, anche mettendo nel conto le denunce dei privati, svolgere un’azione capillare di controllo e di sanzione delle violazioni del diritto dell’Unione. Non solo, ma attraverso la sottolineata azione della Corte, la competenza pregiudiziale è diventata rapidamente, come si è notato a suo tempo (supra, pp. 222 ss. e 232 ss.), uno strumento fondamentale anche per la tutela dei diritti garantiti dalle norme dell’Unione e in particolare per la tutela giudiziaria dei privati, sia nei confronti delle istituzioni europee, sia soprattutto nei confronti del proprio Stato membro. Rispetto alle prime, la tecnica del rinvio pregiudiziale consente, infatti, alle condizioni che vedremo, di rimettere in questione la validità di atti di quelle istituzioni anche nei casi in cui ai privati sia precluso impugnarli con un ricorso diretto a causa delle limitazioni esaminate nel Capitolo precedente. Ma ancor più importante è la possibilità offerta agli interessati di tutelarsi attraverso la competenza pregiudiziale della Corte nei confronti degli Stati membri, e anzitutto nei confronti del proprio Stato. Ciò è stato reso possibile, com’è noto, grazie a quello che è stato chiamato l’uso «alternativo» di detta competenza, e cioè attraverso la sottoposizione alla Corte di giustizia di questioni che vertono formalmente sulla portata di un principio o di una disposizione del diritto dell’Unione, ma che in realtà consentono di mettere in causa una norma o una prassi interna di uno Stato membro, in quanto ritenute non conformi a quel diritto. Se è vero, infatti, come subito vedremo, che in sede di competenza pregiudiziale la Corte non può pronunciarsi direttamente sulla compatibilità di una misura nazionale con il diritto dell’Unione, è anche vero, come risulta da una giurisprudenza assolutamente univoca, che essa può nondimeno fornire al giudice nazionale tutti gli elementi di interpretazione di tale diritto che gli consentano di rilevare eventuali profili di incompatibilità delle proprie disposizioni o prassi nazionali con lo stesso. Ciò significa, in pratica, che il giudice a quo usa chiedere alla Corte di interpretare determinate disposizioni di diritto dell’Unione per accertare se sulla base di tale interpretazione ne risulti o meno legittimata la misura statale della cui compatibilità con le medesime disposizioni si dubita; a seguito della risposta della Corte esso potrà, se del caso, disapplicare detta misura e assicurare così la tutela del soggetto interessato.
3. Le condizioni per il suo esercizio Veniamo ora ad un esame più specifico della competenza in discorso. Va subito precisato che quella pregiudiziale è, allo stato, una competenza esclusiva della Corte, anche se ora il Trattato prevede che essa possa essere devoluta al Tribunale «in materie specifiche determinate dallo Statuto» (art. 256, par. 3, TFUE).
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Finora però tale previsione non è stata attuata, malgrado che al Trattato di Nizza fosse allegata una dichiarazione (n. 12) che invitava la Corte e la Commissione a procedere «con la massima sollecitudine» in tal senso. Se e quando ciò avverrà, le relative decisioni del Tribunale potranno essere oggetto di riesame da parte della Corte, alle condizioni ed entro i limiti previsti dallo Statuto, ove sussistano gravi rischi che l’unità o la coerenza del diritto dell’Unione siano compromesse. V. art. 62 Statuto Corte, nonché supra, p. 253. Va anche ricordato che, nell’ambito di detta devoluzione, il Tribunale può a sua volta spogliarsi della competenza pregiudiziale a favore della Corte ogniqualvolta «ritenga che la causa richieda una decisione di principio che potrebbe compromettere l’unità o la coerenza del diritto dell’Unione» (art. 256, par. 3, comma 2, TFUE).
Ciò chiarito, si può cominciare con il ricordare che i giudici nazionali possono porre alla Corte questioni d’interpretazione del diritto dell’Unione e d’interpretazione e di validità del diritto derivato, quando ovviamente il diritto dell’Unione è di applicazione, il che non avviene, ad es., nel caso di questioni che rilevano della PESC (art. 24 TUE) o quando il caso di specie non presenti elementi transfrontalieri. Nel primo caso, peraltro, ove sia ammesso il ricorso di annullamento dell’atto PESC ai sensi dell’art. 275 TFUE, sarà ricevibile anche un rinvio pregiudiziale (Corte giust. 28 marzo 2017, C72/15, Rosneft). Nell’altra ipotesi evocata, invece, va segnalato che la Corte si è dichiarata competente, malgrado le riserve espresse da alcuni suoi AG, a pronunciarsi in via pregiudiziale anche quando il caso è tutto interno ad uno Stato membro (v. da ultimo sentenza 15 novembre 2016, C268/15, Ullens de Schooten; 13 giugno 2017, C-591/15, The Gibraltar Betting and Gaming Association). E ciò, in particolare, quando disposizioni del diritto dell’Unione sono state rese applicabili dalla normativa nazionale, la quale si è uniformata, per le soluzioni date a situazioni i cui elementi sono tutti collocati all’interno di un solo Stato membro, alle disposizioni adottate dal diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenze del 18 ottobre 1990, C-297/88 e C-197/89, Dzodzi, I-3763; 17 luglio 1997, C-28/95, Leur Bloem, I-4161; C-130/95, Giloy, I-4291; 14 marzo 2013, C-32/11, Allianz Hungária Biztosító e a., punto 20; 7 novembre 2013, C-313/12, Romeo, punto 19 ss.; 16 giugno 2016, C-351/14, Rodriguéz Sánchez, punto 60 ss. Ma non quando le disposizioni di diritto dell’Unione sono prese solo a modello per corrispondenti norme del diritto nazionale: v. per tutte, sentenza 16 giugno 2015, C-62/14, Gauweiler, punto 12 s.); oppure perché non poteva escludersi che cittadini stabiliti in altri Stati membri fossero stati o fossero interessati ad avvalersi delle stesse libertà per esercitare attività sul territorio dello Stato membro che ha emanato la normativa nazionale in discussione e, pertanto, che tale normativa, applicabile indistintamente ai cittadini nazionali e ai cittadini di altri Stati membri, possa produrre effetti che non siano limitati a tale Stato membro (v., in tal senso, in particolare, sentenze 1° giugno 2010, C-570/07 e C-571/07, Blanco Pérez e Chao Gómez, punto 40; 18 luglio 2013, C-265/12, Citroën Belux, punto 33; 5 dicembre 2013, da C-159/12 a C-161/12, Venturini e a., punti 25 e 26); oppure, ancora, quando il diritto nazionale imponga al giudice del rinvio di riconoscere a un cittadino dello Stato membro cui detto giudice appartiene gli stessi diritti di cui il cittadino di un altro Stato membro, nella stessa situazione, beneficerebbe in forza del diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenze 5 dicembre 2000, C-448/98, Guimont, punto 23; 21 giugno 2012, C-84/11, Susisalo e a., punto 20; e 21 febbraio 2013, C-111/12, Ordine degli Ingegneri di Verona e Provincia e a., punto 35); oppure quando la questione riguarda un procedimento di annullamento di disposizioni applicabili non solo nei confronti dei cittadini nazionali, ma anche dei cittadini degli altri Stati membri, sicché la decisione che il giudice adotterà produrrà effetti anche nei confronti di questi ultimi (v., in tal senso, sentenza 8 maggio 2013, C-197/11 e C-203/11, Libert e a., punto 35).
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Le questioni d’interpretazione del diritto dell’Unione possono vertere, in principio, su qualsiasi disposizione di quel diritto: si tratti delle norme dei Trattati (intesi questi in senso lato, e quindi comprensivi anche di tutti i testi allegati, inclusa la Carta dei diritti fondamentali) o degli atti di diritto derivato «compiuti dalle istituzioni» (anche se atipici o privi di effetti vincolanti) o degli accordi stipulati dall’Unione (inclusi i c.d. accordi misti e gli atti degli organi istituiti da tali accordi), e perfino dei principi generali di diritto, che – come più volte ricordato – fanno parte integrante dell’ordinamento giuridico dell’Unione. Si noti che mentre l’art. 234 TCE parlava solo degli atti delle istituzioni della Comunità, l’art. 267 TFUE estende il controllo agli atti di tutti gli organi ed organismi dell’Unione. Per quanto concerne l’interpretazione di atti non vincolanti (come le raccomandazioni e i pareri) e degli atti atipici, come ad es., le «risoluzioni» del Consiglio, fra le tante, v. sentenze 15 giugno 1976, 113/75, Frecassetti, 983; 27 maggio 1981, 142/80 e 143/80, Essevi e Salendo, 1431; 13 dicembre 1989, C-322/88, Grimaldi, 4407 (ma in termini non conclusivi). Quanto agli accordi internazionali dell’Unione, conclusi con atti «compiuti dalle istituzioni» e facenti «parte integrante dell’ordinamento giuridico dell’Unione», v. sentenze 30 aprile 1974, 181/73, Haegeman, 449; 5 febbraio 1976, 87/75, Bresciani, 129 (con particolare riguardo agli accordi misti); 30 settembre 1987, 12/86, Demirel, 3719; 16 giugno 1998, C53/96, Hermès, I-3603; 14 dicembre 2000, C-300/98 e C-392/98, Parfums Christian Dior, I-11307; 8 marzo 2011, C-240/09, Lessochranárske zoskupenie, I-1255; 11 marzo 2015, C-464/13 e 465/13, Oberto e O’ Leary. Cfr. anche sentenze 20 settembre 1990, 192/89, Sevince, 3461; e 16 dicembre 1992, C-237/91, Kus, I-6781, per gli atti degli organi istituiti dagli accordi di associazione. Naturalmente, la Corte non è invece competente a interpretare disposizioni di diritto internazionale che vincolano gli Stati membri fuori dal quadro del diritto dell’Unione, e in particolare degli accordi conclusi tra Stati membri e Stati terzi (v., per tutte, ordinanza 5 febbraio 2015, C-451/14, Petrus, punto 15; ordinanza 25 febbraio 2016, C-520/15, Aiudapds, punto 22).
In sede di competenza pregiudiziale, la Corte non può invece interpretare norme o prassi nazionali per pronunciarsi direttamente sulla loro compatibilità con il diritto dell’Unione, anche se, come si è visto poco fa, la limitazione può essere aggirata riformulando il quesito come volto a chiarire se la norma di diritto dell’Unione vada interpretata in un senso che consenta (o meno) ad uno Stato membro di mantenere norme o prassi del tipo di quelle messe in causa. Il controllo di validità si esercita invece, ovviamente, sugli atti delle istituzioni e si sviluppa per l’essenziale, anche quanto ai suoi effetti, sul modello del controllo di legittimità svolto nei ricorsi di annullamento. Questa ipotesi assume un particolare rilievo anche perché può essere, ed è stata, utilizzata nella prassi come ulteriore strumento a disposizione dei privati ai fini di detto controllo e quindi a parziale compensazione dei limiti che, come si disse, la legittimazione attiva di tali soggetti incontra rispetto ai ricorsi diretti. Come la stessa Corte ha osservato in più occasioni, il rinvio pregiudiziale e il ricorso per annullamento costituiscono due aspetti del sindacato di legittimità voluto dal Trattato (v. per tutte Corte giust. 27 febbraio 1985, 112/83, Societé des produits de mais, 719). Essa ha però escluso la ricevibilità di un rinvio pregiudiziale di validità nel caso in cui l’interessato, pur essendo sicuramente legittimato a farlo, non avesse esperito il ricorso per annullamento nei termini all’uopo previsti (sentenza 9 marzo 1994, C-188/92, TWD Textilwerke Deggendorf, I-835; ma v. anche, tra le altre, sentenze 30 gennaio 1997, C-178/95, Wiljo, I-585; 11 novembre 1997, C-408/95, Eurotunnel e a., I-6315; 18 luglio 2007, C-119/05, Lucchini, I-6199; sentenza Rosneft, cit.).
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Legittimati a operare il rinvio pregiudiziale sono gli «organi giurisdizionali» degli Stati membri di ogni ordine e grado. Com’è noto, peraltro, in conformità agli indirizzi interpretativi abitualmente seguiti per l’interpretazione delle nozioni utilizzate dai testi dell’Unione, nonché per superare le difficoltà legate ai particolarismi dei singoli ordinamenti giuridici, la Corte ha elaborato una definizione comunitaria della nozione di «organo giurisdizionale» ai sensi della disposizione in esame, riconducendovi tutti gli organi che presentino cumulativamente una serie di requisiti via via individuati e precisati dalla stessa Corte: l’origine legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che applichi norme giuridiche e non si pronunci secondo equità, la sua indipendenza ed imparzialità, nonché il carattere giurisdizionale della sua pronuncia. V., tra le tantissime, Corte giust. 31 maggio 2005, C-53/03, Syfait, I-4609; 19 settembre 2006, C-506/04, Wilson, I-8613; ordinanza 14 maggio 2008, C-109/07, Pilato, I-3503; 16 dicembre 2008, C-210/06, Cartesio, I-9641; 14 giugno 2011, C-196/09, Miles, I-5105; 17 luglio 2014, C58/13 e C-59/13, Torresi; 6 ottobre 2015, C-203/14, Consorci Sanitari del Maresmo; 24 maggio 2016, C-396/14, MT Højgaard e Züblin. Per rilievi critici, v. le conclusioni dell’AG Ruiz-Jarabo Colomer, presentate il 28 giugno 2001, nella causa C-17/00, De Coster, I-9445. I criteri di cui nel testo hanno permesso alla Corte di risolvere molte situazioni dubbie. Per scegliere solo qualche es. all’interno di una prassi molto varia e significativa, si può ricordare che sono stati esclusi dalla nozione di «organo giurisdizionale» i collegi arbitrali (sentenza 23 marzo 1982, 102/81, Nordsee, 1095), ma non i tribunali arbitrali di categoria, la cui competenza non dipenda dall’accordo delle parti e la cui composizione sia disciplinata per legge (sentenze 17 ottobre 1989, 109/88, Danfoss, 3199; 12 giugno 2014, C-377/13, Ascendi Beiras Litoral; 6 ottobre 2015, C-203/14, Consorcio Sanitario del Maresme; 24 maggio 2016, C-396/14, MT Højgaard e Züblin), né le giurisdizioni nazionali chiamate a decidere, in un caso previsto dalla legge, su un gravame avverso un lodo arbitrale, anche quando, in base al compromesso, devono giudicare secondo equità (sentenza 27 aprile 1994, C-393/92, Comune di Almelo, I-1477). Sono stati del pari esclusi i consigli degli ordini professionali, a meno che non si pronuncino su una controversia vertente sulle condizioni di ammissione al Consiglio dell’ordine o su una sanzione inflitta dallo stesso Consiglio, sulle quali quest’ultimo è per legge chiamato a decidere (ordinanza 18 giugno 1980, 138/80, Borker, 1975; nonché sentenze 6 ottobre 1981, 246/80, Broekmeulen, 2311; 22 dicembre 2010, C-118/09, Koller, I-13627; Torresi cit.); l’autorità garante della concorrenza ellenica (Syfait, cit.); l’ufficio ceco per la proprietà industriale (ord. 14 novembre 2013, C-49/13, MF 7); l’autorità italiana per la vigilanza sui contratti pubblici (ord. 17 luglio 2014, C-427/13, Emmeci) e la commissione austriaca di controllo in materia di telecomunicazioni (ordinanza 6 ottobre 2005, C-256/05, Telekom Austria). Sono stati invece ricompresi nella nozione di giurisdizione, con riguardo all’ordinamento italiano (attuale o passato): il pretore italiano (sentenza 11 giugno 1987, 14/86, Pretore di Salò, 2545); il giudice istruttore (ordinanza 15 gennaio 2004, C-235/02, Saetti e Freudiani, I-1005), ma non il Procuratore della Repubblica, quale magistrato inquirente (sentenza 12 dicembre 1996, C-74/95 e C-129/95, Procura di Torino, I-6609); il giudice cautelare e il giudice adito nell’ambito di procedimenti ingiuntivi (anche se, rispetto a questi ultimi, la Corte ha raccomandato che la questione pregiudiziale sia posta solo in seguito a dibattito in contraddittorio: v., ad es., sentenza 17 maggio 1994, C-18/93, Corsica Ferries, I-1783); il Consiglio di Stato quando emette un parere nell’ambito di un ricorso straordinario al Capo dello Stato (sentenze 16 ottobre 1997, da C-69/96 a C-79/96, Garofalo e a., I-5603, e 23 dicembre 2009, C-305/08, CoNISMa, I-12129), ma non i giudici che si pronunciano all’esito di procedimenti di volontaria giurisdizione (sentenza 19 ottobre 1995, C-111/94, Job Centre, I-3361), né la Corte dei conti quando si pronuncia in sede di controllo degli atti del governo e delle amministrazioni dello Stato (ordinanze 26 novembre 1999, C-192/98,
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Anas, I-8583, e C-440/98, RAI, I-8597). Quanto alle Corti costituzionali, i dubbi iniziali sulla loro riconducibilità alla nozione in discorso, sono stati risolti dalla prassi in senso positivo, visto che alcune hanno concretamente operato un rinvio pregiudiziale e altre lo hanno annunciato o comunque non escluso. A sua volta la Corte di Lussemburgo non ha sollevato alcun dubbio quando simili rinvii le sono pervenuti. Tra le pronunce conseguenti a tali sviluppi, v., per la Corte costituzionale austriaca, Corte giust. 8 novembre 2001, C-143/99, Adria-Wien Pipeline e Wietersdorfer & Peggauer Zementwerke (c.d. Adria-Wien Pipeline), I-8365; 8 maggio 2003, C-171/01, Wählergruppe Gemeinsam, I-4301; 20 maggio 2003, C-465/00, C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk e a., I-4989; nonché 8 aprile 2014, C-594/12, Seitliger e a. (riunita, ai fini della fase orale della procedura e della sentenza, con la C-293/12, Digital Rights Ireland); per la Corte costituzionale (già Corte arbitrale) belga, v. Corte giust. 16 luglio 1998, C-93/97, Fédération belge des chambres syndicales de médecins, I-4837; ma poi sono seguite numerose altre pronunce, essendo ormai i rinvii pregiudiziali divenuti una prassi del tutto corrente per quella Corte; per la Corte costituzionale danese, sentenza 19 aprile 2016, C-441/14, Dansk Industri; per la Corte costituzionale lituana, v. Corte giust. 9 ottobre 2008, C-239/07, Sabatauskas e a., I-7523; per la Corte costituzionale maltese, v. Corte giust. 27 giugno 2013, C-71/12, Vodafone Malta e Mobisle Communications; per la Corte costituzionale spagnola, v. Corte giust. 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni; per il Conseil constitutionnel francese, v. Corte giust. 30 maggio 2013, C-168/13 PPU, F. Quanto alla Corte costituzionale tedesca, dopo aver dichiarato la propria disponibilità a operare rinvii pregiudiziali, nel quadro di un rapporto non sempre facile e univoco, ma comunque, a suo stesso dire, di Europarechtsfreundlichkeit (cioè di apertura ed amicizia) nei confronti della sua omologa di Lussemburgo e del diritto dell’Unione, in una serie di importanti pronunce, tra le quali segnaliamo in particolare le relativamente recenti sentenze «Lissabon» del 30 giugno 2009 (2 BvE 2/08) e «Honeywell» del 6 luglio 2010 (2 BvR 2661/06), essa ha finalmente compiuto tale passo con l’ordinanza del 14 gennaio 2014 (2 BVG 2728/13), decidendo di sottoporre alla Corte una (articolata) serie di quesiti relativamente al c.d. programma OMT (v. sentenza 16 giugno 2015, C-62/14, Gauweiler, su cui v. anche infra, p. 705). Quanto infine alla Corte costituzionale italiana, dopo aver dato l’impressione di volersi considerare anch’essa «organo giurisdizionale» ai fini della competenza pregiudiziale (Corte cost. 18 aprile 1991, n. 168, in Foro it., 1992, I, 660), essa si era alla fine orientata in senso opposto in quanto, «esercitando essenzialmente una funzione di controllo costituzionale, di suprema garanzia dell’osservanza della Costituzione della Repubblica», non poteva essere inclusa fra gli organi giudiziari, ordinari o speciali che siano (Corte cost., ordinanze 15-29 dicembre 1995, n. 536, in Foro it., 1996, I, 783). Successivamente però la stessa Corte ha rovesciato tale indirizzo (sia per i casi in cui decide i giudizi principali, sia per i giudizi c.d. incidentali) ed ha quindi deciso di operare, con la nota ordinanza 13 febbraio 2008, n. 103, un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, rinvio cui quest’ultima ha risposto con la sentenza 17 novembre 2009, C169/08, Presidente del Consiglio dei Ministri, I-10821. Ad esso hanno fatto poi seguito nuovi rinvii, questa volta in sede di esame di un’eccezione di illegittimità costituzionale (Corte giust. 26 novembre 2014, C-418/13, Napolitano e a.; nonché la causa pendente C-42/17, M.A.S. e M.B.).
Come si è detto, se non è di ultima istanza, il giudice nazionale ha la facoltà di operare il rinvio pregiudiziale, restando inteso che se decide di non farlo, egli può procedere autonomamente all’interpretazione del Trattato o dell’atto in causa. Di quest’ultimo, anzi, il giudice potrà anche valutare, se ne è richiesto, la validità, con l’avvertenza però che se l’esame dovesse concludersi con esito negativo, egli dovrà astenersi dal dichiarare l’invalidità dell’atto e dovrà deferire la questione a Lussemburgo. Ciò per assicurare sia l’uniformità nell’applicazione del diritto dell’Unione, sia la coerenza del sistema di tutela giurisdizionale istituito dal Trattato: questo infatti ha istituito un sistema completo di rimedi giurisdizionali e di procedimenti destinati ad affidare alla Corte di giustizia il sindacato di legittimità sugli atti delle istituzioni; e poiché l’art. 263 TFUE (già art. 230 TCE)
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attribuisce a quest’ultima competenza esclusiva per annullare un atto di un’istituzione dell’Unione, la coerenza di quel sistema esige che il potere di accertare l’invalidità dello stesso atto resti ugualmente riservato alla Corte, anche se la questione sia sollevata dinanzi ad un giudice nazionale (v. in tal senso la celebre sentenza 22 ottobre 1987, 314/85, Foto-Frost, 4199, che è all’origine del riferito indirizzo).
Anche (ma non solo) in vista di queste situazioni, la Corte ha riconosciuto al giudice nazionale che operi un rinvio pregiudiziale il potere di sospendere, in attesa della pronuncia della Corte, l’efficacia di provvedimenti nazionali fondati su atti dell’Unione rispetto alla cui validità detto giudice nutra seri dubbi; così come, per altro verso, ha riconosciuto al medesimo giudice, perfino in caso di silenzio del suo ordinamento nazionale, il potere di sospendere l’efficacia di leggi e atti della cui legittimità “comunitaria” esso abbia investito la Corte in via pregiudiziale (infra, p. 361). La soluzione di lasciare libere le predette giurisdizioni di non effettuare il rinvio pregiudiziale si spiega con il fatto che in tal caso gli interessati possono pur sempre impugnare la loro decisione e riproporre quindi nel successivo grado di giudizio la richiesta di rinvio alla Corte. Per l’opposto motivo, oltre che per la loro vocazione a definire gli indirizzi giurisprudenziali di un ordinamento, il Trattato ha invece previsto che per gli organi giurisdizionali «avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso di diritto interno», il rinvio pregiudiziale costituisce un vero e proprio obbligo. Si noti che tale espressione non esige necessariamente che la giurisdizione di cui si tratta sia, per così dire, «al vertice» della gerarchia giurisdizionale, ma solo che avverso le sue decisioni non siano ulteriormente proponibili rimedi giurisdizionali di diritto interno. Sulla nozione in questione, v. Corte giust. 4 novembre 1997, C-337/95, Parfums Christian Dior, I-6013; 4 giugno 2002, C99/00, Lyckeskog, I-4839; 15 settembre 2005, C-495/03, Intermodal Transports, I-8151; 16 dicembre 2008, C-210/06, Cartesio, I-9641; 15 gennaio 2013, C-416/10, Križan e a.; 15 marzo 2017, C3/16, Aquino.
Detto obbligo viene però meno, oltre che in presenza delle altre condizioni generali di applicazione dell’art. 267 TFUE, di cui si dirà tra breve, in alcune ipotesi definite dalla stessa giurisprudenza della Corte e in parte recepite dai testi (art. 99 reg. proc. Corte). E segnatamente, quando la questione sollevata sia materialmente identica a altra questione già sottoposta alla Corte in relazione ad analoga fattispecie, ferma restando beninteso la facoltà del giudice nazionale di riproporre la questione; quando sul punto di diritto di cui trattasi già esista una consolidata giurisprudenza della Corte; e quando l’applicazione, o non applicazione, della norma dell’Unione al caso concreto si imponga con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi. Art. 99 reg. proc. Corte: «Quando una questione pregiudiziale è identica a una questione sulla quale la Corte ha già statuito, quando la risposta a tale questione può essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza o quando la risposta alla questione pregiudiziale non dà adito a nessun ragionevole dubbio», quest’ultima condizione evoca con tutta evidenza la c.d. teoria dell’atto chiaro, dedotta a sua volta dal noto principio in claris non fit interpretatio, teoria che soprattutto in passato è stata utilizzata da alcune giurisdizioni nazionali (specie quelle che con essa avevano più familiarità, come il Conseil d’Etat francese) per evitare il rinvio pregiudiziale, perfino quando in suo nome sposavano soluzioni…. opposte a quelle seguite dalla Corte. Per le condizioni di cui nel testo, v. la celebre sentenza 6 ottobre 1982, 283/81, CILFIT, 3415, nella quale tuttavia – nel tenta-
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tivo di definire i limiti della ricordata teoria – la Corte ha precisato che per valutare se l’interpretazione della norma ponga o meno un ragionevole dubbio, il giudice nazionale: deve convincersi che la stessa conclusione si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati membri ed alla stessa Corte; e deve tener conto delle caratteristiche peculiari del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che solleva la sua interpretazione (testi redatti in molte lingue ufficiali e tutti facenti fede; terminologia specifica; non necessaria coincidenza tra le nozioni utilizzate da tale diritto e quelle corrispondenti degli ordinamenti nazionali), della necessità di una sua interpretazione sistematica ed evolutiva, oltre che alla luce delle sue finalità; nonché del rischio di divergenze giurisprudenziali nell’Unione (sul punto v. anche le conclusioni presentate dall’AG Tizzano, il 21 febbraio 2002, nella causa C-99/00, Lyckeskog, I-4839. Ma v. anche, più recentemente, sentenze 28 febbraio 2012, C-41/11, Inter-Environnement Wallonie; 9 settembre 2015, C-160/14, Ferreira Da Silva e Brito, e C-72/14 e C-197/14, X e van Dijk). Va aggiunto che, svolgendo gli indirizzi giurisprudenziali di cui nel testo, l’art. 99 reg. proc. Corte è stato modificato per consentire, quando ricorrono le indicate condizioni, di decidere la causa non con sentenza, ma con ordinanza motivata. Nella prassi, comunque, la trattazione delle ipotesi in esame è agevolata dal rapporto diretto che la Corte normalmente instaura con il giudice del rinvio per segnalare eventuali precedenti o pertinenti indirizzi giurisprudenziali.
Al di fuori di tali casi, l’inosservanza dell’obbligo in esame costituisce una violazione del Trattato e può quindi giustificare un ricorso per inadempimento da parte della Commissione (v., ad es., sentenza 9 dicembre 2003, C-129/00, Commissione c. Italia, I-4637, su cui v. supra, p. 262 s., nonché infra, p. 364 s.). Nei limiti appena enunciati e in omaggio alle finalità della competenza in esame, la decisione di sospendere il giudizio nazionale e di sottoporre alla Corte la questione pregiudiziale è di esclusiva competenza del giudice nazionale, perché a questi spetta valutare – su richiesta delle parti o, all’occorrenza, anche d’ufficio – se la pronuncia della Corte sia, come precisa il Trattato, «necessaria per emanare la sua decisione» nel caso di specie. Cfr. sentenza 18 luglio 2013, C-136/12, Consiglio Nazionale dei Geologi. Le parti possono certo chiedere (e normalmente anzi sono esse a chiedere) il rinvio, ma l’oggetto di questo è definito e delimitato dai quesiti proposti dal giudice nazionale, le parti non potendo modificarlo o ridefinirlo davanti alla Corte (v. Corte giust. 12 agosto 2008, C-296/08 PPU, Santesteban Goicoechea, I6307; nonché, nello stesso senso, 21 dicembre 2011, C-316/10, Danske Svineproducenter, I-13721; 19 gennaio 2017, C-344/15, National Roads Authority).
In effetti, come insistentemente ribadisce la stessa giurisprudenza europea, nella ripartizione di competenze voluta dal Trattato tra Corte e giudici nazionali, sono questi ultimi ad avere conoscenza diretta dei fatti della causa e a trovarsi quindi nella situazione più idonea a valutare, in relazione alle peculiarità del caso, sia la necessità del rinvio ai fini della decisione della causa innanzi a essi pendente, sia la pertinenza con l’oggetto della controversia delle questioni che si chiede loro di sottoporre a Lussemburgo. Di regola la decisione del giudice nazionale sullo specifico punto del rinvio non è suscettibile d’impugnazione nell’ordinamento nazionale ad opera delle parti del giudizio a quo (v. ad es., per l’Italia, Cass. 10 agosto 1996, n. 7410, in Foro it., 1997, I, 1563; Cass. civ. 25 maggio 1984, n. 3223, in Giur. it., 1984, I, 1, 1667; da ultimo, Cass. Sez. Un. civ. 14 dicembre 2016, n. 25629, Foro it. 2017, I, 580). V. però Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha ritenuto violare la Conven-
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zione il mancato rinvio, se non motivato (sentenze 10 aprile 2012, ricorso n. 4832/04, Vergauwen; 8 aprile 2014, ricorso n. 17120/09, Dhahbi; 21 luglio 2015, ricorso n. 38369/09, Schipani). D’altra parte, si registra una tendenza delle giurisdizioni costituzionali di alcuni Stati membri addirittura a configurare il diniego del rinvio pregiudiziale come una violazione del diritto fondamentale a una tutela giudiziaria effettiva: v. in tal senso Bundesverfassungsgericht tedesco 22 ottobre 1986, Solange II (73, 339) e 13 marzo 2007, punto 72 (1 BvF 1/05); Verfassungsgerichtshof austriaco 9 settembre 2003 (B-614/01 3 B-1642/02); Tribunal Constitucional spagnolo 19 aprile 2004, n. 58 (STC 58/2004); Corte cost. ceca (Ustavni Soud), 8 gennaio 2009, n. 1009/08. La Corte è stata comunque molto severa nel valutare le norme nazionali che a qualsiasi titolo limitino la facoltà o l’obbligo di rinvio da parte del giudice (v. sentenze 16 gennaio 1974, 166/73, Rheinmühlen, 33; 9 marzo 1078, C-106/77, Simmenthal; 27 giugno 1991, C-348/89, Mecanarte; 14 dicembre 1995, C312/93, Petrebroeck, I-4599; 16 dicembre 2008, C-210/06, Cartesio, cit.; 22 giugno 2010, C188/10 e C-189/10, Melki e Abdeli, I-5667; 8 novembre 2016, C-554/14, Ognyanov). Così come la Corte sancisce, a ogni occasione, l’obbligo del giudice del rinvio di rispettare la propria pronuncia, anche se essa fosse in contrasto con una sentenza di una corte superiore (v., per tutte, di recente, sentenza 5 aprile 2016, C-689/13, PFE).
Ne consegue, tra l’altro, che nell’esaminare la ricevibilità dell’ordinanza di rinvio la Corte non può sindacare tali valutazioni del giudice nazionale, ma è tenuta a dar seguito a quella ordinanza, almeno fino a quando rimane in piedi, e cioè fino a quando non sia stata ritirata dallo stesso giudice o annullata da un giudice superiore. Il ritiro dell’ordinanza di rinvio può essere deciso solo dal giudice, le parti non potendo avere alcun ruolo al riguardo. Se però esse comunicano alla Corte che è cessata la materia del contendere, ciò provocherà presumibilmente una richiesta d’informazioni al giudice nazionale e quindi, con ogni probabilità, l’estinzione del giudizio innanzi alla Corte. In ogni caso, questo resterà in piedi fino alla notizia ufficiale del ritiro dell’ordinanza da parte del giudice a quo, che può essere deciso, come precisato ora dal nuovo regolamento di procedura dopo alcune incertezze verificatesi nella prassi, fino alla comunicazione della data di pronuncia della sentenza della Corte (art. 100, par. 1, reg. proc. Corte).
Ciò malgrado, restano alla Corte ampi margini di apprezzamento sulla verifica della propria competenza o sulla ricevibilità dell’ordinanza di rinvio, visto che, ancora una volta per giurisprudenza costante, spetta ad essa verificare le condizioni per l’esercizio della propria giurisdizione. Va notato che la distinzione tra irricevibilità e incompetenza della Corte non è sempre chiara nella giurisprudenza, anche perché i risultati non sono dissimili tra un’ipotesi e l’altra. Si può dire, comunque, che la Corte non ha competenza a giudicare su un rinvio pregiudiziale quando questo fuoriesce dal quadro della competenza della Corte quale definito dall’art. 267 TFUE (ad es.: rinvii aventi ad oggetto disposizioni nazionali, o un controllo sulla validità di norme primarie del diritto dell’Unione, o diposizioni isolate della Carta dei diritti fondamentali in casi in cui la stessa non è applicabile). Per contro, si avranno casi d’irricevibilità quando il rinvio, pur rientrando nella competenza della Corte, presenta aspetti che non le consentono di impegnarsi nell’esame dello stesso rinvio (ad es., rinvii operati da organi non giurisdizionali, o in casi meramente ipotetici, o in situazioni puramente interne).
In particolare, la Corte non solo deve accertare, come si è visto, se l’ordinanza proviene da una «giurisdizione di uno Stato membro» ai sensi del Trattato, e se ha ad oggetto questioni di diritto dell’Unione; ma deve anche valutare aspetti che at-
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tengono direttamente al contenuto dell’ordinanza e alle condizioni del rinvio. Tale verifica si svolge con riguardo alle seguenti ipotesi. Anzitutto, la Corte accerta se il giudice del rinvio abbia fornito gli elementi di diritto o di fatto necessari per consentire alle altre parti autorizzate ad intervenire nella procedura pregiudiziale di svolgere osservazioni sui quesiti, e soprattutto alla Corte di dare una risposta utile a tali quesiti. È quanto la Corte ha stabilito già nella nota sentenza 26 gennaio 1993, da C-320/90 a C322/90, Telemarsicabruzzo, I-393, seguita poi da una costante giurisprudenza conforme (ma sul punto v. anche art. 94 reg. procedura, nonché tra breve). Naturalmente, l’insufficienza degli elementi non comporta l’automatica irricevibilità del rinvio, perché, secondo l’art. 101 reg. proc. Corte, prima di decidere in tal senso la Corte, sentito l’AG, può domandare i necessari chiarimenti al giudice a quo entro un termine da essa stabilito; e, come si è detto, così avviene di regola nella prassi, specie dopo la citata sentenza Telemarsicabruzzo.
Ma soprattutto la Corte verifica la rilevanza dei quesiti ai fini della decisione del giudizio a quo e quindi la necessità del rinvio, assumendo però come premessa che quest’ultimo gode di una presunzione di rilevanza (v., per tutte, la citata sentenza Cartesio, 67, e, più recentemente, 22 settembre 2016, C-113/15, Breitsamer und Ulrich, 33s). L’irricevibilità può quindi sussistere, in particolare, quando le questioni siano manifestamente irrilevanti per la soluzione del giudizio principale o siano di natura puramente ipotetica, o comunque «qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione di una norma comunitaria chiesta dal giudice nazionale non ha alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto della causa» (v. per tutte, in una costante e conforme giurisprudenza, Corte giust. 31 gennaio 2008, C-380/05, Centro Europa 7, I-349, 53; 7 novembre 2013, C-313/12, Romeo, 39 s.; 27 ottobre 2016, C114/15, Audace, 33 ss.; 31 gennaio 2017, C-573/14, Lounani, 56). Come la Corte ripete insistentemente, «lo spirito di collaborazione che deve presiedere allo svolgimento del procedimento pregiudiziale implica che il giudice nazionale […] tenga presente la funzione di cui la Corte è investita, che è quella di contribuire all’amministrazione della giustizia negli Stati membri e non di esprimere pareri a carattere consultivo su questioni generali o ipotetiche» (Corte giust. 5 febbraio 2004, C-380/01, Schneider, I-1389, 23). A maggior ragione la declaratoria d’irricevibilità interverrà qualora i quesiti siano posti nell’ambito di un «processo fittizio» (procès-bidon), di un processo cioè istituito ad arte dalle parti al solo fine di provocare la pronuncia della Corte. Peraltro, la giurisprudenza recente, nel quadro di un indirizzo più restio a fondare l’irricevibilità sui motivi indicati, tende non tanto a dare rilievo all’eventuale accordo tra le parti volto a preordinare le premesse processuali per un rinvio pregiudiziale (la cui verifica, in effetti, dovrebbe spettare al solo giudice nazionale), quanto a porre l’accento sull’effettiva rilevanza dei quesiti ai fini della soluzione della causa principale e quindi sulla loro rispondenza a una necessità obiettiva inerente alla definizione della controversia. V., per tutte, le sentenze 9 febbraio 1995, C-412/93, Leclerc-Siplec, I-179; 22 novembre 2005, C-144/04, Mangold, I-9981; nonché le conclusioni dell’AG Tizzano presentate, il 30 giugno 2005,
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nella stessa causa. Il caso dei “processi fittizi” è venuto in evidenza, in particolare, nella notissima causa Foglia c. Novello, nella quale la Corte si rifiutò di rispondere a un rinvio che essa sospettava frutto di un utilizzo abusivo del procedimento pregiudiziale, proprio perché operato nell’ambito di una controversia («fittizia») nella quale le parti non erano realmente in conflitto, ma avevano istituito di comune accordo il giudizio nazionale per provocare un intervento della Corte da cui prevedevano di ottenere il risultato da entrambe condiviso: v. sentenze 11 marzo 1980, 104/79, Foglia c. Novello, 45, e 16 dicembre 1981, 244/80, Foglia c. Novello, 3045. Ma v. anche sentenze 21 settembre 1988, 267/86, Van Eycke, 4769; 5 dicembre 1996, C-85/95 Reisdorf, I-6257; 11 novembre 1997, C-408/95, Eurotunnel, I-6315; 21 gennaio 2003, C-318/00, Bacardi, I-905; 22 novembre 2005, C-144/04, Mangold, I-9981).
4. Gli aspetti procedurali La procedura relativa al giudizio principale è evidentemente regolata dal diritto nazionale; salvo quanto detto in precedenza, la Corte non può quindi esercitare un controllo sulla competenza del giudice a quo e sul rispetto delle pertinenti regole procedurali nazionali. È giurisprudenza costante infatti che, tenuto conto della ripartizione delle funzioni tra i giudici nazionali e la Corte, non compete a quest’ultima verificare se il provvedimento di rinvio sia stato adottato in modo conforme alle norme nazionali di organizzazione giudiziaria e di procedura. Peraltro, sebbene, in conformità a quanto precede, spetti al giudice nazionale decidere anche la fase processuale in cui operare il rinvio, la Corte ha più volte richiesto che esso vi proceda quando gli elementi di fatto e di diritto abbiano acquisito una consistenza ed una chiarezza tali da permetterle di svolgere il proprio ruolo (v., ex multis, Corte giust. 16 settembre 1999, C-435/97, WWF e a., I-5613; 23 novembre 2006, C-238/05, Asnef-Equifax, I-11125; ordinanza 13 dicembre 2012, C560/11, Debiasi, punto 19 s.; 27 febbraio 2014, C-470/12, Prohovost; 4 giugno 2015, C-5/14, Kernkraftwerke Lippe-Ems; ordinanza 16 settembre 2016, C225/15, Politanò; 6 ottobre 2016, C318/15, Tecnoedi Costruzioni; ordinanza 11 gennaio 2017, C-508/16, Boudjellal). In particolare, in relazione alla prassi per un certo tempo diffusa specie tra i giudici italiani di decidere il rinvio già in sede di richiesta di decreto ingiuntivo, essa ha raccomandato che, nell’interesse della giustizia, il rinvio avvenga dopo che sia già stato instaurato un dibattito contraddittorio tra le parti (v. ad es., sentenze 28 giugno 1978, 70/77, Simmenthal, 1453; 20 ottobre 1993, C-10/92, Balocchi, I-5105; 3 marzo 1994, C-332/92, C-333/92 e C-335/92, Eurico Italia e a., I-711).
Il rinvio, insieme con la contestuale sospensione del procedimento (e l’eventuale adozione di misure provvisorie: infra, p. 361 s.), è di regola disposto con ordinanza motivata, notificata alla Corte a cura del giudice interno; ma prevalgono comunque, per questi profili, le disposizioni dell’ordinamento nazionale. Per quanto riguarda l’Italia, l’art. 3 della legge 13 marzo 1958, n. 204, di esecuzione del Protocollo sullo Statuto della Corte, prevede che tale provvedimento abbia la forma dell’ordinanza. Per l’ipotesi in cui un giudice si trovi di fronte a questioni analoghe a quelle già sollevate in altro procedimento nazionale, Cass. 14 settembre 1999, n. 9813, in Foro it., 2000, I, 1667, ha ritenuto che quel giudice deve anch’egli disporre il rinvio della questione pregiudiziale con ordinanza di sospensione e rinvio alla Corte, senza che in questo caso possa trovare applicazione l’istituto della «sospensione necessaria» prevista dall’art. 295 c.p.c. Trib. Milano, ordinanza 11 novembre 2004, in Foro it., Rep. 2004, voce Società, n. 1241, ha però disposto la sospensione del processo in attesa di una decisione della Corte di giustizia su questione analoga a quella in discussione, e Cass. pen.
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7 luglio 2005, n. 25006, in Riv. pen., 2006, 7-8, 856, ha confermato il provvedimento ritenendo che esso non producesse alcuna stasi processuale e fosse espressione di quel potere ordinatorio riconosciuto al giudice del dibattimento per regolare lo svolgimento del processo (nello stesso senso v. Cass. lav. 9 ottobre 2006, n. 21635). Va poi segnalato che in un caso in cui il medesimo giudice nazionale ha sollevato sia la questione pregiudiziale di fronte alla Corte di giustizia che la questione di legittimità costituzionale di fronte alla Corte costituzionale, quest’ultima (ordinanza 21 marzo 2002, n. 85, in Foro it., 2002, I, 1606) ha qualificato la seconda questione come manifestamente inammissibile per la contraddittorietà dell’ordinanza di rimessione. In caso di contestuale pendenza dei due giudizi, comunque, la Corte costituzionale considera pregiudiziale la pronuncia di Lussemburgo.
Per parte sua, la Corte tende a non appesantire di formalità la procedura e anzi cerca di porre in essere tutti gli strumenti per superare eventuali problemi e favorire la collaborazione tra giudici. Va ricordato che, proprio a questo fine, la Corte curava (e aggiornava) la pubblicazione di un’apposita Nota informativa riguardante la proposizione di domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali, contenente appunto ogni utile informazione e suggerimento pratico (per l’ultima versione della quale v. GUUE C 160/2011, 1). Nel solco del nuovo reg. proc. Corte, tale Nota informativa è stata sostituita dalle Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale (GUUE C 439/2016, 1), intese a riflettere le novità introdotte con questo regolamento che possono incidere sia sul principio stesso di un rinvio pregiudiziale alla Corte, sia sulle modalità di siffatti rinvii.
In tale prospettiva, la Corte si riserva anche la facoltà di esaminare i quesiti in ordine diverso da quello proposto dal giudice; di riformularli se ciò può giovare ai fini di una risposta utile e soprattutto a evitare una dichiarazione di irricevibilità della domanda pregiudiziale; di dedurre quesiti implicitamente per connessione; e di individuare, in base all’ordinanza di rinvio, le pertinenti disposizioni di diritto dell’Unione, anche se da essa non indicate. V., per tutte, in una giurisprudenza assolutamente univoca, Corte giust. 30 settembre 2003, C224/01, Köbler, I-10239; 9 novembre 2006, C-346/05, Chateignier, I-10951. In quest’ultima sentenza si legge anche che, in caso di questioni eventualmente formulate in modo improprio o che eccedano l’ambito delle funzioni attribuitele dall’art. 267 TFUE, spetta alla Corte «estrarre dal complesso degli elementi forniti dal giudice nazionale, e in particolare dalla motivazione del provvedimento di rinvio, gli elementi di diritto comunitario che richiedono interpretazione – o, se del caso, un giudizio di validità – tenuto conto dell’oggetto della controversia» (punto 19, e precedenti ivi cit.). Più di recente, v. anche Corte giust. 28 aprile 2009, C-420/07, Apostolides, I-3571; 27 settembre 2012, C-137/11, Partena; 8 novembre 2012, C-268/11, Gülbahce; 3 luglio 2014, C165/13, Gross, punto 20; 4 giugno 2015, C-285/14, Brasserie Bouquet, punto 14 ss.; 16 giugno 2016, C-159/15, Lesar; 13 ottobre 2016, C-303/15, M. e S.).
Il procedimento che, dopo il rinvio pregiudiziale, si apre innanzi alla Corte è oggetto di apposita disciplina nel relativo regolamento di procedura. Ad esso sono autorizzati a partecipare non solo le parti del giudizio a quo (incluse quelle intervenute in tale giudizio), ma anche gli Stati membri (anche qui senza necessità di allegare la sussistenza di un interesse ad agire), la Commissione (che interviene di regola in tutti i procedimenti, in funzione del suo ruolo istituzionale e quindi a titolo per così dire
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di amicus curiae), nonché, quando sono in causa atti da essi adottati, il Parlamento europeo, il Consiglio e la Banca centrale europea. V. art. 23 Statuto Corte. Tale disposizione autorizza altresì la partecipazione degli Stati parti contraenti dell’accordo sullo Spazio economico europeo diversi dagli Stati membri e dell’Autorità di vigilanza AELS (EFTA) prevista da detto accordo, quando la questione pregiudiziale rientra nell’ambito di applicazione dello stesso. E questo vale anche per gli Stati terzi contraenti con l’Unione di accordi che attribuiscano a detti Stati la facoltà di presentare memorie e osservazioni nelle procedure pregiudiziali, purché per l’appunto si tratti di questioni rientranti nell’ambito di applicazione dell’accordo.
Tutte queste parti possono presentare osservazioni scritte entro due mesi dalla notifica, che va loro obbligatoriamente effettuata a cura della Corte, dell’ordinanza di rinvio, oppure limitarsi ad intervenire nella fase orale. Ciò, beninteso, a patto che si passi a tale fase, perché la Corte può decidere, a determinate condizioni, di ometterla per motivi di celerità processuale (art. 76 reg. proc. Corte). Per gli stessi motivi, l’art. 105 reg. proc. Corte ha istituito, in via eccezionale e in caso di urgenza straordinaria, un procedimento accelerato che comporta una rilevante contrazione dei tempi e dei passaggi processuali. Ma soprattutto merita di essere nuovamente segnalata al riguardo la «procedura pregiudiziale di urgenza» (PPU), istituita per i rinvii nel settore c.d. dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia (SLSG), di cui all’allora Titolo VI del precedente TUE, ed ora al Titolo V TFUE, al fine di tener conto del crescente coinvolgimento della Corte in materia e delle specialissime esigenze da questa sollevate. In effetti, i rinvii pregiudiziali possono qui riguardare situazioni (ad esempio affidamenti di minori, persone detenute) per le quali appare quanto mai necessaria una sollecita risposta ai quesiti del giudice nazionale. La relativa procedura, che può essere attivata su richiesta del giudice del rinvio o d’ufficio dalla stessa Corte, si articola quindi sulla base di regole speciali e più semplificate (v. art. 23 bis Statuto e artt. 107-114 reg. proc. Corte; nonché supra, p. 251). Anche nei giudizi promossi in via pregiudiziale la Corte può disporre misure istruttorie e chiedere informazioni e chiarimenti alle parti, all’occorrenza direttamente in udienza. Costituisce invece una peculiarità del procedimento pregiudiziale la facoltà concessa alla Corte, sentito l’AG, di chiedere chiarimenti direttamente al giudice nazionale per le ragioni sopra più volte ricordate (art. 101 reg. proc. Corte). La Corte decide di regola con sentenza, ma, come si è visto, può anche adottare un’ordinanza motivata: ad es. in caso di manifesta incompetenza o irricevibilità del rinvio pregiudiziale; nei ricordati casi di riproposizione di una questione già decisa o la cui soluzione emerga dalla precedente giurisprudenza; o, ancora, di ritiro dell’ordinanza. La decisione è notificata al giudice a quo e alle altre parti cui, come si è visto poco fa, è stata notificata l’ordinanza di rinvio. Quanto agli effetti delle sentenze, va detto subito, e in termini generali, che esse sono obbligatorie per il giudice a quo, il quale non può discostarsene neppure se decidesse di operare un nuovo rinvio per chiedere ulteriori chiarimenti sulla questione. V. la nota ordinanza 5 marzo 1986, 69/85, Wünsche, 947. Per l’obbligatorietà della pronuncia della Corte, v. già sentenza 3 febbraio 1977, 52/76, Benedetti, 163; nonché poi 14 dicembre 2000,
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C-446/98, Fazenda Pública, I-11435; 5 ottobre 2010, C-173/09, Elchinov, I-8889; 20 ottobre 2011, C-369/09, Interedil, I-9915; 16 giugno 2015, C-62/14, Gauweiler; 5 luglio 2016, C-614/14, Ognyanov). Va peraltro notato che, se la definizione del principio di diritto è riservato dai Trattati alla Corte, sono i giudici nazionali che, oltre a promuovere l’intervento della Corte, devono poi farsi carico delle modalità e delle condizioni di applicazione di quel principio, a dover cioè concretamente immetterlo nell’ordinamento di appartenenza. E questa solo molto di rado costituisce una mera operazione meccanica, che vede il giudice nazionale in un ruolo per così dire notarile o di puro esecutore. In realtà, anche se si ritiene che il diritto dell’Unione, e con esso le sentenze della Corte, prevalgono sulle norme e le decisioni nazionali, non si è ancora esaurita la problematica del rapporto tra le competenze normative e soprattutto giurisdizionali in campo. Successivamente, infatti, può essere richiesto, in relazione alle circostanze del caso, un ruolo attivo del giudice nazionale che deve calare il principio enunciato dalla Corte nello specifico processo, cercando di coordinarlo con i principi del proprio ordinamento e, all’occorrenza, di risolvere i problemi che possono emergere da tale trasposizione in un sistema complesso, che ha i propri principi, le proprie regole e i propri meccanismi di funzionamento. E, evidentemente, in questa sede possono emergere divergenze o anche autentici contrasti tra le pretese del diritto dell’Unione e lo stato del diritto nazionale, ed è proprio in questa occasione che acquistano senso e valore non solo la formula del dialogo tra il giudice nazionale e la Corte, ma anche il ruolo del primo, al quale spetta in prima battuta lo sforzo di elaborazione concettuale volto a superare le eventuali difficoltà e permettere che i due versanti dell’unico processo d’integrazione possano continuare a convivere e perseguire le proprie finalità. In ciò, naturalmente, quel giudice sa di poter contare sulla collaborazione della Corte di giustizia, alla quale può, all’occorrenza, nuovamente rivolgersi per segnalare le ragioni delle diverse valutazioni dei rispettivi ordinamenti e, se del caso, le possibili vie di superamento, anche se non immediato, delle stesse. L’idea, abbastanza diffusa in alcuni settori della dottrina, che in queste situazioni tutto si risolva invocando i c.d. controlimiti pare, indipendentemente dalle questioni sulla natura e la portata degli stessi, una soluzione solo all’apparenza più semplice e diretta; in realtà, essa rischia di essere solo un po’ semplicistica, così come lo è, sul versante opposto, quella di invocare tout court il primato del diritto dell’Unione per (illudersi di) risolvere un eventuale conflitto tra ordinamenti o tra giurisdizioni. In entrambi i casi, infatti, si pensa di superare quel conflitto in termini puramente formali e normativi, e invece più probabilmente si rischia solo di creare un circolo inestricabile di difficoltà e contrapposizioni, di inviare messaggi discordanti o ambigui all’intero sistema e finalmente di nuocere agli interessi dei cittadini. Esattamente il contrario di quanto richiede la protezione dei diritti. Anche se non sempre adeguatamente evidenziato, è proprio questo il compito cui assolvono, più spesso di quanto si pensi, i giudici nazionali. Non è un caso del resto che, a parte qualche precedente isolato e per giunta di dubbio valore e qualche evocazione… minacciosa rimasta però solo tale, risulta che l’eccezione dei controlimiti sia stata fin qui invocata solo molto di rado (v. retro, alla fine del par. 1). Se dunque il continente non è stato finora disseminato di guerre di religione (per lo meno giudiziarie…), ciò è dovuto proprio alla capacità delle Corti di operare con senso di responsabilità e spirito di collaborazione, e quindi con l’intento non già di alimentare eventuali e pur legittime diversità di valutazione, ma di superarle in uno sforzo di comprensione reciproca e, all’occorrenza, di progressiva composizione delle divergenze, nel quadro di un sistema integrato e nel quale, quindi, in una logica, interattiva e non gerarchica, di apporti reciproci, si è cercato da entrambi i versanti di assicurare il pieno rispetto e l’efficace applicazione del diritto dell’Unione.
Per il resto, conviene distinguere secondo che la Corte si sia pronunciata su questioni d’interpretazione di norme dell’Unione o di validità degli atti delle istituzioni. Nel primo caso la decisione, pur essendo puramente dichiarativa (la Corte «dichiara», «dit pour droit»), produce, come si è appena detto, effetti obbligatori per il giudice del rinvio: questi, quindi, se decide alla fine di fare applicazione nel caso di specie della disposizione di diritto dell’Unione di cui ha chiesto l’interpretazione,
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deve attenersi alla pronuncia della Corte. Tuttavia, il principio di diritto contenuto nella decisione non vincola solo quel giudice, ma s’impone con effetti erga omnes, nel senso che la disposizione in causa deve essere da chiunque interpretata e applicata così come indicato dalla Corte, almeno fino a quando questa, eventualmente chiamata di nuovo in causa, non ne fornisca una diversa interpretazione. V. ad es. Corte giust. 20 settembre 2001, C-184/99, Grzelczyk, I-6193. In effetti, come da tempo ha chiarito la stessa giurisprudenza della Corte, l’interpretazione di una norma di diritto comunitario fornita da quest’ultima chiarisce e precisa il significato e la portata della norma stessa come deve o avrebbe dovuto essere intesa ed applicata sin dal momento della sua entrata in vigore (v., tra le più risalenti, sentenze 27 marzo 1980, 61/79, Denkavit italiana, 1205; 2 febbraio 1988, 309/85, Barra, e 24/86, Blaizot, rispettivamente 355 e 379; e, più recentemente, 13 gennaio 2004, C-453/00, Kühne & Heitz, I-837; 15 marzo 2005, C-209/03, Bidar, I-2119; 6 marzo 2007, C292/04, Meilicke, I-1835; 13 aprile 2010, C-73/08, Bressol e a., I-2735; 9 giugno 2016, C-586/14, Budişan). Il ricordato principio spiega anche per quale motivo non viola il diritto dell’Unione una giurisdizione nazionale che, pur essendovi tenuta, si astenga dall’operare un rinvio ex art. 267 TFUE invocando a tal fine l’esistenza di una decisione della Corte sul punto controverso. Va segnalato che il principio è confermato anche dalla Corte costituzionale italiana (sentenze 19 aprile 1985, n. 113, in Foro it., 1985, I, 1600; 11 luglio 1989, n. 389, id., 1991, I, 1076) e dalla Corte di Cassazione (sentenze 3 ottobre 1997, n. 9653, in Riv. dir. int., 1998, 250; 28 marzo 1997, n. 2787, in Foro it., 1997, 3275, in cui si afferma che «le statuizioni delle sentenze interpretative della Corte di giustizia della CEE pronunciate in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 177 [TCEE; ora art. 267 TFUE] hanno diretta e immediata applicazione nel nostro ordinamento interno e determinano l’effetto della non applicazione della legge nazionale dichiarata incompatibile con l’ordinamento comunitario»). Nel senso che, se il diritto nazionale lo permette, possono essere riviste anche decisioni nazionali divenute definitive, v. Corte giust. 6 ottobre 2015, C-69/14, Târsia.
In particolare, nel caso che dalla decisione risulti l’incompatibilità di una legislazione nazionale con il diritto dell’Unione, lo Stato membro interessato ha gli stessi obblighi di quelli risultanti a seguito di una sentenza che ne accerti l’inadempimento, e quindi deve prendere tutte le misure necessarie a conformare il proprio ordinamento alla decisione, nonché all’occorrenza, a risarcire gli eventuali danni (retro, p. 279 s.). Nel caso invece in cui la Corte si sia pronunciata sulla validità di un atto dell’Unione, conviene ulteriormente distinguere secondo che essa abbia o meno concluso nel senso della validità dell’atto. Nel primo caso, l’efficacia della sentenza sarà limitata alla controversia dedotta nel giudizio a quo, fatta salva ancora una volta la facoltà per i giudici nazionali di riproporre la medesima questione di validità. Ove invece si sia pronunciata nel senso dell’invalidità, la sentenza della Corte, sebbene di per sé non comporti, come nei giudizi di annullamento, che l’atto sia «nullo e non avvenuto», di fatto produce i medesimi effetti. Anzitutto perché, per quanto formalmente indirizzata solo al giudice a quo, essa «costituisce per qualsiasi altro giudice un motivo sufficiente per considerare tale atto non valido ai fini di una decisione che esso debba emettere» (così già Corte giust. 13 maggio 1981, 66/80, International Chemical Corporation, 1191, punto 13; nonché, ordinanza 8 novembre 2007, C421/06, Fratelli Martini e Cargill, I-152); in secondo luogo perché le autorità nazionali sono chiamate a non applicare l’atto dichiarato invalido; ed infine perché le istituzioni dell’Unione sono tenute, al pari di quanto accade a seguito di una sentenza
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di annullamento, ad adottare tutti i provvedimenti che la statuizione contenuta nella sentenza comporta (v. retro, p. 370 s. In questo senso, già sentenza 30 ottobre 1975, 23/75, Rey Soda, 1279; nonché sentenze 19 ottobre 1977, 117/76 e 16/77, Rukdeschel e a., 1753; 124/76 e 20/77, Moulins et Huileries de Pont-Mousson e Providence agricole de la Champagne, 1795). Proprio in relazione a tale parallelismo, pur essendo la declaratoria di invalidità destinata in principio ad operare ex tunc, la Corte ha ritenuto di poter all’occorrenza limitarne in tutto o in parte gli effetti nel tempo, facendo appunto applicazione analogica del potere conferitole in relazione alle sentenze di annullamento di un atto. V. retro, p. 328 ss. Sull’efficacia ex tunc della pronuncia di invalidità (e sul potere della Corte di far salvi alcuni effetti dell’atto), v., per tutte, sentenze 15 ottobre 1980, 145/79, Roquettes Frères, 2917; 8 novembre 2001, C-228/99, Silos, I-8401; 22 dicembre 2008, C-333/07, Régie Networks, I-10807; 9 novembre 2010, C-92/09 e C-93/09, Volker und Markus Schecke e Eifert, I11063; 9 giugno 2016, C-586/14, Budişan). Si noti altresì che l’efficacia ex tunc si estende «anche a rapporti giuridici sorti e costituiti prima del momento in cui è sopravvenuta la sentenza in cui la Corte si pronuncia sulla richiesta di interpretazione» (v. Corte giust. 13 gennaio 2004, C-453/00, Kühne & Heitz, I-837, punto 22).
Fermo restando tuttavia che la retroattività è la regola, mentre la limitazione degli effetti nel tempo può essere solo eccezionale, una siffatta limitazione è stata posta dalla Corte, com’è noto, anche agli effetti delle proprie pronunce interpretative. Come si è accennato, invero, anche tali sentenze hanno di norma effetto retroattivo; tuttavia, in nome del principio della certezza del diritto, la Corte può, in via eccezionale, limitare tale effetto, consentendo così agli interessati di far valere la disposizione come da essa interpretata al fine di rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede. Ciò però a patto che ricorrano alcune precise condizioni, e in particolare che la decisione pregiudiziale implichi un rischio di gravi ripercussioni economiche e che i soggetti interessati (segnatamente le autorità nazionali) siano stati indotti ai comportamenti difformi da una obiettiva e rilevante incertezza circa l’interpretazione della norma in causa. In questo caso, tuttavia, come in quello delle decisioni che pronunciano l’invalidità di un atto, la limitazione degli effetti deve far salvi i diritti dei soggetti che abbiano già proposto un’azione giudiziaria o un reclamo equivalente prima della sentenza. V. già la celebre sentenza 8 aprile 1976, 43/75, Defrenne, 455. Più recentemente (e con particolare riguardo alle conseguenze di una sentenza che accerti l’incompatibilità con il diritto dell’Unione di norme nazionali), v., tra le tante, sentenze 15 marzo 2005, C-209/03, Bidar, cit.; 6 ottobre 2005, C-291/03, MyTravel, I-8477; 3 ottobre 2006, C-475/03, Banca Popolare di Cremona (e le conclusioni degli AG Jacobs e Stix-Hackl); 6 marzo 2007, C-292/04, Meilicke (e le conclusioni degli AG Tizzano e Stix-Hackl); 11 dicembre 2007, C-161/06, Skoma-Lux, I-10841; 23 ottobre 2012, C-581/10 e C-629/10, Nelson e a.
5. Gli sviluppi della competenza pregiudiziale prima del Trattato di Lisbona Il meccanismo del rinvio pregiudiziale fin qui descritto riguarda le questioni relative alle materie tradizionalmente rientranti nelle competenze dell’Unione. Com’è
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noto, però, vi sono materie che già in passato erano per così dire di confine e altre che, dopo esserne state a lungo fuori, sono state poi via via ugualmente ricondotte sotto l’ombrello comunitario prima e dell’Unione europea poi. In relazione a tali evoluzioni, anche la competenza in esame ha subito una progressiva e articolata estensione che ha trovato il suo punto di arrivo nel Trattato di Lisbona. Non pare inutile tuttavia ricordare rapidamente la precedente disciplina, non solo perché, come subito diremo, essa sopravvive ancora, sia pur per un breve periodo transitorio (e forse più a lungo per alcuni Stati membri), ma anche per cogliere il senso dei segnalati sviluppi e per l’interesse che presentano le modalità della progressiva comunitarizzazione della materia. a) Il primo e più importante sviluppo si manifestò rispetto alla Convenzione di Bruxelles, conclusa tra gli Stati membri il 27 settembre 1968, sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle sentenze in materia civile e commerciale (sulla quale v. infra, p. 555 s.). Trattandosi all’epoca di un testo non riconducibile a quelli indicati dall’allora art. 177 TCEE (poi art. 234 TCE ed ora art. 267 TFUE), la competenza pregiudiziale della Corte non poteva estendersi automaticamente a tale Convenzione; e tuttavia essa era ritenuta necessaria per assicurare l’uniforme interpretazione di un testo così importante. Il problema fu risolto grazie alla stipulazione di un apposito accordo tra gli Stati membri, il Protocollo del 3 giugno 1971, che attribuiva per l’appunto alla Corte la competenza ad interpretare la Convenzione in termini simili a quelli ora delineati dall’art. 267 TFUE, ma con alcune significative peculiarità: obbligo di rinvio per le giurisdizioni di ultima istanza, nominativamente menzionate (per l’Italia, la Corte di Cassazione), mera facoltà per le giurisdizioni di appello e per quelle competenti ai sensi della stessa Convenzione a promuovere opposizione contro l’esecuzione di una sentenza straniera; esclusione invece dei giudici di primo grado dal meccanismo; previsione di un ricorso nell’interesse della legge da parte dei procuratori generali presso le Corti di cassazione in caso di difformità tra una decisione nazionale e una sentenza resa dalla Corte o da un altro giudice nazionale (ma in tal caso, senza conseguenze per la sentenza che ha occasionato il ricorso). Il descritto sistema fu riproposto rispetto alla Convenzione firmata dagli Stati membri a Roma il 19 giugno 1980, e relativa alla legge regolatrice delle obbligazioni contrattuali (infra, p. 557). In tal caso, per esigenze costituzionali di alcuni Stati membri, i protocolli furono due, rispettivamente istitutivi e attributivi della competenza alla Corte, e furono firmati contestualmente a Bruxelles il 19 dicembre 1988. Essi ripetevano lo schema appena descritto per il Protocollo del 1971, ma il rinvio pregiudiziale restava facoltativo anche per i giudici di ultima istanza. b) Analoga prassi, con qualche specifica variante, fu poi seguita per le convenzioni che il Consiglio fu autorizzato a stipulare in materia di «Giustizia e affari interni» (c.d. terzo pilastro), grazie all’art. K.3, par. 2, lett. c), del precedente TUE (introdotto dal Trattato di Maastricht del 1992) e grazie al fatto che quest’ultimo disponeva che dette convenzioni «possono prevedere che la Corte di giustizia sia competente per interpretare le disposizioni e per comporre le controversie connesse con la loro applicazione». In attuazione di tale disposizione la competenza interpretativa della Corte fu quindi contemplata, sia pure in forme volta a volta diverse, da varie convenzioni.
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V. ad es. gli Atti del Consiglio che stabiliscono protocolli attributivi di competenza pregiudiziale alla Corte per l’interpretazione di alcune Convenzioni: quella istitutiva dell’Ufficio europeo di polizia (Europol) (Atto del 23 luglio 1996, in GUCE C 299, 1); quella relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (Atto del 29 novembre 1996, in GUCE C 151/1997, 1); quella sull’uso dell’informatica nel settore doganale (Atto del 12 marzo 1999, in GUCE C 91, 1); quella sulla competenza, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale (Atto del 28 maggio 1998, in GUCE C 221, 19).
Come si vedrà ancora più avanti (p. 530 ss.), le materie rientranti sotto la dizione «Giustizia e affari interni» furono poi ripartite dal Trattato di Amsterdam del 1997 (confermato per questo aspetto dal Trattato di Nizza del 2000) tra il primo ed il terzo pilastro, nel senso di ricondurre all’uno quelle attinenti alla cooperazione in materia civile e all’altro quelle relative alla cooperazione in materia penale. Per quanto qui interessa, ciò comportò le seguenti conseguenze. c) Nel settore della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, oggetto del Titolo VI del precedente TUE, il Consiglio era competente ad adottare alcuni atti (in particolare: posizioni comuni, decisioni-quadro e decisioni), nonché a stipulare le convenzioni di cui si è detto poc’anzi (art. 34, par. 2, lett. d), del precedente TUE). Conseguentemente, fu possibile prevedere direttamente nel Trattato l’attribuzione di una competenza pregiudiziale alla Corte anche per queste materie. Data però la sensibilità delle stesse, tale competenza poteva esercitarsi secondo la speciale disciplina dettata dall’art. 35 TUE pre-Lisbona, in deroga a quella generale di cui all’art. 234 TCE (ora art. 267 TFUE). In virtù di detta disposizione, la Corte era competente a pronunciarsi in via pregiudiziale «sulla validità o l’interpretazione delle decisioni-quadro e delle decisioni, sull’interpretazione di convenzioni stabilite ai sensi del suddetto Titolo e sulla validità e sull’interpretazione delle misure di applicazione delle stesse». Tale competenza, tuttavia, non era devoluta alla Corte in modo automatico, ma si affermava solo per gli Stati membri che avessero formulato – all’atto della firma del Trattato o, dopo tale scadenza, in qualsiasi momento – una dichiarazione con la quale accettavano la competenza in questione. In tal caso, la dichiarazione avrebbe dovuto altresì precisare se il rinvio pregiudiziale poteva essere effettuato da tutti gli organi giurisdizionali o solo da quelli di ultima istanza. Il rinvio tuttavia era sempre facoltativo, salvo che nel formulare la ricordata dichiarazione di accettazione della competenza della Corte, lo Stato avesse annunciato di prevedere una diversa soluzione per le giurisdizioni di ultima istanza. V. dich. relativa all’art. K.7, allegata al Trattato di Amsterdam. A differenza degli altri Stati membri, che hanno accettato di riconoscere la competenza della Corte per i rinvii di tutte le giurisdizioni nazionali o solo per quelle di ultima istanza, la Danimarca, l’Irlanda ed il Regno Unito non hanno mai riconosciuto tale competenza.
Altre limitazioni rilevavano dal punto di vista oggettivo. Non risultavano, infatti, deferibili alla Corte le questioni concernenti, tra l’altro: le «posizioni comuni», data la natura per così dire programmatica delle stesse; nonché le questioni relative alle operazioni di polizia o al mantenimento dell’ordine pubblico e alla salvaguardia della sicurezza interna.
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Peraltro la Corte ha avuto modo di chiarire che, nonostante il silenzio del TUE pre-Lisbona, se l’atto, pur qualificato come «posizione comune», era suscettibile di produrre effetti giuridici nei confronti dei terzi, esso sarebbe caduto sotto l’ambito di applicazione dell’art. 35 dello stesso Trattato (sentenza 27 febbraio 2007, C-355/04 P, Segi e a. c. Consiglio, I-1657).
Per il resto, le condizioni cui la disposizione subordinava il rinvio pregiudiziale restavano quelle oggi previste dall’art. 267 TFUE (v. sentenze 16 giugno 2005, C-105/03, Pupino, I-5285; 28 giugno 2007, C-467/05, Dell’Orto, I-5557; 12 agosto 2008, C296/08 PPU, Santesteban Goicoechea, I-6307; 9 ottobre 2008, C-404/07, Katz, I-7607). d) Questo per il soppresso terzo pilastro e per la materia penale. Più ampia era invece la competenza della Corte in ordine alla restante parte dell’eterogeneo settore dello SLSG, oggetto, grazie al Trattato di Amsterdam, della competenza comunitaria di cui all’allora Titolo IV della Parte terza del TCE (v. p. 535 ss.). Grazie a tale innovazione, per fondare la competenza pregiudiziale della Corte in materia non occorreva più il ricorso agli appositi protocolli interpretativi delle varie convenzioni tra Stati membri, secondo la prassi di cui si è detto poc’anzi. E ciò perché la Corte derivava la propria competenza pregiudiziale direttamente dal Trattato, visto che la materia poteva essere ormai regolata direttamente con atti comunitari (di norma: regolamenti). Ciò malgrado, data l’estrema sensibilità del settore, si ritenne di non poter estendere sic et simpliciter l’applicazione dell’allora art. 234 TCE a questi casi, come ci si sarebbe potuto aspettare, visto appunto che si era qui in presenza di misure adottate nell’ambito del primo pilastro. Per le ragioni appena indicate si preferì invece prevedere alcune non marginali deroghe allo schema generale della competenza pregiudiziale, quale definito dall’art. 267 TFUE. In particolare, l’art. 68 TCE prevedeva che per i giudizi che avessero ad oggetto le indicate materie, l’allora art. 234 TCE si applicasse alle seguenti condizioni: il rinvio era riservato ai soli giudici di ultima istanza (e doveva ritenersi, malgrado l’ambiguità della disposizione, che essi vi fossero tenuti); non poteva riguardare questioni attinenti al mantenimento dell’ordine pubblico o alla salvaguardia della sicurezza interna; il Consiglio, la Commissione o uno Stato membro potevano chiedere alla Corte di pronunciarsi sull’interpretazione di detto Titolo IV e degli atti su di esso fondati, senza però che l’interpretazione data dalla Corte potesse avere effetti su eventuali sentenze nazionali passate in giudicato.
6. Segue: Le attuali limitazioni Come si è detto, il quadro appena tracciato discendeva in larga misura dall’articolazione dell’Unione in tre pilastri. Con il Trattato di Lisbona e la conseguente soppressione di tale articolazione, la situazione è profondamente cambiata. Per quanto attiene in particolare alle materie rientranti nello SLSG, che copre tutti i settori di cui al precedente paragrafo, la competenza della Corte è destinata ora ad affermarsi pienamente e secondo le regole comuni. Ciò, tuttavia, con le seguenti limitazioni.
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Anzitutto, per quanto riguarda la cooperazione giudiziaria in materia penale e quella di polizia, continueranno a restare escluse dal sindacato della Corte «la validità e la proporzionalità di operazioni condotte dalla polizia o da altri servizi incaricati dell’applicazione della legge di uno Stato membro o l’esercizio delle responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna» (art. 276 TFUE). Inoltre, era previsto che, per un periodo di 5 anni dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, restava in piedi, per gli atti già adottati in quelle materie, la disciplina enunciata dall’art. 35 TUE pre-Lisbona, che limitava sotto più aspetti la competenza della Corte (v. art. 10 del Protocollo n. 36 sulle disposizioni transitorie, allegato al Trattato di Lisbona). Essendo decorso il quinquennio dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1 dicembre 2009), questa disciplina è venuta meno, sicché al riguardo si afferma ormai la piena competenza della Corte nei termini illustrati nei paragrafi precedenti. Va peraltro segnalato che, ai sensi dei Protocolli n. 21 e n. 22, allegati al Trattato di Lisbona, il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca non partecipano, salvo loro diversa decisione da comunicare volta a volta, alla cooperazione relativa allo SLSG. Nei loro confronti, quindi, la competenza pregiudiziale della Corte in questa materia potrà essere esercitata solo alle condizioni e nei limiti indicati nel paragrafo precedente.
Resta infine da ricordare che, con le riserve già indicate, sono esclusi dal controllo della Corte gli atti adottati dall’Unione in sede di PESC (v. retro, p. 254 s.). Proprio di recente, peraltro, in una importante sentenza la Corte ha sancito che, nei casi in cui è consentito il ricorso diretto contro uno di quegli atti, deve essere anche consentito, all’occorrenza, il rinvio pregiudiziale (sentenza 28 marzo 2017, C-72/15, Rosneft).
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CAPITOLO VI
Le competenze «minori» Sommario: 1. Premessa. – 2. La competenza sulle controversie relative alla funzione pubblica europea. – 3. Il potere di pronunciare le dimissioni d’ufficio di membri degli organi dell’Unione. – 4. La competenza in materia contrattuale. – 5. L’obbligo degli Stati membri di risolvere le proprie controversie nell’ambito dell’Unione. La competenza della Corte sulle controversie tra Stati membri connesse con l’oggetto del Trattato. – 6. La funzione consultiva.
1. Premessa Oltre a quelle indicate, la Corte gode a vario titolo di altre competenze che non hanno il medesimo rilievo, ma meritano ugualmente di essere segnalate. Alcune perché, pur riconducibili nel loro impianto di fondo a quelle che abbiamo appena esaminato, attengono ad un settore ben determinato e assumono a questo titolo una particolare rilevanza nella prassi; altre perché presentano una più marcata specificità, pur restando, in diversa misura, relativamente marginali nel contesto delle attribuzioni della Corte.
2. La competenza sulle controversie relative alla funzione pubblica europea Tra esse, un posto di spicco spetta indubbiamente alla competenza relativa alla funzione pubblica europea, il cui rilievo ed i cui sviluppi anche pratici avevano addirittura portato, come si è visto (retro, p. 247 s.), alla creazione di un Tribunale ad hoc. Ai sensi del Trattato, in effetti, la Corte è competente a pronunciarsi su qualsiasi controversia che insorga tra l’Unione e i suoi agenti, alle condizioni fissate dall’apposito «Statuto dei funzionari». Art. 270 TFUE. Come noto, il personale delle Comunità è composto da funzionari (a regime statutario) ed agenti (a regime contrattuale). Lo Statuto dei funzionari e il regime applicabile agli altri agenti sono oggetto di regolamenti adottati con procedura legislativa dal PE e dal Consiglio, previa consultazione delle altre istituzioni interessate (art. 336 TFUE). Una significativa riforma in materia è stata apportata dal reg. (UE, Euratom) n. 1023/2013 del PE e del Consiglio, del 22 ottobre 2013 (GUUE L 287, 15), più volte modificato anche dopo.
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Si tratta, in linea generale, di una competenza che corrisponde strutturalmente e funzionalmente a quelle già esaminate, e in particolare a quelle che attengono al controllo sulla legittimità degli atti (o delle omissioni) delle “autorità investite del potere di nomina” (AIPN), e cioè in sostanza degli organi dell’Unione, o alla responsabilità di questi ultimi per i danni provocati ai loro dipendenti. Se qui se ne fa distinta menzione, ciò è dovuto non solo al sottolineato rilievo pratico di tale competenza, ma anche al fatto che essa presenta alcune specificità non marginali: segnatamente, sia per l’ambito ratione personarum della giurisdizione della Corte, che investe appunto quella (e solo quella) particolare categoria di soggetti legati all’Unione da un rapporto di lavoro; sia per l’oggetto di tale giurisdizione, che attiene a rapporti che si collocano all’interno della struttura organizzativa dell’Unione. La prassi giurisprudenziale ha permesso di chiarire l’ampia portata della competenza della Corte in materia. Anzitutto, la legittimazione attiva si estende a tutti i dipendenti delle istituzioni dell’Unione (e quindi sia i funzionari che gli agenti, salvo gli agenti locali, le cui controversie sono di competenza dei giudici nazionali), ma anche ai soggetti che aspirano a quello status e quindi hanno partecipato a un concorso o anche solo presentato la relativa domanda, e persino a personale operante nell’ambito della PESC (Corte giust. 19 luglio 2016, C-455/14 P, H c. Consiglio). Ma ampia è altresì la legittimazione passiva, dato che possono essere convenute non solo le «Istituzioni» dell’Unione, inclusa la stessa Corte, ma tutti gli organi ad essa riconducibili, e quindi anche quelli ausiliari (Comitato economico e sociale; Comitato delle regioni), la BEI e perfino, malgrado qualche dubbio iniziale, la BCE (v. Corte giust. 26 maggio 2005, C-301/02 P, Tralli, I-4071). E ampio è anche l’ambito oggettivo della giurisdizione della Corte, perché essa può giudicare, come già accennato, non solo dei ricorsi per l’annullamento di un atto delle AIPN o per l’illegittima carenza delle stesse, ma anche delle azioni per i danni da esse eventualmente procurati, e può essere investita di tutti gli aspetti attinenti al rapporto di impiego. Il ricorso giurisdizionale, che per un certo tempo (2005-2016) era diventato in prima battuta di competenza del Tribunale della funzione pubblica (TFP), è ora tornato al Tribunale. Esso tuttavia può essere introdotto solo se l’interessato abbia previamente presentato un reclamo all’autorità di nomina ed esperito la conseguente procedura amministrativa, dettagliatamente definita dallo Statuto, disponendo poi di tre mesi per impugnare la decisione (esplicita o implicita) di rigetto del reclamo. In tal modo il sistema di tutela finisce con l’articolarsi su un’ampia gamma di rimedi, dato che l’interessato dispone del ricorso amministrativo e delle relative garanzie, nonché del ricorso giurisdizionale. La procedura relativa a quest’ultimo è modellata su quella abituale, con alcune caratteristiche specifiche, come in particolare la possibilità di esperire una composizione amichevole della controversia (v. art. 125 bis ss. del reg. di procedura del Tribunale).
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3. Il potere di pronunciare le dimissioni d’ufficio di membri degli organi dell’Unione Rientra inoltre tra le attribuzioni di natura giurisdizionale ora in esame la particolare competenza riconosciuta alla Corte di dimettere di ufficio (o revocare loro i vantaggi pensionistici, se hanno già lasciato la carica) i membri della stessa Corte, nonché di quelli della Commissione, della Corte dei conti, del Comitato esecutivo della BCE, del Mediatore europeo e del Garante europeo per la protezione dei dati, che non rispondano più ai requisiti richiesti per l’esercizio delle loro funzioni o siano venuti meno agli obblighi derivanti dalla loro carica. Per i membri della Corte, v. art. 6 del relativo Statuto (ma, come si accennò, se la procedura riguarda un membro del Tribunale o del TFP, la Corte decide previa consultazione dell’organo di appartenenza dell’interessato); per quelli della Commissione, v. artt. 245 e 247 TFUE; per quelli della Corte dei conti, v. art. 286, par. 6, TFUE; per i membri del Comitato esecutivo della BCE, v. art. 11.4 Statuto SEBC; per il Mediatore, v. art. 228, par. 2, comma 2, TFUE; per il Garante, v. reg. (CE) 45/2001, del PE e del Consiglio, del 18 dicembre 2001 (GUCE L 8, 1), art. 42, par. 5.
L’iniziativa può essere assunta, secondo i casi, dalle stesse istituzioni di appartenenza per quanto riguarda i membri della Corte e della Corte dei conti, dal Consiglio o dalla Commissione per i membri di quest’ultima, dal Parlamento europeo per il Mediatore e dal Consiglio direttivo o dal Comitato esecutivo per i membri della BCE. La decisione è presa dalla Corte riunita in seduta plenaria. Ad essa partecipano quindi tutti i giudici, ma se il caso riguarda un membro della Corte (il quale naturalmente è tenuto ad astenersi), alla deliberazione partecipano anche gli AG (art. 16 dello Statuto della Corte). Per un caso di applicazione di tale competenza rispetto ad un ex membro della Commissione, v. Corte giust. 11 luglio 2006, C-432/04, Commissione c. Cresson, I-6387.
4. La competenza in materia contrattuale Altra particolare competenza della Corte è quella che suol definirsi di diritto privato, perché ha ad oggetto le controversie in materia contrattuale che possono insorgere in relazione all’attività negoziale dell’Unione. Ai sensi del Trattato, infatti, la Corte (ma anche in questa materia la competenza spetta in primo grado al Tribunale) è “competente a giudicare in virtù di una clausola compromissoria” (v. art. 272 TFUE. Analoga competenza è prevista per i contratti stipulati dalla BCE (art. 35.4 dello Statuto SEBC). Si è voluto in questo modo prevedere un’ulteriore possibilità per sottrarre ai loro giudici «naturali» (quali, ai sensi dello stesso Trattato, sarebbero stati i giudici nazionali: v. retro, p. 316 s.) le controversie su questioni collegate all’attività «privatistica» dell’Unione, sul presupposto che sebbene non si presenti come esplicazione diretta e autoritativa di compiti istituzionali, detta attività può nondimeno avere riflessi
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funzionali, talvolta anche rilevanti. D’altra parte, stante il carattere solo eventuale di tali riflessi, non si è ritenuto di dover istituire anche per questi casi la giurisdizione obbligatoria della Corte, lasciando alle parti (e ovviamente anzitutto all’Unione) di valutare la sussistenza di eventuali ragioni che inducano a rendere preferibile un intervento del giudice dell’Unione (e questa valutazione, dopo una prassi iniziale assai disordinata, sembra oggi operata con maggiore attenzione). Proprio per questo motivo il Trattato ha previsto, a titolo eccezionale (l’unico altro caso, come subito si vedrà, è contemplato in relazione ad alcune controversie tra Stati membri), una competenza facoltativa della Corte, una competenza cioè non preordinata né obbligatoria, ma subordinata per l’appunto all’apposita scelta delle parti. Con l’avvertenza tuttavia che queste ultime si rivolgono pur sempre a un giudice precostituito e dotato di proprie norme di competenza e di procedura; sicché una volta che la clausola compromissoria sia stata inserita ed attivata e che quindi la controversia sia stata sottoposta alla Corte, la questione resta attratta nella giurisdizione di quest’ultima, esattamente come in tutti gli altri casi di sua competenza. E questo vale anche per quanto riguarda gli effetti obbligatori ed esecutivi della pronuncia della Corte, che costituisce quindi una vera e propria sentenza e non un lodo arbitrale. Più quindi che di una giurisdizione di tipo arbitrale, si deve parlare qui di giurisdizione facoltativa e qualificare l’accordo tra le parti come un accordo di proroga di giurisdizione. Il giudizio davanti alla Corte si svolge secondo lo schema abituale. Le uniche sue specificità discendono dalla particolarità dell’atto che lo attiva (appunto: la clausola compromissoria, di cui il ricorso alla Corte deve allegare copia), con le possibili contestazioni sulla validità sostanziale e formale dello stesso (che comunque deve essere verificata d’ufficio dalla Corte), nonché dalla natura delle controversie che ne sono l’oggetto, le quali attengono di norma all’attività privatistica dell’Unione. Il che si riflette in particolare sul diritto applicabile, che in questo caso sarà definito, sulla base della legge regolatrice del contratto, per l’individuazione della quale, in mancanza d’indicazioni nello stesso contratto, si farà normalmente riferimento alla volontà, espressa o implicita, delle parti.
5. L’obbligo degli Stati membri di risolvere le proprie controversie nell’ambito dell’Unione. La competenza della Corte sulle controversie tra Stati membri connesse con l’oggetto del Trattato Quella appena esaminata, come accennato, non è l’unico caso di competenza non obbligatoria della Corte di giustizia; un’altra ipotesi è contemplata in relazione ad alcune controversie tra gli Stati membri. In proposito, conviene anzitutto ricordare che, come più volte accennato, i Trattati si sono preoccupati di predisporre, per le diverse questioni che fossero insorte nel sistema dell’Unione, un modo di soluzione giudiziario o comunque interno al sistema stesso, onde rendere quest’ultimo autosufficiente e tendenzialmente completo sotto ogni profilo, nonché per favorire la piena attuazione del principio dell’unicità
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di giurisdizione nell’Unione. In tale prospettiva, essi hanno quindi espressamente imposto agli Stati membri l’obbligo di non sottoporre le loro controversie sull’interpretazione e sull’applicazione dei Trattati a un modo di regolamento diverso da quelli previsti dai Trattati medesimi, e di non valersi a tal fine di altri testi che eventualmente li vincolassero o potrebbero vincolarli a risolvere quelle controversie mediante altri procedimenti, giudiziari o non. V. art. 344 TFUE, il quale dispone che «[g]li Stati membri si impegnano a non sottoporre una controversia relativa all’interpretazione o all’applicazione dei trattati a un modo di composizione diverso da quelli previsti dai trattati stessi». È proprio in relazione all’esistenza attuale di testi che impongono un modo di soluzione diverso, che si spiega la previsione dell’obbligo in questione. Basti ricordare, tra gli atti rilevanti al riguardo attualmente in vigore, l’art. 36, par. 2, dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, il quale prevede l’accettazione della giurisdizione obbligatoria di quella Corte, salvo riserva circa la competenza di altri organi. In giurisprudenza v. Corte giust. 30 maggio 2006, C-459/03, Commissione c. Irlanda, I-4635, riguardante una controversia sorta all’interno della Convenzione di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare che vedeva coinvolti due Stati membri (Irlanda e Regno Unito).
Come ha osservato la Corte, un simile obbligo, che va considerato come una manifestazione specifica del generale dovere di lealtà imposto dal Trattato agli Stati membri, mira per l’appunto a tutelare il sistema delle competenze definito dal Trattato e, di conseguenza, l’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’Unione di cui la Corte di giustizia deve assicurare il rispetto. V. la sentenza Commissione c. Irlanda, appena ricordata, nonché Corte giust., parere 14 dicembre 1991, 1/91, I-6079; parere 18 aprile 2002, 1/00, I-3493; parere 8 marzo 2011, 1/09, I-1137. È evidentemente proprio in ragione di tale finalità della disposizione che la Corte ha interpretato con ampiezza l’obbligo che la stessa impone agli Stati membri. In particolare, essa ha ritenuto sussistente tale obbligo anche se la controversia riguarda controversie tra l’Unione e gli Stati membri (v. parere 18 dicembre 2014, 2/13), o solo parzialmente o indirettamente il diritto dell’Unione (v. ancora Corte giust. 30 maggio 2006, C-459/03, Commissione c. Irlanda, cit.); ma non se si tratta di controversie con privati (sul punto si v. la causa ancora pendente: C-284/16, Achmea, relativa agli accordi bilaterali di investimento, i c.d. BIT dall’inglese Bilateral Investment Treaties). Ed è sempre per il medesimo motivo che l’art. 3 del Protocollo n. 8, allegato al Trattato di Lisbona, prescrive che nessuna disposizione del futuro accordo per l’adesione dell’Unione alla CEDU deve avere effetti sull’art. 344 TFUE (v. sul punto, specificamente ancora il parere 18 dicembre 2014, 2/13). Altro è a dire invece per gli accordi internazionali conclusi dall’Unione con altre parti, siano essi accordi bilaterali con singoli Stati terzi o anche multilaterali (ad es. WTO, Trattato sulla Carta dell’Energia; Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare), che col tempo sono diventati sempre più numerosi. Tali accordi prevedono infatti appositi meccanismi arbitrali e/o giurisdizionali indipendenti, che sfuggono in principio al divieto di cui all’art. 344 TFUE (v. parere 16 maggio 2017, 2/15, Accordo di libero scambio tra l’Unione e Singapore).
La giurisdizione della Corte di cui ora si discute si inserisce direttamente in tale prospettiva, in quanto il coinvolgimento del giudice dell’Unione rappresenta evidentemente il più importante tra i mezzi offerti per la soluzione delle controversie tra Stati membri nell’ambito del sistema. Tuttavia tale giurisdizione ha carattere obbligatorio solo rispetto a una parte di dette controversie: e cioè, in sostanza, per quelle relative all’inadempimento del Trattato da parte di uno Stato membro, di cui si è
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detto in precedenza (p. 271 s.). Negli altri casi, l’obbligo resta solo negativo, nel senso che gli Stati dovranno evitare il ricorso a modi di soluzione della controversia non previsti dal sistema, ma non sono tenuti a deferire quest’ultima alla Corte. Anche per tali casi, tuttavia, come subito vedremo, il Trattato consente di deferire la controversia alla giurisdizione della Corte, sia pure subordinatamente a un compromesso fra le parti. V. art. 273 TFUE, ai sensi del quale «[l]a Corte di giustizia è competente a conoscere di qualsiasi controversia tra Stati membri in connessione con l’oggetto dei trattati, quando tale controversia le venga sottoposta in virtù di un compromesso».
Se poi gli Stati membri non volessero risolvere la controversia per tale via, essi potrebbero comunque far ricorso a procedure extragiudiziarie, interne comunque al sistema. In effetti, il dettato dell’art. 344 TFUE è molto ampio e non limita il campo delle procedure utilizzabili. Quel che resta però fermo è che per le controversie giuridiche il divieto imposto agli Stati membri di ricorrere a modi di soluzione della controversia al di fuori del sistema, è assoluto. Può darsi che non vi sia giurisdizione obbligatoria della Corte; può darsi che le parti non si accordino per stipulare un compromesso; può darsi, infine, che le procedure extragiudiziarie non possano essere esperite o comunque non portino a risultati definitivi: può darsi, insomma, che non si possa o non si riesca a risolvere la controversia con i mezzi predisposti dal sistema. Anche in tal caso, però, la soluzione del conflitto non potrà essere tentata con mezzi diversi: l’esperimento di procedure extracomunitarie risultando espressamente vietato, il contrario comportamento degli Stati membri dovrebbe essere ritenuto illecito e potrebbe formare oggetto di un ricorso alla Corte per violazione del Trattato. Ciò posto, e ritornando sulla competenza di cui si discute nel presente paragrafo, va ribadito che essa funge anzitutto da norma di chiusura per le controversie tra Stati membri di natura giuridica, relative cioè alle questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione del diritto dell’Unione, ove non sia possibile sottoporre tali controversie alla Corte attraverso la procedura di inadempimento ex art. 259 TFUE, di cui si è detto in precedenza. Ma l’ipotesi di giurisdizione di cui si discute ha una portata talmente ampia, da trascendere addirittura l’ambito di dette controversie giuridiche. Essa è infatti utilizzabile per tutte le controversie soltanto connesse con l’oggetto del Trattato, e quindi anche per le controversie di natura politica o che vertano su materie che solo marginalmente incidono rispetto all’azione dell’Unione. Tuttavia, per le ragioni prima indicate, il Trattato non ha ritenuto opportuno attribuire anche per tali controversie una giurisdizione esclusiva e obbligatoria alla Corte, ma ha solo previsto, nel citato art. 273 TFUE, la possibilità che esse le venissero sottoposte subordinatamente all’esistenza di un compromesso fra gli Stati interessati. Sia pure con questo limite, comunque, la disposizione permette di offrire agli Stati membri un ulteriore strumento per conformarsi all’obbligo di risolvere le loro controversie all’interno del sistema. Quanto poi all’oggetto dei giudizi di cui si discute, esso appare particolarmente ampio. In effetti, gli Stati membri possono sottoporre alla Corte tutte le controversie
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che rilevino anche solo indirettamente rispetto alle singole fattispecie disciplinate dal Trattato (ivi compresi gli atti integrativi del medesimo), purché presentino con essi un collegamento obiettivo, individuato cioè non semplicemente in base alla natura delle parti controvertenti, ma in relazione alla materia oggetto della controversia. È questo, sostanzialmente, il significato dell’espressione «controversie connesse con l’oggetto del Trattato». Non è escluso comunque, che in concreto sorgano dubbi sull’effettivo collegamento di singole controversie con l’oggetto del Trattato; il fatto però che la Corte possa essere adita solo in seguito ad accordo delle parti e che le sia attribuito il potere di giudicare sull’esistenza dei presupposti della propria giurisdizione, dovrebbe ridurre di molto le eventuali difficoltà interpretative. Si ricorda che nella sentenza Pringle la Corte ha ritenuto legittimo il ricorso all’art. 273 TFUE per giustificare l’attribuzione alla stessa Corte, ai sensi dell’art. 37, par. 3, del Trattato MES (infra, p. 701 ss.), della competenza a pronunciarsi sui ricorsi di un membro del MES contro le decisioni del consiglio dei governatori, relative a controversie tra il MES e i suoi membri, o tra i membri del MES, sull’interpretazione e l’applicazione di tale Trattato. La Corte ha ritenuto che una controversia legata all’interpretazione o all’applicazione del Trattato MES può essere considerata «connessa con l’oggetto» dei Trattati dell’Unione, e vertente quindi sull’interpretazione o sull’applicazione delle disposizioni del diritto dell’Unione, perché le condizioni cui è subordinata la concessione di un sostegno alla stabilità ad uno Stato membro ai sensi del Trattato MES sono definite sulla base di un Protocollo d’intesa che deve essere pienamente conforme al diritto dell’Unione, e quindi sono, almeno in parte, determinate da tale diritto. Con l’occasione, la Corte ha anche valutato il citato art. 37, par. 3, MES, alla stregua di un compromesso ex art. 273, riferito a un’intera categoria di controversie predefinite, dimostrando così che per istituire la competenza della Corte ai sensi di quest’ultima disposizione non occorre ogni volta un apposito compromesso. Infine, la Corte ha chiarito che l’art. 273 non si applica solo alle controversie tra Stati membri, ma anche a quelle tra uno Stato membro e una struttura, come il MES, di cui sono parti solo Stati membri (v. sentenza 27 novembre 2012, C-370/12, Pringle, in particolare al punto 170 ss.). Per una recente applicazione dell’art. 273 TFUE, v. anche sentenza 12 settembre 2017, C-648/15, Austria c. Germania.
6. La funzione consultiva Passando infine alle competenze non giurisdizionali, una specifica menzione merita la funzione consultiva che i testi attribuiscono alla Corte in casi molto limitati, ma non per questo di minor rilievo. L’ipotesi si verifica, in particolare, in relazione alla procedura di conclusione degli accordi internazionali dell’Unione, nel corso della quale può essere richiesto alla Corte di formulare un parere sulla compatibilità dell’accordo in preparazione con il Trattato. Ai sensi di quest’ultimo, infatti, il Parlamento europeo, il Consiglio, la Commissione o uno Stato membro possono provocare l’intervento della Corte per ottenere l’indicata valutazione (oppure, per quelli di essi che non sono all’origine della richiesta, intervenire nel successivo procedimento). V. art. 218, par. 11, TFUE. L’inserimento del PE tra i possibili richiedenti il parere è stato operato dal Trattato di Nizza, ma la Corte aveva già ammesso quell’istituzione a intervenire nelle procedure in esame (parere 10 aprile 1992, 1/92, I-2821).
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Per quanto si parli normalmente di funzione consultiva, va precisato che il parere della Corte non lascia le istituzioni libere di reagire a loro piacimento. Lo stesso Trattato prevede, infatti, che se il parere è negativo, l’accordo potrà validamente entrare in vigore solo se vengono apportate, con le apposite procedure formali, le modifiche del Trattato rese necessarie dal parere della Corte. Di fatto, però, l’eventuale responso negativo indurrà piuttosto, se lo stadio e l’andamento del negoziato lo permettono, a introdurre modifiche direttamente nell’accordo in preparazione. Resta inteso, ad ogni modo, che se l’accordo dovesse essere concluso in difformità dal parere della Corte, il relativo atto del Consiglio potrebbe essere impugnato con un ricorso di annullamento, o essere messo in causa in un’eventuale procedura pregiudiziale. V. ad es. Corte giust. 30 maggio 2006, C-317/04 e C-318/04, Parlamento c. Consiglio, I-4721. In tale occasione il PE aveva chiesto il parere della Corte sulla conclusione di un accordo dell’Unione con gli Stati Uniti relativo al trasferimento dei dati personali dei passeggeri europei alle autorità statunitensi. Incurante di tale richiesta, il Consiglio aveva proceduto ugualmente alla conclusione dell’accordo. Da qui la decisione del PE di ritirare la richiesta di parere e di adire la Corte al fine di ottenere l’annullamento dell’atto relativo alla conclusione dell’accordo.
Gli stessi testi hanno chiarito che il parere può riguardare sia la compatibilità, nel merito, del progettato accordo con le disposizioni del Trattato, sia, come più spesso è avvenuto nella prassi, la stessa competenza dell’Unione a concluderlo (art. 196, par. 2, reg. proc. Corte). Altre questioni interpretative sono state invece risolte grazie all’importante prassi che la Corte ha sviluppato nell’esercizio della competenza in esame. Ciò, in particolare, quanto: alla portata, assai ampia, delle questioni che possono essere sottoposte all’esame della Corte (v. ad es. pareri 11 novembre 1975, 1/75, 1355, e 15 novembre 1994, 1/94, I-5267); all’oggetto delle stesse, che riguarda normalmente gli accordi dell’Unione, ma può estendersi agli accordi collettivi degli Stati membri (parere 19 marzo 1993, 2/91, I-1061); alla facoltà concessa a ciascun soggetto legittimato a inoltrare la domanda di parere di farlo individualmente e autonomamente (v. ancora il parere 2/91); nonché al momento in cui può essere richiesto il parere, e cioè dall’inizio delle trattative (purché sia già definito l’oggetto dell’accordo) fino a quando l’Unione non si sia definitivamente vincolata. V. pareri 4 ottobre 1979, 1/78, 2871; 15 novembre 1994, 1/94, cit.; 28 marzo 1996, 2/94, I1759; e 8 marzo 2011, 1/09, I-1137, in cui la Corte ha chiarito che «il diritto concesso al Consiglio, al Parlamento, alla Commissione e agli Stati membri di chiedere alla Corte il suo parere può essere esercitato individualmente, senza una qualsivoglia concertazione e senza attendere il risultato finale di una connessa procedura legislativa» (punto 55).
È stato altresì chiarito che l’eventuale parere positivo non preclude la possibilità di riproporre alla Corte, sotto diverso profilo o sulla base di altri titoli di giurisdizione della stessa, la questione della compatibilità dell’accordo (cfr. pareri 11 novembre 1975, 1/75, cit., e 24 marzo 1995, 2/92, I-521). A maggior ragione; come si è detto, un ricorso di annullamento contro (l’atto di approvazione di) quest’ultimo sarà possibile se esso è stato concluso prima che la Corte, adita per una richiesta di parere, si sia pronunciata.
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Quanto al procedimento cui è sottoposta la domanda di parere, le norme di riferimento sono adesso contenute nel Titolo Settimo del (nuovo) regolamento di procedura della Corte, il quale, codificando in larga misura la prassi di questi anni, ha apportato alcune rilevanti modifiche alla (previgente) disciplina. Anzitutto, la domanda di parere deve essere notificata a tutti gli Stati membri, oltre che al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione (naturalmente, ad eccezione della parte istante), ai quali il Presidente della Corte impartisce un termine per la presentazione di osservazioni scritte. Cfr. art. 196, par. 3, reg. proc. Corte. Ai sensi dell’art. 107, par. 1, comma 1, del precedente reg. proc., se a chiedere il parere era il Consiglio, la notifica era limitata alle altre due istituzioni sopra menzionate, ad esclusione degli Stati membri. La prassi tuttavia aveva già superato questa limitazione.
Al pari di una qualunque altra causa, non appena è presentata tale domanda, il Presidente designa il giudice relatore; mentre – ed è questa un’altra novità – il primo AG attribuisce la causa a un solo AG, invece che, come in precedenza, all’insieme degli AG. Cfr. artt. 197-199 reg. proc. Corte. Ai sensi del previgente art. 108, par. 2, reg. proc., la Corte emetteva il parere motivato in camera di consiglio, dopo aver «sentit[o] gli avvocati generali». In conseguenza dell’indicata modifica, la «presa di posizione» dell’AG incaricato può ora essere pubblicata.
Inoltre, la Corte può decidere di organizzare un’udienza di discussione qualora lo giudichi necessario (art. 198 reg. proc. Corte), ma è comunque esplicitamente chiamata a emettere il parere «nel più breve tempo possibile» (art. 199 reg. proc. Corte). Infine, viene ora previsto che il parere sia pronunciato in udienza pubblica, come avviene per le sentenze (cfr. art. 200 reg. proc. Corte).
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CAPITOLO VII
La tutela giudiziaria in ambito nazionale Sommario: 1. Premessa. – 2. Il principio dell’autonomia procedurale. I principi di equivalenza ed effettività. – 3. Segue: Profili critici. La questione del riesame delle sentenze e delle decisioni nazionali definitive. – 4. La tutela cautelare. – 5. Il risarcimento dei danni provocati da violazioni del diritto dell’Unione. – 6. La qualificazione in Italia delle situazioni giuridiche soggettive fondate su norme dell’Unione. – 7. Valutazioni conclusive. Le c.d. discriminazioni a rovescio.
1. Premessa Come si è già avuto modo di rilevare, gli strumenti di tutela giurisdizionale approntati all’interno del sistema dell’Unione non sono da considerarsi esaustivi. Gli stessi Trattati, del resto, nel riservare alla Corte di giustizia la competenza esclusiva nei casi da essi previsti, riconoscono che le controversie nelle quali l’Unione sia parte non sono, per questo motivo, sottratte alla competenza dei giudici nazionali (v. art. 274 TFUE). Ma quel che va sottolineato è che, nell’esercizio di questa competenza, i giudici nazionali si sono visti attribuire, grazie agli sviluppi del processo d’integrazione europea, un crescente e fondamentale ruolo per la tutela delle situazioni giuridiche individuali fondate sul diritto dell’Unione. Si è già più volte sottolineato, in effetti, che tale diritto esplica la propria efficacia soprattutto negli ordinamenti degli Stati membri, sicché di norma sarà anzitutto compito dei giudici nazionali assicurare, per lo meno in prima battuta, la tutela di quelle situazioni giuridiche. Inizialmente non molto diffusa, anche perché poco nota, tale tutela è stata col tempo esaltata grazie alla (ugualmente più volte) ricordata giurisprudenza della Corte di giustizia che, soprattutto nell’esercizio della competenza pregiudiziale, ha definito i principi fondamentali del diritto dell’Unione, e in particolare i principi del primato e della diretta e immediata applicabilità di detto diritto. Tali principi comportano, infatti, che le norme dell’Unione devono poter dispiegare pienamente i loro effetti negli ordinamenti statali e che conseguentemente, per quanto qui interessa, i giudici nazionali hanno il potere/dovere di tutelare le posizioni giuridiche soggettive fondate su quelle norme. Muovendo da tali premesse, la Corte ha potuto affermare il diritto dei privati di invocare direttamente le disposizioni dell’Unione innanzi ai giudici nazionali, e parallelamente l’obbligo di tali giudici di disapplicare le norme interne incompatibili con quelle disposizioni.
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Ma questo non è stato che il punto di partenza. Per ottenere, infatti, il pieno rispetto del diritto dell’Unione e del suo primato, la Corte non è rimasta indifferente al modo in cui gli Stati membri e i loro giudici provvedono a garantire la tutela dei privati nelle ipotesi in considerazione. Al contrario, essa si è sempre più preoccupata della portata e delle condizioni di tale tutela, impegnandosi a creare le premesse perché fosse la più ampia ed efficace possibile. Traendo quindi ogni utile corollario dai predetti principi, la Corte ha via via sviluppato un corpo originale e articolato di orientamenti giurisprudenziali che, pur di conseguire quel risultato, hanno finito con l’interferire sullo stesso modo di essere dei sistemi giudiziari degli Stati membri (v. sul punto, retro, pp. 332 s. e 336 s.). Vedremo tra breve in quali termini si è esplicato tale indirizzo. Qui si vuole subito sottolinearne l’importanza dal punto di vista generale dei rapporti tra l’ordinamento dell’Unione e gli ordinamenti degli Stati membri. Per assicurare, infatti, il pieno ossequio alle prescrizioni del primo, la Corte si è impegnata nella ricerca di una continuità tra quegli ordinamenti al fine di definire quella sorta di schema globale e organico di tutela giurisdizionale di cui si è detto in precedenza (v. p. 222 ss.). E all’uopo ha fatto appunto leva, come si è ampiamente visto nell’esame della competenza pregiudiziale, sulla collaborazione con i giudici nazionali, coinvolgendoli direttamente, in quanto giudici «decentrati» del diritto dell’Unione, in un’azione di garanzia di quest’ultimo destinata ad operare utilmente ad entrambi i livelli ed in entrambe le direzioni. Esaltando, infatti, la cooperazione per così dire circolare, e in misura crescente l’integrazione, tra i due livelli di protezione giudiziaria, la Corte ha potuto volgerla sempre più efficacemente in funzione dell’obiettivo della tutela dei privati e, più in generale, del rafforzamento complessivo del sistema.
2. Il principio dell’autonomia procedurale. I principi di equivalenza ed effettività Il punto di partenza ai fini che qui interessano è che, come si vide, la garanzia della tutela giurisdizionale costituisce un principio fondamentale del diritto dell’Unione, sancito anche dalla Carta dei diritti fondamentali (art. 47). Ovviamente però la Corte è ben consapevole del fatto che, per i motivi più volte indicati, la tutela giudiziaria delle situazioni giuridiche soggettive garantite dal diritto dell’Unione deve essere anzitutto assicurata con gli strumenti predisposti dagli e negli Stati membri. E allora, in nome del ricordato principio del primato del diritto dell’Unione, ma in questo caso anche dei principi dell’effetto utile dello stesso e di leale collaborazione, la Corte ha preteso che lo Stato membro non solo assicuri la corretta applicazione delle norme dell’Unione, ma appresti anche e renda concretamente operante un sistema di rimedi giurisdizionali e di procedimenti intesi a garantire in modo pieno ed effettivo la tutela delle indicate situazioni giuridiche. Naturalmente, la Corte non si spinge fino a dettare essa stessa le condizioni alle quali gli Stati membri devono assicurare tale tutela. A suo avviso, infatti, «in mancanza di una specifica disciplina comunitaria, è l’ordinamento giuridico interno di
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ciascuno Stato membro che designa il giudice competente e stabilisce le modalità procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie aventi efficacia diretta» (c.d. principio dell’autonomia procedurale). È questa, com’è noto, la posizione assunta dalla Corte a partire dalle ormai classiche sentenze 16 dicembre 1976, 33/76, Rewe, 1989, punto 5; e 45/76, Comet, 2043, punto 13; 9 novembre 1983, 199/82, San Giorgio; 15 maggio 1986, 222/84, Johnston, 206; 15 ottobre 1987, 222/86, Heylens, 442; e ribadita poi, ex multis, nelle sentenze 19 giugno 1990, C-213/89, Factortame, I2433; 14 dicembre 1995, C-312/93, Peterbroeck, I-4599; 11 settembre 2003, C-13/01, Safalero, I8679; 13 marzo 2007, C-432/05, Unibet, I-2271; 15 aprile 2008, C-268/06, Impact, I-2483; 19 marzo 2015, C-510/13, E.On Foldgàz Trade.
Ciò tuttavia con la riserva che la libertà così riconosciuta agli Stati membri non può esercitarsi in modo tale da mettere a rischio l’effettiva e piena tutela dei privati. Sicché la Corte si è preoccupata di ulteriormente precisare i propri orientamenti chiarendo che comunque, quando si tratta di diritti fondati su norme dell’Unione, gli ordinamenti nazionali non possono disporre liberamente in ordine alla portata e alle modalità di detta tutela, ma hanno l’obbligo di assicurare che esse non siano «meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna» (c.d. principio di equivalenza), e che «non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario» (c.d. principio di effettività). Ma è proprio nel controllo sul rispetto di tali principi che la giurisprudenza sviluppata dalla Corte in materia ha dato i più importanti risultati ai fini che qui interessano. Essa, infatti, non si è limitata a definire le condizioni della tutela in senso per così dire negativo, ma si è spinta fino a intervenire sulla stessa definizione di quelle condizioni, anche a costo di incidere sul modo di essere degli ordinamenti nazionali al riguardo. In altri termini, la Corte si è riservata una sorta di droit de regard su tali ordinamenti, al fine di controllare non tanto se essi garantiscano un livello minimo di protezione, ma piuttosto se le condizioni procedurali e sostanziali previste per quest’ultima siano conformi a parametri di adeguatezza ed effettività che la stessa Corte desume dal corpus del diritto dell’Unione o dai principi generali. In questo modo essa ha finito col delineare quello che ormai da più parti comincia a essere qualificato come un autentico «standard europeo di tutela giudiziaria», che prende col tempo sempre più consistenza e rispetto al quale gli ordinamenti nazionali si vedono costretti a cedere il passo. A nulla, infatti, varrebbe eccepire, per giustificare eventuali carenze, lo stato del diritto nazionale; gli strumenti e i mezzi di protezione devono essere comunque rafforzati, anche a costo di modificare o introdurre norme e procedure ad hoc, nell’ordinamento giuridico nazionale. Non è possibile in questa sede dar conto analiticamente dei molteplici interventi della giurisprudenza in materia, tanto più che essa ha spaziato su temi assai diversi. Si può ricordare comunque, a titolo di esempio, che la Corte ha preteso che sia riconosciuto a favore delle situazioni giuridiche di cui stiamo discutendo un effettivo diritto alla protezione giudiziaria, perfino se questo non fosse previsto dall’ordinamento nazionale; ha escluso condizioni di prova eccessivamente onerose; ha formulato
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specifiche valutazioni in ordine ai termini di prescrizione delle azioni giudiziarie; ha affermato l’obbligo per il giudice nazionale di sollevare d’ufficio motivi di diritto basati su norme comunitarie vincolanti quando un obbligo analogo sussista con riferimento a norme interne vincolanti; ha posto limitazioni all’invocabilità di taluni principi generali di diritto suscettibili di incidere sul rispetto del diritto dell’Unione; ha richiesto di assicurare livelli di risarcimento effettivi, anche in deroga ai limiti fissati dagli ordinamenti nazionali; e così via. Si vedano le sentenze appena citate, nonché, tra le tante: Corte giust. 10 aprile 1984, 14/83, Von Colson e Kamann, 1891; 2 febbraio 1988, 309/85, Barra, 355; 25 febbraio 1988, 331/85, 376/85 e 378/85, Bianco e Girard, 1099; 9 novembre 1989, 386/87, Bessin e Salson, 3551; 25 luglio 1991, C-208/90, Emmot, I-04269; 3 dicembre 1992, C-97/91, Oleificio Borelli, I-6313; 6 dicembre 1994, C-410/92, Johnson, I-5475; 14 dicembre 1995, C-430/93 e C-431/93, Van Schijndel, I-4705; 27 giugno 2000, C-240/98, Océano Grupo Editorial, I-4941; 20 settembre 2001, C-453/99, Courage e Crehan, I-6297; 21 novembre 2002, C-473/00, Cofidis, I-10875; 13 luglio 2006, da C-295/04 a C-298/04, Manfredi, I-6619; 18 luglio 2007, C-119/05, Lucchini, I-6199; 26 ottobre 2006, C68/05, Mostaza Claro, I-10421; 6 ottobre 2009, C-40/08, Asturcom, I-9579; 28 febbraio 2012, C41/11, Inter-Environnement Wallonie; 14 giugno 2012, C-618/10, Banco Español de Crédito; 14 marzo 2013, C-415/11, Aziz; 10 settembre 2013, C-383/13 PPU, G. e R.; 3 ottobre 2013, C-32/12, Duarte Hueros; 6 ottobre 2015, C-61/14, Orizzonte Salute; e C-71/14, East Sussex County Council; 8 marzo 2017, C-14/16, Euro Park Service; 15 marzo 2017, C-3/16, Aquino; 8 giugno 2017, C-54/16, Vinyls Italia. Quanto alla convivenza tra tali principi e l’art. 47 della Carta (secondo il quale la garanzia della tutela giurisdizionale costituisce un principio fondamentale del diritto dell’Unione), si può dire che in linea di principio l’autonomia procedurale (con l’equivalenza e l’effettività) resta di regola di applicazione, mentre l’art. 47 prevarrà quando il diritto dell’Unione è intervenuto a disciplinare una determinata materia regolando anche la tutela giudiziaria in quel settore (si pensi ad es. alle direttive in materia di ricorso nel settore degli appalti pubblici; della protezione dell’ambiente, dell’asilo e immigrazione, della lotta contro le discriminazioni). Ove però siano entrambi applicabili, si dovrebbe lasciare campo libero al principio dell’autonomia procedurale, con la riserva che il principio sancito dall’art. 47 sia rispettato.
3. Segue: Profili critici. La questione del riesame delle sentenze e delle decisioni nazionali definitive La prassi appena evocata è stata in generale accolta negli ordinamenti nazionali senza particolari resistenze e spesso, anzi, senza neppure suscitare la meritata attenzione. Pur essendo ispirato ai medesimi principi, ha invece stimolato un ampio dibattito, e anche vivaci critiche, il filone giurisprudenziale relativo all’incidenza del diritto dell’Unione sugli atti nazionali definitivi, di natura sia amministrativa che giudiziaria. Sebbene i termini della questione siano ormai più chiari e sembrino quindi fugati alcuni malintesi sorti al riguardo, conviene comunque dedicare a essa un rapido cenno. Com’è noto, in una serie di sentenze, la Corte aveva stabilito che i principi generali del diritto dell’Unione più volte ricordati, e in particolare quello di leale cooperazione, impongono, a determinate condizioni, di riesaminare una decisione nazionale definitiva rivelatasi contraria al diritto dell’Unione a seguito di una successiva
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pronuncia della Corte. Si era quindi dedotto da varie parti che questo ormai consolidato orientamento giurisprudenziale avesse implicato un superamento o almeno un affievolimento del tradizionale e generale principio dell’intangibilità del giudicato interno. V., in particolare, sentenze 13 gennaio 2004, C-453/00, Kühne & Heitz, I-837; 16 marzo 2006, C-234/04, Kapferer, I-2585; 12 febbraio 2008, C-2/06, Kempter, I-411
Le cose non stavano però esattamente così. Intanto, e in termini generali, va notato che è stata la stessa Corte a sottolineare ad ogni occasione l’importanza che il principio dell’autorità della cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento dell’Unione che negli ordinamenti nazionali (v., ad es., sentenza 30 settembre 2003, C-224/01, Köbler, I-10239; 16 marzo 2006, C-234/04, Kapferer, cit.; 3 settembre 2009, C-2/08, Fallimento Olimpiclub, I-7501; 6 ottobre 2009, C-40/08, Asturcom, I-9579; 10 luglio 2014, C-213/13, Impresa Pizzarotti, punto 54 ss.; 6 ottobre 2015, C-69/14, Târșia; 11 novembre 2015, C-505/14, Klausner Holz Niedersachsen). Nella specie, poi, non era stato adeguatamente sottolineato che tra le condizioni alle quali la Corte subordinava l’indicato obbligo di riesame assumeva importanza determinante il fatto che l’organo nazionale adito disponesse, in virtù del proprio ordinamento interno, del potere di revisione di una decisione definitiva per violazione di una norma di diritto. In altre parole, conformemente ai ricordati principi di equivalenza ed effettività, anche qualora venga in rilievo il principio della res iudicata, il diritto dell’Unione deve potere beneficiare dinanzi al giudice nazionale dei medesimi strumenti processuali eventualmente applicabili in circostanze analoghe a controversie di natura puramente interna: niente di più, cioè, ma neppure niente di meno di quanto già previsto dall’ordinamento nazionale. E questo vale anche rispetto ad alcuni casi successivi che hanno rinfocolato la polemica. Nel noto caso Lucchini, infatti, la Corte aveva affermato che «il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 c.c., volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata», qualora esso impedisca il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con le rilevanti disposizioni del Trattato (v. sentenza 18 luglio 2007, C-119/05, cit., punto 63). In quel caso, però, e senza scendere nei dettagli di una vicenda peraltro assai complessa, si era in presenza di una situazione davvero particolare (come, del resto, ha poi esplicitamente sottolineato la stessa Corte nella sentenza Fallimento Olimpiclub, cit., segnatamente punto 23: ma v. anche la sentenza Impresa Pizzarotti), perché in quella occasione venivano messi in discussione non solo i principi fondamentali della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, ma lo stesso principio del primato del diritto dell’Unione. In effetti, la sentenza nazionale passata in giudicato, e rimessa in causa dalla Corte, non solo aveva legittimato un aiuto di Stato in clamoroso spregio del potere esclusivo della Commissione di valutare la compatibilità dell’aiuto, ma lo aveva fatto senza tenere minimamente conto della decisione di tale istituzione che aveva dichiarato l’incompatibilità dell’aiuto. Questo anche per effetto della prassi, assai diffusa negli ultimi tempi, di avvalersi strumentalmente di procedure giudiziarie interne per ostacolare l’efficacia delle disposizioni dell’Unione in
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materia di aiuti di Stato, prassi che aveva indotto il legislatore italiano ad adottare addirittura alcune misure urgenti per evitare di incorrere in procedure d’infrazione a livello europeo (v. in particolare il d.l. 8 aprile 2008, n. 59, in GURI 9 aprile 2008, n. 84, Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee, convertito con modificazioni in legge 6 giugno 2008, n. 101, in GURI 7 giugno 2008, n. 132). Quanto all’impatto della sentenza Lucchini nell’ordinamento italiano, si possono registrare contrastanti reazioni: se da un lato, nei successivi sviluppi, Trib. Roma 23 marzo 2011, n. 6039, ha negato, non senza suscitare un diffuso stupore, che «ci sia nell’ordinamento italiano una qualche regola che consenta alla pubblica amministrazione di non tenere conto delle sentenze passate in giudicato quando queste risultino in contrasto con il diritto comunitario[; o] meglio, non c’è una regola che consente alla pubblica amministrazione di porre nel nulla il giudicato, in nome del diritto comunitario, semplicemente in via amministrativa», dall’altro lato, tanto la Corte di Cassazione quanto il Consiglio di Stato hanno osservato, la prima, che il giudicato dovrà cedere «ove si ritenga prevalente il dovere di rispettare gli obblighi derivanti dall’adesione alla [già] Comunità europea, con conseguente disapplicazione necessaria di eventuali norme interne in contrasto con detti obblighi» (Cass., Sez. Un., 19 maggio 2008, n. 12641); il secondo che la regola … sconosciuta al Trib. Roma è da individuare, in realtà, «proprio [nel]l’intangibilità della decisione comunitaria» (Cons. Stato, Sez. VI, 8 giugno 2009, n. 3464).
Quanto infine al successivo caso Fallimento Olimpiclub, nel quale il principio del rispetto della cosa giudicata sembrava essere ugualmente messo in discussione, basterà rilevare che ciò che in realtà veniva in questione nella specie era una particolare e non scontata (e, infatti, in precedenza non accolta) interpretazione da parte della giurisprudenza nazionale del valore del c.d. giudicato esterno, interpretazione suscettibile di pregiudicare in modo irrimediabile e ultroneo il rispetto del diritto dell’Unione. In tale sentenza la Corte era stata richiesta dalla Corte di Cassazione italiana di precisare se la ricordata giurisprudenza Lucchini dovesse estendersi alla materia fiscale, e segnatamente ai giudicati relativi a pratiche abusive in materia di IVA, avendo presente che, per le controversie tributarie, la medesima Corte di Cassazione aveva di recente abbandonato il proprio precedente orientamento favorevole al principio della «frammentazione del giudicato» (e cioè la limitazione della sua portata alla singola causa), preferendogli l’opposto principio secondo cui, qualora concerna un punto fondamentale comune ad altre cause, detto giudicato esplica efficacia vincolante anche per queste ultime, ancorché formatosi in relazione a periodi d’imposta diversi. Pur ribadendo, comunque, il rispetto per il principio della cosa giudicata, la Corte ha contestato, nella specie, il preteso mutamento di indirizzo giurisprudenziale, obiettando che in simili casi l’automatica e illimitata estensione della portata di quel principio avrebbe impedito di rimettere in questione non solo le situazioni eventualmente contrarie al diritto dell’Unione direttamente coperte dal giudicato (e che, in ossequio a quest’ultimo, resterebbero impregiudicate), ma anche tutte le altre, successive, ugualmente contrarie a detto diritto; con la conseguenza che si sarebbe perpetuata così, senza possibilità di modificarla, l’applicazione scorretta delle regole europee. Il che, secondo la Corte, non solo non potrebbe essere ragionevolmente giustificato in nome delle esigenze di certezza del diritto, ma sarebbe altresì contrario al principio di effettività, di cui si è detto in precedenza, visto che impedirebbe l’esercizio di diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (si noti che il giudice remittente ha poi recepito tale indirizzo: Cass., Sez. tributaria, 27 gennaio-19 maggio 2010, n. 12249).
Sicché, ancora una volta, si è confermato che la definizione della portata di un principio generale non può più essere sempre e solo questione di diritto interno, ma
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deve fare i conti (anche a livello giurisprudenziale) con gli obblighi che il diritto dell’Unione impone allo Stato.
4. La tutela cautelare Se, a parte le considerazioni appena svolte, non è possibile indugiare in questa sede in un esame analitico degli indirizzi giurisprudenziali della Corte più sopra evocati, un sia pur sintetico cenno deve tuttavia essere riservato ad alcune manifestazioni degli stessi che hanno indotto importanti effetti sistematici e suscitato quindi a giusto titolo un largo interesse. In particolare, merita anzitutto di essere segnalata, come concreta applicazione ma anche come sviluppo estremamente significativo di quegli indirizzi giurisprudenziali, la posizione assunta dalla Corte in ordine alla tutela cautelare che gli Stati membri devono assicurare alle situazioni giuridiche soggettive che derivano da norme dell’Unione. Com’è noto, tale posizione è stata espressa in modo inequivoco e compiuto nell’ormai celebre sentenza Factortame (Corte giust. 19 giugno 1990, C-213/89, I-2473), nella quale la Corte, che era stata richiesta in via pregiudiziale di pronunciarsi sulla compatibilità con il diritto dell’Unione di una legge britannica, venne interrogata dal giudice nazionale (nella specie, la Camera dei Lords) anche su un altro e connesso punto: e cioè in ordine al potere di tale giudice di sospendere in via provvisoria, nella pendenza del giudizio pregiudiziale, l’applicazione della legge controversa, potere che nella specie non era conferito, ed anzi era escluso, dall’ordinamento nazionale. Richiamandosi alla propria giurisprudenza, e in particolare alla ricordata sentenza Simmenthal (Corte giust. 9 marzo 1978, 106/77, 629), la Corte chiarì che l’effetto utile dell’art. 177 TCEE (poi art. 234 TCE; ora art. 267 TFUE) e della relativa procedura «sarebbe ridotto se il giudice nazionale che sospende il procedimento in attesa della pronuncia della Corte sulla sua questione pregiudiziale non potesse concedere provvedimenti provvisori fino al momento in cui si pronuncia in esito alla soluzione fornita dalla Corte»; e, più in generale, che la «piena efficacia del diritto comunitario sarebbe del pari ridotta se una norma di diritto nazionale potesse impedire al giudice chiamato a dirimere una controversia disciplinata dal diritto comunitario di concedere provvedimenti provvisori allo scopo di garantire la piena efficacia della pronuncia giurisdizionale sull’esistenza dei diritti invocati in forza del diritto comunitario», col risultato che, in una situazione del genere, «il giudice è tenuto a disapplicare la norma di diritto nazionale che sola osti alla concessione di provvedimenti provvisori» (v. la citata sentenza Factortame, punti 22 e 21. Per una significativa applicazione dell’indirizzo illustrato, v., tra le altre, sentenze 28 febbraio 1991, C-234/89, Delimitis, I-976; 13 marzo 2007, C-432/05, Unibet, cit.; 15 gennaio 2013, C-416/10, Križan e a.). Ma il principio di cui si discute è stato valorizzato dalla Corte anche in senso per così dire rovesciato. Considerato, infatti, che il diritto dell’Unione deve essere rispettato solo nella misura in cui esso sia legittimo, anche l’applicazione di una norma dell’Unione di sospetta illegittimità deve essere paralizzata nei suoi effetti se può pregiudicare le situazioni giuridiche dei privati. È quanto per l’appunto la Corte ha
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dichiarato nel noto caso Zuckerfabrick, in cui a essere messo in discussione era questa volta un provvedimento nazionale di attuazione di una normativa dell’Unione di dubbia legittimità. Richiesta in via pregiudiziale di sciogliere tale dubbio, la Corte ha chiarito che, nelle more del suo giudizio, il provvedimento amministrativo nazionale deve essere sospeso in via cautelare per evitare irreparabili pregiudizi alle posizioni giuridiche dei privati (sentenza 21 febbraio 1991, C-143/88 e C-92/89, I-415; nonché Corte giust. ordinanza 23 febbraio 2001, C-445/00 R, Austria c. Consiglio, I-1461). I principi affermati nella sentenza Zuckerfabrick sono stati poi sviluppati in successive pronunce della Corte, che allo stesso tempo hanno precisato il quadro dei poteri cautelari attribuiti al giudice nazionale al riguardo, ancorando i presupposti necessari al loro esercizio a criteri da essa stessa elaborati e restringendo così non solo il margine di discrezionalità riconosciuto ai suddetti giudici, ma anche la stessa autonomia dei singoli ordinamenti nazionali in materia. In definitiva, la Corte riconosce al giudice nazionale la competenza a concedere provvedimenti provvisori non solo «negativi» (quali la sospensione dell’atto nazionale adottato sulla base della norma dell’Unione sospettata di invalidità), ma anche «positivi», in quanto tendano cioè a creare delle nuove situazioni giuridiche soggettive in capo ai soggetti parti del procedimento a quo. Ciò però a condizione che: a) il giudice nazionale nutra gravi riserve sulla validità dell’atto dell’Unione in causa e provveda quindi – se la questione non è già stata deferita alla Corte di giustizia – a sottoporre lui stesso un quesito pregiudiziale su detta validità; b) ricorrano gli estremi dell’urgenza, nel senso che i provvedimenti provvisori sono necessari per evitare che la parte che li richiede subisca un danno grave e irreparabile; c) il giudice tenga pienamente conto dell’interesse dell’Unione; d) siano rispettate le pronunce della Corte o del Tribunale in ordine alla legittimità dell’atto dell’Unione o le eventuali ordinanze di tali giudici in sede di procedimento sommario dirette alla concessione, a livello dell’Unione, di provvedimenti provvisori analoghi (v. sentenza 9 novembre 1995, C-465/93, Atlanta, I-3761). Ma v. anche sentenze 17 luglio 1997, C-334/95, Krüger, I-4517; e 6 dicembre 2005, C-453/03, C-11/04, C-12/04 e C-194/04, ABNA e a., I-10423. Inoltre, avendo riguardo proprio all’ordinamento italiano, la giurisprudenza della Corte ha determinato l’insorgere di rimedi processuali (amministrativi) di portata generale a esso sconosciuti, come nel caso della c.d. tutela cautelare ante causam (ossia, la possibilità per gli interessati di ottenere provvedimenti provvisori, indipendentemente dalla previa introduzione del giudizio di merito), di cui ora all’art. 61 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo (GURI n. 156 del 7 luglio 2010 – s.o. n. 148; c.d. Codice del processo amministrativo): v., segnatamente, Corte giust. 19 settembre 1996, C-236/95, Commissione c. Grecia, I-4459; 15 maggio 2003, C-214/00, Commissione c. Spagna, I-4667; e ordinanza 29 aprile 2004, C-202/03, DAC, non pubblicata.
5. Il risarcimento dei danni provocati da violazioni del diritto dell’Unione Ma l’azione della Corte non si è fermata qui. Col tempo anzi essa si è rafforzata e precisata nel palese intento di ricercare tutte le vie idonee a perseguire le indicate finalità di tutela giudiziaria. In effetti, malgrado quanto si è fin qui detto, non è affatto scontato che la protezione giudiziaria dei diritti possa sempre essere assicurata in modo pieno ed effettivo: non tutte le norme dell’Unione sono direttamente applicabili; anche quelle che lo sono non sempre possono esplicare siffatta efficacia; non tutti gli ordinamenti interni offrono mezzi di tutela adeguati o praticabili, e comun-
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que talvolta non è agevole aggirare gli ostacoli sulla base dei criteri giurisprudenziali sopra illustrati; e anche quando ciò accade, rimane sempre da verificare se è ancora possibile sanare gli effetti dell’accertata violazione del diritto dell’Unione. Ecco allora affiorare nella giurisprudenza della Corte, accanto a quelli già esaminati, ulteriori principi e strumenti di tutela, che hanno trovato, per ora, la massima espressione nella affermazione del principio della responsabilità degli Stati membri per omessa o incompleta o non corretta esecuzione del diritto dell’Unione. A tal fine, la Corte non ha dovuto far altro che svolgere fino in fondo e con coerenza le premesse degli indirizzi giurisprudenziali prima illustrati, e in particolare richiamarsi ancora una volta, come punto di partenza, all’obbligo di leale cooperazione. In effetti, come essa stessa ha osservato, «sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro […]. Ne consegue che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario a esso imputabili è inerente al sistema del Trattato [e] trova il suo fondamento anche nell’art. 5 [ora art. 4, par. 3, TUE] del Trattato» (così la nota sentenza 19 novembre 1991, C-6/90 e C-9/90, Francovich, I-415, punti 33, 35 e 36). Tale principio, peraltro in qualche modo già latente nella giurisprudenza della Corte, si è via via precisato con la successiva giurisprudenza sia quanto al fondamento e alla portata della responsabilità dello Stato, sia quanto alle condizioni in presenza delle quali questa può sorgere e alle modalità della tutela. V., in particolare: sentenze 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame, I-1029; 26 marzo 1996, C-392/93, British Telecommunications, I-1631; 23 maggio 1996, C5/94, Hedley Lomas, I-2553; 8 ottobre 1996, C-178/94, C-179/94, C-188/94 e C-190/94, Dillenkofer, I-4845; 17 ottobre 1996, C-283/94, C-291/94 e C-292/94, Denkavit International, I-5063; 1° giugno 1999, C-302/97, Konle, I-3099; 4 luglio 2000, C-424/97, Haim, I-5123; 30 settembre 2003, C-224/01, Köbler, cit.; 4 dicembre 2003, C-63/01, Evans, I-14447; 25 gennaio 2007, C-278/05, Robins, I-1053; 24 marzo 2009, C-445/06, Danske Slagterier, I-2119; 24 gennaio 2012, C-282/10, Dominguez; 16 luglio 2015, C-681/13, Diageo Brands; 28 luglio 2016, C-168/15, Tomášová.
In ordine al primo di tali profili, la Corte ha anzitutto chiarito che il principio va applicato indipendentemente dalla natura dell’organo che ha posto in essere l’azione o l’omissione, sicché la responsabilità può derivare anche da fatti imputabili al legislatore nazionale, al di là e a prescindere dalla configurabilità nei singoli ordinamenti di un illecito a carico del potere legislativo (v. le citate sentenze Brasserie du pêcheur e Konle. Sul punto, v. anche retro, p. 262). Ma per questo stesso motivo, essa potrà derivare anche dai comportamenti e dalle prassi delle giurisdizioni nazionali che si pronuncino in via definitiva, come avvenuto proprio in un caso riguardante l’Italia. Secondo la Corte, infatti, in considerazione del ruolo essenziale svolto dal potere giudiziario nella tutela dei diritti che ai singoli derivano dalle norme comunitarie, «la piena efficacia di queste ultime verrebbe rimessa in discussione e la tutela dei diritti che esse riconoscono sarebbe affievolita se fosse escluso che i singoli possano, a talune condizioni, ottenere un risarcimento allorché i loro diritti sono lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile a una decisione di un
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organo giurisdizionale di ultimo grado di uno Stato membro» (sentenza 30 settembre 2003, C224/01, Köbler, cit., punto 33). Peraltro, la Corte ha ritenuto opportuno chiarire con l’occasione che il principio da essa enunciato non mette in causa né l’autorità di cosa giudicata della pronuncia nazionale da cui sorge l’illecito (dato che l’accertamento della responsabilità in tal caso implica un obbligo di risarcimento, non la revisione della pronuncia che ne è all’origine), né l’indipendenza del giudice (perché ciò che viene in discussione è la responsabilità dello Stato, non quella personale del giudice), né l’autorità del giudice stesso (dato che al contrario il rimedio indicato rafforza la qualità della tutela e quindi anche l’autorità del potere giurisdizionale). Né varrebbe opporre l’eventuale assenza nell’ordinamento nazionale in causa d’indicazioni circa l’organo competente a giudicare l’azione di danni, incombendo agli Stati membri (come si è più volte sottolineato in precedenza) l’obbligo di non privare i cittadini della tutela dei loro diritti e quindi di apprestare gli adeguati rimedi giuridici. Per il caso riguardante l’Italia, v. Corte giust. 13 giugno 2006, C-173/03, Traghetti del Mediterraneo, I-5177, che ha dichiarato la responsabilità dello Stato italiano per una pronuncia asseritamente errata della Corte di Cassazione, aggravata dal rifiuto di quest’ultima di rimettere la questione in via pregiudiziale alla Corte di giustizia. In tale sentenza, oltre appunto a ribadire la citata giurisprudenza Köbler quanto al mancato rinvio pregiudiziale, la Corte ha altresì contestato la pretesa del governo italiano di escludere o limitare la propria responsabilità negli stessi termini e con gli stessi limiti previsti dalle norme nazionali sulla responsabilità civile dei magistrati per i danni cagionati nell’esercizio delle loro funzioni (art. 2, legge 13 aprile 1988, n. 117, Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati, in GURI del 15 aprile 1988, n. 88). La Corte ha, infatti, escluso, per i danni arrecati ai singoli da una pronuncia giurisdizionale emessa in violazione del diritto dell’Unione, che una normativa nazionale (come appunto quella italiana appena ricordata) possa prevedere la sussistenza della responsabilità dello Stato nei soli casi di dolo o colpa grave del giudice, o addirittura escluderla, ove si tratti di un organo giurisdizionale di ultimo grado, nel caso in cui la violazione derivi da un’interpretazione errata delle norme giuridiche dell’Unione o da una valutazione dei fatti e delle prove operata da quell’organo giurisdizionale. Di fronte all’inerzia nel provvedere alla modifica del diritto nazionale in conformità alle prescrizioni della sentenza in questione, la Commissione ha aperto una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia, sfociata nella sentenza 24 novembre 2011, C379/10, Commissione c. Italia, I-180 (pubblicazione sommaria), e poi ancora, nel perdurare di tale inerzia, ha aperto una nuova procedura d’infrazione ai sensi dell’art. 260 TFUE, bloccata dalla riforma della predetta normativa italiana.
Quanto poi alle condizioni per la sussistenza della responsabilità dello Stato, la Corte muove dalla premessa che in questa materia la tutela dei diritti attribuiti ai singoli non può variare in funzione della natura, nazionale o comunitaria, dell’organo che ha cagionato il danno. In principio, quindi, i presupposti del sorgere di detta responsabilità non dovrebbero discostarsi da quelli che rilevano ai fini della responsabilità dell’Unione in circostanze analoghe (supra, p. 318 ss.). In ogni caso, resta fermo che per l’individuazione delle predette condizioni si deve tener conto anzitutto dei principi propri dell’ordinamento giuridico dell’Unione che costituiscono il fondamento per la responsabilità dello Stato, e cioè la piena efficacia delle norme dell’Unione e l’effettività della tutela dei diritti da esse garantiti, da un lato, e l’obbligo di cooperazione incombente agli Stati membri dall’altro. Più puntualmente poi, ai fini di quella responsabilità, la Corte richiede la sussistenza di tre condizioni: la norma dell’Unione deve essere preordinata ad attribuire diritti a favore dei singoli; deve trattarsi di una violazione grave e manifesta; deve esistere un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subìto. Ove tali condizioni ricorrano, esse vanno considerate «necessarie e
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sufficienti» e non possono richiedersene di ulteriori, in particolare quanto alla sussistenza di un dolo o di una colpa nella condotta dello Stato; all’inverso, sono fatte salve le eventuali condizioni meno restrittive previste dall’ordinamento nazionale in causa. Venendo a un esame più analitico delle predette condizioni, non occorre aggiungere molto sull’ultima di esse, se non che la verifica del nesso di causalità tra comportamento illecito e danno è interamente rimessa al giudice nazionale (ma con la possibilità, ovviamente, di operare rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia). Quanto invece alla prima condizione, occorre soprattutto sottolineare che la Corte ha rimosso al riguardo i dubbi, inopinatamente sollevati dopo la sentenza Francovich, sul punto se il diritto a risarcimento potesse nascere anche dalla violazione di norme direttamente applicabili, visto che, godendo di siffatta efficacia, tali norme non necessiterebbero dell’ulteriore garanzia di cui ora discutiamo. Non è stata però di questo avviso la Corte, la quale ha anzi sottolineato che il diritto al risarcimento costituisce il «corollario necessario» di quel tipo di disposizioni e concorre a contenere gli effetti negativi della loro inosservanza. Più articolata è la definizione della seconda condizione richiesta dalla Corte, la quale consente di colpire non già qualsiasi violazione, ma solo quelle qualificabili come gravi e manifeste, o anche, come suol dirsi, «sufficientemente caratterizzate». Ai fini di una siffatta qualificazione, la Corte ha fornito alcuni elementi di valutazione, tra i quali meritano in particolare di essere ricordati: il grado di chiarezza e precisione della norma dell’Unione che si assume violata, il carattere intenzionale o meno della trasgressione commessa o del danno causato, la scusabilità dell’errore di diritto, la circostanza che la violazione possa essere stata indotta da comportamenti delle istituzioni dell’Unione (v., ex multis, Corte giust. 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93, Brasserie du Pêcheur e Factortame, cit.; 4 luglio 2000, C-424/97, Haim, I-5123; 12 dicembre 2006, C-446/04, Test Claimants in the FII Group Litigation, I-11753), l’ampiezza del potere discrezionale che la norma dell’Unione riserva alle autorità nazionali (v., ad es., la citata sentenza Test Claimants in the FII Group Litigation; nonché 13 marzo 2007, C-524/04, Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, I2107). Sotto quest’ultimo profilo, la Corte ha ulteriormente precisato che la violazione può essere presunta quando lo Stato era vincolato a un preciso obbligo di risultato; deve invece essere accertata in concreto nei casi in cui esso goda di un certo margine di discrezionalità e nei quali quindi occorre verificare se abbia disconosciuto «in modo palese e grave» i limiti che si impongono all’esercizio dei suoi poteri, casi tra i quali la giurisprudenza ricomprende anche l’ipotesi di trasposizione tardiva o non corretta di una direttiva (v. già le citate sentenze Francovich e Dillenkofer). In ogni caso, la violazione del diritto dell’Unione è sicuramente manifesta e grave se essa continua anche dopo che una sentenza della Corte abbia già accertato che il contestato comportamento dello Stato costituisce inadempimento di obblighi comunitari, o comunque se venga palesemente ignorata una giurisprudenza della Corte dalla quale risulti l’illegittimità di detto comportamento. Del pari, e con particolare riferimento alla responsabilità per fatto degli organi giurisdizionali, la Corte ritiene sicuramente sussistente la violazione ove il giudice di ultima istanza non abbia osservato l’obbligo del rinvio pregiudiziale che gli incombe ai sensi del Trattato (v. supra,
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p. 331 s.; le più volte citate sentenze Köbler e Tomášová; nonché 9 settembre 2015, C-160/14, Ferreira da Silva e Brito e a.). Una volta accertata la violazione sulla base degli indicati parametri, dovrà poi farsi riferimento agli ordinamenti giuridici nazionali per individuare in concreto le condizioni e le modalità dell’azione di danni. Ciò in base al ricordato principio dell’autonomia procedurale di detti ordinamenti, con la ribadita precisazione tuttavia che dette condizioni e modalità non devono essere meno favorevoli di quelle previste per gli analoghi ricorsi riguardanti violazioni di norme interne e che non deve essere reso praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento dei danni subiti.
6. La qualificazione in Italia delle situazioni giuridiche soggettive fondate su norme dell’Unione Nell’ambito della tematica in esame, un rapido cenno va ancora fatto ad una questione che è rimasta sottesa a quasi tutta l’indagine fin qui svolta e che rileva particolarmente per il giurista italiano. Si tratta cioè di valutare se la giurisprudenza finora esaminata si rifletta – ed eventualmente in che modo e in quale misura – sulla tormentata distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, che è ben nota al nostro ordinamento, ma sconosciuta invece a quello dell’Unione e degli altri Stati membri. Com’è noto, la distinzione risale alla ripartizione di competenza giurisdizionale fissata dall’art. 2, allegato E, legge 20 marzo 1865, n. 2248, sul contenzioso amministrativo (GURI n. 101 del 27 aprile 1865), ai sensi del quale viene attribuito al giudice civile la cognizione delle controversie vertenti sui diritti soggettivi. Gli artt. 24, 103 e 113 Cost. hanno mantenuto la ripartizione, confermando in linea di principio la competenza del giudice amministrativo per i soli interessi legittimi.
Come si è visto finora, nella giurisprudenza della Corte si parla normalmente di «diritti» o al più di «posizioni giuridiche individuali», mentre non si fa mai menzione degli «interessi legittimi», dato appunto che nel senso tecnico in cui è definita nel nostro ordinamento la nozione è ignota al di fuori dello stesso. Ciò ha determinato un certo disorientamento in una parte della dottrina e della giurisprudenza italiane, mentre ha indotto nella prassi qualche tentativo di abuso in ordine alla ripartizione delle competenze giurisdizionali che si ricollega, come si è detto, a quella distinzione. Visto invero che la tutela richiesta dalla Corte si riferisce in modo indistinto a tutte le posizioni giuridiche dei privati, si è posta la questione se non debba evincersi dai descritti indirizzi giurisprudenziali anche il superamento della dicotomia diritti soggettivi-interessi legittimi, nel senso che anche i secondi dovrebbero essere valutati come «diritti soggettivi» o, addirittura, che tutti debbano confondersi in una nuova e generica categoria: quella dei «diritti soggettivi comunitari». Tali deduzioni, tuttavia, non riflettono puntualmente gli indirizzi giurisprudenziali dell’Unione in materia. Intanto, va sottolineato che, conformemente a un suo costante indirizzo, la Corte non ha mai preteso interferire nella qualificazione di nozioni e istituti degli ordinamenti interni. Nel caso che ora si esamina, anzi, essa non
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solo ha evitato con cura di prendere posizione, ma ha addirittura mostrato una palese riluttanza ad essere coinvolta nella questione, sfuggendo per quanto possibile ai quesiti che, in più occasioni ed anche in modo diretto e specifico, le erano stati sottoposti in ordine a detta qualificazione. V. ad es. i casi decisi con sentenze 19 dicembre 1968, 13/68, Salgoil, 615; 11 dicembre 1973, 120/73, Lorenz, 1484; 9 luglio 1985, 179/84, Bozzetti, 2301; 13 giugno 1989, 380/87, Enichem Base e a., 2491; 23 febbraio 1994 C-236/92, Comitato per il coordinamento della difesa della Cava e a., I-483.
Al tempo stesso, è apparso sempre più evidente che quando la Corte afferma, come normalmente afferma, che una certa disposizione del diritto dell’Unione ha efficacia diretta e «attribuisce al singolo dei diritti che il giudice nazionale è tenuto a salvaguardare», essa non intende dare al termine «diritti» una specifica e formale valenza, che non sia genericamente quella di «posizioni giuridiche soggettive»: e dunque non intende né limitarsi ai «diritti soggettivi», né trasformare tutte le posizioni giuridiche dei privati in «diritti soggettivi». Sotto questo profilo e a questi fini, la Corte si limita semplicemente a rinviare alle qualificazioni attribuite a dette situazioni giuridiche dai singoli ordinamenti nazionali e ai modi e alle forme di tutela che tali ordinamenti riservano alle medesime. Quello che invece alla Corte interessa, in linea con gli indirizzi e le preoccupazioni costantemente ribaditi dalla sua giurisprudenza e qui più volte sottolineati, è che, quali che siano le qualificazioni e i mezzi di tutela nazionali, deve essere garantita per tutte quelle posizioni giuridiche una piena tutela giurisdizionale: questa potrà variare da un ordinamento all’altro e, in ciascuno, in relazione alla natura della specifica posizione giuridica, ma deve essere comunque adeguata ed effettiva. Come si vede, dunque, nulla di nuovo o di diverso rispetto a quanto si è visto in precedenza in termini generali. Ciò detto, però, è evidente che, se pure la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi (al pari delle connesse articolazioni giurisdizionali italiane) non veniva formalmente pregiudicata dall’indicato indirizzo, le modalità di tutela dei secondi, in relazione all’esigenza appena ribadita, potevano invece esserlo. In particolare, almeno per i casi in cui gli interessi legittimi fossero fondati su una disposizione dell’Unione, avrebbe dovuto essere disattesa, in ossequio ai riferiti indirizzi della Corte, la consolidata giurisprudenza italiana che escludeva la risarcibilità dei danni da lesione di quegli interessi. Ma in tal caso le conseguenze non sarebbero state di poco conto, perché il profilo dell’adeguatezza della tutela degli interessi legittimi era tra quelli che sollevavano più critiche e interrogativi nella valutazione di questa peculiare distinzione delineata nell’ordinamento italiano; e perché comunque un così sostanziale rafforzamento delle garanzie procedurali si prestava a ridurre di molto le differenze tra le due situazioni giuridiche, almeno quanto alle conseguenze della loro lesione. In effetti, i riflessi degli indicati indirizzi della giurisprudenza della Corte sono stati tutt’altro che irrilevanti. Le prime avvisaglie si manifestarono in sede di trasposizione della dir. 89/665/CEE (c.d. «direttiva ricorsi»), in materia di appalti pubblici, il cui art. 2 impone agli Stati membri di risarcire i danni subiti da qualsiasi soggetto
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leso (non importa se a titolo di diritto soggettivo o di interesse legittimo) da una violazione della direttiva o delle norme nazionali di recepimento delle stesse. V. direttiva del Consiglio, del 21 dicembre 1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori (GUCE L 395, 33). Speculare previsione si ritrova all’art. 2 della dir. 92/13/CEE del Consiglio, del 25 febbraio 1992 (GUCE L 76, 14), la quale ha introdotto analoga disciplina per gli appalti nei c.d. settori esclusi.
Dopo una lunga e tormentata ricerca di soluzioni idonee a conciliare tale previsione con la descritta tradizione giurisprudenziale italiana, l’art. 13 della «Legge comunitaria per il 1991» (legge 19 febbraio 1992, n. 142, in Le Leggi, 1992, I, p. 1181) dovette alla fine sancire l’obbligo di risarcire in ogni caso i danni provocati dalle amministrazioni aggiudicatrici nel corso delle procedure di appalto, e affermò contestualmente la competenza del giudice ordinario per le relative azioni, previo annullamento, se necessario, dell’atto lesivo da parte del giudice amministrativo. Intanto, si muoveva dapprima la giurisprudenza che, dopo gli indicati sviluppi, si orientò rapidamente nel senso della generalizzazione della tutela risarcitoria degli interessi legittimi. Dopo una prima apertura della Corte costituzionale (ordinanza 8 maggio 1998, n. 165, in Foro it., 1998, I, 3485), che affermava esplicitamente la necessità di riconsiderare la questione, fu la Corte di Cassazione a dare l’indirizzo decisivo nel senso di cui nel testo (Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500, in Foro it., 1999, I, 3201).
Ma poi entrò in scena anche il legislatore, che rivisitò la materia prima con il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, poi con la legge 21 luglio 2000, n. 205 e di recente, con l’art. 30 del Codice del processo amministrativo. Con tale intervento normativo, si è attribuita al giudice amministrativo la competenza a conoscere altresì, nell’ambito della sua giurisdizione, di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno (anche attraverso la reintegrazione in forma specifica) e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, e si è al tempo stesso soppressa ogni altra disposizione che preveda la devoluzione al giudice ordinario delle controversie sul risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti amministrativi. Per la verità neppure tali interventi hanno eliminato tutte le incertezze sulla ripartizione di competenze tra giudici civili e amministrativi; ma questo riguarda problemi di diritto interno e se ne può prescindere in questa sede. Quel che qui invece preme sottolineare è che comunque, grazie all’impulso della giurisprudenza della Corte di giustizia, la tutela risarcitoria degli interessi legittimi si è oggi imposta anche nell’ordinamento italiano, malgrado la lunga tradizione di segno opposto.
7. Valutazioni conclusive. Le c.d. discriminazioni a rovescio Tirando finalmente le fila di tutto quanto precede, può ben dirsi riassuntivamente che, grazie alla descritta giurisprudenza, la Corte ha saputo creare intorno alle si-
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tuazioni giuridiche tutelate dal diritto dell’Unione una solida rete di protezione, che, almeno in principio, assicura per quelle situazioni forme effettive di garanzia. Grazie a tale giurisprudenza, gli stessi Stati membri non godono più di quella sorta d’impunità che la mancanza di concreti strumenti di tutela aveva loro offerto per lungo tempo, anche nei casi più clamorosi di violazione degli obblighi imposti dal diritto dell’Unione. Siffatti comportamenti sono ora diventati molto poco «convenienti». E ciò non solo e non tanto perché, come si è visto in precedenza (supra, p. 272 ss.), la Corte può ora sanzionare in modo diretto e più efficace l’inadempimento (e soprattutto il persistente inadempimento) di uno Stato membro, ma perché dalla giurisprudenza più sopra evocata esce di molto rafforzata la posizione dei titolari delle situazioni giuridiche lese da tale inadempimento. Se, infatti, la violazione riguarda disposizioni dell’Unione direttamente applicabili, quei soggetti potranno far valere le proprie pretese davanti ai giudici nazionali e aspirare così ad una protezione piena ed effettiva, sia in via definitiva che in via cautelare. Ma, come si è appena visto, essi potranno altresì, quale cioè che sia la natura della norma violata, chiedere (eventualmente anche) il risarcimento dei danni subiti. A fronte però di questi risultati, generalmente apprezzati, un altro se ne è prodotto che invece ha suscitato qualche perplessità. Si allude al fatto che questa sorta di ombrello europeo volto a rinvigorire la tutela dei privati quando rivendicano diritti fondati sulle norme dell’Unione, si presta a determinare all’interno di uno Stato membro situazioni di disparità in danno dei soggetti di tale Stato che, pur vantando le medesime pretese, non abbiano però fatto uso delle libertà sancite dai Trattati e che dunque non possono fruire dei conseguenti diritti conferiti dalla normativa dell’Unione; col risultato quindi che l’applicazione di quest’ultima si traduce in simili casi in una discriminazione a vantaggio degli omologhi soggetti stranieri. È questa la ben nota situazione delle c.d. discriminazioni a rovescio o à rebours, che col tempo, e con lo sviluppo del sistema dell’Unione, è diventata sempre più diffusa ma anche sempre più controversa. Ciò tanto più che la linea giurisprudenziale seguita dalla Corte è rimasta inevitabilmente improntata a una sorta di «non possumus» rispetto ai tentativi di risolvere la questione al livello dell’Unione. Secondo la Corte, infatti, l’ordinamento dell’Unione, di per sé, non può occuparsi di simili ipotesi, perché le c.d. «situazioni giuridiche puramente interne», quelle cioè che non hanno dimensione transfrontaliera perché sorte ed esaurite all’interno di uno stesso Stato membro, vanno valutate esclusivamente dal giudice nazionale alla luce degli strumenti offerti dal proprio ordinamento. Così, fra le altre, Corte giust. 28 gennaio 1992, C-332/90, Steen I, I-341; 16 giugno 1994, C132/93, Steen II, I-2715; 16 gennaio 1997, C-134/95, USSL n. 47 di Biella, I-195; 5 giugno 1997, C-64/96 e 65/96, Uecker e Jacquet, I-3171; 2 luglio 1998, da C-225/95 a C-227/95, Kapasakalis e a., I-4239; 26 gennaio 1999, C-18/95, Terhoeve, I-345; 30 marzo 2006, C-451/03, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, I-2941; 5 dicembre 2006, C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., I-11421; 1° giugno 2010, C-570/07 e C-571/07, Blanco Pérez e Chao Gómez, I-4629; 15 novembre 2016, C268/15, Ullens de Schooten.
In effetti, malgrado i tentativi di scorgere qualche spiraglio in senso più incoraggiante tra le pieghe della giurisprudenza della Corte, non v’è dubbio che, allo stato
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attuale del diritto dell’Unione, il rimedio alla descritta situazione debba essere ricercato soprattutto sul piano nazionale. V. Corte giust. 5 dicembre 2000, C-448/98, Guimont, I-10663; 5 marzo 2002, C-515/99, da C519/99 a C-524/99 e da C-526/99 a C-540/99, Reisch, I-2157; 11 settembre 2003, C-6/01, Anomar, I-8621; ordinanza 17 febbraio 2005, C-250/03, Mauri, I-1267; 30 marzo 2006, C-451/03, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, cit.; 1° aprile 2008, C-212/06, Governo della Comunità francese e Governo vallone, I-1683; 22 dicembre 2010, C-245/09, Omalet, I-13771; 21 febbraio 2013, C-111/12, Ordine degli ingegneri di Verona e Provincia.
Per quanto riguarda l’Italia, il problema, dopo un lungo periodo d’incertezza, sembra ora aver trovato finalmente una soluzione. Ai segnali di apertura offerti dalla giurisprudenza anche costituzionale, segnatamente attraverso la leva del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., ha fatto invero seguito lo stesso legislatore, prima più timidamente, e poi sancendo esplicitamente, e in modo del tutto inequivoco e generalizzato, il principio della parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto ai cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea residenti o stabiliti nel territorio nazionale. Già l’art. 6, lett. d), legge 7 luglio 2009, n. 88, legge comunitaria 2008 (GURI 14 luglio 2009, n. 161, s.o. n. 110) aveva introdotto nella legge 4 febbraio 2005, n. 11, Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari (sulla quale v. ampiamente infra, p. 926 ss.), una nuova disposizione (art. 14 bis), che sanciva con assoluta nettezza quel principio. La nuova legge 24 dicembre 2012, n. 234 (GURI 4 gennaio 2013, n. 3), Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, riafferma lo stesso principio, imponendo fra i principi e criteri direttivi generali cui deve attenersi il governo italiano nell’esercizio della delega a esso conferita per l’attuazione del diritto dell’Unione, quello secondo cui «è assicurata la parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto ai cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea e non può essere previsto in ogni caso un trattamento sfavorevole dei cittadini italiani» (art. 32, comma 1, lett. i), e ribadendo in termini generali che nei confronti dei cittadini italiani «non trovano applicazione norme dell’ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento garantiti nell’ordinamento italiano ai cittadini dell’Unione europea» (art. 53). Per ulteriori tentativi legislativi, v. art. 2, comma 1, lett. h), legge 18 aprile 2005, n. 62 (legge comunitaria 2004), che imponeva alle norme di adattamento agli obblighi comunitari di assicurare una effettiva parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto a quelli degli altri Stati membri dell’Unione europea, evitando l’insorgere di situazioni discriminatorie a loro danno. Quanto alla Corte costituzionale, v. già sentenza 16 giugno 1995, n. 249. Ma v. soprattutto Corte cost. 30 dicembre 1997, n. 443, nella quale si riconosceva uno spazio di intervento all’art. 3 Cost. anche nel caso in cui la disparità di trattamento derivasse dall’applicazione di norme comunitarie. Secondo la Corte, infatti, «all’impatto con il nostro sistema giuridico, quello spazio di sovranità che il diritto comunitario lascia libero allo Stato italiano può non risolversi in pura autodeterminazione statale o in mera libertà del legislatore nazionale, ma è destinato ad essere riempito dai principî costituzionali e, nella materia di cui si tratta, ad essere occupato dal congiunto operare del principio di eguaglianza e della libertà di iniziativa economica, tutelati dagli artt. 3 e 41 Cost.».
Parte Terza
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Valori e obiettivi dell’Unione
CAPITOLO I
Valori e obiettivi dell’Unione Sommario: 1. Premessa. – 2. I principi e i valori. – 3. Gli obiettivi.
1. Premessa Una volta definite le caratteristiche dell’ordinamento giuridico dell’Unione e del suo impianto istituzionale e giurisdizionale, possiamo passare a illustrarne i valori, gli obiettivi e le competenze. Come già accennato, e come ancora si vedrà nei prossimi Capitoli, nel corso del tempo l’azione dell’Unione si è via via ampliata in misura impensabile negli anni ’50. Dalla semplice instaurazione di un mercato comune e qualche politica collegata, essa si è infatti estesa ad aree sempre più numerose e importanti, al punto che, almeno in linea di principio, può dirsi che non c’è oggi settore che non possa cadere, in atto o in potenza, sotto l’impresa delle istituzioni europee, anche se poi resta da verificare volta a volta in che misura e con quale capacità d’incidenza ciò avviene. Ma vedremo più approfonditamente in seguito, settore per settore, come e in quali termini questi sviluppi si sono realizzati. Prima conviene segnalare che, insieme con l’indicata estensione delle competenze e delle c.d. politiche dell’Unione, col tempo si è altresì precisato e arricchito il fondamento politico e ideale del processo d’integrazione e dei suoi obiettivi, in coincidenza con la maturazione dello stesso e con la più solida e compatta configurazione che l’Unione ha via via assunto. Tali sviluppi sono andati non a caso di pari passo, perché lo straordinario ampliamento delle attribuzioni dell’Unione richiedeva che questa si desse, per così dire, un’anima, si ancorasse cioè in maniera sempre più puntuale ed esplicita ai grandi principi dei moderni ordinamenti democratici, e aggiornasse le proprie prospettive fissando obiettivi più ambiziosi e più attuali della storicamente fondamentale, ma ormai (si spera definitivamente) superata finalità di assicurare la pace tra gli antichi nemici del continente. Per questo motivo, l’analisi delle politiche dell’Unione viene qui fatta precedere da sintetici cenni ai principi e ai valori ai quali tali politiche devono ispirarsi, nonché
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agli obiettivi che gli Stati membri hanno deciso di perseguire in comune attraverso l’Unione. In tale contesto, si ritiene opportuno dare spazio anche al tema della cittadinanza dell’Unione, che pur non costituendo in senso proprio un principio o un valore, né un obiettivo o una competenza, ad essi tutti in qualche modo si ricollega.
2. I principi e i valori Come si è appena accennato, diversamente dai primi trattati comunitari, che al riguardo erano molto sommari o addirittura tacevano del tutto, a partire dall’AUE sono stati inseriti nei testi richiami sempre più puntuali e più corposi ai principi e ai valori sui quali si fonda l’Unione. E ciò a seguito di un’evoluzione che, prima ancora che nei Trattati, ha trovato espressione in una serie di documenti più o meno solenni delle supreme istanze dell’Unione (v. ad es. già la Dichiarazione sull’identità europea del 14 dicembre 1973, adottata a Copenaghen dai Capi di Stato e di governo dei 9 Stati allora membri delle CE) fino alla Carta dei diritti fondamentali, ma soprattutto nella giurisprudenza della Corte di giustizia, che ha via via sancito l’affermazione e la tutela di quei valori nell’ordinamento europeo quali principi generali dello stesso (v. p. 143 ss.). Oggi, grazie a tali sviluppi, i valori dell’Unione sono enunciati in modo esplicito e sistematico, già nei «Considerando» del preambolo del TUE e soprattutto nei primissimi articoli dello stesso. L’art. 2 TUE proclama infatti che l’Unione si fonda sui «valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze», valori che sono assunti in quanto comuni agli Stati membri «in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra uomini e donne». Nel secondo capoverso del preambolo del TUE si dichiara che tali valori sono ispirati dalle «eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa». È questa, come noto, la formula sulla quale nella fase preparatoria del Trattato costituzionale si realizzò il compromesso tra gli Stati che insistevano sul richiamo alle radici giudaico-cristiane dell’Europa e quelli che a tale richiamo si opponevano.
Torneremo ancora su queste enunciazioni. Qui conviene segnalare alcuni significativi aspetti dell’art. 2 TUE. Anzitutto, va detto che esso trova il proprio precedente diretto nell’art. I-2 Trattato costituzionale, e ciò non per caso, considerata l’attenzione che questo sfortunato testo aveva per i valori costituzionali dell’Unione. Tale disposizione segnava in particolare una più chiara identificazione di detti valori, perché li separava da quella, più specifica, relativa alla tutela dei diritti fondamentali in cui erano in precedenza inclusi (art. 6 TUE pre-Lisbona) e ne faceva oggetto di una previsione autonoma, per giunta collocata addirittura in apertura del Trattato.
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In secondo luogo, emerge dalla disposizione che la dicotomia «principi/valori», che si traduce spesso in un uso quasi indifferenziato dei due termini, viene qui superata a favore dell’esclusivo riferimento ai «valori», all’evidente fine di esaltare la valenza ideale e politica, ancor prima che giuridica, degli stessi. Infine, va sottolineato che nessuna gerarchia sembra emergere, tra i valori indicati, che dia all’uno preminenza formale sull’altro; e ciò perché in realtà essi non sono, nel loro autentico e profondo significato, né distinti né distanti tra loro, ma al contrario si accostano, si sovrappongono e si completano nell’univoco intento di caratterizzare l’Unione con gli attributi qualificanti del moderno Stato democratico. E in essa sono assunti come valori anche e soprattutto in quanto valori «comuni» agli Stati membri, i quali ugualmente su di essi si fondano o debbono fondarsi, e quindi in quanto costitutivi di un patrimonio costituzionale comune idoneo a definire l’essenza stessa dell’identità europea, pur nel rispetto – come ricorda il preambolo del TUE, ma anche quello della Carta dei diritti fondamentali – della diversità della storia, della religione, delle culture e delle tradizioni dei popoli d’Europa. Non è facile peraltro affermare la difesa di tali valori nella varietà e nella complessità delle situazioni nazionali e questo spiega le difficoltà che incontra l’Unione rispetto alle crisi che, specialmente in questi ultimi tempi, si verificano all’interno degli Stati membri a questo riguardo. La prudenza di cui danno prova le istituzioni dell’Unione si spiega proprio in nome di queste difficoltà e dell’opportunità di non svilire, con prove di forza dagli esiti non del tutto sicuri, gli strumenti apprestati per tali evenienze. Ma è chiaro che questa prudenza ha dei limiti che non possono essere superati.
Ciò posto, va aggiunto che il richiamato art. 2 TUE non è l’unica disposizione rilevante per la definizione del quadro dei valori fondanti dell’Unione. Assumono importanza infatti al riguardo, e lo vedremo, anche molte altre disposizioni, sia dei Trattati che dei Protocolli ad essi allegati, sebbene i principi e i valori in esse enunciati non siano in larghissima misura che dei corollari o proiezioni di quelli prima evocati. Ciò può dirsi in particolare per quanto riguarda i principi di trasparenza e prossimità (art. 1, comma 2, TUE), il valore della pace e del benessere dei popoli (art. 3, par. 1, TUE), il rispetto dell’uguaglianza degli Stati membri, della loro identità nazionale e delle loro funzioni essenziali (art. 4, par. 2, TUE), il principio di leale cooperazione tra Stati membri e tra questi e l’Unione (art. 4, par. 3, TUE), i principi di attribuzione, sussidiarietà e proporzionalità (art. 5 TUE), la tutela dei diritti fondamentali (art. 6 TUE), la connotazione dei diritti legati alla cittadinanza europea (art. 9 TUE), i principi della democrazia rappresentativa (artt. 10-12 TUE), nonché la proiezione degli stessi sulle relazioni esterne dell’Unione (artt. 21 TUE e 205 TFUE) e sulle varie politiche dell’Unione. Conviene peraltro notare che gli indicati valori dell’Unione non costituiscono mere enunciazioni ideali e politiche, perché il loro mancato rispetto produce conseguenze giuridiche per le istituzioni dell’Unione ed anche per gli Stati membri. Per quanto riguarda questi ultimi, infatti, l’indicata eventualità può determinare l’imposizione di importanti sanzioni a carico dello Stato interessato che possono comportare anche la perdita del diritto di voto in seno al Consiglio (art. 7 TUE, nonché p. 45 s.). Ma riflessi possono aversi anche nei rapporti con gli Stati terzi. A tal proposito,
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anzitutto, il fatto che uno Stato rispetti quei valori e s’impegni a promuoverli costituisce una imprescindibile condizione per l’eventuale adesione di tale Stato all’Unione (art. 49 TUE). In secondo luogo, la violazione di tali valori può riflettersi negativamente sulle relazioni di uno Stato terzo con l’Unione, visto che tali relazioni, come accennato, devono svolgersi nel rispetto dei predetti valori (art. 21 TUE). Questo vale in particolare per gli accordi che prevedono la cooperazione economica, l’assistenza o gli aiuti allo Stato terzo da parte dell’Unione, dato che, in base alla regola della c.d. condizionalità, l’accordo può essere sospeso o perfino denunciato in caso di violazione dei valori in questione da parte dello Stato contraente. Quanto alle istituzioni e a tutti gli organismi dell’Unione, si è già ricordato che, dopo iniziali incertezze, il rispetto degli indicati valori è ormai divenuto un parametro di legalità dei relativi comportamenti, specie perché essi attraversano orizzontalmente gli obiettivi di cui subito diremo e quindi ne condizionano i principi e le modalità di attuazione. Va peraltro notato che, eccezion fatta per la tutela dei diritti fondamentali, la loro violazione di solito non emerge in modo diretto, ma si esprime negli specifici vizi di legittimità di cui pure diremo più avanti.
3. Gli obiettivi Come più volte sottolineato, i Trattati non lasciano all’Unione la libertà di definire i propri obiettivi, ma provvedono essi stessi a elencarli e quindi in qualche modo a delimitarli, in conformità al già ricordato principio delle competenze di attribuzione. A ciò provvede in particolare l’art. 3 TUE, che ha sostituito analoghe disposizioni dei testi pre-Lisbona, conformandole tuttavia alla diversa situazione delineata dal nuovo Trattato, e segnatamente dall’abbandono della struttura a pilastri in favore di una struttura formalmente unitaria. La norma enuncia quindi, sia pur in modo sintetico, tutti gli obiettivi dell’Unione, anche se poi a svolgerli e a specificarli provvederanno in modesta parte le successive disposizioni del TUE (in particolare per quanto concerne l’azione esterna dell’Unione), in massima parte invece le norme del TFUE. Emerge così una vasta gamma di obiettivi che restano certo assai eterogenei, anche se devono essere perseguiti con coerenza (art. 7 TFUE), ma che vengono elencati ora in termini meno approssimativi e disordinati che in precedenza e che sono comunque, come più volte notato, ben più ampi di quelli puramente economici che caratterizzavano le originarie Comunità; il che dà la misura non solo dello straordinario sviluppo del processo d’integrazione, ma anche, diremmo, della sua mutazione qualitativa. Nessuna gerarchia è però fissata tra di essi, ancorché non sempre risulti facile conciliarli, alcuni dando rilievo a esigenze di ordine puramente economicomercantile, altri invece a esigenze di carattere sociale. Spetta evidentemente al legislatore dell’Unione, come alla Corte di giustizia, trovare l’appropriato equilibrio al riguardo, anche se questo, per la verità, non è sempre avvenuto senza problemi. V., ad es., le due note sentenze 11 dicembre 2007, C-438/05, The International Transport Workers’ Federation e The Finnish Seamen’s Union, I-10779 (c.d. Viking), e 18 dicembre 2007, C-
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341/05, Laval un Partneri, I-11767 (c.d. Laval), in cui la Corte, dopo aver per l’appunto ricordato che l’Unione «non ha soltanto una finalità economica, ma anche una finalità sociale» (sentenza Laval, punto 79), ha poi dovuto compromettere tra libertà di circolazione (nella specie, il diritto di stabilimento) e politica sociale (nella specie, il diritto di sciopero), dando in tal caso precedenza alla prima, ma suscitando al tempo stesso inevitabili polemiche. A tale riguardo, v. anche la sentenza del 21 dicembre 2016, C-201/15, AGET Iraklis.
Molto in sintesi per ora, ricordiamo che, secondo l’art. 3 TUE, gli obiettivi in parola includono, nell’ordine: a) la promozione della pace, dei valori dell’Unione e del benessere dei suoi popoli; b) la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone e l’adozione di misure appropriate in relazione ai controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima; c) l’instaurazione di un mercato interno, nel quale sia assicurato uno sviluppo sostenibile, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente, senza dimenticare la promozione del progresso scientifico e tecnologico. Ma in tale contesto l’Unione deve altresì combattere le esclusioni sociali e le discriminazioni e promuovere la giustizia e la protezione sociali, la parità tra uomini e donne, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti dei minori; promuovere al contempo la coesione economica, sociale e territoriale, nonché la solidarietà tra gli Stati membri; rispettare la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e vigilare sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo (obiettivi riproposti, insieme con la tutela dei consumatori e la protezione degli animali, la salvaguardia dei compiti dei servizi di interesse economico generale, la garanzia della trasparenza e della protezione dei dati personali, il rispetto dello status delle chiese e delle associazioni e comunità religiose, dagli artt. 8-17 TFUE); d) l’istituzione di un’unione economica e monetaria, che abbia come moneta unica l’euro; e) infine, nelle relazioni internazionali, l’affermazione e la promozione dei propri valori e interessi, contribuendo alla protezione dei cittadini europei, anche al di fuori dei suoi confini. Naturalmente, in conformità a quei valori, l’Unione contribuisce a promuovere e garantire la pace e la sicurezza internazionale, come tutti gli altri principi ormai sempre più diffusi nell’ordinamento internazionale (sviluppo sostenibile, solidarietà e rispetto tra i popoli, commercio libero ed equo, lotta alla povertà, tutela dei diritti umani), così come garantisce l’osservanza e lo sviluppo del diritto internazionale, a cominciare dalla Carta delle Nazioni Unite. È appena il caso di ribadire, ancora una volta, che l’enunciazione degli indicati obiettivi dell’Unione non implica che quest’ultima sia libera di adottare qualsiasi misura volta a perseguirli. È nelle disposizioni materiali dei Trattati che andranno invece volta a volta ricercate le coordinate degli effettivi poteri di cui le istituzioni dispongono per il concreto perseguimento di ciascuno di detti obiettivi. Al tempo stesso, tuttavia, quella enunciazione assume rilievo per quanto attiene alla verifica della competenza delle istituzioni europee, perché queste possono agire, come più volte ricordato, solo ai fini del perseguimento di detti obiettivi, così come è solo a questi fini che si può fare ricorso alla clausola di flessibilità di cui all’art. 352 TFUE (v. p. 416 ss.).
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Va infine segnalato che la specifica indicazione degli obiettivi dell’Unione non può far nascere in capo ai singoli un diritto alla loro realizzazione, direttamente invocabile dinanzi ad un giudice nazionale (v. Corte giust. 24 gennaio 1991, C-339/89, Alsthom Atlantique, I-107). Così come essa non si presta a produrre, di per sé (se cioè quegli obiettivi non si siano già tradotti in specifiche misure destinate ad attuarli), obblighi giuridici a carico degli Stati membri, anche se può costituire un limite alla loro azione, dal momento che, ai sensi dell’art. 4, par. 3, ultimo comma, TUE, detti Stati sono obbligati ad astenersi da qualsiasi misura che possa mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione (Corte giust. 3 giugno 2010, C484/08, Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid, I-4785).
CAPITOLO II
La cittadinanza dell’Unione Sommario: 1. Natura e significato della cittadinanza dell’Unione. – 2. Acquisto e perdita della cittadinanza dell’Unione. – 3. Lo status di cittadino dell’Unione. – 4. I contenuti dello status di cittadino dell’Unione e il principio di non discriminazione. – 5. a) Il diritto di libera circolazione e di soggiorno nel territorio degli Stati membri. – 6. Segue: La disciplina di applicazione: la direttiva 2004/38. – 7. b) Il diritto di esercitare l’elettorato attivo e passivo alle elezioni comunali e alle elezioni europee in uno Stato membro diverso da quello di appartenenza. – 8. c) Il diritto alla protezione diplomatica e consolare nei paesi terzi. – 9. d) Gli altri diritti del cittadino dell’Unione.
1. Natura e significato della cittadinanza dell’Unione Una delle idee principali che ha caratterizzato i successivi sviluppi del processo di integrazione europea e del suo diritto è quella della assimilazione tra i cittadini degli Stati membri. Essi non sono «stranieri» (termine rigorosamente riservato nel gergo europeo ai cittadini di paesi terzi); e ciascuno di loro, in qualsiasi Stato membro si trovi, deve tendenzialmente godere dello stesso trattamento riservato da quello Stato ai propri cittadini. Nella storia dell’Unione tale assimilazione ha rappresentato non solo un obiettivo di politica legislativa, ma anche uno strumento di affermazione dell’Unione come spazio unitario e identitario. Il messaggio che essa ha mirato a veicolare con il superamento, all’interno di tale spazio, della «frontiera» politica e giuridica storicamente data dalla cittadinanza nazionale, è stato infatti quello dell’identificazione dei cittadini degli Stati membri a un tempo con la comunità nazionale e con una comunità di popoli più ampia, rappresentata dall’Unione europea. In questo processo un punto di svolta essenziale è stato segnato dalla formale previsione, originariamente dovuta al Trattato di Maastricht, dell’esistenza di una «cittadinanza dell’Unione». Essa è oggi contenuta nell’art. 9 TUE ed è ribadita dall’art. 20 TFUE come premessa ad una serie di articoli specificatamente dedicati alla cittadinanza dell’Unione. Quella previsione ha trasformato, infatti, il precedente processo di graduale arricchimento della posizione giuridica soggettiva dei cittadini degli Stati membri, fino a quel momento sviluppatosi all’interno della dimensione economica della costru-
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zione europea, nell’attribuzione agli stessi cittadini di quello che la Corte di giustizia ha definito come «lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri» (20 settembre 2001, C-184/99, Grzelczyk, I-6199, punto 31). La Corte ha formulato questa considerazione con riferimento all’originaria ispirazione che ha portato alla proclamazione della cittadinanza dell’Unione. Quello status consente – ha infatti osservato – a chi tra i cittadini degli Stati membri «si trovi nella medesima situazione di ottenere, indipendentemente dalla cittadinanza e fatte salve le eccezioni espressamente previste a tale riguardo, il medesimo trattamento giuridico» (ivi). È indubbio però, come è stato giustamente osservato, che tale status costituisce qualcosa di più di un insieme di diritti, che, in quanto tali, potrebbero essere concessi anche a coloro che non lo possiedono. L’attribuzione della cittadinanza europea ha voluto anche certificare l’esistenza di un legame politico tra i cittadini degli Stati membri e il riconoscimento ad essi, in quanto cittadini dell’Unione, di un ruolo di protagonisti attivi della costruzione europea e non più solo di meri destinatari delle norme dell’Unione. Ciò è diventato del resto definitivamente chiaro con il Trattato di Lisbona, dal quale la previsione formale della cittadinanza dell’Unione viene collocata nell’articolo iniziale (il sopra citato art. 9) del Titolo II del TUE, contenente le «Disposizioni relative ai principi democratici», cui fa seguito, nell’articolo immediatamente successivo, la precisazione che «ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione» (art. 10, par. 3). Nonostante la sua proclamazione formale all’interno dei Trattati, la cittadinanza dell’Unione dà conto più di un legame da costruire, che non di un legame già esistente tra cittadino e Unione; né essa è oggi assimilabile alla cittadinanza nazionale, cui del resto non vuole dichiaratamente sostituirsi (art. 9 TUE: «[l]a cittadinanza dell’Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non la sostituisce»). La cittadinanza nazionale tende in principio a regolare la posizione dell’individuo rispetto allo Stato con cui la qualifica di cittadino esprime appunto il collegamento, mentre la cittadinanza europea fa sentire i suoi effetti più sulla posizione del cittadino all’interno degli Stati membri, che non nei confronti dell’Unione. Come si vedrà, in effetti i diritti che le si riconnettono incidono essenzialmente sul rapporto dei singoli con gli Stati membri. E questo è comprensibile. Non va dimenticato infatti che, al di là della sua funzione, la cittadinanza dell’Unione è comunque chiamata ad esprimere il collegamento dell’individuo con un’entità che, indipendentemente da una sua eventuale evoluzione futura, è oggi non solo diversa dagli Stati, ma è anche priva di responsabilità dirette nelle materie in cui tradizionalmente si manifesta il vincolo di cittadinanza; per cui quel collegamento difficilmente può riflettersi in un vincolo giuridico-politico diretto tra cittadino e apparato dell’Unione, ricostruibile in termini di specifiche situazioni giuridiche soggettive del primo verso la seconda. Lo stesso elettorato attivo e passivo al PE, che, costituendo una posizione giuridica detenuta dal cittadino europeo nei confronti dell’Unione in quanto tale, rappresenta il punto di maggior contatto tra la cittadinanza dell’Unione e quel vincolo giuridico-politico cui il termine di cittadinanza viene normalmente riferito, finisce in realtà per essere mediato dagli Stati, in assenza, come si è visto, di una legge elettorale uniforme (supra, p. 90 s.).
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Ne dà particolare dimostrazione la difficoltà di prospettare un nucleo sia pur minimo di doveri del cittadino dell’Unione, che del vincolo di cittadinanza, come la stessa Corte di giustizia ha avuto modo di osservare, costituisce un elemento essenziale. Per la verità, il TFUE ne suggerisce l’esistenza, affermando che «i cittadini dell’Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti nei Trattati» (art. 20, par. 2, TFUE). Ma in realtà questi concretamente non ne prevedono, né si può ritenere che tale lacuna possa essere compensata, nella caratterizzazione dello status di cittadino dell’Unione, dall’indistinto richiamo «ai doveri previsti nei Trattati». È vero, infatti, che da questo richiamo si potrebbe ricavare un generico e generale dovere di osservare la legge, ma non si tratterebbe comunque di un dovere esclusivo del cittadino dell’Unione. Mentre è evidente che, anche con riguardo a un’ipotesi particolare come quella della cittadinanza dell’Unione, può aver senso parlare di doveri specifici del cittadino solo in quanto ci si riferisca a quei «doveri costituzionali» che sono di regola connessi con tale qualifica, costituendo una sorta di contropartita dei diritti a quello stesso titolo garantiti all’individuo. Si tratta di quei doveri evocati, come si è detto, dalla stessa Corte di giustizia, quando ha parlato, anche se ovviamente con riferimento alla cittadinanza nazionale, della «esistenza di un rapporto pubblico di solidarietà nei confronti dello Stato, nonché [della] reciprocità di diritti e di doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza» (sentenza 17 dicembre 1980, 149/79, Commissione c. Belgio, 3881, punto 10). In realtà, non è al momento possibile nemmeno immaginare doveri di questo genere a carico del cittadino dell’Unione. Sul piano politico, per la funzione simbolica che è chiamata a svolgere ai fini di un’identificazione dei cittadini con l’Unione, tale qualifica non può che imperniarsi più sui diritti che sui doveri, tanto che l’art. 25 TFUE, che disciplina una procedura semplificata di revisione dei Trattati volta ad integrare il contenuto dello status di cittadino dell’Unione (al riguardo cfr. il successivo par. 9), significativamente prevede il ricorso a questa eventualità solo per «completare i diritti [di cittadinanza(elencati [all’art. 20, par. 2, TFUE]» Sul piano giuridico, poi, incide in maniera ancora più determinante, rispetto a questi ultimi, il limitato ambito di competenza del Trattato cui si è in precedenza accennato. Manca, infatti, un rapporto di supremazia dell’Unione nei confronti dell’individuo in quelle materie rispetto alle quali il principio di solidarietà politica, di cui i «doveri costituzionali» sono espressione, può operare.
2. Acquisto e perdita della cittadinanza dell’Unione I Trattati non fissano criteri autonomi di attribuzione della cittadinanza dell’Unione, ma operano un rinvio alle norme sulla cittadinanza dei singoli Stati per stabilire chi è cittadino dell’Unione. L’art. 9 TUE e l’art. 20, par. 1, TFUE precisano, infatti, che è tale «chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro». In linea, cioè, con il carattere aggiuntivo e non sostitutivo della cittadinanza europea rispetto a quella nazionale, il possesso della prima deriva automaticamente dal solo fatto di essere cittadino di uno Stato membro. E si resta cittadini dell’Unione fintantoché si conserva la cittadinanza di uno Stato membro. Una dichiarazione adottata dagli Stati membri contestualmente all’introduzione nel Trattato di Maastricht delle norme sulla cittadinanza dell’Unione (Dichiarazione n. 2 sulla cittadinanza di uno Stato membro) costruisce il rinvio alle legislazioni na-
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zionali come un rinvio di carattere assoluto. Detta dichiarazione specifica, infatti, che «ogniqualvolta che nel Trattato che istituisce la Comunità europea si fa riferimento a cittadini degli Stati membri, la questione se una persona abbia la nazionalità di questo o di quello Stato membro sarà definita soltanto in riferimento al diritto nazionale dello Stato membro interessato». L’esclusività della competenza degli Stati in materia è stata poi ribadita anche dalla Corte di giustizia, la quale più volte ha precisato, proprio in relazione al rapporto tra cittadinanza dell’Unione e cittadinanza nazionale, che «la determinazione dei modi di acquisto e di perdita della cittadinanza rientra, in conformità al diritto internazionale, nella competenza di ciascuno Stato membro» (da ultimo, sentenza 2 marzo 2010, C-135/08, Rottmann, I-1449, punto 39). Ne deriva che la sfera di applicazione soggettiva della cittadinanza dell’Unione è direttamente influenzata dalle scelte operate dagli Stati membri all’interno delle proprie legislazioni in materia di cittadinanza, a partire da quelle che, privilegiando l’uno o l’altro dei criteri tradizionali di attribuzione della cittadinanza (ius soli o ius sanguinis), delimitano in senso più o meno estensivo la cerchia dei cittadini di ciascuno Stato. La dichiarazione di Maastricht appena citata ha prospettato la possibilità che, mediante formale comunicazione, gli Stati membri precisino, «a titolo di informazione, quali sono le persone che devono essere considerate come propri cittadini ai fini perseguiti» dall’Unione. Come lascia intendere la formulazione appena riportata, una comunicazione del genere dovrebbe avere unicamente la funzione «informativa» di chiarire alle istituzioni dell’Unione e agli altri Stati membri quale è la cerchia dei propri cittadini, dal momento che, in linea di principio, questi vanno tutti automaticamente considerati cittadini dell’Unione. Probabilmente proprio per questo, gli Stati membri non hanno ritenuto necessario avvalersi della possibilità di cui sopra e procedere a comunicazioni formali al riguardo. Un’eccezione particolare è quella del Regno Unito, che fin dal momento della sua adesione alla allora CEE ha escluso, con un’apposita dichiarazione, la possibilità di riconoscere a una parte dei suoi «sudditi» la qualifica di cittadino britannico ai sensi e ai fini dell’applicazione del diritto dell’Unione. Questa Dichiarazione, allegata all’atto finale del Trattato di adesione del 1972 (GUCE L 73, 196), fu poi sostituita il 1° gennaio 1983, a seguito dell’approvazione del British Nationality Act 1981, da una nuova Dichiarazione relativa alla definizione del termine «cittadini» (GUCE C 23, 1), che è stata reiterata in occasione del Trattato di Lisbona in una Dichiarazione (n. 63) dallo stesso titolo, allegata a tale Trattato. Ebbene, la limitazione posta dalla Dichiarazione trova la sua ragion d’essere nel fatto che, per i trascorsi coloniali del Regno Unito, la legislazione di questo paese conosce forme diverse di cittadinanza che si distinguono per un possesso differenziato dei diritti connessi alla qualifica di cittadino. In particolare, sono previste tre diverse categorie di cittadini (cittadini britannici, cittadini dei territori britannici dipendenti e cittadini britannici d’oltremare), l’ultima delle quali non gode di un diritto di ingresso e soggiorno nel Regno Unito. La dichiarazione britannica ha escluso quindi che gli individui ricompresi in questa categoria possano considerarsi cittadini britannici ai fini del diritto dell’Unione, e in particolare delle norme di questo in materia di libera circolazione e soggiorno dei cittadini degli Stati membri. Questa limitazione dei soggetti da considerarsi cittadini britannici ai fini del diritto dell’Unione, è stata ritenuta legittima dalla Corte di giustizia, perché frutto di una «delimitazione del campo di applicazione ratione personae delle disposizioni comunitarie oggetto del Trattato di adesione», sulla cui base sono state determinate, in considerazione del carattere unicamente storico del legame di cittadinanza interessato, le condizioni di adesione del Regno Unito. La Corte ha ri-
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tenuto in particolare che, benché unilaterale, detta Dichiarazione «deve essere presa in considerazione in quanto strumento che ha una relazione con il Trattato per l’interpretazione di quest’ultimo e, più in particolare, al fine di determinare il campo di applicazione ratione personae di quest’ultimo» (sentenza 20 febbraio 2001, C-192/99, Kaur, I-1237, punti 23-24).
La competenza esclusiva di ciascuno Stato nella determinazione dei propri cittadini, e quindi dei titolari della cittadinanza europea, si impone in primo luogo all’Unione, escludendo che questa disponga, allo stato, non solo di una propria competenza a definire criteri uniformi di acquisto o perdita della cittadinanza dell’Unione, ma anche della competenza ad adottare norme pur minime di armonizzazione delle legislazioni nazionali. Ma quella competenza si impone soprattutto agli altri Stati membri, i quali non possono contestare l’attribuzione della cittadinanza da parte di uno Stato membro o trattare diversamente i cittadini di questo, a seconda del momento o del modo in cui hanno acquistato la cittadinanza dello Stato stesso, se, quando invocano il diritto dell’Unione, essi hanno la cittadinanza di quello Stato. La Corte di giustizia ha così prima di tutto affermato che «per valutare i diritti del cittadino di uno Stato membro, […] la data in cui egli ha acquistato la cittadinanza di uno Stato membro è irrilevante, purché egli la possieda al momento in cui invoca norme di diritto comunitario, i cui effetti siano connessi alla qualità di cittadino di uno Stato membro» (sentenza 7 febbraio 1979, 136/78, Auer, 437, punto 29). E ha poi ritenuto che uno Stato membro non possa limitare, sempre ai fini dell’applicazione delle norme dell’Unione, gli effetti sul suo territorio del possesso della cittadinanza di un altro Stato membro, per il solo fatto che l’acquisto di tale cittadinanza avrebbe un carattere meramente «artificioso», in quanto ispirato unicamente dall’obiettivo di avvalersene ai fini dell’ingresso e soggiorno nel territorio del primo Stato membro (Corte giust. 19 ottobre 2004, C-200/02, Zhu e Chen, I-9925). Nello specifico si trattava del rifiuto delle autorità britanniche di concedere un permesso di soggiorno di lunga durata a una bambina, cittadina irlandese per nascita, e alla madre di nazionalità cinese che l’accompagnava, sulla motivazione che la cittadinanza irlandese della bambina derivava unicamente dalla scelta deliberata della madre di partorire in territorio irlandese al fine di usufruire, grazie alla cittadinanza europea della figlia, del diritto di ingresso e soggiorno nel Regno Unito. Infatti, conformemente all’art. 6, n. 1, dell’Irish Nationality and Citizenship Act del 1956 (legge poi modificata in senso restrittivo nel 2004, a seguito della sentenza della Corte), l’Irlanda consentiva a tutti i nati sull’isola d’Irlanda di acquisire la cittadinanza irlandese. Secondo il n. 3 di tale articolo, una persona nata sull’isola d’Irlanda acquisiva la cittadinanza irlandese alla nascita, se non poteva ottenere la cittadinanza di un altro paese. Ebbene, la Corte ha chiarito che riconoscere la legittimità della decisione delle autorità britanniche avrebbe significato anche in questo caso riconoscere il diritto di uno Stato membro di «limitare gli effetti dell’attribuzione della cittadinanza di un altro Stato membro, pretendendo un requisito ulteriore per il riconoscimento di tale cittadinanza al fine dell’esercizio delle libertà fondamentali previste dal Trattato» (ivi, punto 39).
La Corte di giustizia ha anche escluso che, in caso di doppia cittadinanza di un altro Stato membro e di un paese terzo, uno Stato possa non riconoscere la prima ai fini dell’applicazione delle norme del Trattato al cittadino dell’Unione residente abitualmente nel paese terzo, per il fatto che la sua legislazione impone di privilegiare tra le due cittadinanze quella dello Stato di ultima residenza o di residenza effettiva. Una soluzione contraria equivarrebbe a consentire ad una legislazione diversa da quella di cittadinanza di «limitare gli effetti dell’attribuzione della cittadinanza di un
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altro Stato membro, pretendendo un requisito ulteriore per il riconoscimento di tale cittadinanza al fine dell’esercizio delle libertà fondamentali previste dal Trattato» (Corte giust. 7 luglio 1992, C-369/90, Micheletti, I-4239, punto 10). Ferma restando la competenza esclusiva degli Stati membri in materia di acquisto e perdita della cittadinanza, il suo esercizio in relazione ai cittadini dell’Unione non è per questo sottratto al controllo della Corte, dato che il fatto che una materia rientri nella competenza degli Stati non esclude che, in situazioni ricadenti nell’ambito del diritto dell’Unione, le norme nazionali di cui trattasi debbano rispettare quest’ultimo. Il limite del rispetto del diritto dell’Unione nell’esercizio di competenze rimaste in capo agli Stati membri risponde in effetti a un principio generale evocato dalla Corte in riferimento anche ad altri settori (si veda al riguardo anche p. 424). Ma la Corte lo ha ribadito più volte espressamente proprio con riferimento specifico alla cittadinanza europea, osservando come la riserva di rispetto del diritto dell’Unione non pregiudica la competenza esclusiva degli Stati in materia di cittadinanza, ma «consacra il principio in virtù del quale, quando si tratti di cittadini dell’Unione, l’esercizio di tale competenza – qualora leda i diritti riconosciuti e tutelati dall’ordinamento giuridico dell’Unione […] – può essere sottoposto a un controllo giurisdizionale condotto alla luce del diritto dell’Unione» (sentenza Rottmann, cit., punto 48). Questo vaglio potrebbe riguardare ad esempio, come lasciano intendere alcune affermazioni della giurisprudenza, disposizioni nazionali che facciano venir meno la cittadinanza dello Stato in capo a persone o a un gruppo di persone che precedentemente ne beneficiavano, restringendo così la cerchia dei beneficiari della cittadinanza dell’Unione e dei diritti che le si ricollegano. La Corte ha esplicitamente ammesso, infatti, che spetta ad essa «pronunciarsi sulle questioni che riguardano i presupposti in presenza dei quali un cittadino dell’Unione può, a motivo della perdita della propria cittadinanza, vedersi privato di tale qualità di cittadino dell’Unione e dunque dei diritti ad essa connessi» (v. sempre sentenza Rottmann, cit., punto 46). Un vaglio del genere difficilmente sarebbe superato laddove quelle disposizioni apparissero ispirate, ad esempio, a motivazioni di carattere razziale, o comunque confliggenti con i diritti fondamentali riconosciuti dai principi generali del diritto dell’Unione. Un indizio in questo senso viene dalla stessa Corte di giustizia, nella sentenza 20 febbraio 1975, 21/74, Airola, 221, benché lì si trattasse non di una revoca, ma di un’attribuzione di cittadinanza: la Corte ha cioè ritenuto di non dover tener conto, ai fini dell’applicazione dello Statuto dei funzionari dell’Unione, della naturalizzazione italiana di una dipendente di nazionalità belga, in quanto tale naturalizzazione le era stata imposta ai sensi del diritto italiano, senza possibilità di rinunciarvi, in ragione del matrimonio con un italiano, dando così luogo ad una violazione del principio comunitario della parità di trattamento tra dipendenti di sesso maschile e dipendenti di sesso femminile. Anche in assenza di motivazioni di questo tipo, però, una revoca della cittadinanza, pur se astrattamente legittima, potrebbe essere censurabile dal punto di vista del diritto dell’Unione, qualora essa risultasse in concreto arbitraria o non rispettosa del principio di proporzionalità, per quanto riguarda le conseguenze che essa determina sulla situazione dell’interessato in rapporto al diritto dell’Unione. La Corte è giunta a questa conclusione nel caso di un cittadino austriaco che, dopo aver perso per legge la cittadinanza originaria per acquisto di quella tedesca a seguito di naturalizzazione, si è visto revocare tale naturalizzazione dalle autorità tedesche in quanto ottenuta in maniera fraudolenta, ritrovandosi così del tutto privo di una cittadinanza nazionale e, conseguentemente, della cittadinanza dell’Unione (si tratta della vicenda oggetto della già citata senten-
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za Rottmann). La sentenza al riguardo emanata osserva, infatti, che in considerazione delle conseguenze che ne derivano sotto il profilo della perdita dei diritti di cui gode ogni cittadino dell’Unione, è necessario verificare che una revoca della cittadinanza nazionale «sia giustificata in rapporto alla gravità dell’infrazione commessa dall’interessato, al tempo trascorso tra la decisione di naturalizzazione e la decisione di revoca, nonché alla possibilità per l’interessato di recuperare la propria cittadinanza di origine» (sentenza Rottmann, cit., punto 56). L’affermazione della Corte appare basata sulla considerazione che «vista l’importanza che il diritto primario annette allo status di cittadino dell’Unione, è necessario, nell’esaminare una decisione di revoca della naturalizzazione, tener conto delle possibili conseguenze che tale decisione comporta per l’interessato e, eventualmente, per i suoi familiari sotto il profilo della perdita dei diritti di cui gode ogni cittadino dell’Unione» (ibidem). Nel merito la sentenza ha poi concluso che il rispetto del principio di proporzionalità si imponeva «tanto allo Stato membro di naturalizzazione quanto allo Stato membro di cittadinanza originaria» (punto 62), ma con due obblighi differenti: alla Germania quello di concedere all’interessato un termine ragionevole prima dell’effettiva revoca della naturalizzazione, affinché egli potesse tentare di recuperare la cittadinanza del suo Stato membro di origine; all’Austria l’obbligo di valutare attentamente la possibilità di consentire all’interessato di recuperare la cittadinanza austriaca.
3. Lo status di cittadino dell’Unione Come si è già ricordato, la giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di cittadinanza dell’Unione è costante nel sottolineare che questa costituisce lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri. L’affermazione non ha un carattere meramente politico. Da essa la Corte ha tratto conseguenze rilevanti per la condizione giuridica dei cittadini degli Stati membri. Nella sua giurisprudenza, infatti, quello status, pur se aggiuntivo rispetto alla cittadinanza nazionale, finisce per assumere in taluni casi un valore per così dire autonomo rispetto ad essa, nel senso che sullo status di cittadino dell’Unione la Corte ha fondato il riconoscimento in capo agli individui di situazioni giuridiche di vantaggio ulteriori rispetto a quelle che scaturiscono dal possesso della «semplice» cittadinanza di uno Stato membro e dalle norme che hanno in quest’ultima il loro presupposto soggettivo di applicazione. Appare significativa, da questo punto di vista, la sentenza con cui la Corte ha riconosciuto a due cittadini belgi, in possesso della doppia cittadinanza spagnola, il diritto di ottenere dalle autorità belghe l’aggiunta del cognome della madre a quello del padre in conformità alla legge spagnola, nonostante che per l’ordinamento belga di residenza chi possiede la cittadinanza del Paese sia considerato unicamente belga (Corte giust. 2 ottobre 2003, C-148/02, Garcia Avello, I-11613, punto 21 ss.). A questa conclusione la sentenza è arrivata sulla base della premessa che, possedendo gli interessati la cittadinanza di due Stati membri, essi beneficiano dello «status fondamentale» di cittadini dell’Unione. Senza che questo venisse in realtà negato dall’applicazione della legislazione belga, la Corte ha ritenuto, cioè, che quello status legittimasse gli interessati a vedere arricchita la propria posizione giuridica dalla possibilità di avvalersi anche della legislazione dell’altro Stato membro di cittadinanza. Come emerge anche dalla sentenza appena citata, il valore giuridico «autonomo» dello status di cittadino dell’Unione comporta peraltro che esso possa essere invoca-
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to anche nei confronti dello Stato membro di cittadinanza; e ciò non solo per effetto del fatto che l’interessato, come nella vicenda appena citata, sia cittadino anche di un altro Stato membro. La Corte ha sottolineato infatti, più di una volta, che «in quanto cittadina di almeno uno Stato membro, una persona […] gode dello status di cittadino dell’Unione ai sensi dell’art. 20, par. 1, TFUE e può dunque avvalersi, eventualmente anche nei confronti del suo Stato membro d’origine, dei diritti afferenti a tale status» (sentenza 5 maggio 2011, C-434/09, McCarthy, I-3375, punto 48). Merita a questo proposito di essere ricordata, proprio per le analogie con l’oggetto della vicenda oggetto della sentenza Garcia Avello, cit., anche la sentenza 14 ottobre 2008, C-353/06, Grunkin e Paul, in cui la Corte ha ritenuto che il fatto di essere obbligati dalla legge nazionale a portare nello Stato membro solo del quale si è cittadini (la Germania) un cognome differente da quello già attribuito e registrato nello Stato membro di nascita e di residenza (la Danimarca) è suscettibile di ostacolare l’esercizio del diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, perché può creare al cittadino dell’Unione problemi nel momento in cui esso voglia esercitare tale diritto, ad es., nel paese di nascita. Nello stesso senso v. anche, più di recente, Corte giust. 2 giugno 2016, C-438/14, Bogendorff von Wolffersdorff; e 8 giugno 2017, C-541/15, Freitag.
Questa possibilità è tuttavia subordinata alla circostanza che la situazione rispetto alla quale si voglia far valere quello status sia riconducibile al diritto dell’Unione. Come regola generale, infatti, non rientrano nella competenza di questa le c.d. «situazioni puramente interne», quelle situazioni giuridiche cioè, i cui elementi si collocano tutti all’interno di un solo Stato membro e che riguardano materie o per nulla disciplinate dal diritto dell’Unione o che, benché lo siano, lo sono solo nei loro profili transfrontalieri di circolazione tra gli Stati membri (per la definizione di «situazioni puramente interne» si veda, da ultimo, Corte giust. 6 dicembre 2012, C-356/11 e C-357/11, O. e S., punto 43). A tale regola non fa eccezione, nella giurisprudenza della Corte, la cittadinanza dell’Unione, visto che questa, come è stato precisato, non ha comunque «lo scopo di ampliare la sfera di applicazione ratione materiae del Trattato a situazioni nazionali che non abbiano alcun collegamento con il diritto comunitario» (sentenza Garcia Avello, cit., punto 26). E, in effetti, nella maggior parte dei casi in cui la Corte si è pronunciata a favore della possibilità che un cittadino dell’Unione facesse valere il possesso di questo status nei rapporti con lo Stato di appartenenza, il carattere puramente interno della vicenda in discussione era escluso dalla presenza di un qualche elemento oggettivo di «estraneità» riguardante direttamente quel cittadino – quale il fatto che egli stesse esercitando o avesse esercitato in passato il suo diritto di libera circolazione –, o comunque ad esso collegato. È così che è stato riconosciuto a due cittadini dei Paesi Bassi residenti in un altro Stato membro il diritto all’indennizzo per danni di guerra previsto dalla legge olandese, benché questa lo condizionasse alla residenza nello Stato (Corte giust. 26 ottobre 2006, C-192/05, Tas-Hagen e Tas, I-10451; e per una vicenda simile, ma in tema di assegno di invalidità, sentenza 21 luglio 2011, C503/09, Stewart, I-6497). Analogamente è stata ritenuta in contrasto con lo status di cittadino dell’Unione una legge tedesca che escludeva studenti di quel paese residenti all’estero dal beneficio di un aiuto alla formazione per studi da seguire in un altro Stato membro per mancanza del requisito, imposto dalla legge, di una previa residenza triennale ininterrotta in Germania (Corte
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giust. 18 luglio 2013, C-523/11 e C-585/11, Prinz). Nello stesso senso, la Corte ha censurato la normativa olandese che subordinava il mantenimento della concessione di un finanziamento degli studi superiori compiuti fuori dai Paesi Bassi alla condizione che lo studente abbia risieduto in tale Stato membro per un periodo di almeno tre anni sui sei precedenti la sua iscrizione al corso di studi in questione (Corte giust., 26 febbraio 2015, C-359/13, Martens). Alla medesima conclusione la Corte è arrivata, questa volta nel settore fiscale, rispetto a una normativa finlandese in base alla quale l’imposta sui redditi relativi alla pensione di vecchiaia versata dallo Stato membro a un proprio cittadino residente in un altro Stato membro era più gravosa, in taluni casi, di quella che gli sarebbe stata applicata nell’ipotesi di residenza in Finlandia (sentenza 9 novembre 2006, C-520/04, Turpeinen, I-10685, nonché, per una vicenda analoga, sentenza 29 aprile 2004, C-224/02, Pusa, I-5763). In un settore del tutto diverso, si veda la sentenza 10 luglio 2008, C-33/07, Jipa, I-5157, nella quale la Corte ha censurato la normativa della Romania che consentiva di limitare il diritto di un cittadino rumeno di recarsi nel territorio di un altro Stato membro sulla base unicamente del fatto che lo stesso era stato precedentemente oggetto di un provvedimento di rimpatrio da parte di quello Stato in quanto vi soggiornava irregolarmente. Su questa stessa base la Corte ha giudicato in contrasto con lo status di cittadino dell’Unione una legge tedesca che escludeva studenti di quel paese che avevano risieduto all’estero dal beneficio di un aiuto alla formazione per studi da seguire in un altro Stato membro, per il solo fatto che tali studi non costituivano la prosecuzione di una formazione seguita per un periodo di almeno un anno in Germania (Corte giust. 23 ottobre 2007, C-11/06 e C-12/06, Morgan e Bucher, I-9161; in questo senso v. anche, più di recente, 24 ottobre 2013, C-220/12, Thiele Meneses e C-275/12, Elrick). La Corte ha anche bocciato per il medesimo motivo la differenza di trattamento, prevista dalla legge belga ai fini della concessione dell’indennità di disoccupazione giovanile, tra cittadini belgi che hanno compiuto interamente gli studi secondari in Belgio e cittadini belgi che, avendo fatto in precedenza uso della libertà di circolazione, hanno ottenuto il diploma di maturità in un altro Stato membro (sentenza 11 luglio 2002, C-224/98, D’Hoop, I-6191).
Nella sua giurisprudenza sulla cittadinanza dell’Unione, la Corte è andata però anche più in là nel valutare l’esistenza o meno di un collegamento con il diritto dell’Unione di situazioni apparentemente riferibili a un solo Stato membro. Senza spingersi a identificare l’elemento di estraneità nella cittadinanza dell’Unione in quanto tale e, quindi, nel possesso della stessa da parte dell’interessato, essa ha comunque ritenuto che la posizione di un cittadino dell’Unione il quale non abbia fatto uso del diritto alla libera circolazione non può essere assimilata, per questa sola ragione, a una situazione puramente interna (in questo senso, per tutte, Corte giust. 12 luglio 2005, C-403/03, Schempp, I-6421, punto 25). È questo ad esempio il caso, secondo alcune sentenze, quando il provvedimento dello Stato di origine oggetto di contestazione, pur intervenendo su una situazione apparentemente priva di carattere transfrontaliero, per la mancanza di qualsiasi spostamento dal proprio Stato del cittadino interessato, ha però l’effetto di privarlo del godimento reale ed effettivo del nucleo essenziale dei diritti conferiti dallo status di cittadino dell’Unione. Ciò si prospetta, ha detto la Corte, quando quel provvedimento ha come conseguenza inevitabile la necessità dell’interessato di abbandonare il territorio non solo dello Stato membro di cui è cittadino, ma anche dell’Unione considerata nel suo complesso, pregiudicando così «l’effetto utile della cittadinanza dell’Unione di cui egli gode» (15 novembre 2011, C-256/11, Dereci e a., I-11315, punto 67). La questione è stata affrontata, ad esempio, nella sentenza Dereci e a., appena cit., e in altre tre recenti sentenze della Corte (8 marzo 2011, C-34/09, Ruiz Zambrano, I-1177; 6 dicembre 2012, C-
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356/11 e C-357/11, O. e S.; e 10 ottobre 2013, C-86/12, Alokpa e a.), in tutte e quattro le quali, seppur con alcune differenze non irrilevanti, la fattispecie esaminata riguardava la questione del se cittadini dell’Unione in minore età e vissuti unicamente nello Stato membro di origine, potessero far derivare dal loro status di cittadini dell’Unione un diritto dei genitori, cittadini di paesi terzi, di soggiornare con loro in tale Stato (per il rapporto tra diritto di soggiorno del cittadino dell’Unione e diritto «derivato» dei suoi familiari anche di paesi terzi, si veda il successivo par. 6). La Corte ha ritenuto che la necessità di lasciare il territorio si prospettasse come inevitabile, in realtà, solo nella vicenda oggetto della sentenza Ruiz Zambrano, in ragione del fatto che lì, in caso di diniego del diritto di soggiorno al genitore cittadino di un paese terzo, il minore cittadino dell’Unione non avrebbe avuto altra scelta se non quella di seguire il genitore fuori del territorio dell’Unione, essendo a carico dello stesso e dipendendone quindi totalmente per la propria sussistenza e i propri bisogni. Diversamente, nelle altre tre sentenze, mancando l’elemento della dipendenza finanziaria dal genitore cittadino di un paese terzo del minore cittadino dell’Unione o non ponendosi come unica alternativa l’abbandono dell’Unione da parte di questo, la Corte ha concluso nel senso che spettava al giudice nazionale valutare se sussistevano in concreto altri motivi per pensare che il diniego del soggiorno avrebbe potuto produrre quella conseguenza. Di recente la Corte ha applicato la giurisprudenza Zambrano in una serie di cause importanti: sentenze 30 giugno 2016, C115/15, NA; 13 settembre 2016, C-304/14, CS e C-165/14, Rendón Marín; nonché 10 maggio 2017, C-133/15, Chavez-Vilchez.
4. I contenuti dello status di cittadino dell’Unione e il principio di non discriminazione I Trattati non si limitano a sancire l’esistenza della cittadinanza dell’Unione, ma danno anche conto del contenuto del relativo status. L’art. 20, par. 2, TFUE precisa, infatti, che «[i] cittadini dell’Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti nei Trattati», individuando poi un nucleo essenziale di diritti caratterizzanti in modo specifico tale status: quello di entrare e risiedere in ogni Stato membro (lett. a), esercitandovi se del caso l’elettorato attivo e passivo nelle elezioni comunali ed europee (lett. b); la protezione diplomatica e consolare al di fuori del territorio dell’Unione anche da parte di Stati diversi dal proprio (lett. c); e, infine, il diritto di petizione al Parlamento europeo, quello di denuncia al Mediatore europeo e quello di rivolgersi alle istituzioni e agli organi consultivi dell’Unione in una delle lingue ufficiali dell’Unione e di vedersi rispondere nella stessa lingua (lett. d). Dal canto suo, la Carta dei diritti fondamentali, un cui Titolo (Titolo V, artt. 39-46) è specificatamente dedicato alla cittadinanza dell’Unione, aggiunge a quelli appena menzionati il diritto a una buona amministrazione (art. 41) e il diritto di accedere ai documenti delle istituzioni, organi e organismi dell’Unione (art. 42). In realtà, i diritti elencati nell’art. 20 TFUE (e nella Carta) definiscono solo parzialmente l’effettivo contenuto dello status di cittadino dell’Unione. In primo luogo, essi non concorrono tutti in egual misura a caratterizzare tale status, visto che alcuni di loro non appaiono collegati in via esclusiva al possesso di questo. Non è così, infatti, al di là della loro importanza intrinseca, per il diritto di petizione al Parlamento europeo o per il diritto di accesso al Mediatore europeo o ai documenti delle istituzioni. Essi non risultano esclusivamente riservati ai cittadini dell’Unione: le norme del TFUE che disciplinano l’organizzazione e il funzionamen-
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to dei relativi procedimenti ne riconoscono infatti la titolarità anche ad «ogni persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro» (artt. 227, 228, par. 1, e 15, par. 3, TFUE). E lo stesso è da dirsi per il diritto a una buona amministrazione e per il diritto di rivolgersi alle istituzioni dell’Unione in una lingua ufficiale di questa ricevendone risposta nella stessa lingua, per i quali è questa volta la Carta dei diritti fondamentali a estenderne il beneficio semplicemente a «ogni persona» (art. 41). D’altra parte, come ha precisato la Corte di giustizia, il fatto che lo status di cittadino dell’Unione sia destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri «non comporta necessariamente che i diritti riconosciuti dal Trattato [ai cittadini dell’Unione] siano riservati ai cittadini dell’Unione» (sentenza 12 settembre 2006, C-145/04, Spagna c. Regno Unito, I-7917, punto 74). Essa ha anzi sottolineato che il Trattato riconosce a questi ultimi «diritti che non sono legati allo status di cittadino dell’Unione, e neppure a quello di cittadino di uno Stato membro» (ivi, punto 73). Si veda, nello stesso senso, Corte giust. 12 settembre 2006, C-300/04, Eman e Sevinger, I-8055, punto 43 ss.
In secondo luogo, e soprattutto, elementi certamente fondamentali dello status di cittadino dell’Unione possono rintracciarsi anche al di fuori dell’elenco riportato nell’art. 20, par. 2, TFUE, come lascia del resto intendere questo stesso articolo affermando che i cittadini dell’Unione «hanno, tra l’altro» i diritti da esso elencati (corsivo aggiunto). A parte il già ricordato potere d’iniziativa legislativa dei cittadini dell’Unione (supra, p. 197), uno di questi è certamente il diritto di elettorato attivo e passivo nelle elezioni europee. Per la verità, i Trattati non esplicitano compiutamente in nessuna loro disposizione questo diritto, né lo fa qualche altra disposizione del diritto dell’Unione. La sua titolarità da parte dei cittadini dell’Unione è data tuttavia per implicita proprio dal diritto ad essi riconosciuto, e su cui si ritornerà, di esercitarlo in Stati membri diversi dal proprio, in cui risiedano. Essa è poi non meno chiaramente presupposta, dopo il Trattato di Lisbona, anche da quelle disposizioni dei Trattati che, da un lato, precisano che i cittadini dell’Unione «sono direttamente rappresentati, a livello dell’Unione, nel Parlamento europeo» (art. 10, par. 2, TUE), e, dall’altro, affermano che quest’ultimo «è composto di rappresentanti dei cittadini dell’Unione» (art. 14, par. 2, TUE). D’altra parte, nonostante che i Trattati non lo elenchino tra i diritti del cittadino dell’Unione, non c’è dubbio che il diritto di votare e di essere eletto al Parlamento europeo costituisca una componente fortemente caratterizzante del relativo status. Come emerge chiaramente anche dalle nuove disposizioni di Lisbona appena ricordate, è infatti attraverso l’elezione diretta del (e l’eleggibilità al) Parlamento europeo che si esplica la partecipazione del cittadino dell’Unione alla vita politica di questa, ed è quindi attraverso essa che si realizza in capo al cittadino quella componente essenziale dello status di cittadinanza che è lo jus activae civitatis. Ciò non è contraddetto dal fatto che la Corte di giustizia abbia ammesso nelle due sentenze poc’anzi citate (12 settembre 2006, C-145/04, Spagna c. Regno Unito, e 12 settembre 2006, C300/04, Eman e Sevinger, entrambe cit.), che i diritti di voto e di eleggibilità alle elezioni europee possano essere attribuiti da uno Stato membro anche a soggetti privi della cittadinanza dell’Unio-
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ne o che, viceversa, dal loro godimento possano essere esclusi cittadini dell’Unione. Con la prima di esse la Corte ha in effetti giudicato legittimo, alla luce dei precedenti Trattati, l’atto con cui il Regno Unito ha consentito ai cittadini di Gibilterra di partecipare alle elezioni europee, pur non essendo gli stessi cittadini britannici e quindi cittadini dell’Unione. Nella seconda, per converso, essa ha riconosciuto la possibilità che, quando ricorrano motivazioni ragionevoli e non arbitrarie, uno Stato membro possa limitare l’elettorato europeo di propri cittadini, che, ad esempio, non presentino legami sufficientemente stretti o continui con il paese. Ma come è stato giustamente osservato (conclusioni dell’AG Tizzano nelle due cause, 6 aprile 2006, par. 92 ss.), l’estensione dei diritti elettorali anche categorie o gruppi determinati di stranieri è fenomeno non sconosciuto anche all’interno degli Stati nazionali, senza che questo metta in gioco la natura del rapporto di cittadinanza; così come non lo è la possibilità che siano invece limitati i diritti elettorali di categorie di cittadini sulla base di motivazioni del tipo di quelle sopra ricordate (età, residenza, condizioni di eleggibilità, incompatibilità, ecc.).
Ancor più a ragione va poi ascritto ai contenuti dello status di cittadino dell’Unione, il principio di non discriminazione per ragioni di nazionalità. Esso è del resto da considerare una componente essenziale della cittadinanza europea, dato che, come si è più volte detto, obiettivo principale di questa è di consentire a chi tra i cittadini dell’Unione «si trovi nella medesima situazione di ottenere, indipendentemente dalla cittadinanza e fatte salve le eccezioni espressamente previste a tale riguardo, il medesimo trattamento giuridico» (sentenza Grzelczyk, cit., punto 31). Che il diritto a non essere discriminati per ragioni di nazionalità sia, come l’ha definito l’AG Jacobs, nelle sue conclusioni del 19 marzo 1998, nella causa C-274/96, Bickel e Franz, I-7637, par. 24, «una componente essenziale» della cittadinanza dell’Unione, lo ha espressamente affermato proprio la Corte di giustizia. In questo senso si veda, per tutte, Corte giust. 12 maggio 1998, C85/96, Martínez Sala, I-2691: il Trattato «ricollega allo status di cittadino dell’Unione i doveri e i diritti contemplati dal Trattato, tra cui quello […] di non subire discriminazioni in base alla nazionalità nel campo di applicazione ratione materiae del Trattato» (punto 62).
Peraltro, pur se non menzionato nell’elenco dell’art. 20, par. 2, TFUE, il principio di non discriminazione per ragioni di nazionalità è comunque disciplinato nell’articolo introduttivo della parte dedicata da questo Trattato alla cittadinanza dell’Unione, parte che assume significativamente il titolo di «Non discriminazione e cittadinanza dell’Unione». E, se si vuole, l’accostamento tra i due termini (e le due discipline giuridiche) sottolinea per certi versi ancor di più lo stretto legame esistente tra il principio di non discriminazione e lo status di cittadino dell’Unione. Il diritto dei cittadini dell’Unione a non essere discriminati in ragione della propria cittadinanza nazionale è in effetti sancito, sotto forma di divieto di tali discriminazioni, dall’art. 18 TFUE: «[n]el campo di applicazione dei Trattati, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità»; e il comma 2 dello stesso articolo consente al PE e al Consiglio di adottare regole specifiche di attuazione del divieto. Si tratta di un diritto esclusivo dei cittadini dell’Unione. Infatti, benché l’articolo non lo dica espressamente, il divieto opera unicamente rispetto a soggetti che abbiano la cittadinanza di uno Stato membro. La Corte lo ha specificato in maniera netta: l’art. 18 TFUE «non trova applicazione nel caso di un’eventuale disparità di trattamento tra i cittadini degli Stati membri e quelli degli stati terzi».
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In questo senso la sentenza 4 giugno 2009, C-22/08 e C-23/08, Vatsouras e Koupatantze, I4585, punto 52, in cui, peraltro, l’applicabilità della disposizione in questione alle sole disparità di trattamento tra cittadini degli Stati membri ha giocato a sfavore dei cittadini dell’Unione, nel senso che l’affermazione citata della Corte è valsa a farle concludere che quella disposizione non ostava «ad una normativa nazionale che escluda i cittadini degli Stati membri dalla possibilità di beneficiare delle prestazioni di assistenza sociale che vengono concesse ai cittadini di Stati terzi» (punto 53). Va peraltro osservato che il diritto alla parità di trattamento indipendentemente dalla nazionalità si applica non solo alle persone fisiche, ma anche a quelle giuridiche (infra, p. 498 ss.).
Dopo essere stato così definito dalla giurisprudenza (per tutte Corte giust. 8 ottobre 1980, 810/79, Überschär, 2747, punto 16), il diritto sancito da tale articolo è ribadito, quale principio fondamentale del sistema dell’Unione, dall’art. 21, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali; e, come si evince dalla stessa formulazione dell’art. 18 TFUE, è ulteriormente declinato in specifiche disposizioni di diritto primario e derivato sia sotto forma, una volta di più, di divieto di questo tipo di discriminazione in determinate materie (circolazione dei lavoratori, libertà di stabilimento e di prestazione di servizi, ecc.), che nella sua accezione positiva di parità di trattamento tra i cittadini dell’Unione. Una disposizione specifica di questo genere è contenuta, ad esempio, proprio nella direttiva che, come vedremo tra poco, disciplina in via generale il diritto di circolazione e soggiorno dei cittadini dell’Unione. L’art. 24 di questa sancisce, infatti, il principio del c.d. trattamento nazionale, ponendo in capo agli Stati membri in cui i cittadini dell’Unione risiedano l’obbligo di assicurare loro il medesimo trattamento giuridico accordato ai propri cittadini che si trovino nella medesima situazione. Nel diritto primario, ad es., si vedano rispettivamente, per i settori indicati nel testo, gli artt. 45, par. 2, 49, comma 2, e 57, comma 2, TFUE (infra, p. 479 ss.). Va peraltro osservato che la Corte tende a privilegiare l’applicazione di queste disposizioni specifiche, laddove pertinenti, rispetto al divieto generale posto dall’art. 18 TFUE: v., anche per la giurisprudenza precedente, Corte giust. 21 gennaio 2010, C-311/08, SGI, I-487, punto 31; 4 settembre 2014, C-474/12, Schiebel Aircraft, punto 20; e 18 luglio 2017, C-566/15, Erzberger, punto 25. Non può essere invece ricondotta al diritto dei cittadini dell’Unione di non subire discriminazioni in ragione della nazionalità di origine la previsione dell’art. 9 TUE, secondo la quale l’Unione «rispetta, in tutte le sue attività, il principio dell’uguaglianza dei cittadini, che beneficiano di uguale attenzione da parte delle sue istituzioni, organi e organismi». Questa è semmai una variante, in chiave politica e programmatica, del principio di uguaglianza dinanzi alla legge sancito anche dall’art. 20 Carta dir. fond., principio che non riguarda i soli cittadini dell’Unione e del quale il principio di non discriminazione per ragioni di nazionalità è un’espressione specifica, ma distinta (cfr. sentenza Überschär, cit.). Ugualmente a vantaggio di ogni individuo è poi il divieto di non discriminazione per ragioni diverse dalla nazionalità (sesso, razza e origine etnica, religione e convinzioni personali, disabilità, età e orientamento sessuale) proclamato dall’art. 19 TFUE e dall’art. 21, par. 1, Carta dir. fond.
Tanto nella sua accezione positiva, che in quella negativa, il divieto di discriminazione per ragioni di nazionalità opera, come recita l’art. 18 TFUE, «[n]el campo di applicazione dei Trattati». Ciò non significa che esso sia invocabile unicamente rispetto a situazioni regolate dal diritto dell’Unione o riconducibili ad una delle competenze di questa. Proprio con riferimento alla cittadinanza dell’Unione, infatti, il divieto in questione si estende a tutte quelle normative o prassi nazionali, che, seb-
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bene rientranti in una competenza propria degli Stati, sono suscettibili, come si è visto, di incidere negativamente sull’effettivo godimento dei diritti di cittadinanza, e in particolare su quelli di libera circolazione e soggiorno, perché pongono il cittadino dell’Unione in «una situazione di diritto o di fatto svantaggiosa rispetto a quella in cui si trova, nelle stesse circostanze, il cittadino nazionale» (Corte giust. 13 dicembre 1984, 251/83, Haug-Adrion, 4277, punto 14). Se ne veda un es. nella sentenza 2 febbraio 1989, 186/87, Cowan, 195, punto 17: «[a]llorché il diritto comunitario garantisce la libertà per le persone fisiche di recarsi in un altro Stato membro, la tutela dell’integrità personale in detto Stato membro costituisce, alla stessa stregua dei cittadini e dei soggetti che vi risiedano, il corollario della libertà di circolazione. Ne discende che il principio di non discriminazione va applicato ai destinatari di servizi ai sensi del Trattato quanto alla protezione contro i rischi di aggressione ed il diritto di ottenere una riparazione pecuniaria contemplata dal diritto nazionale allorché un’aggressione si sia verificata».
Com’è ovvio, il divieto di discriminazione per ragioni di nazionalità impone agli Stati membri di non trattare in modo diverso situazioni analoghe. Ciò comporta però, come ha riconosciuto la stessa Corte, che da un diverso trattamento riservato a situazioni non comparabili non consegue automaticamente l’esistenza di una discriminazione, nel senso che a una discriminazione formale apparente può corrispondere, in fatto, l’assenza di una discriminazione sostanziale. Al contrario, una discriminazione sostanziale può derivare non solo dal fatto di trattare in modo diverso situazioni analoghe, ma anche dal trattare in modo identico situazioni diverse (così già Corte giust. 17 luglio 1963, 13/63, Italia c. Commissione, 163, punto 4 a). Fermo restando quanto appena osservato, una differenza nel trattamento assicurato ai cittadini dell’Unione e ai propri cittadini che si trovino nella medesima situazione può essere giustificata solo se fondata su considerazioni oggettive, indipendenti dalla cittadinanza delle persone interessate e proporzionate ad uno scopo legittimamente perseguito (Corte giust. 16 dicembre 2008, C-524/06, Huber, I-9705, punto 75 ss.). Il divieto posto dall’art. 18 TFUE colpisce non solo le disposizioni di uno Stato che fanno espresso riferimento al possesso della cittadinanza nazionale come criterio di applicazione, ma anche quelle che, facendo ricorso ad altri criteri, producono ugualmente, nei fatti, una discriminazione nei confronti dei cittadini dell’Unione. È tale, perché dà luogo a una discriminazione indiretta o dissimulata, una disposizione che, per sua stessa natura, tenda ad incidere più sui cittadini di altri Stati membri che su quelli nazionali e, di conseguenza, rischi di essere sfavorevole in modo particolare ai primi. Ciò è quanto avviene in linea di principio, ad esempio, nel caso di una disposizione che preveda un trattamento differenziato in ragione del domicilio o della residenza. Va da sé, infatti, che tale criterio operi principalmente a danno dei cittadini di altri Stati membri, visto che il più delle volte le persone che non hanno il domicilio nel territorio dello Stato sono proprio i cittadini di altri Stati membri (Corte giust. 13 aprile 2010, C-73/08, Bressol e a., I-2735, punto 45). La ricomprensione sotto il divieto di discriminazione per ragioni di nazionalità delle discriminazioni indirette o dissimulate è una costante della giurisprudenza della Corte di giustizia, come dimostrano due sue sentenze lontane tra loro nel tempo: 12 febbraio 1974, causa 152/73, Sotgiu, 153, punto 11, e 20 gennaio 2011, C-155/09, Commissione c. Grecia, punto 45 s. (quest’ultima an-
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che per altri riferimenti di giurisprudenza). Come essa ha sempre osservato, infatti, una misura per essere indirettamente discriminatoria non deve avere necessariamente l’effetto di avvantaggiare l’insieme dei cittadini nazionali o di sfavorire unicamente i cittadini degli altri Stati membri ad esclusione di quelli nazionali (da ultimo, sentenze 14 giugno 2012, C-542/09, Commissione c. Paesi Bassi, e 28 giugno 2012, C-172/11, Erny). Il criterio del domicilio o della residenza è quello che è stato maggiormente evocato dalla Corte come possibile causa di una discriminazione indiretta o dissimulata. Ma essa si è pronunciata nello stesso senso anche rispetto ad altri criteri, quali il paese d’origine di un’opera ai fini della protezione del diritto d’autore (30 giugno 2005, C-28/04, Tod’s SpA, I-5781, punto 21 ss.), il luogo di rilascio di una licenza per effettuare una determinata attività nel territorio di uno Stato membro (25 gennaio 2011, C-382/08, Neukirchinger, punto 38), il possesso di un diploma rilasciato obbligatoriamente nello Stato territoriale come prova delle conoscenze linguistiche richieste per un determinato impiego (6 giugno 2000, C-281/98, Angonese, I-4139, punto 41 ss.), e così via.
Il divieto di discriminazione per ragioni di nazionalità è provvisto di effetto diretto ed è quindi suscettibile di creare diritti in capo al cittadino dell’Unione direttamente tutelabili dinanzi ai giudici nazionali (Corte giust. 21 giugno 1974, 2/74, Reyners, 631, punto 24 ss.). Peraltro, esso s’impone sia agli Stati membri che all’Unione, nel senso che un atto di quest’ultima che lo violi è viziato d’illegittimità (per un es. Corte giust. 18 maggio 1994, C-309/89, Codornìu c. Consiglio, I-1853). Sul piano nazionale, poi, tale divieto riguarda non soltanto atti e comportamenti delle autorità pubbliche, ma entro certi limiti esso pone un limite anche all’autonomia dei privati. Secondo una giurisprudenza costante, infatti, vanno ritenute incompatibili con quel divieto sia pratiche discriminatorie dovute a un’impresa titolare di diritti esclusivi in una determinata materia (Corte giust. 30 aprile 1974, 155/73, Sacchi, 409, punto 19 s.), che regole e comportamenti posti in essere nell’esercizio della propria autonomia giuridica da associazioni o enti di natura non pubblicistica, quale, ad esempio, una federazione sportiva competente a stabilire le condizioni alle quali gli sportivi professionisti del settore esercitano la loro professione (Corte giust. 12 dicembre 1974, 36/74, Walrave e Koch, 1405, punti 16/19, e 15 dicembre 1995, C415/93, Bosman, I-4921, punto 119). Più generalmente, poi, devono considerarsi ricompresi sotto il divieto di non discriminazione per ragioni di nazionalità i contratti che disciplinano in modo collettivo il lavoro subordinato, come pure i contratti tra privati (Corte giust., sentenza Angonese, cit., punto 34).
5. a) Il diritto di libera circolazione e di soggiorno nel territorio degli Stati membri L’elenco dei diritti del cittadino dell’Unione enunciati dall’art. 20, par. 2, TFUE comincia dal riconoscimento di un diritto generalizzato di circolazione e soggiorno dei cittadini dell’Unione nel territorio degli Stati membri. La scelta non è casuale, perché, come si è visto all’inizio di questo Capitolo, è proprio la libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione che dà, in combinazione con il principio di non discriminazione, il vero senso della cittadinanza dell’Unione e ne contraddistingue la finalità profonda. È infatti la possibilità di spostarsi nel territorio degli altri Stati membri come se si fosse nel territorio nazionale che radica l’idea dell’Unione come
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uno spazio unitario e identitario. Ed è tale possibilità, che sia stata o meno concretamente esercitata, che costituisce, come si è visto, il presupposto dell’esercizio o del godimento di altri diritti di quel cittadino dell’Unione. Va detto che la libera circolazione dei cittadini degli Stati membri fa parte del patrimonio giuridico del processo d’integrazione europea da ben prima dell’istituzione della cittadinanza dell’Unione. «[L]’eliminazione fra gli Stati membri degli ostacoli alla libera circolazione delle persone» era elencata già nel testo iniziale dei Trattati istitutivi come uno degli strumenti per raggiungere i fini della allora CEE (art. 3, lett. c), TCEE). In quel contesto, però, e in linea con la caratterizzazione preponderantemente economico-commerciale del processo d’integrazione europea di quegli anni, essa era strettamente funzionale, insieme con la libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali, alla realizzazione del mercato comune, nel senso che era concepita come una libertà connessa allo svolgimento di un’attività economica. L’affermazione contenuta nel citato art. 3 era infatti declinata nelle singole norme di questo, come diritto dei lavoratori subordinati a recarsi liberamente in qualsiasi Stato membro per rispondervi ad offerte di lavoro e prendervi dimora al fine di svolgervi la propria attività lavorativa (art. 48 TCEE, poi art. 39 TCE) e come analogo diritto dei lavoratori autonomi che volessero esercitare stabilmente (diritto di stabilimento: art. 52 TCEE, poi art. 43 TCE) o temporaneamente (diritto alla libera prestazione dei servizi: art. 59 TCEE, poi art. 49 TCE) la loro attività in un altro Stato membro. Insomma, quello che veniva delineato dall’impostazione originaria del Trattato si presentava più come un regime di mobilità di un fattore di produzione (quello umano), che come una vera e propria libertà di circolazione delle persone. Per la verità, quella esclusiva limitazione a categorie determinate di operatori economici della libertà di circolazione includeva, in nuce, le premesse di un suo potenziale superamento. Nella sua applicazione alla prestazione di servizi, infatti, la libera circolazione comportava il venir meno degli ostacoli alla mobilità non solo del prestatore, ma anche del destinatario e, quindi, del cittadino in quanto tale. In altri termini, come affermato fin dalla prima direttiva in materia, un’effettiva liberalizzazione dei servizi implica che devono poter circolare liberamente nel mercato interno anche i «cittadini degli Stati membri che desiderino recarsi in un altro Stato membro in qualità di destinatari di una prestazione di servizi» (art. 1, par. 1, lett. b), dir. 64/220/CEE del Consiglio, del 25 febbraio 1964, relativa alla soppressione delle restrizioni allo spostamento e al soggiorno dei cittadini degli Stati membri all’interno della Comunità in materia di stabilimento e di prestazione di servizi, GUCE n. 56, 845). Nello stesso senso si vedano oggi i considerando 78 e 95 e l’art. 19 ss. della dir. 2006/123/CE del PE e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno (GUUE L 376, 36), sulla quale v. p. 514 s.
Da lì a un sostanziale ampliamento dei beneficiari del diritto alla libera circolazione, il passo è stato breve. Il primo impulso venne dalla presa d’atto da parte della Corte che l’inclusione dei destinatari di servizi tra i beneficiari della libera circolazione comportava il riconoscimento dei relativi diritti – almeno per il tempo all’uopo necessario – a coloro che effettuavano viaggi di studi o d’affari, ai fruitori di cure mediche in un altro Stato membro e, in definitiva, ai puri e semplici turisti, in quanto appunto «destinatari di servizi» nel paese in cui si recavano (sentenza 31 gennaio
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1984, 286/82 e 26/83, Luisi e Carboni, 377, punto 16, nonché sentenza Cowan, cit.). Anche sull’onda della definizione ampia di mercato interno introdotta nel TCE dall’AUE, il passo ulteriore fu compiuto dal Consiglio con un intervento legislativo volto a dare disciplina certa alla sostanziale generalizzazione della portata soggettiva della libertà di circolazione delle persone che veniva da quella giurisprudenza. Nel giugno 1990 furono adottate sulla base dell’art. 235 TCEE tre direttive che, con discipline sostanzialmente analoghe, ma separate, fissavano le condizioni e le modalità di esercizio del diritto di ingresso e soggiorno in ogni Stato membro rispettivamente dei pensionati, degli studenti e, in via generale, di tutti i «cittadini degli Stati membri che non beneficiano di questo diritto in virtù di altre disposizioni del diritto comunitario». Pur conservando un’applicazione per categorie di beneficiari, il diritto alla libera circolazione e soggiorno veniva così definitivamente sganciato dall’originario legame con l’esercizio di un’attività economica. In effetti, l’AUE del 1986 inserì nel TCE l’art. 14 (l’attuale art. 26 TFUE), al quale si deve la definizione del mercato interno come «spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali». E, come ha avuto modo di precisare la Corte di giustizia, la libera circolazione delle persone «costituisce una delle libertà fondamentali nel mercato interno» (sentenza McCarthy, cit., punto 27). Le tre direttive settoriali adottate nel 1990 furono rispettivamente la dir. 365/90/CEE del Consiglio, del 28 giugno 1990, relativa al diritto di soggiorno dei lavoratori salariati e non salariati che hanno cessato la loro attività professionale (GUCE L 180, 28); la dir. 366/90/CEE del Consiglio, del 28 giugno 1990, relativa al diritto di soggiorno degli studenti (GUCE L 180, 30); e la dir. 364/90/CEE del Consiglio, del 28 giugno 1990, relativa al diritto di soggiorno (GUCE L 180, 26), dal cui art. 1 è ripreso il brano riportato qui sopra. Il ricorso per l’adozione di queste direttive all’art. 235 TCEE, che corrisponde alla c.d. clausola di flessibilità dell’attuale art. 352 TFUE (su cui vedi il par. 2 del Capitolo successivo), era obbligato dall’assenza nei Trattati di allora di una base giuridica generale e diversa da quelle degli articoli dedicati alla libera circolazione dei lavoratori, al diritto di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi, la quale consentisse di fondarvi un intervento legislativo diretto a disciplinare analoghi diritti in capo a categorie diverse di beneficiari.
La previsione formale della libertà di circolazione e soggiorno nel quadro della cittadinanza dell’Unione cambia definitivamente la portata giuridica del relativo diritto. Questo è ormai «riconosciuto direttamente ad ogni cittadino dell’Unione da una disposizione chiara e precisa del Trattato» (Corte giust. 17 settembre 2002, C-413/99, Baumbast e R, I-709, punto 84). Esso è altresì enunciato come un diritto fondamentale di quel cittadino anche dalla Carta dei diritti fondamentali (art. 45, par. 1). L’art. 21, par. 1, TFUE riconosce il diritto del cittadino dell’Unione di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, «fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai Trattati e dalle disposizioni adottate in attuazione degli stessi». In questo modo, l’articolo ha reso automaticamente applicabili a un diritto non più circoscritto a determinate categorie di soggetti, da un lato, le limitazioni previste dai Trattati in relazione a queste ultime e, dall’altro, le condizioni introdotte dai diversi atti di diritto derivato che, come si è visto, sono stati adottati prima della istituzione della cittadinanza dell’Unione rispetto a quelle stesse categorie e a quelle successivamente aggiuntesi.
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Le limitazioni di carattere generale disposte direttamente dai Trattati sono quelle previste dall’art. 45 TFUE in relazione alla circolazione dei lavoratori (nonché dall’art. 52 TFUE per il diritto di stabilimento e dall’art. 62 TFUE per la prestazione di servizi) per motivi di ordine pubblico, sicurezza pubblica e sanità pubblica (su di esse si veda il par. successivo). In sintonia con i principi generali del diritto dell’Unione, queste limitazioni e condizioni vanno interpretate restrittivamente e la loro applicazione è comunque soggetta a sindacato giurisdizionale. Conseguentemente, come ha sottolineato la Corte, esse «non impediscono che le disposizioni [dell’art. 18, par. 1, TCE (l’attuale art. 21 TFUE)] attribuiscano ai singoli diritti soggettivi che essi possono far valere in giudizio e che i giudici nazionali devono tutelare» (sentenza Baumbast, cit., punto 86). In ogni caso, il par. 2 dello stesso art. 21 TFUE consente al Parlamento europeo e al Consiglio di adottare, in procedura legislativa ordinaria, disposizioni dirette a facilitare, anche attraverso un intervento su quelle limitazioni e condizioni, l’esercizio dei diritti di libera circolazione e soggiorno.
6. Segue: La disciplina di applicazione: la direttiva 2004/38 Le limitazioni e le condizioni cui è subordinato il diritto di libera circolazione e soggiorno sono oggi riassunte in un atto di “codificazione” generale, la dir. 2004/38/CE. Questa è in effetti venuta a dettare, in attuazione del par. 2 dell’allora art. 18 TCE (attuale art. 21 TFUE), la disciplina complessiva della materia, in sostituzione dei diversi atti settoriali adottati nel tempo e precedentemente citati. Nel far ciò, essa riprende nella sostanza le limitazioni e le condizioni dettate da quegli atti, ma allo stesso tempo ne specifica in molti casi la portata e le modalità di applicazione, riducendone l’effetto limitativo sulla libertà di circolazione e soggiorno. È quindi a questa direttiva che bisogna oggi fare riferimento per descrivere il contenuto effettivo del diritto riconosciuto in via generale ai cittadini dell’Unione dall’art. 21 TFUE. La dir. 2004/38/CE, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il reg. (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE, è stata adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio il 29 aprile 2004 (GUUE L 158, 77; con rettifica pubblicata in GUUE L 229/2004, 35). Come ha sottolineato la Corte di giustizia (sentenza 7 ottobre 2010, C-162/09, Lassal, punto 30), la dir. 2004/38 «mira ad agevolare l’esercizio del diritto primario e individuale di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri che il Trattato conferisce direttamente ai cittadini dell’Unione e […] il suo oggetto consiste, in particolare, nel rafforzare il citato diritto, di modo che detti cittadini non possono trarre diritti da questa direttiva in misura minore rispetto agli atti di diritto derivato che essa modifica o abroga».
Nel disciplinare questo diritto in capo ai cittadini dell’Unione, la direttiva dà conto anche dei diritti connessi dei loro familiari, che li accompagnino o li raggiungano nello Stato membro ospitante. Questi sono infatti beneficiari, laddove già non godano a titolo personale di quel diritto, di un diritto di libera circolazione e soggiorno analogo, ma derivato da e connesso a quello, principale, del cittadino dell’Unione con cui sussiste il legame familiare. Questa «estensione» soggettiva del diritto riconosciuto al cittadino dell’Unione trova il suo fondamento nella considerazione, più volte sviluppata dalla giurisprudenza della Corte (si vedano,
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ad es., Corte giust. 7 luglio 1992, C-370/90, Singh, I-4265, punto 19 s.; 11 luglio 2002, C-60/00, Carpenter, I-6279, punto 38 ss.; 25 luglio 2002, C-459/99, MRAX, I-6591, punto 53 ss.; 14 aprile 2005, C-157/03, Commissione c. Spagna, I-2911, punto 26 ss.; 31 gennaio 2006, C-503/03, Commissione c. Spagna, I-1097, punto 41; 27 aprile 2006, C-441/02, Commissione c. Germania, I-3449, punto 109; 11 dicembre 2007, C-291/05, Eind, I-10719, punto 35 ss.; e, più di recente, 12 marzo 2014, C-457/12, S. e G., punto 41), che la pienezza di tale diritto sarebbe compromessa se il suo titolare non avesse la possibilità di farsi accompagnare dai suoi familiari nello Stato membro in cui volesse recarsi. Tale considerazione comporta che non abbia rilievo la cittadinanza del o dei familiari e che la stessa nozione di familiare sia andata con il tempo ampliandosi, in funzione dell’evoluzione sociale avutasi al riguardo in molti paesi membri.
Ai sensi della dir. 2004/38, infatti, il diritto di ingresso e di soggiorno riconosciuto ai cittadini dell’Unione si applica ai familiari di questi anche se «non aventi la cittadinanza di uno Stato membro» (art. 5, par. 1, e art. 6, par. 2). E per familiari, devono intendersi non solo il coniuge e i «discendenti diretti di età inferiore a 21 anni o a carico» e gli «ascendenti diretti a carico» del cittadino dell’Unione, ma anche il partner con cui quest’ultimo abbia contratto in uno Stato membro un’unione registrata (e gli analoghi discendenti diretti e ascendenti dello stesso), «qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio e nel rispetto delle condizioni previste dalla pertinente legislazione dello Stato membro ospitante» (art. 2, par. 2). Va peraltro notato che né per il coniuge, né per il partner registrato (o per il partner di fatto di cui successivamente nel testo) viene posta una condizione esplicita di eterosessualità della coppia. Ciò ha fatto sì che alcuni giudici abbiano riconosciuto il diritto di ingresso e soggiorno anche nel caso di coniuge o partner dello stesso sesso del cittadino dell’Unione. Così, ad esempio, la sentenza 16 febbraio 2012 del Tribunale di Reggio Emilia in relazione al matrimonio contratto da un cittadino italiano con un cittadino uruguaiano in Spagna, paese membro il cui ordinamento assimila il matrimonio omosessuale a quello eterosessuale. Cfr. anche la sentenza della Corte di Cassazione italiana (Cass. pen., Sez. I) del 19 gennaio 2011, n. 1328. Vale perciò la pena di segnalare che con un rinvio pregiudiziale ancora pendente (C-673/16, Coman, GUUE C 104/2017, 29) la Corte di giustizia è stata chiamata a pronunciarsi segnatamente sulla questione se il termine «coniuge», all’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/38, letto in combinato disposto con varie disposizioni della Carta dir. fond., comprenda il coniuge dello stesso sesso, proveniente da uno Stato che non è membro dell’Unione europea, di un cittadino dell’Unione europea con il quale il cittadino si è legittimamente sposato in base alla legge di uno Stato membro diverso da quello ospitante.
Inoltre, seppur senza accordare loro un diritto perfetto, la direttiva stabilisce che quest’ultimo Stato debba «agevolare» l’ingresso e il soggiorno del «partner con cui il cittadino abbia una relazione stabile debitamente attestata», e di ogni altro familiare che sia a carico o conviva con lui nel paese di provenienza o sia da lui assistito in ragione di gravi motivi di salute (art. 3, par. 2). A questi soggetti, cioè, lo Stato non è obbligato ad accordare l’ingresso o il soggiorno, ma è tenuto ad effettuare quanto meno «un esame approfondito» della loro situazione personale e a motivare l’eventuale rifiuto (ibidem). Venendo ai contenuti specifici della libertà di circolazione e soggiorno, essa include logicamente non solo il diritto del cittadino dell’Unione di entrare nel territorio di ogni Stato membro, ma anche quello di uscire dal proprio Stato d’origine. La
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Corte lo ha affermato più di una volta, sottolineando appunto come «le libertà fondamentali garantite dal Trattato FUE sarebbero vanificate se lo Stato membro d’origine, senza una valida giustificazione, potesse vietare ai suoi cittadini di lasciare il suo territorio per entrare nel territorio di un altro Stato membro». Così di recente la sentenza 4 ottobre 2012, C-249/11, Byankov, punto 31: qui la Corte ritenne di conseguenza incompatibile con il diritto dell’Unione l’applicazione di una disposizione nazionale bulgara che prevedeva l’imposizione ad un cittadino di uno Stato membro (nel caso di specie un cittadino bulgaro) di una limitazione al diritto alla libera circolazione nell’Unione per il solo fatto che quel cittadino aveva un debito non garantito, superiore ad un determinato importo stabilito dalla legge, nei confronti di una persona giuridica di diritto privato.
Ambedue i diritti («diritto di uscita» e «diritto d’ingresso») sono proclamati dalla dir. 2004/38 in maniera netta e incondizionata. Ogni cittadino dell’Unione, insieme con i suoi eventuali familiari cittadini di un paese terzo, ha il diritto di lasciare il territorio del proprio Stato (art. 4) e quello di entrare nel territorio degli altri Stati membri (art. 5) sulla base unicamente del possesso di una carta d’identità o di un passaporto in corso di validità (del solo passaporto per i familiari di paesi terzi), volti ad attestarne l’identità e lo status di cittadino dell’Unione. Dal canto suo, ai fini dell’esercizio di questi diritti ciascuno Stato membro è tenuto a rilasciare o rinnovare ai propri cittadini una carta d’identità o un passaporto dai quali risulti la loro cittadinanza (art. 4, par. 3). Per il resto, lo Stato d’ingresso può solo prevedere un obbligo dell’interessato di dichiarare la propria presenza entro un tempo ragionevole dalla sua entrata nel territorio. Così l’art. 5, par. 5, che dispone anche che l’eventuale inosservanza di tale obbligo non può essere punita da parte dello Stato che lo abbia inserito nel proprio ordinamento, con sanzioni sproporzionate o discriminatorie. Va comunque detto che per i familiari sprovvisti della cittadinanza dell’Unione rimane l’obbligo del visto d’ingresso, conformemente al reg. (CE) n. 539/2001 del Consiglio, del 15 marzo 2001, che adotta l’elenco dei paesi terzi i cui cittadini devono essere in possesso del visto all’atto dell’attraversamento delle frontiere esterne e l’elenco dei paesi terzi i cui cittadini sono esenti da tale obbligo (GUCE L 81, 1), a meno che non dispongano già, perché provenienti da altro Stato membro, della «carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell’Unione», di cui si dirà più avanti nel testo.
Più complessa è la disciplina del diritto di soggiorno. L’art. 21 TFUE si limita a riconoscerne la titolarità in capo ad ogni cittadino dell’Unione. La dir. 2004/38 delinea invece, riprendendo disposizioni delle direttive precedenti alla cittadinanza dell’Unione, tre diverse situazioni, a seconda della durata e del momento in cui quel soggiorno si inquadra. In pratica, per un periodo massimo di tre mesi dall’ingresso in uno Stato membro, il cittadino dell’Unione (e con lui i familiari che lo accompagnino o lo raggiungano) gode di un diritto di soggiorno non soggetto a condizioni (art. 6, par. 1). Soggiorni più lunghi richiedono invece il possesso di determinati requisiti da parte del titolare principale del diritto di soggiorno (art. 7), requisiti su cui si ritornerà tra poco. Nel caso in cui, infine, il soggiorno a questo titolo del cittadino dell’Unione e dei suoi familiari si prolunghi senza interruzioni per cinque anni, essi possono rimanere sul territorio dello Stato ospitante beneficiando di un c.d. diritto
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di soggiorno permanente, non subordinato al possesso dei requisiti altrimenti imposti per un soggiorno superiore a tre mesi (art. 16). Il par. 3 di questo articolo precisa anche a quali condizioni l’interruzione temporanea del soggiorno non compromette la continuità del periodo quinquennale che dà diritto al soggiorno permanente: assenza dal territorio dello Stato ospitante per servizio militare, assenze temporanee successive non superiori a 6 mesi complessivi l’anno e assenze fino a 12 mesi consecutivi per motivi rilevanti (gravidanza e maternità, studi o formazione professionale, ecc.). Un’efficace descrizione del funzionamento del sistema previsto dalla dir. 2004/38 con particolare riferimento alle tre diverse situazioni sopra indicate, è operata da Corte giust. 21 dicembre 2011, C-424/10 e C-425/10, Ziolkowski e Szeja, punto 38 ss.
La direttiva non obbliga il cittadino dell’Unione, ma consente allo Stato membro ospitante di prevedere lui, in sede di trasposizione della direttiva, l’obbligo del cittadino di «iscriversi» presso le autorità competenti in caso di soggiorno superiore a tre mesi (art. 8). I familiari di paesi terzi di quel cittadino sono invece obbligati direttamente dalla direttiva 2004/38 a richiedere la c.d. «carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell’Unione» (art. 9). Così come è previsto dalla stessa direttiva il rilascio tanto al cittadino dell’Unione, che ai suoi familiari, di una «carta di soggiorno permanente», attestante il possesso del relativo diritto (artt. 19 e 20). Per i soggiorni superiori a tre mesi l’Italia ha optato per l’obbligo d’iscrizione, prevedendo nell’art. 9 del d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, recante attuazione della dir. 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (GURI del 27 marzo 2007, n. 72), che l’iscrizione debba essere fatta presso i comuni secondo quanto previsto per i cittadini italiani dalla legge 24 dicembre 1954, n. 1228, recante Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente (GURI del 12 gennaio 1955, n. 8), e dal Regolamento anagrafico della popolazione residente, approvato con d.p.r. 30 maggio 1989, n. 223 (GURI dell’8 giugno 1989, n. 132).
Come si è detto, nel riconoscere il diritto di soggiorno dei cittadini dell’Unione, l’art. 21 TFUE fa «salve […] le condizioni previste dai Trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi». Ebbene, mentre il soggiorno fino a tre mesi in uno Stato membro è oggetto, come già ricordato, di un diritto incondizionato, non è così per soggiorni superiori a quel limite. In questo caso, e finché non si acquisisca il diritto di soggiorno permanente, la dir. 2004/38 subordina il soggiorno nello Stato al possesso da parte dell’interessato di taluni requisiti soggettivi, che riflettono per certi versi la ripartizione in categorie dei titolari del diritto di soggiorno e le relative condizioni di esercizio su cui si basava il precedente acquis comunitario. Tali requisiti mirano nella sostanza a garantire, come sottolinea il considerando 10 della dir. 2004/38, che la libera circolazione non si traduca in un onere finanziario eccessivo per gli Stati ospitanti, in particolare quando la legislazione di questi prevede che le persone prive di mezzi di sussistenza vengano automaticamente prese a carico dell’assistenza sociale. Godono infatti di tale diritto, ai sensi dell’art. 7 della direttiva, da un lato i cittadini dell’Unione che siano lavoratori subordinati o autonomi che prestano la loro attività nello Stato membro ospitante; dall’altro lato, tutti gli altri cittadini dell’Unione, tra cui gli studenti, che, pur non percependo un reddito da lavoro, dispongano co-
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munque, per se stessi e per gli eventuali familiari a carico, di un’assicurazione malattia e di risorse economiche sufficienti a evitare di divenire un onere per l’assistenza sociale dello Stato membro ospitante. Spetta allo Stato membro, nel caso di questi ultimi, stabilire se le risorse economiche di cui dispone l’interessato siano «sufficienti». La valutazione va fatta in concreto, facendo cioè riferimento alla situazione concreta del soggetto di cui si tratta e tenendo conto del principio di proporzionalità (Corte giust. 7 settembre 2004, C-456/02, Trojani, I-7573, punto 33 ss.). La direttiva esclude infatti che gli Stati possano fissare in via generale un importo minimo, al di sotto del quale le risorse a disposizione dell’interessato debbano considerarsi insufficienti, anche se la stessa direttiva precisa che in ogni caso tale importo non può essere superiore al livello di risorse al di sotto del quale i cittadini dello Stato membro ospitante beneficiano di prestazioni di assistenza sociale o alla pensione sociale minima erogata nello Stato (art. 8, par. 4). Ciò significa che le risorse economiche vanno comunque ritenute sufficienti quando sono maggiori del livello sopra indicato, ma laddove esse siano al di sotto di tale soglia, lo Stato deve approfondire la sua valutazione prendendo in esame tutte le condizioni specifiche dell’interessato, senza limitarsi alla considerazione di singoli elementi predeterminati per legge. V. in questo senso la comunicazione del 2 luglio 2009 della Commissione al PE e al Consiglio, concernente gli orientamenti per un miglior recepimento e una migliore applicazione della dir. 2004/38 relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente sul territorio degli Stati membri (COM(2009) 313 def.). Cfr. anche quanto osservato dalla Corte rispetto a una disposizione analoga a quella della dir. 2004/38: «dal momento che l’estensione dei bisogni può variare molto a seconda degli individui, […] gli Stati membri possono indicare una certa somma come importo di riferimento, ma non nel senso che essi possano imporre un importo di reddito minimo al di sotto del quale qualsiasi ricongiungimento familiare sarebbe respinto, a prescindere da un esame concreto della situazione di ciascun richiedente» (sentenza 4 marzo 2010, C-578/08, Chakroun, I-1839, punto 48). Un es. al riguardo era dato dalla legge italiana, la quale imponeva alle autorità competenti di avere «particolare riguardo», ai fini dell’apprezzamento della sufficienza delle risorse economiche, «alle spese afferenti all’alloggio, sia esso in locazione, in comodato, di proprietà o detenuto in base a un altro diritto soggettivo» (art. 9, comma 3 bis, del d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30). La legge europea per il 2013 (v. infra, p. 937) ha non a caso abrogato, a rimedio di una procedura d’infrazione aperta dalla Commissione nei confronti dell’Italia, la disposizione riportata tra virgolette (art. 1, comma 1, lett. c), n. 1, legge 6 agosto 2013, n. 97, in GURI 20 agosto 2013, n. 194). Di recente, la Corte ha inoltre precisato che, conformemente all’art. 7 della dir. 2004/38, uno Stato membro ha diritto di negare la concessione di prestazioni sociali a cittadini dell’Unione economicamente inattivi che esercitino la libertà di circolazione con l’unico fine di ottenere il beneficio dell’aiuto sociale di un altro Stato membro, pur non disponendo di risorse sufficienti per poter rivendicare il beneficio del diritto di soggiorno. In tali circostanze, per valutare se un cittadino dell’Unione soddisfi il requisito di disporre di risorse sufficienti ai sensi dell’art. 7, par. 1, lett. b), dir. 2004/38, occorre effettuare un esame concreto della situazione economica dell’interessato, senza tener conto delle prestazioni sociali da egli richieste (Corte giust. 11 novembre 2014, C333/13, Dano, punto 78 ss.). Va infine precisato che, a differenza di tutti gli altri soggetti economicamente inattivi e conservando il regime di favore loro assicurato dalla precedente direttiva ad essi specificamente dedicata (la già citata dir. 93/96), per gli studenti è previsto che gli stessi possano dare prova della disponibilità di risorse sufficienti mediante una autocertificazione.
Il diritto di soggiorno cessa con il venir meno delle condizioni che ne consentono l’esercizio e di conseguenza, secondo quanto è stato affermato dalla Corte di giustizia ed è implicitamente confermato dall’art. 14, par. 3, dir. 2004/38, il cittadino dell’Unione può essere allontanato dallo Stato ospitante.
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La Corte ha in effetti precisato che «lo Stato membro ospitante può constatare che un cittadino di un altro Stato membro che si è avvalso dell’assistenza sociale non soddisfa più i requisiti cui è subordinato il suo diritto di soggiorno. In tal caso, lo Stato membro ospitante può adottare, nel rispetto dei limiti imposti dal diritto comunitario, una misura di allontanamento» (sentenza Trojani, cit., punto 45). Tale possibilità sembra sussistere in realtà, sulla base della direttiva, solo rispetto ai cittadini il cui diritto di soggiorno è condizionato al possesso di un’assicurazione malattia e di proprie risorse economiche sufficienti, dato che il par. 4 dell’art. 14 esclude esplicitamente questa eventualità per i cittadini dell’Unione che siano lavoratori subordinati o autonomi. Per essi vale del resto il regime più favorevole derivante, nell’interpretazione della stessa Corte, dall’art. 45 ss. TFUE (v. p. 479 ss.). Va però osservato che anche per gli altri cittadini dell’Unione un provvedimento di allontanamento non può essere comunque adottato per il solo fatto che gli stessi facciano ricorso al sistema di assistenza sociale dello Stato ospitante. Ancora la Corte ha infatti rilevato come ciò debba considerarsi imposto da un principio di «solidarietà finanziaria dei cittadini di tale Stato [ossia, dello Stato ospitante] con quelli degli altri Stati membri, specie quando le difficoltà cui va incontro il beneficiario del diritto di soggiorno sono di carattere temporaneo» (sentenza Grzelczyk, cit., punto 44).
Accanto alle condizioni appena esaminate, l’art. 21 TFUE fa salve anche le «limitazioni» alla libertà di circolazione e soggiorno già previste dal diritto dell’Unione. Esse si identificano con quei motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica che possono giustificare, ai sensi degli artt. 45, 52 e 62 TFUE, l’adozione nei confronti di un cittadino dell’Unione di un provvedimento limitativo della sua libertà di circolazione e soggiorno. Queste limitazioni costituiscono, infatti, lo strumento di salvaguardia degli «interessi fondamentali» delle singole collettività nazionali, e consentono ad ogni Stato membro di negare l’ingresso ad un cittadino dell’Unione o di espellerlo dal suo territorio una volta che vi sia entrato, quando lo stesso rappresenti «una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave» per quegli interessi (Corte giust. 27 ottobre 1977, 30/77, Bouchereau, 1999, punto 35). Per quel che concerne in particolare l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza, si tratta evidentemente di nozioni strettamente nazionali. Dato che le circostanze specifiche che potrebbero giustificare il richiamo a tali nozioni possono variare da un paese all’altro e da un’epoca all’altra, spetta cioè alle competenti autorità nazionali valutare l’esistenza delle ragioni che lo giustificano. Dando luogo però ad una limitazione di una libertà fondamentale prevista dal Trattato, il potere discrezionale degli Stati in materia è soggetto ai limiti derivanti dai principi e dal diritto dell’Unione e, conseguentemente, al controllo della Corte. In questo senso, per i motivi di ordine pubblico e di pubblica sicurezza, cfr. Corte giust. 4 dicembre 1974, 41/74, Van Duyn, 1337, punto 18; e, da ultimo, 10 luglio 2008, C-33/07, Jipa, punto 23. Si vedano inoltre, in particolare per il contenuto delle due nozioni, le conclusioni dell’AG Bot, dell’8 giugno 2010, nella causa C-145/09, Tsakouridis, I-11979, par. 60 ss., e del 6 marzo 2012, nella causa C-348/09, I., par. 28; e, più di recente, sentenza CS, cit., punto 36 ss. Rispetto ai motivi di sanità pubblica, invece, l’art. 29 della dir. 2004/38 prevede che misure restrittive della libera circolazione possano essere giustificate solo da malattie potenzialmente epidemiche, quali definite dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), «nonché [da] altre malattie infettive o parassitarie contagiose, sempreché esse siano oggetto di disposizioni di protezione che si applichino ai cittadini degli Stati membri». In ogni caso, il limite della sanità pubblica può essere invocato solo al fine di limitare l’ingresso o di impedire che il soggiorno venga prolungato oltre i primi 3 mesi; passati questi, però, l’interessato non potrà più essere allontanato.
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Nella sua azione di controllo la Corte ha precisato vari profili della materia, delimitando il potere delle autorità nazionali al riguardo. Sulla base del principio generale secondo cui, in quanto deroghe al Trattato, i limiti dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica vanno interpretati restrittivamente (così, per tutte, Corte giust. 26 febbraio 1975, 67/74, Bonsignore, 297, punto 6), la giurisprudenza ha precisato che quei limiti possono essere invocati dallo Stato solo in relazione al comportamento personale dell’interessato e alla sua effettiva pericolosità, nel momento in cui se ne limita la libertà di circolazione, per l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica dello Stato che se ne avvale. Ciò significa non solo che, come può sembrare ovvio, «le misure restrittive non possono basarsi esclusivamente su considerazioni di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica avanzate da un altro Stato membro» (sentenza Jipa, cit., punto 25); ma anche che, ad esempio, l’espulsione (o il diniego d’ingresso) di un cittadino dell’Unione non può essere decisa sulla base di considerazioni di prevenzione generale (Corte giust. 18 maggio 1989, 249/86, Commissione c. Germania, 1263, punto 18); e che essa non può essere una conseguenza automatica di una condanna penale, soprattutto quando l’esecuzione materiale del provvedimento di espulsione è destinata ad avere luogo al termine dell’esecuzione della pena e quindi parecchio tempo dopo la sentenza di condanna: in questo caso lo Stato deve verificare il perdurare o meno a carico dell’interessato, al momento di eseguire il provvedimento, delle ragioni che avevano motivato l’adozione dello stesso in sede di emanazione della sentenza. In questo senso, Corte giust. 29 aprile 2004, C-482/01 e C-493/01, Orfanopoulos e Oliveri, I5257, punto 77 ss. Più in generale, rispetto all’ipotesi dell’espulsione come conseguenza di una condanna penale, si veda quanto osservato nella sentenza Bouchereau, cit.: «gli organi nazionali sono tenuti ad effettuare una valutazione specifica, sotto il profilo degli interessi inerenti alla tutela dell’ordine pubblico, valutazione che non coincide necessariamente con quelle che hanno portato alla condanna penale»; per cui «l’esistenza di condanne penali può essere presa in considerazione solo in quanto le circostanze che hanno portato a tali condanne provino un comportamento personale costituente una minaccia attuale per l’ordine pubblico» (punti 27 e 28). In una sentenza recente (13 luglio 2017, C-193/16, E) la Corte ha comunque precisato che «il fatto che una persona si trovi in stato di detenzione al momento dell’adozione della decisione di allontanamento, senza prospettive di liberazione in un prossimo futuro, non esclude che il suo comportamento rappresenti, eventualmente, per un interesse fondamentale della società dello Stato membro ospitante, una minaccia dal carattere reale ed attuale» che giustifica l’adozione nei suoi confronti di un provvedimento di espulsione per motivi di ordine pubblico (punto 27).
La Corte di giustizia ha inoltre affermato che un provvedimento restrittivo del diritto alla libera circolazione «può essere giustificato solo se rispetta il principio di proporzionalità», nel senso che lo stesso deve essere idoneo a garantire la realizzazione dello scopo perseguito e non deve eccedere quanto necessario per raggiungerlo (Corte giust. 26 novembre 2002, C-100/01, Oteiza Olazabal, 10981, punto 43); e non può essere motivato da «un comportamento, che ove sia posto in essere dai suoi propri cittadini, non dà luogo a misure repressive o ad altri provvedimenti concreti ed effettivi volti a combatterlo» (Corte giust. 18 maggio 1982, 115/81 e 116/81, Adoui e Cornuaille, 1665, punto 9). La dir. 2004/38 da un lato riprende puntualmente i punti principali di questa giurisprudenza, aggiungendovi la condizione generale che i motivi di ordine pubbli-
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co, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica non possono «essere invocati per fini economici» (art. 27, par. 1); dall’altro lato, rafforza su altri aspetti la protezione dei cittadini dell’Unione da provvedimenti limitativi del diritto di libera circolazione e soggiorno giustificati sulla base dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza. In particolare, la direttiva non solo chiede agli Stati membri di tener conto di una serie di considerazioni soggettive prima di adottare un provvedimento di espulsione (art. 28, par. 1), ma, innovando rispetto all’acquis precedente, esclude la possibilità di adottare un provvedimento di espulsione nei confronti di un cittadino (e dei suoi familiari) che abbia acquisito il diritto di soggiorno permanente, se non quando i motivi di ordine pubblico e di sicurezza pubblica invocati siano «gravi» (art. 28, par. 2). Inoltre, quei motivi devono essere addirittura «motivi imperativi di pubblica sicurezza» (art. 28, par. 3), quando il cittadino dell’Unione risieda nello Stato da 10 anni (lett. a), o quando lo stesso sia un minore (lett. b). Come è stato osservato, la direttiva «istituisce un sistema di protezione contro le misure di allontanamento fondato sul grado d’integrazione della persona interessata nello Stato membro ospitante, di modo che quanto più forte è l’integrazione dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari nello Stato membro ospitante, tanto più elevata dovrebbe essere la loro protezione contro l’allontanamento» (Corte giust. 23 novembre 2010, C-145/09, Tsakouridis, I-11979, punto 25). E oltre alle condizioni temporali sopra indicate, essa stabilisce, in termini generali, che, prima di adottare un provvedimento di allontanamento dal territorio per motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza, lo Stato membro ospitante debba tener conto di elementi quali la durata del soggiorno dell’interessato nel suo territorio, la sua età, il suo stato di salute, la sua situazione familiare ed economica, la sua integrazione sociale e culturale nello Stato membro ospitante e l’importanza dei suoi legami con il paese d’origine (art. 28, par. 1).
È infine previsto, in piena linea in questo caso con la precedente giurisprudenza (per tutte sentenza Royer, cit., punto 62), il diritto di chi sia fatto oggetto di un provvedimento limitativo della sua libertà di circolazione e soggiorno di accedere ai rimedi giurisdizionali o amministrativi dello Stato ospitante, anche di natura cautelare (art. 31).
7. b) Il diritto di esercitare l’elettorato attivo e passivo alle elezioni comunali e alle elezioni europee in uno Stato membro diverso da quello di appartenenza Al contrario della libertà di circolazione e soggiorno, l’elettorato attivo e passivo del cittadino dell’Unione nello Stato membro di residenza è stato introdotto nei Trattati, dove è ora disciplinato dall’art. 22 TFUE, contestualmente all’istituzione della cittadinanza europea. Anch’esso, però, può dirsi che concorra ad un più agevole esercizio di quella libertà, di cui è, per certi versi, sicuramente «un corollario» (ordinanza 26 marzo 2009, C-535/08, Pignataro, pubblicazione sommaria, punto 17): l’impossibilità di avvalersi dei propri diritti elettorali fuori del paese d’origine può ben essere interpretata, infatti, come una limitazione del concetto stesso di libera circolazione.
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Non c’è dubbio, tuttavia, che nella sua duplice versione all’interno dell’art. 22 TFUE [elettorato attivo e passivo alle elezioni comunali (par. 1) ed elettorato attivo e passivo alle elezioni europee (par. 2)], la sua inclusione tra i diritti di cittadinanza persegue due ulteriori, diversi obiettivi. Mentre la partecipazione alle elezioni comunali, e quindi alla vicenda politica locale, è chiaramente finalizzata ad una maggiore integrazione dell’individuo nella collettività di residenza quale complemento della libertà di circolazione, la possibilità di votare e di essere eletto alle elezioni europee nel paese di residenza investe direttamente il rapporto «politico» del cittadino con l’Unione; il suo stesso significato ne viene peraltro influenzato nel senso di una tendenziale denazionalizzazione della rappresentanza politica al Parlamento europeo. Si veda in proposito retro, p. 90 s. Va anche osservato che prima ancora che fosse previsto dal Trattato, l’Italia aveva già autonomamente esteso ai cittadini degli altri Stati membri l’eleggibilità al PE. La legge 18 gennaio 1989, n. 9 (GURI 23 gennaio 1989, n. 18) li dichiara infatti eleggibili, ponendo peraltro come condizione il solo possesso dei requisiti eleggibilità previsti dall’ordinamento di appartenenza, e non anche la residenza in Italia.
L’elettorato attivo e passivo nello Stato di residenza è riconosciuto al cittadino dell’Unione «alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato». Ciononostante, esso non è costruito dall’art. 22 TFUE come diritto di immediata applicazione. È infatti stabilito, per ambedue gli ambiti elettorali, che «tale diritto sarà esercitato con riserva delle modalità che il Consiglio adotta, deliberando all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo; tali modalità possono comportare disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno Stato membro lo giustifichino». D’altra parte, l’effettivo esercizio di diritti elettorali in un quadro transfrontaliero richiede inevitabilmente la previa definizione di alcuni aspetti essenziali dello stesso, tra i quali, non ultime, le eventuali deroghe giustificate da un’elevata presenza di cittadini dell’Unione non nazionali in alcuni o in alcune parti di taluni Stati membri. Il Consiglio ha provveduto a dare attuazione all’art. 22 con la dir. 93/109/CE per le elezioni europee (dir. 6 dicembre 1993, GUCE L 329, 34, recentemente modificata dalla dir. 2013/1/UE, del 20 dicembre 2012, GUUE L 26, 27), e con la dir. 94/80/CE per le elezioni comunali (dir. 19 dicembre 1994, GUCE L 368, 38). Vediamone separatamente le rispettive discipline. a) Per quel che concerne le elezioni comunali, la seconda delle direttive sopra citate provvede innanzitutto a precisare, a fronte della varietà dei sistemi di governo locale dei diversi Stati membri, l’esatta portata della nozione di «elezioni comunali». L’art. 2 della dir. 94/80 si limita a definirle come «le elezioni a suffragio universale diretto volte a designare i membri dell’organo rappresentativo e, se del caso, a norma della legislazione di ciascuno Stato membro, il capo e i membri dell’organo esecutivo dell’ente locale di base». L’esatta individuazione di quest’ultimo in ciascuno Stato membro è invece rinviata a un allegato alla stessa direttiva, in cui sono elencati gli «enti locali di base» di tutti gli Stati membri, alla luce delle indicazioni dagli stessi prodotte. Per l’Italia si tratta dei comuni e delle circoscrizioni. Secondo quanto previsto dall’art. 22 TFUE, l’elettorato attivo e passivo dei citta-
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dini dell’Unione è ovviamente disciplinato dalla direttiva all’insegna dell’equiparazione ai cittadini dello Stato membro di residenza per quanto riguarda le condizioni di esercizio. I requisiti di voto e di eleggibilità (età, cause di ineleggibilità, incompatibilità, ecc.) sono le stesse previste per i nazionali. E la previsione di periodi minimi di residenza nell’ente locale interessato, quale condizione per l’esercizio del diritto, è permessa solo se gli stessi sono di applicazione anche ai propri cittadini. Come consentito però dallo stesso art. 22, il principio di equiparazione subisce nella direttiva alcune deroghe, a partire proprio dal criterio di una durata minima di residenza per l’esercizio dei diritti elettorali in un determinato comune. È infatti previsto che un criterio di questo genere possa essere imposto ai soli cittadini degli altri Stati membri in quei comuni dove la percentuale di quelli residenti superi il 20% del totale degli elettori (art. 12). In sintonia poi con la riserva generale a favore dei cittadini nazionali prevista dai Trattati per le attività che comportano esercizio di potestà pubbliche (art. 45, par. 4, TFUE), è consentito agli Stati membri di escludere l’eleggibilità dei cittadini dell’Unione a determinati incarichi di governo degli enti locali (art. 5, par. 3), a partire, come ha fatto l’Italia, da quello di sindaco. Della deroga “demografica”, giustificata dallo stesso Trattato per le ragioni precedentemente esposte nel testo, si è avvalso il solo Lussemburgo, prevedendo un periodo minimo di 5 anni di residenza per l’esercizio del diritto di elettorato attivo e passivo. A questa deroga generale la stessa direttiva aggiunge però una deroga specifica per il Belgio (il par. 2 dello stesso art. 12 gli consente di applicare la deroga generale anche a comuni sotto la soglia del 20%), il cui sistema istituzionale, come ricorda il penultimo considerando del preambolo della dir. 94/80, è fondato su caratteristiche ed equilibri assai delicati tra le tre componenti etnico-linguistiche che compongono il paese (fiamminghi, valloni e minoranza tedesca). Per il divieto dei cittadini dell’Unione di accedere in Italia alla carica di sindaco, si veda, implicitamente, l’art. 1, comma 5, del d.lgs. 12 aprile 1996, n. 197 di trasposizione nel nostro Paese della dir. 94/80 (GURI 15 aprile 1996, n. 88). La disposizione esclude invece espressamente la possibilità della nomina a vice sindaco.
Va infine osservato che il diritto di voto attivo e passivo alle elezioni comunali del comune di residenza non fa venire meno, secondo quanto ricordato nello stesso preambolo della dir. 94/80, l’elettorato nel comune d’origine del cittadino dell’Unione, laddove, ovviamente, la legislazione dello Stato membro di cittadinanza lo consenta indipendentemente dalla residenza. b) Non è evidentemente così, invece, per il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni europee, dato che, per ragioni del tutto ovvie, già nell’Atto che ha disciplinato l’elezione diretta del Parlamento europeo è stato stabilito che «ciascun elettore può votare una sola volta». La già citata dir. 93/109, che ha fissato le modalità di esercizio dell’elettorato attivo e passivo dei cittadini dell’Unione nello Stato membro di residenza in attuazione dell’art. 22, par. 2, TFUE, si limita perciò a ribadire il divieto di voto in più di un paese, lasciando all’interessato la scelta dello Stato, tra quello di residenza e quello d’origine, in cui esercitarlo (art. 4, par. 1). Così come essa esplicita in termini formali l’identico principio per l’elettorato passivo: «nessuno può presentarsi come candidato in più di uno Stato membro nel corso delle stesse elezioni» (art. 4, par. 2). Ed è appena il caso di osservare, che la scelta sul luogo di esercizio di
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tali diritti porta con sé anche la scelta su quale tra le quote nazionali di rappresentanti al Parlamento europeo, quella dello Stato di residenza o quella dello Stato d’origine, la partecipazione del cittadino dell’Unione alle elezioni europee andrà a incidere. Per il resto la disciplina di questo diritto del cittadino europeo ricalca in gran parte quella contenuta nella dir. 94/80 per le elezioni comunali. Da un lato, cioè, si conferma anche qui la piena equiparazione dei cittadini europei ai cittadini nazionali per quel che riguarda le condizioni e i requisiti di voto e di eleggibilità. Dall’altro lato, se ne fissano alcune possibili deroghe volte a tener conto di problemi specifici che possono avere taluni Stati membri, riprendendone la sostanza da quelle previste dall’altra direttiva: anche qui è possibile per lo Stato membro in cui sia presente una percentuale superiore al 20% di cittadini dell’Unione residenti, condizionare l’esercizio da parte loro dei diritti elettorali a un periodo minimo di residenza di non più di cinque anni per l’elettorato attivo, e di non più di dieci per quello passivo (art. 14, par. 1).
8. c) Il diritto alla protezione diplomatica e consolare nei paesi terzi È soprattutto in rapporto all’ordinamento giuridico internazionale che va invece visto l’ulteriore elemento della cittadinanza dell’Unione, consistente nella previsione che ciascun cittadino di questa «gode, nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui ha la cittadinanza non è rappresentato, della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato» (art. 23, comma 1, TFUE). Non prevedendo un’azione collettiva degli Stati membri, né un intervento dell’Unione, la norma delinea un meccanismo di assistenza diplomatica e consolare «reciproca», più che «comune». Esso è destinato solo a permettere che le autorità diplomatiche e consolari di ciascuno Stato membro possano assicurare le loro tradizionali attività di assistenza e protezione in territorio straniero anche ai cittadini degli altri Stati membri. I Trattati, in effetti, mantengono l’intervento al riguardo dell’Unione nell’ambito di una mera cooperazione con le missioni diplomatiche e consolari degli Stati membri. Secondo l’art. 35, comma 3, TUE, infatti, e le delegazioni dell’Unione nei paesi terzi «contribuiscono all’attuazione del diritto di tutela dei cittadini dell’Unione nel territorio dei paesi terzi».
Si tratta di un’ipotesi già conosciuta al diritto internazionale, e che è anche disciplinata dalle Convenzioni di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 18 aprile 1961 e sulle relazioni consolari del 24 aprile 1963, secondo le quali «con il consenso dello Stato accreditatario, e su richiesta di un altro Stato terzo non rappresentato in questo Stato, lo Stato accreditante può assumere la protezione temporanea degli interessi dello Stato terzo e dei suoi cittadini» (così i rispettivi artt. 46 e 8). La norma trova peraltro già riflesso anche nell’ordinamento interno di molti Stati. In Italia, ad esempio, è esplicitamente previsto dall’art. 56 del d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18, contenente l’«Or-
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dinamento dell’Amministrazione degli affari esteri» (lo si veda, con le successive modifiche e integrazioni sul sito http://www.esteri.it/mae/normative/DPR_18_e_modifiche.pdf), che le missioni diplomatiche e gli uffici consolari italiani possano prestare, «su istruzioni del Ministero [degli affari esteri] o d’iniziativa nei casi di urgenza e necessità, assistenza, nei limiti delle norme internazionali e degli usi locali, a persone che non abbiano la cittadinanza italiana e non godano sul posto di altra protezione diplomatica o consolare». Più in generale, poi, l’art. 27 del d.lgs. 3 febbraio 2011, n. 71, recante ordinamento e funzioni degli uffici consolari (GURI 13 maggio 2011, n. 110, stabilisce che «l’ufficio consolare presta assistenza ai cittadini dell’Unione europea ed ai non cittadini, ai sensi delle vigenti disposizioni».
Ciò che cambia con l’art. 23 TFUE è che il meccanismo di rappresentanza previsto dalle Convenzioni di Vienna assume, in riferimento ai cittadini dell’Unione, carattere di permanenza e automaticità e si trasforma da prerogativa dello Stato, quale si presenta nel diritto internazionale, in un diritto di quei cittadini nei confronti degli Stati membri. Esso va assicurato ai cittadini di altri paesi membri, secondo il detto articolo, alle stesse condizioni con cui lo è ai propri cittadini. Ma pur entro questi limiti, gli stessi Trattati lo configurano come un diritto: in questi termini ne parla formalmente l’art. 20, par. 2, lett. c), TFUE; e come diritto, come si è visto poc’anzi, lo qualifica esplicitamente anche l’art. 35 TUE («diritto di tutela»). L’art. 23 prevede che «gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie e avviano i negoziati internazionali richiesti» per garantire la tutela di cui sopra ai cittadini dell’Unione (comma 1). Esso fornisce inoltre, dopo il Trattato di Lisbona, la base giuridica per l’adozione da parte del Consiglio, secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo, di direttive volte a stabilire misure di coordinamento e cooperazione necessarie per facilitare tale tutela (comma 2). Indipendentemente dalle disposizioni interne già vigenti, come abbiamo visto essere per l’Italia, già da prima del Trattato di Lisbona gli Stati membri hanno in realtà provveduto a concordare tra di loro, in applicazione della prima di queste disposizioni (già contenuta nell’art. 20 TCE), un nucleo essenziale di regole comuni, che definiscono le situazioni in cui l’assistenza va prestata e le modalità con cui la stessa va assicurata. La relativa disciplina sarà però sostituita, a partire dal 1° maggio 2018, da una direttiva del Consiglio presa in applicazione della seconda delle disposizioni citate dell’art. 23. Si tratta della dir. (UE) 2015/637 del Consiglio, del 20 aprile 2015 (GUUE L 106, 1) che stabilisce talune misure di coordinamento e cooperazione dirette a facilitare la tutela consolare in paesi terzi il cui il proprio Stato membro non sia rappresentato. Come si è detto, alla data di scadenza per il suo recepimento (1° maggio 2018) essa prenderà il posto della dec. 95/553/CE dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, riuniti in sede di Consiglio, del 19 dicembre 1995, riguardante la tutela dei cittadini dell’Unione europea da parte delle rappresentanze diplomatiche e consolari (GUCE L 314, 73), che disciplina quindi ancora oggi la materia. La decisione del 1995 dispone in particolare che la tutela consolare da assicurare ai cittadini dell’Unione non rappresentati in un paese terzo (in ragione dell’assenza di qualsiasi rappresentanza diplomatica o consolare dello Stato membro di cittadinanza o di un altro Stato membro che lo rappresenti permanentemente) comprende l’assistenza in caso di arresto, di incidente o malattia, di atti di violenza, e di decesso, nonché in ogni altro caso in cui il cittadino dell’Unione la richieda (difficoltà economiche, necessità urgente di rimpatrio, ecc.). Sono inoltre regolati gli aspetti relativi all’onere economico che può derivare da questi obblighi di assistenza. Dal canto suo la nuova
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direttiva riprende buona parte di tale disciplina, sviluppandola però per alcuni aspetti. Da un lato, ad esempio, la tutela consolare viene estesa anche ai familiari del cittadino dell’Unione che abbiano la nazionalità di un paese terzo (art. 5) e anche ai casi in cui la rappresentanza diplomatica o consolare dello Stato di cittadinanza, pur presente nel paese terzo, non sia in grado di fornire efficacemente tale tutela nel caso specifico (art. 6). Dall’altro lato, si dà parzialmente corpo al sistema già avviato da alcune linee direttrici approvate in passato dal Consiglio (da ultimo quelle del 12 dicembre 2008, 2008/C 317/06, GU C 317, 6) relativamente all’attuazione del concetto di Stato guida in materia consolare, prevedendo che la cooperazione in loco tra le rappresentanza diplomatiche o consolari degli Stati membri possa essere posta sotto la presidenza di «un rappresentante di uno Stato membro in stretta cooperazione con la delegazione dell’Unione» (art. 12). Viene inoltre ripreso (art. 9, lett. f) il diritto del cittadino dell’Unione ad essere assistito qualora necessiti di documenti di viaggio provvisori, documenti previsti dalla dec. 96/409/PESC dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, riuniti in sede di Consiglio, del 25 giugno 1996, relativa all’istituzione di un documento di viaggio provvisorio (GUCE L 168, 4).
Quanto invece ai negoziati con paesi terzi, cui fa ugualmente riferimento il comma 1 dell’art. 23 TFUE, essi sono una precondizione per l’effettivo esercizio di questa tutela reciproca dei cittadini dell’Unione, dato che è principio generale del diritto internazionale, codificato, come si è visto, dalle Convenzioni di Vienna sulle relazioni diplomatiche e consolari, che la protezione consolare del cittadino di uno Stato da parte di un altro Stato è possibile solo con il consenso dello Stato accreditatario. E, in effetti, dopo l’introduzione nei Trattati di questo diritto dei cittadini dell’Unione molti Stati membri hanno integrato negli accordi consolari conclusi con paesi terzi disposizioni al riguardo. Mentre dal canto suo, con un Libro verde del 2006 sulla protezione diplomatica e consolare dei cittadini dell’Unione nei paesi terzi (COM(2006) 712, par. 5), la Commissione ha auspicato l’inserimento di una analoga clausola standard di consenso a tale protezione “europea” negli accordi misti dell’Unione, quegli accordi, cioè, che sono conclusi congiuntamente da questa e dagli Stati membri con uno o più paesi terzi (infra, p. 832 ss.). L’Italia, ad esempio, inserisce per prassi nelle sue convenzioni consolari bilaterali con paesi terzi una clausola del genere, a detta della quale «i funzionari della repubblica italiana esercitano funzioni consolari a favore dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea che non abbiano uffici consolari nella circoscrizione di competenza di questi funzionari» (si veda, da ultimo, l’art. 62.2 della Convenzione consolare tra la Repubblica italiana e l’Ucraina, fatta a Kiev il 23 dicembre 2003, ratificata con legge 15 dicembre 2005, n. 277, GURI 4 gennaio 2006, n. 3). Non risulta, invece, che la raccomandazione del 2006 della Commissione abbia già avuto seguito a livello di accordi dell’Unione con paesi terzi.
9. d) Gli altri diritti del cittadino dell’Unione L’elenco dei diritti del cittadino dell’Unione riportato nell’art. 20, par. 2, TFUE è completato da alcuni diritti che presentano la comune caratteristica, da un lato, di operare, a differenza di quelli finora esaminati, nei confronti della stessa Unione e non degli Stati membri, e dall’altro lato di essere, ancora una volta a differenza degli altri, non esclusivi del cittadino dell’Unione, ma condivisi con qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro.
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Oltre ad essere menzionati in quell’elenco, anche questi diritti sono ribaditi in un articolo apposito della Parte del TFUE specificamente dedicata alla cittadinanza dell’Unione, l’art. 24 TFUE, il quale però non aggiunge praticamente nulla a quanto già detto dall’art. 20 TFUE, visto che, in realtà, la disciplina di dettaglio di tali diritti è dettata o va ricavata da altri articoli dello stesso TFUE. Tanto il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo, che quello di rivolgersi al Mediatore europeo, per i quali i commi 2 e 3 dell’art. 24 TFUE si limitano, in effetti, ad operare un rinvio rispettivamente agli artt. 227 e 228 del TFUE, rappresentano degli strumenti di tutela non giudiziaria del cittadino dell’Unione. Come si è già visto (p. 226 s.), infatti, attraverso il diritto di petizione il cittadino può sottoporre al Parlamento europeo, affinché questo si pronunci, una questione che rientri nel campo di attività dell’Unione e che lo concerna direttamente. Al Mediatore, invece, il cittadino dell’Unione può rivolgersi per denunciare casi di cattiva amministrazione nell’azione delle istituzioni, degli organi o degli organismi dell’Unione (con l’esclusione della Corte di giustizia nell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali), su cui il Mediatore potrà pertanto avviare un’indagine. Come ha osservato il Tribunale dell’Unione, il Mediatore ha non solo il compito di ricercare, per quanto possibile, una soluzione conforme allo specifico interesse del cittadino di cui trattasi, ma anche di cercare di eliminare i casi di cattiva amministrazione nell’interesse generale (Trib. 10 aprile 2002, T-209/00, Lamberts c. Mediatore europeo, II-2203, punto 77). Questa osservazione è ancor più valida nel caso delle petizioni: nonostante l’impulso individuale che le origina, esse sono per lo più l’occasione per interventi di carattere più generale da parte del Parlamento europeo o delle istituzioni o degli organi da questo interessati. In questa loro finalizzazione non solo alla difesa dell’individuo, ma anche ad un miglior funzionamento dell’Unione, va probabilmente vista la ragione della previsione di questi due meccanismi come elementi caratterizzanti dello status di cittadino europeo, nonostante il diritto di accesso ad essi non dipenda esclusivamente dal possesso di quello status: ne viene indirettamente sottolineato, infatti, il ruolo del cittadino come protagonista della costruzione europea. Diversa funzione sembra invece da attribuire all’ulteriore diritto attribuito ai cittadini europei dagli artt. 20 e 24 TFUE: quello di scrivere alle istituzioni e agli organi consultivi dell’Unione e al Mediatore in una delle lingue ufficiali di cui all’art. 55 TUE, ricevendone la risposta nella stessa lingua. Certamente questa previsione è tesa a favorire un senso di «prossimità» delle istituzioni al cittadino. D’altra parte, va anche ricordato che il diritto all’uso della propria lingua nei rapporti con le istituzioni e soprattutto l’obbligo di queste di rispondere nella stessa lingua sono stati sanciti fin dalle origini dall’art. 2 del già richiamato reg. (CEE) n. 1/58, che stabilisce il regime linguistico delle Comunità europee (ed ora dell’Unione). È quindi difficile non pensare che il suo inserimento nei Trattati rappresenti anche la volontà degli Stati membri (o di una parte almeno di essi) di «blindare» politicamente il multilinguismo dell’Unione a livello almeno dei cittadini, in un periodo in cui la prassi delle istituzioni tende sempre di più, come si è visto (p. 122 s.), a derogare al principio della parità delle lingue. Per il resto vi è solo da osservare che il diritto in questione è in realtà parte del più generale «diritto a una buona amministrazione» che la Carta dei diritti fonda-
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mentali inserisce tra i diritti di cittadinanza, includendovi appunto anche il diritto al «rispetto» della pluralità delle lingue ufficiali nei rapporti con le istituzioni (art. 41). In quanto tale esso non può certamente considerarsi limitato ai soli cittadini; così come si dovrebbe ritenere che esso operi nei confronti di tutta l’amministrazione dell’Unione, e non soltanto, come recita l’art. 24 TFUE, rispetto alle istituzioni, agli organi consultivi e al Mediatore. Lo stesso art. 41 Carta dir. fond. lo riconosce a ogni persona, anche non residente nell’Unione. Naturalmente l’esercizio di questo diritto da parte di soggetti diversi dai cittadini dell’Unione è da ritenersi consentito comunque nei limiti del ricorso alle lingue ufficiali dell’Unione. Così non a caso lo costruisce, del resto, l’art. 2 del reg. n. 1/58: «[i] testi, diretti alle istituzioni da uno Stato membro o da una persona appartenente alla giurisdizione di uno Stato membro, sono redatti, a scelta del mittente, in una delle lingue ufficiali. La risposta è redatta nella medesima lingua».
Del resto, proprio in questo senso gli stessi Trattati costruiscono un ulteriore diritto dei cittadini dell’Unione, ugualmente riconducibile al più generale diritto a una buona amministrazione: quello di accedere ai documenti delle istituzioni, organi e organismi dell’Unione. L’art. 15 TFUE lo disciplina come diritto operante rispetto all’amministrazione dell’Unione nel suo complesso, di cui gode ogni cittadino dell’Unione e qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro. Così il par. 3 dell’art. 15 TFUE, articolo che significativamente inquadra tale diritto nell’obbligo di istituzioni, organi e organismi dell’Unione di operare «nel modo più trasparente possibile […] al fine di promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della società civile» (par. 1). Cfr. anche l’art. 42 Carta dir. fond. Dal canto suo, la Corte di giustizia (sentenza 18 dicembre 2007, C-64/05 P, Svezia c. Commissione, I-11389) ha sottolineato come il principio di trasparenza, sostanziato dal diritto di accesso del pubblico ai documenti delle istituzioni, «consente, in particolare, di garantire una maggiore legittimità, efficienza e responsabilità dell’amministrazione nei confronti dei cittadini in un sistema democratico» (punto 54).
L’art. 15 lascia a successivi regolamenti del Parlamento europeo e del Consiglio il compito di definire i principi generali e le limitazioni a tutela degli interessi pubblici e privati applicabili a tale diritto. Essi vi hanno provveduto già prima del Trattato di Lisbona, adottando il 30 maggio 2001 il reg. (CE) n. 1049/2001 relativo all’accesso del pubblico ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione (GUCE L 145, 43). Va infine ricordato che fin dalla loro introduzione nei Trattati le norme sulla cittadinanza dell’Unione sono completate da una clausola evolutiva, contenuta nell’art. 25 TFUE, diretta a consentire un’integrazione dei diritti elencati all’art. 20, par. 2, TFUE per mezzo di una procedura semplificata di revisione dei Trattati. Sulla base delle risultanze della relazione che ogni tre anni la Commissione deve presentare al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale in merito all’applicazione delle disposizioni sulla cittadinanza dell’Unione, il Consiglio, deliberando all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa approvazione del Parlamento, può adottare disposizioni a questo fine, le quali entreranno però in vigore, come si ricorderà, solo una volta approvate dagli Stati membri secondo le rispettive norme costituzionali.
CAPITOLO III
Il sistema delle competenze Sommario: 1. Il principio delle competenze di attribuzione. – 2. La clausola di flessibilità. – 3. Competenze esclusive e competenze concorrenti e parallele. – 4. Segue: La classificazione delle competenze dell’Unione. – 5. I principi di sussidiarietà e di proporzionalità.
1. Il principio delle competenze di attribuzione Il sistema giuridico creato dai Trattati è basato sull’attribuzione alle istituzioni dell’Unione europea della competenza ad agire, per mezzo degli strumenti previsti dagli stessi Trattati, in una serie di materie e solo in quelle. L’Unione non dispone cioè di una competenza generale, ma, come recita l’art. 5, par. 2, TUE, essa «agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti». Questo principio, che lo stesso art. 5 definisce ora formalmente come «principio di attribuzione», comporta che la legittimità di un’azione delle istituzioni va sempre verificata alla luce del quadro delle competenze che gli Stati, attraverso i Trattati, hanno attribuito alle stesse istituzioni. Ogni competenza che non risulti attribuita a queste è da considerare, infatti, rimasta nelle mani degli Stati membri. Quest’ultimo punto è precisato in modo esplicito dall’art. 4, par. 1, TUE: «qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei Trattati appartiene agli Stati membri». Esso è comunque ribadito con identici termini, a mo’ di corollario del principio di attribuzione, dal già citato art. 5, par. 2, dello stesso Trattato. E si veda anche, nello stesso senso, il primo capoverso della Dichiarazione (n. 18) relativa alla delimitazione delle competenze, allegata all’Atto finale della Conferenza di Lisbona: «La conferenza sottolinea che, conformemente al sistema di ripartizione delle competenze tra l’Unione e gli Stati membri previsto dal trattato sull’Unione europea e dal trattato sul funzionamento dell’Unione europea, qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri».
Prima del Trattato di Lisbona i Trattati istitutivi non contenevano in forma esplicita una lista delle competenze attribuite alle istituzioni. Queste erano desumibili per implicito dagli obiettivi dell’Unione indicati nell’art. 2 TUE pre-Lisbona e, per quanto riguardava specificamente la Comunità europea, dall’enumerazione contenuta nel-
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l’art. 3, par. 1, TCE dei possibili oggetti dell’azione della stessa Comunità in vista della realizzazione degli obiettivi ad essa assegnati. Art. 3, par. 1, TCE: «Ai fini enunciati all’articolo 2, l’azione della Comunità comporta, alle condizioni e secondo il ritmo previsti dal presente trattato: a) il divieto, tra gli Stati membri, dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative all’entrata e all’uscita delle merci come pure di tutte le altre misure di effetto equivalente; b) una politica commerciale comune; c) un mercato interno caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali; d) misure riguardanti l’ingresso e la circolazione delle persone, come previsto dal titolo IV; e) una politica comune nei settori dell’agricoltura e della pesca; f) una politica comune nel settore dei trasporti; g) un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno; h) il ravvicinamento delle legislazioni nella misura necessaria al funzionamento del mercato comune; i) la promozione del coordinamento tra le politiche degli Stati membri in materia di occupazione al fine di accrescerne l’efficacia con lo sviluppo di una strategia coordinata per l’occupazione; j) una politica nel settore sociale comprendente un Fondo sociale europeo; k) il rafforzamento della coesione economica e sociale; l) una politica nel settore dell’ambiente; m) il rafforzamento della competitività dell’industria comunitaria; n) la promozione della ricerca e dello sviluppo tecnologico; o) l’incentivazione della creazione e dello sviluppo di reti transeuropee; p) un contributo al conseguimento di un elevato livello di protezione della salute; q) un contributo ad un’istruzione e ad una formazione di qualità e al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri; r) una politica nel settore della cooperazione allo sviluppo; s) l’associazione dei paesi e territori d’oltremare, intesa ad incrementare gli scambi e proseguire in comune nello sforzo di sviluppo economico e sociale; t) un contributo al rafforzamento della protezione dei consumatori; u) misure in materia di energia, protezione civile e turismo».
Ma a quegli obiettivi e a quegli oggetti non corrispondeva necessariamente un’attribuzione esplicita di competenza all’Unione. Ad esempio, l’energia, la protezione civile e il turismo, benché espressamente menzionati nel citato art. 3, non trovavano negli articoli successivi del TCE disposizioni che regolassero una corrispondente competenza delle istituzioni. Un quadro preciso delle loro competenze e dell’effettiva portata delle stesse era ricavabile, perciò, solo da un esame delle singole disposizioni dei Trattati, e in particolare di quelle che disciplinavano nel concreto l’azione delle istituzioni in relazione a una determinata materia. Nel tentativo di introdurre maggior chiarezza, il TFUE fornisce ora in alcuni articoli iniziali un’elencazione puntuale dei diversi settori rispetto ai quali sono attribuite competenze all’Unione, ripartendo gli stessi, come si vedrà meglio più avanti, in funzione del rapporto esistente al loro interno tra tali competenze e quelle degli Stati membri. Sono così enumerati nell’art. 3 TFUE i settori in cui all’Unione è attribuita una competenza esclusiva (unione doganale, definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro, conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca, politica commerciale comune); nell’art. 4, par. 2, TFUE i settori in cui la competenza dell’Unione è concorrente con quella degli Stati membri (mercato interno, politica sociale, coesione economica, sociale e territoriale, agricoltura e pesca, ambiente, protezione dei consumatori, trasporti, reti transeuropee, energia, spazio di libertà, sicurezza e giustizia, problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica); nell’art. 4, parr. 3 e 4, e negli artt. 5 e 6 TFUE, quelli in cui, nel senso che preciseremo più avanti, l’Unione ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completa-
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re l’azione degli Stati membri (coordinamento delle politiche economiche, delle politiche occupazionali e delle politiche sociali degli Stati membri, ricerca, sviluppo tecnologico e spazio, cooperazione allo sviluppo e aiuto umanitario, tutela e miglioramento della salute umana, industria, cultura, turismo, istruzione, formazione professionale, gioventù e sport, protezione civile, cooperazione amministrativa); l’art. 2, par. 4, TFUE ricorda, infine, che «l’Unione ha competenza, conformemente alle disposizioni del Trattato sull’Unione europea, per definire e attuare una politica estera e di sicurezza comune, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune».
In realtà anche da questa elencazione, basata essenzialmente su quella che abbiamo visto essere contenuta nel preesistente art. 3, par. 1, TCE, si ricava un panorama comunque generico delle competenze conferite all’Unione. Già di per sé, infatti, l’elencazione non risulta del tutto esaustiva, visto che almeno per quanto riguarda i settori nei quali all’Unione spetta una competenza «concorrente» con quella degli Stati, l’art. 4, par. 2, TFUE si limita a enumerare per sua esplicita ammissione solo i «principali». Inoltre, al pari di quanto avveniva con il citato art. 3, par. 1, TCE, i settori in cui le istituzioni sono chiamate a esercitare una loro competenza sono individuati in modo non uniforme e talvolta troppo ampio o generale per poter fornire un’indicazione precisa o, in alcuni casi, anche solo approssimativa circa l’effettiva portata delle corrispondenti competenze attribuite all’Unione. Accanto a settori dal contenuto più circoscritto, quali la «definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno», la «politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro», la «conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca» o le «reti transeuropee», ne sono elencati altri – ad esempio il «mercato interno» e «lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia» – che delineano piuttosto degli obiettivi o degli ambiti di cooperazione, senza che gli stessi siano accompagnati da un’indicazione precisa dei possibili oggetti di tale cooperazione o delle materie la cui regolazione è funzionale al perseguimento di quegli obiettivi. Il punto è che gli articoli precedentemente citati del TFUE elencano i settori in cui l’Unione esercita la sua competenza, ma non le competenze che essa effettivamente esercita in quei settori. Da quella lista non potrebbe perciò dedursi che alle istituzioni dell’Unione, almeno rispetto ai settori lì enumerati, siano stati conferiti poteri d’azione generali e illimitati. Come precisa, infatti, l’art. 2, par. 6, TFUE, per determinare l’effettiva «portata e le modalità di esercizio delle competenze dell’Unione» è comunque necessario rifarsi, anche nel quadro dei Trattati attuali, alle disposizioni di questi specificamente dedicate a ciascuno di quei settori. Anche alla luce di queste disposizioni, tuttavia, l’individuazione della portata precisa di una competenza dell’Unione – e quindi della sua sussistenza in un caso concreto – non è sempre agevole, dato che all’interno dei Trattati le modalità con cui le specifiche competenze sono definite variano non poco e non permettono sempre di tracciarne gli effettivi confini. Accanto a settori, come lo «spazio di libertà sicurezza e giustizia», che pur apparentemente indefiniti nella loro enunciazione trovano poi nelle disposizioni di applicazione del TFUE (artt. 67-89) una descrizione puntuale dei loro contenuti, se ne hanno altri in cui le competenze concretamente attribuite alle istituzioni sono definite anche nelle relative disposizioni di applicazione
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con riferimento a un’intera materia (la politica agricola, i trasporti, ecc.), o in funzione di un obiettivo (il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri «che hanno per oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno», di cui all’art. 114 TFUE) non collegato a una materia precisa, ma che dà anzi la possibilità, in vista della sua realizzazione, di intervenire sulla regolamentazione di un numero potenzialmente assai vasto di materie. Non diversamente deve poi dirsi per il settore della PESC, che negli artt. 23-41 TUE è delineato unicamente in relazione a obiettivi – salvaguardia dei valori e degli interessi fondamentali dell’Unione, rafforzamento della sua sicurezza e mantenimento della pace, promozione della cooperazione internazionale, dei diritti fondamentali e della democrazia – da cui difficilmente si potrebbero ricavare dei limiti sostanziali all’azione dell’Unione. Tanto più che l’art. 21, par. 2, TUE precisa che, in questo settore, «[l]’Unione definisce e attua politiche comuni e azioni e opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali».
Evidentemente, la difficoltà citata di individuare talvolta i confini precisi delle competenze regolate dai Trattati può rendere già di per sé meno stringente il limite alla capacità di azione delle istituzioni posto dal principio di attribuzione. Ma la rigidità di questo principio è stata attenuata soprattutto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia che, quando si è pronunciata con riguardo a competenze previste dall’allora TCE, ha finito per privilegiare in via di principio interpretazioni delle norme rilevanti capaci di ampliare la portata di quelle competenze. La Corte ha così sostenuto la necessità di interpretare evolutivamente le modalità e la natura degli interventi che il Trattato istitutivo consentiva alla Comunità, ricomprendendo ad esempio nella competenza in materia di politica commerciale anche misure non espressamente menzionate dall’art. 133, par. 1, di quel Trattato (attuale art. 207, par. 1, TFUE): ciò perché «la nozione di politica commerciale ha lo stesso contenuto, vuoi nell’ambito della sfera d’azione […] di uno Stato, vuoi nella sfera d’azione comunitaria» (26 marzo 1987, 45/86, Commissione c. Consiglio, 1493, punto 16). In detta pronuncia, la Corte ha affermato la riconducibilità alla competenza comunitaria in materia di politica commerciale di un sistema di preferenze generalizzate a favore dello sviluppo, sulla base del ragionamento che «la politica commerciale comune non potrebbe più essere seguita efficacemente se la Comunità non potesse disporre del pari di mezzi d’azione più complessi rispetto agli strumenti destinati ad incidere unicamente sugli aspetti tradizionali del commercio estero» (punto 20). Cfr. già anche Corte giust., parere 11 novembre 1975, 1/75, 1361 s. In materia si veda inoltre infra, p. 868 ss. Non meno estensiva è stata poi l’interpretazione da essa data dei confini delle competenze comunitarie, quando ha affermato, come si ricorderà (supra, p. 113 s.), che la competenza a creare nuovi organismi dell’Unione, quali le agenzie europee, deve ritenersi compresa nei poteri conferiti alle istituzioni per la regolazione della materia oggetto dell’attività dell’organismo da creare, e ciò anche quando, come nel caso della competenza in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri, la materia per la cui regolazione quei poteri sono stati conferiti sembra limitare l’esercizio di questi a un oggetto esclusivo e ben preciso, quale appunto la modifica di normative nazionali. Secondo la Corte, infatti, «nulla nel tenore testuale dell’art. 95 TCE [attuale art. 114 TFUE] permette di concludere che i provvedimenti adottati dal legislatore comunitario sul fondamento di tale disposizione debbano limitarsi, quanto ai loro destinatari, ai soli Stati membri. Può, infatti, rendersi necessario prevedere, sulla scorta di una valutazione rimessa al detto legislatore, l’istituzione di un organismo comunitario incaricato di contribuire alla realizzazione di un processo di armonizzazione nelle situazioni in cui, per agevolare l’attuazione e l’applicazione uniformi di atti fondati su tale norma, appaia appropriata l’adozione di misure di accompagnamento e di inquadramento non vincolanti» (2 maggio 2006, C-217/04, Regno Unito c. Parlamento e Consiglio, I-3771, punto 44).
Andando peraltro al di là di un’interpretazione estensiva del dato testuale offerto dai Trattati, la Corte ha altresì affermato il principio di carattere generale secondo
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cui, quando una disposizione degli stessi Trattati affida alle istituzioni un compito preciso, si deve ammettere, «se non si vuole privare di qualsiasi efficacia detta disposizione, che essa […] attribuisca [loro] per ciò stesso necessariamente i poteri indispensabili per svolgere questa missione» (9 luglio 1987, 281/85, da 283/85 a 285/85 e 287/85, Germania e a. c. Commissione, 3203, punto 28). Un’applicazione particolarmente significativa di questo principio la Corte l’ha fatta in passato, come vedremo (infra, p. 823 ss.), in relazione alla competenza della Comunità a concludere accordi internazionali con Stati terzi. A fronte del fatto che allora il TCE prevedeva esplicitamente questa competenza solo in casi specifici, essa ha, infatti, affermato che «ogniqualvolta il diritto comunitario abbia attribuito alle istituzioni della Comunità determinati poteri sul piano interno, onde realizzare un certo obiettivo, la Comunità è competente ad assumere gli impegni internazionali necessari per raggiungere tale obiettivo, anche in mancanza di espresse disposizioni al riguardo» (parere 26 aprile 1977, 1/76, 741, punto 3). In effetti, quando si è sviluppata la giurisprudenza di cui nel testo, il TCE prevedeva una competenza esterna della Comunità solo in relazione alla conclusione di accordi commerciali e di accordi di associazione. Secondo l’allora art. 238 TCEE, poi art. 310 TCE e divenuto ora art. 217 TFUE, «[l]a Comunità [ora: l’Unione] può concludere con uno o più paesi terzi o organizzazioni internazionali accordi che istituiscono un’associazione caratterizzata da diritti e obblighi reciproci, da azioni in comune e da procedure particolari». Per la portata esatta della competenza a concludere accordi di associazione, v. Corte giust. 30 settembre 1987, 12/86, Demirel, 3719: dato che un accordo di associazione «crea vincoli particolari e privilegiati con uno Stato terzo il quale deve, almeno in parte, partecipare al regime comunitario, l’art. 238 [TCEE] attribuisce necessariamente alla Comunità la competenza ad assumere impegni nei confronti di Stati terzi in tutti i settori disciplinati dal Trattato» (punto 9).
Questo principio del c.d. parallelismo tra competenze interne e competenze esterne ha oggi ricevuto consacrazione espressa nei Trattati grazie all’art. 3, par. 2, TFUE, che precisa che l’Unione ha competenza per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione è «necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno», così come l’art. 216, par. 1, TFUE ribadisce, dal canto suo, che «[l]’Unione può concludere un accordo con uno o più paesi terzi o organizzazioni internazionali qualora i trattati lo prevedano o qualora la conclusione di un accordo sia necessaria per realizzare, nell’ambito delle politiche dell’Unione, uno degli obiettivi fissati dai Trattati». Secondo la Corte, però, il principio si giustificava anche in assenza di una previsione esplicita, proprio perché l’efficace regolamentazione di ciascun settore di competenza delle istituzioni può in molti casi essere solo «il risultato del concorso e dell’effetto combinato dei provvedimenti interni ed esterni» (parere 11 novembre 1975, 1/75, 1355, par. 1).
2. La clausola di flessibilità La riferibilità del principio delle competenze di attribuzione alle sole competenze disciplinate nei Trattati ha in realtà trovato fin dalle origini una significativa ed espli-
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cita attenuazione negli stessi Trattati grazie alla c.d. clausola di flessibilità, la quale consente, a determinate condizioni, un’azione dell’Unione anche al di fuori di un’attribuzione specifica di competenza. Seppur limitatamente al TCE, infatti, l’art. 308 di questo prevedeva che, quando un’azione delle istituzioni risultava «necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità, senza che [il Trattato avesse] previsto i poteri di azione a tal uopo richiesti», il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo, poteva prendere le disposizioni del caso. Con il Trattato di Lisbona la clausola di flessibilità viene ripresa all’interno di un articolo del TFUE, diventando così di applicazione all’intero ventaglio dei settori di attività dell’Unione. L’art. 352 TFUE ribadisce, infatti, che «[s]e un’azione dell’Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate». Come dimostra la prassi di applicazione della clausola, queste disposizioni possono consistere in misure di portata generale, come in provvedimenti puntuali, assumendo a seconda dei casi la veste di regolamenti, direttive o decisioni. Lo stesso art. 352 TFUE, peraltro, prefigura espressamente l’ipotesi che l’atto adottato dal Consiglio possa avere anche, laddove disponga – è da pensare – misure di portata generale, natura legislativa. La clausola di flessibilità nasce con la finalità di ovviare alla rigidità del principio di attribuzione, il quale potrebbe impedire alle istituzioni di prendere misure divenute indispensabili a fronte degli sviluppi del processo d’integrazione europea, ma per le quali i redattori dei Trattati non abbiano in anticipo previsto disposizioni che conferiscano a quelle istituzioni, esplicitamente o implicitamente, gli specifici poteri per farlo (parere 28 marzo 1996, 2/94, I-1759, punto 29). Essa copre quindi l’ipotesi in cui quei poteri non siano desumibili da una disposizione dei Trattati neanche sulla base di un’interpretazione estensiva della stessa. Nella precedente versione dei Trattati, in effetti, la clausola di flessibilità è servita alla allora Comunità europea per dotarsi in settori di sua competenza di strumenti organici o normativi in nessun modo riconducibili alle disposizioni del TCE (quali taluni modelli comunitari di società e titoli comunitari di proprietà intellettuale) o prima che una diversa interpretazione di una di quelle disposizioni permettesse di ritenere che lo potessero essere (come nel caso già ricordato delle agenzie europee). Per quanto riguarda i modelli e titoli comunitari, si pensi per i primi, al reg. (CE) n. 2157/2001 del Consiglio, dell’8 ottobre 2001, relativo allo statuto della Società europea (GUCE L 294, 1), e al reg. (CE) n. 1435/2003 del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativo allo statuto della Società cooperativa europea (GUUE L 207, 1); e per i secondi al reg. (CE) n. 207/2009 del Consiglio, del 26 febbraio 2009, sul marchio comunitario (GUUE L 78, 1), nonché al reg. (CE) n. 2100/94 del Consiglio, del 27 luglio 1994, concernente la privativa comunitaria per ritrovati vegetali (GUCE L 227, 1). Al riguardo, pronunciandosi sulla competenza della Comunità a stipulare accordi internazionali in materia di servizi e di tutela della proprietà intellettuale, la Corte ha osservato che se «la
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Comunità dispone in materia di proprietà intellettuale di una competenza di armonizzazione delle legislazioni nazionali», essa deve «basarsi [sull’art. 235 TCEE, attuale art. 352 TFUE] per creare titoli nuovi che si sovrappongono ai titoli nazionali» (parere 15 novembre 1994, 1/94, I-5267, punto 59). E statuendo successivamente sulla creazione di una figura societaria europea come la società cooperativa europea, la Corte ha analogamente sottolineato come il suo regolamento istitutivo, «che lascia invariati i diversi diritti nazionali esistenti, non può essere considerato nel senso che ha per oggetto il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri applicabili alle società cooperative; esso ha invece per oggetto la creazione di una nuova forma di società cooperativa che si sovrappone alle forme nazionali», e pertanto «è stato correttamente adottato sulla base [dell’art. 308 TCE]» (sentenza 2 maggio 2006, C-436/03, Parlamento c. Consiglio, I-3733, punto 44).
Ma la stessa clausola ha anche consentito alla Comunità di ampliare i propri ambiti di azione, permettendo alle istituzioni di agire tanto in settori, quali quello della tutela dell’ambiente, che seppur correlati alla realizzazione di un obiettivo pur generico della Comunità (nello specifico quello della «promozione di uno sviluppo armonioso delle attività economiche al suo interno») non facevano ancora oggetto di una specifica attribuzione di competenza, quanto in settori, come la protezione civile, per i quali quel Trattato, pur attribuendo in astratto la corrispondente competenza, non ne regolava in concreto le modalità di esercizio. Proprio perché permette alle istituzioni di agire al di là dei confini posti dal principio delle competenze di attribuzione, il ricorso alla clausola di flessibilità è soggetto a condizioni procedurali rigorose. Fin dall’inizio è stata prevista la condizione di una delibera all’unanimità del Consiglio, da prendere su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo. Con il Trattato di Lisbona, alla condizione del voto unanime del Consiglio è stata aggiunta quella di un’approvazione previa del Parlamento, il quale è così chiamato a dare non più soltanto un parere non vincolante sul ricorso alla clausola di flessibilità, ma può porre il suo veto alla decisione del Consiglio. Inoltre, con un nuovo par. 2, l’art. 352 TFUE estende a tutte le proposte della Commissione basate su detto articolo il meccanismo di controllo del principio di sussidiarietà disciplinato da un apposito Protocollo allegato ai Trattati, il quale, come si vedrà alla fine di questo Capitolo, assoggetta a possibili obiezioni dei parlamenti nazionali, sotto il profilo appunto del rispetto della sussidiarietà, le iniziative normative dell’Unione. Ai sensi del par. 2 dell’art. 352, è in effetti previsto che «la Commissione, nel quadro della procedura di controllo del principio di sussidiarietà di cui [all’art. 5, par. 3, TUE], richiama l’attenzione dei parlamenti nazionali sulle proposte fondate [sull’art. 352 TFUE]». Va peraltro subito osservato che mentre il meccanismo disciplinato nel Protocollo appena citato è applicabile solo alle proposte di atti legislativi, nel caso di quelle basate sull’art. 352 TFUE esso appare applicabile indipendentemente dalla natura dell’atto oggetto della proposta presentata dalla Commissione.
Fermi restando gli ostacoli che possono venire da queste condizioni di procedura, i presupposti sostanziali cui è subordinata l’applicazione della clausola di flessibilità non sembrano invece tutti suscettibili di rappresentare un freno significativo alla possibilità del Consiglio di farvi ricorso. Certamente non lo sono la previsione che l’azione da intraprendere debba essere necessaria alla realizzazione di uno degli obiettivi dei Trattati o che tale necessità si ponga nel quadro delle po-
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litiche definite dagli stessi Trattati. Già sotto il vigore del precedente art. 308 TCE, le analoghe condizioni erano state interpretate in maniera estensiva: il riferimento al «mercato comune» contenuto in quell’articolo («un’azione […] necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità») è stato sempre inteso, nella sostanza, come richiamo alla Comunità europea in quanto tale, in sintonia, del resto, con l’identificazione esistente tra i due concetti al momento della formulazione originaria della norma; quanto poi alla finalizzazione agli «scopi della Comunità», la genericità di quelli contenuti nell’art. 2 del suo Trattato istitutivo nella versione pre-Lisbona («La Comunità ha il compito di promuovere nell’insieme della Comunità, mediante l’instaurazione di un mercato comune e di un’unione economica e monetaria e mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni di cui agli [artt. 3 e 4 TCE], uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, la parità tra uomini e donne, una crescita sostenibile e non inflazionistica, un alto grado di competitività e di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di protezione dell’ambiente ed il miglioramento della qualità di quest’ultimo, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri») non ha ugualmente rappresentato, come dimostra il già ricordato caso della tutela dell’ambiente, un limite effettivo alla possibilità del Consiglio di giustificare una sua azione ai sensi dell’art. 308 TCE in un ventaglio assai ampio di ipotesi. Questa possibilità non sembra destinata a venir meno con la nuova formulazione dell’art. 352 TFUE, visto che il riferimento al «mercato comune» viene qui sostituito da un rinvio generale a tutte le «politiche definite dai Trattati», e che gli obiettivi della nuova Unione europea, quali elencati all’art. 3 TUE, sono certamente più vasti e non meno generici di quelli che erano in precedenza assegnati alla Comunità. Resta comunque fermo che la condizione della necessità dell’azione da intraprendere per realizzare uno degli obiettivi dell’Unione costituisce unicamente un presupposto di legittimità del ricorso all’art. 352 TFUE, ma non dà luogo a un obbligo di agire del Consiglio. Come ha sottolineato in più di un’occasione la Corte, infatti, questo rimane libero o meno di farvi ricorso. Si veda in proposito, da ultimo, la sentenza 27 novembre 2012, C-370/12, Pringle, in cui la Corte, pronunciandosi rispetto alla legittimità dell’accordo internazionale con cui gli Stati membri della zona euro hanno creato un Meccanismo europeo di stabilità (c.d. MES, sul quale v. infra, p. 697 ss.), invece di istituire un vero e proprio meccanismo dell’Unione per mezzo dell’art. 352 TFUE, osserva che «detta disposizione non […] impone [al Consiglio] alcun obbligo di agire» (punto 67).
Un limite intrinseco al ricorso alla clausola di flessibilità è stato però indicato dalla giurisprudenza della Corte – giurisprudenza richiamata anche letteralmente da una dichiarazione (n. 42) della Conferenza intergovernativa che ha approvato il Trattato di Lisbona – nel fatto che la clausola, essendo «parte integrante di un ordinamento istituzionale basato sul principio [delle competenze di attribuzione], non può costituire il fondamento per ampliare la sfera dei poteri [dell’Unione] al di là dell’ambito generale risultante dal complesso delle disposizioni [del Trattato], ed in particolare di quelle che definiscono i compiti e le azioni [della stessa Unione]» (parere 2/94, cit., punto 30); né esso «può essere in ogni caso utilizzata quale base per l’adozione di disposizioni che condurrebbero sostanzialmente, con riguardo alle loro conseguenze, a una modifica del Trattato che sfugga alla procedura prevista nel Trattato medesimo» (ivi). Ciò potrebbe, per ipotesi, accadere laddove l’art. 352 TFUE venisse utilizzato dalle istituzioni per agire con strumenti o modalità non ammessi dai Trattati, procedendo ad esempio a un’armonizzazione delle legislazioni nazionali in un settore in cui i Trattati stessi la escludono espressamente. E altrettanto si verificherebbe se con un atto adottato sulla base dello stesso articolo, e quindi con la procedura da esso
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prevista, si incidesse sull’esercizio da parte di un’istituzione delle prerogative riconosciutele da un’altra disposizione dei Trattati, alterando così l’equilibrio istituzionale da questi previsto. La prima ipotesi è peraltro formalmente esclusa ora dal par. 3 dell’art. 352 TFUE, secondo il quale le «misure fondate sul presente articolo non possono comportare un’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei casi in cui i trattati la escludono».
Dall’ambito di applicazione della clausola di flessibilità rimane escluso, per espressa previsione dell’art. 352 TFUE, il settore della PESC. Secondo il par. 4 di detto articolo, infatti, la clausola «non può servire di base per il conseguimento di obiettivi riguardanti la [PESC]». Data la latitudine con cui sono descritti i poteri del Consiglio nel settore della PESC, questa esclusione piuttosto che a imporre un’applicazione rigida del principio di attribuzione nella conduzione della stessa PESC, mira ad evitare il rischio che attraverso un’azione presa ai sensi dell’art. 352 TFUE si possano alterare i meccanismi specifici di questo settore, a partire da quelli relativi alla presa di decisione. È ovvio, infatti, che laddove obiettivi propri della PESC fossero perseguibili per mezzo di misure basate sull’art. 352 TFUE, e quindi adottate con il concorso di Commissione e Parlamento europeo, queste due istituzioni finirebbero per giocare in quel settore un ruolo che andrebbe ben al di là di quello del tutto marginale che, come si è già ricordato, gli articoli del TUE dedicati alla PESC ad esse formalmente riservano. Richiamando quanto ebbe a dire il Tribunale dell’Unione in relazione all’eventuale ricorso all’allora art. 308 TCE per la realizzazione di un obiettivo della PESC (a quel tempo oggetto di un pilastro separato), ciò «significherebbe, in ultima analisi, rendere tale disposizione applicabile a tutte le misure rientranti nella PESC […] di guisa che la Comunità potrebbe sempre agire per raggiungere gli obiettivi di queste politiche. Un siffatto risultato priverebbe molte disposizioni del Trattato UE del loro campo di applicazione e sarebbe incoerente con la creazione di strumenti propri alla PESC» (Trib. 21 settembre 2005, T-306/01, Yusuf e Al Barakaat International Foundation c. Consiglio e Commissione, II-3533, punto 156). Va peraltro osservato che lo stesso par. 4 dell’art. 352 TFUE, nel mentre che esclude dall’orizzonte di tale articolo il perseguimento degli obiettivi della PESC, precisa che qualsiasi atto basato su di esso deve rispettare i limiti previsti dall’art. 40, comma 2, TUE, secondo il quale l’azione delle istituzioni ai sensi degli altri settori dei Trattati deve lasciare «impregiudicata l’applicazione delle procedure e la rispettiva portata delle attribuzioni […] previste […] per l’esercizio delle competenze dell’Unione» nel quadro della PESC. Per la verità, l’esigenza in questione si pone non solo in relazione al rapporto tra l’art. 352 TFUE e il settore della PESC, ma anche, in qualche misura, rispetto al rapporto tra tale articolo e tutti gli altri settori di attività dell’Unione. In questa chiave di non alterazione delle prerogative delle istituzioni e più in generale di rispetto dell’equilibrio istituzionale può essere, infatti, visto l’ulteriore limite alla possibilità di ricorso alla clausola di flessibilità, costantemente ribadito dalla Corte di giustizia, consistente nella condizione che «nessun’altra disposizione del Trattato attribuisca
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alle istituzioni […] la competenza necessaria per l’emanazione dell’atto stesso» (sentenza 26 marzo 1987, 45/86, Commissione c. Consiglio, cit., punto 13). Non a caso, la stessa Corte ha escluso l’annullabilità di un atto adottato sulla base della clausola di flessibilità, invece che di un altro articolo del Trattato che avrebbe costituito il corretto fondamento dello stesso, per il fatto che anche ai sensi di tale articolo l’atto avrebbe dovuto essere adottato dal Consiglio all’unanimità (sentenza 27 settembre 1988, 165/87, Commissione c. Consiglio, 5545, punto 17 ss.). Nella prima delle due sentenze appena citate, la Corte ha del resto dedotto il limite in questione dalla previsione contenuta nel testo dell’allora art. 235 TCEE e ribadita dall’attuale art. 352 TFUE, che l’azione ai sensi della clausola di flessibilità sia necessaria alla realizzazione di un obiettivo dei Trattati, «senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine».
3. Competenze esclusive e competenze concorrenti e parallele La circostanza che in una determinata materia sussista la competenza delle istituzioni ad agire non significa di per sé che tale competenza non sia più utilizzabile dagli Stati membri. La necessità di distinguere sotto questo profilo tra le varie competenze conferite dai Trattati è posta in maniera esplicita, come si è in precedenza ricordato, dall’art. 2 TFUE. Questo ripartisce, infatti, le competenze dell’Unione in diverse categorie, individuate in funzione proprio del rapporto esistente tra tali competenze e quelle degli Stati membri, dando nel contempo conto delle conseguenze derivanti dalla riconducibilità all’una o all’altra categoria di una determinata competenza. Ne emerge l’esistenza accanto a competenze c.d. esclusive, perché il loro esercizio spetta alle sole istituzioni dell’Unione, di altre competenze il cui trasferimento a quest’ultima non ha, in quanto tale, fatto venir immediatamente o interamente meno la corrispondente competenza degli Stati membri. L’articolo precisa innanzitutto che, «[q]uando i trattati attribuiscono all’Unione una competenza esclusiva in un determinato settore, solo l’Unione può legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri possono farlo autonomamente solo se autorizzati dall’Unione oppure per dare attuazione agli atti dell’Unione» (par. 1). La norma riprende sinteticamente, in questo modo, la giurisprudenza della Corte formatasi sotto il vigore del TCE, secondo la quale il carattere esclusivo di una competenza trasferita all’Unione comporta appunto che, in linea di principio, solo questa può agire in quella determinata materia e che, al contrario, gli Stati membri non sono più legittimati a farlo, indipendentemente dalla compatibilità o meno della loro condotta con quanto previsto dal diritto dell’Unione. In particolare la Corte ha osservato, parlando della conservazione delle risorse biologiche marine nel quadro della politica della pesca dell’allora Comunità europea, che «la competenza ad adottare … i provvedimenti destinati alla conservazione delle risorse ittiche [spetta] pienamente e definitivamente alla Comunità [per cui] gli Stati membri non hanno […] più il diritto di esercitare una competenza autonoma in materia di provvedimenti di conservazione», trattandosi di «materia di esclusiva competenza della
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Comunità» (5 maggio 1981, 804/79, Commissione c. Regno Unito, 1045, punti 1718). Ed essi non potranno farlo né agendo singolarmente, né collettivamente. Si è visto, del resto, che anche un’azione collettiva degli Stati svolta nel quadro dell’Unione, come quelle attuate a titolo di cooperazione rafforzata, è preclusa dai Trattati nei settori di competenza esclusiva. In presenza di una competenza di questo tipo dell’Unione, provvedimenti degli Stati membri «sono ammissibili […] solo se specificamente autorizzati dalla Comunità» (Corte giust. 15 dicembre 1976, 41/76, Donckerwolcke, 1921, punti 30-32). Un’autorizzazione di questo genere può rendersi necessaria soprattutto laddove le istituzioni non abbiano ancora esercitato la loro competenza esclusiva, per evitare che la corrispondente impossibilità degli Stati di agire determini un vuoto normativo nel settore di cui si tratta. In questo caso gli Stati agiranno «in veste di gestori dell’interesse comune», purché appunto autorizzati formalmente a farlo, in via generale o specifica, dalle stesse istituzioni (Corte giust. 16 dicembre 1981, 269/80, Tymen, 3079, punto 7). Non può, infatti, venir considerato «di per sé quale approvazione di un provvedimento nazionale unilaterale […] adottato in un settore» di competenza esclusiva dell’Unione, ha osservato la Corte, il semplice fatto che quel provvedimento corrisponda nel suo contenuto a «una proposta presentata dalla Commissione al Consiglio allo scopo di creare un’azione comunitaria concertata» in quello stesso settore (ivi, punto 11). Nella sentenza appena citata la Corte ha anche sottolineato che «in una situazione caratterizzata dall’inazione del Consiglio […] gli Stati membri hanno non soltanto l’obbligo di consultare in modo circostanziato la Commissione e di chiedere lealmente la sua approvazione, ma anche il dovere di non adottare provvedimenti nazionali di conservazione in spregio di obiezioni, riserve o condizioni che la Commissione possa formulare» (punto 8). In relazione invece a un’ipotesi di autorizzazione in via generale data dal Consiglio, v. Corte giust. 18 febbraio 1986, 174/84, Bulk Oil (Zug), 559, punto 33 ss.
Al di fuori dell’ipotesi di un’attribuzione in via esclusiva, l’esistenza di una competenza delle istituzioni non fa invece venir meno le corrispondenti competenze degli Stati membri. Ovviamente nel momento in cui le istituzioni abbiano fatto uso della loro, gli Stati membri saranno tenuti a rispettare e applicare gli atti che ne saranno derivati. Ma, in linea di principio, gli Stati non per questo risulteranno spogliati della loro competenza: essi saranno comunque liberi di agire o di legiferare in quella determinata materia, a condizione che la loro condotta o le misure da loro prese non siano contrarie agli obblighi imposti dall’Unione. Ciò è certamente vero quando il permanere in capo agli Stati di una competenza simmetrica a quella dell’Unione si verifica senza che le due sfere di competenza siano destinate in linea di principio a interferire tra loro sul piano formale. In tal caso, l’azione dell’Unione si prospetta come «parallela» a quella degli Stati, dovendo le due azioni soltanto integrarsi sulla base di un obbligo di coordinamento finalizzato a «garantire la coerenza reciproca delle politiche nazionali e della politica dell’Unione». Così l’art. 180 TFUE, il quale prevede che, in materia di ricerca scientifica e tecnologica, le due sfere di competenza (europea e nazionale) si integrano tra loro, e soprattutto il successivo art.
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181, par. 1, TFUE che pone appunto un obbligo di coordinamento tra Unione e Stati membri al fine di «garantire la coerenza reciproca delle politiche nazionali e della politica dell’Unione».
Fatto salvo questo obbligo, l’esercizio da parte delle istituzioni della propria competenza non determina però il sopravvenire di un corrispondente limite formale alla libertà degli Stati di agire in quella data materia: una iniziativa dell’Unione in materia di ricerca scientifica e tecnologica o di cooperazione allo sviluppo, ad esempio, non impedirà in alcun modo l’avvio di iniziative analoghe, ma di diverso contenuto, da parte di uno o più Stati membri. In altri termini, come specifica espressamente il TFUE, in casi come questi «l’Unione ha competenza per condurre azioni, in particolare la definizione e l’attuazione di programmi, senza che l’esercizio di tale competenza possa avere per effetto di impedire agli Stati membri di esercitare la loro» Così l’art. 4, par. 3, TFUE, in relazione ai settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio (nonché, implicitamente, la Dichiarazione (n. 34) su tali settori, allegata al Trattato di Lisbona: «La conferenza conviene che l’azione dell’Unione nel settore della ricerca e dello sviluppo terrà debito conto degli orientamenti e delle scelte fondamentali delle politiche in materia di ricerca degli Stati membri»); ed analogamente è detto nel successivo par. 4 dell’articolo per quanto riguarda la cooperazione allo sviluppo e l’aiuto umanitario.
Diversamente avviene là dove – ed è l’ipotesi più ricorrente – la competenza non esclusiva dell’Unione è destinata invece a intervenire, attraverso gli atti delle istituzioni, nello spazio normativo proprio di quella corrispondente degli Stati membri. Qui la competenza degli Stati si presenta come «concorrente» con quella dell’Unione. Per dirla con il nuovo art. 2, par. 2, TFUE, in un settore per il quale i Trattati prevedano una competenza di questo tipo, «l’Unione e gli Stati membri possono legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti in tale settore». Solo che la competenza degli Stati potrà essere esercitata unicamente «nella misura in cui l’Unione non ha esercitato la propria». Infatti, la loro competenza incontra un limite di contenuto consistente nel fatto che, laddove e dal momento in cui l’Unione abbia agito, un’azione statale diventa «ammissibile solo in quanto non pregiudichi l’uniforme applicazione […] delle norme [dell’Unione] e il pieno effetto dei provvedimenti adottati in applicazione delle stesse» (Corte giust. 13 febbraio 1969, 14/68, Wilhelm e a., 1, punto 4). Questo limite, peraltro, è talvolta indicato direttamente dai Trattati. Così ad esempio avviene in quei settori – la tutela dell’ambiente, la protezione dei consumatori, ecc. – in cui i Trattati prevedono espressamente che l’armonizzazione delle legislazioni nazionali debba limitarsi a una regolamentazione minima della materia: in tal caso, gli Stati membri non potranno non rispettare quello standard minimo, ma saranno liberi – come recitano gli artt. 169 e 193 TFUE rispettivamente per la protezione dei consumatori e per l’ambiente – di «mantenere o di introdurre misure di protezione più rigorose» di quelle adottate dall’Unione. In genere, però, la fissazione del limite derivante alla competenza degli Stati a seguito dell’esercizio da parte delle istituzioni della loro concorrente competenza, è lasciata interamente alla volontà delle stesse istituzioni, nel senso che la libertà di cui godranno gli Stati nell’esercizio della loro competenza dipenderà, come del resto imposto da un Protocollo (n. 25) allegato ai Trattati, dalla portata della regolamentazione che le istituzioni decideran-
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no di dare, a livello di Unione, a una data materia. E ovviamente, per quelle materie in cui quella regolamentazione sarà totale, la concorrente competenza degli Stati membri, pur teoricamente esistente, diventerà nei fatti difficilmente esercitabile. Si tratta del Protocollo (n. 25) sull’esercizio della competenza concorrente, secondo il quale «quando l’Unione agisce in un determinato settore, il campo di applicazione di questo esercizio di competenza copre unicamente gli elementi disciplinati dall’atto dell’Unione in questione e non copre pertanto l’intero settore».
Da un punto di vista formale questa situazione non può comunque essere totalmente assimilata a quella in cui la competenza attribuita all’Unione lo sia stata in via esclusiva, dato che nell’ambito coperto da quest’ultima un’azione degli Stati membri è da considerarsi illecita, indipendentemente dalla sua compatibilità o meno con quanto previsto dal diritto dell’Unione: come si è visto, in tali ambiti gli Stati possono agire solo se autorizzati dalle istituzioni o per dare attuazione agli atti di queste. Ma va soprattutto osservato che il recupero di una competenza esclusiva dell’Unione da parte degli Stati membri è possibile, in linea di principio, solo attraverso una revisione dei Trattati, tanto che anche laddove l’Unione tardasse a esercitarla, ha osservato la Corte, ciò non avrebbe «la conseguenza di restituire agli Stati membri la competenza e la libertà d’azione unilaterale in quel settore» (Corte giust. 5 maggio 1981, 804/79, Commissione c. Regno Unito, 1045, punto 20). Al contrario, nel caso delle competenze concorrenti, l’erosione di fatto della competenza degli Stati membri provocata dall’esercizio della corrispondente competenza delle istituzioni è un processo in astratto reversibile, nel senso che gli Stati potrebbero ricominciare a esercitare liberamente la loro dal momento e nella misura in cui l’Unione decidesse di cessare di esercitare la propria, modificando o abrogando la normativa comune precedentemente adottata. Un’ipotesi del genere è del resto evocata espressamente dall’art. 2, par. 2, TFUE, ai sensi del quale «gli Stati membri esercitano nuovamente la loro competenza nella misura in cui l’Unione ha deciso di cessare di esercitare la propria». Con una dichiarazione adottata in occasione della Conferenza che ha approvato il Trattato di Lisbona, la Dichiarazione (n. 18) relativa alla delimitazione delle competenze, gli Stati membri hanno anche precisato che questa ipotesi si verificherebbe nel caso in cui le competenti istituzioni dell’Unione decidessero di abrogare un atto legislativo, in particolare per assicurare meglio il rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità di cui al paragrafo successivo; ovvero laddove si arrivasse addirittura ad una modifica dei Trattati che, eliminando una competenza dell’Unione, la riattribuisse integralmente agli Stati, come a suo tempo (p. 137) abbiamo visto essere espressamente evocato dall’art. 48, par. 2, TUE. Il fatto che una competenza torni o sia rimasta nelle mani degli Stati membri non significa peraltro che questi siano liberi di esercitarla in piena discrezionalità. Come abbiamo detto parlando della cittadinanza nazionale in relazione a quella dell’Unione, anche l’esercizio di competenze «esclusive» degli Stati membri può essere, infatti, condizionato dal diritto dell’Unione, nella misura in cui quell’esercizio incida sul corretto funzionamento di tale diritto.
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Ciò può accadere innanzitutto in quei casi in cui aspetti di una materia di competenza dell’Unione sono lasciati espressamente dai Trattati alla competenza degli Stati, perché strettamente legati a nozioni il cui contenuto nel caso concreto non può non essere frutto di una valutazione sovrana di ciascuno di essi. La Corte di giustizia si è costantemente riservata in tali ipotesi il potere di giudicare a sua volta della valutazione effettuata dalle autorità statali, per verificare quanto meno che essa non sia stata dettata da motivazioni estranee a quelle all’origine della riserva di competenza allo Stato. Essa ha così affermato che, pur spettando agli Stati membri giudicare, ad esempio, dei motivi di ordine pubblico e sicurezza pubblica suscettibili di giustificare ai sensi dell’art. 45, par. 3, TFUE, un provvedimento di espulsione di un cittadino dell’Unione, ovvero stabilire le misure adeguate per garantire la loro sicurezza interna ed esterna di cui all’art. 346 dello stesso Trattato, «da ciò non deriva che siffatte misure esulino del tutto dall’ambito di applicazione del diritto dell’Unione» (rispettivamente, sentenze 27 ottobre 1977, 30/77, Boucherau, 1999, punto 31 ss., e 4 marzo 2010, C-38/06, Commissione c. Portogallo, I-1569, punto 62). Ma la Corte ha fatto altrettanto anche rispetto a misure nazionali suscettibili di compromettere la piena effettività del diritto dell’Unione, pur se adottate dagli Stati in ambiti interamente di loro competenza, contestando ad esempio la violazione dell’obbligo generale di cooperazione sancito dall’art. 10 TCE (ora art. 4, par. 3, TUE) nel caso di mancata previsione nel diritto penale nazionale di sanzioni effettive, efficaci e proporzionate per la repressione di comportamenti vietati da norme europee (per tutte, sentenza 8 luglio 1999, C-186/98, Nunes e de Matos, I-4883, punto 9 ss.).
4. Segue: La classificazione delle competenze dell’Unione Come si è visto all’inizio di questo Capitolo, il TFUE non si limita a dar conto dell’esistenza di diverse categorie di competenze dell’Unione, identificate dal rapporto di queste con le corrispondenti competenze degli Stati membri. In alcuni articoli esso enumera puntualmente le competenze dell’Unione, ripartendole in ciascuna di quelle categorie. Questa classificazione non aiuta sempre a comprendere le ragioni dell’attribuzione di tali competenze all’una o all’altra categoria. Né il compito è stato reso più facile dalla giurisprudenza di Lussemburgo, che sembra aver privilegiato una lettura meramente letterale degli articoli rilevanti del TFUE. Di fronte al dubbio se l’istituzione di un titolo europeo di proprietà intellettuale fosse o meno una competenza esclusiva dell’Unione, la Corte si è limitata ad osservare che l’art. 118 TFUE, che ne attribuisce la competenza all’Unione, collega tale istituzione a un più efficace funzionamento del mercato, per ricavarne il carattere concorrente di tale competenza sulla base della constatazione che il settore del mercato interno è, come si è visto, inserito dall’art. 4, par. 2, lett. a), TFUE, in questa categoria di competenze (16 aprile 2013, C-274/11 e C-295/11, Spagna e Italia c. Consiglio, punto 17). La difficoltà di comprendere appieno le ragioni della classificazione data dal TFUE a ciascuna delle specifiche competenze dell’Unione è particolarmente acuta per quanto riguarda i settori in cui l’Unione esercita competenze esclusive. Non è
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facile, infatti, rintracciare nell’elenco di tali settori, contenuto nell’art. 3 TFUE, un elemento a loro comune tale da differenziare gli stessi da tutti gli altri settori in cui l’Unione esercita una sua competenza. Un elemento del genere dovrebbe ragionevolmente indicarsi nella circostanza che si tratti di settori nei quali una gestione da parte delle sole istituzioni appaia intrinsecamente connaturata agli obiettivi da perseguire, al punto che un’azione autonoma degli Stati membri comprometterebbe di per sé la realizzazione di quegli obiettivi. Ma in realtà a una situazione di questo tipo sembrano corrispondere pienamente solo alcuni dei settori elencati all’art. 3 TFUE. Lo è certamente la politica monetaria nei confronti degli Stati membri che abbiano adottato l’euro: poiché al centro di essa vi è ormai la moneta unica, il permanere di una competenza degli Stati membri al riguardo sarebbe di per sé in contraddizione con l’esistenza di questa e priverebbe di efficacia la gestione della moneta cui sono tenute le istituzioni dell’Unione. E altrettanto sembra possibile dire per l’unione doganale, dato che dopo l’instaurazione della tariffa doganale comune l’adozione dei provvedimenti necessari alla sua gestione (concessione di contingenti tariffari, modifiche autonome di diritti, concessione di franchigie doganali, ecc.) non possono più essere che il frutto di decisioni delle istituzioni dell’Unione. Non è di immediata evidenza, invece, che ciò corrisponda anche alla situazione di settori quali la definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, la conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca, e la politica commerciale comune, ugualmente considerati dall’art. 3 TFUE come settori di competenza esclusiva dell’Unione. Almeno per gli ultimi due, in realtà, questo articolo non fa che confermare un carattere di esclusività che era già stato affermato dalla Corte di giustizia sotto l’impero dei precedenti Trattati. Ma anche gli argomenti da essa addotti a giustificazione di tale carattere non sembrano evidenziare un’effettiva specificità di questi settori rispetto ad altri in cui la competenza delle istituzioni non riveste invece lo stesso carattere. Per quanto riguarda la politica commerciale comune, la Corte ha sostenuto che le disposizioni rilevanti dell’allora TCE mettevano in luce «l’impossibilità di una coesistenza di competenze parallele» dei singoli Stati membri, perché «riconoscere tale competenza significherebbe ammettere che gli Stati membri possono assumere, nei rapporti con i paesi terzi, atteggiamenti divergenti dall’orientamento generale della Comunità, quindi ne resterebbe falsato il gioco istituzionale, ne risulterebbe scossa la buona fede nell’ambito della Comunità, che non sarebbe più in grado di assolvere il proprio compito che è soprattutto la tutela dell’interesse comune» (parere 1/75, cit., 1363-1364). Nel caso poi della conservazione delle risorse biologiche marine, la Corte si è limitata ad osservare che, essendo dopo una certa data (il 1° gennaio 1979) passata «pienamente e definitivamente» alla Comunità la competenza ad adottare provvedimenti diretti alla conservazione delle risorse ittiche, «gli Stati membri non hanno […] più il diritto di esercitare una competenza autonoma in materia di provvedimenti di conservazione, per quel che riguarda le acque che rientrano sotto la loro giurisdizione» (sentenza 5 maggio 1981, 804/79, Commissione c. Regno Unito, cit., punto 18).
Perplessità di altro tipo suscita poi l’ultima ipotesi rispetto alla quale l’art. 3 TFUE sancisce una competenza esclusiva dell’Unione: la «conclusione di accordi internazionali, allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell’Unione o è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata» (par. 2). Si tratta
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di un’ipotesi più volte enunciata dalla Corte di giustizia (si vedano, per tutti, parere 7 febbraio 2006, 1/03, I-1145, e sentenza 4 settembre 2014, C-114/12, Commissione c. Consiglio) e che analizzeremo nei dettagli più avanti (p. 823 ss.), ma che fin d’ora possiamo dire che è certamente eterogenea rispetto agli altri casi di competenza esclusiva elencati all’art. 3 TFUE, se non altro perché l’esclusività della competenza dell’Unione è evocata qui in relazione non a un ambito materiale di attività, ma rispetto a una modalità di esercizio della competenza, la conclusione di accordi con Stati terzi, che è da considerare esclusiva, ha detto la Corte, quando e nella misura in cui il contenuto dell’accordo sia già oggetto sul piano interno di norme delle istituzioni ovvero serva a porre, per il tramite dell’accordo, tali norme, per cui non può più riconoscersi agli Stati membri «il potere – né individualmente, né collettivamente – di contrarre con gli Stati terzi obbligazioni che incidano [o possano incidere] su dette norme» (parere 1/03, cit., punto 116). Peraltro lo stretto collegamento in questo caso esistente tra esclusività della competenza dell’Unione e contenuto delle norme esistenti o da porre sul piano interno, non solo evoca l’analogo rapporto che si è visto esistere tra competenze dell’Unione e degli Stati membri nei settori di competenza concorrente, ma rende anche meno assoluta la definitività del trasferimento di competenza che si è ugualmente visto caratterizzare, in linea di principio, le competenze esclusive dell’Unione. È da pensare, infatti, che laddove l’atto legislativo in cui è prevista la conclusione di un accordo con Stati terzi o le norme comuni su cui tale accordo può incidere venissero abrogati dalle competenti istituzioni dell’Unione, gli Stati membri riacquisterebbero la libertà di esercitare la loro competenza. Venendo invece alle competenze non esclusive, esse sono ripartite anche dal TFUE in due diverse categorie. Quelle c.d. parallele, perché, come si è detto, il loro esercizio da parte dell’Unione non preclude agli Stati membri di esercitare le loro, sono raggruppate per l’essenziale nell’art. 6 TFUE, il quale elenca i settori in cui l’Unione ha appunto una «competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri». Ma pur se non elencate in questo articolo, alla stessa categoria possono essere in realtà ugualmente ascritte sia le competenze di coordinamento degli Stati membri in materia di politiche economiche, occupazionali e sociali, che quelle, già in precedenza ricordate, che l’Unione può esercitare nei settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio, e della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario. Benché alle prime sia dedicato uno specifico articolo (art. 5 TFUE), e le seconde siano inserite nell’articolo riguardante principalmente le competenze c.d. concorrenti (parr. 3 e 4 dell’art. 4 TFUE), la loro portata si prospetta, soprattutto sotto il profilo del rapporto con le competenze statali, in modo analogo a quello che caratterizza le competenze esercitabili nei settori elencati nell’art. 6 TFUE: nel quadro delle prime, come delle seconde, infatti, le azioni svolte dall’Unione hanno un carattere di mero coordinamento ovvero si completano e rafforzano reciprocamente con quelle degli Stati membri, senza che gli atti adottati dalle istituzioni possano comportare un’armonizzazione delle disposizioni legislative o regolamentari nazionali, o che la competenza dell’Unione si sostituisca alle competenze degli Stati nei corrispondenti settori.
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I settori di attività dell’Unione elencati dall’art. 6 TFUE sono quelli relativi a tutela e miglioramento della salute umana, industria, cultura, turismo, istruzione, formazione professionale, gioventù e sport, protezione civile e cooperazione amministrativa. Per quanto riguarda la politica sociale, il TFUE (artt. 4, par. 2, lett. b, e 5, par. 3) prevede oltre che una competenza di coordinamento delle politiche in materia degli Stati membri, anche una competenza di carattere regolamentare, rientrante sotto questo profilo nella categoria delle competenze c.d. concorrenti. Per le competenze in materia di ricerca, sviluppo tecnologico e spazio, e di cooperazione allo sviluppo e aiuto umanitario, si vedano invece, rispettivamente, gli artt. 180 e 181 TFUE e gli artt. 208 e 214 dello stesso Trattato.
Tutte le restanti competenze dell’Unione rientrano nella categoria delle competenze concorrenti. Secondo l’art. 4, par. 1, TFUE, infatti, «l’Unione ha competenza concorrente con quella degli Stati membri quando i trattati le attribuiscono una competenza che non rientra nei settori di cui agli [artt. 3 e 6 TFUE]». E benché lo stesso art. 4 TFUE elenchi, al par. 2, i settori in cui l’Unione ha una competenza di questo tipo, per sua esplicita ammissione esso si limita ad enumerarne solo i «principali». Si tratta, come si ricorderà, dei settori relativi a: mercato interno, politica sociale, coesione economica, sociale e territoriale, agricoltura e pesca, ambiente, protezione dei consumatori, trasporti, reti transeuropee, energia, spazio di libertà, sicurezza e giustizia, problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica.
Dato che la competenza dell’Unione a «definire e attuare una politica estera e di sicurezza comune, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune» è menzionata nell’art. 2, par 4, TFUE, si potrebbe pensare che anch’essa sia da ricondurre alla categoria residuale delle competenze concorrenti. E d’altra parte, non c’è dubbio che l’esercizio da parte degli Stati membri della loro competenza in materia deve conformarsi, in presenza di azioni o misure decise dalle istituzioni nel quadro della PESC, agli obblighi che da queste derivino. Per altri versi, tuttavia, alcune caratteristiche di questa competenza dell’Unione evocano piuttosto, come vedremo (p. 849 ss.), quelle proprie delle competenze che abbiamo definito parallele, visto che, come gli stessi Stati membri hanno tenuto a specificare in una dichiarazione allegata ai Trattati (Dichiarazione n. 13), le disposizioni sulla PESC contenute nel TUE lasciano «impregiudicate […] le competenze degli Stati membri […] per la formulazione e la conduzione della loro politica estera».
5. I principi di sussidiarietà e di proporzionalità L’espansione data, nelle successive modifiche dei Trattati, al quadro delle competenze dell’Unione ha avuto come contrappeso la sottoposizione dell’esercizio della gran parte di queste a due principi che fanno parte dei principi generali del diritto dell’Unione (così, per tutte, Corte giust. 12 maggio 2011, C-176/09, Lussemburgo c. Parlamento e Consiglio, punto 61), ma che sono anche disciplinati a livello dei Trattati: il principio di sussidiarietà e il principio di proporzionalità.
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Il primo di questi ha assunto portata generale con il Trattato di Maastricht. Già prima del Trattato di Lisbona, l’art. 2, ultimo comma, del vecchio TUE stabiliva, infatti, che gli «obiettivi dell’Unione saranno perseguiti […] nel rispetto del principio di sussidiarietà definito [all’art. 5 TCE]»; e quest’ultimo articolo definiva il principio, prevedendo che «la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario». In realtà, il principio di sussidiarietà aveva trovato spazio nei Trattati anche prima del Trattato di Maastricht, ma con riferimento alla sola competenza comunitaria in materia di ambiente. Il precedente testo dell’art. 130 R, par. 4, TCEE (poi art. 174 TCE, ora art. 191 TFUE) stabiliva infatti che «la Comunità agisce in materia ambientale nella misura in cui gli obiettivi di cui al [par. 1] possono essere meglio realizzati a livello comunitario piuttosto che a livello dei singoli Stati membri».
La disposizione citata dell’art. 5 TCE è confluita oggi nell’art. 5, par. 3, del nuovo TUE, subendo solo lievi adattamenti rispetto alla versione originaria. La variazione più rilevante attiene alla precisazione di verificare che «né a livello centrale né a livello regionale o locale» un’azione degli Stati possa consentire di raggiungere gli obiettivi dell’azione prevista in maniera sufficiente. In realtà, con tale precisazione è stato solo esplicitato direttamente all’interno del Trattato ciò che era già implicitamente ricordato dal precedente Protocollo (n. 30) del 1997 sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, allegato ai precedenti Trattati, là dove esso poneva, come condizione dell’intervento dell’Unione, l’insufficienza dell’azione degli Stati membri «nel quadro dei loro sistemi costituzionali nazionali» (punto 5), riferimento, quest’ultimo, evidentemente diretto a tener conto dei diversi livelli di competenza previsti all’interno di questi sistemi.
Al pari di quanto previsto anche dai precedenti Trattati, il nuovo articolo limita l’applicazione del principio di sussidiarietà ai settori che non rilevano della competenza esclusiva dell’Unione. La precisazione potrebbe considerarsi superflua, perché, come emerge dalla sua stessa formulazione, il principio costituisce un criterio di ripartizione in concreto dell’esercizio di una competenza condivisa. E del resto il par. 1 dell’art. 5 TUE, mentre ricorda che la delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione, precisa che è «l’esercizio» di queste competenze che si fonda sul principio di sussidiarietà. L’applicazione di questo principio non rimette quindi in questione la titolarità delle competenze conferite alle istituzioni dai Trattati, nel senso che l’eventuale decisione di non procedere all’adozione di un atto dell’Unione in ragione del principio di sussidiarietà, non fa venir meno né preclude il successivo esercizio della sua competenza da parte dell’Unione, laddove delle mutate circostanze lo giustifichino alla luce di quello stesso principio. La sussidiarietà va, infatti, considerata un concetto dinamico. Oltre ad essere consacrato nei Trattati, il principio in questione è oggetto di trattazione specifica, in particolare per quanto attiene alle procedure per verificare il ricorrere dei presupposti per il suo operare in rapporto a una determinata azione delle
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istituzioni, all’interno del Protocollo (n. 2) sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, che, approvato con il Trattato di Lisbona, ha sostituito un precedente Protocollo sullo stesso oggetto. Esso è richiamato formalmente nello stesso art. 5, par. 3, TUE, che prevede che «le istituzioni dell’Unione applicano il principio di sussidiarietà conformemente al Protocollo» in questione. Riprendendo quanto previsto nel precedente Protocollo, anche quest’ultimo richiede innanzitutto che, prima della formulazione di una proposta di atto dell’Unione, vi sia una sua valutazione specifica alla luce del principio di sussidiarietà. In particolare, ogni progetto di atto deve essere motivato sotto questo profilo e dovrebbe essere accompagnato da una scheda dettagliata che fornisca tutti gli elementi che consentono di valutare se il progetto rispetta quel principio (art. 5). Alla Commissione europea, che come abbiamo visto è l’istituzione cui spetta in linea di principio il potere di proporre l’adozione degli atti dell’Unione, viene anzi richiesto di effettuare, prima di assumere un’iniziativa in tal senso, ampie consultazioni sul rapporto tra la proposta che intende presentare e il principio di sussidiarietà (art. 2). Una parte fondamentale dell’analisi d’impatto che la Commissione effettua delle sue proposte sotto il profilo della sussidiarietà consiste nel valutare la “pertinenza a livello dell’Unione” dell’iniziativa in esame. Le questioni fondamentali considerate sono: la portata geografica, il numero di soggetti interessati, il numero di Stati membri interessati e le principali ripercussioni economiche, ambientali e sociali. Inoltre, l’analisi stabilisce in termini qualitativi, e per quanto possibile in termini quantitativi, l’eventuale presenza di un importante problema transfrontaliero; essa include altresì, ovviamente, la valutazione dei vantaggi e degli svantaggi dell’azione dell’Unione rispetto all’azione degli Stati membri (si veda al riguardo la Relazione annuale per il 2016 della Commissione in materia di sussidiarietà e proporzionalità, COM(2017) 600, p. 3).
Una prima novità introdotta dal nuovo Protocollo risiede però nel fatto che il suo ambito di applicazione è limitato ai soli progetti di atti legislativi, gli atti adottati cioè, come si è visto, conformemente ad una procedura legislativa. Ciò non significa che l’esercizio delle competenze dell’Unione attraverso atti diversi da quelli legislativi non debba rispettare il principio di sussidiarietà (e infatti la Commissione effettua un’analisi in proposito anche delle sue proposte riguardanti questi), ma che unicamente quelli che presentano tale carattere sono soggetti alla specifica procedura di controllo sul rispetto del principio prevista dal Protocollo. Una seconda e più consistente novità risiede, infatti, proprio nella procedura di controllo istituita dal nuovo Protocollo, procedura che coinvolge formalmente i parlamenti degli Stati membri. Tanto i progetti di atti legislativi dell’Unione che le deliberazioni preparatorie assunte nel corso dell’iter decisionale che porta all’adozione di tali atti dovranno, infatti, essere trasmessi ai parlamenti nazionali. Ciascun parlamento, o anche una sua singola camera in caso di parlamento bicamerale, potrà eccepire la contrarietà del progetto al principio di sussidiarietà entro un termine di otto settimane dalla trasmissione del progetto, formulando un parere motivato (art. 6). Secondo l’art. 6, comma 1, del (nuovo) Protocollo, spetta poi «a ciascun parlamento nazionale o a ciascuna camera dei parlamenti nazionali consultare all’occorrenza i parlamenti regionali con poteri legislativi». Per quanto riguarda le modalità di partecipazione del Parla-
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mento italiano alla procedura di controllo sul rispetto del principio di sussidiarietà, si veda infra, p. 930.
Sulla premessa che ciascun parere motivato corrisponde a un voto se formulato da una singola camera e a due voti se espresso dal parlamento in quanto tale, l’art. 7, par. 2, del Protocollo, prevede che l’autore del progetto legislativo dovrà riesaminarlo, al fine di decidere se mantenerlo ovvero se modificarlo o ritirarlo, quando i pareri motivati corrispondano a un terzo dei voti complessivi esprimibili, o a un quarto se il progetto di atto riguarda la cooperazione giudiziaria in materia penale o la cooperazione di polizia (c.d. «cartellino giallo»). Se si è però nel quadro della procedura legislativa ordinaria e la Commissione decide di mantenere la proposta nonostante che i pareri motivati espressi dai parlamenti nazionali corrispondano alla maggioranza semplice dei voti complessivi, il Consiglio (con il voto favorevole del 55% dei suoi membri) o il Parlamento europeo (a maggioranza dei voti espressi) possono bloccare definitivamente la proposta, in base all’art. 7, par. 3, del Protocollo (c.d. «cartellino arancione»). Da quando è entrato in vigore il Protocollo i parlamenti nazionali hanno fatto un uso numericamente significativo dello strumento del parere motivato. Come risulta dalla Relazione che presenta ogni anno in materia di sussidiarietà e proporzionalità, fino a tutto il 2016 la Commissione ha infatti ricevuto ben 352 pareri motivati, riguardanti 141 sue proposte. La ripartizione per anno è in realtà oscillante, dato che nel 2014 e nel 2015, in coincidenza cioè con l’avvio del mandato dell’attuale Commissione Junker e l’inevitabile riduzione della sua attività di proposta, i pareri motivati sono stati solo, rispettivamente, 21 e 8 e hanno riguardato 15 proposte nel 2014 e 3 proposte nel 2015; nel 2016, però, i numeri sono tornati sulla media che aveva contraddistinto i primi anni di applicazione del nuovo sistema di controllo della sussidiarietà: 65 pareri motivati per 24 proposte. Solo tre volte, invece, il numero di pareri motivati ricevuti da una singola proposta ha fatto scattare uno dei meccanismi previsti dal Protocollo, e nella specie il cartellino giallo. Il primo caso si è verificato nel 2012 per la proposta di regolamento del Consiglio sull’esercizio del diritto di promuovere azioni collettive nel quadro della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi (c.d. Monti II: COM(2012) 130), proposta basata peraltro sull’art. 352 TFUE: pur confermando il pieno rispetto del principio di sussidiarietà, la Commissione ha comunque deciso di ritirare la proposta per motivi più ampi di politica negoziale (cfr. in proposito la Relazione annuale della Commissione in materia di sussidiarietà e proporzionalità per il 2012, COM(2013) 566, p. 8 ss.). Il secondo caso è invece del 2013 e ha riguardato la più volte citata proposta di regolamento per l’istituzione di una Procura europea (COM(2013) 534): qui la Commissione ha confermato la proposta senza cambiamenti (si veda la sua risposta in COM(2013) 851). E altrettanto essa ha fatto (COM(2016) 505) nel terzo caso, del 2016, per la proposta di direttiva sul distacco dei lavoratori (COM(2016) 128). Quest’ultima proposta, peraltro, è quella che ha ricevuto il numero più alto di voti contrari: 22 voti su 56, provenienti da 11 Stati membri.
Il principio di sussidiarietà è formalmente «giustiziabile», nel senso che atti dell’Unione possono essere impugnati dinanzi alla Corte di giustizia non solo per violazione degli obblighi procedurali previsti dal Protocollo (n. 2) (quando si tratti di un atto legislativo), ma anche sotto il profilo del rispetto del principio in quanto tale. Del resto lo stesso Protocollo prevede esplicitamente che la Corte è competente a pronunciarsi sui ricorsi per annullamento di atti dell’Unione per violazione del principio di sussidiarietà. Esso lo fa peraltro per estendere la legittimazione attiva al riguardo – seppur limitatamente ancora una volta ai soli atti legislativi – a casi ulteriori
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rispetto a quelli previsti dalle regole ordinarie dei Trattati. Secondo l’art. 8 del Protocollo, infatti, ricorsi di questo genere possono essere introdotti sia da uno Stato membro a nome del suo parlamento nazionale o di un ramo di questo, sia dal Comitato delle regioni avverso atti legislativi per l’adozione dei quali il TFUE richieda la sua consultazione. Dal canto suo, la stessa Corte lo ha confermato, distinguendo tra il controllo ex ante che «è esercitato, [...] a livello politico, da parte dei parlamenti nazionali secondo le procedure stabilite a tal fine dal protocollo n. 2» e il controllo giudiziario ex post con il quale la Corte «deve verificare tanto il rispetto delle condizioni sostanziali enunciate all’articolo 5, paragrafo 3, TUE, quanto il rispetto delle garanzie procedurali previste dal protocollo medesimo» (4 maggio 2016, C-358/14, Polonia c. Parlamento e Consiglio, punto 112 s.). Va da sé, però, che accertare se un’azione delle istituzioni risponda effettivamente o meno alle condizioni poste dal principio di sussidiarietà sembra richiedere valutazioni di ordine più politico ed economico, che giuridico. Inoltre, dal momento che ai sensi del citato Protocollo la sussistenza delle condizioni richieste, o di eventuali dubbi su di esse, finisce inevitabilmente per essere oggetto di apprezzamento da parte di tutte le istituzioni responsabili dell’adozione dell’atto, è evidente che lo spazio per una valutazione della Corte diversa da quella su cui hanno convenuto gli organi politici (e quanto meno un’ampia maggioranza degli Stati) appare assai ridotto. Ciò spiega perché inizialmente, nell’esaminare atti comunitari alla luce del principio di sussidiarietà, la Corte si sia per lo più limitata a verificare gli stessi sotto il profilo della formale congruità della motivazione (13 maggio 1997, C-233/94, Germania c. Parlamento e Consiglio, I-2405, punto 28). A questo proposito la Corte valuta il rispetto dell’obbligo di motivazione in punto di sussidiarietà di un atto «alla luce non solo del tenore dell’atto impugnato, ma anche del suo contesto e delle circostanze del caso di specie» (4 maggio 2016, C-358/14, Polonia c. Parlamento e Consiglio, cit., punto 122). In particolare, in tale sentenza essa ha ritenuto che la proposta della Commissione e la sua valutazione d’impatto contenessero «un sufficiente numero di elementi tali da far emergere in modo chiaro e non equivoco i vantaggi connessi ad un’azione intrapresa a livello dell’Unione, piuttosto che a livello degli Stati membri»; tale circostanza ha «permesso tanto al legislatore dell’Unione quanto ai parlamenti nazionali di valutare se detta proposta fosse conforme al principio di sussidiarietà, consentendo allo stesso tempo ai singoli di prendere conoscenza dei motivi relativi a tale principio e alla Corte di esercitare il suo controllo» (ivi, punto 123 ss.).
In alcuni casi più recenti, però, la Corte ha proceduto anche a una valutazione di merito più approfondita sulla rispondenza di un dato atto a questo principio, anche se tale valutazione è stata svolta a partire essenzialmente dagli argomenti su cui si è basata, rispetto al tema della sussidiarietà, la scelta operata nel caso concreto dal legislatore comunitario e ha comunque portato la Corte a confermare quella scelta. Si veda in questo senso la sentenza 9 ottobre 2001, C-377/98, Paesi Bassi c. Parlamento e Consiglio, I-7079, punti 32-33: «[l]’obiettivo perseguito dalla direttiva, consistente nel garantire il buon funzionamento del mercato interno evitando, o meglio eliminando, talune divergenze tra le legislazioni e le prassi dei diversi Stati membri nell’ambito della protezione delle invenzioni biotecnologiche, non sarebbe stato raggiungibile con un’azione avviata a livello dei soli Stati membri. Poiché la portata di questa protezione ha effetti immediati sul commercio e, di conseguenza, sul
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commercio intracomunitario, è peraltro lampante che l’obiettivo di cui trattasi, viste le dimensioni e gli effetti dell’azione progettata, poteva essere realizzato meglio a livello comunitario. Per quanto concerne la giustificazione dell’osservanza della sussidiarietà, essa è implicitamente ma incontestabilmente fornita nei considerando quinto, sesto e settimo della direttiva, i quali rilevano che, in mancanza di un intervento comunitario, lo sviluppo delle legislazioni e delle prassi nazionali osta al buon funzionamento del mercato interno. La direttiva appare pertanto sufficientemente motivata su tale punto» (punti 32-33). Così anche Corte giust. 10 dicembre 2002, C-491/01, British American Tobacco (Investments) e Imperial Tobacco, I-11453, punto 122 s. Più recentemente, poi, e con maggiori approfondimenti di merito circa la sussidiarietà degli atti esaminati, cfr. Corte giust. 8 giugno 2010 C-58/08, Vodafone e a., I-4999; e 12 maggio 2011, C-176/09, Lussemburgo c. Parlamento e Consiglio, cit.; e, soprattutto, 4 maggio 2016, C-358/14, Polonia c. Parlamento e Consiglio, cit. In quest’ultima sentenza (e in altre due dello stesso giorno: C-477/14, Pillbox, e C547/14, Philip Morris, tutte riguardanti la direttiva 2014/40/UE del Parlamento e del Consiglio, del 3 aprile 2014, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, alla presentazione e alla vendita dei prodotti del tabacco, GUUE L 127, 1), la Corte ha fatto leva sul fatto che la direttiva perseguiva un duplice obiettivo: «favorire il buon funzionamento del mercato interno [...], assicurando al contempo un livello elevato di tutela della salute umana, in particolare per i giovani»: anche ammettendo che il secondo obiettivo potesse essere meglio conseguito a livello degli Stati membri, i«l perseguimento di detto obiettivo ad un simile livello potrebbe consolidare, se non generare, situazioni in cui taluni Stati membri autorizzerebbero l’immissione in commercio di prodotti del tabacco contenenti certi aromi caratterizzanti, mentre altri la vieterebbero, determinando così effetti esattamente opposti rispetto all’obiettivo primario della direttiva stessa, ossia il miglioramento del funzionamento del mercato interno dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati». A parere della Corte, perciò, [«d]all’interdipendenza dei due obiettivi [...] risulta che il legislatore dell’Unione poteva legittimamente ritenere che la sua azione dovesse implicare l’introduzione di un regime di immissione sul mercato dell’Unione di prodotti del tabacco contenenti un aroma caratterizzante e che, in ragione di tale interdipendenza, questo doppio obiettivo potesse essere meglio realizzato a livello dell’Unione» (punto 114 ss.).
Non delinea invece un criterio di ripartizione dell’esercizio di una competenza, bensì una modalità di tale esercizio, il par. 4 dell’art. 5 TUE, quando stabilisce che «[i]n virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati». Il principio di proporzionalità, così formalizzato, condiziona, da un lato, la scelta del tipo di atto (atto vincolante o non vincolante, regolamento o direttiva, o altro) attraverso il quale una certa competenza può essere esercitata, là dove, ovviamente, i Trattati lascino un’alternativa all’istituzione competente; dall’altro lato, esso pone l’esigenza «che gli strumenti predisposti dalla norma comunitaria [ora dell’Unione] siano idonei a realizzare lo scopo perseguito e non vadano oltre quanto è necessario per raggiungerlo». Si veda Corte giust. 10 dicembre 2002, C-491/01, British American Tobacco (Investments) e Imperial Tobacco, I-11453, punto 122). Così anche, in passato, Corte giust. 18 novembre 1987, 137/85, Maizena e a., 4587, punto 15; e 12 novembre 1996, C-84/94, Regno Unito c. Consiglio, I5755, punto 57. Più recentemente, invece, cfr. sentenza 12 luglio 2002, C-210/00, Käserei Ghampignon Hofmeister, I-6453, punto 59. Quanto al punto dell’uso dello strumento meno incisivo, il punto 6 del precedente Protocollo (n. 30) sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità stabiliva che a «parità di altre condizioni, le direttive dovrebbero essere preferite ai regolamenti, e le direttive quadro a misure dettagliate».
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In quanto tale il principio di proporzionalità opera tanto rispetto alle competenze concorrenti che nei confronti di quelle esclusive. Ma, al pari del principio di sussidiarietà, esso implica un ampio potere discrezionale del legislatore, il quale può essere chiamato a operare le sue scelte sulla base di valutazioni complesse di natura politica, economica e sociale. Ciò ha fatto escludere alla Corte la possibilità di «sostituire la propria valutazione a quella del legislatore [europeo]. Essa potrebbe tutt’al più censurare le scelte normative di quest’ultimo soltanto nel caso in cui tali scelte apparissero manifestamente erronee, o se gli inconvenienti che ne derivano per alcuni operatori economici fossero sproporzionati rispetto ai vantaggi che esse per altro verso presentano». Così Corte giust. 13 maggio 1997, C-233/94, Germania c. Parlamento e Consiglio, cit., punto 56; nonché sentenze 10 dicembre 2002, C-491/01, British American Tobacco (Investments) Ltd. e Imperial Tobacco Ltd., cit. («solo la manifesta inidoneità di una misura adottata in tale ambito, in relazione allo scopo che l’istituzione competente intende perseguire, può inficiare la legittimità di tale misura» per violazione del principio di proporzionalità, punto 123); e 5 maggio 1998, C157/96, National Farmers’Union e a., I-2211.
In realtà, proprio a partire da questi ultimi due criteri, anche qui la Corte ha proceduto in alcune recenti sentenze a una valutazione di merito sul rispetto o meno del principio di proporzionalità da parte di provvedimenti delle istituzioni, ad esempio esprimendosi sul fatto se una data direttiva in materia di aeroporti non ponesse procedure e oneri amministrativi eccessivi e sproporzionati rispetto alle dimensioni di aeroporti situati negli Stati membri ove nessun aeroporto raggiunge una certa soglia annuale di passeggeri (12 maggio 2011, C-176/09, Lussemburgo c. Parlamento e Consiglio, punto 65 ss.), o verificando accuratamente la coerenza e la ragionevolezza del ragionamento svolto dal legislatore nell’apprezzare la proporzionalità delle misure che andava a prendere (8 giugno 2010, C-58/08, Vodafone e a., I-4999, punto 55 ss.). La Corte di giustizia ha infine precisato un ultimo punto comune tanto al principio di proporzionalità, che a quello di sussidiarietà. Da un lato, infatti, essa ha sottolineato che quest’ultimo «non è inteso a limitare la competenza dell’Unione in funzione della situazione di questo o di quell’altro Stato membro individualmente considerato»; dall’altro, ha rilevato che la ricerca di un equilibrio tra i diversi interessi messi in gioco da una direttiva dell’Unione «non può essere considerata contraria al principio di proporzionalità» se non prende «in considerazione la situazione particolare di un solo Stato membro, ma quella dell’insieme degli Stati membri» (18 giugno 2015, C-508/13, Estonia c. Parlamento e Consiglio, rispettivamente punti 53 e 39).
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Parte Quarta
Le politiche dell’Unione
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Le politiche dell’Unione
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Introduzione
Introduzione È tempo ora di passare all’esame delle c.d. «politiche» dell’Unione, cioè della disciplina che i Trattati dettano per definire condizioni, modalità e limiti dell’azione dell’Unione nei singoli settori in cui essa è autorizzata ad esercitare le proprie competenze. Questo spiega anche l’uso spesso indifferenziato delle due espressioni, «politiche» e «competenze», dato che entrambe designano l’oggetto, i modi e il perimetro dell’azione dell’Unione, la seconda sottolineando però maggiormente, rispetto all’altra, l’aspetto organico e sistematico di tale azione. Ciascuna politica è oggetto di un apposito Titolo della Parte Terza del TFUE, relativa alle «Politiche e azioni interne dell’Unione» (artt. 26-197 TFUE), ma le prime due Parti di tale Trattato dettano alcune disposizioni di carattere orizzontale, valide per tutte le politiche («Disposizioni di applicazione generale»: artt. 7-17 TFUE). A parte infatti la definizione della natura delle varie competenze che vengono qui in rilievo, e di cui si è detto al Capitolo precedente, tali disposizioni enunciano alcuni principi e criteri che devono informare la realizzazione di quelle politiche e che qui di seguito evochiamo rapidamente, con riserva di ulteriori approfondimenti nelle specifiche sedi. Anzitutto, proprio in ragione della varietà ed eterogeneità delle politiche in questione, viene affermato un principio di coerenza tra le stesse, di cui l’Unione deve assicurare il rispetto avendo riguardo all’insieme dei suoi obiettivi (art. 7 TFUE). Si tratta per la verità, dato il suo contenuto, più di una direttiva politica che di un autentico obbligo, ma questo non impedisce che, all’occorrenza, si possano valutare alla luce di esso comportamenti palesemente contraddittori delle istituzioni dell’Unione, ed in modo particolare del Consiglio. Sebbene infatti la disposizione si imponga allo stesso modo a tutte le istituzioni, non può non rilevare ai presenti fini l’art. 16, par. 1, TUE, che affida al Consiglio, sotto il generale controllo del Parlamento europeo, «funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite nei Trattati». Il Trattato elenca poi una serie di principi cui le istituzioni devono attenersi nella realizzazione delle varie politiche: eliminare le ineguaglianze tra uomini e donne e promuoverne la parità di trattamento (art. 8 TFUE); favorire l’occupazione, garantire un’adeguata protezione sociale, lottare contro l’esclusione sociale e assicurare un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana (art. 9 TFUE); combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale (art. 10 TFUE); integrare le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di
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promuovere lo sviluppo sostenibile (art. 11 TFUE); prendere in considerazione le esigenze inerenti la protezione dei consumatori (art. 12 TFUE); tener pienamente conto, nelle politiche dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti, del mercato interno, della ricerca e sviluppo tecnologico e dello spazio, delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti, ma rispettando al tempo stesso le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale (art. 13 TFUE); assicurare, in considerazione dell’importanza dei servizi di interesse economico generale nell’ambito dei valori comuni dell’Unione, nonché del loro ruolo nella promozione della coesione sociale e territoriale, che tali servizi funzionino in base a principi e condizioni, in particolare economiche e finanziarie, che consentano loro di assolvere i propri compiti (art. 14 TFUE); garantire il rispetto del principio di trasparenza (art. 15 TFUE) e la protezione dei dati personali (art. 16 TFUE); rispettare lo status delle chiese e delle associazioni o comunità religiose, nonché delle organizzazioni filosofiche e non confessionali, quale è garantito dai diritti nazionali, così come mantenere con esse un dialogo aperto, trasparente e regolare (art. 17 TFUE). Un rilievo particolare ha poi l’enunciazione del divieto delle discriminazioni effettuate in base alla nazionalità (art. 18 TFUE), perché un simile divieto costituisce un principio fondamentale dell’Unione, informatore di tutte le sue politiche, anche se esso viene poi specificato, come vedremo, nelle singole politiche. Per quanto concerne invece le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale, che pure sono in principio vietate, spetta al legislatore dell’Unione prendere le misure opportune per combatterle, ma anche per promuovere azioni positive al riguardo (art. 19 TFUE). V. retro, p. 391. Un riferimento va fatto al divieto di discriminazioni fondate su sesso, razza, religione e convenzioni personali, origine etnica, disabilità, età e orientamento sessuale, già enunciato, in termini quasi identici, come aspetto orizzontale delle politiche dell’Unione (art. 10 TFUE), e poi ripreso come base giuridica dell’azione di quest’ultima in materia (art. 19 TFUE, nonché, in larga misura, dall’art. 21 Carta dei diritti fondamentali). Valgono in larga misura, in questa materia, le considerazioni svolte a proposito dell’art. 18. Vanno tuttavia segnalate, con riguardo alla discriminazione per motivi religiosi, le sentenze 14 marzo 2017, C-157/15, Achbita, e C-189/15, Bougnani (per quanto concerne l’uso del velo sui luoghi di lavoro); e la causa pendente C-426/16, Liga van Moskeën (in ordine alle modalità di abbattimento degli animali nelle festività religiose). Per le discriminazioni fondate sull’età, v. di recente, Corte giust. 9 settembre 2015, C20/13, Unland; 19 aprile 2016, C-441/14 Dansk Industri; 2 giugno 2016, C-122/15, C.
Di tutti questi aspetti ci siamo occupati nei rispettivi Capitoli della Parte III o ci occuperemo nei prossimi Capitoli di questa Parte. Qui vogliamo fare un rapido cenno ad alcuni obiettivi che non trovano la loro sedes materiae in quei Capitoli e rischierebbero quindi di essere trascurati. Ci riferiamo, in primo luogo, all’obiettivo della tutela del benessere degli animali quali esseri senzienti, nel rispetto delle disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale (art. 13 TFUE). Si tratta, secondo la Corte, di un obiettivo legittimo di interesse generale, che impone tuttavia di con-
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temperare esigenze non sempre facilmente conciliabili, specie a fronte di situazioni di forte radicamento locale o religioso: si pensi ad es., al Palio di Siena, alle corride in Spagna, all’abbattimento di animali secondo le tradizioni mussulmane o giudaiche, e così via. Alcuni significativi miglioramenti sono stati peraltro realizzati nel trattamento degli animali, eliminando o attenuando i regimi più severi. In materia, sono stati in effetti adottati vari atti: v. in particolare reg. (CE) n. 1/2005 del Consiglio, del 22 dicembre 2004, sulla protezione degli animali durante il trasporto e le operazioni correlate (GUCE L 3, 1); il reg. (CE) n. 1099/2009 del Consiglio del 24 settembre 2009, relativo alla protezione degli animali durante l’abbattimento (GUCE L 303, 1); dir. 2010/63/UE, del PE e del Consiglio del 22 settembre 2010, sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici (GUUE L 276, 33). In giurisprudenza, v., tra i casi più recenti, Corte giust. 17 gennaio 2008, cause C-37/06 e C58/06, Viamex Agrar Handel e ZVK, I-69; 19 giugno 2008, National Raad van Dierenkuwekers en Liefhebbers e Andibel, I-4475; 10 settembre 2009, C-100/08, Commissione c. Belgio, I-140; 14 giugno 2012, C-355/11, Brouwer; nonché la causa pendente C-426/16, Liga van Moskeën.
Altro aspetto importante è il principio della trasparenza dell’azione delle istituzioni e dell’accesso agli atti delle stesse, sancito dall’art. 15 TFUE (che riprende, con qualche modifica, il precedente art. 255 TCE). La norma impone anzitutto, ed in termini generali, a quelle istituzioni (come agli organi e organismi dell’Unione, inclusi la Corte di giustizia, la BCE e la BEI, allorché esercitano funzioni amministrative) di operare nel modo più trasparente possibile (par. 1), prevedendo anche l’obbligo del Parlamento europeo di riunirsi in seduta pubblica, così come deve fare il Consiglio quando delibera e vota un progetto di atto legislativo (par. 2), l’uno e l’altro dovendo assicurare la pubblicità dei documenti relativi alle procedure legislative (par. 3, ultimo comma). Ma soprattutto essa impone il diritto di accesso ai documenti degli organi dell’Unione, alle condizioni e nei limiti indicati nel par. 3 e dai regolamenti adottati da ciascuno di essi, in virtù della stessa disposizione. Sulla base di tale normativa derivata e della giurisprudenza della Corte, può dirsi, nell’ambito di un’interpretazione che resta comunque stretta dato il suo carattere derogatorio al principio generale, che sono esclusi dall’accesso i documenti la cui divulgazione arrechi pregiudizio alla tutela dell’interesse pubblico in ordine alla sicurezza pubblica, alla difesa, alle relazioni internazionali e alla politica finanziaria, economica e monetaria, o alla tutela della vita privata e dell’integrità degli individui. Sono inoltre previsti altri casi di rifiuto di accesso agli atti, ma solo ove non vi sia un interesse pubblico prevalente alla loro divulgazione: pregiudizio alla tutela degli interessi commerciali degli interessati; procedure giurisdizionali; documenti interni; consulenze legali; ecc. Negli altri casi, il rifiuto all’accesso costituisce l’oggetto di una presunzione di carattere generale, derogabile però in nome del prevalente interesse pubblico alla divulgazione di questi atti. Per i documenti di terzi in possesso dell’organo, classificati come segreti o confidenziali, la loro divulgazione è consentita solo con il consenso del terzo interessato. In ossequio all’art. 15, è stato adottato per le tre istituzioni politiche il reg. (CE) n. 1049/2001, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 maggio 2001, relativo all’accesso del pubblico ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione (GUCE L 145, 43), sul quale v, nella sempre più ricca giurisprudenza, Corte giust. 1 febbraio 2007, C-266/05 P, Sison c.
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Consiglio, I-1233; 18 dicembre 2007, C-64/05 P, Svezia c. Commissione, I-802; 1 luglio 2008, C39/05 P e C-52/05 P, Svezia e Turco c. Consiglio, I-4723; 29 giugno 2010, C-139/07 P, Commissione c. Technische Glaswerke Ilmenau, I-5885; 21 settembre 2010, C-514/07 P, C-528/07 P e C552/07 P, Svezia e a. c. API e Commissione, I-8533; 21 luglio 2011, C-506/08 P, Svezia c My Travel e Commissione; 21 giugno 2012, C-135/11 P, IFAW; 28 giugno 2012, C-404/10 P, Editions Odile Jacob, e C-477/10 P, Commissione c. Agrofert; 16 luglio 2015, C-612/13 P, ClientEarth; 23 novembre 2016, C-673/13 P, Commissione c. Stichting Greenpace; 11 maggio 2017, C-562/14 P, Regno di Svezia c. Commissione; 13 luglio 2017, C-60/158 P, Saint Gobain; 18 luglio 2017, C-213/15 P, Patrick Breyer; nonché la causa pendente C-57/16 P, ClientEarth c. Commissione.
Particolare rilievo assume anche l’obiettivo della protezione dei dati personali, enunciato dall’art. 16 TFUE, che attribuisce al legislatore dell’Unione la competenza ad adottare le norme relative a tale protezione da parte degli organi dell’Unione, ma anche da parte degli Stati membri quando svolgono attività che rientrano nel campo di applicazione del diritto dell’Unione, prevedendo all’uopo anche l’istituzione di autorità indipendenti. Grazie all’introduzione da parte del Tr. Lisbona di questa specifica ed unica base giuridica, l’Unione deve assicurare l’applicazione del diritto fondamentale alla protezione dei dati, sancito anche dalla Carta dei diritti fondamentali (artt. 7 e 8) in tutte le sue politiche, incluso il contrasto e la prevenzione della criminalità e nelle relazioni internazionali, ma con esclusione dei dati relativi alla politica estera e di sicurezza comune, per il quale rileva l’art. 39 TUE (che riserva al solo Consiglio l’adozione degli atti di cui subito diremo). A tal fine, lo stesso art. 16 conferisce al legislatore dell’Unione la competenza ad adottare appositi atti; ma intanto vigono (fino al 2018) misure adottate sulla base della precedente disciplina. Tra queste, va anzitutto segnalata, come atto adottato nell’ambito dell’ex primo pilastro, la dir. 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 24 ottobre 1995, sulla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (GUCE L 281, 31), che costituisce l’atto legislativo fondamentale in materia, stabilendo condizioni generali di liceità del trattamento di dati personali e i diritti dei soggetti interessati, e prevedendo al contempo autorità di controllo indipendenti nazionali. A norma di tale direttiva, una persona deve dare il proprio consenso esplicito ed essere informata prima che i suoi dati personali siano trattati. Tale direttiva è stata poi sostituita dal regolamento generale sulla protezione dei dati (reg. 2016/679/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la dir. 95/46/CE (GUUE L 119, 1). Ma vanno altresì segnalate la dir. 2002/58/CE del PE e del Consiglio, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche (GUCE L 201, 17), poi modificata; il reg. (CE) n. 45/2001 del PE e del Consiglio dell’8 dicembre 2000, sul trattamento dei dati personali da parte delle istituzioni e degli organismi comunitari, nonché la libera circolazione di tali dati (GUCE L 8, 1); la dir. 2006/24/CE sulla conservazione dei dati (dichiarata poi invalida dalla Corte di giustizia con sentenza 8 aprile 2014, C-293/12, Digital Rights Ireland, a causa delle gravi interferenze con la vita privata e la protezione dei dati personali); nonché, nell’ambito dell’ex terzo pilastro, la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio, del
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27 novembre 2008, sulla protezione dei dati personali trattati nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale (GUCE L 350, 60), che è stata sostituita, insieme alla dir. 2006/24, dalla dir. (UE) 2016/680 del PE e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati (GUUE L 119, 89). In materia, peraltro, merita di essere segnalata anche la proposta di regolamento del PE e del Consiglio concernente la tutela delle persone fisiche in relazione al trattamento dei dati personali da parte delle istituzioni, degli organi, degli uffici e delle agenzie dell’Unione, nonché la libera circolazione di tali dati, e che abroga il reg. (CE) n. 45/2001 e la dec. 1247/2002/CE, presentata dalla Commissione il 10 gennaio 2017 (COM/2017/08 final-2017/02 (COD).
Da notare, infine, che sulla base del reg. n. 45/2001, è stato istituito il Garante europeo per la protezione dei dati (EDPS), come autorità di controllo indipendente, il cui ruolo consiste nel garantire che le istituzioni e gli organi dell’UE adempiano ai loro obblighi in materia di protezione dei dati; esso è assistito dal Comitato europeo per la protezione dei dati (v. infra, p. 582). Nella più recente (e particolarmente severa) giurisprudenza della Corte, v. ancora Corte giust. 16 dicembre 2008, C-524/06, Huber, I-9705; C-73/07, Satakunnan Markkinaporssi and Stamedia, I-727; 7 maggio 2009, C-553/07, Rijkeboer, I-3889; 29 giugno 2010, C-28/08 P, Bavarian Lager, I6055; 9 dicembre 2010, C-92/09, Volker und Markus Schecke e Eifert, I-662; 24 novembre 2011, C-468/10 e 469/10, ASNEF e FECMD; 13 maggio 2014, C-131/12, Google Spain et Google; 17 luglio 2014, C-141/12 e C-372/12, YS e a.; 6 ottobre 2015, C-362/14, Schrems (relativa alla decisione che conclude un accordo con gli Stati Uniti sulla trasmissione dei dati, annullata dalla Corte); 19 ottobre 2016, C-582/14, Breyer; 21 dicembre 2016, C-203/15, Tele 2 Sverige, e C-698/15, Watson; parere 26 luglio 2017, 1/15, sull’Accordo tra il Canada e l’Unione sul trasferimento dei dati del codice di prenotazione (PNR); e la causa pendente C-210/16, Wirtschaftsacademie Schleswig Holstein. V. anche Corte giust. 9 marzo 2010, C-518/07, Commissione c. Germania; 16 ottobre 2012, C614/10, Commissione c. Austria; e 8 aprile 2014, Commissione c. Ungheria, per quanto concerne il rispetto dei requisiti d’indipendenza richiesti per il garante nazionale della protezione dei dati, la cui istituzione è per l’appunto richiesta dal diritto dell’Unione.
Significativo è poi l’obiettivo del rispetto dello status di cui godono negli Stati membri, in virtù del diritto nazionale, le chiese e le associazioni o comunità religiose, come le organizzazioni filosofiche e non confessionali, con le quali comunque, riconoscendone l’identità e il contributo specifico, l’Unione mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare (art. 17 TFUE). Si tratta di una norma che marca l’evoluzione dell’attenzione dell’Unione verso gli aspetti religiosi e filosofici, iniziata già negli anni ’80 e conclusasi con la riportata disposizione, dopo il fallito tentativo di inserire nel Preambolo della Costituzione europea un richiamo alle radici cristiane o all’eredità giudeo-cristiana o almeno al patrimonio religioso dell’Unione, sostituito da un generico richiamo alle eredità “culturali, religiose e umaniste” dell’Europa (Preambolo TUE, comma 2). La norma non garantisce nuovi diritti alle chiese e alle altre organizzazioni da essa menzionate, perché rinvia al loro regime nazionale, ma resta ugualmente significativa perché si integra e completa le altre disposizioni relative al
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rispetto delle scelte religiose o di convinzioni filosofiche sancite da altre disposizioni dei Trattati e della Carta (art. 19 TFUE, artt. 10, 21 e 22 della Carta). Essa sarà quindi ulteriormente evocata anche nelle rispettive sedi (p. 723). Tutto ciò precisato, possiamo ora passare all’esame delle principali politiche dell’Unione, non senza ancora avvertire, peraltro, che poiché la loro compiuta illustrazione richiederebbe una trattazione di ampiezza assolutamente incompatibile con le dimensioni del presente volume, di ciascuna saranno forniti solo gli elementi essenziali per una prima informazione e comprensione.
CAPITOLO I
Il mercato interno Sommario: 1. Premessa. La nozione di mercato interno. – 2. Le libertà fondamentali. In generale.
1. Premessa. La nozione di mercato interno La realizzazione di un «mercato comune europeo» ha rappresentato storicamente il primo e più qualificante obiettivo della CEE, al punto che per lungo tempo questa è stata spesso identificata, alternativamente, proprio con tale espressione. Il “mercato comune” costituiva in effetti il risvolto per così dire economico del grande disegno di pacificazione tra gli Stati fondatori, in quanto puntava anche (ed allora, anzi, soprattutto) sull’apertura dei rispettivi mercati interni e sull’auspicata conseguente integrazione economica per rimuovere una delle principali cause storiche dei conflitti nel Continente e promuovere al tempo stesso le condizioni ed un clima di cooperazione piuttosto che di rivalità. Oggi, vuoi perché è stato in larga misura realizzato, vuoi per la connotazione non più meramente mercantilistica della costruzione europea e l’emergere quindi di nuovi obiettivi di ancor più rilevante significato politico, il c.d. grande mercato non ha più quel rilievo preminente che ha avuto in passato; e tuttavia esso resta comunque una delle conquiste più qualificanti e soprattutto più concrete del processo d’integrazione, come in qualche modo testimonia il fatto stesso che, se non è più ai primi posti nelle enunciazioni dei preamboli e dei primi articoli dei Trattati, esso continua ad essere la prima delle «Politiche dell’Unione» disciplinate nella Parte Terza del TFUE, dedicata appunto a tali politiche. Ma cosa s’intende esattamente per «mercato interno»? Com’è noto, non era questa la dizione originaria utilizzata al riguardo dal TCEE (art. 8), il quale parlava invece di «mercato comune», intendendo con tale espressione la totale abolizione delle restrizioni alla libera circolazione dei quattro principali fattori produttivi: merci, persone, servizi e capitali. Anche allora, tuttavia, come intuì la Corte di giustizia, era implicito nella nozione l’idea che tale obiettivo mirasse ad «eliminare ogni intralcio per gli scambi intracomunitari al fine di fondere i mercati nazionali in un mercato unico il più possibile simile ad un vero e proprio mercato interno».
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Corsivo aggiunto. V. Corte giust. 5 maggio 1982, 15/81, Schul, 1409, punto 33. Ma soprattutto di mercato interno parlò significativamente il noto Libro Bianco della Commissione per il Consiglio europeo di Milano del 28-29 giugno 1985, su «Il completamento del mercato interno» (COM (85) 310 def.), che fu all’origine dell’AUE.
L’AUE del 1985 tradusse tale nozione sul piano normativo facendone oggetto di un nuovo articolo, l’art. 8A TCE. Com’è noto, tale articolo prevedeva altresì, in un primo paragrafo, che il mercato interno avrebbe dovuto essere instaurato progressivamente entro il 31 dicembre 1992, riprendendo lo scadenziario del Libro Bianco di cui si è detto alla nota precedente. In effetti, molte misure furono varate in quell’arco di tempo, ma è chiaro che una simile impresa richiedeva necessariamente ulteriori e continue realizzazioni. Nei testi successivi fu quindi eliminato ogni riferimento temporale.
La formula è poi rimasta invariata nelle versioni successive dei Trattati, sicché oggi può leggersi nell’art. 26 TFUE che l’Unione «adotta le misure destinate all’instaurazione o al funzionamento del mercato interno, conformemente alle disposizioni pertinenti dei Trattati» (par. 1), e che tale mercato comporta «uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali secondo le disposizioni dei Trattati» (par. 2). Va tuttavia notato che anche se la nuova nozione si è ormai pienamente affermata (e anzi sono stati via via anche rimossi i riferimenti all’espressione «mercato comune» che erano ancora sparsi in varie disposizioni di dettaglio), il senso e la portata della modifica sono stati a lungo controversi. Si ritiene comunque che essa sia legata soprattutto alla sostituzione dell’idea di «mercato» con quella di «spazio», con la quale s’intendeva per l’appunto sollevare la nozione dal mero dato mercantilistico e sgombrare la via, dopo una lunga fase di stallo, a quegli sviluppi anche qualitativi della costruzione comunitaria, che in effetti si aprirono proprio a partire dall’AUE e che si tradussero nell’ampliamento degli obiettivi dell’Unione a molti settori non economici, incluso in particolare, per quanto qui interessa, l’obiettivo di offrire ai suoi cittadini uno «spazio» di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne (v. art. 3, par. 2, TUE). Questo spiega anche il fatto che ormai quasi tutti i settori di competenza dell’Unione, di cui si dirà in seguito, si ricollegano in qualche modo alla realizzazione e al funzionamento del mercato interno: o perché sono a essa funzionali o perché ne sono una necessaria conseguenza o perché comunque ne arricchiscono la portata e le implicazioni. Ma volendo tenerci, ai fini dell’esposizione che segue, a una nozione più tecnica e tradizionale di mercato interno, va detto che la limitazione di essa alle quattro libertà classiche di cui si è detto, resterebbe una definizione troppo ristretta di quella nozione. In realtà, vuoi per le più ampie finalità che le sono sottese, vuoi per gli sviluppi successivi già evocati, a essa strettamente si ricollegano altre competenze che il TFUE qualifica ugualmente di «Politiche» dell’Unione e tratta in distinti Titoli. Esse riguardano segnatamente, a parte quelle che sono mere deroghe settoriali all’una o all’altra libertà (agricoltura e pesca, e trasporti): il completamento e il rafforzamento della libertà di circolazione (spazio di libertà, sicurezza e giustizia); la garanzia del rispetto della corretta concorrenza in quel mercato, come del divieto di
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discriminazioni fiscali; e infine l’esercizio dei poteri normativi necessari a rimuovere gli ostacoli alla piena realizzazione del mercato interno (ravvicinamento delle legislazioni). Conviene quindi avvertire che, seppure se ne farà una distinta disamina, tutti questi aspetti devono ritenersi direttamente funzionali alla realizzazione e al funzionamento del mercato interno e quindi a esso in vario modo riconducibili.
2. Le libertà fondamentali. In generale Come già accennato e come emerge dall’art. 26 TFUE, le quattro libertà di circolazione costituiscono il nucleo centrale del mercato interno, alla cui realizzazione concorrono in modo determinante. E lo fanno in un contesto normativo che, muovendo dalle medesime finalità e improntandosi a principi uniformi, provvede a regolare con tendenziale compiutezza, e soprattutto con significativa contestualità, dette «libertà», in modo da valorizzarne l’intimo e funzionale collegamento, dal momento che assume ad essenziale premessa l’idea che ciascuna di esse si rivelerebbe in pratica se non illusoria, ben poco efficace laddove non collegata alla realizzazione delle altre. E proprio questa comune finalità e la conseguente affinità di struttura fanno sì che, pur nella specificità di ciascuna, esse condividano alcune caratteristiche essenziali e che si produca spesso quel processo di osmosi di principi generali tra le une e le altre. Il primo aspetto da sottolineare a questo proposito è che, in conformità a quanto già notato, le suddette libertà costituiscono «libertà fondamentali» dell’Unione; alcune di esse sono anzi assurte addirittura al rango di «diritto fondamentale» e, come tali, inserite nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE (v., ad es., l’art. 15 della Carta). In quanto tutelano siffatte libertà, poi, le pertinenti disposizioni del Trattato vanno interpretate, secondo costante giurisprudenza della Corte di giustizia, in senso ampio, mentre all’opposto sono di stretta interpretazione le limitate eccezioni ammesse in materia. Di tali eccezioni si dirà più avanti. Qui conviene però ricordare che il TFUE impone alla Commissione di tener conto, ai fini della realizzazione del mercato interno, della situazione delle economie nazionali meno sviluppate, autorizzando all’occorrenza le necessarie deroghe, purché temporanee e limitate allo stretto indispensabile (art. 27 TFUE).
Nel merito, e per l’essenziale, la disciplina ad esse relativa si traduce soprattutto nell’imposizione agli Stati membri dell’obbligo di rimuovere qualsiasi forma di ostacolo, restrizione o discriminazione suscettibile di pregiudicare la piena realizzazione della rispettiva libertà e l’apertura delle frontiere nazionali ai fattori produttivi dei propri partners. Domina infatti in materia il principio c.d. del mutuo riconoscimento e della fiducia reciproca tra Stati le cui legislazioni e le cui prassi, in coerenza con la natura e le finalità dell’Unione, sempre più si ravvicinano, si armonizzano e si integrano. Va anche aggiunto che, sebbene indirizzati agli Stati, gli obblighi imposti dalle pertinenti disposizioni sono destinati a favorire i soggetti direttamente interessati da
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quelle libertà, i quali possono quindi, se ne ricorrono le condizioni, farle valere innanzi alle autorità amministrative e giudiziarie nazionali. La Corte di giustizia ha già da tempo sancito la «diretta applicabilità» delle principali disposizioni del Trattato rilevanti in materia, e quindi la loro idoneità a far sorgere diritti a favore dei privati. Va però messo in rilievo che le libertà in questione non hanno portata generale e assoluta. Ciò anzitutto perché, ripetiamo, alcune deroghe sono previste al riguardo dagli stessi Trattati o dai principi desunti in via giurisprudenziale dalla Corte di giustizia, e lo vedremo più avanti. Qui ci limitiamo a ricordare le deroghe generali previste dagli artt. 346-348 TFUE, in relazione a situazioni in cui interessi fondamentali degli Stati membri sono messi in causa (tutela degli interessi essenziali della loro sicurezza, ipotesi di gravi agitazioni interne, di guerra o di minacce di guerra, o di misure di attuazione di impegni internazionali assunti per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale). Secondo tali disposizioni, che, come tutte quelle derogatorie, sono di stretta interpretazione, gli Stati membri sono autorizzati ad adottare le indispensabili misure, ma devono consultarsi con la Commissione per attenuare gli effetti negativi di tali misure sul mercato interno. Inoltre, ove essi facessero un uso abusivo della deroga, la Commissione o qualsiasi altro Stato membro potrebbero rivolgersi direttamente alla Corte di giustizia senza passare per la consueta procedura precontenziosa prevista per i ricorsi per inadempimento (v., nella giurisprudenza più recente, sentenze 15 dicembre 2009, C-284/05, Commissione c. Finlandia; 778; 7 giugno 2012, C-615/10, Insinooritoimisto InsTiimi; 4 settembre 2014, C-474/12, Schiebel Aircraft; 6 ottobre 2016, C-318/15, Tecnoedi Costruzioni; e la causa pendente, C-187/16, Commissione c. Austria).
Ma soprattutto, perché dette libertà si affermano in principio con riferimento alle sole situazioni c.d. «transfrontaliere» o «transnazionali», alle sole situazioni cioè che, per uno qualsiasi dei loro elementi (cittadinanza o residenza dei soggetti interessati, luogo di prestazione di un’attività o di situazione di un bene, previo esercizio di una delle libertà in causa, e così via), trascendono i confini di un singolo Stato. Al di fuori di questi casi, le disposizioni liberalizzatrici del Trattato non possono essere invocate dagli interessati e restano invece di applicazione le normative nazionali. Ciò col risultato che il diritto dell’Unione potrà essere chiamato in causa per le situazioni che per l’appunto presentano elementi di estraneità, ma non per quelle, pur simili o addirittura identiche, che si risolvono interamente all’interno di un solo Stato (c.d. «situazioni puramente interne»). Da qui, il noto fenomeno delle c.d. «discriminazioni a rovescio», rispetto alle quali tuttavia sia la giurisprudenza della Corte, sia la stessa normativa nazionale cercano sempre più spesso di porre rimedio, imponendo di far beneficiare i cittadini dello Stato degli stessi diritti di cui, in una situazione comparabile, godrebbero i cittadini di un altro Stato membro in virtù del diritto dell’Unione (v. retro, p. 368 ss.).
CAPITOLO II
La libera circolazione delle merci Sommario: 1. Profili generali. – 2. L’abolizione dei dazi doganali e delle tasse di effetto equivalente. – 3. Segue: La tariffa doganale comune e il codice doganale comunitario. – 4. Segue: L’obbligazione doganale e la ripetizione dell’indebito. – 5. Segue: La cooperazione doganale in seno all’Unione. – 6. Il divieto di restrizioni quantitative e di misure di effetto equivalente. – 7. Segue: Le restrizioni alle esportazioni. – 8. Segue: Le deroghe al divieto. – 9. I monopoli commerciali.
1. Profili generali La libertà di circolazione delle merci ha rappresentato fin dalle origini della costruzione comunitaria il primo strumento per la realizzazione del mercato unico. Si trattava in effetti di superare, nei rapporti tra gli Stati membri, la tradizionale compartimentazione dei mercati nazionali rappresentata solitamente dall’imposizione sulle merci importate di dazi doganali e altre misure di pari effetto, e al tempo stesso di costruire un’unica barriera doganale rispetto ai prodotti provenienti dagli Stati terzi. Questo obiettivo fu enunciato già dal TCEE, che recava norme per l’instaurazione progressiva di un’unione doganale tra gli Stati membri entro la fine del periodo transitorio all’uopo fissato (31 dicembre 1969). Il risultato (il primo concreto e completo risultato conseguito dalla CEE) essendo stato realizzato addirittura in anticipo (1° luglio 1968), le norme che regolavano questa fase di transizione sono state soppresse e la pertinente disciplina dei Trattati semplificata. Non è invece cambiata l’essenza della liberalizzazione in esame, che emerge chiaramente dall’art. 28 TFUE: «[l]’Unione comprende un’unione doganale che si estende al complesso degli scambi di merci e comporta il divieto, fra gli Stati membri, dei dazi doganali all’importazione o all’esportazione e di qualsiasi tassa di effetto equivalente, come pure l’adozione di una tariffa doganale comune nei loro rapporti con i paesi terzi». La libera circolazione delle merci comprende dunque due aspetti: uno interno, ossia l’abolizione delle restrizioni agli scambi tra gli Stati membri, e uno esterno, ovvero la fissazione di una tariffa doganale comune per gli scambi con i paesi terzi. Esamineremo tra breve entrambi gli aspetti. Si possono tuttavia segnalare fin d’ora alcuni profili comuni.
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a) Anzitutto emerge da quanto appena detto che, in ragione essenzialmente della previsione di una tariffa doganale esterna comune, quella di cui si discute è una «unione doganale» e non già una semplice «zona di libero scambio». Al tempo stesso, se è vero che l’unione doganale tra gli Stati membri dell’Unione non costituisce una novità assoluta, essendone già state realizzate in ambito internazionale o europeo, è anche vero che essa è sicuramente, e per vari aspetti, più avanzata e compiuta, specie in ragione del maggior grado d’integrazione e del più strutturato impianto dell’Unione. Per i precedenti, si pensi in particolare all’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT) del 1947, che ha in effetti costituito il precedente più diretto in materia e che oggi è assorbito tra le norme dell’Accordo mondiale del commercio (OMC/WTO).
b) La competenza dell’Unione in materia è esclusiva (art. 3 TFUE). Inoltre, l’applicazione delle pertinenti disposizioni del Trattato non è subordinata ad alcuna condizione: esse sono quindi direttamente efficaci negli Stati membri e invocabili dagli interessati dinanzi alle giurisdizioni nazionali. Si noti che è proprio con riferimento all’allora art. 12 TCEE (ora corrispondente all’art. 30 TFUE) che la Corte pronunciò la storica sentenza Van Gend en Loos (del 5 febbraio 1963, 26/62, 3), in cui si enunciava per la prima volta il principio dell’efficacia diretta di una disposizione del Trattato (supra, p. 143 s.).
c) La liberalizzazione riguarda qualsiasi tipo di «merci». Secondo una risalente giurisprudenza della Corte, per «merci» debbono intendersi i «prodotti pecuniariamente valutabili e come tali atti a costituire oggetto di negozi commerciali» (Corte giust. 10 dicembre 1968, 7/68, Commissione c. Italia, 561, 570). Vi rientrano, quindi, tutti quei prodotti che, indipendentemente dalle loro intrinseche caratteristiche, siano anche solo potenzialmente suscettibili di una transazione commerciale. La Corte ha fornito comunque un’interpretazione assai ampia della nozione, includendovi, per prendere esempi tratti dalla sua stessa prassi, prodotti quali i beni culturali, il petrolio, l’energia elettrica, i libri, le videocassette, gli stupefacenti, le monete prive di corso legale, i rifiuti, ecc. Sono invece esclusi, o regolati diversamente, i prodotti che siano oggetto di altre disposizioni del Trattato, come ad esempio i prodotti dell’agricoltura e della pesca (p. 468 ss.), nonché le armi, munizioni ed altro materiale bellico (nella misura in cui questi ultimi sono oggetto della disciplina speciale di cui all’art. 346 TFUE; v. a tale riguardo Corte giust. 7 giugno 2012, C-615/10, Insinööritoimisto InsTiimi), oltre alle monete aventi corso legale (oggetto della libera circolazione dei capitali). d) La sfera di applicazione territoriale delle norme in esame corrisponde in principio a quella del diritto dell’Unione nel suo complesso e coincide in buona sostanza con i territori degli Stati membri (artt. 52 TUE e 355 TFUE). Tuttavia, ai fini che qui interessano non rileva tanto tale riferimento, quanto quello di territorio doganale comunitario (art. 3 del Codice doganale comunitario, di cui si dirà subito), che funge per l’appunto da ambito di delimitazione territoriale della normativa doganale e non
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corrisponde integralmente al territorio dell’Unione. Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, vi rientrano il territorio della Repubblica, ma non i comuni di Livigno e di Campione d’Italia e le acque nazionali del lago di Lugano. Ne ha fatto parte anche San Marino, che però il 16 dicembre 1991 ha concluso un autonomo accordo con l’UE (entrato in vigore il 28 marzo 2002), per la creazione di una specifica unione doganale. e) Gli Stati membri devono evidentemente rispettare anche in questa materia l’obbligo generale di «leale cooperazione» (art. 4, par. 3, TUE), sicché possono sottrarsi ai divieti in esame solo nelle ipotesi rigorosamente determinate. Perfino in caso di gravi perturbazioni, essi non possono procedere unilateralmente, ma devono informare la Commissione per le eventuali misure del caso. Quest’ultima però deve a sua volta tener conto, in tale eventualità, delle esigenze degli Stati membri (art. 32 TFUE).
2. L’abolizione dei dazi doganali e delle tasse di effetto equivalente Il fronte interno della liberalizzazione in esame è rappresentato dal divieto dei dazi doganali alle importazioni e alle esportazioni, come pure delle misure di effetto ad essi equivalente, sui prodotti provenienti dagli altri Stati membri, divieto che va però completato con quello, di cui si dirà in seguito (p. 652), di imporre sui prodotti importati oneri fiscali a carattere protezionistico o discriminatorio, che permetterebbero ugualmente di aggirare, sia pur per altra via, l’obbligo di non ostacolare la circolazione dei prodotti degli altri Stati membri. Come già accennato, l’iniziale previsione del TCEE prevedeva un’abolizione progressiva dei dazi entro la fine del periodo transitorio (31 dicembre 1969), ma in realtà i dazi alle esportazioni furono aboliti un anno e mezzo prima e quelli all’importazione addirittura già alla fine della prima tappa di quel periodo (31 dicembre 1961). Il divieto di dazi doganali e di misure di effetto equivalente si applica «ai prodotti originari degli Stati membri e ai prodotti provenienti da paesi terzi che si trovano in libera pratica negli Stati membri» (art. 28, par. 2, TFUE), avendo presente che «[s]ono considerati in libera pratica in uno Stato membro i prodotti provenienti da paesi terzi per i quali siano state adempiute in tale Stato le formalità di importazione e riscossi i dazi doganali e le tasse di effetto equivalente esigibili e che non abbiano beneficiato di un ristorno totale o parziale di tali dazi e tasse» (art. 29 TFUE; v., di recente, Corte giust. 22 settembre 2016, C-525/14, Commissione c. Repubblica ceca). La disposizione, come in generale tutto il sistema doganale dell’Unione, va integrata con le norme del Codice doganale comunitario (CDC), alla cui interpretazione (come per tutta la materia in esame) ha dato un contributo decisivo la giurisprudenza della Corte. Il CDC è fissato dal Reg. (CE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992 (GUCE L 302, 1), in vigore dal 1° gennaio 1994, modificato poi dal reg. (CE) n. 450/2008 del PE e del Consiglio, del 23 aprile 2008 (GUCE L 145, 1), che istituisce il Codice doganale comunitario aggiornato (CDA),
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in vigore, secondo il reg. (UE) n. 528/2013 del PE e del Consiglio, del 12 giugno 2013 (GUUE L 165, 62), dal 1° novembre 2013, che semplifica e razionalizza il sistema e soprattutto lo organizza sulla base dei moderni processi informatici. Tutti questi atti sono stati poi rifusi in un nuovo regolamento che intende mettere ordine nell’intera materia (reg. (UE) n. 952/2013 del PE e del Consiglio, del 9 ottobre 2013, GUUE L 269, 1).
Alla luce del CDC si può dire anzitutto che per merce di origine «comunitaria» si intende la merce interamente ottenuta nel territorio doganale dell’Unione, senza aggiunta di merci importate da paesi terzi (salvo i casi di produzione complessa, di cui diremo tra breve). Le merci in libera pratica sono invece, come detto, quelle di provenienza da Stati terzi, che abbiano espletato le formalità di importazione, precisate in appositi regolamenti della Commissione, e versato i dazi doganali. Dopo tali adempimenti, il prodotto viene provvisto di un apposito documento, il documento amministrativo unico (DAU), che lo accompagna dallo stabilimento di partenza fino al luogo di destinazione e costituisce la prova della natura comunitaria della merce. Di detto documento devono essere provvisti anche i prodotti in transito nel territorio dell’Unione ma non immessi in libera pratica. Se la nozione di dazio doganale, quale onere pecuniario che colpisce la merce all’ingresso o all’uscita dal territorio nazionale, non pone particolari problemi, non altrettanto può dirsi per la nozione di «tassa di effetto equivalente a dazio doganale». Alla luce della nutrita giurisprudenza elaborata dalla Corte al riguardo, può dirsi che un onere pecuniario, sia pur minimo, imposto unilateralmente, a prescindere dalla sua denominazione e dalla sua struttura, e che colpisce le merci nazionali o estere in ragione del fatto che esse varcano la frontiera, se non è riconducibile ai dazi doganali in senso proprio, costituisce una tassa di effetto equivalente, e ciò anche se non sia riscosso a profitto dello Stato, non abbia alcun effetto discriminatorio o protezionistico e il prodotto colpito non sia in concorrenza con un prodotto nazionale. Su quest’ultimo punto, v. tra le tante, v. la sentenza 1° luglio 1969, 2/69 e 3/69, Sociaal Fonds voor de Diamantarbeiders, 211. Più in generale, v. Corte giust. 14 dicembre 1962, 2/62 e 3/62, Commissione c. Lussemburgo e Belgio, 793. Si noti peraltro che la frontiera di cui si parla nel testo non deve essere necessariamente quella nazionale. Secondo un discusso indirizzo della Corte, un tributo riscosso a una frontiera regionale a causa dell’introduzione di prodotti in una regione di uno Stato membro costituisce un ostacolo alla libera circolazione delle merci di gravità almeno pari a quella di un’imposta riscossa alla frontiera nazionale a causa dell’introduzione dei prodotti nel complesso del territorio di uno Stato membro (sentenza 16 luglio 1992, C-163/90, Legros e a., I-4625; ma v. anche in senso ancor più rigoroso, sentenza 9 settembre 2004, C-72/03, Carbonati Apuani, I-8027, relativa ad un tributo comunale imposto sull’uscita del prodotto dai confini del territorio comunale).
Lo stesso obiettivo di garanzia della libera circolazione delle merci nel complesso del territorio doganale dell’UE ha indotto la giurisprudenza a considerare contrarie all’art. 30 TFUE anche le tasse di effetto equivalente che colpiscano merci in provenienza da Stati terzi (Corte giust. 21 giugno 2007, C-173/05, Commissione c. Italia, I4917) o merci che si trovino semplicemente in transito sul territorio nazionale (sentenza 27 febbraio 2003, C-389/00, Commissione c. Germania, I-2001). Stante il rigore del divieto in esame, non sorprende che possibili deroghe allo
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stesso siano ammesse solo in via eccezionale. Questo può verificarsi in particolare, alla luce della giurisprudenza della Corte, se la «tassa» pretesa dallo Stato sui prodotti importati costituisca il corrispettivo di un servizio effettivamente e direttamente reso all’importatore, su richiesta dello stesso e non imposto per legge a tutela d’interessi generali, e il cui importo sia proporzionato alla qualità e al costo del suddetto servizio.
3. Segue: La tariffa doganale comune e il codice doganale comunitario Passiamo ora al fronte esterno. In proposito, il Trattato prevede, come si è detto, l’adozione di una tariffa doganale comune (TDC) nei rapporti con i paesi terzi (art. 28 TFUE). Questa viene stabilita dal Consiglio su proposta della Commissione e senza alcun coinvolgimento del Parlamento europeo (art. 31 TFUE). La TDC mira a realizzare, come ha sottolineato la Corte, la parificazione degli oneri doganali gravanti sulle merci importate nell’Unione da paesi terzi, in modo da evitare sviamenti di traffico nei rapporti con detti paesi e conseguenti distorsioni nella libera circolazione interna dei prodotti o nella concorrenza tra gli stessi. Per tal motivo, una volta adottata la TDC, gli Stati membri non possono più istituire e mantenere in vigore unilateralmente dazi o tasse di effetto equivalente per i prodotti importati dai paesi terzi. Sentenza 27 settembre 1988, 51/87, Commissione c. Consiglio, 5459. La prima versione integrale della TDC fu adottata con il reg. (CEE) n. 950/68 del Consiglio, del 28 giugno 1968, relativo appunto alla TDC (GUCE L 172, 1), ed entrò in vigore con la scadenza del periodo transitorio (1° luglio 1968). Essa è aggiornata dal Consiglio con cadenza annuale. A partire dal reg. (CEE) n. 2658/87 del Consiglio, del 23 luglio 1987, relativo alla nomenclatura tariffaria e statistica ed alla tariffa doganale comune (GUCE L 256, 1), la nomenclatura delle merci sulla quale si basa la TDC è modellata su quella prevista dalla Convenzione di Bruxelles del 14 giugno 1983 sul «sistema armonizzato di designazione e di codificazione delle merci» (SA), elaborata dal Consiglio di cooperazione doganale istituito dalla precedente Convenzione di Bruxelles del 15 dicembre 1950. Tale nomenclatura è oggetto dell’Allegato I di quel regolamento ed è denominata «nomenclatura combinata» (NC), dato che non solo risponde ad esigenze doganali ma assolve anche funzioni statistiche per il commercio con gli Stati terzi. Si noti peraltro che la NC contiene ulteriori suddivisioni di voci che corrispondono alle misure tariffarie adottate per esigenze specifiche dell’Unione nel quadro della politica commerciale. Così integrata, la NC prende il nome di Taric (Tariffa integrata dell’UE) e viene anch’essa, come la NC, pubblicata annualmente dalla Commissione in versione completa ed aggiornata.
Ma la TDC consente altresì all’Unione di modulare la propria politica commerciale in funzione degli interessi economici e politici dell’Unione stessa e dei suoi Stati membri: in particolare, istituendo, unilateralmente o con appositi accordi, regimi tariffari differenziati o preferenziali per taluni paesi e/o per certi prodotti (specie a favore di paesi in via di sviluppo), dazi antidumping, restrizioni all’importazione o all’esportazione, sospensioni autonome dei dazi, e così via. Quanto ai suoi contenuti, ci si limita a ricordare che la TDC stabilisce una nomenclatura (la c.d. «nomenclatura combinata», o NC) che classifica le differenti
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merci, sulla base delle loro caratteristiche e proprietà obiettive, sotto apposite «voci» e fissa in relazione a ciascuna di esse l’importo del dazio dovuto all’atto dell’importazione. Va segnalato che le disposizioni preliminari della TDC e le note esplicative in essa contenute fungono da supporto interpretativo ai fini della classificazione doganale delle merci. Ma la Corte ha riconosciuto un simile valore anche ai pareri emessi dall’apposito Comitato comunitario della nomenclatura, nonché alle note esplicative della Commissione e a quelle adottate dal Consiglio di cooperazione doganale, senza che però si possano ad essi attribuire effetti giuridici vincolanti (come a maggior ragione alle note esplicative delle autorità nazionali doganali).
Per ciascuna voce e sottovoce della NC, viene stabilito un «dazio autonomo», fissato unilateralmente dall’Unione, o un «dazio convenzionale», fissato in conformità agli accordi internazionali dell’Unione (in particolare del GATT). Qualora una merce sia classificabile in due o più voci, la voce più specifica deve avere la priorità sulle voci di portata più generale. In caso di prodotti misti, la classificazione è effettuata in ragione della materia o dell’oggetto che conferisce agli stessi il loro carattere essenziale, verificando cioè se tale prodotto, privato di questa o quella componente, conserverebbe o meno le proprietà che lo caratterizzano. Una volta che una merce importata da uno Stato terzo sia immessa in libera pratica dopo il versamento dei dazi corrispondenti alla classificazione doganale adottata dalle autorità di questo Stato, le autorità degli altri Stati non possono più riclassificarla sotto altre voci della TDC.
Per assicurare un’applicazione uniforme della TDC, e in genere per il funzionamento del sistema doganale comunitario, apposite regole sono dettate dal ricordato CDC. Questo vale in particolare per la determinazione dell’origine di un prodotto proveniente da un paese terzo, per la quale, come già accennato, il criterio generale è il luogo di fabbricazione o provenienza del prodotto. Se invece si tratta di prodotti risultanti da processi di trasformazione avviati in Stati diversi, vale il criterio dello stadio produttivo determinante, nel senso che l’origine del prodotto è data dal luogo ove è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione, e non un semplice assemblaggio, che non richieda l’impiego di manodopera specializzata e di attrezzature particolari, o che non comporti un sostanziale valore aggiunto. Poiché poi i dazi doganali sono ad valorem, sono cioè calcolati in funzione del valore in dogana delle merci (solo in specifici casi è prevista un’aliquota fissa, calcolata in ragione del peso o della quantità della merce), la citata normativa prevede che tale valore vada stabilito in riferimento al «valore di transazione», ovvero al prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando sono vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale dell’Unione; oppure, in mancanza, in riferimento al valore delle transazioni di merci identiche o similari, o ancora alla somma dei costi o del valore delle merci impiegate per la produzione delle merci in questione, senza escludere comunque il ricorso, in via sussidiaria, a «criteri ragionevoli». Utili disposizioni sono poi dettate dal CDC anche per altri aspetti della materia, tra i quali segnaliamo a titolo esemplificativo: le obbligazioni e le garanzie imposte
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agli importatori; il regime delle merci introdotte nel territorio doganale dell’Unione; la posizione doganale delle stesse; le franchigie e i regimi speciali; il regime delle merci esportate dal territorio europeo; l’istituzione di un «Comitato del codice doganale».
4. Segue: L’obbligazione doganale e la ripetizione dell’indebito Va inoltre ricordato che l’obbligazione doganale nasce all’atto dell’accettazione della dichiarazione doganale presentata dall’importatore o da un suo rappresentante e si estingue solo con il pagamento del dazio. Tuttavia la vigente normativa, precisata e consolidata dalla giurisprudenza della Corte, tutela il legittimo affidamento dell’operatore commerciale in caso di tributi ingiustamente versati, prevedendo il rimborso o lo sgravio dei dazi non dovuti (ripetizione dell’indebito), così come pone limiti al recupero a posteriori di oneri doganali non versati. Quanto alla prima ipotesi, va detto, in estrema sintesi, che si può procedere al rimborso o allo sgravio solo in situazioni particolari, caratterizzate da circostanze che non implichino alcuna simulazione o negligenza manifesta da parte dell’interessato e pongano quest’ultimo in una situazione eccezionale rispetto agli altri operatori che svolgono la stessa attività. La tutela del diritto alla ripetizione dell’indebito deve essere assicurata anzitutto dai giudici nazionali in omaggio al principio dell’autonomia processuale degli Stati membri, e quindi in conformità alle corrispondenti norme del proprio ordinamento (quanto alla prescrizione, all’onere della prova, all’eventuale traslazione dell’importo versato su altri soggetti, anche con l’incorporazione dello stesso nel prezzo di vendita, e così via), ma pur sempre nel rispetto dei noti e ricordati principi di effettività ed equivalenza (p. 356 ss.). Quanto invece al recupero dei dazi non versati, posto che esso va chiesto entro tre anni dalla nascita dell’obbligazione doganale, l’operatore può sfuggirvi se i dazi non siano stati riscossi a causa di un errore delle autorità competenti, sempre che il debitore abbia agito in buona fede e abbia osservato tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana. A tal fine, occorre procedere a una valutazione concreta di tutte le circostanze del caso di specie tenendo conto, in particolare, della natura dell’errore, dell’esperienza professionale dell’operatore e della diligenza da lui dimostrata. In presenza di tali condizioni il potere delle autorità di non procedere al recupero dei dazi non versati non è discrezionale, ma «vincolato».
5. Segue: La cooperazione doganale in seno all’Unione È importante segnalare infine che, anche se sono riscossi dalle autorità doganali nazionali secondo le modalità e le condizioni previste dai rispettivi ordinamenti, i dazi costituiscono «risorse proprie» dell’Unione e rientrano quindi nel bilancio della stessa (gli Stati membri non possono trattenerne più del 25%). Da qui l’interesse dell’Unione alla corretta e integrale riscossione dei dazi, i rigorosi poteri di controllo
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della Commissione e l’intervento della Corte di giustizia in caso di violazione degli obblighi incombenti agli Stati membri di assicurare il pieno rispetto delle regole comuni. A tal fine, ma non solo a tal fine, rileva la previsione del Trattato secondo cui il legislatore dell’Unione può adottare misure per rafforzare la cooperazione doganale tra gli Stati membri e tra questi e la Commissione (art. 33 TFUE). Come si è appena accennato, infatti, malgrado le disposizioni fin qui esaminate e la competenza esclusiva dell’Unione, la gestione delle dogane resta affidata alle autorità nazionali e alle disposizioni che ne regolano il funzionamento, anche se esse agiscono nell’interesse e per conto dell’Unione e sono vincolate ai rigorosi obblighi sopra evocati. Da qui l’esigenza di rafforzare la cooperazione tra gli Stati membri e soprattutto tra essi e la Commissione. In materia, per la verità, erano già intervenuti in passato numerosi atti di varia natura (regolamenti e decisioni delle istituzioni comunitarie, ma anche convenzioni tra gli Stati membri), ma i risultati erano stati piuttosto modesti. V. in particolare la Convenzione tra gli Stati membri della CEE per la mutua assistenza tra amministrazioni doganali, firmata a Roma il 7 settembre 1967 (c.d. «convenzione di Napoli del 1967», GURI 11 ottobre 1971, n. 256) e rivista con la Convenzione stabilita in base all’art. K.3 TUE preLisbona, relativa alla mutua assistenza e alla cooperazione tra amministrazioni doganali (c.d. «convenzione di Napoli II»), firmata a Bruxelles il 18 dicembre 1997 (GUCE C 24, 1). Quest’ultima è integrata da un «sistema d’informazione doganale» (SID), istituito dalla Convenzione sull’uso della tecnologia dell’informazione nel settore doganale, firmata a Bruxelles il 26 luglio 1995 (GUCE C 316, 34). V. anche, più di recente, il reg. (CE) n. 766/2008 del PE e del Consiglio, del 9 luglio 2008, recante modifica del reg. (CE) n. 515/97 del Consiglio, relativo alla mutua assistenza tra le autorità amministrative degli Stati membri e alla collaborazione tra queste e la Commissione per assicurare la corretta applicazione delle normative doganale e agricola (GUUE L 218, 48).
Con il Trattato di Amsterdam si decise quindi di abilitare le istituzioni ad adottare misure volte a razionalizzare e semplificare il complessivo quadro giuridico creatosi a seguito dei ricordati interventi. Il Trattato di Lisbona ha ripreso tale previsione, collocandola opportunamente non più a valle della politica commerciale comune, ma nelle norme sulla circolazione delle merci. La sostanza non è però cambiata di molto: l’Unione continua a favorire la cooperazione fra le amministrazioni doganali dei vari Stati membri, soprattutto attraverso scambi di informazioni, per prevenire e accertare violazioni delle disposizioni doganali comunitarie e nazionali. E in effetti, tra le misure finora adottate si segnalano soprattutto vari programmi d’azione volti appunto a promuovere la cooperazione in oggetto e l’accesso a sistemi intraeuropei di scambi di informazioni. Va però segnalato che, essendo caduta la limitazione che l’art. 135 TCE imponeva in materia con riguardo ai profili penali della cooperazione doganale, quest’ultima è oggi oggetto anche della cooperazione di polizia e delle relative misure di attuazione (p. 578 ss.). Va inoltre ricordato che rilevano in materia anche l’art. 197 TFUE, relativo alla cooperazione amministrativa tra gli Stati membri e tra essi e l’Unione (p. 800 ss.), nonché l’art. 325 TFUE, relativo alla lotta contro le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione (p. 129 ss.).
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6. Il divieto di restrizioni quantitative e di misure di effetto equivalente Gli artt. 34-36 TFUE completano la disciplina sulla libera circolazione delle merci nell’Unione affiancando al divieto dei dazi doganali, quello delle restrizioni quantitative all’esportazione o all’importazione e di qualsiasi misura di effetto a esse equivalente, fatte salve le deroghe di cui si dirà più avanti. Si noti che le misure di cui ora si passa a discutere possono rientrare nel campo d’applicazione di altre disposizioni del TFUE (concorrenza, aiuti di Stato, ecc.), anche relative ad altre libertà (e, specialmente, della libera prestazione dei servizi). In tal caso, secondo la Corte, si terrà conto dell’effetto restrittivo principale della misura in causa (sentenza 24 marzo 1994, C-275/92, Schindler, I-1039) o, se non è possibile, delle disposizioni rilevanti per entrambe le libertà (sentenza 22 gennaio 2002, C-390/99, Canal Satéllite Digital, I-607).
Tale divieto viene anch’esso enunciato in termini rigorosi e assoluti, senza alcuna ulteriore specificazione. Ma le misure che ne formano oggetto sono, rispetto ai dazi doganali, di ben più difficile definizione, specie alla luce di una prassi che rivela sfaccettature assai variegate e complesse. E ovviamente, poiché più la nozione si estende, più viene limitata la libertà degli Stati membri di regolamentare i diversi aspetti della produzione e della commercializzazione dei prodotti, si comprende come la materia si sia rivelata tra le più controverse ed abbia alimentato non solo una ricca e tuttavia non sempre univoca giurisprudenza, ma anche un ampio dibattito in dottrina. Va detto subito che le difficoltà non riguardano tanto la nozione di «restrizioni quantitative», cioè delle restrizioni che incidono sulla libertà di importare o esportare un prodotto o una determinata quantità dello stesso. Questa previsione è in effetti abbastanza chiara, così come lo è l’individuazione delle ipotesi che vi rientrano. Come ha chiarito la stessa Corte, il divieto «riguarda le misure aventi il carattere di proibizione, totale o parziale, d’importare, d’esportare o di far transitare a seconda dei casi» determinate merci, e copre quindi non solo le misure che vietano del tutto le importazioni o le esportazioni di un prodotto, ma anche quelle che le contingentano, imponendone una limitazione quantitativa (Corte giust. 12 luglio 1973, 2/73, Geddo c. Ente Nazionale Risi, 865, punto 7). Tutt’altro discorso va fatto invece per la nozione di «misure di effetto equivalente» alle restrizioni quantitative, che costituiscono ostacoli per così dire occulti agli scambi comunitari, e quindi sono, ripetiamo, di più difficile individuazione. Nelle prossime pagine si cercherà di esporre, in modo necessariamente schematico e riassuntivo, e soprattutto alla luce delle acquisizioni di una perfino troppo abbondante giurisprudenza della Corte, i termini di una problematica lungamente, e talvolta anche appassionatamente, dibattuta. All’uopo conviene partire dalla celebre, e ancora attuale, definizione fornita dalla Corte nella sentenza Dassonville, con riguardo alle importazioni intracomunitarie (di quelle alle esportazioni diremo più avanti). Secondo tale definizione, si deve intendere per misura di effetto equivalente a dette restrizioni «ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari».
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Sentenza 11 luglio 1974, 8/74, 837, punto 5. Tale sentenza recepiva in sostanza le indicazioni della dir. 70/50/CEE della Commissione, del 22 dicembre 1969, relativa alla soppressione delle misure di effetto equivalente (GUCE L 13, 29). La formula citata ha resistito, pressoché immutata, per tutti questi anni: v., di recente, Corte giust. 12 luglio 2012, C-171/11, Fra.bo; 27 aprile 2017, C-672/15, Noria Distribution; 22 giugno 2017, C-549/15, E.ON Biofor Sverige.
Si tratta, come si vede, di una definizione molto ampia e rigorosa, che copre ogni tipo di misura restrittiva, anche quelle il cui effetto negativo sia solo indiretto e addirittura puramente potenziale, nel senso che non si è ancora manifestato e neppure è detto che concretamente si realizzerà. Dal rigore della formula la Corte ha anche dedotto che non rileva neppure la portata della restrizione, perché essa va vietata pure se l’incidenza sugli scambi è di modesta importanza (c.d. principio de minimis). Per contro, non vanno necessariamente vietate misure i cui effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci siano «troppo aleatori e indiretti». Sulla stessa linea di rigore è stato poi precisato il carattere «nazionale» della misura. Si è in effetti chiarito che ricade nel divieto qualsiasi provvedimento (ma, all’occorrenza, anche omissione) che, quale che ne sia la forma e la natura, sia stato emanato direttamente dallo Stato, non solo attraverso le autorità centrali, ma anche attraverso qualsiasi ente decentrato di carattere territoriale o organismo di carattere pubblico. Ma possono rientrarvi altresì atti di organismi creati per legge e finanziati con contributi pubblici o con contributi obbligatori versati dai privati, e perfino atti emanati da organismi di diritto privato ove, in forza di leggi nazionali, siano dotati di poteri normativi o disciplinari. V., fra le tante, sentenze 30 gennaio 1974, 127/73, BRT e SABAM, 313; 24 novembre 1982, 249/81, Commissione c. Irlanda, cit.; 18 maggio 1989, 266/87 e 267/87, Association of Pharmaceutical Importers e a., 1295; 15 dicembre 1993, C-292/92, Hünermund e a., I-6787; 5 novembre 2002, C325/00, Commissione c. Germania, I-9977, 13 marzo 2008, C-227/06, Commissione c. Belgio, I-46. Rilevano in materia, dunque, anche mere prassi amministrative (Corte giust. 20 maggio 1976, 104/75, De Peijper, 613) o giurisprudenziali (Corte giust. 2 marzo 1982, 6/81, Industrie Diensten Groep, 707), e perfino semplici comportamenti di uno Stato membro che, seppur non espressi in atti vincolanti, siano comunque idonei a incidere sulla condotta dei commercianti e dei consumatori nel territorio di questo Stato e a produrre quindi effetti restrittivi sugli scambi (Corte giust. 24 novembre 1982, 249/81, Commissione c. Irlanda, 4005, con riferimento ad una campagna finanziata dal governo irlandese per promuovere l’acquisto di prodotti nazionali). Ma lo Stato è sanzionabile anche per i comportamenti dei privati che possano creare ostacoli alla libera circolazione, ove non prenda le sollecite e appropriate misure per impedirli o porvi riparo. Così la Corte nel caso della distruzione da parte di agricoltori francesi di prodotti agricoli importati da altri Stati membri (sentenza 9 dicembre 1997, C-265/95, Commissione c. Francia, I6959), o del blocco totale della circolazione stradale sull’autostrada del Brennero a seguito di dimostrazioni ecologiste (sentenza 12 giugno 2003, C-112/00, Schmidberger, I-5659).
Si noti inoltre che il rispetto del divieto di cui si discute s’impone anche alle istituzioni dell’Unione, che devono astenersi dal pregiudicarne la piena realizzazione (v., in tal senso, già la sentenza 29 febbraio 1984, 37/83, Rewe-Zentrale, 1229, poi più volte confermata). La rigidità della riferita formula ha dovuto tuttavia fare i conti con le obiettive difficoltà della materia. In effetti, dal momento che qualsiasi misura nazionale relativa ad un prodotto o a una categoria di prodotti e alla relativa commercializzazione
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finisce in qualche modo con l’incidere, sia pure in modo indiretto e potenziale, sulle attività economiche collegate agli scambi transfrontalieri, gli Stati sarebbero, se non paralizzati, certo molto limitati nell’esercizio delle proprie competenze normative da un’interpretazione così rigorosa del divieto in esame. Da qui la ricerca, anche da parte della stessa Corte, di un certo contemperamento tra le varie esigenze in campo, tenendo conto della rigidità della formula e della necessità di mantenere indirizzi interpretativi unitari, da una parte, e dell’estrema varietà ed eterogeneità delle misure che possono venire in rilievo in materia, dall’altra. In questa prospettiva, la Corte ha operato anzitutto una distinzione di fondo tra le misure restrittive c.d. «distintamente applicabili», nel senso che si applicano ai soli prodotti importati, e quelle c.d. «indistintamente applicabili», in quanto si riferiscono a qualsiasi prodotto presente sul territorio dello Stato, indipendentemente dalla sua origine. Le prime, salvo che non siano invocabili le deroghe di cui si dirà tra breve, sono rigorosamente vietate, in quanto producono effetti restrittivi palesemente e direttamente discriminatori ai danni dei prodotti non nazionali, rendendone l’importazione impossibile o più onerosa rispetto a quella dei prodotti nazionali. Esse sono le più varie, anche a giudicare dalla stessa prassi della Corte. Può trattarsi di controlli sistematici alla frontiera, della richiesta di produrre licenze, certificati di importazione, o altri documenti e attestati non necessari per le merci nazionali corrispondenti, della sottoposizione della merce a controlli tecnici non indispensabili, e così via. Tra le misure vietate la Corte ha inserito anche quelle che impediscono o rendono meno agevoli le c.d. importazioni parallele, per favorire quelle canalizzate attraverso gli operatori che agiscono in regime di esclusiva (Corte giust. 20 maggio 1976, 104/75, De Peijper, cit.; 17 giugno 1987, 154/85, Commissione c. Italia, 2717, a proposito dell’importazione parallela di autoveicoli).
Le misure c.d. indistintamente applicabili sono invece quelle che si presentano in apparenza neutrali, in quanto destinate ad applicarsi allo stesso modo sia ai prodotti nazionali che a quelli esteri, ma in realtà finiscono con l’essere, in maggiore o minore misura, più pregiudizievoli per i secondi che per i primi. Inizialmente ritenute fuori dal divieto in esame, in quanto prive di quel carattere discriminatorio che si riteneva inerente alla nozione di restrizione quantitativa e di misura d’effetto equivalente, esse vi sono state poi ricondotte grazie soprattutto alla prassi della Corte, che ha avuto molte occasioni di intervenire in questa materia e di meglio definirne contorni ed articolazioni. Più specificamente, e nei limiti in cui si possono tracciare linee nette di confine tra di essi, si distinguono solitamente i seguenti tipi di restrizioni. Vi rientrano anzitutto le classiche misure adottate dagli Stati membri per il controllo dei prezzi dei prodotti. Se è vero infatti che simili misure, in quanto di solito indistintamente applicabili, non mirano ad ostacolare la libera circolazione delle merci tra i diversi Stati membri, esse possono nondimeno essere qualificate come d’effetto equivalente se i prezzi, minimi o massimi, soggetti a controllo sono fissati ad un livello o secondo metodi di calcolo tali da rendere la commercializzazione dei prodotti importati impossibile o più difficile di quella dei corrispondenti prodotti interni. Vi sono poi le misure che attengono alle caratteristiche dei prodotti. Si tratta di
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misure relative all’intero ciclo degli stessi, vale a dire dalla loro produzione alla messa in commercio, e che possono costituire «ostacoli tecnici al commercio», in quanto frutto per l’appunto di norme tecniche dettate a livello nazionale per i vari aspetti dei prodotti (modalità di fabbricazione, forma, peso, composizione, confezionamento, imballaggio, presentazione, etichettaggio, denominazione, ecc.). Pur applicandosi indistintamente a tutti i prodotti posti in commercio nel territorio nazionale, simili misure possono impedire o comunque rendere più onerosa l’importazione da altri Stati membri, in quanto per il solo fatto di variare da Stato a Stato comportano spesso che il prodotto rispettoso delle regole «tecniche» dell’uno non possa essere commercializzato nell’altro se non adattandosi anche alle sue norme «tecniche». L’idoneità di tali disparità normative a giustificare restrizioni alle importazioni fu inizialmente assai controversa, ritenendosi da molte parti che, in assenza di apposite disposizioni comuni, gli Stati membri restassero competenti ad adottare ciascuno le proprie norme tecniche, e che gli ostacoli derivanti dalle diversità delle legislazioni statali dovessero essere rimossi attraverso le direttive di ravvicinamento legislativo (p. 661 ss.). Ma poiché l’adozione di quelle direttive tardava (specie perché per la loro adozione era richiesta l’unanimità nel Consiglio), la questione fu risolta, almeno in termini generali, dalla Corte di giustizia nella celebre sentenza Cassis de Dijon, sulla base del ricordato principio c.d. del mutuo riconoscimento. Corte giust. 20 febbraio 1979, 120/78, Rewe-Zentral, 649. Com’è noto, in tale causa si discuteva della compatibilità comunitaria del divieto imposto in Germania all’importazione dell’omonimo liquore francese a motivo della non conformità dello stesso alla legislazione tedesca sul contenuto alcolico minimo delle bevande.
Dopo aver ribadito, infatti, che «in mancanza di una normativa comune in materia di produzione e di commercio [di un prodotto] spetta agli Stati membri disciplinare, ciascuno nel suo territorio, tutto ciò che riguarda la produzione e il commercio [di tale prodotto]», la Corte aggiunse che «gli ostacoli per la circolazione intracomunitaria derivanti da disparità delle legislazioni nazionali relative al commercio dei prodotti di cui trattasi vanno accettati qualora tali prescrizioni possano ammettersi come necessarie per rispondere a esigenze imperative attinenti, in particolare, all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute pubblica, alla lealtà dei negozi commerciali e alla difesa dei consumatori» (punto 8). In assenza di tali esigenze, su cui si tornerà tra breve, le normative di uno Stato membro relative ai requisiti tecnici non possono trovare applicazione nei confronti dei prodotti importati da altri Stati membri, con la conseguenza che in materia andrà rispettato il principio secondo cui i prodotti legittimamente fabbricati e commercializzati in uno Stato membro devono poter liberamente circolare negli altri Stati membri. Alla luce di tale principio, numerose normative tecniche nazionali sono cadute sotto i colpi della Corte. Si possono ad es. ricordare: le norme italiane che riservavano la denominazione «aceto» al solo aceto di vino, o vietavano la fabbricazione e l’importazione di paste alimentari non prodotte esclusivamente con semola di grano duro, o lo smercio di pane con un grado di umidità o un tenore in cenere superiori a determinati valori; le legislazioni spagnola e italiana che consentivano l’immissione in commercio con la denominazione «cioccolata» dei soli prodotti privi di
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grassi vegetali diversi dal burro di cacao; la legislazione dei Paesi Bassi che esigeva, anche per le bevande importate, etichette redatte in lingua olandese; la legislazione belga che vietava la vendita di margarina in confezioni di forma non cubica; la legislazione tedesca che impediva la vendita di birra non rispondente alla composizione tradizionale in Germania; la legislazione francese che vietava la vendita di yogurt surgelato sotto la denominazione «yogurt», e così via. Per una più recente riaffermazione del principio in questione, v. Corte giust. 18 ottobre 2012, C-385/10, Elenca, dove si ricorda che «l’art. 34 TFUE riflette l’obbligo di rispettare i principi di non discriminazione e di mutuo riconoscimento dei prodotti legalmente fabbricati e commercializzati in altri Stati membri e di assicurare, altresì, ai prodotti dell’Unione libero accesso ai mercati nazionali» (punto 23 e giurisprudenza ivi citata). Nello stesso senso, v. anche Corte giust. 16 gennaio 2014, C481/12, Juvelta, e 27 aprile 2017, C-672/15, Noria Distribution.
Infine, sono ricondotte alla nozione in esame le misure relative alle modalità di vendita o di utilizzazione dei prodotti. Come esempi tratti dalla stessa giurisprudenza della Corte, si possono indicare al riguardo: per le modalità di vendita, le misure concernenti la chiusura domenicale dei negozi, le limitazioni all’orario di apertura degli esercizi commerciali, la vendita di materiale didattico a domicilio, le vendite di prodotti con margini di profitto ridotti, il monopolio dei farmacisti sulla vendita dei prodotti farmaceutici o degli ottici diplomati sulla vendita di occhiali e lenti di correzione, il divieto temporaneo di vendita delle videocassette contenenti nuovi film, il divieto totale di pubblicità per le bevande alcoliche, e così via. Mentre per quanto riguarda l’uso dei prodotti: il divieto di utilizzare motoveicoli per il traino di un rimorchio, o di utilizzare moto d’acqua al di fuori delle apposite aree definite dalle autorità, o di applicare pellicole colorate ai vetri delle autovetture, ecc. L’inclusione di tali misure nell’area del divieto in esame è stata però, ed è tuttora, assai controversa e la stessa Corte ha avuto indirizzi oscillanti al riguardo. In effetti, dopo essersi a lungo orientata nel senso di considerare come restrittive anche simili misure, con la nota sentenza nelle cause Keck e Mithouard la Corte affermò invece che «non può costituire ostacolo diretto o indiretto, in atto o in potenza, agli scambi commerciali tra gli Stati membri ai sensi della giurisprudenza Dassonville […], l’assoggettamento di prodotti provenienti da altri Stati membri a disposizioni nazionali che limitino o vietino talune modalità di vendita, sempreché tali disposizioni valgano nei confronti di tutti gli operatori interessati che svolgono la loro attività sul territorio nazionale e sempreché incidano in egual misura, tanto sotto il profilo giuridico, quanto sotto quello sostanziale, sullo smercio dei prodotti sia nazionali sia provenienti da altri Stati membri. Infatti, ove tali requisiti siano soddisfatti, l’applicazione di normative di tal genere alla vendita di prodotti provenienti da un altro Stato membro e rispondenti alle norme stabilite da tale Stato non costituisce elemento atto a impedire l’accesso di tali prodotti al mercato o a ostacolarlo in misura maggiore rispetto all’ostacolo rappresentato per i prodotti nazionali» (Corte giust. 24 novembre 1993, C-267/91 e C-268/91, I-6097, punti 16-17). Le reazioni a tale sentenza non furono unanimi, un po’ per il rischio che essa provocasse ambiguità applicative, molto più per il timore che essa potesse alimentare la tendenza degli operatori a contestare, con il pretesto della libertà in esame, qualsiasi normativa nazionale che limitasse l’attività commerciale e quindi la competenza normativa degli Stati membri. Col tempo, comunque, è emerso con maggiore evidenza
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nella giurisprudenza successiva un favore sempre più netto per un criterio di più agevole individuazione e applicazione, già presente peraltro in quasi tutti i precedenti in materia, anche se forse non sempre adeguatamente evidenziato. In particolare, emerge da tale prassi il criterio, che è per giunta comune a tutte le libertà di circolazione, secondo cui il divieto in esame colpisce tutte le misure nazionali i cui effetti vadano al di là di quelli propri di una normativa commerciale, e che senza essere giustificate da uno dei motivi oggettivi di cui subito diremo, si prestano direttamente, in misura non marginale e in termini non aleatori, a impedire, ostacolare o rendere più difficile l’accesso al mercato di un prodotto proveniente da un altro Stato membro. V., tra le tante, la sentenza 12 luglio 2012, C-171/11, Fra.bo, nonché, anche per ulteriori riferimenti, le conclusioni dell’AG Tizzano nella causa Caixa Banca (sentenza 5 ottobre 2004, C442/02, I-8963). Più di recente, v. anche sentenze 12 novembre 2015, C-198/14, Valev Visnapuu; 23 dicembre 2015, C-333/14, The Scotch Whisky Association; nonché 21 settembre 2016, C221/15, Etablissements Fr. Colruyt; e 19 ottobre 2016, C-148/15, Deutsche Parkinson Vereinigung.
Ciò detto, va però ricordato che già nella sentenza Cassis de Dijon la Corte aveva escluso l’applicazione del divieto in esame ove la misura contestata potesse trovare giustificazione alla luce dei motivi indicati nel passaggio sopra riportato di quella sentenza, e cioè se essa rispondesse a esigenze imperative attinenti, in particolare, all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute pubblica, alla lealtà dei negozi commerciali e alla difesa dei consumatori. Si può qui ancora aggiungere, alla luce della successiva giurisprudenza, e pur senza indulgere nella relativa ricca casistica, che i motivi che possono giustificare le misure in questione si sono rivelati ben più numerosi di quelli indicati a titolo esemplificativo dalla ricordata sentenza, anche se tutti riconducibili in vario modo a quelle esigenze imperative d’interesse generale in essa evocate. Citiamo, solo per fare qualche es.: la promozione della pluralità dei mezzi di informazione, la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà di associazione, la protezione dei libri come oggetto di cultura, la tutela dell’ambiente, la sicurezza stradale, la coerenza del regime fiscale, ecc. Un richiamo particolare merita in proposito il rispetto dei diritti fondamentali, in nome del quale la libertà in esame, come del resto le altre, possono all’occorrenza essere sacrificate (v. ad es. sentenze 12 giugno 2003, C-112/00, Schmidberger, cit. supra; 14 ottobre 2004, C-36/02, Omega, I-9609).
Ma la sussistenza di una di tali cause di giustificazione non implica automaticamente che la misura sia legittima. Secondo la costante giurisprudenza della Corte, infatti, occorrerà ancora verificare se essa, oltre evidentemente a non produrre effetti discriminatori verso i prodotti non nazionali, sia al tempo stesso necessaria e idonea ai fini del perseguimento dello scopo assegnatole e se non sia possibile conseguire il medesimo risultato con misure meno restrittive (criteri di necessarietà, adeguatezza e proporzionalità). In definitiva, si può così sintetizzare la sequenza logica dell’esame che la Corte svolge solitamente al fine di verificare la compatibilità comunitaria delle misure in parola (v. ad es. l’iter seguito dalla Corte nella citata sentenza Commissione c. Italia del 10 febbraio 2009). In primo luogo, e dopo aver accertato che non vi sia in mate-
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ria un’armonizzazione normativa al livello europeo, essa verifica se la misura controversa, ancorché indistintamente applicabile, produca gli effetti restrittivi di cui si è detto. Se così è, la Corte passa allora a controllare l’eventuale sussistenza di una delle giustificazioni sopra richiamate, e finalmente, se conclude in senso positivo, essa valuta la conformità di tali giustificazioni ai criteri di necessità, adeguatezza e proporzionalità.
7. Segue : Le restrizioni alle esportazioni Quanto poi alle restrizioni alle esportazioni verso gli altri Stati membri, ugualmente vietate (art. 35 TFUE), valgono per esse in larga misura le indicazioni e le definizioni fornite a proposito delle restrizioni alle importazioni. Va solo aggiunto che dalla giurisprudenza sembrerebbe emergere una limitazione del divieto alle sole misure c.d. «distintamente applicabili». Secondo la Corte, infatti, l’art. 35 TFUE «riguarda i provvedimenti nazionali che hanno per oggetto e per effetto di restringere specificatamente le correnti d’esportazione e di costituire, in tal modo, una differenza di trattamento fra il commercio interno di uno Stato membro e il suo commercio d’esportazione, così da assicurare un vantaggio particolare alla produzione nazionale o al mercato interno dello Stato interessato, a detrimento della produzione o del commercio di altri Stati membri» (Corte giust. 8 novembre 1979, 15/79, Groenveld, 3409, punto 7). A seguito però delle perplessità emerse in dottrina per il diverso trattamento riservato qui alle misure c.d. indistintamente applicabili rispetto alle restrizioni alle importazioni, la Corte sembra aver attenuato o meglio articolato la propria posizione, almeno per quanto riguarda le misure relative alle modalità di vendita dei prodotti. Ma tale conclusione non è unanimemente condivisa. Nel caso, ad es., di una normativa belga applicabile al commercio a distanza e in particolare via Internet, che vietava al venditore di richiedere all’acquirente un conto o anche soltanto il numero della carta di credito prima della scadenza del termine di recesso previsto dall’art. 6 della dir. 97/7/CE del PE e del Consiglio, del 20 maggio 1997, riguardante la protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza (GUCE L 144, 19), la Corte ha osservato che «un tale divieto ha in genere conseguenze più significative sulle vendite transfrontaliere fatte direttamente ai consumatori, in particolare su quelle concluse via Internet, e ciò segnatamente per la difficoltà di perseguire in un altro Stato membro eventuali clienti morosi, specie ove si tratti di vendite a prezzi relativamente modesti»: esso va quindi considerato come una misura d’effetto equivalente all’esportazione perché «quand’anche applicabile a tutti gli operatori attivi sul territorio nazionale, di fatto incide maggiormente sull’uscita dei prodotti dal mercato dello Stato membro di esportazione che sulla commercializzazione degli stessi sul mercato nazionale di detto Stato membro» (sentenza 16 dicembre 2008, C-205/07, Gysbrechts e Santurel Inter, I-9947, punti 42-43).
8. Segue: Le deroghe al divieto Oltre che in ragione delle esigenze generali sopra ricordate, il divieto di restrizioni quantitative e di misure di effetto equivalente trova un limite in alcuni specifici
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casi espressamente indicati dall’art. 36 TFUE, volti a tutelare «esigenze fondamentali riconosciute dal diritto comunitario» (Corte giust. 19 marzo 1998, C-1/96, Compassion in World Farming, I-1251, punto 47). Secondo tale norma, infatti, «[l]e disposizioni degli artt. 34 e 35 [TFUE] lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e commerciale. Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri». Anche questa disposizione è stata oggetto di ampia disamina da parte della dottrina e di una ricca giurisprudenza della Corte. Alla luce delle relative risultanze, può dirsi riassuntivamente quanto segue. Anzitutto, come per tutte le disposizioni che derogano a un principio fondamentale di libertà, anche l’art. 36 TFUE deve essere interpretato restrittivamente. Ne discende che l’elenco delle cause di giustificazione da esso riportato deve ritenersi tassativo e che comunque le stesse non possono essere invocate al di là di quanto sia strettamente necessario per la protezione degli interessi da essa tutelati. Vale insomma anche qui quanto si è detto poc’anzi a proposito dei principi di necessarietà, adeguatezza e proporzionalità in relazione alle cause di giustificazione legate a motivi imperativi di interesse generale. Proprio in riferimento a tali cause di giustificazione e alla loro distinzione rispetto alle deroghe ora in esame, va poi chiarito che solo queste ultime possono essere considerate come autentiche «deroghe» ai divieti enunciati dal Trattato, le altre essendo piuttosto inerenti alla nozione stessa di misure restrittive o, com’è stato detto, una sorta di parametro di qualificazione delle stesse. Nella sostanza, si può dire che le deroghe ora in esame operano soprattutto per le misure c.d. distintamente applicabili, mentre le altre hanno di vista le misure c.d. indistintamente applicabili ai prodotti nazionali e ai prodotti importati. Nella prassi, comunque, la Corte esamina le misure a essa sottoposte alla luce delle une e delle altre, talvolta anche in modo contestuale e tuttavia sempre attenendosi ai canoni interpretativi sopra enunciati. Infine, va segnalato che anche le deroghe ex art. 36 TFUE possono essere invocate solo se non esista una normativa armonizzata in materia, perché, come ha chiarito la Corte, in tale eventualità «i controlli appropriati vanno […] effettuati e i provvedimenti di tutela adottati secondo lo schema tracciato dalla direttiva d’armonizzazione» (Corte giust. 8 novembre 1979, 251/78, Denkavit Futtermittel, 3369, punto 14), sicché non è consentito ai singoli Stati membri controinteressati «autotutelarsi» con misure restrittive unilaterali. Ciò, naturalmente, sempre che l’armonizzazione sia completa ed esaustiva; ove invece essa sia parziale o minimale (nel senso che lascia agli Stati membri la facoltà di decidere misure di maggior protezione), o anche accordi loro un margine di apprezzamento nella scelta delle misure, l’art. 36 TFUE o, secondo i casi, i criteri interpretativi sopra ricordati restano di applicazione. Passando ora alle specifiche ipotesi indicate dall’art. 36 TFUE, conviene partire da quella relativa alla tutela della moralità pubblica, dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza. Si tratta di motivi che si prestano ad allargare notevolmente
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l’area delle deroghe, tanto più che ciascuna di quelle nozioni deve essere interpretata alla luce del diritto nazionale. Ma la Corte ne ha di molto limitato la portata. Da una parte, infatti, pur riconoscendo che si tratta di nozioni ricollegate alle specificità dei diritti nazionali e da ricostruire quindi alla luce di questi ultimi, essa ha rivendicato l’esercizio di un proprio controllo al riguardo, trattandosi di nozioni sussunte nel diritto dell’Unione e poste a limitazione di una libertà fondamentale. Le scelte degli Stati membri al riguardo devono dunque conciliarsi con la funzione «comunitaria» assegnata alle norme che evocano quelle nozioni. Dall’altra, in omaggio ai criteri ermeneutici sopra ricordati, essa ha interpretato in termini restrittivi ciascuna di quelle nozioni, limitandone profondamente la portata. Notevole importanza hanno poi, nel contesto in esame, le esigenze connesse alla tutela della salute e della vita delle persone, che, secondo la Corte, occupano una posizione preminente tra gli interessi protetti dall’art. 36 TFUE, dato che corrispondono ad obiettivi fondamentali dell’Unione. Quanto infine alla tutela della proprietà industriale e commerciale, essa si ricollega al carattere esclusivo, quasi monopolistico, dei diritti di produzione o di distribuzione previsti dagli ordinamenti nazionali per la tutela della privativa e alla sfera d’efficacia territoriale/nazionale di quest’ultima. Essa si presta quindi in modo evidente a costituire un ostacolo alla libera circolazione delle merci, anche perché l’art. 36 TFUE non pregiudica la competenza degli ordinamenti nazionali quanto alla tutela dei beni immateriali. L’ambito di applicazione della deroga in esame, però, non è solo molto ampio; esso è anche di difficile definizione, e infatti la Corte è dovuta intervenire molte volte al riguardo. Sono infatti compresi nella nozione di proprietà industriale o commerciale: il diritto di brevetto per invenzioni industriali, ma anche per modelli industriali e disegni ornamentali; i marchi d’impresa e le denominazioni commerciali; le denominazioni di origine, le indicazioni di provenienza, il diritto d’autore, i diritti connessi e, in generale, la proprietà letteraria e artistica, ma non le denominazioni o indicazioni di qualità generiche conferite a prodotti nazionali.
È vero che alcune, anche rilevanti, difficoltà interpretative sono state risolte grazie alle numerose misure di armonizzazione (o perfino di unificazione) adottate dall’Unione per vari aspetti della materia (v., da ultimo dir. UE 2015/2436, del PE e del Consiglio del 16 dicembre 2015, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, GUUE 336, 1), ma questo corposo complesso normativo non ha risolto tutti i problemi, perché, in maggiore o minore misura, esso lascia ancora spazio per interventi statali, trattandosi spesso di misure armonizzatrici non esaustive. Come misure di armonizzazione si possono ricordare quelle adottate ad es. per la tutela giuridica dei programmi per elaboratore; l’istituzione del marchio comunitario (v. infra, p. 665); la privativa comunitaria per ritrovati vegetali; i marchi d’impresa; la durata di protezione del diritto d’autore e di alcuni diritti connessi; la tutela giuridica delle banche-dati; la protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, dei disegni e modelli; taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione; il diritto dell’autore di un’opera d’arte sulle successive vendite dell’originale; i disegni e modelli comunitari; il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale; la protezione delle denominazioni di origine e delle indicazioni di provenienza (in materia v. anche infra, p. 665 ss.).
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9. I monopoli commerciali La disciplina sulla libertà di circolazione delle merci si chiude con l’art. 37 TFUE, che sancisce l’obbligo, assoluto e direttamente applicabile per gli Stati membri (Corte giust. 15 luglio 1964, 6/64, Costa c. Enel, 1129), di riordinare i propri monopoli commerciali in modo da escludere qualsiasi discriminazione tra i cittadini degli Stati membri per quanto riguarda le condizioni relative all’approvvigionamento e allo sbocco dei prodotti, nonché di adottare nuove misure di segno contrario a tale obiettivo. Secondo la Corte, infatti, la libera circolazione delle merci sarebbe ostacolata «se non si garantisse in uno Stato membro in cui esista un monopolio commerciale la libera circolazione, in provenienza da altri Stati membri, di merci simili a quelle per cui vige il monopolio» (Corte giust. 3 febbraio 1976, 59/75, Manghera e a., 91, punto 10). Il Trattato non chiede quindi la soppressione dei monopoli, in quanto strumenti per il perseguimento di obiettivi di interesse pubblico, ma solo il loro riassetto in funzione delle esigenze dell’instaurazione e del funzionamento del mercato comune. Conviene precisare che la disposizione riguarda unicamente gli scambi di merci, non i monopoli di servizi, salvo nel caso in cui questi si riflettano indirettamente su detti scambi fra gli Stati membri discriminando i prodotti importati a beneficio di quelli di origine nazionale. Inoltre, essa si riferisce ai soli «monopoli nazionali», cioè a quelli istituiti sull’intero territorio nazionale da «qualsiasi organismo per mezzo del quale uno Stato membro controlli, diriga o influenzi in misura rilevante, direttamente o indirettamente, gli scambi fra gli Stati membri», che abbiano «carattere commerciale». V. Corte giust. 4 maggio 1988, 30/87, Bodson, 2479; 27 aprile 1994, C-393/92, Comune di Almelo e a., I-1477. Ma la norma copre anche i monopoli di Stato affidati a un’impresa o a un gruppo di imprese o a enti locali, purché il controllo o l’influenza sugli scambi intracomunitari abbiano un’origine pubblica e non siano ascrivibili esclusivamente al comportamento delle imprese, dato che in tal caso detto comportamento ricadrebbe sotto le norme sulla concorrenza. Quanto al fatto che i monopoli debbano avere carattere commerciale, ciò significa che essi devono avere a oggetto «dei negozi su un prodotto commerciale che si presti alla concorrenza ed agli scambi fra Stati membri ed inoltre abbiano un peso reale negli scambi stessi» (Corte giust. 15 luglio 1964, 6/64, Costa c. Enel, cit., 1150).
La disposizione in esame va infine coordinata con altre norme del Trattato che con essa possono interferire. Anzitutto, per quanto riguarda i rapporti con le norme sul divieto di misure di effetto equivalente, di cui si è detto in precedenza, la Corte ha precisato che ricadono sotto tali norme, e non sotto l’art. 37 TFUE, le misure nazionali che pur avendo un’incidenza su un monopolio e tuttavia sono scindibili dal funzionamento dello stesso, pregiudicano gli scambi intracomunitari (v. sentenza 23 ottobre 1997, C-189/95, Franzén, I-5909; nonché, più di recente, 26 aprile 2012, C456/10, ANETT). Detta disposizione va inoltre coordinata con le norme sugli aiuti di Stato nell’ipotesi in cui un provvedimento attuato da un monopolio pubblico possa essere qualificato come tale. In questo caso, detto provvedimento non è sottratto all’art. 37
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TFUE, ma rientra nella sfera di applicazione sia della norma in esame, sia delle norme relative agli aiuti statali (Corte giust. 13 marzo 1978, 91/78, Hansen, 935). Ma soprattutto la disposizione va coordinata con (o sostituita, almeno parzialmente, dal) l’art. 106 TFUE, secondo il quale gli Stati membri non possono né emanare né mantenere, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme sulla concorrenza; e le imprese incaricate della gestione di un servizio d’interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme del Trattato nei limiti in cui l’applicazione di queste ultime non ostacoli l’adempimento della specifica missione affidata a dette imprese, fermo restando che lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi dell’Unione (v. infra, p. 626).
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CAPITOLO III
La politica agricola comune e della pesca Sommario: 1. Premessa. – 2. L’ambito di applicazione della PAC. Le regole di concorrenza – 3. Gli obiettivi della PAC. Gli interventi strutturali. – 4. L’organizzazione comune dei mercati agricoli. – 5. Il finanziamento della PAC. – 6. La politica comune della pesca.
1. Premessa La libera circolazione delle merci riguarda in principio, come si è visto, tutti i prodotti pecuniariamente valutabili, inclusi quelli dell’agricoltura e della pesca. Per questi prodotti tuttavia, pur senza sottrarli in linea generale ai principi e alle regole di liberalizzazione, il Trattato predispone una disciplina specifica in considerazione delle peculiari esigenze del settore. A essi sono quindi dedicati gli artt. 38-44 TFUE, che definiscono e attuano la «politica agricola comune» dell’Unione (c.d. PAC). Si tratta, peraltro, di una specificità che risale già al TCEE e che è stata confermata in tutte le varie revisioni di quel Trattato, anche se le premesse, le finalità, le modalità e gli strumenti di intervento si sono profondamente modificati nel corso di questi decenni in relazione all’evoluzione di un settore che è passato dalla grave situazione di crisi e dalla condizione di produzione deficitaria e di arretratezza tecnica degli anni ’50, allo sviluppo economico, tecnico e qualitativo dei giorni nostri. In effetti, malgrado questa evoluzione, malgrado le profonde differenze tra gli Stati membri che sono (anche grandi) produttori e quelli che invece sono essenzialmente consumatori, malgrado le modifiche indotte in tale articolazione dalle varie ondate di adesioni, quelle provocate dai progressi tecnologici, dai cambiamenti quantitativi e qualitativi della produzione, come pure dei gusti dei consumatori anche a causa del diffondersi di prodotti non tradizionali del continente; ebbene malgrado tutto ciò, in questo arco di tempo l’agricoltura ha sempre mantenuto il suo proprio (è il caso di dire) «orticello normativo», quella sua specifica regolamentazione che le norme ora in esame le assicuravano e le assicurano e che per tanti versi e da tanti punti di vista, anche teorici, suscitano un persistente interesse.
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2. L’ambito di applicazione della PAC. Le regole di concorrenza L’instaurazione della PAC è annunciata, con una formulazione per la verità un po’ contorta, dall’art. 38 TFUE, il quale dichiara che il mercato interno comprende anche i prodotti agricoli e della pesca e il loro commercio (par. 1), e che a essi si applicano, nel quadro di una politica agricola comune da instaurare (par. 4), le norme relative a quel mercato, tranne appunto le disposizioni, speciali, contenute negli artt. 38-44 TFUE (par. 2). In linea di principio, dunque, ed il punto merita di essere sottolineato, la regolamentazione dell’agricoltura e della pesca rientra pur sempre nel quadro generale del mercato interno, sicché ove non operi la speciale normativa ad hoc, riprendono valore i principi e le regole del mercato interno, con la loro carica di apertura e di liberalizzazione che inevitabilmente condiziona l’interpretazione della portata delle norme speciali di cui ora si discute. L’ambito di applicazione materiale di queste ultime è definito dall’art. 38 TFUE, il quale si riferisce ai prodotti agricoli e della pesca. Lo fa, in particolare, fornendo una definizione dei prodotti agricoli, e lo fa anche qui con una tecnica discutibile e comunque ambigua, visto che procede su un duplice binario. Il par. 1 offre una definizione generale della nozione di «prodotti agricoli», includendovi tutti i prodotti del suolo, dell’allevamento e della pesca, come pure i prodotti di prima trasformazione che sono con essi in diretta connessione. A sua volta, però, il successivo par. 3 aggiunge che i prodotti soggetti agli artt. 39-44 TFUE sono quelli elencati all’allegato I del Trattato, nel quale invece figurano anche prodotti che non sono riconducibili alla definizione del par. 1, come l’alcool etilico, la margarina, l’amido e la selvaggina, mentre restano fuori prodotti che invece lo sono di sicuro, come il legno o la lana. Ora, visto che tanto la nozione di «prodotti agricoli» dell’art. 38, par. 1, TFUE, quanto l’elenco dell’allegato I, sembrano ugualmente concorrere a definire il campo di applicazione della normativa in esame, c’è da chiedersi quali siano i rapporti tra le due disposizioni. Al riguardo, è stato osservato che, dato il carattere tassativo dell’elenco contenuto nell’allegato I e dato che, per definire i prodotti che vi figurano, tale elenco si avvale delle voci della nomenclatura per la classificazione delle merci elaborata dal Consiglio di cooperazione doganale nel 1950 (c.d. nomenclatura di Bruxelles), si dovrebbe escludere che la nozione generale di «prodotti agricoli» possa servire per interpretare l’elenco contenuto nell’allegato I o per colmare, in via interpretativa, eventuali lacune dello stesso; è dunque a quest’ultimo che occorrerebbe riferirsi per delimitare in concreto la portata della normativa speciale. La questione si è trascinata a lungo senza trovare una soluzione condivisa, ma oggi essa sembra meno attuale. In effetti, l’art. 38, par. 1, TFUE, o, meglio, il suo predecessore nel TCEE, serviva a limitare il potere allora attribuito al Consiglio dal par. 3 della disposizione (ora abrogato per questa parte) di aggiungere esso stesso nuovi prodotti all’elenco di cui all’allegato I entro due anni dall’entrata in vigore del Trattato di Roma; come in effetti è avvenuto, sia pur con qualche ritardo, con l’adozione del reg. 7 bis (reg. CEE del Consiglio, del 18 dicembre 1959, applicabile, a causa della sua ritardata pubblicazione in GUCE 7/1961, 71, solo a partire dal 31 gennaio 1961). Questo ruolo limitativo della nozione generale di «prodotti agricoli» si è dunque esaurito, ed essa quindi funge ormai piuttosto come supporto per la defini-
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zione generale di quei prodotti ai fini della loro riconducibilità al mercato interno che per la delimitazione della disciplina speciale ora in esame, delimitazione che resta invece riservata all’allegato I. Va ancora segnalato che la specialità della disciplina dell’agricoltura riguarda anche le regole di concorrenza, siano esse relative alle imprese o agli Stati membri (p. 621 ss.). Tali regole sono infatti applicabili in quel settore solo nella misura definita dall’art. 42 TFUE, vale a dire nei limiti determinati dal legislatore dell’Unione in funzione del perseguimento delle ricordate finalità della PAC (in proposito si veda la causa ancora pendente C-671/15, APVE) In particolare, per quanto riguarda le regole antitrust relative alle imprese, l’applicabilità delle relative disposizioni del Trattato (artt. 101-106 TFUE) a quelle operanti nel settore agricolo, è stata oggetto di vari interventi normativi, fra i quali si segnalano in particolare i regolamenti (CE) del Consiglio nn. 1184/2006 e 1308/2013. La normativa del Trattato ha in effetti trovato attuazione in un primo tempo con il reg. (CEE) n. 26/62 del Consiglio, del 4 aprile 1962, relativo all’applicazione di alcune regole di concorrenza alla produzione e al commercio dei prodotti agricoli (GUCE L 30, 993), e poi attraverso il menzionato reg. (CE) n. 1184/2006, del 24 luglio 2006, relativo all’applicazione di alcune regole di concorrenza alla produzione e al commercio di taluni prodotti agricoli (GUCE L 214, 7), che, in buona sostanza, ne riproduce i contenuti; a tali regolamenti si aggiungevano quelli relativi ad alcune organizzazioni comuni di mercato (o.c.m.) in specifici settori. Tutti sono stati poi sostituiti dal reg. (CE) n. 1234/2007 del Consiglio, del 22 ottobre 2007, recante organizzazione comune dei mercati agricoli e disposizioni specifiche per taluni prodotti agricoli (c.d. «regolamento unico o.c.m.») (GUUE L 299, 1), a sua volta sostituito, a decorrere dal 1° gennaio 2014, dal reg. (UE) n. 1308/2013 del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2013 (GUUE L 347, 671). Tale reg. è stato poi integrato dal reg. delegato (UE) n. 2017/891 della Commissione, del 13 marzo 2017, per quanto riguarda i settori degli ortofrutticoli e degli ortofrutticoli trasformati, così com’è stato integrato dallo stesso reg. il reg. (UE) n. 1306/2013 del PE e del Consiglio per quanto riguarda le sanzioni da applicare in tali settori, e modificato il reg. di esecuzione (UE) n. 543/2011 della Commissione (GUUE L 138, 4).
Il primo ha ripristinato, a modifica della precedente disciplina e salvo alcune eccezioni, l’applicabilità della disciplina antitrust ai prodotti agricoli di cui all’allegato I al TFUE; il secondo, che riguarda tutti i prodotti che rientrano nelle organizzazioni comuni di mercato (o.c.m.), prevede da un lato che l’art. 102 TFUE, relativo al divieto di abuso di posizione dominante, s’impone a esse senza riserve, dall’altro che l’applicazione dell’art. 101 TFUE, sul divieto d’intese, è soggetta alle eccezioni, da interpretare restrittivamente, imposte dalle peculiari caratteristiche del settore agricolo. In particolare, esso non si applica agli accordi tra imprese, alle decisioni di associazioni di imprese e alle pratiche concordate che: siano necessari a conseguire gli obiettivi della PAC; siano tenuti da imprenditori agricoli, oppure da loro organizzazioni o da associazioni fra le stesse; non importino l’obbligo di praticare un prezzo determinato; non escludano la concorrenza e non compromettano gli obiettivi della PAC (art. 209, reg. n. 1308/2013, cit.). Anche per gli aiuti di Stato si distinguono i casi in cui esista un’o.c.m. dagli altri. Per tutti si applicano le pertinenti regole del Trattato in materia (artt. 107-109 TFUE, p. 643 ss.), ma per i settori coperti da una o.c.m., e per i quali non vigano misure di aiuto di origine europea o misure statali inquadrate a livello dell’Unione, tro-
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va applicazione essenzialmente il reg. n. 1308/2013, il cui art. 211, come i suoi precedenti, ammette solo limitate eccezioni all’applicabilità di dette regole del TFUE. Va anche ricordato che l’art. 42, par. 2, TFUE consente interventi degli Stati volti a ripristinare le condizioni di competitività per quelle imprese agricole che si trovino in condizioni materiali o strutturali di sfavore, o che si inseriscano nel quadro di programmi di sviluppo economico.
3. Gli obiettivi della PAC. Gli interventi strutturali Come noto, la PAC ha fin dalle origini perseguito a titolo principale la finalità di assicurare l’autosufficienza alimentare nel Continente e il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della popolazione contadina. Tali obiettivi sono esplicitamente e contestualmente elencati nell’art. 39, par. 1, TFUE, secondo il quale la PAC ha la finalità di: a) incrementare la produttività dell’agricoltura, sviluppando il progresso tecnico, assicurando lo sviluppo razionale della produzione agricola come pure un impiego migliore dei fattori di produzione, in particolare della manodopera; b) assicurare così un tenore di vita equo alla popolazione agricola, grazie in particolare al miglioramento del reddito individuale di coloro che lavorano nell’agricoltura; c) stabilizzare i mercati; d) garantire la sicurezza degli approvvigionamenti; e) assicurare prezzi ragionevoli nelle consegne ai consumatori. La riferita elencazione non prefigura tuttavia una chiara gerarchia tra gli obiettivi indicati e questo, data l’eterogeneità degli stessi, ha ovviamente alimentato non poche questioni interpretative. In realtà, si può ritenere che gli autori del Trattato abbiano inteso solo indicare un insieme di obiettivi che, qualunque sia il modello di politica agricola prescelto, le istituzioni sono chiamate a contemperare. Ciò sembra essere confermato anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, secondo la quale il legislatore dell’Unione deve garantire una sorta di conciliazione permanente tra i detti obiettivi al fine di superare le eventuali contraddizioni derivanti dalla separata considerazione di ciascuno di essi. In questa prospettiva, e considerata l’ampia discrezionalità di cui gode in materia, detto legislatore può anche dare all’occorrenza priorità ad uno di quegli obiettivi in funzione delle specifiche circostanze, ma non può farlo in termini tali da rendere impossibile la realizzazione degli altri. V. Corte giust. 24 ottobre 1973, 5/73, Balkan, 1091; 20 settembre 1977, 29/77, Roquette Frères, 1935; 11 marzo 1987, 279/84, 280/84, 285/84 e 286/84, Rau, 1069; 13 dicembre 1989, C204/88, Paris, 4361; 19 marzo 1992, C-311/90, Hierl, I-2061; 14 luglio 1994, C-353/92, Grecia c. Consiglio, I-3411; 5 ottobre 1994, C-280/93, Germania c. Consiglio, I-4973; 14 maggio 2009, C34/08, Azienda Agricola Disarò Antonio e a., I-4023; 23 dicembre 2015, C-333/14, The Scotch Whisky Association e a.
Passando a valutare analiticamente, anche se molto brevemente, tali obiettivi, va detto subito che il primo di essi, l’incremento della produttività dell’agricoltura, può in quanto tale essere considerato pienamente realizzato, mentre rimangono attuali le indicazioni relative agli strumenti utilizzati per la sua realizzazione, e cioè il progres-
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so tecnico, lo sviluppo razionale della produzione agricola e un migliore impiego dei mezzi di produzione, a partire dalla manodopera. Quanto all’obiettivo della garanzia di un tenore di vita «equo» per coloro che lavorano in agricoltura, il fatto che esso sia indicato separatamente dall’obiettivo appena considerato induce a ritenere che per gli autori del Trattato quella garanzia non sia offerta solo dall’incremento della produttività, ma richieda anche altri interventi. Il terzo obiettivo assegnato alla PAC, la stabilizzazione dei mercati, esige evidentemente forme d’intervento a livello dei prezzi, della produzione, dell’importazione ed esportazione dei prodotti. Quanto alla garanzia della sicurezza degli approvvigionamenti, essa costituisce, come noto, una delle preoccupazioni di una politica agricola, se non la principale. La sua realizzazione può essere assicurata, all’interno dell’Unione, con misure tradizionali (ammasso pubblico, sussidi alla produzione, politiche di sostegno dei prezzi, e così via), e all’esterno con lo strumento degli accordi commerciali preferenziali con paesi terzi, non potendo evidentemente l’Unione ripiegare su politiche autarchiche. Infine, l’ultimo obiettivo, quello di assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori, conferma che l’interesse della PAC si estende anche agli aspetti della distribuzione e della vendita al consumo, ma fa emergere anche la difficoltà di conciliare i vari obiettivi rilevanti, nella specie quello che chiede un «equo» livello del reddito da assicurare ai produttori e al tempo stesso il mantenimento di prezzi «ragionevoli» al consumo. Alla riferita elencazione degli obiettivi dell’Unione, il par. 2 dell’art. 39 TFUE fa seguire l’indicazione di alcuni elementi che il legislatore dell’Unione è tenuto a prendere in considerazione nell’elaborazione della PAC proprio in ragione della specialità di tale settore produttivo. In concreto, esso dovrà tenere in conto il carattere particolare dell’attività agricola che deriva dalla struttura sociale dell’agricoltura e dalle disparità strutturali e naturali fra le diverse regioni agricole, la necessità di operare gradualmente gli opportuni adattamenti, la stretta interdipendenza fra l’agricoltura e gli altri settori dell’economia, testimoniata anche dal fatto che la prima rientra a pieno titolo nel mercato interno. Tutte queste indicazioni fanno emergere in primo piano il ruolo degli interventi sui mercati e sui prezzi, mentre sembrano dare minore importanza a una politica che incida anche sui fattori di produzione dell’agricoltura, su quelle cioè che si usa definire le strutture agricole. Per lo meno questo è quanto ha a lungo testimoniato una prassi attenta per l’appunto più ai mercati e alla produzione dei prodotti agricoli che allo sviluppo complessivo e alla modernizzazione del settore. Ne è riprova il lungo squilibrio tra le risorse finanziarie assegnate ai meccanismi di mercato e quelle impiegate per il miglioramento delle strutture agricole. Non che quest’ultimo aspetto non sia stato tenuto presente anche in passato, come provano le note direttive sociostrutturali del 1972, che per quanto insufficienti, segnalavano comunque l’attenzione per questi profili. V. dir. del Consiglio 72/159/CEE, 72/160/CEE e 72/161/CEE, del 17 aprile 1972 (GUCE L 96, rispettivamente, 1, 9 e 15), nonché il reg. (CEE) n. 355/77, del 15 febbraio 1977 (GUCE L 51, 1), successivamente abrogato dal reg. (CEE) n. 4256/88 del Consiglio, del 19 dicembre 1988 (GUCE L 374, 25), a sua volta abrogato poi dal reg. (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia, FEAOG (GUCE L 160, 80).
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È però solo dopo molti anni, in particolare dopo la c.d. Agenda 2000 (v. COM (97) 2000 def., del 15 luglio 1997), che ha definito la complessiva riorganizzazione e semplificazione del quadro giuridico degli interventi nel campo delle strutture agrarie, che si sono registrate iniziative di maggior rilievo e incisività, tali insomma da far diventare la politica delle strutture un autentico secondo pilastro della PAC, accanto a quello dei mercati. Inizialmente alquanto frammentari ed eterogenei, questi interventi si sono poi ricomposti in un quadro unitario, secondo il metodo della programmazione pluriennale tipico degli interventi strutturali dell’Unione: in un primo tempo col citato reg. (CE) n. 1257/1999, applicabile per il periodo 2000-2006, poi con il reg. (CE) n. 1698/2005 (v. reg. del Consiglio, del 20 settembre 2005, sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale, FEASR, GUUE L 277, 1) per quanto riguarda il periodo di programmazione 2007-2013 e, infine, con il reg. (UE) n. 1305/2013, oggi vigente e relativo al periodo 2014-2020. V. reg. del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale, FEASR, e che abroga il reg. (CE) n. 1698/2005 del Consiglio, GUUE L 347, 487; da ultimo modificato dal reg. (UE) n. 2017/825 del PE e del Consiglio, del 17 maggio 2017, che istituisce il programma di sostegno alle riforme strutturali per il periodo 2017-2020 e che modifica i reg. (UE) n. 1303/2013 e (UE) n. 1305/2013, GUUE L 129, 1).
Quest’ultimo regolamento abbandona l’articolazione per assi tematici, seguita fino al 2013, in favore di un sistema di priorità generali che comprendono un certo numero di «settori d’interesse» più specifici. In quest’ambito, rivestono particolare importanza gli aspetti legati alla conservazione e alla gestione sostenibile delle risorse naturali nonché alla mitigazione dei cambiamenti climatici (tra cui rientra pure il sostegno a forme assicurative e fondi di mutualizzazione per coprire le perdite causate da avversità atmosferiche, emergenze ambientali o zoonosi). Un rilievo particolare assumono altresì il sostegno alle microimprese e alle piccole e medie imprese operanti nei settori agricolo e silvicolo, in particolare attraverso aiuti alla creazione d’impresa (start-up), e gli incentivi in favore di regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari. Viene, infine, mantenuto e potenziato lo strumento di sostegno allo sviluppo locale, c.d. Leader, già presente nei precedenti periodi di programmazione. I finanziamenti necessari per dette iniziative sono gestiti attraverso il Fondo europeo agricolo di sviluppo rurale (FEASR), sul quale torneremo tra breve.
4. L’organizzazione comune dei mercati agricoli Per la realizzazione degli obiettivi della PAC il Trattato abilita il legislatore dell’Unione a istituire delle organizzazioni comuni di mercato (o.c.m.). V. art. 40 TFUE. A sua volta, l’art. 43 TFUE fornisce la base giuridica per la creazione delle o.c.m., riferendosi anche all’ipotesi della sostituzione delle stesse alle organizzazioni nazionali di mercato. Sempre nell’ottica di consentire il raggiungimento degli obiettivi della PAC, è altresì prevista la possibilità di un coordinamento nel settore della formazione professionale, della ricerca
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e della divulgazione dell’agronomia, anche con progetti o istituzioni finanziate in comune, e con azioni comuni per lo sviluppo del consumo di determinati prodotti (art. 41 TFUE).
A seconda delle specificità del settore o del prodotto considerato e secondo l’apprezzamento del legislatore, l’o.c.m. può assumere una delle seguenti forme: a) un semplice complesso di regole comuni in materia di concorrenza, diretto ad assicurare, anche attraverso norme comuni di qualità, uguali condizioni di concorrenza tra i produttori e ad evitare lo sviamento dei traffici; b) il coordinamento delle diverse organizzazioni nazionali di mercato; c) la sostituzione di queste ultime con un’organizzazione unica a livello europeo, espressione con la quale si indica un insieme di norme e meccanismi volti a garantire la regolazione del mercato di un prodotto o di un gruppo di prodotti, con un sistema di prezzi garantiti all’interno per i prodotti dell’Unione e di barriere daziarie all’esterno per consentire alle produzioni degli Stati membri di mantenere adeguati livelli di redditività. Nella prassi è quest’ultimo modello che si è affermato per quasi tutti i settori agricoli, ma ciò in un quadro assai eterogeneo e confuso, cui nel 2007 ha cercato di dare unitarietà e razionalità il c.d. «regolamento unico o.c.m.» (v. da ultimo reg. (UE) n. 1308/2013 del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2013). Per l’essenziale, tale regolamento definisce un regime di sostegno diretto agli agricoltori attraverso la previsione di misure d’intervento nei casi in cui i prezzi dei prodotti in causa scendono al di sotto di un determinato livello (c.d. prezzi soglia) fissato volta a volta per le singole campagne di commercializzazione (periodi di riferimento). Ove ciò accada, scatta l’intervento pubblico, cioè un meccanismo di acquisto pubblico del prodotto ad un prezzo garantito. I prodotti sono acquistati all’intervento tramite aggiudicazione, sono conservati in appositi stock e, quando le condizioni di mercato lo consentono, sono rivenduti secondo modalità e a un prezzo tale da evitare turbative del mercato e assicurare un accesso non discriminatorio alle merci e la parità di trattamento degli acquirenti, il tutto però nel rispetto degli impegni derivanti dagli accordi internazionali conclusi dall’Unione.
Ma per alcuni prodotti vi sono anche altre forme di intervento più specifiche quali: l’ammasso privato (cioè un sistema volto a contenere l’offerta con incentivi erogati alle imprese che si impegnano a non immettere sul mercato i propri prodotti), alcune misure speciali, i regimi di contenimento della produzione e regimi di aiuto. Al tempo stesso, come si è accennato, viene previsto un regime degli scambi con i paesi terzi, articolato su misure dirette ad assicurare il controllo delle importazioni e a sostenere le esportazioni (c.d. restituzioni all’esportazione). Ai delineati meccanismi si è aggiunto il regime del c.d. pagamento unico, che si presenta come un ulteriore utile strumento di sostegno al reddito dei produttori, ma che è stato a sua volta modificato dal reg. n. 1307/2013, che ha previsto la scadenza dei diritti all’aiuto ottenuti in forza dei precedenti regolamenti e l’assegnazione di diritti nuovi, che dovrebbe tuttavia basarsi ancora, come regola generale, sul numero di ettari ammissibili a disposizione degli agricoltori nel primo anno di attuazione del regime.
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V. reg. (CE) n. 73/2009 del Consiglio, del 19 gennaio 2009 (GUUE L 30, 16), il quale è stato sostituito, a decorrere dal 1° gennaio 2015, dal reg. (UE) n. 1307/2013 del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, recante norme sui pagamenti diretti agli agricoltori nell’ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune e che abroga il reg. (CE) n. 637/2008 del Consiglio e il reg. (CE) n. 73/2009 del Consiglio (GUUE L 347, 608), eseguito con reg. (UE) n. 2017/1185 della Commissione, del 20 aprile 2017 (GUUE L 171, 113).. Il sistema è stato introdotto per la prima volta nell’ambito della c.d. mid-term review della PAC nel 2003 e trae origine dal meccanismo degli aiuti c.d. «diretti», istituiti nel 1992 con la riforma c.d. Mac Sharry, i quali, a differenza dei meccanismi d’intervento tipici delle o.c.m., di cui si è detto, non erano calcolati in funzione del volume della effettiva produzione, ma degli ettari coltivati o dei capi di bestiame detenuti.
Esso si caratterizza per il fatto di assicurare agli agricoltori, in misura comunque determinata dalla Commissione per ogni Stato membro, un contributo finanziario collegato alle terre coltivabili e in principio indipendente («disaccoppiato») dall’effettiva produzione, in modo che essi possano orientare la propria produzione seguendo unicamente la domanda del mercato. Il regime di pagamento unico, che sostituisce la maggior parte degli aiuti diretti ancora vigenti, è basato su un sistema di «diritti all’aiuto», collegati appunto alle terre coltivabili e trasferibili da un agricoltore all’altro. L’attribuzione iniziale di tali «diritti» è stata effettuata, nella maggior parte degli Stati membri, secondo un modello detto «storico», cioè sulla scorta degli aiuti percepiti in precedenza in un periodo considerato, mentre altri Stati membri hanno adottato un modello c.d. regionale, in cui il valore dei diritti è calcolato su base lineare per ciascuna delle «regioni» individuate dallo Stato membro. Tale sistema è stato poi ulteriormente modificato dal reg. n. 1307/2013, che dovrebbe produrre, come si è detto, una progressiva riduzione del modello storico.
Il contributo viene concesso, sotto il controllo dell’Unione, secondo criteri oggettivi e non discriminatori, limitatamente a massimali prefissati e nel rispetto di precise condizioni (c.d. «condizionalità»), pena la riduzione dei pagamenti o, nei casi più gravi, l’esclusione dal beneficio.
5. Il finanziamento della PAC Per realizzare gli obiettivi delle o.c.m., l’art. 40, par. 3, TFUE autorizza la creazione di «uno o più fondi agricoli di orientamento e di garanzia» per organizzare il finanziamento degli interventi in agricoltura. Inizialmente, com’è noto, fu istituito, con il reg. (CEE) n. 25/62 del Consiglio, del 14 gennaio 1962 (GUCE n. 30, 991), un Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEAOG), successivamente articolato in due sezioni («garanzia» e «orientamento»), destinate a finanziare rispettivamente, prima con fondi degli Stati membri e poi con risorse comuni, le spese legate al funzionamento delle o.c.m. e le spese relative alle strutture agricole (v. reg. (CEE) n. 17/64 del Consiglio, del 5 febbraio 1964, GUCE n. 34, 586). Dopo varie vicende, è stata finalmente realizzata una profonda riforma, tuttora in vigore, che ha sostituito il FEAOG con due distinti fondi: il Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA) e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR), in corri-
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spondenza con le preesistenti sezioni «garanzia» e «orientamento» del FEAOG. Ad essa ha fatto seguito anche l’istituzione del Fondo europeo per la pesca (FEP) ai fini degli interventi strutturali in quel settore, cui è subentrato per il periodo di programmazione 2014-2020, il Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP). Per il FEAGA e il FEASR, v. reg. (CE) n. 1290/2005 del Consiglio, del 21 giugno 2005 (GUUE L 209, 1), che ha abrogato il già citato reg. n. 25/62. Detto regolamento è stato poi sostituito dal reg. (UE) n. 1306/2013 del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2013 (GUUE L 347, 549), che riunisce in un unico testo le disposizioni sul finanziamento, sulla gestione e sul monitoraggio della PAC, da ultimo integrato dal reg. delegato (UE) n. 2017/891 della Commissione, del 13 marzo 2017 (GUUE L 138, 4). Per il FEP, v. reg. (CE) n. 1198/2006 del Consiglio, del 27 luglio 2006 (GUUE L 226, 1). Per il nuovo FEAMP, v. reg. (UE) n. 1303/2013 del PE e del Consiglio, del 17
dicembre 2013, recante disposizioni comuni sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione, sul Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca e disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca, e che abroga il reg. (CE) n. 1083/2006 del Consiglio (GUUE L 347, 320), da ultimo modificato dal reg. (UE) n. 2017/825 del PE e del Consiglio, del 17 maggio 2017 (GUUE L 129, 1) già citato (v. anche p. 765); nonché il reg. (UE) n. 508/2014, del PE e del Consiglio, del 15 maggio 2014, relativo al FEAMP (GUUE L 149, 1).
I Fondi agricoli fanno parte del bilancio generale dell’Unione e sono quindi finanziati attraverso le risorse proprie di quest’ultima. Essi operano con il sistema c.d. di gestione concorrente, vale a dire con la cooperazione fra gli Stati membri e la Commissione: a quest’ultima compete l’amministrazione dei fondi, agli Stati membri la responsabilità del pagamento delle spese finanziate dai Fondi e della regolarità di tali pagamenti, peraltro sotto controllo (c.d. verifica di conformità) da parte della Commissione. Tale controllo può portare a una decisione di rifiuto del finanziamento dell’Unione delle spese in relazione alle quali siano state constatate irregolarità, rifiuto che però riguarda soltanto i rapporti finanziari fra la Commissione e gli Stati membri, e non si riflette quindi, almeno nell’immediato, nei confronti del beneficiario dei pagamenti irregolarmente eseguiti.
6. La politica comune della pesca La formazione di una politica della pesca separata da quella generale dell’agricoltura è sopravvenuta nel tempo, dato che, all’interno della PAC, il Trattato di Roma non faceva cenno alle specifiche peculiarità dei prodotti della pesca. Alla fine, però, sia pur nel generale contesto della disciplina in esame, un’autonoma politica comune della pesca (PCP) si è via via formata. Essa è stata fondata su una specifica o.c.m. creata, come le altre, ai sensi dell’art. 40 TFUE, nonché su un insieme di misure volte alla conservazione e gestione delle risorse alieutiche e su una politica delle strutture. Naturalmente, un rilievo tutt’altro che secondario hanno svolto in questo ambito gli accordi internazionali conclusi dall’Unione in materia di conservazione e di accesso a quelle risorse. Ma è stato il Trattato di Lisbona a dare un’evidenza anche formale alla pesca, di-
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chiarando anzitutto che la conservazione delle risorse biologiche marine nell’ambito della PCP è (come del resto la Corte aveva da tempo affermato) materia di competenza esclusiva dell’Unione (art. 3, par. 1, lett. d), TFUE), e poi evocando esplicitamente la pesca nell’intestazione del Titolo III, ora in esame, e nei primi due commi del par. l dell’art. 38 TFUE. Inoltre, come ricordato, è stata istituita un’apposita o.c.m. dei prodotti della pesca, modellata però su quelle create per altri prodotti agricoli nell’ambito della c.d. «o.c.m. unica», di cui si è detto poc’anzi. V. reg. (UE) n. 1379/2013 del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore dei prodotti della pesca e dell’acquacoltura, recante modifica ai reg. (CE) n. 1184/2006 e n. 1224/2009 del Consiglio e che abroga il reg. (CE) n. 104/2000 del Consiglio (GUUE L 354, 1), modificato da ultimo dal reg. (UE) n. 2015/812 del PE e del Consiglio, del 20 maggio 2015, che modifica i reg. (CE) n. 850/98, (CE) n. 2187/2005, (CE) n. 1967/2006, (CE) n. 1098/2007, (CE) n. 254/2002, (CE) n. 2347/2002 e (CE) n. 1224/2009 del Consiglio, e i reg. (UE) n. 1379/2013 e (UE) n. 1380/2013 del PE europeo e del Consiglio per quanto riguarda l’obbligo di sbarco e abroga il reg. (CE) n. 1434/98 del Consiglio (GUUE L 133, 1).
Una netta specificità presenta invece la disciplina della conservazione e gestione delle risorse alieutiche, oggetto oggi del reg. (UE) n. 1380/2013, del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013 (GUUE L 354, 22; anch’esso da ultimo modificato dal reg. (UE) n. 2015/812, cit.), il quale è orientato nel senso di un forte decentramento, per non dire di autentica rinazionalizzazione (c.d. regionalizzazione) di quella disciplina. Per assicurare la conservazione e gestione delle risorse alieutiche, la vigente disciplina organizza lo sfruttamento delle risorse in parola, nel rispetto del principio di non discriminazione nell’accesso alle acque e alle risorse, garantito in acque comunitarie a tutte le flotte pescherecce degli Stati membri, salvo che per la fascia costiera (12 miglia nautiche), per la quale sono ammesse, a titolo transitorio, alcune limitazioni. Viene dunque introdotto un sistema di pianificazione pluriennale nella gestione delle risorse, attraverso piani di ricostituzione degli stock più minacciati e piani di gestione per disciplinare lo sfruttamento degli stock che si trovano entro i limiti biologici di sicurezza. E ciò con misure di varia natura: imposizione di limiti quantitativi alle catture, fissazione del numero massimo di pescherecci autorizzati ad operare, definizione di zone geografiche o di periodi in cui le attività di pesca sono vietate o sottoposte a restrizione. Il Consiglio fissa annualmente il volume massimo di catture autorizzate (Total Allowable Catches o TAC) per ogni stock alieutico e ripartisce poi le quote tra gli Stati membri in base al c.d. principio della «stabilità relativa», garantendo cioè a ognuno la stabilità relativa delle attività di pesca per ciascuno stock o ciascun tipo di pesca. Gli Stati membri devono per parte loro assicurare i necessari controlli attenendosi alle norme all’uopo stabilite (v. reg. (CE) n. 1224/2009 del Consiglio, del 20 novembre 2009, GUUE L 343, 1, da ultimo modificato dal reg. (UE) n. 2015/812, cit.), e avvalendosi dell’Agenzia europea di controllo della pesca (istituita con reg. (CE) n. 768/2005 del Consiglio, del 26 aprile 2005, GUUE L 128, 1, da ultimo modificato dal reg. (UE) n. 2016/1626 del PE e del Consiglio, del 14 settembre 2016, recante modifica del reg. (CE) n. 768/2005 del Consiglio, GUUE L 251, 80). Sempre per contrastare il costante depauperamento degli stock alieutici viene im-
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posto agli Stati membri di mantenere la propria flotta peschereccia entro determinati limiti massimi di tonnellaggio e di potenza motrice. Allo stesso fine, è previsto che gli interventi strutturali dell’Unione in materia di pesca e acquacoltura, dettati dal reg. (CE) n. 1198/2006, del Consiglio del 27 luglio 2006 (GUCE L 223, 1), che ha istituito il menzionato Fondo europeo per la pesca (FEP), operativo per il periodo di programmazione 2007-2013, non possano sostenere in alcun modo gli investimenti per nuove costruzioni o ammodernamenti del naviglio dai quali possa risultare un incremento netto delle capacità di pesca, mentre viene incentivata la cessazione definitiva delle attività dei pescherecci, la diversificazione delle attività dei pescatori e la loro riconversione professionale, o anche il prepensionamento. Principi analoghi sono alla base degli interventi strutturali previsti per il periodo di programmazione 2014-2020, durante il quale, come si è detto, al FEP viene sostituito il più articolato Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP): v. reg. (UE) n. 508/2014 (L 149, 1), già cit.
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CAPITOLO IV
La libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali Sommario: I. La libera circolazione dei lavoratori. 1. Considerazioni generali. – 2. Ambito di applicazione. – 3. Il contenuto della libertà. – 4. Le limitazioni alla libera circolazione. – 5. Le misure in materia di sicurezza sociale. – II. Il diritto di stabilimento e la libera prestazione dei servizi. 6. Profili generali. – 7. Il diritto di stabilimento e la prestazione dei servizi. Nozione. L’elemento transfrontaliero. – 8. L’ambito di applicazione della liberalizzazione: a) temporale. – 9. Segue: b) soggettivo. – 10. Segue: c) oggettivo. – 11. Portata e contenuto della liberalizzazione. Le restrizioni vietate. Le discriminazioni fondate sulla nazionalità. – 12. Segue: Le discriminazioni fondate sulla residenza o su altri profili della prestazione. Le restrizioni c.d. indistintamente applicabili. – 13. I limiti all’esercizio del diritto di stabilimento e della libera circolazione dei servizi. – 14. L’attuazione delle liberalizzazioni. In generale. – 15. Segue: Le principali direttive di armonizzazione: a) il riconoscimento delle qualifiche professionali; b) la direttiva generale «servizi»; c) le direttive in materia societaria; d) altre direttive settoriali (avvocati, appalti, banche e assicurazioni). – III. Capitali e pagamenti. 16. Introduzione. – 17. La portata della liberalizzazione. – 18. La prassi applicativa. – 19. Le relazioni con i paesi terzi. – 20. Le restrizioni alla liberalizzazione.
I. La libera circolazione dei lavoratori 1. Considerazioni generali Secondo l’originario disegno dei Trattati, il mercato comune prevedeva, tra l’altro, l’eliminazione fra gli Stati membri degli ostacoli alla libera circolazione «delle persone» (art. 3, lett. c), TCEE), ma in realtà le pertinenti disposizioni materiali si preoccupavano dei soli cittadini degli Stati membri c.d. economicamente attivi per assicurare loro l’ingresso e il soggiorno in un altro Stato membro al fine di prestare, senza subire discriminazioni, la propria attività come lavoratori subordinati o di prestarvi i propri servizi come indipendenti. Sebbene, come si è visto (p. 393 ss.), la libera circolazione dei cittadini dell’Unione sia oggi generalizzata, il Trattato continua a dettare apposite norme materiali solo per le ipotesi indicate, lasciando ai principi e a norme di portata generale di occuparsi degli altri casi.
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Vedremo nelle pagine che seguono in quali termini si articola la specifica normativa relativa ai lavoratori e come essa sia stata fin qui attuata; prima però conviene fornirne un sintetico inquadramento nel contesto della generale disciplina sulle libertà fondamentali relative alle persone. È quest’ultima, in effetti, una disciplina che si caratterizza, nel suo complesso, per la sua ispirazione unitaria quanto alle finalità perseguite, ma altresì per l’omogeneità dello schema normativo adottato e soprattutto dei principi fondamentali su cui essa s’impernia, a cominciare da quello che più di ogni altro impronta la materia, vale a dire il divieto di discriminazione fra i cittadini degli Stati membri. A tale sostanziale unitarietà e omogeneità, a ogni occasione sottolineata anche dalla Corte di giustizia, non fa certo velo il rilievo che essa si articoli in previsioni distinte secondo che si tratti dei lavoratori salariati, dello stabilimento e della prestazione di servizi, perché tale articolazione trae motivo soprattutto da finalità di ordine pratico, che non inficiano le ben più rilevanti caratteristiche unitarie. In quanto, invero, i lavoratori dipendenti svolgono un’attività che comporta normalmente la permanenza nello Stato in cui è prestato il lavoro, si è ritenuto possibile, e anche opportuno, regolare per essi congiuntamente sia la libertà di circolazione che quella di stabilimento; mentre per i servizi le due libertà non devono necessariamente procedere di pari passo, dato che la prestazione degli stessi può benissimo svolgersi senza comportare lo stabilimento del prestatore in un altro Stato membro: da qui, dunque, l’opportunità di un’espressa e distinta previsione del diritto di stabilimento per le attività autonome. D’altra parte, la realizzazione di queste libertà comporta molte più difficoltà per i non salariati: vuoi per gli specifici e più complessi ostacoli da superare (riconoscimento dei titoli di studio, coordinamento delle condizioni di accesso alle attività non salariate, ecc.), vuoi per la riluttanza degli Stati ad accettare un afflusso incontrollato di operatori indipendenti, suscettibile di accrescere la concorrenza con gli operatori locali e in genere d’incidere più profondamente sull’assetto economico-sociale dello Stato ospite; laddove per i lavoratori dipendenti il flusso migratorio è più agevolmente controllabile, perché collegato all’offerta e quindi all’effettiva disponibilità di posti di lavoro. Si spiega, allora, perché è parso preferibile separare la disciplina relativa ai servizi da quella sui lavoratori, in modo da evitare di coinvolgere i secondi negli inevitabili ritardi che avrebbero subìto – e in effetti hanno poi subìto – i primi. Su analoghi motivi si fonda, poi, anche la distinta previsione del diritto di stabilimento e della libera prestazione nel settore dei servizi, dato che per l’attuazione dell’uno e dell’altra gli ostacoli da superare non sono del tutto coincidenti. Ciò posto, e venendo ai «lavoratori», va detto subito che la disciplina relativa alla loro circolazione all’interno dell’Unione è dettata oggi dagli artt. 45-48 TFUE, i quali peraltro dispongono in materia in termini non molto diversi dall’originario TCEE (artt. 48-51) e dal successivo TCE (artt. 39-42). Rilevano inoltre al riguardo importanti atti di diritto derivato di portata generale e specifica già adottati in materia, mentre altri potranno ancora esserlo seguendo la procedura legislativa ordinaria e le linee precisate dallo stesso Trattato. Per gli atti di portata generale rileva soprattutto la dir. 2004/38/CE del PE e del Consiglio, del 29 aprile 2004 (GUUE L 158, 77), relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di
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circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che codifica i principi e la ricca giurisprudenza della Corte in materia, ma dedica ancora alcune norme specificamente ai lavoratori, in continuità con la precedente prassi legislativa che a essi consacrava numerosi atti di diritto derivato, ora quasi tutti abrogati dalla direttiva (sulla quale v. ampiamente p. 396 ss.). V. inoltre il reg. (UE) n. 492/2011 del PE e del Consiglio, del 5 aprile 2011 (GUUE L 141, 1), relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione (modificato di recente dal reg. (UE) n. 2016/589 del PE e del Consiglio, del 13 aprile 2016, relativo a una rete europea di servizi per l’impiego – EURES, all’accesso dei lavoratori ai servizi di mobilità e a una maggiore integrazione dei mercati del lavoro e che modifica i reg. (UE) n. 492/2011 e n. 1296/2013, GUUE L 107, 1), che ha per l’appunto sostituito le poche disposizioni del reg. (CEE) n. 1612/68 del Consiglio, del 15 ottobre 1968 (GUCE L 257, 2), relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità, non (ancora) abrogate dalla citata dir. 2004/38; nonché il reg. (CE) n. 883/2004 del PE e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale (GUCE L 166, 1), modificato da ultimo dal reg. (UE) n. 2017/492 della Commissione, del 21 marzo 2017, che modifica il reg. (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale e il reg. (CE) n. 987/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce le modalità di applicazione del reg. (CE) n. 883/2004 (GUUE L 76, 13). Quanto a eventuali ulteriori provvedimenti, va ricordato che l’art. 46 TFUE indica alcune linee di intervento volte a favorire la circolazione e l’impiego dei lavoratori, in particolare, attraverso un’utile collaborazione tra le competenti autorità nazionali. Per la verità, i risultati di tale collaborazione non sono stati fin qui straordinari, ma merita comunque di essere segnalata la creazione dell’Ufficio europeo di coordinamento della compensazione delle domande e delle offerte di lavoro (di cui agli artt. 18 e 19 del citato reg. n. 492/2011); nonché la Rete europea dei servizi per l’impiego (EURES), istituita dalla dec. 93/569/CEE della Commissione, del 22 ottobre 1993 (GUCE L 274, 32) e poi potenziata con l’adozione della dec. di esecuzione 2012/733/UE della Commissione, del 26 novembre 2012, che attua il reg. n. 492/2011 (GUUE L 328, 21), fino al cit. reg. 2016/589/UE.
Alla base di tale disciplina rimane il principio della libertà di circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione (art. 45, par. 1, TFUE), il quale espressamente sancisce il loro diritto di circolare e soggiornare nel territorio dell’Unione al fine di esercitare la propria attività lavorativa negli altri Stati membri senza subire alcuna discriminazione fondata sulla nazionalità (ma, come si dirà tra breve, anche sulla residenza e su altri fattori), per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro (art. 45, par. 2, TFUE). Vedremo subito come si articola la realizzazione di tale principio. Per ora possiamo limitarci a sottolineare, in termini generali, che in quanto volto a realizzare una libertà fondamentale dell’Unione, esso deve essere interpretato, al pari delle relative norme di attuazione, in modo estensivo, mentre le restrizioni che gli Stati membri possono, in via d’eccezione, apporre all’esercizio di quella libertà devono essere intese in senso restrittivo. Si può anche aggiungere che l’art. 45 TFUE, come la Corte ha chiarito fin dall’inizio, ha efficacia diretta e può quindi essere invocato innanzi ai giudici nazionali; ma può anche produrre effetti, c.d. orizzontali, nei rapporti tra privati, «poiché nei vari paesi membri la prestazione del lavoro è disciplinata talvolta da norme emanate dallo Stato, talvolta da contratti o atti di natura privatistica» e, pertanto, «se il divieto sancito dal diritto comunitario avesse valore unicamente per gli atti della pubblica autorità, potrebbe scaturirne una difformità d’applicazione» (v. Corte giust. 12 dicembre 1974, 36/74, Walrave, 1405, punti 16-19). La sanzione della sua violazione colpisce anche atti di natura privatistica, visto che viene espressamente sancito che
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tutte «le clausole di contratti collettivi o individuali o di altre regolamentazioni collettive concernenti l’accesso all’impiego, l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro e di licenziamento, sono nulle di diritto nella misura in cui prevedano o autorizzino condizioni discriminatorie nei confronti dei lavoratori cittadini degli altri Stati membri». V. art. 7, par. 4, reg. n. 492/2011 cit.; in tal caso, però, sono fatti salvi i diritti acquisiti dei lavoratori: Corte giust. 26 giugno 2001, C-212/99, Commissione c. Italia, I-4923. In materia, v. anche Corte giust. 15 dicembre 1995, C-415/93, Bosman, I-4921; 11 aprile 2000, C-51/96 e C191/97, Deliège, I-2549; 6 giugno 2000, C-281/98, Angonese, I-4139; 16 marzo 2010, C-325/08, Olympique Lyonnais, I-2177; 28 giugno 2012, C-172/11, Erny.
2. Ambito di applicazione Beneficiari della liberalizzazione sono i cittadini degli Stati membri, ma in alcuni casi anche i cittadini di Stati terzi legati all’Unione da accordi internazionali, che abbiano la qualifica di «lavoratore». In alcuni casi, peraltro, il principio della liberalizzazione per i lavoratori “cittadini” non ha trovato immediata applicazione. Infatti, per i cittadini dei dieci Stati che hanno aderito all’Unione il 1° maggio 2004, come per i due che hanno aderito il 1° gennaio 2007, gli Stati già membri potevano derogare all’applicazione delle norme in questione per un periodo massimo di sette anni. Quanto alla Croazia, era previsto che per un periodo (prorogabile) di due anni dalla data di adesione (1° luglio 2013) gli altri Stati membri potessero continuare ad applicare misure nazionali ovvero misure previste da accordi bilaterali che disciplinavano l’accesso dei cittadini croati al proprio mercato del lavoro. Per l’applicazione della libertà in esame ai cittadini di Stati terzi, v., in particolare, l’accordo sullo Spazio economico europeo (SEE), che contiene (all’allegato V) disposizioni analoghe a quella in esame, così come trovano applicazione per i cittadini degli Stati parti di tale accordo (Islanda, Liechtenstein e Norvegia) la dir. 2004/38 e il reg. n. 492/2011. Ma lo stesso accade anche per l’accordo di associazione con la Turchia del 1963, in cui però è previsto solo che le parti s’ispireranno all’art. 48 ss. TCEE (ora art. 45 ss. TFUE) per far sì che, tra di esse, sia assicurata la libera circolazione delle persone. Nell’abbondante giurisprudenza elaborata ai fini dell’interpretazione di tale accordo (e della relativa dec. di applicazione n. 1/80 del Consiglio d’associazione CEETurchia, del 19 settembre 1980), la Corte, pur riconoscendo la diversità delle situazioni, ha cercato di avvicinare quanto più possibile il trattamento del lavoratore turco a quello dei cittadini dell’Unione (v., ex multis, Corte giust. 17 settembre 2009, C-242/06, Sahin, I-8465; 24 settembre 2013, C-221/11, Demirkan; 11 settembre 2014, C-91/13, Essent Energie Productie; 12 aprile 2016, C-561/14, Genc; 29 marzo 2017, C-652/15, Tekmedir). Infine, conviene ricordare, in questo contesto, l’art. 15, par. 3, Carta dir. fond., secondo il quale i «cittadini dei paesi terzi che sono autorizzati a lavorare nel territorio degli Stati membri hanno diritto a condizioni di lavoro equivalenti a quelle di cui godono i cittadini dell’Unione».
Il Trattato tuttavia non definisce la nozione di “lavoratore”, ancorché essa sia essenziale per distinguere quella in esame dalle libertà di stabilimento e prestazione dei servizi; soccorre però al riguardo la giurisprudenza della Corte, che ne ha precisato i contorni. In particolare, essa ha chiarito che, al pari di quanto accade in molti altri casi, si è qui in presenza di una nozione del diritto dell’Unione, cioè di una no-
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zione «comunitaria», quindi autonoma e uniforme, che va ricostruita non già con riferimento alle corrispondenti nozioni dei diritti nazionali, ma alla luce dei principi che caratterizzano l’ordinamento giuridico dell’Unione (v. già Corte giust. 19 marzo 1964, 72/63, Unger, 364. Ma v. anche Corte giust. 23 marzo 1982, 53/81, Levin, 1035) e sulla base di «criteri obiettivi che caratterizzino il rapporto di lavoro sotto il profilo dei diritti e degli obblighi delle persone interessate» (v. Corte giust. 3 luglio 1986, 66/85, Lawrie-Blum, 2121). In particolare, «la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione». Ibidem. Più recentemente, v. anche Corte giust. 10 settembre 2014, C-270/13, Haralambidis; 17 novembre 2016, C-216/15, Betriebsrat der Ruhrlandklinik. Si noti che la normativa in esame si applica anche ad attività esercitate all’esterno dell’Unione, qualora il rapporto giuridico di lavoro sia localizzato nell’ambito (territoriale) della stessa Unione, ovvero conservi un collegamento sufficientemente stretto con detto ambito: v. Corte giust. 12 luglio 1984, 237/83, Prodest, 3153; 23 gennaio 1986, 298/84, Iorio, 247; 30 aprile 1996, C-214/94, Boukhalfa, I-2253; e 28 febbraio 2013, C-544/11, Petersen e Petersen.
Tre sono dunque i criteri rilevanti al riguardo: lo svolgimento di prestazioni lavorative; il carattere subordinato del rapporto di lavoro; e la percezione di un salario per l’attività prestata. Quanto al primo aspetto, la Corte ha precisato che le prestazioni in questione devono corrispondere ad «attività economiche reali ed effettive» (seppur di bassa produttività: Corte giust. 31 maggio 1989, 344/87, Bettray, 1621, punto 13). Il tipo di prestazioni lavorative svolte è pressoché irrilevante, a condizione comunque che si tratti di attività economiche (ovvero, remunerate). Possono quindi esserlo, ad es., anche le attività (commerciali) svolte in qualità di membro di una comunità religiosa (cfr. Corte giust. 5 ottobre 1988, 196/87, Steymann, 6159); quelle legate a un tirocinio nell’ambito di una formazione professionale, laddove detto tirocinio si svolga secondo le modalità di un’attività retribuita reale ed effettiva (Corte giust. 26 febbraio 1992, C-3/90, Bernini, I-1071); così come le prestazioni svolte nell’ambito di un progetto individuale di inserimento socio-professionale, in cambio dell’alloggio e di un po’ di denaro per le piccole spese, alle dipendenze di un centro dell’Esercito della salvezza (Corte giust. 7 settembre 2004, C-456/02, Trojani, I-7573); nonché le attività di un membro del comitato direttivo di una società di capitali che fornisca, a fronte di una retribuzione, prestazioni alla società che lo ha nominato (Corte giust. 9 luglio 2015, C-229/14, Balkaya) e quelle svolte dal presidente di un’autorità portuale (sentenza Haralambidis, cit.); le attività sportive, in quanto attività economiche, come nel caso dei ciclisti (sentenza Walrave, cit.), dei calciatori professionisti o semiprofessionisti che svolgono un lavoro subordinato o effettuano prestazioni di servizi retribuite (Corte giust. 14 luglio 1976, 13/76, Donà, 1333; e 15 dicembre 1995, C-415/93, Bosman, cit.), o dei giocatori professionisti di pallacanestro (Corte giust. 13 aprile 2000, C-176/96, Lehtonen, I-2681) o di handball (Corte giust. 8 maggio 2003, C-438/00, Kolpak, I-4135). Sono escluse invece le attività di puro interesse sportivo (come, ad es., la composizione di squadre sportive, in particolare delle rappresentative nazionali, operata esclusivamente in base a criteri tecnico-sportivi).
Per quanto riguarda poi il secondo criterio, ciò che rileva è la prestazione da parte del lavoratore delle attività in questione con vincolo di subordinazione rispetto al potere organizzativo di un altro soggetto (sia esso regolato dal diritto pubblico o dal
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diritto privato), da accertare sulla base delle circostanze e dei fattori che contraddistinguono il rapporto tra dette parti. Non esclude la qualifica di lavoratore il fatto che una persona sia legata da vincolo familiare con il datore di lavoro (Corte giust. 8 giugno 1999, C-337/97, Meeusen, I-3289), o abbia un legame di natura associativa con altri lavoratori (cfr. Corte giust. 10 dicembre 1991, C-179/90, Gabrielli, I-5889). Opposta è la conclusione per chi svolga la propria attività come direttore di una società della quale sia l’unico azionista (Corte giust. 27 giugno 1996, C-107/94, Asscher, I-3089).
Infine, relativamente al terzo criterio (la percezione di un salario per l’attività svolta), è necessario che l’attività lavorativa sia prestata dietro corrispettivo, essendo a tal fine irrilevante tanto l’eventuale modesta entità della retribuzione quanto l’origine della stessa. Cfr., ex multis, Corte giust. 19 novembre 2002, C-188/00, Kurz, I-10691. Sono considerati come retribuzione anche eventuali vantaggi in natura (cfr. la sentenza 7 settembre 2004, C456/02, Trojani, I-7573).
Oltre a quelle già indicate, e sempre nella linea di un’interpretazione estensiva, la giurisprudenza della Corte ha permesso di fornire ulteriori precisazioni sulla portata soggettiva della libertà in esame. A parte l’attenzione per i giovani, sollecitata dallo stesso Trattato (cfr. art. 47 TFUE, ai sensi del quale gli «Stati membri favoriscono, nel quadro di un programma comune, gli scambi di giovani lavoratori»), l’applicazione dell’art. 45 TFUE è stata estesa a varie altre categorie di persone, quali le persone in cerca d’occupazione o gli ex-lavoratori. E ciò anche se l’art. 45 TFUE riconosce il diritto di rispondere ad «offerte effettive» di lavoro. Cfr. Corte giust. 26 febbraio 1991, C-292/89, Antonissen, I-745; nonché 20 febbraio 1997, C-344/95, Commissione c. Belgio, I-1035. Gli Stati membri possono fissare un termine massimo per la ricerca del lavoro, prorogabile se l’interessato provi di continuare a cercare lavoro e di avere effettive possibilità di essere assunto; in ogni caso, egli non può essere obbligato a lasciare il territorio dello Stato membro ospitante. Del resto, l’art. 15 della Carta dir. fond. proclama, inter alia, la libertà di ogni cittadino dell’Unione «di cercare un lavoro» in qualunque Stato membro. Per le persone in cerca di lavoro, cfr. Corte giust. 21 giugno 1988, 39/86, Lair, 3161; 19 giugno 2014, C-507/12, Saint Prix, anche se sono rientrati nello Stato membro d’origine dopo aver lavorato in un altro Stato membro: cfr. Corte giust. 7 luglio 1992, C-370/90, Singh, I-4265. Secondo l’art. 7 della dir. 2004/38, poi, conserva la qualifica di lavoratore chi: sia temporaneamente inabile al lavoro a seguito di una malattia o di un infortunio; trovandosi in stato di disoccupazione involontaria dopo aver lavorato per almeno un anno, si sia registrato presso l’ufficio di collocamento competente (conservando, in tal caso, la qualità di lavoratore subordinato per un periodo non inferiore a sei mesi); oppure segua un corso di formazione professionale, collegabile all’attività professionale precedentemente svolta (v. causa pendente C-442/16, Gusa).
Uno specifico regime è previsto per i familiari dei lavoratori migranti, regime anch’esso definito in termini generosi dalla Corte, dato che mira da un lato a mantenere l’unità e l’integrità del nucleo familiare del lavoratore, dall’altro a facilitarne l’inserimento nella vita sociale del paese ospitante. V. in particolare i citati reg. 492/11 e dir. 2004/38. Va ricordato che sono considerati membri della famiglia del lavoratore migrante: il coniuge o il partner che abbia contratto un’unione regi-
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strata (ma è chiesto agli Stati membri di agevolare anche altri casi di convivenza), i figli minori o comunque a carico del lavoratore o del suo partner, e gli ascendenti diretti che siano a carico di questi ultimi. Essi, per il solo fatto di godere di tale status, e finché ne godono, hanno il diritto di circolare e soggiornare nell’Unione e di accedere a ed esercitare in essa un’attività lavorativa, di non subire discriminazioni e di godere dei vantaggi sociali al pari del familiare/lavoratore (e ciò anche se non hanno la nazionalità di uno Stato membro). Sul punto, v. comunque amplius, p. 396 ss.
Da ultimo, va ricordato che, come per tutte le libertà in esame, l’ambito di applicazione dell’art. 45 TFUE è limitato alle situazioni i cui elementi non siano confinati all’interno di un unico Stato membro, a situazioni cioè che presentino elementi transfrontalieri (v. supra, p. 446). Cfr., ex multis, Corte giust. 1° aprile 2008, C-212/06, Gouvernement de la Communauté française e Gouvernement wallon, I-1683. Sempre nella stessa pronuncia, la Corte ha affermato che «ogni cittadino [dell’Unione] che abbia usufruito del diritto alla libera circolazione dei lavoratori e abbia esercitato un’attività lavorativa in uno Stato membro diverso da quello di residenza, indipendentemente dal luogo di residenza e dalla cittadinanza, rientra nella sfera di applicazione» del diritto dell’Unione (punto 34). La situazione di cui nel testo si verifica ogni qualvolta una persona lavori in uno Stato membro diverso da quello di provenienza, e dunque anche quando lavori nel proprio paese di origine ma risieda all’estero (cfr. Corte giust. 18 luglio 2007, C-212/05, Hartmann, I-6303). Quanto ai c.d. lavoratori frontalieri, essi beneficiano delle norme sulla libera circolazione dei lavoratori nello Stato membro in cui lavorano (cfr., ad es., Corte giust. 26 febbraio 1992, C-357/89, Raulin, I-1027).
3. Il contenuto della libertà Come già accennato, la libertà di circolazione dei lavoratori comporta «l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro» (art. 45, par. 2, TFUE), nonché una serie di diritti, che costituiscono una sorta di corollario del principio generale e che sono enumerati, sia pur in termini non esaustivi, dalla stessa disposizione (par. 3). In particolare, rilevano al riguardo: a) il diritto di rispondere a offerte di lavoro effettive; b) il diritto di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri; c) il diritto di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali; nonché d) il diritto di rimanere (a determinate condizioni), sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego. Ma, evidentemente, anche la libertà di uscire dal proprio Stato. Si allude alle c.d. discriminazioni in uscita, che colpiscono i cittadini di uno Stato membro che esercitano i diritti di libera circolazione e che vengono proprio per questo motivo sottoposti dal loro stesso Stato a un trattamento deteriore rispetto a quello riservato ai cittadini che non si avvalgono di tali diritti: cfr., ad es., Corte giust. 31 marzo 1993, C-19/92, Kraus, I-1663.
Il principio cardine in materia resta dunque, come anticipato, il principio di non discriminazione tra i lavoratori migranti cittadini dell’Unione e quelli dello Stato
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membro d’immigrazione, con il suo specifico corollario, vale a dire il «principio del trattamento nazionale», il quale implica non solo che «le stesse norme siano applicate ai cittadini nazionali ed agli stranieri, ma anche che dette norme siano applicate a queste due categorie di persone allo stesso modo» (v. Corte giust. 7 maggio 1986, 131/85, Gül, 1573, punto 25). Il principio si applica, secondo la norma, a tutti gli aspetti attinenti all’accesso e all’esercizio dell’impiego, alla retribuzione e alle altre condizioni di lavoro, ma la sua portata è stata ancora una volta ampliata notevolmente nell’interpretazione della Corte e negli atti che la hanno codificata, in particolare nel reg. n. 492/2011, il quale include nelle «condizioni di lavoro», tra l’altro, i licenziamenti e la reintegrazione professionale o il ricollocamento, se il lavoratore è rimasto disoccupato. V. l’intero Capo I di tale regolamento, dedicato a «L’impiego, la parità di trattamento e la famiglia dei lavoratori», il quale si articola in tre Sezioni dedicate rispettivamente all’accesso all’impiego, al suo esercizio e alla famiglia dei lavoratori. Ma v. anche la dir. 2014/54/UE del PE e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativa alle misure intese ad agevolare l’esercizio dei diritti conferiti ai lavoratori nel quadro della libera circolazione dei lavoratori (GUUE L 128, 8).
Senza procedere a una lunga elencazione dei numerosi casi in cui la Corte ha precisato ed esteso la portata materiale del principio, ma solo per fare qualche esemplificazione, basterà ricordare riassuntivamente: che vanno applicate anche a favore dei lavoratori migranti le disposizioni o prassi nazionali che riservino la precedenza ai cittadini dello Stato ospite per l’accesso agli impieghi disponibili; che non sono applicabili invece quelle che limitano il numero o la percentuale degli stranieri occupati (Corte giust. 4 aprile 1974, 167/73, Commissione c. Francia, 359); che il lavoratore migrante che ricerca un impiego sul territorio di un altro Stato membro, deve in questo ricevere la stessa assistenza riservata ai lavoratori nazionali; che la sua assunzione non può essere subordinata a criteri medici, professionali o altri criteri discriminatori in base alla cittadinanza, e così via. Una segnalazione particolare merita anche l’estensione del principio in esame al godimento dei vantaggi sociali e fiscali, intendendosi per tali «tutti i vantaggi che, connessi o meno ad un contratto di lavoro, sono generalmente attribuiti ai lavoratori nazionali in relazione, principalmente, alla loro qualifica obiettiva di lavoratori o al semplice fatto della loro residenza nel territorio nazionale e la cui estensione ai lavoratori cittadini di altri Stati membri appare pertanto atta a facilitare la loro mobilità all’interno [dell’Unione]» (Corte giust. 31 maggio 1979, 207/78, Even e ONPTS, 2019, punto 22. Ma v. anche, ex multis, Corte giust. 12 maggio 1998, C-85/96, Martínez Sala, I-2691). In essi la Corte ha incluso, ad esempio, quelli relativi all’alloggio, ivi compreso l’accesso alla proprietà dell’alloggio, l’assegno minimo per la sussistenza o l’indennità di educazione, le borse di studio e gli assegni di nascita, l’accesso all’insegnamento nelle scuole professionali e nei centri di riadattamento o di rieducazione. Lo stesso indirizzo è stato seguito per l’esercizio dei diritti sindacali. Va ancora segnalato che le discriminazioni di cui si è fin qui parlato sono vietate quando si presentano sia in forma palese e diretta, sia nella forma delle c.d. discriminazioni indirette o occulte, cioè come misure che, sebbene indistintamente applicabili ai lavoratori migranti e a quelli cittadini dello Stato d’immigrazione, hanno
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tuttavia lo scopo o l’effetto (esclusivo o principale) di discriminare tra lavoratori nazionali e non (v. già Corte giust. 12 febbraio 1974, 152/73, Sotgiu, 153). Secondo la Corte, infatti, la parità di trattamento dei lavoratori deve essere assicurata «di diritto e di fatto», e non è quindi escluso che i criteri basati sul luogo d’origine o sulla residenza di un lavoratore possano, in determinate circostanze, avere gli stessi effetti pratici della discriminazione proibita dal Trattato. Nella sua prassi, poi, la Corte ha dato prova di interpretare anche qui in modo assai estensivo le condizioni per riconoscere una simile discriminazione, facendo salve tuttavia quelle che possono essere giustificate sulla base di criteri obiettivi e in particolare, anche qui come per le altre libertà, in nome di motivi imperativi di interesse generale, ma pur sempre nel rispetto del principio di proporzionalità. V., ad es., Corte giust. 23 maggio 1996, C-237/94, O’Flynn, I-2617: in relazione ad una normativa inglese, la quale subordinava la concessione d’indennità a copertura delle spese funerarie sostenute da un lavoratore migrante alla condizione che l’inumazione o la cremazione fosse svolta nel territorio del Regno Unito, la Corte ha stabilito che «una disposizione di diritto nazionale dev’essere giudicata indirettamente discriminatoria quando, per sua stessa natura, tenda ad essere applicata più ai lavoratori migranti che a quelli nazionali e, di conseguenza, rischi di essere sfavorevole in modo particolare ai primi» (punto 20; v. anche giurisprudenza ivi cit., al punto 18). Ma v. anche Corte giust. 2 agosto 1993, C-259/91, C-331/91 e C-332/91, Allué e a., I-4309, dove è stato giudicato discriminatorio l’insieme di misure legate alle condizioni d’impiego previste dalla legislazione italiana per i lettori universitari di lingua straniera (in maggior parte, cittadini stranieri), i quali venivano assunti con condizioni contrattuali particolarmente restrittive, non imposte ad alcun’altra categoria di componenti del personale universitario; 26 gennaio 1999, C-18/95, Terhoeve, I-345; sentenza Bosman, cit., in cui sono state giudicate incompatibili le regole imposte dalla federazione calcistica del Belgio che ostacolavano un calciatore ingaggiato da una squadra di calcio belga dal lasciare la società sportiva d’appartenenza per andare a giocare in una squadra di un altro Stato membro, e ciò sebbene le norme in questione fossero applicabili a prescindere dalla nazionalità dei calciatori in questione, perché comunque esse condizionavano direttamente l’accesso dei calciatori al mercato del lavoro negli altri Stati membri e in tal modo erano idonee ad ostacolare la libera circolazione dei lavoratori. Per questi motivi, ad es., la Corte, pur ritenendo legittimo esigere dai candidati a un posto di lavoro conoscenze linguistiche di un certo livello, anche documentate attraverso il possesso di un diploma, richiede che tale livello non sia comunque sproporzionato rispetto allo scopo perseguito (Corte giust. 28 novembre 1989, C-379/87, Groener, 3967), e che la prova della conoscenza possa essere fornita con mezzi diversi, in particolare con qualifiche equivalenti a quelle attestate dall’ordinamento nazionale, ottenute in altri Stati membri (Corte giust. 6 giugno 2000, C-281/98, Angonese, I-4139). In Corte giust. 27 gennaio 2000, C-190/98, Graf, I-493, la discriminazione è stata esclusa perché la condizione per la quale essa avrebbe dovuto realizzarsi costituiva «una circostanza troppo aleatoria e indiretta perché potesse essere considerata tale da ostacolare la libera circolazione dei lavoratori» (punti 24-25). Cfr. anche, ex multis, Corte giust. 1° aprile 2008, C-212/06, Gouvernement de la Communauté française e Gouvernement wallon, cit., dove la condizione per l’attribuzione del beneficio di una copertura assicurativa era quella della residenza nel territorio regionale, ossia nel territorio dell’ente territoriale erogatore dello stesso beneficio. Sul requisito della residenza, v. già Corte giust. 8 maggio 1990, C-175/88, Biehl, I-1779, nella quale la residenza rilevava in quanto requisito imposto dalla normativa dello Stato ospite per ottenere il rimborso d’imposte indebitamente versate.
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4. Le limitazioni alla libera circolazione A parte le ipotesi appena evocate, il Trattato prevede la possibilità di alcune deroghe alla libertà di circolazione dei lavoratori, deroghe che, per i motivi sopra indicati, devono ovviamente essere interpretate restrittivamente. Si tratta in particolare, come espressamente indica lo stesso art. 45 TFUE, dei casi in cui la libertà di movimento dei lavoratori può essere limitata per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica. Tali motivi sono comuni alle altre libertà di circolazione all’interno dell’Unione e se ne è quindi discusso già in precedenza (p. 462 ss.). Una specifica limitazione è invece prevista per i lavoratori migranti e riguarda l’accesso «agli impieghi nella pubblica amministrazione» (art. 45, par. 4, TFUE), per i quali le norme sulla libertà in esame non si applicano, in considerazione del fatto che essi presuppongono un rapporto particolare di solidarietà verso lo Stato, nonché la reciprocità dei diritti e dei doveri che sono il fondamento del vincolo di cittadinanza (v. Corte giust. 17 novembre 1991, C-4/91, Bleis, I-5627). La concreta portata di tale limitazione è stata però molto ristretta dalla giurisprudenza della Corte. Anzitutto, quanto alla definizione della nozione di quegli «impieghi», che, ad avviso del giudice dell’Unione, deve essere ricostruita in modo uniforme nell’intera Unione e con i criteri imposti dalle specificità e dalle esigenze del relativo ordinamento (idem. V. anche sentenze Sotgiu, cit., e 26 maggio 1982, 149/79, Commissione c. Belgio, 1845). La libertà dello Stato di qualificare tali impieghi non è quindi assoluta, perché occorrerà pur sempre valutare caso per caso e non in relazione ad intere categorie se le pertinenti attività rispondono alle caratteristiche appena menzionate. Inoltre, ricollegandosi alla previsione degli artt. 51, par. 1, e 62 TFUE, che escludono dal diritto di stabilimento e dalla libertà di prestazione dei servizi le attività che «partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio di pubblici poteri» (p. 509), la Corte ha precisato che anche per i lavoratori la limitazione in esame trova applicazione unicamente rispetto agli impieghi che implichino, direttamente o indirettamente, lo stesso tipo di partecipazione all’esercizio dei pubblici poteri, nonché alle funzioni che hanno ad oggetto la tutela di interessi generali dello Stato o di altre collettività pubbliche (sentenza 2 luglio 1996, C-473/93, Commissione c. Lussemburgo, I-3207). Sulla base di queste premesse, la Corte ha potuto poi sviluppare una giurisprudenza che col tempo è diventata sempre più liberale. Così, non sono state ricondotte alla deroga in questione: vari impieghi esecutivi (falegname, elettricista, ecc.) presso un Comune (Corte giust. 26 maggio 1982, 149/79, Commissione c. Belgio, cit.); l’attività di insegnamento anche nella scuola pubblica (sentenza Lawrie-Blum, cit.); l’attività di ricercatore presso il CNR (Corte giust. 16 giugno 1987, 225/85, Commissione c. Italia, 2625); d’infermiere (Corte giust. 3 giugno 1986, 307/84, Commissione c. Francia, 1725) e di medico specialista negli ospedali pubblici (Corte giust. 15 gennaio 1998, C-15/96, Shoenig-Kougebetopoulou, I-47); di guardia giurata (Corte giust. 21 maggio 2001, C-283/99, Commissione c. Italia, I-4363); i posti di lettore di lingua straniera nelle Università (sentenza Allué, cit.); e così via. Inoltre possono essere riservati ai propri cittadini taluni impieghi (nella specie, quelli di capitano e di comandante in seconda di navi mercantili) solo se i poteri d’imperio che essi implicano «vengano effettivamente esercitati in modo abituale e non rappresentino una parte molto ridotta delle loro attività» (Corte giust. 30 settembre 2003, C-405/01, Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Española, I0391; 17 maggio 2013, C-270/13, Haralambidis; 6 ottobre 2015, C-298/14, Brouillard).
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5. Le misure in materia di sicurezza sociale Al fine di consentire ai lavoratori di beneficiare pienamente della libertà di circolazione appare evidentemente indispensabile organizzare la loro protezione sociale in termini tali da non penalizzare o comunque scoraggiare l’esercizio di tale libertà (cfr. Corte giust. 9 dicembre 1993, C-45/92 e C-46/92, Lepore e Scamuffa, I-6497; nonché 20 settembre 1994, C-12/93, Drake, I-4337). L’art. 48 TFUE offre quindi al Parlamento europeo e al Consiglio una specifica base giuridica per adottare, conformemente alla procedura legislativa ordinaria (e non più all’unanimità come in passato), ma con riserva della procedura c.d. del freno di emergenza (v. retro, p. 73), le misure in materia di sicurezza sociale necessarie per l’effettiva instaurazione della libertà in parola. E ciò avendo in particolare come obiettivo la creazione di un sistema che consenta di assicurare ai lavoratori migranti dipendenti e autonomi e ai loro aventi diritto, tanto il cumulo di tutti i periodi presi in considerazione dalle varie legislazioni nazionali, sia per il sorgere e la conservazione del diritto alle prestazioni, che per il calcolo di queste (comma 1, lett. a), quanto il pagamento delle prestazioni alle persone residenti nei territori degli Stati membri (comma 1, lett. b). Inizialmente a tale disciplina aveva provveduto lo storico reg. (CEE) n. 1408/71 del Consiglio, del 14 giugno 1971, relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità (GUCE L 149, 2), poi sostituito dal reg. (CE) n. 883/2004 del PE e del Consiglio, del 29 aprile 2004 (GUUE L 166, 1), già più volte modificato. Quest’ultimo regolamento, come il precedente, non si propone di armonizzare i sistemi di previdenza sociale nazionali, ma solo di assicurarne il coordinamento, soprattutto mediante la cooperazione delle amministrazioni nazionali responsabili della sicurezza sociale. In sostanza, esso specifica le modalità di applicazione che devono garantire rapidità ed efficacia alle prestazioni previdenziali a dispetto della notevole diversità dei sistemi nazionali di sicurezza sociale, fermo restando che la determinazione di tali prestazioni e delle loro condizioni d’attribuzione resta regolata a livello nazionale, conformemente alle tradizioni e alla cultura di ciascun paese (Corte giust. 16 luglio 2009, C-208/07, von Chamier-Glisczinski, I-6095). A tal fine, il regolamento poggia su tre principi fondamentali, attorno ai quali si articola la disciplina di dettaglio. Si tratta, segnatamente, dei principi: di non discriminazione e quindi della parità di trattamento; della territorialità e quindi dell’unicità della legge applicabile; della totalizzazione dei periodi assicurativi. Per l’unicità della legge applicabile, v. art. 11 del reg. n. 883/2004. Difatti, salvo alcune eccezioni, la legge applicabile è quella dello Stato in cui viene svolta l’attività lavorativa, indipendentemente dalla residenza del lavoratore. Per la totalizzazione dei periodi assicurativi, cfr. art. 6 del reg. n. 883/2004 (ma v. anche artt. 51 e 61 dello stesso): si garantisce, cioè, al lavoratore assoggettato, successivamente o alternativamente, alle norme di uno o più Stati membri, il cumulo dei periodi assicurativi maturati in forza delle leggi di ciascuno di detti Stati.
Il regolamento si applica ai lavoratori subordinati e autonomi, cittadini dell’Unione (ma anche agli apolidi e ai rifugiati residenti in uno Stato membro), nonché ai loro familiari e ai loro «superstiti», che sono (o sono stati) soggetti alla normativa di
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uno o più Stati membri. Esso ricomprende tutte le legislazioni relative ai settori di sicurezza sociale riguardanti le prestazioni di malattia; di maternità e di paternità assimilate; le prestazioni d’invalidità; di vecchiaia; le prestazioni per i superstiti; per infortunio sul lavoro e malattie professionali; gli assegni in caso di morte; le prestazioni di disoccupazione; di pensionamento anticipato; e le prestazioni familiari. Cfr. art. 3, reg. n. 883/2004. Peraltro, rientrano nel campo d’applicazione di detto regolamento anche le prestazioni speciali a carattere contributivo, purché si tratti di prestazioni previste in via suppletiva, complementare o accessoria rispetto ai rischi sopra elencati, ovvero di prestazioni destinate specificamente alla tutela dei minorati (quest’ultime, invero, già ricomprese dalla giurisprudenza: cfr. Corte giust. 28 maggio 1974, 187/73, Callemeyn, 553; e 27 maggio 1993, C310/91, Schmid, I-3011).
II. Il diritto di stabilimento e la libera prestazione dei servizi 6. Profili generali Oltre che ai lavoratori subordinati, il Trattato assicura la libertà di circolazione anche agli operatori indipendenti (professionisti e prestatori di servizi), attribuendo loro il diritto di spostarsi tra gli Stati membri per esercitare la propria attività in modo stabile e continuativo (libertà di stabilimento), oppure solo occasionalmente (libera prestazione dei servizi). Va detto subito che si è qui in presenza di uno degli obiettivi più significativi della costruzione europea, dato che, com’è confermato anche dall’esperienza di questi decenni, la circolazione delle professioni e dei servizi non solo rappresenta un’occasione di sviluppo economico e sociale dell’Unione, ma soprattutto infittisce, sul versante dei rapporti tra i suoi cittadini, il tessuto connettivo tra gli Stati membri e funge quindi da potente fattore d’integrazione tra di essi. Ed è probabilmente proprio per la consapevolezza del significato più profondo insito nelle libertà in esame che la Corte di giustizia ha voluto dare, appena le si è offerta l’occasione, un decisivo impulso all’opera di liberalizzazione che gli Stati membri e le altre istituzioni comunitarie andavano conducendo in modo piuttosto sonnecchiante. Ciò posto, va anzitutto ricordato che, per le ragioni a suo tempo indicate (retro, par. 1), per i prestatori di attività autonome il Trattato detta una distinta disciplina secondo che si tratti del loro diritto di stabilimento e della libera prestazione dei loro servizi. Ma tale distinzione, come appunto si è detto in precedenza, non offusca la profonda ispirazione unitaria della materia quale emerge anche dalla sommaria e sintetica descrizione della relativa disciplina che si ritiene qui opportuno anticipare. Alle due libertà il Trattato dedica, rispettivamente, gli artt. 49-55 TFUE e gli artt. 56-62 TFUE, i quali riprendono nella sostanza le corrispondenti disposizioni presenti fin dal TCEE e che, a parte evidentemente la numerazione degli articoli, hanno subito poche modifiche nel corso degli anni, salvo per quanto riguarda, come a bre-
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ve vedremo, le previsioni di carattere transitorio. Si può subito notare, intanto, che gli articoli dedicati ai servizi regolano la materia solo in parte direttamente (artt. 5661 TFUE), per il resto rinviando ad alcune norme sul diritto di stabilimento (artt. 5154 TFUE), che vengono integralmente richiamate dall’art. 62 TFUE, appunto per la stretta affinità delle situazioni. Ancora, sul piano dei contenuti, va segnalato che anche le due libertà in esame sono ispirate, con gli adattamenti del caso, al principio della parità di trattamento tra i cittadini degli Stati membri; mentre, per quanto attiene allo schema normativo e alle modalità di realizzazione della liberalizzazione, il Trattato si limita anche qui a dettare i principi essenziali della materia, affidando poi alle istituzioni dell’Unione il compito di emanare i provvedimenti necessari ad attuare o a facilitare la realizzazione delle due libertà. Più specificamente, poi, viene sancito il principio fondamentale secondo cui, fatte salve talune limitazioni (artt. 51 e 52 TFUE), devono essere gradualmente soppresse le restrizioni esistenti all’esercizio del diritto di stabilimento dei cittadini dell’Unione in un altro Stato membro (art. 49 TFUE) e alla libera prestazione dei servizi da parte «dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione» (art. 56, comma 1, TFUE), con l’intesa che il beneficio, oltre a riguardare anche le società (artt. 54 e 62 TFUE), può essere esteso, ai fini della prestazione di servizi, ai cittadini di paesi terzi stabiliti all’interno dell’Unione (art. 56, comma 2, TFUE). L’art. 57 TFUE provvede infine a definire i «servizi» coperti dalla relativa libertà (comma 1) e a esemplificare le attività rilevanti (comma 2), mentre l’art. 58 TFUE indica alcune eccezioni al riguardo. Per entrambe le ipotesi in esame, però, la liberalizzazione non è imposta con immediatezza ma con graduale progressione, fermo restando che, nelle more, gli Stati membri non possono introdurre nuove restrizioni alla libertà effettivamente raggiunta all’atto dell’entrata in vigore del Trattato e, per quanto riguarda la prestazione dei servizi, sono tenuti ad applicare quelle esistenti senza distinzioni di nazionalità e residenza (art. 61 TFUE). In effetti, per assicurare l’effettivo godimento delle due libertà in esame occorreva certo vietare, come per i lavoratori, dette restrizioni, e questo, come vedremo, è stato col tempo realizzato. Ma per le professioni e i servizi un simile risultato non basta; nella maggior parte dei casi, infatti, occorrono ulteriori specifici interventi del legislatore dell’Unione per rimuovere quegli ostacoli che non sono legati alla nazionalità o alla residenza del soggetto, ma alla natura delle attività in causa, che per il loro esercizio esigono di regola la presenza di determinati requisiti o condizioni (diplomi o titoli di studio, certificazioni, qualificazioni professionali, ecc.). Proprio per questo motivo il Trattato affida al legislatore dell’Unione il compito di adottare, con la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale, apposite direttive volte non solo alla realizzazione delle libertà in esame (artt. 50 e 59 TFUE, rispettivamente per il diritto di stabilimento e la libera prestazione dei servizi), ma anche ad «agevolare» quel risultato favorendo il riconoscimento dei diplomi e il coordinamento delle normative nazionali che regolano le condizioni di accesso e di esercizio delle attività in questione (artt. 53 e 62 TFUE). Come vedremo più avanti, tali prescrizioni hanno trovato concreto seguito, perché numerose sono le direttive adottate in virtù dell’una e dell’altra previsione, ma
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va fin d’ora anticipato che il primo e più importante impulso alla liberalizzazione è venuto da una giurisprudenza fortemente liberalizzatrice della Corte, cui le stesse direttive si sono poi ispirate. Si noti peraltro che l’art. 60 TFUE sollecita gli Stati membri ad andare anche oltre le direttive in questione nella liberalizzazione di un settore, se la situazione dello stesso lo permette, autorizzando la Commissione a formulare a tal fine apposite raccomandazioni. Quanto all’art. 50, esso elenca altresì una serie di linee guida cui il legislatore deve attenersi (e in effetti si è attenuto) ai fini della liberalizzazione del diritto di stabilimento.
7. Il diritto di stabilimento e la prestazione dei servizi. Nozione. L’elemento transfrontaliero Venendo a un’analisi più puntuale della riferita normativa, conviene anzitutto ricostruire le nozioni che da essa emergono e in particolare quelle di «libertà di stabilimento» e di «libertà di prestazione dei servizi». Come già anticipato, la prima consiste nel diritto dei cittadini di uno Stato membro di recarsi in un altro Stato membro e ivi inserirsi in modo continuativo al fine di accedere alle attività non salariate e al loro esercizio alle condizioni definite dalla legislazione dello Stato ospite per i propri cittadini (art. 49 TFUE). Esso può essere primario, quando il soggetto si stabilisce in uno Stato membro diverso dal proprio, istituendovi la sede principale della propria attività, o secondario, quando dopo aver esercitato il proprio diritto di stabilimento primario, il soggetto si sposta in un altro Stato membro per aprirvi «agenzie, succursali o filiali». D’altra parte, la possibilità di avere più centri di attività in diversi Stati membri s’inserisce pienamente nella logica della libertà in esame, che è appunto quella di facilitare l’esercizio delle attività autonome, favorendone l’estensione in più Stati membri. V., in tal senso, Corte giust. 12 luglio 1984, 107/83, Klopp, 2971; 15 febbraio 1996, C-53/95, Inasti, I-703. Come emerge da quella sorta di definizione «ufficiale» del diritto di stabilimento fornita oggi dalla direttiva generale sui servizi (dir. 2006/123/CE del PE e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, GUUE L 376, 36, sulla quale torneremo più avanti), che ha a sua volta codificato la giurisprudenza della Corte in materia, detto diritto comporta «l’esercizio effettivo di un’attività economica di cui all’art. 43 del Trattato [TCE, oggi art. 49 TFUE] a tempo indeterminato da parte del prestatore, con un’infrastruttura stabile a partire dalla quale viene effettivamente svolta l’attività di prestazione di servizi» (art. 4, n. 5, dir. 2006/123).
L’altra libertà si fonda invece, come si è detto, sul divieto di ogni restrizione alla prestazione di servizi all’interno dell’Unione da parte «dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione» (art. 56 TFUE), per modo che il prestatore possa, «per l’esecuzione della sua prestazione, esercitare, a titolo temporaneo, la sua attività nello Stato membro ove la prestazione è fornita, alle stesse condizioni imposte da tale Stato ai propri cittadini» (art. 57, comma 3, TFUE). Come si vede, benché disciplinate separatamente, le due libertà presentano un
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impianto molto simile. Sia nell’uno che nell’altro caso si tratta infatti di favorire, sulla base di analoghi principi e in vista delle medesime finalità, la circolazione di operatori indipendenti nel mercato comune; di consentire, in particolare, ai cittadini di uno Stato membro la prestazione di attività non salariate in un altro Stato membro; di eliminare quindi le relative restrizioni; di procedere alla medesima opera di armonizzazione delle disposizioni nazionali; e così via. E tuttavia, anche se l’impresa non è sempre agevole, l’individuazione di criteri di distinzione s’impone, perché, come subito vedremo, ricondurre una fattispecie sotto l’una o l’altra libertà può avere importanti implicazioni, specie quanto ai poteri dello Stato ospitante nei confronti del prestatore, ovviamente meno penetranti nel caso della prestazione dei servizi. Orbene, come chiaramente emerge dalle riferite definizioni, il tratto distintivo tra le due libertà consiste soprattutto nel fatto che, in linea di principio, il diritto di stabilimento presuppone che un cittadino dell’Unione voglia incardinarsi all’interno di uno Stato membro diverso dal proprio per esercitarvi un’attività autonoma in maniera stabile e continuativa, mentre la libera prestazione dei servizi implica un trasferimento occasionale e circoscritto nel tempo di un soggetto che svolge abitualmente la propria attività sul territorio di uno Stato membro diverso da quello di destinazione (l’art. 57, comma 3, TFUE, parla espressamente di un esercizio «a titolo temporaneo» della prestazione). Questo, ripetiamo, per lo meno in linea di principio, perché si vedrà subito che, pur potendo assumere varie forme, alla libera prestazione dei servizi è però sempre sotteso da un lato un attraversamento fisico o anche solo ideale delle frontiere tra gli Stati membri, dall’altro il carattere temporaneo ed occasionale dello stesso. Una simile linea di confine è tuttavia più facile da enunciare che da verificare in concreto, perché la realtà, come prova anche la prassi della Corte, presenta una varietà di situazioni a volte persino sorprendenti, anche per la straordinaria fantasia degli operatori economici, i quali preferiscono ricorrere alla libera prestazione in luogo dello stabilimento, proprio per sfuggire (specie in materia fiscale) alle più rigorose pretese che lo Stato ospite vanta nella seconda ipotesi. La Corte ha del resto più volte ribadito che un operatore non può aggirare le norme sullo stabilimento avvalendosi surrettiziamente di quelle relative alla prestazione di servizi, eventualmente meno restrittive, qualora la propria attività professionale sia in realtà «interamente o essenzialmente rivolta» verso lo Stato membro ospitante (v. infra, p. 511). Non potendo qui addentrarci nei meandri di questa prassi, basterà notare anzitutto che nel dubbio è la libertà di stabilimento a dover prevalere, visto che l’art. 57, comma 3, TFUE, subordina alla non applicabilità di quest’ultima quella della libera prestazione dei servizi. In secondo luogo, si può osservare, con la Corte, che il carattere temporaneo e occasionale della prestazione «dev’essere valutato non soltanto in rapporto alla durata della prestazione, ma anche tenendo conto della frequenza, periodicità o continuità di questa», senza però banalizzare il concetto, perché «il carattere temporaneo della prestazione non esclude la possibilità per il prestatore di servizi […] di dotarsi nello Stato membro ospitante di una determinata infrastruttura (ivi compreso un ufficio o uno studio), se questa infrastruttura è necessaria al compimento della prestazione di cui trattasi».
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Corte giust. 30 novembre 1995, C-55/94, Gebhard, I-4165, punto 27. Più recentemente, sentenza 12 settembre 2013, C-660/11 e C-8/12, Biasci; 11 dicembre 2014, C-678/11, Commissione c. Spagna. Anche in questi casi, comunque, non sempre è agevole distinguere tra le due libertà, data l’estrema varietà delle situazioni. Si pensi in particolare ai professionisti che non si stabiliscano in un altro Stato, ma quivi si rechino con regolarità e continuità per prestarvi i propri servizi e per i quali quindi occorrerà tener conto della situazione specifica, valutando la natura dell’insediamento e la durata dell’attività. Con riguardo ad altri casi, è stata invece ricondotta allo stabilimento l’ipotesi in cui il prestatore si munisca, nello Stato membro nel quale intende operare, di una struttura necessaria per l’esecuzione della prestazione (un ufficio, uno studio di revisore contabile) (Corte giust. 4 dicembre 1986, 205/84, Commissione c. Germania, 3755; 20 maggio 1992, C106/91, Ramrath, I-3351). Analogamente, nel caso della presenza di centri per la raccolta di scommesse legati a una società stabilita in un altro Stato membro, sono state ritenute applicabili le disposizioni sulla libertà di stabilimento (v., ex multis, Corte giust. 6 novembre 2003, C-243/01, Gambelli, I-13031; 8 settembre 2010, C-409/06, Winner Wetten, I-8015; 22 gennaio 2015, C463/13, Stanley International Betting; 28 gennaio 2016, C-375/14, Laezza; 8 settembre 2016, C225/15, Politanò).
In ogni caso, entrambe le libertà possono venire in rilievo solo se l’attività economica oggetto della prestazione abbia carattere transfrontaliero o transnazionale, vale a dire solo in presenza di situazioni che, per uno qualsiasi dei loro elementi, trascendano i confini di un singolo Stato. Al di fuori di questi casi, come la Corte ha avuto modo di chiarire a più riprese, si è in presenza di situazioni «puramente interne», per le quali le disposizioni liberalizzatrici del Trattato non possono essere invocate dagli interessati: per esse restano quindi di applicazione le normative nazionali, con la conseguenza, già a suo tempo evocata, che possono verificarsi ipotesi di discriminazioni a rovescio. V. supra, p. 446 e 368 s. Rispetto alle libertà in esame, peraltro, la Corte si è mostrata molto generosa sul punto, individuando la presenza di situazioni transfrontaliere anche in casi in cui tutti gli elementi della fattispecie erano confinati all’interno di un solo Stato membro. E ciò facendo leva sui potenziali effetti che una misura restrittiva adottata da uno Stato membro avrebbe potuto provocare nei confronti di soggetti stabiliti in altri Stati membri, ove questi avessero voluto fruire delle libertà in esame: v. ad es. Corte giust. 1° giugno 2010, C-570/07 e C-571/07, Blanco Pérez e Chao Gómez, I-4629; 19 luglio 2012, C-470/11, Garkalns.
Nel caso dello stabilimento, l’indicato carattere transfrontaliero è implicito nella stessa caratteristica distintiva di tale libertà: essa ricorre infatti solo se il soggetto si trasferisce da uno Stato membro ad un altro, e ciò anche se uno dei due sia il proprio Stato nazionale (perché l’interessato risiede stabilmente in un altro Stato), contando qui per l’appunto unicamente il carattere transfrontaliero dello spostamento. Per questa libertà, l’elemento interstatuale è quindi presente solo all’atto dello stabilimento, perché poi le relative attività si svolgono all’interno di un unico Stato membro. Nella prestazione dei servizi, invece, quell’elemento è permanente, perché si ha prestazione di servizi solo se l’attività è effettuata «attraverso le frontiere». Come si è anticipato, peraltro, in relazione alle sue specificità essa può venire in rilievo sotto varie forme. In particolare, e anche al di là della parziale indicazione che fornisce il riferito art. 57, comma 3, TFUE, si possono identificare almeno quattro situazioni: i)
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il prestatore di servizi si sposta in un paese diverso da quello in cui è stabilito per rendervi la propria prestazione (è il caso, per esempio, del libero professionista stabilito in uno Stato membro che si reca presso un cliente stabilito in un altro Stato membro); ii) è il destinatario del servizio a spostarsi in un altro Stato membro per fruire del servizio stesso; iii) non si spostano né il prestatore del servizio né il destinatario dello stesso, ma è, per così dire, il servizio a spostarsi (per esempio, consulenze fornite per corrispondenza, o trasmissioni televisive che raggiungano paesi diversi da quello di emissione: v., ad es., Corte giust. 30 aprile 1974, 155/73, Sacchi, 409, nonché le sentenze 18 marzo 1980, 52/79, Debauve, e 62/79, Coditel, rispettivamente 833 e 831; o, nel caso dei giochi d’azzardo in linea, 22 giugno 2017, C49/16, Unibet International); iv) sia il prestatore che il fruitore si spostano in un altro Stato membro per poter effettuare la prestazione del servizio (esempio classico è quello dei gruppi di turisti accompagnati da una guida). Peraltro, anche la collocazione di una prestazione sotto l’una o l’altra ipotesi non è sempre pacifica. Si pensi, ad es., ai servizi assicurativi per i quali si è discusso se essi debbano considerarsi prestati nello Stato in cui è localizzato il rischio ovvero in quello della sede sociale dell’assicuratore (fattispecie concretamente esaminata dalla Corte di giustizia nella sentenza 18 gennaio 1979, 110/78 e 111/78, Van Wesemael, 35); ai servizi televisivi, come si è appena visto; all’attività dei commercianti ambulanti; a quella dei viaggiatori di commercio.
Se questi sono i tratti essenziali delle due libertà, si spiegano allora non solo le ragioni della distinzione operata dal Trattato, ma altresì i riflessi sulla rispettiva disciplina. Mentre infatti l’attività effettuata in regime di stabilimento è, in linea di principio, assoggettata alla legge dello Stato membro ospitante, perché si presume in questo caso un più intenso e duraturo insediamento e quindi l’esigenza di una maggiore assimilazione ai cittadini dello Stato ospite, nel caso della libera prestazione la sottoposizione all’ordinamento dello Stato ospite è meno assorbente, perché commisurata alle esigenze di controllo e regolamentazione di una prestazione solo occasionale e temporanea, senza dunque poter escludere la persistente, ancorché parziale, interferenza dello Stato membro d’origine del prestatore. Come ha infatti precisato la Corte, lo Stato membro di destinazione della prestazione «non può subordinare l’esecuzione della prestazione di servizi sul suo territorio all’osservanza di tutte le condizioni prescritte per lo stabilimento, perché altrimenti priverebbe di qualsiasi effetto utile le norme del Trattato dirette a garantire appunto la libera prestazione dei servizi» (Corte giust. 25 luglio 1991, C-76/90, Säger, I-4221, 13). Di conseguenza, come subito vedremo, diversa è nei due casi la portata del divieto di discriminazioni fondate sulla nazionalità; diversi i tempi e le modalità di attuazione della relativa liberalizzazione; diversa la rilevanza che assume in materia l’azione di armonizzazione legislativa; diversa la sfera di applicazione territoriale e soggettiva delle due libertà e diversa anche quella oggettiva, dato il carattere residuale della liberalizzazione dei servizi rispetto alle altre. Come si è già notato, però, tutte queste diversità non offuscano i segnalati profili di omogeneità tra le due libertà e non impediscono quindi di procedere, come ora faremo, a un loro esame congiunto, salvo naturalmente a dar volta a volta conto delle rispettive specificità.
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8. L’ambito di applicazione della liberalizzazione: a) temporale Profili ampiamente comuni emergono anzitutto in ordine all’ambito di applicazione delle due libertà. Così è sicuramente per quanto concerne l’ambito di applicazione territoriale, che per entrambe corrisponde in principio a quello del Trattato, vale a dire il territorio degli Stati membri e le aree in cui si esercita la loro sovranità o anche, specie in relazione agli sviluppi del diritto del mare, più limitate forme di giurisdizione, nonché i territori europei di cui uno Stato membro assume la rappresentanza nei rapporti con l’estero (Corte giust. 13 giugno 2017, C-591/15, The Gibraltar Betting and Gaming Association Limited e The Queen). V. artt. 52 TUE e 355 TFUE. La più ampia formulazione proposta è avallata sia dal fatto che l’art. 52 TUE delimita l’applicazione del Trattato con riferimento agli Stati e non al loro territorio, sia da una coerente valutazione della portata degli obblighi comunitari. Di conseguenza, la liberalizzazione vale anche per le attività svolte in aree geografiche su cui è per lo meno discusso che si affermi la piena sovranità dello Stato: come le attività relative allo sfruttamento della piattaforma continentale o quelle svolte nella c.d. zona economica esclusiva. Va anche ricordato che, secondo la Corte di giustizia, il principio di non discriminazione, «in ragione del suo carattere imperativo, costituisce un parametro inderogabile per qualsiasi rapporto giuridico, purché questo, in considerazione sia del luogo in cui sorge, sia del luogo in cui dispiega i suoi effetti, possa essere ricondotto al territorio [dell’Unione]» (v. la sentenza 12 dicembre 1974, 36/74, Walrave, 1405, 28-29; 12 luglio 1984, 237/83, Prodest, 3153; nonché, più recentemente, sentenza 28 febbraio 2013, C544/11, Petersen e Petersen).
Ma lo stesso può dirsi anche per gli altri e più interessanti ambiti di applicazione. a) Questo vale anzitutto per quanto concerne l’applicazione nel tempo delle due libertà. Come già si è ricordato, il TCEE (artt. 57 e 63) subordinava la loro «progressiva» attuazione all’adozione di appositi atti delle istituzioni comunitarie, le quali avrebbero dovuto emanare, nel corso del periodo transitorio (dodici anni dall’entrata in vigore del Trattato, avvenuta il 1° gennaio 1958), le norme necessarie per rendere effettivo il godimento di dette libertà. In sostanza, esse avrebbero dovuto anzitutto sopprimere le restrizioni alla liberalizzazione, adottando entro la fine della prima tappa del periodo transitorio, come effettivamente avvenne, un Programma generale per ciascuna delle due libertà, con l’indicazione delle condizioni generali e delle tappe per la relativa liberalizzazione (Programmi adottati entrambi il 18 dicembre 1961, GUCE L 62, 1). Entro la fine del periodo transitorio, poi, avrebbero dovuto essere adottate le direttive (c.d. direttive di assimilazione) volte ad attuare i Programmi generali e comunque a rimuovere le persistenti restrizioni. Al tempo stesso, come si è ricordato, il legislatore comunitario avrebbe dovuto emanare le direttive intese al riconoscimento di diplomi, certificati e altri titoli, nonché al coordinamento delle legislazioni nazionali relative all’accesso alle attività autonome e al loro esercizio (c.d. direttive di armonizzazione) al fine di «agevolare» la liberalizzazione. Ciò malgrado, la fine del periodo transitorio sopravvenne senza che le istituzioni comunitarie fossero riuscite a condurre a termine il loro compito e anzi, per alcuni importanti settori, senza che neppure vi avessero dato l’avvio. Si pose quindi la questione della funzione da assegnare, nella nuova situazione, alle predette direttive. E
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mentre di quelle di armonizzazione non si revocava in dubbio la persistente utilità, sia pur, come si vedrà tra breve, in una prospettiva parzialmente diversa, per le direttive di assimilazione il problema si legava strettamente a quello della portata dei principi di libertà affermati dal Trattato, segnatamente dell’obbligo da essi imposto di sopprimere ogni restrizione entro la fine del periodo transitorio (artt. 52, 59 e 60 TCEE, oggi in parte corrispondenti agli artt. 49, 56 e 57 TFUE). Si trattava cioè di stabilire se, dopo tale scadenza, quelle norme restassero mere norme programmatiche ovvero fossero da intendersi come norme precettive direttamente applicabili e tali da far sorgere in capo agli interessati un diritto suscettibile di essere tutelato innanzi ai giudici nazionali. Sorprendendo l’opinione allora dominante, la Corte non esitò, nella prima occasione che le fu offerta, a optare per la seconda alternativa. In due importanti sentenze pronunciate quasi contemporaneamente alla fine del 1974, essa dichiarò infatti che le norme in questione applicavano uno dei principi giuridici fondamentali della Comunità, quello del trattamento nazionale, e che esse erano «per eccellenza» disposizioni direttamente applicabili nel senso prima indicato, perché prescrivevano «un obbligo di risultato preciso, il cui adempimento doveva essere facilitato, ma non condizionato» dall’emanazione progressiva degli atti di applicazione: scaduto il periodo transitorio, la mancanza di questi ultimi diveniva quindi irrilevante ai fini del rispetto dell’obbligo anzidetto (cfr. le sentenze 21 giugno 1974, 2/74, Reyners, 631, punti 24-27; 3 dicembre 1974, 33/74, Van Binsbergen, 1308. Ma v. anche, subito dopo, la sentenza 28 giugno 1977, 11/77, Patrick, 1199). Più precisamente, e con riguardo alla prestazione dei servizi, la Corte aggiunse che le pertinenti norme «hanno efficacia diretta e possono essere fatte valere dinanzi ai giudici nazionali, almeno nella parte in cui impongono la soppressione di tutte le discriminazioni che colpiscono il prestatore di un servizio a causa della sua nazionalità o della sua residenza in uno Stato diverso da quello in cui il servizio stesso viene fornito» (v. la citata sentenza Van Binsbergen, punto 27. Ma v. anche, successivamente, le citate sentenze Walrave e Van Wesemael; nonché 17 dicembre 1981, 279/80, Webb, 3305; 31 gennaio l984, 286/82 e 26/83, Luisi e Carbone, 377). Quid, allora, per le direttive? Secondo la Corte, scaduto il periodo transitorio, esse «sono divenute superflue per l’attuazione della norma del trattamento nazionale, dato che quest’ultima è ormai sancita con efficacia diretta dal Trattato stesso». Ma conservano invece «un campo di applicazione importante nel settore delle misure dirette a favorire e a facilitare l’effettivo esercizio» delle libertà in esame, oltre che, evidentemente, nel settore del coordinamento delle disposizioni nazionali (sentenza Reyners, punti 29-31). E tuttavia, perfino rispetto a queste ultime, l’eventuale inerzia delle istituzioni non bastava a sottrarre gli Stati membri dall’obbligo di assicurare il perseguimento delle finalità liberalizzatrici del Trattato. Secondo la Corte, infatti, nell’attesa (o anche in assenza) di quelle direttive resta spazio per un’azione autonoma – non libera, tuttavia, ma vincolata – degli Stati membri, volta ad attuare in ogni modo possibile, e per così dire nelle pieghe delle rispettive legislazioni, quella liberalizzazione. In quanto infatti siano in grado di garantirla, le autorità nazionali devono fare in modo che ciò avvenga ogni volta che sussistano le condizioni di applicazione delle norme in discorso: ad esempio, non rifiutando l’esercizio di quelle libertà per il
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solo fatto che l’interessato abbia conseguito all’estero un diploma da esse non riconosciuto come equivalente a quelli nazionali, ma sforzandosi di accertare se il soggetto presenti in realtà qualifiche equivalenti o almeno sostanzialmente equivalenti a quelle richieste per i diplomi nazionali (v. la sentenza 28 aprile 1977, 71/76, Thieffry, 765. In questo senso, v. anche, più di recente, Corte giust. 27 giugno 2013, C-575/11, Nasiopoulos, relativamente alla professione di fisioterapista; e 6 ottobre 2015, C298/14, Brouillard, con riferimento all’ammissione a un concorso per l’assunzione di referendari presso la Cour de cassation belga). In questo modo, e per successive progressioni, la Corte ha profondamente mutato e, per certi versi, addirittura rovesciato il quadro delle valutazioni correnti nella dottrina e nelle stesse istituzioni. Grazie alla sua giurisprudenza, infatti, la liberalizzazione in esame ha ricevuto un decisivo impulso, al punto che la stessa previsione della sua realizzazione «graduale» è stata eliminata dai testi, che ora proclamano il divieto «incondizionato» di restrizioni alla stessa.
9. Segue: b) soggettivo b) Anche per quanto concerne la loro portata soggettiva, le libertà in esame si ispirano a principi ampiamente comuni. La cerchia dei loro beneficiari comprende anzitutto e a titolo principale le persone fisiche che siano cittadine degli Stati membri. Ma a tali persone sono equiparate le società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro, che abbiano la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno dell’Unione, con la precisazione che la nozione di società copre, a detti fini, le società di diritto civile o di diritto commerciale, ivi comprese le società cooperative e le altre persone giuridiche contemplate dal diritto pubblico o privato, ad eccezione delle società che non si prefiggono scopi di lucro (artt. 54 e 62 TFUE). Pur con le peculiarità connesse alla natura degli enti considerati, il Trattato finisce così con l’estendere notevolmente e significativamente l’ambito di applicazione delle libertà in esame, tanto più che si deve ritenere, con la prevalente dottrina, che le citate disposizioni si riferiscano a tutte le società, anche se prive di personalità giuridica, purché perseguano scopi di lucro, intesi come scopi astrattamente lucrativi. E anche per i collegamenti che tali enti devono presentare con l’Unione, a parte quanto si dirà tra breve, essi appaiono particolarmente comprensivi, dato che considerano sufficiente la sussistenza del requisito formale (la costituzione in conformità alla legislazione di uno Stato membro) e di uno solo degli indicati requisiti di fatto. La disposizione ha sollevato molte questioni interpretative di rilevante importanza, anche pratica, ed è stata quindi oggetto di ampia discussione in dottrina. In termini molto sommari e riassuntivi, si può dire che, secondo larga parte della dottrina e alla luce della giurisprudenza di Lussemburgo, l’elencazione degli indicati criteri di collegamento non incide sulla questione dell’individuazione della «nazionalità» delle società, che rimarrebbe riservata alla competenza degli Stati membri, le cui legislazioni in materia restano assai diversificate. Anche per questo motivo si tende a dare alla riferita disciplina il solo compito di individuare gli enti diversi dalle persone fisiche de-
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stinatarie del diritto di stabilimento secondario, vale a dire dal diritto a costituire filiali o succursali in uno Stato membro diverso da quello in cui esse sono costituite, mentre nulla essa direbbe circa lo stabilimento primario, che resterebbe ugualmente riservato, in assenza di armonizzazione normativa, alle legislazioni nazionali (v. in particolare, nella giurisprudenza della Corte, le sentenze 27 settembre 1988, 81/87, Daily Mail, 5483; 9 marzo 1999, C-212/97, Centros, I-1459; 5 novembre 2002, C-208/00, Überseering, I-9919; 30 settembre 2003, C-167/01, Inspire Art, I-10195; 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes et Cadbury Schwepps Overseas, I-544; 16 dicembre 2008, C-210/06, Cartesio, I-9641; 29 novembre 2011, C-371/10, National Grid Indus, I12273; 12 luglio 2012, C-378/10, VALE). La Corte ha comunque riconosciuto la possibilità per una società costituita in uno Stato membro di «stabilirsi» in un altro Stato membro senza però «estinguersi» in quello di provenienza, e cioè continuando a mantenere in questo la propria personalità giuridica (Corte giust. 25 ottobre 2017, C-106/16, Polbud-Wykonawstwo).
Ma quello della nazionalità di uno Stato membro non è che un requisito di partenza e solo tendenzialmente assorbente per individuare i beneficiari della liberalizzazione. In alcuni casi, rileva altresì il fatto che, indipendentemente dalla sua nazionalità, il cittadino sia già stabilito all’interno dell’Unione, dato che l’accento è qui posto sul trasferimento da uno Stato membro all’altro. Questo comporta, ad esempio, che il cittadino di uno Stato membro già stabilito in un altro Stato membro, possa esercitare la libertà di stabilimento anche verso il proprio Stato nazionale, vantando verso quest’ultimo, al pari dei cittadini dello Stato di stabilimento, tutti i diritti che a questo titolo gli vengono conferiti dal Trattato (v. ad es. già sentenze 7 febbraio 1979, 115/78, Knoors, 399, e 136/78, Auer, 437; nonché 6 ottobre 1981, 246/80, Broekmeulen, 2311). È evidente che proprio la concreta realizzazione delle libertà in esame accresce la possibilità che si verifichino simili casi.
Ma, sebbene sia suscettibile di provocare in qualche caso discutibili conseguenze, la condizione del previo stabilimento ha anche un’altra precisa logica, in quanto si lega alla necessità di evitare la penetrazione economica negli Stati membri di soggetti che non abbiano con essi un effettivo legame. E infatti la condizione non è imposta, in principio, per l’esercizio della libertà di stabilimento, dato che questa comporta necessariamente l’insediamento del soggetto nello Stato ospite (con la conseguenza, peraltro, che della libertà in parola può avvalersi anche un cittadino dell’Unione stabilito in uno Stato terzo). Essa è invece richiesta nel caso del cosiddetto stabilimento secondario, cioè per l’apertura di agenzie, succursali o filiali da parte di cittadini o società degli Stati membri (art. 49, comma 1, TFUE), dato che in questo caso, malgrado la nazionalità comunitaria del soggetto, potrebbe mancare ogni reale collegamento tra l’Unione e il soggetto stesso. La condizione in parola è, per contro, sempre imposta nel caso della prestazione dei servizi, per la quale l’art. 56 TFUE richiede che l’interessato sia già stabilito in uno Stato membro diverso da quello nel quale il servizio deve essere prestato. Quindi egli non solo non può operare da uno Stato terzo, ma deve altresì dimostrare di essere già inserito stabilmente all’interno dell’Unione. Nel caso delle società, le perplessità sorte in dottrina al riguardo sono state risolte dai ricordati Programmi generali emanati in materia di stabilimento e di prestazione dei servizi, i quali, al Titolo I, disponevano in modo conforme che, quando quelle società hanno soltanto la sede
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sociale all’interno della Comunità, la predetta condizione è per esse soddisfatta allorché «la loro attività presenti un legame effettivo e continuato con l’economia di uno Stato membro, essendo escluso che tale legame possa dipendere dalla nazionalità, in particolare dei soci o dei membri degli organi di gestione e di controllo oppure di persone che detengano il capitale sociale». Va ancora aggiunto che il requisito della cittadinanza è imposto solo per i prestatori, non anche per i destinatari dei servizi. Dal testo stesso dell’art. 56, comma 1, TFUE, ma anche dalla giurisprudenza della Corte, si può infatti dedurre che questi ultimi, purché stabiliti all’interno dell’Unione, possono beneficiare della liberalizzazione anche se cittadini di Stati terzi. Fin dal 1984, la Corte ha sancito che la libera prestazione dei servizi comprende non solo la facoltà del prestatore di offrire ed erogare servizi ma anche, come complemento necessario, il diritto dei destinatari di riceverli o beneficiarne (cfr. la citata sentenza Luisi e Carbone); e che in determinate circostanze, i cittadini dell’Unione destinatari di servizi possono invocare la libertà di cui all’art. 56 TFUE non solo nel territorio dell’Unione ma anche all’estero. In tale contesto, sono stati ad es. riconosciuti come tutelati dalle norme in esame: i turisti (Corte giust. 2 febbraio 1989, 186/87, Cowan, 195), i quali, se visitano i musei di un altro Stato membro, devono fruire delle stesse tariffe dei cittadini di quest’ultimo (Corte giust. 16 gennaio 2003, C-388/01, Commissione c. Italia, I-721); gli spettatori di programmi televisivi transfrontalieri (si pensi agli emigrati che intendono vedere i programmi del loro paese d’origine via satellite; in virtù della libera circolazione dei servizi, essi avranno il diritto di non vedersi tassata l’antenna parabolica utilizzata all’uopo: Corte giust. 29 novembre 2001, C-17/00, De Coster, I-9445); i fruitori di cure mediche (Corte giust. 4 ottobre 1991, C-159/90, Society for the Protection of Unborn Children Ireland, I-4685) e in genere i pazienti che si facciano curare all’estero (e che quindi hanno diritto di essere poi rimborsati nel proprio paese d’origine: Corte giust. 27 gennaio 2011, C-490/09, Commissione c. Lussemburgo, I-247).
In quanto prestatori, invece, non beneficiano delle libertà in questione i cittadini di paesi terzi e le società in questi costituite. È ben vero che, ai sensi dell’art. 56, comma 2, TFUE, a tale preclusione potrebbe ovviare il legislatore dell’Unione a favore dei prestatori di servizi, cittadini di un paese terzo che siano stabiliti all’interno dell’Unione, ma finora nessuna misura è stata presa al riguardo. La Corte ha più volte ribadito che le due libertà non si estendono alle società stabilite in Stati terzi o che abbiano una partecipazione in società stabilite in Stati membri che permetta loro di esercitare un’influenza determinante su queste ultime: v. più di recente Corte giust. 13 novembre 2012, C-35/11, Test Claimants in the FII Group Litigation, e ivi riferimenti ulteriori, nonché 1° aprile 2014, C-80/12, Felixstowe Dock and Railway Company e a. In pratica, tuttavia, la questione non è sempre di facile soluzione, dati gli ingegnosi meccanismi che le società (UE o non) riescono a mettere in piedi, soprattutto a fini fiscali.
È possibile tuttavia che, in virtù di accordi di associazione conclusi dall’Unione ex art. 217 TFUE, siano conferiti a tali cittadini diritti analoghi a quelli previsti dal Trattato per i cittadini dell’Unione. Ad es. per gli Stati ACP associati all’Unione, è sancito il principio di non discriminazione tra cittadini degli Stati membri e quelli degli Stati ACP per la prestazione dei servizi e del diritto di
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stabilimento, nel senso che ogni Stato di un gruppo deve trattare in modo non discriminatorio i cittadini di qualsiasi Stato dell’altro gruppo. Quanto alla Turchia, il relativo accordo di associazione del 12 settembre 1963 (art. 14) e il successivo Protocollo addizionale del 23 novembre 1970 prevedono che le Parti Contraenti «convengono di ispirarsi» alle norme del Trattato per eliminare tra loro le restrizioni alla libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi e che il Consiglio di Associazione può fissare il ritmo e le modalità per la progressiva soppressione di quelle restrizioni. È altresì prevista una «clausola di standstill», in virtù della quale, «le parti contraenti si astengono dall’introdurre tra loro nuove restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi» (art. 41, par. 1, di detto Protocollo; sul quale v., di recente, Corte giust. 16 febbraio 2017, C-507/15, Agro Foreign Trade & Agency). Al riguardo, v. anche, con specifico riferimento alla libera prestazione dei servizi, Corte giust. 19 febbraio 2009, C-228/06, Soysal et Savatli, I-1031; 24 settembre 2013, C-221/11, Demirkan; Essent Energie Productie, cit. p. 488; e con riguardo alla libertà di stabilimento, Corte giust. 21 luglio 2011, C-186/10, Oguz, I-6957; 12 aprile 2016, C561/14, Genc.
10. Segue: c) oggettivo c) Non vi sono sostanziali differenze tra le due libertà in esame neppure per quanto attiene al loro campo di applicazione materiale. La nozione di «servizio» è infatti identica per entrambe ed è fornita dallo stesso Trattato, oltre che dalla giurisprudenza della Corte, sia in positivo che in negativo: in positivo, perché i testi elencano una serie di attività che rientrano sicuramente nella nozione in parola; in negativo, perché essi dichiarano esplicitamente che, indipendentemente da tale elencazione, peraltro puramente esemplificativa, la nozione ha natura residuale, nel senso che copre tutte le «prestazioni fornite normalmente dietro retribuzione», che non rientrino sotto le altre libertà previste dal Trattato. Art. 57, commi 1 e 2, TFUE. Un’interessante esemplificazione dei servizi coperti dal Trattato si ritrova nel considerando 33 della citata dir. 2006/123, relativa ai servizi nel mercato interno (sulla quale v. più ampiamente infra, p. 514 s.).
Venendo ad un esame più specifico della nozione, si può osservare anzitutto che per essa il Trattato pone l’accento sull’esercizio di una «attività» (art. 57, comma 2, TFUE) e di una «prestazione» (art. 57, comma 1, TFUE). Quel che rileva, cioè, è soprattutto l’azione del prestatore, che deve rappresentare l’elemento dominante del servizio, anche ad esempio rispetto a eventuali trasferimenti di beni che vi fossero collegati. Il fatto poi che il Trattato si riferisca non già alle «professioni», ma alle «attività» autorizza a ricondurre sotto la disciplina in esame non solo le attività esercitate professionalmente, ma anche quelle svolte occasionalmente in maniera non abituale e non sistematica. Ma il riferimento alle attività consente anche di accentuare il profilo unitario della nozione di «servizio» e precisare la portata della relativa liberalizzazione. Se invero le «professioni» sono soggette negli Stati membri a una specifica e sovente differenziata regolamentazione, volta ad inquadrarle secondo schemi formali e ad organizzarle quanto alle condizioni di accesso e di esercizio, le «attività» ad esse relative integrano invece in tutti gli Stati comportamenti identici o molto simili, al di là degli schemi formali predisposti rispetto alla corrispondente professio-
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ne. È ben vero che gli Stati membri restano liberi di consentire agli stranieri l’esercizio delle diverse professioni solo in presenza delle condizioni fissate in termini generali al riguardo, ma l’indicata precisazione permette di ridurre ulteriormente l’eventuale portata discriminatoria di quelle condizioni, così come permette di differenziare la disciplina delle ipotesi in cui una stessa attività si presti a rientrare in più professioni ovvero una professione si articoli in più attività. Come già accennato, le attività di cui si va discorrendo devono poi qualificarsi come «fornite normalmente dietro retribuzione» (v. anche il citato art. 54 TFUE, che, come si è visto, esclude dalla disciplina dello stabilimento e della prestazione dei servizi le società «che non si prefiggono scopi di lucro»). Da questa precisazione, la Corte ha giustamente dedotto che dette attività devono essere economicamente rilevanti, in quanto caratterizzate da una prestazione in cambio della quale viene corrisposta una retribuzione, e ciò a prescindere dalla coincidenza fra colui che è beneficiario del servizio e colui che lo retribuisce (v. Corte giust. 26 aprile 1988, 352/85, Bond van Adverteerders, 2085), come pure dalla natura solo astrattamente lucrativa del servizio stesso nei casi in cui non vi è retribuzione perché il servizio è occasionalmente prestato a titolo gratuito e amichevole. Si noti che in ragione dell’assenza di una rilevanza economica della prestazione, la Corte ha escluso che ricada sotto la liberalizzazione in esame «la composizione di squadre sportive, e in particolare delle rappresentative nazionali, operata esclusivamente in base a criteri tecnicosportivi» (sentenza 12 dicembre 1974, 36/74, Walrave, 1405, punti 7-10); o anche «la disciplina o prassi [nazionale] che escluda i giocatori stranieri da determinati incontri per motivi non economici, ma inerenti al carattere e alla fisionomia specifica di detti incontri, e che hanno quindi natura prettamente sportiva, come, ad esempio, nel caso degli incontri tra rappresentative nazionali dei due paesi» (sentenza Donà, cit., punto 14). Ma la maggior parte della dottrina si è pronunciata in senso (a volte anche fortemente) critico verso tale orientamento, contestandone – soprattutto oggi – la premessa secondo la quale il quadro di riferimento del Trattato sarebbe limitato alle attività puramente economiche.
I servizi di cui si discute devono inoltre tradursi, come più volte ricordato, in «attività autonome», secondo la più corretta formula con la quale il Trattato di Lisbona ha sostituito la dizione precedente («attività non salariate»). In tal senso dispone esplicitamente l’art. 49, comma 2, TFUE, per il diritto di stabilimento; ma alla medesima conclusione si perviene anche in ordine alla prestazione dei servizi, dal momento che l’art. 57, comma 1, TFUE, come subito si vedrà, sottrae alle relative disposizioni le prestazioni regolate dalle norme sulla circolazione dei lavoratori. Per questo aspetto, dunque, la nozione in esame si ricava anzitutto in via di esclusione rispetto alle attività salariate; in positivo, invece, e in termini molto generali, essa può essere definita con riferimento essenzialmente alle ipotesi di professioni indipendenti, esercitate cioè senza vincoli di subordinazione ad altrui poteri direttivi; o anche, ove si voglia prescindere dalla natura delle attività, con riferimento alle ipotesi in cui tali attività non sono disciplinate da un contratto di lavoro. Cfr. la citata sentenza Walrave. A parte comunque quanto si dirà tra breve, è da sottolineare che in concreto la distinzione non risulta sempre agevole; anzi la possibilità di interferenze tra le due libertà è prevista dallo stesso Trattato: v. art. 50, par. 2, lett. d), TFUE (lavoratori stabiliti in
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uno Stato membro che poi intraprendono in questo un’attività indipendente); art. 50, par. 2, lett. f), TFUE (personale di un’impresa stabilita in uno Stato membro che accede agli organi di gestione e di controllo di agenzie, succursali o filiali create in un altro Stato membro); art. 57 TFUE e Titolo II del Programma generale Servizi (personale di un prestatore di servizi che accompagna quest’ultimo per l’esecuzione della prestazione in altro Stato membro). Per altri esempi di intrecci tra le due libertà, v., nella giurisprudenza della Corte, la citata sentenza Webb, nonché la sentenza 3 febbraio 1982, 62/81 e 63/81, Seco e Desquenne & Giral, 223. Il problema, tuttavia, è reso meno grave dalla comunanza dei principi che, come si è visto, regolano entrambe le attività, dall’ampiezza della liberalizzazione sancita per le une e le altre, dalla portata ormai generale della libertà di soggiorno e di trasferimento e anche dal fatto che, per talune ipotesi più complesse, le direttive regolano congiuntamente la liberalizzazione di dette attività (v., ad es., le direttive sui veterinari, i dentisti, gli infermieri, ecc., su cui infra, p. 513).
Per il resto, ripetiamo, la definizione dei servizi è operata dall’art. 57, comma 1, TFUE, in modo negativo, cioè in via residuale rispetto alle prestazioni che «non siano regolate dalle disposizioni relative alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone». Sul rapporto fra libertà di prestazione dei servizi e libera circolazione delle merci, la Corte ha avuto modo di pronunciarsi in più occasioni, chiarendo, ad es., che misure aventi per effetto di ostacolare la libera circolazione delle merci, pur attenendo alla disciplina di un servizio – nella specie si trattava di norme che limitavano l’impiego di lavoratori nel commercio al dettaglio di domenica – devono essere valutate alla stregua dell’art. 34 ss. TFUE, relativi appunto alla libera circolazione delle merci (Corte giust. 28 febbraio 1991, C-332/89, Marchandise e a., I-1027; ma si veda anche Corte giust. 11 luglio 1985, 60/84 e 61/84, Cinéthèque, 2605). Diversamente, nel caso Schindler, la Corte ha ricollegato l’importazione dei biglietti di una lotteria alla libera circolazione dei servizi, considerando la stessa come attività strumentale rispetto alla partecipazione alla lotteria cui era preordinata (Corte giust. 24 marzo 1994, C-275/92, I-1039). Comunque, anche la distinzione tra le due libertà di cui ora si discute non è sempre agevole. Si pensi ad es. all’attività di trasmissione di messaggi televisivi a carattere pubblicitario e alla difficoltà di ricondurla sotto l’una o l’altra di quelle libertà (a favore della riconducibilità alla prestazione dei servizi, v. le citate sentenze Sacchi, Debauve e Coditel). Sulla differenziazione fra le libertà in esame e la libera circolazione dei capitali, torneremo ancora più avanti (p. 522). Va qui segnalato peraltro che molte difficoltà sono sorte nella prassi in ordine al trattamento fiscale dei dividendi distribuiti da una società e alla loro riconducibilità alle libertà ora in esame o a quella della circolazione dei capitali (con conseguenze più favorevoli alle società nel primo caso). La Corte ha ritenuto che la questione vada verificata caso per caso, alla luce soprattutto dell’oggetto principale della legislazione in causa. Anche qui tuttavia essa ha ritenuto che se una partecipazione societaria permette di esercitare un’influenza determinante sulle decisioni societarie, debbano applicarsi le norme sulla libertà di stabilimento (v. Corte giust. 13 aprile 2000, C-251/98, Baars, I-2787; 6 dicembre 2007, C-298/05, Columbus Container Service, I-10451).
In tal modo, la libertà in esame si qualifica come complementare rispetto alle altre, nel senso di completarne la portata liberalizzatrice e di «chiudere» la normativa dell’Unione in materia, includendo tutte le attività economicamente rilevanti che in ipotesi sfuggissero alle altre liberalizzazioni. Ma, come già accennato, l’art. 57 TFUE non rinuncia a dare anche indicazioni in positivo per la definizione della nozione in esame, fornendo un’esemplificazione in materia. Al comma 2, infatti, la disposizione precisa che «i servizi comprendono in particolare: a) attività di carattere industriale; b) attività di carattere commerciale; c) attività artigiane; d) attività delle libere pro-
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fessioni». Come avverte la stessa disposizione, si tratta di un’elencazione che non ha alcuna pretesa di esaustività, perché nell’ambito che risulta dalle limitazioni in precedenza indicate la nozione dei servizi si presta a comprendere la più ampia gamma di attività indipendenti. E ciò è altresì confermato, ove ce ne fosse bisogno, dagli allegati al Programma generale per la soppressione delle restrizioni alla libertà di stabilimento, i quali, nell’indicare le tappe della liberalizzazione delle diverse attività, ele0ncavano queste ultime in modo molto più comprensivo dell’art. 57 TFUE, includendovi, ad esempio, le attività relative all’agricoltura, alla silvicultura, alla pesca, ecc., e concludendo la lista con un generale riferimento a tutte le attività residuali. Va infine segnalato che, se pure rientrano a pieno titolo tra le attività di cui si discute, taluni servizi sono oggetto, in relazione alle loro particolari caratteristiche, di specifica regolamentazione da parte del Trattato quanto alla loro liberalizzazione (art. 58 TFUE). Si allude, segnatamente, ai servizi in materia di trasporti, che sono addirittura sottratti alle norme qui rilevanti per rientrare in quelle appositamente dedicate alla politica comune dei trasporti (infra, p. 585 ss.), e a quelli in materia di assicurazioni, banche e altri istituti finanziari, la cui liberalizzazione viene collegata a quella dei capitali (infra, p. 519 s.).
11. Portata e contenuto della liberalizzazione. Le restrizioni vietate. Le discriminazioni fondate sulla nazionalità Al pari delle altre libertà sancite dal Trattato, anche quelle in esame si caratterizzano per la loro ampia portata e la loro tendenziale assolutezza, nel senso che soffrono unicamente le eccezioni espressamente indicate dai testi. Per dirla in sintesi, la libertà è la regola e le relative previsioni devono essere interpretate estensivamente, mentre le restrizioni sono l’eccezione e quindi di stretta interpretazione. Un’elencazione puntuale e completa delle restrizioni da sopprimere sarebbe evidentemente impossibile; e, d’altro canto, visto che la Corte di giustizia ne ha sancito il divieto in termini generali ed assoluti a decorrere dalla fine del periodo transitorio, essa ha perso in gran parte la sua utilità. Basteranno quindi sintetici richiami esemplificativi. Per cominciare, può ricordarsi che quelle libertà comportano anzitutto, come loro indispensabile presupposto, la libera circolazione dei cittadini degli Stati membri nell’Unione ai fini appunto dell’esercizio di dette libertà. Ciò implica evidentemente il diritto di uscire dallo Stato di origine e di rientrarvi, con l’obbligo per tale Stato di rilasciare i necessari documenti; il diritto di entrare nello Stato in cui si intende svolgere l’attività professionale e quindi l’abolizione delle relative restrizioni (visti di entrata o obblighi equivalenti); il diritto di soggiornare in quello Stato per la durata della prestazione e anche di rimanervi successivamente; il diritto di spostarsi all’interno dello Stato membro in cui è prestato il servizio; il diritto a non esserne espulso se non per i casi espressamente previsti. Naturalmente, poi, le libertà in esame comportano il diritto di accedere alle attività non salariate e di esercitarle, anche se a questo riguardo, data la natura degli ostacoli che rilevano in materia, acquistano rilevanza soprattutto le ricordate misure
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di armonizzazione, su cui si tornerà in seguito. Nelle more, tuttavia, permane l’obbligo degli Stati membri e delle istituzioni dell’Unione di rimuovere gli ostacoli che si frappongono all’esercizio di quel diritto, segnatamente abolendo le restrizioni che comunque lo intralciano. In tale prospettiva, dunque, non sarebbero tollerate neppure misure restrittive eventualmente imposte nello Stato della prestazione del servizio per il solo fatto che esse coincidano con quelle esistenti nello Stato dove il prestatore è stabilito o in quello da cui proviene il destinatario del servizio: v. Corte giust. 10 maggio 1995, C-384/93, Alpine Investments, I-1141, e 28 aprile 1998, C158/96, Kohll, I-1931.
A questo riguardo, va anzitutto ricordato che detto obbligo si estende a qualsiasi misura prevista da una disposizione nazionale di natura legislativa, regolamentare o amministrativa, o conseguente all’applicazione di questa, o da pratiche amministrative o comunque da prassi nazionali. La Corte ha più volte precisato che la liberalizzazione interessa «non solo gli atti dell’autorità pubblica, ma le norme di qualsiasi natura dirette a disciplinare collettivamente il lavoro subordinato e la prestazione dei servizi». E ciò in quanto la libera circolazione delle persone sarebbe compromessa «se oltre alle limitazioni stabilite da norme statali non si eliminassero anche quelle poste da associazioni o organismi non di diritto pubblico nell’esercizio della loro autonomia giuridica» (cfr. le citate sentenze Walrave, punti 16-19, e Donà, punto 17; nonché, relativamente alla libertà di stabilimento, le citate sentenze Van Ameyde e Thieffry). Questo vale ad es. per le ipotesi in cui la regolamentazione di un settore sia riservata dal legislatore a enti o organizzazioni private, come avvenuto nel noto caso della regolamentazione di talune gare sportive da parte delle relative federazioni (v. per tutte le citate sentenze Bosman e Donà).
Esso però non comporta, malgrado l’ambiguità delle formule spesso utilizzate al riguardo, l’eliminazione di tutte le limitazioni e condizioni legali cui sono subordinati all’interno dei singoli Stati membri l’accesso alle varie attività indipendenti e l’esercizio delle medesime, ma solo di quelle derivanti dal fatto che la prestazione non si esaurisce nell’ambito di un solo Stato membro, con la conseguenza che, almeno in principio (ma vedremo che non sempre è così), potrebbero restare in piedi le restrizioni che colpiscono allo stesso modo cittadini e stranieri. Il divieto di simili misure colpisce dunque sicuramente quelle che presentano in qualsiasi modo un carattere discriminatorio; e in primo luogo ovviamente quelle che discriminano in ragione della nazionalità dei soggetti. Anche per quelle in esame, insomma, come per le altre libertà, il principio che più di ogni altro informa la normativa dell’Unione è quello della parità di trattamento tra i cittadini degli Stati membri, che costituisce la specifica applicazione nella materia del divieto, enunciato in termini generali dall’art. 18 TFUE, di discriminazioni fondate sulla nazionalità. La giurisprudenza della Corte è univoca nell’affermare che le norme del Trattato relative al diritto di stabilimento e di prestazione dei servizi «rendono operante» e «garantiscono l’applicazione» del predetto divieto nei rispettivi settori. In quanto quindi dettano la specifica disciplina della materia, sono esse, e non quelle generali, a dover essere applicate in prima battuta (v. già le citate sentenze Reyners, Walrave e 9 giugno 1977, 90/76, Van Ameyde, 1124).
E tale principio, salvo quanto si dirà tra breve, opera sia in negativo, con il divieto
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appunto delle discriminazioni fondate sulla nazionalità, sia in positivo, con l’applicazione (in principio) agli stranieri «comunitari» delle stesse condizioni prescritte per i cittadini dello Stato ospite. Per fare solo qualche esempio di discriminazioni siffatte, in una prassi d’imponente ricchezza e varietà, si possono indicare: per quanto concerne l’accesso alle attività non salariate, quelle che, per i soli stranieri, vietano detto accesso o lo subordinano a un’autorizzazione o al rilascio di un documento, o impongono condizioni supplementari, o ancora subordinano detto accesso ad un soggiorno o a un tirocinio preventivi nel paese ospitante, o che rendono problematico l’acquisto di immobili o subordinano tale possibilità a un’autorizzazione amministrativa da rilasciarsi caso per caso, oppure che implicano una restrizione nell’aggiudicazione di locali commerciali, o che comportano l’applicazione di tassi di interesse meno favorevoli sui mutui fondiari (v. ad es. le sentenze 14 gennaio 1988, 63/86, Commissione c. Italia, 29; 30 maggio 1989, 305/87, Commissione c. Grecia, 1461; 1° giugno 1999, C-302/97, Konle, I-3099). E quanto all’esercizio delle attività professionali, quelle che per i soli stranieri: rendono più oneroso tale esercizio imponendo oneri fiscali o di altra natura, come la costituzione di un deposito o il versamento di una cauzione nel paese ospitante; negano o limitano il diritto di partecipare alla sicurezza sociale; concedono un regime meno favorevole in caso di nazionalizzazione, espropriazione o requisizione. E così pure le misure che escludono, limitano o condizionano la facoltà di: concludere contratti e di fruire dei diritti da questi derivanti; di presentare offerte o partecipare come contraente o subappaltatore ai contratti dello Stato o di altre persone giuridiche di diritto pubblico; di beneficiare di concessioni o autorizzazioni rilasciate dallo Stato o da altre persone giuridiche di diritto pubblico; di acquistare, godere o alienare diritti e beni mobili o immobili; di chiedere prestiti; di usufruire degli aiuti diretti o indiretti concessi dallo Stato; di stare in giudizio ed esperire qualsiasi ricorso dinanzi alle autorità amministrative. E ancora le restrizioni che vietano o impediscono il trasferimento degli oggetti e dei mezzi finanziari necessari all’esecuzione della prestazione; nonché quelle che colpiscono quest’ultima attraverso la controprestazione del destinatario del servizio, cioè con divieti e impedimenti al relativo pagamento. Dato quanto precede, si comprende perché sia praticamente divenuta superflua l’enunciazione, tuttora presente nel Trattato (art. 55 TFUE), del divieto di discriminazioni fondate sulla nazionalità nei confronti delle partecipazioni finanziarie dei cittadini degli altri Stati membri al capitale delle società di cui all’art. 54 TFUE.
12. Segue: Le discriminazioni fondate sulla residenza o su altri profili della prestazione. Le restrizioni c.d. indistintamente applicabili Se quanto precede è vero in linea di massima, va però chiarito che il principio del trattamento nazionale non gioca, nella prestazione dei servizi, il medesimo ruolo assoluto e conclusivo che a esso invece spetta, almeno tendenzialmente, in materia di stabilimento. Se invero la liberalizzazione voluta dal Trattato in materia di servizi importa l’eliminazione degli ostacoli che colpiscono la prestazione per il fatto di
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svolgersi da uno Stato all’altro, ne discende che detto principio rischierebbe di tradursi, per la parte in cui impone agli stranieri le medesime condizioni richieste ai cittadini, in restrizioni ultronee rispetto al carattere temporaneo e occasionale dell’insediamento solitamente necessario allo svolgimento della prestazione. Se invero condizioni siffatte fossero richieste anche in questo caso, ne sarebbe vanificata, come ha chiarito la stessa Corte, non solo la specificità della libertà di prestazione dei servizi rispetto a quella di stabilimento, ma la sostanza stessa di tale libertà. Come si è già visto, infatti, la Corte ha osservato che uno Stato membro non può subordinare l’esecuzione della prestazione di servizi sul suo territorio all’osservanza di tutte le condizioni prescritte per lo stabilimento, perché altrimenti priverebbe di qualsiasi effetto utile le norme del Trattato dirette a garantire un diritto siffatto a coloro che non siano stabiliti sul territorio dello Stato nel quale la prestazione deve essere eseguita (v. Corte giust. 26 novembre 1975, 39/75, Coenen, 1547; Webb, cit.; 25 luglio 1991, C-76/90, Säger, I-4221).
Da qui dunque la necessità che la soppressione delle restrizioni interessi anche quelle, ugualmente benché meno apertamente discriminatorie, fondate sulla residenza o su altri profili della prestazione connessi al suo svolgersi attraverso le frontiere, e ciò specie in relazione alla varietà di forme con le quali, come si vide, la libertà in questione può realizzarsi. Si pensi ad es. all’ipotesi (già evocata) di un servizio prestato in uno Stato membro da un cittadino dello stesso stabilito in un altro Stato membro; o alle ipotesi di servizi resi senza spostamento del prestatore o con spostamento di prestatori e destinatari del servizio in un terzo Stato membro, nelle quali spesso non ricorrono neppure i presupposti per l’operatività del principio del trattamento nazionale.
Per fare comunque anche qui un’esemplificazione molto sintetica e ridotta, si può ricordare che, rientrano tra le misure vietate quelle che, in assenza dei motivi di cui si dirà tra breve, subordinano lo svolgimento dell’attività del prestatore al previo conseguimento o rilascio di autorizzazioni amministrative, licenze, qualifiche e diplomi ulteriori rispetto a quelli, equivalenti, già in possesso del prestatore, o al pagamento di oneri finanziari, o che pretendano la presenza nello Stato di un «centro di attività stabile», o che rendano più difficile, per gli istituti di credito stranieri, l’accesso alla funzione di raccolta del risparmio, e così via. V., tra le tante, la citata sentenza Seco e Desquenne & Giral; 9 luglio 1997, C-222/95, Parodi, I3899; 15 gennaio 2002, C-439/99, Commissione c. Italia, I-305; 5 ottobre 2004, C-442/02, CaixaBank France, I-8983). Sull’accesso alla funzione di raccolta del risparmio, v. ad es. Corte giust. 18 luglio 2007, C-134/05, Commissione c. Italia, I-6251; 13 dicembre 2007, C-465/05, Commissione c. Italia, I-11091; 7 ottobre 2010, C-515/08, Santos Palhota, I-9133. Nella citata sentenza Webb, la Corte ha però ammesso che le imprese fornitrici di manodopera possono essere soggette all’obbligo di munirsi di licenza prima di svolgere la loro attività, a condizione che lo Stato nel quale il servizio deve essere prestato non effettui discriminazioni fondate sulla nazionalità o sulla residenza al momento della concessione delle licenze (punti 16-21). L’elencazione dei divieti potrebbe continuare a lungo perché la prassi della Corte offre una straordinaria panoplia di esempi. Così, una discriminazione è stata riscontrata nel fatto di porre limiti alla concessione di posti barca ai proprietari di imbarcazioni residenti in altri Stati membri
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(v. Corte giust. 29 aprile 1999, C-224/97, Ciola, I-2517); o, per quanto riguarda gli affidamenti diretti (c.d. in house) di servizi da parte di una pubblica amministrazione, nel fatto che, se operati senza adeguata trasparenza, essi non permetterebbero a un’impresa stabilita in un altro Stato membro di avere accesso alle informazioni relative alla concessione e di manifestare, se del caso, il proprio interesse (v. Corte giust. 21 luglio 2005, C-231/03, Coname, I-7287). La libera prestazione di servizi non osta invece al rilascio di una concessione a favore di un ente sul quale l’autorità pubblica concedente abbia un controllo «analogo a quello che essa esercita sui propri servizi» laddove tale ente «realizza la maggior parte della sua attività con l’autorità detentrice» (Corte giust. 13 ottobre 2005, C-458/03, Parking Brixen, I-8585, punto 62).
Ma non è il caso di continuare nell’elencazione, se non per sottolineare che, come emerge dalla prassi, il divieto in parola produce importanti conseguenze soprattutto sul piano fiscale. È stato ad esempio ribadito il divieto di subordinare la concessione di talune esenzioni fiscali alla prova non solo dello stabilimento, ma anche di un domicilio fiscale nello Stato (v. Corte giust. 10 marzo 1993, C-111/91, Commissione c. Lussemburgo, I-817; 28 gennaio 1986, 270/83, Commissione c. Francia, 273; 12 aprile 1994, C-1/93, Halliburton, I-1137), o di concedere ai soli prestatori residenti nello Stato la facoltà di dedurre le spese professionali all’atto della ritenuta e non – come per i prestatori stabiliti in altri Stati membri – in una successiva procedura di rimborso, o di imporre una ritenuta alla fonte di un’imposta per i relativi compensi ai soli prestatori di servizi non residenti nello Stato membro ove la prestazione viene effettuata. V. Corte giust. 12 giugno 2003, C-234/01, Gerritse, I-5933; 3 ottobre 2006, C-290/04, FKP Scorpio Konzertproduktionen, I-9461. Per fare qualche altro es., si possono ricordare: Corte giust. 11 settembre 2007, C-76/05, Schwarz e Gootjes-Schwarz, I-6849, nonché 11 settembre 2007, C318/05, Commissione c. Germania, I-6957 (obbligo di estendere l’abbattimento dell’imposizione fiscale sulle rette versate a scuole tedesche essenzialmente finanziate con fondi privati, alle rette da versare a scuole situate in altri Stati membri); 18 dicembre 2007, C-281/06, Jundt, I-12231 (obbligo di estendere l’esenzione dall’imposta sul reddito da prestazioni di insegnamento presso università tedesche, a quelle svolte presso università di altri Stati membri); 8 giugno 2017, C-580/15, Van der Weegen (obbligo di non discriminare sul piano fiscale banche belghe secondo che siano o meno stabilite in Belgio).
Ma non è tutto. Alla luce dei principi generali di liberalizzazione, devono ritenersi altresì vietate tutte quelle misure che, seppur non discriminatorie alla luce dei criteri finora indicati, si traducono ugualmente in restrizioni all’esercizio delle due libertà da parte degli operatori economici stabiliti in altri Stati membri. Ci riferiamo a quelle misure c.d. indistintamente applicabili, che sebbene in sé legittime, perché basate su criteri in apparenza neutri (discriminazioni simulate o indirette), abbiano però per effetto di porre quegli operatori in condizioni di fatto o di diritto meno favorevoli rispetto ai cittadini dello Stato ospite, o, per riprendere la consueta formula giurisprudenziale, di impedire, ostacolare o rendere per essi meno attraente lo stabilimento o lo svolgimento di un’attività in altro Stato membro (una prima definizione di tali misure si rinviene già in Corte giust. 12 febbraio 1974, 152/73, Sotgiu, 153. Più di recente, v. Corte giust. 12 settembre 2013, C-475/11, Konstantinides; 11 giugno 2015, C-98/14, Berlington Hungary e a.). Di tali misure si è già detto a proposito delle altre libertà; qui basta aggiungere che è proprio in relazione a quelle in esame
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che la prassi ha offerto alla Corte le più frequenti e importanti occasioni di intervento e quindi di sviluppare una ricca e varia giurisprudenza, che ha col tempo precisato i contorni di dette misure nei termini appena indicati. Può dunque affermarsi, riassuntivamente, che il divieto di discriminazioni nelle due libertà in esame riguarda qualsiasi misura nazionale, che di diritto o di fatto restringa o anche solo condizioni, esclusivamente o prevalentemente rispetto ai cittadini dell’Unione stabiliti in un altro Stato membro, lo stabilimento e la prestazione dei servizi: e ciò sia che la restrizione incida in modo diretto e palese, sia che si presenti come restrizione indiretta, dissimulata o occulta; e sia che concerna il prestatore, sia che colpisca quest’ultimo per mezzo della prestazione o della controprestazione.
13. I limiti all’esercizio del diritto di stabilimento e della libera circolazione dei servizi Malgrado la riferita ampiezza con la quale sono definite, le due libertà in esame subiscono, anch’esse, varie limitazioni in virtù dei testi o della giurisprudenza della Corte. Talune sono anzitutto previste per il diritto di stabilimento dall’art. 52, par. 1, TFUE, ma sono estese, in virtù del richiamo da parte dell’art. 62 TFUE, anche alla prestazione di servizi. Si tratta delle limitazioni giustificate da considerazioni legate all’ordine pubblico, alla pubblica sicurezza e alla sanità pubblica. Esse operano qui allo stesso modo che per le altre libertà e non occorre quindi aggiungere ulteriori considerazioni, se non ribadire che, in quanto previsioni derogatorie di libertà fondamentali, esse devono essere interpretate restrittivamente e comunque devono essere idonee e proporzionate al perseguimento degli obiettivi che le giustificano (pp. 462 s. e 488 ss.). Come per la libertà di circolazione dei lavoratori, anche per le due libertà in esame è però prevista una limitazione specifica. Sono in effetti escluse dal loro campo di applicazione le attività che «partecipano all’esercizio dei pubblici poteri» (artt. 51 e 62 TFUE). Come si è detto in precedenza, anche se la formulazione del divieto è diversa per la libera circolazione dei lavoratori, la Corte ne ha sostanzialmente assimilato la portata nell’uno e nell’altro caso, sicché vale a questo riguardo quanto si è detto in quella sede. V. supra, p. 488. In particolare, anche per le libertà in esame, la deroga va limitata alle sole attività che, di per sé considerate, costituiscono una partecipazione «diretta e specifica» all’esercizio dei pubblici poteri, sicché non rientrano in essa le attività che si concretizzano in una partecipazione occasionale e in forma tale da non condizionare l’esercizio di una determinata professione nel suo complesso. Comunque, la Corte ha interpretato con molto rigore la limitazione in questione. Tra i tanti casi che arricchiscono la prassi in materia, si può ricordare che essa ha volta a volta ritenuto che non costituissero esercizio di pubblici poteri le seguenti attività: quelle dei centri di assistenza fiscale (CAF), i quali svolgono attività ausiliarie o preparatorie rispetto all’esercizio dei pubblici poteri; gli avvocati, i consulenti tecnici e gli altri ausiliari degli organi giudiziari, le cui attività, pur implicando una limitata partecipazione all’esercizio della funzione giurisdizionale, non comportano una sostituzione e un esercizio diretto dell’attività giurisdizionale, perché il giu-
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dice rimane libero, nel rispetto dei principi regolatori del processo, di formare il proprio personale convincimento; i notai, in quanto nonostante la funzione certificativa a essi riconosciuta negli ordinamenti nazionali e la conseguente fiducia che tale figura ingenera nei confronti della collettività, la professione che svolgono non può considerarsi un’attività che partecipa in misura prevalente all’esercizio dei pubblici poteri: v. la citata sentenza Reyners; nonché 15 marzo 1988, 147/86, Commissione c. Grecia, 1637; 5 dicembre 1989, C-3/88, Commissione c. Italia, 4035; 13 luglio 1993, C-42/92, Thijssen, I-4047; 30 marzo 2006, C-451/03, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, I-2941; 29 novembre 2007, C-393/05, Commissione c. Austria, I-10195, e C-404/05, Commissione c. Germania, I-10239; 16 giugno 2015, C-593/13, Rina Services; 23 dicembre 2015, C293/14, Hiebler; 1 febbraio 2017, C-392/15, Commissione c. Ungheria. Specificamente, a proposito dei notai: Corte giust. 24 maggio 2011, C-47/08, Commissione c. Belgio; C-50/08, Commissione c. Francia; C-51/08, Commissione c. Lussemburgo; C-53/08, Commissione c. Germania; C-61/08, Commissione c. Grecia, rispettivamente, I-4105, I-4195, I-4231, I-4309 e I-4399; 10 settembre 2015, C-151/14, Commissione c. Lettonia; nonché, più di recente, 1° febbraio 2017, C-392/15, Commissione c. Ungheria; 9 marzo 2017, C-342/15, Piringer.
Rilevano poi anche in questa materia le limitazioni individuate in via pretoria dalla Corte e che si giustificano in nome dei ricordati motivi imperativi d’interesse generale. Anche qui, tali limitazioni operano soprattutto con riferimento alle c.d. misure indistintamente applicabili, sono invocabili solo in assenza di regole esaustive di armonizzazione europea e vanno interpretate in termini restrittivi. Naturalmente le restrizioni sono ugualmente soggette al test di necessarietà e proporzionalità e quindi saranno ammissibili solo se sono applicate in modo non discriminatorio, sono idonee a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non vanno oltre quanto necessario per il raggiungimento di quest’ultimo: v. la citata sentenza Gebhard (segnatamente al punto 37). Ma v. anche (le già citate) Corte giust. 17 dicembre 1981, 279/80, Webb, 3305; 31 marzo 1993, C-19/92, Kraus, I-1163; 9 marzo 1999, C-212/97, Centros, I-1459; 15 gennaio 2002, C-439/99, Commissione c. Italia, I-305; 30 gennaio 2003, C-167/01, Inspire Art, I-10195; nonché 10 marzo 2009, C169/07, Hartlauer, I-1721.
Nell’ambito delle libertà in esame, tali motivi sono stati individuati, ad esempio, nella salvaguardia di obiettivi di politica culturale, nella prevenzione di turbative di ordine sociale e nella tutela dei consumatori, nella lotta contro la ludopatia, nel mantenimento dell’equilibrio finanziario di un sistema sanitario nazionale, nella buona amministrazione della giustizia, nella necessità di garantire la coerenza del regime fiscale e così via. V. ad es., rispettivamente, Corte giust. 5 ottobre 1994, C-23/93, TV 10, I-4795; 21 ottobre 1999, C-67/98, Zenatti, I-7289; 16 maggio 2006, C-372/04, Watts, I-4325; 6 marzo 2007, C338/04, C-359/04 e C-360/04, Placanica, I-1891; 16 febbraio 2012, C-72/10 e C-77/10, Costa e Cifone; 7 novembre 2013, C-322/11, K. In analogo ambito, quanto alla giustificazione fondata sulla necessità di un’equilibrata ripartizione del potere impositivo tra gli Stati membri, cfr. Corte giust. 6 settembre 2012, C-380/11, DI. VI. Finanziaria di Diego della Valle & C (relativamente al trasferimento della sede sociale da uno Stato membro all’altro, analizzato nell’ottica dell’art. 49 TFUE). I predetti motivi, però, sono stati giudicati idonei a giustificare la fissazione di tariffe minime per gli onorari degli avvocati in Italia (Corte giust. 5 dicembre 2006, C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., I-11421); mentre non giustificata è stata ritenuta la fissazione delle tariffe massime, anche se poi essa non è stata sanzionata, perché nella specie non è stata dimostrata l’esistenza di una restrizione: v. Corte giust. 29 marzo 2011, C-565/08, Commissione c. Italia, I-2101.
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Ma un rilievo sempre maggiore acquistano anche le limitazioni giustificate dalla tutela dei diritti fondamentali. V., ad esempio, le sentenze 12 giugno 2003, C-112/00, Schmidberger, I-5659, e 14 ottobre 2004, C-36/02, Omega, I-9609, nelle quali restrizioni nazionali alle libertà in parola sono state giustificate proprio in nome della tutela dei diritti fondamentali che sarebbero stati lesi dall’esercizio delle stesse. Va detto, però, che il rispetto dei diritti fondamentali costituisce al contempo una condizione affinché una normativa nazionale, atta ad ostacolare una o più libertà fondamentali garantite dal Trattato, possa essere giustificata alla luce di ragioni imperative di interesse generale (v., tra le tante, Corte giust. 21 dicembre 2016, C-201/15, AGET Iraklis, ivi riferimenti ulteriori).
Rileva inoltre specificamente in materia – sebbene attenuata dalle direttive di cui subito parleremo, che l’hanno pienamente recepita – anche l’esigenza di impedire un uso distorto della libertà sancita dal Trattato in materia di servizi, quale potrebbe derivare, in una situazione in cui, come si vide, la distinzione tra le due libertà in esame non sempre emerge con nettezza, dal ricorso alla prestazione dei servizi anziché allo stabilimento per sfuggire alle più onerose condizioni imposte ai soggetti stabiliti nello Stato. V. ad es. la citata sentenza Van Binsbergen, nella quale, rispetto a norme nazionali che esigevano il requisito della residenza per il procuratore ad litem, la Corte osservò che non si possono considerare incompatibili col Trattato i requisiti specifici che il prestatore deve possedere in forza di norme sull’esercizio della sua professione, norme in tema di organizzazione, di qualificazione, di deontologia, di controllo e di responsabilità giustificate dal pubblico interesse ed obbligatorie nei confronti di chiunque risieda nello Stato ove la prestazione è effettuata. Ed è quindi giusto riconoscere allo Stato il diritto di provvedere affinché un prestatore di servizi, la cui attività si svolga per intero o principalmente sul territorio di detto Stato, non possa utilizzare la libertà garantita dal Trattato allo scopo di sottrarsi alle norme sull’esercizio della sua professione la cui osservanza gli sarebbe imposta ove egli si stabilisse nello Stato in questione. Una simile situazione deve infatti venir regolata dalle norme sul diritto di stabilimento e non dalle norme sulla prestazione dei servizi. Nello stesso senso, v. anche, fra le altre, le citate sentenze Van Wesemael, Debauve, Coditel, Webb e Knoors; nonché le sentenze 4 dicembre 1986, 205/84, Commissione c. Germania, 3755; 3 febbraio 1993, C-148/91, Veronica Omroep Organisatie, I-487; 9 marzo 1999, C-212/97, Centros, cit.; 9 settembre 2003, C-137/00, Milk Marque e National Farmers’Union, I-7975. Tali considerazioni sono state ribadite soprattutto in materia fiscale, a proposito della quale la Corte ha affermato che «l’applicazione della normativa comunitaria non può […] estendersi fino a comprendere i comportamenti abusivi degli operatori economici, vale a dire operazioni realizzate non nell’ambito di transazioni commerciali normali, bensì al solo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto comunitario» (Corte giust. 21 febbraio 2006, C-255/02, Halifax e a, I1609, punto 69). Sempre in materia fiscale, la Corte ha stabilito che una «misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato» (Corte giust. 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, I-7995, punto 51). Nello stesso senso, ma con riferimento alla libera prestazione dei servizi, v. Corte giust. 5 luglio 2012, C-318/10, SIAT.
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14. L’attuazione delle liberalizzazioni. In generale Come più volte sottolineato, la sola soppressione delle restrizioni non sarebbe stata di per sé sufficiente ad assicurare l’effettiva libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi, se non si fosse accompagnata a misure volte a facilitare la realizzazione di tali libertà, riducendo o superando quelle divergenze tra le legislazioni nazionali che, pur senza provocare autentiche discriminazioni, ostacolano ugualmente l’esercizio di un servizio attraverso le frontiere dell’Unione. Com’è noto, infatti, per lo svolgimento della maggior parte di tali servizi sono richieste (legittimamente) negli Stati membri requisiti e condizioni legali, che s’impongono a chiunque voglia esercitare quelle attività. Il fatto però che essi siano assai diversi da uno Stato all’altro si traduce, per quanto qui interessa, in pesanti limitazioni allo svolgimento delle libertà in esame, perché impone agli interessati, perfino se ne fossero già in possesso nello Stato di provenienza, di acquisire quei requisiti e di rispettare quelle condizioni; il che è normalmente più oneroso per gli stranieri e ovviamente lo è ancor più nel caso della prestazione di servizi, considerato il carattere temporaneo e occasionale della stessa. Oggi, a seguito della segnalata evoluzione indotta dalla giurisprudenza della Corte, la situazione è assai migliorata, perché gli Stati membri devono nei singoli casi verificare se le qualificazioni già in possesso del prestatore straniero possano essere considerate equivalenti a quelle da essi richieste. Ma naturalmente questo spesso non basta e quindi permane l’esigenza di quell’azione di armonizzazione di cui si è detto più volte, azione che si esplica, come si vide, attraverso direttive volte al reciproco riconoscimento dei diplomi ed al coordinamento delle pertinenti disposizioni nazionali. Ciò peraltro con l’avvertenza che l’importanza di tale azione è ben lungi dall’esaurirsi nel perseguimento delle indicate finalità liberalizzatrici, perché in realtà essa si presta più in generale a incidere sul modo di essere delle legislazioni nazionali in materia, attenuando o eliminando le divergenze tra le stesse, riducendo gli squilibri nei flussi di servizi che potrebbero derivare dal minor rigore di alcune e favorendo una progressiva omogeneità quanto alle condizioni attinenti allo svolgimento di un’attività indipendente, sia da parte di individui che da parte di imprese. Naturalmente, detta azione non è stata e non è di facile realizzazione, soprattutto per quanto riguarda i titoli di accesso alle professioni liberali di maggiore e più specifico impegno culturale. Certo, si ha qui riguardo non alle finalità accademiche, ma a quelle professionali dei titoli, e quindi se ne esige solo un’equivalenza idonea a garantire la sussistenza di condizioni di formazione ritenute da tutti gli Stati membri come indispensabili per il corretto svolgimento dell’attività rilevante. Ciò malgrado, restano tuttora in materia molte divergenze tra gli Stati membri in relazione alla peculiarità delle tradizioni e delle condizioni di ciascuno di essi, per cui anche i titoli aventi la medesima denominazione finiscono in realtà col nascondere una qualificazione e un livello di formazione diversi, perché diversi sono i contenuti, la durata e il livello dei corsi necessari a conseguirli. Non sorprende, quindi, che per lungo tempo si sia registrata in pratica una paralisi quasi totale delle istituzioni comunitarie nell’adempimento dell’azione di armonizzazione di cui ora si discute. Ma dopo la ricordata giurisprudenza liberalizzatrice della Corte e il varo dell’Atto Unico Europeo del 1986, che facilitava il processo deci-
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sionale in materia con il passaggio dal voto all’unanimità a quello a maggioranza (qualificata), quell’azione ha ricevuto un impulso decisivo e numerose ed importanti direttive si sono via via susseguite. Se ne richiamano qui di seguito le principali.
15. Segue : Le principali direttive di armonizzazione: a) il riconoscimento delle qualifiche professionali; b ) la direttiva generale «servizi»; c ) le direttive in materia societaria; d ) altre direttive settoriali (avvocati, appalti, banche e assicurazioni) a) Per quanto riguarda il riconoscimento dei diplomi e dei titoli professionali, va segnalato che inizialmente le istituzioni europee avevano seguito in materia un approccio di carattere settoriale, con l’emanazione di direttive concernenti singole professioni, nelle quali si prescrivevano i requisiti necessari per conseguire una laurea o un diploma secondo criteri comuni che consentissero l’accesso a e l’esercizio di una determinata professione in tutti gli Stati membri. È il caso, ad es., delle direttive concernenti la professione di architetto (dir. 85/384/CEE del Consiglio, del 10 giugno 1985, GUCE L 223, 15) e le attività in campo medico, rispetto alle quali le istituzioni comunitarie avevano già da tempo armonizzato le disposizioni relative ai corsi di studio necessari per ottenere diplomi validi sull’intero territorio europeo (v. per gli infermieri, le ostetriche, i dentisti, rispettivamente, le direttive del Consiglio: 77/452/CEE, del 27 giugno 1977, GUCE L 176, 1; 80/154/CEE, del 21 gennaio 1980, GUCE L 33, 1, e 80/155/CEE, del 21 gennaio 1980, GUCE L 33, 8; 78/686/CEE, del 25 giugno 1978, GUCE L 233, 1, e 78/687/CEE, del 25 giugno 1978, GUCE L 233, 10).
Questa tendenza è stata superata prima dalla direttiva del Consiglio 89/48/CEE, del 21 dicembre 1988, relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni (GUCE L 19, 16), e poi dalla dir. 2005/36/CE del PE e del Consiglio, del 7 settembre 2005, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, c.d. direttiva qualifiche professionali (GUCE L 255, 22), che ha abrogato la prima direttiva, come pure quelle settoriali, e ha fissato criteri di carattere generale in materia (detta direttiva è stata significativamente modificata, di recente, dalla dir. 2013/55/UE del PE e del Consiglio, del 20 novembre 2013, GUUE L 354, 132). In estrema sintesi, la direttiva qualifiche professionali prevede tre diversi regimi di riconoscimento dei titoli. Il primo ha carattere generale e si fonda, come già faceva la dir. 89/48, su una presunzione di sostanziale equivalenza dei titoli conseguiti nei vari Stati membri. Il riconoscimento di tali titoli non è automatico, ma dipende da un provvedimento adottato dalle autorità dello Stato membro destinatario della prestazione sulla base di una specifica verifica. In linea di principio, però, tale Stato è tenuto a riconoscere il diploma ottenuto in un altro paese dell’Unione, anche se per talune attività il riconoscimento può essere subordinato a specifici meccanismi di compensazione, quali, a scelta del prestatore, l’obbligo di compiere un tirocinio oppure lo svolgimento di una prova attitudinale, nell’ipotesi in cui la formazione verta
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su materie integralmente diverse o sia di durata inferiore di almeno un anno a quella prevista nello Stato ospite. La prova di un effettivo svolgimento dell’attività professionale nello Stato membro di origine è d’obbligo anche quando si richiede il riconoscimento di un diploma ottenuto, a sua volta, attraverso un previo riconoscimento di un titolo già acquisito in un diverso Stato membro. Ciò per evitare un aggiramento delle finalità delle libertà in esame (v. Corte giust. 29 gennaio 2009, C311/06, Consiglio nazionale degli ingegneri, I-415; 22 dicembre 2010, C-118/09, Koller, I-13627; 17 luglio 2014, C-58/13, Torresi).
Il secondo regime riguarda l’esperienza professionale, nel senso che lo Stato membro riconosce come prova sufficiente del possesso di determinate conoscenze il fatto che un soggetto abbia svolto, per un certo periodo di tempo, la pertinente attività professionale in un altro Stato membro. Il terzo regime è invece un meccanismo di riconoscimento automatico, cui può farsi ricorso solo in relazione a quelle attività che erano già state oggetto di armonizzazione per quanto concerne i requisiti minimi per l’accesso ad una determinata professione. b) Per quanto riguarda invece gli altri aspetti suscettibili di ostacolare l’esercizio delle due libertà in esame, rileva la nota dir. 2006/123 relativa ai servizi nel mercato interno, che mira in particolare a rimuovere, con una sorta di «codificazione» della ricca giurisprudenza della Corte, le difficoltà derivanti dalle misure indistintamente applicabili di cui si è detto in precedenza. Si tratta della dir. 2006/123/CE del PE e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno (GUUE L 376, 36), anche nota come direttiva «Bolkestein», dal nome dell’allora Commissario per il Mercato interno, che ne fu promotore. La base giuridica della direttiva è stata individuata, in virtù del rinvio di cui all’art. 62 TFUE, nell’art. 53 TFUE.
Essa si propone, infatti, di «agevolare l’esercizio della libertà di stabilimento dei prestatori nonché la libera circolazione dei servizi, assicurando nel contempo un elevato livello di qualità dei servizi stessi» (art. 1, par. 1, dir. 2006/123). La direttiva crea un quadro giuridico generale per qualsiasi servizio fornito dietro corrispettivo economico, ad eccezione delle attività indicate all’art. 2, che sono espressamente escluse dal suo campo di applicazione (tra i quali: i servizi di interesse economico generale, quelli finanziari, sanitari e audiovisivi, i trasporti e le prestazioni a carattere sociale). La tecnica d’intervento prescelta dall’Unione per garantire la libertà di circolazione dei servizi non è stata quella dell’armonizzazione dettagliata e sistematica delle norme nazionali, bensì la disciplina di alcune questioni essenziali rispetto alle quali è stato ritenuto necessario un coordinamento tra gli Stati membri. Le disposizioni della direttiva sono redatte in modo tale da essere applicabili a qualunque operatore economico, a prescindere dal luogo di stabilimento. Esse sono, dunque, destinate a trovare applicazione anche in situazioni prive di carattere transfrontaliero, con l’effetto di facilitare l’accesso a e l’esercizio delle attività di servizi da parte degli operatori economici anche all’interno dei confini nazionali. Per agevolare l’attività dei prestatori di servizi, tanto in regime di stabilimento
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quanto in modalità transfrontaliera, sono state introdotte misure volte a rimuovere gli ostacoli giuridici e amministrativi allo sviluppo del settore, rappresentati dai regimi autorizzatori e dai requisiti necessari per lo svolgimento delle attività di servizi (artt. 9-16). Un secondo gruppo di disposizioni prevede, invece, strumenti di semplificazione amministrativa (artt. 5-8), tra i quali si segnala l’obbligo di attivazione di sportelli unici presso i quali il prestatore possa ottenere le informazioni necessarie e compiere, anche in via elettronica, tutti gli adempimenti prescritti per l’avvio e per l’esercizio della sua attività, e di cooperazione amministrativa tra le autorità nazionali preposte al controllo dei prestatori e dei loro servizi (artt. 28-36). In base alla direttiva, gli Stati membri possono subordinare ad apposita autorizzazione l’esercizio delle attività economiche sul proprio territorio, ma a tal fine essi devono rispettare i criteri evocati nella più volte segnalata giurisprudenza della Corte, e quindi possono adottare misure restrittive o anche del tutto negative solo se queste siano giustificate da motivi imperativi di interesse generale, non discriminatorie, necessarie e proporzionate, oltre a dover essere chiare, trasparenti, oggettive e pubblicizzate in via preventiva. Per i settori che l’art. 2 della dir. 2006/123 esclude dall’ambito di applicazione di quest’ultima si dovrà invece svolgere una valutazione caso per caso, sempre secondo i medesimi criteri sopra ricordati. Alla libera prestazione dei servizi è dedicato invece il Capo IV della direttiva, diviso in due Sezioni: la prima, relativa all’attività del prestatore, la seconda ai diritti dei destinatari dei servizi. Per il primo aspetto, è noto che, malgrado i tentativi operati in tal senso, la direttiva non sancisce in via generale ed esplicita il principio c.d. del paese d’origine, secondo il quale, quanto alle condizioni relative all’attività che intende svolgere, un prestatore dovrebbe ottemperare unicamente alle condizioni previste nello Stato membro in cui è stabilito, mentre gli altri Stati sarebbero obbligati a consentirgli, senza ulteriori condizioni, di esercitare temporaneamente tale attività sul proprio territorio. Lo Stato della prestazione infatti è ancora autorizzato a imporre altre condizioni, sia pur nel rispetto dei principi di non discriminazione, necessarietà e proporzionalità, nonché a imporre le limitazioni giustificate da esigenze di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica o di tutela dell’ambiente. Quanto ai destinatari dei servizi, la direttiva vieta le discriminazioni che possono derivare da norme dello Stato di stabilimento dello stesso destinatario (art. 19); si occupa delle restrizioni che tali soggetti potrebbero subire nello Stato della prestazione (art. 20); e impone agli Stati membri alcuni obblighi concernenti le informazioni e l’assistenza da fornire ai destinatari (art. 21). c) Un settore particolarmente importante per le due libertà in esame è rappresentato, com’è noto, dal diritto societario, oggetto di una specifica precisione da parte dell’art. 50, comma 2, lett. g), TFUE, quanto al coordinamento della relativa regolamentazione, volta a consentire la costituzione e l’attività di tali enti negli Stati membri, malgrado la diversità delle rispettive discipline in materia. Su questa base sono state quindi adottate varie direttive, attinenti all’assetto delle società, ivi inclusa la struttura e la costituzione dell’ente; e al bilancio delle stesse ovvero alle operazioni commerciali da esse compiute.
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Vanno in proposito menzionate in particolare, dopo una lunga serie di direttive per così dire di prima generazione, le direttive del PE e del Consiglio: 2007/36/CE, dell’11 luglio 2007, relativa all’esercizio di alcuni diritti degli azionisti di società quotate (GUUE L 184, 17), modificata da ultimo dalla dir. (UE) 2017/828 del PE e del Consiglio, del 17 maggio 2017, che modifica la dir. 2007/36/CE per quanto riguarda l’incoraggiamento dell’impegno a lungo termine degli azionisti (GUUE L 132, 1); 2009/102/CE, del 16 settembre 2009, in materia di diritto delle società, relativa alle società a responsabilità limitata con un unico socio (GUUE L 258, 20); ma soprattutto 2017/1132/UE, del 14 giugno 2017, relativa ad alcuni aspetti del diritto societario (GUUE L 169, 46), che codifica la materia, abolendo una serie di direttive settoriali. Tra le direttive sul bilancio delle società, vanno ricordate le direttive del PE e del Consiglio: 2004/25/CE del 21 aprile 2004, concernente le offerte pubbliche di acquisto (GUCE, L 142, 12; a tale riguardo, v., da ultimo Corte giust. 20 luglio 2017, C206/16, Marco Tronchetti Provera e a.); 2006/43/CE, del 17 maggio 2006, relativa alle revisioni legali dei conti annuali e dei conti consolidati, che modifica le dir. 78/660/CEE e 83/349/CEE del Consiglio e abroga la dir. 84/253/CEE del Consiglio (GUUE L 157, 87), successivamente modificata; 2013/34/UE, del 26 giugno 2013, relativa ai bilanci d’esercizio, ai bilanci consolidati e alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, recante modifica della dir. 2006/43/CE del PE e del Consiglio e abrogazione delle dir. 78/660/CEE e 83/349/CEE del Consiglio (GUUE L 182, 19).
Interessanti sono anche le direttive che definiscono modelli intesi a favorire la cooperazione tra professionisti e tra società situate in Stati membri diversi. A quest’ultimo proposito, merita una particolare menzione il GEIE (Gruppo europeo di interesse economico), istituito con reg. (CEE) n. 2137/85 del Consiglio, del 25 luglio 1985 (GUCE L 199, 1), che consente di creare una struttura di coordinamento tra professionisti situati in Stati membri diversi. Tale strumento, considerato molto innovativo al momento della sua creazione, si è poi rivelato di scarsa applicazione pratica in quanto non consente, di fatto, di limitare la responsabilità dei componenti del gruppo. Sorte non migliore sembra essere toccata anche alla Società cooperativa europea (v. reg. (CE) n. 1435/2003 del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativo allo statuto di tale società, GUUE L 207, 1; nonché dir. 2003/72/CE del Consiglio, del 22 luglio 2003, che completa lo statuto della società cooperativa europea per quanto riguarda il coinvolgimento dei lavoratori, GUUE L 207, 25). Va infine ricordata la complessa normativa concernente la Società europea, che consente la costituzione e la gestione di società di livello europeo, regolamentate a tale livello e quindi senza gli ostacoli dovuti alla disparità delle legislazioni nazionali e ai limiti territoriali della loro applicazione (v. reg. (CE) n. 2157/01 del Consiglio, dell’8 ottobre 2001, GUCE L 294, 1; dir. 2001/86/CE del Consiglio, dell’8 ottobre 2001, che completa lo statuto della società europea per quanto riguarda il coinvolgimento dei lavoratori, GUCE L 294, 22). d) Malgrado le ricordate direttive generali, alcune attività restano oggetto, in ragione delle loro specificità, di una normativa settoriale: i) tra queste ricordiamo anzitutto quelle relative alla professione forense, sulla quale esiste anche una copiosa giurisprudenza della Corte. Tra le tante, v., in particolare, oltre le sentenze già menzionate a proposito delle tariffe forensi, le già citate sentenze 21 giugno 1974, 2/74, Reyners, 631; 5 dicembre 2006, C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., I-11421; 29 marzo 2011, C-565/08, Commissione c. Italia, I-2101; nonché 28 aprile 1997, C-71/96, Thieffry, 765; 12 luglio 1984, 107/83, Klopp, 2791; 19 febbraio 1988, 292/86, Gul-
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lung, 111; 7 maggio 1991, C-340/89, Vlassopulou, I-2357, 30 novembre 1995, C-55/94, Gebhard, I4165; 19 settembre 2006, C-506/04, Graham Wilson, I-8613; 3 febbraio 2011, C-359/09, Ebert; 17 luglio 2014, C-58/13, Torresi; 9 marzo 2017, C-342/15, Piringer; 18 maggio 2017 C-99/16, Lahorgue.
Al riguardo, rilevano ancor oggi la dir. 77/249/CE, del Consiglio, del 22 marzo 1977 (GUCE L 78, 17), intesa a facilitare l’esercizio effettivo della libera prestazione dei servizi da parte degli avvocati, nonché la dir. 98/5/CE del PE e del Consiglio, del 16 febbraio 1998 (GUCE L 77, 36), attuata in Italia con il d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96 (GURI del 4 aprile 2001, n. 79, s.o.), volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica. Per l’essenziale, tale direttiva tende alla completa assimilazione degli avvocati di altri Stati membri ai professionisti dello Stato ospite. In effetti, l’avvocato che decide di stabilirsi in uno Stato membro diverso da quello nel quale ha ottenuto il proprio titolo professionale può iscriversi all’albo nello Stato ospite, con la possibilità però di svolgervi solo attività di consulenza, mentre per l’esercizio dell’attività giudiziaria vera e propria si richiede l’assistenza di un avvocato locale, il quale sottoscrive gli atti e assume la responsabilità nei confronti del cliente e dei terzi. Dopo tre anni di attività esercitata in regime di stabilimento, l’interessato può però ottenere l’iscrizione a pieno titolo nell’albo professionale del paese ospite. ii) Un altro settore che è stato oggetto di dettagliata regolamentazione è quello degli appalti pubblici. Sebbene nel Trattato manchino disposizioni aventi espressamente ad oggetto tale settore, le istituzioni europee, fin dagli anni settanta, hanno fatto ricorso alle previsioni sullo stabilimento, a quelle sulla libera prestazione dei servizi e a quelle concernenti il processo di armonizzazione (art. 114 TFUE: v. infra, p. 661 ss.) per emanare articolate normative in materia. D’altro canto, questo settore è stato interessato da un ulteriore processo legislativo a livello internazionale, segnatamente con l’Accordo sugli appalti pubblici, sottoscritto a Marrakech nel 1994, anche dall’Unione e dai suoi Stati membri, nell’ambito dell’OMC. Anche al fine di dare attuazione nell’ordinamento dell’Unione a tale Accordo e di riordinare la materia, le istituzioni hanno novellato integralmente il settore dedicandogli varie direttive. V., in particolare, dopo le direttive c.d. di prima generazione, e oltre al reg. (CE) n. 2195/2002 del PE e del Consiglio, del 5 novembre 2002, relativo al vocabolario comune per gli appalti pubblici (CPV) (GUCE L 340, 1), la dir. 2009/81/CE del PE e del Consiglio, del 13 luglio 2009, relativa al coordinamento delle procedure per l’aggiudicazione di taluni appalti di lavori, di forniture e di servizi nei settori della difesa e della sicurezza da parte delle amministrazioni aggiudicatrici/degli enti aggiudicatori (GUUE L 216, 76), e da ultimo, le direttive del PE e del Consiglio, del 26 febbraio 2014: 2014/24/UE, sugli appalti pubblici e che abroga la dir. 2004/18/CE; 2014/25/UE, sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali e che abroga la dir. 2004/17/CE; e 2014/23/UE, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione (GUUE L 94, rispettivamente 65, 243 e 1). V., inoltre, la dir. 89/665/CEE del Consiglio, del 21 dicembre 1989 (GUCE L 395, 33; c.d. «direttiva ricorsi»).
iii) Va infine ricordato che hanno costituito oggetto di una specifica normativa di liberalizzazione anche i settori dei servizi finanziari e assicurativi. Varie direttive sono state così emanate per quanto riguarda le banche, le assicurazioni, le borse e gli organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari («OICVM»).
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Per le banche, v. dir. 86/635/CEE del Consiglio, dell’8 dicembre 1986, relativa ai conti annuali e ai conti consolidati delle banche e degli altri istituti finanziari (GUCE L 372, 1), più volte modificata; nonché dir. del PE e del Consiglio: 94/19/CE, del 30 maggio 1994, relativa ai sistemi di garanzia dei depositi (GUCE L 135, 5), poi abrogata dalla dir. 2014/49/UE del PE e del Consiglio, del 16 aprile 2014 (GUUE L 173, 149); 98/26/CE, del 19 maggio 1998, concernente il carattere definitivo del regolamento nei sistemi di pagamento e nei sistemi di regolamento titoli (GUCE L 166, 45), più volte modificata; 2002/87/CE, del 16 dicembre 2002, relativa alla vigilanza supplementare sugli enti creditizi, sulle imprese di assicurazione e sulle imprese di investimento appartenenti ad un conglomerato finanziario e che modifica le dir. 73/239/CEE, 79/267/CEE, 92/49/CEE, 92/96/CEE, 93/6/CEE e 93/22/CEE del Consiglio e le dir. 98/78/CE e 2000/12/CE del PE e del Consiglio (GUCE L 35, 1), modificata da ultimo dalla dir. 2013/36/UE del PE e del Consiglio, del 26 giugno 2013, sull’accesso all’attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese d’investimento, che modifica la dir. 2002/87/CE e abroga le dir. 2006/48/CE e 2006/49/CE (GUUE L 176, 338); 2001/24/CE, del 4 aprile 2001, in materia di risanamento e liquidazione degli enti creditizi (GUCE L 125, 15); 2012/30/UE, del 25 ottobre 2012, sul coordinamento delle garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società di cui all’art. 54, par. 2, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, per tutelare gli interessi dei soci e dei terzi per quanto riguarda la costituzione della società per azioni, nonché la salvaguardia e le modificazioni del capitale sociale della stessa (GUUE L 315, 74, sulla quale v. Corte giust. 19 luglio 2016, C-526/14, Kotnik), recentemente abroga dalla dir. (UE) 2017/1132 del PE e del Consiglio, del 14 giugno 2017, relativa ad alcuni aspetti di diritto societario (GUUE L 169, 46); 2013/36/UE, del 26 giugno 2013, sull’accesso all’attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento, che modifica la dir. 2002/87/CE e abroga le dir. 2006/48/CE e 2006/49/CE (GUUE L 176, 338); ed ancora la dec. 2004/10/CE della Commissione, del 5 novembre 2003, che istituisce il Comitato bancario europeo (GUUE L 3, 36) e il reg. (UE) n. 1093/2010 del PE e del Consiglio, del 24 novembre 2010, che istituisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità bancaria europea), modifica la dec. 716/2009/CE e abroga la dec. 2009/78/CE della Commissione (GUUE L 331, 12). Per le assicurazioni, v. dir. 91/674/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1991, relativa ai conti annuali e ai conti consolidati delle imprese di assicurazione (GUCE L 374, 7), più volte modificata; dir. 98/29/CE del Consiglio, del 7 maggio 1998, relativa all’armonizzazione delle principali disposizioni in materia di assicurazione dei crediti all’esportazione per operazioni garantite a medio e a lungo termine (GUCE L 148, 22); dir. 2002/87/CE del PE e del Consiglio, cit. alla nota precedente; dir. 2002/92/CE del PE e del Consiglio, del 9 dicembre 2002, sulla intermediazione assicurativa (GUCE L 9, 3), poi abrogata dalla dir. (UE) 2016/97 del PE e del Consiglio del 20 gennaio 2016 sulla distribuzione assicurativa (rifusione) (GUUE L 26, 19); reg. (CE) n. 785/2004 del PE e del Consiglio, del 21 aprile 2004, relativo ai requisiti assicurativi applicabili ai vettori aerei e agli esercenti di aeromobili (GUUE L 138, 1); dec. 2004/9/CE della Commissione, del 5 novembre 2003, che istituisce il comitato europeo delle assicurazioni e delle pensioni aziendali o professionali (GUUE L 3, 34); dir. 2009/103/CE del PE e del Consiglio, del 16 settembre 2009, concernente l’assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e il controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità (GUUE L 263, 11); dir. 2009/138/CE del PE e del Consiglio, del 25 novembre 2009, in materia di accesso ed esercizio delle attività di assicurazione e di riassicurazione (solvibilità II) (GUUE L 335, 1), poi modificata; reg. (UE) n. 1094/2010 del PE e del Consiglio, del 24 novembre 2010, che istituisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali) (GUUE L 331, 48), integrato dal reg. delegato n. 2015/35, della Commissione, del 10 ottobre 2014 (GUUE L 12, 1). Quanto alle borse, cfr. dir. 2001/34/CE del PE e del Consiglio, del 28 maggio 2001, riguardante l’ammissione di valori mobiliari alla quotazione ufficiale e l’informazione da pubblicare su detti valori (GUCE L 184, 1), modificata; reg. (CE) n. 1606/2002 del PE e del Consiglio, del 19 luglio 2002, relativo all’applicazione di principi contabili internazionali (GUCE L 243, 1); dir. 2003/6/CE del PE e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privile-
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giate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato) (GUCE L 96, 16), poi abrogata dal reg. (UE) n. 596/2014 del PE e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga la dir. 2003/6/CE del PE e del Consiglio e le dir. 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione (GUUE L 173, 1); dir. 2004/39/CE del PE e del Consiglio, del 21 aprile 2004, relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che modifica le direttive 85/611/CEE e 93/6/CEE del Consiglio e la dir. 2000/12/CE del PE e del Consiglio e che abroga la dir. 93/22/CEE del Consiglio (GUUE L 145, 1) [c.d. «direttiva MiFID»], poi abrogata dalla dir. (UE) 2016/1034 del PE e del Consiglio, del 23 giugno 2016, che modifica la dir. 2014/65/UE relativa ai mercati degli strumenti finanziari (GUUE L 145, 1); dir. 2004/72/ CE della Commissione, del 29 aprile 2004, recante modalità di esecuzione della dir. 2003/6/CE del PE e del Consiglio per quanto riguarda le prassi di mercato ammesse, la definizione di informazione privilegiata in relazione agli strumenti derivati su merci, l’istituzione di un registro delle persone aventi accesso ad informazioni privilegiate, la notifica delle operazioni effettuate da persone che esercitano responsabilità di direzione e la segnalazione di operazioni sospette (GUUE L 162, 70), anch’essa abrogata dal reg. 596/2014, poc’anzi citato; dir. 2016/97/UE, del PE e del Consiglio, del 20 gennaio 2016, sulla distribuzione assicurativa (fusione (GUUE L 126, 19). V. poi anche reg. (UE) 1095/2010 del PE e del Consiglio, del 24 novembre 2010, che istituisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati), modifica la dec. 716/2009/CE e abroga la dec. 2009/77/CE della Commissione (GUUE L 331, 84). Per gli OICVM, v. in particolare dir. 2007/16/CE della Commissione, del 19 marzo 2007, recante modalità di esecuzione della dir. 85/611/CEE del Consiglio concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative in materia di taluni organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) per quanto riguarda il chiarimento di talune definizioni (GUUE L 79, 11); direttiva, quest’ultima, abrogata e sostituita dalla dir. 2009/65/CE del PE e del Consiglio, del 13 luglio 2009, concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative in materia di taluni organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) (GUUE L 302, 32), più volte modificata; dir. 2010/43/UE della Commissione, del 1° luglio 2010, recante modalità di esecuzione della dir. 2009/65/CE del PE e del Consiglio per quanto riguarda i requisiti organizzativi, i conflitti d’interesse, le regole di condotta, la gestione del rischio e il contenuto dell’accordo tra il depositario e la società di gestione (GUUE L 176, 42); dir. 2011/61/UE del PE e del Consiglio, dell’8 giugno 2011, sui gestori di fondi di investimento alternativi, che modifica le direttive 2003/41/CE e 2009/65/CE e i reg. (CE) n. 1060/2009 e (UE) n. 1095/2010 (GUUE L 174, 1), più volte modificata.
III. Capitali e pagamenti 16. Introduzione Seppur essenziale, come le altre libertà in esame, ai fini della costruzione del mercato interno, la libera circolazione dei capitali e dei pagamenti, disciplinata dagli artt. 63-66 TFUE, è stata inizialmente definita in termini meno rigorosi delle altre. In origine, infatti, il TCEE (art. 67) si limitava ad enunciare la «soppressione graduale delle restrizioni esistenti» tra gli Stati membri e solo «nella misura necessaria ad un buon funzionamento del mercato comune», mentre generose clausole di salvaguardia (artt. 71, par. 2, 108 e 109 TCEE) limitavano ulteriormente gli obblighi degli Stati membri in materia. In termini analoghi si esprimeva anche la disciplina relativa alla
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libertà dei pagamenti (art. 106 TCE), che peraltro non era neppure considerata in quanto tale, ma in quanto necessario completamento delle altre libertà fondamentali, e quindi collegata alla progressiva attuazione delle stesse. È in questo contesto che si mossero quindi, timidamente, sia la normativa di attuazione del Trattato che la stessa giurisprudenza della Corte. Si allude alle note direttive del Consiglio emanate negli anni ’60, ossia a quella dell’11 maggio 1960, Prima direttiva di attuazione dell’art. 67 del Trattato (GUCE n. 43, 921) e alla Seconda direttiva 63/21/CEE, del 18 dicembre 1962, che completa e modifica la Prima direttiva (GUCE L 9/1963, 62), volte a liberalizzare nell’immediato solo le operazioni intimamente connesse alle transazioni concluse nell’ambito della circolazione di merci, persone e servizi, specificatamente individuate nelle liste annesse alla direttiva del 1960, tra cui rientravano: investimenti diretti, capitali personali e crediti commerciali, negoziazioni su titoli in borsa. Quanto alla giurisprudenza, va detto che, negando l’efficacia diretta della normativa in questione, la Corte aveva affermato che il limite alla liberalizzazione in essa configurato («nella misura necessaria al buon funzionamento del mercato comune») era variabile nel tempo e dipendeva da «un apprezzamento delle necessità del mercato comune e dalla valutazione sia dei vantaggi sia dei rischi che la liberalizzazione potrebbe presentare per detto mercato, tenuto conto della situazione del momento» (Corte giust. 11 novembre 1981, 203/80, Casati, 2595, 10).
La svolta comincia a partire dalla metà degli anni ottanta, a seguito della valorizzazione che la libertà in esame riceve sia dal già ricordato «Libro Bianco» della Commissione sulla realizzazione del mercato interno, sia dallo specifico «Programma di liberalizzazione», volto a tracciare le linee di intervento immediato nel settore dei capitali (v. COM (86) 292 def., del 23 maggio 1986), cui seguirono altri interventi normativi (v. in particolare la dir. 86/566/CEE del Consiglio, del 17 novembre 1986, GUCE L 332, 22, che modifica la Prima direttiva appena ricordata). Ma la vera svolta venne segnata soprattutto dalla direttiva 88/361/CEE del Consiglio, del 24 giugno 1988, per l’attuazione dell’art. 67 TCE (GUCE L 178, 5), il cui art. 1 (par. 1) sanciva con nettezza che «[g]li Stati membri sopprimono le restrizioni ai movimenti di capitali effettuati tra le persone residenti negli Stati membri», salvo le deroghe espressamente previste. Il Trattato di Maastricht, poi, anche e soprattutto in considerazione dell’istituenda UEM, ha provveduto a integrare il principio nel TCE e a riorganizzare anche la sistematica della materia (riunendo capitali e pagamenti sotto un unico Capo), mentre il Trattato di Amsterdam ha apportato ad essa ulteriori, importanti modifiche, tra l’altro estendendo l’applicazione del divieto di restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri e Stati terzi e soprattutto ristrutturando la materia nei termini sostanzialmente ripresi ancor oggi dal Trattato di Lisbona. Quest’ultimo, a sua volta, ha introdotto, come subito vedremo, nuove procedure decisionali e maggiori poteri del Consiglio e della Commissione.
17. La portata della liberalizzazione La liberalizzazione in esame implica il divieto di tutte le restrizioni ai movimenti di capitali e ai pagamenti tra Stati membri, nonché (con alcune limitazioni) tra Stati
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membri e paesi terzi. Ai fini di tale divieto non rileva quindi né la nazionalità, né la residenza dei soggetti interessati, ma la localizzazione dei capitali nel territorio di uno degli Stati membri. Nessuna definizione viene però offerta dal Trattato quanto alle nozioni di «movimenti di capitali» e di «pagamenti», anche se la parificazione dei rispettivi divieti ne rende meno importante la delimitazione. Soccorre comunque al riguardo una giurisprudenza risalente, ma tuttora valida, secondo la quale «i pagamenti correnti sono trasferimenti di valuta che costituiscono una controprestazione nell’ambito di un negozio sottostante, mentre i movimenti di capitali sono operazioni finanziarie che riguardano essenzialmente la collocazione o l’investimento dell’importo di cui trattasi e non il corrispettivo di una prestazione» (Corte giust. 31 gennaio 1984, 286/82 e 26/83, Luisi Carbone, 377, 21). Per quanto concerne in particolare la nozione di movimenti di capitali, essa può essere ancor meglio definita facendo riferimento alla ricordata dir. 88/361 e alla nomenclatura ad essa allegata, insieme con le relative note esplicative, che costituiscono ancor oggi un punto di riferimento imprescindibile in materia, anche se l’elencazione da esse fornita non va considerata esaustiva. V. di recente, in una giurisprudenza costante, Corte giust. 17 ottobre 2013, C-181/12, Welte; 7 novembre 2013, C-322/11, K; 15 febbraio 2017, C-317/15, X. Nella nomenclatura sono elencate, divise in tredici Rubriche, le diverse tipologie di attività finanziarie ricomprese nella nozione di «movimenti di capitale». Nel senso che tale elencazione non è esaustiva, v. l’introduzione della stessa nomenclatura, nonché nella giurisprudenza della Corte, tra le tante già la sentenza 16 marzo 1999, C-222/97, Trumme e Mayer, I-1661; 12 febbraio 2009, C-67/08, Block, I-883.
Venendo poi alla portata del divieto di restrizioni al riguardo, si deve anzitutto ricordare che la Corte, dopo averne sancito l’efficacia diretta in nome del suo carattere chiaro, preciso ed incondizionato, anche quando si tratta di movimenti di capitali verso Stati terzi, ha dato di quel divieto un’interpretazione assai rigorosa, quasi come per le altre libertà (Corte giust. 23 febbraio 1995, C-358/93 e C-416/93, Bordessa, I361, con riguardo alla dir. 88/361; 14 dicembre 1995, C-163/94, C-165/94 e C250/94, Sanz de Lera, I-4821, per la successiva normativa del Trattato). A suo avviso, infatti, ricade sotto di esso qualsiasi misura, prassi o provvedimento nazionale che, anche a prescindere dal suo carattere discriminatorio e dal settore cui si riferisce, sia tale da impedire, ostacolare o rendere più difficile per i cittadini dell’Unione di poter beneficiare delle condizioni più favorevoli offerte in un qualsiasi Stato dell’Unione per investire o semplicemente collocare i propri capitali ovvero, come pure dice la Corte, di dissuadere i non residenti in uno Stato membro dal fare investimenti in tale Stato o i residenti di farli in un altro Stato membro. Così le citate sentenze Welte, K. e X. Ma v. anche, ex multis, Corte giust. 23 febbraio 2006, C513/03, Van Hilten, I-1957; 12 dicembre 2006, C-446/04, Test Claimants in the FII Group Litigation, I-11573; 25 gennaio 2007, C-370/05, Festersen, I-1129; 18 dicembre 2007, C-101/05, A, I11531; 22 gennaio 2009, C-377/07, STEKO Industriemontage, I-299; 1° luglio 2010, C-233/09, Dijkman, I-6649; 31 marzo 2011, C-450/09, Schröder, I-2497; 30 giugno 2011, C-262/09, Meilicke e a., I-5669; 4 settembre 2014, C-211/13, Commissione c. Germania; 24 febbraio 2015, C-559/13, Grünewald; 8 giugno 2016, C-479/14, Hünnebeck.
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Va peraltro segnalato che, proprio in ragione di tale ampia portata della libertà in esame, possono porsi problemi quanto alla sua delimitazione rispetto alle altre libertà in precedenza esaminate. Ciò non tanto, per la verità, per la circolazione delle merci, la stessa Corte avendo chiarito che i mezzi di pagamento in uso, come le monete aventi corso legale in uno Stato membro, non possono essere considerati merci e quindi non ricadono sotto la relativa libertà. Corte giust. 23 novembre 1978, 7/78, Thompson, 2247. La Corte ha anche precisato che non rientrano in detta libertà neppure i trasferimenti dei biglietti di banca che «non possono considerarsi necessari per la libera circolazione delle merci, dato che questo modo di pagamento non è conforme agli usi» (sentenza 14 luglio 1988, 308/86, Lambert, 4369, punto 17). Secondo la Corte (e, segnatamente, la citata sentenza Bordessa), insomma, un trasferimento materiale di valori non è disciplinato né dalle norme sulla libera circolazione delle merci, né da quelle relative alla libera prestazione dei servizi, ma dalle norme sulla libera circolazione dei capitali. Se poi risulta che il trasferimento costituisce un pagamento relativo a scambi di merci o di servizi, l’operazione è disciplinata dalle norme sui pagamenti.
Più difficile può invece presentarsi la delimitazione rispetto alla libera prestazione dei servizi e alla libertà di stabilimento, anche se l’art. 57, comma 1, TFUE, dichiara espressamente la residualità della nozione di servizio rispetto alle disposizioni su merci, capitali e persone, e l’art. 58, par. 2, TFUE ricollega la liberalizzazione dei servizi finanziari alla parallela liberalizzazione della circolazione dei capitali. Non è chiaro in effetti come possano risolversi i casi in cui in una determinata fattispecie siano presenti elementi costitutivi di ambedue le libertà. La Corte, pur cercando di stabilire volta a volta quale delle libertà in causa prevalga in tale eventualità, non ha escluso la possibilità di operare una valutazione congiunta delle stesse. Nella sentenza 3 ottobre 2006, C-452/04, Fidium Finanz, I-9521, la Corte ha chiarito che la previsione di cui al citato art. 57 TFUE opera sul piano della definizione della nozione di «servizi», ma non delinea alcuna priorità tra la libera prestazione degli stessi e le altre libertà fondamentali. Né, ad avviso della Corte, tale priorità può essere dedotta dall’art. 58, par. 2, TFUE, perché tale disposizione si rivolge in particolare al legislatore comunitario e si spiega con il ritmo potenzialmente diverso di liberalizzazione delle prestazioni di servizi, da una parte, e dei movimenti di capitali, dall’altra. Sicché, quando un provvedimento nazionale restrittivo si riferisce contemporaneamente a queste due libertà occorre esaminare in quale misura esso pregiudichi il loro esercizio e se, nelle circostanze della causa principale, una di esse prevalga sull’altra. In quella circostanza, con riguardo all’attività di concessione di crediti fu considerato preponderante l’aspetto della libera prestazione dei servizi (v. anche Corte giust. 12 luglio 2012, C-602/10, SC Volksbank România). V. anche, in materia, Corte giust. 14 novembre 1995, C-484/93, Svensson e Gustavsson, I3955; 9 luglio 1997, C-222/95, Parodi, I-3899; 1° dicembre 1998, C-410/96, Ambry, I-7875; 1 giugno 1999, C-302/97, Konle, I-3099, e, con specifico riguardo alla libertà di stabilimento, Corte giust. 24 maggio 2007, C-157/05, Holböck, I-4051; 2 ottobre 2008, C-360/06, Heinrich Bauer, I7333; 26 marzo 2009, C-326/07, Commissione c. Italia, I-2291; 17 settembre 2009, C-182/08, Glaxo Wellcome, I-8591; 15 settembre 2011, C-310/09, Accor SA, I-8115; 13 novembre 2012, C35/11, Test Claimants in the FII Group Litigation. Per i tentativi di conciliare i diversi obiettivi, v., ad es., la citata sentenza Fidium Finanz; 12 dicembre 2006, C-374/04, Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation, I-11753; 13 marzo 2007, C-524/04, Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, I-2107; 21 ottobre 2010, C-81/09, Idryma Typou, I-10161; 26 aprile 2012, da C578/10 a C-580/10, van Putten.
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18. La prassi applicativa Sulla base dell’ampia portata attribuita al divieto in esame, numerose sono state le norme nazionali che sono cadute sotto i suoi colpi. Per non menzionarne che le principali, si possono ricordare: le discipline in materia di autorizzazioni amministrative preventive, vale a dire quelle normative o prassi amministrative che incidono direttamente sul movimento di capitali imponendo una previa autorizzazione amministrativa a carattere sospensivo per il trasferimento di valuta (v. la citata sentenza Luisi e Carbone. Ma v. anche Corte giust. 24 giugno 1986, 157/85, Brugnoni e Ruffinengo, 2013; nonché le citate sentenze Bordessa e Sanz de Lera); le normative nazionali che impediscano o limitino lo svolgimento di operazioni bancarie direttamente collegate a movimenti di capitali (cfr. ad es. la citata sentenza Svensson e Gustavsson, relativa ai prestiti bancari; 14 ottobre 1999, C-439/97, Sandoz, I-7041; 7 febbraio 2002, C-279/00, Commissione c. Italia, I-142; 21 maggio 2015, C-560/13, WagnerRaith); le normative che subordinano la concessione di un’esenzione dall’imposta sul reddito alla quale sono soggetti i dividendi versati agli azionisti alla condizione che tali dividendi siano versati da società aventi sede nel detto Stato membro, e sempre però che tale restrizione risulti di fatto discriminatoria (Corte giust. 6 giugno 2000, C-35/98, Verkoijen, I-4071); le disposizioni in materia successoria che abbiano l’effetto di diminuire il valore della successione di un residente di uno Stato membro diverso da quello in cui sono ubicati i beni di cui trattasi (v. Corte giust. 11 settembre 2008, C-11/07, Eckelkamp e a., I-6845; 11 settembre 2008, C-43/07, ArensSikken, I-6887; 27 gennaio 2009, C-318/07, Persche, I-359; 10 febbraio 2011, C25/10, Missionswerk Werner Heukelbach, I-479; 31 marzo 2011, C-450/09, Schröder, I-2497; 4 settembre 2014, C-211/13, Commissione c. Germania), e così via. Un cenno particolare, data la loro importanza, merita l’applicazione del divieto agli investimenti diretti. Alla luce della prassi, può dirsi che sotto tale divieto ricadono, in primo luogo, le misure nazionali che prevedono procedure di autorizzazione per siffatti investimenti, anche di carattere immobiliare, operati da soggetti di altri Stati membri, così come quelle che impongono controlli su di essi. V., ad es., Corte giust. 1° giugno 1999, C-302/97, Konle, cit.; 14 marzo 2000, C-54/99, Eglise de Scientologie, I-1335; 13 luglio 2000, C-423/98, Albore, I-5965 (vertente sulla normativa italiana che imponeva l’autorizzazione prefettizia all’acquisto da parte di cittadini stranieri di beni immobili in zone di confine o di importanza militare); 1° ottobre 2009, C-567/07, Woningstichting Sint Servatius, I-9021.
Ma soprattutto vi ricadono le norme nazionali che conferiscano allo Stato un’influenza sulla gestione e sul controllo di una società non giustificata dall’ampiezza della partecipazione da esso detenuta nella stessa; e ciò perché una simile influenza può scoraggiare gli operatori di altri Stati membri dall’effettuare investimenti diretti in detta società, visto che non potrebbero concorrere alla gestione e al controllo di essa in proporzione al valore delle loro partecipazioni. V., per le prime applicazioni, Corte giust. 23 maggio 2000, C-58/99, Commissione c. Italia, I-3811; 4 giugno 2002, C-367/98, Commissione c. Portogallo, I-4731; 4 giugno 2002, C-503/99,
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Commissione c. Belgio, I-4809; 4 giugno 2002, C-483/99, Commissione c. Francia, I-4781. Più recentemente, Corte giust. 28 settembre 2006, C-282/04 e C-283/04, Commissione c. Paesi Bassi, I-9141; 23 ottobre 2007, C-112/05, Commissione c. Germania, I-8995; 8 luglio 2010, C543/08, Commissione c. Portogallo, I-11241; 10 novembre 2011, C-212/09, Commissione c. Portogallo, I-10889.
Sono state quindi sottoposte al vaglio della Corte, come contrarie per l’appunto al divieto in esame, le legislazioni nazionali che prevedono categorie di azioni che, senza obiettive giustificazioni, conferiscano diritti speciali a favore dello Stato (c.d. golden share) o che impongono restrizioni all’assunzione di partecipazioni azionarie attraverso norme generali di diritto societario o leggi ad hoc. Com’è noto, lo strumento più comunemente utilizzato al riguardo è quello dell’attribuzione di un diritto di veto allo Stato, diritto che può avere un effetto dissuasivo sugli investimenti di portafoglio, atteso che le scelte dello Stato non sono necessariamente motivate da logiche societarie. In materia di pagamenti, invece, stante l’assenza di una specifica base giuridica, le istituzioni dell’Unione hanno fondato i loro interventi normativi sulla disposizione generale relativa al ravvicinamento delle legislazioni (art. 114 TFUE, infra, p. 661 ss.). Tali interventi, dopo un fase di stasi, hanno subito una decisa spinta dal Libro Bianco della Commissione sulla politica dei servizi finanziari (2005-2010). Al riguardo, si segnalano in particolare la dir. 97/5/CE del PE e del Consiglio, del 27 gennaio 1997 (GUCE L 43, 25), sui bonifici transfrontalieri, e il reg. (CE) n. 2560/2001del PE e del Consiglio, del 19 dicembre 2001 (GUCE L 344, 13), che dettava norme sui pagamenti transfrontalieri in euro espressamente «destinate ad assicurare che le commissioni applicate a tali pagamenti siano uguali a quelle applicate ai pagamenti in euro effettuati all’interno di uno Stato membro» (art. 1, comma 1). Il regolamento, entrato in vigore il 1° luglio 2002, si applicava ai pagamenti con carta bancaria, ai prelievi agli sportelli automatici e ai bonifici bancari (tra l’altro, esso ha introdotto anche norme tecniche comuni come i codici IBAN e BIC), ed è stato poi sostituito dal reg. (CE) n. 924/2009, del PE e del Consiglio, del 16 settembre 2009, relativo ai pagamenti transfrontalieri nella Comunità e che abroga il reg. (CE) n. 2560/2001 (GUCE L 266, 11), per tener conto del nuovo quadro normativo introdotto dalla dir. 2007/64/CE, del PE e del Consiglio, del 13 novembre 2007 (GUCE L 319, 1), relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno. Quest’ultima, che fra l’altro ha abrogato la ricordata dir. 97/5, ha armonizzato le norme sui pagamenti, sia adottando una nozione onnicomprensiva di pagamento, sia ampliandone il campo di applicazione a tutti i prestatori di servizi di pagamento, sia infine dettando un insieme armonizzato di regole di diritto materiale relative alle operazioni di pagamento. Per quanto concerne invece il mercato dei capitali all’ingrosso, va segnalata la dir. 98/26/CE, del PE e del Consiglio, del 19 maggio 1998 (GUCE L 166, 45), concernente il carattere definitivo del regolamento nei sistemi di pagamento e nei sistemi di regolamento dei titoli, e la dir. 2000/35/CE, del PE e del Consiglio, del 29 giugno 2000 (GUCE L 200, 35), relativa ai pagamenti riguardanti transazioni commerciali.
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19. Le relazioni con i paesi terzi Come già accennato, le restrizioni alla circolazione dei capitali sono vietate con riguardo sia ai movimenti di capitale tra Stati membri, sia a quelli tra Stati membri e Stati terzi. Quest’ultimo aspetto non costituisce un elemento del tutto nuovo, perché già evocato dall’art. 7 della ricordata dir. 88/361 («gli Stati membri si adoperano per raggiungere, nel regime che essi applicano ai trasferimenti relativi ai movimenti di capitali con i paesi terzi, lo stesso grado di liberalizzazione»), ma gli art. 63 ss. TFUE hanno rafforzato la portata del divieto, considerandolo indispensabile per la realizzazione di un vero e proprio spazio finanziario europeo. Come sottolineato però dalla stessa Corte, i rapporti con gli Stati terzi non sono interamente assimilabili a quelli tra Stati membri. In effetti, i movimenti di capitali provenienti da paesi terzi o ad essi diretti si svolgono in un contesto giuridico diverso da quelli che hanno luogo in seno all’Unione, dato l’alto grado di integrazione giuridica esistente tra gli Stati membri (v. Corte giust. 18 dicembre 2007, C-101/05, A, I-11531; 20 maggio 2008, C-194/06, Orange, I-3747). E questo spiega il motivo per cui il TFUE prevede alcune particolarità nella disciplina rilevante al riguardo. Conviene precisare che, ai fini in esame, vanno considerati Stati terzi anche i paesi e territori d’oltremare (Corte giust. 5 maggio 2011, C-384/09, Prunus, I-3319). Per quanto riguarda, invece, gli Stati aderenti allo Spazio Economico Europeo (SEE), e cioè l’accordo tra l’Unione e alcuni Stati membri dell’EFTA (Norvegia, Islanda e Liechtenstein), la Corte ha ritenuto che, se è vero che le restrizioni alla libera circolazione dei capitali tra cittadini di Stati parti dell’Accordo SEE devono essere esaminate con riferimento all’art. 40 e all’allegato XII di detto accordo, tali pattuizioni rivestono comunque la stessa portata giuridica dell’art. 63 TFUE (Corte giust. 11 giugno 2009, C521/07, Commissione c. Paesi Bassi, I-4873; 28 ottobre 2010, C-72/09, Établissements Rimbaud, I10659).
A parte infatti le misure unilaterali degli Stati membri, di cui all’art. 65 TFUE (v. p. 528), l’art. 64, par. 1, TFUE lascia sussistere, senza limiti di tempo, tutte le restrizioni «in vigore alla data del 31 dicembre 1993 [ma termini diversi sono previsti in alcuni accordi di adesione] in virtù delle legislazioni nazionali o della legislazione dell’Unione per quanto concerne i movimenti di capitali provenienti da paesi terzi o ad essi diretti», ritenuti particolarmente sensibili: investimenti diretti, inclusi gli investimenti in proprietà immobiliari, lo stabilimento, la prestazione di servizi finanziari e l’ammissione di valori mobiliari nei mercati finanziari (c.d. grandfather clause). Il che non esclude tuttavia la reiterazione di norme anteriori a tale data, se le nuove sono ad esse sostanzialmente identiche. V. le citate sentenze 12 dicembre 2006, Test Claimant; 18 dicembre 2007, A; e 24 maggio 2007, Holböck; nonché 11 febbraio 2010, C-541/08, Fokus Invest, I-1025, anche per ulteriori specificazioni su tale eventualità; nonché, più di recente, 24 novembre 2016, C-414/14, SECIL. Per la definizione dei settori rilevanti occorre basarsi sulla nomenclatura allegata alla citata dir. 88/361, tranne che per la nozione di «valore mobiliare», per la quale si può far riferimento alla citata direttiva MiFID (dir. 2004/39/CE, del PE e del Consiglio, del 21 aprile 2004, GUUE, 145,1). Come già accennato, l’art. 64 TFUE amplia la portata del citato art. 7 della dir. 88/361. Su questa linea, v., ad es., per le banche, già la dir. 2006/48/CE (GUCE L 177, 1), e, per le società di investimento,
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ancora la citata direttiva MiFID; entrambe le direttive non si limitano a prevedere il rispetto del principio di reciprocità, ma esigono altresì che sia garantito «l’effettivo accesso» al mercato delle imprese comunitarie.
Nei settori indicati al par. 1 dell’art. 64 TFUE, di cui si è appena detto, il legislatore dell’Unione può adottare, secondo la procedura legislativa ordinaria, le misure idonee a realizzare nella maggior misura possibile gli obiettivi della liberalizzazione in esame (art. 64, par. 2, TFUE). Ma esso può anche varare misure che rappresentino un regresso rispetto al livello di liberalizzazione già raggiunto nell’Unione: in tal caso, però, è il solo Consiglio a deliberare, all’unanimità e previa consultazione del Parlamento europeo. Art. 64, par. 3, TFUE. Tuttavia, se tali misure fossero incompatibili con precedenti accordi con gli Stati terzi interessati, si dovrà fare ricorso all’apposita procedura prevista dall’art. 351 TFUE. Al riguardo, si deve ricordare che l’Unione ha accettato (peraltro come impegno unilaterale) i codici di liberalizzazione dei movimenti di capitali degli investimenti e dei servizi elaborati in seno all’OCSE nel 1961, basati sul principio generale del mantenimento dello status quo e su un parallelo impegno degli Stati aderenti di operare nel senso della liberalizzazione. Inoltre, l’Unione partecipa all’Accordo sui servizi finanziari, previsto dal Quinto Protocollo allegato all’Accordo generale sul commercio dei servizi (GATS), concluso nel quadro dell’OMC/WTO (v. dec. 1999/61/CE del Consiglio, del 14 dicembre 1998, GUCE L 20, 38).
20. Le restrizioni alla liberalizzazione Oltre quelle che emergono dalle disposizioni appena esaminate, altre possibili restrizioni risultano dallo stesso Trattato, nonché dai principi generali elaborati dalla Corte in materia. Inutile ribadire che, come tutte le ipotesi di deroga alla liberalizzazione, esse vanno interpretate restrittivamente. Alcune restrizioni hanno una portata limitata e specifica. È il caso anzitutto della misura di salvaguardia di cui all’art. 66 TFUE, che attribuisce al Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione della BCE, il potere di adottare appunto, se strettamente necessarie, misure di salvaguardia di durata limitata, per un periodo non superiore a sei mesi, ove «in circostanze eccezionali, i movimenti di capitali provenienti da paesi terzi o ad essi diretti causino o minaccino di causare difficoltà gravi per il funzionamento» dell’UEM. Inoltre, rilevano in materia, seppur indirettamente e nonostante la diversa collocazione nel Trattato, due disposizioni che prevedono possibilità di deroghe quanto al profilo esterno della liberalizzazione. Si allude all’art. 75 TFUE, che attribuisce al legislatore dell’Unione, con procedura legislativa ordinaria (ma al solo Consiglio per l’adozione delle misure di attuazione) il potere di adottare sanzioni economiche di carattere individuale concernenti i movimenti di capitali e i pagamenti, quali il congelamento dei capitali, dei beni finanziari o dei proventi economici appartenenti, posseduti o detenuti da persone fisiche o giuridiche, da gruppi o da entità non statali, qualora vi siano motivi legati alla prevenzione e alla lotta contro il terrorismo e le attività connesse, incluse quindi le istituzioni finanziarie o altri soggetti che erogano
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servizi finanziari, assicurando tuttavia le «garanzie giuridiche» necessarie alla tutela dei diritti fondamentali delle persone da esse colpite. Sul punto, v. anche retro, p. 167 s. e infra, p. 822. La disposizione offre una base giuridica agli indicati interventi del legislatore dell’Unione, base giuridica che mancava nel TUE pre-Lisbona e nel TCE, obbligando quindi le istituzioni a ricorrere a una combinazione di basi giuridiche (segnatamente: artt. 60 e 301 TCE, nonché la clausola c.d. di flessibilità di cui all’art. 308 TCE, oggi art. 352 TFUE). Sebbene avallata dalla Corte (v. la notissima sentenza 3 settembre 2008, C-402/05 P e C-415/05 P, Kadi e Al Barakaat International Foundation c. Consiglio e Commissione, I-6351), tale soluzione appariva però inadeguata rispetto alle crescenti esigenze della lotta al terrorismo e alle attività connesse. Da qui l’opportunità della disposizione in esame. Quanto alle “garanzie giuridiche”, va notato che la disposizione traduce un’esigenza sottolineata dalla Corte ben prima del Trattato di Lisbona con il filone giurisprudenziale avviato con la citata sentenza Kadi. In questa pronuncia la Corte, nel valutare la legittimità di un regolamento dell’Unione adottato in attuazione di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che imponevano simili misure, ha dichiarato che gli obblighi imposti da un accordo internazionale non possono avere l’effetto di compromettere i principi costituzionali del TCE, tra i quali vi è il rispetto dei diritti fondamentali. Su questa linea, e per gli ulteriori sviluppi in coerenza con simili principi, v. anche, fra le tante altre, Corte giust. 21 dicembre 2011, C-27/09 P, Francia c. People’s Mojahedin Organization of Iran, I-13427; 13 marzo 2012, C-376/10 P, Tay Za c. Consiglio; 13 marzo 2012, C-380/09 P, Melli Bank c. Consiglio; 15 novembre 2012, C-539/10 P e C-550/10 P, AlAqsa c. Consiglio e Paesi Bassi c. Al-Aqsa; 18 luglio 2013, C-584/10 P, C-593/10 P e C-595/10 P, Commissione e a. c. Kadi; 31 maggio 2016, C-72/15, Rosneft; 30 maggio 2017, C-45/15 P, Safa Nicu Sepahan.
Un’analoga previsione è contenuta anche nell’art. 215 TFUE, che stabilisce, ma nell’ambito della PESC, il potere del Consiglio di adottare sanzioni economiche nei confronti degli Stati terzi o anche di persone fisiche e giuridiche. Come ha osservato la Corte, l’art. 75 TFUE «non disciplina l’interruzione o la riduzione, parziale o totale, delle relazioni economiche con uno o più paesi terzi» (sentenza 19 luglio 2012, C130/10, Parlamento c. Consiglio, punto 54), né può essere utilizzato cumulativamente con l’art. 215 TFUE. Sicché, ove non sia possibile far fronte alle esigenze rilevanti per entrambe le disposizioni con atti che perseguano separatamente obiettivi rientranti nell’uno o nell’altro settore, non resterà che far leva sul generale obbligo di coerenza dell’azione esterna dell’Unione, previsto sia nell’art. 21 TUE che nell’art. 7 TFUE, che già in passato è stato richiamato per ricondurre la PESC a un’unità di azione con le altre politiche dell’Unione (v. Corte giust. 20 maggio 2008, C-91/05, Commissione c. Consiglio, I-365, c.d. sentenza Ecowas).
Ma il Trattato prevede anche la possibilità di misure restrittive applicate unilateralmente dagli Stati membri. L’art. 65, par. 1, TFUE, fa infatti salvo il diritto degli Stati membri di applicare le pertinenti disposizioni della propria legislazione che trattino in maniera diversa i contribuenti che non si trovino nella medesima situazione quanto al loro luogo di residenza o di collocamento dei capitali; come pure di prendere tutte le misure necessarie per impedire la violazione delle normative nazionali, specie (ma non solo) di quelle relative al settore fiscale (in particolare, per assicurare i controlli fiscali) e alla vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie, nonché di stabilire procedure per la dichiarazione dei movimenti di capitali a scopo di informazione amministrativa o statistica, o di adottare misure giustificate da motivi
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di ordine pubblico o di pubblica sicurezza. Ciò a patto che tali deroghe, come prescrive il par. 3 della norma in esame sul modello di analoghe disposizioni previste per altre libertà, non costituiscano «un mezzo di discriminazione arbitraria» o «una restrizione dissimulata» alla libertà in esame (v. retro, p. 462 ss. Nella più recente giurisprudenza: Corte giust. 22 ottobre 2013, da C-105/12 a C-107/12, Essent e a.). Il Consiglio o la Commissione possono comunque legittimare le misure restrittive adottate unilateralmente dallo Stato dichiarandole compatibili con il Trattato ove le considerino giustificate da uno degli obiettivi del Trattato stesso e coerenti con il buon funzionamento dell’Unione (art. 65, par. 4, TFUE). In tal caso, decide in prima battuta la Commissione, ma se essa non reagisce nei tre mesi dalla richiesta dello Stato interessato, interviene il Consiglio, che delibera all’unanimità. Questo sempre che il Consiglio non abbia deciso, ai sensi dell’art. 64, par. 3, TFUE, le misure «regressive» di cui si è detto al paragrafo precedente. Va infine segnalato che, come per le altre libertà, anche quella relativa ai capitali può subire deroghe in nome delle esigenze imperative di tutela di interessi pubblici, di cui si è detto ampiamente in precedenza. Anche in questo caso, tuttavia, le deroghe sono consentite se non hanno carattere discriminatorio o non consistono in una restrizione dissimulata (come richiesto dallo stesso art. 65, par. 3, TFUE), nonché se rispettano i requisiti di necessarietà, adeguatezza e soprattutto di proporzionalità. V. retro, p. 460 s., ma anche infra, p. 661. Nello specifico settore in esame, v., tra le altre, Corte giust. 28 aprile 1998, C-120/95, Decker, I-1831; C-158/96, Kohll, I-1931; 16 gennaio 2003, C388/01, Commissione c. Italia, I-721; nonché la citata sentenza Essent e a. In particolare, un’eventuale misura restrittiva non può essere giustificata da motivi di natura economica che non perseguano un obiettivo di interesse generale (Corte giust. 11 settembre 2008, C-141/07, Commissione c. Germania, I-6935). La Corte ha peraltro considerato come legittimo interesse pubblico anche l’obiettivo di garantire la sicurezza degli approvvigionamenti di energia in caso di crisi (sentenza 4 giugno 2002, C-503/99, Commissione c. Belgio, I-4809, che ha ritenuto legittima una normativa belga che prevedeva l’attribuzione di poteri speciali allo Stato in due società che provvedevano al trasporto interno e allo stoccaggio di prodotti energetici).
CAPITOLO V
Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. L’evoluzione della disciplina della materia. Gli Accordi di Schengen e gli sviluppi successivi. – 3. Profili comuni di detta disciplina. – 4. Lo spazio di libertà: a) la soppressione dei controlli alle frontiere. – 5. Segue: b) la politica comune in materia di asilo. – 6. Segue: c) la politica comune in materia d’immigrazione. – 7. Lo spazio di giustizia: la cooperazione giuridica e giudiziaria in materia civile. – 8. Lo spazio di sicurezza: la cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale. – 9. Segue: Eurojust e la Procura europea. – 10. Segue: La cooperazione di polizia ed Europol.
1. Considerazioni introduttive La normativa che passiamo ora a esaminare (Titolo V della Parte Terza del TFUE: artt. 67-89) sancisce la conclusione della lunga marcia di «comunitarizzazione» di quel complesso, assai vario ed eterogeneo, di materie ricomprese sotto la dizione, suggestiva anche se non proprio fedele, di «Spazio di libertà, sicurezza e giustizia» (di seguito: SLSG), che a partire dal Trattato di Maastricht si è via via imposto sulla scena europea, come indispensabile componente del processo d’integrazione. Tutte le materie incluse in quel Titolo sono infatti divenute finalmente oggetto specifico e diretto della normativa «comune» dei Trattati, dopo essere state a lungo, sia pur in modo diversificato, inserite in un apposito pilastro o addirittura confinate al di fuori degli stessi; e tutte concorrono alla realizzazione di quello spazio giuridico unico, che il TUE include tra i primi e i più importanti obiettivi dell’Unione. L’art. 3, par. 2, TUE, recita infatti: «L’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima».
Vedremo subito le varie tappe di quella marcia e come e perché essa abbia finalmente attinto la meta. Prima conviene ricordare che le materie in esame costituiscono, ciascuna a suo modo, l’inevitabile corollario dei progressi del processo d’integrazione europea. La realizzazione delle varie libertà, e in particolare della libera circolazione delle persone e dei capitali; il conseguente infittirsi delle relazioni economi-
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che e sociali tra i cittadini degli Stati membri; la necessità di facilitare quelle libertà non solo abolendo le relative restrizioni, ma anche assicurando continuità, certezza e strumenti di tutela alle situazioni giuridiche dei cittadini dell’Unione in modo che esse siano il meno possibile influenzate dallo spostamento negli altri Stati membri; l’esigenza quindi di ridurre le difformità tra gli ordinamenti di questi ultimi e di favorire il riconoscimento reciproco dei rispettivi valori giuridici; le legittime preoccupazioni per la sicurezza all’interno di uno spazio così aperto, con la conseguente introduzione di misure di difesa, ma anche di accoglienza, nei confronti delle persone provenienti dall’esterno dell’Unione; e questo in una cornice che ha visto il continuo arricchimento della nozione di cittadinanza europea e della tutela dei diritti fondamentali, ebbene tutto ciò ha imposto progressivamente una serie di interventi normativi, che dessero concretezza all’obiettivo della costruzione di un autentico spazio giuridico europeo e al tempo stesso ne riconducessero a unità e organicità la disciplina. E questo è appunto quanto avvenuto grazie al Trattato di Lisbona, che ha finalmente realizzato tale inquadramento per l’appunto con il ricordato Titolo V. Tutt’altra era la situazione agli albori del processo d’integrazione, dato che di tutta questa materia non v’era quasi traccia nei testi dell’epoca, e ciò comprensibilmente, visto che le esigenze di una normativa al riguardo sono emerse solo a valle della progressiva realizzazione degli obiettivi di quel processo. Le uniche tracce della materia erano confinate nell’art. 220 TCEE, che impegnava gli Stati membri ad avviare tra loro negoziati per convenzioni intergovernative volte, tra l’altro, a garantire a favore dei rispettivi cittadini, senza discriminazioni, la tutela delle persone, nonché il godimento e la tutela dei diritti, a eliminare la doppia imposizione fiscale e a favorire il reciproco riconoscimento delle società e delle decisioni giudiziarie e arbitrali in materia civile. Di queste convenzioni collettive la sola che vide concretamente la luce fu la Convenzione di Bruxelles del 1968, relativa al riconoscimento delle decisioni in materia civile, sulla quale torneremo più avanti. Col tempo, però, le esigenze di cui si è detto sono emerse con sempre maggiore urgenza e non potevano più essere ignorate. Ad alcune fecero fronte gli stessi Stati membri, sia pure in modo parziale e disordinato, come avvenne per gli Accordi di Schengen, conclusi fra alcuni di essi, e volti a concordare, come vedremo, misure e garanzie inerenti all’attuazione della libera circolazione, specie per quanto riguarda il controllo alle frontiere esterne dell’Unione. Ma bisognerà attendere il Trattato di Maastricht del 1992 perché tutta la materia venga presa in adeguata considerazione, segnatamente con l’inserimento di un apposito Titolo nel Trattato sull’Unione europea, che fu affiancato in quella occasione al TCE (Titolo VI: «Disposizioni relative alla cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni», da cui l’acronimo «GAI», che a lungo ha contraddistinto la materia). Questa fu dunque oggetto dell’allora terzo pilastro dell’Unione e tale rimase fino a quando il Trattato di Amsterdam, pur continuando a mantenere alcune specificità nella relativa regolamentazione, trasferì la maggior parte di quella disciplina sotto il primo pilastro, e quindi all’interno del TCE, lasciando la sola cooperazione in materia penale nel terzo pilastro. Il Trattato di Lisbona ha finalmente chiuso questo percorso, ricongiungendo i diversi profili della materia in un unico contenitore, per l’appunto il ricordato Titolo V, articolando però lo stesso sui tre filoni enunciati dal suo titolo: libertà (e cioè: visti,
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immigrazione e asilo, controlli alle frontiere esterne dell’Unione); sicurezza (quindi: cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale, cooperazione di polizia); giustizia (accesso alla giustizia e cooperazione giuridica e giudiziaria in materia civile). Certo, alla luce di quanto precede, la collocazione di tale Titolo subito dopo le norme sul mercato interno appare discutibile, visto che in realtà la materia ha una incidenza orizzontale sull’intero processo d’integrazione. E infatti in precedenza, come si è visto, essa era stata prima oggetto di un’autonoma parte del TUE preLisbona, e poi in parte di questo e in parte del TCE; e ciò, senza contare che l’attuale TUE, nel definire gli obiettivi dell’Unione, colloca quello ora in esame prima del mercato comune (art. 3, par. 2, TUE). Ma tutto ciò è dovuto probabilmente ad una sorta di inerzia redazionale: in effetti, quasi tutta la parte del Titolo V diversa dalla cooperazione penale aveva avuto la stessa collocazione già nel Trattato di Amsterdam e poi in quello di Nizza, in quanto ritenuta collegata alle libertà di circolazione, e in particolare a quella delle persone. Rimane ad ogni modo il fatto, questo sì importante, che, con le eccezioni di cui subito diremo, la materia è ormai attratta sotto le regole «comuni» dei Trattati: è stata cioè, come sul dirsi, «comunitarizzata». Ciò significa, per l’essenziale, che diversamente dal passato regime, non solo alcune sue parti, ma tutta la materia è soggetta alle regole dei Trattati: che siano quelle sulle competenze istituzionali, e questo vale in particolare per il ruolo del Parlamento europeo, prima assai marginalizzato; o quelle sugli atti delle istituzioni e sulla procedura per la loro adozione, che sono ora ricondotte alla disciplina comune dei Trattati; o quelle relative al controllo giurisdizionale, che resta ora (quasi) pienamente affidato alla Corte di giustizia e che, come sempre, costituisce l’aspetto più significativo e qualificante della «comunitarizzazione» della materia. Si può pertanto prevedere che la segnalata innovazione darà – come ha già cominciato a dare – un forte impulso per ulteriori sviluppi dello SLSG; e comunque, è proprio rispetto a tale settore che, come confermano i significativi progressi già realizzati in questi ultimi anni, si profila oggi, in un quadro generale assai stagnante, il più concreto e interessante dinamismo legislativo dell’Unione.
2. L’evoluzione della disciplina della materia. Gli Accordi di Schengen e gli sviluppi successivi Prima di procedere a un esame più specifico della disciplina del Trattato sullo SLSG, conviene ricordare più dettagliatamente i principali passaggi che hanno portato a tale disciplina e aperto la via ai progressi segnalati. A tal fine, non si può non prendere le mosse dai già ricordati Accordi di Schengen, che sono in effetti all’origine della evoluzione ricordata al paragrafo precedente. È ben vero che essi riguardavano essenzialmente il tema dei controlli alle frontiere, ma in realtà hanno introdotto principi, prassi e precedenti che hanno proiettato la loro influenza su tutto lo SLSG. Come si è ricordato poc’anzi, già molti anni fa gli Stati membri avevano avvertito la necessità di intervenire in modo incisivo sulla materia ora in esame, ma ogni tentativo
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in tal senso era stato vanificato dalla resistenza opposta da alcuni di essi, e in particolare dal Regno Unito. Così, per superare tale difficoltà, alcuni Stati membri (Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo) sottoscrissero, il 14 giugno 1985, al di fuori dei Trattati, per l’appunto gli Accordi di Schengen, volti soprattutto a eliminare i controlli alle frontiere interne (anche se, ripetiamo, essi si occupavano, già allora, anche di visti, immigrazione e asilo, cooperazione giudiziaria in materia penale, cooperazione di polizia, cooperazione amministrativa). A quegli Accordi fece seguito una Convenzione di applicazione, firmata sempre a Schengen il 19 giugno 1990 dagli stessi Stati membri, ma aperta alla firma degli altri Stati dell’allora Comunità. In effetti, aderirono via via alla Convenzione prima l’Italia (1990), poi il Portogallo e la Spagna (1991), quindi la Grecia (1992), l’Austria (1995), la Danimarca, la Finlandia e la Svezia (1996).
Poiché però la Convenzione implicava complessi adempimenti operativi (in particolare, come si vedrà più avanti, l’istituzione del Sistema d’informazione integrato Schengen, SIS), alla cui effettiva realizzazione condizionava la propria applicazione, questa ne risultò a lungo ritardata, visto che, entrata in vigore il 1° ottobre 1993, la Convenzione fu in effetti applicata solo dal 26 marzo 1995. Il sopravvenuto Trattato di Maastricht recepì la materia nel terzo pilastro (art. K.1 TUE pre-Lisbona), ma non fece venir meno gli Accordi, che rimasero in vigore fino a che il Trattato di Amsterdam non li ricondusse all’interno del sistema: non già però inserendoli direttamente nei Trattati, dato che essi erano stati sottoscritti solo da 13 degli allora 15 Stati membri (ne erano rimasti estranei Regno Unito e Irlanda), ma allegando a quel Trattato un apposito Protocollo (n. 2) sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione europea. In virtù di tale Protocollo, con una procedura assai inconsueta e per vari versi discutibile, il Consiglio (e solo il Consiglio) era abilitato a tradurre quegli accordi (che erano comunque accordi internazionali formalmente estranei al sistema), e soprattutto le numerosissime misure adottate per la loro attuazione dagli organi da essi istituiti, in atti di diritto derivato dell’Unione, riconducendoli, a seconda della materia, al primo o al terzo pilastro dell’Unione. Ciò è avvenuto con la dec. 1999/435/CE, del 20 maggio 1999, e con la contestuale dec. 1999/436/CE (v. GUCE L 176, rispettivamente 1 e 17, mentre gli Accordi di Schengen venivano pubblicati nella GUCE L 239/2000), con le quali il Consiglio ha indicato la base giuridica appropriata per tradurre, ove necessario, quelle misure in atti formali della Comunità. In tal modo, pur denunciando la propria derivazione dagli Accordi (e vedremo subito la rilevanza di questa precisazione), l’acquis di Schengen è stato finalmente incorporato nel sistema normativo dell’Unione ed è entrato così a far parte dell’acquis comunitario. Come tale, esso si è imposto anche agli Stati che via via hanno aderito all’Unione, sia pure distinguendo tra gli atti che si applicavano fin dal momento dell’adesione e quelli che si applicavano o si applicano solo dopo che il Consiglio abbia accertato in concreto il rispetto dei requisiti necessari per l’operatività del sistema. Va notato che al sistema Schengen potevano partecipare e hanno in effetti partecipato anche Stati terzi. Un interesse in tal senso fu ben presto manifestato dai paesi nordici (Danimarca, Fin-
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landia, Svezia, Islanda e Norvegia, anche prima dell’adesione all’Unione dei primi tre). Per risolvere alcuni problemi che poneva la loro partecipazione (il fatto che non fossero membri della Comunità e la loro partecipazione all’Unione nordica dei passaporti), si decise in un primo momento di «associare» Islanda e Norvegia in qualità di osservatori, e poi di concludere con essi appositi accordi: il primo, al fine di associare Islanda e Norvegia all’acquis di Schengen (GUCE L 176/1999, 36), il secondo per regolare conseguentemente i rapporti tra Regno Unito e Irlanda da una parte e Islanda e Norvegia dall’altra (GUCE L 15/2000, 2). Sono inoltre diventati parte degli Accordi di Schengen anche la Svizzera (dopo un accordo approvato dall’Unione con dec. 2008/146/CE e 2008/149/GAI del Consiglio, del 28 gennaio 2008, GUUE L 53, rispettivamente 1 e 50), e il Liechtenstein (con un Protocollo aggiunto a quest’ultimo accordo, approvato dall’Unione con dec. 2011/349/UE e 2011/350/UE del Consiglio, del 7 marzo 2011, GUUE L 160, rispettivamente 1 e 19).
Questa incorporazione è stata confermata dal Trattato di Lisbona, e in particolare dal Protocollo n. 19 ad esso allegato, significativamente intitolato: «sull’acquis di Schengen integrato nell’ambito dell’Unione europea». In effetti, il Protocollo prende atto dell’avvenuta integrazione di detto acquis, ma tenuto conto che a questo erano rimasti estranei il Regno Unito e l’Irlanda, autorizza una cooperazione rafforzata tra gli altri Stati membri nelle materie da esso coperte, «nell’ambito istituzionale e giuridico dell’Unione europea», dettando al tempo stesso apposite regole per quei due paesi e rinviando ad altro Protocollo la definizione della particolare posizione della Danimarca. V. Protocollo n. 22. In effetti, tale Stato, diversamente dagli altri due, è parte contraente degli Accordi di Schengen, ma essendo contrario alla loro «comunitarizzazione», rimane da essi vincolato solo ai sensi del diritto internazionale. In base a detto Protocollo, in caso di proposte di atti che integrino uno sviluppo dell’acquis di Schengen, la Danimarca dispone di sei mesi di tempo dall’adozione dell’atto per decidere se accettarlo o meno: in caso positivo, dovrà conformarsi all’atto, non però in quanto atto dell’Unione, ma in virtù del diritto internazionale; in caso negativo, gli altri Stati dovranno adottare le misure appropriate per far fronte alla sua mancata partecipazione. Quanto al Regno Unito e all’Irlanda (che comunque possono in ogni momento chiedere di aderire in tutto o in parte all’acquis, anche se questo ormai vale solo per l’Irlanda), essi si riservano di partecipare volta a volta a nuove misure basate sull’acquis, attraverso un meccanismo dettagliatamente definito dal Protocollo, che non si discosta di molto, come subito vedremo, da quello instaurato per le misure di attuazione dello SLSG, al quale i due Stati (ma questa volta anche la Danimarca) sono ugualmente rimasti estranei.
Ovviamente, l’indicata incorporazione dell’acquis di Schengen nel sistema ordinamentale dell’Unione non è rimasta senza conseguenze; al contrario, essa ha messo in moto un processo normativo che ha prodotto i concreti risultati che illustreremo più avanti. Questo è avvenuto, e il punto merita di essere sottolineato, grazie all’impulso che le istituzioni dell’Unione hanno ricevuto, ancor prima che anch’esso diventasse formalmente un’istituzione, dal Consiglio europeo, cioè dalla più alta istanza degli Stati membri. Al riguardo, meritano qui di essere ricordati i Consigli europei di Tampere (1999), dell’Aja (2004) e di Stoccolma (2009), i quali hanno elaborato puntuali e ambiziosi programmi e piani di azione nella materia de qua, che hanno prefigurato e incoraggiato, grazie anche alle numerose e approfondite comunicazioni presentate dalla Commissione, i significativi sviluppi di cui daremo conto più volte nel prosieguo della trattazione.
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Ricordiamo, in particolare, il programma di Tampere per il rafforzamento dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia nell’Unione europea (1999-2004), approvato dal Consiglio europeo del 15-16 ottobre 1999; il programma dell’Aja (2004-2009) col titolo: «Rafforzamento della libertà, della sicurezza e della giustizia nell’Unione europea», approvato dal Consiglio europeo del 4-5 novembre 2004; il programma di Stoccolma (2010-2014): «Un’Europa aperta e sicura al servizio e a tutela dei cittadini», approvato dal Consiglio europeo del 10-11 dicembre 2009. In seguito, il Consiglio europeo del 26-27 giugno 2014 ha adottato i nuovi Orientamenti strategici nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia per gli anni a venire (v., estratto delle conclusioni del Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2014 in relazione allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia e ad alcune questioni orizzontali connesse, GUUE C 240, 13, del 24 luglio 2014), in linea con le priorità definite nell’Agenda strategica per l’Unione in una fase di cambiamento, allegata alle citate conclusioni.
3. Profili comuni di detta disciplina Ciò premesso, veniamo all’esame della disciplina dello SLSG. Va in proposito anzitutto segnalato che, prima di articolare tale disciplina sui tre settori indicati, il Trattato definisce le finalità e i principi generali che devono ispirare l’azione dell’Unione al riguardo, nonché alcune specifiche regole orizzontali di carattere sostanziale, organizzativo e procedurale. Conviene quindi esaminare preliminarmente tali regole comuni. In primo luogo, il Trattato precisa già in apertura del Titolo V che lo SLSG deve realizzarsi «nel rispetto dei diritti fondamentali, nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri» (art. 67, par. 1, TFUE), e a questo principio in effetti si ispira tutta la successiva normativa. Va detto peraltro che la citata frase, se per il primo aspetto pare ripetitiva di altre simili affermazioni dei Trattati (v. in particolare art. 6 TUE), richiama per l’altro la necessità di tener conto delle specificità nazionali allorché l’Unione si propone di interferire in settori nei quali gli Stati hanno sempre gelosamente difeso la propria sovranità. Anche per questo motivo, la materia è ricondotta a quelle di competenza concorrente tra l’Unione e gli Stati membri (art. 4, par. 2, lett. j), TFUE), mentre il Trattato insiste nel richiamo ai principi di sussidiarietà e proporzionalità e i parlamenti nazionali vengono specificamente chiamati a vigilare sul loro rispetto (art. 69 TFUE, nonché art. 12, lett. b), TUE, e artt. 81, par. 3, e 85, par. 1, TFUE, v. anche retro, p. 66 s.). Alle medesime finalità può, inoltre, ricondursi l’attribuzione al Consiglio del potere di fissare, su proposta della Commissione, ma senza consultazione del Parlamento europeo, modalità di valutazione congiunta da parte degli stessi Stati membri circa la rispettiva attuazione delle misure adottate nel settore dello SLSG, in particolare quanto alla piena applicazione del principio del riconoscimento reciproco (art. 70 TFUE). Gli Stati membri conservano tuttavia piena sovranità per quanto riguarda il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna (art. 72 TFUE) e possono all’uopo organizzare forme di cooperazione amministrativa tra i rispettivi servizi (art. 73 TFUE). Al fine poi di rafforzare la cooperazione operativa tra gli Stati membri in materia di sicurezza interna, il TFUE istituisce un apposito Comitato permanente, dei cui lavori devono essere informati sia il Parlamento europeo che i parlamenti nazionali (art. 71 TFUE). Inoltre, come vedremo, il Consiglio può anch’es-
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so organizzare forme di cooperazione amministrativa per tutta l’area dello SLSG tra gli Stati membri e tra questi e la Commissione (art. 74 TFUE). Il Trattato contiene anche una disposizione che non è riconducibile specificamente ad uno dei tre filoni dello SLSG, ma che in qualche modo ugualmente si ricollega alla materia: si tratta della previsione di cui all’art. 75 TFUE, relativa all’adozione di misure per la lotta al terrorismo e alle attività connesse. Su di essa, v. retro, p. 526 s. e infra, p. 822.
Per quanto riguarda poi i profili più propriamente istituzionali, essi riflettono palesemente, specie nel confronto con la precedente disciplina, la «comunitarizzazione» della materia. In primo luogo, è ora il Consiglio europeo, in quanto istituzione dell’Unione, a fissare gli orientamenti strategici della programmazione legislativa e operativa in materia (art. 68 TFUE). Gli atti a valle di tale programmazione sono invece adottati – ed è questa l’innovazione più significativa soprattutto per il superamento della (da molte parti) lamentata emarginazione del Parlamento europeo – secondo le regole comuni del Trattato, sia pur ricorrendo volta a volta, come vedremo, all’una o all’altra delle procedure da queste previste: di regola, la procedura legislativa ordinaria, ma talvolta anche quella speciale o perfino procedure non legislative (come, ad esempio, nei ricordati casi di cui agli artt. 70 e 74 TFUE). Gli atti tipici e le relative procedure erano previsti solo per le materie già assorbite nel TCE. Per gli altri, e quindi per il settore penale, l’art. 34 dell’allora TUE contemplava solo gli atti specifici del terzo pilastro, e cioè le posizioni comuni, le decisioni-quadro, le decisioni e le convenzioni. Pur trattandosi di atti vincolanti, essi dovevano essere recepiti dagli Stati e ne era escluso l’effetto diretto (benché la Corte abbia riconosciuto che anche alle decisioni-quadro si applicava il principio dell’interpretazione conforme: Corte giust. 16 giugno 2005, C-105/03, Pupino, I-5285; e, di recente, 29 giugno 2017, C-579/15, Popławski). Detti atti, inoltre, erano adottati dal Consiglio, all’unanimità, su iniziativa della Commissione o di uno Stato membro (ex art. 34, par. 2, TUE), nonché, ma non per le posizioni comuni, previa consultazione del PE (ex art. 39, par. 1, TUE).
Quanto al controllo giurisdizionale, si è già visto che, sia pur con qualche limitazione, esso è stato finalmente recuperato dalla Corte di giustizia secondo le consuete regole di competenza della stessa. Come si è detto, però, proprio nel settore dello SLSG la Corte incontra una limitazione di merito quanto alla portata della sua competenza in relazione al controllo delle operazioni di polizia (art. 276 TFUE, e retro, p. 343 s.). Per la precedentemente limitata competenza pregiudiziale della Corte in materia, v. retro, p. 254 ss. Vale solo la pena ricordare che è proprio nel settore dello SLSG che è possibile ricorrere alla procedura pregiudiziale di urgenza (retro, pp. 251 e 336). Quanto al controllo sulla legittimità degli atti del terzo pilastro, esso era previsto pure prima del Trattato di Lisbona, ma con significative limitazioni, visto che erano impugnabili solo le decisioni e le decisioni-quadro, e che il ricorso era consentito solo agli Stati membri e alla Commissione. In relazione invece alla competenza della Corte sulle eventuali infrazioni degli Stati membri (retro, p. 259 ss.), essa poteva essere attivata solo da uno Stato membro in caso di controversia con un altro Stato membro sull’interpretazione o l’applicazione degli atti del terzo pilastro, e sempre che la stessa non fosse stata previamente composta dal Consiglio; mentre per le controversie relative alle convenzioni tra Stati membri, il ricorso poteva essere promosso anche dalla Commissione (art. 34 TUE pre-Lisbona).
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Sempre per il profilo istituzionale, tuttavia, va ricordato che persistono ancora alcune specificità. Nel settore della cooperazione giudiziaria in materia penale e della cooperazione di polizia, che prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona rientravano nel terzo pilastro, l’iniziativa legislativa può essere assunta non solo, come di regola, dalla Commissione, ma anche da un quarto degli Stati membri (art. 76 TFUE). Lo stesso dicasi per l’adozione delle ricordate misure del Consiglio per la cooperazione amministrativa tra gli Stati membri; in questo caso, inoltre, il Parlamento europeo è solo consultato (artt. 74 e 76 TFUE). Va anche segnalato che in materia, come vedremo, è prevista la possibilità di azionare la procedura del c.d. freno di emergenza (v. p. 205), con l’intervento del Consiglio europeo, nonché un più facile accesso alla cooperazione rafforzata (artt. 82, par. 3; 83, par. 3; 86 e 87 TFUE). Da ultimo, occorre segnalare alcune importanti limitazioni alla portata della disciplina di cui si discute. In primo luogo, ai sensi del Protocollo n. 36 sulle disposizioni transitorie, allegato al Trattato di Lisbona, per un periodo di cinque anni (periodo che il solo Regno Unito ha la facoltà di prorogare, ovviamente per quanto lo riguarda), non solo resta limitata la competenza pregiudiziale della Corte di giustizia in relazione agli atti del terzo pilastro vigenti alla data di entrata in vigore del Trattato di Lisbona (v. retro, p. 255), ma in più quegli atti continueranno a produrre i loro effetti finché non saranno modificati e sottoposti alle regole del nuovo Trattato. In effetti, quando propongono modifiche agli atti del terzo pilastro, le istituzioni ormai ne chiedono la contestuale abrogazione e la sostituzione con un atto ex art. 288 TFUE. In secondo luogo, e il punto non è di poco conto, l’intero Titolo V in esame non si applica al Regno Unito e all’Irlanda, da una parte, e alla Danimarca dall’altra, i quali hanno ottenuto anche a questo riguardo, come per l’acquis di Schengen (v. par. precedente), un regime derogatorio consegnato ai Protocolli nn. 21 e 22, allegati al Trattato di Lisbona. Ai sensi del primo, l’Irlanda e il Regno Unito non partecipano all’adozione degli atti fondati sul Titolo V del TFUE, né sono vincolati dagli atti adottati in base a esso che non siano il mero sviluppo dell’acquis di Schengen; possono però sia accettare quelli già adottati, sia notificare al Presidente del Consiglio, entro tre mesi dalla presentazione di un progetto di atto, che intendono partecipare all’adozione dello stesso. La Corte ha però chiarito che tale facoltà riguarda solo gli atti che rientrano nei settori ai quali i due Stati sono già stati autorizzati a partecipare, perché i singoli atti non vanno visti in modo isolato, ma come sviluppo di un sistema i cui principi di fondo devono essere stati già accettati: Corte giust. 18 dicembre 2007, C-77/05, Regno Unito c. Consiglio, I-11459; 26 ottobre 2010, C-482/08, Regno Unito c. Consiglio, I-10413. V. anche, ma sotto altro profilo, Corte giust. 26 settembre 2013, C-431/11, Regno Unito c. Consiglio; 18 dicembre 2014, C-81/13, Regno Unito c. Consiglio.
Quanto alla Danimarca, il Protocollo n. 22 prevede un analogo regime, ma aggiunge che se deciderà di rinunciare a tale Protocollo, detto Stato si considererà vincolato da tutto il diritto derivato in vigore al momento in cui la rinuncia prenderà effetto.
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4. Lo spazio di libertà: a) la soppressione dei controlli alle frontiere E veniamo ora alla disciplina dei tre settori che compongono lo SLSG, cominciando da quella sullo spazio di libertà. Tale disciplina si specifica a sua volta su tre assi, relativi rispettivamente ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione, ciascuno oggetto di specifica e separata normativa. Opera però per tutti in modo orizzontale il principio, enunciato dall’art. 80 TFUE, di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità, anche per gli aspetti finanziari, tra gli Stati membri. In effetti, specie in ragione della loro diversa posizione geografica, tali Stati subiscono in modo assai differenziato la pressione migratoria proveniente dalle frontiere esterne dell’Unione, e quindi devono sopportare oneri molto diversi quanto all’esercizio della responsabilità per i controlli di quelle frontiere, alla gestione dei flussi di immigrazione e delle conseguenti domande di asilo, tanto più che, come vedremo, il sistema vigente al riguardo (c.d. «sistema Dublino») attribuisce allo Stato di primo ingresso la competenza a conoscere di quelle domande. L’art. 80 TFUE mira dunque, per così dire, a «mutualizzare» almeno parzialmente i costi disegualmente distribuiti, anche se in concreto la solidarietà fin qui organizzata non pare, sotto vari aspetti, molto generosa (Corte giust., 6 settembre 2017, C643/15 e C-647/15, Ungheria e Slovacchia c. Consiglio). Sul punto, v. anche più avanti (pp. 545, 547). Tra gli interventi fin qui realizzati, si ricordano: l’assistenza finanziaria prevista dal Fondo europeo per i rifugiati (dec. 573/2007/CE del PE e del Consiglio, del 23 maggio 2007, GUUE L 144, 1), dal Fondo per le frontiere esterne (dec. 574/2007/CE del PE e del Consiglio, del 23 maggio 2007, GUUE L 144, 22) e dal Fondo europeo per l’integrazione di cittadini di paesi terzi (dec. 2007/435/CE del Consiglio, del 25 giugno 2007, GUUE L 168, 18), tutti abrogati e sostituiti dai reg. (UE) nn. 516/2014, 515/2014, 514/2014, e 513/2014, del PE e del Consiglio, del 16 aprile 2014 (GUUE L 150, p. 168, 143, 112 e 93): il primo che istituisce il Fondo Asilo, migrazione e integrazione; il secondo che istituisce, nell’ambito del Fondo di sicurezza interna, lo strumento di sostegno finanziario per le frontiere esterne e i visti; il terzo recante disposizioni generali sul Fondo asilo, migrazione e integrazione e sullo strumento di sostegno finanziario per la cooperazione di polizia, la prevenzione e la lotta alla criminalità e la gestione delle crisi; il quarto istitutivo, nell’ambito del Fondo sicurezza interna, dello strumento di sostegno finanziario per le medesime operazioni. Si può inquadrare ugualmente nella logica della reciproca solidarietà la dir. 2001/55/CE del Consiglio, del 20 luglio 2001 (GUCE L 212, 12), sulla quale torneremo nel par. seguente, direttiva che riguarda la protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e che abilita il Consiglio ad autorizzare, in simili situazioni, una protezione temporanea di quelle persone anche da parte degli Stati membri diversi da quelli che costituiscono il loro primo punto di ingresso nell’Unione.
Ciò chiarito, veniamo al primo asse dello spazio di libertà, vale a dire ai controlli alle frontiere. A tale tema è dedicato l’art. 77 TFUE, il quale abilita il legislatore dell’Unione ad adottare le misure necessarie: a garantire l’assenza di controlli sulle persone (quale che ne sia la nazionalità) all’atto dell’attraversamento delle frontiere interne, anche con una politica comune in materia di visti e titoli di soggiorno; a organizzare il controllo delle persone, fissando altresì le condizioni alle quali i cittadini dei paesi terzi possono liberamente circolare nell’Unione per un breve periodo; ad assicurare l’efficace sorveglianza sull’attraversamento delle frontiere esterne e la progressiva istituzione di un sistema integrato di gestione delle stesse.
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i) Cominciamo dall’abolizione dei controlli alle frontiere interne dell’Unione, intese ovviamente come frontiere tra i territori degli Stati membri. Resta peraltro impregiudicata, naturalmente, la competenza degli Stati membri in ordine alla delimitazione geografica delle rispettive frontiere, competenza che va esercitata nel rispetto del diritto internazionale (art. 77, par. 4, TFUE). Com’è noto, in alcuni casi, detta delimitazione solleva non poche questioni e anche tensioni tra gli Stati membri (si pensi al contenzioso tra Spagna e Regno Unito per Gibilterra), ma anche tra alcuni di questi e Stati terzi (situazione cipriota).
Da tempo, in effetti, la sopravvivenza di simili frontiere appariva poco coerente con i principi sottesi alla creazione di uno spazio unico europeo, come emerse già dal Libro Bianco della Commissione del 1985, sulla realizzazione del mercato interno, in gran parte ripreso poi nell’AUE (art. 8 A, ora art. 26 TFUE). La loro soppressione presupponeva però, come si è poc’anzi accennato, una serie di misure preliminari o di accompagnamento alle quali gli Stati membri misero mano con i ricordati Accordi di Schengen e poi con le misure comuni, di cui diremo tra breve. A seguito di detti Accordi, ma soprattutto dell’emanazione del reg. (CE) n. 562/2006 (c.d. codice frontiere Schengen), che li ha «comunitarizzati» per il profilo ora in esame, il risultato è stato quasi completamente realizzato. Reg. del PE e del Consiglio, del 15 marzo 2006 (GUUE L 105, 1), che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (GUUE L 182, 1), sostituito poi dal reg. 2016/399/UE, del PE e del Consiglio, del 9 marzo 2016, che istituisce un codice unionale nella stessa materia (Codice frontiere Schengen), GUUE L 77, 1 (relativamente all’interpretazione del codice frontiere Schengen, cfr. Corte giust. 14 giugno 2012, C606/10, ANAFE, 17 gennaio 2013, C-23/12, Zakaria; 21 giugno 2017, C-9/16, A.; 26 luglio 2017, C-646/16, Jafari e C-490/16, A.S.). Naturalmente questo non vale per gli Stati membri che non hanno aderito a suo tempo agli Accordi di Schengen. Irlanda e Regno Unito regolano quindi con apposite intese bilaterali l’attraversamento dei rispettivi confini, mentre i rapporti con gli altri Stati membri, con i quali comunque quei due Stati non hanno frontiere terrestri comuni, sono oggetto del Protocollo n. 20 allegato al Trattato di Lisbona, che lascia a tutti la libertà di mantenere i tradizionali controlli (v. in materia Corte giust. 18 dicembre 2014, C-202/13, Mc Carthy). Ma la soppressione dei controlli non valeva neppure per gli Stati membri che, per motivi di varia natura, non avevano potuto accettare subito il relativo acquis (Bulgaria, Cipro, Romania). Essa vale, invece, per gli Stati terzi di cui si è detto (Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera).
Il regolamento vieta non solo i controlli alle frontiere interne, salvo l’esercizio dei poteri di polizia da parte delle autorità nazionali che non abbiano un effetto a essi equivalente, ma anche, per evitare che il divieto sia aggirato, i controlli sistematici, in luoghi posti in prossimità della frontiera, su persone che l’abbiano già varcata. Secondo il regolamento, è considerato come equivalente a un controllo vietato il controllo di polizia operato in una zona di 20 km dalla frontiera al fine di verificare l’identità e il possesso dei documenti di soggiorno, ove sia effettuato a prescindere dal comportamento della persone e da circostanze particolari che dimostrino una minaccia per l’ordine pubblico (Corte giust. 22 giugno 2010, C-188/10 e C-189/10, Melki e Abdeli, I-5667). Non lo è, invece, se specificamente destinato a prevenire l’immigrazione illegale, se condotto in modo non sistematico e se limitato quanto all’intensità e alla frequenza (Corte giust. 19 luglio 2012, C-278/12 PPU, Adil; 21 giugno 2017, C9/16, A).
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I controlli possono essere reintrodotti in caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna, ma ciò solo per un periodo massimo di 30 giorni e previa comunicazione alla Commissione. ii) Ma l’abolizione delle frontiere interne, come più volte accennato, implicava necessariamente una politica comune per i controlli alle frontiere esterne, una politica addirittura organizzata, se possibile, con una gestione integrata di tali controlli, nonché dei documenti di entrata e di soggiorno richiesti per gli stranieri e delle condizioni per la loro circolazione nell’Unione. Anche su questo versante importanti risultati erano stati raggiunti con gli Accordi di Schengen e del relativo acquis, consegnato poi al ricordato reg. n. 562/2006. Per assicurare un’effettiva ed efficace applicazione dei controlli alle frontiere esterne, era stata anche istituita un’apposita commissione permanente di valutazione e di applicazione di Schengen, ora sostituita da un meccanismo di valutazione e di controllo per verificare l’applicazione dell’acquis di Schengen, istituito dal reg. (UE) n. 1053/2013 del PE e del Consiglio, del 7 ottobre 2013 (GUUE L 295, 27). Conviene anche ricordare, in proposito, che ai sensi del Protocollo n. 23, allegato al Trattato di Lisbona, per quanto riguarda i controlli alle frontiere esterne, gli Stati membri conservano la competenza a negoziare e concludere accordi con i paesi terzi nel rispetto del diritto dell’Unione e degli altri accordi internazionali pertinenti. E ciò in deroga al principio secondo cui in presenza di norme armonizzate sussiste una competenza esclusiva dell’Unione a negoziare e concludere accordi internazionali. Vista però la puntualità e il rigore della disciplina che, come subito diremo, è stata emanata in materia dall’Unione, deve ritenersi che i margini di libertà degli Stati membri restino, nonostante il citato Protocollo, assai ristretti.
Ai sensi di tale regolamento (o, meglio, di quello che lo ha sostituito: reg. 2016/399), gli Stati membri devono predeterminare i punti di transito attraverso i quali si possono attraversare le frontiere esterne e adeguatamente sorvegliarli. Per i cittadini dell’Unione sarà sufficiente una verifica minima della loro identità, mentre per quelli dei paesi terzi occorre altresì accertare la sussistenza delle condizioni richieste per il loro ingresso nell’Unione. In particolare, l’interessato deve essere in possesso di un documento di viaggio valido e, alle condizioni che tra breve indicheremo, di un visto; deve giustificare scopo e condizioni del soggiorno e disporre di mezzi di sussistenza sufficienti durante il soggiorno e per il ritorno nel paese di provenienza; inoltre, egli non deve essere segnalato nel ricordato Sistema d’informazione integrato Schengen (SIS), né essere considerato una minaccia per l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica o le relazioni internazionali di uno degli Stati membri. Ciò però non in modo automatico, ma solo dopo aver verificato se, nella specie, la presenza della persona costituisca una minaccia effettiva, attuale e abbastanza grave per un interesse fondamentale della collettività (Corte giust. 31 gennaio 2006, C-503/03, Commissione c. Spagna, I1097). Quanto al SIS, va segnalato che esso è una banca-dati, che raccoglie in un apposito archivio le informazioni su persone e beni, il cui ingresso e la cui circolazione entro lo «spazio Schengen» meritano di essere tenuti sotto controllo o addirittura impediti. Esso opera grazie a una «base nazionale» (N.SIS) istituita in ciascuno Stato membro (in Italia, il Ministero dell’interno), integrata da un Ufficio S.I.R.E.N.E. (Supplément d’Information Requis à l’Entrée Nationale), che favorisce i contatti fra gli uffici giudiziari e di polizia con lo scambio di informazioni ulteriori rispetto a quelle contenute nel SIS. Dopo la prima versione del sistema creata in attuazione degli Accordi di
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Schengen (SIS I), il sistema SIS II è stato istituito con reg. (CE) n. 1987/2006 del PE e del Consiglio, del 20 dicembre 2006 (GUUE L 381, 4) e con dec. 2007/533/GAI del Consiglio, del 12 giugno 2007 (GUUE L 205, 63). Per il funzionamento del SIS II, come dei sistemi VIS ed Eurodac, di cui diremo tra breve, è stata istituita, con sede a Tallin, un’apposita Agenzia europea per la gestione operativa dei sistemi IT (tecnologie dell’informazione) su larga scala nello SLSG: v. reg. (UE) n. 1077/2011 del PE e del Consiglio, del 25 ottobre 2011 (GUUE L 286, 1), modificato poi dal reg. (UE) n. 603/2013 del PE e del Consiglio, del 26 giugno 2013 (GUUE L 180, 1).
In assenza di quei requisiti, l’ingresso può essere rifiutato, ma il respingimento va motivato e l’interessato può presentare ricorso conformemente alla legislazione dello Stato che ha preso il provvedimento (sul punto, v. ampiamente Corte giust. 19 dicembre 2013, C-84/12, Koushkaki). In caso positivo, invece, sarà apposto un timbro sul passaporto in modo da agevolare il calcolo del periodo per il quale il soggiorno è consentito. Peraltro, i controlli devono essere effettuati nel rispetto della dignità umana, essere proporzionati e attuati senza discriminazioni fondate sul sesso, la razza, l’origine etnica, ecc. (art. 7 del reg n. 2016/399). Se l’uso della forza si rende necessario, esso va attuato nel rispetto dei predetti principi e degli obblighi internazionali verso gli Stati terzi interessati, e comunque secondo regole che spetta al legislatore dell’Unione definire (Corte giust. 5 settembre 2012, C-355/10, Parlamento europeo c. Consiglio).
Ai controlli provvedono di norma, secondo regole specificate nel ricordato reg. n. 2016/399, le guardie di frontiera nazionali, all’occorrenza con l’assistenza e la cooperazione degli altri Stati membri. In tal caso, fermo restando che gli Stati conservano ciascuno la responsabilità principale nel controllo delle proprie frontiere esterne, viene prevista la possibilità di una «gestione integrata» di tali frontiere, segnatamente attraverso l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex), che assicura per l’appunto il coordinamento delle azioni intraprese dagli Stati membri ai fini dell’applicazione delle misure comuni per la gestione di quelle frontiere. Inclusa quindi anche la nota operazione Triton, che ha sostituito l’operazione Mare nostrum, che era di competenza del solo governo italiano. Frontex è stato istituito dal reg. (CE) n. 2007/2004 del Consiglio, del 26 ottobre 2004 (GUUE L 349, 1), modificato dal reg. (CE) n. 863/2007 del PE e del Consiglio, dell’11 luglio 2007 (GUUE L 199, 30), e dal reg. n. 1168/2011 del PE e del Consiglio, del 25 ottobre 2011 (GUUE L 304, 1). Inoltre, è stato istituito, di supporto a Frontex, un sistema europeo di sorveglianza delle frontiere (Eurosur), destinato a rafforzare lo scambio d’informazioni e la cooperazione operativa tra le autorità nazionali e Frontex: v. reg. (UE) n. 1052/2013 del PE e del Consiglio, del 22 ottobre 2013 (GUUE L 295, 11). I reg. (CE) n. 2007/2004 e 863/2007 sono stati recentemente sostituiti dal reg. (UE) n. 2016/1624 del PE e del Consiglio, del 14 settembre 2016, (GUUE L 251, 1) relativo alla guardia di frontiera e costiera europea, che modifica il reg. (UE) n. 2016/399 del PE e del Consiglio e che abroga il reg. (CE) n. 863/2007 del PE e del Consiglio, il reg. (CE) n. 2007/2004 del Consiglio e la dec. 2005/267/CE del Consiglio. Il reg. in parola ha istituito una guardia di frontiera e costiera europea, comprendente l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, un organismo dell’Unione dotato di personalità giuridica (in precedenza denominata Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea), e le autorità nazionali preposte alla gestione delle frontiere. Tra i compiti dell’Agenzia, per la quale si è mantenuta la denominazione Frontex, rientrano anche quelli di monitorare i flussi migratori e analizzare i rischi legati alla ge-
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stione integrata delle frontiere; istituire e dispiegare squadre della guardia di frontiera e costiera europea, compresa una riserva di reazione rapida, da dispiegare durante le operazioni congiunte e gli interventi rapidi alle frontiere, nonché nell’ambito di squadre di sostegno per la gestione della migrazione; istituire e dispiegare squadre europee d’intervento per il rimpatrio. I membri delle squadre della guardia di frontiera e costiera europea restano soggetti alle misure disciplinari dei rispettivi Stati membri d’origine, ma devono esercitare le proprie competenze in conformità alla normativa dell’Unione e alla legislazione nazionale dello Stato membro ospitante. Con riguardo agli interventi rapidi alle frontiere, l’Agenzia dispiega squadre attinte da una riserva di reazione rapida, consistenti in un corpo permanente composto dalle guardie di frontiera e da altro personale messo a disposizione da parte degli Stati membri.
iii) Come si è visto, i controlli alle frontiere hanno ad oggetto anzitutto il possesso di determinati documenti da parte del soggetto interessato, e in particolare, oltre a quelli di identificazione per tutti, di visti o altri titoli di soggiorno per i cittadini di Stati terzi. Considerate le finalità del sistema, anche questo aspetto della materia esigeva una politica comune al fine di evitare rischi di confusioni, squilibri o abusi nell’ammissione di quei cittadini. È quanto appunto prevede, come anticipato, l’art. 77 TFUE e, in attuazione di esso, vari atti di diritto derivato. Intanto, si deve ricordare che al rilascio di quei documenti provvedono, per i cittadini dell’Unione, i rispettivi Stati nazionali. In proposito, e al fine di facilitare la libertà di circolazione di tali cittadini all’interno dell’Unione, l’art. 77, par. 3, TFUE, abilita il Consiglio ad adottare, con procedura legislativa speciale (ossia, con voto all’unanimità e consultazione del Parlamento europeo), apposite disposizioni relative ai passaporti, alle carte di identità, ai titoli di soggiorno o altro documento assimilato. Non risultano ancora misure di applicazione di tale disposizione, ma in materia va ricordato, ancorché adottato sulla base del precedente art. 62 TCE, il reg. (CE) n. 2252/2004 del Consiglio, del 13 dicembre 2004 (GUUE L 385, 1), che detta norme sulle caratteristiche di sicurezza e sugli elementi biometrici dei passaporti e dei documenti di viaggio rilasciati dagli Stati membri (regolamento del quale è stata inutilmente contestata la validità, tra l’altro, sotto il profilo della tutela dei diritti fondamentali dei titolari del passaporto: v. Corte giust. 17 ottobre 2013, C-291/12, Schwarz).
Quanto ai cittadini dei paesi terzi, occorre anzitutto fare una distinzione tra i richiedenti un soggiorno di breve durata (tre mesi) e quelli che aspirano a un soggiorno di lunga durata. Questi ultimi rientrano nella politica d’immigrazione e se ne parlerà in quella sede; gli altri sono oggetto di una specifica disciplina, dettata dal reg. (CE) n. 810/2009, del PE e del Consiglio, del 13 luglio 2009 (GUUE L 243, 1), che istituisce un codice comunitario dei visti (codice dei visti) (cfr. Corte giust. 10 aprile 2012, C-83/12 PPU, Vo; la citata sentenza Koushkaki, e 7 marzo 2017, C-638/16 PPU, X e X), modificato da ultimo dal reg. (UE) n. 2016/399 del PE e del Consiglio, del 9 marzo 2016, che istituisce un codice unionale relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (codice frontiere Schengen) (GUUE L 77, 1). Per questi ultimi soggetti, l’ingresso nell’Unione è subordinato al rilascio di un visto da parte degli Stati membri, a meno che l’interessato non provenga da uno Stato terzo per i cui cittadini detto visto non è richiesto. A tal fine, il Consiglio ha fissato con apposito regolamento l’elenco di tali Stati.
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V. reg. (CE) n. 539/2001 del Consiglio, del 15 marzo 2001, più volte modificato, che adotta sia tale elenco sia quello degli Stati i cui cittadini devono invece essere in possesso del visto (GUCE L 81, 1). La formulazione dell’elenco è spesso frutto di accordi internazionali dell’Unione con i paesi terzi interessati, volti a facilitare la concessione dei visti o prevederne direttamente la soppressione.
Il visto può essere concesso per tutta l’Unione o solo per alcuni Stati membri e deve essere rilasciato dallo Stato che il codice dei visti individua come competente in funzione dei luoghi e delle modalità di entrata o di transito del soggetto. Esso è rilasciato dal consolato competente o, in casi determinati, anche alla frontiera. Il codice detta poi norme estremamente dettagliate quanto alla definizione del documento, alle procedure, alle condizioni, alle modalità e ai criteri per il rilascio dei visti, alla eventuale proroga degli stessi o al loro annullamento, nonché quanto alla cooperazione consolare a tal fine necessaria, alla compilazione delle statistiche in materia, e così via. I dati relativi ai visti sono conservati in un apposito archivio elettronico, il sistema di informazione visti (VIS), al quale possono accedere le autorità nazionali competenti per il rilascio degli stessi, nonché, se necessario per la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata, Europol e le autorità nazionali di polizia. V. dec. 2004/512/CE del Consiglio, dell’8 giugno 2004 (GUUE L 213, 5), che istituisce il sistema di informazione visti. Ma v. anche reg. (CE) n. 767/2008, del PE e del Consiglio, del 9 luglio 2008, concernente il sistema di informazione visti (VIS) e lo scambio di dati tra Stati membri sui visti per soggiorni di breve durata (GUUE L 218, 60).
iv) Sempre in funzione delle finalità generali da esso perseguite, l’art. 77, par. 2, lett. c), TFUE prevede altresì che siano definite le condizioni in presenza delle quali i cittadini dei paesi terzi possono circolare nell’Unione per un breve periodo (per i familiari dei cittadini dell’Unione vale, però, come si è visto retro, p. 396 ss., un regime diverso). In proposito, si deve sottolineare anzitutto che il visto autorizza l’ingresso e il soggiorno solo, come si è detto, per un periodo non superiore a tre mesi per ogni periodo di sei mesi. Al termine degli stessi l’interessato deve lasciare il paese e non può rientrare nell’Unione prima che siano trascorsi sei mesi dal primo ingresso. Se la limitazione non è rispettata o non lo sono le altre condizioni eventualmente poste all’entrata e al soggiorno, quest’ultimo diviene irregolare e lo Stato può procedere, alle condizioni che vedremo più avanti, al rimpatrio se lo straniero non può vantare un altro titolo per il prolungamento del soggiorno (ad esempio, come vedremo tra breve, in caso di asilo).
5. Segue: b) la politica comune in materia di asilo Quella appena descritta è la politica generale dell’Unione rispetto all’ingresso e al soggiorno dei cittadini degli Stati terzi. Ma tale politica deve fare i conti anche con le esigenze derivanti dall’intensificarsi dell’immigrazione verso gli Stati membri, nonché con gli obblighi internazionali imposti a questi ultimi e all’Unione «in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea». In precedenza, i due
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aspetti erano disciplinati congiuntamente (art. 63 TCE); con il Trattato di Lisbona essi sono divenuti, più opportunamente, oggetto di distinte disposizioni. Dell’immigrazione, disciplinata dall’art. 79 TFUE, diremo al paragrafo seguente; l’asilo è invece oggetto dell’art. 78 TFUE, il quale, al par. 1, impone all’Unione di definire al riguardo una politica comune «volta ad offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento [in conformità] alla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e al Protocollo del 31 gennaio 1967 relativi allo status dei rifugiati, e agli altri Trattati pertinenti». In questo modo, l’Unione ha recepito, nella forma più ampia (come si è visto, si contempla non solo l’asilo, ma anche la protezione sussidiaria e quella temporanea), i principi sanciti dalla richiamata Convenzione di Ginevra, della quale sono parti tutti gli Stati membri (ma non l’Unione) e che impone per l’appunto il divieto di espellere o respingere i rifugiati e i richiedenti asilo verso luoghi in cui la loro vita o la loro libertà sarebbero in pericolo per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o per la loro opinione politica (principio c.d. di non-refoulement). Ma, più in generale, si riflettono altresì nella disposizione gli analoghi principi emersi in questi decenni nel c.d. diritto internazionale umanitario e le enunciazioni della CEDU (art. 3: diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti, con l’implicito divieto di estradizione, espulsione, deportazione o refoulement verso Stati in cui la persona correrebbe simili rischi), nonché della Carta dir. fond., che ugualmente impone il rispetto del diritto di asilo (art. 18) e il ricordato divieto di refoulement (art. 19).
Ma l’art. 78 TFUE non si limita ad annunciare una politica dell’Unione in materia; esso abilita il legislatore europeo ad adottare, con la procedura legislativa ordinaria, tutte le misure necessarie ad istituire un «sistema europeo comune di asilo» (SECA) (art. 78, par. 2, TFUE), espressione, questa, che palesemente richiama l’idea di una disciplina organica e compiuta della materia. E in effetti, quest’ultima disposizione elenca proprio le linee di un simile sistema, perché precisa che le predette misure devono includere: a) uno status uniforme in materia di asilo a favore di cittadini di paesi terzi, valido in tutta l’Unione; b) uno status uniforme in materia di protezione sussidiaria per i cittadini di paesi terzi che, pur senza il beneficio dell’asilo europeo, necessitano di protezione internazionale; c) un sistema comune volto alla protezione temporanea degli sfollati in caso di afflusso massiccio; d) procedure comuni per l’ottenimento e la perdita dello status uniforme in materia di asilo o di protezione sussidiaria; e) criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo o di protezione sussidiaria; f) norme concernenti le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo o protezione sussidiaria; g) il partenariato e la cooperazione con paesi terzi per gestire i flussi di richiedenti asilo o protezione sussidiaria o temporanea. In tutti questi settori, e svolgendo i ricordati programmi quinquennali fissati dal Consiglio europeo e l’impegno di istituire uno spazio comune di protezione e solidarietà per i richiedenti protezione internazionale da concretizzare in un sistema europeo comune di asilo, l’Unione ha adottato numerose misure, che hanno trovato
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sbocco da ultimo in un pacchetto di provvedimenti varati nel giugno 2013, che aggiorna e rifonde i precedenti. Su tutti passiamo ora a dare nell’ordine del Trattato, ma in termini estremamente sintetici, le principali indicazioni. i) Lo status uniforme in materia di asilo è ora definito, dopo una prima direttiva del 2004, dalla dir. 2011/95/UE, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, in uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché nel contenuto della protezione accordata (c.d. direttiva qualifiche). Tale direttiva, anche avvalendosi delle indicazioni offerte in materia dalla giurisprudenza della Corte, fissa criteri comuni per identificare le persone da tutelare e le ipotesi in cui tale tutela si impone, per definire il relativo status, nonché il livello minimo di diritti e prestazioni da assicurare a quelle persone. V. direttiva del PE e del Consiglio, del 13 dicembre 2011 (GUUE L 337, 9). In precedenza, v. dir. 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (GUUE L 304, 12). V. anche, in una giurisprudenza che col tempo è divenuta ormai cospicua: sentenze 2 marzo 2010, C-175/08, C-176/08, C-178/08 e C-179/08, Salahadin Abdulla e a., I-1493; 17 giugno 2010, C-31/09, Bolbol, I-5539; 9 novembre 2010, C-57/09 e C-101/09, B e D, I-10979; 5 settembre 2012, C-71/11 e C-99/11, Y e Z; 22 novembre 2012, C-277/11, M.; 19 dicembre 2012, C-364/11, Abed El Karem El Kott e a.; 8 maggio 2014, C-604/12, H.N.; 1° marzo 2016, C-433/14, Alo; 31 gennaio 2017, C-573/14, Lounani; 7 marzo 2017, C-638/16/PPU, X et X.
ii) La previsione della fissazione di uno status uniforme in materia di protezione sussidiaria (oggetto ugualmente della citata dir. 2011/95) rappresenta una importante innovazione rispetto alla tradizionale normativa internazionale, riservata ai soli rifugiati. Hanno titolo a quella protezione gli apolidi o i cittadini di un paese terzo che non hanno la qualifica di rifugiati, ma per i quali sussistono fondati motivi per temere che, in caso di ritorno nel paese di origine (o, se apolidi, nel paese nel quale avevano precedentemente la dimora abituale), ugualmente sarebbero esposti ad un rischio effettivo di subire un grave danno. La Corte, muovendo dalla premessa che questa forma di protezione è più estesa di quella offerta dalla Convenzione di Ginevra e dalla CEDU, ne ha dato un’interpretazione estensiva dichiarando che, sia pur in via eccezionale, per poter invocare la protezione in oggetto una situazione di minaccia individuale ovvero di rischio soggettivo per l’interessato non devono essere da questi provate, se il grado di violenza indiscriminata che caratterizza un conflitto è così elevato da far ritenere che la persona, rientrando nel paese, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire la detta minaccia (Corte giust. 17 febbraio 2009, C-465/07, Elgafaji, I-921).
iii) Quanto al sistema comune volto alla protezione temporanea degli sfollati, rileva la già ricordata dir. 2001/55/CE, che ha istituito una procedura di carattere eccezionale per organizzare una tutela immediata e temporanea nell’eventualità di massicci afflussi, in atto o imminenti, di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono rientrare nel loro paese d’origine, afflussi che per la loro importanza non
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potrebbero essere affrontati con il comune sistema d’asilo e rischierebbero anzi di pregiudicarne il buon funzionamento. V. dir. del Consiglio, del 20 luglio 2001, sulle norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi (GUCE L 212, 12).
Ai sensi della direttiva, il Consiglio accerta, con decisione adottata a maggioranza qualificata e su proposta della Commissione o di uno Stato membro, l’esistenza dell’afflusso massiccio di sfollati e quindi accorda loro la protezione temporanea in tutti gli Stati membri. Questi ultimi devono cooperare tra loro, nello spirito di solidarietà invocato dalla direttiva, ma espressamente sancito anche dall’art. 80 TFUE (retro, p. 537), ai fini del trasferimento di quelle persone da uno Stato membro all’altro. iv) Altro obiettivo stabilito dall’art. 78, par. 2, TFUE, è, come si è detto, la fissazione di procedure comuni per l’ottenimento e la perdita dello status uniforme in materia di asilo e protezione internazionale. A tal fine, le pertinenti direttive del Consiglio hanno dettato un «quadro minimo» comune in ordine a dette procedure, volto tra l’altro a limitare o eliminare il fenomeno del c.d. asylum shopping, vale a dire gli spostamenti degli interessati tra i vari Stati membri in funzione della diversità delle rispettive legislazioni in materia. In base alla normativa vigente, gli Stati membri, che possono comunque introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli, hanno la facoltà di estendere la procedura relativa al riconoscimento dello status di rifugiato al riconoscimento della protezione sussidiaria. V. anzitutto la dir. 2005/85/CE del Consiglio, del 1° dicembre 2005, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato (GUUE L 326, 13), sostituita poi dalla dir. 2013/32/UE del PE e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che estende, ma con modifiche, quelle norme allo status di protezione internazionale (GUUE L 180, 60).
Durante la procedura di esame della domanda, l’interessato ha il diritto di rimanere nello Stato, di non essere arrestato per il solo motivo che si tratti di persona che chieda l’asilo, di ricevere, entro determinati limiti, assistenza e rappresentanza legali, di fruire di un «mezzo di impugnazione efficace dinnanzi a un giudice» contro le decisioni negative, i cui effetti però non sono per questo motivo automaticamente sospesi (v. ad es. Corte giust. 28 luglio 2011, C-69/10, Samba Diouf, I-7151; 31 gennaio 2013, C-175/11, D. e A; 7 giugno 2016, C-63/15, Ghezelbash). v) Importante è la disciplina adottata dall’Unione in ordine ai criteri e ai meccanismi per la determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo o di protezione sussidiaria. In materia, dopo una serie di precedenti interventi normativi, vige ora il reg. (CE) n. 604/2013 (c.d. Dublino III), che, come i suoi predecessori, si propone di consentire la sollecita determinazione dello Stato membro competente per esaminare le domande di asilo e protezione, ma anche di
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rafforzare, alla luce della Carta dei diritti fondamentali e della giurisprudenza della Corte, la condizione giuridica dei richiedenti la tutela. V. reg. del PE e del Consiglio, del 26 giugno 2013 (GUUE L 180, 31), che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide. In pari data è stato altresì adottato il citato reg. (UE) n. 603/2013 del PE e del Consiglio, che istituisce l’«Eurodac» per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione del reg. (UE) n. 604/2013 e per le richieste di confronto con i dati Eurodac presentate dalle autorità di contrasto degli Stati membri e da Europol a fini di contrasto, e che modifica il reg. (UE) n. 1077/2011 che istituisce un’agenzia europea per la gestione operativa dei sistemi IT su larga scala nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia (rifusione) (GUUE L 180, 1). Si tratta di una banca dati centrale informatizzata per il confronto delle impronte digitali, la cui gestione è affidata a Frontex, e che è costituita da un’unità centrale, un piano e un sistema di continuità operativa e un’infrastruttura di comunicazione tra il sistema centrale e gli Stati membri, dotata di una rete virtuale cifrata. Una nuova proposta di direttiva è stata presentata dalla Commissione il 4 maggio 2016 (Dublino IV): v. la Comunicazione “Riformare il Sistema europeo comune di asilo e potenziare le vie d’accesso legali all’Europa”, COM (2016) 197. Per la precedente normativa in materia, va ricordato che si iniziò con la Convenzione di Dublino del 15 giugno 1990, sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee (GUCE C 254, 1). Per l’attuazione della Convenzione era stato adottato il reg. (CE) n. 2725/2000 del Consiglio, dell’11 dicembre 2000 (GUCE L 316, 1), che istituiva l’«Eurodac» per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione della Convenzione di Dublino, c.d. regolamento Eurodac, completato dal reg. (CE) n. 407/2002 del Consiglio, del 28 febbraio 2002, che definiva talune modalità per la sua applicazione (GUCE L 62, 1), e poi dal reg. n. 603/2013, di cui diremo tra breve. Il sistema della Convenzione era stato poi sostituito dal reg. (CE) 343/2003 del Consiglio, del 18 febbraio 2003 (c.d. regolamento Dublino II), che stabiliva i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo (GUUE L 50, 1), completato dal reg. (CE) n. 1560/2003 della Commissione, del 2 settembre 2003, recante modalità per la sua applicazione (GUUE L 222, 3), come modificato di recente dal reg. di esecuzione (UE) n. 118/2014 della Commissione, del 30 gennaio 2014 (GUUE L 39, 1).
In linea di principio, la domanda deve essere esaminata da un solo Stato membro: questo è, di regola, lo Stato in cui il richiedente la protezione è entrato per la prima volta nell’Unione, e più in particolare quello di cui sia accertato che il richiedente asilo ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, la frontiera, oppure il primo Stato membro in cui sia stata presentata la domanda (cfr., da ultimo, Corte giust. 26 luglio 2017, C-646/16, Jafari e C-490/16, A.S.). Ma restano salvi gli altri criteri di determinazione della competenza, e questi, alla luce delle difficoltà determinatisi in passato al riguardo, sono ora definiti dal regolamento in modo più organico e analitico, tenendo conto di una serie di elementi specifici, quali la minore età del richiedente, la previa presenza di familiari in uno Stato membro, l’eventuale titolarità di un titolo di soggiorno valido, e così via. Il regolamento recepisce anche la giurisprudenza che imponeva deroghe all’automatismo nella individuazione dello Stato competente, segnatamente nel caso in cui l’eventuale trasferimento del richiedente asilo dallo Stato membro in cui si trova allo Stato competente, ai sensi del regolamento, potrebbe affievolire o addirittura sopprimere
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le garanzie in merito al rispetto dei diritti fondamentali, al divieto di trattamenti inumani e degradanti o implicare il rischio di rimpatrio verso paesi in cui il richiedente asilo sarebbe esposto a seri pericoli. In tal caso, lo Stato che ha avviato la procedura proverà a ricorrere ad altri criteri di determinazione dello Stato competente, oppure lo diventerà esso stesso se la ricerca dell’alternativa si sarà rivelata infruttuosa. V. Corte giust. 21 dicembre 2011, C-411/10 e C-493/10, N.S., I-13905; 14 novembre 2013, C4/11, Puid; nonché 10 dicembre 2013, C-394/12, Abdullhai; 16 febbraio 2017, C-578/16 PPU, C. K. e a. Quella indicata nel testo è la conseguenza della nota sentenza della Corte di Strasburgo, che in un caso relativo a un profugo afgano rinviato dal Belgio, in cui egli soggiornava, alla Grecia, Stato competente ai sensi del regolamento, ma nel quale sussisteva una comprovata (secondo la Corte) difficoltà di accesso all’asilo in condizioni corrette e seri rischi per il rispetto dei diritti del soggetto, ha affermato che incombe agli Stati membri verificare simili situazioni e, se del caso, astenersi dal rinvio (Corte EDU 21 gennaio 2011, M.S.S., GC, Recueil, 2011). Per attenuare la pressione dei forti movimenti migratori in alcuni Stati membri e per rispettare il principio di solidarietà di cui all’art. 80 TFUE, la Commissione ha cercato di istituire un piano di ripartizione tra gli Stati membri, almeno per i richiedenti asilo: v. le dec. del Consiglio 2015/1523, del 14 settembre 2015 (L 239, 146), e 2015/1601, del 22 settembre 2015 (L 248, 89), che istituiscono, entrambe, misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia (contro tali decisioni hanno invano presentato un ricorso d’annullamento l’Ungheria e la Slovacchia: v. sentenza 6 settembre 2017, C-643/15 e C-647/15, Repubblica slovacca e Ungheria c. Consiglio).
vi) Per quanto concerne le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo, dopo la dir. 2003/9/CE del Consiglio, del 27 gennaio 2003 (GUCE L 31, 18), che per prima ha dettato norme minime relative all’accoglienza di tali soggetti (ma non ai richiedenti protezione sussidiaria) negli Stati membri, uniformando le condizioni materiali di accoglienza e le garanzie procedurali a favore dei richiedenti l’asilo, la materia è ora regolata dalla dir. 2013/33/UE del PE e del Consiglio, del 26 giugno 2013 (GUUE L 180, 96), recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, che ha sostituito la precedente, ampliando la sfera dei soggetti protetti e assicurando per essi un grado di protezione più elevato (v., di recente, Corte giust. 15 febbraio 2016, C-601/15 PPU, J.N.). La direttiva garantisce la tutela di quei soggetti, specie di quelli appartenenti a categorie più vulnerabili (in particolare minori, vittime di tortura e di violenza), ma si preoccupa anche delle condizioni per l’accesso al lavoro, della scolarizzazione dei minori, della formazione professionale, dell’assistenza sanitaria, e così via. Gli obblighi in materia vanno rispettati anche dallo Stato membro che ospita provvisoriamente il soggetto in attesa di trasferirlo allo Stato competente per l’esame della domanda di protezione (v. Corte giust. 27 settembre 2012, C-179/11, Cimade e GISTI). vii) L’art. 78, par. 2, TFUE, indica infine, tra le misure da adottare in materia di asilo, il partenariato e la cooperazione con i paesi terzi per gestire i flussi dei richiedenti asilo o protezione sussidiaria. In materia, sono intervenute varie conclusioni dei Consigli europei e comunicazioni della Commissione, che raccomandano lo sviluppo di quella cooperazione nel quadro di una politica tesa a ridurre le pressioni migratorie, ipotizzando anche la creazione di centri di trattenimento di transito negli Stati terzi; di «programmi di protezione regionale» (PPR), volti ad offrire soluzioni
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durature ai rifugiati nelle loro regioni di origine; e così via. Ma non risulta finora che quei progetti si siano tradotti in testi normativi. viii) Non tra le misure indicate all’art. 78, par. 2, TFUE, di cui si è finora discusso, ma in una distinta e apposita disposizione (art. 78, par. 3, TFUE), si prevede infine l’adozione di misure temporanee per affrontare situazioni di emergenza. Si è già detto che di fronte all’incremento dei flussi migratori, il Trattato ha sollecitato una maggiore solidarietà tra gli Stati membri; si può ora ricordare, con riguardo al tema qui in esame, anche il reg. (UE) n. 439/2010, del PE e del Consiglio, del 19 maggio 2010 (GUUE L 132, 11), che ha istituito l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO), proprio per contribuire all’attuazione del sistema europeo comune di asilo e per rafforzare, sul piano operativo, la cooperazione fra gli Stati membri al riguardo.
6. Segue: c) la politica comune in materia d’immigrazione Quanto infine all’immigrazione, va segnalato che il Trattato impone all’Unione di sviluppare una politica comune «intesa ad assicurare, in ogni fase, la gestione efficace dei flussi migratori, l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri e la prevenzione e il contrasto rafforzato dell’immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani» (art. 79, par. 1, TFUE). Anche in questa materia, dunque, gli interventi dell’Unione devono integrare una «politica», avere cioè un carattere organico, strutturato e tendenzialmente compiuto. E in effetti alla loro conformazione in questi termini hanno contribuito, come già accennato a proposito della «politica» di asilo, vari programmi quinquennali elaborati, a partire dalla fine degli anni ’90, dai Consigli europei, e segnatamente quello già ricordato di Tampere (1999), cui hanno fatto seguito molteplici atti di diritto derivato. Il Trattato di Lisbona segna, però, un ulteriore progresso rispetto alla precedente disciplina del TCE, non solo perché definisce più compiutamente gli obiettivi e i settori di intervento dell’Unione in materia, ma soprattutto perché generalizza il ricorso alla procedura legislativa per l’adozione delle prescritte misure, laddove in precedenza aveva dominato e in parte continuava a sussistere un processo deliberativo imperniato su decisioni unanimi del Consiglio. Questo potrebbe portare in futuro, come preannunciano alcune proposte attualmente in esame, a risultati più incisivi, ancorché lo strumento normativo privilegiato resti tuttora quello della direttiva, che fin qui ha permesso soprattutto di definire standards minimi nei vari settori. Ciò posto, va precisato che il par. 2 dell’art. 79 TFUE definisce due assi di intervento dell’Unione secondo che si abbia riguardo all’immigrazione legale o a quella illegale. Su entrambi i fronti l’Unione ha adottato, come già accennato, una consistente normativa, della quale possiamo qui sintetizzare solo gli aspetti principali. i) Per gli immigrati in situazione regolare è previsto (art. 79, par. 2, lett. a) e b), TFUE) che il legislatore europeo adotti misure specifiche in ordine, da un lato, alla definizione dei diritti dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti in uno Stato membro, comprese le condizioni che disciplinano la libertà di circolazione e di soggiorno negli altri Stati, e dall’altro, alle condizioni di ingresso e soggiorno e alle
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norme sul rilascio di visti e di titoli di soggiorno di lunga durata, compresi quelli rilasciati a scopo di ricongiungimento familiare. Per i primi, a parte alcune direttive settoriali volte a fissare le condizioni e le procedure per l’ammissione delle persone da ciascuna direttiva considerate e a ravvicinare il loro status giuridico a quello dei cittadini, rileva in termini generali la dir. 2011/98/UE, che definisce una procedura unica per il rilascio di un «permesso unico» di soggiorno e di lavoro, nonché un insieme comune di diritti per i cittadini di paesi terzi che lavorano regolarmente in uno Stato membro. Dir. del PE e del Consiglio, del 13 dicembre 2011 (GUUE L 343, 1). Il «permesso unico» dovrebbe essere conforme al modello di permesso di soggiorno definito dal reg. (CE) n. 1030/2002 del Consiglio, del 13 giugno 2002, che stabilisce per l’appunto un modello uniforme di titolo di soggiorno per i cittadini di Stati terzi (GUUE L 157, 1), in corso di sostituzione, con l’aggiunta eventuale delle specificità del nuovo documento, segnatamente per quanto riguarda la possibilità del titolare di restare nel paese per lavorare. In proposito va segnalato che secondo la Corte, il costo della concessione dei permessi di soggiorno a cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo e ai loro familiari non può essere sproporzionato (Corte giust. 26 aprile 2012, C-508/10, Commissione c. Paesi Bassi; 2 settembre 2015, C-309/14, CGIL e INCA). Per le direttive settoriali volte a fissare le condizioni e le procedure per l’ammissione delle persone da esse considerate, v. dir. 2009/50/CE del Consiglio, del 25 maggio 2009, relativa alle condizioni d’ingresso e soggiorno di cittadini di paesi terzi che intendano svolgere lavori altamente qualificati, c.d. direttiva carta blu (GUUE L 155, 17); dir. 2005/71/CE del Consiglio, del 12 ottobre 2005, relativa a una procedura specificamente concepita per l’ammissione di cittadini di paesi terzi a fini di ricerca scientifica (GUUE L 289, 15), poi abrogata dalla dir. (UE) 2016/801 del PE e del Consiglio, dell’11 maggio 2016, relativa alle condizioni d’ingresso e soggiorno dei cittadini di paesi terzi per motivi di ricerca, studio, tirocinio, volontariato, programmi di scambio di alunni o progetti educativi, e collocamento alla pari (GU L 132, 21); e da ultimo la dir. del PE e del Consiglio 2014/66/UE, del 15 maggio 2014, sulle condizioni d’ingresso e soggiorno di cittadini di paesi terzi nell’ambito di trasferimenti intra-societari (GUUE L 157, 1).
La direttiva, che comunque riserva agli Stati membri la determinazione delle condizioni di ammissione di tali lavoratori (ma, ai sensi dell’art. 79, par. 5, TFUE, resta riservata agli Stati membri anche la determinazione del volume d’ingressi, c.d. quote, degli stranieri sul proprio territorio allo scopo di cercarvi un lavoro dipendente o autonomo), assicura in principio il diritto alla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per quanto concerne: le condizioni di lavoro, la libertà di associazione, l’istruzione e la formazione professionale; il riconoscimento di diplomi, certificati e altre qualifiche professionali secondo le procedure nazionali applicabili; la sicurezza sociale; le agevolazioni fiscali; l’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e all’erogazione degli stessi; i servizi di consulenza forniti dai centri per l’impiego. Con riferimento invece ai cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo in uno Stato membro (cinque anni di soggiorno legale e ininterrotto, oltre a reddito sufficiente e assicurazione malattie), la dir. 2003/109/CE, del Consiglio, del 25 novembre 2003 (GUUE L 16, 44, sulla quale, v. Corte giust. 18 ottobre 2012, C502/10, Singh, e 17 luglio 2014, C-469/13, Tahir; 2 settembre 2015, C-309/14, CGIL e INCA, cit.) definisce i diritti di tali soggetti, e segnatamente il conferimento, la re-
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voca e i diritti relativi al loro status, nonché le condizioni che ne disciplinano la libertà di circolazione e di soggiorno negli altri Stati membri. Naturalmente, rispetto alle situazioni appena esaminate e oggetto della dir. 2011/98/UE, il regime definito dalla direttiva ora in esame è ancor più generoso. Con riferimento, ad es., al sussidio per l’alloggio sociale, la Corte ha chiarito che, nella misura in cui esso rientra nei settori contemplati dal principio della parità di trattamento previsto dalla direttiva in esame, gli Stati membri non possono prevedere un trattamento diverso tra i cittadini extracomunitari e cittadini dello Stato membro in cui risiedono (Corte giust. 24 aprile 2012, C571/10, Kamberaj. In materia, peraltro, v. anche Corte giust. 11 novembre 2014, C-333/13, Dano; 15 settembre 2015, C-67/14, Alimanovic; 25 febbraio 2016, C-299/14, Garcia Nieto; 21 aprile 2016, C-558/14, Mimoun Khachab; 21 giugno 2017, C-449/16, Martinez Silva).
Soprattutto tale regime consente allo straniero di soggiornare per un periodo superiore ai tre mesi nel territorio di un altro Stato membro, diverso da quello dell’iniziale soggiorno, anche al fine di esercitare un’attività economica, autonoma o dipendente, o di frequentare corsi di studio o formazione professionale, e ciò continuando a godere di tutti i diritti di cui beneficiava nel primo Stato, almeno fino all’eventuale acquisizione del medesimo status nel secondo Stato membro dopo cinque anni di residenza regolare. La medesima possibilità è concessa dalla citata dir. 2009/50 per i cittadini di paesi terzi che intendano svolgere lavori altamente qualificati, e che abbiano già soggiornato legalmente per almeno 18 mesi nel primo Stato membro. Le predette direttive sono completate dalla dir. 2003/86/CE, del Consiglio, del 22 settembre 2003 (GUUE L 251, 12), relativa al diritto al ricongiungimento familiare (v. su di essa, Corte giust. 6 dicembre 2012, C-356/11 e C-357/11, O. e S., nonché 17 luglio 2014, C-338/13, Noorzia; e la già cit. Mimoun Khachab), che permette a un cittadino di un paese terzo per l’appunto il ricongiungimento con i suoi familiari non cittadini dell’Unione, purché sia titolare di un permesso di soggiorno rilasciato da uno Stato membro per un periodo di validità pari o superiore ad un anno e abbia una fondata prospettiva di ottenere il diritto di soggiornare in modo stabile. La direttiva definisce anche la nozione di «familiari», privilegiando criteri tradizionali e però consentendo agli Stati membri di includere nella stessa anche altre situazioni (ad esempio, il partner non coniugato), ma pure di introdurre delle limitazioni. Ritenendo che la possibilità di tali limitazioni fosse incompatibile con la tutela dei diritti fondamentali, il PE ha impugnato la direttiva con un ricorso che però la Corte ha respinto affermando che, se anche così fosse in astratto, gli Stati membri sono tenuti comunque a esercitare i poteri discrezionali a essi concessi nel rispetto dei diritti fondamentali (Corte giust. 27 giugno 2006, C540/03, Parlamento c. Consiglio, I-5769). In senso ugualmente restrittivo rispetto all’eventuale esercizio dei poteri dello Stato suscettibile di pregiudicare gli obiettivi della direttiva e il suo effetto utile (realizzare cioè il ricongiungimento familiare), v. Corte giust. 4 marzo 2010, C-578/08, Chakroun, I-1839.
Per connessione, si può ancora ricordare che, per incentivare e sostenere l’azione degli Stati membri volta a favorire l’integrazione dei cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti nel loro territorio, l’art. 79, par. 4, TFUE, ha attribuito al Parlamento europeo e al Consiglio la competenza a stabilire, deliberando secondo la pro-
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cedura legislativa ordinaria, misure destinate ad attuare quell’obiettivo. L’esigenza sottostante a tale disposizione era ben presente da tempo alle istanze politiche dell’Unione, che ne hanno fatto oggetto, nel più generale contesto della politica di immigrazione, di conclusioni del Consiglio europeo, di programmi di azione e «agende» varie. La ricordata disposizione permette ora di dare una base giuridica a quelle iniziative, anche se siamo qui in presenza di una mera competenza di sostegno, visto che la norma esclude qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. Tra i programmi d’azione ci limitiamo a ricordare i Principi Base Comuni in materia d’integrazione, adottati dal Consiglio europeo dell’Aja (novembre 2004), poi sviluppati dalla Commissione nell’Agenda Comune per l’Integrazione (COM (2005) 389 def.) e nella comunicazione Agenda europea per l’integrazione dei cittadini di paesi terzi del 20 luglio 2011 (COM (2011) 455 def.). Come misura concreta, comunque, si ricorda solo l’adozione, sulla base dell’art. 63 TCE, della dec. del Consiglio del 25 giugno 2007, che istituisce il Fondo europeo per l’integrazione di cittadini di paesi terzi nell’ambito del programma generale «Solidarietà e gestione dei flussi migratori» (GUUE L 168, 18).
ii) Quanto invece all’immigrazione clandestina e al soggiorno irregolare, compresi l’allontanamento e il rimpatrio delle persone in soggiorno irregolare, va ricordata soprattutto la dir. 2008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (c.d. direttiva rimpatri). Dir. del PE e del Consiglio, del 16 dicembre 2008 (GUUE L 348, 98), nonché la raccomandazione 2017/432/UE, della Commissione del 7 marzo 2017, volta a facilitare i rimpatri (GUUE L 66, 15). V. anche il reg. 2016/1953/UE, del PE e del Consiglio, del 26 ottobre 2016, relativo all’istituzione di un documento di viaggio europeo per il rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (GUUE L 311, 13). Per aspetti più specifici, ma non meno importanti, vanno anche menzionate la dir. 2001/51/CE del Consiglio, del 28 giugno 2001 (GUCE L 187, 45), che integra le disposizioni dell’art. 26 della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen del 14 giugno 1985, il quale a sua volta armonizzava le sanzioni pecuniarie imposte ai vettori che trasportavano nel territorio dei paesi dell’UE cittadini di paesi terzi privi dei documenti d’ingresso necessari, e la dir. 2009/52/CE del PE e del Consiglio, del 18 giugno 2009 (GUUE L 168, 24), che introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, sanzioni che, nei casi più gravi, possono avere anche natura penale.
La direttiva fissa regole comuni, definendo condizioni, modalità e procedure molto puntuali relativamente tanto all’espulsione degli immigrati in posizione irregolare, quanto al loro trattenimento in attesa dell’allontanamento, e ciò soprattutto al fine di garantire il rispetto dei diritti fondamentali, ma anche per tener conto degli interessi dei minori, della vita familiare e delle condizioni di salute dello straniero. Per quanto riguarda in particolare l’allontanamento, è previsto che la relativa decisione sia sottoposta a precise regole procedurali e formali e deve poter essere oggetto di ricorso. Nelle more, e in assenza di altre soluzioni meno coercitive, lo Stato può trattenere il soggetto in appositi centri di permanenza temporanea fino ad un massimo di 18 mesi, avendo però presente che la privazione della libertà personale è solo
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strumentale alla finalità della direttiva, cioè al rimpatrio volontario. Il trattenimento deve avere quindi la più breve durata possibile, deve protrarsi solo per il tempo necessario all’espletamento diligente delle modalità di rimpatrio, va riesaminato a intervalli ragionevoli e deve in ogni caso cessare appena risulti che non esiste più una prospettiva ragionevole di allontanamento. Essendo preoccupata soprattutto di garantire i diritti dello straniero, la direttiva lascia comunque sussistere serie incertezze sui seguiti da dare all’eventuale fallimento dei tentativi di allontanamento. Nel silenzio della direttiva, infatti, spetta agli Stati membri decidere al riguardo, eventualmente anche sanzionando penalmente il soggiorno divenuto intanto irregolare, ma ciò a patto di non pregiudicare le finalità e l’effetto utile della direttiva. Il che francamente non pare molto … illuminante. V. Corte giust. 28 aprile 2011, C-61/11 PPU, El Dridi, I-3015; 6 dicembre 2011, C-329/11, Achghubabian, I-12695; nonché 6 dicembre 2012, C-430/11, Sagor. Sulla dir. 2011/85, v. anche Corte giust. 30 maggio 2013, C-534/11, Arslan; 10 settembre 2013, C-383/13 PPU, G. e R.; 19 settembre 2013, C-297/12, Filev e Osmani; 15 febbraio 2016, C-601/15 PPU, J.N.; 7 giugno 2016, C47/15, Affum.
Sempre con riguardo all’immigrazione irregolare, va ricordato che l’art. 79, par. 2, TFUE si occupa anche della lotta contro la tratta degli esseri umani, in particolare donne e minori. In materia, erano già intervenute, ma fondandosi su basi giuridiche di diversa natura (terzo pilastro e art. 63 TCE), la decisione-quadro 2002/629/GAI, sulla lotta alla tratta degli esseri umani, e la dir. 2004/81/CE, riguardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di paesi terzi vittime della tratta di esseri umani o coinvolti in un’azione di favoreggiamento dell’immigrazione illegale che cooperino con le autorità competenti. V. dir. del Consiglio, del 29 aprile 2004 (GUUE L 261, 19). Per la decisione-quadro, v. dec. del Consiglio, del 19 luglio 2002, sulla lotta alla tratta degli esseri umani (GUUE L 203, 1). La direttiva impone agli Stati membri di considerare come reati simili comportamenti e di punirli con sanzioni penali «efficaci, proporzionate e dissuasive».
L’art. 79 TFUE ha dato non solo visibilità, ma anche un’autonoma base giuridica alla materia, della quale comunque si occupano altresì, come più avanti vedremo, le disposizioni del TFUE relative alla cooperazione giudiziaria in materia penale (art. 83 TFUE), sulla cui base (ma non solo) è stata adottata la dir. 2011/36/UE del PE e del Consiglio, del 5 aprile 2011 (GUUE L 101, 1), concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, e che sostituisce la ricordata decisione-quadro del Consiglio 2002/629/GAI. iii) La disciplina dell’immigrazione irregolare è completata, sempre ai sensi dell’art. 79 TFUE (par. 3), dalla previsione di una specifica base giuridica per la conclusione di accordi di riammissione di stranieri che non posseggano più le condizioni per l’ingresso, la presenza o il soggiorno nel territorio di uno degli Stati membri. Tali accordi che, com’è noto, costituiscono strumenti indispensabili per un’efficace lotta all’immigrazione irregolare, erano stati stipulati anche prima del Trattato di Lisbona
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sulla base del principio del parallelismo delle competenze esterne e delle competenze interne. Ora la competenza dell’Unione in materia viene rafforzata, anche se resta concorrente con quella degli Stati membri, i quali rimangono quindi liberi, nei limiti generali dell’esercizio di siffatte competenze, di concludere autonomamente quegli accordi (v. dir. 2008/15/UE, del PE e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri a detti rimpatri, GUUE L 348, 98).
7. Lo spazio di giustizia: la cooperazione giuridica e giudiziaria in materia civile Come si è già anticipato nel par. 1, il settore della cooperazione giudiziaria in materia civile è quello nel quale, per le ragioni allora indicate, più antica è la cooperazione tra gli Stati membri, prima tra loro e poi in seno all’Unione. Per le medesime ragioni, il Trattato di Lisbona ha ora inserito organicamente tale cooperazione nello SLSG, come componente unica del settore «giustizia» di tale spazio. A dettarne i contorni provvede l’art. 81 TFUE: secondo tale disposizione, l’Unione «sviluppa una cooperazione giudiziaria nelle materie civili con implicazioni transnazionali, fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali [la quale] può includere l’adozione di misure intese a ravvicinare le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri». Per conseguire tale risultato, il par. 2 dell’art. 81 TFUE attribuisce al legislatore dell’Unione la competenza ad adottare, con la procedura legislativa ordinaria, misure volte a garantire: a) il riconoscimento reciproco tra gli Stati membri delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali e la loro esecuzione; b) la notificazione e la comunicazione transnazionali degli atti giudiziari ed extragiudiziali; c) la compatibilità delle regole applicabili negli Stati membri ai conflitti di leggi e di giurisdizione; d) la cooperazione nell’assunzione dei mezzi di prova; e) un accesso effettivo alla giustizia; f) l’eliminazione degli ostacoli al corretto svolgimento dei procedimenti civili, se necessario promuovendo la compatibilità delle norme di procedura civile applicabili negli Stati membri; g) lo sviluppo di metodi alternativi per la risoluzione delle controversie; h) un sostegno alla formazione dei magistrati e degli operatori giudiziari. In quasi tutti questi settori, peraltro, erano già intervenuti, anche prima del Trattato di Lisbona, numerosi atti di diritto derivato. Su di essi torneremo tra breve; per ora conviene precisare alcuni aspetti generali della disposizione. Anzitutto va sottolineato che alla base della normativa in esame vi è il principio del riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali, principio la cui portata va definita in senso ampio, e quindi eventualmente comprensiva anche di decisioni di natura non giurisdizionale, dal momento che, a causa delle diversità tra gli ordinamenti nazionali, provvedimenti che negli uni hanno natura amministrativa negli altri sono qualificati come giurisdizionali e viceversa. Il principio in parola, già evocato in termini generali dall’art. 67, par. 4, TFUE, come principale strumento per facilitare l’obiettivo dell’accesso alla giustizia, si fonda sulla fiducia reciproca tra
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gli ordinamenti degli Stati membri, che, come ha notato la Corte, costituisce l’autentica «pietra angolare» del sistema, e ciò in relazione sia per l’appunto alla cooperazione in materia civile, che, come vedremo nel prossimo paragrafo, a quella in materia penale, ma anche in termini più generali per tutto il sistema dell’Unione (v. parere 18 dicembre 2014, 2/13, sull’adesione dell’Unione alla CEDU). Per quanto concerne specificamente il tema ora in esame, a parte le misure di attuazione della cooperazione di cui subito parleremo, che di per sé favoriscono tale fiducia, va segnalato che varie altre sono state adottate a supporto e a rafforzamento di detta fiducia. Tra queste, una menzione particolare merita la creazione della Rete giudiziaria europea. V. la dec. 2001/470/CE del Consiglio, del 27 giugno 2001, che istituisce una Rete giudiziaria europea (GUCE L 174, 25). La Rete ha il compito di agevolare la cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri in materia civile e commerciale, compresi l’ideazione, la progressiva predisposizione e l’aggiornamento di un sistema d’informazione destinato ai membri della rete; nonché di ideare, predisporre progressivamente e tenere aggiornato un sistema d’informazione accessibile al pubblico. Essa si compone di punti di contatto designati dagli Stati membri; di organi centrali ed autorità centrali previsti da atti comunitari, strumenti internazionali cui gli Stati membri partecipano o norme di diritto interno nella sfera della cooperazione giudiziaria in materia civile e commerciale; di magistrati di collegamento previsti dall’azione comune 96/277/GAI, di cui diremo più avanti; di qualsiasi altra autorità giudiziaria o amministrativa competente per la cooperazione giudiziaria in materia civile e commerciale la cui appartenenza alla rete sia giudicata opportuna dal rispettivo Stato membro. Per le altre iniziative, v., ad es., la dec. 1149/2007/CE del PE e del Consiglio, del 25 settembre 2007, che istituisce il programma specifico Giustizia civile per il periodo 2007-2013 come parte del programma generale Diritti fondamentali e giustizia (GUUE L 257, 16). V. anche, di recente, il reg. (UE) 1382/2013 del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, che istituisce un programma Giustizia per il periodo 2014-2020 (GUUE L 354, 73), nel solco del ricordato programma di Stoccolma. È proprio nell’ottica di rafforzare la fiducia reciproca che vanno inquadrati molti degli interventi elencati dall’art. 81 TFUE, come, ad es., il sostegno alla formazione dei magistrati e degli operatori giudiziari (art. 81, par. 2, lett. h), TFUE), ma anche quelli, di cui si è detto più sopra, relativi alla valutazione congiunta dell’attuazione da parte degli Stati membri delle norme relative allo SLSG, concepita in particolare proprio per favorire «la piena applicazione del principio di riconoscimento reciproco» (art. 70 TFUE).
Va poi chiarito che la competenza di cui si discute è una competenza concorrente attribuita all’Unione, il che comporta che gli Stati membri possono anch’essi legiferare in materia nel caso in cui l’Unione non lo abbia già fatto. Ed essa può farlo, come si è detto, con misure legislative, adottate secondo la relativa procedura ordinaria, salvo che si tratti di misure attinenti ad aspetti del diritto di famiglia aventi implicazioni transnazionali. Per tali misure, data la delicatezza della materia, decide invece il Consiglio all’unanimità, previa consultazione del Parlamento europeo; una clausola passerella permette però al Consiglio, con la medesima procedura, di decidere il passaggio alla procedura legislativa ordinaria anche per dettare la disciplina di tutti o alcuni di quegli aspetti del diritto di famiglia. Ciò tuttavia a condizione che non scatti l’opposizione di uno qualsiasi dei parlamenti nazionali entro sei mesi dall’informazione che deve essere loro data al riguardo, perché in tale eventualità la decisione non può essere adottata (art. 81, par. 3, TFUE).
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Va anche notato che gli atti dell’Unione di cui si discute possono ora includere, sempre nel rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, misure intese a ravvicinare le disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. L’esercizio di tale competenza è però consentito «in particolare se necessario al buon funzionamento del mercato interno»; il che per un verso limita le condizioni per l’intervento dell’Unione («se necessario»), ma per l’altro lo svincola dall’esclusivo riferimento alla realizzazione del mercato interno, consentendo così misure che trascendono tale obiettivo. Ciò permette di considerare l’art. 81 TFUE come base giuridica autonoma per tali ulteriori ambiti di competenza materiale, anche quindi con esclusione di quella generale in tema di ravvicinamento delle legislazioni, di cui si dirà più avanti. Sempre in termini generali, va poi aggiunto che la competenza dell’Unione in esame può esercitarsi solo nelle materie civili con «implicazioni transfrontaliere», e cioè solo se i rapporti giuridici rilevanti presentino, a qualsiasi titolo, un collegamento con più Stati membri. A questo proposito, conviene osservare che la competenza di cui si discute non è limitata alla disciplina delle fattispecie interne all’Unione, ma include presumibilmente (sebbene le opinioni non siano unanimi) anche quella relativa ai rapporti giuridici collegati con Stati terzi o con loro cittadini. Indicazioni in tal senso possono dedursi da Corte giust. 1° marzo 2005, C-281/02, Owusu, I1383 e, secondo alcuni, anche dal parere 1/03, del 7 febbraio 2006, sulla competenza della Comunità a concludere la Convenzione di Lugano sulla competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, di cui si dirà tra breve. Ulteriori appigli a tale ricostruzione sono ora offerti dal reg. n. 1215/2012, di cui pure si dirà tra breve: v., in particolare, artt. 33 e 34 del reg. n. 1215/2012 (introdotti per la prima volta da questo stesso regolamento), in tema di litispendenza e connessione (per così dire) «internazionali».
Ciò chiarito, si possono ora rapidamente esaminare i singoli aspetti della cooperazione, indicati dall’art. 81, par. 2, TFUE, e sopra elencati, avvertendo peraltro che molti di essi in realtà concernono più d’uno di quegli aspetti. a) Per quanto concerne anzitutto il riconoscimento reciproco tra gli Stati membri delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali e la loro esecuzione, è noto che la materia fu oggetto della storica Convenzione di Bruxelles conclusa tra gli Stati membri il 27 settembre 1968, che è stata per molti anni all’origine di approfondite analisi della dottrina e di una importante e consistente prassi giurisprudenziale. La Convenzione è stata più volte modificata (per la versione consolidata, v. GUCE C 27/1998, 1). Essa fu poi affiancata il 16 settembre 1988 dalla Convenzione di Lugano, avente il medesimo oggetto ma conclusa tra gli allora Stati membri della CE e alcuni Stati membri dell’EFTA (GUCE L 319/1988, 9), e che è stata a sua volta sostituita il 30 ottobre 2007 da un nuovo accordo tra la Comunità, la Danimarca, l’Islanda, la Norvegia e la Svizzera (c.d. Convenzione di Lugano 2007, GUUE L 147/2009, 5). L’importanza della Convenzione è stata accresciuta soprattutto grazie all’attribuzione alla Corte di giustizia della competenza ad interpretarla in via pregiudiziale. A tal fine, poiché la Convenzione non era ricompresa tra i testi indicati dall’allora art. 177 TCEE (oggi: art. 267 TFUE) e non era quindi riconducibile alla competenza pregiudiziale della Corte, si rese necessario stipulare un apposito accordo tra gli Stati membri, il Protocollo del 3 giugno 1971, che attribuì alla Corte detta competenza, ma con alcune importanti modifiche rispetto allo schema abituale di quella competenza. In particolare: obbligo di rinvio solo per le giurisdizioni di ultima
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istanza espressamente menzionate (per l’Italia, la Corte di Cassazione); mera facoltà per le giurisdizioni di appello e per quelle competenti ai sensi della stessa Convenzione a promuovere opposizione contro l’esecuzione di una sentenza straniera; esclusione dei giudici di primo grado dal meccanismo.
I risultati di tale elaborazione sono stati recepiti e valorizzati dal reg. (CE) n. 44/2001 del Consiglio, sulla competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, che ha sostituito la Convenzione, ma che è stato poi a sua volta sostituito da un nuovo regolamento, ossia dal reg. (UE) n. 1215/2012 del PE e del Consiglio, del 12 dicembre 2012 (GUUE L 351, 1) più volte modificato, fondato proprio sull’art. 81, par. 2, TFUE, e volto ad aggiornare il precedente anche per tener conto dell’ulteriore, copiosa giurisprudenza della Corte in materia. Il reg. n. 44/2001 è il regolamento del Consiglio, del 22 dicembre 2000 (GUCE L 12, 1): esso non si applicava alla Danimarca, con la quale fu concluso un apposito accordo (v. dec. 2006/325/CE del Consiglio, GUCE L 120, 22). In materia, si segnala inoltre che l’Unione ha aderito alla Convenzione sugli accordi di scelta del foro, del 30 giugno 2005, elaborata nell’ambito dalla conferenza dell’Aia di diritto internazionale privato (v. la dec. 2009/397/CE del Consiglio, del 26 febbraio 2009, relativa alla firma di tale convenzione, in GUUE L 133, 1). Va sottolineato che la derivazione del regolamento dalla Convenzione non è stata senza conseguenze. Sebbene infatti le disposizioni del regolamento debbano essere interpretate in modo autonomo, alla luce del loro sistema e delle loro finalità (v., tra le tante, Corte giust. 13 luglio 2006, C-103/05, Reisch Montage, I-6827; 23 aprile 2009, C-167/08, Draka NK Cables e a., I-3477; 16 luglio 2009, C-189/08, Zuid-Chemie, I6917), la Corte ha sempre fatto riferimento, all’occorrenza, alla Convenzione per l’interpretazione le corrispondenti previsioni del regolamento (v., ad es., tra le più recenti, Corte giust. 18 ottobre 2011, C-406/09, Realchemie Nederland, I-9773; 25 ottobre 2011, C-509/09 e C-161/10, eDate Advertising, I-10269; nonché 15 giugno 2017, C-249/16, Kareda; e 13 luglio 2017, C-433/16, Bayerische Motoren Werke).
Naturalmente, non è qui possibile soffermarsi, neppure per rapidi accenni, sui contenuti del regolamento e sull’interpretazione che ne ha fatto la Corte. Ci limitiamo quindi a segnalare che, per l’aspetto ora in considerazione, esso non è rimasto isolato, perché altre normative si sono via via aggiunte per assicurare, sul medesimo modello, la cooperazione giudiziaria in materie che ne erano rimaste escluse. Questo vale, in particolare, per le decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale; per le procedure d’insolvenza; per il titolo esecutivo europeo per i crediti non contestati; per i procedimenti d’ingiunzione di pagamento; per le decisioni in materia di obbligazioni alimentari; per gli atti pubblici in materia di successioni e la creazione di un certificato successorio europeo; e per le misure di protezione in materia civile. Cfr. i regolamenti del Consiglio, rispettivamente: 2201/2003, del 27 novembre 2003, sulla competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale (GUUE L 338, 1) (che è stato oggetto, ex multis, delle sentenze 22 dicembre 2010, C-91/10 PPU, Aguirre Zarraga, I-14247; 26 aprile 2012, C-92/12 PPU, Health Service Executive; 9 gennaio 2015, C-498/14 PPU, Bradbrooke; 19 novembre 2015, C-455/15 PPU, P; 15 febbraio 2017, C-499/15, W e V; e 8 giugno 2017, C-111/17 PPU, OL); 1346/2000, del 29 maggio 2000, relativo alle procedure di insolvenza (GUUE L 160, 1), sostituito poi dal reg.
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2015/848, del PE e del Consiglio, del 20 maggio 2015, rispetto al quale v. Corte giust. 19 aprile 2012, C-213/10, F-Tex, 5 luglio 2012, C-527/10, ERSTE Bank Hungary, 22 novembre 2012, C116/11, Bank Handlowy e Adamiak, e 19 settembre 2013, C-251/12, van Buggenhout e van de Mierop (faillite Grontimmo); nonché i regolamenti del PE e del Consiglio: 805/2004, del 21 aprile 2004, che istituisce il titolo esecutivo europeo per i crediti non contestati (GUUE L 143, 15), sul quale v. Corte giust. 15 marzo 2012, C-292/10, G, 5 dicembre 2013, C-508/12, Vapenik, e 9 marzo 2017, C-484/15, Zulfikarpašić; 1896/2006, del 12 dicembre 2006 (poi modificato), che istituisce un procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento (GUUE L 399, 1), relativamente al quale v. Corte giust. 13 dicembre 2012, C-215/11, Szyrocka, 13 giugno 2013, C-144/12, Goldbet Sportwetten, e 10 marzo 2016, C-94/14, Flight Refund; 4/2009, del 18 dicembre 2008, relativo a competenza, legge applicabile, esecuzione delle decisioni e cooperazione in materia di obbligazioni alimentari (GUUE L 7, 1), con riferimento al quale, v., di recente, sentenza W e V, cit.; 650/2012, del 4 luglio 2012, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni e alla creazione di un certificato successorio europeo (GUUE L 201, 107); 606/2013, del 12 giugno 2013, relativo al riconoscimento reciproco delle misure di protezione in materia civile (GUUE L 181, 4); 2016/1103 e 2016/1104, del 24 giugno 2016, che istituisce una cooperazione rafforzata tra alcuni Stati membri (tra cui l’Italia) nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali tra coniugi e di effetti patrimoniali delle unioni registrate (GUUE L 183, 1 e 30). Rispetto a (taluni di) questi ambiti, v. anche reg. (CE) n. 664/2009 del Consiglio, del 7 luglio 2009, che istituisce una procedura per la negoziazione e la conclusione di accordi tra Stati membri e paesi terzi riguardanti la competenza, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale, in materia di responsabilità genitoriale e di obbligazioni alimentari, e la legge applicabile in materia di obbligazioni alimentari (GUUE L 200, 46). Relativamente a quest’ultima materia, v. inoltre la dec. 2009/941/CE del Consiglio, del 30 novembre 2009, relativa alla conclusione da parte della Comunità europea del Protocollo dell’Aia, del 23 novembre 2007, sulla legge applicabile alle obbligazioni alimentari (GUUE L 331, 17).
b) In tema poi di notificazione e comunicazione transnazionali degli atti giudiziari ed extragiudiziali, rileva il reg. (CE) n. 1393/2007 del PE e del Consiglio, del 13 novembre 2007, relativo alla notificazione e alla comunicazione tra gli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile e commerciale (GUUE L 324, 79), sul quale v. Corte giust. 19 dicembre 2012, C-325/11, Alder e Alder. c) Risultati importanti sono stati realizzati anche quanto all’obiettivo della compatibilità delle regole applicabili ai conflitti di leggi e di giurisdizione. Questo vale in particolare per quanto riguarda la legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, regolata dal reg. (CE) n. 593/2008, che ha sostituito la «storica» Convenzione di Roma del 1980. V. reg. del PE e del Consiglio, del 17 giugno 2008, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I) (GUUE L 177, 6), sul quale v. Corte giust. 12 settembre 2013, C-64/12, Schlecker; 17 ottobre 2013, C-184/12, UNAMAR; 7 aprile 2016, C-483/14, KA Finanz; 18 ottobre 2016, C-135/15, Nikiforidis. Vale la pena ricordare che anche tale Convenzione, come quella di Bruxelles del 1968, era stata sottoposta alla competenza pregiudiziale alla Corte, ma non essendovi in questo caso alcuna norma dei Trattati che collegasse la Convenzione al diritto comunitario, detta competenza fu istituita e poi attribuita alla Corte con due distinti Protocolli, firmati contestualmente a Bruxelles il 19 dicembre 1988. Essi ripetevano lo schema poc’anzi descritto per il Protocollo del 1971 relativo alla Convenzione di Bruxelles del 1968, ma il rinvio pregiudiziale restava facoltativo anche per i giudici di ultima istanza.
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Ma questo vale anche per la legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali, mentre per la legge applicabile al divorzio e alla separazione personale al momento c’è solo una cooperazione rafforzata. Cfr., nell’ordine: il reg. (CE) 864/2007 del PE e del Consiglio, dell’11 luglio 2007, sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (Roma II) (GUUE L 199, 40), sul quale v. Corte giust. 17 novembre 2011, C-412/10, Homawoo, I-11603; il reg. (UE) 1259/2010 del Consiglio, del 20 dicembre 2010, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale (GUUE L 343, 10), relativamente al quale v. le conclusioni dell’AG Saugmandsgaard Øe nella causa pendente C-372/16, Sahyouni. In materia, va anche ricordata la dec. 2006/719/CE del Consiglio, del 5 ottobre 2006, sull’adesione della Comunità alla conferenza dell’Aia di diritto internazionale privato (GUUE L 297, 1), nonché il reg. (CE) n. 662/2009 del PE e del Consiglio, del 13 luglio 2009, che istituisce una procedura per la negoziazione e la conclusione di accordi tra Stati membri e paesi terzi su particolari materie concernenti la legge applicabile alle obbligazioni contrattuali ed extracontrattuali (GUUE L 200, 25).
d) Per quanto riguarda poi la cooperazione nell’assunzione dei mezzi di prova, si deve segnalare l’apposito reg. (CE) n. 1206/2001 del Consiglio, del 28 maggio 2001, relativo alla cooperazione fra le autorità giudiziarie degli Stati membri nel settore dell’assunzione delle prove in materia civile e commerciale (GUCE L 174, 1), sul quale v. Corte giust. 6 settembre 2012, C-170/11, Lippens e a., e 21 febbraio 2013, C-332/11, ProRail. e) Alcuni degli atti fin qui evocati possono poi essere richiamati anche per il profilo relativo all’accesso effettivo alla giustizia. Questo vale, ad esempio, per il reg. 1215/2012, cit. sub a). Ma si può ricordare al riguardo anche la dir. 2003/8/CE del Consiglio, del 27 gennaio 2003, intesa a migliorare l’accesso alla giustizia nelle controversie transfrontaliere attraverso la definizione di norme minime comuni relative al patrocinio a spese dello Stato in tali controversie (GUCE L 26, 41, come rettificata), con riguardo alla quale v., di recente, Corte giust. 26 luglio 2017, C-670/15, Šalplachta. f) Quanto all’eliminazione degli ostacoli allo svolgimento dei processi civili, oltre alcuni degli atti già menzionati (come, ad esempio, il già citato reg. n. 606/2013, relativo al riconoscimento reciproco delle misure di protezione in materia civile), si può segnalare anche il reg. (CE) n. 861/2007 del PE e del Consiglio, dell’11 luglio 2007, che istituisce un procedimento europeo per le controversie di modesta entità (GUUE L 199, 1), modificato dal reg. delegato (UE) n. 2017/1259, della Commissione, del 19 giugno 2017 (GUUE L 182, 2). g) Per i metodi alternativi per la soluzione delle controversie, merita di essere ricordata in modo particolare la dir. 2008/52/CE del PE e del Consiglio, del 21 maggio 2008, relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale (GUUE L 136, 3), relativamente alla quale v., di recente, Corte giust. 14 giugno 2017, C-75/16, Menini e Rampanelli. h) Numerose e di varia natura sono infine le iniziative dell’Unione per il sostegno alla formazione dei magistrati, cui l’Unione porta grande attenzione, e ben prima
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della previsione a livello di Trattato di una simile competenza. Un’attenzione, va detto, che inizialmente non ha trovato piena corrispondenza nelle competenti strutture nazionali, ma che da qualche tempo comincia a dare finalmente i suoi frutti, e di ancor più significativi è destinata a darne. Se l’onere principale della realizzazione di simili iniziative ricade ovviamente sulla Commissione, la quale ha varato vari programmi a tal fine, anche altre istituzioni, e in particolare la Corte di giustizia, concorrono in questa direzione. Tra i vari programmi e iniziative, ci limitiamo a segnalare, oltre la già ricordata Rete giudiziaria europea, che ha però compiti più ambiziosi, al pari dell’azione comune 96/277/GAI, del 22 aprile 1996, relativa ad un quadro di scambio di magistrati di collegamento diretto a migliorare la cooperazione giudiziaria fra gli Stati membri dell’Unione europea (GUCE L 105, 1), il programma Grotius, istituito con azione comune 96/636/GAI del Consiglio, del 28 ottobre 1996, di incoraggiamento e di scambi destinato agli operatori della giustizia (GUCE L 287, 3), successivamente rinnovato in materia di diritto civile e anche ampliato all’ambito penale (v., rispettivamente, il reg. (CE) n. 290/2001 del Consiglio, del 12 febbraio 2001, in GUCE L 43, 1; e la dec. 2001/512/GAI del Consiglio, del 28 giugno 2001, in GUCE L 186, 1); nonché, sia pur non limitata ai magistrati, l’azione Schuman, istituita con dec. 1496/98/CE del PE e del Consiglio, del 22 giugno 1998, relativa ad un programma di azione per una maggiore sensibilizzazione degli operatori del diritto comunitario (GUCE L 196, 24). Queste ultime iniziative (tutte sottoposte a termine, peraltro già scaduto) sono state poi ‘inquadrate’ nel reg. (CE) n. 743/2002 del Consiglio, del 25 aprile 2002, che istituisce un quadro generale comunitario di attività per agevolare la cooperazione giudiziaria in materia civile (GUCE L 115, 1). Ancor più recentemente, v. la risoluzione del Consiglio relativa alla formazione dei giudici, dei procuratori e degli operatori giudiziari nell’Unione europea (in GUUE C 299/2008, 1); e le Conclusioni del Consiglio sulla formazione giudiziaria europea del 27 ottobre 2011 (GUUE C 361, 7), che incoraggia a rafforzare le iniziative in atto e a promuoverne altre. Tra queste ricordiamo ancora la creazione della piattaforma Justice Forum, di cui alla comunicazione della Commissione relativa alla creazione di un forum di discussione sulle politiche e sulle prassi dell’Unione nel settore della giustizia (COM (2008) 38 def.), con lo scopo di rafforzare la fiducia reciproca tra gli operatori del diritto dell’Unione e promuovere le migliori prassi nei sistemi giudiziari degli Stati membri. Tra le (autonome) iniziative per il sostegno alle attività dei magistrati si può infine segnalare la costituzione a livello europeo di attive associazioni tra le giurisdizioni dei vari ordini e gradi e perfino dei Consigli superiori della magistratura o di loro equivalenti.
8. Lo spazio di sicurezza: la cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale Lo spazio di sicurezza rappresenta uno dei risultati più significativi del Trattato di Lisbona, di certo quello suscettibile dei più promettenti sviluppi. La «comunitarizzazione» della cooperazione in materia penale e di polizia, e le connesse implicazioni, aprono infatti prospettive assai interessanti e di certo fino a poco tempo fa impensabili in un settore nel quale gli Stati avevano sempre gelosamente difeso la propria sovranità, limitando al classico lumicino le aperture ad una collaborazione internazionale. Dopo i lenti e faticosi progressi di cui si è detto in precedenza, il Trattato di Lisbona dedica ormai alla materia una disciplina molto più organica, compiuta e puntuale, che, seppur rimessa per la sua concretizzazione all’iniziativa del legi-
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slatore dell’Unione, contiene comunque tutte le potenzialità per gli auspicati sviluppi, che si stanno in effetti già esprimendo in questi anni sia con l’aggiornamento di molti atti per così dire di prima generazione, sia con nuove e più avanzate normative. Ma l’importanza di tali sviluppi va anche al di là della pur utile collaborazione, normativa e operativa, che essi favoriscono nella lotta ai diversi tipi di criminalità che ne sono oggetto. In realtà, la crescente produzione normativa che ne risulta, i connessi processi di armonizzazione legislativa, lo sviluppo di prassi di collaborazione tra gli operatori di giustizia degli Stati membri e tra le forze di polizia, stanno altresì stimolando, nella prassi ma soprattutto in dottrina, un sempre più approfondito confronto sui tradizionali principi del diritto penale degli Stati membri, sulla loro adeguatezza alle esigenze della lotta ai c.d. «eurodelitti» e sulla eventuale necessità di un loro adattamento in ragione delle finalità del processo d’integrazione e degli specifici processi decisionali dello stesso, ma soprattutto in funzione del rispetto molto rigoroso dei diritti fondamentali e delle pertinenti garanzie procedurali. L’iniziale disinteresse della dottrina penalistica europea, con l’eccezione di qualche coraggioso pioniere, volge dunque o dovrà comunque volgere al termine, per tradursi nell’impegno a un confronto costruttivo e soprattutto in uno sforzo di studio e approfondimento di innovazioni, che legittimamente e spesso fondatamente sollevano problemi, perplessità e resistenze, ma con le quali ormai non si potrà non fare i conti. Ciò posto, va ricordato che, allo stato, la disciplina dello spazio di sicurezza si articola su due Capi del Titolo (V) oggetto del presente Capitolo, i quali regolano in modo distinto due settori che in precedenza erano trattati non solo congiuntamente, ma anche, va detto, in modo un po’ confuso: il Capo 4, dedicato alla cooperazione giudiziaria in materia penale, ed il Capo 5, dedicato alla cooperazione di polizia. Di quest’ultimo ci occuperemo più avanti. Quanto al primo, va detto che esso si articola, a sua volta, su tre filoni: il reciproco riconoscimento delle decisioni penali (art. 82 TFUE); il ravvicinamento delle legislazioni penali degli Stati membri (artt. 82 e 83 TFUE); la prevenzione della criminalità (art. 84 TFUE). Sono inoltre definiti il ruolo e i compiti di Eurojust (art. 85 TFUE) e sono poste le basi per l’istituzione di una Procura europea (art. 86 TFUE). Procederemo subito all’esame analitico di tutti questi aspetti. Fin d’ora però conviene rapidamente ricordare, in termini generali e per così dire orizzontali, che il settore della sicurezza, per quanto «comunitarizzato», presenta ancora alcuni profili istituzionali eccentrici rispetto alla disciplina comune, e ciò sia come retaggio della precedente disciplina intergovernativa, sia come riflesso dell’estrema sensibilità della materia, sia in ragione delle particolari esigenze della stessa. Sotto questo profilo, e a parte quanto diremo volta a volta nel corso della specifica trattazione, vanno infatti segnalati in modo particolare: – il generalizzato potere d’iniziativa legislativa degli Stati membri, che in questa materia si affianca a quello della Commissione (v. art. 76 TFUE, secondo il quale gli atti previsti dai Capi 4 e 5 del Titolo V sono adottati su proposta della Commissione o di un quarto degli Stati membri, vale a dire, oggi, dopo l’adesione della Croazia, di 7 Stati); – il significativo ruolo dei parlamenti nazionali (il ricordato art. 69 TFUE e l’art. 7 del Protocollo n. 2 sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità,
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prevedono che per lo SLSG la soglia di pareri necessari per chiedere il riesame di un progetto di atto legislativo sia non già, come di regola, di un terzo, ma di un quarto dell’insieme dei voti attribuiti a quei parlamenti); – la persistenza della competenza degli Stati membri a stipulare accordi internazionali in materia, purché conformi al diritto dell’Unione (v. Dichiarazione n. 36 allegata al Trattato di Lisbona); – la diffusa previsione della procedura c.d. del freno di emergenza (v. retro, p. 205), come pure della cooperazione rafforzata. In effetti, svolgendo il già evocato principio del rispetto della diversità degli ordinamenti e delle tradizioni giuridiche nazionali (art. 67, par. 1, TFUE), il Trattato appresta una forma di specifica tutela di «aspetti fondamentali» dell’ordinamento giuridico degli Stati membri, consentendo a quello tra essi che li evoca di chiamare in causa, previa sospensione della procedura legislativa in atto, il Consiglio europeo, il quale ha tempo quattro mesi per risolvere la questione e rinviarla al Consiglio (v. artt. 82, par. 3; 83, par. 3; 86, par. 1; 87, par. 3, TFUE). In caso di persistente disaccordo, la procedura legislativa si ferma, ma scatta in compenso la possibilità di procedere a una cooperazione rafforzata. In tal caso, infatti, alcuni Stati membri (almeno 9) possono instaurare tra loro una cooperazione rafforzata per realizzare l’obiettivo di cui all’atto «frenato», e a tal fine, in deroga alla procedura abituale per simili casi, l’autorizzazione a instaurare la cooperazione è automatica (sulle cooperazioni rafforzate, retro, p. 52 ss.). – la riserva di competenza degli Stati membri quanto all’applicazione di misure coercitive sul proprio territorio (art. 88 TFUE); – la limitazione della competenza della Corte di giustizia rispetto alle operazioni di polizia o per la sicurezza interna. V. art. 276 TFUE. Come già ricordato in precedenza (retro, p. 343), infatti, proprio rispetto ai due Capi ora in esame, la Corte non può esaminare la validità o la proporzionalità di operazioni condotte dalla polizia o da altri servizi incaricati dell’applicazione della legge di uno Stato membro o l’esercizio delle responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna. E ciò in coerenza con la ricordata previsione di cui all’art. 72 TFUE, secondo la quale lo SLSG «non osta all’esercizio delle responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna».
a) Ciò premesso, passiamo all’esame dei tre filoni poc’anzi indicati. Il primo riguarda, come si è detto, il principio del reciproco riconoscimento delle sentenze e delle decisioni giudiziarie in materia penale, obiettivo che l’art. 82 TFUE assume addirittura a «fondamento» della cooperazione giudiziaria in materia penale. Come l’omologo obiettivo relativo alle sentenze in materia civile, anche quello in esame si fonda sulla fiducia reciproca tra gli Stati membri e quindi la sua enunciazione si accompagna alla previsione di una serie di misure volte a creare condizioni favorevoli a conseguire tale risultato. In particolare, l’art. 82 TFUE prevede a tal fine la promozione di misure di ravvicinamento delle legislazioni penali nazionali in materia sia processuale (par. 2 della norma), sia sostanziali (art. 83 TFUE) ed elenca inoltre una serie di misure specifiche volte a perseguire l’indicata finalità. Segnatamente a: definire norme e procedure per assicurare il riconoscimento in tutta l’Unione di qualsiasi tipo di sentenza e di decisione giudiziaria; prevenire e risolvere i conflitti di giuri-
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sdizione tra gli Stati membri; sostenere la formazione dei magistrati e degli operatori giudiziari; facilitare la cooperazione tra le autorità giudiziarie o autorità omologhe degli Stati membri in relazione all’azione penale e all’esecuzione delle decisioni. Sebbene sul piano logico la creazione di un ambiente giuridico più omogeneo si presti ovviamente a facilitare il riconoscimento delle decisioni degli altri Stati membri, e anzi ne sia teoricamente addirittura un presupposto, in realtà il Trattato non crea un simile collegamento temporale tra i due obiettivi, così come del resto fa per il riconoscimento delle decisioni in materia civile. E questo per ovvie ragioni, dato che il ravvicinamento delle legislazioni in materia penale, molto più che per quelle in materia civile, è impresa assai ardua e di lunga lena, e attenderne gli esiti avrebbe inevitabilmente ritardato la realizzazione dell’altro obiettivo. Le istituzioni hanno quindi proceduto comunque ad adottare gli atti necessari a perseguire l’obiettivo del reciproco riconoscimento delle decisioni. Tale rapporto temporale non sembra del tutto inequivoco né sul piano politico, né sul piano giurisprudenziale (v. Corte giust. 11 febbraio 2003, C-187/01 e C-385/01, Gözütok e Brügge, I1345; 3 maggio 2007, C-303/05, Advocaten voor de Wereld, I-3633). A noi sembra però che sia l’art. 82 TFUE, sia, come vedremo, la prassi legislativa, avallino quanto affermato nel testo.
i) In proposito, va subito sottolineato che il Trattato di Lisbona e la prassi a valle dello stesso raccolgono i frutti di un’elaborazione politica e legislativa che risale già alla metà degli anni ’90 ed è proseguita con importanti comunicazioni e «piani» elaborati soprattutto dalla Commissione. Anche in questa materia un ruolo importante ha avuto il ricordato Consiglio europeo di Tampere (1999), cui fece seguito, tra l’altro, un programma di misure per l’attuazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni penali elaborato dalla Commissione nel novembre 2000 (GUCE C 12/2001, 10), e poi via via altri atti del medesimo tipo, da cui hanno preso le mosse i vari interventi dell’Unione di cui diremo tra breve.
Alla luce di tale elaborazione, si è potuto chiarire, per quanto qui in particolare interessa (e l’art. 82, par. 1, comma 2, TFUE, lo precisa inequivocabilmente), che il principio in esame riguarda il riconoscimento «di qualsiasi tipo di sentenza e di decisione giudiziaria», e che esso comporta tutti gli effetti solitamente connessi a tale riconoscimento, nel senso che la decisione produce, al di fuori dello Stato in cui è stata adottata, gli effetti giuridici stabiliti dal diritto penale di tale Stato, nonché quelli previsti dal diritto penale dello Stato che riconosce la decisione. E ciò anche se non vi sia perfetta corrispondenza sul piano delle disposizioni materiali e processuali dei due Stati, perché decisive al riguardo, come si è detto, sono la fiducia reciproca tra gli Stati membri, autentica «pietra angolare della cooperazione giudiziaria nell’Unione» (v. la citata sentenza 14 novembre 2013, C-60/12, Baláž), e la comunanza (anche «comunitariamente» imposta) dei principi fondamentali dei due ordinamenti in ordine alle appropriate garanzie dei diritti e delle procedure, che dà sostanza e ragione di quella fiducia e permette di superare tra gli Stati membri il ricorso all’istituto dell’estradizione, frutto di una prassi certo secolare, ma dagli esiti spesso incerti e dalle procedure sicuramente più complesse.
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Quanto alla nozione di «qualsiasi tipo di sentenza e di decisione giudiziaria», la Corte ha chiarito che essa deve essere interpretata non solo come nozione autonoma e uniforme del diritto dell’Unione e non in base al diritto nazionale volta a volta rilevante, ma anche in modo estensivo, e quindi comprendente, ad es., anche decisioni che provengono da autorità che non abbiano esclusivamente competenza in materia penale: v. la citata sentenza Baláž, sia pur con riferimento alla nozione di «autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale», di cui alla decisione-quadro 2005/214/GAI (sulla quale v. più avanti).
Più specificamente, il riconoscimento comporta anzitutto l’obbligo di dare piena attuazione alla decisione nello Stato ove esso è conferito, si tratti della condanna principale o delle eventuali pene accessorie. Per la relativa regolamentazione, e in linea con gli approfondimenti di cui si è detto, il legislatore comunitario già prima di Lisbona aveva adottato in materia una serie di misure (specie «decisioni-quadro», elaborate sulla base dell’allora art. 34, par. 2, lett. b), TUE pre-Lisbona), assai varie per oggetto e portata. La prima e finora più importante di esse, e comunque quella che ha suscitato il maggiore interesse, una concreta e diffusa applicazione e anche una consistente prassi giurisprudenziale, è la nota decisione-quadro 2002/584/GAI, del Consiglio, del 13 giugno 2002 (GUCE L 190, 1), relativa al mandato d’arresto europeo (MAE) e alle procedure di consegna tra Stati membri, volta appunto a sostituire nei rapporti tra questi ultimi il tradizionale istituto dell’estradizione con un sistema molto più semplificato e vincolante. L’emissione del MAE da parte delle competenti autorità di uno Stato membro, nei casi e alle condizioni definite dalla decisione-quadro, impone infatti allo Stato richiesto la consegna della persona perseguita, le giustificazioni di un eventuale rifiuto essendo limitate al minimo e per giunta interpretate restrittivamente dalla Corte di giustizia. Nella già folta giurisprudenza in materia, v., fra le altre, Corte giust., Advocaten voor de Wereld, cit.; 17 luglio 2008, C-66/08, Kozlowski, I-6041; 12 agosto 2008, C-296/08 PPU, Santesteban Goicoechea, I-6307; 1° dicembre 2008, C-388/08 PPU, Leyman e Pustovarov, I-8983; 6 ottobre 2009, C-123/08, Wolzenburg, I-9621; 21 ottobre 2010, C-306/09, B., I-10341; 16 novembre 2010, C-261/09, Mantello, I-11477; 28 giugno 2012, C-192/12 PPU, West; 5 settembre 2012, C-42/11, Lopes Da Silva Jorge; 29 gennaio 2013, C-396/11, Radu; 26 febbraio 2013, C399/11, Melloni; 30 maggio 2013, C-168/13 PPU, F; 16 luglio 2015, C-237/15 PPU, Lanigan; 5 aprile 2016, C-404/15 e C-659/15 PPU, Aranyosi e Căldăraru (con riferimento alla quale, v. anche la causa pendente C-496/16, Aranyosi); 24 maggio 2016, C-108/16 PPU, Dworzecki; 6 settembre 2016, C-182/15, Petruhhin; 25 gennaio 2017, C-640/15, Vilkas; 29 giugno 2017, C579/15, Poplawski.
Ma in materia si devono anche ricordare le misure che applicano il principio del reciproco riconoscimento per aspetti più specifici, e segnatamente: per i provvedimenti in materia di blocco dei beni o di sequestro probatorio; sanzioni pecuniarie; confisca; pene detentive o misure privative della libertà personale; sospensione condizionale in vista della sorveglianza delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive; misure alternative alla detenzione cautelare; o per istituire il mandato europeo di ricerca delle prove (MER) diretto all’acquisizione di oggetti, documenti e dati da utilizzare nei procedimenti penali; o per le decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo.
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V. le decisioni-quadro 2003/577/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa all’esecuzione dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio (GUUE L 196, 45); 2005/214/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 2005, relativa all’applicazione del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie (GUUE L 76, 16), sulla quale v. sentenza 14 novembre 2013, C-60/12, Baláž; 2006/783/GAI del Consiglio, del 6 ottobre 2006, relativa all’applicazione del reciproco riconoscimento alle decisioni di confisca (GUUE L 328, 59); 2008/909/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea (GUUE L 327, 27); 2008/947/GAI del Consiglio, del 27 novembre 2008, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive (GUUE L 337, 102); 2008/978/GAI del Consiglio, del 18 dicembre 2008, relativa al mandato europeo di ricerca delle prove (MER) diretto all’acquisizione di oggetti, documenti e dati da utilizzare nei procedimenti penali (GUUE L 350, 72); 2009/829/GAI del Consiglio, del 23 ottobre 2009, sull’applicazione tra gli Stati membri dell’Unione europea del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare (GUUE L 294, 20); 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009, che modifica le decisioni-quadro 2002/584/GAI, 2005/214/GAI, 2006/783/GAI, 2008/909/GAI e 2008/947/GAI, rafforzando i diritti processuali delle persone e promuovendo l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo (GUUE L 81, 24).
Tra le misure successive al Trattato di Lisbona, poi, merita una particolare menzione la direttiva 2011/99/UE, del PE e del Consiglio, del 13 dicembre 2011 (GUUE L 338, 2), sull’ordine di protezione europeo per le vittime di reati, che si affianca alle altre di cui diremo tra breve in questa materia e che mira al riconoscimento delle decisioni recanti misure di protezione a favore di persone da tutelare, in modo da assicurare loro una protezione anche in caso di trasferimento in un altro Stato membro. In questo contesto, va segnalata anche la dir. 2014/41/UE, frutto dell’iniziativa comune di sette Stati membri, la quale, per mettere ordine in quello che la stessa iniziativa qualifica come «un quadro troppo frammentato e complesso» in materia di acquisizione di prove, crea uno strumento unico, l’ordine europeo di indagine penale (OEI), che può essere emesso da un Stato membro e impone agli altri di compiere tutti gli atti di indagine per l’acquisizione o, se del caso, la trasmissione di prove in loro possesso. V. dir. del PE e del Consiglio, del 3 aprile 2014 (GUUE L 130, 1), che fa seguito all’iniziativa presentata da 7 Stati membri (e alla quale ha poi aderito anche l’Italia) (GUUE C 165/2010, 22), a valle del Libro Verde della Commissione sulla ricerca delle prove in materia penale tra Stati membri e sulla garanzia della loro ammissibilità (COM (2009) 624 def.).
Al reciproco riconoscimento delle sentenze e delle decisioni penali conseguono inoltre gli effetti preclusivi delle stesse e in particolare, in base al noto principio del ne bis in idem, il divieto di sottoporre a un nuovo procedimento (ma anche l’obbligo di interrompere quelli pendenti relativi a) un soggetto nei cui confronti sia già intervenuta una decisione definitiva di assoluzione o di condanna per gli stessi fatti. Su questo punto non sono intervenute misure dopo il Trattato di Lisbona, sicché la materia continua ad essere regolata dagli artt. 54-58 della convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, «comunitarizzata» nel senso a suo tempo indicato (p. 533
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ss.) dal Trattato di Amsterdam, che devono però tener conto oggi anche dell’art. 50 della Carta dir. fond., il cui dettato appare però più restrittivo, dato che esso dispone che «Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale sia è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge». Ciononostante, e malgrado alcune incertezze della Corte di Strasburgo (v. Corte EDU, 15 novembre 2016, ricorsi nn. 24130/11 e 29758/11, A e B c. Norvegia), la Corte di giustizia, varie volte sollecitata al riguardo, ha mostrato di voler persistere in un’interpretazione estensiva del suddetto principio, includendovi in sostanza il divieto della duplice pena, anche laddove la seconda sanzione si riferisca ai «medesimi fatti materiali», e non ai «medesimi reati», e quindi indipendentemente dall’identità della qualificazione giuridica dei comportamenti rilevanti. Ne deriva che il principio in questione trova ugualmente applicazione nei casi in cui a una sanzione penale se ne aggiunga una amministrativa, a condizione però che quest’ultima abbia essa stessa «natura penale». A tal fine, secondo la costante giurisprudenza della Corte di giustizia, sono rilevanti tre criteri: la qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale; la natura dell’illecito stesso; e la natura nonché il grado di severità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere. V., in particolare, le sentenze 5 giugno 2012, C-489/10, Bonda, e 26 febbraio 2013, C-399/11, Åkerberg, le quali si ispirano sul punto alla giurisprudenza della Corte EDU (sentenze Engel e altri c. Paesi Bassi, dell’8 giugno 1976, serie A, n. 22, §§ 80-82; Zolotoukhine c. Russia, del 10 febbraio 2009, ricorso n. 14939/03, §§ 52 e 53). Per altre pronunce della Corte in materia, v. 11 febbraio 2003, C-187/01 e C-385/01, Gözütok e Brügge, I-1345; 10 marzo 2005, C-469/03, Miraglia, I2009; 9 marzo 2006, C-436/04, Van Esbroeck, I-2333; 28 settembre 2006, C-150/05, Van Straaten, I-9327; 28 settembre 2006, C-467/04, Gasparini e a., I-9199; 18 luglio 2007, C-288/05, Kretzinger, I-6441; 18 luglio 2007, C-367/05, Kraaijenbrink, I-6619; 11 dicembre 2008, C-297/07, Bourquain, I-9425; 22 dicembre 2008, C-491/07, Turansky, I-11039; 16 novembre 2010, C-261/09, Mantello, I-11477; 27 maggio 2014, C-129/14 PPU, Spasic; 29 giugno 2016, C-486/14, Kossowski; 5 aprile 2017, C-217/15, Orsi, e C-350/15, Baldetti. Si vedano inoltre le conclusioni dell’AG SánchezBordona del 12 settembre 2017 nelle cause pendenti C-524/15, Menci; C-537/16, Garlsson Real Estate; C-596/16, Di Puma; e C-597/16, Consob.
Infine, il reciproco riconoscimento delle sentenze e delle decisioni penali implica l’obbligo di prendere in considerazione le stesse in un nuovo giudizio instaurato nello Stato del riconoscimento, soprattutto ai fini dell’individualizzazione della sanzione (sia in positivo: appunto per evitare il cumulo delle pene per gli stessi fatti; sia in negativo: ad esempio, ai fini dell’accertamento della recidiva o della pericolosità sociale del soggetto). In proposito, rileva ancora la decisione-quadro 2008/675/GAI del Consiglio, del 24 luglio 2008 (GUUE L 220, 32), relativa alla considerazione delle decisioni di condanna tra Stati membri dell’Unione in occasione di un nuovo procedimento penale, decisione che però non si riferisce al principio del ne bis in idem, perché impone di prendere in considerazione le precedenti decisioni di condanna pronunciate nei confronti della stessa persona per fatti diversi in altri Stati membri. Quel principio resta quindi regolato dalle norme di cui si è detto poc’anzi. ii) L’obiettivo del reciproco riconoscimento va conseguito non solo con interventi
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finalizzati direttamente alla sua realizzazione, ma anche, come si è accennato, con misure di sostegno e accompagnamento. La prima di queste riguarda l’importante aspetto della prevenzione e della risoluzione dei conflitti di giurisdizione (art. 82, par. 1, comma 2, lett. b), TFUE). Nella prassi, però, sebbene la disciplina pre-Lisbona (art. 31, par. 1, lett. d), TUE) menzionasse unicamente la prevenzione dei conflitti, è solo della risoluzione degli stessi che per ora ci si è occupati. In particolare, tale risoluzione è oggetto di una misura pre-Lisbona, e segnatamente della decisione-quadro 2009/948/GAI, del Consiglio, del 30 novembre 2009 (GUUE L 328, 42), sulla prevenzione e la risoluzione dei conflitti relativi all’esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali, dedicata in realtà, malgrado il titolo, alla sola risoluzione di eventuali conflitti di giurisdizione tra Stati membri. Per l’essenziale, detta decisione impone alle autorità competenti di procedere a consultazioni per ricercare un consenso su una soluzione efficace volta ad evitare le conseguenze negative derivanti da eventuali procedimenti paralleli, e ciò sulla base di criteri adeguati, «che possono comprendere quelli che figurano negli orientamenti pubblicati nella relazione annuale 2003 di Eurojust ed elaborati a uso degli operatori del settore, e tenere in conto, per esempio, il luogo in cui si è verificato prevalentemente il fatto costituente reato, il luogo in cui si è subita la maggior parte dei danni, il luogo in cui si trova l’indagato o l’imputato e la possibilità di assicurare la sua consegna o estradizione in altre giurisdizioni, la cittadinanza o la residenza dell’indagato o dell’imputato, gli interessi rilevanti dell’indagato o dell’imputato, gli interessi rilevanti delle vittime e dei testimoni, l’ammissibilità degli elementi probatori o possibili ritardi» (considerando 9, che riprende per l’appunto i criteri indicati da Eurojust in quella relazione). D’altra parte, come vedremo, ai sensi dell’art. 85 TFUE rientra tra i compiti di Eurojust proprio quello di potenziare la cooperazione giudiziaria tra Stati membri anche attraverso la composizione dei conflitti di competenza, e in questo quadro, qualora non vi sia accordo tra le autorità interessate, detto organismo può essere investito della questione da una di queste, ma non ha il potere di adottare decisioni vincolanti. In materia vanno anche segnalate, perché utili ai fini qui considerati, la decisione-quadro 2009/315/GAI, del Consiglio, del 26 febbraio 2009 (GUUE L 93, 23, con riguardo alla quale v., di recente, Corte giust. 9 giugno 2016, C25/15, Balogh), relativa all’organizzazione e al contenuto degli scambi fra gli Stati membri di informazioni estratte dal casellario giudiziario e la dec. 2009/316/GAI, del Consiglio, del 6 aprile 2009 (GUUE L 93, 33), che istituisce il sistema europeo di informazione sui casellari giudiziari (ECRIS). iii) Altre misure di accompagnamento all’obiettivo del reciproco riconoscimento, previste sempre dalla disposizione in esame, sono il sostegno alla formazione dei magistrati e degli operatori giudiziari e quello alla cooperazione tra le autorità giudiziarie o autorità omologhe degli Stati membri in relazione all’azione penale e all’esecuzione delle decisioni (art. 82, par. 1, comma 2, lett. c) e d), TFUE). Del primo aspetto si è già detto poc’anzi, in sede di esame della cooperazione giudiziaria in materia civile. Per l’altro, rilevano varie misure, anche se non tutte finalizzate a questo solo obiettivo (e infatti le abbiamo ritrovate o le ritroveremo anche in altri settori). Tra di esse ci limitiamo a segnalare, in termini generali, il ruolo di Eurojust, di cui si dirà più avanti, e l’Atto del Consiglio del 29 maggio 2000, adottato sulla base del-
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l’art. 34 TUE pre-Lisbona (GUCE C 197, 1), che recepisce la convenzione, in pari data, relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione. Più specificamente, poi, vanno menzionate: l’azione comune 96/277/GAI, relativa a un quadro di scambio di magistrati di collegamento diretto a migliorare la cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri dell’Unione; l’azione comune 98/427/GAI, sulla buona prassi nell’assistenza giudiziaria in materia penale; la dec. 2008/976/GAI, sull’istituzione di una Rete giudiziaria europea, di cui si è già detto prima; la decisione-quadro 2009/315/GAI e la dec. 2009/316/GAI, poc’anzi citate, sullo scambio di informazioni sulle condanne penali pronunciate nei diversi Stati membri. V. rispettivamente, azione comune 96/277/GAI del Consiglio, del 22 aprile 1996 (GUCE L 105, 1); azione comune 98/427/GAI del Consiglio, del 29 giugno 1998 (GUCE L 191, 1); dec. 2008/976/GAI del Consiglio, del 16 dicembre 2008 (GUUE L 348, 130); dir. (UE) 2016/681 del PE e del Consiglio, del 27 aprile 2016, sull’uso dei dati del codice di prenotazione (PNR) a fini di prevenzione, accertamento, indagine e azione penale nei confronti dei reati di terrorismo e dei reati gravi (GUUE L 119, 132). Al riguardo, merita anche di essere segnalato l’accordo tra gli Stati Uniti e l’UE sull’uso e il trasferimento delle registrazioni dei nominativi dei passeggeri (c.d. Passenger Name Record, o PNR), concluso con dec. 2012/472/UE del Consiglio, del 26 aprile 2012 (GUUE L 215, 4), ma censurato poi dalla Corte (v. sentenza 6 ottobre 2015, C-362/14, Schrems). Nello stesso senso il parere sull’accordo tra il Canada e l’Unione europea sul trasferimento e il trattamento dei dati del codice di prenotazione, anch’esso dichiarato incompatibile dalla Corte (v. Corte giust. 26 luglio 2017, parere 1/15).
b) Il secondo filone su cui si articola la cooperazione giudiziaria nell’Unione è, come accennato, il ravvicinamento delle legislazioni penali, sia processuali (art. 82, par. 2, TFUE), sia sostanziali (art. 83 TFUE). Sebbene regolata da due distinte disposizioni, l’azione in parola presenta molti aspetti comuni e quindi conviene trattarla, almeno per tali aspetti, in maniera unitaria. Anzitutto infatti è previsto, su entrambi i fronti, che il legislatore dell’Unione possa adottare «norme minime»: nel caso delle disposizioni procedurali, per facilitare il riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione di polizia e giudiziaria nelle materie penali aventi dimensione transnazionale; nel caso delle disposizioni sostanziali, per meglio combattere alcune forme di criminalità. Per entrambe le ipotesi indicate, inoltre, è previsto di regola il ricorso alla procedura legislativa ordinaria, salvo alcune ipotesi specifiche, di cui si dirà più avanti (artt. 82, par. 2, lett. d); 83, par. 1, comma 2, e par. 2, TFUE), e sempre che non sia invocata, come si è già ricordato, la procedura c.d. del «freno di emergenza» o non venga fatto ricorso ad una cooperazione rafforzata (artt. 82, par. 3 e 83, par. 3, TFUE). Ancora, in entrambi i casi, il legislatore può intervenire solo se le misure progettate siano «necessarie» ai fini della cooperazione giudiziaria e di polizia (artt. 67, par. 3 e 82, par. 2, TFUE) e se riguardino «materie penali aventi dimensione transnazionale» (art. 82, par. 2, TFUE) o «sfere di criminalità … che presentano una dimensione transnazionale» (art. 83, par. 1, TFUE), anche se non mancano normative che prescindono da tale qualificazione, nel senso che si applicano anche a situazioni puramente interne. Questo vale soprattutto per le direttive relative ai diritti della persona nella procedura penale e ai diritti delle vittime della criminalità, delle quali beneficiano, in quanto «persone», sia i cittadini dello stesso Stato, sia i cittadini di Stati terzi (v. giurisprudenza citata più avanti).
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i) Ciò premesso, per quanto riguarda anzitutto il ravvicinamento delle legislazioni nazionali in materia processuale, posto che anch’esso deve procedere tenendo conto delle differenze tra le tradizioni giuridiche e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e senza pregiudizio per la facoltà di questi ultimi di mantenere o introdurre un livello più elevato di tutela delle persone, va segnalato che il ravvicinamento può riguardare: a) l’ammissibilità reciproca delle prove tra gli Stati membri; b) i diritti della persona nella procedura penale; c) i diritti delle vittime della criminalità; d) gli altri elementi specifici della procedura penale eventualmente individuati dal Consiglio con una decisione presa all’unanimità previa approvazione del Parlamento europeo. Per quanto riguarda l’ammissibilità delle prove, si tratta di tutta evidenza di un aspetto non facilmente separabile da quello, poc’anzi esaminato, del reciproco riconoscimento delle decisioni penali, come confermano alcuni degli atti già adottati per quest’ultimo, i quali sicuramente rilevano anche ai presenti fini (retro, p. 564). Questo pone certo un problema di organicità e coerenza di una disciplina che al momento appare un po’ frammentata, ma anche di base giuridica nell’adozione della stessa, dato che, se è vero che in entrambi i casi si impone la procedura legislativa ordinaria, è solo nelle ipotesi ora in esame (art. 82, par. 2, TFUE), e non in quelle di cui si è detto in precedenza (art. 82, par. 1, TFUE), che sarà invocabile il «freno di emergenza». Quanto ai diritti della persona, abbandonata la tentazione di una strategia complessiva in materia, l’Unione ha deciso di procedere per tappe successive, disciplinando via via la tutela di diritti specifici per le persone oggetto di procedimenti penali (come previsto dalla risoluzione del Consiglio del 30 novembre 2009, GUUE C 295, 1, completata da una comunicazione della Commissione e dal programma di Stoccolma del 4 maggio 2010, che ha fissato al riguardo una tabella di marcia per l’adozione di misure concernenti una serie di specifici diritti). In attuazione di tale disegno, sono state per ora emanate le direttive del Parlamento europeo e del Consiglio: 2010/64/UE, del 20 ottobre 2010, sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali (GUUE L 280, 1); 2012/13/UE, del 22 maggio 2012, sul diritto all’informazione nei procedimenti penali (GUUE L 142, 1); e 2013/48/UE, del 22 ottobre 2013, che sancisce il diritto di avvalersi di un difensore nel procedimento penale e nel procedimento di esecuzione del mandato d’arresto europeo; il diritto di informare un terzo al momento della privazione della libertà personale; nonché il diritto delle persone private della libertà personale di comunicare con terzi e con le autorità consolari (GUUE L 294, 1). Successivamente, v. direttive del PE e del Consiglio: 2016/343/UE, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali (GUUE L 65,1); 2016/800/UE dell’11 maggio 2016, sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali (GUUE L 132, 1); 2016/1919, del 26 ottobre 2016, sull’ammissione al patrocinio a spese dello Stato per indagati e imputati nell’ambito di procedimenti penali e per le persone ricercate nell’ambito di procedimenti di esecuzione del mandato d’arresto europeo (GUUE L 297, 1). Nella giurisprudenza più recente, v. Corte giust. 15 ottobre 2015, C-216/14, Covaci; 9 giugno 2016, C-25/15, Balogh; 26 luglio 2017, C-670/15, Šalplachta.
Anche dei diritti delle vittime della criminalità l’Unione si era già occupata prima del Trattato di Lisbona: sia con disposizioni inserite in atti relativi ad altri aspetti
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della materia in esame, sia con una specifica decisione-quadro (2001/220/GAI), oggi sostituita dalla dir. 2012/29/UE che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, nonché con la dir. 2004/80/CE, relativa all’indennizzo delle vittime di reato. V. dir. 2004/80/CE, del Consiglio, del 29 aprile 2004 (GUUE L 261, 15), relativamente alla quale v. Corte giust. 11 ottobre 2016, C-601/14, Commissione c. Italia. Per le disposizioni inserite in altri atti, v. dir. 2011/36/UE del PE e del Consiglio, del 5 aprile 2011, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime (GUUE L 101, 1), che sostituisce la decisione-quadro 2002/629/GAI del Consiglio, del 19 luglio 2002, sulla lotta alla tratta degli esseri umani (GUCE L 203, 1); dir. 2011/93/UE del PE e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile (GUUE L 335, 1), che sostituisce la decisione-quadro 2004/68/GAI del Consiglio, del 22 dicembre 2003, relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile (GUUE L 13, 44). Per la decisione-quadro 2001/220/GAI del Consiglio, del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale (GUCE L 82, 1), v., nella giurisprudenza formatasi intorno a tale atto, specie con riguardo alla definizione della nozione di vittima e dei diritti della stessa, Corte giust. 16 giugno 2005, C-105/03, Pupino, I-5285; 28 giugno 2007, C-467/05, Dell’Orto, I-5557; 21 ottobre 2010, C-205/09, Eredics e Sápi, I-10231; 9 ottobre 2008, C-404/07, Katz, I-7607;15 settembre 2011, C-483/09, Gueye, e C-1/10, Salmerón Sánchez, I-8263; 21 dicembre 2011, C-507/10, X, I-14241; 12 luglio 2012, C-79/11, Giovanardi e a. La decisione-quadro è stata poi sostituita, come detto nel testo, dalla dir. 2012/29/UE del PE e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato (GUUE L 315, 57).
Ma in quest’ambito rilevano, sia pure indirettamente, altre misure già evocate a proposito della cooperazione giudiziaria in materia civile, e altre sono in cantiere per definire le modalità di rafforzamento dei diritti delle vittime. V., in particolare, la dir. 2011/99/UE del PE e del Consiglio, del 13 dicembre 2011 (GUUE L 338, 2), sull’ordine di protezione europeo per le vittime di reati, che mira al riconoscimento delle decisioni recanti misure di protezione a favore di persone da tutelare, in modo da assicurare loro una protezione anche in caso di trasferimento in un altro Stato membro, che è stata di recente completata dal reg. (UE) n. 606/2013, del PE e del Consiglio, del 12 giugno 2013, relativo al riconoscimento reciproco delle misure di protezione in materia civile (GUUE L 181, 4).
Quanto infine all’ipotesi di cui alla lett. d), va detto che finora non risulta che il Consiglio abbia adottato decisioni per ravvicinare le legislazioni nazionali rispetto ad altri elementi specifici della procedura penale da esso stesso individuati. Va piuttosto sottolineato al riguardo il carattere inconsueto di questa previsione, la quale in effetti, al pari della omologa disposizione dell’art. 83 TFUE, di cui subito diremo, realizza un’ipotesi di revisione semplificata del Trattato, cui si applicano le disposizioni dell’art. 48, par. 7, TUE (v. p. 138). ii) E veniamo ora al ravvicinamento delle legislazioni nazionali sostanziali. Ai sensi dell’art. 83, par. 1, comma 1, TFUE, come si è detto, tale ravvicinamento deve anzitutto tradursi nell’adozione di «norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una di-
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mensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni». La stessa disposizione precisa che le predette «sfere di criminalità» sono: il terrorismo, la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, il traffico illecito di stupefacenti e di armi, il riciclaggio di denaro, la corruzione, la contraffazione di mezzi di pagamento, la criminalità informatica e la criminalità organizzata (comma 2). Ma, con una disposizione analoga a quella considerata nel punto precedente, anche qui si prevede che il Consiglio, con decisione unanime e previa approvazione del Parlamento europeo, possa estendere dette sfere di criminalità in funzione dell’evoluzione di quest’ultima (comma 3). Come si vede, l’oggetto del ravvicinamento viene delimitato con riferimento a un’ampia – e presumibilmente non esaustiva – serie di ipotesi, definite in funzione della «gravità» della criminalità, che resta però inevitabilmente generica, e della loro dimensione transnazionale, che deve essere intesa in senso ampio, visto che a concorrere a definirla sono non solo la natura dei reati, ma anche le loro implicazioni e la necessità di combatterli su basi comuni, sicché possono rilevare, in questa ottica, anche reati che si esauriscono all’interno di un solo Stato membro. La norma non menziona ad es. la lotta al razzismo e alla xenofobia, ma di essi parla, come fenomeni rispetto ai quali l’Unione può adottare «misure di prevenzione e di lotta», l’art. 67, par. 3, TFUE. Anche la prassi pare orientata in questa direzione. Va aggiunto che l’art. 83 TFUE tace anche sulla lotta alla frode, che invece era prevista dal predecessore di tale disposizione, ossia l’art. 29 TUE pre-Lisbona; ma va detto che tale reato è oggi oggetto di autonoma previsione nel TFUE per quanto riguarda le attività che ledono gli interessi finanziari dell’Unione (art. 325 TFUE, nonché supra, p. 129 s.).
Venendo agli atti già adottati in materia, essi sono abbastanza numerosi, e risalgono già al periodo pre-Lisbona, anche se in buona parte sostituiti, integrati o modificati da misure successive per tener conto degli sviluppi della criminalità organizzata. Tra essi possiamo ricordare le decisioni-quadro del Consiglio in materia di lotta contro: la falsificazione e la contraffazione dei mezzi di pagamento, specie dell’euro; il riciclaggio di denaro; la tratta degli esseri umani; il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali; la corruzione nel settore privato; lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile; il traffico illecito di stupefacenti; gli attacchi contro i sistemi di informazione; il terrorismo; la criminalità organizzata; talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia; l’inquinamento anche provocato dalle navi; come pure norme concernenti l’individuazione, rintracciamento, congelamento o sequestro e confisca degli strumenti e dei proventi di reato. Tra gli atti successivi al Trattato di Lisbona, ricordiamo quelli adottati, per lo più dal Consiglio, in materia di prevenzione e repressione della tratta di esseri umani e protezione delle vittime, di lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile. V., rispettivamente: decisioni-quadro 2000/383/GAI, del 29 maggio 2000, relativa alla lotta contro la falsificazione dell’euro (GUCE L 140, 1), integrata poi dalla decisione-quadro 2001/888/GAI, del 6 dicembre 2001 (GUCE L 329, 3), e infine sostituita dalla dir. 2014/62/UE del PE e del Con-
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siglio, del 15 maggio 2014, sulla protezione mediante il diritto penale dell’euro e di altre monete contro la falsificazione e che sostituisce la decisione quadro 2000/383/GAI del Consiglio (GUUE L 151/1); 2001/413/GAI, del 28 maggio 2001, sulla lotta contro la frode e la contraffazione dei mezzi di pagamento diversi dal contante (GUCE L 249, 1), cui ha fatto seguito la decisionequadro 2001/887/GAI, del 6 dicembre 2001, relativa alla protezione dell’euro dalla falsificazione (GUCE L 329, 1); decisione-quadro 2001/500/GAI, del 26 giugno 2001, concernente il riciclaggio di denaro, l’individuazione, il rintracciamento, il congelamento o sequestro e la confisca degli strumenti e dei proventi di reato (GUCE L 182, 1); decisione-quadro 2002/629/GAI, del 19 luglio 2002, sulla lotta alla tratta degli esseri umani (GUCE L 203, 1); decisione-quadro 2002/946/GAI, del 28 novembre 2002, relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione delle condotte oggetto della dir. 2002/90/CE, adottata in pari data dal Consiglio e volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali (GUCE L 328, rispettivamente 1 e 17); decisione-quadro 2003/568/GAI, del 22 luglio 2003, relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato (GUUE L 192, 54); decisione-quadro 2004/68/GAI, del 22 dicembre 2003, relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile (GUUE L 13, 44); decisione-quadro 2004/757/GAI, del 25 ottobre 2004, riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti (GUUE L 335, 8); decisione-quadro 2005/222/GAI, del 24 febbraio 2005, relativa agli attacchi contro i sistemi di informazione (GUUE L 69, 67), sostituita dalla dir. 2013/40/UE del PE e del Consiglio, del 12 agosto 2013 (GUUE L 218, 8); decisione-quadro 2008/919/GAI, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro il terrorismo (GUUE L 330, 21), che modifica la decisione-quadro 2002/475/GAI, del 13 giugno 2002, sulla lotta contro il terrorismo (GUCE L 164, 3), poi sostituita dalla dir. 2017/541/UE, del PE e del Consiglio, del 15 marzo 2017 (GUUE L 88, 6); decisione-quadro 2008/841/GAI, del 24 ottobre 2008, relativa alla lotta contro la criminalità organizzata (GUUE L 300, 42), che sostituisce la precedente azione comune 1998/733/GAI, del 21 dicembre 1998 (GUCE L 351, 1); decisione-quadro 2008/913/GAI, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale (GUUE L 328, 55), che ha sostituito l’azione comune 1996/443/GAI, del 15 luglio 1996 (GUCE L 185, 5); decisione-quadro 2003/80/GAI, del 27 gennaio 2003, relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale (GUUE L 29, 55) e la decisione-quadro 2005/667/GAI, del 12 luglio 2005, intesa a rafforzare la cornice penale per la repressione dell’inquinamento provocato dalle navi (GUUE L 255, 164), che è complementare alla dir. 2005/35/CE (GUUE L 255, 11); decisione-quadro 2005/212/GAI, del 24 febbraio 2005, relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato (GUUE L 68, 49); dir. 2011/36/UE, del 5 aprile 2011, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime (GUUE L 101, 1; poi rettificata: GUUE L 308/2012, 27), che sostituisce la citata decisione-quadro 2002/629/GAI; dir. 2011/93/UE, del PE e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile (GUUE L 335, 1), originariamente designata col numero 2011/92/UE, ma poi rettificata (GUUE L 18/2012, 7), che sostituisce la citata decisione-quadro 2004/68/GAI; dir. 2014/42/UE, del PE e del Consiglio, del 3 aprile 2014, relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione europea (GUUE L 127, 39); dir. 2014/57/UE, del PE e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativa alle sanzioni penali in caso di abusi di mercato (GUUE L 173, 79).
Ma l’art. 83, par. 2, TFUE contempla un’ulteriore e importante ipotesi di ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia penale: quella nella quale il ravvicinamento «si rivela indispensabile per garantire l’attuazione efficace di una politica dell’Unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione». In tal caso, il legislatore europeo può ugualmente adottare direttive per stabilire norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni nel settore volta a volta rilevante, seguendo la procedura legislativa, ordina-
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ria o speciale, utilizzata per l’adozione delle misure di armonizzazione nel settore oggetto di intervento, ferme restando però le speciali regole sul diritto d’iniziativa legislativa previste per lo SLSG (art. 76 TFUE). Si tratta, di tutta evidenza, di una disposizione di notevole rilievo, perché permette di estendere l’intervento dell’Unione in materia penale anche al di là delle sfere di criminalità sopra elencate, a condizione che l’intervento si riveli necessario per garantire l’efficace attuazione della politica dell’Unione nel settore armonizzato. È ben vero che anche prima del Trattato di Lisbona la Corte aveva riconosciuto il potere dell’allora Comunità di imporre agli Stati membri di far rispettare le normative volte alla tutela degli interessi comunitari con sanzioni effettive, proporzionali e dissuasive, e dunque, all’occorrenza, anche con sanzioni di carattere penale (v., per tutte, la sentenza 21 settembre 1989, 68/88, Commissione c. Grecia, 2965), e che la prassi si era conformata a tale indirizzo; ma questo non aveva mai implicato il potere di intervenire direttamente sulla normativa nazionale in materia penale, se non per il tramite (quando sopravvennero) degli strumenti del terzo pilastro. In questo senso, v. Corte giust. 13 settembre 2005, C-176/03, Commissione c. Consiglio, I7879; 23 ottobre 2007, C-440/05, Commissione c. Consiglio, I-9097, dove pur si riconosceva il potere della Comunità di imporre agli Stati membri l’applicazione di «sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive» in quanto indispensabili per garantire la piena efficacia delle norme comuni, ma si escludeva la competenza della Comunità quanto alla «determinazione del tipo e del livello delle sanzioni penali applicabili».
L’art. 83, par. 2, TFUE apre dunque ora interessanti prospettive: del resto, la Commissione ne ha subito colto le implicazioni presentando un’apposita comunicazione per la sua attuazione, nella quale indica le linee di intervento per assicurare l’efficacia delle politiche dell’Unione anche attraverso il diritto penale e individua altresì i primi settori nei quali procedere. «Verso una politica penale dell’UE: garantire l’efficace attuazione delle politiche dell’Unione attraverso il diritto penale» (COM (2011) 573 def.). La Commissione ha anche istituito un gruppo di esperti sulla politica penale dell’Unione, con funzioni consultive per la stessa Commissione (decisione del 21 febbraio 2012, GUUE C 53, 9).
c) Infine, come sopra indicato, la cooperazione giudiziaria in materia penale si può esprimere con misure volte a incentivare e sostenere l’azione degli Stati membri nel campo della prevenzione della criminalità, senza tuttavia che l’Unione possa assumere in materia iniziative di armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri (art. 84 TFUE). Come si vede, la previsione, che in ragione del suo oggetto specifico avrebbe forse trovato più appropriata collocazione nel Capo dedicato alla cooperazione di polizia, istituisce una competenza limitata, e più precisamente parallela (v., per tale definizione, retro, p. 421) dell’Unione, dato che questa, diversamente dalle altre ipotesi contemplate nel Capo in esame, può solo incentivare o sostenere l’azione degli Stati membri nella materia de qua. In ragione di tale limitazione, le iniziative fin qui adottate dall’Unione si sono tradotte, come suggerito anche dai più volte ricordati Consigli europei, in misure di supporto alla ri-
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cerca, allo studio, all’osservazione e allo scambio di informazioni sulla prevenzione della criminalità, la più importante delle quali è per ora la dec. 2009/902/GAI, che istituisce la Rete europea di prevenzione della criminalità (REPC). Era altresì prevista l’istituzione di un «osservatorio per la prevenzione della criminalità» (OPC), destinato ad assorbire la REPC, ma per ora, anche alla luce dei buoni risultati del REPC, la Commissione giudica prematura l’iniziativa. V. la comunicazione della Commissione al Consiglio: «Relazione di valutazione sulla rete europea di prevenzione della criminalità», del 30 novembre 2012 (COM (2012) 717 def.). Quanto alla REPC, istituita con la decisione dec. 2009/902/GAI, del Consiglio, del 30 novembre 2009 (GUUE L 321, 44), che ha sostituito la dec. 2001/427/GAI del Consiglio, del 28 maggio 2001 (GUCE L 153, 1), con il medesimo oggetto, essa è composta di rappresentanti nazionali e da un rappresentante della Commissione, e ha il compito, tra l’altro, di facilitare la cooperazione, i contatti e gli scambi d’informazioni e di esperienze tra gli operatori nel settore della prevenzione della criminalità; raccogliere, valutare e diffondere le informazioni; fornire la necessaria consulenza al Consiglio e alla Commissione; sviluppare e attuare un programma di lavoro basato su una strategia chiaramente definita che tenga conto dell’identificazione delle pertinenti minacce della criminalità e della maniera di farvi fronte. Ma va anche segnalata l’istituzione di un gruppo di esperti nel campo delle esigenze politiche in materia di dati sulla criminalità (decisione della Commissione, del 14 febbraio 2012, GUUE C 42, 2), che assiste la Commissione, in particolare elaborando indicatori comuni per l’osservazione dei dati sulla criminalità all’interno dell’Unione, fornendo consulenze e coordinando la propria attività con quella del gruppo di lavoro Eurostat sulle statistiche della criminalità e della giustizia penale.
9. Segue : Eurojust e la Procura europea A completare e rafforzare la cooperazione giudiziaria in materia penale già concorrono o concorreranno a breve due importanti organismi: Eurojust (art. 85 TFUE) e la Procura europea (art. 86 TFUE). a) Per quanto riguarda il primo, peraltro, come emerge da quanto già detto in precedenza, esso non costituisce una novità del Trattato di Lisbona, perché in realtà l’art. 85 TFUE non istituisce, ma solo precisa e valorizza il ruolo di Eurojust all’interno dello spazio di sicurezza. La storia di questo organismo, in effetti, precede di molto il Trattato di Lisbona, in quanto di esso si parla già nel ricordato Programma di Tampere del 15-16 ottobre 1999, nelle cui conclusioni il Consiglio europeo annunciava l’intesa per l’istituzione di «un’unità (Eurojust), composta di pubblici ministeri, magistrati e funzionari di polizia di pari competenza, distaccati da ogni Stato membro … [al fine di] agevolare il buon coordinamento tra le autorità nazionali responsabili dell’azione penale, di prestare assistenza nelle indagini riguardanti i casi di criminalità organizzata, […] e di cooperare strettamente con la Rete giudiziaria europea». Dopo vari passaggi intermedi tale annuncio si concretizzò dapprima nella dec. 2000/799/GAI, del Consiglio, del 14 dicembre 2000 (GUCE L 324, 2), che istituiva una «Unità provvisoria di cooperazione giudiziaria (Pro-Eurojust)», e poi nella dec. 2002/187/GAI, del Consiglio, del 28 febbraio 2002 (GUCE L 190, 1), istituiva di Eurojust, in seguito a sua volta ulteriormente modificata e attualmente ancora in corso di revisione.
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V. dec. 2003/659/GAI del Consiglio, del 18 giugno 2003 (GUUE L 245, 44), che ha modificato le disposizioni relative al bilancio e al regolamento finanziario di Eurojust; e dec. 2009/426/GAI del Consiglio, del 16 dicembre 2008 (GUUE L 138, 14). Un testo consolidato è stato poi pubblicato il 15 luglio 2009, a cura del Segretariato generale del Consiglio (5347/3/09 REV 3). Ulteriori ed importanti modifiche, come detto nel testo, sono stato peraltro annunciate nella proposta di regolamento del PE e del Consiglio «che istituisce l’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione penale (Eurojust)», presentata dalla Commissione il 13 luglio 2013 (COM (2013) 535 def.).
In realtà, il valore aggiunto del Trattato di Lisbona non sta neppure nella previsione di Eurojust a livello di diritto primario (esso era già evocato dall’art. 31 TUE pre-Lisbona), ma nell’avergli dedicato un’apposita disposizione, precisato il ruolo e i compiti e istituito una specifica base giuridica per l’adozione, con procedura legislativa ordinaria, di regolamenti volti a determinare «la struttura, il funzionamento, la sfera d’azione e i compiti di Eurojust» (ma anche fissare le modalità per associare il PE e i parlamenti nazionali alla valutazione delle sue attività: art. 85, par. 1, comma 3, TFUE), nonché, più in generale, di averlo inserito in un contesto di profonda riforma dell’intero sistema di cooperazione in materia penale e degli organismi in esso operanti. Come vedremo, infatti, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, tali organismi sono stati quasi tutti sottoposti a revisione in un quadro organico di interventi volti non solo ad accentuarne l’efficacia, ma anche a conformarne competenze e modalità d’azione al rispetto dei principi generali dell’ordinamento e in particolare dei diritti fondamentali. Basti pensare che nello stesso giorno (13 luglio 2013) in cui presentava la menzionata proposta di nuovo regolamento istitutivo di Eurojust, la Commissione ha anche varato una comunicazione dal titolo «Tutelare meglio gli interessi finanziari dell’Unione. Una Procura europea e un nuovo Eurojust» (COM (2013) 532 def.), cui si collegavano non solo detta proposta, ma anche la proposta di istituzione della Procura europea (v. più avanti), nonché una comunicazione sull’OLAF, cui hanno fatto rapido seguito le modifiche strutturali e funzionali di tale Ufficio (v. p. 113 s.).
Risulta dunque dall’art. 85 TFUE che a Eurojust spetta il «compito di sostenere e potenziare il coordinamento e la cooperazione tra le autorità nazionali responsabili delle indagini e dell’azione penale contro la criminalità grave che interessa due o più Stati membri o che richiede un’azione penale su basi comuni», avvalendosi a tal fine delle operazioni effettuate e delle informazioni fornite dalle autorità degli Stati membri e da Europol. Premesso che, come si vede, anche per Eurojust le relative competenze si esplicano solo in presenza di casi di criminalità grave che trascendano le frontiere di un solo Stato o che comunque richiedano un’azione penale su basi comuni, va aggiunto che lo stesso art. 85 TFUE precisa, ampliandone la portata rispetto alla precedente normativa, che detti compiti possono comprendere: a) l’avvio di indagini penali, nonché la proposta di avvio di azioni penali esercitate dalle autorità nazionali competenti, in particolare quelle relative a reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione; b) il coordinamento di indagini ed azioni penali di cui alla lett. a); c) il potenziamento della cooperazione giudiziaria, anche attraverso la composizione dei conflitti di competenza e tramite una stretta cooperazione con la Rete giudiziaria europea. Tali competenze si traducono in una serie di attività svolte o a titolo individuale dai membri nazionali di Eurojust o in attività collegiali dell’or-
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ganismo (ad esempio, inoltro di richieste per l’avvio di indagini e azioni penali, per atti di coordinamento delle competenti autorità, ivi compresa l’esecuzione del mandato d’arresto europeo, per la comunicazione di informazioni, per l’assunzione di speciali misure investigative, per la trasmissione di rogatorie, per la soluzione dei conflitti di giurisdizione). Eurojust può altresì svolgere funzioni di coordinamento nei rapporti con Stati terzi e organizzazioni internazionali (ad esempio, Interpol), stipulando appositi «accordi di lavoro» e designando «punti di contatto», così come può intrattenere rapporti con le altre istanze operanti nella medesima materia. Si è già accennato, e ritorneremo comunque più avanti, sui rapporti con Europol, limitandoci qui a notare che i reati di competenza di Eurojust sono comunque ritagliati in larga misura su quelli per i quali è competente Europol (art. 4 della citata dec. 2009/426/GAI, nonché art. 4 della dec. 2009/371/GAI, istitutiva di Europol, di cui diremo in quella sede). Ma evidentemente Eurojust intrattiene rapporti anche con la istituenda Procura europea, con la Rete giudiziaria europea, con Frontex e con l’OLAF.
Sfugge invece alla competenza di Eurojust, salvo quanto si dirà a proposito della Procura europea, il compimento di atti ufficiali di istruttorie penali, che restano di esclusiva competenza dei funzionari nazionali competenti (art. 85, par. 2, TFUE). Quanto poi alla struttura e all’organizzazione di Eurojust (la cui sede provvisoria, come del resto di quella di Europol, è all’Aja), basterà qui ricordare che esso è configurato dalle stesse norme istitutive come un organo dell’Unione, dotato di personalità giuridica. È composto da rappresentanti degli Stati membri (uno per ciascuno di questi), che siano nei rispettivi paesi magistrati del pubblico ministero, giudici o funzionari di polizia; essi sono nominati per quattro anni e sono affiancati da assistenti, da un aggiunto e da corrispondenti nazionali. Dando maggior rilievo, secondo i casi, alle funzioni o alla struttura dell’organo, la dottrina si è divisa sulla sua natura giudiziaria o amministrativa. Per parte sua, la nostra Corte costituzionale ha qualificato come di natura amministrativa le competenze svolte dal membro nazionale di Eurojust (Corte cost. 15 aprile 2011, n. 136, Manfredda, punto 6).
Insieme con i rappresentanti della Commissione, essi compongono il Collegio, con un presidente e un vicepresidente, che nomina un direttore amministrativo e che dovrebbe essere assistito, secondo le segnalate proposte di riforma, da un Comitato esecutivo. I membri di Eurojust, insieme con i corrispondenti nazionali in materia di terrorismo, i membri della ricordata «Rete giudiziaria europea» e quelli delle diverse reti europee di cooperazione giudiziaria penale, concorrono a formare un «Sistema di coordinamento nazionale Eurojust», che permette di coinvolgere nella cooperazione giudiziaria penale europea le varie componenti nazionali interessate. Uno snello «Coordinamento permanente» (un solo rappresentante per Stato membro) assicura una più rapida ed efficace operatività del sistema. Inoltre, come ancora vedremo in sede di esame di Europol, una specifica disciplina mira a istituire forme di garanzia del trattamento dei dati (personali e non) in possesso di Eurojust in termini conformi ai principi affermati in materia dal diritto dell’Unione. b) Una novità assoluta per i Trattati rappresenta invece la previsione dell’isti-
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tuzione di una Procura europea, anche se di questa si parlava da tempo e il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa ne aveva fatto addirittura oggetto di una specifica disposizione (art. III-274 Trattato costituzionale). Si tratta, per giunta, di un’innovazione di notevole rilievo e certamente tra le più significative del Trattato di Lisbona, anche al di là dello specifico settore cui essa oggi si riferisce, quello cioè della tutela degli interessi finanziari dell’Unione. Sono infatti evidenti il significato e le implicazioni dell’integrazione strutturale di questo nuovo organo nell’architettura istituzionale dell’Unione, specie se si considerano gli ulteriori sviluppi cui essa può aprire la via e le ricadute che potrebbero conseguirne sul complessivo sistema di tutela giurisdizionale. Come già accennato, l’idea di una Procura europea era coltivata da tempo e da più parti, essendo sempre più avvertita la necessità di migliorare la tutela degli interessi finanziari dell’Unione e, al tempo stesso, di assicurare la sua piena conformità ai principi e alle garanzie delle procedure giurisdizionali. In effetti, che un contrasto più efficace alla frode e alle altre attività illegali contro gli interessi finanziari dell’Unione si imponesse era concretamente testimoniato, tra l’altro, dai gravi danni prodotti dal sistema in atto per le finanze dell’Unione (le cui perdite ammonterebbero, secondo la Commissione, a circa 500 milioni di euro annui). Com’è noto, infatti, la lotta a quelle attività illegali è oggi affidata a titolo principale alla responsabilità degli Stati membri, i quali però non si sono mostrati particolarmente solerti e incisivi in tale contrasto, vuoi perché relativamente interessati a un’azione che va a beneficio del bilancio dell’Unione, vuoi a volte per mancanza dei necessari strumenti (ad esempio, per i reati trascendenti la frontiera di uno di essi). Per altro verso, la crescente attenzione per la tutela dei diritti fondamentali imponeva di assicurare il rispetto degli stessi e delle garanzie procedurali in tutte le fasi delle indagini e dei procedimenti penali. Il che oggi non pare affatto evidente, visto che il controllo sull’azione investigativa, affidata essenzialmente, come vedremo, a strutture amministrative interne all’Unione, presenta sotto l’indicato profilo lacune sempre più inaccettabili. Ma ugualmente si avvertiva in materia l’esigenza di una maggiore trasparenza e di un controllo del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali. La rifondazione con il Trattato di Lisbona dello SLSG, e in particolare del settore della sicurezza, non poteva non tener conto anche di quelle esigenze, sottolineate ormai con insistenza dalla dottrina e da ripetute prese di posizione della Commissione. In particolare, va ricordato il Rapporto predisposto, su incarico della Commissione, da un gruppo di esperti coordinati da M. DELMAS-MARTY («Corpus Juris» portant dispositions pénales pour la protection des intêrets financiers de l’Union européenne, Paris, 1997), nonché il dibattito cui esso dette vita negli anni successivi e riportato nel volume edito da M. DELMAS-MARTY e J.A.E. VERVAELE, La mise en oeuvre du Corpus Juris dans les Etats membres, Antwerp-GroningenOxford, 2000 e 2001 (4 voll.).
Il Trattato di Lisbona ha quindi recepito tali istanze, introducendo un’apposita disposizione volta ad abilitare il legislatore dell’Unione all’istituzione di una Procura europea e a definirne i tratti generali. L’art 86, par. 1, TFUE prevede infatti che il Consiglio, con una procedura legislativa speciale (delibera all’unanimità, previa approvazione del Parlamento europeo), possa adottare appositi regolamenti volti ad
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«istituire una Procura europea a partire da Eurojust» al fine di «combattere i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione», con l’intesa che, in mancanza di unanimità in Consiglio, gli Stati membri possono avviare una cooperazione rafforzata (art. 86, par. 1, comma 2, TFUE). Sempre con detti regolamenti, poi, il Consiglio potrà fissare lo statuto della Procura europea, le condizioni di esercizio delle sue funzioni, le regole procedurali applicabili alle sue attività e all’ammissibilità delle prove e le regole applicabili al controllo giurisdizionale degli atti procedurali che adotta nell’esercizio delle sue funzioni. Fin da subito, però, il par. 2 dell’art. 86 TFUE definisce alcuni aspetti importanti della Procura europea, in particolare assegnandole il compito di «individuare, perseguire e rinviare a giudizio, eventualmente in collegamento con Europol, gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, quali definiti dal regolamento previsto nel [par. 1], e i loro complici». Inoltre, il Consiglio, con una decisione assunta con le medesime modalità indicate al par. 1 della disposizione (art. 86, par. 4, TFUE), può estendere dette attribuzioni «alla lotta contro la criminalità grave che presenta una dimensione transnazionale, e che modifica di conseguenza il [par. 2] per quanto riguarda gli autori di reati gravi con ripercussioni in più Stati membri e i loro complici». Per tutti i reati indicati, dunque, la Procura europea potrà, in sinergia con Eurojust, intervenire sull’intero ciclo procedurale in modo coerente ed uniforme in tutta l’Unione. Per le indagini penali restano però di applicazione le procedure nazionali (e quindi anche le relative garanzie giurisdizionali), così come l’eventuale azione penale dovrà essere esercitata dinanzi agli organi giurisdizionali competenti degli Stati membri (art. 86, par. 2, ultima frase, TFUE). Come si è detto, la riferita disciplina dell’art. 86 TFUE dovrebbe essere ulteriormente definita da appositi regolamenti del Consiglio, che però finora non sono stati ancora adottati. In compenso, l’8 giugno 2017 è stata avviata una cooperazione rafforzata tra 20 Stati membri (tra cui l’Italia), che hanno trovato un’intesa politica per l’istituzione della Procura europea, con sede a Lussemburgo, competente a investigare, perseguire e trarre in giustizia i reati contro il bilancio dell’UE, quali frode corruzione e evasione transfrontaliera, che siano superiori ai 10 milioni di euro. Anche alla luce della proposta di regolamento presentata il 17 luglio 2013 dalla Commissione proprio per l’istituzione della Procura europea (COM/2013/0534 final2013/0255 APP), è possibile prefigurare con una certa attendibilità le caratteristiche essenziali che l’organismo potrebbe presentare. In particolare, la Procura europea si dovrebbe configurare come una struttura unica e indipendente, e quindi con le connesse garanzie per salvaguardare tale carattere (quanto alla nomina dei suoi membri, alle immunità, alla revoca, ecc.), articolata su due livelli: quello centrale e quelli nazionali. Essa sarebbe infatti guidata da un procuratore europeo, nominato dal PE e dal Consiglio, assistito da uffici tecnici e da uno staff investigativo, cui spettano le decisioni finali, ma verrebbe completata da procuratori europei delegati negli Stati membri, che avrebbero un doppio cappello: essi sarebbero coordinati e diretti dal procuratore europeo e godrebbero del medesimo statuto di indipendenza, ma resterebbero integrati negli ordinamenti giudiziari degli Stati membri, ed è al livello e secondo le competenze di questi ultimi che tratterebbero i casi di competenza della Procura europea. Inoltre, l’azione della Procura dovrà essere più trasparente e soprattutto assoggettata al controllo del Parlamento
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europeo e dei parlamenti nazionali, cui la Procura europea dovrebbe presentare una relazione annuale. Emerge poi dallo stesso art. 86 TFUE che la Procura europea dovrà coordinarsi con le altre strutture già operanti nell’Unione. In primo luogo con Eurojust. Dato in effetti che, come si è visto, la Procura europea viene istituita «a partire da Eurojust», senza però sostituirsi a tale organismo, che dunque continuerebbe ad esistere ed operare (anche) in materia di tutela degli interessi finanziari dell’Unione, la reciproca cooperazione tra i due organismi dovrà essere appropriatamente definita. Del resto, già ora si prefigura una simile cooperazione, sia al fine di evitare sovrapposizioni, sia per la migliore utilizzazione a reciproco vantaggio delle strutture, delle competenze, degli strumenti informatici e delle risorse dei due organismi (ma soprattutto di Eurojust). Nelle proposte di riforma di Eurojust le relazioni in parola sono addirittura qualificate come «privilegiate» e si traducono, oltre che nelle forme indicate nel testo, anche in un sostegno da parte di Eurojust in termini di servizi tecnici e tecnologici, di sicurezza, gestione finanziaria, contabile, ecc.
Del pari, dovranno essere precisati i rapporti con Europol, dato che la Procura europea è destinata ad avvalersi delle analisi e dell’intelligence di tale organismo. Inoltre, anche se non menzionati dall’art. 86 TFUE, andranno definiti i rapporti con l’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), considerato che ancor oggi tale Ufficio svolge, all’interno della Commissione, le indagini per gli aspetti amministrativi di casi che possano configurare un reato contro gli interessi finanziari dell’Unione, per poi denunciarli alle autorità penali nazionali. Con l’istituzione della Procura europea, esso potrà ancora svolgere simili indagini, ma dovrà trasferirle alla Procura europea ove ipotizzi l’esistenza di un reato, e dovrà farlo già dalle primissime fasi. Com’è noto, tale Ufficio, che ha ereditato il ruolo dell’UCLAF (Unità di coordinamento della lotta antifrode, creata nel 1988) è stato istituito nel 1999 (dec. 1999/352/CE, CECA, Euratom della Commissione, GUCE L 156, 20, modificata dalla dec. 2013/478/UE della Commissione, del 27 settembre 2013, GUUE, L 257, 19). Esso svolge attività d’indagine amministrativa interna all’Unione, sia pur con esclusivo riguardo alla lotta contro la frode, la corruzione e altri comportamenti e attività lesivi degli interessi finanziari dell’Organizzazione, nonché agli illeciti commessi dai funzionari dell’Unione nell’esercizio delle loro attività istituzionali: v. reg. (CE) n. 1073/1999 del PE e del Consiglio, del 25 maggio 1999, relativo alle indagini svolte dall’Ufficio per la lotta anti frode (OLAF) (GUCE L 136, 1), poi sostituito dal reg. (UE, Euratom) n. 883/2013 del PE e del Consiglio, dell’11 settembre 2013, relativo alle indagini svolte dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) (GUUE L 248, 1).
10. Segue : La cooperazione di polizia ed Europol Il quadro della disciplina relativa allo spazio di sicurezza si completa con le disposizioni in materia di cooperazione di polizia. a) In proposito, va subito ricordato che, come molti aspetti dello SLSG, pure tale cooperazione cominciò a prendere corpo a partire dagli Accordi di Schengen, anche
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se in realtà forme di collaborazione in materia si erano manifestate già prima, sia pur in modo informale. Risale in effetti addirittura al 1975 la costituzione del c.d. Gruppo TREVI (acronimo di terrorismo, radicalismo, estremismo e violenza internazionale), nell’ambito del quale le competenti autorità degli Stati membri (per l’Italia, il Ministero degli interni) iniziarono a collaborare attraverso appositi gruppi di lavoro, che si riunivano in maniera informale e al di fuori delle istanze comunitarie, sebbene ovviamente le motivazioni e il quadro di riferimento restassero il processo d’integrazione e le esigenze di sicurezza collegate alla realizzazione della libera circolazione delle persone e all’apertura delle frontiere interne ed esterne. Ma è ancora una volta con gli Accordi di Schengen che la cooperazione di polizia comincia a tradursi in atti formali, ancorché ancora esterni al sistema dei Trattati. In tale ambito, furono in effetti introdotte le prime forme di quella cooperazione, in particolare tramite il più volte citato Sistema d’informazione integrato Schengen (SIS), ma anche con le previsioni di quegli accordi relative all’inseguimento e all’osservazione transfrontalieri e all’offerta spontanea di informazioni ad autorità di polizia di altro Stato membro. Alla luce di tali sviluppi la cooperazione in parola guadagnò la sua prima menzione, a livello di diritto primario, nel Trattato di Maastricht, come materia di comune interesse degli Stati membri (art. K.1), ma trovò poi una specifica disciplina solo a seguito della «comunitarizzazione» di quegli Accordi operata, come si disse, dal Trattato di Amsterdam, pur restando all’interno del c.d. terzo pilastro (art. 30 TUE preLisbona). Con il Trattato di Lisbona, la cooperazione di polizia ha infine ricevuto la sua consacrazione «comunitaria» nell’art. 87 TFUE, che la regolamenta in termini più compiuti ed organici. La disposizione prevede infatti che l’Unione sviluppi «una cooperazione di polizia che associ tutte le autorità competenti degli Stati membri, compresi i servizi di polizia, i servizi delle dogane e altri servizi incaricati dell’applicazione della legge specializzati nel settore della prevenzione o dell’individuazione dei reati e delle relative indagini» (art. 87, par. 1, TFUE). Si tratta dunque di una cooperazione che, sotto il profilo soggettivo, investe qualsiasi organismo nazionale coinvolto in attività di prevenzione ed individuazione dei reati, nonché di investigazione penale. A esse, malgrado il silenzio della disposizione, devono aggiungersi anche gli organismi dell’Unione preposti a compiti a qualsiasi titolo riconducibili a quelle attività e dei quali si è detto nelle pagine precedenti (Eurojust e le sue banche dati, il SIS, il VIS, Frontex, nonché OLAF ed Europol, di cui si dirà tra breve). Quanto alle finalità della segnalata cooperazione, è lo stesso art. 87 TFUE (segnatamente, al par. 2) a precisare che, con procedura legislativa ordinaria, il PE e il Consiglio possono stabilire misure riguardanti: a) la raccolta, l’archiviazione, il trattamento, l’analisi e lo scambio delle pertinenti informazioni; b) un sostegno alla formazione del personale e la cooperazione relativa allo scambio di personale, alle attrezzature e alla ricerca in campo criminologico; c) le tecniche investigative comuni ai fini dell’individuazione di forme gravi di criminalità organizzata. Ma il Consiglio, questa volta con procedura legislativa speciale (nella quale però si prevede la possibilità, tranne che per gli atti che costituiscono uno sviluppo dell’acquis di Schengen, di azionare la procedura del c.d. freno di emergenza e di ricorrere ad una cooperazione rafforzata: supra, rispettivamente, pp. 205 e 49 ss.), può anche stabilire misure
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riguardanti la cooperazione operativa tra le autorità di cui al presente articolo (art. 87, par. 3, TFUE). Nell’ambito di questo ampio spazio di intervento dell’Unione, alcune iniziative sono già state adottate o sono in preparazione. Limitandoci all’aspetto più importante, vale a dire all’attività di raccolta, archiviazione, trattamento, analisi e scambio delle pertinenti informazioni, dette iniziative riguardano essenzialmente il reciproco accesso e l’interoperabilità delle banche-dati nazionali e di quelle dell’Unione. A questo fine rilevano in particolare la decisione-quadro 2006/960/GAI, relativa alla semplificazione dello scambio d’informazioni e intelligence tra le autorità degli Stati membri dell’Unione europea incaricate dell’applicazione della legge, e la dec. 2008/615/GAI, sul potenziamento della cooperazione transfrontaliera, soprattutto nella lotta al terrorismo e alla criminalità transfrontaliera. Rispetto alla decisione-quadro 2006/960/GAI del Consiglio, del 18 dicembre 2006 (GUUE L 386, 89), va rilevato che al momento la materia è oggetto di una proposta di revisione generale del sistema al fine di meglio tutelare i diritti dell’individuo e far fronte alle sfide poste dalle nuove tecnologie. Quanto alla dec. 2008/615/GAI del Consiglio, del 23 giugno 2008 (GUUE L 210, 1), essa, che impone tra l’altro agli Stati membri di istituire un fichier nazionale d’analisi del DNA, mira a integrare nel sistema dell’Unione il c.d. Trattato di Prüm, concluso il 27 maggio 2005 tra alcuni Stati membri per rafforzare la cooperazione transfrontaliera ai fini di lotta a al terrorismo, alla criminalità transfrontaliera e all’immigrazione illegale. V. anche la dir. 2011/82/UE, del PE e del Consiglio, del 25 ottobre 2015, inteso ad agevolare lo scambio d’informazioni sulle infrazioni in materia di sicurezza stradale (GUUE L 288, 1), sulla quale v. Corte giust. 6 maggio 2014 C-43/12, Commissione c. PE e Consiglio, avente ad oggetto proprio la base giuridica di tale regolamento.
Parallelamente, tuttavia, il legislatore dell’Unione si è preoccupato della tutela di così sensibili dati personali a fronte della diffusa circolazione degli stessi, sicché, oltre che nelle specifiche direttive evocate e in vari atti collegati alla materia (come si è accennato, ad esempio, a proposito di Eurojust e si accennerà tra breve, per Europol), è stata adottata un’apposita decisione-quadro, 2008/977/GAI, sulla protezione dei dati personali nel quadro della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Decisione-quadro del Consiglio, del 27 novembre 2008 (GUUE L 350, 60). In quest’ambito, si segnala anche l’Accordo tra l’UE e gli Stati Uniti d’America sul trattamento e il trasferimento di dati di messaggistica finanziaria dall’Unione agli Stati Uniti ai fini del programma di controllo delle transazioni finanziarie dei terroristi (c.d. Accordo SWIFT, concluso, dopo varie difficoltà ed obiezioni del PE, con dec. 2010/412/UE del Consiglio, del 13 luglio 2010, in GUUE L 195, 3).
b) Nel quadro della cooperazione in esame un ruolo di primo piano gioca infine, l’Ufficio europeo di polizia, più noto con la sigla Europol. E lo gioca non da oggi, perché in realtà anche tale Ufficio precede di molto il Trattato di Lisbona, non solo perché già in seno al ricordato Gruppo TREVI furono avviate modalità di collaborazione istituzionalizzata di polizia, ma perché anche la formalizzazione di quest’ultima risale addirittura al Trattato di Maastricht, che nel contesto della cooperazione di polizia, includeva tra le questioni di interesse comune per gli Stati membri, l’organizzazione di un sistema di informazioni «in seno ad un ufficio europeo di polizia (Eu-
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ropol)» (art. K.1, n. 9). Sicché, facendo seguito a tale previsione, il 26 luglio 1995 il Consiglio adottò l’Atto che stabiliva la Convenzione istitutiva di Europol, entrata in vigore il 10 ottobre 1998, anche se l’Ufficio divenne operativo dal 1° luglio dell’anno seguente. V. GUCE C 316, 1. Un altro Atto del Consiglio, del 23 luglio 1996, stabiliva il Protocollo che attribuiva alla Corte di giustizia la competenza a interpretare in via pregiudiziale detta Convenzione.
Il Trattato di Amsterdam ampliò poi la disciplina della materia (art. 30 TUE preLisbona), che ora il Trattato di Lisbona assesta in termini più compiuti all’art. 88 TFUE. Già prima però dell’entrata in vigore di tale Trattato, il Consiglio aveva sostituito la menzionata Convenzione con la dec. 2009/371/GAI, del Consiglio, del 6 aprile 2009 (GUUE L 121, 37), istitutiva di Europol. In attuazione dell’art. 88 TFUE è stato finalmente adottato il reg. del PE e del Consiglio, dell’11 maggio 2016, che istituisce l’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione nell’attività di contrasto (Europol) (GUUE L 135, 53), di seguito il “Regolamento”. Secondo quanto emerge dalla menzionata normativa, Europol ha «il compito di sostenere e potenziare l’azione delle autorità di polizia e degli altri servizi incaricati dell’applicazione della legge degli Stati membri e la reciproca collaborazione nella prevenzione e lotta contro la criminalità grave che interessa due o più Stati membri, il terrorismo e le forme di criminalità che ledono un interesse comune oggetto di una politica dell’Unione» (art. 88, par. 1, TFUE). Per precisare tale missione, il legislatore dell’Unione, con regolamenti adottati secondo la procedura legislativa ordinaria ai sensi dell’art. 88, par. 2, TFUE, può definire l’attività di Europol per quanto riguarda, tra l’altro: «a) la raccolta, l’archiviazione, il trattamento, l’analisi e lo scambio delle informazioni trasmesse, in particolare dalle autorità degli Stati membri o di paesi o organismi terzi; b) il coordinamento, l’organizzazione e lo svolgimento di indagini e di azioni operative, condotte congiuntamente con le autorità competenti degli Stati membri o nel quadro di squadre investigative comuni, eventualmente in collegamento con Eurojust». Il campo d’azione di Europol viene dunque delimitato con riguardo alle forme di criminalità che trascendono la sfera interna di un solo Stato membro e che, per la loro portata, gravità e conseguenze, esigono un’azione comune degli Stati membri. E ciò con riguardo alle ipotesi di criminalità esplicitamente menzionate dalla disposizione, le quali sono certo più numerose di quelle indicate dalla Convenzione del 1995, ma non per questo devono ritenersi esaustive, almeno se si ha riguardo all’ampio elenco allegato al Regolamento. In tale ambito, e alla luce delle ulteriori indicazioni fornite dal Regolamento, Europol deve raccogliere ed elaborare i dati a esso trasmessi dalle varie fonti sopra indicate, ma soprattutto deve collaborare con le autorità nazionali, mettendo a disposizione delle stesse le proprie specifiche capacità operative, segnatamente ai fini delle procedure investigative, anche comuni. Ciò tuttavia, con due limitazioni di carattere generale. In primo luogo, le «azioni operative» devono essere condotte «in collegamento e d’intesa con le autorità dello Stato membro o degli Stati membri di cui inte-
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ressa il territorio»; in secondo luogo, l’applicazione di misure coercitive resta di dominio esclusivo delle autorità nazionali competenti (art. 88, par. 3, TFUE). Si parla qui, ovviamente, delle azioni di Europol all’interno di uno Stato membro. Ma il Trattato (art. 89 TFUE) contempla anche la possibilità che le autorità giudiziarie e di polizia di uno Stato membro possano operare nel territorio di un altro Stato membro in collegamento e d’intesa con le autorità di quest’ultimo, subordinandola tuttavia ad apposite decisioni del Consiglio, adottate secondo una procedura legislativa speciale (delibera all’unanimità previa consultazione del PE), che stabiliscano le condizioni e i limiti di una simile eventualità. La novità di tale previsione consiste nel fatto che, ove il Consiglio deliberasse nel senso detto, l’ammissibilità di un’attività dello Stato terzo non sarebbe lasciata, come da sempre avviene, alla mera discrezionalità dello Stato ad quem. La prospettata eventualità era già contemplata, per la verità, dagli Accordi di Schengen, sia pur limitatamente ai casi in cui agenti di uno Stato, che tenessero sotto osservazione una persona sospettata di un grave reato, potessero continuare l’osservazione nel territorio di un altro Stato anche senza autorizzazione di quest’ultimo, ove ricorressero motivi di particolare urgenza, ma comunque dandone subito dopo comunicazione a quello Stato.
Come si è visto, l’art. 88 TFUE affida al legislatore dell’Unione anche il compito di determinare la struttura e il funzionamento di Europol. Sotto questo profilo, esso si configura come un’agenzia dell’Unione, dotata di personalità giuridica, e articolata su due livelli. Una struttura centrale, con sede all’Aja, costituita dal Consiglio di amministrazione, che è l’organo deliberativo, composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro e della Commissione, e dal Direttore, nominato dal Consiglio per quattro anni, e responsabile della gestione corrente di Europol. La struttura decentrata è invece formata da funzionari nazionali (almeno uno per ciascuno Stato membro), operanti come «uffici nazionali di collegamento» tra la struttura centrale e le competenti autorità degli Stati membri. L’attività di Europol si svolge sotto il controllo del PE e dei parlamenti nazionali secondo le modalità che saranno fissate dal legislatore dell’Unione (art. 88, par. 2, ultima frase, TFUE). A tal fine, l’uno e gli altri sono informati con regolarità dell’attività di Europol. Ma sono altresì previsti controlli amministrativi in relazione alla tutela dei dati personali sia in sede nazionale presso l’autorità di controllo che ciascuno Stato membro è tenuto a istituire a tal fine, sia in sede europea presso la «autorità di controllo comune», prevista dall’art. 34 della Decisione, ferme restando, è da presumere, le competenze del Garante europeo della protezione dei dati. Istituito dal reg. (CE) n. 45/2001 del PE e del Consiglio, del 18 dicembre 2000, concernente la tutela delle persone fisiche in relazione al trattamento dei dati personali da parte delle istituzioni e degli organismi comunitari, nonché la libera circolazione di tali dati (GUCE L 8, 1).
Per i controlli giurisdizionali, valgono invece le regole generali in materia, essendo Europol uno degli «organismi» assoggettati al controllo della Corte di giustizia secondo le comuni regole di competenza. Vale anche la pena segnalare che per i danni causati da uno Stato in relazione ai dati da esso trasmessi ad Europol, nonché da personale di quest’ultimo in relazione ad attività operative svolte sul territorio dello Stato, la responsabilità incombe su quest’ultimo. Nell’esercizio dei propri compiti, Europol può instaurare e mantenere relazioni
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di cooperazione con le istituzioni, gli organi, gli uffici e le agenzie dell’Unione, a cominciare ovviamente da quelli di più diretto interesse per la sua attività (e dunque con Eurojust, l’OLAF, Frontex, l’Accademia europea di polizia, la BCE e l’Osservatorio europeo delle droghe e della tossicodipendenza), con i quali Europol può stipulare «accordi di lavoro» (art. 22 della Decisione) anche al fine di avvalersi delle relative banche-dati. Inoltre il personale di Europol può partecipare con funzioni di supporto alle squadre investigative comuni nella misura in cui le stesse indaghino su reati che ricadono nell’ambito delle competenze dell’Ufficio. V. art. 5 Regolamento. Tali squadre, istituite dalla decisione-quadro 2002/465/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa appunto alle squadre investigative comuni (GUCE L 162, 1), e prima ancora previste dalla Convenzione di Bruxelles del 29 maggio 2000, di assistenza giudiziaria in materia penale, c.d. Convenzione MAP (GUCE C 197, 3), per lo svolgimento di indagini penali, di durata limitata, che coinvolgano più Stati membri e che comportino inchieste difficili e di notevole portata o che comunque esigano un’azione coordinata e concertata di tali Stati. Esse sono costituite da funzionari di due o più Stati membri e possono raccogliere sul territorio di uno di essi, in collegamento o d’intesa con le autorità di quest’ultimo (sotto la direzione di un suo rappresentante e in conformità al suo diritto) informazioni, fonti di prova o altri elementi relativi a procedimenti penali.
Ma gli accordi di Europol possono anche trascendere la sfera interna dell’Unione, specie per l’instaurazione di rapporti con organismi operanti nella stessa materia (si pensi all’Organizzazione internazionale di polizia criminale, Interpol).
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CAPITOLO VI
La politica comune dei trasporti Sommario: 1. Premessa. – 2. Profili comuni della disciplina sui trasporti. Aspetti istituzionali. – 3. Segue: Ambito di applicazione. – 4. Segue: I principi informatori. – 5. L’applicabilità delle regole di concorrenza e della disciplina sugli aiuti di Stato. – 6. I singoli modi di trasporto. Il trasporto ferroviario. – 7. Il trasporto stradale. – 8. Il trasporto fluviale. – 9. Il trasporto marittimo. – 10. Il trasporto aereo.
1. Premessa Delle tre «politiche comuni» previste dal TCEE alle origini della Comunità (agricola, dei trasporti e commerciale), solo le prime due erano più direttamente collegate alla realizzazione del mercato interno. E infatti oggi la politica commerciale è stata ricondotta all’azione esterna dell’Unione, mentre le altre restano nell’area del mercato interno, ma con una disciplina che le distingue dagli altri settori che compongono quel mercato. Anche ai trasporti, infatti, come all’agricoltura, il Trattato riserva un apposito Titolo (il Titolo VI, artt. 90-100 TFUE) nell’ambito della generale disciplina dedicata alla realizzazione del mercato interno, e questo perché, come l’agricoltura, anche i trasporti presentano, sotto diversi profili, una propria spiccata peculiarità che ne ha imposto una distinta e autonoma regolamentazione rispetto agli altri settori di quel mercato (anche l’art. 58, par. 1, TFUE, come si è visto, esplicitamente sottrae i servizi di trasporto alla disciplina della libera circolazione dei servizi, riservandoli appunto allo specifico Titolo). Il parallelo con l’agricoltura finisce però qui, perché per tutto il resto, cioè per le condizioni, i modi, i tempi e perfino i risultati della loro realizzazione, le rispettive politiche comuni sono assai diverse, in conformità del resto alle profonde differenze che intercorrono tra i due settori. Ne costituisce chiara riprova il fatto che per l’agricoltura è stata realizzata in tempi rapidi un’autentica politica comune con risultati (da questo punto di vista) globalmente soddisfacenti, mentre la politica dei trasporti ha molto faticato per imporsi pienamente. Gli stessi Trattati, del resto, hanno preso atto fin dalle origini (cioè fin dal TCEE) della diversità dei due settori. In effetti, alla coerenza «comunitaria» della disciplina sulla politica agricola comune e al ruolo in essa dominante delle istituzioni europee, ha lungamente corrisposto una disciplina
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per così dire più flessibile per la realizzazione di quella sui trasporti, con un ruolo più significativo per gli Stati membri; e ciò anche se poi i progressi comunque conseguiti nel settore, insieme con quelli complessivi nel mercato interno, hanno col tempo modificato la situazione, al punto che oggi il Trattato di Lisbona apre il Titolo VI, dichiarando non più che «gli Stati membri perseguono gli obiettivi del Trattato» in materia nel quadro di una politica comune (art. 74 TCEE e poi 70 TCE), ma che «[g]li obiettivi dei Trattati [in materia] sono perseguiti nel quadro di una politica comune dei trasporti» (art. 90 TFUE). D’altra parte, il più difficile percorso della politica ora in esame costituisce in larga misura un riflesso della complessità della stessa e soprattutto delle sue specificità. Occorre in effetti considerare che l’autonoma previsione di una simile politica non si ricollega solo all’innegabile importanza del settore dei trasporti e alle sue notevoli implicazioni socio-economiche. In realtà, essa si è imposta fin dall’inizio in ragione di quelli che lo stesso Trattato definisce gli «aspetti peculiari dei trasporti» (art. 91 TFUE); aspetti che, per l’intrinseca trasversalità del settore e per la sua interferenza con una pluralità di materie regolate dal Trattato, proiettano i loro effetti derogatori su vari principi e politiche dell’Unione, in termini tali da imporre, piuttosto che occasionali e ripetute eccezioni alle stesse, la definizione di una disciplina organica dell’intero settore, e quindi di un’autentica «politica» comune, in grado di dettare regole coerenti con le esigenze e le peculiarità dei trasporti. Proprio quelle peculiarità, tuttavia, hanno reso al contempo faticosa la realizzazione di una simile politica. Non occorre qui approfondire la loro analisi, tanto più che esse sono ben note e che la stessa Commissione ne fece stato addirittura all’indomani dei Trattati di Roma in un noto Memorandum sull’orientamento da dare alla politica comune dei trasporti, presentato al Consiglio il 10 aprile 1961 (COM (61) 50 def.). Basterà ricordare che il settore dei trasporti, oltre che per la varietà delle forme in cui può articolarsi (trasporti stradali, ferroviari, marittimi, aerei, ecc.), ciascuna segnata a sua volta da tradizioni, storie, sviluppi, regolamentazioni ed esigenze diversi, si caratterizza per alcuni aspetti che ne hanno pesantemente segnato lo sviluppo. Aspetti che riguardano, in particolare, la disuguaglianza strutturale delle imprese che operano nel settore, con la presenza da un lato di grandi imprese monopolistiche o quasi e dall’altro di una miriade d’imprese private; la rigidità della domanda e dell’offerta e quindi la mancanza di elasticità del mercato; la penetrante interferenza dei poteri pubblici, sia quanto alla creazione delle e all’accesso alle infrastrutture di trasporto, sia quanto alla protezione e al sovvenzionamento delle imprese di trasporto, sia quanto all’imposizione di obblighi di servizio pubblico, suscettibili di falsare le condizioni di concorrenza; la necessità di contemperare reddittività dell’impresa ed esigenze sociali, ambientali e di sicurezza legate al trasporto; la forte incidenza dei rapporti con gli Stati terzi, e così via. Non è stato facile, quindi, prefigurare una coerente politica in materia e articolarla in termini organici ed efficaci. Non lo è stato per il Trattato, che riserva alla materia una disciplina che sarebbe difficile considerare all’altezza delle ambizioni di una «politica comune», essendo racchiusa in un insieme di disposizioni alquanto disordinate e discontinue, dalle quali si riesce a fatica a enucleare la visione che dovrebbe esprimere una simile «politica». E non lo è stato, a maggior ragione, per le istituzioni
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che hanno penato non poco ad elaborare gli interventi all’uopo necessari e ancor più a realizzarli, e ciò anche in ragione delle continue evoluzioni del settore e perfino di qualche erronea valutazione iniziale. Numerosi sono stati quindi, nel corso di questi decenni, i documenti di quelle istituzioni che annunciavano programmi e linee d’intervento e via via li precisavano in funzione appunto dell’evoluzione della situazione e dell’emergenza di nuove o più diffuse esigenze. Così, accanto agli obiettivi più tradizionali, quali quelli di liberalizzare il settore, riducendo progressivamente il peso (e i riflessi negativi) dell’intervento pubblico insieme con una progressiva deregolamentazione nazionale, e di armonizzare le condizioni di accesso alle attività di trasporto e di esercizio delle stesse, realizzando la libera prestazione dei servizi ed eliminando le discriminazioni e le distorsioni di concorrenza comunque realizzate (anche tra modalità di trasporto), altri se ne sono aggiunti con l’intento di creare un sistema complessivo di mobilità, coerente con la realizzazione di uno spazio integrato all’interno dell’Unione e attento alle esigenze sempre più pressanti e irrinunciabili dei consumatori sul piano dell’efficacia dei servizi, della sicurezza, dell’ambiente e in genere della qualità della vita. A titolo esemplificativo, tra tali obiettivi: il miglioramento della qualità dei trasporti, grazie anche alla più avanzate tecnologie; l’organizzazione di sistemi di trasporto integrati, come le reti transeuropee, e la realizzazione di grandi infrastrutture; compatibilità dei sistemi di gestione del traffico nazionale; la crescita equilibrata dei vari mezzi di trasporto, con la riduzione dell’attuale predominio dei trasporti su strada; la decongestione dei grandi assi stradali, ferroviari e portuali; il miglioramento del trasporto locale e regionale; l’impulso alle attività di ricerca e sviluppo; il miglioramento della sicurezza per tutti i tipi di trasporto; la protezione dell’ambiente e la promozione di una «mobilità sostenibile»; la tutela dei diritti dei passeggeri; lo sviluppo della dimensione esterna, migliorando la qualità dei collegamenti tra l’Unione europea e i paesi terzi e promuovendo sulla scena mondiale l’Unione europea con «una sola voce», e così via. Tra i pertinenti documenti dell’Unione, tralasciando di elencare quelli, pur numerosi, più risalenti, e a parte il noto Libro Bianco della Commissione, del 14 giugno 1985, sul «completamento del mercato interno» (COM (85) 310 def.) di portata generale, ricordiamo il Libro Bianco del 1992 sugli «sviluppi futuri della politica comune dei trasporti» (comunicazione della Commissione, del 2 dicembre 1992, COM (92) 494 def.), il quale inaugura quella che sarà definita «la strategia globale» nel settore dei trasporti; il piano d’azione 1995-2000, di cui alla comunicazione della Commissione, del 12 luglio 1995 (COM (95) 302 def.); e poi, tra gli altri; il nuovo Libro Bianco della Commissione nel settembre 2001 (COM (2001) 370 def., del 12 settembre 2001): «La politica europea dei trasporti fino al 2010», rivisto poi nel 2006; la comunicazione «L’Agenda dell’UE per il trasporto merci: rafforzare l’efficienza, l’integrazione e la sostenibilità del trasporto di merci in Europa», del 18 ottobre 2007 (COM (2007) 606 def.); la comunicazione «un futuro sostenibile per i trasporti: verso un sistema di trasporto integrato, basato sulla tecnologia e di facile utilizzazione per l’utente», del 17 giugno 2009 (COM (2009) 279 def.); e ancora il Libro Bianco «Tabella di marcia verso uno spazio unico europeo dei trasporti – Per una politica dei trasporti competitiva e sostenibile», del 28 marzo 2011 (COM (2011) 144 def.).
2. Profili comuni della disciplina sui trasporti. Aspetti istituzionali Venendo ora alla disciplina che il Trattato riserva alla materia, va anzitutto ricordato che, per perseguire gli obiettivi della politica dei trasporti annunciati dall’art.
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90 TFUE, l’art. 91, par. 1, TFUE affida al legislatore dell’Unione il compito di stabilire: a) le norme comuni applicabili ai trasporti internazionali in partenza dal territorio di uno Stato membro o a destinazione di questo, o in transito sul territorio di uno o più Stati membri; b) le condizioni per l’ammissione di vettori non residenti ai trasporti nazionali in uno Stato membro; c) le misure atte a migliorare la sicurezza dei trasporti; e d) ogni altra utile disposizione. Si tratta, com’è chiaro, di una disposizione centrale nella disciplina della materia, che fonda la ricca regolamentazione che a valle di essa è intervenuta nei vari tipi di trasporto diversi da quelli aerei e marittimi, di cui diremo in seguito. La norma va letta insieme con l’art. 95 TFUE, che conferisce al legislatore dell’Unione anche il compito di adottare norme contro determinate forme di discriminazione. Gli altri articoli del Titolo VI in esame hanno una portata assai limitata: l’art. 91, par. 2, TFUE impone di tener conto del tenore di vita e dell’occupazione di talune regioni; l’art. 92 TFUE prevede un obbligo di standstill nel trattamento dei vettori degli altri Stati membri; l’art. 93 TFUE legittima gli aiuti giustificati dalle esigenze del servizio pubblico; l’art. 94 TFUE stabilisce che la fissazione di prezzi e condizioni di trasporto deve tener conto della situazione economica dei vettori; l’art. 96 TFUE vieta misure statali di sostegno alle imprese del settore o suscettibili di alterare la concorrenza; l’art. 97 TFUE fissa limiti alle tasse e ai canoni che uno Stato può percepire dai vettori al passaggio delle frontiere: l’art. 98 TFUE riconosce la legittimità delle misure adottate a sostegno dell’economia della ex Germania orientale in occasione della riunificazione; l’art. 99 TFUE istituisce il Comitato consultivo per i trasporti; l’art. 100 TFUE, infine, limita l’applicazione delle norme che precedono ai trasporti ferroviari, su strada e per via navigabili, rinviando invece al legislatore dell’Unione l’adozione di quelle applicabili ai trasporti marittimi e aerei. Già da questa breve sintesi emerge la fondatezza del precedente rilievo sul carattere alquanto confuso e disorganico della disciplina dettata dal Trattato in materia e sulla difficoltà di enuclearne il quadro coerente di una politica comune; e si comprende anche quanto sia arduo ogni tentativo di farne un’esposizione sistematica. Nelle prossime pagine, comunque, cercheremo di esporre, nel modo più ordinato possibile, le diverse problematiche per così dire orizzontali che la materia solleva, per poi procedere all’esame analitico delle realizzazioni intervenute rispetto alle singole modalità di trasporto. In primo luogo, si può notare che, dal punto di vista istituzionale, l’impianto della disciplina in esame non si discosta da quello già visto per altre politiche dell’Unione. Il Trattato annuncia l’obiettivo di instaurare una politica comune in materia e poi affida al legislatore dell’Unione il compito di adottare le misure all’uopo necessarie (artt. 91, 95 e 100 TFUE), misure che possono avere – come, in effetti, hanno avuto – la più varia natura in funzione delle specifiche esigenze, ma che devono comunque rispettare i criteri e le condizioni fissate dallo stesso Trattato e di cui diremo più avanti. Del resto, come si è visto, l’art. 91, par. 1, lett. d), TFUE, attribuisce al legislatore la competenza ad adottare «ogni altra utile disposizione», anche se ovviamente questo non significa libertà di legiferare a tutto campo, perché dette disposizioni devono essere «utili», e cioè integrative o accessorie e comunque funzionali rispetto a quelle adottate ai sensi delle precedenti lettere della norma.
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In tale ambito, il legislatore dell’Unione gode del più ampio potere discrezionale: v. Corte giust. 22 maggio 1985, 13/83, Parlamento c. Consiglio, 1513, nonché 17 luglio 1997, C-248/95 e C-249/95, SAM Schiffahrt e Stapf, I-4475; 12 marzo 2002, C-27/00 e C-122/00, Omega Air e a., I-2569. E ciò anche quanto alla scelta della natura dell’atto da utilizzare: Corte giust. 21 ottobre 1970, 23/70, Haselhorst, 881.
Comunque, la procedura per l’emanazione di quelle misure è, di regola, la procedura legislativa ordinaria, ma è previsto, dato l’oggetto delle stesse, anche l’intervento del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni. Per alcune specifiche situazioni sono tuttavia contemplati interventi autonomi del Consiglio o della sola Commissione, la quale è assistita nella gestione della materia da un apposito Comitato, c.d. Comitato trasporti (art. 99 TFUE). Lo statuto di tale comitato è stato adottato con decisione del Consiglio, del 15 settembre 1958 (GUCE n. 25, 509), e poi modificato con dec. 64/389/CEE del Consiglio, del 22 giugno 1964 (GUCE n. 102, 1602). Esso è composto da delegazioni nazionali, composte a loro volta da funzionari ed esperti dei vari tipi di trasporti.
Va anche precisato che, come conferma l’art. 4, par. 2, lett. g), TFUE, la competenza di cui ci occupiamo è una competenza «concorrente» con quella degli Stati membri, anche se, come si è già ricordato al paragrafo precedente, grazie al Trattato di Lisbona e alla segnalata modifica dell’art. 90 TFUE, il ruolo degli Stati membri ha perso la centralità che emergeva dalla precedente formulazione della norma a vantaggio delle istituzioni dell’Unione, cui compete perseguire gli obiettivi dei Trattati nel quadro di una politica «comune». Sta di fatto, comunque, che l’indicata natura della competenza in esame comporta che, fino al suo concreto esercizio da parte dell’Unione, gli Stati membri possono «legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti». Anche in vista di tale possibilità, il Trattato fissa alcuni principi cui gli Stati membri devono comunque attenersi (artt. 94, 96, 97 e 98 TFUE) e addirittura mette alcuni paletti per evitare che nelle more essi pregiudichino l’attuazione della politica comune (art. 92 TFUE). La natura concorrente della competenza in questione si riflette ovviamente anche sul versante dell’azione esterna dell’Unione e segnatamente sulla competenza di quest’ultima a stipulare accordi internazionali. Si tratta evidentemente di un aspetto di notevole rilievo in una materia a naturale vocazione internazionale, come quella dei trasporti. Non a caso, del resto, la Corte ha prodotto al riguardo una significativa e nutrita giurisprudenza, a cominciare dalla nota sentenza c.d. AETS (31 marzo 1971, 22/70, Commissione c. Consiglio, 263), che per la prima volta ha tracciato i criteri per la ripartizione delle competenze esterne tra l’allora Comunità e i suoi Stati membri, enunciando il principio del parallelismo tra competenze interne e competenze esterne, principio successivamente ancora precisato ed oggi finalmente consegnato agli artt. 3, par. 2, e 216 TFUE (v. pp. 823 ss. e 830 ss.). Basterà quindi ricordare, al riguardo, che ove la competenza esterna dell’Unione sussista e sia stata esercitata, e cioè sia divenuta esclusiva, «gli Stati membri non hanno più il potere – né individualmente, né collettivamente – di contrarre con gli Stati terzi obbligazioni che incidano su dette norme».
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E ciò non solo in presenza di un eventuale contrasto tra gli obblighi internazionali assunti unilateralmente dagli Stati membri e le norme comuni, ma per il solo fatto che detti accordi rientrino nell’ambito di applicazione delle norme comuni o comunque in un settore già in gran parte disciplinato da tali norme, dato che potrebbero «incidere» sulle norme comuni così adottate: Corte giust. 31 marzo 1971, 22/70, Commissione c. Consiglio, cit. Ma v. anche, oltre alla sentenza 14 luglio 1976, 3/76, 4/76 e 6/76, Kramer, 1279, i pareri della Corte: del 26 aprile 1977, 1/76, 741; del 14 ottobre 1979, 1/78, 2871; del 7 febbraio 2006, 1/03, I-1145; nonché il gruppo di sentenze c.d. «open sky», citate infra. Sulla nozione di «incidenza», v. le conclusioni dell’AG Tizzano presentate il 31 gennaio 2002 nelle suddette cause «open sky». Per un es. di simile incidenza e soprattutto del rigore con il quale la Corte la valuta, v. Corte giust. 30 maggio 2006, C-459/03, Commissione c. Irlanda, I-4657; nonché 12 febbraio 2009, C-45/07, Commissione c. Grecia, I-701.
Se invece la materia rientra in parte nella competenza dell’Unione e in parte in quella degli Stati membri, occorre assicurare tra l’una e gli altri una stretta cooperazione sia nella negoziazione che nella stipulazione dell’accordo, oltre che ovviamente nell’adempimento degli obblighi da esso imposti. Proprio nell’esercizio delle competenze esterne, l’Unione ha concluso numerosi accordi internazionali bilaterali e importanti accordi multilaterali, e partecipa alle organizzazioni internazionali competenti in materia di trasporti. V. il parere della Corte del 15 novembre 1994, 1/94, I-5267, reso in occasione della conclusione degli accordi GATS-TRIP all’interno dell’OMC. Si tratta dei casi degli accordi c.d. misti, definiti come tali appunto perché vi partecipano sia l’Unione che gli Stati membri, e tra i quali numerosi sono quelli in materia di trasporti. Ad es. l’Accordo sui servizi occasionali internazionali di trasporto di viaggiatori su strada effettuati con autobus (c.d. ASOR) (GUCE L 230/1982, 39); la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (conclusa per l’Unione con dec. 98/392/CE del Consiglio, del 23 marzo 1998, in GUCE L 179, 1); la Convenzione di Montreal sull’unificazione di alcune norme relative al trasporto aereo (GUCE L 194/2001, 39); l’Accordo relativo ai servizi internazionali occasionali di trasporto di viaggiatori effettuati con autobus (c.d. Interbus) (GUCE L 321/2002, 13); l’Accordo euromediterraneo nel settore del trasporto aereo tra l’Unione europea e i suoi Stati membri, da un lato, e il governo dello Stato d’Israele, dall’altro, (GU L 208/2013, 3). Quanto alle organizzazioni internazionali, va notato che l’Unione vi partecipa vuoi con lo status di osservatore, come nel caso dell’International Maritime Organization (IMO), dell’International Civil Aviation Organization (ICAO), e della United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD), vuoi con quello di membro a pieno titolo, come nel caso della World Trade Organization (WTO-OMC).
3. Segue: Ambito di applicazione Venendo all’ambito di applicazione della normativa in esame, va detto anzitutto che in principio le «regole comuni» riguardano solo, come recita l’art. 91, par. 1, lett. a), TFUE, i trasporti «internazionali» che abbiano come punto di arrivo o di partenza uno degli Stati membri e che, in ogni caso, attraversino il territorio di uno di questi. In altri termini, ai fini della «internazionalità» di un trasporto, e quindi dell’applicabilità della relativa normativa dell’Unione, occorre che in esso sia coinvolto almeno uno Stato membro e che sia varcata almeno una frontiera intracomunitaria. Nel caso del c.d. cabotaggio, però, come tra breve vedremo, rilevano anche i tra-
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sporti che si esauriscono all’interno di un solo Stato membro, ma questo unicamente ai fini dell’ammissione di «vettori non residenti» (art. 91, par. 1, lett. b), TFUE). Quanto ai modi e all’oggetto dei trasporti di cui si occupa la normativa dell’Unione, essi sono sicuramente i trasporti ferroviari, su strada e per via navigabile, e ciò sia che si tratti di trasporto di merci o di persone. Per i trasporti marittimi e aerei, come già accennato, il Trattato non dispone direttamente ma affida al legislatore dell’Unione il compito di decidere, in una fase successiva all’entrata in vigore dello stesso Trattato, «le disposizioni applicabili»; su di essi quindi torneremo più avanti. Ad ogni modo, il diverso trattamento dei due settori si giustificherebbe, secondo la comune opinione, oltre che per la previa esistenza di convenzioni internazionali e di organizzazioni internazionali specializzate operanti in materia, per il fatto che gli Stati membri originari dell’allora CEE avevano, anche per motivi geografici, scarso interesse per una politica comune nel settore marittimo; mentre, quanto ai trasporti aerei, pesava lo sviluppo allora ancora relativamente ridotto di tale trasporto, nonché il fatto che gli Stati erano presenti direttamente o comunque tramite soggetti pubblici nell’organizzazione e nella gestione del settore.
In generale, poi, si ritiene che ricadano sotto la disciplina dell’Unione anche tutti gli aspetti relativi alle infrastrutture di trasporto (incluse le reti transeuropee: p. 750 ss.), nonché, come vedremo, quelli sociali, ambientali, di sicurezza ecc., strettamente collegati ai trasporti; e che ne restino per contro fuori i modi di trasporto non considerati dal Titolo in esame (come i trasporti per oleodotto, gasdotto, teleferica, ecc.), nonché le attività solo indirettamente collegate, come ad esempio quelle delle agenzie di viaggio, o che ricadano sotto altre normative dei Trattati (ad esempio servizi di posta e telecomunicazioni). Relativamente invece all’ambito soggettivo di applicazione della disciplina in questione, valgono le considerazioni svolte in sede di esame delle norme sullo stabilimento e la prestazione di servizi, segnatamente per quanto riguarda le società, con qualche adattamento dovuto alla natura di quelle operanti nel settore. Ad es., per identificare come «comunitarie» le imprese marittime si fa riferimento anche ai cittadini e alle compagnie di navigazione stabilite al di fuori dell’Unione, se le loro navi sono registrate in uno Stato membro conformemente alla sua legislazione (v. reg. (CE) n. 4055/86 del Consiglio, del 22 dicembre 1986, che applica il principio della libera prestazione dei servizi ai trasporti marittimi tra Stati membri e tra Stati membri e paesi terzi, GUCE L 378, 1), mentre per le compagnie aeree occorre che esse, oltre ad avere l’amministrazione centrale e la sede legale all’interno di uno Stato membro, siano di proprietà o comunque sotto il controllo, direttamente o attraverso una partecipazione di maggioranza, degli Stati membri e/o di cittadini degli Stati membri: v. reg. (CE) n. 2407/92 del Consiglio, del 23 luglio 1992, sul rilascio delle licenze ai vettori aerei, GUCE L 240, 1, poi abrogato dal reg. (CE) n. 1008/2008 del PE e del Consiglio, del 24 settembre 2008, recante norme comuni per la prestazione di servizi aerei nella Comunità (rifusione) (GUUE L 293, 3) (v. anche, a tale riguardo, la comunicazione della Commissione Orientamenti interpretativi relativi al regolamento CE 1008/2008 del PE e del Consiglio, Regole in materia di proprietà e controllo dei vettori aerei dell’UE, GUUE C 191, 1).
Quanto infine all’applicazione nel tempo della normativa in esame, va ricordato che, secondo le regole inizialmente vigenti, il Consiglio avrebbe dovuto instaurare la politica comune, almeno per i suoi aspetti principali, entro la fine del periodo transi-
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torio (v. art. 75 TCEE, ora ripreso dall’art. 91 TFUE, ma senza più il riferimento temporale). Scaduto tale termine senza che il Consiglio avesse varato detta politica, si pose il problema delle conseguenze di una simile inerzia. Investita della questione dal Parlamento europeo, la Corte, pur riconoscendone l’ampia discrezionalità nel definire tempi, modi e condizioni per l’attuazione di tale politica, ritenne che il Consiglio fosse tenuto ad adottare i necessari provvedimenti in materia, ma considerò la mancanza adozione degli stessi una carenza dai contenuti troppo generici per essere contestata sulla base delle pertinenti norme del Trattato. Malgrado tale esito, però, la sentenza fu decisiva per dare impulso all’azione legislativa dell’Unione. Cfr. la citata sentenza 22 maggio 1985, 13/83, Parlamento c. Consiglio. Diverso orientamento la Corte manifestò invece, come subito vedremo, rispetto alla prestazione dei servizi di trasporto.
4. Segue : I principi informatori I principi che ispirano la normativa in esame sono, come in tanti altri casi, quelli di libertà e di non discriminazione tra cittadini degli Stati membri. In questa direzione devono operare le «norme comuni» per i trasporti internazionali, che hanno appunto il compito di liberalizzare il settore dei trasporti e la prestazione del relativo servizio (art. 91, par. 1, lett. a), TFUE). Ma esse devono ancor più operare per fissare le condizioni per l’ammissione di vettori non residenti ai trasporti nazionali di uno Stato membro (art. 91, par. 1, lett. b), TFUE), vettori che devono poter effettuare, a titolo temporaneo, trasporti nazionali in un altro Stato membro senza dover disporre in questo di una sede o di un altro stabilimento: certo alle condizioni fissate dal legislatore dell’Unione, ma pur sempre con l’obbligo per gli Stati membri di estendere a essi il trattamento riservato ai loro vettori nazionali. Siamo in presenza, in quest’ultimo caso, come già ricordato, dell’attività di cabotaggio, cioè di una prestazione di servizi, sottratta però alla disciplina generale in materia in virtù dell’esplicita deroga formulata al riguardo dall’art. 58, par. 1, TFUE. V. retro, p. 504. Ciò non vale invece per la libertà di stabilimento, non esistendo per quest’ultima nessuna norma che, analogamente all’art. 58 TFUE, esclude tale libertà per i servizi di trasporto (in questo senso, v. anche le citate sentenze c.d. «open sky»).
Tale deroga, imposta dalla sottolineata peculiarità dei trasporti, comporta che nel settore non opera automaticamente il principio del divieto di discriminazioni sancito in materia di libera prestazione dei servizi. È alle predette «norme comuni» che spetta, infatti, stabilire le condizioni perché quel principio possa affermarsi anche per l’accesso all’attività di trasporti nazionali (art. 91, par. 1, lett. a), TFUE); così come spetta al Consiglio la determinazione delle condizioni in presenza delle quali un’impresa di trasporto non residente possa operare in uno Stato membro (art. 91, par. 1, lett. b), TFUE). È del resto quanto, con riferimento a quest’ultima ipotesi, riconobbe la stessa Corte nella sentenza Parlamento c. Consiglio. Essa ribadì in effetti che l’omissione di quei provvedimenti costituiva una illegittima carenza, ma confermò
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altresì che le modalità per il raggiungimento del risultato rientravano nella discrezionalità del Consiglio. In altri termini, anche se ammise che il Trattato imponeva al riguardo obblighi «sufficientemente precisi», la Corte, pur essendone stata richiesta e pur non escludendola, evitò di dichiarare la diretta efficacia di quelle norme. Ciò detto, va aggiunto che, sebbene con i ricordati limiti, i principi generali del diritto dell’Unione, incluso ovviamente il principio di non discriminazione, restano pur sempre applicabili nella materia de qua. Pur tenendo in conto le sue più volte sottolineate peculiarità, infatti, la Corte ha ribadito che questa resta comunque assoggettata alle regole comuni e ai principi generali dell’ordinamento. Ed è invero in questo senso che essa risolse la disputa che era sorta al riguardo tra chi riteneva che, per la parte non espressamente regolata dall’apposito Titolo del Trattato, la materia dei trasporti dovesse essere assoggettata dalle singole normative nazionali, e chi invece, facendo leva anche sul fatto che l’unica deroga espressamente prevista in proposito è per l’appunto quella relativa alla libera prestazione dei servizi, propugnava l’applicabilità ai trasporti delle regole generali del Trattato. Secondo la Corte, infatti, i principi e gli obiettivi generali dei Trattati sono «concepiti per venire applicati all’insieme delle attività economiche […]. Le norme relative alla politica comune dei trasporti, lungi dal mettere in non cale questi canoni fondamentali, hanno per oggetto di applicarli e completarli grazie ad azioni concertate di comune accordo», sicché anche i trasporti restano «soggetti ai principi generali del Trattato». V. sentenza 4 aprile 1974, 167/73, Commissione c. Francia (c.d. sentenza Marinai francesi), 359, punti 21, 25 e 32; nonché, più di recente, le sentenze 25 gennaio 2011, C-382/08, Neukirchinger, I-139, e 18 marzo 2014, C-628/11, International Jet Management. Anche se riferite nella specie ai trasporti marittimi (e aerei), le affermazioni riportate avevano valore per tutti i trasporti. In altri casi, poi, la Corte ha ritenuto che neppure la presenza di una disciplina derogatoria può giustificare, almeno per alcuni aspetti, eccezioni alle norme generali: v. sentenza 12 ottobre 1978, 156/77, Commissione c. Belgio, 1881. V. anche Corte giust. 30 aprile 1986, da 209/84 a 213/84, Asjes e a. (c.d. Nouvelles Frontières), 1425.
Tale principio, riconfermato più volte dalla Corte, avrà importanti conseguenze sul piano pratico e normativo: anzi, in alcuni casi proprio il timore che a determinati aspetti della materia venissero applicate le norme generali del Trattato ha fornito alle istituzioni la spinta decisiva per l’emanazione di apposite normative (come avvenuto, ad es., per l’estensione delle regole di concorrenza al trasporto aereo, per il quale la Corte aveva dichiarato l’applicabilità degli artt. 85 e 86 TCEE). Quanto precede vale dunque in primo luogo per quanto concerne il principio di non discriminazione. È ben vero che la sua applicazione è subordinata all’adozione delle ricordate «norme comuni», ma queste devono strettamente conformarsi a quel principio. Nelle more dell’adozione di tali misure, comunque, l’art. 92 TFUE – come già ricordato – impone agli Stati membri un obbligo di standstill, vietando loro, salvo deroghe concesse dal Consiglio all’unanimità, di introdurre o modificare norme che, «nei loro effetti diretti o indiretti», possano rendere la situazione dei vettori degli altri Stati membri meno favorevole rispetto a quella dei vettori nazionali con riferimento alla situazione esistente al 1° gennaio 1958 o, per i nuovi Stati membri, alla data della loro adesione.
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Per un’applicazione rigorosa di tale divieto, che vale anche rispetto alla revoca di benefici eventualmente accordati ai vettori degli altri Stati membri, e anche qualora questi si trovassero inizialmente in una situazione più favorevole rispetto a quella dei vettori nazionali, v. Corte giust. 19 maggio 1992, C-195/90, Commissione c. Germania, 3141; 31 marzo 1993, C-184/91 e C221/91, Oorburg e Van Messem, 1633.
Il principio di non discriminazione è peraltro ribadito dal TFUE anche in ambiti più specifici. Come si è infatti già accennato, infatti, l’art. 95 TFUE, senza escludere ulteriori misure (par. 2), stabilisce che, nel traffico interno dell’Unione, «sono vietate le discriminazioni consistenti nell’applicazione, da parte di un vettore, di prezzi e condizioni di trasporto differenti per le stesse merci e per le stesse relazioni di traffico e fondate sul paese di origine o di destinazione dei prodotti trasportati» (par. 1). E ciò al fine di evitare che l’attuazione della libera circolazione dei servizi di trasporto possa ancora risentire di misure protezionistiche a favore delle merci nazionali, non solo a livello normativo, ma anche sul piano dell’autonomia privata. Non rilevano invece i casi in cui l’applicazione di prezzi o condizioni differenti derivi da altre motivazioni, legate ad esempio alla situazione di concorrenza tra vettori o a caratteristiche economiche dello specifico tipo di trasporto. Il Consiglio è abilitato ad adottare, a maggioranza qualificata, le misure appropriate per garantire la piena attuazione del richiamato principio (par. 3, comma 1), nonché per assicurare il controllo sull’osservanza dello stesso da parte delle istituzioni dell’Unione. Tale controllo compete di regola alla Commissione, che lo esercita tenendosi in contatto con gli Stati interessati e adottando, all’occorrenza, le misure del caso (par. 3, comma 2 e par. 4). Non risultano invece, salvo quelli desumibili dai principi generali dell’ordinamento, strumenti di tutela specifica a diretto favore degli eventuali soggetti lesi da dette violazioni, così come non sono previste conseguenze delle stesse sulla validità degli eventuali provvedimenti e/o contratti discriminatori. V. reg. (CEE) n. 11 del Consiglio, del 27 giugno 1960 (GUCE n. 52, 1121), riguardante l’abolizione di discriminazioni nel campo dei prezzi e delle condizioni di trasporto emanato in applicazione dell’art. 79, par. 3, TCEE (oggi art. 95, par. 3, TFUE).
Si può infine ricondurre in qualche modo al principio della parità (o, almeno, di riduzione delle disparità) di trattamento tra vettori nazionali e vettori degli altri Stati membri la previsione di cui all’art. 97 TFUE, che impone agli Stati membri di non superare un livello ragionevole, e anzi di sforzarsi di ridurre progressivamente le tasse o i canoni che, a prescindere dai prezzi di trasporto, sono richieste a un vettore al passaggio delle frontiere, tenendo conto in proposito delle spese reali determinate da tale passaggio. In effetti, la disposizione vuole obbligare gli Stati membri a contenere il peso dell’attraversamento delle frontiere e la sua maggiore incidenza rispetto ai trasporti interni, anche se c’è da ritenere che essa non sia sopravvissuta all’eliminazione delle frontiere interne. Come si è detto, però, a parte il principio di non discriminazione, il Trattato tutela anche altre esigenze e valori nell’ambito della politica comune dei trasporti. Anzitutto – lo si è visto – quello del miglioramento della sicurezza nei trasporti, enunciato dallo stesso art. 91, par. 1, lett. c), TFUE, ma elevato al livello del diritto primario solo con il Trattato di Maastricht.
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Ciò grazie anche alla giurisprudenza della Corte, la quale aveva negato che, occupandosi non solo di politica sociale, ma anche di sicurezza stradale, nel reg. (CEE) n. 543/69 del Consiglio, del 25 marzo 1969 (GUCE L 77, 49), relativo all’armonizzazione di alcune disposizioni in materia sociale nel settore dei trasporti su strada (poi abrogato), il Consiglio avesse valicato i limiti della propria competenza (Corte giust. 28 novembre 1978, 97/78, Schumalla, 2311). E in effetti di sicurezza nei trasporti si erano occupati, anche prima del Trattato di Maastricht, vari atti del Consiglio (v., per tutti, dir. 77/143/CEE, del 29 dicembre 1976, in GUCE L 47, 47, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al controllo dei veicoli a motore e dei loro rimorchi, poi abrogata). Particolare attenzione al profilo della sicurezza è stato posto dalla Commissione nel ricordato Libro Bianco del 2011, come confermato dagli atti più recenti di cui diremo più avanti, nell’esame delle singole modalità di trasporto.
Inoltre, come vedremo in seguito, grazie alla ricordata previsione di cui all’art. 91, par. 1, lett. d), TFUE, che autorizza il Consiglio ad adottare «ogni altra disposizione» utile al perseguimento della politica comune dei trasporti, quest’ultimo ha potuto occuparsi, prima ancora che essi fossero oggetto di previsione al livello degli stessi Trattati, di una serie di aspetti a essa strettamente correlati, come ad esempio le problematiche relative alle infrastrutture, alla sicurezza (anche prima del Trattato di Maastricht), agli aspetti sociali, alla ricerca e allo sviluppo tecnologico e alla tutela dell’ambiente. Infine, il legislatore dell’Unione deve preoccuparsi anche di talune esigenze di carattere economico e sociale. Così, come già ricordato, nell’adozione delle misure di cui all’art. 91 TFUE, esso deve tener conto del tenore di vita e dell’occupazione di talune regioni, nonché dell’uso delle attrezzature relative ai trasporti, per evitare che dette misure pregiudichino tale situazione (art. 91, par. 2, TFUE); e deve considerare, nelle misure in materia di prezzi e condizioni di trasporto, la situazione economica dei vettori (art. 94 TFUE).
5. L’applicabilità delle regole di concorrenza e della disciplina sugli aiuti di Stato Una considerazione specifica meritano, per loro rilevanza, le norme del Titolo in esame quanto ai rapporti della politica dei trasporti con le regole in materia di aiuti e concorrenza. A) Per quanto riguarda queste ultime, va detto subito che se oggi è pacifico che le regole generali in materia (artt. 101 e 102 TFUE: p. 613 ss.) sono di applicazione anche al settore dei trasporti, così non è stato per lungo tempo; e comunque tuttora sopravvivono per esso alcune specificità. Inizialmente, in effetti, benché il Trattato non prevedesse alcuna deroga all’applicabilità del diritto della concorrenza ai trasporti, il reg. (CEE) n. 141/62, del Consiglio relativo alla non applicazione del reg. (CEE) n. 17 al settore dei trasporti (GUCE n. 124, 2751), aveva escluso il settore dal reg. (CEE) n. 17/62, del Consiglio, del 6 febbraio 1962 (GUCE n. 13, 204), che, come noto, disciplinava la prima applicazione delle norme antitrust. A rimediare a tale situazione intervennero i reg. (CEE) n. 1017/68, del Consiglio, del 19 luglio 1968
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(GUCE L 175, 1), che regolava l’applicazione del diritto della concorrenza ai trasporti ferroviari, su strada e per vie navigabili; n. 4056/86, del 22 dicembre 1986, che determinava le modalità di applicazione degli artt. 81 e 82 TCE (oggi artt. 101 e 102 TFUE) ai trasporti marittimi (GUCE L 378, 4), e aveva attribuito alla Commissione dei poteri di intervento in quel settore; e n. 3975/87, del 14 dicembre 1987, relativo alle modalità di applicazione delle regole di concorrenza alle imprese di trasporti aerei (GUCE L 374, 1), che ha ristabilito la competenza della Commissione nell’ambito del trasporto aereo. Ma un impulso all’intervento normativo delle istituzioni venne da una parte dalla giurisprudenza della Corte, che, sia pur a certe condizioni, dichiarò l’applicabilità delle regole di concorrenza anche ai trasporti, dall’altra, e in modo determinante, dalla modernizzazione della politica di concorrenza, che ha permesso di compiere un passo sostanziale verso la generale applicazione delle regole antitrust, tanto sostanziali quanto procedurali, all’intero settore dei trasporti. A parte le citate sentenze 4 aprile 1974, 167/73, Commissione c. Francia (c.d. sentenza Marinai francesi), e 22 maggio 1985, 13/83, Parlamento c. Consiglio, v. la sentenza Asjes e a. (c.d. Nouvelles frontières), cit., in cui la Corte precisò tra l’altro che per i trasporti non esiste una disposizione che, come l’art. 42 TFUE per i prodotti agricoli, escluda l’applicazione delle regole di concorrenza o la subordini a una decisione del Consiglio (v. p. 469), e 11 aprile 1989, 66/86, Saeed Flugreisen e Silver Line Reisebüro, 803.
Il reg. (CE) n. 1/2003, del Consiglio, del 16 dicembre 2002, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli artt. 81 e 82 TCE (oggi artt. 101 e 102 TFUE) (GUCE L 1/2003, 1), ha infatti abrogato il reg. (CEE) 141/62, nonché le disposizioni procedurali dei reg. (CEE) nn. 1017/68, 4056/86 e 3975/87, oggi codificati, e ha creato le basi per il quadro regolamentare attuale, che (dopo altri passaggi) è ormai di applicazione generale, pur prevedendo ancora delle regole specifiche per i vari modi di trasporto. V. i reg. (CE) n. 169/2009, del Consiglio, del 26 febbraio 2009, relativo all’applicazione di regole di concorrenza ai settori dei trasporti ferroviari, su strada e per vie navigabili (GUUE L 61, 1); n. 246/2009 del Consiglio, del 26 febbraio 2009, relativo all’applicazione dell’art. 101, par. 3, TFUE a talune categorie di accordi, di decisioni e di pratiche concordate tra compagnie di trasporto marittimo di linea (consorzi) (GUUE L 79, 1); e n. 487/2009, del Consiglio, del 25 maggio 2009, relativo all’applicazione dell’art. 101, par. 3, TFUE a talune categorie di accordi e pratiche concordate nel settore dei trasporti aerei (GUUE L 148, 1).
Venendo più specificamente all’applicazione delle regole di concorrenza al trasporto ferroviario, si può ricordare che il reg. n. 169/2009 codifica, come si è detto, il precedente reg. n. 1017/68, che era stato a sua volta più volte modificato. In particolare, l’art. 2 di tale regolamento prevede ancora un’eccezione legale per gli accordi tecnici, stabilendo che il divieto di cui all’art. 101, par. 1, TFUE non è applicabile ad alcune categorie di accordi, decisioni o pratiche concordate che abbiano solamente per oggetto e per effetto l’applicazione di miglioramenti tecnici o la cooperazione tecnica. Inoltre, l’art. 3 del medesimo regolamento prevede l’esenzione degli accordi, decisioni e pratiche concordate di cui all’art. 101, par. 1, TFUE, quando abbiano per oggetto: a) la costituzione ed il funzionamento di raggruppamenti di imprese di tra-
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sporto su strada o per via navigabile per l’esercizio di attività di trasporto; oppure b) il finanziamento o l’acquisizione in comune di materiale o di forniture di trasporto direttamente connessi con la prestazione di trasporto, purché risultino necessari per permettere a tali raggruppamenti di esercitare attività in comune, e sempreché alcune soglie di consistenza non siano superate. Resta comunque fermo che se l’applicazione degli accordi, delle decisioni o delle pratiche concordate di cui sopra produce, in un dato caso, effetti incompatibili con le condizioni di cui all’art. 101, par. 3, TFUE, può essere richiesto alle imprese o associazioni di imprese di far cessare detti effetti. Per quanto riguarda poi il trasporto marittimo, che aveva inizialmente subito l’influenza del codice di condotta sulle conferenze marittime, si deve ricordare che nel pacchetto di misure per la sua liberalizzazione adottato nel 1986 e di cui si dirà in seguito, era incluso il ricordato reg. n. 4056/86 che determinava le modalità di applicazione delle regole antitrust ai trasporti marittimi internazionali da o verso uno o più porti comunitari (con l’esclusione delle navi da carico non regolari). Ma v. anche il reg. (CEE) n. 4057/86 del Consiglio, del 22 dicembre 1986, relativo alle pratiche tariffarie sleali nei trasporti marittimi (GUCE L 378, 14), che autorizzava la Comunità ad imporre dazi compensativi per proteggere gli armatori degli Stati membri contro pratiche tariffarie sleali poste in essere da armatori di paesi terzi.
Anche in questo settore erano esclusi dal campo di applicazione del divieto d’intese gli accordi aventi per oggetto o per effetto solamente l’applicazione di miglioramenti tecnici o la cooperazione tecnica (art. 2), nonché gli accordi tra i membri delle conferenze marittime (art. 3). Per la nozione di conferenza marittima, v. Corte giust. 16 marzo 2000, C-395/96 P e C-396/96 P, Compagnie Maritime Belge de Transports e a. c. Commissione, I-1365. Le intese esentate riguardavano l’esercizio di servizi regolari di trasporto marittimo volte a perseguire la fissazione di prezzi e condizioni di trasporto al fine del raggiungimento di obiettivi quali il coordinamento degli orari o la determinazione della frequenza di un servizio, la ripartizione dei viaggi o degli scali tra membri di una conferenza, la capacità di trasporto offerta da ciascuno dei membri o la distribuzione tra i membri del tonnellaggio trasportato. Quanto al codice di condotta delle conferenze marittime, elaborato nell’ambito della Convenzione UNCTAD del 6 aprile 1974, esso assegnava alle imprese di due Stati coinvolti in quanto paese di origine o di destinazione di ogni tratta di traffico, il 40% del volume di tale traffico, lasciando il restante 20% a disposizione delle imprese degli altri Stati. Malgrado l’incompatibilità di tale approccio con i principi di libera concorrenza, il reg. (CEE) n. 954/79 del Consiglio, del 15 maggio 1979 (GUCE L 121, 1), concernente la ratifica della Convenzione relativa al codice di condotta da parte degli Stati membri, aveva per l’appunto autorizzato la ratifica del Codice, imponendo però l’apposizione delle riserve indicate all’allegato I del suddetto regolamento (al riguardo, v. anche Corte giust. 30 maggio 1989, 355/87, Commissione. c. Consiglio, 1517).
Il successivo reg. (CE) n. 1419/2006 ha però abrogato il reg. n. 4056/86, nonché l’art. 32, lett. a) e b), reg. n. 1/2003, perché il Consiglio ha ritenuto che le condizioni richieste dall’art. 101, par. 3, TFUE per giustificare l’esistenza di un’esenzione di categoria per i trasporti marittimi, non fossero più soddisfatte.
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V. reg. del Consiglio, del 25 settembre 2006, che abroga il reg. n. 4056/86, cit., e che modifica il reg. 1/2003, cit., estendendone il campo di applicazione al cabotaggio e ai servizi internazionali di trasporto con navi da carico non regolari (GUUE L 269, 1). A seguito di tale regolamento la Commissione ha pubblicato le «Linee direttrici sull’applicazione dell’art. 81 del Trattato CE ai servizi di trasporto marittimo» (GUUE C 245/2008, 2), in cui ha fissato i principi per la definizione dei mercati e per la valutazione degli accordi di cooperazione individuati da detto regolamento, cioè i servizi marittimi di linea, i servizi di cabotaggio e i servizi di trasporto con navi da carico non regolari. L’unica eccezione che ancora persisteva in materia era quella riguardante i c.d. consorzi, perché con il citato reg. n. 246/2009 il Consiglio aveva autorizzato la Commissione a esentare, per una durata massima di cinque anni, le intese che avessero lo scopo di promuovere o di instaurare una cooperazione per l’esercizio in comune di servizi di trasporto marittimo tra compagnie marittime di linea, al fine di razionalizzare le loro operazioni mediante accordi tecnici, operativi o commerciali (consorzi), fatta eccezione per quelli relativi alla fissazione di prezzi. La Commissione ha esercitato questa competenza adottando il reg. (CE) n. 906/2009, del 28 settembre 2009, relativo all’applicazione dell’art. 101, par. 3, TFUE a talune categorie di accordi, di decisioni e di pratiche concordate tra compagnie di trasporto marittimo di linea (consorzi) (GUUE L 256, 31, la cui efficacia è stata prorogata sino al 2020 dal reg. (UE) n. 697/2014 della Commissione, del 24 giugno 2014, che modifica il reg. (CE) n. 906/2009 per quanto riguarda il periodo di applicazione, GUUE L 184, 3).
Quanto infine al trasporto aereo, nei tre «pacchetti normativi» che ne hanno scandito la liberalizzazione (infra, p. 614 ss.), già il primo conteneva un regolamento dedicato alle regole in materia di concorrenza, che resterà in vigore per circa vent’anni, nonché un regolamento di esenzione per categoria per certi tipi di accordi. Si tratta rispettivamente dei citati reg. nn. 3975/87 e 3976/87. Ma v. anche la dir. 87/601/CEE del Consiglio, del 14 dicembre 1987, sulle tariffe per i servizi aerei di linea tra gli Stati membri (GUCE L 374, 12) e la dec. 87/602/CEE del Consiglio, del 14 dicembre 1987, sulla ripartizione della capacità passeggeri tra vettori aerei nei servizi di linea tra Stati membri e sull’accesso dei vettori aerei alle rotte di servizio aereo di linea tra Stati membri (GUCE L 374, 19). Infine va segnalata la Comunicazione della Commissione in materia di proprietà e controllo dei vettori aerei dell’UE, GUUE C 191, 1, già citata.
Il primo regolamento però è stato abrogato dal reg. (CE) n. 411/2004, del Consiglio, del 26 febbraio 2004 (GUUE L 68, 1), il quale, oltre ad aver soppresso l’art. 32, lett. c), reg. n. 1/2003, cit., che poneva limiti all’applicazione di quest’ultimo regolamento al settore dei trasporti aerei, si è mosso anche sul presupposto che il reg. n. 3975/87 non si applicasse ai trasporti tra la Comunità e i paesi terzi; il secondo invece è stato abrogato dal citato reg. n. 487/2009, il quale continua ad autorizzare la Commissione ad adottare esenzioni per categoria. Poiché però per ora la Commissione non si è avvalsa di questa facoltà, si deve ritenere che le regole generali in materia antitrust siano applicabili all’insieme del settore aereo. B) Passando poi alle norme in materia di aiuti di Stato, va subito sottolineato che esse assumono un rilievo particolare, trattandosi di un settore nel quale notoriamente il ricorso a finanziamenti pubblici e sovvenzioni da parte degli Stati membri è assai diffuso. Al riguardo, il Trattato detta alcune specifiche disposizioni che vanno ovviamente coordinate con la disciplina generale di questa materia (artt. 107-109 TFUE), disciplina che, come ha precisato la Corte (sentenza 12 ottobre 1978,
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156/77, Belgio c. Commissione, 1881), resta comunque di applicazione per tutti gli altri aspetti. In particolare rilevano in proposito gli artt. 93, 96 e 98 TFUE che delineano per l’appunto le possibili deroghe alla materia. a) Il primo prevede, aggiungendo ulteriori eccezioni a quelle già elencate dall’art. 107, par. 2, TFUE (infra, p. 647. V anche Corte giust. 7 maggio 2009, C-504/07, Antrop e a., I-3867), che sono compatibili con i Trattati «gli aiuti richiesti dalle necessità del coordinamento dei trasporti ovvero corrispondenti al rimborso di talune servitù inerenti alla nozione di pubblico servizio», vale a dire gli aiuti tendenti a mantenere un equilibrio economico ai fini della coesistenza di differenti mezzi di trasporto o a sostenere lo sviluppo delle tecniche più avanzate di trasporto che possano risultare utili alla collettività, e gli aiuti volti a consentire la compensazione delle perdite subite dalle imprese che svolgono un servizio pubblico. Secondo la comunicazione della Commissione, del 22 luglio 2008, «Linee guida comunitarie per gli aiuti di Stato alle imprese ferroviarie» (GUCE C 184, 13), un aiuto può dirsi «richiesto dalle necessità» del coordinamento dei trasporti se è necessario e proporzionato all’obiettivo perseguito e se non reca pregiudizio agli interessi generali dell’UE (punto 96), con l’intesa che l’espressione «coordinamento dei trasporti» non si esaurisce «nel semplice fatto di agevolare lo sviluppo di un’attività economica, ma implica un intervento delle autorità pubbliche finalizzato ad orientare l’evoluzione del settore dei trasporti nell’interesse comune» (punto 89). V. tale comunicazione anche per una ricostruzione della prassi della Commissione rispetto alle principali forme di aiuto: alle infrastrutture ferroviarie, alla riduzione dei costi esterni, a favore dell’interoperabilità e al rafforzamento della sicurezza, dell’eliminazione degli ostacoli tecnici e della riduzione dell’inquinamento acustico, alla ricerca e allo sviluppo.
Inizialmente, la dec. 65/271/CEE, del Consiglio, del 13 maggio 1965, relativa all’armonizzazione di alcune disposizioni in materia di concorrenza nel settore dei trasporti ferroviari, su strada e per vie navigabili (GUCE n. 88, 1500), e il reg. (CEE) n. 1191/69, del Consiglio, del 26 giugno 1969, relativo all’azione degli Stati membri in materia di obblighi inerenti alla nozione di servizio pubblico nel settore dei trasporti per ferrovia, su strada e per via navigabile (GUCE L 156, 1. Nello stesso giorno il Consiglio ha adottato il reg. (CEE) n. 1192/69, GUCE L 156, 8, che imponeva la normalizzazione dei conti delle aziende ferroviarie stabilendo anche i metodi per l’effettuazione di eventuali compensazioni finanziarie), avevano previsto il mantenimento degli obblighi inerenti alla nozione di servizio pubblico imposti alle imprese di trasporto (e da compensare secondo metodi comuni) soltanto se indispensabili a garantire la fornitura di servizi adeguati. Il reg. (CEE) n. 1107/70 del Consiglio, del 4 giugno 1970, relativo agli aiuti accordati nel settore dei trasporti per ferrovia, su strada e per via navigabile (GUCE L 130, 1) aveva poi sancito l’applicabilità delle norme del Trattato sugli aiuti di Stato al settore dei trasporti, definendo in quali casi e a quali condizioni fosse consentita la concessione di aiuti statali per il coordinamento dei trasporti e per il rimborso delle servitù inerenti alla nozione di servizio pubblico. Tale regolamento è stato alla fine abrogato dal reg. (CE) n. 1370/2007, relativo ai servizi pubblici di trasporto di passeggeri su strada e per ferrovia (c.d. regolamento «OSP»), che ha disciplinato la materia in termini più organici e generali.
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Reg. del PE e del Consiglio, del 23 ottobre 2007 (GUUE L 315, 1, per il quale comunque la Commissione ha proposto una modifica: COM(2013) 28 final). Previsioni specifiche riguardano alcuni tipi di trasporto. Così per quelli marittimi, a parte le indicazioni in materia di aiuti alla costruzione navale, la comunicazione della Commissione sugli «Orientamenti comunitari in materia di aiuti di Stato ai trasporti marittimi» (COM (2004) 43 def., del 17 gennaio 2004, prevede che gli aiuti possono in linea di massima essere concessi solo a favore di navi immatricolate nei registri degli Stati membri e allo scopo di realizzare un trasporto marittimo più sicuro, efficiente e rispettoso dell’ambiente, incoraggiare l’iscrizione o la reiscrizione del naviglio nei registri degli Stati membri, contribuire al consolidamento delle industrie marittime connesse stabilite negli Stati membri e al mantenimento di una flotta globalmente competitiva sui mercati mondiali, mantenere e migliorare il know how marittimo proteggendo e promuovendo l’occupazione dei marittimi europei, e contribuire alla promozione di nuovi servizi nel settore del trasporto marittimo a corto raggio. Tale comunicazione è stata poi aggiornata e modificata (da ultimo, dalla comunicazione della Commissione del 13 aprile 2017, C/2017/2328, GUUE C 120, 10). In materia, vanno segnalate anche la comunicazione della Commissione che fornisce orientamenti in merito agli aiuti di Stato alle società di gestione navale, dell’11 giugno 2009 (GUUE C 132, 6), nonché quella del 12 dicembre 2008, che stabilisce orientamenti relativi ad aiuti di Stato integrativi del finanziamento comunitario per l’apertura delle autostrade del mare, (GUUE C 317, 12). Quanto invece ai trasporti aerei, ferroviari e terrestri, v. le comunicazioni della Commissione del 1994 sull’applicabilità degli artt. 92 e 93 TCEE e 61 dell’accordo SEE agli aiuti di Stato nel settore aereo (GUCE C 350/1994, 5); del 2005, «Orientamenti comunitari concernenti il finanziamento degli aeroporti e gli aiuti pubblici di avviamento concessi alle compagnie aeree operanti su aeroporti regionali» (GUUE C 312/2005, 1); del 2008, «Linee guida comunitarie per gli aiuti di Stato alle imprese ferroviarie» (GUUE C 184/2008, 13); e del 4 aprile 2014, «Orientamenti sugli aiuti di Stato agli aeroporti e alle compagnie aeree» (GUUE C 99, 3).
Tale regolamento definisce infatti le modalità con le quali gli Stati membri possono intervenire per imporre o stipulare obblighi di servizio pubblico compensando gli operatori dello stesso per i costi sostenuti e/o conferendo loro diritti di esclusiva in cambio dell’assolvimento di detti obblighi, e ciò al fine di garantire la fornitura di servizi di interesse generale più numerosi, più sicuri, di migliore qualità e a prezzi più convenienti di quelli risultanti dal normale gioco della concorrenza. Sulla scia della nota sentenza Altmark (v. p. 646), il regolamento precisa, tra l’altro, il proprio ambito di applicazione, identificandolo con l’esercizio di servizi nazionali e internazionali di trasporto pubblico di passeggeri per ferrovia e altri modi di trasporto su rotaia e su strada; le condizioni alle quali le autorità competenti compensano gli operatori di servizio pubblico; le regole per l’aggiudicazione del servizio pubblico, che deve avvenire di regola nell’ambito di un contratto di servizio pubblico o attraverso norme di applicazione generale, che prevedano, tra l’altro, la definizione degli obblighi di servizio pubblico da assolvere e le zone geografiche interessate; i parametri in base ai quali deve essere calcolata l’eventuale compensazione, la natura e la portata degli eventuali diritti di esclusiva concessi, le modalità di ripartizione dei costi connessi alla fornitura di servizi, le modalità di ripartizione dei ricavi derivanti dalla vendita dei titoli di viaggio; l’obbligo di scegliere il contraente mediante una procedura di gara equa, aperta a tutti gli operatori e conforme a principi di trasparenza e non discriminazione; i casi in cui le autorità competenti a livello locale hanno facoltà di fornire esse stesse servizi di trasporto pubblico di passeggeri o di procedere all’aggiudicazione diretta dei relativi contratti; le regole sulla durata massima dei contratti di servizio pubblico (dieci anni per i servizi di trasporto con autobus, quindici anni per i servizi di trasporto di passeggeri per ferrovia e altri modi di trasporto su rotaia, nonché in caso di contratti di servizio pubblico relativi a più modi di trasporto) e quelle sulle eventuali proroghe.
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b) Quanto all’art. 96 TFUE, esso fa in un certo senso da pendant al ricordato art. 95 TFUE. Come questo, anche l’altro mira a proteggere la parità di trattamento nella circolazione delle merci trasportate all’interno dell’Unione, ma lo fa non, come l’art. 95 TFUE, rispetto alle pratiche private degli altri vettori, ma rispetto a eventuali misure protezionistiche (tariffe speciali) che, riducendo il costo del trasporto per le imprese, comportano un aiuto di Stato. La norma infatti proibisce agli Stati membri di imporre ai trasporti effettuati all’interno dell’Unione «l’applicazione di prezzi e condizioni che importino qualsiasi elemento di sostegno o di protezione nell’interesse di una o più imprese o industrie particolari, salvo quando tale applicazione sia autorizzata dalla Commissione». In questo modo, si vuole evitare che l’intervento pubblico nel settore dei trasporti si traduca in forme di sostegno protezionistico a determinate industrie mediante applicazione di tariffe agevolate, idonee a falsare la concorrenza. V., ad es., Corte giust. del 4 settembre 2014, cause C-184/13 a C-187/13, C-194/13, C-195/13 e C-208/13, API e.a. Ai sensi del par. 3 della norma, sono escluse da tale divieto le tariffe concorrenziali, e cioè le tariffe anche inferiori a quelle praticate dalle altre imprese, che però sono fissate allo scopo di influenzare la scelta dell’utente tra diversi modi di trasporto e quindi di fronteggiare più efficacemente la concorrenza (Corte giust. 15 luglio 1960, 24/58 e 34/58, Chambre Syndicale de la Siderurgie de l’est de la France e a. c. Alta Autorità, 555).
L’applicazione della disposizione spetta alla Commissione, previa consultazione degli Stati membri interessati, anche se le ultime applicazioni dell’art. 96 TFUE risalgono addirittura ai primi anni di attività della CEE (cioè agli anni ’70), e d’altra parte, la prassi di applicazione dell’art. 107 TFUE induce a ritenere che la Commissione disponga di strumenti idonei ad evitare il ricorso a quella norma. Ai fini comunque dell’applicazione dell’art. 96, essa dovrà valutare i prezzi e le condizioni di cui sopra, avendo particolare riguardo, da un lato, alle esigenze di una politica regionale adeguata, le necessità delle regioni sottosviluppate, e i problemi delle regioni che abbiano gravemente risentito di circostanze politiche particolari, e dall’altro all’incidenza di tali prezzi e condizioni sulla concorrenza tra i vari modi di trasporto. È comune opinione che l’espressione circostanze politiche particolari si riferisca in particolare alla situazione della Germania, allora divisa in due, e quindi alla necessità di aiutare le regioni in prossimità della frontiera con la Germania orientale (sul punto, comunque, torneremo subito). Sulla portata della competenza della Commissione di cui si discute, v. Corte giust. 9 luglio 1969, 1/69, Italia c. Commissione, 277.
Date le finalità della disposizione, l’autorizzazione della Commissione può solo avallare, come la Corte ha avuto occasione di chiarire, un intervento su prezzi e condizioni strettamente funzionale al superamento delle indicate situazioni e comunque nella misura e per il tempo necessari a ripristinare le normali condizioni di concorrenza (v. Corte giust. 10 maggio 1960, da 27/58 a 29/58, Hautes Fourneaux de Givors, 487; 8 febbraio 1968, 28/66, Paesi Bassi c. Commissione, 2). c) Quanto infine all’art. 98 TFUE, relativo alla particolare situazione della Repubblica federale di Germania, basterà ricordare che essa legittima le (peraltro non numerose) misure da questa adottate al fine di compensare gli svantaggi economici cagionati
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all’economia di talune regioni di tale Stato in conseguenza della sua precedente divisione. Vista comunque l’avvenuta riunificazione tedesca, ci si è legittimamente chiesti se la norma non avesse perso la sua utilità. La questione è stata tuttavia superata dal Trattato di Lisbona, il quale non solo ha continuato a riproporre la norma, ma ha altresì previsto che entro cinque anni dalla propria entrata in vigore il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare una decisione che la abroghi.
6. I singoli modi di trasporto. Il trasporto ferroviario Passeremo ora ad esaminare analiticamente i vari tipi di trasporto, avvertendo fin d’ora tuttavia che, vuoi per l’ampiezza della materia, vuoi per la gran massa di provvedimenti adottati in materia nel corso del tempo, tracceremo qui di seguito, oltre quanto già detto poc’anzi a proposito delle regole in materia di aiuti e concorrenza, solo un sintetico panorama degli sviluppi più recenti e significativi. Per cominciare dal trasporto ferroviario, non è difficile comprendere le ragioni della difficoltà di liberalizzare un settore così peculiare, nel quale in particolare le imprese di trasporto erano al tempo stesso proprietarie delle infrastrutture ed esercenti e utilizzatrici esclusive delle stesse, e dove diffusa era la loro natura in vario modo pubblica, così come la loro posizione di monopoliste. Per il primo significativo intervento in materia occorrerà attendere quindi il 1991, quando la dir. 91/440/CEE dette il via ai primi passi per adeguare le ferrovie dell’Unione alle esigenze del mercato unico e per accrescere la loro efficienza, in particolare separando gestione dell’infrastruttura ferroviaria ed esercizio del relativo servizio. V. dir. del Consiglio, del 29 luglio 1991, relativa allo sviluppo delle ferrovie comunitarie (GUCE L 237, 25). Ma v. anche, sulla scia, la dir. 95/18/CE del Consiglio, del 19 giugno 1995, relativa alle licenze delle imprese ferroviarie (GUCE L 143, 70); nonché la dir. 95/19/CE del Consiglio, del 19 giugno 1995, riguardante la ripartizione delle capacità di infrastruttura ferroviaria e la riscossione dei diritti per l’utilizzo dell’infrastruttura (GUCE L 143, 75).
Ma l’effettivo avvio della liberalizzazione del settore è stato segnato dai noti «pacchetti legislativi» approvati dal legislatore dell’Unione tra il 2001 e il 2007. Il primo, adottato nel 2001, ha aperto alla concorrenza i servizi di trasporto ferroviario internazionale di merci, definendo un quadro preciso e trasparente per la ripartizione della capacità d’infrastruttura e l’imposizione dei diritti per l’utilizzo della stessa, nonché prevedendo l’istituzione di un organismo di controllo in ciascuno Stato membro. Tale pacchetto si compone delle tre direttive del PE e del Consiglio, del 26 febbraio 2001: 2001/12/CE, che modifica la dir. 91/440, cit. (GUCE L 75, 1); 2001/13/CE, che modifica la dir. 95/18, cit. (GUCE L 75, 26); e 2001/14/CE, relativa alla ripartizione della capacità di infrastruttura ferroviaria, all’imposizione dei diritti per l’utilizzo dell’infrastruttura ferroviaria e alla certificazione di sicurezza (GUCE L 75, 29). Tale pacchetto è stato sostituito dalla dir. 2012/34/UE del PE e del Consiglio, del 21 novembre 2012, che istituisce uno spazio ferroviario europeo unico (rifu-
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sione) (GUUE L 343, 32), poi modificata dalla dir. (UE) 2016/2370 del PE e del Consiglio, del 14 dicembre 2016, che modifica la dir. 2012/34/UE per quanto riguarda l’apertura del mercato dei servizi di trasporto ferroviario nazionale di passeggeri e la governance dell’infrastruttura ferroviaria (GUUE L 352, 1). Nel 2003, però, solo pochi Stati membri avevano attuato il pacchetto. E in effetti la Corte ha accertato l’inadempimento della dir. 2001/14/CE da parte di ben dodici Stati membri: Corte giust. 25 ottobre 2012, C-557/10, Commissione c. Portogallo; 8 novembre 2012, C-528/10, Commissione c. Grecia; 28 febbraio 2013, C-473/10, Commissione c. Ungheria; 28 febbraio 2013, C483/10, Commissione c. Spagna; 28 febbraio 2013, C-555/10, Commissione c. Austria; 28 febbraio 2013, C-556/10, Commissione c. Germania; 18 aprile 2013, C-625/10, Commissione c. Francia; 30 maggio 2013, C-512/10, Commissione c. Polonia; 11 luglio 2013, C-412/11, Commissione c. Lussemburgo; 11 luglio 2013, C-545/10, Commissione c. Repubblica ceca; 11 luglio 2013, C-627/10, Commissione c. Slovenia; 3 ottobre 2013, C-369/11, Commissione c. Italia; 13 febbraio 2014, C-152/12, Commissione c. Bulgaria; e 28 giugno 2017, C-482/14, Commissione c. Germania.
Alla luce però del relativo insuccesso di tale pacchetto, la Commissione ne ha lanciato nel 2004 un secondo, ancor più ambizioso perché destinato alla completa liberalizzazione del trasporto di merci, incluso il cabotaggio, nonché all’istituzione di una Agenzia dell’Unione europea per le ferrovie, cui compete contribuire sul piano tecnico ad attuare la normativa dell’Unione volta a migliorare la concorrenzialità del settore ferroviario, potenziando il livello d’interoperabilità dei sistemi ferroviari e sviluppare un approccio comune in materia di sicurezza del sistema ferroviario europeo. V. reg. (CE) n. 881/2004, del PE e del Consiglio, del 29 aprile 2004. Per tale pacchetto, v. le tre direttive del PE e del Consiglio: 2004/49/CE, del 29 aprile 2009, relativa alla sicurezza delle ferrovie comunitarie e recante modifica della dir. 95/18, cit. (Direttiva sulla sicurezza delle ferrovie) (GUUE L 164, 44, poi sostituita dalla dir. (UE) 2016/798 del PE e del Consiglio, dell’11 maggio 2016, sulla sicurezza delle ferrovie, GU L 138, 102); 2004/50/CE, che modifica le direttive 96/48/CE del Consiglio, relativa all’interoperabilità del sistema ferroviario transeuropeo ad alta velocità e 2001/16/CE del PE e del Consiglio, relativa all’interoperabilità del sistema ferroviario transeuropeo convenzionale (GUUE L 164, 114); e 2004/51/CE, che modifica la citata dir. 91/440 (GUUE L 164, 164). Per l’Agenzia, v. reg. (UE) n. 2016/796 del PE e del Consiglio, dell’11 maggio 2016, che istituisce detta Agenzia e che abroga il reg. (CE) n. 881/2004.
Il secondo pacchetto è stato poi completato, per quanto riguarda il trasporto di passeggeri, nel 2007 da un terzo pacchetto, con l’obiettivo di creare uno spazio ferroviario europeo integrato e rendere i trasporti per ferrovia più competitivi e attraenti per gli utenti. A tale pacchetto è poi seguito il quarto, e finora ultimo, pacchetto, adottato nel 2016. Il terzo pacchetto si compone delle dir. del PE e del Consiglio, del 23 ottobre 2007, 2007/58/CE (che modifica le citate dir. 91/440 e 2001/14) e 2007/59/CE, relativa alla certificazione dei macchinisti addetti alla guida di locomotori e treni sul sistema ferroviario della Comunità, nonché del reg. (CE) n. 1371/2007 del PE e del Consiglio, del 23 ottobre 2007, relativo ai diritti e agli obblighi dei passeggeri nel trasporto ferroviario (GUUE L 315, rispettivamente 44, 51 e 14). Per il quarto pacchetto, v. il reg. (UE) n. 2016/796, già citato; nonché le dir. (UE) 2016/797 del PE e del Consiglio, dell’11 maggio 2016, relativa all’interoperabilità del sistema ferroviario dell’Unione europea (GU L 138, 44); 2016/798, già citata; ed infine il reg. (UE) n. 2016/2337 del PE e del Consiglio, del 14 dicembre 2016, che abroga il reg. (CEE) n. 1192/69 del Consiglio relativo alle norme comuni per la normalizzazione dei conti delle aziende ferroviarie.
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I risultati di tali interventi legislativi sui vari aspetti della materia possono così riassumersi. Anzitutto, è stato attuato il principio della separazione della contabilità dell’impresa ferroviaria, cui si applicano le regole comuni delle società commerciali, rispetto a quella dello Stato di appartenenza della stessa. A tal fine, quindi, i conti profitti e perdite, nonché i bilanci dell’impresa ferroviaria devono essere tenuti separati (e pubblicati) per quanto attiene alle attività di prestazione di servizi rispetto a quelle di gestione dell’infrastruttura ferroviaria (dir. 91/440/CEE, 2001/12/CE, e 2012/34/UE). In questo quadro, è altresì vietato trasferire il finanziamento pubblico concesso a uno dei questi due settori di attività, così com’è previsto che il materiale rotabile e le imprese ferroviarie debbano formare oggetto di certificazione sulla base di standard tecnici e misure di sicurezza; e che le indagini su eventuali incidenti debbano essere svolte da enti o imprese indipendenti da quelli che prestino servizio di trasporto ferroviario. Quanto alla gestione della rete e all’accesso alle relative infrastrutture, ogni impresa ferroviaria può oggi chiedere il rilascio di una licenza nello Stato membro di stabilimento, se in possesso dei requisiti di onorabilità, capacità professionale e capacità finanziaria, essendo inteso che a tale richiesta lo Stato interessato deve rispondere rispettando i principi fissati dalle pertinenti direttive nella ripartizione delle capacità di infrastruttura ferroviaria e nella riscossione dei diritti per il relativo utilizzo. L’impresa è comunque tenuta a osservare la legislazione nazionale e le disposizioni regolamentari compatibili con la legislazione dell’Unione, senza però che questo possa comportare discriminazioni quanto ai requisiti tecnici e operativi, di sicurezza, e alle disposizioni relative alla salute, alla sicurezza, alle condizioni sociali e ai diritti dei lavoratori e dei consumatori. Le ricordate direttive dispongono inoltre che per il trasporto di merci è attribuito alle imprese ferroviarie anche il diritto di accedere alla rete ferroviaria transeuropea. Ancora, si prevede che le associazioni costituite da almeno due imprese ferroviarie stabilite in Stati membri diversi (c.d. «associazioni internazionali») hanno diritto a un accesso equo e non discriminatorio alle infrastrutture ferroviarie in tutti gli Stati membri in cui sono stabilite le imprese ferroviarie che costituiscono l’associazione, nonché il diritto di accesso e di transito anche negli altri Stati membri per la prestazione di servizi di trasporto internazionali con gli Stati membri in cui sono stabilite le imprese che costituiscono l’associazione.
Ai predetti fini, viene imposto agli Stati membri di istituire un organismo di regolamentazione, indipendente sul piano organizzativo, giuridico, decisionale e della strategia finanziaria dai gestori dell’infrastruttura, dagli organismi preposti alla determinazione dei diritti, dagli organismi preposti all’assegnazione delle capacità di infrastruttura ferroviaria e dalle imprese ferroviarie richiedenti tali licenze. Tale organismo vigila sulla concorrenza nei mercati dei servizi ferroviari, compreso quello del trasporto ferroviario di merci, e a esso può fare ricorso chiunque ritenga di essere stato oggetto di trattamento iniquo o discriminatorio (dir. 95/18/CE, 95/19/CE, 2001/12/CE, 2001/13/CE, 2001/14/CE, e 2012/34/UE). La disciplina in vigore ha inoltre inciso su altri profili di rilievo: la interoperabilità del sistema ferroviario transeuropeo ad alta velocità mediante la regolamentazione delle condizioni relative al progetto, alla costruzione, all’assetto e alla gestione delle infrastrutture e del materiale rotabile a esso relativo, nonché sull’interoperabilità del sistema
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ferroviario convenzionale (dir. 96/48/CE, 2001/16/CE, 2008/57/CE, e 2011/18/UE, e 2016/797/UE, già citata); la certificazione dei macchinisti addetti alla guida di locomotori e treni sul sistema ferroviario dell’Unione (dir. 2007/59); i diritti e obblighi dei passeggeri nel trasporto ferroviario, inclusi gli obblighi delle imprese ferroviarie in caso di ritardo, le loro responsabilità e i loro obblighi di assicurazione e di informazione sugli orari e le coincidenze, il monitoraggio delle norme di qualità del servizio e la gestione dei rischi in materia di sicurezza personale dei passeggeri: v. dir. 2001/14/CE; reg. (CE) n. 1371/2007, sulla quale v., tra le altre, sentenza 22 novembre 2012, C-136/11, Westbahn Mana-gement; e la dir. 2016/798 sulla sicurezza delle ferrovie, già citata; nonché l’istituzione della ricordata Agenzia dell’Unione europea per le ferrovie.
7. Il trasporto stradale Quanto al trasporto stradale di merci e viaggiatori, va segnalato anzitutto che è stata ormai realizzata la liberalizzazione dell’accesso all’attività di trasportatore su strada di merci e passeggeri, permettendo così ai vettori per conto terzi di effettuare, a talune condizioni, quei servizi in modo regolare senza subire discriminazioni fondate sulla nazionalità o sulla residenza. La materia è disciplinata oggi dal reg. (CE) n. 1071/2009, del PE e del Consiglio, del 21 ottobre 2009 (GUUE L 300, 51), che definisce norme comuni in materia, fissando i requisiti di onorabilità, idoneità finanziaria e idoneità professionale per l’accesso a tale professione, mentre il reg. (CE) 1072/2009, del PE e del Consiglio, del 21 ottobre 2009 (GUUE L 300, 72) si occupa dell’accesso al mercato internazionale dei trasporti di merci, imponendo ai cittadini dell’Unione il possesso di una licenza comunitaria per effettuare questo tipo di trasporti, ed anche un attestato di conducente per i cittadini degli Stati terzi. La licenza deve essere rilasciata da uno Stato membro a qualsiasi trasportatore di merci su strada per conto terzi che sia stabilito in tale Stato membro in conformità alla legislazione dell’Unione e alla legislazione nazionale di tale Stato membro, e sia legalmente abilitato nello Stato membro di stabilimento ad effettuare quei trasporti. L’attestato di conducente deve invece essere rilasciato da uno Stato membro a tutti i trasportatori che, essendo titolari di detta licenza, assumano legalmente un conducente che non sia cittadino di un altro Stato membro o soggiornante di lungo periodo ovvero facciano legittimamente ricorso a un conducente che non sia cittadino di uno Stato membro né soggiornante di lungo periodo.
A sua volta, il reg. (CE) n. 1073/2009, del PE e del Consiglio, sempre del 21 ottobre 2009, regola i trasporti internazionali di passeggeri effettuati con autobus nel territorio dell’Unione da vettori per conto terzi o per conto proprio stabiliti in uno Stato membro a mezzo di veicoli immatricolati in detto Stato adatti e destinati a trasportare più di nove persone, conducente compreso. Anche in quest’ultimo caso è richiesto l’ottenimento di una licenza comunitaria rilasciata dalle autorità competenti dello Stato membro di stabilimento. La licenza deve essere rilasciata da uno Stato membro a qualsiasi trasportatore di merci su strada per conto terzi che sia stabilito in tale Stato membro in conformità alla legislazione del-
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l’Unione e alla legislazione nazionale di tale Stato membro, e sia legalmente abilitato nello Stato membro di stabilimento ad effettuare quei trasporti. L’attestato di conducente deve invece essere rilasciato da uno Stato membro a tutti i trasportatori che, essendo titolari di detta licenza, assumano legalmente un conducente che non sia cittadino di un altro Stato membro o soggiornante di lungo periodo ovvero facciano legittimamente ricorso a un conducente che non sia cittadino di uno Stato membro né soggiornante di lungo periodo.
Ma oltre che di quelli appena ricordati, il legislatore dell’Unione si è occupato anche di altri aspetti rilevanti in materia. Così, un’abbondante regolamentazione è stata dettata, addirittura prima dell’introduzione di tale profilo nell’art. 91 TFUE, per quanto riguarda la sicurezza del traffico stradale e i relativi aspetti sociali, con particolare riguardo ai tempi di guida dei conducenti professionisti. La materia, che è stata oggetto anche di un’abbondante giurisprudenza della Corte, è disciplinata dal reg. (CE) n. 561/2006 del PE e del Consiglio, del 15 marzo 2006, relativo all’armonizzazione di alcune disposizioni in materia sociale nel settore dei trasporti su strada (GUUE L 102, 1), modificato da ultimo dal citato reg. n. 1073/2009. V. anche il reg. (CEE) n. 3821/85 del Consiglio, del 20 dicembre 1985, relativo all’apparecchio di controllo nel settore dei trasporti su strada, che viene via via adeguato al progresso tecnico (GUCE L 370, 8); nonché la direttiva 2006/22/CE, recante norme minime per l’applicazione dei reg. (CEE) n. 3820/85 e (CEE) n. 3821/85 del Consiglio relativi a disposizioni in materia sociale nel settore dei trasporti su strada e che abroga la dir. 88/599/CEE del Consiglio (GUUE L 132, 35).
Una specifica disciplina, anche su sollecitazione della stessa Corte di giustizia, è intervenuta inoltre per la patente di guida comunitaria. V. la menzionata dir. 80/1263, poi abrogata e via via sostituita da altri testi, fino alla dir. 2006/126/CE del PE e del Consiglio, del 20 dicembre 2006, concernente la patente di guida (Rifusione) (GUUE L 403, 18), modificata da ultimo dalla dir. (UE) 2016/1106 della Commissione, del 7 luglio 2016, recante modifica della dir. 2006/126/CE del PE e del Consiglio concernente la patente di guida (GUUE L 183, 59). Quanto alla giurisprudenza della Corte, nella sentenza 28 novembre 1978, 16/78, Choquet, 2293, questa aveva denunciato la limitazione che derivava ai cittadini dell’Unione che intendessero stabilirsi durevolmente nel territorio di uno Stato membro dalla necessità di ottenere una patente nazionale di guida da parte di tale Stato, nonostante già fossero in possesso di una patente dello Stato di origine. Con la dir. 80/1263/CEE del Consiglio, del 4 dicembre 1980 (GUCE L 375, 1), erano state introdotte le prime norme per l’istituzione e la regolamentazione della patente di guida comunitaria. In proposito, però, la Corte aveva considerato legittima la pretesa di uno Stato membro di imporre la sostituzione della patente di guida rilasciata da un altro Stato membro entro un anno dal momento dell’acquisto della residenza abituale nel territorio del primo Stato per poter ivi continuare a guidare, a condizione che le sanzioni in caso d’inosservanza non fossero sproporzionate (in particolare non fossero equiparate a quelle inflitte in caso di guida senza patente): Corte giust. 29 febbraio 1996, C-193/94, Shanavy e Chryssanthakoupolos, I-929. A tale pronuncia sono seguite poi molte altre sentenze, relative (anche) alla dir. 2006/106/CE del PE e del Consiglio, del 20 dicembre 2006, concernente la patente di guida (GUUE L 403, 18): v. tra le più recenti, ad es., Corte giust. 2 ottobre 2003, C-12/02, Grilli, 11585; 29 aprile 2004, C-476/01, Kapper, 5205; 26 giugno 2008, da C-334/06 a C-336/06, Zerche e a., I4691; 20 novembre 2008, C-1/07, Weber, I-8571; 19 febbraio 2009, C-321/07, Schwarz, I-1113; 19 maggio 2011, C-184/10, Grasser, I-4057; 1° marzo 2012, C-467/10, Akyüz; 6 aprile 2012, C419/10, Hofmann; 21 maggio 2015, C-339/14, Wittmann; 22 marzo 2017, C-665/15, Commissione c. Portogallo; 26 aprile 2017, C-632/15, Popescu.
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Ma soprattutto va ricordata la ricca normativa in materia di tutela ambientale, che a partire in particolare dagli anni ’90 si è occupata di molti aspetti di questa tutela, a cominciare dalla disciplina degli standard di emissione, e proseguendo con la tassazione a carico di autoveicoli pesanti adibiti al trasporto di merci su strada per l’uso di alcune infrastrutture (c.d. «eurobollo»), la qualità della benzina e del combustibile diesel, la promozione dell’uso dei biocarburanti o di altri carburanti rinnovabili, l’omologazione dei veicoli a motore riguardo le emissioni dei veicoli passeggeri e commerciali leggeri e dei veicoli pesanti (euro VI), nonché con l’accesso alle informazioni relative alla riparazione e alla manutenzione del veicolo, i livelli di prestazione in materia di emissioni delle autovetture nuove e dei veicoli commerciali leggeri nuovi nell’ambito dell’approccio comunitario integrato finalizzato a ridurre le emissioni di CO2 dei veicoli leggeri. Sull’Eurobollo, v. dir. 1999/62/CE del PE e del Consiglio, del 17 giugno 1999 (GUCE L 187, 42), da ultimo modificata dalla dir. 2011/76/UE del PE e del Consiglio, del 27 settembre 2011 (GUUE L 269, 1. In giurisprudenza, v. Corte giust. 20 novembre 2008, C-18/08, Foselev SudOuest, I-8745). Sugli altri testi, v., fra i tanti, dir. 2009/33/CE del PE e del Consiglio, del 23 aprile 2009, relativa alla promozione di veicoli puliti e a basso consumo energetico nel trasporto su strada (GUUE L 120, 5); dir. 2012/33/UE del PE e del Consiglio, del 21 novembre 2012 (GUUE L 327, 1), relativa al tenore di zolfo di alcuni combustibili liquidi; dir. 2011/63/UE della Commissione, del 1° giugno 2011 (GUUE L 147, 15), in materia di qualità della benzina e del combustibile diesel; dir. 2009/28/CE del PE e del Consiglio, del 23 aprile 2009, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili (GUUE L 140, 16); reg. (CE) n. 715/2007 del PE e del Consiglio, del 20 giugno 2007 (GUCE, L 171, 1), poi modificato dal reg. (UE) n. 459/2012 della Commissione, del 29 maggio 2012 (GUUE L 142, 16), sull’omologazione dei veicoli a motore riguardo le emissioni dai veicoli passeggeri e commerciali leggeri; dir. 2007/46/CE del PE e del Consiglio, del 5 settembre 2007, che istituisce un quadro per l’omologazione dei veicoli a motore e dei loro rimorchi, nonché dei sistemi, componenti ed entità tecniche destinati a tali veicoli (direttiva quadro), più volte modificata; il reg. (CE) n. 595/2009 del PE e del Consiglio, del 18 giugno 2009 (GUUE L 188, 1), modificato dal reg. (UE) n. 582/2011 della Commissione, del 25 maggio 2011 (GUUE L 167, 1), relativo all’omologazione dei veicoli a motore e dei motori riguardo le emissioni dei veicoli pensanti (euro VI) e l’accesso delle informazioni relative alla riparazione e alla manutenzione dei veicoli; reg. (CE) n. 443/2009 del PE e del Consiglio, del 23 aprile 2009 (GUUE L 140, 1), concernente i livelli di prestazione in materia di emissioni delle autovetture nuove e dei veicoli commerciali leggeri nuovi, nell’ambito dell’approccio integrato dell’Unione per ridurre le emissioni di CO2: reg. (UE) n. 510/2011 del PE e del Consiglio, dell’11 maggio 2011 (GUUE L 145, 1). Va segnalato che il quadro giuridico per l’omologazione dei veicoli a motore e i loro rimorchi è attualmente oggetto di una proposta volta a realizzare una profonda riforma del sistema, segnatamente al fine di colmare le lacune emerse a seguito dello “scandalo” degli impianti di manipolazione, meglio noti con il termine inglese defeat devices (v. la proposta di reg. del PE e del Consiglio relativo all’omologazione e alla vigilanza del mercato dei veicoli a motore e dei loro rimorchi, nonché dei sistemi, componenti ed entità tecniche destinati a tali veicoli (COM(2016) 31 final 2016/0014, del 27 gennaio 2016), che dovrebbe sostituire la dir. 2007/46/CE, cit.). Gli impianti di manipolazione sono proibiti dal reg. (CE) n. 715/2007, poc’anzi citato, ma sono difficilmente individuabili tramite gli attuali test delle emissioni prescritti nell’ambito dell’omologazione dei veicoli. Per questo, la Commissione ha adottato due “pacchetti” legislativi, cui farà seguito un terzo, introducendo una nuova procedura di test delle emissioni, basata su modalità reali di guida (Real Driving Emissions – RDE), che dovrebbe riflettere meglio le emissioni misurate su strada e garantire il rispetto del divieto di impianti di manipolazione: v. reg. (UE) n. 2016/427 della Commissione, del 10 marzo 2016, che modifica il reg. (CE) n. 692/2008 riguardo alle emissioni dai vei-
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coli passeggeri e commerciali leggeri (Euro 6) (GUUE L 82, 1); reg. (UE) n. 2016/646 della Commissione, del 20 aprile 2016, che modifica il reg. (CE) n. 692/2008 riguardo alle emissioni dai veicoli passeggeri e commerciali leggeri (GUUE L 109, 1). Particolarmente significativa è la partecipazione dell’Unione (v. dec. 2007/799/CE del Consiglio, del 12 ottobre 2006, in GUUE L 323, 13) al Protocollo di attuazione della convenzione alpina nel settore dei trasporti, cioè dell’accordo-quadro per la tutela e lo sviluppo sostenibile della regione alpina sotto il profilo ambientale, economico e sociale attraverso l’applicazione dei principi di prevenzione, cooperazione tra i membri della convenzione e del principio «chi inquina paga». Nella ricca giurisprudenza in materia, limitatamente alle pronunce più recenti, v. Corte giust. 21 dicembre 2011, C-28/09, Commissione c. Austria, I-13525; 28 febbraio 2012, C-41/11, InterEnvironnement Wallonie; 13 giugno 2013, C-193/12, Commissione c. Francia; 25 aprile 2013, C55/12, Commissione c. Irlanda; 22 marzo 2017, C-497/15, Euro-Team; 30 marzo 2017, C-335/16, VG Čistoća.
8. Il trasporto fluviale Per quanto concerne i trasporti fluviali e sulle altre vie navigabili, non si può parlare al riguardo di un’autentica politica comune a livello dell’Unione, dato lo scarso interesse suscitato dalla materia (tuttavia, una menzione particolare, il reg. (UE) n. 1177/2010, del PE e del Consiglio, del 24 novembre 2010, relativo ai diritti dei passeggeri che viaggiano via mare e per vie navigabili interne e che modifica il reg. (CE) n. 2006/2004, GUUE L 334, 1). Inizialmente, del resto, l’unica navigazione fluviale intracomunitaria era quella del fiume Reno, regolata dalla Convenzione di Mannheim del 1868, gli altri Stati membri dell’epoca conoscendo solo una navigazione fluviale di modesta entità. V. reg. (CEE) n. 2919/85 del Consiglio, del 17 ottobre 1985, che fissa le condizioni di accesso al regime riservato dalla Convenzione modificata per la navigazione sul Reno ai battelli adibiti alla navigazione sul Reno (GUCE L 280, 4), Peraltro, il sistema di navigazione del Reno era affetto da eccesso di capacità rispetto alle esigenze del mercato, cui si cercò di porre rimedio in vario modo, e anche con un accordo tra CE, Svizzera e alcuni Stati membri sull’immobilizzazione temporanea dei battelli in navigazione sul Reno, dichiarato però incompatibile con il Trattato dalla Corte (v. il parere della Corte del 26 aprile 1977, 1/76, 741; ma v. anche Corte giust. 2 giugno 2005, C-266/03, Commissione c. Lussemburgo, 4805; 14 luglio 2005, C-433/03, Commissione c. Germania, 6985).
Successivamente, però, questa modalità di trasporto è ritornata all’attenzione nella prospettiva di un rilancio della politica comune dei trasporti, di cui fece stato già il ricordato Libro Bianco del 2001 (p. 587), nella convinzione che essa possa essere meglio valorizzata e maggiormente sfruttata, specie in quanto non inquinante, e che possa anche facilitare l’integrazione dei nuovi Stati aderenti all’Unione (con chiaro riferimento al Danubio). Prima di varare i relativi provvedimenti, però, si rese necessario ridurre le tradizionali sovraccapacità del trasporto fluviale, il che fu realizzato, in particolare, mediante un programma di risanamento strutturale che introdusse premi per la demolizione delle barche e di vincoli rigorosi all’introduzione di nuovi battelli nella navigazione fluviale.
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Reg. (CEE) n. 1101/89 del Consiglio, del 27 aprile 1989, relativo al risanamento strutturale del settore della navigazione interna (GUCE L 116, 25), poi modificato dal reg. (CEE) n. 742/98 della Commissione, del 2 aprile 1998 (GUCE L 103, 3). In proposito si fece ricorso al sistema c.d. del «vecchio per il nuovo», cioè condizionando la messa in navigazione di una nave di nuova costruzione alla condizione che il proprietario procedesse alla demolizione, senza il relativo premio, di un tonnellaggio di stiva equivalente a quello della nuova nave. Il reg. (CE) n. 718/1999 del Consiglio, del 29 marzo 1999, relativo a una politica di regolazione delle capacità delle flotte comunitarie nella navigazione interna, al fine di promuovere il trasporto per via navigabile (GUCE L 90, 1), modificato dal reg. (UE) n. 546/2014 del PE e del Consiglio, del 15 maggio 2014, che modifica il reg. (CE) n. 718/1999 del Consiglio, relativo ad una politica di regolazione delle capacità delle flotte comunitarie nella navigazione interna, al fine di promuovere il trasporto per via navigabile (GUUE L 163, 15), ha mantenuto il programma ancora per un limitato periodo di tempo diminuendo progressivamente il coefficiente fino a zero. Il regime, definitivamente terminato nel 2003, è stato mantenuto solo come strumento di gestione della capacità delle flotte comunitarie, con funzioni di meccanismo di vigilanza, riattivabile esclusivamente in caso di grave turbativa del mercato. Sul descritto sistema, v. Corte giust. 1° giugno 1995, C-414/93, Teirlinck, I-1339; 30 gennaio 1997, C-178/95, Wiljo, I-585; 17 luglio 1997, C-248/95 e C-249/95, SAM Schiffahrt e Stapf, I-4475.
La prestazione di servizi per la modalità di trasporto in esame è stata liberalizzata per tutti i vettori comunitari a partire dalla dir. 87/540/CEE, del Consiglio, del 9 novembre 1987 (GUCE L 322, 20), che ha regolamentato l’accesso alla professione di trasportatore di merci per via navigabile nel settore dei trasporti nazionali ed internazionali e promosso il riconoscimento reciproco dei diplomi, certificati ed altri titoli relativi a tale professione. Essa è stata seguita da una disciplina che ha provveduto all’armonizzazione dei certificati nazionali di conduzione rilasciati dalle autorità nazionali, in un primo tempo prevedendone solo il mutuo riconoscimento, e poi istituendo un modello di certificato nazionale unico di conduzione delle navi, rilasciato dagli Stati membri secondo le rispettive modalità, ma soggetto a riconoscimento reciproco. V., dir. 91/672/CEE del Consiglio, del 16 dicembre 1991, sul riconoscimento reciproco dei certificati nazionali di conduzione di navi per il trasporto di merci e di persone nel settore della navigazione interna (GUCE L 373, 29); nonché reg. (CEE) n. 3921/91 del Consiglio, del 16 dicembre 1991, che fissa le condizioni per l’ammissione di vettori non residenti ai trasporti nazionali di merci o di persone per via navigabile in uno Stato membro (GUCE L 373, 1). La disciplina di cui a questo regolamento è stata poi completata dal reg. (CE) n. 1356/96 del Consiglio, dell’8 luglio 1996 (GUCE L 175, 7), che fissa regole comuni applicabili ai trasporti di merci o di persone per via navigabile tra Stati membri, al fine di realizzare in tali trasporti la libera prestazione dei servizi. Per il modello di certificato nazionale unico, v. dir. 96/50/CE del Consiglio, del 23 luglio 1996 riguardante l’armonizzazione dei requisiti per il conseguimento dei certificati nazionali di conduzione di navi per il trasporto di merci e di persone nella Comunità nel settore della navigazione interna (GUCE L 235, 31); nonché reg. (CE) n. 1356/96 del Consiglio, dell’8 luglio 1996, che fissa regole comuni applicabili ai trasporti di merci o di persone per via navigabile tra Stati membri al fine di realizzare in tali trasporti la libera prestazione dei servizi (GUCE L 175, 7). Tale disciplina è stata poi modificata, da ultimo, dal reg. (CE) n. 1137/2008 del PE e del Consiglio, del 28 ottobre 2008 (GUUE L 311, 1).
Grazie a tale disciplina, qualsiasi vettore di merci o di persone per via navigabile, che sia in possesso dei prescritti requisiti, è ammesso a effettuare operazioni di trasporto, senza discriminazioni motivate dalla nazionalità e dal luogo di stabilimento,
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sempre che il prestatore sia stabilito in uno Stato membro, vi sia stabilito per effettuare trasporti internazionali di merci o di persone per via navigabile ed utilizzi per tali operazioni di trasporto battelli per la navigazione interna immatricolati in uno Stato membro oppure muniti di un’attestazione di appartenenza alla flotta di uno Stato membro. Misure legislative sono state poi dettate anche in materia di sicurezza delle navi utilizzate per la navigazione interna, con l’adozione di un certificato europeo di navigazione interna valido per tutte le idrovie dell’Unione e attestante la conformità delle navi ai requisiti tecnici comuni; in materia di armonizzazione dei servizi informativi, con la fissazione di un quadro normativo per l’introduzione e lo sviluppo di servizi d’informazione fluviale armonizzati e interoperabili sulle vie navigabili interne; e in materia di tariffazione del trasporto fluviale. V., rispettivamente, dir. 76/135/CEE del Consiglio, del 20 gennaio 1976, sul reciproco riconoscimento degli attestati di navigabilità rilasciati per le navi della navigazione interna (GUCE L 21, 10), sostituita dalla dir. 2009/100/CE del PE e del Consiglio, del 16 settembre 2009, sul reciproco riconoscimento degli attestati di navigabilità rilasciati per le navi della navigazione interna (GUUE L 259, 81, modificata di recente dalla dir. (UE) 2016/1629 del PE e del Consiglio, del 14 settembre 2016, che stabilisce i requisiti tecnici per le navi adibite alla navigazione interna, che modifica la dir. 2009/100/CE e che abroga la dir. 2006/87/CE, GUUE L 252, 118); dir. 82/714/CEE del Consiglio, del 4 ottobre 1982, che fissa i requisiti tecnici per le navi della navigazione interna (GUCE L 301, 1), poi abrogata dalla dir. 2006/87/CE del PE e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, che fissa i requisiti tecnici per le navi della navigazione interna e che abroga la dir. 82/714/CEE del Consiglio, a sua volta sostituita dalla citata dir. (UE) 2016/1629. Si tratta, peraltro, di un regime che si affianca, non senza problemi, a quello previsto dalla citata Convenzione riveduta sulla navigazione del Reno. Esso è stato quindi oggetto di un profondo riesame: v. dir. 2005/44/CE, del PE e del Consiglio, del 7 settembre 2005, relativa ai servizi armonizzati d’informazione fluviale (RIS) sulle vie navigabili interne della Comunità (GUUE L 255, 152; e il reg. (UE) n. 164/2010 della Commissione, del 25 gennaio 2010, concernente le specifiche tecniche del sistema elettronico di segnalazione navale per la navigazione interna di cui all’art. 5 della citata dir. 2005/44 (GUUE L 57, 1). Tale direttiva impone agli Stati membri, che abbiano vie navigabili interne, di istituire servizi d’informazione volti a migliorare l’integrazione della navigazione interna, a fornire informazioni sulle vie d’acqua, sulla situazione del traffico, nonché informazioni strategiche sulla pianificazione del viaggio. V. anche dir. 96/75/CE del Consiglio, del 19 novembre 1996 (GUCE L 304, 12), relativa alle modalità di noleggio e di formazione dei prezzi nel settore dei trasporti nazionali e internazionali di merci per via navigabile nell’Unione (relativamente alla quale v., di recente, Corte giust. 12 ottobre 2016, C-92/15, Mathys).
9. Il trasporto marittimo Quanto al trasporto marittimo, la liberalizzazione del settore ha preso anch’essa l’avvio con molto ritardo e soprattutto grazie alla ricordata giurisprudenza della Corte in materia (v. le citate sentenze nn. 167/73, Commissione c. Francia; 13/83, Parlamento c. Consiglio, e da 209/84 e 213/84, Asjes e a., c.d. Nouvelles frontières). Inizialmente, essa si tradusse in un «pacchetto» di quattro regolamenti, tesi in particolare all’applicazione del principio della libera prestazione dei servizi, oltre che della già ricordata disciplina in materia di concorrenza.
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Si tratta dei regolamenti (CEE) del Consiglio: n. 4055/86, del 22 dicembre 1986 (GUCE L 378, 1), che applica il principio della libera prestazione dei servizi ai trasporti marittimi tra Stati membri e tra Stati membri e paesi terzi (successivamente modificato dal reg. (CEE) n. 3573/90 del Consiglio, del 4 dicembre 1990, GUCE L 353, 16); 4056/86, cit. (poi abrogato dal reg. (CE) n. 1419/2006 del Consiglio, del 25 settembre 2006, GUCE L 269, 1); n. 4057/86, cit.; n. 4058/86, del 22 dicembre 1986 (GUCE L 378, 21), concernente un’azione coordinata intesa a salvaguardare il libero accesso ai trasporti marittimi nei traffici transoceanici.
Tali misure consentivano ai cittadini degli Stati membri (e ai vettori marittimi di paesi terzi che utilizzano navi immatricolate in uno Stato membro e controllate da cittadini di uno Stato membro) il diritto di trasportare merci o passeggeri via mare tra qualsiasi porto di uno Stato membro e qualsiasi porto o impianto in mare aperto di un altro Stato membro o di un paese terzo. Per quanto poi riguarda, più specificatamente, le relazioni con i paesi terzi, era prevista la possibilità di adottare contromisure comuni nei casi in cui l’azione di un paese terzo o dei suoi agenti limiti, o minacci di limitare, il libero accesso di società di navigazione degli Stati membri o di navi registrate in uno Stato membro al trasporto di linea, di merci alla rinfusa e di qualsiasi carico, eccetto quando la misura fosse stata adottata in conformità della ricordata convenzione delle Nazioni Unite relativa al Codice di comportamento per le conferenze marittime. Ma è con l’adozione del reg. (CEE) n. 3577/92 del Consiglio, del 7 dicembre 1992 (GUCE L 364, 7), sul cabotaggio marittimo, che viene completato il processo di liberalizzazione del settore. Tale regolamento stabilì infatti l’applicabilità, a decorrere dal 1° gennaio 1993, della libera prestazione dei servizi agli armatori che impiegano navi registrate in uno Stato membro e che battono bandiera del medesimo Stato membro, sempre che queste soddisfino tutti i requisiti necessari per l’ammissione al cabotaggio in detto Stato membro. Quanto all’obbligo degli Stati membri di rispettare il diritto dell’Unione ai fini dell’iscrizione di una nave nei loro registri e della concessione alla stessa del diritto di battere la loro bandiera, v. Corte giust. 25 luglio 1991, C-221/89, Factortame, I-3905; 12 giugno 1997, C-151/96, Commissione c. Irlanda, I-6725. Sull’immatricolazione delle navi v. Corte giust. 27 novembre 1997, C-62/96, Commissione c. Grecia, I-3327.
Il regolamento consente peraltro agli Stati membri di concludere contratti di servizio pubblico, o imporre obblighi di servizio pubblico come condizione per la fornitura di servizi di cabotaggio, alle compagnie di navigazione che partecipano ai servizi regolari da, tra e verso le isole, a condizione che lo facciano su base non discriminatoria e limitatamente alle esigenze relative ai porti che devono essere serviti, alla regolarità, alla continuità, alla frequenza, alla capacità di fornitura del servizio, alle tariffe richieste e all’equipaggio della nave. Il regolamento prevede anche che per le navi che effettuano cabotaggio continentale e per le navi da crociera le questioni relative all’equipaggio sono di competenza dello Stato della bandiera; mentre per le navi che effettuano il cabotaggio con le isole esse sono di competenza dello Stato ospitante.
Inoltre, la prestazione di servizi regolari di cabotaggio marittimo verso le isole può essere assoggettata a una previa autorizzazione amministrativa, ma ciò, secondo
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la Corte, solo se è dimostrata un’effettiva esigenza di servizio pubblico per l’insufficienza di servizi regolari di trasporto in una situazione di libera concorrenza e se tale regime autorizzativo risulta necessario e proporzionato allo scopo perseguito ed è fondato su criteri oggettivi, non discriminatori e noti in anticipo alle imprese interessate (v. Corte giust. 20 febbraio 2001, C-205/99, Analir e a., I-1271. Ma in materia, v. anche Corte giust. 6 aprile 2006, C-456/04, Agip Petroli, I-3395; 17 marzo 2011, C-128/10 e C-129/10, Naftiliaki Etaireia Thasou e Amaltheia I Naftiki Etaireia, I1885; 27 marzo 2014, C-17/13, Alpina River Cruises e Nicko Tours). Altre regolamentazioni dell’Unione in materia riguardano il riconoscimento reciproco tra Stati membri dei certificati nazionali di conduzione di navi per il trasporto di merci e di persone nel settore della navigazione interna, armonizzando i requisiti richiesti per l’ottenimento di tali certificati; la semplificazione delle formalità di dichiarazione delle navi in arrivo o in partenza da porti degli Stati membri e l’armonizzazione delle relative procedure amministrative; nonché la fornitura di servizi portuali, la gestione e la trasparenza finanziaria dei porti marittimi. V. dir. 91/672/CEE del Consiglio, del 16 dicembre 1991, sul riconoscimento reciproco dei certificati nazionali di conduzione di navi per il trasporto di merci e di persone nel settore della navigazione interna (GUCE L 373, 29); dir. 96/50/CE del Consiglio, del 23 luglio 1996, riguardante l’armonizzazione dei requisiti per il conseguimento dei certificati nazionali di conduzione di navi per il trasporto di merci e di persone nella Comunità nel settore della navigazione interna (GUCE L 235, 31). In materia, v. anche dir. 2008/106/CE del PE e del Consiglio, del 19 novembre 2008, concernente i requisiti minimi di formazione per la gente di mare (rifusione) (GUUE L 323, 33, più volte modificata); dir. 2010/65/UE del PE e del Consiglio, del 20 ottobre 2010 (GUUE L 283, 1); e reg. (UE) n. 2017/352 del PE e del Consiglio, del 15 febbraio 2017, che istituisce un quadro normativo per la fornitura di servizi portuali e norme comuni in materia di trasparenza finanziaria dei porti (GUUE L 57, 1).
Molto più significativi sono però i numerosi e anche risalenti interventi in materia di sicurezza della navigazione e di protezione dell’ambiente marino dall’inquinamento. Si ricorda che la materia rientra tradizionalmente nella competenza dell’International Maritime Organization (IMO) ed è altresì oggetto di numerose convenzioni internazionali. Inoltre, l’Unione è parte contraente della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, la cui Parte XII è consacrata alla protezione e alla conservazione dell’ambiente marino, il che non impedisce all’Unione di adottare proprie normative in materia.
In proposito, vanno in primo luogo ricordati i tre «pacchetti legislativi» sulla sicurezza marittima, sollecitati dai noti incidenti avvenuti davanti alle coste europee e, in particolare, quelli delle petroliere Erika e Prestige. Il primo risale al 2001 e si è tradotto nelle direttive del PE e del Consiglio: 2001/105/CE, del 19 dicembre 2001 (GUUE L 19, 9), che detta norme comuni per gli organi che effettuano le ispezioni e le visite di controllo delle navi e per le pertinenti attività delle amministrazioni marittime; 2001/106/CE, del 19 dicembre 2001 (GUUE L 19, 17), che modifica la dir. 95/21/CE del Consiglio, del 19 giugno 1995, relativa al controllo delle navi da parte dello Stato di approdo (GUCE L 157, 1); il reg. (CE) n. 417/2002, del PE e del Con-
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siglio, del 18 febbraio 2002 (GUUE L 64, 1), sull’introduzione accelerata delle norme in materia di doppio scafo o di tecnologia equivalente per le petroliere monoscafo. Con il secondo pacchetto è stata invece istituita l’Agenzia europea per la sicurezza marittima (reg. (CE) n. 1406/2002 del PE e del Consiglio, del 27 giugno 2002, in GUUE L 208, 1) e il sistema comunitario di monitoraggio del traffico navale e d’informazione (dir. 2002/59/CE del PE e del Consiglio, del 27 giugno 2002, in GUUE L 208, 10). Il terzo pacchetto, infine, comprende: dir. 2009/15/CE relativa alle disposizioni e alle norme comuni per gli organismi che effettuano le ispezioni e le visite di controllo delle navi e per le pertinenti attività delle amministrazioni marittime; dir. 2009/16/CE relativa al controllo da parte dello Stato di approdo; dir. 2009/17/CE recante modifica della citata dir. 2002/59; dir. 2009/18/CE che stabilisce i principi fondamentali in materia d’inchieste sugli incidenti nel settore del trasporto marittimo; dir. 2009/20/CE sull’assicurazione degli armatori per i crediti marittimi; dir. 2009/21/CE, relativa al rispetto degli obblighi dello Stato di bandiera (tutte direttive del PE e del Consiglio, del 23 aprile 2009, GUUE L 131, rispettivamente 47, 57, 101, 114, 128, e 132); reg. (CE) n. 392/2009, del PE e del Consiglio, del 23 aprile 2009 (GUUE L 131, 24), relativo alla responsabilità dei vettori che trasportano passeggeri via mare in caso di incidente. Ma si possono ancora ricordare la dir. 93/75/CEE, che ha istituito un sistema per l’informazione delle autorità competenti sulle navi dirette a porti marittimi dell’Unione e che trasportano merci pericolose o inquinanti, nonché sugli incidenti in mare (dir. del Consiglio, del 13 settembre 1993, relativa alle condizioni minime necessarie per le navi dirette a porti marittimi della Comunità o che ne escono e che trasportano merci pericolose o inquinanti, in GUCE L 247, 19, abrogata dalla dir. 2002/59/CE del PE e del Consiglio, del 27 giugno 2002, relativa all’istituzione di un sistema comunitario di monitoraggio del traffico navale e d’informazione e che abroga la dir. 93/75, in GUCE L 208, 10, a sua volta modificata dalla dir. 2014/100/UE della Commissione, del 28 ottobre 2014, GUUE L 308, 82); dir. 2014/90/UE del PE e del Consiglio, del 23 luglio 2014, sull’equipaggiamento marittimo e che abroga la direttiva 96/98/CE del Consiglio (GU L 257, 146); dir. 2002/25/CE, della Commissione, del 5 marzo 2002, che modifica la dir. 98/18/CE del Consiglio relativa alle disposizioni e norme di sicurezza per le navi da passeggeri (GUCE L 98, 1, a sua volta però abrogata dalla citata dir. 2009/45/CE, che rafforza le norme di sicurezza per le navi che trasportano persone); dir. 2002/84/CE, del PE e del Consiglio, del 5 novembre 2002, che modifica le direttive in materia di sicurezza marittima e di prevenzione dell’inquinamento provocato dalle navi (GUCE L 324, 53) e il reg. (CE) n. 2099/2002, del PE e del Consiglio, del 5 novembre 2002, che istituisce un comitato per la sicurezza marittima e la prevenzione dell’inquinamento provocato dalle navi (comitato COSS) e recante modifica dei regolamenti in materia di sicurezza marittima e di prevenzione dell’inquinamento provocato dalle navi (GUCE L 324, 1, più volte modificato), che integrano la politica ambientale marittima già sviluppata e tendono a migliorare le condizioni di vita e di lavoro del personale a bordo delle navi; dir. 2005/35/CE, del PE e del Consiglio, del 30 settembre 2005 (GUUE L 255, 11), modificata dalla dir. 2009/123/CE del PE e del Consiglio del 21 ottobre 2009 (GUUE L 280, 52), relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni (anche penali) per violazioni (della quale la Corte ha avu-
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to occasione di accertare la validità nella sentenza 3 giugno 2008, C-308/063, Intertanko, I-4057); dir. 2005/65/CE, del PE e del Consiglio, del 26 ottobre 2005 (GUUE L 310, 28), relativa al miglioramento della sicurezza dei porti; reg. (CE) n. 336/2006, del PE e del Consiglio, del 15 febbraio 2006 (GUUE L 64, 1), sull’attuazione nell’Unione del codice internazionale di gestione della sicurezza delle navi e della prevenzione dell’inquinamento (c.d. codice ISM), al fine di assicurare la conformità a detto codice da parte delle società che gestiscono le navi e le piattaforme mobili individuate dallo stesso regolamento; dir. 2009/45/CE, del PE e del Consiglio, del 6 maggio 2009 (GUCE L 144, 1), modificata dalla dir. 2010/36/UE della Commissione, del 1° giugno 2010 (GUUE L 162, 1), relativa alle disposizioni e norme di sicurezza per le navi da passeggeri; dir. 2014/89/UE, del PE e del Consiglio, del 23 luglio 2014, che istituisce un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo (GUUE L 257, 135).
10. Il trasporto aereo Come per i trasporti marittimi, anche la liberalizzazione del trasporto aereo ha ricevuto slancio solo dopo la più volte ricordata giurisprudenza della Corte ed è passata attraverso una serie di «pacchetti legislativi». Al ritardo hanno contribuito le motivazioni prima evocate (p. 585 ss.). In particolare, va ricordato che all’epoca dei Trattati di Roma già operava in materia la International Civil Aviation Organization (ICAO), istituita dalla Convenzione di Chicago sull’aviazione civile internazionale, adottata il 7 dicembre 1944, e la International Air Transport Association (IATA: a differenza dell’altra, organizzazione non governativa). Inoltre, era storicamente consolidato – al livello del diritto internazionale – il principio della sovranità degli Stati sullo spazio aereo sovrastante il proprio territorio, mentre una fitta rete di convenzioni bilaterali legava gli Stati membri dell’allora Comunità sia reciprocamente che con gli Stati terzi. L’adozione di una politica comune in materia non poteva quindi non essere condizionata, almeno per quanto concerne la sua proiezione verso l’esterno, da tali situazioni.
Il primo «pacchetto» risale al 1987 e riguardava, a parte alcune misure in materia di concorrenza di cui si è già detto in precedenza, le tariffe dei servizi aerei di linea fra Stati membri, con la riduzione, tra l’altro, delle preesistenti limitazioni alla loro determinazione e la semplificazione del processo di approvazione delle stesse; la ripartizione della capacità passeggeri tra vettori aerei nei servizi di linea tra Stati membri, con il superamento del principio della ripartizione paritetica della capacità operativa offerta su singole rotte e la riduzione dei vincoli di capacità e frequenza relativi alle stesse; e l’accesso dei vettori aerei alle rotte di servizio aereo di linea tra Stati membri. Dir. 87/601/CEE del Consiglio, del 14 dicembre 1987, sulle tariffe per i servizi aerei di linea tra gli Stati membri (GUCE L 374, 12); dec. 87/602/CEE del Consiglio, del 14 dicembre 1987, sulla ripartizione della capacità passeggeri tra vettori aerei nei servizi di linea tra Stati membri e sull’accesso dei vettori aerei alle rotte di servizio aereo di linea tra Stati membri (GUCE L 374, 19).
Il secondo pacchetto, risalente al 1990, introduceva ulteriori progressi nella liberalizzazione, garantendo una maggiore libertà dei vettori sotto il profilo della fissa-
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zione delle tariffe e della organizzazione delle capacità di trasporto, nonché fissando le prime norme in materia di esercizio dei servizi aerei per il trasporto di merci tra Stati membri. Reg. (CEE) n. 2342/90 del Consiglio, del 24 luglio 1990, sulle tariffe dei servizi aerei di linea (GUCE L 217, 1), nonché reg. (CE) n. 1794/2006 della Commissione, del 6 dicembre 2006, che istituisce un sistema di tariffazione comune per i servizi di navigazione aerea (GUUE L 341, 3). Ma v. anche reg. (CEE) n. 2343/90 del Consiglio, del 24 luglio 1990, sull’accesso dei vettori aerei alle rotte intracomunitarie di servizio aereo di linea e sulla ripartizione della capacità passeggeri fra vettori aerei nei servizi aerei di linea tra Stati membri (GUCE L 217, 8), e reg. (CEE) n. 294/91 del Consiglio, del 4 febbraio 1991, relativo all’esercizio dei servizi aerei per il trasporto di merci tra Stati membri (GUCE L 36, 1).
Ma l’impulso decisivo al processo di liberalizzazione dei traffici e dei servizi di trasporto aereo è stato dato nel 1992 dal terzo pacchetto di misure, recentemente riformulato e consolidato in un unico regolamento, che ha completato il quadro regolamentare della materia. V. reg. (CEE) del Consiglio, del 23 luglio 1992, 2407/92, sul rilascio delle licenze ai vettori aerei (GUCE L 240, 1); 2408/92, sull’accesso dei vettori aerei della Comunità alle rotte intracomunitarie (GUCE L 240, 8); 2409/92, sulle tariffe aeree per il trasporto di passeggeri e di merci (GUCE L 240, 15); 2410/92 e 2411/92, che modificano i citati reg. nn. 3975/87 e 3976/87, in materia di concorrenza (GUCE L 240, rispettivamente 18 e 19). Tali regolamenti sono stati consolidati nel reg. (CE) n. 1008/2008 del PE (GUUE L 293, 3), già citato (relativamente al quale, v., di recente, Corte giust. 6 luglio 2017, C-290/16, Air Berlin). Con l’occasione, sono state sostanzialmente riviste le disposizioni in materia di sicurezza e sono state eliminate alcune restrizioni relative al code sharing sulle rotte verso i paesi terzi e alla fissazione dei prezzi sulle rotte verso i paesi terzi con uno scalo intermedio in un altro Stato membro. Per il divieto di discriminazioni fondate sulla nazionalità del vettore, v. di recente Corte giust. 18 marzo 2014, C-628/11, International Jet Management.
Esso ha infatti introdotto una generale liberalizzazione tariffaria, eliminato ogni restrizione alla determinazione della capacità operativa, liberalizzato il cabotaggio, armonizzato i requisiti tecnici ed economici per l’ingresso nel mercato, cancellato i vincoli alla concessione della licenza alle compagnie aeree il cui capitale fosse di proprietà di soggetti nazionali, riconosciuto a tutti i vettori dell’Unione in possesso delle previste abilitazioni tecniche ed economiche la piena libertà di accesso alle rotte, con la sola riserva degli obblighi di servizio pubblico. Uno Stato membro può imporre tali obblighi con riguardo ai servizi aerei di linea effettuati tra un aeroporto dell’Unione e un aeroporto che serve una regione periferica o in via di sviluppo all’interno del suo territorio o a una rotta a bassa densità di traffico verso un qualsiasi aeroporto nel suo territorio, qualora tale rotta sia considerata essenziale per lo sviluppo economico e sociale della regione interessata. Ma ciò solo nella misura necessaria a garantire che sulla rotta in questione siano prestati servizi aerei di linea minimi rispondenti a determinati criteri di continuità, regolarità, tariffazione o capacità minima, e indipendentemente dai dettami di una normale logica commerciale. Grazie alla generale liberalizzazione tariffaria i vettori aerei comunitari e, per reciprocità, quelli degli Stati terzi, possono quindi fissare liberamente le tariffe aeree passeggeri e merci per i servi-
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zi aerei intracomunitari, senza operare discriminazioni in base alla nazionalità o all’identità dei vettori aerei e assicurando il rispetto del principio di trasparenza, secondo il quale le tariffe devono indicare tutte le condizioni a esse applicabili in qualsiasi forma offerte o pubblicate: tariffa passeggeri o merci, tasse, diritti aeroportuali e altri diritti, nonché eventuali supplementi (v. in materia Corte giust. 19 luglio 2012, C-112/11, ebookers.com Deutschland). Le licenze alle compagnie aeree il cui capitale sia di proprietà di soggetti nazionali possono essere rilasciate dalle competenti autorità di ciascuno Stato membro solo in presenza di determinate condizioni, la prima delle quali consiste nell’esistenza in detto Stato membro del principale centro di attività dell’impresa richiedente. Gli Stati membri, o comunque i cittadini degli Stati membri, devono detenere più del 50% dell’impresa e devono controllarla di fatto, direttamente o indirettamente, attraverso una o più imprese intermedie, salvo eventuali accordi con paesi terzi. Inoltre, il rilascio è subordinato alla disponibilità di uno o più aeromobili, e al rispetto di precise condizioni in materia di solidità finanziaria, copertura assicurativa e onorabilità.
Oltre alla liberalizzazione del servizio aereo, poi, l’Unione è impegnata in iniziative volte a soddisfare i fabbisogni futuri del traffico aereo in Europa, rafforzandone la sicurezza e l’efficienza globale. Si allude al pacchetto di misure noto come «cielo unico europeo», adottato nel 2004 e destinato alla creazione di un unico spazio aereo sotto il controllo di una rete di Autorità nazionali indipendenti. Esso comprende un regolamento quadro, che stabilisce i principi generali per l’istituzione del cielo unico europeo, fissandone gli obiettivi per l’appunto nel rafforzamento del livello di sicurezza e di efficienza del traffico aereo, nell’ottimizzazione della capacità rispetto alle esigenze degli utenti e nella minimizzazione dei ritardi, nonché tre regolamenti tecnici relativi rispettivamente alla fornitura di servizi di navigazione aerea, all’organizzazione e all’uso dello spazio aereo, e all’interoperabilità della rete europea di gestione del traffico aereo. V. reg. (CE) del PE e del Consiglio, del 10 marzo 2004: 549/2004, che include una dichiarazione degli Stati membri sulle questioni militari connesse con il cielo unico europeo; 550/2004, sulla fornitura di servizi di navigazione aerea nel cielo unico europeo (regolamento sulla fornitura di servizi); 551/2004, sull’organizzazione e l’uso dello spazio aereo nel cielo unico europeo (regolamento sullo spazio aereo); 552/2004, sull’interoperabilità della rete europea di gestione del traffico aereo (regolamento dell’interoperabilità) (GUCE L 96, rispettivamente 1, 10, 20 e 26).
Tali regolamenti peraltro sono stati tutti modificati dal reg. (CE) n. 1070/2009, del PE e del Consiglio, del 21 ottobre 2009, recante modifica dei citati regolamenti 549/2004, 550/2004, 551/2004 e 552/2004 (GUUE L 300, 34), volto a migliorare il funzionamento e la sostenibilità del sistema aeronautico europeo. Del pari, l’Unione è impegnata in una serie di negoziati riguardanti il trattamento delle imprese di trasporto aereo di Stati terzi e, più in generale, degli accordi internazionali in tema di trasporto aereo. A seguito dei segnalati sviluppi del processo d’integrazione, invero, l’esistenza di una serie di simili accordi conclusi separatamente tra i singoli Stati membri e Stati terzi, specie con gli Stati Uniti d’America (c.d. accordi «open sky»), ha posto molteplici problemi di interferenze con le competenze dell’Unione, anche quanto alla prestazione dei servizi aerei. Dopo essersi a lungo trascinati, tali problemi furono portati all’attenzione della Corte, la quale, con alcune sentenze, note per l’appunto come sentenze «open sky» (v. le sentenze 5 novembre
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2002, C-466/98, Commissione c. Regno Unito, I-9427; C-467/98, Commissione c. Danimarca, I-9519; C-468/98, Commissione c. Svezia, I-9575; C-469/98, Commissione c. Finlandia, I-9627; C-471/98, Commissione c. Belgio, I-9681; C-472/98, Commissione c. Lussemburgo, I-9741; C-475/98, Commissione c. Austria, I-9797; C-476/98, Commissione c. Germania, I-9855; 24 aprile 2007, C-523/04, Commissione c. Paesi Bassi, I-3314), riconobbe un’area di competenza esclusiva dell’Unione (in particolare, quanto ai sistemi telematici di prenotazione, alle tariffe intracomunitarie e all’assegnazione delle bande orarie), rispetto alla quale si imponeva la revisione dei predetti accordi nella misura in cui, interferendo per l’appunto in quell’area, finivano inevitabilmente col porsi in contrasto con il diritto dell’Unione. Un simile obiettivo non era però facilmente conseguibile, dato che occorreva quanto meno fare i conti con la disponibilità degli Stati terzi. Negoziati con questi ultimi sono stati così avviati a largo raggio, anche sulla spinta delle comunicazioni adottate dalla Commissione a seguito delle ricordate sentenze della Corte (cfr. COM (2002) 649 def., del 19 novembre 2002; COM (2003) 94 def., del 26 febbraio 2003; e COM (2005)79 def., dell’11 marzo 2005). In particolare, l’Unione ha puntato e punta ad ottenere, a più lungo termine, di negoziare e concludere essa stessa nuovi accordi in sostituzione di quelli bilaterali in vigore; e per l’immediato, a rendere questi ultimi conformi alla legislazione dell’Unione, facendovi inserire alcune clausole tipo, elaborate congiuntamente dalla Commissione e dagli Stati membri: v. reg. (CE) n. 847/2004 del PE e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo alla negoziazione e all’applicazione di accordi in materia di servizi aerei stipulati dagli Stati membri con i paesi terzi (GUUE L 157, 3). I negoziati non hanno però prodotto finora risultati di rilevo, anche se il 24 giugno 2010 è stato finalmente siglato un primo, ancorché modesto, accordo «open sky» con gli Stati Uniti. V. dec. 2010/465/UE del Consiglio e dei rappresentanti dei governi degli Stati membri dell’Unione europea, riuniti in sede di Consiglio, del 24 giugno 2010, concernente la firma e l’applicazione provvisoria del Protocollo di modifica dell’accordo sui trasporti aerei tra gli Stati Uniti d’America, da un lato, e la Comunità europea e i suoi Stati membri, dall’altro (GUUE L 223, 1).
Ma la regolamentazione dell’Unione in materia di trasporto aereo si estende a molti altri profili dello stesso: dai sistemi telematici di prenotazione; all’assegnazione di bande orarie (slots) negli aeroporti congestionati; all’assistenza negli scali aeroportuali; ai diritti aeroportuali; alla sicurezza, sia quanto agli aspetti istituzionali della stessa, sia quanto agli aspetti tecnici nella costruzione e nell’equipaggiamento degli aeromobili, sia quanto alle conseguenze degli incidenti di volo e ai connessi diritti dei passeggeri dei trasporti aerei; ai diritti di questi ultimi in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato. V. rispettivamente, reg. (CE) n. 80/2009 del PE e del Consiglio, del 14 gennaio 2009 (GUUE L 35, 47), relativo a un codice di comportamento in materia di sistemi telematici di prenotazione («computerized reservation systems», c.d. CRS); reg. (CEE) n. 95/93 del Consiglio, del 18 gennaio 1993 (GUCE L 14, 1), relativo a norme comuni per l’assegnazione di bande orarie negli aeroporti dell’Unione, modificato da ultimo dal reg. (CE) n. 545/2009 del PE e del Consiglio, del 18 giugno 2009 (GUUE L 167, 24); dir. 96/67/CE del Consiglio, del 15 ottobre 1996, relativa all’accesso al
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mercato dei servizi di assistenza a terra negli aeroporti della Comunità (GUCE L 272, 36); dir. 2009/12/CE del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2009 (GUUE L 70, 11), che stabilisce principi comuni per la riscossione di tali diritti negli aeroporti dell’Unione; reg. (CE) n. 216/2008 del PE e del Consiglio, del 20 febbraio 2008 (GUUE L 79, 1), che stabilisce regole comuni nel settore dell’aviazione civile e istituisce un’Agenzia europea per la sicurezza aerea, con competenze in materia di consulenza, di assistenza al lavoro della Commissione e di ispezione, modificato dal reg. (CE) n. 1108/2009 del PE e del Consiglio, del 21 ottobre 2009, per quanto riguarda gli aeroporti, la gestione del traffico aereo e i servizi di navigazione aerea, abrogando anche la dir. 2006/23/CE (GUUE L 309, 51), nonché reg. (UE) n. 748/2012 della Commissione, del 3 agosto 2012 (GUUE L 224, 1); reg. (CEE) n. 3922/91 del Consiglio, del 16 dicembre 1991, concernente l’armonizzazione di regole tecniche e di procedure amministrative nel settore dell’aviazione civile applicabili in particolare alle fasi della progettazione, della costruzione, dell’esercizio e della manutenzione dell’aeromobile (GUCE L 373, 4), modificato dal reg. (CE) n. 859/2008 della Commissione, del 20 agosto 2008 (GUUE L 254, 1), in materia di requisiti tecnici comuni e procedure amministrative applicabili al trasporto commerciale mediante aeromobili; reg. (UE) n. 996/2010 del PE e del Consiglio, del 20 ottobre 2010, sulle inchieste e la prevenzione di incidenti e inconvenienti nel settore dell’aviazione civile (GUUE L 319, 14), ma v. anche reg. (CE) n. 2320/2002 del PE e del Consiglio, del 16 dicembre 2002, che istituisce norme comuni per la sicurezza dell’aviazione civile (GUCE L 355, 1), sostituito dal reg. (CE) n. 300/2008 del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2008 (GUUE L 97, 72); reg. (CE) n. 2027/97 del Consiglio, del 9 ottobre 1997, sulla responsabilità del vettore aereo in caso di incidenti (GUCE L 285, 1), poi modificato dal reg. (CE) n. 889/2002 del PE e del Consiglio, del 13 maggio 2002 (GUCE L 140, 2); reg. (CE) n. 785/2004 del PE e del Consiglio, del 21 aprile 2004, relativo ai requisiti assicurativi applicabili ai vettori aerei e agli esercenti di aeromobili (GUUE L 138, 1): tale disciplina innalza, nell’ambito dell’Unione, i limiti di risarcimento previsti dal c.d. regime di Varsavia (Convenzione per l’unificazione di alcune norme relative al trasporto aereo internazionale, firmata il 12 ottobre 1929, modificata all’Aia il 28 settembre 1955, e Convenzione di Guadalajara, del 18 settembre 1961) e li allinea alle disposizioni della convenzione di Montreal, modificativa del regime di Varsavia (v. in materia Corte giust. 22 ottobre 2009, C-301/08, Bogiatzi, I-10185); reg. (CE) n. 261/2004, del PE e del Consiglio, dell’11 febbraio 2004, che istituisce regole comuni in materia di compensazione e assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato e che abroga il reg. (CEE) n. 295/91 (GUCE L 46, 1), sul quale v., ex multis, Corte giust. 10 gennaio 2006, C-344/04, International Air Transport Association, I-403; 10 luglio 2008, C-173/07, Emirates Airlines, I-5237; 12 maggio 2011, C-294/10, Eglītis e Ratnieks, I-3983; 31 gennaio 2013, C-12/11, McDonagh; 26 febbraio 2013, C-11/11, Folkerts; nonché, di recente, 11 maggio 2017, C-302/16, Krijgsman. La Corte ha precisato che un volo ritardato non potrà essere considerato cancellato se, nonostante un ritardo significativo, viene comunque realizzato in conformità alla programmazione originariamente prevista dal vettore aereo (Corte giust. 19 novembre 2009, C-402/07 e C-432/07, Sturgeon, I-923), ma ha esteso la nozione di «cancellazione del volo» ai casi in cui un aereo, pur partito, è stato poi costretto a rientrare all’aeroporto di partenza, e i suoi passeggeri sono stati trasferiti su altri voli: Corte giust. 13 ottobre 2011, C83/10, Sousa Rodriguez e a., I-9469; e 4 ottobre 2012, C-22/11, Finnair; 4 ottobre 2012, C-321/11, Rodríguez Cachafeiro e Martínez-Reboredo Varela-Villamor. La Corte è stata severa anche nel definire le «circostanze eccezionali», che consentono di escludere il rimborso o il risarcimento da parte del vettore (Corte giust. 22 dicembre 2008, C-549/07, Wallentin-Hermann, I-11061; 23 ottobre 2012, C-581/10 e C-629/10, Nelson e a.; di recente, 4 maggio 2017, C-315/15, Pešková et Peška). Regole specifiche sono previste anche: per i viaggi, le vacanze e i circuiti «tutto compreso», dalla dir. 90/314/CEE del Consiglio, del 13 giugno 1990 (GUCE L 158, 59), che impone agli Stati membri di prendere le misure necessarie per garantire che l’organizzatore e/o il venditore parte del contratto siano responsabili nei confronti del consumatore della buona esecuzione degli obblighi risultanti dal contratto (rispetto alla quale, peraltro, pende una proposta di modifica: COM (2013) 512 def., del 9 luglio 2013); per i passeggeri disabili o con mobilità ridotta, dal reg. (CE) 1107/2006 del PE e del Consiglio, del 5 luglio 2006 (GUUE L 204, 1).
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Importanti e numerose disposizioni sono infine previste anche qui per la tutela dell’ambiente, specie per quanto riguarda l’inquinamento acustico. V. dir. 89/629/CEE del Consiglio, del 4 dicembre 1989 (GUCE L 363, 27), sulla limitazione delle emissioni sonore degli aerei subsonici civili a reazione; dir. 2002/30/CE del PE e del Consiglio, del 26 marzo 2002 (GUCE L 85, 40), che ha istituito norme e procedure per l’introduzione di restrizioni operative ai fini del contenimento del rumore negli aeroporti, poi sostituita dal reg. (UE) n. 598/2014 del PE e del Consiglio, del 16 aprile 2014, che istituisce norme e procedure per l’introduzione di restrizioni operative ai fini del contenimento del rumore negli aeroporti dell’Unione, nell’ambito di un approccio equilibrato, GUUE L 173, 65 (v. sul punto Corte giust. 8 settembre 2011, C-120/10, European Air Transport, I-7865; 21 dicembre 2011, C-366/10, Air Transport Association of America e a., I-13755). V. inoltre anche reg. (UE) n. 2016/4 della Commissione, del 5 gennaio 2016, che modifica il reg. (CE) n. 216/2008 del PE e del Consiglio per quanto riguarda i requisiti essenziali per la protezione ambientale (GUUE L 3, 1).
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CAPITOLO VII
Concorrenza, fiscalità e ravvicinamento delle legislazioni Sommario: I. Concorrenza e aiuti di Stato. 1. Considerazioni introduttive. – 2. a) Le regole applicabili alle imprese. Il divieto delle intese. – 3. Segue: Le intese vietate. – 4. Segue: Le esenzioni. La nullità delle intese e le sue conseguenze. – 5. L’abuso di posizione dominante. – 6. Segue: La procedura per l’applicazione dei divieti. Gli impegni. I programmi di clemenza. – 7. Le concentrazioni. – 8. b) Il divieto degli aiuti di Stato. – 9. Le deroghe al divieto. – II. Le disposizioni fiscali. 10. Il divieto di imposizioni fiscali discriminatorie. – 11. L’armonizzazione fiscale. Le imposte indirette. – 12. Segue: Le imposte dirette. – III. Il ravvicinamento delle disposizioni legislative. – 13. La disciplina generale. – 14. Le disposizioni nazionali pregiudizievoli per la concorrenza. – 15. I diritti di proprietà intellettuale. Il brevetto comunitario.
I. Concorrenza e aiuti di Stato 1. Considerazioni introduttive Com’è noto, la politica della concorrenza ha lo scopo di preservare una struttura competitiva del mercato, in modo da assicurare un’efficiente allocazione delle risorse e, conseguentemente, la migliore qualità dei beni e servizi offerti dalle imprese al prezzo più basso possibile, nonché una maggiore possibilità di scelta per i consumatori (così anche Corte giust. 4 giugno 2009, C-8/08, T-Mobile Netherlands, I-4529; 6 ottobre 2009, C-501/06 P, C-513/06 P, C-515/06 P e C-519/06 P, GlaxoSmithKline, I-9291). Non sorprende quindi che uno degli obiettivi principali dell’Unione sia, per l’appunto, l’instaurazione di un mercato interno imperniato sul corretto gioco della concorrenza. Lo affermava il TCE includendo tra gli obiettivi dell’Unione l’instaurazione di «un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata» (art. 3, par. 1, lett. g), TCE). Lo ribadisce ora il Trattato di Lisbona, anche se per la prima volta non enuncia quell’obiettivo nelle norme di apertura, ma si limita in esse a ricondurre la concorrenza tra le competenze esclusive dell’Unione (art. 3, par. 1, lett. b), TFUE). E lo fa con l’art. 119 TFUE, che richiede una politica economica dell’Unione «condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera con-
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correnza» (principio riproposto subito dopo anche dall’art. 120 TFUE), ma soprattutto lo fa con il Protocollo n. 27, il quale prevede che il mercato interno comprende un sistema che assicuri che la concorrenza non sia falsata, aggiungendo che l’Unione s’impegna ad adottare le misure a tal fine necessarie. Più specificamente, poi, il TFUE detta apposite norme in materia, raccogliendole nel Titolo VII della Parte Terza di detto Trattato, il cui Capo 1 è intitolato appunto «Regole di concorrenza». Vanno ricordate al riguardo anche le disposizioni che, nell’autorizzare gli Stati membri ad adottare alcune misure di salvaguardia, impongono alla Commissione, ove dette misure alterino le condizioni di concorrenza nel mercato comune, di consultarsi con gli Stati interessati per conformare le stesse alle norme del Trattato (artt. 346-348 TFUE). Quanto alla diversa collocazione del principio nei Trattati, dovuta soprattutto alle vivaci polemiche che, specie in Francia, accompagnarono i negoziati per il Trattato di Lisbona, contrapponendo i «liberisti» ai fautori di un’Europa più sociale e attenta ai servizi pubblici, essa non produce riflessi sul piano formale, visto che i Protocolli allegati al Trattato hanno lo stesso valore di quest’ultimo. È, del resto, quanto ha esplicitamente confermato anche la Corte nella sentenza 17 febbraio 2011, C-52/09, TeliaSonera Sverige, I-527, nella quale ha chiarito che la nuova collocazione del principio in questione non ne altera la valenza sistematica nell’ordinamento dell’Unione (v. anche Corte giust. 17 novembre 2011, C-496/09, Commissione c. Italia, I-11483).
Riassuntivamente, tale disciplina s’impernia da un lato sul divieto alle imprese di realizzare intese ed esercitare una posizione dominante in termini pregiudizievoli per la concorrenza nel mercato interno (Sezione 1 del suddetto Capo: artt. 101-105 TFUE, c.d. disciplina antitrust in senso stretto), dall’altro, sul divieto imposto agli Stati membri di concedere alle imprese, con risorse pubbliche, aiuti suscettibili di alterare le condizioni di concorrenza in quel mercato (Sezione 2 dello stesso Capo: artt. 107-109 TFUE, c.d. disciplina degli aiuti di Stato). Appositi atti di diritto derivato, adottati dal Consiglio con la procedura di consultazione, completano tali discipline sul piano sostanziale e procedurale. Si segnalano fin d’ora, in modo particolare, i regolamenti adottati in base all’art. 103 TFUE per quanto riguarda la disciplina antitrust (soprattutto: reg. (CE) n. 1/2003 del Consiglio, del 16 dicembre 2002, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza, GUCE L 1/2003, 1; reg. (CE) n. 139/2004 del Consiglio, del 20 gennaio 2004, relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese, GUUE L 24, 1), nonché quelli ex art. 109 TFUE per quanto riguarda gli aiuti di Stato (il più importante dei quali era il reg. (CE) n. 659/99 del Consiglio, del 22 marzo 1999, GUCE L 83, 1, poi modificato con reg. (UE) n. 734/2013 del Consiglio, del 22 luglio 2013, GUUE L 204, 15, e recentemente con reg. (UE) n. 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015, GUUE L 248, 9, che abroga il reg. n. 659/1999 e codifica la materia).
È noto peraltro che la materia ha subito nel tempo una significativa evoluzione, specie per quanto riguarda i divieti alle imprese. Dopo la lunga vigenza dello «storico» reg. (CEE) n. 17/62 del Consiglio, del 6 febbraio 1962, Primo regolamento di applicazione degli artt. 85 e 86 [TCEE, oggi artt. 101 e 102 TFUE], GUCE 13, 1; per la transizione da un regime all’altro l’art. 104 TFUE dettava apposite regole, che sono però rimaste in vigore anche con il Trattato di Lisbona), l’Unione ha infatti preso atto delle molteplici criticità che, malgrado l’importante ruolo giocato da tale regolamento, erano comunque via via emerse nella prassi e ha varato una innovativa
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normativa (segnatamente con il citato reg. n. 1/2003), che ha migliorato notevolmente la qualità e l’efficacia dell’azione comunitaria, soprattutto attraverso un processo di razionalizzazione e semplificazione dello stesso, nonché una forte accentuazione del decentramento della sua gestione volta ad un maggiore coinvolgimento delle autorità nazionali (c.d. modernizzazione). Conviene anche ricordare, a tal proposito, che le norme fondamentali in materia (artt. 101, par. 1 e 2 – ma con il reg. n. 1/2003 anche il par. 3 ha acquisito di fatto la stessa efficacia – e 102 TFUE, al pari dell’art. 108, par. 3, per gli aiuti di Stato) hanno efficacia diretta e attribuiscono dunque agli interessati diritti che essi possono invocare dinanzi alle giurisdizioni e alle amministrazioni nazionali (v. Corte giust. 30 gennaio 1974, 127/73, BRT c. SABAM, 51; 28 febbraio 1991, C-234/89, Delimitis, I935). Fin dall’inizio, quindi, queste ultime sono state chiamate a svolgere anch’esse un ruolo in materia, segnatamente concorrendo ad assicurare, con una funzione distinta ma complementare a quella della Commissione, il rispetto delle pertinenti regole comunitarie. Questo ruolo è stato profondamente rafforzato e meglio definito per l’appunto dal ricordato reg. 1/2003, il quale, oltre a formulare una disciplina dettagliata dei rapporti tra normativa europea e nazionale della concorrenza, ha istituito una serie di meccanismi volti da un lato ad attribuire alle amministrazioni nazionali, e segnatamente (dove esistono) alle autorità antitrust nazionali, talune competenze in passato riservate alla Commissione, dall’altro a favorire l’utile cooperazione tra questa e le dette autorità attraverso un costante scambio d’informazioni e una consultazione reciproca in ordine alle attività svolte nell’esercizio delle rispettive competenze. Ma tali disposizioni concorrono anche a precisare la delimitazione di quelle competenze di fronte ai rischi di conflitti negativi o positivi. Tutti questi meccanismi sono di evidente utilità per assicurare un’applicazione effettiva ed uniforme del diritto antitrust dell’Unione, tanto più che le autorità nazionali della concorrenza di regola non hanno natura giurisdizionale (v. però la citata sentenza TeliaSonera Sverige) e quindi non possono in principio operare rinvii pregiudiziali alla Corte (Corte giust. 31 maggio 2005, C-53/03, Syfait, I-4609). Per quanto riguarda specificamente i rapporti della Commissione con le autorità giudiziarie degli Stati membri, la cooperazione di cui si discute è stata ancor meglio precisata il 27 aprile 2004 con un’apposita comunicazione di quella istituzione (GUUE C 101, 54). Per quanto riguarda l’autorità nazionale dell’Italia, dove è a lungo mancata una legislazione ad hoc sulla concorrenza, la lacuna è stata colmata, come noto, con la legge del 10 ottobre 1990, n. 287 (in GURI del 13 ottobre 1990, n. 240), che ha dettato specifiche regole in materia, modellate letteralmente su quelle comunitarie, e ha istituito un’apposita Autorità (l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, AGCM) destinata ad assicurarne il rispetto.
In materia di aiuti di Stato, invece, e con riserva di quanto si dirà più avanti, l’intervento dei giudici nazionali è essenzialmente limitato all’esecuzione della decisione comunitaria che dichiari un aiuto incompatibile con il mercato interno, mentre le amministrazioni nazionali svolgono in tale contesto un ruolo passivo, di mere e specifiche destinatarie delle norme sugli aiuti di Stato e delle decisioni adottate in materia tanto dalla Commissione quanto dai giudici nazionali. Comunque, anche in questa materia la cooperazione tra l’una e gli altri ha una notevole importanza ed è stata quindi opportunamente oggetto di un’apposita comunicazione della Commis-
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sione (v. Comunicazione della Commissione, del 9 aprile 2009, relativa all’applicazione della normativa in materia di aiuti di Stato da parte dei giudici nazionali, GUUE C 85, 1; sulla quale, v., ad es., Corte giust. 13 febbraio 2014, C-69/13, Mediaset). Quanto all’articolazione delle competenze in seno all’Unione, basti qui ricordare che, anche se i poteri normativi restano essenzialmente nelle mani del Consiglio, il ruolo centrale nella gestione della disciplina delle intese è affidato alla Commissione (art. 105 TFUE), la quale è in effetti investita di poteri di controllo particolarmente incisivi, in forza dei quali esercita la propria funzione di «guardiana della concorrenza». Ma il medesimo ruolo è svolto da tale istituzione anche in materia di aiuti di Stato, avendo essa in principio competenza esclusiva in ordine all’applicazione del divieto di tali aiuti.
2. a) Le regole applicabili alle imprese. Il divieto delle intese Passando ora alle singole ipotesi sopra evocate, conviene prendere le mosse dalla disciplina delle intese. In proposito, l’art. 101 TFUE prevede al par. 1 che, fatte salve le eccezioni di cui diremo più avanti, sono incompatibili con il mercato interno e, quindi, vietati «tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno». La disposizione continua fornendo un elenco esemplificativo di tali fattispecie, per poi dichiarare, al par. 2, che esse sono «null[e] di pieno di diritto». Come emerge dalla sua stessa formulazione, la norma mira a impedire che le imprese pongano in essere comportamenti collusivi, finalizzati ad eliminare o attenuare la pressione concorrenziale. Senza simili fenomeni di concertazione le imprese sono costrette a un costante confronto competitivo sul piano del prezzo e della qualità del prodotto e/o del servizio offerto, e questo costituisce una formidabile leva concorrenziale. Si vuole dunque imporre che ogni operatore determini autonomamente le proprie strategie all’interno del mercato in cui opera. Poiché tutta questa disciplina s’indirizza alle «imprese», la definizione di tale nozione assume evidentemente un rilievo centrale per la materia. Al riguardo, si può considerare ormai acquisita l’idea che detta nozione non debba essere ricostruita sulla base delle corrispondenti nozioni del diritto nazionale volta a volta rilevante, ma che abbia una propria specificità, che sia cioè una nozione «comunitaria», e quindi autonoma e uniforme. Come ha infatti chiarito da tempo la Corte, ai fini del diritto dell’Unione va qualificata come «impresa» «qualsiasi entità che eserciti un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento». V., ex multis, Corte giust. 19 febbraio 2002, C-309/99, Wouters e a., I-1577, punto 46; 19 luglio 2012, C-628/10 P e C-14/11 P, Alliance One International e Standard Commercial Tobacco c. Commissione e Commissione c. Alliance One International e a., punto 42; 28 febbraio 2013, C1/12, Ordem dos Técnicos Oficiais de Contas; 12 dicembre 2013, C-327/12, Soa Nazionale Costrut-
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tori, punto 27. Di contro, non rientra in tale nozione un organismo che svolga una funzione pubblica, esercitando i propri poteri autoritativi in virtù di un’investitura normativa al fine di perseguire un pubblico interesse (v., fra le tante, Corte giust. 19 gennaio 1994, C-364/92, SAT c. Eurocontrol, I-43; 5 marzo 2009, C-250/07, Kattner, I-1513).
Non rilevano dunque né la forma giuridica, né il tipo di attività svolta, né l’organizzazione interna, né le finalità perseguite dal soggetto (anche dunque se non siano di lucro); quel che rileva è solo la natura dell’attività posta in essere, il che permette evidentemente di caratterizzare la nozione in senso funzionale e quindi dare uno spettro applicativo assai più esteso alla disciplina comunitaria. È importante segnalare che da tale definizione discende altresì che alle regole di concorrenza sono soggette, mutatis mutandis, anche le imprese pubbliche, intendendosi per tali «ogni impresa nei confronti della quale i poteri pubblici possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante per ragioni di proprietà, di partecipazione finanziaria o della normativa che la disciplina». Art. 2 della dir. 80/723/CEE della Commissione, del 25 giugno 1980, relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie tra gli Stati Membri e le loro imprese pubbliche (GUCE L 195, 35, c.d. «Direttiva Trasparenza») poi più volte modificata e infine sostituita dalla direttiva 2006/111/CE della Commissione, del 16 novembre 2006, relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche e alla trasparenza finanziaria all’interno di talune imprese, che ne riprende comunque il contenuto essenziale. Si noti che, secondo tali direttive, l’influenza dominante è presunta nel caso in cui i poteri pubblici, direttamente o indirettamente, (a) detengono la maggioranza del capitale sottoscritto; (b) dispongono della maggioranza dei voti attribuiti alle quote emesse dall’impresa; oppure (c) possono designare più della metà dei membri dell’organo di amministrazione, direzione o di vigilanza dell’impresa.
Ai presenti fini, inoltre, sono assimilate alle imprese pubbliche le imprese titolari, in virtù di una misura statale, di diritti speciali ed esclusivi rispetto all’esercizio di determinate attività. Il diritto speciale viene generalmente definito come il diritto concesso a un numero limitato di imprese (ma non a una sola), avente l’effetto di conferire alle stesse un vantaggio concorrenziale sostanziale sul mercato considerato. Secondo il diritto comunitario derivato, relativo alla liberalizzazione dei singoli settori pubblici, l’attribuzione di un diritto speciale deve avvenire secondo criteri oggettivi, proporzionali e non discriminatori. Il diritto esclusivo è invece quello derivante da un monopolio attribuito in virtù di una misura statale a un operatore su una determinata area geografica, a esclusione degli altri concorrenti. L’attribuzione dell’esclusiva a più operatori non contraddice tale definizione se gli operatori titolari dell’esclusiva non sono in concorrenza tra loro (cfr. Corte giust. 12 dicembre 1996, C-302/94, BritishTelecommunications, I-6415; 23 maggio 2000, C-209/98, Sydhavnens Sten & Grus, I-3743). Il conferimento di un diritto esclusivo deve rispondere ad esigenze di regolamentazione del mercato e non essere espressione dell’intervento dello Stato nell’economia in qualità di operatore del settore. In più, anche i diritti esclusivi devono essere conferiti secondo criteri di trasparenza, uguaglianza, proporzionalità e non discriminazione (cfr. comunicazione interpretativa della Commissione, del 12 aprile 2000, sulle concessioni nel diritto comunitario, GUCE C 121, 2; contra v. le conclusioni dell’AG Jacobs, del 17 maggio 2001, nella causa C-475/99, AmbulanzGlöckner, I-8094, che fa dipendere la legittimità dei diritti esclusivi unicamente dalla loro compatibilità con il par. 2 dell’art. 106 TFUE). In giurisprudenza, v. anche Corte giust. 3 marzo 2011, C-437/09, AG2R Prévoyance; 12 dicembre 2013, C-327/12, Soa Nazionale Costruttori; 17 luglio 2014, C-553/12 P, Commissione c. DEI.
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Per le une e per le altre, rileva l’art. 106, par. 1, TFUE, secondo il quale nei loro confronti «gli Stati membri non emanano né mantengono […] alcuna misura contraria alle norme dei Trattati, specialmente a quelle contemplate dagli artt. 18 e da 101 a 109 inclusi». La disposizione, che per costante giurisprudenza della Corte ha efficacia diretta, mira a contemperare gli interessi nazionali sottostanti agli interventi statali nell’economia con quelli dell’Unione all’apertura dei mercati. Si tratta, in effetti, di evitare che lo Stato eserciti i propri poteri sovrani in modo da pregiudicare l’applicazione delle norme dei Trattati e, per quanto qui interessa, delle relative regole di concorrenza. In questo senso, la norma costituisce evidentemente un’applicazione del principio di leale cooperazione di cui all’art. 4, par. 3, TUE, che impone agli Stati membri di astenersi da qualunque comportamento che possa mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione. Ed infatti, seppur inserita tra le regole di concorrenza applicabili alle imprese, essa si rivolge in realtà agli Stati membri (Corte giust. 16 novembre 1977, 13/77, INNO c. ATAB, 2115). Alle imprese incaricate della gestione di servizi d’interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale, si rivolge invece il par. 2 dell’art. 106 TFUE per precisare che esse non sono soggette alle regole di concorrenza se non nella misura in cui l’applicazione di tali norme non sia di ostacolo all’adempimento, in diritto o in fatto, della specifica missione d’interesse generale a esse affidata e sempre che gli scambi intracomunitari non vengano pregiudicati in modo contrario agli interessi dell’Unione (art. 106, par. 2, TFUE). Si tratta, com’è chiaro, di una norma molto sensibile e controversa perché tenta una conciliazione tra il riconosciuto e tutelato ruolo dei servizi in questione per la «promozione della coesione sociale e territoriale» (v. art. 14 TFUE, che esalta il ruolo di tali servizi; ma v. anche, nella stessa direzione, il Protocollo n. 26, allegato al Trattato di Lisbona, dedicato ai servizi di interesse generale, ed ora l’art. 36 Carta dir. fond.) e l’interesse dell’Unione all’osservanza delle regole di concorrenza e al mantenimento dell’unità del mercato comune (Corte giust. 23 ottobre 1997, C-157/94, Commissione c. Paesi Bassi, I-5699; per l’analoga problematica in materia di aiuti di Stato, v. infra, p. 646), equilibrio che per la verità si è rivelato difficile anche nella prassi, ancorché la costante giurisprudenza della Corte ricordi che la norma esprime una deroga ai principi fondamentali della materia ed è quindi di stretta interpretazione. Va infine ricordato che il par. 3 dell’art. 106 TFUE attribuisce alla Commissione un potere di vigilanza sul rispetto della disposizione, da esercitare, all’occorrenza, attraverso l’adozione di direttive e decisioni. La disposizione ha sollevato vari problemi interpretativi (per ora non del tutto risolti), segnatamente per quanto riguarda la portata della competenza in parola in rapporto a quella, almeno in parte sovrapponibile, riconosciuta al Consiglio dagli artt. 103 e 114 TFUE (p. 622 e p. 661 ss.), nonché per quanto riguarda la possibilità di utilizzare le decisioni ex art. 106, par. 3, TFUE per contestare allo Stato un’infrazione che, di regola, dovrebbe essere perseguita con la più garantista procedura ex art. 258 TFUE (v. supra, p. 264 ss.). Va detto peraltro che, anche per le ipotesi in esame è proprio su quest’ultima procedura che la Commissione ha modellato la propria prassi.
La norma ha ricevuto una specifica attenzione e concreta applicazione soprattutto a partire dalla fine degli anni ’80, in coincidenza con la politica di liberalizzazione
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dei settori pubblici intrapresa dalla Commissione, e soprattutto dopo la sentenza c.d. Terminali di telecomunicazione, che ha segnato una svolta nella giurisprudenza comunitaria, superando la presunzione di compatibilità dei diritti speciali o esclusivi con il diritto dell’Unione. In particolare, si precisò che, sebbene il conferimento di questi diritti non sia di per sé incompatibile con il diritto dell’Unione e dunque non ne sia vietata l’attribuzione o il mantenimento, ciò non implica che la loro esistenza sia di per sé sempre legittima. La Commissione ha poi utilizzato (o minacciato di utilizzare) i poteri conferitile dalla disposizione per indurre processi di liberalizzazione in vari settori, a cominciare appunto da quello delle telecomunicazioni, nei quali la concorrenza era limitata da normative o prassi pubbliche. V. Corte giust. 19 marzo 1991, C-202/88, Francia c. Commissione, I-1223. In materia, v. anche sentenze 30 aprile 1974, 155/73, Sacchi, 409; 18 giugno 1991, C-260/89, ERT, I-2925; 19 maggio 1993, C-320/91, Corbeau, I-2533; 17 maggio 1994, C-18/93, Corsica Ferries Italia, I-17835; 5 ottobre 1994, C-323/93, La Crespelle, I-5077, nonché più recentemente, sentenza 12 dicembre 2013, C-327/12, SOA Nazionale Costruttori; 22 ottobre 2015 C-185/14, “EasyPay” e “Finance Engineering”; 21 dicembre 2016, C-327/15, TDC; 8 marzo 2017, C-660/15 P, Viasat Broadcasting UK.
3. Segue: Le intese vietate Vediamo ora quali sono le intese vietate. Come emerge dallo stesso art. 101 TFUE, devono ritenersi tali soprattutto le intese che consistono nel: «a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione; b) limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti; c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento; d) applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza; e) subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi». Dette intese possono essere orizzontali, se coinvolgono due o più imprese che operano al medesimo stadio del processo produttivo e che, per questo, sono concorrenti dirette (attuali o potenziali); oppure verticali, se riguardano operatori appartenenti a livelli diversi di quel processo. Contro le intese orizzontali si procede con uno scrutinio più severo, poiché possono comportare più facilmente effetti anticoncorrenziali gravi e, quindi, un serio pregiudizio per i consumatori. Le intese verticali, invece, godono di un trattamento più favorevole, poiché possono produrre vantaggi in termini di efficienza che si traducono in benefici per i consumatori. Il testo e la ratio della norma in esame lasciano emergere gli elementi costitutivi di un’intesa: i) la presenza di due o più imprese indipendenti cui imputare la condotta anticoncorrenziale; ii) un coordinamento tra le stesse realizzato in qualunque forma; iii) un oggetto o un effetto restrittivo della concorrenza; iv) il pregiudizio al commercio tra Stati membri. i) Le intese vietate dall’art. 101 TFUE richiedono il concorso della volontà di due o
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più imprese e, quindi, esulano dall’ambito applicativo di tale norma i comportamenti unilaterali, la cui valutazione è semmai condotta ai sensi dell’art. 102 TFUE (Corte giust. 25 ottobre 1983, 107/82, AEG, 3151; 17 settembre 1985, 25/84 e 26/84, Ford, 2725). Se però si tratta di più imprese facenti capo al medesimo gruppo, esse sono considerate, ai sensi dell’art. 101 TFUE, come costituenti un’unica impresa e dunque un loro eventuale accordo è sottratto al divieto contenuto in quella disposizione, trattandosi di una mera ripartizione di compiti all’interno del gruppo (Corte giust. 25 novembre 1971, 22/71, Béguelin, 949; 14 luglio 1972, 48/69, ICI, 619; 31 ottobre 1974, 15/74, Centrafarm, 1147; 24 novembre 1996, C-73/95, Viho, I-5457). Va aggiunto che il divieto in esame, così come quello di cui all’art. 102 TFUE, colpisce solo i comportamenti anticoncorrenziali adottati dalle imprese di propria iniziativa (Corte giust. 20 marzo 1985, 41/83, Italia c. Commissione, 873; 19 marzo 1991, C-202/88, Francia c. Commissione, I-1223). Sicché, in presenza di una norma nazionale che le obblighi ad agire in tal senso e che elimini ogni possibilità di confronto competitivo da parte loro, le imprese non possono essere ritenute responsabili di alcuna violazione antitrust. Corte giust. 11 novembre 1997, C-359/95 P e C-379/95 P, Ladbroke Racing, I-6265; 9 settembre 2003, C-198/01, CIF, I-8055. Parallelamente, tuttavia, è imposto alle autorità antitrust nazionali di disapplicare una normativa siffatta, in nome del combinato disposto dell’art. 4, par. 3, TUE (obbligo di leale cooperazione) e 101 TFUE. A seguito di detta disapplicazione, le imprese non potranno più asserire di essere costrette a tenere un comportamento anticoncorrenziale. Qualora quindi persistessero in tale comportamento, potranno essere ritenute responsabili della violazione dell’art. 101 TFUE per il periodo successivo alla disapplicazione della normativa nazionale in questione (v. la citata sentenza CIF).
ii) La nozione di «intesa» è piuttosto ampia e si definisce in termini funzionali: quale che ne sia cioè la forma e anche se essa è implicita, è sufficiente per dichiararne la sussistenza il fatto che le imprese partecipanti si siano concertate al fine di sostituire all’autonomia dei rispettivi comportamenti una forma di coordinamento capace di eliminare ogni incertezza in ordine alle loro strategie future. Le ipotesi rientranti nella nozione d’intesa sono elencate dall’art. 101 TFUE, che riconduce a essa gli accordi, le decisioni delle associazioni d’imprese e le pratiche concordate. La relativa definizione è stata ulteriormente precisata dalla prassi, specie giurisprudenziale. L’accordo è una fattispecie dai confini molto ampi, che si fonda sull’esistenza, tra almeno due imprese, di una comune volontà di perseguire un obiettivo o di adottare un preciso comportamento sul mercato di riferimento. Per provarne l’esistenza basta l’accertamento diretto o indiretto di un piano comune sulle linee d’azione delle imprese che colludono. Non rilevano né le modalità, né la veste formale con cui esse hanno limitato reciprocamente la propria politica commerciale, né occorre dimostrare l’esistenza di un intento comune di perseguire uno scopo anticoncorrenziale. Possono quindi rientrarvi, ad es., sia i contratti, conclusi in forma scritta o orale, sia le intese giuridicamente non vincolanti, come i c.d. gentlemen’s agreements (Corte giust. 15 luglio 1970, 41/69, ACF Chemiefarma c. Commissione, 661; e, più di recente, 20 gennaio 2016, C-373/14, Toshiba Corporation c. Commissione).
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Le decisioni delle associazioni d’imprese comprendono qualsiasi tipo di deliberazione, pur non vincolante, assunta da organi o enti associativi, anche di natura pubblica, rappresentativi di una categoria d’imprese, allo scopo di influenzare le condotte commerciali delle imprese affiliate (Corte giust. 17 ottobre 1972, 8/72, Vereeniging van Cementhandelaren, 977; 27 gennaio 1987, 45/85, Verband der Sachversicherer, 405). La pratica concordata è una fattispecie di carattere residuale, giacché essa consente di censurare numerosi comportamenti che, pur non integrando gli estremi di un accordo o di una decisione di associazione d’imprese, sono comunque suscettibili di produrre effetti anticoncorrenziali. E infatti, secondo giurisprudenza costante, la pratica concordata consiste in «una forma di coordinamento dell’attività delle imprese che, senza essere stata spinta fino all’attuazione di un vero e proprio accordo, costituisce in pratica una consapevole collaborazione fra le imprese stesse, a danno della concorrenza» (Corte giust. 16 dicembre 1975, da 40/73 a 48/73, 50/73, da 54/73 a 56/73, 111/73, 113/73 e 114/73, Suiker Unie, 1663, 26). Più specificamente, perché si possa configurare una pratica concordata, si devono riscontrare i seguenti elementi: l’esistenza di contatti (anche indiretti) tra imprese concorrenti preordinati ad eliminare l’incertezza del futuro comportamento reciproco sul mercato; un comportamento sul mercato che segua tali contatti; nonché un nesso di causalità tra quest’ultimo e i contatti intrattenuti dalle imprese coinvolte (v. la citata sentenza Suiker Unie; nonché Corte giust. 14 luglio 1981, 172/80, Zückner, 2021; 31 marzo 1993, C-89/85, C-104/85, C-114/85, C-116/85, C-117/85 e da C-125/85 a C-129/85, Ahlström Osakeyhtiö, I-1307; 8 luglio 1999, C-199/92 P, Hüls, I-4287; e, più di recente, 5 dicembre 2013, C-449/11 P, Solvay Solexis c. Commissione; 19 marzo 2015, C-286/13 P, Dole Food e Dole Fresh Fruit Europe c. Commissione). Tuttavia, la prova del comportamento sul mercato e del nesso di causalità non è necessaria poiché «si deve presumere, salvo prova contraria che spetta agli operatori interessati fornire, che le imprese partecipanti alla concertazione e che restano attive sul mercato tengano conto delle informazioni scambiate con i loro concorrenti per determinare il proprio comportamento su tale mercato» (Corte giust. Hüls, cit., 162). È ovvio poi che una pratica concordata non produce necessariamente l’effetto concreto di restringere la concorrenza, effetto che occorre dunque accertare volta a volta. V. ancora la citata sentenza Hüls. Anche una sola presa di contatto può essere sufficiente, in via di principio, a dare luogo a una pratica concordata. Ciò che rileva, infatti, «non è tanto il numero di riunioni tra gli operatori interessati, quanto il fatto di accertare se il contatto, o i contatti, che sono avvenuti abbiano consentito a questi ultimi di tenere conto delle informazioni scambiate con i concorrenti per determinare il proprio comportamento sul mercato e di sostituire scientemente una cooperazione pratica tra di loro ai rischi della concorrenza» (Corte giust. 4 giugno 2009, C-8/08, TMobile Netherlands, I-4529, 59-61). È sufficiente dimostrare che un’impresa ha partecipato, anche senza prendervi parte attiva, a riunioni tra imprese con uno scopo anticoncorrenziale senza prendere pubblicamente le distanze dal loro oggetto, per accertare che essa ha partecipato all’intesa. In tal caso, spetta all’impresa dimostrare che la sua partecipazione era priva di qualunque spirito anticoncorrenziale (Corte giust. 21 settembre 2006, C-113/04 P, Technische Unie, I-8831).
Rispetto alle varie ipotesi delineate, uno degli strumenti collusivi più frequentemente riscontrato nella prassi è lo scambio d’informazioni tra imprese concorrenti.
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In tal caso, il rischio di una concertazione anticoncorrenziale sussiste laddove lo scambio abbia ad oggetto dati sensibili e/o informazioni strategiche, la cui disponibilità consente di prevedere o conoscere le future politiche commerciali dei propri concorrenti, riducendo i rischi di un’attività svolta in regime concorrenziale (rilevano, ad es., le informazioni e i dati riguardanti le principali variabili concorrenziali, vale a dire i prezzi, le quantità prodotte, i fatturati, il volume delle vendite, ecc.). Lo scambio d’informazioni può rilevare sia come elemento accessorio rispetto a un’intesa, laddove esso agevoli e favorisca il coordinamento tra le imprese (c.d. pratiche facilitanti), sia come infrazione autonoma, laddove consenta, di per sé, l’eliminazione o la riduzione dell’incertezza delle future condotte di un’impresa. iii) L’art. 101 TFUE si applica ad accordi che abbiano «per oggetto o per effetto» di restringere la concorrenza. Tali condizioni non sono cumulative, bensì alternative. La differenza verte sul fatto che le infrazioni per oggetto sono forme di collusione tra imprese che, per loro stessa natura, nuocciono al buon funzionamento del normale gioco della concorrenza. Pertanto, in tal caso, l’accordo si presume vietato dall’art. 101, par. 1, TFUE, senza che sia necessario esaminarne gli effetti concreti eventualmente prodottisi sul mercato rilevante (Corte giust. 13 luglio 1966, 56/64 e 58/64, Consten & Grunding, 458; 20 novembre 2008, C-209/07, Beef Industry Development Society e Barry Brothers, I-8637). Di contro, le condotte che non hanno un oggetto anticoncorrenziale sono vietate solo laddove producano (o siano concretamente suscettibili di produrre) effetti anticoncorrenziali su tale mercato, il che comporta che, per accertare tali effetti, occorre svolgere un’analisi giuridica ed economica approfondita del mercato di riferimento (il “mercato rilevante”) e dell’impatto dell’accordo su detto mercato. Ciò significa che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 101 TFUE, la definizione del mercato rilevante va effettuata nei casi in cui occorra determinare se l’intesa abbia effetti restrittivi della concorrenza e incida sugli scambi tra Stati membri, mentre non è necessaria se questa abbia per oggetto di restringere il gioco della concorrenza e sia, per sua natura, suscettibile di pregiudicare il commercio tra gli Stati membri. La precisa delimitazione del mercato rilevante consente inoltre di identificare con esattezza le quote di mercato delle imprese partecipanti all’intesa, elemento di cui tener conto per stabilire se la stessa possa beneficiare delle esenzioni ex art. 101, par. 3, TFUE, di cui si dirà tra breve. Per contro, la definizione del mercato rilevante costituisce sempre una condizione necessaria e preliminare per gli accertamenti condotti ai fini della constatazione di un abuso ai sensi dell’art. 102 TFUE. iv) L’art. 101 TFUE si applica infine ai comportamenti anticoncorrenziali suscettibili di arrecare pregiudizio al commercio tra Stati membri. Detto criterio delimita l’ambito del diritto antitrust dell’Unione rispetto ai sistemi nazionali di tutela della concorrenza, nel senso che il primo si applica per l’appunto solo se sussiste un pregiudizio agli scambi intracomunitari (Corte giust. 31 maggio 1979, 22/78, Hugin, 1869; 13 luglio 2006, da C-295/04 a C-298/04, Manfredi, I-6619). Questo però non implica necessariamente il coinvolgimento di più Stati membri, perché se l’accordo riguarda l’intero territorio di un solo Stato membro, esso può avere per sua natura l’effetto di rafforzare le compartimentazioni nazionali, ostacolando la compenetrazione economica voluta dal Trattato (Corte giust. 9 novembre 1983, 322/81, Miche-
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lin, 3461; 11 luglio 1989, 246/86, Belasco, 2117; Manfredi, cit.; 24 settembre 2009, C125/07 P, C-133/07 P, C-135/07 P e C-137/07 P, Erste Group Bank, I-8681). Va aggiunto che, ai presenti fini, non occorre dimostrare che il pregiudizio si è effettivamente prodotto, ma solo che l’accordo è idoneo a produrlo: secondo costante giurisprudenza, infatti, tale pregiudizio sussiste anche qualora, in base ad un insieme di elementi di diritto e di fatto, appaia abbastanza probabile che l’accordo eserciti un’influenza diretta o indiretta, attuale o potenziale, sulle correnti di scambio tra Stati membri (v., oltre le sentenze cit. alla nota precedente, Corte giust. 1° febbraio 1978, 19/77, Miller, 131; 17 luglio 1997, C-219/95 P, Ferriere Nord, I-4411). L’effetto potenziale sul commercio tra Stati membri dell’intesa deve essere tuttavia sensibile. In proposito, sulla scorta della giurisprudenza della Corte, la Commissione ha stabilito la presunzione secondo cui un accordo non è idoneo a pregiudicare sensibilmente il commercio tra Stati membri quando la quota di mercato aggregata delle parti su qualsiasi mercato rilevante all’interno dell’Unione non supera il 5% e quando, nel caso di accordi orizzontali, il fatturato aggregato annuo nell’Unione delle imprese interessate, relativamente ai prodotti cui si applica l’accordo, non è superiore a 40 milioni di euro; oppure, nel caso di accordi verticali, il fatturato aggregato annuo nell’Unione del fornitore dei prodotti interessati dall’accordo non è superiore a 40 milioni di euro. Se però un’intesa è per sua natura in grado di pregiudicare il commercio tra Stati membri, ad es. perché interessa le importazioni e le esportazioni o si applica a diversi Stati membri, la Commissione ritiene che si possa presumere, salvo prova contraria, che tali effetti sul commercio siano sensibili se anche una sola delle suddette soglie sia superata (v. comunicazione della Commissione, del 27 aprile 2004, Linee direttrici sulla nozione di pregiudizio al commercio tra Stati membri di cui agli articoli [101 e 102 TFUE], GUUE C 101, 81).
4. Segue: Le esenzioni. La nullità delle intese e le sue conseguenze Come già accennato, il divieto in esame non è assoluto, ma ammette alcune eccezioni per i casi in cui un’intesa produca dei benefici per il mercato tali da compensare e superare gli effetti anticoncorrenziali. Dette eccezioni sono concesse a titolo individuale o per intere categorie d’intese, ove siano soddisfatte le condizioni elencate dal par. 3 dell’art. 101 TFUE. Si tratta più specificamente dei casi in cui le intese «contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico, pur riservando agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva ed evitando di: a) imporre alle imprese interessate restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi; b) dare a tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui trattasi». Tali condizioni, per la cui sussistenza l’onere della prova incombe all’impresa che le invoca, sono cumulative e, quindi, la mancanza di una di esse preclude l’applicabilità di un’esenzione; inoltre, devono considerarsi esaustive, nel senso che, una volta soddisfatte, l’esenzione non può essere subordinata ad altre condizioni (indicazioni utili circa i meccanismi di esenzione si rinvengono nella comunicazione della Commissione, del 27 aprile 2004, Linee direttrici sull’applicazione dell’art. [101, par. 3, TFUE], poc’anzi cit.).
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Le predette condizioni si presumono sussistere per gli accordi che rispondono ai requisiti precisati nei regolamenti di esenzione per categoria adottati dalla Commissione o dal Consiglio. Tuttavia, la Commissione o le autorità nazionali della concorrenza possono revocare l’esenzione se l’intesa abbia effetti incompatibili con l’art. 101, par. 3, TFUE. Art. 29, reg. n. 1/2003. Quanto ai regolamenti di esenzione, si fa riferimento: in materia di accordi verticali, al reg. (UE) n. 330/2010 della Commissione, del 20 aprile 2010 (GUUE L 102, 1), e in materia di accordi di cooperazione orizzontale, al regolamento di esenzione per certe categorie di accordi di ricerca e sviluppo (reg. (UE) n. 1217/2010 della Commissione, del 14 dicembre 2010, GUUE L 335, 36), nonché al regolamento di esenzione per certe categorie di accordi di specializzazione (reg. (UE) n. 1218/2010 della Commissione, del 14 dicembre 2010, GUUE L 335, 43). A questi si aggiungono, nel settore delle assicurazioni, reg. (UE) n. 267/2010 della Commissione, del 24 marzo 2010 (GUUE L 83, 1), peraltro scaduto il 31 marzo 2017, senza essere sostituito; nel settore dei trasporti ferroviari, su strada e per vie navigabili, reg. (CE) n. 169/2009 del Consiglio, del 26 febbraio 2009 (GUCE L 61, 1); nel settore del trasporto marittimo di linea, reg. (CE) n. 906/2009 della Commissione, del 28 settembre 2009 (GUCE L 256, 31); nel settore del trasporto aereo, reg. (CE) n. 487/2009 del Consiglio, del 25 maggio 2009 (GUCE L 148, 1); reg. (UE) n. 461/2010 della Commissione, del 27 maggio 2010, relativo alle categorie di accordi verticali e pratiche concordate nel settore automobilistico (GUUE L 129, 52); nel settore della tecnologia, il reg. 316/2014/UE, del 1° marzo 2014 (GUUE L 93, 17). Come già accennato, sotto la vigenza del reg. n. 17/62 la Commissione deteneva la competenza esclusiva ad applicare la disposizione dell’attuale art. 101, par. 3, TFUE mediante decisioni di esenzione individuale. La situazione è cambiata a partire dal 1° maggio 2004, in conseguenza dell’entrata in vigore del reg. n. 1/2003. Un’altra conseguenza del reg. n. 1/2003 è stata la sostituzione del precedente regime di notifica e autorizzazione con un sistema di eccezione legale: in sostanza, le intese vietate ai sensi dell’art. 101, par. 1, TFUE, ma rispondenti alle condizioni di cui al par. 3 della norma, sono lecite ab initio e, quindi, non necessitano una decisione preventiva. A tal riguardo, va segnalato che la Commissione ha recentemente varato una proposta di direttiva del PE e del Consiglio che conferisce alle autorità garanti della concorrenza degli Stati membri poteri di applicazione più efficace e assicura il corretto funzionamento del mercato interno (COM(2017) 142 final, del 22 marzo 2017).
Conviene ricordare infine che le intese di cui sia stata accertata la natura anticoncorrenziale devono considerarsi «nulle di pieno diritto» (art. 101, par. 2, TFUE). Esse sono dunque colpite, come chiarito dalla stessa Corte, da nullità assoluta, nel senso che l’accordo che ricada sotto questa disposizione è privo di effetti nei rapporti fra i contraenti e non può essere opposto a terzi; in più, tale nullità è rilevabile anche d’ufficio e opera ex tunc, dato che essa riguarda tutti gli effetti, passati e futuri, dell’intesa interessata (Corte giust. 13 luglio 2006, da C-295/04 a C-298/04, Manfredi, I-6619, e giurisprudenza ivi citata). Ma non è tutto. Ulteriori conseguenze pregiudizievoli per le imprese partecipanti ad un’intesa anticoncorrenziale derivano dal progressivo arricchimento della tutela dei soggetti che dalla stessa sono stati eventualmente danneggiati e, in particolare, dalla loro legittimazione a proporre un’azione risarcitoria (si noti che un’azione siffatta può essere proposta anche in caso di violazione del divieto di abuso di posizione dominante di cui all’art. 102 TFUE, atteso che anche tale disposizione è dotata di effetto diretto). Si tratta di una conseguenza che soprattutto in questi ultimi tempi si va ponendo sempre più al centro dell’attenzione della dottrina, ma anche della per-
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tinente giurisprudenza. Sta di fatto, come ha rilevato anche la Corte, che tale implicazione rafforza l’efficacia dei divieti esaminati e l’effetto utile degli stessi, che sarebbe messo in discussione se non fosse garantita agli interessati la possibilità di chiedere il risarcimento del danno causato da un’intesa anticoncorrenziale. Sulla base di queste sollecitazioni, è stata infine adottata l’importante dir. 2014/104/UE del PE e del Consiglio, del 26 novembre 2014, relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea (GUUE L 349, 1), anche se tale direttiva deve comunque essere letta alla luce dei principi (più avanzati) delineati dalla Corte. In giurisprudenza, v. Corte giust. 20 settembre 2001, C-453/99, Courage, I-6297; la sentenza Manfredi cit.; 14 giugno 2011, C-360/09, Pfleiderer, I-5161; 6 novembre 2012, C-199/11, Otis; 6 giugno 2013, C-536/11, Donau Chemie; 5 giugno 2014, C-557/12, Kone e.a.
5. L’abuso di posizione dominante La libera concorrenza ha la finalità di creare un ambiente nel quale le imprese, pur nel tentativo di aumentare le loro quote di mercato, possano competere sulla base dei loro meriti rispettivi. La tendenza all’aumento del potere di mercato può tuttavia degenerare verso forme patologiche, allorché per perseguire tale finalità le imprese pongono in essere condotte basate non già sul proprio livello di efficienza, ma sull’uso distorto del loro potere attuale sul mercato, al fine di estrometterne gli altri concorrenti e/o arrecare pregiudizi diretti alle controparti contrattuali, e ciò in particolare attraverso l’imposizione di prezzi eccessivamente elevati o comunque di condizioni contrattuali oltremodo sfavorevoli. Di fronte a simili eventualità, l’obiettivo dell’Unione è quindi di salvaguardare, in via immediata, il processo concorrenziale nel mercato interno e, in via mediata, la tutela dei consumatori finali e dei concorrenti altrettanto efficienti che l’impresa dominante (c.d. as efficient competitors). Proprio avendo di vista tali situazioni, l’art. 102 TFUE stabilisce che è «incompatibile con il mercato interno e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo» (ma, ai sensi dell’art. 3, par. 2, reg. n. 1/2003, e in omaggio alle segnalate finalità dello stesso, gli Stati membri possono adottare o mantenere norme più rigorose). Ai fini dell’applicazione di tale disposizione, occorre svolgere un’analisi che si articola in tre fasi: i) la definizione del mercato rilevante; ii) la verifica dell’esistenza di una posizione dominante; iii) l’accertamento del carattere abusivo dello sfruttamento di tale posizione. Preliminarmente, tuttavia, conviene sottolineare che le condotte in esame sono vietate al livello dell’Unione solo se incidono sul mercato interno o su una parte sostanziale di questo e siano pregiudizievoli per il commercio tra Stati membri. Come per le intese, infatti, tale condizione delimita la sfera di applicazione materiale dell’art. 102 TFUE, circoscrivendola ai casi di effettiva rilevanza per l’or-
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dinamento dell’Unione; diversamente, troveranno applicazione, se del caso, le discipline antitrust nazionali. A questo fine, la Commissione ha raccolto i principi enucleati dai giudici dell’Unione nella già citata comunicazione del 2004 sulle linee direttrici sulla nozione di pregiudizio al commercio tra Stati membri di cui agli artt. 101 e 102 TFUE (supra, p. 631).
i) La prima fase consiste nella definizione del mercato rilevante, che serve a delineare il perimetro dell’area merceologica e geografica in cui è possibile l’individuazione di un significativo potere di mercato in capo ad una o più imprese (Corte giust. 26 novembre 1998, C-7/97, Oscar Bronner c. Mediaprint, I-7791). Tale nozione, che non era prevista esplicitamente nel diritto dell’Unione, è stata precisata anzitutto nella giurisprudenza della Corte e poi, sulla base di questa, da un’apposita comunicazione della Commissione. Corte giust. 21 febbraio 1973, 6/72, Contintental Can, 215; 14 febbraio 1978, 27/76, United Brands, 207; 13 febbraio 1979, 85/76, Hoffmann-La Roche, 461; 9 novembre 1983, 322/81, Michelin, 3461. Quella cui si accenna nel testo è la Comunicazione della Commissione, del 9 dicembre 1997, sulla definizione del mercato rilevante ai fini dell’applicazione del diritto comunitario in materia di concorrenza (GUCE C 372, 5).
Dal punto di vista merceologico, la comunicazione prevede che il mercato rilevante del prodotto comprende «tutti i prodotti e/o servizi che sono intercambiabili o sostituibili dal consumatore, in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi e dell’uso cui sono destinati» (punto 7 della Comunicazione). E questo, per l’appunto, al fine di individuare i beni che, dal punto di vista del consumatore, soddisfano le medesime esigenze e, quindi, costituiscono degli adeguati succedanei del bene di riferimento, succedanei che rappresenterebbero una via di fuga per i clienti nel momento in cui l’impresa decidesse di aumentare il prezzo del bene offerto sul mercato. Dal punto di vista geografico, invece, il mercato rilevante comprende «l’area nella quale le imprese in causa forniscono o acquistano prodotti o servizi, nella quale le condizioni di concorrenza sono sufficientemente omogenee e che può essere tenuta distinta dalle zone geografiche contigue perché in queste ultime le condizioni di concorrenza sono sensibilmente diverse» (punto 8 della Comunicazione). Il che permette di identificare l’ubicazione territoriale delle fonti reali di approvvigionamento alternativo di un dato prodotto, sì da individuare le imprese fornitrici che si pongono in un rapporto di concorrenza diretta e attuale rispetto a tale bene. ii) La seconda fase è volta a verificare l’entità del potere di mercato detenuto dall’impresa interessata, cioè, in sostanza, la sua quota di mercato, definita sulla base delle vendite da essa realizzate nel mercato rilevante. È in effetti soltanto se si trova in una posizione di dominanza sul mercato di riferimento, che l’impresa può abusarne e, quindi, contravvenire al divieto in esame. Anche per l’individuazione degli indici e dei criteri quantitativi o qualitativi in virtù dei quali è possibile procedere all’accertamento della dominanza è stata inizialmente decisiva la giurisprudenza della Corte, alla quale ha fatto seguito anche qui un’apposita comunicazione della Commissione. La Corte ha infatti ben presto chia-
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rito che la «dominanza» corrisponde a una «situazione di potenza economica grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato di cui trattasi ed ha la possibilità di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei suoi concorrenti, dei suoi clienti e, in ultima analisi, dei consumatori» (Corte giust. Hoffmann-La Roche, cit., punto 38. V. anche Corte giust. United Brands, cit.; 3 luglio 1991, C-62/86, AKZO, I-3359; 6 settembre 2017, C-413/14, Intel). È quindi decisiva la titolarità di un potere di mercato significativo che conferisca a un’impresa una considerevole indipendenza comportamentale, in forza della quale essa è in grado di definire autonomamente la propria strategia commerciale, senza subire alcun condizionamento da parte degli altri attori di mercato. Questo perché l’assenza di una pressione concorrenziale adeguata consente all’impresa dominante di impedire ovvero ostacolare il libero gioco della concorrenza, pregiudicando, al contempo, lo svolgimento della sua naturale funzione di regolamentazione del mercato. La ricordata comunicazione della Commissione ha ulteriormente precisato tale definizione. In particolare, viene dato rilievo ai seguenti elementi: (i) la posizione di mercato dell’impresa dominante e dei suoi concorrenti; (ii) le barriere all’espansione o all’ingresso sul mercato; e (iii) il potere contrattuale dell’acquirente: v. la comunicazione della Commissione, del 24 febbraio 2009, Orientamenti sulle priorità della Commissione nell’applicazione dell’art. [102 TFUE] al comportamento abusivo delle imprese dominanti volto all’esclusione dei concorrenti (GUUE C 45, 7).
Così come espressamente previsto dalla lettera dell’art. 102 TFUE, una posizione dominante può essere detenuta da una o più imprese. Nel secondo caso si parla di dominanza collettiva o congiunta. In via di principio, infatti, non può escludersi che due o più imprese, ancorché autonome dal punto di vista giuridico, ma unite da vincoli economici o legami strutturali su un mercato specifico, possano detenere «collettivamente» un potere economico che consenta loro di agire come un’unica entità, indipendentemente dal comportamento degli altri attori di mercato. Presupposto fondamentale affinché si possa configurare una dominanza collettiva in capo a più imprese è, pertanto, che queste siano sufficientemente legate tra loro, in modo da adottare una condotta uniforme o una politica comune sul mercato rilevante (Corte giust. 16 marzo 2000, C-395/96 P e C-396/96 P, Compagnie Maritime Belge, I-1365). iii) Nella terza fase si deve infine accertare se l’impresa abbia «abusato» della propria posizione dominante. La sola detenzione di una simile posizione non è infatti di per sé incompatibile con le norme antitrust, essendo vietato soltanto il suo sfruttamento abusivo. L’impresa dominante può dunque competere liberamente sul mercato per migliorare ulteriormente la propria posizione, ma ciò solo nella misura in cui utilizzi mezzi e strumenti leciti ai sensi dell’art. 102 TFUE. La sua condotta sarà invece, in linea di principio, illecita quando essa si avvalga della sua posizione per adottare comportamenti idonei a turbare lo svolgimento di una concorrenza effettiva e non falsata sul mercato di riferimento, comportamenti che essa è in grado di sostenere non in base al proprio livello di efficienza, ma in virtù della posizione di forza detenuta su tale mercato. È in effetti proprio in nome della speciale responsabilità che le deriva dal potere di mercato di cui dispone che essa ha l’obbligo di non com-
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promettere lo sviluppo di un sano ambiente concorrenziale con le proprie politiche e strategie commerciali. Ai fini che interessano, quindi, occorre accertare se l’impresa abbia posto in essere comportamenti atti a ridurre la capacità competitiva degli altri operatori, e a conservare o rafforzare artificialmente la propria dominanza, ovvero a realizzare politiche di mercato che si avvalgano dell’assenza o della ridotta concorrenza sul mercato conseguente a detta dominanza per conseguire una rendita monopolistica a danno dei consumatori (v. la citata sentenza Hoffmann-La Roche; nonché 14 novembre 1996, C-333/94 P, Tetrapak (c.d. Tetrapak II), I-5951), a meno che la stessa impresa non dimostri che il suo comportamento non era idoneo a restringere la concorrenza (Corte giust. 6 settembre 2017, C-413/14 P, Intel). L’abuso di posizione dominante va accertato in modo oggettivo, indipendentemente dalla sussistenza dell’elemento soggettivo tipico dell’atto illecito, vale a dire il dolo o la colpa. V. le citate sentenze Continental Can e Hoffman-La Roche. Ciò non esclude, però, che l’intento abusivo possa essere tenuto in considerazione nella determinazione dell’ammenda (comunicazione della Commissione, del 1° settembre 2006, Orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell’art. 23, par. 2, lett. a), reg. 1/2003, GUUE C 210, 2) e, in taluni casi, anche nell’accertamento della pratica abusiva (v. le sentenze AKZO, cit., e Tetra Pak II, cit.).
Del pari, è irrilevante il suo impatto sul gioco competitivo nel mercato rilevante, nel senso che non occorre dimostrare che ad esso conseguano concreti effetti anticoncorrenziali, ma basta accertare la potenzialità abusiva della condotta, vale a dire la sua idoneità a produrre simili effetti sul mercato (v. le citate sentenze Hoffman-La Roche e AKZO). Così come sono irrilevanti la portata del vulnus arrecato al contesto concorrenziale (ma in alcuni casi i giudici dell’Unione sembrano aver dato rilievo anche all’entità degli effetti restrittivi generati dalla condotta abusiva), e perfino il fatto che dalla condotta abusiva non discendano vantaggi economici o competitivi per l’impresa dominante (v. Commissione, 20 luglio 1999, caso COMP/36.888, Coppa del mondo di calcio 1998, punto 102). Ancora, il divieto di cui all’art. 102 TFUE non richiede la sussistenza di un nesso diretto tra la pratica abusiva e la posizione dominante, nel senso che non occorre che l’impiego della potenza economica conferita dalla posizione dominante sia il mezzo con cui si esercita l’abuso. V. ancora le citate sentenze Continental Can e Hoffman-La Roche. Quando si tratta però di condotte abusive poste in essere in un mercato diverso da quello in cui il soggetto agente detiene una posizione di dominio, ma a esso strettamente connesso, un nesso tra la posizione dominante e il comportamento che si asserisce abusivo deve sussistere (v. Corte giust. TetraPak II, cit.).
L’abuso di posizione dominante può assumere molteplici forme, anche se poi a darvi corpo sono le caratteristiche dei comportamenti asseritamente abusivi di volta in volta considerati, e gli elementi fattuali posti alla base degli accertamenti. L’art. 102 TFUE indica alcune tipologie, ma chiarisce esso stesso che l’elenco ha valore meramente esemplificativo. Si tratta dei casi di: imposizione di prezzi di acquisto, vendita e condizioni contrattuali non eque; limitazione della produzione, degli sbocchi o dello sviluppo tecnico a danno dei consumato-
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ri; applicazione nei rapporti commerciali di condizioni dissimili per prestazioni equivalenti; imposizione ai contraenti di prestazioni supplementari prive di nesso con l’oggetto dei contratti.
Si possono comunque distinguere le fattispecie di abuso a seconda che gli effetti anticoncorrenziali si producano nelle relazioni orizzontali dell’impresa dominante (cioè quelle con i propri concorrenti effettivi o potenziali) o nelle relazioni verticali della stessa (cioè quelle con i fornitori, nel mercato a monte, e con i clienti, nel mercato a valle). Nel primo caso, l’abuso è definito escludente, poiché esso genera un effetto di chiusura del mercato nei confronti dei concorrenti, essendo l’abuso volto a estromettere gli altri operatori dal contesto competitivo e, quindi, a monopolizzare il mercato per estrarne rendite monopolistiche a danno dei consumatori). Nel secondo caso, invece, si parla di abuso di sfruttamento, giacché l’impresa intende sfruttare semplicemente il significativo potere di mercato di cui dispone per applicare prezzi eccessivi o condizioni ingiustificatamente gravose, deteriori o discriminatorie nei confronti dei contraenti.
6. Segue: La procedura per l’applicazione dei divieti. Gli impegni. I programmi di clemenza Le norme che disciplinano i procedimenti per l’applicazione degli artt. 101 e 102 TFUE sono contenute nel citato reg. n. 1/2003, nonché nel reg. (CE) n. 773/2004, della Commissione, del 7 aprile 2004, relativo ai procedimenti svolti dalla Commissione a norma degli artt. 81 e 82 del [TCE] (GUCE L 123, 18). Tali procedimenti possono essere avviati dalla Commissione d’ufficio o su denuncia di qualsiasi soggetto che vi abbia interesse. La prova dell’infrazione incombe alla Commissione, mentre spetta all’impresa provare che esistono le condizioni per l’esenzione ex art. 101, par. 3, TFUE. Per conseguire tale prova la Commissione gode di poteri di indagine molto ampi, incluso quello di svolgere ispezioni presso i locali delle imprese interessate e i domicili privati del personale delle stesse. Ma non può, ad esempio, esaminare la corrispondenza fra l’impresa e i propri legali, qualora questi non siano dipendenti dell’impresa stessa (c.d. legal privilege) (v. Corte giust. 14 settembre 2010, C-550/07 P, Akzo Nobel Chemicals e Akcros Chemicals, I-8301). La procedura deve svolgersi, in tutti i suoi passaggi, nel rigoroso rispetto dei diritti di difesa delle imprese interessate. Essa si articola di regola su due fasi. Nella prima, precontenziosa, la Commissione, in un tempo ragionevole, ricerca gli elementi di prova dell’infrazione e decide poi di archiviare il caso o di inviare all’impresa la c.d. comunicazione degli addebiti. Tale atto, che deve essere adeguatamente motivato ed è impugnabile, apre formalmente il procedimento d’infrazione. A seguito di esso, l’impresa interessata (ma anche i soggetti terzi che dimostrino di avervi interesse) può, entro un termine fissato dalla Commissione, presentare le proprie osservazioni scritte e chiedere un’audizione orale. Nelle more dell’istruzione, la Commissione, in presenza di un rischio di danno grave e irreparabile per la concorrenza, può disporre d’ufficio, qualora rilevi prima facie l’esistenza di un’infrazione, le misure cautelari eventualmente necessarie.
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Al termine dell’istruttoria, la Commissione può adottare, a seconda dei casi, le seguenti decisioni: (i) constatare e far cessare l’infrazione, disponendo i rimedi comportamentali o strutturali, nonché infliggendo ammende all’impresa; (ii) constatare l’inapplicabilità degli artt. 101 e 102 TFUE. Nel caso infligga sanzioni, la Commissione gode di un’ampia discrezionalità, ma non può superare il tetto massimo del 10% del fatturato totale realizzato da ciascuna impresa sanzionata durante l’esercizio sociale precedente. Il relativo potere si prescrive in tre o cinque anni, a seconda del tipo di infrazione, e il termine decorre dal giorno in cui questa è stata commessa, sempre che non intervengano atti interruttivi o sospensivi (come nel caso di impugnazione della decisione innanzi ai giudici dell’Unione). V. la Comunicazione della Commissione del 2006 relativa agli orientamenti per il calcolo delle ammende, cit. supra, p. 636. Al fine di costringerle a porre fine all’infrazione, la Commissione può altresì irrogare alle imprese e associazioni di imprese penalità di mora, il cui importo può giungere fino al 5% del fatturato medio giornaliero realizzato durante l’esercizio sociale precedente, per ogni giorno di ritardo a decorrere dalla data fissata nella decisione. In giurisprudenza, v. di recente, Corte giust. 5 dicembre 2013, C-446/11 P, Commissione c. Edison; C-447/11 P, Caffaro c. Commissione; C-448/11 P, SNIA c. Commissione; C-449/11 P, Solvay Solexis c. Commissione; C455/11 P, Solvay c. Commissione; 9 marzo 2017, C-615/15 P, Samsung SDI e a. c. Commissione; 6 luglio 2017, C-180/16 P, Toshiba Corp. c. Commissione europea.
A tali provvedimenti devono aggiungersi le decisioni con impegni. Tale istituto è previsto dall’art. 9 del reg. n. 1/2003, ai sensi del quale la Commissione può chiudere anticipatamente i procedimenti antitrust, senza arrivare all’accertamento dell’infrazione ipotizzata degli artt. 101 e 102 TFUE, accettando e rendendo obbligatori specifici impegni assunti dalle imprese interessate, idonei a risolvere le criticità concorrenziali rilevate in avvio d’istruttoria. Malgrado la loro apparente limitazione alle infrazioni di minor rilievo, la prassi della Commissione denota una certa propensione all’accettazione di siffatti impegni, escludendone l’applicazione solo rispetto ai cartelli segreti. L’istituto mira palesemente a rendere più tempestiva ed efficace l’azione della Commissione e, per le imprese interessate, a evitare l’accertamento dell’eventuale infrazione e la conseguente inflizione di un’ammenda (che ovviamente potrà essere ugualmente decisa se l’impresa non rispetti l’impegno). Infine, va ricordato che il sistema brevemente descritto è stato recentemente arricchito di alcuni innovativi strumenti, volti a migliorare l’applicazione delle norme di cui agli artt. 101 e 102 TFUE, quali, in particolare, i programmi di clemenza e la transazione (c.d. settlements). I programmi di clemenza, mutuati dal sistema antitrust statunitense, costituiscono un’utile risorsa nella politica che l’Unione conduce nella lotta ai cartelli. In estrema sintesi, essi prevedono un trattamento favorevole per le imprese accusate di aver violato le regole antitrust, a condizione che esse si «pentano», e cioè denuncino alla Commissione l’esistenza di un cartello di cui fanno parte ovvero le forniscano elementi decisivi per scoprire tale cartello e i partecipanti allo stesso. In particolare, in una pura logica premiale, tale trattamento favorevole consiste: nel beneficio anche dell’immunità totale per l’impresa che per prima fornisce elementi probatori riguardanti un cartello non ancora individuato dalla Commissione o, qualora questa ne sia
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già a conoscenza, elementi cruciali in grado di provarne l’esistenza e il funzionamento; ovvero nella riduzione dell’ammenda, per le imprese la cui adesione al programma si perfeziona in un momento successivo. Quanto alla transazione (c.d. settlements), disciplinata oggi dal reg. (CE) n. 622/2008, essa costituisce ugualmente un’alternativa alla procedura ordinaria. Anche tale istituto mira a permettere alla Commissione di trattare con maggiore rapidità ed efficacia i casi di cartelli. In estrema sintesi, le imprese che aderiscono a tale procedura riconoscono di aver partecipato a un cartello e, quindi, si assumono la relativa responsabilità, in cambio di una riduzione del 10% dell’ammenda inflitta dalla Commissione per la violazione antitrust accertata, e della rinuncia al diritto di essere ascoltate e di accedere al fascicolo nell’eventuale fase successiva alla comunicazione degli addebiti. In materia, la Commissione dispone di un ampio margine di discrezionalità, anche per quanto riguarda la possibilità di negare la transazione a tutte o ad alcune delle parti interessate o di porvi fine anticipatamente, senza che le imprese possano vantare un diritto a tale transazione. La prima applicazione dei programmi di clemenza risale al 1996 (con la comunicazione della Commissione, del 18 luglio 1996, sulla non imposizione o sulla riduzione delle ammende nel caso d’intesa tra imprese, GUCE C 207, 4). Tuttavia, a causa della sua genericità e delle incertezze che lasciava sussistere, essa si rivelò poco efficace, sicché fu sostituita qualche anno dopo dalla comunicazione del 19 febbraio 2002, relativa all’immunità dalle ammende e alla riduzione dell’importo delle ammende nei casi di cartelli tra imprese (GUCE C 45, 3), a sua volta ulteriormente modificata da una nuova comunicazione dell’8 dicembre 2006 (GUUE C 298, 17). Quanto alle transazioni, v. reg. (CE) n. 622/2008 della Commissione, del 30 giugno 2008, che modifica il reg. n. 773/2004 per quanto riguarda la transazione nei procedimenti relativi ai cartelli (GUUE L 171, 3). Inoltre un’apposita comunicazione è stata adottata in materia dalla Commissione, il 2 luglio 2008, concernente la transazione nei procedimenti per l’adozione di decisioni a norma dell’art. 7 e dell’art. 23 del reg. n. 1/2003 nei casi di cartelli (GUUE C 167, 1; c.d. comunicazione Settlements).
Tanto i programmi di clemenza quanto i settlements sembrano sollevare talune problematicità, specie in relazione alla tutela dei soggetti lesi da violazioni antitrust e al loro diritto all’accesso ai documenti prodotti nel corso di tali procedure. Su questo punto, la Corte ha bensì riconosciuto che i programmi di clemenza costituiscono strumenti utili nella lotta alle violazioni delle regole di concorrenza e che la loro efficacia potrebbe essere compromessa dalla comunicazione della relativa documentazione ai soggetti che intendano promuovere un’azione risarcitoria, dato l’effetto dissuasivo che tale comunicazione potrebbe avere nei confronti delle imprese partecipanti ad un cartello. Essa ha tuttavia aggiunto che tali considerazioni possono giustificare un diniego di accesso a taluni documenti, ma non un diniego sistematico, dovendo ciascuna domanda formare oggetto di una propria specifica valutazione. Corte giust. 14 giugno 2011, C-360/09, Pfleiderer, I-5161; 6 giugno 2013, C-536/11, Donau Chemie. La Corte ha anche avuto l’occasione di ritornare sull’interazione tra il programma di clemenza e l’azione risarcitoria nella sentenza 27 febbraio 2014, C-365/12 P, Commissione c. Enbw Energie Baden-Württemberg; 14 marzo 2017, C-162/15, P, Evonik Degussa c. Commissione.
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7. Le concentrazioni Com’è noto, le imprese possono aumentare il proprio potere di mercato non solo mediante un processo di crescita interna, cioè aumentando l’efficienza delle proprie prestazioni e il volume delle vendite sul mercato di riferimento, ma anche per il tramite di un processo di crescita esterna, vale a dire integrandosi con altre imprese per mettere insieme le rispettive capacità produttive ed economiche. Questo si realizza solitamente attraverso il fenomeno delle «concentrazioni», che proprio per il fatto di rappresentare uno strumento di sviluppo delle imprese e di razionalizzazione del mercato sono considerate in principio in modo positivo. È anche vero però che un’eccessiva concentrazione del potere di mercato in capo a poche imprese e quindi una riduzione del numero dei concorrenti possono determinare le condizioni per il sorgere di una posizione dominante, che non potrebbe realizzarsi sulla base delle sole capacità delle imprese presenti sul mercato stesso. Proprio questi potenziali effetti distorsivi sulla struttura del mercato spiegano le ragioni di una regolamentazione della materia e in particolare l’istituzione di un controllo delle operazioni di concentrazione volto a subordinare l’autorizzazione delle medesime alla verifica della loro compatibilità con le regole della concorrenza. Ma cos’è e come si realizza una concentrazione tra imprese? Secondo le modalità classiche una concentrazione si verifica attraverso la fusione di due o più imprese precedentemente indipendenti ovvero con l’assunzione del controllo diretto o indiretto dell’insieme o di parti di un’impresa, attraverso l’acquisizione di partecipazioni nel capitale o di elementi del patrimonio della stessa, da parte di uno o più soggetti che già detengono il controllo di almeno un’altra impresa. In conseguenza di tali eventi, si produce una modifica duratura del controllo delle imprese interessate, che, prima della concentrazione, erano «indipendenti», nel senso di non essere integrate nel medesimo gruppo. Ma si ha concentrazione anche quando due o più imprese condividono l’esercizio delle proprie attività economiche al fine di costituire un’impresa comune – cioè sottoposta al controllo congiunto delle imprese madri – che esercita stabilmente tutte le funzioni di un’entità economica autonoma (c.d. «impresa comune a pieno titolo» o «full function joint venture») (v. Corte giust. 7 settembre 2017, C-248/15, Austria Asphalt). Non è necessario, invece, che l’operazione riguardi imprese concorrenti dirette o potenziali, perché può aversi una concentrazione pure in caso di integrazione tra imprese operanti in mercati diversi, anche se talora collegate in senso verticale e/o orizzontale (c.d. concentrazioni conglomerali). Fondamentale invece per la qualificazione di una concentrazione è l’assunzione del «controllo» dell’impresa oggetto dell’operazione, e tale controllo si considera realizzato quando vengono acquisiti diritti, contratti o altri mezzi che, per effetto della concentrazione, conferiscono, da soli o congiuntamente e tenuto conto delle circostanze di fatto o di diritto, la possibilità di esercitare un’influenza determinante sulla politica commerciale e sugli indirizzi strategici di detta impresa. Tutta questa materia è oggi regolata anche a livello dell’Unione, malgrado che, a differenza del Trattato CECA (art. 66), sia il TCE che i successivi testi tacessero al riguardo. Si constatò in effetti, sia pur non rapidamente, che le esigenze sopra illustrate si imponevano anche in ambito comunitario e che le regole di concorrenza
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dettate al livello del diritto primario, pur potendo essere applicate a talune concentrazioni (Corte giust. 21 febbraio 1973, 6/72, Contintental Can, 215; 17 novembre 1987, 142/84 e 156/84, BAT, 4487), non erano sufficienti a garantire un efficace e generalizzato controllo di quelle operazioni. Si è così provveduto a soddisfarle con un atto di diritto derivato, e segnatamente con il già citato reg. 139/2004, nonché con una successiva comunicazione della Commissione del 16 aprile 2008, sui criteri di competenza giurisdizionale a norma del reg. (CE) n. 139/2004 (GUUE C 95, 1). Con detto regolamento, tenuto conto dei possibili effetti tanto positivi che negativi delle operazioni di concentrazione, il legislatore dell’Unione ha adottato una disciplina che cerca di bilanciare gli interessi delle imprese e le ragioni del mercato. Tale disciplina, infatti, diversamente da quella in materia d’intese e di abuso di posizione dominante, non vieta di per sé le concentrazioni, ma ne prevede un controllo preventivo, volto a stabilire, caso per caso, se la progettata operazione sia suscettibile di creare difficoltà alla concorrenza nel mercato interno. Per l’essenziale detta disciplina si articola come segue. Anzitutto il reg. n. 139/2004 si applica soltanto alle concentrazioni che presentino una «dimensione comunitaria», dimensione da valutare secondo un criterio essenzialmente economico, basato sui fatturati realizzati dalle imprese interessate, ma anche tenendo conto dell’estensione geografica dell’attività delle stesse, dato che l’operazione rileva per l’Unione solo se coinvolge almeno due Stati membri. In particolare, ai sensi dell’art. 1 di tale regolamento, devono essere contemporaneamente soddisfatte le seguenti condizioni: (i) il fatturato realizzato a livello mondiale dal complesso delle imprese interessate superi i 5 miliardi di euro; (ii) il fatturato realizzato individualmente nell’Unione da almeno due delle imprese partecipanti superi i 250 milioni di euro, (iii) ciascuna delle imprese partecipanti non realizzi oltre i due terzi del suo fatturato totale nell’Unione all’interno di un solo e medesimo Stato membro.
In effetti, in applicazione del c.d. principio dello sportello unico, le concentrazioni di dimensione comunitaria sono valutate esclusivamente dalla Commissione, mentre le altre operazioni sono sottoposte alle autorità antitrust nazionali, sempre che il loro diritto preveda un controllo per tali operazioni. A determinate condizioni, tuttavia, l’esame di una concentrazione di sua competenza può essere rinviato dalla Commissione agli Stati membri e viceversa. Ai sensi dell’art. 9, parr. 2 e 3, reg. n. 139/2004, la prima ipotesi può verificarsi se l’operazione rischia di incidere in misura significativa sulla concorrenza nel mercato di uno Stato membro che presenti tutte le caratteristiche di un mercato distinto; il rinvio è obbligatorio se detto mercato non costituisce una parte sostanziale del mercato comune. La seconda ipotesi può invece verificarsi, ai sensi dell’art. 22 del reg. n. 139/2004, quando la concentrazione, pur non avendo una dimensione comunitaria, influisce sul commercio tra Stati membri e rischia di incidere in misura significativa sulla concorrenza nel territorio dello Stato membro e degli Stati membri interessati.
Le concentrazioni di dimensione comunitaria devono essere obbligatoriamente notificate alla Commissione, mediante la compilazione di un apposito formulario. Tale notifica produce effetti sospensivi, sicché l’operazione non può essere realizzata fin quando non intervenga la decisione positiva della Commissione, o non siano de-
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corsi i termini appositamente previsti per far scattare un meccanismo di silenzioassenso. La procedura di esame si sviluppa in due fasi (ma la seconda è solo eventuale) ed è scandita da termini piuttosto ridotti, in modo da non ostacolare eccessivamente il normale corso delle dinamiche dei mercati interessati. Nella prima fase, che si apre con la notifica della concentrazione, la Commissione deve decidere, entro 25 giorni lavorativi, se l’operazione rientra o meno nell’ambito applicativo del regolamento, se è compatibile con il mercato comune o se invece solleva seri dubbi al riguardo e quindi necessita di ulteriori approfondimenti. Solo in quest’ultimo caso si apre la seconda fase, che inizia con la decisione di avvio dell’istruttoria e deve concludersi entro 90 giorni con una formale decisione della Commissione. In caso di mancato rispetto dei termini indicati per l’una o l’altra fase, si ritiene che la concentrazione sia stata dichiarata compatibile con il mercato interno. Nel corso di entrambe le fasi, peraltro, le imprese partecipanti alla concentrazione possono proporre misure volte a eliminare eventuali criticità concorrenziali rilevate dalla Commissione, che precludano l’autorizzazione dell’operazione da parte di quest’ultima (c.d. impegni). Queste misure possono essere strutturali, laddove le parti assumano l’obbligo di cedere beni aziendali idonei a produrre un fatturato (per esempio, la cessione di determinate unità produttive o di marchi o brevetti), ovvero comportamentali, laddove le parti assumano degli obblighi di porre in essere o di astenersi dal compiere determinate condotte riguardanti la propria politica commerciale (per esempio, l’obbligo di garantire alle imprese concorrenti l’accesso ad una infrastruttura essenziale). Su questi aspetti v. la comunicazione della Commissione, del 22 ottobre 2008, concernente le misure correttive considerate adeguate a norma del reg. (CE) n. 139/2004 del Consiglio e del reg. (CE) n. 802/2004 della Commissione (GUUE C 267, 1), quest’ultimo peraltro modificato dal reg. d’esecuzione (UE) n. 1269/2013 della Commissione, del 5 dicembre 2013 (GUUE L 336, 1).
Se l’operazione è realizzata prima della (o senza la preventiva) notifica, oppure malgrado un’eventuale decisione negativa della Commissione, quest’ultima potrà infliggere alle imprese interessate, anche se dopo la descritta procedura l’operazione dovesse essere dichiarata compatibile con il mercato comune, un’ammenda il cui ammontare può arrivare fino al 10% del fatturato totale dell’impresa interessata, nonché imporre delle misure di deconcentrazione volte a ripristinare lo status quo ante. Va segnalato peraltro che l’intera materia delle concentrazioni potrebbe essere significativamente innovata ove fossero accettati gli orientamenti proposti dalla Commissione nel Libro Bianco: “Verso un controllo più efficace delle concentrazioni nell’UE” (COM/2014/0449 final). Le innovazioni di maggior rilievo riguarderebbero, in particolare, l’inclusione delle acquisizioni di partecipazioni di minoranza non di controllo nel campo di applicazione della normativa UE sul controllo delle concentrazioni, attualmente escluse dal reg. n. 139/2004, e la ridefinizione e il rafforzamento del sistema dello sportello unico previsto da quest’ultimo.
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8. b) Il divieto degli aiuti di Stato Come già anticipato, nello stesso Capo sulle «regole di concorrenza», accanto a quelle applicabili alle imprese (Sezione I), il Trattato prevede un insieme di regole rivolte agli Stati membri in materia di aiuti alle imprese (Sezione II). I due profili vanno evidentemente in parallelo, perché in un’economia di mercato anche il potere pubblico deve rispettare il libero gioco della concorrenza tra imprese e non può, in linea di principio, interferire su di esso agevolando o pregiudicando la situazione dell’una a favore o a detrimento dell’altra. Per quanto riguarda l’Unione, discende da tali premesse che, fatti salvi alcuni casi eccezionali, gli Stati membri devono astenersi dall’alterare o falsare il gioco competitivo mediante il conferimento di aiuti a talune imprese o produzioni. Ed è proprio questo il principio esplicitamente enunciato dall’art. 107 TFUE, secondo il quale sono per l’appunto da considerarsi incompatibili con il mercato interno e, conseguentemente, vietate le misure che integrino ipotesi di aiuti di Stato. Tale disposizione, insieme con gli artt. 108 e 109 TFUE, detta poi anche le regole sostanziali e procedurali della materia, cui vanno ad aggiungersi quelle contenute in alcuni atti di diritto derivato, nonché numerose comunicazioni della Commissione. Va notato che l’art. 109 costituisce la norma di abilitazione per l’adozione degli atti dell’Unione in materia, in quanto attribuisce al Consiglio la competenza ad emanare, con procedura di cooperazione, tutti i regolamenti utili ai fini dell’applicazione degli artt. 107 e 108 TFUE. Per le regole procedurali, come già anticipato, il testo principale è il reg. (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999, recante modalità di applicazione dell’art. 93 [TCE; ora art. 108 TFUE] (GUCE L 83, 1), recentemente modificato dal reg. (UE) n. 734/2013 del Consiglio, del 22 luglio 2013 (GUUE L 204, 15) e poi codificato dal reg. (UE) n. 2015/1589 del Consiglio, del 13 luglio 2015 (GUUE L248, 9). In estrema sintesi, tali modifiche hanno introdotto: (i) il potere della Commissione di richiedere informazioni ad altre fonti (ossia, Stati membri diversi da quello interessato, imprese o associazioni d’imprese) nonché di comminare ammende e penalità di mora se tali informazioni sono inesatte, incomplete o fuorvianti; (ii) la possibilità per la Commissione di presentare osservazioni, di propria iniziativa, ai giudici nazionali su questioni attinenti l’applicazione delle norme in materia di aiuti di Stato; (iii) la necessità di compilare un modulo per le denunce, che sarà predisposto dalla Commissione, nonché la possibilità per il denunciante di presentare le proprie osservazioni qualora la Commissione non dia seguito alla denuncia; (iv) la possibilità per la Commissione di svolgere indagini per settori economici e per strumenti di aiuto in diversi Stati membri.
Venendo a un esame specifico di tale disciplina, conviene ricordare anzitutto che l’art. 107, par. 1, TFUE, stabilisce che «sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza». La disposizione, come si vede, non fornisce una definizione della nozione di aiuto di Stato. Emerge tuttavia dalla sua formulazione alquanto generica e, segnatamente dall’inciso «sotto qualsiasi forma», l’intento di dare al divieto la più ampia portata. E in questa direzione si è altresì orientata la Corte, la quale ha fatto rientrare in quella nozione non solo le prestazioni positive degli organi pubblici a sostegno di determi-
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nate imprese o prodotti (cioè quelle che comportano il conferimento di risorse), ma anche i provvedimenti che determinano una rinuncia agli introiti che sarebbero stati altrimenti acquisiti. Possono quindi costituire aiuti di Stato anche gli interventi che, con varie modalità, alleviano gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa e che, pur non essendo delle sovvenzioni in senso stretto, ne hanno la stessa natura e producono gli stessi effetti. Occorre peraltro segnalare che di recente la Commissione ha adottato una comunicazione sulla nozione di aiuto di Stato di cui all’art. 107, par. 1, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (2016/C 262/01, del 19 luglio 2016) precisando i diversi elementi di tale nozione alla luce della ricca giurisprudenza della Corte. V. Corte giust. 15 marzo 1994, C-387/92, Banco Exterior de España, I-877; e più di recente, fra le altre, 26 ottobre 2016, C-211/15 P, Orange; 21 dicembre 2016, C-20/15, Commissione c. World Duty Free Group; 27 giugno 2017, C-74/16, Congregación de Escuelas Pías Provincia Betania. Dal dettato dell’art. 107, par. 1, TFUE si evince, inoltre, che i motivi o gli scopi sottesi a una misura di aiuto sono ininfluenti, rilevando ai fini che qui interessano soltanto gli effetti della misura sulla concorrenza e sugli scambi tra gli Stati membri (Corte giust. 29 febbraio 1996, C-56/93, Belgio c. Commissione, I-723).
Ciò detto, va aggiunto che dall’art. 107 TFUE e dalla giurisprudenza della Corte possono comunque dedursi le condizioni che devono essere cumulativamente soddisfatte affinché una misura rientri nella nozione di aiuto. In particolare, può dirsi che essa deve: i) essere un intervento dello Stato o effettuato mediante risorse statali; ii) concedere un vantaggio al suo beneficiario; iii) essere selettiva; iv) essere idonea ad incidere sugli scambi tra Stati membri; v) falsare o minacciare di falsare la concorrenza. i) Anzitutto dunque l’aiuto deve essere imputabile a uno Stato membro e, al contempo, la sua erogazione deve impegnare delle risorse statali. Sotto tale profilo, la nozione di Stato si definisce, in omaggio alla segnalata portata del divieto, in termini assai ampi. Essa copre i provvedimenti adottati (sotto qualsiasi forma) non solo dal governo centrale, ma anche dalle sue articolazioni regionali e locali, o persino da enti, pubblici o privati, designati o istituiti dagli Stati membri ovvero da società sottoposte al loro controllo. Quanto al ricorso alle risorse pubbliche, queste si considerano impegnate quando il vantaggio conferito a un’impresa corrisponde, direttamente o indirettamente, a un onere finanziario a carico dell’ente erogatore. In altri termini, l’aiuto deve costituire la contropartita di un onere sopportato da tale ente in conseguenza del trasferimento diretto o indiretto di risorse pubbliche alle imprese. Non occorre però che si tratti di una prestazione positiva, come una sovvenzione, potendo ben rientrare in tale nozione interventi che, in varie forme, alleviano gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa. V., per le varie ipotesi evocate nel testo, Corte giust. 30 gennaio 1985, 290/83, Commissione c. Francia, 439; 14 ottobre 1987, 248/84, Germania c. Commissione, I-2099; 7 giugno 1988, 57/86, Grecia c. Commissione, 2855; 21 marzo 1991, C-303/88, Italia c. Commissione, I-1433; 21 marzo 1991, C-305/89, Italia c. Commissione, I-1603; 17 marzo 1993, C-72/91 e C-73/91, Sloman Neptun Schiffahrts, I-887; 13 marzo 2001, C-379/98, Preussen Elektra, I-2099; 6 settembre 2006, C-88/03, Portogallo c. Commissione, I-7115; nonché, più di recente, 19 marzo 2015, C-672/13, OTP Bank; 18 maggio 2017, C-150/16, Fondul Proprietatea. Quanto all’imputabilità dell’aiuto allo Stato, va
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notato che non rileva il fatto che l’art. 107, par. 1, TFUE preveda che sono incompatibili gli aiuti concessi dagli Stati «ovvero» mediante risorse statali. Sulla scorta della giurisprudenza della Corte è ormai pacifico che tali condizioni sono cumulative (Corte giust. 16 maggio 2002, C-482/99, Francia c. Commissione, I-4397).
ii) Il secondo presupposto consiste nel conferimento all’impresa beneficiaria di un vantaggio economico reale che essa non avrebbe altrimenti ottenuto nel normale svolgimento della sua attività, a meno che l’importo non sia di poco conto (c.d. regola de minimis). Art. 2 del reg. (CE) n. 1998/2006 della Commissione, del 15 dicembre 2006, relativo all’applicazione degli artt. 87 e 88 [TCE; oggi artt. 107 e 108 TFUE] agli aiuti d’importanza minore (GUUE L 379, 5). Si ritiene in effetti che, fatti salvi alcuni settori specifici (tra cui esportazioni, pesca, acquicoltura e agricoltura), non siano suscettibili di pregiudicare il commercio tra gli Stati membri gli aiuti il cui importo complessivo non superi, per una stessa impresa, la somma di 200.000 euro nell’arco di tre esercizi finanziari, valutando altresì gli aiuti eventualmente ricevuti nel medesimo periodo. Di recente, v. i regolamenti (UE) della Commissione, del 18 dicembre 2013: n. 1407/2013, relativo all’applicazione degli artt. 107 e 108 [TFUE] agli aiuti «de minimis» (GUUE L 352, 1); n. 1408/2013, relativo all’applicazione degli artt. 107 e 108 [TFUE] agli aiuti «de minimis» nel settore agricolo (GUUE L 352, 9); n. 360/2012 relativo all’applicazione degli artt. 107 e 108 [TFUE] agli aiuti «de minimis» concessi ad imprese che forniscono servizi di interesse economico generale (GUUE L 114, 8); n. 717/2014 relativo all’applicazione degli artt. 107 e 108 [TFUE] agli aiuti «de minimis» nel settore della pesca e dell’acquacoltura (GUUE L 190, 45).
Tale vantaggio può avere le forme più varie e può essere anche indiretto, ad esempio nel caso in cui le risorse siano trasferite non all’impresa ma ai clienti della stessa (Corte giust. 28 luglio 2011, C-403/10 P, Mediaset c. Commissione, I-117, pubblicazione sommaria). Si tratta in sostanza di verificare, da un lato, se l’impresa beneficiaria sia stata messa dalla misura in una situazione economica, finanziaria o commerciale più vantaggiosa rispetto a quella precedente e a quella dei concorrenti, e ciò indipendentemente dai risultati effettivi dell’aiuto (e anzi perfino se la situazione dell’impresa evolva in peggio); dall’altro, se l’impresa abbia ricevuto un’agevolazione che non avrebbe ottenuto nelle normali condizioni di mercato. A questo proposito molti problemi ha sollevato la valutazione delle misure adottate da uno Stato (o altra entità pubblica) quando agisce nell’esercizio di un’attività di natura privatistica. Si pensi, in particolare, all’assunzione di una partecipazione in un’impresa, ad aumenti di capitali d’imprese controllate dallo Stato, alla ristrutturazione di simili imprese, alle modalità della loro privatizzazione, e così via. Per assicurare un adeguato controllo sui trasferimenti (dichiarati o occulti) di risorse nelle ipotesi considerate e in genere nei rapporti tra lo Stato e le imprese pubbliche, apposite norme sono state adottate per imporre in materia principi di trasparenza, da ultimo con la dir. 2006/111/CE della Commissione, del 16 novembre 2006, relativa appunto alla trasparenza delle relazioni finanziarie tra gli Stati membri e le loro imprese pubbliche e alla trasparenza all’interno di talune imprese (GUUE L 318, 17).
In linea generale, è ormai acquisito che in questi casi la valutazione della misura come aiuto o meno debba essere effettuata alla luce del c.d. «criterio dell’investitore
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operante in un’economia di mercato». La misura cioè non si configura come un aiuto di Stato qualora le condizioni alle quali sono state trasferite le risorse statali sarebbero state accettabili per un normale operatore privato che agisca in un regime di economia di mercato. Si noti però che il criterio «criterio dell’investitore operante in un’economia di mercato» va valutato in rapporto al contesto nel quale si colloca la misura oggetto di analisi; v. nella ricca giurisprudenza in materia, Corte giust. 21 marzo 1991, C-303/88, Italia c. Commissione (c.d. Lanerossi I), I-1433, e C-305/89, Italia c. Commissione (c.d. Alfa Romeo I), I-1603; 28 gennaio 2003, C334/99, Germania c. Commissione, I-1139; 2 settembre 2010, C-290/07 P, Commissione c. Scott, I7763; 5 giugno 2012, C-124/10, Commissione c. EDF; 24 ottobre 2013, C-214/12 P, C-215/12 P e C-223/12 P, Land Burgenland c. Commissione; 21 dicembre 2016, C-131/15 P, Club Hotel Loutraki.
Per quanto riguarda invece le compensazioni finanziarie che uno Stato accorda alle imprese che esercitano servizi d’interesse economico generale, va osservato che in principio esse non costituiscono un aiuto, dal momento che in tal caso il destinatario beneficia in realtà non di un vantaggio, ma di una remunerazione per il servizio prestato. In effetti, la misura è volta appunto a «compensare», e quindi a riequilibrare lo svantaggio subito dall’impresa per gli oneri di servizio pubblico che la appesantiscono rispetto alle imprese concorrenti. Come si è visto più sopra (retro, p. 626 s.), del resto, l’art. 106, par. 2, TFUE prevede espressamente che le imprese incaricate della gestione di tali servizi sono sottoposte alle regole di concorrenza, solo nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata.
In proposito, la sentenza Altmark ha avuto modo di precisare che detta misura non costituisce un aiuto solo se: i) l’impresa beneficiaria è effettivamente investita in via normativa dell’adempimento di obblighi di servizio pubblico, i quali devono essere definiti in modo chiaro; ii) i parametri sulla base dei quali viene calcolata la compensazione sono previamente definiti in modo obiettivo e trasparente; iii) la compensazione non eccede quanto necessario per coprire interamente o in parte i costi originati dall’adempimento degli obblighi di servizio pubblico, tenendo conto dei relativi introiti e di un margine di utile ragionevole per il suddetto adempimento; iv) in assenza di una procedura di appalto pubblico per selezionare l’impresa da incaricare di siffatto adempimento, il livello della necessaria compensazione è determinato sulla base di un’analisi dei costi di un’impresa media, gestita in modo efficiente e adeguatamente dotata di mezzi al fine di poter soddisfare le esigenze di servizio pubblico pertinenti, tenendo conto dei relativi introiti e di un margine di utile ragionevole per l’adempimento di detti obblighi. Corte giust. 19 marzo 2002, C-280/00, I-7747. Ma v. già prima le conclusioni dell’AG Tizzano, dell’8 maggio 2001, nella causa C-53/00, Ferring, I-9067. La Commissione ha poi fornito importanti chiarimenti in materia di compensazione degli obblighi di servizio pubblico, recependo la giurisprudenza sviluppata al contempo dalla Corte, nella sua comunicazione sull’applicazione delle norme dell’Unione europea in materia di aiuti di Stato alla compensazione concessa per la pre-
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stazione di servizi di interesse economico generale (GUUE C/2012, 8/02). Va anche ricordato che la citata dir. 2006/111, nel quadro della trasparenza da essa imposta, detta appositi meccanismi di separazione contabile per le imprese in causa al fine di evitare sovvenzioni incrociate dalle loro attività di pubblico servizio con le altre eventualmente svolte da dette imprese.
iii) Il vantaggio derivante dall’aiuto deve poi presentare un carattere selettivo, nel senso che deve riguardare soltanto talune imprese o talune produzioni, favorendole rispetto alle altre. Questo esclude dal divieto i provvedimenti di carattere generale, volti a incoraggiare lo sviluppo di attività economiche senza però circoscrivere la propria portata a determinati soggetti o determinati comparti (Corte giust. 15 novembre 2011, C-106/09, Government of Gibraltar, I-11113). In giurisprudenza però si rinvengono al riguardo alcune eccezioni e distinzioni. Per un verso, infatti, la Corte ha affermato che anche una misura di portata generale può considerarsi selettiva, qualora la sua applicazione non sia automatica ma subordinata a una decisione discrezionale dell’autorità pubblica (Corte giust. 17 giugno 1999, C-295/97, Piaggio, I3735); per altro verso, essa ha negato natura di aiuto a una misura che, pur essendo costitutiva di un vantaggio per il suo beneficiario, era giustificata dalla natura o dalla struttura generale del sistema nel quale si inseriva (Corte giust. 8 novembre 2011, C143/99, Adria-Wien Pipeline, I-8365; Government of Gibraltar, cit.) iv), e v) La quarta e la quinta delle condizioni sopra indicate si ricollegano alla sussistenza di un pregiudizio al commercio tra Stati membri e alla concorrenza derivanti dall’adozione di una misura pubblica. In linea di principio, le due condizioni, che sono di solito analizzate congiuntamente dalla giurisprudenza, sono considerate presenti quasi in via automatica ove si accerti che l’impresa beneficiaria compete con altri operatori nel settore di riferimento e che la sua posizione risulta rafforzata rispetto a questi ultimi in conseguenza delle misure in esame.
9. Le deroghe al divieto Il divieto degli aiuti di Stato incompatibili con il mercato interno non ha carattere assoluto, né incondizionato. Anche in considerazione della prevedibile riluttanza degli Stati membri a rinunciare tout court a uno dei principali strumenti di politica economica a livello nazionale, l’art. 107, parr. 2 e 3, TFUE prevede infatti alcune deroghe a tale divieto. Alcune sono previste dal par. 2 della norma, e sono qualificate come eccezioni automatiche, in quanto la compatibilità degli aiuti in esso considerati discende direttamente dal Trattato, sicché il potere di controllo della Commissione si limita alla verifica della sussistenza delle condizioni indicate dalla disposizione. Ai sensi di questa, sono dunque «compatibili con il mercato interno: a) gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall’origine dei prodotti; b) gli aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali; c) gli aiuti concessi all’economia di determinate regioni della Germania che risentono della divisione di tale
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Stato, nella misura in cui sono necessari a compensare gli svantaggi economici provocati da tale divisione». Il potere della Commissione è invece più esteso, e in ogni caso a essa riservato in via esclusiva (Corte giust. 18 luglio 2007, C-119/05, Lucchini, I-6199), rispetto alle c.d. eccezioni discrezionali, di cui al par. 3 dell’art. 107 TFUE. Ai sensi di tale disposizione, «possono considerarsi compatibili con il mercato interno a) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione […]; b) gli aiuti destinati a promuovere la realizzazione di un importante progetto di comune interesse europeo oppure a porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro; c) gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse; d) gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio, quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nell’Unione in misura contraria all’interesse comune; e) le altre categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, su proposta della Commissione» (in questo caso, dunque, ed eccezionalmente, senza la consultazione obbligatoria del Parlamento europeo, anche se in realtà tale potere non è stato quasi mai utilizzato dal Consiglio), o dalla stessa Commissione, se abilitata dal legislatore dell’Unione ad adottare regolamenti (c.d. regolamenti di esenzione per categoria), che individuino ulteriori categorie di aiuti compatibili con il mercato interno e quindi dispensate dall’obbligo di notifica. Art. 108, par. 4, TFUE. Al riguardo, ha provveduto, come noto, il reg. (CE) n. 994/98 del Consiglio, del 7 maggio 1998, sull’applicazione degli artt. 92 e 93 [TCEE; oggi artt. 107 e 108 TFUE] a determinate categorie di aiuti di stato orizzontali (GUCE L 142, 1), il quale ha per l’appunto autorizzato la Commissione ad adottare i regolamenti di esenzione per categoria: v., da ultimo, reg. (UE) n. 651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, che dichiara alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato interno in applicazione degli artt. 107 e 108 del trattato, più volte modificato. Il reg. (CE) n. 994/98 è stato recentemente modificato dal reg. (UE) n. 733/2013 del Consiglio, del 22 luglio 2013 (GUUE L 204, 11), e poi codificato col reg. (UE) n. 2015/1588 del Consiglio, del 13 luglio 2015 (GUUE L 248, 1), al fine di ampliare i settori rispetto ai quali la Commissione può adottare detti regolamenti (tra gli aiuti esentati, quelli a favore delle piccole e medie imprese, della ricerca, dello sviluppo e dell’innovazione, della tutela dell’ambiente, dell’occupazione e della formazione, della cultura e della conservazione del patrimonio, della riparazione dei danni arrecati dalle calamità naturali, della conservazione delle risorse biologiche del mare e di acqua dolce, dello sport, ecc.). Quanto all’art. 107, par. 3, punto b), va segnalato che proprio questa disposizione è stata invocata dalla Commissione per far fronte alla grave crisi economica e finanziaria che scuote l’Unione da alcuni anni. Per evitare infatti che questa crisi mettesse in gioco i principi fondamentali del sistema, essa ha via via cercato di inquadrare i vari interventi pubblici con una serie di comunicazioni, volte segnatamente a consentire agli Stati membri di adottare misure per favorire l’accesso delle imprese al finanziamento sul mercato dei capitali e incoraggiarne gli investimenti: v. da ultimo, comunicazione della Commissione, del 22 gennaio 2009, Quadro di riferimento temporaneo comunitario per le misure di aiuto di Stato a sostegno dell’accesso al finanziamento nell’attuale situazione di crisi finanziaria ed economica (GUUE C 16, 1). Ma sul punto, v. anche infra, p. 694 ss. In giurisprudenza, v. di recente Corte giust. 27 marzo 2014, C-224/12 P, Commissione c. Paesi Bassi e a.; nonché 8 marzo 2016, C-431/14, Grecia c. Commissione.
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La compatibilità degli aiuti di Stato va quindi verificata volta a volta alla luce della possibile sussistenza delle condizioni per dette esenzioni. Per questo motivo, il meccanismo si fonda su un sistema di autorizzazione preventiva e un obbligo di standstill: gli Stati membri devono notificare alla Commissione, appunto per le opportune verifiche, ogni progetto che istituisca un aiuto o modifichi un aiuto esistente, con l’intesa che il progetto non può essere eseguito prima dell’autorizzazione della Commissione (per agevolare le notifiche la Commissione ha addirittura predisposto un modello di notifica unificato, recante tutte le informazioni del caso, specificate secondo le varie ipotesi). Salvo alcune eccezioni, se in violazione dell’obbligo di standstill l’aiuto è stato erogato prima dell’autorizzazione della Commissione, questa ne dichiara l’«illegalità» e ne dispone il recupero, indipendentemente dall’eventuale, successivo accertamento della sua compatibilità con il mercato interno, accertamento che deve comunque proseguire, anche se l’illegalità è insanabile, perché la Commissione non può far discendere da quest’ultima l’automatica incompatibilità dell’aiuto. Come si è già detto, il predetto obbligo è dotato di effetti diretti e quindi la sua violazione potrà essere fatta valere anche dinanzi alle giurisdizioni nazionali, le quali però sono competenti ad accertare solo tale violazione, non potendo spingersi a valutare la compatibilità della misura con il mercato comune, perché al riguardo sussiste la competenza esclusiva della Commissione. Il giudice nazionale può però valutare se la misura ha natura di aiuto, e in caso di dubbio deve rivolgersi in via pregiudiziale alla Corte. In materia v. la già citata (supra, p. 623 s.) comunicazione della Commissione del 2009, relativa all’applicazione delle norme sugli aiuti di Stato da parte dei giudici nazionali, il cui scopo principale è proprio quello di informare i giudici nazionali e i terzi dei rimedi disponibili in caso di violazione delle norme sugli aiuti di Stato, di fornire loro orientamenti sull’applicazione pratica di dette norme e di rafforzare la cooperazione con i giudici nazionali promuovendo strumenti più pratici per sostenerli e facilitare il loro lavoro quotidiano. Sul punto, v. anche, di recente, Corte giust. 21 novembre 2013, C-284/12, Deutsche Lufthansa; nonché ordinanza 4 aprile 2014, C-27/13, Flughafen Lübeck, inedita.
Le specifiche regole procedurali in materia sono dettate dall’art. 108 TFUE, dal citato reg. n. 2015/1589 e da altri atti di diritto derivato. Si segnalano in particolare: reg. (CE) n. 794/2004 della Commissione, del 21 aprile 2004, recante disposizioni di esecuzione del reg. n. 659/1999 del Consiglio (GUUE L 140, 1), nonché una serie di comunicazioni della Commissione, tra le quali quella relativa a una procedura di esame semplificata per determinati tipi di aiuti di Stato, nonché un Codice delle migliori pratiche applicabili in materia (GUUE C 136/2009, 3); la comunicazione del 15 novembre 2007, verso l’esecuzione effettiva delle decisioni della Commissione che ingiungono agli Stati membri di recuperare gli aiuti di Stato illegali e incompatibili (GUUE C 272, 4); la già poc’anzi ricordata comunicazione della Commissione del 2009, relativa all’applicazione delle norme sugli aiuti di Stato da parte dei giudici nazionali.
Il ruolo centrale è svolto, come già accennato, dalla Commissione, che è sola competente a stabilire se una misura costituisca un aiuto di Stato e, all’occorrenza, se questo possa essere autorizzato in virtù delle deroghe appena ricordate. In via ecce-
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zionale però può intervenire anche il Consiglio. In particolare, in virtù dell’art. 108, par. 2, commi 3 e 4, TFUE, a richiesta di uno Stato membro, quando circostanze eccezionali lo giustifichino, il Consiglio, deliberando all’unanimità e in deroga alle disposizioni dell’art. 107 TFUE o ai regolamenti di cui all’art. 109 TFUE, può decidere che un aiuto, istituito o da istituirsi da parte di quello Stato, deve considerarsi compatibile con il mercato interno. Qualora la Commissione abbia già avviato l’indagine formale nei riguardi dell’aiuto in questione, la richiesta avrà l’effetto di sospendere la procedura fino a quando il Consiglio non si sia pronunciato al riguardo; ma se non lo fa entro tre mesi dalla data della richiesta, la Commissione può deliberare (per un interessante caso di contenzioso tra la Commissione e il Consiglio sulle rispettive competenze in materia, v. sentenze 4 dicembre 2013, C-111/10, C-117/10, C-118/10 e C-121/10, Commissione c. Consiglio). Tornando alla procedura per così dire ordinaria, va detto subito che essa assume connotati diversi, a seconda che sia sottoposto a scrutinio un aiuto esistente o un aiuto nuovo. Nella prima categoria rientrano le misure pubbliche che sono state eseguite prima dell’entrata in vigore del Trattato (o dei Trattati di adesione) e che sono ancora applicabili dopo la sua entrata in vigore; nella seconda categoria vanno inclusi, invece, tutti gli altri aiuti individuali o i regimi di aiuti. Si considera «regime di aiuti», ai sensi dell’art. 1, lett. d), reg. 2015/1589, «[l’]atto in base al quale, senza che siano necessarie ulteriori misure di attuazione, possono essere adottate singole misure di aiuto a favore di imprese definite nell’atto in linea generale e astratta e qualsiasi atto in base al quale l’aiuto, che non è legato a uno specifico progetto, può essere concesso a una o più imprese per un periodo di tempo indefinito e/o per un ammontare indefinito».
I primi sono sottoposti a un controllo permanente da parte della Commissione, la quale, se ritiene che essi siano incompatibili con il mercato comune, apre la procedura di indagine formale, chiedendo ai soggetti interessati di presentare le proprie osservazioni. Al termine della procedura (che non ha effetti sospensivi dell’aiuto), e se i dubbi hanno trovato conferma, la Commissione può ordinare allo Stato membro interessato di sopprimere o modificare l’aiuto scrutinato nel termine da essa fissato. Se lo Stato non si conforma, la Commissione può ricorrere direttamente alla Corte ai sensi degli artt. 258 o 259 TFUE, senza che sia necessario avviare la procedura precontenziosa prevista da tali disposizioni (retro, p. 264 ss.). Quanto agli aiuti nuovi, essi devono essere notificati alla Commissione e sono da questa sottoposti a un sollecito (di regola, due mesi) esame preliminare per accertare se si tratta di un aiuto di Stato. Se la Commissione ritiene che la misura non costituisca un simile aiuto di Stato o, in caso contrario, se considera che comunque essa è compatibile con il mercato comune, la procedura si conclude con una decisione di non sollevare obiezioni (ma i controinteressati possono, a determinate condizioni, impugnare tale decisione innanzi al Tribunale dell’Unione). In caso diverso, la Commissione apre senza indugio la procedura d’indagine formale, che è ben più approfondita e contempla l’audizione degli Stati membri e di tutti gli interessati e controinteressati che si siano manifestati. Essa deve concludersi entro diciotto mesi con una decisione con la quale la Commissione dichiara alternativamente: che la misura non costituisce un aiuto di Stato; che essa è compatibile con il mercato interno; o
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che lo è, ma solo nel rispetto di determinati obblighi e condizioni; che la misura non è compatibile e non può essere eseguita. La Corte (segnatamente nella sentenza 15 maggio 1997, C-355/95 P, TWD c. Commissione, I2549, punto 25 s.) ha ad es. ammesso che, nel valutare la compatibilità di un aiuto, la Commissione possa considerare anche il caso che l’impresa sia stata precedentemente beneficiaria di un aiuto dichiarato incompatibile e non ancora recuperato e condizionare quindi l’erogazione del nuovo aiuto al previo e integrale recupero di quello precedente.
Nell’ipotesi di aiuto incompatibile, e ove esso sia già stato in tutto o in parte erogato, lo Stato deve recuperarlo, a meno che, nel momento in cui la Commissione ha avviato l’indagine, non fossero trascorsi dieci anni dal giorno in cui l’aiuto illegale è stato concesso al beneficiario come aiuto individuale o come aiuto rientrante in un regime di aiuti (così l’art. 17 del citato reg. n. 2015/1589). In proposito, la prassi della Commissione e la giurisprudenza sono molto rigorose, e il mancato recupero è tollerato solo in caso di effettiva e comprovata impossibilità assoluta, sulla quale comunque lo Stato deve confrontarsi con la Commissione per valutare, nel quadro del principio di leale collaborazione, tutte le alternative praticabili. Com’è noto, in nome dell’obbligo di recupero la Corte ha addirittura negato rilevanza a una sentenza nazionale passata in giudicato che aveva disatteso la dichiarazione di incompatibilità della Commissione (si tratta della nota sentenza Lucchini, cit.). Occorre poi rilevare che l’obbligo di recupero può persino essere esteso a un soggetto diverso dal beneficiario originario dell’aiuto, qualora il vantaggio competitivo da esso conferito sia trasferito in capo ad un nuovo beneficiario (v., per tutte, Corte giust. 13 novembre 2008, C-214/07, Commissione c. Francia, I-08357; ma v. anche, in senso contrario, le conclusioni dell’AG Tizzano del 19 giugno 2003, nella causa C277/00, Germania c. Commissione, I-3930, poi seguite dalla Corte nella sentenza del 29 aprile 2004, I-3925). Va segnalato che nel quadro della nuova legge sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea (legge 24 dicembre 2012, n. 234, di cui si dirà più avanti; infra, p. 926), il nostro Paese si è dotato per la prima volta di una regolamentazione organica degli aiuti di Stato. Oltre a vari aspetti relativi al coordinamento della materia da parte della Presidenza del Consiglio, alla giurisprudenza TWD, poc’anzi evocata, e agli aiuti pubblici per calamità naturali, vi viene disciplinato il tema del recupero degli aiuti oggetto di una decisione di incompatibilità e recupero della Commissione, nel tentativo di ovviare alle ricorrenti difficoltà che le nostre autorità incontrano nell’attuazione di questo tipo di decisioni. In particolare, la legge prescrive che il ministro competente per materia adotti, entro due mesi dalla notifica della decisione di recupero, un decreto immediatamente esecutivo che – oltre a individuare, nel caso ad es. di aiuti concessi nel quadro di un regime generale, i soggetti tenuti alla restituzione – determini gli importi dovuti, le modalità e i termini del pagamento. Laddove la concessione dell’aiuto sia dovuta a un ente diverso dallo Stato (regione, comune o altro), è stabilito che il provvedimento di recupero sia adottato dall’ente «responsabile» e la riscossione effettuata dal relativo concessionario della riscossione delle entrate (comma 3). Superando poi il precedente sistema che faceva dipendere la designazione del giudice competente dalla forma e dal soggetto erogatore dell’aiuto, l’art. 49 della legge attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative all’esecuzione di una decisione di recupero (così come più in generale quelle concernenti atti e provvedimenti che concedono aiuti di stato in violazione dell’art. 108, par. 3, TFUE), alle quali viene estesa l’applicazione del rito c.d. abbreviato di cui all’art. 119 del nuovo Codice del processo amministrativo, regolato dal d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (GURI del 7 luglio 2010, n. 156, s.o. n. 148). Vengono anche risolti i dubbi cui precedentemente si prestava il
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nostro ordinamento rispetto alla prescrizione dell’obbligo di restituzione di un aiuto di Stato, stabilendo che «indipendentemente dalla forma di concessione dell’aiuto di Stato, il diritto alla restituzione dell’aiuto oggetto di una decisione di recupero sussiste fino a che vige l’obbligo di recupero ai sensi del reg. (CE) 659/1999 del Consiglio del 22 marzo 1999» (art. 51).
II. Le disposizioni fiscali 10. Il divieto d’imposizioni fiscali discriminatorie Come si è già accennato parlando della circolazione delle merci, i divieti imposti dal Trattato ai fini della relativa liberalizzazione vanno completati con gli analoghi divieti di restringere gli scambi intracomunitari attraverso lo strumento fiscale. Si tratta, in effetti, di evitare che gli Stati membri utilizzino tale strumento a fini protezionistici, erigendo per questa via e in altra forma illegittime barriere alla circolazione dei prodotti provenienti dagli altri Stati membri, falsando la concorrenza tra gli stessi (e non è un caso, del resto, che le norme che ci accingiamo a esaminare sono inserite nel Titolo VII, dedicato anche alle norme sulla concorrenza). A questo fine, quindi, il Trattato impone il divieto di applicare ai prodotti degli altri Stati membri imposizioni interne superiori a quelle applicate ai prodotti nazionali similari oppure intese a proteggere indirettamente altre produzioni. Al tempo stesso, esso vieta i ristorni di quelle imposizioni a vantaggio dei prodotti nazionali esportati in un altro Stato membro. Per il primo aspetto, l’art. 110 TFUE dispone infatti che «[n]essuno Stato membro applica direttamente o indirettamente ai prodotti degli altri Stati membri imposizioni interne, di qualsivoglia natura, superiori a quelle applicate direttamente o indirettamente ai prodotti nazionali similari. Inoltre, nessuno Stato membro applica ai prodotti degli altri Stati membri imposizioni interne intese a proteggere indirettamente altre produzioni». Lo specchio di tale divieto è quello che riguarda il ristorno delle esportazioni, per il quale l’art. 111 TFUE dispone che «[i] prodotti esportati nel territorio di uno degli Stati membri non possono beneficiare di alcun ristorno di imposizioni interne che sia superiore alle imposizioni ad essi applicate direttamente o indirettamente». Per l’interpretazione della disposizione si rinvia a quanto si dirà più avanti al riguardo, avvertendo peraltro fin d’ora che la sua importanza è di molto indebolita dal rigore e dall’ampiezza del divieto di aiuti di Stato, che investe evidentemente anche quelli concessi sotto forma di ristorni alle esportazioni. Va anche segnalato in proposito l’art. 112 TFUE, che vieta agli Stati membri, salvo autorizzazione del Consiglio e nel caso comunque solo per un periodo limitato, di accordare esoneri o rimborsi alle esportazioni negli altri Stati membri o introdurre tasse di compensazione applicabili alle importazioni da tali Stati.
Va subito chiarito che, in conseguenza di tali divieti, gli Stati membri non perdono la loro sovranità fiscale, ma sono tenuti a esercitarla nel rispetto delle regole del diritto dell’Unione e segnatamente, per quanto qui interessa, dei divieti appena ricordati, in modo da assicurare l’assoluta neutralità dei tributi imposti ai prodotti nazionali e ai prodotti importati. In conformità a tali finalità, il divieto enunciato dalle
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disposizioni in esame, e in particolare dall’art. 110 TFUE, è assoluto e da interpretare, come emerge anche dalla costante giurisprudenza della Corte, con rigore. Ciò comporta inevitabili conseguenze sotto vari profili, che verranno qui di seguito sviluppati. Anzitutto, va detto che, pur avendo come destinatari gli Stati membri, l’art. 110 TFUE ha efficacia diretta, sicché ne derivano per i singoli diritti che i giudici nazionali devono tutelare. Il divieto in esame opera inoltre quale che sia il soggetto (lo Stato o altro soggetto pubblico) che impone il tributo, quale che sia la forma del provvedimento impositivo, e anche quale che ne sia la portata e l’impatto sugli scambi (Corte giust. 16 febbraio 1977, 20/76, Schöttle, 247; 3 luglio 1985, 277/83, Commissione c. Italia, 2049). Inoltre, esso opera solo se la discriminazione colpisce i prodotti degli altri Stati membri, intendendosi per tali non solo quelli originari di tali Stati, ma anche quelli immessi in libera pratica (v. supra, p. 449 ss.). Il divieto in esame riguarda peraltro solo le imposizioni che colpiscono le merci in quanto tali; quelle che colpiscono in modo discriminatorio servizi o movimenti di capitali ricadono infatti sotto le pertinenti disposizioni. Con riguardo alle merci, poi, esso va tenuto distinto dal divieto di tasse di effetto equivalente ai dazi doganali, di cui all’art. 28 TFUE (supra, ibidem), vuoi perché i due divieti non possono essere applicati cumulativamente, vuoi soprattutto perché le tasse di effetto equivalente colpiscono i prodotti importati per il solo fatto dell’attraversamento della frontiera nazionale, e sono quindi vietate in ogni caso, mentre le imposizioni di cui all’art. 110 TFUE lo sono solo se hanno carattere discriminatorio (e quindi protezionistico) a vantaggio dei prodotti nazionali. Va detto peraltro che in concreto la distinzione non è sempre facile. Stando alla corposa giurisprudenza della Corte, si può dire in termini generali che l’imposta vietata ai sensi dell’art. 110 TFUE deve far parte di un sistema generale di tributi interni che colpisce sistematicamente il prodotto nazionale e l’identico prodotto importato con criteri obiettivi e non discriminatori (stessa imposta, stesso stadio commerciale e stesso fatto generatore dell’imposta). Ma può rilevare anche la destinazione del gettito del prelievo fiscale se favorisce i prodotti nazionali. V., fra le tante, Corte giust. 28 gennaio 1981, 32/80, Kortmann, 251; 23 aprile 2002, C234/99, Nygård, I-3657; 8 giugno 2006, C-517/04, Koornstra, I-5015; 15 giugno 2006, C-393/04 e C-41/05, Air Liquide Industries, I-5293.
Per quanto riguarda il rapporto tra la normativa in esame e quella sugli aiuti di Stato, basterà osservare che una medesima imposizione potrà al tempo stesso ricadere sotto l’una e l’altra, sicché non può essere esclusa in questo caso l’applicazione cumulativa delle pertinenti disposizioni, naturalmente nel rispetto delle condizioni e delle procedure rispettive. Per i motivi sopra indicati, va interpretata ugualmente con ampiezza la nozione di «imposizione interna», avendo peraltro presente che, sebbene non possa escludersi che il divieto copra anche le imposte dirette, sono soprattutto le imposte indirette che, anche alla luce della prassi, vengono qui in considerazione. Si deve ritenere quindi, anche in conformità alla giurisprudenza della Corte, che vi ricada qualsiasi prelievo fiscale obbligatorio che colpisca le merci direttamente o indirettamente, in-
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tendendosi con questi due avverbi che sono vietate le imposizioni che colpiscano la merce in uno qualsiasi degli stadi che ne caratterizzano la produzione, o che riguardino la base imponibile o le modalità di riscossione, o, ancora, che colpiscano il semplice utilizzo di quel prodotto. Ciò posto, va sottolineato che l’art. 110 TFUE distingue tra due aspetti del divieto in esame. Questo assume infatti contorni diversi a seconda che si tratti di prodotti nazionali e importati tra loro similari oppure di prodotti diversi ma legati da un rapporto di concorrenzialità. Nel primo caso, il divieto opera per il solo fatto che il tributo sia meno oneroso per i prodotti nazionali che per quelli importati «similari», cioè per i prodotti che siano in tutto e per tutto a essi comparabili; nel secondo, si tratta di verificare se il tributo è volto a proteggere indirettamente produzioni nazionali che siano solo concorrenziali rispetto ai prodotti importati. In tal caso, evidentemente, l’area dei prodotti colpiti è più ampia, ma il divieto è meno severo perché, a differenza del primo, qui le differenziazioni impositive sono vietate solo se producono effetti protezionistici a vantaggio dei prodotti nazionali. Con ciò, però, non si sono ancora rimossi tutti i dubbi sulla concreta distinzione tra prodotti similari e prodotti concorrenti. In proposito sono state avanzate varie soluzioni, ma, malgrado gli sforzi, la linea di distinzione resta ancora fluida, e sembra aver raggiunto tale conclusione anche la Corte, la cui giurisprudenza sempre più si orienta nel senso di un’applicazione cumulativa dei due commi dell’art. 110 TFUE, evitando la difficile ricerca di criteri distintivi. Quando vi ha proceduto, comunque, la Corte ha mostrato una decisa tendenza a privilegiare un’interpretazione estensiva del comma 1 dell’art. 110 TFUE, e segnatamente della nozione di prodotti «similari», riducendo il comma 2 della stessa disposizione ad un’applicazione residuale. A tal fine, posto che tale aggettivo esclude che si possa esigere un’identità tra i prodotti, essa ha cercato di individuare i criteri per far emergere almeno l’analogia o la comparabilità tra gli stessi, facendo leva congiuntamente sulle loro caratteristiche obiettive (origine, processo di fabbricazione, gusto, ecc.) e sul loro impatto sui consumatori, sul fatto cioè che dal punto di vista di questi ultimi essi abbiano proprietà analoghe o rispondano alle medesime esigenze. Sono invece in situazione di mera concorrenzialità i ben più numerosi prodotti, sicuramente differenti da quelli nazionali, ma che ugualmente si presentano agli occhi dei consumatori come sostituibili, alternativi a questi ultimi, in quanto volti a soddisfare le stesse esigenze. E ciò anche se la sostituibilità non è che parziale o addirittura solo potenziale, perché occorre tener conto delle possibilità di evoluzione del mercato (ad es. sono stati considerati concorrenziali: il rhum e le acquaviti di vino, il whisky e l’ouzo, le banane e altri tipi di frutta, la birra e certi tipi di vino, ecc.). Come si è visto, se la similarità sussiste, scatta il divieto d’imposizione fiscale discriminatoria rispetto ai prodotti importati. Una simile discriminazione ricorre sia quando è diretta e palese, come nei casi di aliquote differenziate, sia quando è indiretta. In tal caso, essa andrà accertata in rapporto all’incidenza effettiva del tributo sul prodotto nazionale e su quello importato, incidenza da verificare sulla base di ogni elemento utile, come ad esempio eventuali diversità quanto ai metodi di calcolo dell’imposta, alla base imponibile, alle condizioni di pagamento dell’imposta, alle modalità della sua riscossione, alla concessione di eventuali esenzioni, alla destina-
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zione del relativo gettito, e così via. Per quanto riguarda invece i prodotti concorrenziali, come si è già anticipato, la diversità «quantitativa» dell’imposizione non basta per giustificare l’applicazione del divieto; occorre altresì verificare se essa comporti una protezione del prodotto nazionale tale da provocare una distorsione negli scambi commerciali tra Stati membri. Alla luce dei criteri indicati, inoltre, va accertata anche la legittimità, rispetto ad entrambe le ipotesi considerate, di eventuali sistemi di agevolazioni fiscali concesse dallo Stato, che devono ugualmente incidere in modo non discriminatorio quanto al loro ambito di applicazione, alla loro entità, alle condizioni e alle modalità di concessione, e così via. Da ultimo, va ricordato che, anche rispetto alla violazione del divieto in esame, vale il principio di cui si è detto a proposito dell’analogo divieto alla restrizione della circolazione delle merci, secondo cui il pagamento d’imposizioni non dovute ai sensi delle disposizioni in esame conferisce agli interessati il diritto di ripetere le somme indebitamente versate (ripetizione dell’indebito). Valgono qui gli stessi principi evocati in quella occasione (p. 453 s.).
11. L’armonizzazione fiscale. Le imposte indirette Malgrado il loro rigore, i divieti di cui si è fin qui discusso non possono compensare la diversità dei sistemi fiscali degli Stati membri e i riflessi negativi che questo solo fatto, anche quindi ove non ricorrano le condizioni per l’applicazione di quei divieti, comporta ai fini della realizzazione di un autentico mercato unico. Come si è ricordato più sopra, infatti, il Trattato limita, ma non sopprime la sovranità nazionale in materia fiscale, con la conseguenza che l’esercizio della stessa determina un’inevitabile difformità dei relativi sistemi e, con essa, rischi di alterazione delle condizioni di concorrenza nel mercato unico. Per superare o almeno contenere tali rischi, il Trattato detta apposite previsioni volte ad assicurare un’armonizzazione delle legislazioni fiscali nazionali. La principale tra queste è l’art. 113 TFUE, che ha ad oggetto per l’appunto «l’armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte sulla cifra d’affari, alle imposte di consumo ed altre imposte indirette, nella misura in cui detta armonizzazione sia necessaria per assicurare l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno ed evitare le distorsioni di concorrenza». Va ricordato che la disciplina generale in materia di ravvicinamento delle legislazioni, come vedremo, è consegnata all’art. 114 TFUE, che però espressamente esclude dal proprio campo di applicazione proprio le disposizioni fiscali (par. 2). Esclusione che non risulta invece dall’art. 115 TFUE, rispetto al quale quindi l’art. 113 TFUE funge da norma speciale.
La norma si riferisce alle sole imposte indirette (di quelle dirette diremo più avanti) e prevede che, con procedura legislativa speciale (quindi all’unanimità e con la mera consultazione del PE), il Consiglio adotti apposite misure (di regola, direttive) volte ad armonizzare le legislazioni nazionali in materia, per quanto necessario alla realizzazione del mercato interno e a evitare per l’appunto che la concorrenza sia in esso falsata. In particolare, essa menziona esplicitamente l’imposta sulla cifra d’affa-
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ri, le imposte di consumo e altre imposte indirette, non determinate, ma come vedremo tra breve, assai numerose. a) Con la prima di dette imposte, si fa riferimento all’imposta sul valore aggiunto (IVA), cioè all’imposta generale sui consumi che incide sull’incremento di valore di un bene o di un servizio a ogni stadio del processo di produzione e distribuzione dello stesso, e che si ripercuote in via esclusiva sul consumatore finale attraverso un sistema di detrazioni. Com’è noto, è rispetto a questa imposta che si sono registrati i più corposi interventi normativi di armonizzazione fiscale. E ciò al termine di un lungo processo legislativo che ha attraversato varie tappe per adattare detti interventi agli sviluppi del processo d’integrazione e alla progressiva realizzazione del mercato interno. Si ricorda a questo proposito che nel frattempo la dec. 70/243/CECA, CEE, Euratom del Consiglio, del 21 aprile 1970 (GUCE L 94, 19) aveva inserito i proventi dell’IVA fra le fonti di finanziamento autonome (c.d. risorse proprie) delle Comunità, sostituendo quella tradizionale che derivava dai contributi finanziari degli Stati membri. Fu infatti previsto all’art. 4, par. 1, della dec. 70/243, che, a decorrere dal 1° gennaio 1975, il bilancio delle Comunità sarebbe stato integralmente finanziato con risorse proprie, comprensive di quelle «[…] provenienti dall’imposta sul valore aggiunto ed ottenute mediante applicazione di un tasso che non può superare l’1% ad una base imponibile determinata in modo uniforme per gli Stati membri, secondo norme comunitarie».
Si inizia in effetti dalle dir. del Consiglio 67/227/CEE, dell’11 aprile 1967 (GUCE n. 71, 1301), 67/228/CEE dell’11 aprile 1967 (GUCE n. 71, 1303) e 68/221/CEE del 30 aprile 1968 (GUCE L 115, 14), concernenti rispettivamente l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari (detta anche «Prima Direttiva»), la struttura e le modalità di applicazione del sistema comune di imposta sul valore aggiunto («Seconda Direttiva»), e l’istituzione di un metodo comune per il calcolo delle aliquote medie previste all’epoca dall’art. 97 TCEE, per arrivare, dopo varie altre misure, al risultato per l’epoca di maggior rilevo: la dir. 77/388/CEE, del Consiglio, del 17 maggio 1977 (GUCE L 145, 1), nota come Sesta Direttiva IVA, che armonizzava la base imponibile di tale imposta. Ad essa, dopo varie modifiche intermedie, ha fatto seguito la dir. 2006/112/CE, del Consiglio, del 28 novembre 2006 (GUUE L 347, 1), relativa al sistema comune di imposta sul valore aggiunto, nota come Direttiva IVA, attualmente in vigore, anche se con le varie modifiche sopravvenute. Senza successo è però rimasto per ora il tentativo, in atto da anni, di spostare il centro di gravità di tale imposta dal paese di destinazione, come avviene oggi, a quello di origine e quindi di semplificare e razionalizzare il sistema. La direttiva assoggetta all’IVA tutte le operazioni (si tratti di cessioni di beni, di acquisti intracomunitari, di prestazioni di servizi o di importazioni di beni da paesi terzi) effettuate a titolo oneroso sul territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale, nonché le importazioni effettuate da qualsiasi persona. Deve ritenersi «soggetto passivo» chiunque eserciti, «in modo indipendente» e in qualsiasi luogo, a prescindere dallo scopo o dai risultati, un’attività economica, anche a titolo occasionale, inclusi lo Stato o qualsiasi ente pubblico quando effettuano operazioni commerciali. Sono peraltro previsti anche alcuni regimi speciali (per le
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piccole imprese, i produttori agricoli, le agenzie di viaggio, i servizi prestati per via elettronica, e così via). La direttiva detta ovviamente anche norme per la determinazione del luogo delle operazioni, nonché per l’individuazione del fatto generatore dell’imposta, per la sua esigibilità, per la determinazione della base imponibile e dell’aliquota. Per quest’ultima è previsto, in particolare, che fino al 31 dicembre 2015 essa non possa essere inferiore al 15%, con la possibilità tuttavia che, per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, gli Stati membri introducano una o due aliquote ridotte a una percentuale che non può essere inferiore al 5%. Sono altresì accordate alcune esenzioni e detrazioni. b) L’armonizzazione è poi prevista dall’art. 113 TFUE per le accise, vale a dire le imposte sulla fabbricazione e la vendita di alcuni tipi di prodotti e servizi che il produttore (o il rivenditore) applica, con aliquote rapportate all’unità di misura o quantità del prodotto, al momento della produzione o della vendita e che poi trasferisce sul prezzo di vendita al consumatore. In materia si segnala la dir. 92/12/CEE, del Consiglio, del 12 febbraio 1992 (GUCE L 76, 1), che dettò il regime generale dei prodotti sottoposti alle accise e ad altre imposte indirette gravanti sul consumo, con l’intesa che tale regime si applicava agli oli minerali, all’alcol e alle bevande alcoliche, e ai tabacchi lavorati, in attesa delle specifiche direttive che sarebbero state adottate per ciascuno di quei prodotti, e che poi sono via via effettivamente arrivate. La successiva dir. 2008/118/CE, del Consiglio, del 16 dicembre 2008 (GUUE L 9/2009, 12) ha poi abrogato la dir. 92/12/CEE e ha definito il nuovo regime generale delle accise relativo ai prodotti sopra ricordati, nonché ai prodotti energetici e dell’elettricità. c) Tra le «altre imposte indirette» di cui parla l’art. 113 TFUE, vanno segnalate le imposte sulla concentrazione di capitali e sulle operazioni su titoli, oggetto della dir. 2008/7/CE, del Consiglio, del 12 febbraio 2008 (GUUE L 46, 11), concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali. Ma vale la pena ricordare in proposito anche il tentativo di introdurre un’imposta sulle transazioni finanziarie (ITF), imposta ipotizzata (sia pur tra molte polemiche) a seguito della recente crisi finanziaria nell’intento, tra l’altro, di far partecipare il settore finanziario ai costi della crisi e di scoraggiare le attività a eccessivo tasso di rischio da parte delle banche. In proposito, la Commissione si era anche spinta a presentare una proposta di direttiva concernente un sistema comune d’imposta sulle transazioni finanziarie e recante modifica della dir. 2008/7 (v. COM (2011) 594 def., del 28 settembre 2011), ma tale proposta ha incontrato forti resistenze e si è rapidamente arenata. Alcuni Stati membri hanno allora deciso di dare avvio ad una cooperazione rafforzata in materia, autorizzata poi con dec. 2013/52/UE, e su questa base, la Commissione ha quindi presentato una nuova proposta di direttiva per attuare tale cooperazione rafforzata. V. COM (2013) 71 def., del 14 febbraio 2013. Ad oggi, però, la direttiva non è ancora stata adottata e le discussioni proseguono (v. le conclusioni dell’ECOFIN del 17 giugno 2016). Per la cooperazione rafforzata, v. dec. del Consiglio, del 22 gennaio 2013 (GUUE L 22, 11), impugnata dal Regno Unito peraltro senza successo (v. Corte giust. 30 aprile 2014, C-209/13, Regno Unito c. Consiglio). Alla cooperazione rafforzata in questione partecipano 11 Stati membri (Belgio, Germania, Estonia, Grecia, Spagna, Francia, Italia, Austria, Portogallo, Slovenia e Slovacchia).
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d) Sulla base dell’art. 113 TFUE (e, quando necessario, dell’art. 115 TFUE), sono poi state adottate numerose direttive che prevedono franchigie fiscali a vantaggio dei privati (in particolare, per il traffico internazionale di viaggiatori, l’importazione temporanea di taluni mezzi di trasporto, gli acquisti in franchigia effettuati da viaggiatori intracomunitari, l’importazione di merci oggetto di piccole spedizioni a carattere non commerciale provenienti da paesi terzi, l’introduzione definitiva di beni personali di privati provenienti da uno Stato membro), nonché norme per la cooperazione amministrativa tra gli Stati membri in materia fiscale e per la lotta contro la frode in tema di imposte indirette. Per la cooperazione amministrativa, va segnalata in particolare la dir. 2011/16/UE del Consiglio, del 15 febbraio 2011, relativa alla cooperazione amministrativa nel settore fiscale (GUUE L 64, 1), più volte modificata, che ha sostituito la storica dir. 77/799/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1977 (GUCE L 336, 15), che riguardava le sole imposte dirette (v. di recente al riguardo, Corte giust. 22 ottobre 2013, C-276/12, Sabou; 16 maggio 2017, C-682/15, Berlioz Investment Fund).
12. Segue : Le imposte dirette A differenza di quanto si è appena detto per l’armonizzazione in materia di imposte indirette, nulla è previsto per quella relativa alle imposte dirette, vale a dire per le imposte che colpiscono le manifestazioni immediate della capacità contributiva del soggetto passivo: la ricchezza posseduta (patrimonio) ovvero il frutto di una prestazione o di un servizio (reddito). Per tali imposte l’armonizzazione potrà quindi realizzarsi, a parte la solita clausola di flessibilità di cui all’art. 352 TFUE (p. 415 ss.), solo attraverso il generale strumento del ravvicinamento delle legislazioni di cui agli artt. 114 e 115 TFUE (infra, p. 661 ss.). Fino ad allora, come la stessa Corte ha da sempre riconosciuto, gli Stati membri non vedono la propria competenza in materia intaccata dal diritto dell’Unione, né del resto essi si mostrano disponibili, almeno da quanto finora emerge, ad accettare interferenze in un settore fondamentale per le scelte non solo di politica economica, ma di politica tout court. Questo non vuol dire che in materia non si registrino, oltre a quelle per la cooperazione amministrativa tra gli Stati membri (come si è appena visto), direttive di armonizzazione o raccomandazioni volte alla medesima finalità, ma di certo i risultati non sono neppure alla lontana comparabili con quanto è avvenuto per le imposte indirette e con quanto sarebbe necessario per la realizzazione di un autentico mercato unico. Le direttive fin qui adottate riguardano soprattutto la materia societaria. Si segnalano, in particolare: per quanto riguarda la tassazione degli utili, la dir. 2003/49/CE del Consiglio, del 3 giugno 2003 (GUUE L 157, 49), sul regime fiscale comune applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni tra società consociate di Stati membri diversi, più volte modificata; la dir. 2009/133/CE del Consiglio, del 19 ottobre 2009 (GUUE L 310, 34), relativa al regime fiscale comune da applicare alle fusioni, alle scissioni, alle scissioni parziali, ai conferimenti di attivo ed agli scambi di azioni concernenti società di Stati membri diversi e al trasferimento della sede sociale di una società europea (SE) e di una società cooperativa europea (SCE) tra Stati membri; la dir. 2011/96/UE del Consiglio, del 30 novembre 2011 (GUUE L 345, 8), sul regime fiscale comune applicabile alle so-
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cietà madri e figlie di Stati membri diversi. In materia di doppia imposizione, invece, rileva la Convenzione di Bruxelles, del 23 luglio 1990, relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate (GUCE L 225, 10), variamente modificata in seguito da altri accordi e atti comunitari, e rafforzata sul piano politico da un Codice di condotta, adottato da una risoluzione del Consiglio e dei rappresentanti dei Governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio, del 27 giugno 2006 (GUUE C 176, 8). Per quanto concerne le imposte sui redditi delle persone fisiche, vanno ricordate tra l’altro: la raccomandazione 94/79/CE della Commissione, del 21 dicembre 1993, relativa alla tassazione di taluni redditi percepiti in uno Stato membro da soggetti residenti in un altro Stato membro (GUCE L 39, 22), la dir. 2003/48/CE del Consiglio, del 3 giugno 2003, in materia di tassazione dei redditi da risparmio sotto forma di pagamenti di interessi (GUUE L 157, 38), più volte modificata e poi abrogata dalla dir. 2015/2060/UE, del Consiglio del 10 novembre 2015, (GUUE L 301, 1); la raccomandazione 2011/856/UE della Commissione, del 15 dicembre 2011, relativa a misure intese ad evitare la doppia imposizione in materia di successioni (GUUE L 336, 81). Merita poi di essere segnalata anche la citata dir. 2009/65/CE del PE e del Consiglio, del 13 luglio 2009 (GUUE L 302, 32), più volte modificata, relativa al coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative in materia di taluni organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM) (v. supra, p. 517). Va infine ricordata, in relazione a questa materia, la dir. 2011/16/UE del Consiglio, relativa appunto alla cooperazione amministrativa nel settore della fiscalità diretta; dir. 2016/1164/UE, del Consiglio, del 12 luglio 2016, recante norme contro le pratiche di elusione fiscale che incidono direttamente sul mercato interno (GUUE L 191, 1).
Come per altri casi analoghi, tuttavia, la Corte non ha mancato di esercitare un ruolo di supplenza del legislatore dell’Unione al fine di ovviare alle conseguenze negative di tale situazione, ma anche d’indiretto stimolo per interventi normativi. A tal fine, partendo dal principio, già ricordato, che la pur incontestata (e, senza armonizzazione legislativa, incontestabile perfino dall’Unione) sovranità fiscale degli Stati membri deve fare i conti con il rispetto dei principi generali e delle libertà fondamentali proclamate dal diritto dell’Unione (v. Corte giust. 14 febbraio 1995, C-279/93, Schumacher, I-225), e svolgendo quella che è stata definita un’azione d’integrazione negativa, essa ha via via colpito le legislazioni nazionali incompatibili e al tempo stesso ha indicato agli Stati membri le linee per comportamenti virtuosi. Sintetizzando in modo necessariamente schematico una giurisprudenza che è ormai assai consistente, si può dire che anche in questa materia la stella polare resta il principio della parità di trattamento fiscale e quindi il divieto di qualsiasi discriminazione che possa impedire, ostacolare o comunque rendere più oneroso l’esercizio delle libertà fondamentali. E anche qui le discriminazioni vietate non sono solo quelle dirette, in primis quelle fondate sulla nazionalità, ma anche le discriminazioni indirette o dissimulate, purché si tratti di situazioni comparabili. E di regola quelle dei contribuenti residenti e dei contribuenti non residenti non lo sono, dato che lo Stato membro ha competenze fiscali solo rispetto ai primi (Corte giust. Schumacker, cit.; 7 settembre 2004, C-319/02, Manninen, I-1747; 14 novembre 2006, C-513/04, Kerchaert e Morres, I-10967; 22 dicembre 2008, C-282/07, Truck Center, I-10767. In termini generali, v. tra le più recenti: Corte giust. 1° luglio 2010, C-233/09, Dijkman, I-6649; 31 marzo 2011, C-450/09, Schröder, I-2497; 30 giugno 2011, C-262/09, Meilicke e a., I-5669; 5 febbraio 2014, C-385/12, Hervis Sport– és Divatkereskedelmi; 8 giugno 2017, C-580/15, Van der Weegen e a.
L’applicazione di questi principi si diversifica a seconda che riguardi le persone
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fisiche ovvero le persone giuridiche. Per le prime, com’è noto, gli Stati membri esercitano la propria competenza fiscale sulla base del principio di territorialità, e su questa base dette persone sono imponibili, in principio, sull’insieme dei loro redditi a livello mondiale, nel quadro di un regime detto «dell’imposizione illimitata». Al contrario, i non residenti sono tassati solamente nei limiti dei redditi percepiti nello Stato in cui tali redditi sono prodotti (regime detto «dell’imposizione limitata»). Tale diversità, ove sia realmente accertata, può legittimare una differenza di trattamento, dato che il reddito percepito da una persona sul territorio di uno Stato membro nel quale non è residente è spesso solo una parte del suo reddito complessivo. V. la citata sentenza Schröder. La diversità di cui nel testo non sussiste, ad es., tra un lavoratore non residente rispetto a un lavoratore residente se il primo percepisce una parte significativa del proprio reddito e la gran parte delle proprie risorse imponibili nello Stato presso il quale esercita la propria attività lavorativa: Corte giust. 1° luglio 2004, C-169/03, Wallentin, I-6443.
Ma la Corte ha individuato varie altre situazioni nelle quali non è giustificato distinguere tra contribuenti residenti e non residenti. Ad es., se decide di concedere ai contribuenti residenti un diritto alla riduzione di talune spese (professionali), lo Stato membro non potrà rifiutare tale trattamento ai contribuenti non residenti se le spese in questione erano legate direttamente all’attività che aveva generato il reddito imponibile (Corte giust. 12 giugno 2003, C-234/01, Gerritse, I-5933).
Per quanto riguarda le persone giuridiche, viene qui in rilievo soprattutto la tassazione dei dividendi. Come noto, questi sono suscettibili di essere tassati sia in capo alla società distributrice, in quanto benefici realizzati, che in capo al socio o alla società azionisti della prima, in quanto reddito percepito. Ciò col risultato che, specie nelle situazioni transfrontaliere rilevanti per le libertà fondamentali dell’Unione, può verificarsi una doppia imposizione economica, per evitare la quale gli Stati membri apprestano, unilateralmente o con apposite convenzioni, appropriati meccanismi. Anche qui la Corte ha fornito utili indicazioni su vari casi dubbi, attenendosi rigorosamente al principio secondo cui, ove adotti misure per evitare il verificarsi di una doppia imposizione, lo Stato membro in cui ha sede la società interessata deve accordare ai dividendi versati da società non residenti lo stesso trattamento riservato ai dividendi versati da società residenti, in modo da sottoporre entrambi al medesimo carico fiscale. V. tra le tante, Corte giust. 14 dicembre 2006, C-170/05, Denkavit Internationaal e Denkavit France, I-11949; 19 novembre 2009, C-540/07, Commissione c. Italia, I-10983; 10 maggio 2012, da C-338/11 a C-347/11, Santander Asset Management; nonché, più di recente, 26 maggio 2016, C48/15, NN (L); 17 maggio 2017, C-68/15, X, e C-368/16, AFEP.
È appena il caso di avvertire peraltro che anche le legislazioni nazionali qui considerate possono essere giustificate, ove incompatibili, in nome di quelle esigenze imperative d’interesse generale che sono state già più volte evocate a proposito delle libertà fondamentali (pp. 487 s. e 510 s.). Nella specie rilevano, in particolare, la conservazione della ripartizione del potere d’imposizione tra gli Stati membri, la
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coerenza del regime fiscale nazionale, l’efficacia dei controlli fiscali, la lotta contro la frode fiscale e la tutela dell’effettività dei controlli e degli accertamenti tributari. Non possono invece essere invocate esigenze prettamente economiche, né l’intento di evitare il c.d. «forum shopping», cioè la nota prassi di sfruttare la difformità delle legislazioni fiscali nazionali per allocare i redditi nello Stato che preveda le condizioni fiscali più vantaggiose. V., per le varie ipotesi, Corte giust. 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes, I-7995; 14 settembre 2006, C-386/04, Centro di Musicologia di Walter Staffer, I-8203; 27 novembre 2008, C-418/07, Papillon, I-8947; 17 settembre 2009, C-182/08, Glaxo Wellcome, I-8591; 17 ottobre 2013, C-181/12, Welte.
III. Il ravvicinamento delle disposizioni legislative 13. La disciplina generale Le norme direttamente collegate alla realizzazione del mercato interno si chiudono con il Capo III del Titolo VII (artt. 114-118 TFUE), dedicato al ravvicinamento delle legislazioni. Sebbene abbia l’aria di essere una normativa per così dire residuale nel quadro della realizzazione del mercato interno, in realtà questo gruppo di articoli svolge un ruolo fondamentale per il successo di tale mercato. Se infatti alcune prescrizioni dei Trattati volte a questo risultato sono di diretta applicazione e non abbisognano quindi di ulteriori interventi delle istituzioni, per una vasta gamma di situazioni è solo con apposite misure di armonizzazione delle pertinenti legislazioni nazionali che l’obiettivo può essere conseguito. Si è visto più volte, d’altra parte, che proprio l’assenza di armonizzazione giustifica le deroghe di portata generale fondate sulle esigenze imperative di interesse generale (supra, p. 487 s.). In alcuni casi, sono le stesse disposizioni settoriali a fondare un potere normativo del legislatore dell’Unione per gli appropriati interventi (v., ad es., artt. 50, par. 2, lett. g); 52, par. 2; 53; 113; 151, comma 3; 153, par. 2, comma 1; 191, par. 2, TFUE), così come altre, in ossequio all’art. 2, par. 5, TFUE, si preoccupano di escludere detto potere (v., ad es., artt. 165, par. 4, primo trattino; 166, par. 4; 167, par. 5, primo trattino; 168, par. 5, TFUE. In generale, comunque, l’art. 2, par. 5, TFUE, esclude che le competenze di sostegno, di coordinamento o di completamento possano comportare un’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri). Ma, al di là di questi casi specifici, sono le norme ora in esame a offrire lo strumento di base per eliminare le differenze esistenti tra le normative degli Stati membri pregiudizievoli per il funzionamento del mercato interno (cfr., ex multis, Corte giust. 3 luglio 2012, C-128/11, UsedSoft). Il Trattato non definisce la nozione di ravvicinamento delle legislazioni nazionali, ma per comune opinione esso implica il coordinamento, rispetto a determinate materie, degli ordinamenti degli Stati membri, che, senza implicare necessariamente
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una vera e propria uniformizzazione degli stessi, permetta quanto meno di renderli omogenei e reciprocamente compatibili. Si distingue solitamente tra vari tipi di armonizzazione secondo la portata della stessa (totale, parziale, opzionale, minimale), con l’intesa che nei settori armonizzati viene preclusa agli Stati membri l’adozione di qualsiasi normativa divergente, mentre negli altri essi possono anche adottare norme più rigorose, ma in nessun caso devono pregiudicare l’effetto utile di quelle armonizzate. La base giuridica in materia è costituita, come si è anticipato, dagli artt. 114 e 115 TFUE. Il primo, a portata più generale, si applica in presenza di disposizioni nazionali che abbiano per «oggetto» l’istaurazione e il funzionamento del mercato interno, mentre al secondo si ricorre se quelle disposizioni abbiano al riguardo un’«incidenza diretta». La distinzione non ha implicazioni solo teoriche, non foss’altro perché nei due casi è diversa la procedura decisionale. In effetti, la prima disposizione contempla il ricorso alla procedura legislativa ordinaria, mentre la seconda impone il ricorso alla procedura legislativa speciale, che prevede l’unanimità in seno al Consiglio e la mera consultazione del Parlamento europeo. Da questo punto di vista, va sottolineato che il Trattato di Lisbona rovescia il precedente schema (artt. 94 e 95 TCE) che riservava invece la seconda procedura alla norma di più ampia portata (art. 94 TCE; oggi art. 115 TFUE), e all’altra (art. 95 TCE; oggi art. 114 TFUE) la più partecipata procedura legislativa ordinaria. Ciò posto, va detto subito che la distinzione tra le due ipotesi in considerazione pare piuttosto evanescente, al punto che se ne è messa addirittura in dubbio la fondatezza, la scelta tra di esse riducendosi ad una mera questione di praticabilità dell’una o dell’altra procedura in relazione alle maggioranze disponibili. Ferme restando le incertezze sul punto, si può dire in linea di massima, e alla luce di una giurisprudenza che comunque è parsa piuttosto generosa quanto alle condizioni di applicazione di tale disposizione, che l’art. 114 TFUE si riferisce alle ipotesi in cui la difformità delle disposizioni nazionali rappresenti un ostacolo all’esercizio delle libertà fondamentali previste dai Trattati e incida direttamente sul funzionamento del mercato interno, oppure determini sensibili alterazioni alla concorrenza (v. Corte giust. 10 febbraio 2009, C-301/06, Irlanda c. Parlamento e Consiglio, I-593; 8 giugno 2010, C-58/08, Vodafone e a., I-4999). Più ampia invece è la portata dell’art. 115 TFUE, che si estende alle ipotesi in cui la difformità abbia solo un’influenza sul perseguimento di quegli obiettivi; e proprio questa più ampia potenzialità di applicazione della norma spiegherebbe perché il Trattato imponga qui una procedura più rigorosa. Oggetto dell’intervento delle istituzioni dell’Unione è qualunque tipo di disposizione (legislativa, regolamentare e amministrativa) nazionale, indipendentemente dal rango e dalla natura della stessa e delle autorità da cui promanano, anche se l’inclusione delle disposizioni amministrative ha suscitato qualche perplessità. Nell’adozione delle misure in esame il legislatore dell’Unione dispone di un ampio margine di discrezionalità. Questa riguarda anzitutto il tipo di atto da utilizzare al riguardo, anche se la direttiva, per sua natura, si presta meglio alla bisogna; ma essa riguarda anche le modalità e la tecnica dell’armonizzazione in funzione del risultato perseguito, avendo presente che quest’ultima non si esaurisce necessariamente in
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un singolo atto, potendo le istituzioni riproporne altri in funzione delle eventuali modificazioni delle circostanze o all’evoluzione delle conoscenze che si registrano nella materia oggetto di intervento (v. Corte giust. 12 dicembre 2006, C-380/03, Germania c. Parlamento e Consiglio, I-11573; 8 giugno 2010, C-58/08, Vodafone e a., I-4999). Il potere delle istituzioni non è però illimitato; esso incontra infatti limiti di carattere generale e altri, più specifici, indicati dallo stesso art. 114 TFUE. Quanto ai primi, va detto che le misure adottate devono avere come obiettivo il miglioramento delle condizioni d’instaurazione e di funzionamento del mercato interno, e devono comunque rispettare i principi generali di sussidiarietà e proporzionalità (art. 5 TUE; Corte giust. 14 dicembre 2004, C-210/03, Swedish Match, I-11893, e C-434/02, Arnold André, I-11825; 2 maggio 2006, C-436/03, Parlamento c. Consiglio, I-3733). Può inoltre in qualche modo essere ricondotta alle esigenze sottostanti a tali condizioni la previsione di cui al par. 10 della norma in esame, secondo il quale tutte le misure di armonizzazione su di essa fondate comportano, «nei casi opportuni», una clausola di salvaguardia, che autorizza gli Stati membri ad adottare misure provvisorie fondate su una o più delle esigenze non economiche previste all’art. 36 TFUE (supra, p. 402 ss.). Quanto ai limiti specifici espressamente previsti dall’art. 114 TFUE, va anzitutto ricordato che, secondo il par. 1 di quest’ultimo, la norma si applica «salvo che i Trattati non dispongano diversamente», facendo così evidente riferimento alle disposizioni settoriali di cui si è detto in precedenza. Inoltre il par. 2 della norma precisa che la competenza da essa istituita non può riguardare né le disposizioni fiscali, né quelle relative alla libera circolazione delle persone e ai diritti ed interessi dei lavoratori dipendenti, trattandosi di materie che sono oggetto di specifiche disposizioni del TFUE. Ancora, il par. 3 dell’art. 114 TFUE impone al legislatore di perseguire, quando adotta misure di armonizzazione, un livello di protezione elevato, tenuto conto, in particolare, degli eventuali nuovi sviluppi fondati su riscontri scientifici, allorquando si tratti d’intervenire in materia di sanità, sicurezza, protezione dell’ambiente e protezione dei consumatori. Accanto a queste deroghe, per così dire preventive, l’art. 114 TFUE ne considera altre, che possono intervenire dopo l’adozione delle misure di armonizzazione e riguardare un solo Stato membro. Rilevano al riguardo i parr. 4 e 5 della disposizione in esame, i quali rispettivamente consentono agli Stati membri, appunto dopo l’adozione di misure di armonizzazione: di mantenere normative difformi dalle stesse giustificate dalle ricordate esigenze di cui all’art. 36 TFUE o relative alla protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro; ovvero di introdurre normative siffatte se fondate su nuove prove scientifiche inerenti alla protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro e giustificate da un problema specifico dello Stato membro, determinatosi successivamente all’intervento d’armonizzazione (ma in questa seconda ipotesi le due condizioni indicate devono sussistere cumulativamente: Corte giust. 13 settembre 2007, C-439/05 P e C-454/05 P, Land Oberösterreich, I-7141). In entrambi i casi, lo Stato interessato non può procedere in modo unilaterale, ma deve seguire la procedura indicata dallo stesso art. 114 TFUE. Esso ha quindi anzitutto l’obbligo di notificare preventivamente alla Commissione la normativa che
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vuole mantenere o introdurre, ovviamente motivando la richiesta. Entro sei mesi (salvo i casi particolarmente complessi, che autorizzano una proroga di ulteriori sei mesi) la Commissione può decidere, anche senza un contraddittorio con lo Stato interessato, di rigettare la richiesta se la ritiene pregiudizievole per il commercio intracomunitario o per la realizzazione del mercato interno; in caso contrario, la disposizione nazionale si considera approvata. Anche se approva la richiesta dello Stato, peraltro, la Commissione deve immediatamente valutare l’opportunità di proporre un adeguamento delle misure d’armonizzazione precedentemente adottate, così come deve valutare la possibilità di proporre misure generali di adeguamento, se la richiesta dello Stato membro si collega a un problema specifico di pubblica sanità. Va segnalato, infine, che, in deroga alla procedura generale per i casi d’inadempimento di norme dell’Unione da parte degli Stati membri (retro, p. 264 ss.), la Commissione o qualsiasi altro Stato membro possono, immediatamente e quindi senza passare per la consueta fase precontenziosa, adire la Corte per denunciare un uso abusivo della deroga.
14. Le disposizioni nazionali pregiudizievoli per la concorrenza Una previsione specifica è poi riservata alle ipotesi in cui le divergenze tra le discipline degli Stati membri siano tali da falsare le condizioni della concorrenza nel mercato interno e quindi determinare una «distorsione» nel gioco competitivo (art. 116 TFUE). In tale eventualità la Commissione si consulta con lo Stato interessato per arrivare all’eliminazione della distorsione; in caso negativo, e senza escludere la possibilità di altre soluzioni (ad esempio un ricorso alla Corte di giustizia), il Parlamento europeo e il Consiglio possono adottare, con procedura legislativa ordinaria, le direttive all’uopo necessarie. Anche la delimitazione della portata di questa disposizione rispetto a quelle esaminate nel paragrafo precedente è assai incerta e controversa. Secondo la stessa Commissione, comunque, essa si applicherebbe nei casi in cui determinate imprese in uno Stato membro sostengono un onere, o beneficiano di un’agevolazione, rispetto alla generalità delle imprese stabilite in tale Stato, senza che tale onere (o agevolazione) trovi corrispondenza nel trattamento riservato in altri Stati membri a imprese analoghe e senza che lo Stato membro interessato abbia introdotto misure compensative per neutralizzarne gli effetti (risposta all’interrogazione scritta n. 2226/80, GUCE C 257, del 26 settembre 1983, 1). In ogni caso, l’art. 116 TFUE, peraltro fin qui poco utilizzato, ha palesemente natura di disposizione «speciale» e quindi si applica in via residuale, non solo rispetto agli artt. 114 e 115 TFUE, ma anche rispetto ad altre pertinenti disposizioni del TFUE, e in particolare quelle in materia di aiuti di Stato (artt. 107 e 108 TFUE) o di fiscalità diretta (art. 113 TFUE). Come si è detto, l’art. 116 TFUE ha di mira le distorsioni alla concorrenza derivanti da misure statali già in vigore. Per quelle che invece sono solo oggetto di un progetto legislativo volto a innovare o modificare la pertinente regolamentazione nazionale rileva l’art. 117 TFUE, il quale impone in tal caso allo Stato interessato di notificare preventivamente il progetto alla Commissione, di consultarsi con essa e di
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non dar seguito al progetto prima che la Commissione abbia concluso il proprio esame, ai fini del quale essa potrà consultare anche gli altri Stati membri. Concluso tale esame, la Commissione può rivolgere a tutti gli Stati interessati le raccomandazioni idonee ad evitare la possibile distorsione, con l’intesa che se lo Stato in causa prosegue nel suo intento, gli altri Stati sono autorizzati a non rispettare le misure eventualmente adottate ai sensi dell’art. 116 TFUE per far fronte alla distorsione. Questo, salvo che la distorsione della concorrenza vada unicamente a svantaggio dello Stato in causa, perché in tale eventualità non si farà ricorso alle misure «riparatorie» di cui all’art. 116 TFUE e lo Stato sopporterà quindi le conseguenze del proprio comportamento.
15. I diritti di proprietà intellettuale. Il brevetto comunitario Va infine segnalato che, nell’ambito delle norme sul ravvicinamento delle legislazioni, il Trattato introduce un’apposita disposizione per abilitare il legislatore dell’Unione ad adottare misure volte a garantire la protezione uniforme dei diritti di proprietà intellettuale e per istituire al riguardo regimi di autorizzazione, coordinamento e controllo centralizzati a livello dell’Unione, nonché per stabilire i regimi linguistici dei titoli europei (art. 118 TFUE). La disposizione costituisce un’innovazione significativa, visto che in passato la materia della proprietà intellettuale era stata regolata facendo soprattutto leva sulla c.d. clausola di flessibilità (art. 352 TFUE, supra, p. 417 ss.). Così, ad es., si è fatto per il marchio comunitario, istituito nel 1993 sulla base dell’allora art. 235 TCE, corrispondente all’attuale art. 352 TFUE, come marchio unitario di prodotti e servizi per l’intera Unione, ove registrati alle condizioni e secondo le modalità previste dal medesimo regolamento (v. reg. CE n. 40/94 del Consiglio, del 20 dicembre 1993, GUCE L 11, 1, poi sostituito e codificato dal reg. CE n. 207/2009 del Consiglio, del 26 febbraio 2009, GUUE L 78, 1, che ha istituito altresì l’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno – UAMI). Oggi, sulla base dell’art. 118 TFUE, la materia è regolata dal reg. n. 2017/1001, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 giugno 2017 (GUUE L 154, 1), poi modificato, sul marchio dell’Unione europea, che ha istituito l’Ufficio dell’Unione Europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) e ripreso in larga misura le precedenti regole. Di queste basterà qui ricordare che la registrazione del marchio europeo va fatta presso l’EUIPO, che è un’agenzia dell’Unione, con propria personalità giuridica, un direttore esecutivo e un consiglio di amministrazione. La richiesta di registrazione è valutata da un esaminatore, contro le cui decisioni è possibile rivolgersi alla divisione di opposizione e poi, in una sorta di appello, alle commissioni di ricorso, ove non si tenti una mediazione attraverso il centro di mediazione, istituito presso l’Ufficio. Ogni Stato membro, inoltre, è tenuto a designare un numero, limitato, di tribunali nazionali di prima e seconda istanza, per svolgere le competenze definite dal regolamento. Contro le decisioni dell’EUIPO è possibile ricorrere alla Corte di giustizia, o meglio al Tribunale, possibilità di cui le parti si sono ampiamente avvalse in tutti questi anni.
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In materia, v. anche il reg. (CE) n. 6/2002 del Consiglio, del 12 dicembre 2001, su disegni e modelli comunitari (GUCE L 3, 1); nonché il reg. (CE) n. 2100/94 del Consiglio, del 27 luglio 1994, concernente la privativa comunitaria per ritrovati vegetali (GUCE L 227, 1). Talvolta, secondo le specifiche esigenze, si era fatto ricorso anche alle norme sul ravvicinamento delle legislazioni: a tal proposito, v. ad es. le dir. del PE e del Consiglio: 96/9/CE, dell’11 marzo 1996, relativa alla tutela giuridica delle banche di dati (GUCE L 77, 20); 98/44/CE, del 6 luglio 1998, sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche (GUCE L 213, 13); 2001/29/CE, del 22 maggio 2001, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione (GUCE L 167, 10); 2008/95/CE, del 22 ottobre 2008, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa (GUUE L 299, 25); 2009/24/CE, del 23 aprile 2009, relativa alla tutela giuridica dei programmi per elaboratore (GUUE L 111, 16); 2012/28/UE, del 25 ottobre 2012, su taluni utilizzi consentiti di opere orfane (GUUE L 299, 5).
Tornando all’art. 118 TFUE, va aggiunto che, oltre ad offrire l’indicata base giuridica specifica, esso si traduce altresì in una facilitazione del processo decisionale, visto che ora si potrà di regola ricorrere alla procedura legislativa ordinaria, ad eccezione della fissazione dei regimi linguistici dei titoli europei, per i quali, stante la estrema sensibilità politica del tema, si applica invece la procedura legislativa speciale. Inoltre, la disposizione potrà fungere, in virtù dell’art. 216 TFUE, da base giuridica per la conclusione degli accordi internazionali in materia da parte dell’Unione, salvo che per gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale espressamente regolati dall’art. 207 TFUE. V. infra, p. 824 ss. L’Unione aderisce già da tempo ad accordi multilaterali in materia, ma non al più noto di essi: la Convenzione di Monaco sul brevetto europeo, del 5 ottobre 1973 (cui partecipano però i suoi Stati membri). L’ipotesi di aderirvi, pur coltivata, è stata abbandonata in seguito al parere della Corte di giustizia dell’8 marzo 2011, 1/09, I-1137, su cui si tornerà tra breve.
Per contro, l’art. 118 TFUE non offre la base giuridica per armonizzare i diritti nazionali relativi ai titoli di proprietà intellettuale, perché al riguardo si applicano le norme sul ravvicinamento delle legislazioni di cui si è appena detto (artt. 114 e 115 TFUE). Del resto, come si è visto, non è questo l’obiettivo dichiarato della norma, che si propone invece solo di creare un titolo di diritto uniforme valido e protetto in tutta l’Unione: spetta poi al legislatore dell’Unione optare per l’uno o per l’altro percorso. La portata oggettiva della disposizione è molto ampia. Essa si riferisce a tutti i titoli di proprietà intellettuale (brevetti, diritto d’autore, marchi, modelli e disegni, varietà vegetali, ecc.) e copre la regolamentazione di tutti gli aspetti relativi al regime degli stessi: il titolo in quanto oggetto di proprietà, le cause della sua invalidità, il trasferimento dei connessi diritti, la protezione giuridica del titolo contro ogni tentativo di contraffazione, gli effetti delle licenze contrattuali e le eventuali limitazioni e relative giustificazioni, e così via. D’altra parte, non potrebbe essere diversamente, visto che la funzione dell’art. 118 TFUE è di perseguire l’integrazione dei mercati nazionali anche per i profili qui in esame, superando le tradizionali compartimentazioni territoriali. A questo proposito, una particolare attenzione merita la disciplina dei brevetti e segnatamente la creazione del c.d. «brevetto comunitario». Perseguito dalle istitu-
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zioni comunitarie fin dagli anni settanta, anche sulla forte spinta delle industrie europee, tale obiettivo sembra ora finalmente a portata di mano, anche se il faticoso iter non si è ancora del tutto concluso. L’intento era in effetti assai ambizioso perché si trattava di superare il sistema della citata Convenzione di Monaco, che ha istituito un regime di concessione dei brevetti centralizzato nell’Ufficio europeo dei brevetti (EPO), senza però dettare una disciplina unitaria degli stessi successivamente al rilascio, sicché i brevetti devono essere validati in ciascuno Stato contraente dopo la loro traduzione nelle lingue ufficiali degli Stati in cui il titolare vuol farlo valere. In altri termini, il brevetto è unico quanto alla sua concessione, mentre per il resto costituisce un fascio diversificato di titoli nazionali, protetti ciascuno dalla legislazione applicabile su base territoriale. Inoltre, la Convenzione non ha istituito né organi giurisdizionali, né regole comuni di competenza giurisdizionale in materia. Proprio per assicurare invece una disciplina comune sotto tutti i profili, le istituzioni comunitarie avviarono negli anni ’70 il processo legislativo di cui si è detto, processo che ha però avuto, ripetiamo, un iter molto tormentato date le difficoltà oggettive della materia. Quando finalmente esso sembrava avvicinarsi alla conclusione, sono emerse le obiezioni di alcuni Stati membri, in particolare della Spagna e dell’Italia, che si opponevano alla limitazione a sole tre lingue (francese, inglese e tedesco) del regime linguistico del progettato brevetto. Tali resistenze essendo risultate (almeno inizialmente) insuperabili, gli altri Stati membri hanno deciso di istituire tra loro una cooperazione rafforzata per varare la progettata normativa sul brevetto, brevetto che tuttavia ora potrà qualificarsi come unitario, ma non più, data la limitata partecipazione degli Stati membri, come «comunitario». In sintesi estrema, detta disciplina si presenta al momento come un complesso sistema articolato nei termini qui di seguito molto sommariamente riassunti. Anzitutto, un apposito regolamento istituisce, a valle del sistema della Convenzione di Monaco e della relativa disciplina uniforme per il rilascio dei brevetti europei, norme comuni per la fase post-concessione, e quindi una disciplina uniforme per la protezione del brevetto in tutti gli Stati membri partecipanti alla cooperazione rafforzata. Ma tale disciplina non esclude la sopravvivenza delle singole legislazioni nazionali, sicché gli interessati possono ancora optare per l’una o per l’altra soluzione. Reg. (UE) n. 1257/2012 del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2012, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore dell’istituzione di una tutela brevettuale unitaria (GUUE L 361, 1). L’Italia e la Spagna hanno impugnato la decisione del Consiglio che autorizzava la cooperazione rafforzata, contestando la legittimità del ricorso a tale soluzione in quanto volto ad aggirare la previsione del voto all’unanimità, esplicitamente imposto, come si è visto, per definire il regime linguistico in materia. Il ricorso non ha però avuto esito positivo (v. sentenza 16 aprile 2013, C-274/11 e C-295/11, Spagna e Italia c. Consiglio).
In secondo luogo, a fronte della pretesa degli ambienti interessati di avere un sistema giurisdizionale agile, rapido, unitario e specializzato, si era prevista, attraverso un apposito accordo, l’istituzione di una giurisdizione internazionale ad hoc specializzata, secondo linee che però la Corte di giustizia, nel parere formulato su tale accordo (il citato parere 1/09), ha giudicato incompatibili con il diritto dell’Unione, specie perché si affidavano materie di competenza di quest’ultima ad un giudice
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esterno al sistema dell’Unione. Questo ha indotto ulteriori modifiche all’iniziale progetto, che sono sfociate in un apposito accordo su un Tribunale unificato dei brevetti (Accordo del 19 febbraio 2013, GUUE C 175, 1, che è aperto alla firma di tutti gli Stati e dovrebbe entrare in vigore entro il 2018). Tale accordo prevede un complesso sistema che si articola su una giurisdizione di primo grado, con una divisione centrale e divisioni regionali e locali (diffuse in tutti gli Stati firmatari), e una corte di appello. Per rispondere alle ricordate obiezioni della Corte, tali giurisdizioni sono state configurate come giudici comuni agli Stati parte dell’accordo, e quindi come giudici nazionali soggetti a una disciplina uniforme internazionalmente imposta. Come tali, essi sono soggetti, tra l’altro, al principio del primato del diritto dell’Unione e al meccanismo del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Un apposito regolamento ha poi definito, sempre con una cooperazione rafforzata, il regime linguistico del brevetto in esame con le limitazioni sopra evocate quanto alle lingue utilizzabili. Reg. (UE) n. 1260/2012 del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2012, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore dell’istituzione di una tutela brevettuale unitaria con riferimento al regime di traduzione applicabile (GUUE L 361, 89). Anche tale regolamento (insieme con il precedente) è stato impugnato dalla (questa volta sola) Spagna, ma il ricorso è stato respinto (Corte giust. 5 maggio 2015, C-146/13 e C-147/13, Spagna c. PE e Consiglio e Spagna c. Consiglio). L’Italia ha invece aderito alla cooperazione rafforzata.
CAPITOLO VIII
La politica economica e monetaria Sommario: 1. Introduzione. – 2. Profili sistematici e istituzionali. In generale. – 3. Segue: Gli organi dell’UEM: a) il SEBC; b) la BCE; c) il Consiglio generale; d) le Banche centrali nazionali; e) l’Eurogruppo; f) l’Eurosummit; g) il Comitato economico e finanziario. – 4. Segue: Le relazioni esterne dell’UEM. – 5. La politica economica. – 6. La politica monetaria. – 7. Il regime degli Stati membri con deroga. – 8. Le innovazioni conseguenti alla crisi dei debiti sovrani: a) il Semestre europeo; b) il Patto Euro plus; c) il Six Pack; d) il Meccanismo europeo di stabilità; e) il Fiscal Compact; f) il Patto per la crescita e l’occupazione; g) il Two Pack; h) la vigilanza unica (il sistema europeo di vigilanza finanziaria; le Autorità europee di vigilanza; il Meccanismo di vigilanza unica; l’unione bancaria e il ruolo della BCE); i) le OMT. – 9. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione La competenza che si passa ora a esaminare è, fra tutte le competenze «storiche», quella che ha subito nel tempo le più profonde trasformazioni rispetto all’iniziale disegno tracciato dal TCEE, e di profonde continua a subirne ancora oggi nell’affannosa rincorsa ad una crisi economico-finanziaria che si trascina ormai da molti anni. Agli inizi del processo d’integrazione la questione del coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri non era stata certo ignorata. Al contrario, dal punto di vista degli obiettivi generali fissati per la CEE, essa aveva avuto il medesimo rilievo della realizzazione del mercato comune, come era attestato dall’art. 2 TCEE. Tuttavia, a fronte di questa parificazione puramente formale, il Trattato non apprestava gli strumenti normativi e organizzativi idonei a realizzare un simile coordinamento, mentre ancor meno si diceva quanto agli aspetti monetari. Sicché, fino a tutti gli anni ’60 ed anche oltre, rimase dominante la spinta alla realizzazione del mercato unico, senza che assumesse adeguato rilievo il fatto che tale obiettivo avrebbe potuto essere facilitato da politiche economiche e monetarie se non unificate, quanto meno armonizzate. A ravvivare però tale esigenza ci pensarono, agli inizi degli anni ’70, le turbolenze causate nel settore monetario dalla crisi del sistema internazionale basato sugli accordi di Bretton Woods del 1944. Com’è noto, alla conferenza di Bretton Woods (New Hampshire – USA) si stabilirono le regole che avrebbero governato i rapporti monetari a livello internazionale. Il c.d. sistema monetario
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di Bretton Woods era basato, tra l’altro, su un’unica moneta (il dollaro statunitense) che poteva essere liberamente convertita in oro, a differenza dei sistemi precedenti che prevedevano, almeno teoricamente, la convertibilità di tutte le monete. In esito a una serie di eventi, il 15 agosto 1971, il Presidente americano Nixon annunciò la fine della libera convertibilità del dollaro in oro.
Da quel momento, infatti, la riflessione delle istituzioni comunitarie, come degli Stati membri, subì una forte accelerazione, che si tradusse nell’elaborazione di una serie di piani, studi e varie altre iniziative volte a definire le forme e i mezzi per un effettivo rafforzamento del settore. Si cominciò col Piano Werner del 1970, grazie al quale prese forma nel 1972 un primo meccanismo di coordinamento delle politiche monetarie degli Stati membri, il c.d. «serpente monetario», che definiva una banda predeterminata dentro la quale mantenere le diverse valute nazionali, ma all’interno della quale le stesse potevano fluttuare. Col tempo però, e dopo alcune difficoltà emerse negli Stati membri, tale forma di cooperazione fu abbandonata a favore dell’istituzione nel 1979 del Sistema monetario europeo (SME), cioè di un nuovo accordo sui cambi che (pur restando formalmente, come il serpente monetario, fuori dal sistema comunitario) permetteva alle monete nazionali di oscillare, entro determinati limiti, in rapporto ad un valore di riferimento rappresentato da un’unità di conto europea, l’ECU. La ricerca di soluzioni più avanzate non si fermò però qui, specie perché i progressi nella realizzazione del mercato interno spingevano ancor più verso il rafforzamento del coordinamento delle politiche economiche e monetarie. Sicché, su impulso del Consiglio europeo di Hannover del 27 e 28 giugno 1988, un comitato presieduto dall’allora Presidente della Commissione, Jacques Delors, fu incaricato di redigere un apposito progetto, poi noto come Rapporto Delors, che per la prima volta prefigurava a livello ufficiale la realizzazione di un’unione economica e monetaria (UEM). Presentato e approvato al Consiglio europeo di Madrid del 1989, il rapporto fu assunto come base di lavoro dalla Conferenza intergovernativa preparatoria del Trattato di Maastricht. Secondo tale rapporto, l’UEM avrebbe dovuto realizzarsi, sul versante economico, con disposizioni vincolanti quanto ai bilanci statali, oltre che col rafforzamento di alcuni degli strumenti già esistenti; sul versante monetario, con l’integrazione dei mercati finanziari, l’istituzione di un regime di cambi fissi tra le valute degli Stati membri (ma l’adozione di una moneta unica era considerata un’opzione preferibile) e un’unica politica monetaria. Per conseguire tali risultati, si prospettavano tre fasi: la prima, di consolidamento di tutta una serie di strumenti esistenti; la seconda, che avrebbe visto la nascita di una nuova autorità monetaria, incaricata di verificare la sussistenza dei criteri per il passaggio alla terza tappa e di predisporre tale passaggio; la terza, che avrebbe dovuto segnare il definitivo trasferimento alla (allora) Comunità delle competenze in materia monetaria (ed economica). Il Trattato di Maastricht accolse in gran parte tali proposte, e alcune anzi nella versione più avanzata. Esso optò infatti non già per la scelta dei cambi fissi o di una moneta «comune», ma direttamente per l’istituzione di una moneta «unica», l’euro; e lo scadenziario per la realizzazione dell’unione economica e monetaria (UEM) rispecchiò quello prefigurato nel Rapporto Delors. Così, il passaggio alla seconda tappa iniziò già il 1° gennaio 1994 con l’istituzione dell’Istituto Monetario Europeo
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(IME), che preparò il passaggio alla tappa successiva. Questa, a sua volta, ebbe avvio il 1° gennaio 1999, con l’introduzione dell’euro come moneta effettivamente e legalmente in circolazione per i pagamenti elettronici (trasferimenti bancari e operazioni sul mercato delle valute), mentre le banconote delle monete nazionali precedenti restavano in circolazione per i pagamenti in contanti come «suddivisione nondecimale dell’euro». Dal 1° gennaio 2002 venivano poi messe in circolazione le banconote in euro, prima insieme alle monete nazionali e poi dal 28 febbraio di quell’anno, dopo un breve periodo di «assuefazione», come uniche aventi corso legale negli Stati che avevano adottato l’euro. Dal 1° giugno 1998, come vedremo, era stata intanto istituita la Banca Centrale Europea (BCE), che assumerà pienamente le proprie competenze dal 1° gennaio 1999, insieme al Sistema europeo delle banche centrali (SEBC), mentre l’IME veniva liquidato alla fine del 1998. Una serie di atti accompagnò tali passaggi per regolarne le diverse implicazioni. Qui si segnala solo il reg. (CE) n. 1103/97 del Consiglio, del 17 giugno 1997, relativo a talune disposizioni per l’introduzione dell’euro (GUCE L 162, 1), che sancì il principio c.d. di continuità, stabilendo che, salvo diverso accordo tra le parti, «[l]’introduzione dell’euro non avrà l’effetto di modificare alcuno dei termini di uno strumento giuridico, né di sollevare o dispensare dall’adempimento di qualunque strumento giuridico, né di dare ad una parte il diritto di modificare o porre fine unilateralmente a tale strumento giuridico» (art. 3).
All’euro, tuttavia, non parteciparono tutti gli Stati membri, ma solo quelli che soddisfacevano una serie di «criteri di convergenza». Undici erano gli Stati membri che al 1° gennaio 1999 versavano in tale situazione e che quindi adottarono l’euro, ma ad essi via via se ne sono aggiunti vari altri. Quelli che invece ne sono restati fuori sono stati (e sono tuttora) considerati Stati «con deroga» e quindi soggetti al regime particolare di cui si dirà più avanti. Gli 11 Stati membri inizialmente partecipanti al sistema della moneta unica furono: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna. Ad essi si sono via via aggiunti la Grecia (2001) e a seguire: la Slovenia (2007), Cipro e Malta (2008), la Slovacchia (2009), l’Estonia (2011), la Lettonia (2014) e la Lituania (2015), per un totale al momento di 19 Stati. Anche Stati terzi del continente, però, hanno adottato l’euro a seguito di appositi accordi con l’Unione: la Città del Vaticano (GUUE C 28/2009, 10, aggiornata con dec. 2012/355 della Commissione, del 2 luglio 2012, GUUE L 174, 24); San Marino (GUUE C 121/2012, 2); il Principato di Monaco (GUUE C 310/2012, 1) e Andorra (GUUE C 369/2011, 1); mentre altri lo hanno deciso unilateralmente (come il Kosovo e il Montenegro). Ma le situazioni degli Stati ed entità varie, terzi rispetto all’Unione, sono assai varie: v. ad es. la dec. 2011/433/UE del Consiglio, del 12 luglio 2011, relativa alla firma e alla conclusione dell’accordo monetario tra l’UE e la Repubblica francese, relativo al mantenimento dell’euro a Saint-Barthélemy, in seguito al fatto che, dal 1˚ gennaio 2012, da regione ultraperiferica questa isola è divenuta collettività d’oltremare (GUUE L 189, 1); la decisione del Consiglio che definisce la posizione dell’allora Comunità nei confronti degli accordi stipulati tra la Francia e l’unione economica e monetaria dell’Africa occidentale e la Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale, nonché le isole Comore, accordi con i quali era stata creata una c.d. zona del franco (dec. 98/683/CE, del 23 novembre 1998, GUCE L 320, 58); la dec. 98/744/CE del Consiglio, del 21 dicembre 1998 (GUCE L 358, 111), relativa al regime di cambio con lo scudo capoverdiano, che mantiene in vigore gli accordi monetari tra Portogallo e Capo Verde. Distinta rispetto alle due categorie di Stati indicati nel testo è la situazione di Regno Unito e
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Danimarca, che hanno esercitato fin dall’inizio il diritto di non aderire (opting-out) all’euro, anche se in possesso dei requisiti per l’ammissione allo stesso, ed hanno quindi negoziato disposizioni speciali, anche se non identiche tra loro, che sono oggetto oggi delle disposizioni dei Protocolli n. 15 e n. 16, allegati al Trattato di Lisbona. Il primo Protocollo, contenente talune disposizioni relative al Regno di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, riconosce che tale Stato membro non è obbligato ad adottare l’euro, a meno che non notifichi al Consiglio che intende farlo. Esso non è quindi soggetto – o è solo parzialmente soggetto – a una serie di disposizioni in materia di politica monetaria analiticamente richiamate nello stesso Protocollo (e che non coincidono con quelle che, ai sensi dell’art. 139, par. 2, TFUE, non si applicano, come vedremo più avanti, agli Stati membri con deroga): ad es. il Regno Unito non è tenuto né al rispetto del principio di indipendenza della BCE, né è obbligato a rendere compatibile la propria legislazione con le pertinenti regole del TFUE e dello statuto del SEBC. Quanto alla Danimarca, il relativo regime è oggetto del Protocollo n. 16 (integrato dal Protocollo n. 17), recante appunto talune disposizioni relative a questo Stato. Esso presenta aspetti comuni a quello del Regno Unito, ma pure rilevanti differenze. Anche la Danimarca è rimasta estranea all’euro, riservandosi tuttavia il diritto di notificare al Consiglio la propria decisione di aderirvi, decisione che potrà peraltro essere adottata, come richiesto dall’ordinamento costituzionale di quel paese, solo dopo apposito referendum popolare. Diversamente dal Regno Unito, la Danimarca è soggetta all’applicazione di tutte le norme del TFUE e dello statuto del SEBC che si applicano agli Stati membri con deroga. L’unica differenza significativa rispetto a tali Stati è riconducibile al fatto che la procedura di accesso alla moneta unica non è avviata automaticamente, bensì soltanto «a sua richiesta». Va infine segnalata la specifica situazione della Svezia la quale, a seguito di un referendum negativo tenutosi nel 2003, ha deciso comunque, indipendentemente quindi dalla sussistenza delle condizioni richieste, di non adottare l’euro.
L’istituzione di «un’unione economica e monetaria» divenne così, con il Trattato di Maastricht, un obiettivo della Comunità (art. 2 TCE), e conseguentemente il Titolo VI della Parte Terza di quel Trattato, dedicato per l’appunto alla «Politica economica e monetaria», fu del tutto rivoluzionato, con l’introduzione delle norme volte a realizzare tale politica. La disciplina della materia è stata poi ulteriormente affinata nei testi successivi fino al Trattato di Lisbona, il quale, dopo aver enunciato che «[l]’Unione istituisce un’unione economica e monetaria la cui moneta è l’euro» (art. 3, par. 4, TUE), dedica alla stessa l’intero Titolo VIII della Parte Terza (artt. 119-144 TFUE). In tal modo, sebbene, come ampiamente si vedrà più avanti, la disciplina dei due filoni della materia, la politica economica e quella monetaria, sia assai differenziata, il Trattato li ha ricondotti ad un disegno unitario, enunciato proprio dalla norma di apertura di detto Titolo VIII, l’art. 119 TFUE, il quale esplicitamente dichiara che «l’azione degli Stati membri e dell’Unione comprende, alle condizioni previste dai Trattati, l’adozione di una politica economica che è fondata sullo stretto coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, sul mercato interno e sulla definizione di obiettivi comuni, condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza» (par. 1), e che «questa azione comprende una moneta unica, l’euro, nonché la definizione e la conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche, che abbiano l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche economiche generali nell’Unione conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza» (par. 2). E tutto ciò nel «rispetto dei seguenti principi direttivi: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane nonché bilancia dei pagamenti sostenibile» (par. 3).
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Col tempo, però, gli strumenti predisposti per realizzare tali obiettivi hanno rivelato i seri limiti che, per la verità, fin da subito e da molte parti erano stati già sottolineati. Ma la loro inadeguatezza ha trovato la più drammatica conferma con l’esplosione della crisi economico-finanziaria del 2008, la crisi detta dei debiti sovrani, che ha reso necessaria, come vedremo, una serie di interventi, di varia natura, che si sono via via succeduti e ancora oggi si succedono, in modo peraltro piuttosto erratico e affannoso, nella difficile ricerca delle appropriate soluzioni.
2. Profili sistematici e istituzionali. In generale Prima di illustrare la specifica disciplina della materia, conviene sottolinearne alcuni aspetti di carattere sistematico e istituzionale che meritano di essere messi subito in evidenza. In primo luogo, va nuovamente ricordato che per comune e fondata convinzione, l’UEM costituisce l’innovazione di maggior rilievo introdotta nell’Unione a partire dal Trattato di Maastricht, soprattutto in quanto essa comporta un pieno e irreversibile trasferimento di poteri dagli Stati membri alle istanze sopranazionali. Ciò vale però essenzialmente per la politica monetaria, perché tra questa e la politica economica permane anche nei vigenti Trattati una profonda asimmetria quanto alla portata delle competenze dell’Unione e al rapporto tra le stesse e quelle degli Stati membri. Solo nella prima, infatti, il ruolo delle istituzioni comuni resta assolutamente preminente e si caratterizza nel senso detto, mentre nella seconda esse svolgono piuttosto compiti di coordinamento dell’azione degli Stati, anche se col tempo la libertà di questi ultimi si è andata progressivamente restringendo pure in questo settore. Tale asimmetria proietta i suoi riflessi su molti aspetti, ma soprattutto incide, come avremo ampiamente modo di vedere, sull’efficacia complessiva del sistema. Va peraltro sottolineato che al segnalato trasferimento di poteri non ha corrisposto un parallelo rafforzamento dell’impianto politico-istituzionale del sistema, e segnatamente di quella che suole chiamarsi unione politica. In effetti, l’importanza e la portata del cambiamento provocato dalla creazione dell’UEM, in termini di trasferimento di sovranità in settori molto delicati, di organizzazione e di gestione del potere economico e monetario negli Stati membri, di incidenza sui gruppi, gli individui e tutti gli interessi organizzati, non avrebbero potuto non toccare direttamente l’organizzazione costituzionale dell’Unione nel suo insieme. Ed in effetti, il problema era stato apertamente posto nel corso del negoziato per il Trattato di Maastricht da vari Stati membri: basti ricordare le insistenze della Repubblica Federale di Germania affinché fossero create strutture istituzionali più democratiche per l’insieme della costruzione europea, ivi compresa l’UEM, o la citata Dichiarazione Genscher-De Michelis, che mirava a rafforzare, nella stessa ottica, il ruolo del PE e in generale il carattere democratico dell’Unione.
Così invece non è stato, e nessun parallelismo si è realizzato tra l’intensità dell’integrazione nel settore economico e monetario, e il grado d’integrazione (o, se si vuole, il «tasso di federalismo») previsto per l’Unione nel suo complesso, e anche questa scelta, come da varie parti segnalato in tempi non sospetti, è stata tutt’altro che
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estranea alle difficoltà che oggi il sistema incontra. Ciò tanto più che, come subito vedremo, la gestione dell’UEM viene in larga misura affidata a organismi certo di alta qualificazione, ma pur sempre di natura tecnico-burocratica. Ma non è tutto. La disciplina in esame si caratterizza per una sua marcata peculiarità che ne fa per vari aspetti, se non una sorta di corpo estraneo, certamente una parte molto speciale all’interno del sistema normativo e istituzionale dell’Unione. Molteplici aspetti di tale disciplina concorrono, infatti, a segnare una forte discontinuità giuridico-istituzionale e perfino una certa deviazione rispetto a quella che si potrebbe definire l’ortodossia comunitaria. Non è il caso di redigere qui la lista di quelle «anomalie», che erano addirittura clamorose nel Trattato di Maastricht e sono state poi in gran parte corrette dai Trattati successivi, ma è certo che esse riflettono la diversità delle premesse, delle motivazioni e del disegno sottostanti a detta disciplina. Si può ricordare, per non citare che qualche es.: la complessità delle numerose e diversificate procedure legislative e decisionali, con la partecipazione incrociata nonché ripetuta di più organi nel corso della stessa procedura; la pluralità dei sistemi di votazione all’interno del Consiglio; l’armamentario delle formazioni di quest’ultimo, composto allo stesso tempo da Ministri, Capi di Stato e di Governo degli Stati membri riuniti in seno al Consiglio, ecc.; il ruolo formale del Consiglio europeo previsto dall’art. 103, par. 2, dell’allora TCE, che rappresentava l’unica disposizione di quel Trattato in cui tale organo era menzionato, nonostante allora fosse ancora al di fuori della struttura istituzionale comunitaria; la ripetizione di alcune disposizioni, con una serie di rinvii reciproci dal Trattato ai protocolli e dai protocolli al Trattato, all’evidente scopo di «rafforzare» queste disposizioni e restringere (se non eliminare) i margini di libertà nell’interpretazione e nell’applicazione delle regole da esse stabilite; la serie degli «opting-out» per l’uno o l’altro Stato membro; la distinzione tra gli Stati «con o senza deroga» e le relative conseguenze quanto alla composizione del Consiglio, alle procedure decisionali, alle modalità di voto, ecc.; le disposizioni che prevedevano degli obblighi da adempiere ... ancor prima dell’entrata in vigore del Trattato; la misteriosa categoria degli «accordi formali» menzionati dall’art. 109 TCE, la quale fu introdotta nonostante le critiche formulate al momento del negoziato, e che costrinse ad annettere al Trattato una dichiarazione ad hoc al fine di precisare che detti accordi non erano (e non sono) altro che normali accordi internazionali. E si potrebbe continuare … Le segnalate «anomalie» erano dovute a varie ragioni che vale la pena brevemente evocare perché almeno alcune sono in qualche modo all’origine di situazioni che ancora oggi si trascinano. Per un verso, dunque, esse erano dovute alle stesse modalità di negoziazione del Trattato di Maastricht, che fu preparato da due distinti tavoli negoziali (uno appunto per l’UEM, composto da personalità di altissima qualificazione, ma non molto aduse alle tecniche tradizionali del diritto comunitario; ed uno per tutte le altre parti del Trattato) che procedettero in parallelo, ma in totale autonomia reciproca. Solo alla fine dei negoziati, e proprio a Maastricht, le parallele ... si incontrarono e i risultati dell’uno e dell’altro furono riversati nel calderone di quello che doveva essere (ed è in effetti stato) un Trattato unico. Ma questo avvenne in modo piuttosto confuso e affannoso (dati i tempi stretti), e quindi senza quegli adattamenti (redazionali, tecnici, e persino di stile e di sintassi!) necessari ad assicurare la coerenza e l’omogeneità dei testi e della costruzione giuridica complessiva. Per altro verso, era chiaro fin da allora che, per la parte sull’UEM, diverse erano le motivazioni sottostanti e gli obiettivi perseguiti, così come le vere sedi di elaborazione politica e tecnica dei testi. Si ebbe insomma la chiara sensazione che diffidenza e rigidità dominassero il negoziato di quella parte e ne condizionassero gli sviluppi. E ugualmente fin da allora era chiaro che alcuni Stati membri, come alcuni ambienti economici e finanziari, si preoccupavano soprattutto di redigere, indipendentemente dalle esigenze di tecnica giuridica, disposizioni «blindate», miranti a fissare regole e procedure rigide e obblighi molto rigorosi per evitare in futuro brutte sorprese nell’applicazione di quella parte del Trattato.
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Vedremo i riflessi di quelle “anomalie” nelle prossime pagine, ma vogliamo fin d’ora sottolineare che anche il processo decisionale nella materia de qua risente delle segnalate specificità. Se invero il ruolo centrale in materia resta riservato, come si è appena ricordato, al Consiglio e alla Commissione, con interventi assai più frequenti del solito del Consiglio europeo, e se invece il Parlamento europeo ha un peso minore rispetto a quello conquistato negli altri settori di competenza dell’Unione, acquistano qui un rilievo importante gli organi specifici dell’UEM, ed in particolare la BCE, che si pongono in molti casi al centro del sistema specie quanto alla gestione della politica monetaria; e ciò attraverso processi decisionali spesso complessi e comunque assai originali rispetto a quelli abituali per l’Unione, dato che, come volta a volta vedremo, in essi si incrocia la partecipazione, anche ripetuta, di tutte o quasi quelle istituzioni.
3. Segue: Gli organi dell’UEM: a) il SEBC; b ) la BCE; c ) il Consiglio generale; d ) le Banche centrali nazionali; e) l’Eurogruppo; f ) l’Eurosummit; g ) il Comitato economico e finanziario La segnalata specificità della disciplina dell’UEM è testimoniata, come anticipato, già dall’architettura istituzionale del sistema, nella quale, si stagliano nuovi attori e peculiari forme di esercizio del penetrante potere attribuito all’Unione in materia. Di tale architettura daremo ora un rapido inquadramento, a completamento di quanto già detto al riguardo in precedenza (retro, p. 103 ss.). a) Lo schema istituzionale dell’unione monetaria poggia, com’è noto, sul SEBC, che ha la missione di mantenere la stabilità dei prezzi, e in tale prospettiva sostenere le politiche economiche generali per contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione. In particolare, i compiti del SEBC, quali risultano dall’art. 127, par. 2, TFUE, riguardano la definizione e attuazione della politica monetaria dell’Unione, lo svolgimento delle operazioni sui cambi, la detenzione e gestione delle riserve ufficiali in valuta straniera degli Stati membri, la promozione dei sistemi di pagamento, nonché la vigilanza prudenziale degli enti creditizi. Il SEBC, il cui statuto è definito da un apposito Protocollo allegato al Trattato di Lisbona, non ha in realtà una propria identità istituzionale, nel senso che non ha né personalità giuridica, né autonomia organizzativa e funzionale. In effetti, esso è costituito dalla BCE e dalle Banche centrali nazionali (BCN) di tutti gli Stati membri e poggia interamente sull’una e sulle altre per la propria attività. Dal momento però che le BCN degli Stati membri c.d. con deroga (o che hanno esercitato l’opting out) conservano le loro competenze nel settore monetario e non partecipano alla definizione della politica monetaria dell’euro, il SEBC e il suo organo, prevalentemente consultivo, il Consiglio Generale, hanno limitata rilevanza pratica. Ben più importante invece è l’Eurosistema, costituito dalla BCE e dalle BCN degli Stati membri la cui moneta è l’euro, che rappresenta per così dire la vera «Banca centrale dell’euro» e conduce la politica monetaria dell’eurozona.
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La nozione di Eurosistema appare per la prima volta nel Trattato di Lisbona (art. 282, par. 1, TFUE), ma era da tempo di uso corrente. La sua formalizzazione sancisce anche la distinzione tra SEBC ed Eurosistema. Lo statuto del SEBC e della BCE è fissato nel Protocollo (n. 4). Nei suoi ben cinquanta artico-
li, lo Statuto completa le pertinenti disposizioni del Trattato, specificando la struttura e le funzioni del SEBC e della BCE. Esso può essere modificato secondo le normali procedure di revisione del Trattato, ma l’art. 127, par. 4, TFUE consente la revisione di alcune sue norme con procedura semplificata.
b) Come già accennato, il SEBC s’impernia sulla BCE ed è diretto dagli organi decisionali di quest’ultima. La BCE – che, come si disse, è subentrata all’Istituto monetario europeo (IME), che ne ha svolto parte delle funzioni nel periodo di transizione verso l’introduzione della moneta unica – si colloca quindi al centro dell’intero Sistema, con poteri di gestione dello stesso, ma in parte anche con poteri normativi per quanto riguarda i profili monetari. Tale ruolo è stato anche formalmente riconosciuto dal Trattato di Lisbona, che ha elevato la BCE al rango di «istituzione» dell’Unione (art. 13 TUE) e le ha altresì conferito uno status appropriato alle elevate funzioni, non solo riconoscendole, come già il Trattato di Maastricht, una specifica personalità giuridica nel senso di cui si è detto in precedenza, ma anche in termini di autonomia organizzativa, patrimoniale e gestionale e di garanzie quanto all’indipendenza dell’organo e dei suoi membri. L’art. 282, par. 3, TFUE non solo dichiara la personalità giuridica della BCE, ma proclama anche l’autonomia e l’indipendenza della stessa (nonché, ex art. 130 TFUE e relativo Statuto, del SEBC e quindi anche delle BCN, in quanto componenti dello stesso), imponendo a ogni istituzione od organo dell’Unione, nonché a tutti gli Stati membri di rispettare tale indipendenza e, correlativamente, ai membri degli organi del SEBC di non sollecitare o accettare istruzioni dagli stessi. A tal fine, gli Stati membri s’impegnano, a loro volta, a conformare la propria legislazione nazionale, e soprattutto gli statuti delle BCN, a questi principi, in particolare prevedendo che la durata del mandato dei governatori delle stesse non sia inferiore a cinque anni e che essi possano essere rimossi dall’incarico solo nell’ipotesi in cui non soddisfino più alle condizioni richieste per l’espletamento delle loro funzioni o si siano resi colpevoli di gravi mancanze (ma in tale eventualità la rimozione potrà essere impugnata con un ricorso di annullamento davanti alla Corte di giustizia dal governatore interessato o dal Consiglio direttivo della BCE). Lo stesso vale per i membri degli organi della BCE (in sostanza, del Comitato esecutivo), i quali hanno l’obbligo di svolgere il proprio mandato a tempo pieno, ma ove non rispondano più alle condizioni necessarie all’esercizio delle funzioni o abbiano commesso una colpa grave, possono essere dichiarati dimissionari solo dalla Corte di giustizia su istanza del Consiglio direttivo o del Comitato esecutivo (art. 11.4 Statuto SEBC e BCE; v. in proposito anche Corte giust. 10 luglio 2003, C-11/00, Commissione c. BCE, I-7147). Per l’autonomia patrimoniale della BCE, v. art. 283, par. 3, TFUE. Il patrimonio della BCE (in partenza: 5000 milioni di euro) è costituito dal capitale sottoscritto dalle BCN e dai profitti derivanti dalle sue attività (cfr. artt. 28, 29 e 33 Statuto SEBC e BCE).
Anche dei poteri della BCE si è già detto in precedenza (ibidem) e comunque su di essi si ritornerà ancora nelle pagine seguenti. Qui basterà ricordare ancora una volta, e riassuntivamente, che essa detiene la responsabilità primaria della gestione e direzione dell’Eurosistema e quindi di determinare per l’essenziale la politica monetaria dell’Unione. Inoltre, essa ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di
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banconote in euro e di approvare la quantità di emissione delle monete metalliche, nonché di assicurare, per la parte di sua competenza, la rappresentanza dell’Eurosistema nell’ambito della cooperazione internazionale e autorizzare la partecipazione delle singole BCN alle istituzioni monetarie internazionali. A tal fine, essa detiene autonomi poteri, anche normativi, partecipa in molti casi al processo decisionale del Consiglio dell’Unione e svolge, in merito a qualsiasi proposta di atto dell’Unione che rientra nelle sue competenze, un’importante funzione consultiva per le altre istituzioni dell’Unione, come per gli organi nazionali degli Stati membri. V. in particolare art. 127, par. 4, TFUE. In proposito, la Corte di giustizia ha sottolineato che la consultazione della BCE, nei casi in cui è prevista, è da considerarsi necessaria poiché essa, «per le attribuzioni specifiche che esercita nel contesto comunitario nell’ambito considerato e per l’elevato grado di competenza di cui gode, è particolarmente in grado di contribuire utilmente al previsto processo di adozione» (sentenza 10 luglio 2003, C-11/00, Commissione c. BCE, cit., 110). Per la partecipazione della BCE alle istituzioni monetarie internazionali, v. art. 6 Statuto SEBC e BCE. Ad es., la BCE intrattiene rapporti con l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) e con il Fondo monetario internazionale (FMI), nel quale riveste lo status di osservatore, e partecipa con il proprio Presidente alle riunioni dei ministri finanziari dei governatori delle banche centrali dei paesi del G-7 e del G-8.
Gli organi decisionali della BCE sono il Consiglio direttivo, composto dai membri del Comitato esecutivo e dai governatori delle BCN degli Stati che hanno adottato l’euro, e il Comitato esecutivo, composto da un Presidente (che è tale anche per il Consiglio direttivo), un Vicepresidente e quattro membri designati dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata, su raccomandazione del Consiglio, previa consultazione del Parlamento europeo e del Consiglio direttivo della BCE (ma possono parteciparvi, senza diritto di voto, il Presidente del Consiglio e un membro della Commissione, e può essere invitato il Presidente dell’Eurogruppo). Il Consiglio direttivo decide le linee guida e le misure necessarie ad assicurare l’assolvimento dei compiti affidati al SEBC, nonché la formulazione della politica monetaria dell’Unione e delle relative strategie. Il Comitato esecutivo è l’organo operativo della BCE cui è assegnata direttamente dallo statuto la responsabilità per l’attuazione della politica monetaria, nel rispetto degli indirizzi definiti dal Consiglio direttivo, e per la gestione degli affari correnti della BCE. Il Consiglio direttivo può inoltre delegare altri compiti al Comitato esecutivo. Per l’esercizio dei propri compiti la BCE può adottare regolamenti, decisioni, raccomandazioni e pareri (art. 132 TFUE) e può rivolgere alle BCN indirizzi e istruzioni (art. 14, par. 3, Statuto SEBC e BCE). Si tratta in linea generale dello stesso tipo di atti di cui si avvalgono le istituzioni dell’Unione (art. 288 TFUE) e quindi valgono, quanto alle loro caratteristiche e al loro regime, le considerazioni svolte a suo tempo su quegli atti. Di norma, compete al Consiglio direttivo adottare, nei casi previsti dallo Statuto, i regolamenti, ma esso può delegare al Comitato esecutivo non solo l’attuazione, ma anche l’adozione degli stessi. Le decisioni sono invece prese sia dal Consiglio direttivo che dal Comitato esecutivo, ciascuno nell’ambito della propria competenza, e possono avere come destinatari sia gli Stati membri la cui moneta è l’euro, che le loro BCN; ma possono essere indirizzate anche a persone fisiche e
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giuridiche, e questo, in particolare, nell’esercizio del potere, di cui al par. 4 dell’art. 132 TFUE, di infliggere ammende o penalità di mora alle imprese che abbiano violato gli obblighi imposti dai regolamenti e dalle decisioni da essa adottati. Il reg. (CE) n. 2532/98 del Consiglio, del 23 novembre 1998 (GUCE L 318, 4), ha definito, come richiesto da quella stessa disposizione, i limiti e le modalità di esercizio di detto potere, delegando tuttavia alla BCE l’adozione di ulteriori misure attuative, cosa che essa ha effettivamente fatto (v. reg. (CE) n. 2157/1999 della BCE, del 23 settembre 1999, sul potere della stessa di irrogare sanzioni, GUCE L 264, 21, modificato di recente dal reg. n. 469/2014, del 16 aprile 2014, GUUE L 141, 51). L’irrogazione delle sanzioni può avvenire solo al termine di una procedura contraddittoria, che garantisca tutti i diritti di difesa degli interessati. I proventi delle sanzioni entrano a far parte del patrimonio della BCE.
A fronte dell’attribuzione dello status e dei poteri sommariamente indicati, la BCE è sottoposta a talune limitazioni e controlli. Per le prime, rileva soprattutto l’attribuzione al Consiglio di una competenza normativa volta a delimitare il quadro delle competenze attribuite dal Trattato alla BCE. V. ancora l’art. 129, par. 4, TFUE, e le norme dello Statuto da questo richiamate. Si tratta in sostanza dei casi, c.d. di legislazione complementare, in cui spetta al Consiglio disciplinare: le modalità di consultazione della BCE per l’adozione provvedimenti legislativi da parte delle autorità nazionali; la raccolta di informazioni statistiche ed il regime di riservatezza; la definizione della base per le riserve minime, dei rapporti massimi ammissibili tra dette riserve e la relativa base e il connesso regime sanzionatorio; la definizione degli obblighi in capo a terzi, legati all’impiego di altri metodi operativi di controllo monetario; l’aumento del capitale della BCE; la predisposizione dei dati statistici per lo schema di sottoscrizione del capitale della BCE; le ulteriori richieste di attività di riserva in valuta da parte della BCE; e l’esercizio della potestà della BCE di irrogare sanzioni pecuniarie alle imprese, di cui si è detto poc’anzi.
Quanto ai controlli, va ricordato anzitutto l’obbligo della BCE di dar conto del proprio operato («political accountability») quanto alla definizione e all’attuazione della politica monetaria dell’Unione attraverso la presentazione di una relazione annuale al Consiglio europeo, al Parlamento europeo («che può procedere su questa base ad un dibattito generale»), al Consiglio e alla Commissione (art. 284, par. 3, comma 1, TFUE); inoltre, il Presidente della BCE e gli altri membri del Comitato esecutivo possono essere ascoltati dalle commissioni competenti del Parlamento europeo, su richiesta di quest’ultimo o di propria iniziativa (comma 2). In quanto «Istituzione» dell’Unione, la BCE è poi soggetta anche a tutte le regole e controlli imposti alle stesse, come ad es. (e a parte quanto subito diremo per i controlli giurisdizionali) quello della Corte dei conti. Ciò risulta altresì dalla citata sentenza 10 luglio 2003, C-11/00, Commissione c. BCE, in cui la Corte ha annullato la decisione della BCE con la quale questa intendeva sottrarsi al controllo dell’OLAF e ai connessi meccanismi di tutela degli interessi finanziari dell’Unione contro le frodi organizzando un autonomo sistema di controllo al riguardo.
Infine, nei termini definiti dall’art. 271 TFUE e dall’art. 35 Statuto SEBC e BCE, la Banca è soggetta al controllo giurisdizionale della Corte di giustizia sotto vari profili collegati alle competenze di quest’ultima, quali illustrate nella Parte Seconda del pre-
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sente volume: dal controllo di legittimità dei suoi atti e delle sue eventuali inazioni, nei limiti definiti rispettivamente dagli artt. 263 e 265 TFUE, ma anche 277 TFUE; all’esercizio della competenza pregiudiziale ex art. 267 TFUE relativamente ai suoi atti; alle controversie sottoposte alla Corte in virtù di una clausola compromissoria inserita nei contratti da essa stipulati. Un regime in deroga è invece previsto in alcuni casi. Così, in materia di responsabilità extracontrattuale, diversamente dalla regola generale secondo cui l’Unione risponde per i danni eventualmente cagionati dalle proprie istituzioni e dai propri agenti (artt. 268 e 340 TFUE), la BCE è responsabile in proprio di tali danni (artt. 340, comma 3, TFUE e 35.3 Statuto SEBC e BCE). Inoltre, in relazione alle procedure di infrazione, è previsto che ove una BCN non abbia adempiuto agli obblighi derivanti dai Trattati e dallo Statuto, scatta una procedura modellata su quella di cui all’art. 258 TFUE, in cui tuttavia il ruolo della Commissione è assunto dalla BCE (artt. 271, lett. d), TFUE e 35.6 Statuto SEBC e BCE). Naturalmente, la BCE può a sua volta esercitare il proprio diritto di ricorso in tutti i casi in cui i Trattati le riconoscono legittimazione attiva, sulla base delle apposite decisioni del Consiglio direttivo (art. 35.1 e 5, Statuto SEBC e BCE). Per contro, vale anche qui il principio secondo cui fatte salve le competenze della Corte, le controversie in cui la BCE è parte sono di competenza dei giudici nazionali (artt. 274 TFUE e 35.2 Statuto SEBC e BCE).
c) Fino a quando l’euro non sarà stato adottato da tutti gli Stati membri, la BCE avrà anche un terzo organo decisionale, il Consiglio generale, composto dal Presidente e dal Vicepresidente della BCE, nonché dai governatori di tutte le BCN dei paesi dell’Unione, anche quindi di quelli non appartenenti all’eurozona (v. art. 141 TFUE e artt. 43-46 Statuto SEBC e BCE. Possono però partecipare alle riunioni del Consiglio generale, senza diritto di voto, gli altri quattro membri del Comitato esecutivo della BCE, il Presidente del Consiglio dell’Unione europea e un membro della Commissione europea). Si tratta comunque di un organo transitorio, che sarà sciolto quando non vi saranno più Stati membri con deroga. Nel rispetto delle competenze del Consiglio direttivo e del Comitato esecutivo, il Consiglio generale ha il compito di rafforzare, con riguardo agli Stati membri con deroga, la cooperazione tra le BCN e il coordinamento delle politiche monetarie degli Stati membri per garantire la stabilità dei prezzi; sorvegliare il funzionamento del meccanismo di cambio; procedere a consultazioni su questioni che rientrano nelle competenze delle BCN e riguardano la stabilità degli istituti e dei mercati finanziari: esercitare i compiti transitori lasciati in sospeso dalla liquidazione dell’IME e che devono ancora essere assolti dalla BCE. Esso partecipa inoltre, tra l’altro, alle funzioni consultive della BCE, alla raccolta d’informazioni statistiche, alla compilazione dei rapporti della BCE, alla fissazione delle disposizioni per l’uniformazione delle procedure contabili delle BCN, ai preparativi per la fissazione dei tassi di cambio delle monete degli Stati membri con deroga che devono aderire all’euro. d) Dell’inserimento delle BCN nel sistema del SEBC e nella struttura della BCE si è già detto, come pure dello statuto d’indipendenza delle stesse, nonché delle connesse garanzie. Qui conviene ancora ricordare che le BCN operano come una sorta di organi decentrati del sistema, dato che la BCE può loro affidare, «per quanto pos-
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sibile ed opportuno», l’esecuzione dei compiti del SEBC (artt. 9.2, 12.1, e 14.3 Statuto SEBC e BCE). Anche in tale funzione, tuttavia, e nonostante siano le uniche detentrici del capitale della BCE, le BCN restano soggette al potere direttivo di quest’ultima, che si esprime soprattutto, come si è detto, nella formulazione degli indirizzi e delle istruzioni (situazione molto diversa quindi da quella degli azionisti di una società di diritto privato, che possono imporre le decisioni alla società e al management). Infine, esse possono svolgere funzioni diverse da quelle autorizzate dalle disposizioni del Trattato, ma ciò solo se il comitato direttivo della BCE non ritiene tali funzioni incompatibili con gli obiettivi e i compiti del SEBC. e) Quanto poi all’altro pilastro dell’UEM, vale a dire il coordinamento delle politiche economiche, va segnalato che per assicurare in modo più efficace tale coordinamento tra gli Stati membri dell’eurozona, in modo particolare per discutere di tutti i temi connessi alle scelte economiche e ai bilanci nazionali sia all’interno dell’Unione che sul piano internazionale, il Trattato di Lisbona ha formalizzato il c.d. Eurogruppo, cioè l’organo che riunisce i Ministri delle finanze dei paesi della zona euro appunto per discutere delle questioni interessanti tale zona. La formalizzazione suona conferma dell’importanza che questa istanza, di fatto istituita già dal Consiglio europeo di Lussemburgo del 12-13 dicembre 1997, aveva acquisito nel corso del tempo all’interno dell’Ecofin (Consiglio dei ministri delle economie e delle finanze di tutti gli Stati membri dell’Unione). In effetti, pur essendo quest’ultimo l’unico organo istituzionalmente deputato al coordinamento delle politiche economiche di tutti Stati membri dell’(allora) Comunità e alle relative decisioni, all’interno di esso avevano acquisito crescente rilievo le riunioni dei competenti Ministri degli Stati membri dell’eurozona per le questioni relative alla moneta unica. Ma queste, anche se vi partecipavano la Commissione ed eventualmente la BCE, restavano riunioni informali, di natura intergovernativa, le cui eventuali decisioni dovevano comunque essere successivamente formalizzate dal Consiglio Ecofin secondo le procedure stabilite dal Trattato. Così, dopo vari passaggi, il Trattato di Lisbona ha finalmente inserito l’Eurogruppo nel sistema, dedicandogli anche un apposito Protocollo (il n. 14), allegato al Trattato e affidandogli gli stessi compiti di cui sopra. Esso resta però pur sempre sede di riunioni informali dei Ministri dell’eurozona, il che implica che se i risultati delle stesse devono essere tradotti in atti formali, questi sono assunti dal Consiglio Ecofin nella composizione ristretta ai soli Stati euro (art. 136 TFUE). Le riunioni dell’Eurogruppo, che può eleggere nel proprio ambito, a maggioranza, un Presidente per un periodo di due anni e mezzo, si tengono di regola con cadenza mensile (di solito, alla vigilia dei Consigli Ecofin) e vi partecipano anche il Presidente e il Vicepresidente della BCE, assieme al Commissario per gli affari economici e monetari. Da quanto precede, emerge però che l’istituzione dell’Eurogruppo ha accentuato anche l’importanza del ruolo del Consiglio, nella formazione Ecofin. Spetta invero a questo, nella composizione ristretta dei membri la cui moneta è l’euro, svolgere un ruolo centrale adottando – secondo le procedure per l’elaborazione degli indirizzi di massima per le politiche economiche e di monitoraggio sul loro funzionamento (art. 121 TFUE), nonché di quelle relative al controllo sui disavanzi pubblici eccessivi
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(art. 126 TFUE) – misure per rafforzare il coordinamento e la sorveglianza della disciplina di bilancio e per elaborare gli orientamenti di politica economica, vigilare sulla loro compatibilità con quelli adottati dall’insieme dell’Unione e garantire la relativa sorveglianza (art. 136 TFUE). f) Né va sottovalutato, in tale contesto, il rafforzamento del ruolo del Consiglio europeo, segnatamente nella sua veste di «Vertice euro» o Eurosummit, cioè nella composizione dei Capi di Stato o di governo dei paesi la cui moneta è l’euro, nonché del Presidente della Commissione. Con l’aggravarsi della crisi economica, infatti, il Consiglio europeo del 23 ottobre 2011 ha ritenuto opportuno dare un corrispondente all’Eurogruppo introducendo per l’appunto la prassi dei “Vertice euro” al livello dei Capi di Stato e di governo. Non solo, ma per migliorare ulteriormente la concertazione in questo ambito il Presidente dell’Eurosummit, il Presidente della Commissione ed il Presidente dell’Eurogruppo si riuniscono almeno una volta al mese. A differenza degli altri sviluppi istituzionali indicati, l’Eurosummit non ha ancora ricevuto formale riconoscimento nel Trattato di Lisbona, anche se ad esso fa cenno il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’UEM, di cui diremo più avanti. g) Funzioni di rilievo svolge poi, nell’ambito dell’UEM, il Comitato economico e finanziario (CEF), il quale ha ereditato ruolo e compiti del suo diretto predecessore, il Comitato monetario, destinato a estinguersi con l’inizio della terza fase dell’UEM per essere appunto sostituito dal CEF (art. 114, par. 2, TCE. Tale Comitato era stato a sua volta istituito, ai sensi dell’art. 105 TCEE, con una decisione del Consiglio, del 18 marzo 1958, GUCE n. 17, 390). La disciplina dell’organo è però rimasta sostanzialmente invariata ed è oggetto oggi dell’art. 134 TFUE. Essa è integrata dalle norme della dec. 98/743/CE del Consiglio, del 21 dicembre 1998, sulle disposizioni specifiche relative alla composizione del CEF (GUCE L 358, 109), sostituita poi dalla decisione 2012/245 del Consiglio, del 26 aprile 2012, relativa alla revisione dello statuto del Comitato economico e finanziario (GUUE L 121, 22). Il Comitato è composto da membri titolari e supplenti, scelti, per un periodo di tempo non definito, «tra esperti in possesso di altissima competenza nel campo dell’economia e della finanza», ed è diretto da un Presidente ed un Vicepresidente, nominati per due anni. I membri sono designati, in numero non superiore a due per ciascuno di essi, dagli Stati membri, dalla Commissione e dalla BCE (art. 134, par. 2, comma 2, TFUE) e possono provenire anche dalle BCN. Le principali funzioni del Comitato sono definite dallo stesso art. 134 TFUE (par. 2), ai sensi del quale esso svolge funzioni consultive a richiesta del Consiglio o della Commissione o a iniziativa dello stesso Comitato; segue la situazione economica e finanziaria degli Stati membri e dell’Unione, specie per quanto riguarda le relazioni finanziarie con i paesi terzi e le istituzioni internazionali (specie con il FMI), e ne riferisce al Consiglio e alla Commissione; contribuisce alla preparazione dei lavori del Consiglio e può svolgere i compiti consultivi e preparatori che questo gli affida; esamina la situazione riguardante i movimenti di capitali e la libertà dei pagamenti e ne riferisce al Consiglio e alla Commissione.
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4. Segue : Le relazioni esterne dell’UEM Specifiche disposizioni sono previste dai Trattati anche per quanto riguarda le relazioni esterne dell’Unione in materie rilevanti per l’UEM e limitatamente agli Stati membri dell’eurozona. Ciò vale anzitutto in ordine alla definizione della posizione dell’Unione nell’ambito delle competenti istituzioni e conferenze finanziarie internazionali. Con una disciplina più precisa e più efficace della precedente disposizione (art. 111, par. 4, TCE), l’art. 138, par. 1, TFUE prevede infatti che «per garantire la posizione dell’euro nel sistema monetario internazionale», su proposta della Commissione e previa consultazione della BCE, il Consiglio adotti, a maggioranza qualificata dei soli paesi la cui moneta è l’euro, «posizioni comuni» sulle questioni che rivestono un interesse particolare per l’UEM nell’ambito delle competenti istituzioni e conferenze finanziarie internazionali, e cioè, vista la genericità dell’espressione, in tutte le istanze internazionali che si occupano di materie monetarie e finanziarie, alle quali l’Unione partecipa. Alla stessa logica si ispira il par. 2 della disposizione per quanto riguarda, la rappresentanza dell’Unione all’interno di quei consessi. Al riguardo, e all’evidente fine di assicurare all’Unione una presenza istituzionale più efficace e più visibile, viene attribuito al Consiglio il potere di adottare «misure opportune» per garantire una «rappresentanza unificata» nell’ambito di quei fori. Quali siano tali misure non è meglio precisato dai testi, ma questo intenzionalmente, visto che si tratta di adattare l’intervento alla specificità delle circostanze: è da presumere peraltro che si tratterà, di regola, di designare le persone e gli organi aventi titolo a rappresentare l’UEM nella sua integralità, definirne il mandato e dare ad essi le necessarie istruzioni. Quanto invece agli accordi internazionali, la materia riceve un’apposita disciplina nell’art. 219 TFUE, che non solo costituisce una deroga a quella dettata in termini generali per gli accordi dell’Unione dall’art. 218 TFUE (infra, p. 834 ss.), ma assolve altresì a una ben più importante funzione. A differenza infatti di quest’ultima disposizione, che concerne unicamente la procedura rilevante ai fini della conclusione degli accordi dell’Unione (perché in effetti la relativa competenza risulta già dai principi o da altri testi dei Trattati), l’art. 219 TFUE ha invece anche la funzione di fondare la specifica competenza in esame. In particolare, tale disposizione stabilisce che l’Unione può concludere «accordi formali» su un sistema di tassi di cambio dell’euro nei confronti delle valute di Stati terzi. A tal fine, è previsto che, nell’intento di pervenire a un consenso compatibile con l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il Consiglio, deliberando all’unanimità, su raccomandazione della BCE o su raccomandazione della Commissione, previa consultazione della BCE e del Parlamento europeo (par. 1, comma 1), possa concludere detti accordi con uno o più Stati terzi o organizzazioni internazionali. Sempre il Consiglio, poi, decide in ordine alle modalità per la negoziazione e la conclusione di detti accordi; e lo fa deliberando a maggioranza qualificata, su raccomandazione della Commissione e previa consultazione della BCE. Ai fini indicati, esso deve operare nell’intento di «assicurare che l’Unione esprima una posizione unica» e associare pienamente la Commissione ai negoziati (art. 219, par. 3, TFUE).
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Gli accordi in parola sono definiti, in modo assai singolare, come «accordi formali», probabilmente per escludere le mere intese informali o in forma semplificata, ed imporre sempre in questi casi le procedure solenni, accompagnate da firma e ratifica secondo le procedure consuete del diritto internazionale e quelle corrispondenti del diritto interno delle parti contraenti. Come emerge da quanto precede, il ruolo centrale in materia è riservato al Consiglio, vista la rilevanza di quegli accordi per la politica estera e le relazioni commerciali dell’Unione. Per questo stesso motivo, l’art. 219 TFUE prevede che, ai fini delle scelte dell’Unione in relazione a detti accordi, il Consiglio, su raccomandazione della BCE o su raccomandazione della Commissione e previa consultazione della BCE, nell’intento di pervenire ad un consenso coerente con l’obiettivo della stabilità dei prezzi, possa adottare, adeguare o abbandonare i tassi centrali dell’euro all’interno del sistema dei tassi di cambio. Il Presidente del Consiglio informa il Parlamento europeo dell’adozione, dell’adeguamento o dell’abbandono dei tassi centrali dell’euro (par. 1, comma 2). Ma l’art. 219 TFUE prende anche in considerazione l’ipotesi in cui manchi un sistema di tassi di cambio rispetto a una o più valute di Stati terzi e in cui quindi l’Unione possa sviluppare unilateralmente e in piena libertà la politica del cambio. In tale eventualità, il Consiglio, su raccomandazione della Commissione e previa consultazione della BCE, o su raccomandazione di quest’ultima, può formulare, nel rispetto dell’obiettivo prioritario della stabilità dei prezzi, gli «orientamenti generali» di politica del cambio nei confronti di dette valute (par. 2). La descritta procedura per definire le modalità per la negoziazione e la conclusione degli accordi in materia di cambi, si applica in principio a tutti gli accordi in materia monetaria e valutaria con Stati terzi o altre organizzazioni internazionali. Tali modalità sono quindi anche in tal caso decise dal Consiglio, su raccomandazione della Commissione e previa consultazione della BCE, e anche qui devono assicurare che l’Unione esprima una posizione unica e che la Commissione sia associata a pieno titolo ai negoziati. Non viene invece riproposta la previsione dell’unanimità per le deliberazioni del Consiglio, né la previa consultazione del Parlamento europeo (art. 219, par. 3, TFUE). Resta in ogni caso fermo che la competenza dell’Unione a concludere gli accordi di cui si è fin qui discusso non esclude quella degli Stati membri, ovviamente però senza pregiudizio della competenza attribuita all’Unione e degli accordi da essa stipulati (art. 219, par. 4, TFUE). La disposizione costituisce dunque una regolamentazione compiuta per la procedura di negoziazione di tutti gli accordi in materia monetaria e valutaria, in deroga, come si è detto, all’art. 218 TFUE. Il mancato richiamo del par. 11 di tale articolo induce quindi a ritenere che per gli accordi in esame non possa essere richiesto il parere della Corte di giustizia, come invece previsto per tutti gli accordi di cui a tale disposizione.
5. La politica economica Passando ora al merito delle due politiche in oggetto, conviene anzitutto ribadire che l’intensità dei poteri dell’Unione e dei corrispondenti obblighi degli Stati mem-
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bri non è uguale nei due casi. Ai rigorosi e stringenti meccanismi previsti per la politica monetaria fa da pendant, in principio e secondo la normativa del TFUE, un sistema meno incisivo per quanto riguarda la politica economica. Rispetto a questa, infatti, la competenza dell’Unione è essenzialmente limitata al coordinamento delle politiche economiche nazionali, le quali tuttavia continuano a restare nella competenza degli Stati membri, anche se questi devono considerarle come questioni di interesse comune e attuarle in modo tale da contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione, e quindi coordinarle in seno al Consiglio, secondo le indicazioni dei competenti organi dell’Unione. Ciò emerge chiaramente già dalle norme introduttive del TFUE quando affermano, in termini generali, che gli Stati membri «coordinano le loro politiche economiche» (artt. 2, par. 3 e 5, par. 1, TFUE; corsivo aggiunto) e che a tal fine il Consiglio adotta «delle misure, in particolare gli indirizzi di massima per dette politiche» (art. 5, par. 1, TFUE).
È proprio questo, del resto, il motivo per il quale l’Unione ha in materia una mera competenza parallela, nel senso di cui si è detto in precedenza (supra, p. 421). I Trattati, infatti, non riconducono tale competenza, né tra quelle esclusive (art. 3 TFUE), né tra quelle concorrenti (art. 4 TFUE), e neanche tra quelle in cui l’Unione ha una competenza di sostegno, coordinamento o completamento (art. 6 TFUE). Nell’art. 2 TFUE, che contiene un elenco delle tipologie di competenze che l’Unione può esercitare, il coordinamento delle politiche economiche viene citato in un paragrafo a parte (par. 3), costituendo esso, al pari delle politiche occupazionali e in parte di quelle sociali, una categoria a sé di competenze. Venendo al merito della pertinente disciplina, consegue a quanto poc’anzi indicato che i poteri di cui l’Unione dispone nella materia ora in esame sono piuttosto limitati, anche se, come vedremo più avanti, è proprio in questa materia che sono intervenute negli ultimi anni, in risposta alla crisi dei debiti sovrani, le più importanti innovazioni rispetto al quadro originario. Tenendoci però per il momento a quest’ultimo, si è già sottolineato che, come emerge dal citato art. 119 TFUE, la disciplina della materia è imperniata sull’idea che la politica economica degli Stati membri debba essere strettamente coordinata e controllata secondo i principi e i criteri annunciati in quella stessa disposizione, e poi ribaditi dall’art. 120 TFUE, nonché secondo le regole dettate dagli artt. 121-126 TFUE. La disposizione impone agli Stati membri di attuare la propria politica economica in modo da contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione e in conformità agli indirizzi di massima di cui diremo, nel rispetto di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo un’efficace allocazione delle risorse secondo i principi di cui appunto all’art. 119 TFUE.
In sostanza, e con riserva appunto delle evocate successive evoluzioni, il sistema si articola, riassuntivamente, nei seguenti termini: il Consiglio definisce indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e per quelle dell’Unione; un meccanismo di sorveglianza multilaterale viene quindi istituito per verificare il rispetto di tali indirizzi; contestualmente agli Stati membri vengono imposti un divieto di disavanzi pubblici eccessivi, con relative procedure di controllo ed eventualmente
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di sanzione, nonché di altri comportamenti pregiudizievoli per una corretta disciplina fiscale; ma sono altresì previste misure di sostegno agli Stati membri in alcuni specifici casi di gravi difficoltà. Vediamo più analiticamente questi passaggi. a) Emerge dunque anzitutto da tali disposizioni che il coordinamento delle politiche economiche è attuato attraverso indirizzi di massima, cioè attraverso atti formalmente non vincolanti, che indicano le priorità e gli orientamenti per la conduzione del complesso delle politiche economiche. Il mancato rispetto di quegli indirizzi non dà luogo quindi all’applicazione di vere e proprie sanzioni. Tuttavia, esso può venire in rilievo nel contesto di una più ampia valutazione della situazione di uno Stato membro, che viene condotta sulla base di una serie di strumenti – come il Semestre europeo – istituiti nel contesto della crisi dei debiti sovrani, su cui v. più avanti. Definiti anche «grandi orientamenti delle politiche economiche» («GOPE»), tali indirizzi si compongono di solito di una parte generale sull’economia dell’Unione, e di un’altra che contiene raccomandazioni specifiche per ciascuno degli Stati membri, e includono elementi di politica macroeconomica e microeconomica, nonché di politica fiscale, di bilancio e di lavoro. Anche per questo motivo, con la comunicazione 3 settembre 2002 «Sulla razionalizzazione dei cicli annuali di coordinamento delle politiche economiche e per l’occupazione» (COM (2002) 487 def.), la Commissione propose di elaborare uno specifico strumento di sintesi per quelle politiche, proposta poi recepita dal Consiglio europeo (Bruxelles 20-21 marzo 2003 e 22-23 marzo 2005), che impegnò anche le altre istituzioni ad adottare, in conformità con gli artt. 121 e 148 TFUE, un unico documento (i c.d. «orientamenti integrati»), composto di due elementi separati: gli indirizzi di massima per le politiche economiche e gli orientamenti in materia di occupazione.
Tali indirizzi vengono adottati dal Consiglio a seguito di una procedura per la verità assai macchinosa: in estrema sintesi, essi sono oggetto di una raccomandazione della Commissione al Consiglio, il quale dopo aver elaborato un progetto di massima al riguardo, ne riferisce al Consiglio europeo; quest’ultimo, dopo averne discusso, trasmette le proprie «conclusioni» al Consiglio, il quale, sulla base delle stesse, adotta una raccomandazione che definisce quegli indirizzi e ne informa anche il Parlamento europeo (v. art. 121, par. 2, TFUE. Con l’introduzione del c.d. Semestre europeo, di cui diremo tra breve, il coordinamento viene oggi organizzato già ex ante). b) Il controllo sul rispetto degli indirizzi di massima è assicurato da un apposito meccanismo di «sorveglianza multilaterale» al fine di garantire per l’appunto «un più stretto coordinamento delle politiche economiche e una convergenza duratura dei risultati economici degli Stati membri» (art. 121, par. 3, comma 1, TFUE). Spetta al Consiglio assicurare tale sorveglianza, sulla base di apposite relazioni preparate dalla Commissione, che a sua volta deve ricevere dagli Stati membri tutte le informazioni a tal fine necessarie. Nel caso che dalla sorveglianza emergano dubbi sulla coerenza delle politiche economiche di uno Stato membro, la Commissione può «rivolgere un avvertimento» a tale Stato. In caso di esito negativo di tale avvertimento, la Commissione potrà formulare una raccomandazione al Consiglio, sulla base della quale quest’ultimo può a sua volta rivolgere allo Stato le «necessarie raccomandazioni» (c.d. early warning) ed eventualmente, su proposta della Commissione, renderle pubbliche. Art. 121, par. 4, TFUE. In tale procedura, il Consiglio delibera a maggioranza qualificata, definita però senza tener conto dei voti dello Stato membro destinatario delle raccomandazioni (art.
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238, par. 3, lett. a), TFUE). Il PE è informato sui risultati della sorveglianza multilaterale e può, qualora le raccomandazioni nei confronti di uno Stato siano rese pubbliche, invitare il Presidente del Consiglio a comparire dinanzi alla sua commissione competente.
Tale procedura è stata poi ulteriormente specificata e rafforzata da successivi atti adottati, prevalentemente ai sensi dello stesso art. 121, par. 6, TFUE. Per ora, ci limitiamo a segnalare che il primo passo in questa direzione è stato compiuto, già prima del Trattato di Lisbona, con il cosiddetto «Patto di stabilità e di crescita» (PSC), annunciato dalla risoluzione del Consiglio europeo di Amsterdam, del 17 giugno del 1997 (GUCE C 236, 1), realizzato poi con il reg. (CE) n. 1466/97, del Consiglio, del 7 luglio 1997, per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche, GUCE L 209, 1 (poi modificato dai regolamenti (CE) del Consiglio n. 1055/2005 e n. 1056/2005, del 27 giugno 2005, GUUE L 174, rispettivamente 1 e 5, e dal reg. (UE) n. 1175/2011 del PE e del Consiglio, del 16 novembre 2011, GUUE L 306, 12, sui quali torneremo ancora più avanti) e con il reg. (CE) n. 1467/1997, del Consiglio, del 7 luglio 1997, per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi, GUCE L 209, 6), e successivamente precisato con il reg. (UE) n. 1173/2011, del PE e del Consiglio, del 16 novembre 2011, relativo all’effettiva esecuzione della sorveglianza di bilancio nella zona euro (GUUE L 306, 1), applicabile ai soli Stati la cui moneta è l’euro, il quale stabilisce un sistema di sanzioni volto a migliorare il rispetto della parte preventiva e della parte correttiva del patto di stabilità e crescita nella zona euro (ma in pari data sono stati adottati anche gli altri regolamenti che compongono il c.d. Six Pack, di cui pure diremo tra breve). Il PSC stabiliva le disposizioni relative al contenuto, alla presentazione, all’esame e alla sorveglianza dei programmi di stabilità e dei programmi di convergenza nell’ambito della sorveglianza multilaterale che deve essere esercitata dal Consiglio per prevenire tempestivamente il determinarsi di disavanzi pubblici eccessivi e promuovere la sorveglianza e il coordinamento delle politiche economiche (art. 1, reg. n. 1466/97). c) Al fine di conformarsi agli indirizzi di massima, gli Stati membri sono e devono restare i soli responsabili delle proprie finanze pubbliche e assicurarne il corretto andamento, perché, nella logica dell’UEM, essi devono mantenere la capacità di finanziarsi autonomamente sui mercati, grazie alla sostenibilità delle loro politiche di spesa pubblica e alla credibilità dei loro impegni futuri in materia. Era forte, in effetti, il timore che l’inserimento in un’unione monetaria potesse incoraggiare la propensione al lassismo fiscale da parte dei governi nazionali e in particolare la tentazione di finanziare la spesa pubblica privilegiando il ricorso all’indebitamento rispetto all’incremento del prelievo fiscale. Queste preoccupazioni sono all’origine delle previsioni del TFUE che fissano alcuni vincoli alle modalità di finanziamento degli Stati membri (artt. 123125 TFUE) e pongono limiti ai loro disavanzi di bilancio (art. 126 TFUE). Quanto ai primi, va segnalato che è anzitutto fatto divieto alla BCE e alle banche centrali nazionali di offrire all’Unione e agli Stati membri, in tutte le loro articolazioni, «scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia», così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito pubblico.
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Art. 123 TFUE. Va tuttavia sottolineato che il divieto in parola si riferisce esclusivamente all’«acquisto diretto» presso le amministrazioni pubbliche, senza escludere quindi la possibilità per le banche centrali di acquistare titoli del debito pubblico sul mercato secondario (v. su questo punto, ma non solo, il reg. (CE) n. 3603/93 del Consiglio, del 13 dicembre 1993, che precisa le definizioni necessarie all’applicazione dei divieti enunciati agli artt. 104 e 104 B, par. 1, TCE, corrispondenti oggi all’art. 123 TFUE) (GUCE L 332, 1). Ai fini dei divieti in esame, e proprio per evitare ogni forma di elusione, il settore pubblico è definito in forma particolarmente ampia: amministrazioni statali, enti regionali, locali o altri enti pubblici, organismi di diritto pubblico, imprese pubbliche (v. ancora il reg. n. 3603/93).
Del pari, è vietata qualsiasi misura, non basata su considerazioni prudenziali, che permetta agli stessi soggetti un «accesso privilegiato alle istituzioni finanziarie». Art. 124 TFUE. L’ambito di applicazione di tale divieto risulta dal reg. (CE) n. 3604/93 del Consiglio, del 13 dicembre 1993, che precisa le definizioni ai fini dell’applicazione del divieto di accesso privilegiato di cui all’art. 104 A TCE (corrispondente oggi all’art. 124 TFUE) (GUCE L 332, 4). Esso chiarisce che per «misura che offre un accesso privilegiato alle istituzioni finanziarie» deve intendersi qualsiasi disposizione vincolante che attribuisca vantaggi fiscali ai soggetti indicati nell’art. 124 TFUE, o obblighi le istituzioni finanziarie ad acquistare o a detenere titoli di debito emessi dagli stessi soggetti. Detto regolamento precisa altresì che il divieto in parola può essere sospeso esclusivamente in considerazione dell’esigenza di rafforzare la solidità delle istituzioni finanziarie, e quindi la stabilità del sistema finanziario nel suo insieme, e al tempo stesso di tutelare i clienti di tali istituzioni.
Inoltre, è fatto divieto all’Unione di rispondere o assumere responsabilità per impegni finanziari assunti dagli Stati membri o dalle loro diverse articolazioni interne (e a questi ultimi per i medesimi impegni assunti da un altro Stato membro), fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto specifico (divieto noto come no bail-out clause) (art. 125 TFUE). La disposizione, che costituisce uno dei pilastri della disciplina di bilancio introdotta dai Trattati, sancisce così la netta separazione tra i bilanci degli Stati membri e l’impossibilità che altri Stati o l’Unione possano essere chiamati a rispondere per i debiti di uno di essi. E ciò da un lato per evitare che, stante l’alto grado d’interdipendenza tra le economie degli Stati membri, le erronee o imprudenti scelte di bilancio di uno di essi possano ripercuotersi negativamente sulle economie dei partners (c.d. effetto spill-over); dall’altro, per spingere uno Stato eccessivamente indebitato, e quindi in difficoltà nel procurarsi i necessari finanziamenti (salvo ad accordare agli investitori tassi di interesse assai elevati), a prendere misure rigorose per correggere il debito e conformarsi alla prescritta disciplina di bilancio, evitando così comportamenti, come suol dirsi, di moral hazard. Vedremo comunque più avanti i riflessi che anche sull’applicazione di tale disposizione ha esplicato la crisi dei debiti sovrani. Va ricordato che, ai fini dell’applicazione degli artt. 123-125 TFUE, il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del PE, può precisare le definizioni necessarie per l’applicazione dei divieti da essi previsti (art. 125, par. 5, TFUE), il che è appunto avvenuto con i citati reg. nn. 3603/93 e 3604/93.
d) Il quadro normativo in esame è completato dalle disposizioni relative al divieto di disavanzi pubblici eccessivi, che consentono alle istituzioni dell’Unione l’esercizio
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di penetranti poteri a tutela della stabilità del sistema (e soprattutto dell’eurozona, come prova anche il fatto che esse sono solo in parte applicabili agli Stati con deroga: art. 139, par. 2, lett. b), TFUE) e che sono state anch’esse ulteriormente rafforzate dalle misure adottate per far fronte alla crisi dei debiti sovrani. In concreto, quelle disposizioni, e segnatamente l’art. 126 TFUE, prevedono che, nel caso in cui uno Stato membro non riesca a rispettare la disciplina fiscale e si trovi quindi in una situazione di deficit pubblico eccessivo, scatta un’articolata e complessa procedura, che qui di seguito riassumiamo per l’essenziale. Tale disciplina è precisata dal Protocollo (n. 12) sulla procedura per i disavanzi eccessivi, allegato al Trattato di Lisbona, ma il Consiglio, deliberando all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del PE e della BCE, può adottare le opportune disposizioni sostitutive di detto Protocollo, così come può, su proposta della Commissione e previa consultazione del PE, precisarne le modalità e le definizioni per l’applicazione delle relative disposizioni (art. 126, par. 14, TFUE). In proposito, a parte quanto si dirà più avanti, v. reg. (CE) n. 479/2009 del Consiglio, del 25 maggio 2009, relativo all’applicazione del Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi (GUUE L 145, 1); reg. (CE) n. 1055/2005 del Consiglio, del 27 giugno 2005, che modifica il reg. (CE) n. 1466/97 per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche (GUUE L 174, 1); reg. (CE) n. 1056/2005 del Consiglio, del 27 giugno 2005, che modifica il reg. (CE) n. 1467/97 per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi (GUUE L 174, 5).
Per cominciare, va precisato che la conformità alla disciplina di bilancio è valutata con riferimento a due parametri riguardanti rispettivamente il deficit di bilancio e il debito pubblico. Spetta alla Commissione sorvegliare l’evoluzione della situazione di ciascuno Stato membro e, ove concluda in senso negativo sul rispetto di quei parametri (o, anche se conclude in senso positivo, ove sussista il rischio di un disavanzo eccessivo), preparare una relazione, tenendo conto altresì dell’eventuale differenza tra il disavanzo pubblico e la spesa pubblica per gli investimenti, nonché di qualsiasi altro fattore significativo. Per quanto riguarda il rapporto tra il disavanzo pubblico, previsto o effettivo, e il PIL, esso non deve superare il valore di riferimento specificato nel ricordato Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi, il quale fissa il limite massimo dello stesso al 3% del PIL, a meno che il rapporto non sia diminuito in modo sostanziale e continuo e abbia raggiunto un livello che si avvicina al valore di riferimento; oppure, in alternativa, che il superamento del valore di riferimento sia solo eccezionale e temporaneo e il rapporto resti vicino al valore di riferimento. Quanto al rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, esso non deve superare il valore di riferimento specificato nel ricordato Protocollo, e cioè il 60% del PIL, a meno che detto rapporto non si stia riducendo in misura sufficiente e non si avvicini al valore di riferimento con ritmo adeguato.
Se individua il rischio di un disavanzo eccessivo, la Commissione formula un parere allo Stato interessato e ne informa il Consiglio. Quest’ultimo, sulla base di tale parere e delle reazioni dello Stato, decide sollecitamente sull’esistenza di un disavanzo eccessivo. In tal caso, e sulla base di una raccomandazione della Commissione, esso indirizza a sua volta delle raccomandazioni, inizialmente non pubbliche, allo Stato imponendogli di porre termine alla situazione entro un determinato periodo.
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Il Consiglio delibera in questo caso, e negli altri di cui subito si dirà, su raccomandazione della Commissione, e a maggioranza qualificata, ma senza tener conto del voto del membro del Consiglio che rappresenta lo Stato membro in questione. Si noti che, secondo la Corte, il Consiglio non può discostarsi dai descritti passaggi della procedura, né modificare i presupposti per l’adozione di un atto, in particolare per l’irrogazione delle sanzioni: Corte giust. 13 luglio 2004, C-27/04, Commissione c. Consiglio, I-6649.
Se così non avviene, il Consiglio può intimare allo Stato membro di prendere, entro un termine stabilito, le misure a suo avviso utili alla riduzione del disavanzo e chiedergli di presentare relazioni secondo un calendario preciso per verificare gli eventuali progressi (ricordiamo che questa fase della procedura, come quella successiva, non si applica agli Stati membri con deroga: art. 139, par. 2, lett. b), TFUE). Nelle more, esso può applicare talune misure, che saranno naturalmente abrogate se e quando il disavanzo eccessivo dovesse essere corretto. In particolare, il Consiglio può chiedere che lo Stato membro interessato pubblichi informazioni supplementari, che saranno specificate dal Consiglio, prima dell’emissione di obbligazioni o altri titoli; invitare la Banca europea per gli investimenti (BEI) a riconsiderare la sua politica dei prestiti verso lo Stato membro in questione; richiedere che quest’ultimo costituisca un deposito infruttifero d’importo adeguato presso l’Unione; infliggere ammende di entità adeguata. Di tali misure è informato il PE. Va segnalato che nel contesto della descritta procedura non sono applicabili gli artt. 258 e 259 TFUE, relativi ai ricorsi per inadempimento del diritto dell’Unione da parte di uno Stato membro (art. 126, par. 10, TFUE). Non è tuttavia possibile escludere che esistano residui spazi per la competenza della Corte di giustizia, in particolare quanto al rispetto da parte del Consiglio e della Commissione dei passaggi della riferita procedura (v. sentenza 13 luglio 2004, C-27/04, Commissione c. Consiglio, cit.).
Anche alla descritta procedura, peraltro, sono state apportate successivamente importanti modifiche su cui torneremo in seguito (par. 8). Qui ci limitiamo a ricordare che, in forza di tali innovazioni, l’irrogazione delle sanzioni può ora scattare già nello stadio iniziale della procedura, insieme quindi, piuttosto che dopo le raccomandazioni, e che l’ammontare dell’ammenda va graduato, secondo precise indicazioni, in base alla ricchezza complessivamente prodotta dallo Stato in questione, nonché in base al livello di scostamento del tetto relativo al rapporto deficit/PIL. Inoltre, viene introdotta la c.d. «maggioranza qualificata inversa» (reverse qualified majority), segnatamente per l’adozione delle decisioni del Consiglio che adottano le sanzioni: l’atto cioè si considera adottato a meno che il Consiglio lo respinga con un voto a maggioranza qualificata. V. in particolare i regolamenti (UE) del PE e del Consiglio: n. 1173/2011, del 16 novembre 2011, già citato; n. 1174/2011, del 16 novembre 2011, sulle misure esecutive per la correzione degli squilibri macroeconomici eccessivi nella zona euro (GUUE L 306, 8); nonché il reg. (UE) n. 1177/2011 del Consiglio, dell’8 novembre 2011, che modifica il citato reg. (CE) n. 1467/97 (GUUE L 306, 33). L’ammenda deve essere pari alla somma di un elemento fisso pari allo 0,2% del PIL e di un elemento variabile pari a un decimo dello scostamento tra il disavanzo effettivo e il suo ‘valore limite’ stabilito dal Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi, vale a dire il 3% del PIL, a condizione che l’importo complessivo non superi lo 0,5% del PIL.
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e) Tutto quanto precede, oltre a riguardare soprattutto gli Stati dell’area euro, non esclude che il Consiglio, su proposta della Commissione, possa decidere, «in uno spirito di solidarietà tra Stati membri», misure di sostegno adeguate alla situazione economica di uno Stato membro (analoghe misure, come vedremo, sono previste anche per gli Stati membri con deroga: art. 143 TFUE), in particolare in caso di «gravi difficoltà nell’approvvigionamento di determinati prodotti, in particolare nel settore dell’energia», ovvero nel caso in cui lo Stato versi «in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggano al suo controllo». V. art. 122, rispettivamente parr. 1 e 2, TFUE. L’applicazione di misure di sostegno in caso di situazione di crisi delle forniture di prodotti petroliferi, a seguito dell’embargo decretato dai paesi produttori, era già stato ipotizzato dalla Corte con riguardo all’art. 103 TCEE (sentenza 29 giugno 1978, 77/77, B.P., 1513; v. anche successivamente, con riguardo all’art. 122 TFUE, sentenza 6 settembre 2012, C-490/10, Parlamento c. Commissione). Ad ogni modo, dato il suo carattere derogatorio, la norma è di stretta interpretazione (v. sentenze 24 ottobre 1973, 5/73, Balkan-ImportExport, 1091; 24 ottobre 1973, 9/73, Schlüter, 1135; 23 gennaio 1975, 31/74, Galli, 47) e di certo «non rappresenta un fondamento giuridico adeguato per un’eventuale assistenza finanziaria dell’Unione agli Stati membri che già si trovano o rischiano di trovarsi in gravi problemi finanziari» (Corte giust. 27 novembre 2012, C-370/12, Pringle, punto 116), anche se «nulla nell’art. 122 TFUE indica che solo l’Unione sia competente a concedere un’assistenza finanziaria ad uno Stato membro» (ivi, punto 120). La Corte ha anche riconosciuto, con riguardo alla definizione delle misure appropriate alle situazioni considerate, che il Consiglio può scegliere di volta in volta quella che gli sembri la più adatta (sentenza 24 ottobre 1973, 5/73, Balkan-Import-Export, cit.). La difficoltà (esistente o minacciata), di cui all’art .122, par. 2, TFUE deve sfuggire al controllo dello Stato interessato e quindi, non essere a lui «imputabile», perché in tal caso esso riceverebbe non l’assistenza ex art. 122, par. 2, TFUE, ma eventualmente una sanzione ai sensi dell’art. 126 TFUE. Sulla base di questa disposizione è stato istituito il primo «salva Stati» dell’UEM (v. più avanti, par. 8).
6. La politica monetaria Diversamente dalla competenza sul coordinamento delle politiche economiche, quella relativa alla politica monetaria è una competenza esclusiva dell’Unione, almeno relativamente agli Stati membri la cui moneta è l’euro (art. 3, par. 1, lett. c), TFUE), per i quali è prevista, anche nell’ambito dell’UEM, una disciplina specifica (art. 5, par. 1, comma 2, TFUE). In effetti, con il passaggio alla terza fase dell’UEM, e l’introduzione tra quegli Stati di un’unica moneta nell’Unione (l’euro), il disegno iniziale di cui si è detto in precedenza è stato pienamente realizzato. Oggi esiste infatti, tra detti Stati membri, una sola moneta la cui gestione è sottratta a questi ultimi e interamente rimessa ad organismi dell’Unione. In particolare, come si è ricordato, al centro del sistema vi è oggi il SEBC, il cui organo principale, la BCE, è il vero motore della politica monetaria nell’ambito unificato e, insieme con le BCN degli Stati membri che adottano l’euro, compone l’Eurosistema e conduce la politica monetaria dell’Unione (art. 282, par. 1, TFUE). Venendo a una disamina più specifica della pertinente disciplina, va detto subito
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che se è vero che i Trattati non offrono una definizione di politica monetaria, gli obiettivi, e quindi l’ambito d’azione riservato all’Unione in questo campo, sono chiaramente indicati dalle pertinenti disposizioni (v., in tal senso, sentenza 27 novembre 2012, C370/12, Pringle). In particolare, ai sensi dell’art. 127 TFUE, obiettivo principale del SEBC è il mantenimento della stabilità dei prezzi, nonché, come obiettivo secondario, il sostegno alle politiche economiche dell’Unione ai fini del perseguimento degli obiettivi generali della stessa. E ciò, agendo in conformità (ancora una volta!) al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo un’efficace allocazione delle risorse e rispettando i ricordati principi enunciati all’art. 119 TFUE (vale a dire: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane, nonché bilancia dei pagamenti sostenibile). Va sottolineato peraltro che tali principi non sono sullo stesso piano, né devono essere conciliati tra loro purché e nella misura in cui non si attenti alla stabilità dei prezzi, essendo questo obiettivo, come confermano anche l’art. 119, par. 2, TFUE, e ancor più esplicitamente l’art. 282, par. 2, TFUE, collocato in primissimo piano e sicuramente prevalente su tutti gli altri. Com’è stato da più parti osservato, l’insistenza e il rilievo di tale obiettivo ne fa una sorta di valore costituzionale dell’Unione o almeno dell’UEM. Va peraltro osservato che non era chiaro inizialmente se quella stabilità fosse garantita solo ad «inflazione zero» o se fosse tollerato un minimo tasso di inflazione. La seconda soluzione è alla fine prevalsa e si ritiene che quel tasso possa essere accettato se si colloca al di sotto, ma in prossimità del 2%. Non sono tuttavia previsti meccanismi per imporre alla BCE il rispetto di tale obiettivo, che essa stessa del resto ha autonomamente determinato nel 1998 e confermato nel 2003 (v. The Monetary Policy of the ECB, May 2011, disponibile on-line: www.ecb.europa.eu); esso riposa quindi interamente sulla responsabilità di quell’istituzione.
Per la realizzazione degli indicati obiettivi la BCE gode di numerose attribuzioni, in parte già ricordate, le più importanti delle quali sono la fissazione dei tassi di interesse guida, la fissazione di obiettivi monetari intermedi e l’offerta di riserve dell’Eurosistema, mentre la più visibile per i cittadini è il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione da parte delle BCN, o di emettere direttamente, banconote in euro all’interno dell’Unione, restando inteso che le stesse costituiscono le uniche banconote aventi corso legale nell’Unione (art. 128, par. 1, TFUE). Le misure per l’utilizzazione dell’euro come moneta unica sono invece definite, senza pregiudizio delle competenze della BCE, dal legislatore dell’Unione previa consultazione della BCE. V. art. 133 TFUE. Come si è accennato all’inizio del presente Capitolo, al Consiglio era del resto spettata a suo tempo la competenza ad adottare le numerose misure prese per l’introduzione dell’euro. In attuazione dell’art. 133 TFUE, v. i regolamenti (UE) del PE e del Consiglio: n. 1210/2010, del 15 dicembre 2010 (GUUE L 339, 1); n. 651/2012, del 4 luglio 2012 (GUUE L 201, 135). Si noti che se la BCE ha competenza esclusiva ad emettere banconote in euro all’interno dell’Unione, gli Stati membri sono invece autorizzati, entro i limiti fissati dalla BCE sulla base di stime sul volume che le vengono sottoposte con cadenza annuale dagli stessi Stati membri, a coniare monete metalliche in euro, che sono ugualmente le sole ad aver corso legale nell’Unione. Ma il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del PE e della stessa BCE, può armonizzare le denominazioni e le specificazioni tecniche di tutte le monete metalliche destinate alla circolazione al fine di agevolare la loro circolazione nell’Unione (art. 128, par. 2, TFUE): v. in proposito reg. (UE) n. 729/2014 del Consiglio, del 24 giugno 2014, riguardante i valori unitari e le
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specificazioni tecniche delle monete metalliche in euro destinate alla circolazione (GUUE L 194, 1), modificato dal reg. (CE) n. 423/1999 del Consiglio, del 22 febbraio 1999 (GUCE L 52, 2); nonché raccomandazione della Commissione, del 19 dicembre 2008, recante orientamenti comuni per l’emissione di monete in euro destinate alla circolazione e loro relativa faccia nazionale (C (2008) 8625, GUUE L 9, 52). Naturalmente, insieme con quella di emettere le banconote spetta alla BCE anche la competenza ad adottare le misure necessarie a proteggere l’integrità delle stesse e a provvedere alla sostituzione di quelle danneggiate e al loro ritiro (v. dec. 2003/4 della BCE, del 20 marzo 2003, relativa a tagli, specifiche, riproduzione, sostituzione e ritiro delle banconote in euro, GUUE L 78, 16), nonché alla protezione contro le falsificazioni (v. dir. 2014/62/UE, del PE e del Consiglio, del 15 maggio 2014, sulla protezione mediante il diritto penale dell’euro e di altre monete contro la falsificazione, GUUE L 151, 1).
7. Il regime degli Stati membri con deroga Se è vero che, come si è visto, la politica monetaria rientra tra le competenze esclusive dell’Unione, è anche vero che questo vale solo rispetto agli Stati membri partecipanti all’euro. Per gli altri Stati membri, i c.d. «Stati membri con deroga», cioè per gli Stati riguardo ai quali il Consiglio ha ritenuto non soddisfatte le condizioni necessarie per l’adozione dell’euro, viene invece definito un regime speciale, che si caratterizza, in ragione della minore intensità degli obblighi ad essi incombenti, per l’esenzione dall’applicazione di alcune disposizioni in materia di UEM, ma ciò a condizione di non pregiudicare la realizzazione della stessa tra gli altri Stati membri (in tale prospettiva, ad es., è previsto che gli Stati membri con deroga devono considerare la propria politica del cambio come problema di interesse comune tenendo conto delle esperienze acquisite grazie alla cooperazione nell’ambito del meccanismo di cambio: art. 142 TFUE). Il regime speciale si differenzia secondo che si tratti della politica economica o di quella monetaria. Quanto alla prima, ai sensi dell’art. 139 TFUE le pertinenti disposizioni sopra esaminate si applicano quasi integralmente agli Stati membri con deroga, fatta eccezione della procedura relativa all’adozione degli indirizzi di massima per le politiche economiche che riguardano la zona euro in generale (art. 121, par. 2, TFUE) e della seconda e più severa fase della procedura in materia di deficit eccessivi (art. 126, parr. 9 e 11, TFUE). Questo, però, con riserva delle più recenti disposizioni introdotte dal nuovo patto di bilancio, che impongono un maggiore coordinamento delle politiche economiche nazionali e che, come vedremo, sono state accettate da tutti gli Stati membri, ad eccezione del Regno Unito e della Repubblica Ceca. Quanto alla politica monetaria, gli Stati membri con deroga mantengono a livello nazionale la propria competenza al riguardo e quindi non sono soggetti alle decisioni più rilevanti che la BCE adotta in materia e di cui si è detto al paragrafo precedente: ad esempio, non opera nei loro confronti la riserva di competenza a favore della BCE per l’emissione delle banconote in euro e il controllo sulla coniazione delle monete e sull’utilizzo delle stesse. Art. 139 TFUE. Gli Stati membri con deroga non ricadono neppure nell’ambito di applicazione soggettivo dell’art. 219 TFUE, relativo alla speciale disciplina prevista per gli accordi interna-
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zionali di carattere monetario e valutario). Nei casi, elencati dall’art. 139, par. 2, TFUE, in cui la disciplina comune non si applica, l’espressione «Stati membri» è da intendere, ai sensi di questa stessa disposizione, nel senso di «Stati membri la cui moneta è l’euro». Tuttavia, la BCE esercita una serie di compiti nei confronti degli Stati con deroga. In particolare, essa rafforza la cooperazione tra le loro BCN e il coordinamento delle loro politiche monetarie allo scopo di garantire la stabilità dei prezzi, sorveglia il funzionamento del meccanismo di cambio, procede a consultazioni su questioni che rientrano nelle competenze delle BCN e riguardano la stabilità degli istituti e dei mercati finanziari, esercita i compiti svolti un tempo dal Fondo europeo di cooperazione monetaria, precedentemente assunti dall’Istituto monetario europeo (art. 141 TFUE).
La speciale posizione degli Stati con deroga si riflette anche sul piano istituzionale, dato che evidentemente la loro partecipazione agli organi del sistema monetario non può essere piena. Così, se fanno parte del Consiglio generale, la cui esistenza è anzi legata proprio a quella di tali Stati, essi sono esclusi dalla designazione dei membri del comitato esecutivo della BCE, così come i governatori delle loro BCN non fanno parte del consiglio direttivo della BCE, fermo restando tuttavia che anche agli Stati con deroga incombe l’obbligo di salvaguardare il corretto funzionamento del sistema, e segnatamente di assicurare il rispetto dell’indipendenza di quelle banche e della BCE, e di rendere compatibili le loro legislazioni con i Trattati e lo statuto del SEBC e della BCE. Quanto al voto in seno al Consiglio, infine, i relativi diritti dei membri del Consiglio che rappresentano gli Stati membri con deroga sono sospesi in una serie di casi elencati dall’art. 139, par. 4, TFUE, tra i quali in particolare vanno segnalati quelli che concernono le raccomandazioni formulate nel contesto della sorveglianza multilaterale e le misure relative ai disavanzi eccessivi. In tali ipotesi, come nelle altre dello stesso tipo, la maggioranza qualificata degli altri membri del Consiglio viene ricalcolata conformemente all’art. 238, par. 3, lett. a), TFUE (55% dei membri del Consiglio rappresentanti gli Stati membri partecipanti che totalizzino almeno il 65% della popolazione di tali Stati).
Anche per gli Stati membri con deroga sono poi previste misure di sostegno e di salvaguardia. In caso infatti di difficoltà o di grave minaccia di difficoltà nella bilancia dei pagamenti, provocate da uno squilibrio globale di quest’ultima o dal tipo di valuta di cui esso dispone, ove esse rischino di compromettere il funzionamento del mercato interno o l’attuazione della politica commerciale comune. Se le misure all’uopo raccomandate dalla Commissione non si rivelano sufficienti, il Consiglio è autorizzato ad accordare il concorso reciproco, che può assumere varie modalità. Se neppure questo si rivela idoneo, la Commissione può autorizzare lo Stato in difficoltà ad adottare misure di salvaguardia di cui essa definisce le condizioni e le modalità (art. 143 TFUE). Ma se tali misure non intervengano immediatamente, lo Stato interessato può adottare, a titolo conservativo e informandone sollecitamente la Commissione e gli altri Stati membri, le necessarie misure di salvaguardia, nel rispetto tuttavia del principio di proporzionalità e comunque fino a quando il Consiglio non decida che detto Stato deve modificarle, sospenderle o abolirle. Ciò detto, va però precisato che, fatti salvi i menzionati casi, del tutto diversi, del Regno Unito e della Danimarca, lo status di Stato membro con deroga ha vocazione ad essere uno status transitorio, visto che l’obiettivo dell’UEM è di includere a termine tut-
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ti gli Stati membri. Detto status viene quindi riesaminato periodicamente per verificare se sussistono le condizioni per far cadere la deroga. A tal fine, l’art. 140 TFUE prevede che la Commissione e la BCE presentino ciascuna con cadenza biennale, o a scadenza più breve se lo chiede lo Stato interessato, una «Relazione sulla convergenza», relativa ai progressi compiuti dagli Stati membri in «deroga» nell’adempimento degli obblighi relativi alla realizzazione dell’UEM. Sulla base di tali relazioni, previa consultazione del Parlamento europeo e dopo dibattito in seno al Consiglio europeo, il Consiglio, su proposta della Commissione, decide quali Stati membri con deroga soddisfano alle condizioni necessarie sulla base dei predetti criteri e, in caso positivo, abolisce la deroga. Il passaggio definitivo all’euro viene poi deciso dal Consiglio, su proposta della Commissione e sentita la BCE. Esso delibera all’unanimità degli Stati membri la cui moneta è l’euro e dello Stato membro in questione, e, con l’occasione, fissa irrevocabilmente il tasso di cambio al quale l’euro subentra alla moneta dello Stato. Le “Relazioni” di cui nel testo comprendono un esame della compatibilità tra la legislazione nazionale di ciascuno di tali Stati membri, incluso lo statuto della sua banca centrale, da un lato, e gli statuti del SEBC e della BCE, dall’altro. Esse devono esaminare la realizzazione di un alto grado di sostenibile convergenza con riferimento al rispetto di una nutrita serie di parametri, tra i quali ricordiamo: un alto grado di stabilità dei prezzi, risultante da «un tasso di inflazione prossimo a quello dei tre Stati membri, al massimo, che hanno conseguito i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi»; la sostenibilità della situazione della finanza pubblica, risultante dall’inesistenza di un disavanzo pubblico eccessivo; il rispetto dei normali margini di fluttuazione previsti dallo SME; livelli dei tassi di interesse a lungo termine che riflettano la stabilità della convergenza raggiunta dallo Stato membro con deroga. Ma altri parametri sono precisati nel Protocollo (n. 13) sui criteri di convergenza, allegato al Trattato di Lisbona. Ricevute le predette “Relazioni” il Consiglio delibera, entro sei mesi dalla proposta presentata dalla Commissione, sulla base di una raccomandazione presentata dalla maggioranza qualificata dei membri che, in seno al Consiglio, rappresentano gli Stati membri la cui moneta è l’euro. Ancora una volta la maggioranza qualificata di detti membri s’intende quella definita conformemente all’art. 238, par. 3, lett. a), TFUE. La procedura in parola è stata finora applicata per l’Estonia, primo caso verificatosi dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (v. dec. 2010/416/UE del Consiglio, del 13 luglio 2010, GUUE L 196, 24; reg. (UE) n. 70/2010 del Consiglio, del 13 luglio 2010, GUUE L 196, 1; reg. (UE) n. 671/2010 del Consiglio, del 13 luglio 2010, GUUE L 196, 4), poi per la Lettonia (v. dec. 2013/387/UE del Consiglio, del 9 luglio 2013, GUUE L 194, 24) e infine (per ora) la Lituania (dec. 2014/509/UE, del Consiglio, del 23 luglio 2014, GUUE L 228, 29).
8. Le innovazioni conseguenti alla crisi dei debiti sovrani: a) il Semestre europeo; b ) il Patto Euro plus; c ) il Six Pack; d ) il Meccanismo europeo di stabilità; e) il Fiscal Compact; f ) il Patto per la crescita e l’occupazione; g ) il Two Pack; h) la vigilanza unica (il sistema europeo di vigilanza finanziaria; le Autorità europee di vigilanza; il Meccanismo di vigilanza unica; l’unione bancaria e il ruolo della BCE); i ) le OMT Come già sottolineato, il sistema definito dai Trattati si è rivelato inadeguato ad assicurare una gestione appropriata dell’UEM e la stabilità della zona euro, potendo esso
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al più permettere di evitare gli eccessi dei deficit pubblici con il descritto e assai blando meccanismo di sorveglianza multilaterale, ma non certo di intervenire in positivo per imporre agli Stati membri una corretta disciplina fiscale; e del resto l’esperienza di questi anni ha dimostrato che gli indirizzi di massima non hanno mai determinato modifiche sensibili alla politica economica di uno Stato membro. Tale inadeguatezza non destò tuttavia particolari preoccupazioni nei primi anni 2000; emersero semmai, in quegli anni, preoccupazioni di segno opposto, che spinsero addirittura in direzione di una maggiore flessibilità, come testimoniò la decisione del Consiglio di non sanzionare Francia e Germania per aver sforato i vincoli del Patto di stabilità e crescita. Ciò avvenne con una serie di atti (decisioni e conclusioni) adottati dal Consiglio il 25 novembre 2003, per sospendere la procedura per deficit eccessivi che era stata avviata nei confronti di Francia e Germania, atti (presi anche con il voto favorevole dell’Italia) che furono poi inutilmente impugnati dalla Commissione dinanzi alla Corte di giustizia (sentenza 13 luglio 2004, C-27/04, Commissione c. Consiglio, cit.). A seguito di tale vicenda, e sulla spinta del Consiglio europeo, furono approvati i reg. (CE) nn. 1055/2005 e 1056/2005 del Consiglio, del 27 giugno 2005 (GUUE L 174, 1 e 5), che modificavano i citati reg. nn. 1466/97 e 1467/97 nel senso di consentire specifiche attenuanti per gli Stati a rischio di disavanzi eccessivi e la diluzione dei tempi previsti per l’eventuale correzione, ammettendo anche la possibilità di obiettivi differenziati in funzione della peculiarità della situazione di ciascuno Stato membro.
Ma l’esplosione della crisi economica del 2008 ha provocato un brusco risveglio, evidenziando in modo drammatico la sottolineata inadeguatezza dei meccanismi esistenti e i conseguenti rischi per la sopravvivenza stessa del sistema. Si è così intensificata, con toni sempre più preoccupati e via via più urgenti, la ricerca di un’efficace forma di governance dell’UEM, capace di salvare e anzi rafforzare il sistema a fronte delle nuove difficoltà. In questa direzione, sono state quindi promosse, e continuano a essere promosse, una serie di iniziative, che non hanno modificato, salvo che in parte (l’introduzione di un nuovo paragrafo nell’art. 136 TFUE, di cui diremo tra breve), il profilo normativo dei Trattati, ma hanno di molto cambiato il contesto nel quale l’Unione opera in questo settore. Delle meno recenti, come il già citato PSC e il rafforzamento del versante istituzionale dell’UEM (istituzione dell’Eurogruppo, dell’Eurosummit, ecc.) si è già detto in precedenza; delle altre daremo qui di seguito una necessariamente rapida sintesi. a) Va fatta anzitutto menzione a questo riguardo del c.d. Semestre europeo, rectius «Semestre europeo per il coordinamento delle politiche economiche», annunciato nelle Conclusioni del Consiglio europeo di Bruxelles del 17 giugno 2010 e introdotto dal citato reg. n. 1175/2011, quale strumento volto a rafforzare il coordinamento ex ante delle politiche economiche a partire dal 1° gennaio 2011. Esso punta a favorire tale coordinamento con la previa fissazione di un calendario dei processi di sorveglianza, riguardanti anche le politiche di bilancio, macroeconomiche e strutturali degli Stati membri, in modo da assicurare la coerenza tra tali processi. In pratica, nei primi sei mesi di ogni anno, i bilanci nazionali sono discussi e approvati alla luce degli obiettivi fissati dall’Unione per quel periodo e poi sottoposti ad una sorveglianza che si sviluppa attraverso vari passaggi in seno alle istituzioni dell’Unione.
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In particolare, la Commissione pubblica a gennaio l’analisi annuale della crescita (la Annual Growth Survey – AGS), che definisce le priorità per l’UE in termini di riforme economiche e risanamento di bilancio. Queste ultime vengono, poi, discusse e approvate dal Consiglio europeo di marzo, mentre in aprile gli Stati membri presentano i Programmi nazionali di riforma e i Programmi di stabilità o di convergenza. Su questi la Commissione emette raccomandazioni, che sono vagliate dal Consiglio europeo di giugno e adottate formalmente dal Consiglio di luglio; di esse gli Stati membri devono poi tener conto nel redigere i propri bilanci nazionali, che vanno sottoposti ai rispettivi parlamenti nella seconda metà dell’anno.
b) Sulla stessa linea si può collocare il c.d. «Patto Euro plus» (o «Patto Euro+», detto anche inizialmente «Patto di competitività» o «Patto per l’euro»), adottato dal Consiglio europeo del 24-25 marzo 2011, per accrescere la competitività e la convergenza tra le economie degli Stati dell’Eurozona. Con esso, alcuni Stati membri hanno assunto l’impegno, per la verità di natura essenzialmente politica, di introdurre nei rispettivi Programmi di stabilità o di convergenza e nei Programmi nazionali di riforma un insieme di misure volte a migliorarne la disciplina fiscale e la competitività. c) Più incisivi invece sono stati i sei atti normativi che dal 2011 compongono il c.d. Six pack, adottati per rafforzare il ricordato «Patto di stabilità e crescita», non solo, come si disse, rendendo più rigorosa la convergenza e la sorveglianza della disciplina di bilancio per gli Stati della zona euro, ma anche consentendo l’adozione di apposite misure preventive e correttive e quindi riformando le relative parti di quel Patto. La più nota delle innovazioni di tale pacchetto è quella secondo cui i paesi con un rapporto debito/PIL superiore al 60% sono tenuti a ridurre progressivamente la parte eccedente di 1/20 l’anno, pena, in caso diverso, l’avvio di una procedura d’infrazione da parte della Commissione. Si tratta (come in parte già anticipato retro, par. 5, lett. d) dei regolamenti (UE) del PE e del Consiglio: n. 1173/2011, del 16 novembre 2011, già cit., il quale prevede che il Consiglio (con il voto dei soli Stati della zona euro) possa deliberare misure preventive, come la costituzione di un deposito fruttifero temporaneo (pari allo 0,2% del PIL), se del caso convertite in sanzioni tramite il meccanismo di maggioranza qualificata inversa, e, ove accerti l’esistenza di un disavanzo eccessivo, adotti misure correttive, come, ancora una volta, l’apertura di un deposito infruttifero (pari allo 0,2% del PIL); 1174/2011, cit., il quale mira al rafforzamento della sorveglianza multilaterale nei confronti degli Stati della zona euro, prevedendo anche in questo caso l’adozione di una serie di misure preventive (come l’apertura di un deposito fruttifero a carico dello Stato) e correttive (come un’ammenda pari allo 0,1% del PIL); n. 1175/2011, del 16 novembre 2011, già cit.; n. 1176/2011, del 16 novembre 2011, sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici (GUUE L 306, 25); n. 1177/2011 del 16 novembre 2011, già cit.; nonché della dir. 2011/85/UE del Consiglio, dell’8 novembre 2011, relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri (GUUE L 306, 41). Da notare che uno stretto collegamento è stabilito anche tra governance economica dell’Unione e politica di coesione, sotto il profilo della verifica della coerenza tra la concessione e l’utilizzazione dei relativi fondi e il perseguimento di politiche economiche sane ed efficaci (infra, p. 767 ss.). A parte quella indicata nel testo, il pacchetto prevede anche sanzioni più efficaci, in quanto semiautomatiche (come il ricordato trasferimento dello 0,1% del PIL annuo in un deposito infruttifero), contro quei Paesi che, dopo avere commesso infrazioni, non seguono le raccomandazioni correttive. L’aumento della spesa pubblica degli Stati membri deve essere legato al tasso di crescita a medio termine o finanziato con tagli in altri settori o tramite l’aumento delle entrate. Requisiti
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comuni per tutti gli Stati membri sono poi fissati per quanto riguarda statistiche, previsioni, sistemi contabili, procedure di bilancio, insieme con la previsione di nuove misure di controllo sugli squilibri macroeconomici nell’UE. Infine, si è cercato di assicurare una maggiore trasparenza e democraticità al sistema rafforzando l’indipendenza degli istituti statistici, i poteri di vigilanza della Commissione e una più ampia partecipazione dei cittadini al processo decisionale relativo alle scelte politico-economiche.
d) Varie e importanti misure sono state poi approvate nel corso del 2012, a seguito del continuo aggravarsi della crisi. In quell’anno, infatti: è stato istituito un fondo c.d. «salva Stati», il Meccanismo europeo di stabilità (febbraio 2012); è stato firmato il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’unione monetaria ed economica, noto come fiscal compact o nuovo patto di bilancio (marzo 2012); ed è stato istituito il c.d. scudo anti spread, nonché concordato il Patto per la crescita e l’occupazione (giugno 2012). Quanto al Meccanismo europeo di stabilità (noto come MES o anche con l’acronimo inglese ESM: European Stability Mechanism), esso nasce dalla necessità di istituire, anche per i paesi dell’area euro, un meccanismo permanente di gestione delle crisi (come si è detto poc’anzi, per gli Stati membri con deroga l’art. 143 TFUE già prevede la possibilità di concedere aiuti finanziari). A tal fine, però, i Trattati non offrivano, secondo la più diffusa opinione, una base giuridica adeguata, sicché si è resa necessaria una revisione degli stessi per introdurvi un’apposita disposizione che consentisse di conseguire quel risultato. A ciò si è proceduto, com’è ormai ben noto, con la già segnalata modifica apportata all’art. 136 TFUE con una procedura di revisione semplificata ex art. 48, par. 6, TUE. V. supra, p. 138. La modifica è stata adottata con dec. 2011/199/UE del Consiglio europeo, del 25 marzo 2011, che modifica l’art. 136 TFUE relativamente a un meccanismo di stabilità per gli Stati membri la cui moneta è l’euro (GUUE L 91, 1). Il nuovo par. 3 della disposizione recita come segue: «[g]li Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta ad una rigorosa condizionalità».
Nelle more, però, dell’entrata in vigore di tale modifica (il 1° gennaio 2013), gli Stati membri che avevano adottato l’euro (ma il Trattato si impone anche a tutti gli Stati che adotteranno la moneta unica) hanno concluso, il 2 febbraio 2012, in forma di accordo intergovernativo, il «Trattato che istituisce il meccanismo europeo di stabilità», entrato in vigore il 27 settembre 2012. In realtà, l’entrata in vigore era stata inizialmente prevista per il 1º luglio 2013, ma poi essa fu anticipata proprio in ragione dell’aggravarsi della crisi finanziaria. Il MES ha però iniziato ufficialmente la propria attività solo l’8 ottobre 2012, e ciò a causa delle note vicende legate alla ratifica tedesca del MES (come pure del Fiscal compact di cui subito diremo). Come si sa, infatti, tale ratifica è stata molto contrastata in Germania dato che si dubitava della compatibilità del MES con l’ordinamento di tale Stato. È dovuta intervenire dunque la stessa Corte costituzionale federale, la quale, con due successive sentenze (12 settembre 2012, BVG n. 13902 e 18 marzo 2014, BVG n. 1390), ha rimosso quei dubbi, sia pure a certe condizioni (obblighi di informazione al Bundestag e di coinvolgimento dello stesso oltre una certa soglia di impegno finanziario dello Sta-
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to). A sua volta, anche la Corte di giustizia era stata sollecitata, a seguito di un rinvio pregiudiziale della Supreme Court irlandese, nel contesto di un giudizio avviato da un deputato di quel Paese, a pronunciarsi sulla compatibilità tra il MES e i Trattati, sia quanto al merito, sotto il profilo dell’eventuale superamento dei limiti delle competenze dell’Unione, specie in rapporto all’art. 122 ss. TFUE, sia sul piano procedurale, sotto il profilo della violazione dei limiti di applicazione della procedura di revisione semplificata ex art. 48 TUE. Anche la Corte di Lussemburgo ha però rimosso detti dubbi, affermando che il MES costituisce uno strumento complementare a disposizione degli Stati per rafforzare la governance della politica economica; che esso non incide sul coordinamento delle loro politiche economiche, che rientra e resta tra le competenze dell’Unione; che esso quindi non travalica i limiti della procedura di revisione semplificata; che la competenza degli Stati membri dell’eurozona ad istituire il meccanismo in parola, e quindi ad aggiungere con l’indicata procedura un nuovo paragrafo all’art. 136 TFUE, è desumibile dal sistema dei Trattati (Corte giust. 27 novembre 2012, C-370/12, Pringle). Più in generale, a fronte di un’interpretazione rigorosa del sistema, sulla quale si attesta ad es. la Corte costituzionale tedesca, in continuità con il Maastricht Urteil (BVG n. 89 del 12 ottobre 1993), per ribadire che la stabilità dell’euro, la stabilità dei prezzi e l’indipendenza della BCE sono principi imprescindibili dell’UEM e che l’art. 125 TFUE va letto in questa prospettiva come norma volta ad esercitare per l’appunto una funzione stabilizzatrice, la Corte di giustizia ha osservato che tale norma «è dirett(a) a garantire che gli Stati membri rispettino una politica di bilancio virtuosa», prevedendo che essi «restino soggetti alla logica del mercato allorquando contraggono debiti» in vista di «un obiettivo superiore, vale a dire il mantenimento della stabilità finanziaria dell’Unione monetaria». Pertanto, l’art. 125 TFUE «non vieta la concessione di un’assistenza finanziaria da parte di uno o più Stati membri ad uno Stato membro che resta responsabile dei propri impegni nei confronti dei suoi creditori e purché le condizioni legate a siffatta assistenza siano tali da stimolarlo all’attuazione di una politica di bilancio virtuosa» (sentenza Pringle, punti 135-137).
Come recita il suo art. 1, il Trattato istituisce «un’istituzione finanziaria internazionale» denominata appunto MES, che assume in effetti la forma di un’organizzazione intergovernativa, sul modello del FMI, con il quale del resto deve strettamente collaborare. Il MES, che ha sede a Lussemburgo, è dotato di personalità giuridica ed è guidato da un consiglio di governatori (formato da rappresentanti degli Stati membri del MES) e da un consiglio di amministrazione, nonché da un direttore generale. Il Consiglio dei governatori è formato dai ministri finanziari dell’area euro, nonché dal commissario UE agli Affari economico-monetari e dal Presidente della BCE nel ruolo di osservatori. Esso nomina il Consiglio di amministrazione ed il direttore generale. Le decisioni del Consiglio possono essere anche a maggioranza qualificata (80% dei voti espressi) o a maggioranza semplice, ma per alcune decisioni importanti la maggioranza richiesta è dell’85% (art. 4.4 del Trattato). I diritti di voto di ogni Stato contraente sono proporzionati al valore delle quote versate nel fondo, restando inteso che gli Stati che sono in ritardo nel versamento della propria quota, non potranno esercitare i propri diritti di voto per l’intera durata dell’inadempienza.
Il MES ha ereditato e ampliato le funzioni in precedenza riservate al primo fondo salva Stati creato nell’area UEM, il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (MESF) e il connesso Fondo europeo di stabilizzazione finanziaria (FESF), nati nel maggio 2010 e (almeno formalmente) estinti il 30 giugno 2012, a seguito appunto della creazione del MES. Il MESF trovava la sua origine nel reg. (UE) n. 407/2010 del Consiglio, dell’11 maggio 2010, che istituisce un meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (GUUE L 118, 1), adottato
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sulla base dell’art. 122, par. 2, TFUE, sul presupposto che la situazione di crisi finanziaria, recessione economica ed instabilità finanziaria che aveva avuto inizio nel 2008 rappresentasse una «situazione eccezionale che sfugge al controllo degli Stati membri», ai sensi di detta norma. Il MESF fungeva quindi da strumento d’emergenza per intervenire, con modalità simili a quelle che vedremo per il MES, a sostegno degli Stati membri che si trovassero in gravi difficoltà economicofinanziarie, al fine di preservare la stabilità finanziaria dell’UEM nel suo complesso. Oltre il MESF era stato creato, mediante un accordo intergovernativo, anche un Fondo europeo per la stabilità finanziaria (FESF), nella forma di una società di diritto lussemburghese, costituita dagli Stati membri della zona euro. Una volta deciso di istituire uno strumento permanente, il citato art. 122 TFUE non poteva più essere utilmente invocato, dato che, come ha rilevato anche la Corte di giustizia, tale disposizione conferisce all’Unione la competenza a concedere un’assistenza finanziaria puntuale ai singoli Stati membri, in casi eccezionali e non poteva costituire, pertanto, la base giuridica adeguata per l’istituzione di un meccanismo, quale il MES, che ha carattere permanente ed è diretto a salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro nel suo complesso. D’altra parte, la Corte ha chiarito che l’art. 122 TFUE ha unicamente ad oggetto l’assistenza finanziaria concessa dall’Unione, e non osta, quindi, a che un meccanismo come il MES sia istituito dagli Stati membri (sentenza 27 novembre 2012, C-370/12, Pringle). Nel vertice del 16 e 17 dicembre 2010, il Consiglio europeo stabilì che il MES avrebbe sostituito sia il MESF che il FESF e che i due strumenti in questione sarebbero restati in vigore fino al giugno 2013 (data che, come si è detto, è stata in seguito anticipata), per poi limitarsi alla gestione delle obbligazioni già emesse.
Il MES ha quindi soprattutto il compito di concedere assistenza finanziaria ai paesi dell’eurozona che già si trovino o rischino di trovarsi in una grave situazione finanziaria. Ciò però solo se sia assicurato il rispetto da parte dello Stato «assistito» di condizioni rigorose, la cosiddetta «condizionalità» (in particolare, di un programma di correzioni macroeconomiche e strutturali o dell’obbligo di rispettare costantemente le condizioni di ammissibilità predefinite), e se l’intervento è indispensabile per salvaguardare la stabilità finanziaria della zona euro nel suo complesso e quella dei suoi Stati membri. L’assistenza può prendere la forma di prestiti o di acquisti di titoli di debito emessi dagli Stati in difficoltà fino a un massimo iniziale di 500 miliardi di euro (ma l’importo può essere rivisto ogni 5 anni). Le risorse all’uopo necessarie derivano da quote conferite dagli Stati membri in proporzione al rispettivo PIL, ma il MES è autorizzato a raccogliere fondi anche attraverso l’emissione di strumenti finanziari o la conclusione di intese o accordi finanziari o di altro tipo con i propri membri, istituzioni finanziarie o terzi, nonché da contribuzioni degli investitori privati. Si noti che un collegamento è stato stabilito tra il MES ed il Trattato del c.d. fiscal compact, di cui subito diremo, nel senso che, dal marzo 2013, la concessione dell’assistenza finanziaria del MES è stata subordinata alla ratifica di quest’ultimo Trattato e, a partire dall’anno seguente all’entrata in vigore dello stesso, anche all’introduzione della regola del pareggio di bilancio nella legislazione nazionale. Quanto ai prestiti, gli Stati che ne sono beneficiari devono restituirli nelle forme e nei tempi previsti. Ove così non dovesse accadere, sono previste anche misure sanzionatorie, i cui proventi andranno ad aggiungersi alle risorse dello stesso MES. Finora gli aiuti finanziari sono sempre stati concessi a fronte di una severa condizionalità, che ha comportato l’imposizione di pesanti misure d’austerità ai paesi destinatari, per giunta sotto la vigilanza della c.d. «troika», composta dalla Commissione, dalla BCE e dal FMI, quest’ultimo chiamato quindi ugualmente a partecipare alle operazioni di salvataggio. Va anche segnalato che il MES ha un capitale autorizzato di 700 miliardi
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di euro, di cui però solo 80 versati dagli Stati membri, mentre i rimanenti 620 miliardi (se necessari) saranno raccolti attraverso apposite emissioni di obbligazioni sul mercato. Da notare che a valle di tale sistema sono già stati presentati alla Corte ricorsi contro le misure che gli Stati membri sono stati costretti ad adottare per conformarsi alle prescrizioni della Commissione: v., tra gli altri, sentenze 9 luglio 2016, C-526/14, Kotnik; 20 settembre 2016, C-8/15 a 10/15, Ledra, e C-105/15 P, Mallis e Malli; 8 novembre 2016, C-41/15, Dowling; 13 giugno 2017, C-258/14, Florescu.
e) L’altro intervento di rilievo è, come anticipato, il «Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e monetaria» (TSCG: c.d. Fiscal Compact o nuovo patto di bilancio), approvato dal Consiglio europeo il 30 gennaio 2012, firmato il 2 marzo 2012 da tutti gli Stati membri dell’Unione, ad eccezione del Regno Unito e della Repubblica Ceca, ed entrato in vigore il 1° gennaio 2013. Proprio la mancanza di unanimità tra gli Stati membri ha indotto ad abbandonare l’idea originaria di procedere sulla base dell’art. 126 TFUE o attraverso una forma semplificata di revisione dei Trattati vigenti, e a ripiegare quindi su un accordo internazionale. Per l’entrata in vigore del Trattato bastavano 12 ratifiche, ma ormai quasi tutte le parti contraenti hanno depositato le proprie ratifiche (del resto, come si è detto, l’avvio di nuovi programmi di assistenza finanziaria attraverso l’intervento del MES è condizionato alla ratifica del TSCG da parte dello Stato interessato). Dalla indicata data decorre l’anno entro il quale gli Stati firmatari devono introdurre il principio del pareggio di bilancio nel loro diritto nazionale, e decorrono i cinque anni entro i quali essi si sono impegnati a far sì che le nuove regole siano inserite nei Trattati dell’Unione.
Con il TSCG le parti contraenti si sono impegnate a rafforzare l’UEM con una nuova disciplina fiscale volta a realizzare l’unione di bilancio, ad attuare una forte governance economica nell’Eurozona, nonché a rafforzare il coordinamento delle politiche economiche nazionali per conseguire gli obiettivi della crescita sostenibile, dello sviluppo, della competitività e della coesione sociale. Più specificamente, le parti contraenti si sono impegnate ad adottare le misure idonee ad assicurare il buon funzionamento della zona euro e quindi «ad avvalersi attivamente, se opportuno e necessario, di misure specifiche agli Stati membri la cui moneta è l’euro», come previsto all’art. 136 TFUE, nel quadro degli orientamenti definiti dal ricordato «vertice euro» o Eurosummit. Più specificamente, oggetto del TSCG sono la disciplina di bilancio e il divieto di deficit eccessivi, materie che rientrano, come si è visto, nell’ambito dell’art. 126 TFUE e delle relative procedure. A tal fine, l’accordo sancisce l’obbligo degli Stati firmatari di introdurre la c.d. «regola d’oro» del pareggio di bilancio nel proprio diritto nazionale con norme vincolanti, preferibilmente di rango costituzionale, nonché di garantire correzioni automatiche con scadenze predeterminate quando non siano in grado di raggiungere altrimenti l’obiettivo del pareggio. Art. 3, par. 2. Com’è noto, in ossequio (forse un po’ troppo zelante) a tale impegno l’Italia ha modificato, con effetto a partire dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014, l’art. 81 Cost. Salvo circostanze eccezionali, il pareggio di bilancio si intende conseguito: se lo Stato registra un saldo strutturale di bilancio positivo o, al limite, negativo ma di entità non superiore all’1% del PIL, nell’ipotesi in cui lo Stato membro in questione sia in regola con il parametro relativo al rap-
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porto debito/PIL; e se esso registra un saldo strutturale di bilancio positivo o, al limite, negativo ma di entità non superiore allo 0,5% del PIL, nell’ipotesi in cui lo Stato membro in questione non sia in regola con il parametro relativo al rapporto debito/PIL. In proposito, il TSCG fa riferimento al Six Pack in cui si menzionano gli altri fattori rilevanti che concorrono a determinare la sostenibilità di medio periodo (indebitamento privato, spesa pensionistica, attivo patrimoniale). Il Trattato prevede altresì, come già accennato, l’obbligo di rientrare verso il tetto del 60% del PIL al ritmo di 1/20 l’anno per la parte eccedente.
Lo Stato inadempiente è altresì tenuto a predisporre un programma di partenariato economico e di bilancio che preveda una descrizione dettagliata delle riforme strutturali da eseguire per una correzione effettiva e duratura del disavanzo, e ad assoggettarsi all’approvazione del programma e al monitoraggio sistematico da parte del Consiglio e della Commissione. Il TSCG prevede poi, all’art. 8, un meccanismo di controllo e di sanzione nelle ipotesi d’inadempimento dell’obbligo di adattamento della legislazione nazionale di cui all’art. 3, par. 2, dello stesso TSCG. Intanto, va notato che esso si preoccupa di istituire la specifica competenza della Corte di giustizia al riguardo, dato che questa non poteva esserne investita automaticamente, essendo il TSCG uno strumento di diritto internazionale, estraneo quindi ai Trattati dell’Unione; e a ciò si è provveduto costruendo il predetto art. 8 come clausola compromissoria ai sensi dell’art. 273 TFUE. V. retro, p. 351 s. Nella ricordata sentenza Pringle la Corte ha riconosciuto la legittimità di tale soluzione, anche se però qualche dubbio resta sulla piena compatibilità della stessa con il dettato dell’art. 273 TFUE (basti pensare che la disposizione non si limita ad attribuire alla Corte competenza a giudicare sulle pertinenti controversie, ma definisce anche l’efficacia e le procedure di esecuzione della conseguente sentenza).
Su tale base, viene poi previsto che, se dopo aver posto la parte contraente interessata in condizione di presentare osservazioni, la Commissione conclude, nella relazione che essa è tenuta a presentare tempestivamente sul punto, che quella parte non ha rispettato il predetto obbligo di conformare la legislazione nazionale, non la stessa Commissione ma una o più parti contraenti dovranno (!?) adire la Corte di giustizia; il ricorso è invece facoltativo se si prescinde dalla relazione della Commissione. In entrambi i casi, la sentenza della Corte di giustizia è vincolante per le parti del procedimento, ma qualsiasi parte contraente che ritenga che una di esse non abbia rispettato tale sentenza, può adire nuovamente la Corte per chiedere l’imposizione di sanzioni finanziarie secondo i criteri stabiliti dalla Commissione europea nel quadro dell’art. 260 TFUE (retro, p. 272 ss.). Se il ricorso è fondato, la Corte può comminare il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità adeguata alle circostanze e non superiore allo 0,1% del suo PIL. Le somme imposte a una parte contraente la cui moneta è l’euro sono versate al MES; negli altri casi, al bilancio generale dell’Unione. Il TSCG ha sollevato sotto vari profili molte perplessità ed anche critiche severe, sulle quali torneremo tra breve. Per ora va detto che nel merito delle relative scelte economiche, riserve sono state espresse sull’opportunità di regole che tendono a irrigidire i bilanci pubblici, precludendo la possibilità di operare su di essi le manovre necessarie ad attenuare gli effetti più gravi delle fluttuazioni cicliche e ostacolando il
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funzionamento dei cosiddetti ‘stabilizzatori automatici’, con il rischio di accentuare gli effetti negativi di una recessione economica. Sul piano istituzionale, poi, oltre a lamentare il ruolo troppo marginale degli organi elettivi dell’Unione a vantaggio di quelli intergovernativi in una materia che tocca così da vicino e pesantemente i cittadini europei, è stata messa in causa la stessa legittimità di una procedura che, con un atto comunque esterno ai Trattati, non solo si avvale delle istituzioni dell’Unione, ma incide altresì sulle competenze delle stesse. A questo proposito il TSCG prevede solo che il PE e i parlamenti nazionali delle parti contraenti definiranno insieme l’organizzazione e la promozione di una conferenza dei rappresentanti delle pertinenti commissioni del PE e dei rappresentanti delle pertinenti commissioni dei parlamenti nazionali ai fini della discussione delle politiche di bilancio e di altre questioni rientranti nell’ambito di applicazione del TSCG.
Al riguardo, peraltro, e senza negare che alcune delle sue disposizioni si prestano effettivamente a suscitare perplessità dal punto di vista dell’ortodossia comunitaria, va notato che il TSCG cerca esso stesso di sottrarsi a tali critiche sancendo, da un lato, l’obbligo per le parti contraenti di applicare e interpretare quel Trattato conformemente ai Trattati dell’Unione europea, dall’altro, l’applicabilità dello stesso solo nella misura in cui è compatibile con quei Trattati, e prevedendo comunque l’incorporazione, entro cinque anni, delle sue norme nei vigenti Trattati dell’Unione (risultato che però, al momento, non pare imminente). f) Sempre nello stesso arco di tempo, e ancora nell’intento di rassicurare i mercati, mettere un freno alla speculazione e ridare stabilità all’euro a fronte degli scarsi esiti fino ad allora conseguiti nello sforzo per il superamento della crisi, il Consiglio europeo del 28-29 giugno 2012 ha varato ulteriori misure e dato impulso a varie altre. In particolare, esso ha confortato l’idea di dotare l’Eurozona di uno scudo antispread, su cui si tornerà tra breve, e ha deciso di approvare il Patto per la crescita e l’occupazione, volto a stimolare l’adozione da parte degli Stati membri e dell’Unione di una serie di misure per rilanciare la crescita, gli investimenti e l’occupazione e rendere l’Europa più competitiva. In quell’occasione, è stata altresì approvata, in linea di principio, la ricapitalizzazione diretta delle banche da parte del Fondo europeo salva Stati, mentre la Commissione veniva incoraggiata ad accelerare le iniziative, ex art. 127, par. 6, TFUE, per l’introduzione di un meccanismo di vigilanza bancaria unico, all’interno del quale, come subito vedremo, la BCE assuma il ruolo di supervisore per l’Eurozona. g) Ma soprattutto fu sollecitata l’approvazione delle due proposte di regolamenti, basati sugli artt. 136 e 121, par. 6, TFUE (c.d. Two Pack), da tempo pendenti, che dovevano completare l’architettura dell’UEM quale già definita dalle misure fin qui esaminate, segnatamente rafforzando i poteri di controllo della Commissione sulle politiche economiche nazionali. Le due proposte sono state finalmente approvate l’anno successivo e si sono tradotte nei reg. nn. 472/2013 e 473/2013, con i quali si accentua la sorveglianza economica e di bilancio sugli Stati della zona euro che affrontino difficoltà e rischi per la loro stabilità, e si stabiliscono disposizioni comuni
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tra gli Stati della zona euro per il monitoraggio e la valutazione dei progetti di bilancio e per la correzione dei deficit eccessivi. V. reg. (UE) n. 472/2013 del PE e del Consiglio, del 21 maggio 2013, sul rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio sugli Stati della zona euro che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi per quanto riguarda la loro stabilità finanziaria (GUUE L 140, 1); e reg. (UE) n. 473/2013 del PE e del Consiglio, del 21 maggio 2013, sulle disposizioni comuni per il monitoraggio e la valutazione dei documenti programmatici di bilancio e per la correzione dei disavanzi eccessivi degli Stati membri della zona euro (GUUE L 140, 11).
h) Nel contesto delle misure in esame, una specifica menzione meritano poi gli interventi relativi al cruciale settore bancario e finanziario in particolare quanto alla «vigilanza prudenziale» sulle banche, che costituisce un elemento chiave per la stabilità di un’area valutaria unificata come l’eurozona, e al quale fa riferimento, come si è ricordato, l’art. 127, par. 6, TFUE. In materia, l’Unione aveva già provveduto a creare le c.d. Autorità europee di vigilanza (AEV), relative alle banche, alle assicurazioni e ai mercati e valori mobiliari, appunto per assicurare a livello nazionale e dell’Unione un controllo più sistematico e coordinato delle attività finanziarie. Si tratta, più specificamente, dell’Autorità europea di vigilanza (Autorità bancaria europea – ABE), istituita con reg. (UE) n. 1093/2010 del PE e del Consiglio, del 24 novembre 2010 (GUUE L 331, 12); dell’Autorità europea di vigilanza (Autorità europea per le assicurazioni e le pensioni aziendali e professionali – AEAP), istituita con reg. (UE) n. 1094/2010 del PE e del Consiglio, del 24 novembre 2010 (GUUE L 331, 48); dell’Autorità europea di vigilanza (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati – AESFEM), istituita con reg. (UE) 1095/2010 del PE e del Consiglio, del 24 novembre 2010 (GUUE L 331, 84), modificati dalla dir. 2014/51/UE, del PE e del Consiglio, del 16 aprile 2014 (GUUE L 153, 1). In particolare, relativamente ai poteri di quest’ultima Autorità, v. Corte giust. 22 gennaio 2014, C-270/12, Regno Unito c. Parlamento e Consiglio.
Questa finalità è stata poi perseguita in modo ancor più unitario con l’istituzione del Sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF), che riunisce «gli attori impegnati nella vigilanza finanziaria a livello nazionale e a livello di Unione, per fungere da rete» (v. reg. (UE) n. 1092/2010 del PE e del Consiglio, del 24 novembre 2010, relativo alla vigilanza macroprudenziale del sistema finanziario dell’Unione europea e che istituisce il Comitato europeo per il rischio sistemico, GUUE L 331, 1). Esso è composto da tale Comitato (CERS), dalle ricordate Autorità europee di vigilanza (AEV), dal comitato congiunto delle autorità europee di vigilanza (il «comitato congiunto», previsto dall’art. 54 dei regolamenti citati alla nota precedente), dalle autorità competenti o di vigilanza degli Stati membri. Autorità che sono specificate negli atti dell’Unione di cui all’art. 1, par. 2, dei regolamenti appena citati. Per favorire i compiti di vigilanza sui servizi finanziari, è stata anche dettata una specifica disciplina per il controllo dei c.d. derivati: v. reg. (UE) n. 648/2012 del PE e del Consiglio, del 4 luglio 2012, sugli strumenti finanziari derivati OTC, le controparti centrali e i repertori di dati sulle negoziazioni, GUUE L 201, 1 (modificato, da ultimo, dal reg. delegato (UE) 2017/979 della Commissione, del 2 marzo 2017, GUUE L 148, 1). Così come è stata resa più rigorosa la disciplina relativa alle agenzie di rating: reg. (UE) n. 1060/2009 del PE e del Consiglio, del 16 settembre
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2009, relativo alle agenzie di rating (GUUE L 302, 1), modificato dal reg. (UE) n. 462/2013 del PE e del Consiglio, del 21 maggio 2013 (GUUE 146, 1). Quanto al CERS, il suo compito dovrebbe essere quello di monitorare e di valutare in tempi normali il rischio sistemico al fine di mitigare l’esposizione del sistema al rischio di fallimento delle componenti sistemiche e di aumentare la resistenza del sistema finanziario agli shock. Il Presidente e il Vicepresidente della BCE sono membri di ufficio del CERS. Inoltre la BCE assicura il segretariato del CERS e gli fornisce il necessario supporto finanziario (reg. (UE) n. 1096/2010 del Consiglio, del 17 novembre 2010, GUUE L 331, 162).
Ma il disegno più generale e ambizioso è quello di creare, nell’Unione, un’unione bancaria basata su un corpus unico di norme completo e dettagliato sui servizi finanziari per il mercato interno nel suo complesso e comprendente un meccanismo di vigilanza unico e nuovi quadri di garanzia dei depositi e di risoluzione delle crisi bancarie, quest’ultimo aperto anche agli Stati non membri dell’eurozona. Il primo passo è stato l’attribuzione alla BCE di specifici compiti in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi (v. reg. (UE) n. 1024/2013 del Consiglio, del 15 ottobre 2013, che attribuisce alla BCE compiti specifici in merito alle politiche in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi, GUUE L 287, 63, dal cui considerando 11 è tratto il passo citato nel testo): dal novembre 2014 la BCE è infatti responsabile della vigilanza prudenziale sull’80% degli istituti di credito dell’area dell’euro. Essa costituisce dunque il perno del sistema di vigilanza unico (c.d. Single Supervisory Mechanism, SSM), anche se deve esercitare le proprie competenze in materia in modo organicamente e funzionalmente separato da quelle di politica monetaria e avvalendosi della cooperazione delle autorità nazionali di vigilanza; e deve farlo con riguardo a tutte le banche dell’eurozona suscettibili di provocare un rischio sistemico per la stessa, mentre le predette autorità nazionali mantengono la propria competenza per la sorveglianza sugli istituti di credito «non-significativi» (come li definisce lo stesso regolamento). Ma le finalità dell’unione bancaria, come emerge dal brano più sopra citato, vanno ancora oltre, anche se le divergenze tra gli Stati membri ne stanno rendendo faticosa la realizzazione. Rientrano infatti in esse, anche se per l’appunto ancora in via di definizione legislativa, altri due pilastri: l’integrazione dei sistemi bancari di tutela dei depositi, ben oltre la vigente normativa in materia, al fine di rassicurare i depositanti in caso di rischi di insolvibilità delle banche (v. dir. 2014/49/CE del PE e del Consiglio, del 13 aprile 2014, relativa ai sistemi di garanzia dei depositi, GUUE L 173, 149, che rifonde la dir. 94/19/CE del PE e del Consiglio, del 30 maggio 1994, GUUE L 135, 5); e l’armonizzazione dei sistemi di risoluzione delle insolvenze transfrontaliere di istituti di credito in un nuovo organismo che sovrintenda alla loro ordinata gestione (Single Resolution Mechanism, SRM). V. dir. 2014/59/UE del PE e del Consiglio, del 15 maggio 2014, che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento e che modifica la dir. 82/891/CEE del Consiglio, e le dir. 2001/24/CE, 2002/47/CE, 2004/25/CE, 2005/56/CE, 2007/36/CE, 2011/35/UE, 2012/30/UE e 2013/36/UE e i reg. (UE) n. 1093/2010 e (UE) n. 648/2012 del PE e del Consiglio (GUUE L 173, 190). V. anche reg. 806/2014/UE, del PE e del Consiglio, del 15 luglio 2014, che fissa norme e una procedura uniformi per la risoluzione delle crisi degli enti creditizi e di talune imprese di investimento nel quadro del meccanismo unico di
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risoluzione delle crisi e del Fondo unico di risoluzione delle crisi bancarie (GUUE L 225, 1); reg. delegato 2016/451/UE, della Commissione, del 16 dicembre 2015, che stabilisce i principi e i criteri generali per la strategia d’investimento e le regole di gestione del Fondo di risoluzione unico (GUUE L 79, 2).
i) Infine, in relazione all’ulteriore aggravarsi della crisi economica, sono state prese alcune ulteriori misure a sostegno del sistema bancario. È stata così prevista la possibilità di utilizzare il MES per ricapitalizzare le banche direttamente, e non più attraverso i governi nazionali, in modo da spezzare il circolo vizioso tra bilanci delle une e degli altri. Inoltre, il Consiglio direttivo della BCE ha adottato il 6 settembre 2012 alcune misure tecniche, tra le quali il noto programma c.d. Outright monetary transactions (OMT), che ha avuto immediatamente importanti ricadute sui mercati, e non solo. Con esso, in effetti, si è previsto che la BCE possa decidere, sotto rigorosa condizionalità, di acquistare sul mercato secondario, senza limiti di ammontare e durata, titoli di debito pubblico a breve emessi dagli Stati in difficoltà su quel mercato. L’attivazione dell’intervento è tuttavia subordinata al rispetto da parte degli Stati «assistiti» delle severe condizioni fissate nel programma di aggiustamento macroeconomico o nel programma preventivo concordati con la Commissione a nome del Consiglio, e con l’intesa che la BCE si riserva, se il programma non è rispettato, di sospendere l’acquisto dei titoli. Il varo dell’OMT ha prodotto un ricorso al Bundesverfassungsgericht (la Corte costituzionale tedesca), il quale ha a sua volta sottoposto una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, che ha però escluso ogni profilo di illegittimità dell’OMT (sentenza 16 giugno 2015, C-62/14, Gauweiler). Si noti che nel precedente programma SMP, utilizzato per l’ultima volta nel febbraio 2012, la BCE aveva già introdotto un programma di acquisto di titoli di debito sovrano sul mercato secondario, e di titoli di debito emessi da soggetti privati sia sul mercato primario che su quello secondario, ma in quel caso senza condizionalità (decisione BCE del 14 maggio 2010, che istituisce un programma per il mercato dei titoli finanziari, GUUE L 124, 8).
9. Considerazioni conclusive Le innovazioni di cui si è fin qui detto hanno consentito, in situazioni di particolare urgenza e necessità, di intervenire con prestiti o operazioni finanziarie di varia natura a favore degli Stati membri in difficoltà. Finora però tali interventi sembrano essere per un verso non sufficienti (e comunque deve esserne ancora confermata la reale e definitiva efficacia) e per l’altro assai penalizzanti sul piano economico e sociale. Di certo, essi non hanno attenuato le forti tensioni e le vivaci polemiche che coinvolgono tutti i livelli istituzionali, europei e nazionali, ma anche un’opinione pubblica ovviamente molto sensibile e preoccupata. Trascurando qui le diffuse critiche, peraltro già evocate più sopra, circa la concentrazione dei poteri decisionali nella materia de qua nelle mani d’istanze intergovernative e/o tecnico-burocratiche a scapito delle istituzioni rappresentative, nonché sulla qualità e l’efficacia economica degli interventi fin qui operati, sul piano più strettamente giuridico il dibattito si è concentrato sulla compatibilità con i Trattati
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di detti interventi e di quelli ulteriormente ipotizzati. Si tratta, per la verità, di un dibattito piuttosto confuso, non solo per le incertezze della normativa di partenza, ma anche perché esso si svolge, come si è visto, rispetto a un quadro giuridico in continua evoluzione, segnato dall’accavallarsi di misure erratiche e parziali che se non hanno portato a soluzioni definitive, hanno in compenso alimentato una stratificazione normativa complessa e disordinata. Finora, comunque, la successione delle misure adottate per far fronte all’aggravarsi della crisi si è svolta restando all’interno del sistema istituito dai Trattati, ma mediando tra le opposte interpretazioni degli stessi, segnatamente quanto agli artt. 122-125 TFUE, di cui si è detto più sopra. E cioè, ancora una volta schematizzando, tra i fautori di una lettura rigorosa e quindi ampia dei divieti imposti dal Trattato, il principale dei quali mira ad evitare che l’Unione e gli altri Stati membri possano farsi carico dei debiti degli Stati membri in crisi (art. 125 TFUE), e quanti fanno leva invece sulla disposizione che autorizza misure di solidarietà a favore degli Stati in difficoltà (art. 122 TFUE), sottolineando che l’eccezionalità e la temporaneità di tali misure, la loro proporzionalità rispetto all’obiettivo perseguito, la rigorosa condizionalità cui esse sono legate e i controlli cui sono assoggettati conferirebbero alle stesse il carattere di interventi congiunturali, e quindi sottratti a detti divieti. Ma dietro questo contrasto interpretativo, vi è con tutta evidenza la contrapposizione tra i paesi «virtuosi», che privilegiano a ogni costo la stabilità della moneta europea e quindi la più rigorosa disciplina di bilancio, e quelli più propensi invece ad attenuare tale rigore per favorire forme di solidarietà che rendano economicamente e soprattutto socialmente sostenibili gli interventi volti a mantenere quella stabilità. I primi, com’è noto, temono di dover sopportare, almeno in parte, i debiti dei paesi «cicale», in nome di una solidarietà che sarebbe, ai loro occhi, solo un pretesto per permettere di ripartire tra tutti i debiti di pochi, per giunta in un’Unione in cui, essendo la politica fiscale tuttora di competenza nazionale, non vi sarebbero sufficienti garanzie, visti i precedenti (in particolare, la tendenza a una spesa pubblica tanto generosa quanto improduttiva), perché gli eventuali interventi di solidarietà siano messi a frutto dagli Stati «assistiti» in modo realmente e stabilmente efficace. La loro preoccupazione principale sembra quindi, al momento, di definire un quadro efficace di controllo (ma anche d’interferenza) sulle politiche nazionali di bilancio, a garanzia dell’effettiva utilità degli interventi di assistenza finanziaria. Dall’altro fronte, invece, nel segnalare gli sforzi in atto per conformarsi ai comportamenti virtuosi sollecitati, si richiedono all’Unione e alla BCE più generose e radicali forme d’intervento per aiutare gli Stati in difficoltà a ritrovare uno sviluppo capace di almeno di attenuare le devastanti conseguenze economiche e sociali della crisi. In questa interminabile disputa i contrasti tra le opposte posizioni finiscono inevitabilmente con l’inasprirsi, specie perché purtroppo essa non è meramente teorica, ma riflette una crisi senza precedenti, che tocca la pelle viva dei paesi che ne sono attanagliati e mette a rischio la sopravvivenza stessa del processo d’integrazione, minando non solo le relazioni e la fiducia tra gli Stati membri e perfino tra i loro popoli, ma anche il patto sociale e la convivenza civile all’interno di tali Stati. Ed è in questa drammatica situazione che si dibatte ormai da anni, nel consueto rituale di vertici, riunioni e incontri spesso infruttuosi e comunque poco concludenti, un’Unione
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che purtroppo ancora non riesce a individuare una meta precisa e una chiara via di uscita. Certo, il programma OMT e l’immissione di denaro fresco nelle banche, come pure qualche spiraglio di ripresa economica nella maggior parte degli Stati membri, hanno giovato ad attenuare la drammaticità della situazione; ma la ricerca di soluzioni più stabili ed efficaci – che si tratti di migliorare lo specifico sistema o di ripensare in termini generali l’impianto complessivo dell’Unione – non può certo considerarsi esaurita.
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CAPITOLO IX
Occupazione e politiche sociali Sommario: 1. Premessa. – 2. L’occupazione. – 3. La politica sociale: a) obiettivi e competenze dell’Unione; b) il ruolo delle parti sociali; c) il principio della parità uomo-donna; d) il diritto al congedo retribuito; e) il Fondo sociale europeo. – 4. Istruzione, formazione professionale, gioventù e sport.
1. Premessa Le politiche di cui ci occupiamo nel presente Capitolo sono tra loro distinte, come vedremo, sotto molti profili, ma vengono in esso riunite in ragione della loro comune attinenza alla dimensione sociale dell’azione dell’Unione, una dimensione certo meno rilevante di quella economica, ma impostasi ugualmente alla generale attenzione. Com’è noto, fin dagli inizi della costruzione europea era stato denunciato il modesto rilievo dato ai profili sociali e alla relativa disciplina, che era relegata, in un processo marcato da una forte connotazione mercantilistica, a un ruolo ancillare rispetto all’obiettivo primario della instaurazione e del funzionamento del mercato comune, e ciò nella convinzione, di cui si ritrova traccia ancor oggi nell’art. 151, comma 3, TFUE, secondo cui progresso economico e sviluppo sociale sono tra loro interdipendenti e che il primo avrebbe indotto, con uno svolgimento quasi naturale e automatico, anche uno sviluppo del tenore di vita e del benessere dei cittadini europei, sicché non sarebbero stati necessari specifici interventi al riguardo, potendo essi, secondo alcuni, addirittura mettere a repentaglio lo sviluppo economico. Questa ispirazione non solo si scontrò, almeno in parte, con la realtà dei processi economici, ma segnò una sorta di contrapposizione tra interessi del mercato e protezione sociale, e comunque si rivelò inadeguata a soddisfare la crescente sensibilità per i diritti sociali fondamentali nella Comunità, e non solo. Fu così via via accentuato il rilievo della dimensione sociale anche nei Trattati, con riferimenti che, come vedremo, si arricchivano nei vari passaggi del lungo processo di revisione di quei testi realizzatosi negli ultimi trent’anni. I primi interventi normativi si ebbero già con l’AUE, ma per profili marginali (con il riferimento al «miglioramento […] dell’ambiente di lavoro [e alla] salute dei lavoratori»: art. 118 A TCE; e al dialogo tra le parti sociali: art. 118 B TCE). Ma in-
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novazioni più incisive furono proposte, sull’onda dell’approvazione della Carta dei diritti sociali fondamentali del 1989, nel corso del negoziato per il Trattato di Maastricht; a causa però del veto del Regno Unito, esse furono consegnate a un Protocollo allegato a quel Trattato (Prot. n. 14: «Accordo sulla Politica Sociale»), sottoscritto con una sorta di opting out dagli altri Stati membri. La Carta è in realtà una solenne dichiarazione dei Capi di Stato e di governo adottata in occasione del Consiglio europeo di Strasburgo, del 9 dicembre 1989. Essa era stata, sia pur non direttamente, preceduta dalla Carta sociale europea, cioè da una convenzione firmata a Torino, il 18 ottobre 1965 (ma rivista nel 1996), in seno al Consiglio d’Europa e ratificata da oltre 40 paesi.
Ci pensò poi il Trattato di Amsterdam a inserire detto Accordo nel corpo del Trattato, in termini rimasti ancor oggi sostanzialmente invariati. E ciò grazie soprattutto agli sviluppi che contestualmente si registravano sul versante economico con la previsione dell’instaurazione di un’unione economica e monetaria, e in particolare di una moneta unica, che non poteva non riflettersi anche sul versante sociale dell’azione dell’Unione; ma soprattutto grazie al definitivo superamento della connotazione puramente economicistica del processo d’integrazione e la sua ulteriore apertura ad aspetti in senso lato personalistici (sociali, culturali, ambientali, e così via). Oggi, la dimensione sociale, seppur, come vedremo, non sia ancora pienamente affermata quanto ai poteri d’intervento attribuiti all’Unione, che sono tuttora in varia misura condivisi con gli Stati membri, è evocata già nelle norme generali e introduttive del TUE, che indicano tra gli obiettivi della stessa la piena occupazione e il progresso sociale quali elementi qualificanti di quella economia sociale di mercato, che caratterizza ormai quasi tutti gli Stati membri. V. art. 2 TUE, che elenca la solidarietà tra i valori sui quali l’Unione si fonda; e art. 3, par. 3, TUE, che include tra gli obiettivi primari dell’Unione la promozione di uno sviluppo sostenibile basato tra l’altro, su «un’economica sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale», e impone poi all’Unione di combattere l’esclusione sociale e di promuovere la giustizia e la protezione sociali, la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà tra gli Stati membri. Va anche segnalata, a tale proposito, la recente comunicazione della Commissione al PE, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni per l’istituzione di un pilastro europeo dei diritti sociali (COM(2017)250 final, del 26 aprile 2017).
Non solo, ma detta dimensione costituisce oggetto della c.d. clausola sociale trasversale, cioè dell’art. 9 TFUE, introdotto dal Trattato di Lisbona, che prevede per l’appunto che «[n]ella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un’adeguata protezione sociale, la lotta contro l’esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana». E soprattutto di quella dimensione si occupano gli appositi Titoli del TFUE, di cui trattiamo nel presente Capitolo, nonché, e ampiamente, il Titolo IV della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.
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2. L’occupazione Come sopra accennato, l’occupazione è oggetto di una specifica disciplina a partire dal Trattato di Amsterdam, essendo stata fino ad allora evocata, per giunta in modo generico, solo all’interno di altre disposizioni (art. 118 TCE). Oggi essa, oltre ai richiami prima menzionati, è disciplinata da un intero titolo del TFUE (Titolo IX, artt. 145-150). Va anche segnalato l’art. 107, par. 3, lett. a), TFUE, secondo il quale possono considerarsi compatibili con il mercato interno gli aiuti «destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione». Si noti peraltro che, in conformità alle conclusioni del Consiglio europeo straordinario sull’occupazione, svoltosi a Lussemburgo il 20 e 21 novembre 1997, l’azione di coordinamento delle politiche di occupazione, di cui subito diremo, è stata attivata già prima dell’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, con la risoluzione del Consiglio, del 15 dicembre 1997, «Sugli orientamenti in materia di occupazione per il 1998» (GUCE C 30, 1).
I poteri riconosciuti in materia all’Unione restano tuttavia ancora limitati. Secondo l’art. 147 TFUE, infatti, fermo restando che, come già previsto dal citato art. 9 TFUE, nella «definizione e nell’attuazione delle politiche e delle attività dell’Unione si tiene conto dell’obiettivo di un livello di occupazione elevato» (par. 2), la competenza dell’Unione si limita a «contribuire» a questo «elevato livello di occupazione promuovendo la cooperazione tra gli Stati membri nonché sostenendone e, se necessario, integrandone l’azione», ma ciò pur sempre nel rispetto delle competenze di quegli Stati (par. 1). L’Unione svolge cioè, in materia, un ruolo sussidiario rispetto alle iniziative di questi ultimi e può solo promuovere la loro cooperazione, come pure sostenerne e, se necessario, integrarne l’azione, senza mai però potersi a essa sostituire in proprio. Va evidenziato che l’obiettivo menzionato dalla disposizione non è la piena occupazione, come indicato all’art. 3, par. 3, TUE, ma «un livello di occupazione elevato». Si può aggiungere che, in applicazione della c.d. «strategia di Lisbona», varata dal Consiglio europeo di Lisbona del 23 e 24 marzo 2000, di cui si dirà subito, l’Unione è impegnata a perseguire un obiettivo non solo quantitativo, ma anche qualitativo, con la creazione di posti di lavoro migliori e più produttivi.
Si tratta dunque di una mera competenza di coordinamento delle politiche occupazionali nazionali che, come emerge dagli artt. 2, parr. 3 e 5, TFUE, costituisce, al pari della corrispondente competenza relativa al coordinamento delle politiche economiche e in parte di quelle sociali, una categoria autonoma di competenze distinta da quelle, tipizzate dal Trattato come competenze esclusive, concorrenti o di sostegno (v. artt. 3-6 TFUE e supra, p. 420 ss.). Del resto, è proprio la tecnica del coordinamento a caratterizzare la disciplina della materia, e ciò sulla scia della nota «strategia di Lisbona», definita nel Consiglio europeo tenutosi appunto in tale città il 23-24 marzo 2000, che ha rappresentato un passaggio importante per delineare le modalità di quel coordinamento rispetto alle politiche economiche, strutturali e di coesione sociale, e per il rafforzamento della c.d. «economia della conoscenza». In effetti, riprendendo le indicazioni penetrate
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intanto nel Trattato di Amsterdam, detta strategia valorizzava il c.d. «Metodo aperto di coordinamento», che, diversamene dal metodo dell’armonizzazione, ma anche diversamente da quanto abbiamo visto nel Capitolo precedente a proposito del coordinamento delle politiche economiche, si basa su un sistema di spontaneo e reciproco confronto da parte degli Stati membri sulle strategie operate nel pertinente settore, sulla base di obiettivi e indicatori comuni fissati ex ante e volti a condurre quegli Stati verso livelli di integrazione e di armonizzazione in principio perfino più avanzati rispetto a quelli previsti dai Trattati. Il metodo in parola si avvale di conseguenza di una serie di atti non vincolanti (c.d. soft law: raccomandazioni, conclusioni, linee guida, programmi e piani d’azione, ecc.), adottati d’intesa tra il Consiglio europeo e il Consiglio, quanto alla definizione degli obiettivi e delle strategie, e dalla Commissione (con un ruolo marginale del Parlamento europeo), quanto alla promozione e alla supervisione dei progressi compiuti a livello nazionale, al fine di stimolare una reciproca emulazione fra le amministrazioni nazionali e un confronto diretto con la società civile, soprattutto attraverso la consultazione e la conseguente valorizzazione del ruolo delle parti sociali europee e nazionali, e tenendo in massimo conto le specificità degli Stati membri in materia. La vigente normativa dei Trattati riprende tale impostazione quanto alle competenze dell’Unione nella materia de qua. In concreto, ai sensi dell’art. 148 TFUE, l’Unione interviene anzitutto attraverso l’elaborazione di «orientamenti» in materia di occupazione, approntati dal Consiglio e dalla Commissione e sottoposti annualmente al Consiglio europeo con un rapporto sulla situazione dell’occupazione nell’Unione (par. 1). Sulla base delle conclusioni del Consiglio europeo, il Consiglio, a maggioranza qualificata, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, del Comitato economico e sociale, del Comitato delle regioni e del Comitato per l’occupazione, adotta annualmente i suddetti orientamenti, che «devono essere considerati dagli Stati membri nel contesto delle loro rispettive politiche in materia di occupazione». Il Comitato per l’occupazione, a carattere consultivo, è stato istituito, in continuità con precedenti organi simili, ai sensi dell’art. 150 TFUE, dal Consiglio a maggioranza qualificata (v. dec. 2000/98/CE del Consiglio, del 24 gennaio 2000, GUCE L 29, 21, adottata sulla base dell’art. 130 TCE, corrispondente all’attuale art. 150 TFUE; nonché dec. 2000/604/CE del Consiglio, del 29 settembre 2000, «sulla composizione e lo statuto del Comitato di politica economica», GUCE L 257, 28), con il compito di promuovere il coordinamento delle politiche occupazionali degli Stati membri dell’Unione. A tal fine, esso deve monitorare la situazione del mercato del lavoro, formulare pareri al Consiglio e alla Commissione, e preparare i lavori del Consiglio. Il Comitato è composto di 56 membri ed altrettanti supplenti, nominati, due per ciascuno Stato membro, più altri due dalla Commissione, tra i funzionari nazionali o gli esperti di alto livello con comprovata esperienza in materia di politiche dell’occupazione e del mercato del lavoro. Come si è ricordato in sede di esame dell’art. 121 TFUE (retro, p. 685 s.), gli «indirizzi di massima» previsti da tale disposizione, definiti anche «grandi orientamenti delle politiche economiche» (GOPE), includono di solito elementi di politica macroeconomica e microeconomica, nonché di politica fiscale, di bilancio e di lavoro, e per questo motivo, incorporano in un unico documento anche gli orientamenti per il coordinamento delle politiche occupazionali (c.d. «orientamenti integrati»). Va anche segnalato che la recente innovazione del c.d. «semestre europeo», di cui si è detto più sopra (p. 695), con riguardo al coordinamento delle politiche economiche, è stata estesa, con le medesime finalità di razionalizzazione ed efficienza del sistema, anche alle politiche occupazionali.
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Dall’art. 148 TFUE si evince anche che ciascuno Stato membro è tenuto a trasmettere al Consiglio e alla Commissione una relazione annuale sulle principali misure adottate per l’attuazione della propria politica in materia di occupazione, alla luce dei suddetti orientamenti (par. 3). E sempre alla luce degli stessi, il Consiglio procede annualmente, sulla base di quelle relazioni e dei pareri del Comitato per l’occupazione, ad un esame dell’attuazione delle politiche degli Stati membri in materia di occupazione e, all’occorrenza, su raccomandazione della Commissione, rivolge apposite raccomandazioni agli Stati membri (par. 4). In base poi ai risultati di detto esame, il Consiglio e la Commissione trasmettono al Consiglio europeo una relazione annuale comune in merito alla situazione dell’occupazione nell’Unione e all’attuazione degli orientamenti in materia di occupazione (par. 5). La Commissione ha elaborato al riguardo un sistema di indicatori, volti a misurare l’efficienza delle politiche occupazionali nazionali, insieme con vari strumenti di monitoraggio che servono anche a far confluire al centro informazioni di utilità generale. Le misure nazionali di attuazione degli orientamenti triennali devono essere articolate in «Programmi Nazionali di Riforma» (PNR) di uguale durata, e, successivamente in rapporti annuali sulla loro implementazione, che devono essere il frutto della consultazione con tutte le parti interessate, a livello nazionale e regionale. Va sottolineato che nessuno degli atti evocati costituisce un atto vincolante, impugnabile innanzi alla Corte di giustizia. Come si è visto, infatti, perfino nel caso in cui sia accertato che uno Stato membro si è discostato dagli orientamenti, il Consiglio può al più rivolgergli, «se lo considera opportuno», una raccomandazione. Si può tuttavia ritenere che l’omessa presentazione delle relazioni annuali sull’attuazione degli orientamenti (o eventuali false indicazioni nelle stesse) potrebbero costituire una formale violazione del diritto dell’Unione, trattandosi di atti dovuti.
È inoltre previsto che il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, possano prendere «misure d’incentivazione», che non devono però comportare l’armonizzazione delle disposizioni nazionali in materia, e che sono «dirette a promuovere la cooperazione tra Stati membri e a sostenere i loro interventi nel settore dell’occupazione, mediante iniziative volte a sviluppare gli scambi di informazioni e delle migliori prassi, a fornire analisi comparative e indicazioni, nonché a promuovere approcci innovativi e a valutare le esperienze realizzate, in particolare mediante il ricorso a progetti pilota» (art. 149 TFUE). Si conferma dunque, anche dopo la descrizione dei poteri dell’Unione, che gli obiettivi comuni in materia di occupazione restano quasi interamente affidati agli Stati membri. È questo il motivo per il quale il Trattato impone loro una serie di obblighi, anzitutto impegnandoli, nel rispetto del ruolo delle parti sociali, a considerare la promozione dell’occupazione una questione di interesse comune e a coordinare le loro azioni al riguardo in seno al Consiglio (art. 146, par. 2, TFUE). Nel merito, poi, il Trattato chiede loro di adoperarsi per sviluppare, insieme con l’Unione, «una strategia coordinata a favore dell’occupazione, e in particolare a favore della promozione di una forza lavoro competente, qualificata, adattabile e di mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti economici, al fine di realizzare gli obiettivi» generali proclamati all’art. 3 TUE (art. 145 TFUE), nonché a contribuire, attraverso le loro politiche in materia di occupazione, al raggiungimento di detti obiettivi in modo coerente con gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri
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e dell’Unione adottati a norma dell’art. 121, par. 2, TFUE (art. 146, par. 1, TFUE). Sono dunque le politiche degli Stati membri in materia di occupazione a concorrere a definire, attraverso il reciproco coordinamento, la politica dell’Unione in materia. Essi devono farlo nel rispetto del principio di coerenza sancito all’art. 7 TFUE e dell’imperativo «trasversale» risultante dal citato art. 9 TFUE, nonché del principio di leale cooperazione, di cui all’art. 4 TUE, ma ribadito dalle specifiche disposizioni della materia (in particolare, dagli artt. 145 e 148 TFUE), che impegna gli Stati membri a facilitare la realizzazione degli obiettivi dell’Unione e comunque a non assumere iniziative suscettibili di pregiudicare tale risultato. Tutto ciò detto, si deve in conclusione riconoscere che in materia di occupazione la cooperazione in seno all’Unione non ha conseguito risultati particolarmente significativi, ma questo più per motivi di carattere generale legati ai processi economici e alle politiche messe in campo dagli Stati membri, che per i limiti della descritta normativa, anche se questi hanno evidentemente ridotto la capacità di intervento dell’Unione. Riflessioni sono in corso quindi per migliorare sostanzialmente il sistema, e questo in particolare nel contesto della c.d. strategia «Europa 2020». Si tratta, come noto, del piano approvato dal Consiglio europeo (Conclusioni del 25 e 26 marzo 2010) per l’occupazione e una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, che definisce un quadro politico coerente per il prossimo decennio, finalizzato soprattutto ad alcuni obiettivi principali (occupazione, lotta contro la povertà e l’esclusione sociale, e l’istruzione). In questa prospettiva, è stato adottato il reg. (UE) 1296/2013 del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, relativo a un programma dell’Unione europea per l’occupazione e l’innovazione sociale («EaSI») e recante modifica della dec. 283/2010/UE, che istituisce uno strumento europeo Progress di microfinanza per l’occupazione e l’inclusione sociale (GUUE L 347, 238), modificato più volte e, da ultimo, dal reg. (UE) 2016/589 del PE e del Consiglio, del 13 aprile 2016, relativo a una rete europea di servizi per l’impiego (EURES), all’accesso dei lavoratori ai servizi di mobilità e a una maggiore integrazione dei mercati del lavoro (GUUE L 107, 1).
3. La politica sociale: a) obiettivi e competenze dell’Unione; b ) il ruolo delle parti sociali; c ) il principio della parità uomo-donna; d ) il diritto al congedo retribuito; e) il Fondo sociale europeo Si è già ricordato, in sede di premessa al presente Capitolo, che nel settore della politica sociale i poteri dell’Unione sono meno vasti e penetranti che in altri, in particolare in quello del mercato interno. Alle origini del processo d’integrazione, anzi, essi erano addirittura evanescenti, e solo con i successivi sviluppi dello stesso, sotto la pressione delle forze politiche e sociali, la sensibilità per la dimensione sociale, come per tanti altri aspetti non economistici di quel processo, si è acuita e la pertinente disciplina dei Trattati conseguentemente rinvigorita (ciò è avvenuto soprattutto con il ricordato Prot. n. 14 allegato al Trattato di Maastricht, che recepiva il c.d. Accordo sulla Politica Sociale: APS). A parte le disposizioni di portata generale e trasversale, di cui si è detto in premessa, e che di per sé già danno il senso del maggior rilievo acquisito dalla materia, quella che gli stessi Trattati qualificano come «Politica sociale» dell’Unione è oggi
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regolata con particolare ampiezza dal Titolo X del TFUE (artt. 151-161), cui fanno da complemento i Titoli XI e XII, dedicati rispettivamente al Fondo sociale europeo (artt. 162-164) e all’istruzione, formazione professionale, gioventù e sport (artt. 165-166). Fino al Trattato di Lisbona i Trattati indicavano tra gli obiettivi dell’Unione «una politica nel settore sociale» (v. art. 3, par. 1, lett. j), TCE). Oggi però, in ragione della diversa tecnica utilizzata dal vigente Trattato, questo riferimento non è stato riproposto.
Passeremo subito all’esame specifico di tali disposizioni; conviene però prima illustrarne alcuni aspetti generali e comuni. Emerge anzitutto da esse che, a seguito dei segnalati sviluppi, la politica sociale si realizza oggi attraverso l’azione coordinata dell’Unione e degli Stati membri, laddove questi ultimi prima del Trattato di Amsterdam ne erano i soli protagonisti, anche se comunque mantengono tuttora un decisivo controllo nel settore (specie mentre ne perdevano nel settore monetario e, in ampia misura, in quello economico). Stante dunque il persistente ruolo degli Stati membri, la politica sociale è inclusa tra le competenze concorrenti dell’Unione, almeno limitatamente agli aspetti definiti dal Trattato (art. 4, par. 2, lett. b), TFUE), mentre per gli altri essa rientra fra le competenze di coordinamento, nel senso di cui si è detto a proposito della politica economica e di quella occupazionale (v. art. 5, par. 3, TFUE, nonché retro, p. 684, e più in generale p. 424 ss.). Questo si riflette, anche in ossequio al principio di sussidiarietà (art. 5 TUE, e retro, p. 427 ss.), sia quanto alla ripartizione delle competenze in campo, sia quanto alle modalità del loro esercizio, alla natura e l’efficacia degli strumenti di volta in volta utilizzabili. Ciò, peraltro, avendo presente che in questa materia i livelli rilevanti per l’applicazione del principio di sussidiarietà sono più complessi di quelli abituali, perché si deve tener conto non solo dell’Unione e dei governi nazionali, ma anche degli enti territoriali e soprattutto delle parti sociali, che svolgono, anche formalmente, un significativo ruolo in materia. E questo anche in coerenza con il rilievo che, particolarmente in questo settore, assume il metodo aperto di coordinamento di cui si è detto al paragrafo precedente. In conformità a tale metodo, infatti, in più occasioni, con varie modalità e in varie sedi, le parti sociali vengono ugualmente coinvolte nella gestione della relativa politica dell’Unione: in particolare, come vedremo, con la loro consultazione prima di presentare proposte normative (art. 154 TFUE); quando le parti stesse intendano concludere relazioni contrattuali o accordi (art. 155 TFUE) e quando esse siano chiamate a dare attuazione a direttive in materia sociale (art. 153 TFUE). Va anche sottolineato che in questa materia il ruolo del Parlamento europeo è più incisivo che negli altri casi di ricorso al metodo predetto, dato che esso partecipa in qualità di co-legislatore all’adozione degli atti normativi dell’Unione. V. più avanti. Il Trattato prevede inoltre l’obbligo della Commissione di presentare al PE la relazione che essa deve redigere annualmente sull’attuazione delle pertinenti disposizioni del Trattato, relazione che deve contenere un capitolo speciale sull’evoluzione della situazione sociale dell’Unione, nonché le relazioni che lo stesso PE può chiederle di predisporre su aspetti particolari della materia (artt. 159 e 161 TFUE).
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a) Venendo ora al merito della pertinente disciplina, va anzitutto ricordato che, come emerge già dalla norma di apertura del Titolo X (art. 151, comma 1), gli obiettivi della politica sociale dell’Unione sono definiti con particolare ampiezza, visto che essa comprende: «la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione». Tali obiettivi sono assunti avendo «presenti i diritti sociali fondamentali, quali quelli definiti nella Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989», delle quali si è già detto in premessa. Ma oggi rileva in materia, come già accennato, anche la Carta dei diritti fondamentali, che dedica ai diritti sociali una larga parte del proprio Titolo IV, dedicato alla «Solidarietà» (in particolare, gli artt. 27-34). Tra i diritti proclamati dalla Carta dir. fond. in materia sociale, segnaliamo: il diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa (art. 27); il diritto di negoziazione e di azioni collettive (art. 28); il diritto di accesso ai servizi di collocamento (art. 29); il diritto alla tutela in caso di licenziamento ingiustificato (art. 30); il diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose, nonché a una limitazione della durata massima del lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite (art. 31); il divieto del lavoro minorile e la protezione dei giovani sul luogo di lavoro (art. 32); il diritto alla protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale, nonché della vita professionale (art. 33); ed infine, una serie di diritti afferenti alle prestazioni di sicurezza sociale e assistenziali (art. 34). Si noti tuttavia che, proprio con riguardo a tali enunciazioni la Carta distingue tra «diritti» e «principi», precisando che, per poter essere fatti valere in sede giudiziaria, i secondi devono poi tradursi in atti legislativi o esecutivi europei o nazionali, potendo, diversamente, essere solo invocati a fini dell’interpretazione e del controllo di legalità di detti atti (art. 52, par. 5).
Vedremo presto i modi, le condizioni e i limiti previsti per l’attuazione di tali obiettivi. Qui conviene subito ricordare che, a tal fine, lo stesso art. 151 TFUE, da un lato, impone di tener conto della diversità delle prassi nazionali, in particolare nelle relazioni contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività dell’economia (comma 2), dall’altro, ribadisce la convinzione che il raggiungimento degli indicati obiettivi risulterà sia dal funzionamento del mercato comune, che favorirà l’armonizzarsi dei sistemi sociali, sia dalle procedure previste dai Trattati e dal ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative (comma 3). Con ciò tentando di trovare una mediazione nella difficile e controversa convivenza tra le finalità sociali e le finalità economiche dell’Unione. È ben vero, in effetti, che la Corte ha più volte sottolineato che «la Comunità non ha soltanto una finalità economica ma anche una finalità sociale [e che] i diritti che derivano dalle disposizioni del [TCE] relative alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali devono essere bilanciati con gli obiettivi perseguiti dalla politica sociale, tra i quali figurano in particolare, come risulta dall’art. 136 [TCE, corrispondente ora all’art. 151 TFUE], il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata e il dialogo sociale» (Corte giust. 18 dicembre 2007, C-341/05, Laval un Partneri, c.d. sentenza Laval, I-11767, punto 105). Tuttavia, nella prassi non è stato sempre facile conseguire quel risultato (v. proprio la sentenza appena citata e la sua omologa dell’11 dicem-
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bre 2007, C-438/05, The International Transport Workers’ Federation e The Finnish Seamen’s Union, c.d. sentenza Viking, I-10779, entrambe peraltro assai controverse; nonché Corte giust. 3 aprile 2008, C-346/06, Rüffert, I-1989 e, più di recente, 21 dicembre 2016, C-201/15, AGET Iraklis.
Per conseguire comunque gli obiettivi appena indicati, l’art. 153, par. 1, TFUE elenca una serie di materie, nelle quali l’Unione è abilitata a «sostenere e completare» l’azione degli Stati membri, secondo una formula che richiama quella tipizzata per le c.d. competenze parallele di cui si è detto in precedenza (p. 426 s.), quelle cioè che si limitano al sostegno, al coordinamento e al completamento dell’azione degli Stati membri, e che non consentono né l’adozione di misure di armonizzazione legislativa, né la sostituzione dell’azione di quegli Stati nei settori rilevanti. Si tratta di materie assai rilevanti e molto varie, il cui spettro si è progressivamente allargato via via nel tempo e la cui portata, per giunta, è interpretata dalla Corte con molta generosità, anche se ne restano ancor oggi fuori le retribuzioni, il diritto di associazione, e il diritto di sciopero e di serrata. Nello specifico, rilevano i seguenti settori: a) miglioramento, in particolare, dell’ambiente di lavoro, per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori; b) condizioni di lavoro; c) sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori; d) protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro; e) informazione e consultazione dei lavoratori; f) rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro, compresa la cogestione (fatto salvo quanto attiene alle retribuzioni, al diritto di associazione, sciopero e di serrata); g) condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio dell’Unione; h) integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro, fatte salve le previsioni relative alla formazione professionale (v. più avanti); i) parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro; j) lotta contro l’esclusione sociale; k) modernizzazione dei regimi di protezione sociale, fatto salvo quanto detto alla lettera c). All’inizio, l’art. 118 A dell’AUE contemplava il solo miglioramento dell’ambiente di lavoro per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori. A sua volta, la Corte ha ben presto dato il segno del proprio orientamento quando, in una controversia in cui si discuteva della riconducibilità a tale base giuridica di una direttiva sull’organizzazione dell’orario di lavoro (dir. 93/104/CE del Consiglio, del 23 novembre 1993, GUCE L 307, 18), che secondo il Regno Unito rientrava nella lotta contro la disoccupazione, ha stabilito che l’organizzazione dell’orario di lavoro si ricollegava strettamente alla sicurezza e alla salute dei lavoratori (Corte giust. 12 novembre 1996, C-84/94, Regno Unito c. Consiglio, I-5755). L’esclusione delle retribuzioni, del diritto di associazione e del diritto di sciopero e di serrata, che, in quanto derogatoria alla disciplina comune, deve essere di stretta interpretazione (Corte giust. 13 settembre 2007, C-307/05, Del Cerro Alonso, I-7109; 15 aprile 2008, C-268/06, Impact, I2483), riguarda solo l’adozione delle misure di cui subito diremo in tali materie, non il rispetto dei principi generali e di eventuali altre disposizioni rilevanti (Corte giust. 18 dicembre 2007, C341/05, Laval, cit.).
Rispetto a dette materie, il legislatore dell’Unione, con procedure differenziate, può anzitutto adottare misure per incoraggiare la cooperazione tra Stati membri, in particolare migliorando le conoscenze e sviluppando lo scambio di informazioni e delle migliori prassi (art. 153, par. 2, lett. a), TFUE). In secondo luogo, esso può adottare, mediante direttive, in alcune delle materie elencate dalla disposizione (in particolare, per quelle indicate dalla lett. a) alla lett. i), le prescrizioni minime applicabili progressivamente; ma deve farlo soprattutto tenendo conto delle condizioni e
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delle normative tecniche esistenti in ciascuno Stato membro ed evitando comunque di imporre vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese (PMI) (art. 153, par. 2, lett. b), TFUE). Non solo, ma le predette misure non devono compromettere la libertà degli Stati membri di definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza sociale, né incidere sensibilmente sull’equilibrio finanziario dello stesso, né precludere a detti Stati la possibilità di mantenere o adottare disposizioni, compatibili con i Trattati, che prevedano una maggiore protezione (c.d. clausola di non regresso). Rispetto a tali direttive (ma anche rispetto alle decisioni che, come vedremo tra breve, attuano gli accordi tra le parti sociali di cui all’art. 155 TFUE), l’art. 153, par. 3, TFUE, prevede che, ferma restando ovviamente, la loro responsabilità di garantire la realizzazione dei risultati da esse imposti, gli Stati membri possono affidare alle parti sociali il compito «di porre in atto» le direttive (o le predette decisioni), il che può essere considerato espressione del margine di libertà di cui essi godono nel trasporre le direttive (del resto, questa via era stata riconosciuta praticabile anche prima dell’inserimento di tale disposizione nel Trattato: v. Corte giust. 30 gennaio 1985, 143/83, Commissione c. Danimarca, 427; 10 luglio 1986, 235/84, Commissione c. Italia, 2291; 28 ottobre 1999, C-187/98, Commissione c. Grecia, I-7713). In attuazione della disposizione in esame, sono state adottate numerose direttive, specie in materia di miglioramento della sicurezza e salute dei lavoratori e dell’ambiente di lavoro. Il che non significa, come ha osservato la Corte, che l’intervento dell’Unione debba limitarsi al minimo denominatore comune, «ovvero al più basso livello di tutela fissato dai diversi Stati membri», perché può anche definire uno standard minimo di protezione, rispetto al quale gli Stati membri rimangono «liberi di concedere una tutela maggiore» (Corte giust. 12 novembre 1996, C-84/94, Regno Unito c. Consiglio, cit., punto 56). Quanto alle procedure legislative differenziate, esse sono, di regola: con procedura legislativa ordinaria, previa consultazione del CES e del CDR; e con procedura legislativa speciale (unanimità in seno al Consiglio, consultazione del PE e dei predetti Comitati) per le materie di cui alle lett. c), d), f), g), dell’art. 153, par. 1, TFUE. Ma le per ultime tre lettere citate, il Consiglio può decidere all’unanimità, su proposta della Commissione e previa consultazione del PE, di assoggettare anche quelle materie alla procedura legislativa ordinaria (art. 153, par. 2, commi 2-4, TFUE).
Accanto alle misure fin qui indicate, poi, e a completamento delle relative competenze, l’Unione svolge altresì, sempre al fine di favorire la realizzazione degli obiettivi enunciati all’art. 151 TFUE, un’azione volta a incoraggiare la cooperazione tra gli Stati membri e a facilitare il coordinamento tra questi ultimi in tutti i settori riguardanti la politica sociale (art. 156 TFUE), esercitando una competenza complementare o di sostegno, nel senso di cui si è detto in precedenza, che esclude quindi la possibilità di adottare misure vincolanti, e ancor meno di armonizzazione legislativa. In ragione di tale sua natura, detta competenza è esercitata dalla Commissione, che deve a tal fine operare a stretto contatto con gli Stati membri (v. Corte giust. 9 luglio 1987, 281/85, da 283/85 a 285/85, e 287/85, Germania e a. c. Commissione, 3203), attraverso studi e pareri e organizzando consultazioni, sia per i problemi che si presentano sul piano nazionale, che per quelli che interessano le organizzazioni internazionali. E ciò, in particolare, mediante iniziative finalizzate alla definizione di orientamenti e indicatori, all’organizzazione di scambi di migliori pratiche e alla preparazione di elementi necessari per il controllo e la valutazione periodici. Il PE è tenuto pienamente informato delle relative iniziative della Commissione, la quale inoltre, prima di formulare i pareri previsti dalla disposizione, deve consultare il CES.
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L’esclusione di misure vincolanti, e ancor più di armonizzazione legislativa, è confermata, se mai fosse stato necessario, dalla Dichiarazione n. 31, allegata al Trattato di Lisbona, relativa all’art. 156 TFUE, nella quale si ribadisce: che le politiche descritte in detto articolo «sono essenzialmente di competenza degli Stati membri»; che le misure adottate nell’ambito di tale articolo hanno solo «carattere complementare»; che esse mirano a rafforzare la cooperazione tra gli Stati membri e non ad armonizzarne le legislazioni; e che devono rispettare le garanzie e gli usi esistenti in quegli Stati in materia di responsabilità delle parti sociali.
b) Ai fini della realizzazione della politica sociale, come già accennato, un particolare rilievo assumono le parti sociali, delle quali l’Unione «riconosce e promuove il ruolo», e tra le quali «facilita il dialogo» (art. 152, par. 1, TFUE). Si tratta di una previsione che svolge gli orientamenti da tempo manifestati al riguardo dalla Commissione ed esprime la fiducia nel ruolo essenziale di quelle parti ai fini del conseguimento degli obiettivi dell’Unione nel settore. Ma essa riflette anche, più in generale, la convinzione che la partecipazione delle parti sociali al processo d’integrazione sia uno strumento appropriato per la realizzazione di quella democrazia rappresentativa e partecipativa, proclamata dagli artt. 10 e 11 TUE. Del resto, il dialogo tra le parti sociali di cui si parla a livello dell’Unione non va inteso come limitato alla tradizionale negoziazione collettiva per una specifica finalità sindacale, ma investe più ampiamente la partecipazione alla definizione degli indirizzi generali della politica sociale dell’Unione e alle relative scelte. V. la comunicazione della Commissione, del 26 giugno 2002 (COM (2002) 341 def.): «Il dialogo sociale europeo, forza di modernizzazione e cambiamento». Ma in realtà, l’idea di favorire tale dialogo e di coinvolgere le parti sociali risale ben più indietro nel tempo, visto che ve ne erano tracce addirittura nel TCECA. Tuttavia l’impulso venne soprattutto dal noto vertice di Val Duchesse (Belgio) del 31 gennaio 1985, che riunì, su iniziativa dell’allora Presidente della Commissione, Jacques Delors, i presidenti ed i segretari generali di tutte le organizzazioni nazionali delle parti sociali affiliate alle tre confederazioni sovranazionali, e i cui risultati trovarono espressione, tramite l’AUE, nell’art. 118 B TCE. Ma in materia, v. anche le due Carte sociali sopra ricordate, nonché la comunicazione della Commissione, del 25 luglio 2001, «Governance europea – Un Libro Bianco» (COM (2001) 428 def., GUCE C 287, 1), e soprattutto l’art. 12 Carta dir. fond., che sancisce il diritto fondamentale di ogni persona ad esercitare la propria libertà sindacale associandosi con altre persone per la difesa dei propri interessi, nonché l’art. 28 di quella Carta, secondo il quale i «lavoratori e i datori di lavoro, o le rispettive organizzazioni, hanno, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali, il diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, ai livelli appropriati, e di ricorrere, in caso di conflitto di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero». La Corte ha più volte esaminato il diritto di negoziazione collettiva di cui al citato art. 28 Carta dir. fond., confermando che «il diritto di intraprendere un’azione collettiva, ivi compreso il diritto di sciopero, deve essere riconosciuto quale diritto fondamentale facente parte integrante dei principi generali del diritto comunitario di cui la Corte garantisce il rispetto» (sentenza dell’11 dicembre 2007, C-438/05, Viking, I-10779, cit., punto 44); diritto, questo, ribadito da svariati strumenti internazionali ai quali gli Stati membri hanno cooperato o aderito, come la richiamata Carta sociale europea, peraltro esplicitamente ricordata all’art. 136 TCE (corrispondente all’art. 151 TFUE), e la convenzione n. 87 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), del 9 luglio 1948. La Corte ha tuttavia bilanciato quel diritto con altri diritti o libertà con cui, in singoli casi, era entrato in conflitto, riconoscendo che «il suo esercizio può essere sottoposto a talune restrizioni. Infatti, come riaffermato dall’art. 28 [Carta dir. fond.], tali diritti sono tutelati conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali» (sentenze Viking e Laval, cit., rispettivamente
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punti 44 e 91). V. anche Corte giust. 15 settembre 2010, C-271/08, Commissione c. Germania, I7091; 12 ottobre 2010, C-45/09, Rosenbladt, I-9391; 8 settembre 2011, C-297/10 e C-298/10, Hennigs e Mai, I-7965; 13 settembre 2011, C-447/09, Prigge e a., I-8003; 28 giugno 2012, C172/11, Erny.
Tale partecipazione, tuttavia, deve svolgersi, come precisa lo stesso art. 152 TFUE, nel rispetto dell’autonomia delle parti sociali e «tenendo conto della diversità dei sistemi nazionali» (ma v. anche l’art. 151 TFUE, nonché il citato art. 28 Carta dir. fond.). In effetti, una delle principali difficoltà incontrate per affermare la prassi del dialogo sociale nell’Unione derivava e deriva proprio dalle profonde diversità tra quei sistemi, frutto di tradizioni, normative, principi organizzativi e prassi assai differenziati tra gli Stati membri, che hanno precluso anche altri sviluppi, tra cui la formazione di associazioni sindacali autenticamente «europee» e non organizzate solo sulla base dell’aggregazione delle grandi famiglie nazionali. Quanto all’identificazione delle parti sociali legittimate a fungere da interlocutrici della Commissione, e nell’evidente impossibilità di estendere questo ruolo a tutte le organizzazioni sociali esistenti negli Stati membri, la Commissione ha cercato di delimitarne la cerchia, definendo alcuni criteri oggettivi ritenuti idonei a identificare quelle più rappresentative, in particolare tenendo in conto: il fatto che esse siano interprofessionali, o rappresentative di specifici settori o di specifiche categorie, ed organizzate a livello europeo; siano composte di organizzazioni a loro volta riconosciute nel dialogo sociale interno agli Stati membri, e quindi abilitate a negoziare accordi; siano dotate di strutture adeguate; e così via. Comunicazione del 14 dicembre 1993 (COM (93) 600 def.), riguardante l’attuazione del Protocollo sulla politica sociale. Ma, entro questi criteri, necessari per evitare le pretese di organizzazioni di rilevanza marginale, rileva il principio del mutuo riconoscimento tra le parti sociali che decidono di aprire un negoziato con le proprie controparti e che quindi si accreditano reciprocamente a tal fine (sul punto, v. Trib. 17 giugno 1998, T-135/96, UEAPME c. Consiglio, II-2335). Va anche segnalato che, sulla base degli indicati criteri, la Commissione redige periodicamente una serie di elenchi (resi pubblici e sempre rivedibili) con l’indicazione delle organizzazioni europee delle parti sociali da consultare, raggruppandole in: organizzazioni interprofessionali a vocazione generale; organizzazioni interprofessionali rappresentanti talune categorie di lavoratori e d’imprese; organizzazioni specifiche; organizzazioni settoriali dei lavoratori; federazioni sindacali europee. Più specificamente, un ruolo privilegiato nel dialogo con le istituzioni europee hanno via via assunto (anche se con qualche riserva da parte degli esclusi) le tre organizzazioni interprofessionali a vocazione generale, e cioè l’UNICE (Union of Industrial and Employers’ Confederations of Europe), detta anche BUSINESSEUROPE; il CEEP (European Centre of Enterprises with Public Participation); e l’ETUC (European Trade Union Confederation). Ad esse si sono poi aggiunte le organizzazioni interprofessionali che rappresentano determinate categorie: EUROCADRES (Council of European Professional and Managerial Staff); l’UEAPME (European Association of Craft and Small and Medium-Sized Enterprises); il CEC (European Confederation of Executives and Managerial Staff).
Le sedi, le modalità e gli esiti della partecipazione sono poi definiti dallo stesso Trattato. Quanto alle prime, va precisato che il dialogo si svolge non solo attraverso l’organo istituzionalmente deputato a tale raccordo, vale a dire il Comitato economico e sociale e il Comitato per l’occupazione di cui al paragrafo precedente, ma anche attraverso numerosi comitati misti a composizione tripartita, ma soprattutto attra-
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verso due specifiche strutture istituite proprio a questi fini, e cioè il «Comitato per la protezione sociale» e l’apposito «Vertice sociale trilaterale per la crescita e l’occupazione», evocato dallo stesso art. 152 TFUE. Si tratta di comitati consultivi istituiti dal Consiglio per assistere la Commissione, in particolare nella formulazione delle proprie proposte in materia sociale ai sensi dell’art. 154 TFUE (v. più avanti): dec. 98/500/CE della Commissione, del 20 maggio 1998, «che istituisce i comitati di dialogo settoriale per promuovere il dialogo tra le parti sociali a livello europeo» (GUCE L 225, 27). Il «Comitato per la protezione sociale» è contemplato dall’art. 160 TFUE, e formalizza a livello di Trattato un organo già creato con dec. 2000/436/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000 (GUCE L 172, 26). Esso è istituito, previa consultazione del PE, dal Consiglio, che delibera a maggioranza semplice e non su proposta della Commissione. Composto da due rappresentanti designati da ciascuno Stato membro e da due rappresentanti della Commissione, il Comitato ha natura consultiva e ha il compito di promuovere la cooperazione in materia di protezione sociale fra gli Stati membri e la Commissione, stabilendo anche gli appropriati contatti con le parti sociali. Quanto al “Vertice sociale trilaterale per la crescita e l’occupazione”, esso contribuisce, come dice l’art. 152 TFUE, al dialogo sociale. Tale disposizione, infatti, dopo aver esaltato, come appena visto, la consultazione delle parti sociali, dichiara che detto organo, nato già con la dec. 2003/174/CE del Consiglio, del 6 marzo 2003, che per l’appunto istituiva «un Vertice sociale trilaterale per la crescita e l’occupazione» (GUUE L 70, 31), è costituito dal Capo di Stato o di Governo dello Stato membro in carica per la presidenza dell’Unione, dai due suoi omologhi che gli succederanno in tale incarico (e in presenza dei ministri dell’occupazione e degli affari sociali), dal Presidente della Commissione e dai rappresentanti delle organizzazioni menzionate in precedenza, a loro volta rappresentate da due delegazioni, per un totale di 10 rappresentanti dei lavoratori e 10 rappresentanti dei datori di lavoro, ma anche con un’equa rappresentanza tra uomini e donne. Il «Vertice» si riunisce almeno una volta l’anno. Per quel che concerne il Comitato economico e sociale (su cui, v. supra, p. 107 ss.), è evidente che la creazione delle istanze qui menzionate ne ha inevitabilmente limitato il ruolo; e in effetti, la relativa disciplina è stata non a caso modificata con il Trattato di Lisbona (v. art. 301ss. TFUE).
Per quanto attiene invece alle modalità del dialogo, l’art. 154 TFUE affida alla Commissione il compito di promuovere la consultazione delle parti sociali a livello dell’Unione e di prendere ogni misura utile per facilitare quel dialogo, assistendo in modo equilibrato le diverse parti (par. 1). In particolare, la Commissione, prima di presentare proposte nel settore della politica sociale, deve consultare le parti sociali sul possibile orientamento di un’azione dell’Unione, e se poi ritiene opportuno proporre un’iniziativa, le consulta nuovamente sul contenuto della stessa, ricevendone un parere (obbligatorio, ma non vincolante) o, se opportuno, una raccomandazione. La Commissione può presentare la propria proposta al Consiglio anche se le parti sociali non hanno raggiunto un’intesa. Per evitare che la procedura si presti a manovre dilatorie, l’intera durata del descritto processo di consultazione non deve superare il termine di nove mesi, salvo che la Commissione e le parti sociali non ne decidano di comune accordo una proroga.
All’esito delle consultazioni, le parti possono anche comunicare alla Commissione di aver raggiunto un’intesa alla quale preferiscono dare esse stesse attuazione ai sensi dell’art. 155 TFUE. Secondo tale disposizione, infatti, il «dialogo fra le parti sociali a livello dell’Unione può condurre, se queste lo desiderano, a relazioni contrattuali, ivi
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compresi accordi» (par. 1), i quali sono poi attuati, sempre nel termine dei nove mesi, secondo le procedure e le prassi proprie delle parti sociali e degli Stati membri o in base ad una decisione adottata dal Consiglio, su proposta della Commissione (par. 2. Si noti che, dopo le proteste da esso formulate per la prassi precedente, viene ora previsto che il PE deve essere tenuto informato degli esiti della descritta procedura di consultazione). In entrambi i casi, dunque, l’accordo deve essere recepito all’interno degli Stati membri, ma nel primo, nel caso cioè di un’intesa diretta tra le sole parti sociali, ancorché occasionata da un’iniziativa della Commissione, l’accordo deve essere recepito in detti Stati secondo le procedure e le prassi proprie di ciascuno di essi, con l’intesa però che questo non implica un obbligo in capo alle parti sociali nazionali di dar seguito all’accordo, o in capo agli Stati membri di favorirne l’applicazione, ad esempio modificando la propria legislazione (malgrado la natura di soft law che da varie parti si attribuisce a detti accordi, la descritta soluzione ha trovato applicazione per vari Accordi quadro europei, come quelli sul telelavoro, sullo stress nei luoghi di lavoro, sulle molestie e sulla violenza sul luogo di lavoro). Ove invece si segua l’altra via, e si affidi quindi al Consiglio il compito di dare attuazione all’accordo, ciò deve avvenire secondo le consuete regole procedurali: la Commissione, senza esservi naturalmente vincolata, neppure quanto ai contenuti (potendone e dovendone verificare la compatibilità con il diritto dell’Unione), presenta la propria proposta al Consiglio, il quale adotta la misura di attuazione dell’accordo nel rispetto delle abituali regole di voto (e quindi, come prescrive lo stesso art. 155, par. 2, comma 2, TFUE, all’unanimità se l’accordo incide su uno dei settori per i quali l’art.153, par. 2, TFUE per l’appunto esige l’unanimità), ma con la sola facoltà di accogliere o respingere il testo dell’accordo così come firmato dalle parti sociali. L’art. 155, par. 2, TFUE parla in proposito di «decisioni», ma la prassi ha confermato che l’uso di tale termine non esclude all’occorrenza il ricorso ad altri tipi di atti, e in particolare alle direttive. In effetti, proprio con una direttiva è stata data attuazione al primo accordo tra le parti sociali: v. dir. 96/34/CE del Consiglio, del 3 giugno 1996, concernente l’accordo quadro sul congedo parentale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES (GUCE L 145, 4). Tale conclusione è stata del resto confermata anche dalla prassi dei numerosi accordi attuati successivamente dal Consiglio. Quanto all’ipotesi di affidare al Consiglio il compito di dare attuazione all’accordo, essa è praticabile solo se lo chiedono congiuntamente le parti firmatarie e se si versa nell’ambito degli indicati settori di cui all’art. 153 TFUE. Il par. 2 dell’art. 155 TFUE rinvia all’intero art. 153 TFUE, sicché dovrebbe ritenersi che l’ambito di utilizzazione degli accordi in questione non incontra i limiti materiali, posti (come si è visto poc’anzi, dal par. 5 dello stesso art. 153 TFUE: retribuzioni, e diritti di associazione, sciopero e di serrata) alla competenza normativa dell’Unione.
c) Oltre a definire le competenze dell’Unione nei termini fin qui descritti, il Trattato enuncia due principi materiali, ai quali evidentemente attribuisce un’importanza tale da giustificarne una specifica ed esplicita affermazione: si tratta del principio della parità tra uomini e donne quanto (ma non solo) alla parità di retribuzione per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, e dei regimi di congedo retribuito. Il primo si presenta come una specificazione del principio generale che vieta ogni discriminazione fondata sul sesso, anche se va sottolineato che è proprio dal settore
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ora in esame che esso ha preso le mosse, per poi essere generalizzato e valorizzato prima dalla giurisprudenza della Corte e via via anche nei testi normativi, a seguito dell’accresciuta sensibilità per i diritti fondamentali e in particolare per quelli sociali. Il principio della parità uomo-donna tout court è infatti enunciato ora già dall’art. 2 TUE, dedicato, come si vide, ai «valori dell’Unione», quale aspetto caratterizzante il modello di società che accomuna gli Stati membri; e dall’art. 3, par. 3, comma 2, TUE, come obiettivo che l’Unione si impegna a perseguire e che viene poi ribadito dall’art. 8 TFUE; nonché, indirettamente dall’art. 19 TFUE, che non solo impegna l’Unione a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, ma offre anche una precisa base giuridica per i provvedimenti destinati a realizzare l’obiettivo. A tale enunciazione fa ora da pendant, nella Carta dir. fond., l’art. 21, che vieta appunto (tra l’altro) ogni discriminazione fondata sul sesso, nonché l’art. 23, che ugualmente riafferma il principio della parità in termini generali, specificandolo poi segnatamente con riguardo all’occupazione, al lavoro e alla retribuzione. Nella giurisprudenza della Corte, v. già la notissima sentenza 8 aprile 1976, 43/75, Defrenne, 455 (ma v. anche Corte giust. 19 ottobre 1977, 117/76 e 16/77, Ruckdeschel, 1753; 10 febbraio 2000, C-50/96, Schröder, I-743; 3 ottobre 2006, C-17/05, Cadman, I-9583; 18 marzo 2014, C-363/12, Z.; 17 luglio 2014, C-173/13, Leone e Leone; 17 luglio 2016, C-173/13, Felber; 14 luglio 2016, C-335/15, Ornano; 24 novembre 2016, C-443/15, Parris; 13 luglio 2017, C354/16, Kleinsteuber), in cui la Corte, qualificando per l’appunto il principio di parità uomodonna quale espressione specifica del principio generale di uguaglianza, riconobbe addirittura efficacia diretta alla norma che allora lo enunciava (art. 119 TCEE).
Nei ristretti termini appena richiamati, come riferito cioè alle sole retribuzioni, il principio di parità era infatti enunciato, sia pure in toni più modesti, addirittura dal Trattato di Roma (art. 119 TCEE, poi art. 141 TCE), ed è oggi ribadito dall’art. 157 TFUE, ma la sua portata è stata nel frattempo ampliata nella prassi dell’Unione, intendendosi infatti da tempo la parità quanto alle retribuzioni come un aspetto del più generale principio di parità di trattamento tra uomo e donne in materia di lavoro. A parte la giurisprudenza della Corte, anche la prassi normativa ha confermato tale sviluppo. In tal senso si esprimeva, infatti, già la dir. 75/117/CEE del Consiglio, del 10 febbraio 1975, per il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile (GUCE L 45, 19), sia pur utilizzando come base giuridica, in assenza di quella specifica sopravvenuta successivamente, la disposizione sul ravvicinamento delle legislazioni (art. 100 TCEE). Nella stessa direzione, ma utilizzando come base giuridica la c.d. «clausola di flessibilità» di cui all’art. 235 TCEE (ora art. 352 TFUE), s’indirizzò la dir. 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GUCE L 39, 40). Ma meritano di essere anche ricordate in tale contesto: dir. 97/80/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997, riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso (GUCE L 14, 6); e dir. 86/378/CEE del Consiglio, del 24 luglio 1986, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale (GUCE L 225, 40). Più recentemente poi, mettendo a frutto la base giuridica offerta ora dall’art. 157, par. 3, TFUE, la dir. 2006/54/CE del PE e del Consiglio del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (GUUE L 204, 23), ha riunito in un unico testo le principali disposizioni delle citate direttive, adattandole altresì alle evoluzioni giurisprudenziali e normative (specie: art. 13 TCE, ora art. 19 TFUE, sul divieto di discriminazioni) intanto sopravvenute.
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Si noti, infine, che alla parità uomo-donna fa riferimento, nel Titolo X ora in esame, anche l’art. 153, par. 1, lett. i), TFUE, che include, tra i settori in cui l’Unione è chiamata a completare e sostenere l’azione degli Stati, quello della parità tra uomini e donne nel mercato del lavoro e nel trattamento sul lavoro.
Restando comunque all’art. 157 TFUE, va detto subito che nei suoi quattro paragrafi esso: impone agli Stati membri di garantire la parità di retribuzione tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore (par. 1); definisce il concetto di retribuzione e la portata del relativo principio di parità (par. 2); abilita il legislatore dell’Unione ad adottare misure necessarie per l’applicazione dei principi delle pari opportunità e della parità di trattamento non solo in materia di retribuzione, ma anche di occupazione e d’impiego (par. 3); autorizza infine gli Stati membri a prendere o mantenere appropriate misure di vantaggio a favore del sesso sottorappresentato o a compensazione di eventuali svantaggi nelle carriere professionali (par. 4). Originariamente il Trattato parlava solo di «stesso lavoro». La formulazione attuale amplia la portata del principio in termini conformi a quelli della Convenzione n. 100 dell’OIL, ma anche e soprattutto alla giurisprudenza della Corte. La sussistenza dell’equivalenza tra i lavori o tra lavoro di uguale valore va verificata sulla base di vari fattori, tra i quali, stando alla stessa Corte, la natura dell’attività svolta, le competenze e lo sforzo richiesti per svolgerla, le responsabilità che essa comporta (v. tra le tante, Corte giust. 27 marzo 1980, 129/79, Machartys, 1289; 2 agosto 1993, C271/91, Marshall, 4367; 31 maggio 1995, C-400/93, Royal Copenhaghen, I-1275; 11 maggio 1999, C-309/97, Angestelltenbetriebstrat der Wiener Gebietskrankenkasse, I-2907; 26 giugno 2001, C381/99, Brunnhofer, I-4961; 17 settembre 2002, C– 320/00, Lawrence, I-7325; 13 gennaio 2004, C-256/01, Allonby, I-873; 28 febbraio 2013, C-427/11, Kenny e a.).
Su tutti questi punti, ci limitiamo ad osservare quanto segue. In primo luogo, come si è già accennato, il rispetto del principio della parità di retribuzione è imposto dalla disposizione agli Stati membri in modo assoluto, immediato e diretto. Inoltre, esso copre ogni forma di retribuzione: in linea infatti con consolidati indirizzi giurisprudenziali, tale nozione viene definita dallo stesso art. 157 TFUE in termini molto comprensivi, dato che la disposizione vi include il salario o trattamento normale di base o minimo, o qualsiasi altro compenso o vantaggio pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo, e ciò anche se si tratta di lavoro pagato a cottimo o remunerato a tempo. Gli indirizzi della Corte di cui nel testo hanno favorito la configurazione della nozione di retribuzione negli ampi termini indicati, inclusi, ad es., una gratifica natalizia erogata a titolo volontario, le indennità di varia natura corrisposte ai membri di una commissione interna per la partecipazione a corsi di formazione; gli assegni familiari e le indennità di malattia; le indennità di disoccupazione e di licenziamento, le indennità di fine rapporto, e così via (v. tra le tante, oltre quelle già citate, Corte giust. 17 maggio 1990, C-262/88, Barber, I-1889; 27 giugno 1990, C-33/89, Kowalska, I-2591; 4 giugno 1992, C-360/90, Bötel, I-3589; 2 ottobre 1997, C-1/95, Rinner-Kuhn, I-2743; 11 dicembre 1997, C-246/96, Magorrian e Cunningham, I-7153; 9 febbraio 1999, C167/97, Seymour, I-666; 21 ottobre 1999, C-333/97, Lewen, I-7243; 29 novembre 2001, C-366/99, Griesmar, I-9383; 13 dicembre 2001, C-206/00, Mouflin, I-201; 10 maggio 2011, C-147/08, Römer, I-3591; 6 dicembre 2012, C-124/11, C-125/11 e C-143/11, Dittrich; 26 settembre 2013, C-
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546/11, Dansk Jurist– og Økonomforbund; 17 luglio 2014, C-173/13, Leone; 21 gennaio 2015, C529/13, Felber; 21 maggio 2015, C-65/14, Rosselle). Per ipotesi invece di esclusione della nozione, v. ad es., Corte giust. 13 maggio 1986, 170/84, Bilka-Kaufhaus, 1607; 6 ottobre 1993, C-109/91, Ten Oever, I-4879; 28 settembre 1994, C-7/93, Beune, I-4471; 17 aprile 1997, C-147/95, Evrenopulos, I-2057; 9 ottobre 2001, C-379/99, Menauer, I-2891; 1° aprile 2008, C-267/06, Maruko, I1757; 19 settembre 2013, C-216/12 e C-217/12, Hliddal; 2 giugno 2016, C-122/15, C.
Il principio di parità si estende inoltre, come si è detto, alle pari opportunità e alla parità di trattamento in materia di occupazione e d’impiego. Peraltro, per assicurare la piena efficacia dello stesso sotto i profili indicati, la disposizione provvede ad abilitare il legislatore dell’Unione a stabilire, con procedura legislativa ordinaria, le misure all’uopo necessarie (di regola, direttive, ma non solo), offrendo così una specifica base giuridica per l’adozione di simili misure, che in precedenza erano state invece prese sulla base di altre e più complesse basi. Per lo più, come già accennato, le istituzioni si erano avvalse delle norme sul ravvicinamento delle legislazioni, nonché (e anzi ancor più) della c.d. clausola di flessibilità di cui all’art. ex 235 TCE (oggi art. 352 TFUE: retro, p. 415 ss.). Sul fondamento dell’art. 157 TFUE (o, meglio, della corrispondente disposizione del TCE: art. 141) sono state adottate varie direttive, rifuse poi nella citata dir. 2006/54. Ma v. anche, successivamente, con riguardo ai lavoratori autonomi, la dir. 2010/41/UE del PE e del Consiglio, del 7 luglio 2010, sull’applicazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma e che abroga la dir. 86/613/CEE del Consiglio (GUUE L 180, 1). La Corte ha avuto modo di precisare che, per i profili indicati, la parità di trattamento riguarda ovviamente anzitutto l’accesso al lavoro, inclusi i criteri di selezione e le condizioni di reclutamento, ma riguarda altresì ed in generale tutti gli aspetti delle condizioni di lavoro, compresa la cessazione del rapporto di lavoro (v. ad es. Corte giust. 26 febbraio 1986, 152/84, Marshall, 723; 3 febbraio 2000, C-207/88, Mahlburg, I-549; 21 luglio 2005, C-207/04, Vergani, I-7453), e si applica ai rapporti di lavoro sia pubblici che privati, anche se per i primi la citata dir. 2006/54 autorizza, a precise condizioni, gli Stati membri a mantenere «una differenza di trattamento basata su una caratteristica specifica di un sesso» in relazione alla «particolare natura delle attività lavorative di cui trattasi o per il contesto in cui esse vengono espletate» (art. 14, par. 2).
Quanto alla portata del principio di parità, va ricordato che questo comporta, secondo gli insegnamenti della Corte di giustizia, il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla differenza di sesso, e va interpretato con il rigore consueto applicato a questo tipo di discriminazione, restando inteso che esso copre tanto le discriminazioni dirette e palesi, vale a dire quelle che esplicitamente prevedono un trattamento salariale meno favorevole sulla base del sesso, ora anche se espresse in forma di molestie, quanto le discriminazioni c.d. indirette o occulte, vale a dire, come sappiamo, quelle che si presentano come apparentemente neutre, ma in realtà sono suscettibili di svantaggiare il sesso sottorappresentato. Come si è sopra ricordato, è proprio con riguardo alle discriminazioni fondate sul sesso che la Corte, nella citata sentenza Defrenne, si è pronunciata a suo tempo per sancire l’effetto diretto del principio in esame. Ma essa ha altresì improntato la propria giurisprudenza, qui come negli altri casi in cui lo stesso rileva, a un’interpretazione molto ampia delle discriminazioni rilevanti. Così, ad es., essa ha ritenuto illegittima l’esclusione generalizzata delle donne da corpi polizia, operata a prescindere dalla specifica valutazione delle mansioni rilevanti, così com’è stata ritenuta illegittima
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l’esclusione generalizzata delle donne dagli impieghi militari comportanti l’uso di armi, o nel settore dell’industria mineraria sotterranea e nei lavori in atmosfera iperbarica, o in lavori di immersione, o, ancora, in materia di lavoro notturno e così via (Corte giust. 15 maggio 1986, 222/84, Johnston, 1988; 30 giugno 1988, 318/86, Commissione c. Francia, 3559; 5 maggio 1994, C-421/92, Habermann, I-1657; 4 dicembre 1997, C-207/96, Commissione c. Italia, I-6869; 11 gennaio 2000, C-285/98, Kreil, I-69; 1° febbraio 2005, C-203/03, Commissione c. Austria, I-935; nonché, con riguardo al trattamento differenziato quanto al godimento di prestazioni di tipo pensionistico, Corte giust. 28 settembre 1994, C-28/93, val den Akker, I-4527; sentenza Barber, cit.; 13 novembre 2008, C-46/07, Commissione c. Italia, cit.; 18 novembre 2010, C-356/09, Kleist, I-11939). Va anche notato che, sulla scia della generosa linea interpretativa segnalata, la Corte ha incluso nelle discriminazioni vietate anche quelle che colpiscono l’interessato/a in relazione a un eventuale mutamento di sesso. Ciò, ad es., se il passaggio al nuovo sesso comporta un trattamento meno favorevole rispetto a quello di cui l’interessato/a avrebbe goduto se avesse mantenuto il sesso originario (Corte giust. 30 aprile 1996, C-13/94, P./S., I-2143; 7 gennaio 2004, C-117/01, K.B., I-541; 27 aprile 2006, C-423/04, Richards, I-3585). Sempre nella stessa linea, poi, il divieto è stato esteso ai casi in cui la discriminazione si ricolleghi non al mutamento di sesso, ma all’orientamento sessuale, come nel caso in cui siano negati ai partners di un’unione tra persone dello stesso sesso i diritti riconosciuti alle unioni tra persone di sesso diverso, in uno Stato che riconosca alle prime una posizione analoga alle altre (v. Corte giust. 1° aprile 2008, C-267/06, Maruko, cit.; 10 maggio 2011, C147/08, Römer, cit.). Naturalmente, il principio di parità non esclude la diversità di trattamento per le situazioni obiettivamente diverse. Nella materia in esame, ciò vale in particolare per quanto concerne la tutela delle donne in gravidanza e in maternità (anche surrogata): v. Corte giust. 18 marzo 2014, C-167/12, D.; 14 luglio 2016, C-335/15, Ornano. Di tali esigenze, del resto, si è fatta portavoce non solo la Corte, ma la stessa normativa dell’Unione: v., ad es., le direttive 76/207, cit.; 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992 (GUCE L 348, 1); e 96/34, cit., abrogata oramai dalla dir. 2010/18/UE del Consiglio, dell’8 marzo 2010, che attua l’accordo quadro riveduto in materia di congedo parentale concluso da BUSINESSEUROPE, UEAPME, CEEP e CES (GUUE L 68, 13).
La più volte ricordata dir. 2006/54 ha vietato anche le molestie basate sulla razza, l’origine etnica e altri fattori differenziali, tra cui rientra anche il sesso, proprio in considerazione del fatto che le molestie in generale e le molestie sessuali in particolare «sono contrarie al principio della parità di trattamento fra uomini e donne e costituiscono forme di discriminazione fondate sul sesso ai fini [della direttiva]. Queste forme di discriminazione non si producono soltanto sul posto di lavoro, ma anche nel quadro dell’accesso al lavoro, alla formazione professionale, nonché alla promozione professionale. Queste forme di discriminazione dovrebbero, pertanto, essere vietate e soggette a sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive» (considerando 6). La stessa direttiva definisce poi la molestia come «situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di tale persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo» (art. 2, par. 1, lett. c). Si noti, infine, che come per tutti gli altri casi di discriminazioni indirette, che abbiamo già considerato, queste sono vietate anche rispetto al principio in esame. Come enuncia proprio la citata dir. 2006/54, una discriminazione indiretta si configura come «un criterio o una prassi apparentemente neutri che possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell’altro sesso, a meno che detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari» (art. 2, par. 1, lett. b).
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Nella giurisprudenza, anche per quanto riguarda i criteri e le modalità per stabilire la sussistenza di situazioni indirettamente pregiudizievoli per i lavoratori di sesso femminile, v. Corte giust. 31 marzo 1981, 96/80, Jenkins, 911; 26 febbraio 1986, 152/84, Marshall, cit.; 13 maggio 1986, 170/84, Bilka-Kaufhaus, cit.; 1° luglio 1986, 237/85, Rummler, 2101; 13 aprile 1989, 171/88, Rinner-Kuehn, 2743; 17 ottobre 1989, 109/88, Danfoss, 3199; 27 ottobre 1993, C-127/92, Enderby, I-5535; 14 dicembre 1995, C-444/93, Megner e Scheffel, I-4741; 9 febbraio 1999, C-167/97, Seymour, cit.; 10 febbraio 2000, C-50/96, Schröder, cit.; 8 giugno 2004, C-220/02, Österreichischer Gewerkschaftsbund, I5907; 22 novembre 2005, C-144/04, Mangold; 22 novembre 2012, C-385/11, Elbal Moreno; 20 giugno 2013, C-7/12, Riežniece. Ma v. anche le sentenze 14 marzo 2017, C-157/15, Achbita, e C189/15, Bougnani (per quanto concerne l’uso del velo sui luoghi di lavoro).
Per parte loro, gli Stati membri sono impegnati ad assicurare il pieno rispetto del principio e a garantirlo in termini effettivi, in particolare sul piano delle garanzie procedurali; ma essi sono altresì autorizzati ad adottare tutte le misure che aiutino in concreto a compensare eventuali svantaggi che il sesso sottorappresentato sopporta nelle carriere professionali (c.d. azioni positive). E ciò allo stesso modo che per la tutela di tutte le situazioni giuridiche fondate sul diritto dell’Unione. Nella specie si può ancora ricordare che l’obbligo in parola, oltre che dalla Corte (v. per tutte, sentenza 22 settembre 1998, C-185/97, Coote, I-5199), viene esplicitamente ribadito dalla citata dir. 2006/54, che lo sancisce in particolare quanto al diritto degli interessati di far valere i propri diritti in giudizio, anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro nell’ambito del quale si sarebbe prodotta la discriminazione; e al diritto a un indennizzo o una riparazione reali ed effettivi per il danno subito, in termini dissuasivi e proporzionati al danno (art. 17 ss.). Inoltre, svolgendo gli indirizzi della giurisprudenza della Corte al riguardo (v., ad es., le citate sentenze Bilka, Danfoss, Enderby), e codificando le disposizioni di precedenti direttive dello stesso tenore, sempre la dir. 2006/54 impone agli Stati membri, in conformità ai rispettivi sistemi giudiziari e senza pregiudizio di un regime probatorio più favorevole alla parte attrice, di riversare sul datore di lavoro l’onere della prova dell’insussistenza di una lesione del principio di parità di trattamento, ove quella parte abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale (o ad altro organo competente), elementi di fatto in base ai quali si possa presumere la discriminazione diretta o indiretta (art. 19). Di azioni positive, peraltro, parlava già la dir. 76/207, cit., e ne parlano ora le direttive del Consiglio: 2000/43/CE, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (GUCE L 180, 22); e 2000/78/CE, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GUCE L 303, 16). Ma anche la giurisprudenza della Corte, dopo qualche esitazione iniziale (Corte giust. 17 ottobre 1995, C-450/93, Kalanke, I-3051), aveva già dato il suo impulso in quella direzione, riconoscendo la legittimità di trattamenti differenziati se necessari ad assicurare una presenza equilibrata di uomini e donne all’interno delle diverse posizioni professionali (v. Corte giust. 11 novembre 1997, C-409/95, Marshall, I-6363; ma soprattutto 28 marzo 2000, C-158/97, Badeck, I-1902, e 6 luglio 2000, C-407/98, Abrahamsson, I-5562). Si noti peraltro che le azioni positive possono indirizzarsi ugualmente a favore degli uomini, ad es. se volte a compensare gli effetti del pregiudizio da essi subito per il ritardato accesso al lavoro a causa del servizio militare (v. Corte giust. 7 dicembre 2000, C-79/99, Schnorbus, I-10997), o comunque non possono esplicarsi solo a favore delle donne in situazioni che potrebbero interessare allo stesso modo gli uomini (v. Corte giust. 19 marzo 2002, C-476/99, Lommers, I-2891).
d) L’altro principio materiale sancito dal Trattato riguarda il diritto al congedo retribuito. A esso fa specifico riferimento l’art. 158 TFUE per impegnare gli Stati membri ad adoperarsi per mantenere l’equivalenza dei regimi di congedo retribuito, con ciò esprimendo l’iniziale preoccupazione dei redattori dei Trattati di Roma per
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il fatto che una modifica di detta equivalenza potesse provocare fenomeni di dumping sociale all’interno della Comunità. Ma oggi la disposizione rileva soprattutto per il fatto di porre l’accento sulla tutela di quel diritto, assicurata grazie alle basi giuridiche offerte al riguardo dal TFUE in ordine alla disciplina della sicurezza e la salute dei lavoratori, e in particolare dell’organizzazione delle condizioni e dell’orario di lavoro (art. 153 TFUE), ma, prima ancora, grazie alla normativa dell’Unione e alla giurisprudenza della Corte, che hanno fornito importanti indicazioni per definire la portata del diritto al congedo retribuito. Va peraltro ricordato che tale diritto è proclamato anche dalla Carta Sociale Europea (art. 2, n. 3) e dalla Carta dei diritti sociali fondamentali (art. 8), sulle quali v. supra, p. 709 s.; ed ora pure dalla Carta dir. fond. (art. 31, par. 2: «[o]gni lavoratore ha diritto ad una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite»).
Per quanto concerne la normativa, basterà ricordare, dopo più risalenti direttive, anche di carattere settoriale, la dir. 2003/88, del PE e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (GUUE L 299, 9), che ha stabilito prescrizioni minime di sicurezza e di salute in materia di organizzazione dell’orario di lavoro, prevedendo in particolare, per quanto qui interessa, che gli Stati membri devono prendere le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali (art. 7), e comunque senza pregiudizio delle più favorevoli disposizioni eventualmente previste dagli Stati membri (art. 15). Quanto alla Corte, la sua ricca giurisprudenza in materia è stata marcata da un indirizzo assai protezionista di quel diritto, che ha consentito di ampliarne notevolmente la portata, quanto alla stessa definizione della nozione di congedo o di ferie annuali retribuite, al regime di retribuzione delle stesse, al periodo minimo di lavoro necessario per il loro godimento, alla concomitanza di periodi di ferie e situazioni di malattia del lavoratore, e così via. La Corte aveva chiaramente espresso il proprio orientamento dichiarando che il diritto alle ferie annuali retribuite costituisce «un principio particolarmente importante del diritto sociale comunitario» (sentenza 26 giugno 2001, C-173/99, BECTU, I-4881), e che «lo scopo del diritto alle ferie annuali retribuite è consentire al lavoratore di riposarsi e di disporre di un periodo di riposo e di svago» (sentenza 20 gennaio 2009, C-350/06 e C-520/06, Schultz-Hoff e a.; ribadito, di recente, v. 30 giugno 2016, C-178/15, Sobczyszyn). Secondo la Corte, per «ferie annuali retribuite» ai sensi del citato art. 7, par. 1, della dir. 2003/88, deve intendersi che la retribuzione spetta al lavoratore per tutta la durata delle ferie annuali (v., oltre la citata sentenza BECTU, Corte giust. 18 marzo 2004, C-342/01, Merino Gómez, I-2605; 16 marzo 2006, C-131/04 e C-257/04, RobinsonSteele, I-2531; 20 gennaio 2009, C-350/06 e C-520/06, Schultz-Hoff, I-179; 15 settembre 2011, C155/10, Williams e a., I-8409; 22 maggio 2014, C-539/12, Lock). Quanto al regime di retribuzione delle ferie, coerentemente con le previsioni del citato art. 7, par. 2, della dir. 2003/88, la Corte ha ritenuto, da un lato, che in caso di cessazione del rapporto di lavoro il lavoratore abbia diritto a un’indennità finanziaria (20 gennaio 2009, C-350/06 e C520/06, Schultz-Hoff e a.), ma, dall’altro, ha precisato che il periodo minimo di ferie annuali retribuite non possa essere sostituito da un’indennità finanziaria qualora venga riportato ad un anno successivo, e ciò perché, in caso contrario, si offrirebbe un incentivo a rinunciare alle ferie come periodo di riposo ovvero a sollecitare i lavoratori a rinunciarvi, il che sarebbe in contrasto con gli
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obiettivi della direttiva (Corte giust. 6 aprile 2006, C-124/05, Federatie Nederlandse Vakbeweging, I-3423). Con riguardo al periodo minimo di lavoro necessario per il godimento delle ferie, secondo la Corte, non sono compatibili con il diritto dell’Unione (nella specie, ancora il citato art. 7 della dir. 2003/88) norme o a prassi nazionali che prevedono che il diritto alle ferie annuali retribuite sia subordinato a un periodo di lavoro effettivo minimo di dieci giorni o di un mese durante il periodo di riferimento (sentenza 24 gennaio 2012, C-282/10, Dominguez). Quanto, infine, alla concomitanza di periodi di ferie e situazioni di malattia del lavoratore, la Corte ha affermato che l’art. 7, par. 1, della dir. 2003/88, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una disposizione o a prassi nazionali secondo cui, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sarebbe dovuta alcuna indennità finanziaria sostitutiva delle ferie annuali retribuite non godute al lavoratore perché era stato in congedo per malattia per l’intera durata o per una parte del periodo di riferimento e/o di un periodo di riporto, e questa sia stata la sola ragione per la quale egli non ha potuto esercitare il suo diritto alle ferie annuali retribuite (sentenza Robinson-Steele, cit.; ma v. anche la sentenza 22 novembre 2011, C-214/10, KHS, I-11757; e 30 giugno 2016, C-178/15, Sobczyszyn).
e) Per supportare la politica sociale, e più precisamente, per «migliorare le possibilità di occupazione dei lavoratori nell’ambito del mercato interno e contribuire così al miglioramento del tenore di vita», l’art. 162 TFUE (ma lo stesso hanno fatto tutti i Trattati, a partire da quello di Roma) ha istituito il Fondo sociale europeo (FSE), con «l’obiettivo di promuovere all’interno dell’Unione le possibilità di occupazione e la mobilità geografica e professionale dei lavoratori, nonché di facilitare l’adeguamento alle trasformazioni industriali e ai cambiamenti dei sistemi di produzione, in particolare attraverso la formazione e la riconversione professionale». Inizialmente, il FSE era stato concepito nell’intento di compensare gli squilibri e le distorsioni che la stessa realizzazione del mercato comune avrebbe prevedibilmente provocato tra gli Stati membri, quanto alle opportunità occupazionali e al tenore di vita dei lavoratori, in relazione al diverso grado di sviluppo economico e sociale di quegli Stati. Si trattava dunque di creare uno strumento che potesse, per un verso, contribuire a razionalizzare l’utilizzazione della mano d’opera (specie mediante aiuti alla riconversione e rieducazione professionale), in vista della maggiore produttività e competitività economica del mercato interno, e per altro verso migliorare le condizioni di vita dei lavoratori. È in questa direzione che il Fondo iniziò a funzionare a seguito dell’entrata in vigore del reg. (CEE) n. 9/60, del Consiglio, del 28 agosto 1960 (GUCE n. 56, 1189), con lo stanziamento da parte degli Stati membri di quote destinate a divenire parte speciale del bilancio della CEE per il perseguimento degli obiettivi affidati al Fondo. Oggi il FSE è funzionale a varie politiche dell’Unione: da quella volta a favorire la mobilità geografica e professionale dei lavoratori, a quella in materia di occupazione, alla politica sociale, alla politica di coesione economica e sociale. A questo titolo, esso si ricollega, nel quadro della razionalizzazione degli stessi, agli altri fondi c.d. strutturali istituiti nel tempo come strumenti di intervento a finalità sociali, dei quali diremo nel prossimo Capitolo. Con riserva dunque di quanto si dirà in quella sede, qui basterà segnalare che l’amministrazione del FSE spetta alla Commissione, cui compete di conseguenza adottare le decisioni di programmazione e di finanziamento degli interventi del Fondo, nonché il controllo sul rispetto delle condizioni imposte in occasione della con-
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cessione dei contributi finanziari, potendo, in caso di irregolarità, decidere le conseguenti riduzioni o interruzioni nel relativo pagamento, e la valutazione ex post dei risultati degli interventi. Nell’esercizio di tale compito, la Commissione opera secondo i principi e le regole fissati nel quadro normativo definito dai regolamenti del Consiglio relativamente ai fondi strutturali cui si è fatto cenno. Ai fini appena indicati, la Commissione è assistita da un comitato, per l’appunto il Comitato del FSE, presieduto da un membro della Commissione e composto di rappresentanti dei governi e delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro di ciascuno Stato membro, nominati dal Consiglio, su proposta della Commissione, per un mandato triennale rinnovabile. Il Comitato ha funzioni consultive; in particolare, esso fornisce alla Commissione pareri sui progetti delle decisioni relative alla programmazione dei finanziamenti del FSE e su quelle concernenti il finanziamento dei progetti di assistenza tecnica di iniziativa della Commissione o l’attuazione delle strategie in materia di occupazione, formazione e inclusione sociale a livello dell’Unione.
Il funzionamento del FSE è definito da appositi regolamenti di applicazione, adottati dal legislatore dell’Unione con procedura legislativa, previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni (art. 164 TFUE). Essi devono disciplinare, all’interno della (e in coerenza con la) generale regolamentazione dei suddetti fondi strutturali, gli obiettivi, i principi concernenti l’organizzazione e il coordinamento degli interventi, nonché le regole di programmazione, monitoraggio, valutazione, gestione e controllo del FSE. Nel corso del tempo, tali regolamenti si sono succeduti con una certa frequenza, nel tentativo di aggiornare ed affinare la pertinente disciplina; vanno così segnalati i reg. (CE) n. 1081/2006, del PE e del Consiglio, del 5 luglio 2006, relativo al FSE e recante abrogazione del reg. (CE) n. 1784/1999 (GUUE L 210, 12); e n. 1083/2006, del Consiglio, dell’11 luglio 2006, recante disposizioni generali sul FESR, sul FSE e sul Fondo di coesione e che abroga il reg. (CE) n. 1260/1999 (GUUE L 210, 25), che hanno profondamente innovato in materia, ridefinendo compiti, strumenti e modalità d’azione, per essere poi successivamente abrogati e sostituiti dai reg. nn. 1303/2013 e 1304/2013. Reg. (UE) del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, rispettivamente: il primo, relativo al FSE e che abroga il reg. (CE) n. 1081/2006 (GUUE L 347, 470); il secondo, recante disposizioni comuni sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione, sul Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca e disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca, e che abroga il reg. (CE) n. 1083/2006 (GUUE L 347, 320). Su di essi si tornerà ancora in seguito (p. 765 s.).
4. Istruzione, formazione professionale, gioventù e sport Può essere ricondotta alla politica sociale in senso ampio, come già accennato, la competenza che, ai sensi del Titolo XII TFUE, l’Unione si vede attribuire in materia di istruzione, gioventù e sport (art. 165 TFUE), nonché di formazione professionale (art. 166 TFUE).
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In proposito, va subito sottolineato che, mentre quest’ultimo settore è stato da sempre incluso tra quelli di competenza dell’Unione, gli altri vi sono stati ricondotti solo successivamente, in coincidenza con il più volte segnalato progressivo ampliamento dell’azione dell’Unione a settori non puramente economici: con il Trattato di Maastricht (art. 149 TCE), per quanto riguarda l’istruzione ed in parte la gioventù, e con il Trattato di Lisbona, per quanto riguarda lo sport (la materia è oggi presa in considerazione anche dalla Carta dir. fond., ed in particolare dall’art. 14 di quest’ultima, che proclama il diritto all’istruzione e alla formazione professionale). In tutti, però, come precisa l’art. 6, lett. e), TFUE, la competenza dell’Unione era ed è rimasta una mera competenza parallela, nel senso di cui si è detto a suo tempo (p. 442 s.), con la conseguenza che l’azione dell’Unione può essere qui intesa solo a sostenere, coordinare o completare quella degli Stati membri. Ed infatti per favorire la realizzazione degli obiettivi previsti in materia, il legislatore dell’Unione viene unicamente abilitato ad adottare, deliberando con procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, «azioni di incentivazione, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri», mentre il Consiglio è autorizzato a formulare, su proposta della Commissione, apposite raccomandazioni (artt. 165, par. 4, e 166, par. 4, TFUE). In tutti i settori indicati, inoltre l’Unione e gli Stati membri devono favorire la cooperazione con i paesi terzi e le competenti organizzazioni internazionali (artt. 165, par. 3, e 166, par. 3, TFUE). Si segnala al riguardo, con riferimento alla formazione professionale, il programma Tempus, istituito con dec. 90/233/CEE del Consiglio, del 7 maggio 1990 (GUCE L 131, 21), rinnovato per i periodi successivi e indirizzato alla cooperazione nel campo dell’istruzione superiore tra l’UE e i paesi delle regioni confinanti e vicine.
a) Ciò posto, per quanto riguarda l’istruzione e la gioventù, il Trattato impone all’Unione di contribuire allo «sviluppo di un’istruzione di qualità», stimolando la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, sostenendo e integrando la loro azione, ma rispettando le loro competenze quanto al contenuto dell’insegnamento e all’organizzazione del sistema di istruzione, nonché le loro diversità culturali e linguistiche. A tal fine, l’Unione deve operare in direzione di una pluralità di obiettivi indicati dallo stesso Trattato, e segnatamente: sviluppare la dimensione europea dell’istruzione, specie attraverso l’apprendimento e la diffusione delle lingue; favorire la mobilità degli studenti e degli insegnanti promuovendo il riconoscimento dei titoli e dei periodi di studio; incoraggiare la cooperazione tra gli istituti d’insegnamento, lo scambio di informazioni e di esperienze quanto ai sistemi di istruzione, nonché l’istruzione a distanza. Inoltre, con ancor più specifico riguardo alle iniziative per la gioventù, essa deve favorire lo sviluppo degli scambi di giovani e di animatori di attività socio-educative ed incoraggiare la partecipazione dei primi alla vita democratica dell’Europa (art. 165, par. 2, TFUE). In attuazione di tali disposizioni, l’Unione è intervenuta già a partire dalla seconda metà degli anni ’80, e quindi anche prima che i Trattati offrissero una specifica base giuridica nel senso poc’anzi indicato, attraverso i c.d. programmi di azione. In
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tema di istruzione, dopo appunto i più risalenti e noti programmi Erasmus (in materia di mobilità degli studenti), Lingua (per la promozione della conoscenza delle lingue straniere) e Socrates (per azioni in materia di istruzione), si segnala soprattutto la dec. 1720/2006/CE, del PE e del Consiglio, del 15 novembre 2006, che istituisce un programma d’azione nel campo dell’apprendimento permanente (GUUE L 327, 45), che ha istituito un programma d’azione nel campo dell’apprendimento permanente, noto come Lifelong Learning Programme (LLP). Tale decisione, sulla quale torneremo ancora tra breve, prevede azioni nel settore dell’istruzione e della formazione che accompagnino gli individui – proprio come indicato dal nome del programma – nell’intero arco della vita. A tal fine, essa ha istituito, anche con l’eventuale partecipazione di Stati terzi e organizzazioni internazionali operanti in materia (UNESCO, OCSE, Consiglio d’Europa), quattro sottoprogrammi settoriali e due sottoprogrammi non settoriali. Per i primi, ricordiamo i programmi Comenius, Erasmus, Leonardo, Grundtvig, che riguardano le persone impegnate nel campo della didattica e dell’apprendimento a vari livelli, prescolastico, scolastico, universitario, di formazione professionale anche per gli adulti. Per quelli non settoriali, segnaliamo: il programma Trasversale, per la cooperazione e l’innovazione relativi all’intero processo dell’apprendimento permanente; la promozione nell’apprendimento delle lingue; lo sviluppo di contenuti, servizi, pedagogie e prassi a carattere innovativo, anche sul piano tecnologico; la diffusione e l’utilizzo dei risultati delle azioni sostenute; e il programma Jean Monnet, che comprende la nota «azione Jean Monnet», consistente nelle sovvenzioni a sostegno di istituzioni che si occupano di temi connessi con l’integrazione europea, come pure di altre istituzioni e associazioni europee che operano nel campo dell’istruzione e della formazione. Per quanto riguarda in particolare le politiche giovanili, va ricordata la dec. 1719/2006/CE, del PE e del Consiglio, del 15 novembre 2006, che istituisce, per il periodo 2007-2013, il programma «Gioventù in azione» (GUUE L 327, 30), volta a facilitare la partecipazione al programma dei giovani con disabilità, a rafforzare nei giovani lo spirito di iniziativa e imprenditoriale, la creatività, la solidarietà, nonché il loro contributo attivo attraverso la partecipazione a iniziative e scambi transnazionali, nel rispetto delle diversità culturali, dei valori comuni e dei diritti fondamentali, per contribuire a combattere il razzismo, l’antisemitismo e la xenofobia. Ma v. anche la comunicazione COM (2007) 498 def. della Commissione: «Favorire il pieno coinvolgimento dei giovani nell’istruzione, nell’occupazione e nella società», del 5 settembre 2007; nonché la raccomandazione del Consiglio, del 20 novembre 2008, relativa alla mobilità dei giovani volontari nell’UE (GUUE C 319, 8).
Ma ulteriori sviluppi sono annunciati in materia, visto che la Commissione ha presentato una comunicazione nella quale espone un nuovo programma («Erasmus per tutti») a carattere orizzontale, valido cioè per l’istruzione, la formazione la gioventù e lo sport, e destinato a sostituire i programmi attuali (v. la comunicazione COM (2011) 787 def. della Commissione, del 23 novembre 2011, recante il programma «Erasmus per tutti: il programma UE per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport»). La proposta individua a tal fine tre tipologie di azioni: a) la mobi-
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lità ai fini dell’apprendimento, b) la cooperazione per l’innovazione, c) il sostegno alla riforma delle politiche. b) Per quanto poi riguarda lo sport, si è già ricordato che esso è stato inserito nel diritto primario dell’Unione dal Trattato di Lisbona. Questo prevede infatti che l’Unione contribuisca alla promozione dei profili europei dello stesso, tenendo conto delle sue specificità, delle sue strutture fondate sul volontariato e della sua funzione sociale ed educativa. In particolare, l’Unione deve sviluppare la dimensione europea dello stesso, promuovendo l’equità e l’apertura nelle competizioni sportive, oltre alla cooperazione tra gli organismi responsabili dello sport, nonché proteggendo l’integrità fisica e morale degli sportivi, in particolare dei più giovani tra di essi (art. 165, par. 1, comma 2, e par. 2, TFUE). Va detto però che anche in precedenza il settore non era stato ignorato a livello europeo. Già la Dichiarazione n. 29, allegata al Trattato di Amsterdam, aveva messo in evidenza la «rilevanza sociale dello sport, in particolare il ruolo che esso assume nel forgiare l’identità e nel ravvicinare le persone», e aveva invitato gli organi dell’Unione a prestare ascolto alle associazioni che operano nel settore, con specifica attenzione allo sport dilettantistico. La Commissione ne aveva quindi fatto oggetto, nel 2007, di un «Libro Bianco sullo sport», dell’11 luglio 2007 (COM (2007) 391 def.), nel quale lo sport è definito come un fenomeno sociale ed economico idoneo a contribuire al perseguimento degli obiettivi dell’Unione, di solidarietà e prosperità. In esso la Commissione evidenziava per l’appunto la specificità dello sport, della quale l’Unione deve tener conto nell’applicare la rilevante normativa, una specificità che va considerata con riguardo alle attività e alle regole, ma anche alla struttura dello sport, alla sua autonomia e alle modalità organizzative del settore, caratterizzate da un’architettura rigorosamente piramidale. Tale specificità ha influito anche sulla giurisprudenza della Corte, che inizialmente aveva trovato qualche difficoltà a contemperarla con le regole del mercato comune, ma ha poi potuto dare alla stessa, a seguito degli indicati sviluppi, il giusto rilievo. Si pensi al noto caso Bosman, che suscitò molte polemiche per la liberalizzazione che introdusse quanto alla circolazione dei calciatori (Corte giust. 15 dicembre 1995, C-415/93, I-4921). Ma v. anche, in materia, Corte giust. 12 dicembre 1974, 36/74, Walrave, 1405; 14 luglio 1976, 13/76, Donà, 1333; 11 aprile 2000, C-51/96 e C-191/97, Deliège, I-2549; 12 aprile 2000, C-176/96, Lehtonen, I-2681; 18 luglio 2006, C-519/04 P, Meca-Medina, I-6991; 16 marzo 2010, C-325/08, Olympique Lyonnais, I-2177.
c) Infine, l’Unione deve attuare una politica di formazione professionale, volta a rafforzare e integrare, nei limiti in precedenza indicati, le azioni degli Stati membri in materia (art. 166 TFUE). Si tratta, come si è detto, di una competenza risalente già alla CEE (art. 128 TCEE) e poi confermata dai successivi testi, come espressione del diritto di ciascun lavoratore di «accedere alla formazione professionale e di beneficiarne nell’arco della vita attiva»: così il punto 15 della Carta dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, che impegna «le autorità pubbliche competenti, le imprese o le parti sociali, nelle loro rispettive sfere di competenza […] a predisporre sistemi di formazione continua e permanente che consentano a ciascuno di riqualificarsi»
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(ma sulla stessa linea, v. anche la Carta sociale europea, nonché, come già detto, la Carta dir. fond.). Ma all’inquadramento della materia concorrono anche altre disposizioni del Trattato, nonché importanti indicazioni delle istituzioni europee, che hanno contribuito ad una valorizzazione della stessa. Così come ha contribuito in questa direzione la Corte di giustizia, sia per quanto attiene alla determinazione della portata della pertinente base giuridica, sia quanto alla stessa definizione di formazione professionale. V. in particolare: art. 47 TFUE, per quanto riguarda gli scambi di giovani lavoratori; art. 156 TFUE, relativo alla cooperazione tra gli Stati membri in materia di formazione e perfezionamento professionale; art. 162 TFUE, che attribuisce al FSE il compito di migliorare la capacità di occupazione dei lavoratori e di facilitare le trasformazioni industriali favorendo, tra l’altro, anche la formazione e la riconversione professionale; art. 165 TFUE, che attribuisce all’Unione il compito di sostenere lo sviluppo di un’istruzione di qualità e che si collega strettamente all’art. 166 TFUE, tant’è che vari atti sono stati fondati su entrambe le disposizioni (v. ad es. la citata dec. 1720/2006). Quanto alle indicazioni delle istituzioni, si allude soprattutto a quelle del Consiglio europeo del 23 e 24 marzo 2000, in relazione alla c.d. Strategia di Lisbona, definita in quell’occasione e di cui si è detto all’inizio del presente Capitolo. Nella prospettiva propria di tale strategia, e cioè nell’ottica della promozione di un’economia basata sulla «conoscenza più competitiva e dinamica del mondo» e per realizzare una crescita economica sostenibile, il Consiglio europeo indicò proprio l’istruzione e la formazione continua come uno dei principali strumenti per una crescita economica che salvaguardi anche la sopravvivenza dei sistemi di welfare. Quanto alla giurisprudenza della Corte, va detto che inizialmente si dubitò dell’idoneità dell’art. 166 TFUE (più correttamente, della corrispondente disposizione allora vigente) a fungere da base giuridica per l’adozione di programmi comunitari in materia di formazione professionale, sicché l’utilizzazione di quella disposizione fu accompagnata dalla c.d. clausola di flessibilità (art. 352 TFUE), che, com’è noto, comporta procedure molto più complesse, e in particolare l’unanimità in seno al Consiglio (retro, p. 415 ss.). La Corte confermò invece la portata precettiva di detta disposizione, facendo leva sulla necessità di non privare la stessa di ogni effetto utile (e quindi la Comunità degli strumenti di azione necessari) ai fini della politica comune di formazione professionale, e riconobbe al Consiglio il potere di emanare atti giuridici aventi ad oggetto azioni comunitarie in materia di formazione professionale, con relativi obblighi di cooperazione per gli Stati membri (v. Corte giust. 30 maggio 1989, 242/87, Commissione c. Consiglio, 1425, e 56/88, Regno Unito c. Consiglio, 1615, in relazione ai programmi Erasmus e Petra; ma v. anche Corte giust. 11 giugno 1991, C-51/89, C-90/89 e C94/89, Regno Unito e a. c. Consiglio, I-2757). Quanto alla nozione di formazione professionale, che in effetti non è definita dai Trattati, la Corte vi ha ricondotto qualsiasi forma di insegnamento che prepari a una qualificazione per una determinata professione, mestiere o attività, o che conferisca la particolare idoneità a esercitare tale professione, mestiere o attività, quali che siano l’età e il livello di formazione degli scolari o degli studenti, e ciò anche se il programma d’insegnamento includa materie di carattere generale, e quindi non direttamente collegate con la formazione al lavoro (sentenza 13 febbraio 1985, 293/83, Gravier, 592). Su questa base, la Corte ha incluso nella nozione la formazione professionale conseguente a un insegnamento superiore non universitario e ha quindi bocciato, come discriminatorie, ad es., una soprattassa d’iscrizione per l’accesso ai diversi tipi di istruzione scolastica (il c.d. minerval), imposto in Belgio ai soli studenti stranieri (sentenza Gravier cit., ma v. anche sentenza 13 luglio 1983, 152/82, Forcheri, 323). Essa ha poi coerentemente esteso la nozione agli studi universitari che «preparino ad un titolo per una professione, mestiere o attività specifica o attribuiscano l’idoneità particolare ad esercitare siffatta professione, mestiere o attività» (Corte giust. 2 febbraio 1988, 24/86, Blaizot, 379, punto 19; 21 giugno 1988, 39/86, Lair, 3205; 7 luglio 2005, C-147/03, Commissione c. Austria, I-5969; 11 gennaio 2007, C40/05, Kaj Lyyski, I-99), e alle iniziative in materia di «formazione continua o permanente» (sentenza 11 giugno 1991, C-51/89, C-90/89 e C-94/89, Regno Unito e a. c. Consiglio, cit.), sancendo,
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in nome del principio di non discriminazione, il diritto degli studenti che soggiornano legalmente per un certo periodo di tempo in un altro Stato membro (e che si siano in questo integrati) a ottenere i contributi finanziari concessi da tale Stato agli studenti della sua nazionalità (Corte giust. 15 marzo 2005, C-209/03, Bidar, I-2119; 18 novembre 2008, C-158/07, Förster, I-8507; 24 ottobre 2013, C-275/12, Elrick e C-220/12, Thiele Meneses).
Quanto invece agli obiettivi della politica di formazione professionale, è lo stesso art. 166 TFUE a fornire le necessarie indicazioni al riguardo, precisando (al par. 2) che detta politica deve tendere «a facilitare l’adeguamento alle trasformazioni industriali, in particolare attraverso la formazione e la riconversione professionale, a migliorare la formazione professionale iniziale e la formazione permanente, per agevolare l’inserimento e il reinserimento professionale sul mercato del lavoro, a facilitare l’accesso alla formazione professionale e a favorire la mobilità degli istruttori e delle persone in formazione, in particolare dei giovani, a stimolare la cooperazione in materia di formazione tra istituti di insegnamento o di formazione professionale e imprese, a sviluppare lo scambio di informazioni e di esperienze sui problemi comuni dei sistemi di formazione degli Stati membri». Sulla scia di tali indicazioni, sono state adottate in ambito europeo numerose iniziative e istituiti organi di supporto per la realizzazione delle stesse. Fra questi ricordiamo il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale (CEDEFOP), istituito con reg. (CEE) n. 337/75 del Consiglio, del 10 febbraio 1975 (GUCE L 39, 1), con il compito di collaborare con la Commissione per promuovere lo sviluppo della formazione professionale a livello comunitario, sia attraverso la diffusione di informazioni specifiche che mediante un’azione di incentivazione di altri programmi comunitari nel settore della formazione professionale; il Comitato consultivo per la formazione professionale, il cui primo statuto, del 18 dicembre 1963, è stato rivisto con dec. 2004/223/CE del Consiglio, del 26 febbraio 2004 (GUUE L 68, 25); l’Agenzia esecutiva per l’istruzione, gli audiovisivi e la cultura, istituita con dec. 2005/56/CE della Commissione, del 14 gennaio 2005 (GUUE L 24, 35), per la gestione dell’azione comunitaria in quei settori.
Tra i programmi operativi varati in tale contesto dal Consiglio, ricordiamo: Comett, sulla cooperazione tra università ed imprese in materia di formazione nel campo delle tecnologie (dec. 86/365/CEE, del 24 luglio 1986, GUCE L 222, 17, e 89/27/CEE, del 16 dicembre 1988, GUCE L 13, 28); Petra, relativo alla formazione professionale dei giovani ed alla loro preparazione alla vita adulta e professionale (dec. 87/569/CEE del Consiglio, del 1° dicembre 1987, GUCE L 346, 31); Eurotecnet, volto a promuovere l’innovazione nei settori della formazione professionale iniziale e continua, in vista dei cambiamenti tecnologici (dec. 89/657/CEE del Consiglio, del 18 dicembre 1989, GUCE L 393, 29); Force, per lo sviluppo della formazione professionale continua (dec. 90/267/CEE del Consiglio, del 29 maggio 1990, GUCE L 156, 1); Leonardo da Vinci, destinato ad attuare una politica di formazione professionale (dec. 94/819/CE del Consiglio, del 6 dicembre 1994, GUCE L 340, 8); e altri già segnalati poc’anzi in materia di istruzione. Ma la maggior parte di tali programmi sono poi stati ricondotti ad unità (già) con la menzionata dec. 1720/2006, nell’ambito del ricordato Lifelong Learning Programme (LLP), il cui obiettivo è per l’appunto di promuovere all’interno dell’Unione gli scambi, la cooperazione e la
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mobilità tra i sistemi di istruzione e formazione in modo che essi diventino un punto di riferimento di qualità a livello mondiale (v. retro, lett. a). Di recente, tanto quest’ultima decisione, quanto la già menzionata dec. 1719/2006, sono state abrogate dal reg. (UE) n. 1288/2013, del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013 (GUUE L 347, 50), che istituisce il programma «Erasmus+», programma dell’Unione per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport.
CAPITOLO X
Le politiche settoriali Sommario: 1. Premessa. – 2. L’azione dell’Unione nel settore della cultura. – 3. La sanità pubblica. – 4. La protezione dei consumatori. – 5. Lo sviluppo delle reti transeuropee. – 6. L’industria. – 7. La coesione economica, sociale e territoriale. – 8. Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio. – 9. La politica dell’ambiente. – 10. L’energia, il turismo e la protezione civile. – 11. La cooperazione amministrativa.
1. Premessa Quelle fin qui esaminate costituiscono, ad eccezione dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, le competenze per così dire «storiche» dell’Unione, nel senso che sono state a questa attribuite, sia pure in varia misura, fin dal Trattato di Roma. Accanto ad esse, tuttavia, lo sviluppo del processo d’integrazione, e in particolare il progressivo superamento della sua connotazione economicistica, hanno portato ad estendere l’azione dell’Unione ad una vasta e varia gamma di competenze, al fine essenzialmente di rendere più completa ed efficace tale azione. Si tratta, in effetti, di competenze che, pur essendo tra loro, come vedremo, assai diversificate, sono in qualche misura accomunate dal fatto di essere funzionali all’esercizio di quell’azione o da essa indotte, o comunque idonee a rafforzarne l’efficacia. Quasi tutte, del resto, si erano già affermate in vario modo nella prassi, sicché i Trattati non hanno dovuto far altro che offrire loro una base giuridica più solida, anche se non riconducendole mai tra le competenze esclusive dell’Unione, ma piuttosto tra quelle concorrenti o parallele nel senso di cui si è detto a suo tempo (supra, p. 420 ss.). Passeremo subito in rassegna, analiticamente, tali competenze, ma dobbiamo ancora una volta avvertire che una loro adeguata disamina richiederebbe sviluppi incompatibili con le dimensioni del presente volume, sicché se ne dovrà necessariamente fare un’esposizione estremamente sommaria e limitata agli aspetti essenziali.
2. L’azione dell’Unione nel settore della cultura Sebbene non ignota alla prassi precedente, è con il Trattato di Maastricht che la
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cultura fa il suo formale ingresso nel diritto primario. Essa è stata, infatti, inclusa da tale Trattato tra gli obiettivi della Comunità (art. 3, par. 1, lett. q), TCE) e regolata con un’apposita disposizione (art. 128 TCE), l’una e l’altra anticipando così la normativa oggi vigente, e segnatamente quella consegnata all’art. 167 TFUE, dedicato appunto alla cultura. E vi è entrata, allora come ora, in quanto dimensione a carattere trasversale, perché per espressa previsione di quest’ultimo, degli «aspetti culturali» l’Unione deve tener conto, «in particolare ai fini di rispettare e promuovere la diversità delle sue culture», anche in tutte le altre azioni che essa è abilitata a condurre (par. 4), e quindi non solo nel settore dell’istruzione e della formazione professionale, che pur ne costituisce il naturale riferimento, ma in ogni altro settore, in atto o potenzialmente, rilevante. Si pensi ad es. alla circolazione delle merci e in particolare alla tutela del patrimonio storico e archeologico, dei brevetti e dei diritti d’autore, di cui all’art. 36 TFUE; alla libera circolazione dei servizi, segnatamente in relazione a quella dei servizi culturali; alla ricerca, e così via. In altri casi, i riferimenti alla cultura sono addirittura espliciti: a parte appunto i settori dell’istruzione e della formazione professionale, di cui si è detto al Capitolo precedente, ricordiamo l’art. 13 TFUE, che impegna l’Unione a tenere conto delle esigenze di benessere degli animali, rispettando nel contempo le normative degli Stati membri e le loro consuetudini per quanto riguarda i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale; l’art. 107, par. 3, lett. d), TFUE, che dichiara compatibili con il mercato interno gli aiuti di Stato destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio, quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nell’Unione in misura contraria all’interesse comune; l’art. 207, par. 4, comma 3, lett. a), TFUE, il quale, in materia di politica commerciale comune, impone il voto unanime del Consiglio per la negoziazione e la conclusione di accordi «nel settore degli scambi di servizi culturali e audiovisivi, qualora tali accordi rischino di arrecare pregiudizio alla diversità culturale e linguistica dell’Unione»; e ciò, presumibilmente, al fine di garantire il pluralismo culturale dell’Unione (la c.d. eccezione culturale) nella conclusione di accordi in materia, specie in ambito GATS. Quanto alle norme specificamente rilevanti per la cultura, oltre all’art. 167 TFUE e al Preambolo del TUE (secondo cui i redattori di quest’ultimo s’ispirano alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, e dichiarano di voler intensificare la solidarietà tra i loro popoli rispettando la storia, la cultura e le tradizioni), ricordiamo l’art. 3, par. 3, comma 3, TUE, secondo cui l’Unione si prefigge di rispettare la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica e di vigilare sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo; ma anche l’art. 22 Carta dir. fond., che impegna l’Unione a rispettare la diversità culturale, religiosa e linguistica. Si noti, peraltro, che una misura è riconducibile alla competenza di cui ora si discute solo se essa abbia il proprio «centro di gravità» nella cultura e non in altre azioni (Corte giust. 23 febbraio 1999, C-42/97, Parlamento c. Consiglio, I-869), fermo restando che se si versa nella seconda ipotesi la «trasversalità» della cultura opera come vincolo materiale all’azione dell’Unione, nel senso che anche in quel caso questa deve rispettare e promuovere «la diversità delle sue culture».
Si tratta, anche qui, di una competenza parallela e complementare, perché in materia l’Unione può unicamente adottare, con procedura legislativa ordinaria (in precedenza, deliberava il solo Consiglio all’unanimità), e previa consultazione del Comitato delle regioni, azioni d’incentivazione, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, mentre al Consiglio compete formulare, su proposta della Commissione, apposite raccomandazioni. Venendo all’esame specifico dell’art. 167 TFUE, va segnalato che l’Unione «contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto delle loro di-
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versità nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il retaggio culturale comune». A tal fine, essa incoraggia, anche in collaborazione con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali competenti in materia di cultura (in particolare con il Consiglio d’Europa), la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, ne appoggia e integra l’azione con iniziative intese: al miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei, alla conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale d’importanza europea, alla promozione degli scambi culturali non commerciali, alla creazione artistica e letteraria, compreso il settore audiovisivo. Si tratta, come si vede, di quattro settori tendenzialmente molto vasti, e anche piuttosto generici, che offrono quindi, pur nei limiti sopra indicati, ampi spazi d’intervento all’Unione. E in effetti questa ha già varato, in ciascuno di quei settori, varie iniziative, alcune anche di rilievo («Capitali europee della cultura», «Anno europeo del patrimonio culturale», e così via). Tra di esse, e trascurando altre misure relative alla conservazione e alla salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea, oggetto del secondo settore, vanno segnalati in modo particolare il programma Cultura, specie per il primo ed il terzo degli indicati settori, e, per l’ultimo di essi, i programmi MEDIA e MEDIA Mundus, ma soprattutto il programma «Europa creativa», che assorbe e riconduce ad unità tali programmi, trasformandoli in sottoprogrammi di un’azione globale. Quanto al programma Cultura, esso è stato oggetto della dec. 1855/2006/CE del PE e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, che per l’appunto istituisce il programma Cultura (2007-2013) (GUUE L 372, 1), poi modificato. Esso si presenta, in continuazione con altre iniziative dello stesso tenore, come un programma pluriennale unico per le azioni dell’Unione, perché aperto a tutti i settori culturali e a tutte le categorie di operatori culturali. In questo stesso ambito, viene offerto un sostegno finanziario anche per le iniziative riconducibili al terzo degli indicati settori d’intervento (promozione degli scambi culturali non commerciali). Il programma MEDIA riguarda la creazione artistica e letteraria, compreso l’audiovisivo, e mira in particolare, come i numerosi e quasi omonimi programmi che lo hanno preceduto a partire dal 1991, ad offrire un sostegno finanziario al settore audiovisivo (v. dec. 1718/2006/CE del PE e del Consiglio, del 15 novembre 2006, relativa all’attuazione di un programma di sostegno al settore audiovisivo europeo, MEDIA 2007, GUUE L 327, 12), con l’avvertenza tuttavia che in tale settore sono intervenute altresì, ma sulla base della normativa relativa alla libera circolazione dei servizi, specifiche direttive: v., in particolare, dir. 2010/13/UE del PE e del Consiglio, del 10 marzo 2010, relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti la fornitura di servizi di media audiovisivi, GUUE L 95, 1 (direttiva sui servizi di media audiovisivi). Un programma MEDIA è stato varato anche per la cooperazione nel settore audiovisivo con i paesi terzi (dec. 1041/2009/CE del PE e del Consiglio, del 21 ottobre 2009, che istituisce il programma MEDIA Mundus, GUUE L 288, 10). Per il programma “Europa creativa”, v. reg. (UE) n. 1295/2013 del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, che istituisce il programma Europa creativa e che abroga le dec. 1718/2006/CE, 1855/2006/CE e 1041/2009/CE (GUUE L 347, 221). Quanto alle altre misure relative alla conservazione e alla salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea, oggetto del secondo settore, esse trovano di regola il proprio fondamento su altre basi giuridiche volte ad assicurare la tutela del patrimonio culturale dell’Union: v. ad es. la dir. 93/7/CEE del Consiglio, del 15 marzo 1993, relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro, GUCE L 74, 74, poi modificata, fondata sull’allora art. 95 TCE, oggi 114 TFUE, con la quale furono recepiti in ambito comunitario i principi della Convenzione Unidroit del 24 giugno 1995, sui beni culturali rubati o illecitamente esportati;
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reg. (CE) n. 116/2009 del Consiglio, del 18 dicembre 2008, relativo all’esportazione di beni culturali, GUUE L 39, 1, che istituisce procedure uniformi per l’esportazione dei beni culturali oltre i confini dell’Unione, fondato sull’art. 133 TCE, oggi 207 TFUE; dir. 2014/60/UE, del PE e del Consiglio, del 15 maggio 2014, relativa alla restituzione dei beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro e che modifica il reg. (UE) n. 1024/2012, GUUE L 159. 1, direttiva Rifusione. Sull’art. 167 TFUE è invece fondata la dec. 1194/2011/UE del PE e del Consiglio, del 16 novembre 2011, che istituisce un’azione dell’UE per il marchio del patrimonio europeo (GUUE L 303, 1). In materia, va segnalata anche la Comunicazione congiunta al PE e al Consiglio della Commissione: «Verso una strategia dell’Unione europea per le relazioni culturali internazionali» (JOIN/2016/029 final, 8 giugno 2016), che delinea i principi guida dell’azione dell’Unione nel campo delle relazioni culturali internazionali.
Sul piano esterno, infine, l’azione dell’Unione nella materia de qua si è espressa essenzialmente attraverso l’inserimento delle c.d. clausole «culturali» negli accordi di associazione e di cooperazione. Ma va anche ricordata l’adesione dell’Unione alla Convenzione dell’UNESCO sulla protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali. Convenzione firmata a Parigi il 20 ottobre 2005 ed entrata in vigore il 18 marzo 2007: v. dec. 2006/515/CE del Consiglio, del 18 maggio 2006, relativa alla conclusione della Convenzione sulla protezione a la promozione della diversità delle espressioni culturali (GUUE L 201, 15). Quanto alle c.d. clausole «culturali» negli accordi di associazione e di cooperazione, si tratta di clausole che concernono varie aree di cooperazione culturale (cooperazione sostenuta sul piano finanziario dal programma Cultura), quali lo sviluppo del multilinguismo, la mobilità dei giovani, la tutela del diritto d’autore e dei diritti connessi. Esse sono inserite soprattutto negli accordi con i paesi ACP (Africa, Caraibi, Pacifico), nonché in quelli c.d. di partenariato euro-mediterraneo, con i paesi europei allora candidati all’adesione all’UE (Paesi dei Balcani occidentali) e con i paesi partecipanti alla c.d. politica di vicinato.
3. La sanità pubblica Anche la sanità pubblica era già stata attratta, prima ancora del Trattato di Lisbona, nella competenza dell’Unione (allora Comunità), in particolare con il Trattato di Maastricht (art. 129 TCE), ed è poi stata oggetto, anche sulla spinta della giurisprudenza della Corte di giustizia, di affinamenti progressivi, sfociati per il momento nell’art. 168 TFUE. Grazie a tali preesistenti basi giuridiche, erano quindi già state adottate, e lo vedremo tra breve, numerose misure dell’Unione in materia di sanità pubblica, anche se va detto, per completezza, che la materia era ed è, in vario modo, oggetto pure di altre disposizioni del Trattato, che per specifici aspetti intervengono su di essa in misura anche più incisiva ed efficace, nonché di un’apposita disposizione della Carta dei diritti fondamentali. V. art. 35 della Carta che enuncia il diritto di ogni persona ad «accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali», aggiungendo che «[n]ella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana». Quanto alle altre disposizioni del Trattato che intervengono in materia, si allude, tra le altre, alla disciplina sulla libertà di circola-
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zione delle merci (nella quale rientrano, come «merci», anche i prodotti medici), delle persone (si pensi alle varie attività, autonome e non, di medici, paramedici, ecc.) e dei servizi (le varie forme di prestazioni di servizi sanitari, oggetto di numerosi interventi della Corte), nella quale la tutela della salute e della vita è addirittura un possibile motivo di deroga a tali libertà (artt. 36, 45, 52 e 62 TFUE); alle norme sulla concorrenza, specie sotto il profilo del rispetto della missione dei servizi di interesse economico generale, tra i quali rientrano ovviamente anche i servizi sanitari nazionali; alla politica sociale (v. in particolare gli artt. 153 e 156 TFUE, e i relativi riferimenti alla tutela della salute dei lavoratori), la protezione dei consumatori (art. 169 TFUE), l’ambiente (art. 191 TFUE), e così via. Va poi segnalato che rileva in materia la normativa sul ravvicinamento delle legislazioni (art. 114 ss. TFUE e retro, p. 661 ss.), che è stata ugualmente utilizzata, e potrà ancora esserlo, nella materia de qua, in relazione ai limiti che, come subito vedremo, l’art. 168 TFUE pone ai poteri di intervento dell’Unione al riguardo (specie per la regolamentazione del settore dei medicinali). Ma in varie occasioni l’art. 114 TFUE è stato utilizzato congiuntamente con lo stesso art. 168 TFUE: v., ad es., reg. (CE) n. 726/2004 del PE e del Consiglio, del 31 marzo 2004, che istituisce procedure comunitarie per l’autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario, e che istituisce l’Agenzia europea per i medicinali (GUUE L 136, 1), più volte modificato; o la dir. 2011/24/UE del PE e del Consiglio, del 9 marzo 2011, concernente l’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera (GUUE L 88, 45).
Il nucleo centrale della disciplina della materia si ritrova dunque nell’art. 168 TFUE, il quale sottolinea anzitutto il carattere trasversale della stessa, sancendo, come avviene per altri casi simili (cultura, ambiente, protezione dei consumatori, ecc.) che «[n]ella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana» (art. 168, par. 1, comma 1, TFUE). E in coerenza con tale previsione, l’art. 114, par. 3, TFUE, stabilisce che nelle sue proposte di ravvicinamento legislativo in materia, tra l’altro, di sanità, la Commissione deve basarsi su di un «livello di protezione elevato, tenuto conto in particolare degli eventuali nuovi sviluppi fondati su riscontri scientifici». Ciò posto, l’art. 168 prevede che l’azione dell’Unione, che «completa le politiche nazionali», s’indirizza al miglioramento della sanità pubblica, alla prevenzione delle malattie e affezioni e all’eliminazione delle fonti di pericolo per la salute fisica e mentale, includendo in tale azione la lotta contro i grandi flagelli e la ricerca sulle loro cause, la loro propagazione e prevenzione, nonché l’informazione e l’educazione in materia sanitaria, e la sorveglianza, l’allarme e la lotta contro gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero (par. 1, comma 2). Inoltre, detta azione «completa l’azione degli Stati membri volta a ridurre gli effetti nocivi per la salute umana derivanti dall’uso di stupefacenti, comprese l’informazione e la prevenzione» (par. 1, comma 3). Infine, l’Unione «incoraggia la cooperazione tra gli Stati membri nei settori di cui [all’art. 168 TFUE] e, ove necessario, appoggia la loro azione. In particolare incoraggia la cooperazione tra gli Stati membri per migliorare la complementarietà dei loro servizi sanitari nelle regioni di frontiera» (par. 2, comma 1). La previsione è legata anche al fenomeno del c.d. turismo sanitario e alla questione del rimborso delle cure sanitarie prestate in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede il destinatario delle stesse. Com’è noto, infatti, tanto la giurisprudenza della Corte (v., tra le tante, sentenza 15 giugno 2010, C-211/08, Commissione c. Spagna, I-5267), quanto la normativa dell’Unione (v. la citata dir. 2011/24), hanno riconosciuto il diritto dei cittadini dell’Unione, in quanto destinatari di quegli specifici «servizi» che sono le prestazioni sanitarie, ad avvalersi dell’assistenza sanitaria in
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uno Stato membro diverso da quello presso il cui sistema sanitario essi sono affiliati, anche se non hanno previamente esercitato il diritto alla libera circolazione. A proposito del par. 1, comma 2, della disposizione, vanno ricordati (anche se fondati sulle norme in materia di ravvicinamento delle legislazioni) i reg. (CE) del PE e del Consiglio, n. 273/2004, dell’11 febbraio 2004, relativo ai precursori di droghe (GUUE L 47, 1), e n. 1920/2006, del 12 dicembre 2006, relativo all’istituzione di un Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (GUUE L 376, 1).
Con riserva di quanto subito diremo sui contenuti di tale disposizione, va sottolineato subito che anche in questo settore, come emerge da quanto precede, l’azione dell’Unione ha carattere complementare, nel senso, più volte precisato, che essa può solo sostenere, completare o incentivare quella degli Stati membri. La responsabilità principale in materia resta quindi ancora in capo agli Stati membri, e infatti l’art. 168 TFUE prevede altresì che questi ultimi coordinino tra di loro le politiche e i programmi nei settori in precedenza indicati, tenendosi in collegamento con la Commissione, la quale, tenendosi a sua volta in stretto contatto con gli Stati membri e informandone pienamente il Parlamento europeo, può prendere tutte le iniziative utili a promuovere detto coordinamento, in particolare quelle finalizzate alla definizione di orientamenti e indicatori, all’organizzazione di scambi delle migliori pratiche e alla preparazione di elementi necessari per il controllo e la valutazione periodici (par. 2, comma 2). Sempre l’Unione e gli Stati membri insieme devono poi favorire la cooperazione con i paesi terzi e con le organizzazioni internazionali competenti in materia di sanità pubblica, segnatamente con l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS); e in effetti, numerosi accordi sono stati stipulati con paesi terzi, specie in materia di precursori e sostanze chimiche che sono spesso utilizzati in modo illecito per la produzione di stupefacenti o di sostanze psicotrope. A questo schema di base, la stessa disposizione apporta due deroghe sugli opposti versanti: su quello cioè delle competenze dell’Unione e su quello delle competenze degli Stati membri. Per il primo aspetto, l’art. 168, par. 4, TFUE, autorizza il legislatore dell’Unione a superare le limitazioni connesse all’indicata natura complementare delle competenze dell’Unione in materia (e quindi anche con atti di armonizzazione delle norme nazionali) al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi sopra enunciati e per affrontare i problemi comuni di sicurezza. In particolare, la disposizione abilita quel legislatore a deliberare, con procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni: a) misure che fissino parametri elevati di qualità e sicurezza degli organi e sostanze di origine umana, del sangue e degli emoderivati, senza pregiudizio però del potere degli Stati membri di mantenere o introdurre misure protettive più rigorose; b) misure nei settori veterinario e fitosanitario il cui obiettivo primario sia la protezione della sanità pubblica; c) misure che fissino parametri elevati di qualità e sicurezza dei medicinali e dei dispositivi d’impiego medico. Rispetto a tale disposizione è stata formulata la Dichiarazione n. 32, allegata al Trattato di Lisbona, secondo la quale «le misure che saranno adottate in applicazione [di detta norma] devono tener conto dei problemi comuni di sicurezza e avere come obiettivo la fissazione di norme elevate di qualità e di sicurezza, quando norme nazionali aventi un impatto sul mercato interno impedi-
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rebbero altrimenti la realizzazione di un elevato livello di protezione della salute umana». In attuazione della disposizione, sono stati adottati vari atti, tra i quali si ricorda il reg. (CE) n. 851/2004 del PE e del Consiglio, del 21 aprile 2004, che ha istituito il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (GUUE L 142, 1). Più in generale, va segnalato che anche in materia di medicinali, sia pur in virtù di basi giuridiche diverse, si assiste a una ricca produzione legislativa dell’Unione: v. ad es. dir. 2001/20/CE del PE e del Consiglio, del 4 aprile 2001, concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative all’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione della sperimentazione clinica di medicinali ad uso umano (GUCE L 121, 34), poi sostituita dal reg. (UE) n. 536/2014 del PE e del Consiglio, del 16 aprile 2014, sulla sperimentazione clinica di medicinali per uso umano e che abroga la dir. 2001/20/CE (GUEE L 158, 1); dir. 2001/83/CE del PE e del Consiglio, del 6 novembre 2001, recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano (GUCE L 311, 67, varie volte modificata); il citato reg. (CE) n. 726/2004 del PE e del Consiglio, del 31 marzo 2004, che istituisce procedure comunitarie per l’autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario, e che istituisce l’Agenzia europea di valutazione dei medicinali (GUCE L 207, 1). Sulle misure che fissino parametri elevati di qualità e sicurezza degli organi e sostanze di origine umana, del sangue e degli emoderivati, v. ad es. le direttive: 2004/23/CE, del 31 marzo 2004, sulla definizione di norme di qualità e di sicurezza per la donazione, l’approvvigionamento, il controllo, la lavorazione, la conservazione, lo stoccaggio e la distribuzione di tessuti e cellule umani (GUUE L 102, 48); 2010/53/UE, del 7 luglio 2010, relativa alle norme di qualità e sicurezza degli organi umani destinati ai trapianti (GUUE L 207, 14); nonché la dir. 2004/33/CE della Commissione, del 22 marzo 2004 (L 91, 25), che applica la dir. 2002/98/CE del PE e del Consiglio relativa a taluni requisiti tecnici del sangue e degli emocomponenti (GUUE L 33, 30), sulle quali, v. Corte giust. 29 aprile 2015, C-528/13, Léger. Quanto alle misure nei settori veterinario e fitosanitario, si tratta di una materia che interferisce ampiamente con la PAC e nella quale la produzione legislativa dell’Unione è assai nutrita. Qui ci si limita a ricordare il reg. (CE) n. 1829/2003 del PE e del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativo agli alimenti e ai mangimi geneticamente modificati (OGM) (GUUE L 268, 1; sul quale si segnala la causa, attualmente pendente dinanzi alla Corte giust., C-528/16, Confédération paysanne e a.).
Con le stesse modalità, il legislatore dell’Unione può altresì adottare apposite misure, ma solo di incentivazione, destinate a «proteggere e a migliorare la salute umana, in particolare per lottare contro i grandi flagelli che si propagano oltre frontiera, misure concernenti la sorveglianza, l’allarme e la lotta contro gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero, e misure il cui obiettivo diretto sia la protezione della salute pubblica in relazione al tabacco e all’abuso di alcol, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri» (par. 5). Per le prime, v., tra le più recenti, dec. 1082/2013/UE del PE e del Consiglio, del 22 ottobre 2013, relativa alle gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero e che abroga la dec. 2119/98/CE (GUUE L 293, 1), che stabilisce norme in materia di sorveglianza epidemiologica, monitoraggio, allarme rapido e lotta contro le gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero, compresa la pianificazione della preparazione e della risposta in relazione a tali attività, allo scopo di coordinare e integrare le politiche nazionali e di sostenere la cooperazione e il coordinamento tra gli Stati membri per migliorare la prevenzione e il controllo della diffusione di gravi malattie umane oltre le frontiere degli Stati membri e per lottare contro altre gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero. Fra le misure relative alla protezione della salute in relazione al tabacco, v. dir. 2001/37/CE del PE e del Consiglio, del 5 giugno 2001, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, alla presentazione e
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alla vendita dei prodotti del tabacco (GUCE L 194, 26), poi sostituita dalla dir. 2014/40/UE del PE e del Consiglio, del 3 aprile 2014 (GUUE L 127, 1, sulla quale v., ad es., Corte giust. 4 maggio 2016, C547/14, Philip Morris Brands e a. e); dir. 2003/33/CE del PE e del Consiglio, del 26 maggio 2003, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di pubblicità e di sponsorizzazione a favore dei prodotti del tabacco (GUUE L 152, 16), oggetto di interventi della Corte per respingere le richieste di suo annullamento (Corte giust. 12 dicembre 2006, C-380/03, Germania c. Parlamento e Consiglio, I-11573).
Al tempo stesso, tuttavia, il par. 7 dell’art. 168 TFUE impone all’Unione di rispettare le responsabilità degli Stati membri per la definizione della loro politica sanitaria e per l’organizzazione e fornitura di servizi sanitari e di assistenza medica, e ciò anche con riguardo alla gestione dei servizi sanitari e dell’assistenza medica e all’assegnazione delle risorse ad essi destinate. Nella stessa prospettiva, è altresì previsto che le misure dell’Unione di cui all’art. 168, par. 4, lett. a), TFUE, poc’anzi menzionate, non devono pregiudicare le disposizioni nazionali sulla donazione e l’impiego medico di organi e sangue. V. Corte giust. 14 marzo 2014, C-512/12, Octapharma France, la quale ha però precisato che la possibilità di mantenere in vigore o introdurre misure di protezione più rigorose esiste solo nei settori che rientrano nell’ambito di applicazione di una direttiva adottata sulla base dell’art. 168 TFUE, e non, segnatamente, in quello di una direttiva adottata sulla base dell’art. 114 TFUE (nella specie la dir. 2001/83, poc’anzi citata). In coerenza con la previsione del menzionato par. 7, l’art. 207, par. 4, lett. b), TFUE, dispone, in deroga all’art. 218 TFUE, che il Consiglio può negoziare e concludere solo all’unanimità gli accordi dell’Unione riguardanti gli scambi di servizi in materia sanitaria, qualora tali accordi rischino di perturbare seriamente l’organizzazione nazionale di tali servizi e di arrecare pregiudizio alla competenza degli Stati membri riguardo alla loro prestazione. Peraltro, la riserva di competenza a favore degli Stati membri deve tener conto, come ha più volte ribadito la Corte, dell’esigenza del rispetto del diritto dell’Unione e, in particolare, delle norme sulla libera prestazione dei servizi (v. tra le più recenti, Corte giust. 15 giugno 2010, C-211/08, Commissione c. Spagna, cit.; 27 gennaio 2011, C-490/09, Commissione c. Lussemburgo, I-247; 27 ottobre 2011, C-255/09, Commissione c. Portogallo, I-10547) e di stabilimento (Corte giust. 26 settembre 2013, C-539/11, Ottica New Line di Accardi Vincenzo).
In tutti i settori fin qui menzionati, infine, il Consiglio su proposta della Commissione, può altresì adottare raccomandazioni (par. 6). Ma gli interventi più significativi, in relazione agli indicati poteri dell’Unione, sono i Programmi d’azione adottati dal Parlamento europeo e dal Consiglio per finanziare iniziative in materia. V. in particolare la dec. 1350/2007/CE, del 23 ottobre 2007, che istituisce un Secondo programma d’azione comunitaria in materia di salute (2008-2013) (GUUE L 301, 3), che copre azioni in vari settori, e che è stato poi sostituito dal terzo programma d’azione dell’Unione in materia di salute, istituito con il reg. (UE) n. 282/2014 del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2014 (GUUE L 86, 1).
4. La protezione dei consumatori Tra le competenze in esame dell’Unione suscita un vivo e diffuso interesse quella che si ricollega alle esigenze di protezione dei consumatori, da tempo in qualche
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modo presenti all’attenzione delle istituzioni comunitarie, ma emerse via via in modo sempre più pressante fino ad approdare al livello del diritto primario e della Carta dei diritti fondamentali. Anche se gli artt. 39 e 86 TCEE già facevano un cenno ai «consumatori», il primo riferimento normativo di carattere generale alla tutela degli stessi si ritrova nell’AUE con l’inserimento nell’art. 100A TCEE di un richiamo ad un «livello di protezione adeguata» dei consumatori come criterio di cui la Commissione doveva tener conto nelle sue proposte per la realizzazione del mercato interno (previsione ancor oggi presente nel corrispondente art. 114, par. 3, TFUE). Ma la Corte aveva già considerato la «difesa dei consumatori» come una delle «esigenze imperative» in nome delle quali possono essere giustificate normative nazionali restrittive delle libertà economiche fondamentali (Corte giust. 20 febbraio 1979, 120/78, Rewe-Zentral (Cassis de Dijon), 649). È comunque il Trattato di Maastricht che all’art. 129A, introduce nel TCE la protezione dei consumatori come autonoma competenza, che tale resterà anche dopo le successive revisioni dei Trattati fino a quello in vigore (prima art. 153 TCE e ora 169 TFUE). Quanto alla Carta, essa riprende le precedenti enunciazioni dei Trattati, proclamando all’art. 38 che nelle «politiche dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione dei consumatori».
Con il Trattato di Lisbona, anzi, l’esigenza di proteggere i consumatori, in precedenza sottolineata solo nelle norme materiali (art. 153, par. 2, TCE), viene evidenziata autonomamente addirittura nelle «Disposizioni di applicazione generale» del TFUE, che ne fanno oggetto di una previsione a carattere orizzontale (art. 12) per sancire che di esse l’Unione deve tener conto nella «definizione e nell’attuazione di altre politiche o attività». Tale previsione, insieme con l’art. 169 TFUE, che detta la disciplina materiale, se non bastano a fondare una competenza dell’Unione per un’autentica «politica di protezione dei consumatori», definiscono nondimeno un preciso e inequivoco orientamento per l’azione normativa della stessa e soprattutto alimentano gli indirizzi fortemente e concretamente protezionistici che la Corte di giustizia ha costantemente seguito in materia, ispirandosi all’idea che la protezione dei consumatori è «indispensabile per l’adempimento dei compiti affidati alla Comunità e, in particolare, per l’innalzamento del livello e della qualità della vita al suo interno» (sentenza 26 ottobre 2006, C-168/05, Mostaza Claro, I-10421, punto 37). Ciò precisato, veniamo alla disciplina sostanziale della materia, che è dettata, come si è detto, dall’art. 169 TFUE. Va subito precisato che, secondo tale disposizione, al fine per l’appunto di promuovere gli interessi dei consumatori e assicurarne un elevato livello di protezione, l’Unione deve contribuire alla tutela della salute e della sicurezza dei consumatori, come dei loro interessi economici, nonché promuovere il loro diritto all’informazione, all’educazione e all’organizzazione per la salvaguardia dei loro interessi (par. 1). Per contribuire al conseguimento di tali obiettivi, ai sensi dello stesso art. 169, par. 2, TFUE, l’Unione può intervenire adottando: a) misure sulla base dell’art. 114 TFUE, relativo al ravvicinamento delle legislazioni ai fini della realizzazione del mercato interno; b) misure di sostegno, d’integrazione e di controllo della politica condotta in materia dagli Stati membri. Queste ultime sono deliberate dal PE e dal Consiglio, secondo la procedura legislativa ordinaria, dopo aver consultato il Comitato economico e sociale (par. 3). Resta salvo il diritto degli Stati membri «di mantenere
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o di introdurre misure di protezione più rigorose», purché esse siano compatibili con i Trattati e vengano notificate alla Commissione (par. 4). Si tratta dunque, come si vede, di una competenza in parte (lett. a) concorrente ed in altra parte complementare (lett. b), nel senso di cui si è detto a suo tempo (p. 420 ss.). Le limitazioni intrinsecamente connesse a questo tipo di competenze, tuttavia, non hanno impedito all’Unione di adottare numerose e importanti misure in questa materia. Così è avvenuto per quanto riguarda le misure volte alla tutela della salute e della sicurezza dei consumatori, la maggior parte delle quali precede lo stesso Trattato di Lisbona: da quelle relative alla responsabilità per danno da prodotti difettosi (dir. 85/374/CEE del Consiglio, del 25 luglio 1985, GUCE L 210, 29, sulla quale v., di recente, Corte giust. 21 giugno 2017, C-621/15, W e a.), a quella sulla sicurezza generale dei prodotti (dir. 2001/95/CE del PE e del Consiglio, del 3 dicembre 2001, GUCE L 11, 4), a quella che ha istituito l’Autorità europea per la sicurezza alimentare. V. reg. CE n. 178/2002 del PE e del Consiglio, del 28 gennaio 2002, che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce tale Autorità e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare, GUCE L 31, 1 (sul quale v., ad es., Corte giust. 11 aprile 2013, C636/11, Berger, nonché, più di recente, 19 gennaio 2017, C-282/15, Queisser Pharma). Ma v. ancora, ad es., seppur fondate (come le precedenti) anche su altre basi giuridiche, le dir. del Consiglio: 76/768/CEE, del 27 luglio 1976, relativa ai prodotti cosmetici (GUCE L 262, 169), poi sostituita dal reg. (CE) n. 1223/2009 del PE e del Consiglio del 30 novembre 2009, sui prodotti cosmetici (GUUE L 342, 59), più volte modificato; 88/378/CEE, del 3 maggio 1988, sulla sicurezza dei giocattoli (GUCE L 187, 1), poi sostituita dalla dir. 2009/48/CE del PE e del Consiglio, del 18 giugno 2009 (GUCE L 170, 1); dir. 1999/45/CE del PE e del Consiglio, del 31 maggio 1999, concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri relative alla classificazione, all’imballaggio e all’etichettatura dei preparati pericolosi (GUCE L 200, 1), più volte modificata; e i reg. (CE) del PE e del Consiglio: n. 1980/2000, del 17 luglio 2000, relativo al sistema comunitario, riesaminato, di assegnazione di un marchio di qualità ecologica (GUCE L 237, 1); 1829/2003, del 22 settembre 2003, relativo agli alimenti e ai mangimi geneticamente modificati (GUUE L 268, 1), a sua volta modificato; n. 854/2004, del 29 aprile 2004, che stabilisce norme specifiche per l’organizzazione di controlli ufficiali sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano (GUUE L 139, 206), ugualmente modificato; n. 1924/2006, del 20 dicembre 2006, relativo alle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti alimentari (GUCE L 404, 9); reg. (UE) n. 1169/2011, del 25 ottobre 2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, che modifica i reg. nn. 1924/2006 e 1925/2006 del PE e del Consiglio e abroga varie direttive (GUUE L 304, 18).
Lo stesso è avvenuto per quanto riguarda la tutela degli interessi economici dei consumatori, rispetto alla quale l’attenzione del legislatore dell’Unione si è concentrata soprattutto sui c.d. «contratti dei consumatori», e segnatamente sulle regole relative alla loro negoziazione, muovendo a tal fine dall’idea che nel corso della stessa il consumatore si trova di regola in posizione di maggiore debolezza e deve essere pertanto difeso, in particolare rispetto alle c.d. clausole abusive (cfr., in particolare la dir. 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, sulle clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, GUCE L 95, 29, poi modificata, direttiva che ha occasionato una ricca giurisprudenza): e ciò sia in termini generali che con riguardo a specifici tipi di contratto.
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V. tra le altre: dir. 84/450/CEE del Consiglio, del 10 settembre 1984, sulla pubblicità ingannevole e comparativa (GUCE L 250, 17), poi modificata dalla dir. 2005/29/CE (v. più avanti) e finalmente sostituita dalla dir. 2006/114/CE del PE e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, concernente la pubblicità ingannevole e comparativa (versione consolidata) (GUCE L 376, 21), sulla quale v., ad es., Corte giust. 13 marzo 2014, C-52/13, Posteshop SpA, e più di recente 8 febbraio 2017, C-562/15, Carrefour Hypermarchés; dir. 85/577/CEE del Consiglio, del 20 dicembre 1985, sui contratti conclusi fuori dei locali commerciali (GUCE L 372, 31); dir. 97/7/CE del PE e del Consiglio, del 20 maggio 1997, riguardante la protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza (GUCE L 144, 19) (queste ultime due poi abrogate); dir. 98/6/CE del PE e del Consiglio, del 16 febbraio 1998, in materia d’indicazione dei prezzi dei prodotti offerti ai consumatori (GUCE L 80, 27); dir. 2000/31/CE del PE e del Consiglio, dell’8 giugno 2000, sul commercio elettronico (GUCE L 178, 1), modificata dalla dir. 2002/65/CE del PE e del Consiglio, del 23 settembre 2002, concernente la commercializzazione a distanza di servizi finanziari (GUCE L 271, 16); dir. 2005/29/CE del PE e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la dir. 84/450/CEE del Consiglio e le dir. 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del PE e del Consiglio e il reg. (CE) 2006/2004 del PE e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali») (GUCE L 149, 22), direttiva che ha formato oggetto di importanti pronunce giurisprudenziali che ne hanno non solo precisato l’ambito d’applicazione ma, più in generale, hanno fornito la chiave di lettura delle sue disposizioni (cfr., ex multis, Corte giust. 9 novembre 2010, C-540/08, Mediaprint Zeitungs-und Zeitschriftenverlag, I-10909; nonché, da ultimo, 4 maggio 2017, C-339/15, Vanderborght). Con riguardo a specifici tipi di contratto, a parte le misure adottate nel settore dei trasporti (retro, p. 617 s.), v. dir. 87/102/CEE del Consiglio, del 22 dicembre 1986 (GUCE L 42, 48), relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri in materia di credito al consumo, modificata dalla dir. 98/7/CE del PE e del Consiglio, del 16 febbraio 1998 (GUCE L 101, 17); dir. 90/314/CEE del Consiglio, del 13 giugno 1990, concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti «tutto compreso» (GUCE L 158, 59); dir. 94/47/CE del PE e del Consiglio, del 26 ottobre 1994, concernente la tutela dell’acquirente per taluni aspetti dei contratti relativi all’acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di beni immobili (GUCE L 280, 83), poi sostituita dalla dir. 2008/122/CE del PE e del Consiglio, del 14 gennaio 2009, sulla tutela dei consumatori per quanto riguarda taluni aspetti dei contratti di multiproprietà, dei contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine e dei contratti di rivendita e di scambio (L 33, 10); dir. 1999/44/CE del PE e del Consiglio, del 25 maggio 1999, su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo (GUCE L 171, 12), poi modificata, anch’essa al centro di significativi interventi giurisprudenziali (v., ad es., Corte giust. 17 aprile 2008, C-404/06, Quelle, I-2685; 16 giugno 2011, C-65/09 e C-87/09, Gebr. Weber, I-5257; 3 ottobre 2013, C32/12, Duarte Hueros; nonché, più di recente, 4 giugno 2015, C-497/13, Faber; 9 novembre 2016, C-149/15, Wathelet; 13 luglio 2017, C-133/16, Ferenschild); dir. 2008/48/CE del PE e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la dir. 87/102/CEE (GUUE L 133, 66); dir. 2008/122/CE del PE e del Consiglio, del 14 gennaio 2009, sulla tutela dei consumatori per quanto riguarda taluni aspetti dei contratti di multiproprietà, dei contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine e dei contratti di rivendita e di scambio (GUUE L 33, 10); dir. 2014/17/UE del PE e del Consiglio, del 4 febbraio 2014, in merito ai contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali e recante modifica delle dir. 2008/48/CE e 2013/36/UE e del reg. (UE) n. 1093/2010 (GUUE L 60, 34).
In questa direzione, una menzione specifica merita la dir. 2011/83/UE, del PE e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, sui diritti dei consumatori (recante modifica della dir. 93/13/CEE del Consiglio e della dir. 1999/44/CE del PE e del Consiglio e che abroga la dir. 85/577/CEE del Consiglio e la dir. 97/7/CE del PE e del Consiglio sui diritti dei consumatori, GUUE L 304, 64) che al tempo stesso codifica ed innova la
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disciplina contenuta nelle più risalenti direttive. E lo stesso è avvenuto, infine, per quanto concerne la promozione del diritto dei consumatori all’informazione, all’educazione e all’organizzazione per la salvaguardia dei loro interessi, per la quale ugualmente sono intervenute varie misure. A parte alcune misure già indicate in precedenza e rilevanti anche sotto il profilo ora in esame, v. dir. 90/496/CE del Consiglio, del 24 settembre 1990, relativa all’etichettatura nutrizionale dei prodotti alimentari (GUCE L 276, 40), e la dir. 2000/13/CE del PE e del Consiglio, del 20 marzo 2000, concernente l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità (GUCE L 109, 29), entrambe sostituite (insieme con altri atti della Commissione) dal reg. (UE) n. 1169/2011 del PE e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori (GUUE L 304, 18). V. inoltre anche: reg. (CEE) n. 2081/92 del Consiglio, del 14 luglio 1992, sulla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agricoli e alimentari (GUCE L 208, 1), modificato dal reg. (CE) n. 806/2003 del Consiglio, del 14 aprile 2003 (GUCE L 122, 1), e il reg. (CEE) n. 2082/92 del Consiglio, del 14 luglio 1992, sulle attestazioni di specificità dei prodotti agricoli ed alimentari (GUCE L 208, 9). Dando seguito a tali regolamenti, la dec. 2000/323/CE della Commissione, del 4 maggio 2000 (GUCE L 111, 30), ha istituito il Comitato consultivo dei consumatori, grazie al quale le associazioni rappresentative di questi ultimi possono partecipare all’elaborazione delle pertinenti normative di armonizzazione, e con la creazione, negli Stati membri, di centri di informazione per consumatori. Tale decisione è stata poi più volte sostituita, sino alla dec. 2009/705/CE, della Commissione, del 14 settembre 2009, che istituisce un Gruppo consultivo europeo dei consumatori, tuttora in vigore (GUUE L 244, 21).
Per la realizzazione degli indicati obiettivi, infine, e sulla base del solo art. 169 TFUE, l’Unione ha promosso appositi programmi di azione, la cui portata si è estesa o sta per estendersi ad una vasta gamma di settori. V. dec. 1926/2006/CE del PE e del Consiglio, del 18 dicembre 2006, che istituisce un programma d’azione comunitaria in materia di politica dei consumatori (2007-2013) (GUUE L 404, 39), poi sostituito dal reg. (UE) n. 254/2014, del PE e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, relativo a un programma pluriennale per la tutela dei consumatori per il periodo 2014-2020 e che abroga la dec. 1926/2006/CE (GUUE L 84, 41), che, in forma appunto di regolamento e non, come da tradizione, di decisione, vara una serie di interventi (e relativi finanziamenti) destinati ad «assicurare un elevato livello di protezione dei consumatori, conferire un maggior potere ai consumatori e collocare il consumatore al centro del mercato interno, nel quadro di una strategia globale per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva».
Tutti questi interventi hanno generato, come emerge da quanto precede, una produzione normativa assai vasta, per non dire alluvionale, ma anche alquanto eterogenea, comunque difficilmente riconducibile, come già accennato, all’idea di una organica politica dei consumatori. La tutela di questi ultimi resta in effetti oggetto di una problematica assai differenziata in relazione ai singoli profili sotto i quali viene volta a volta in rilievo, anche se, va detto, la giurisprudenza della Corte ha dato un incisivo contributo, sia sul piano dei principi interpretativi che dei contenuti, alla definizione di alcune linee comuni, che hanno poi trovato eco nelle successive statuizioni normative. Per limitarci solo ad alcuni aspetti di maggior rilievo, si possono ricordare le affermazioni circa: la qualificazione come norme imperative delle disposizioni che vietano le clausole abusive nei
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contratti conclusi tra un consumatore e un professionista, con conseguenti riflessi sull’interpretazione di tali clausole e del relativo divieto, sulla loro nullità, sui tempi e sui modi d’invocabilità di questa o sulla sua rilevabilità di ufficio anche da parte del giudice nazionale (v. ad es. la citata sentenza 26 ottobre 2006, C-168/05, Mostaza Claro; nonché Corte giust. 4 giugno 2009, C243/08, Pannon, I-4713; ordinanza 16 novembre 2010, C-76/10, Pohotovosť, I-11557), perfino in presenza di un lodo arbitrale che abbia acquisito autorità di cosa giudicata (Corte giust. 6 ottobre 2009, C-40/08, Asturcom, I-9579; e, più di recente, 28 luglio 2016, C-168/15, Tomášová); l’ampia interpretazione della nozione di consumatore, qualificato come titolare di uno status autonomo per il fatto di trovarsi in una situazione che sollecita l’applicazione di regole giuridiche distinte rispetto al regime comune del diritto privato (v., per tutte, Corte giust. 13 gennaio 2000, C220/98, Estée Lauder, I-117; 21 marzo 2013, C-92/11, RWE Vertrieb); la portata della tutela del consumatore sia nella definizione delle nozioni di «squilibrio significativo», a detrimento del consumatore, dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, e di «buona fede» richiesta al professionista nell’ambito della conclusione dello stesso (cfr. sentenza 14 marzo 2013, C-415/11, Aziz; e, fra quelle che vi hanno fatto seguito, 16 gennaio 2014, C-226/12, Constructora Principado, nonché, più di recente, 26 gennaio 2017, C-421/14, Banco Primus), sia nell’estensione di detta tutela al di là del risarcimento del mero pregiudizio degli interessi economici lesi, e quindi anche per i danni morali eventualmente subiti (Corte giust. 12 marzo 2002, C-168/00, Leitner, I-2631, in relazione alla nota vicenda del consumatore cui fu riconosciuto il risarcimento anche per i danni morali provocati da una vacanza rovinata); la limitazione nel tempo gli effetti della dichiarazione di nullità di una clausola abusiva (sentenza 21 dicembre 2016, C-154/15, Gutiérrez Naranjo).
Un accenno specifico meritano, infine, a tal proposito, gli interventi giurisprudenziali, ma anche normativi, volti a rafforzare l’accesso alla giustizia del consumatore e la sua tutela sul piano processuale, sia giudiziale che extragiudiziale. Tra i principali, si possono ricordare: la previsione, nei pertinenti regolamenti, dello speciale criterio di competenza fondato sul domicilio del consumatore (c.d. foro del consumatore); l’inserzione in alcune direttive di disposizioni che obbligano gli Stati membri a fornire mezzi adeguati ed efficaci per impedire l’inserzione di clausole abusive nei contratti tra un professionista e dei consumatori; la direttiva relativa ai provvedimenti inibitori a tutela dei consumatori; il regolamento sulla cooperazione tra le autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa che tutela i consumatori; la direttiva sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori; il regolamento relativo alla risoluzione delle controversie online dei consumatori. V., rispettivamente, la sezione 4 del reg. (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (Bruxelles I) (GUCE L 307/2001, 28), ora abrogato e sostituito dal reg. (UE) n. 1215/2012 del PE e del Consiglio, del 12 dicembre 2012 (GUUE L 351, 1); ma il criterio era previsto già dalla Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 (retro, p. 555 s.). Per le disposizioni che obbligano gli Stati membri a fornire mezzi adeguati ed efficaci per impedire l’inserzione di clausole abusive nei contratti tra un professionista e dei consumatori, v. ad es. art. 7 della citata dir. 93/13, secondo il quale detti mezzi «comprendono disposizioni che permettano a persone o organizzazioni, che a norma del diritto nazionale abbiano un interesse legittimo a tutelare i consumatori, di adire, a seconda del diritto nazionale, le autorità giudiziarie o gli organi amministrativi competenti affinché stabiliscano se le clausole contrattuali, redatte per un impiego generalizzato, abbiano carattere abusivo ed applichino mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di siffatte clausole» (par. 2). Per la direttiva relativa ai provvedimenti inibitori a tutela dei consumatori, v. dir. 98/27/CE del PE e del Consiglio, del 19 maggio 1998, (GUCE L 166, 59), più volte modificata, da ultimo
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dalla dir. 2009/22/CE del PE e del Consiglio, del 23 aprile 2009 (GUUE L 110, 30), a sua volta modificata dal reg. 524/2013, di cui diremo subito (in materia, v. Corte giust. 26 aprile 2012, C472/10, Invitel; 28 luglio 2016, C-191/15, Verein für Konsumenteninformation). Quanto alla cooperazione tra le autorità nazionali, v. reg. (CE) 2006/2004 del PE e del Consiglio, del 27 ottobre 2004 (GUUE L 364, 1), c.d. «Regolamento sulla cooperazione per la tutela dei consumatori», modificato dalla dir. 2013/11 e dal reg. n. 524/2013, di cui diremo subito. Per la risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori, v. dir. 2013/11/UE del PE e del Consiglio, del 21 maggio 2013 (GUUE L 165, 63, sulla quale v., di recente, Corte giust. 14 giugno 2017, C-75/16, Menini and Rampanelli), c.d. «Direttiva sull’ADR per i consumatori», che modifica il reg. (CE) n. 2006/2004 e la dir. 2009/22. E, infine, v. reg. (UE) n. 524/2013 del PE e del Consiglio, del 21 maggio 2013, relativo alla risoluzione delle controversie online dei consumatori e che modifica il reg. (CE) n. 2006/2004 e la dir. 2009/22/CE (GUUE L 165, 1), c.d. «Regolamento sull’ODR per i consumatori». Da segnalare, a proposito della tutela extragiudiziale dei consumatori, l’istituzione di una rete europea extragiudiziale («EEJ-net»), destinata a comporre in via amichevole le vertenze riguardanti i consumatori, attraverso punti centrali di contatto (quasi delle camere arbitrali), cui i consumatori possono rivolgersi per informazioni e assistenza (v. le raccomandazioni adottate dalla Commissione sulla base dell’art. 153 TCE, corrispondente all’art. 169 TFUE: 98/257/CE, del 30 marzo 1998, riguardante i principi applicabili agli organi responsabili per la risoluzione extragiudiziale delle controversie in materia di consumo, GUCE L 115, 31; 2001/310/CE, del 4 aprile 2001, sui principi applicabili agli organi extragiudiziali che partecipano alla risoluzione consensuale delle controversie in materia di consumo, GUCE L 109, 56).
5. Lo sviluppo delle reti transeuropee «Per […] consentire ai cittadini dell’Unione, agli operatori economici e alle collettività regionali e locali di beneficiare pienamente dei vantaggi derivanti dall’instaurazione di uno spazio senza frontiere interne, l’Unione concorre alla costituzione e allo sviluppo di reti transeuropee nei settori delle infrastrutture dei trasporti, delle telecomunicazioni e dell’energia» (art. 170, par. 1, TFUE), favorendo l’interconnessione e l’interoperabilità tra le reti nazionali, nonché l’accesso alle stesse (par. 2). E ciò, nella convinzione da un lato che il mercato interno si realizza anche attraverso l’eliminazione degli ostacoli di natura fisica, quali la diversità delle infrastrutture nazionali, alla libera circolazione dei fattori produttivi; dall’altro, che la creazione di dette reti può contribuire al rafforzamento della coesione economica, sociale e territoriale, in particolare migliorando il collegamento tra le regioni centrali dell’Unione e le regioni insulari, prive di sbocchi al mare e periferiche. Ma nella convinzione, altresì, che tali risultati esigono un impegno e iniziative realizzabili efficacemente solo sulla più ampia scala europea, e quindi grazie all’azione dell’Unione. Sono questi, per l’essenziale, gli obiettivi che il Trattato di Lisbona assegna all’Unione nel Titolo XVI del TFUE (artt. 170-172), ma che in realtà, come molte altre delle competenze oggetto del presente Capitolo, erano stati enunciati al livello del diritto primario già con il Trattato di Maastricht (art. 129 B, poi art. 154 TCE), benché fossero all’attenzione della Comunità anche prima di tale innovazione normativa. In effetti, la necessità di far fronte alle difficoltà derivanti dalla carenza di adeguate interconnessioni fra reti nazionali, costituite dagli Stati membri in ottica puramente «localistica», era stata
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avvertita ben prima: v. ad es. la dec. 78/174/CEE, del Consiglio, del 20 febbraio 1978, che istituisce una procedura di consultazione e crea un comitato in materia di infrastrutture dei trasporti (GUCE L 54, 16); e poi reg. (CEE) n. 3359/90 del Consiglio, del 20 novembre 1990, relativo all’attuazione del programma d’azione nel campo dell’infrastruttura di trasporto in vista della realizzazione del mercato integrato dei trasporti nel 1992 (GUCE L 326, 1) con il quale si dette vita ad un programma pluriennale di azione nel settore. Ma rileva in modo particolare anche la risoluzione del Consiglio del 22 gennaio 1990, nella quale si proclamava che nel quadro del processo di realizzazione di uno spazio senza frontiere interne, «i cittadini, le imprese e le Amministrazioni devono potere disporre di infrastrutture di comunicazione che consentano loro di favorire la libera circolazione all’interno della Comunità» (GUCE C 27, 8). E ciò senza contare l’attenzione che la materia ha ricevuto fin dagli anni ’70 nei programmi d’azione dei fondi strutturali, di cui diremo più avanti. Il par. 2 dell’art. 170 TFUE precisa che l’azione dell’Unione nella materia de qua deve svolgersi «[n]el quadro di un sistema di mercati aperti e concorrenziali», e quindi in un contesto liberalizzato e concorrenziale. Tale prescrizione va però contemperata con l’interesse generale alla promozione e allo sviluppo di reti in settori come trasporti, telecomunicazioni ed energia, nei quali occorre tener conto della rilevanza degli investimenti privati necessari e delle esigenze di redditività degli stessi, sempre beninteso che assicurino un livello qualitativo elevato e contribuiscano al progresso tecnico. Come si deduce anche dalla dir. 96/48/CE del Consiglio, del 23 luglio 1996, relativa all’interoperabilità del sistema ferroviario transeuropeo ad alta velocità (GUCE L 235, 6), più volte modificata ed infine sostituita dalla dir. (UE) 2016/798 del PE e del Consiglio, dell’11 maggio 2016, sulla sicurezza delle ferrovie, per «interconnessione» deve intendersi la congiunzione fisica delle reti nazionali per garantire agli utenti la possibilità di utilizzare, tramite esse, i servizi erogati, mentre l’«interoperabilità» è la capacità dei sistemi creati attraverso tale interconnessione di garantire una circolazione sicura e senza soluzione di continuità, con il superamento degli ostacoli fisici e giuridici esistenti.
Per realizzare tali obiettivi, e tenendo conto della validità economica dei progetti proposti, l’Unione può: a) stabilire un insieme di orientamenti che contemplino gli obiettivi, le priorità e le linee principali delle azioni previste nel settore delle reti transeuropee, anche individuando, nell’ambito di tali orientamenti, progetti d’interesse comune; b) intraprendere ogni azione che si riveli necessaria per garantire l’interoperabilità delle reti, in particolare nel campo dell’armonizzazione delle norme tecniche; c) appoggiare progetti di interesse comune sostenuti dagli Stati membri, individuati nell’ambito dei predetti orientamenti, e ciò in particolare mediante studi di fattibilità, garanzie di prestito o abbuoni di interesse, nonché contribuire al finanziamento negli Stati membri, mediante un apposito fondo di coesione, di progetti specifici nel settore delle infrastrutture dei trasporti. L’Unione può realizzare tali iniziative anche in cooperazione con i paesi terzi per promuovere progetti di interesse comune e garantire l’interoperabilità delle reti (art. 171, par. 1, TFUE). La Corte ha avuto modo di chiarire che le azioni di cui al punto b) nel testo non devono necessariamente essere già previste dagli orientamenti di cui al punto a), ove l’azione stessa prefiguri autonomamente gli obiettivi, le priorità e le linee principali, ed individui i progetti di interesse comune (sentenze 26 marzo 1996, C-271/94, Parlamento c. Consiglio, I-1689; 28 maggio 1998, C22/96, Parlamento c. Consiglio, I-3242). Per quanto riguarda i progetti d’interesse comune sostenuti dagli Stati membri, vanno inclusi tra gli stessi (diversamente da quanto a suo tempo previsto dall’art. 129 C TCE) non solo progetti finanziati direttamente dagli Stati membri, ma anche quelli promossi da altri soggetti, anche privati, che gli Stati riconoscono come rilevanti e che quindi «so-
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stengono» (sulla nozione di “progetti di interesse comune”, v., di recente, Corte giust. 12 novembre 2015, C-121/14, Regno Unito c. Parlamento e Consiglio). Quanto al fondo di coesione, a esso fa riferimento anche l’art. 177, comma 2, TFUE (sul punto comunque v. infra, par. 7, anche per un inquadramento più generale dei c.d. fondi di coesione). Va qui notato che l’intervento di questi fondi ha valicato il settore delle infrastrutture dei trasporti. Già il reg. (CE) n. 2236/95, del Consiglio, del 18 settembre 1995, che stabilisce i principi generali per la concessione di un contributo finanziario della Comunità nel settore delle reti transeuropee (GUCE L 228, 1), poi modificato (e fondato, come quelli di cui subito diremo, sull’art. 172 TFUE o sulle disposizioni che lo hanno preceduto), si riferiva alle reti transeuropee in generale. Il successivo reg. (CE) n. 680/2007 del PE e del Consiglio, del 20 giugno 2007, che stabilisce i principi generali per la concessione di un contributo finanziario della Comunità nel settore delle reti transeuropee dei trasporti e dell’energia (GUUE L 162, 1), limitava invece gli interventi finanziari ai due settori indicati. Ma il più recente reg. (CE) n. 67/2010 del PE e del Consiglio, del 30 novembre 2009, oltre ad abrogare il reg. n. 2236/95, stabilisce i principi generali per la concessione di un contributo finanziario della Comunità nel settore delle reti transeuropee (GUUE L 27, 20), generalizzando nuovamente l’ambito d’azione dei fondi. Il regolamento definisce le condizioni per i finanziamenti, nonché le forme e le modalità, i criteri di priorità e i limiti degli stessi.
Gli orientamenti e le altre misure appena indicate sono di competenza del legislatore dell’Unione, che delibera secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni. Ma gli orientamenti e i progetti di interesse comune che riguardano il territorio di uno Stato membro esigono l’approvazione dello Stato membro interessato (art. 172 TFUE), approvazione che deve intervenire prima della proposta della Commissione o della sua presentazione al Consiglio, non potendo ammettersi che l’eventuale opposizione dello Stato interessato possa esprimersi in sede di voto in seno al Consiglio, in deroga alle regole di voto di quest’ultimo. Anche, e diremmo soprattutto, in questa materia, peraltro, la competenza dell’Unione ha, per ovvi motivi, carattere concorrente con quella degli Stati membri, visto che la creazione e lo sviluppo delle reti in questione non può che essere frutto dell’impegno dell’una e degli altri. Lo conferma del resto esplicitamente l’art. 4, par. 2, lett. h), TFUE, ma lo conferma anche il riferimento al fatto che l’Unione «concorre» alla realizzazione degli obiettivi indicati (art. 170, par. 1, TFUE), e al fatto che l’azione dell’Unione «mira a favorire» l’interconnessione e l’interoperabilità delle reti nazionali (art. 170, par. 2, TFUE). Per assicurare tuttavia un esercizio armonioso delle rispettive competenze in materia, l’art. 172, par. 2, TFUE, prevede che gli Stati membri coordinino tra loro, in collegamento con la (ma anche su iniziativa della) Commissione, le politiche svolte a livello nazionale che possono avere un impatto rilevante sulla realizzazione degli obiettivi dell’Unione. In concreto, peraltro, l’azione dell’Unione nella materia in esame non ha prodotto finora risultati di particolare rilievo, malgrado l’attenzione ad essa prestata già a partire del Libro Bianco della Commissione del dicembre 1992, su «Lo sviluppo futuro della politica comune dei trasporti», e i conseguenti interventi delle istituzioni comunitarie per definire una serie di progetti prioritari e incoraggiarne la realizzazione. In effetti, vuoi per talune incertezze strategiche, vuoi soprattutto per l’insufficienza delle risorse finanziarie, tale realizzazione è proceduta a rilento, sebbene negli ultimi tempi la situazione sembri in via di miglioramento, anche sul piano degli
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orientamenti generali, vista la maggiore attenzione alla sinergia tra le reti (v. la comunicazione della Commissione «Le reti transeuropee: verso un approccio integrato» (COM (2007) 135 def., del 21 marzo 2007). Una valutazione più puntuale, ancorché molto rapida, va comunque operata in modo differenziato in rapporto ai tre settori di cui si occupano i Trattati. Per quanto riguarda le infrastrutture dei trasporti, che sono state finora al centro delle maggiori attenzioni, va ricordato che i primi orientamenti per lo sviluppo delle reti transeuropee in questo settore furono oggetto della dec. 1692/96/CE, che fissava al 2010 il termine per attuare progressivamente tali reti su scala comunitaria, integrando quelle di infrastruttura del trasporto terrestre, marittimo e aereo. A seguito delle varie modifiche subite nel tempo, la decisione è stata poi rifusa nella dec. 661/2010/UE, a sua volta abrogata e sostituita dal reg. (UE) n. 1315/2013, che ha aggiornato le condizioni, le modalità e i tempi di attuazione dei progetti di reti transeuropee nel settore. Reg. del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, sugli orientamenti dell’Unione per lo sviluppo della rete transeuropea dei trasporti e che abroga la dec. 661/2010/UE (GUUE L 348, 1). Per le due decisioni, v. decisione del PE e del Consiglio, del 23 luglio 1996, sugli orientamenti comunitari per lo sviluppo della rete transeuropea dei trasporti (GUCE L 228, 1), modificata da ultimo dalla dec. 884/2004/CE del PE e del Consiglio, del 29 aprile 2004, (GUUE L 167, 1), e che portava in allegato anche un elenco di progetti di interesse comune; e la decisione del PE e del Consiglio, del 7 luglio 2010, sugli orientamenti dell’Unione per lo sviluppo della rete transeuropea dei trasporti (GUUE L 204, 1).
Gli orientamenti sono presentati come un quadro generale di riferimento volto ad incoraggiare le azioni degli Stati membri e, se del caso dell’Unione, per l’attuazione di progetti di comune interesse destinati ad assicurare la coerenza, l’interconnessione e l’interoperabilità della rete transeuropea di trasporto, nonché l’accesso a tale rete, nel rispetto tuttavia delle esigenze ambientali. Un rilievo particolare hanno peraltro i «progetti prioritari», cioè quei progetti dichiarati «di interesse europeo» (e quindi oggetto di una serie di meccanismi privilegiati finalizzati alla effettiva realizzazione dei progetti stessi) che presentano caratteristiche di particolare desiderabilità, in relazione al loro grado di maturità, alla conformità con le procedure giuridiche dell’Unione e nazionali e alla disponibilità di risorse finanziarie, fatto salvo l’impegno finanziario di uno Stato membro o dell’Unione. Ai sensi del citato regolamento, inoltre, «lo sviluppo graduale della rete transeuropea dei trasporti è conseguito in particolare realizzando una struttura a doppio strato, basata su un approccio metodologico coerente e trasparente, comprendente una rete globale e una rete centrale»: la prima è costituita da tutte le infrastrutture di trasporto, esistenti e pianificate, della rete transeuropea dei trasporti, nonché da misure che ne promuovono l’uso efficiente e sostenibile sul piano sociale e ambientale; la seconda consiste di quelle parti della rete globale che rivestono la più alta importanza strategica ai fini del conseguimento degli obiettivi per lo sviluppo della rete transeuropea dei trasporti. Per facilitare poi la migliore realizzazione di alcuni progetti, la Commissione può nominare un «coordinatore europeo», normalmente designato per un unico progetto e particolarmente per quelli di carattere transfrontaliero, che agisce in nome e per conto
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della Commissione e deve riferire periodicamente a quest’ultima, al Parlamento europeo e agli Stati interessati. Quanto alle infrastrutture nel settore delle telecomunicazioni, cioè le reti elettroniche di trasmissione di dati e i servizi che le utilizzano, il primo intervento è arrivato, anche a causa della lenta liberalizzazione del settore, con maggiore ritardo, e segnatamente con la dec. 1336/97/CE, del PE e del Consiglio, del 17 giugno 1997 (GUCE L 183, 12), poi sostituito dal reg. 283/2014/UE, dell’11 marzo 2014 (GUUE L 86, 14), che ha fissato al riguardo una serie di orientamenti volti a favorire la costituzione e lo sviluppo di tali reti quali strumenti che consentono ai cittadini e alle imprese dell’Unione di fruire della circolazione e dello scambio di informazioni, e quindi di beneficiare pienamente delle possibilità offerte dalle telecomunicazioni, nella prospettiva della creazione della «società dell’informazione». Ma in materia rilevano anche altre misure, tra le quali va in particolare segnalato il reg. (CE) n. 733/2002, del PE e del Consiglio, del 22 aprile 2002 (GUCE L 113, 1), relativo alla messa in opera del dominio di primo livello «.eu»; nonché (ma fondati sull’art. 114 TFUE) il reg. n. 2015/2120, del PE e del Consiglio, del 25 novembre 2015, che stabilisce misure riguardanti l’accesso a un’Internet aperta e che modifica la dir. 2002/22/UE relativa al servizio universale e dai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica, e il reg. (UE) n. 531/2012, relativo al roaming sulle reti pubbliche di comunicazioni mobili all’interno dell’Unione (GUUE L 310, 1), modificato dal reg. (UE) n. 2017/920 del PE e del Consiglio, del 17 maggio 2017, per quanto riguarda le norme sui mercati di roaming all’ingrosso (GUUE L 147, 1).
Con riguardo, infine, alle reti transeuropee nel settore dell’energia, gli interventi dell’Unione hanno ancor più pagato i ritardi del processo di liberalizzazione della materia, a lungo e in parte tuttora limitato alle fasi dell’approvvigionamento e della vendita più che a quelle dell’installazione e dell’esercizio delle infrastrutture. I primi orientamenti dell’Unione sono arrivati quindi con la dec. 1254/96/CE, del PE e del Consiglio, del 5 giugno 1996, che stabilisce un insieme di orientamenti relativi alle reti transeuropee nel settore dell’energia (GUCE L 161, 147), abrogata poi dalla dec. 1229/2003/CE, del PE e del Consiglio, del 26 giugno 2003, che stabilisce un insieme di orientamenti relativi alle reti transeuropee nel settore dell’energia e che abroga la decisione 1254/96/CE (GUUE L 176, 1), a sua volta abrogata dalla dec. 1364/2006/CE, del PE e del Consiglio, del 6 settembre 2006, che stabilisce orientamenti per le reti transeuropee nel settore dell’energia e abroga la dec. 96/391/CE e la dec. 1229/2003/CE (GUUE L 262, 1), che, sulla scia dei progressi intanto intervenuti nel mercato interno dell’energia (v. in particolare le direttive del PE e del Consiglio, del 26 giugno 2003: 2003/54/CE, relativa a norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica e che abroga la dir. 96/92/CE; e 2003/55/CE, relativa a norme comuni per il mercato interno del gas naturale e che abroga la dir. 98/30/CE, GUCE L 176, rispettivamente 37 e 57), ha di molto innovato la materia, prevedendo anch’essa, tra l’altro, la categoria dei progetti prioritari e il ruolo del coordinatore europeo. Di recente, tuttavia, anche tale decisione è decaduta a seguito dell’adozione del reg. (UE) n. 347/2013, del PE e del Consiglio, del 17 aprile 2013, sugli orientamenti per le infrastrutture energetiche transeuropee, che abroga la dec. 1364/2006/CE e che modifica i reg. (CE) nn. 713/2009, 714/2009 e 715/2009 (GUUE L 115, 39), più volte
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modificato, che, innovando ancor più la materia, «stabilisce gli orientamenti per lo sviluppo tempestivo e l’interoperabilità delle aree e dei corridoi prioritari dell’infrastruttura energetica transeuropea» indicati dallo stesso regolamento. In particolare, esso si propone di individuare i progetti di interesse comune necessari per la realizzazione di «corridoi e aree prioritari» dell’infrastruttura energetica, rientranti nelle categorie delle infrastrutture energetiche nei settori dell’elettricità, del gas, del petrolio e dell’anidride carbonica («categorie di infrastrutture energetiche»), quali definiti dallo stesso regolamento; di facilitare l’attuazione tempestiva di progetti di interesse comune ottimizzando, coordinando più da vicino e accelerando i procedimenti di rilascio delle autorizzazioni e migliorando la partecipazione del pubblico; di fornire norme e orientamenti per la ripartizione dei costi a livello transfrontaliero e incentivi correlati al rischio per progetti di interesse comune; di determinare le condizioni per l’ammissibilità di progetti di interesse comune all’assistenza finanziaria dell’Unione. Per lo sviluppo delle reti transeuropee e la loro efficace interoperabilità, poi, il regolamento punta a garantire il coordinamento operativo tra i gestori dei sistemi di trasmissione di energia elettrica (GST) e assegna compiti supplementari all’Agenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia (v. reg. (CE) n. 713/2009 del PE e del Consiglio, del 13 luglio 2009, che istituisce tale Agenzia, GUUE L 211, 1), garantendole altresì il diritto di prelevare tasse per coprire una parte dei costi supplementari. In materia, va anche segnalato il reg. (UE) n. 526/2013 del PE e del Consiglio, del 21 maggio 2013, relativo all’Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza delle reti e dell’informazione (ENISA) e che abroga il reg. (CE) n. 460/2004 (GUUE L 165, 41), con il compito di contribuire a un elevato livello di sicurezza delle reti e dell’informazione nell’ambito dell’Unione, di sensibilizzare il pubblico riguardo alla sicurezza delle reti e dell’informazione, e di sviluppare e promuovere una cultura in materia di sicurezza delle reti e dell’informazione nella società a vantaggio dei cittadini, dei consumatori, delle imprese e delle organizzazioni del settore pubblico nell’Unione, contribuendo in tal modo alla creazione e al corretto funzionamento del mercato interno. Ma v. anche dir. 2016/1148, del PE e del Consiglio, del 6 luglio 2016, recante misure per un livello comune elevato di sicurezza delle reti e dei sistemi informativi nell’Unione (GUUE L 194, 1).
Da ultimo, e con riguardo a tutti i settori esaminati, va segnalato il reg. (UE) n. 1316/2013, del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, che istituisce il Meccanismo per collegare l’Europa (MCE) e che modifica il reg. (UE) n. 913/2010 e che abroga i reg. (CE) nn. 680/2007 e 67/2010 (GUUE L 348, 129) (poi modif. dal reg. n. 2015/2017, su cui v. infra, par. 8): a tale Meccanismo compete stabilire le condizioni, i metodi e le procedure per la concessione di un’assistenza finanziaria dell’Unione alle reti transeuropee al fine di sostenere progetti infrastrutturali di interesse comune nei settori dei trasporti, delle telecomunicazioni e dell’energia, e di sfruttare le potenziali sinergie tra tali settori rafforzando in tal modo l’efficacia dell’intervento dell’Unione e permettendo un’ottimizzazione dei costi di realizzazione. V. al riguardo Corte giust. 12 novembre 2015, C-121/14, Regno Unito c. Parlamento e Consiglio, che respinge il ricorso per l’annullamento del reg. n. 1316/2013. Tale regolamento stabilisce anche la ripartizione delle risorse da mettere a disposizione nel quadro finanziario pluriennale relativo agli anni 2014-2020, per il quale la Commissione stima un fabbisogno complessivo di 970.000 milioni di EUR fino al 2020.
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6. L’industria A differenza del TCECA e del TCEEA (Euratom), che contemplavano meccanismi di intervento pubblico rispetto alle imprese che erano o sono oggetto dell’azione delle rispettive Comunità, l’idea di una «politica industriale comune» era del tutto estranea ai redattori del TCEE, dato che nell’ideologia allora imperante prevaleva la convinzione che non la programmazione industriale, ma il libero gioco del mercato avrebbe di per sé indotto il progresso economico e, con esso, la creazione di un ambiente favorevole allo sviluppo dell’imprenditoria. Col tempo, tuttavia, soprattutto a seguito della progressiva realizzazione di uno spazio economico comune da una parte, e dell’accentuata minaccia della concorrenza internazionale dall’altra, la necessità di un sostegno alla competitività delle imprese comunitarie si fece via via strada e trovò la sua più importante espressione nel memorandum su «La politica industriale della Comunità», presentato l’8 marzo 1970 dalla Commissione, memorandum che pose le basi per l’avvio di una serie di azioni tese per l’appunto a favorire quella competitività, attraverso gli strumenti che all’epoca il Trattato offriva e quindi in modo per così dire indiretto. In sostanza, autorizzando deroghe ai divieti in materia di concorrenza e aiuti di Stato nei settori in crisi, soprattutto di sovrapproduzione e quindi con gravi riflessi sui livelli occupazionali. Il memorandum su «La politica industriale della Comunità», più noto come «Piano Colonna», perché preparato dal Commissario italiano, Guido Colonna di Paliano, fissava come obiettivi, oltre il completamento del mercato interno e l’estensione della collaborazione comunitaria al settore della ricerca e dello sviluppo tecnologico, la promozione di settori industriali innovativi e di ristrutturazioni industriali attraverso una maggiore concentrazione tra le imprese. Seguì poi il I Programma di azione della Comunità nel settore della politica industriale e tecnologica, approvato con risoluzione del Consiglio, del 17 dicembre 1973, in materia di politica industriale (GUCE 117, 1).
A quel memorandum fece seguito, sulla scia della crisi petrolifera del 1973 e della grave crisi economica di quegli anni, l’altrettanto noto «Rapporto Davignon» (v. comunicazione della Commissione del 21 giugno 1978, Boll. 8/78, suppl.), che prospettava varie misure in materia industriale in un’ottica apertamente interventista e comunque volta a favorire le condizioni per rafforzare lo sviluppo dell’attività imprenditoriale nella Comunità, con una (all’epoca non diffusa) attenzione anche per le piccole e medie imprese e per i profili sociali del mercato comune. Dopo vari altri «piani» in materia, il «Libro Bianco per il completamento del mercato unico», pubblicato dalla Commissione nel 1985, e il successivo e conseguente AUE del 1986, aprirono finalmente la strada per la previsione nel Trattato di Maastricht di una disposizione che fornisse una specifica base giuridica per l’intervento dell’Unione nella materia de qua. Questo avvenne con l’inserimento in quel Trattato dell’art. 130 TCE, divenuto, con alcune modifiche, prima l’art. 157 TCE e poi l’art. 173 TFUE, oggi in vigore. La disposizione attribuisce all’Unione, ma anche ai suoi Stati membri, il compito di assicurare le condizioni necessarie alla competitività dell’industria della stessa Unione; e ciò, evidentemente, al fine di creare le condizioni per consentire a tale industria di far fronte all’evoluzione dei processi economici e ai mutamenti indotti dal-
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la globalizzazione dei mercati e dallo sviluppo delle nuove tecnologie. E infatti la disposizione prosegue prevedendo che, per realizzare l’indicato obiettivo, l’Unione deve mirare, nell’ambito di un sistema di mercati aperti e concorrenziali: ad accelerare l’adattamento dell’industria alle trasformazioni strutturali; a promuovere un ambiente favorevole all’iniziativa e allo sviluppo delle imprese di tutta l’Unione, segnatamente delle piccole e medie imprese; a promuovere un ambiente favorevole alla cooperazione tra imprese; a favorire un migliore sfruttamento del potenziale industriale delle politiche d’innovazione, di ricerca e sviluppo tecnologico (art. 173, par. 1, TFUE). Per la realizzazione di tali compiti, peraltro, l’Unione non dispone, come esplicitamente chiarisce l’art. 6, lett. b), TFUE, che di una competenza «parallela», nel senso a suo tempo precisato (p. 426 s.): essa, cioè, può solo sostenere, coordinare e completare l’azione degli Stati membri, nel rispetto dei principio di proporzionalità e sussidiarietà. E infatti la disposizione si limita a prevedere che l’Unione, oltre a «contribuire» alla realizzazione degli indicati obiettivi «attraverso politiche ed azioni da essa attuate ai sensi di altre disposizioni dei Trattati» (quelle ad esempio relative alla concorrenza, alla politica commerciale, all’ambiente, alla ricerca o, in particolare, alla coesione economica e sociale), può, con procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale, anche decidere misure specifiche sulla base della specifica competenza istituita dall’art. 173 TFUE, ma ciò al solo fine di «sostenere» le azioni svolte negli Stati membri e, come sempre per tale tipo di competenze, «ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri». Inoltre, le istituzioni dell’Unione non possono valersi della competenza di cui si discute per introdurre una «qualsivoglia misura che possa comportare distorsioni di concorrenza o che comporti disposizioni fiscali o disposizioni relative a diritti ed interessi dei lavoratori dipendenti» (par. 3, comma 2). Proprio in considerazione di tale natura della competenza dell’Unione in materia, il Trattato si preoccupa di imporre agli Stati membri l’obbligo di consultarsi reciprocamente in collegamento con la Commissione e, per quanto necessario, di coordinare le loro azioni, restando inteso che la stessa Commissione, informandone pienamente il Parlamento europeo, può prendere ogni iniziativa utile a promuovere detto coordinamento: «in particolare iniziative finalizzate alla definizione di orientamenti e indicatori, all’organizzazione di scambi di migliori pratiche e alla preparazione di elementi necessari per il controllo e la valutazione periodici» (par. 2). Ma oltre che dell’indicato ruolo degli Stati membri, occorre tener conto, in questa materia, anche del fatto che, in un contesto economico che non vuole essere dirigista (ma che non dovrebbe essere neppure meramente assistenziale), alla realizzazione di quegli obiettivi concorrono naturalmente, e con un ruolo determinante, le stesse imprese, che devono ugualmente poter fare la loro parte, senza vedersi private della libertà di iniziativa economica: non a caso, del resto, si è parlato al riguardo di una «doppia sussidiarietà», per segnalare per l’appunto questo specifico profilo della materia e la subordinazione degli interventi dell’Unione al doppio filtro, dello Stato e delle imprese, quanto alla valutazione della sua portata e della sua necessarietà ed efficacia. In conformità a quanto precede, l’intervento dell’Unione si è quindi espresso in questo settore essenzialmente attraverso la predisposizione di programmi di azione,
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volti a definire le linee-guida per la realizzazione degli indicati obiettivi dell’Unione e che si sono susseguiti, e tuttora si susseguono in numero rilevante, anche se con efficacia inversamente proporzionale. V., tra i più recenti, quelli del 16 luglio 2008, Produzione e consumo sostenibili e Politica industriale sostenibile (COM (2008) 397 def.); 3 marzo 2010, Europa 2020: una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva (COM (2010) 2020 def.); 28 ottobre 2010, Una politica industriale integrata per l’era della globalizzazione. Riconoscere il ruolo centrale di concorrenza e sostenibilità (COM (2010) 614 def.); 14 ottobre 2011, La politica industriale: rafforzare la competitività (COM (2011) 642 def.); 22 gennaio 2014, Per una rinascita industriale europea (COM(2014) 14 def.); 19 aprile 2016, Digitalizzazione dell’industria europea: Cogliere appieno i vantaggi di un mercato unico digitale (COM(2016) 180 def.).
Non è il caso ovviamente di dilungarsi qui sui dettagli di tali programmi. Un rapido cenno va però fatto, all’azione che l’Unione, in conformità del resto alle esplicite previsioni dello stesso art. 173 TFUE, ha condotto e conduce in favore delle piccole e medie imprese (PMI), e ciò specie in considerazione del ruolo chiave per l’economia dell’Unione di un settore che ancora recentemente assorbiva (e forse tuttora assorbe) gran parte delle aziende europee e i 2/3 della forza lavoro, ma che sconta molte difficoltà di natura tecnica, amministrativa e finanziaria, aggravate dalla concorrenzialità indotta dalla stessa realizzazione del mercato unico e, oggi, dalla dura crisi economico-finanziaria che colpisce l’Europa. La nozione di PMI si ricollega ad una serie di indici quantitativi relativi al numero di dipendenti, alla cifra di affari ed al bilancio annuale, forniti dalla raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, del 6 maggio 2003, relativa alla definizione delle microimprese, piccole e medie imprese (GUUE L 124, 32), che ha sostituito la precedente raccomandazione 96/280/CE, del 30 aprile 1996 (GUCE L 107, 4). Su di essa, v. Corte giust. 27 febbraio 2014, C-110/13, HaTeFo.
Trascurando programmi e interventi più risalenti, va qui ricordato in particolare il Programma pluriennale a favore dell’impresa e dell’imprenditorialità (2001-2005) e soprattutto la dec. 1639/2006/CE, del PE e del Consiglio, del 24 ottobre 2006 (GUUE L 310, 15), che istituisce un programma quadro per la competitività e l’innovazione (2007-2013), destinato a perseguire tali obiettivi anche con il sostegno di vari strumenti finanziari, gestiti dal Fondo europeo per gli investimenti (FEI), di cui si dirà al prossimo paragrafo. V. dec. 2000/819/CE del Consiglio, del 20 dicembre 2000 (GUCE L 333, 84), poi modificata dalla dec. 1776/2005/CE del PE e Consiglio (GUUE L 289, 14), che aveva prorogato il programma quadro al 2006. Il Programma tendeva, tra l’altro, a rafforzare la competitività delle PMI, favorendo la creazione di un più agevole quadro normativo, amministrativo e finanziario e un più efficace sistema di cooperazione tra le imprese, stimolando le potenzialità offerte dai nuovi sistemi di conoscenza e migliorando, conseguentemente, l’accesso ai servizi di supporto, ai programmi e alle reti. Quanto agli strumenti finanziari, essi mirano a favorire le PMI che impiegano nuove tecnologie e determinano la nascita di posti di lavoro durevoli (GIF); a rafforzare il sistema delle garanzie per le PMI per l’accesso al credito (SMEG); ad incoraggiare lo sviluppo delle capacità delle PMI (CBS), con il sostegno anche della BEI, della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo e della Banca di sviluppo del Consiglio d’Europa.
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Nel quadro di detto programma, il 25 giugno 2008 la Commissione ha adottato una comunicazione avente ad oggetto lo Small Business Act for Europe (SBA) (COM (2008) 394 def., «Pensare anzitutto in piccolo (Think Small First). Uno Small Business Act per l’Europa», poi più volte rivisto, che ha previsto una serie di iniziative per ridurre gli oneri amministrativi a carico delle PMI e per favorirne lo sviluppo, il finanziamento e l’accesso a nuovi mercati. Nello stesso periodo è stata altresì istituita la rete Enterprise Europe Network («rete»), volta a fornire servizi integrati di sostegno alle imprese per le PMI dell’Unione che vogliono esplorare le opportunità offerte dal mercato interno e dai paesi terzi, e creato un Istituto europeo d’innovazione e tecnologia (EIT). Reg. (CE) n. 294/2008 del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2008, che istituisce tale Istituto (GUUE L 97, 1), cui ha fatto seguito la dec. 1312/2013/UE del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, relativa all’agenda strategica per l’innovazione (ASI) dell’Istituto: il contributo dell’EIT a un’Europa più innovativa (GUUE L 347, 892). Grazie alle azioni intraprese nell’ambito dello SBA sono stati realizzati numerosi, significativi interventi a vantaggio delle PMI. Basti pensare alla dir. 2011/7/UE di PE e Consiglio, adottata il 16 febbraio 2011 (GUUE L 14, 1), la quale, per contrastare la prassi delle pubbliche amministrazioni di provvedere con gravi ritardi ai pagamenti alle imprese per i crediti dalle stesse maturate nei loro confronti, impone a dette amministrazioni di procedere al pagamento dei propri fornitori entro 30 giorni, prevedendo altresì un limite di 60 giorni per i pagamenti tra imprese.
Ulteriori iniziative sono peraltro intervenute o sono ancora in corso, sulla spinta della più recente comunicazione della Commissione, Europa 2020: una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, del 3 marzo 2010 (COM (2010) 2020 def.), che punta al sostegno dell’occupazione, della produttività e della coesione sociale in Europa, ancora una volta per far fronte alle sfide della globalizzazione e dei cambiamenti climatici, nonché alle conseguenze della crisi economico-finanziaria di questi anni. In particolare, va segnalato il reg. (UE) n. 1287/2013, del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, che istituisce un programma per la competitività delle imprese e le piccole e le medie imprese (COSME) (2014-2020), il quale istituisce un (ennesimo …) programma quadro per la competitività e l’innovazione (GUUE L 347, 33); reg. n. 1291/2013, del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, che istituisce il programma quadro di ricerca e innovazione (2014-2020 – Orizzonte 2020) e abroga la dec. 1982/2006/CE (GUUE L 347, 104); reg. n. 1316/2013, del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, che istituisce il meccanismo per collegare l’Europa e che modifica il reg. (UE) n. 913/2010 e abroga i reg. (CE) n. 680/2007 e (CE) n. 67/2010; reg. n. 2015/1017, del PE e del Consiglio, del 25 giugno 2015, relativo al Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS), al polo europeo di consulenza sugli investimenti e al portale dei progetti di investimento europei (GUUE L 169, 1).
7. La coesione economica, sociale e territoriale La «politica di coesione» ha la dichiarata finalità di ridurre le disparità nei livelli di reddito e di sviluppo esistenti tra le varie aree dell’Unione, nella convinzione che
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ciò vada a vantaggio dell’intero edificio sul piano dell’occupazione, della competitività e della crescita economica. Com’è noto, tale politica non fu inizialmente tra le principali preoccupazioni dei fondatori della Comunità europea, ma l’esigenza di tener conto delle situazioni di squilibrio già esistenti e che rischiavano di aggravarsi, o addirittura sopravvenire, a seguito della realizzazione del mercato comune, emerse ben presto, anche se bisognò aspettare gli anni Settanta per assistere alle prime, timide espressioni di quella che poi è stata qualificata per l’appunto come politica di coesione economica e sociale della Comunità. Solo nel 1975, infatti, fu creato, accanto ai preesistenti Fondi settoriali, ossia il Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia, e il Fondo sociale europeo (rispettivamente, FEAOG e FSE), un Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), che segnò l’inizio di quella che fu allora qualificata, con una certa enfasi, la «politica regionale della Comunità». In assenza, come si è appena rilevato, di una specifica base giuridica, tale politica fu varata grazie alla c.d. clausola di flessibilità (allora art. 235 TCEE, ora art. 352 TFUE: supra, p. 415 ss.), sulla quale fu fondato il reg. (CEE) n. 724/75 del Consiglio, del 18 marzo 1975 (GUCE L 73, 1), che istituiva un Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), gestito dalla Commissione con l’assistenza del Comitato di politica regionale, creato con la contestuale dec. 75/185/CEE (GUCE L 73, 47). A proposito delle origini della politica di coesione, va considerato che alla fine degli anni ‘50 solo l’Italia aveva, nel Mezzogiorno, un serio problema di ritardi nella crescita, anche se poi, con l’adesione del Regno Unito e dell’Irlanda (1973), le aree interessate aumentarono sensibilmente (Scozia e Galles per il primo, da un lato; l’intera Irlanda, dall’altro), e ancor più aumentarono ovviamente dopo le successive adesioni. I riferimenti nell’originario TCEE all’esigenza di uno sviluppo armonioso della Comunità e ai problemi connessi agli squilibri strutturali esistenti nella stessa erano quindi sporadici e indiretti, malgrado che perfino nel pur sobrio Preambolo di quel Trattato si evocasse la necessità di ridurre «le disparità fra le differenti regioni e il ritardo di quelle meno favorite». A quella esigenza facevano, ad es., riferimento alcune disposizioni in materia di agricoltura, trasporti e aiuti di Stato (v. ad es. artt. 39, par. 2, lett. a); 80, par. 2; 92, par. 2, lett. c), e par. 3, lett. a) e c)), mentre la BEI si vedeva affidato, tra i compiti principali, proprio quello di contribuire al finanziamento di «progetti contemplanti la valorizzazione delle regioni meno sviluppate» (art. 130, lett. a), e ciò, segnatamente, grazie al Protocollo concernente l’Italia (allegato al Trattato), che le chiedeva di sostenere, insieme con il Fondo sociale europeo (FSE), le iniziative volte a «sanare gli squilibri strutturali dell’economia italiana, in particolare grazie all’attrezzatura delle zone meno sviluppate del Mezzogiorno e nelle Isole e alla creazione di nuovi posti di lavoro per eliminare la disoccupazione».
Ma è con l’AUE che la materia fa il suo ingresso nel corpo del TCE, grazie all’inserimento nello stesso di uno specifico Titolo, dedicato alla «Coesione economica e sociale» (artt. 130A-130E), che è stato poi riproposto, con progressivi affinamenti e arricchimenti (v. in particolare la previsione, nell’art. 130D del Trattato di Maastricht, di un Fondo di coesione), in tutti i successivi Trattati di revisione. In particolare, il Trattato di Lisbona, riprendendo in larga parte i precedenti testi, non solo evoca la coesione già nel Preambolo del TUE, ma la colloca tra gli obiettivi generali dell’Unione e in più l’arricchisce di una dimensione «territoriale», provvedendo altresì a precisare che la materia rientra tra le competenze concorrenti dell’Unione. Per la disciplina sostanziale della materia, invece, soccorre anche qui un apposito titolo: il Titolo XVIII (artt. 174-178 TFUE).
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V. art. 3, par. 3, comma 3, TUE: l’Unione «promuove la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà tra gli Stati membri». L’inserimento della materia tra gli obiettivi dell’Unione comporta l’applicazione del principio di coerenza tra le varie politiche e azioni dell’Unione di cui all’art. 7 TFUE, cui corrisponde l’art. 175, comma 1, TFUE, secondo cui, come ancora vedremo, gli obiettivi della politica di coesione devono essere rispettati dagli Stati membri nella loro politica economica e di essi devono tener conto tutte le politiche ed azioni dell’Unione. Per la riconduzione della coesione tra le competenze concorrenti dell’Unione, v. art. 4, par. 2, lett. c), TFUE. Alla materia fa altresì riferimento l’art. 14 TFUE, quando sottolinea l’importanza del ruolo dei servizi di interesse economico generale per la promozione della coesione (idea ripresa anche dall’art. 36 Carta dir. fond.), nonché l’art. 326, comma 2, TFUE, il quale stabilisce che eventuali cooperazioni rafforzate «non possono recare pregiudizio né al mercato interno né alla coesione economica, sociale e territoriale». Alla materia in esame, inoltre, è dedicato il Protocollo (n. 28) sulla coesione economica, sociale e territoriale, allegato al Trattato, il quale, dopo aver ribadito che la coesione è di «vitale importanza per il pieno sviluppo e il durevole successo dell’Unione», enuncia una serie di principi cui quest’ultima deve attenersi nel perseguimento di detta politica.
Il Titolo si apre con una sorta di articolo-manifesto, che enuncia solennemente l’impegno dell’Unione nella materia de qua: «[p]er promuovere uno sviluppo armonioso dell’insieme dell’Unione, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale. In particolare l’Unione mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite» (art. 174, commi 1 e 2, TFUE). Tra queste, un’attenzione particolare va rivolta alle zone rurali, alle zone interessate da transizione industriale e alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali o demografici, quali le regioni più settentrionali con bassissima densità demografica e le regioni insulari, transfrontaliere e di montagna (comma 3). Questo comma è stato inserito dal Trattato di Lisbona. In precedenza, l’art. 158 TCE si limitava a continuare il testo del citato comma 2 della disposizione con la formula «o insulari, comprese le zone rurali». A loro volta, le dichiarazioni n. 26 sulle regioni ultraperiferiche e n. 30 sulle regioni insulari, allegate rispettivamente al Trattato di Maastricht ed al Trattato di Amsterdam, prevedevano la possibilità di misure specifiche per quelle aree. Il nuovo comma assorbe quei riferimenti e li generalizza, a favore questa volta di tutti gli Stati membri, dato che in ciascuno di essi possono rinvenirsi situazioni quali quelle descritte nella disposizione. Va ancora aggiunto che un’apposita Dichiarazione allegata al Trattato di Lisbona (Dichiarazione n. 33) precisa che «regione insulare» può essere anche uno Stato insulare nella sua interezza, «a condizione che siano rispettati i criteri necessari».
Tutte le politiche e le azioni dell’Unione devono tener conto, come già si è accennato, di tali obiettivi e concorrere alla loro realizzazione, e in questa direzione devono convergere gli stessi Stati membri, anche coordinandosi tra loro, quando definiscono e conducono la loro politica economica. Più specificamente, l’azione dell’Unione in questa materia, che, ripetiamo, è espressione di una competenza «concorrente», si esplica soprattutto attraverso gli appositi strumenti di cui diremo subito, ma può anche valersi di tutte le competenze di cui le istituzioni godono ad altro titolo, e, all’occorrenza, di «azioni specifiche», che il legislatore dell’Unione è abilitato ad adottare con procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni.
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Art. 175, commi 1 e 3, TFUE. A titolo di «azioni specifiche» ai sensi di tale disposizione (o delle corrispondenti norme dei precedenti Trattati) sono stati adottati alcuni importanti provvedimenti, tra i quali ricordiamo in particolare l’istituzione, a seguito di alcune gravi calamità naturali, del Fondo di solidarietà (FES) (reg. (CE) n. 2012/2002 del Consiglio, dell’11 novembre 2002, GUCE L 311, 3); e del Gruppo europeo di cooperazione territoriale (GECT), volto a favorire azioni di cooperazione transfrontaliera, transnazionale e interregionale tra gli Stati membri: reg. (CE) n. 1082/2006 del PE e del Consiglio, del 5 luglio 2006, GUCE L 210, 19, da ultimo modificato dal reg. (UE) n. 1302/2013 del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, GUUE L 347, 303. Ulteriori misure «specifiche» rilevanti in materia sono state adottate invece sul fondamento di altre basi giuridiche: è il caso, ad es., della decisione che autorizzò la partecipazione dell’Unione al capitale del Fondo europeo per gli investimenti (FEI), di cui si è detto al par. precedente, adottata sulla base dell’art. 235 TCE (ora 352 TFUE) (dec. 94/375/CE del Consiglio, del 6 giugno 1994, GUCE L 173, 12).
Lo strumento principale apprestato per la realizzazione della politica in esame restano però i c.d. fondi strutturali, termine con il quale si designano appunto una serie di strumenti finanziari istituiti nel corso del tempo, e non solo nel quadro specifico della coesione, per sostenere lo sviluppo di alcune attività o di alcune aree geografiche e/o produttive. Lo stesso art. 175, comma 1, TFUE ricorda infatti che l’Unione «appoggia» la politica di coesione con l’azione che essa svolge «attraverso fondi a finalità strutturale (Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia, sezione “orientamento”, Fondo sociale europeo, Fondo europeo di sviluppo regionale), la Banca europea per gli investimenti e gli altri strumenti finanziari esistenti». Sul funzionamento dei vari fondi, come vedremo, gioca un ruolo essenziale la Commissione. Qui va solo ricordato che essa deve presentare ogni tre anni al PE, al Consiglio, al CES e al CDR una relazione (e, se del caso, appropriate proposte) sui progressi compiuti in materia di coesione e sul modo in cui i vari strumenti predisposti al riguardo vi hanno contribuito (art. 175, comma 2, TFUE).
Del FEAOG e del FSE si è già detto in parte nelle relative sedi (pp. 474 e 760 s.), e del pari si è già detto della BEI. Quanto agli strumenti più specificamente finalizzati alla politica in esame, quello di gran lunga più importante è certamente il FESR (e questo anche in termini quantitativi, visto che il Fondo assorbe più della metà dei finanziamenti destinati alla coesione economica e insieme al Fondo di coesione, su cui infra, quasi un terzo del budget complessivo dell’Unione), che, come anticipato, fu alle origini nel 1975 di detta politica, e che è stato istituito appunto al fine di contribuire, come precisa l’art. 176 TFUE, «alla correzione dei principali squilibri regionali esistenti nell’Unione, partecipando allo sviluppo e all’adeguamento strutturale delle regioni in ritardo di sviluppo nonché alla riconversione delle regioni industriali in declino». Appositi atti di applicazione dell’art. 176 TFUE sono poi previsti per definire le regole di funzionamento del Fondo. Mentre per il FEAOG e il FSE, la relativa normativa di applicazione è definita sulla base delle specifiche disposizioni (rispettivamente gli artt. 43 e 164 TFUE), per il FESR è l’art. 178 TFUE a prevedere che al riguardo provvede il legislatore dell’Unione con regolamenti adottati secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del CES e del CDR. Di questi, a parte quanto diremo tra breve sul coordinamento dei Fondi strutturali, ricordiamo i reg. (CE) del PE e del
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Consiglio: n. 1080/2006, del 5 luglio 2006, relativo al Fondo europeo di sviluppo regionale e recante abrogazione del reg. (CE) n. 1783/1999 (GUUE L 210, 1); ora sostituito dai regolamenti (UE) n. 1299/2013, recante disposizioni specifiche per il sostegno del Fondo europeo di sviluppo regionale all’obiettivo di cooperazione territoriale europea; e n. 1301/2013, relativo al Fondo europeo di sviluppo regionale e a disposizioni specifiche concernenti l’obiettivo «Investimenti a favore della crescita e dell’occupazione» e che abroga il reg. (CE) n. 1080/2006 (ma il regolamento si occupa anche dell’obiettivo della cooperazione territoriale europea).
Come si è visto, peraltro, l’art. 175, comma 1, TFUE, oltre che del FESR, parla anche di «altri strumenti finanziari», che sono stati in effetti istituiti per sostenere varie iniziative e programmi dell’Unione, ma sono stati poi quasi tutti assorbiti dai fondi di cui abbiamo parlato prima. Oggi essi includono essenzialmente il Fondo di coesione (FC), istituito nel 1994, che assicura l’erogazione di contributi finanziari a progetti in materia di ambiente (specie per l’adeguamento ai cambiamenti climatici e la prevenzione dei rischi), di reti transeuropee delle infrastrutture dei trasporti e della relativa assistenza tecnica. I contributi sono però riservati agli Stati membri (e non alle regioni) il cui PNL pro capite sia inferiore al 90% rispetto alla media dell’Unione a 28, e purché abbiano predisposto un programma per conformarsi alle condizioni di convergenza economica di cui all’art. 126 TFUE (retro, p. 686 s.), pena in caso diverso, la sospensione dei contributi fino al ristabilimento della convergenza. Cfr. art. 177, comma 2, TFUE. Come si è detto, il FC era già previsto dal Trattato di Maastricht che abilitava il Consiglio in tal senso (art. 130 D), ma nelle more della ratifica di tale Trattato fu provvisoriamente adottato, sulla base dell’art. 235 TCEE (ora art. 352 TFUE), uno strumento finanziario di coesione (reg. (CE) n. 792/93 del Consiglio, del 30 marzo 1993, GUCE L 79, 74). Entrato in vigore il Trattato di Maastricht, fu possibile varare definitivamente il FC, grazie all’apposita base giuridica: v. reg. (CE) n. 1164/94 del Consiglio, del 16 maggio 1994 (GUCE L 130, 1), più volte modificato, poi sostituito dal reg. (CE) n. 1084/2006 del Consiglio, dell’11 luglio 2006 (GUUE L 210, p. 79), a sua volta abrogato e sostituito dal reg. (UE) n. 1300/2013 del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, relativo al Fondo di coesione e che abroga il reg. (CE) n. 1084/2006 del Consiglio (GUUE L 347, 281). Ma rileva in materia, come tra breve vedremo, anche la disciplina comune di cui al reg. (UE) n. 1303/2013, del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, recante disposizioni comuni sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione, sul Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca e disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo, sul Fondo di coesione e sul Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca, e che abroga il reg. (CE) n. 1083/2006 del Consiglio, tutti del 17 dicembre 2013 (GUUE L 347, 320).
Peraltro, la moltiplicazione dei fondi destinati, pur nella specificità di ciascuno, a concorrere al medesimo obiettivo della coesione ha imposto col tempo un coordinamento e una razionalizzazione degli stessi, al fine di assicurare una sinergia che ne accrescesse l’efficacia ed evitasse duplicazioni e dispersioni degli interventi. Lo stesso Trattato del resto ha predisposto gli strumenti all’uopo necessari, abilitando il legislatore dell’Unione ad adottare, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, appositi regolamenti volti a definire «i compiti, gli obiettivi prioritari e l’organizzazione dei fondi a finalità strutturale, elemento quest’ultimo che può compor-
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tare il raggruppamento dei Fondi. Sono inoltre definite, secondo la stessa procedura, le norme generali applicabili ai Fondi, nonché le disposizioni necessarie per garantire l’efficacia ed il coordinamento dei fondi tra loro e con gli altri strumenti finanziari esistenti». V. art. 177, comma 1, TFUE, disposizione che si ritrovava già nell’AUE, ma ha subito varie modifiche, specie quanto alle modalità della procedura di decisione, nel corso delle successive revisioni. La prassi aveva confermato gli inevitabili guasti di una frammentazione nell’utilizzazione dei fondi, ma anche i vantaggi indotti dal loro coordinamento. Esiti abbastanza positivi avevano infatti dato il c.d. Nuovo strumento comunitario (NIC), istituito con dec. 78/870/CEE del Consiglio, del 16 ottobre 1978 (GUCE L 298, 9), volto a sostenere le piccole e medie imprese; i Programmi integrati mediterranei (PIM) (reg. (CEE) n. 2088/85 del Consiglio, del 23 luglio 1985, GUCE L 197, 1); le c.d. Operazioni integrate (reg. (CEE) n. 1787/84 del Consiglio, del 19 giugno 1984, GUCE L 169, 1); e le c.d. Iniziative comunitarie (reg. (CEE) n. 4253/1988 del Consiglio, del 19 dicembre 1988, GUCE L 374, 1), che furono all’origine di importanti programmi, come ad es. quelli di cooperazione transfrontaliera (INTERREG) e di rivitalizzazione di aree urbane (URBAN) o rurali (LEADER).
Su questa base, si sono susseguiti nel corso del tempo numerosi atti con i quali il legislatore dell’Unione ha via via adattato la disciplina della materia all’evoluzione della situazione e alle esperienze maturate nella prassi. Facendo tesoro dell’esperienza maturata con le iniziative coordinate di cui si è appena detto, la Comunità formulò la prima regolamentazione organica della materia per il periodo 1989-1993 con i reg. (CE) del Consiglio n. 2052/1988, del 24 giugno 1988 (GUCE L 185, 9), e n. 4253/1988, del 19 dicembre 1988 (GUCE L 374, 1), cui fece seguito il reg. (CE) n. 1260/1999 del Consiglio, del 21 giugno 1999 (GUCE L 213, 1) e poi il reg. (CE) n. 1083/2006 del PE e del Consiglio, dell’11 luglio 2006 (GUUE L 210, 25), recante disposizioni generali sul Fondo europeo di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo e sul Fondo di coesione e che abroga il reg. (CE) n. 1260/1999 (GUUE L 210, 25), il quale ha lungamente disciplinato la materia, definendo l’azione dei fondi per il periodo 2007-2013. Delle modalità di applicazione del reg. n. 1083/2006 si occupò il reg. (CE) n. 1828/2006, della Commissione, dell’8 dicembre 2006 (GUUE L 371, 1), il quale, a sua volta, riordinò una serie di strumenti normativi relativi a specifici profili dei Fondi. Va anche notato che in occasione della riforma del 2006, le risorse a questi destinate, che in precedenza avevano registrato una progressiva erosione, furono invece significativamente aumentate.
Un folto pacchetto di misure è poi intervenuto nel 2013 per aggiornare la pertinente normativa dei Fondi e definirne l’applicazione per il periodo 2014-2020, ma anche per dare concretezza, su questo versante e nel contesto del quadro finanziario pluriennale (QFP) 2014-2020 (reg. UE, Euratom, n. 1311/2013 del Consiglio, del 2 dicembre 2013, GUUE L 347, 884), agli obiettivi della c.d. strategia Europa 2020, destinata a promuovere, come già accennato, una crescita «intelligente, sostenibile e inclusiva» (conclusioni del Consiglio europeo del 25 e 26 marzo 2010). Una strategia che vuole, tra l’altro, collocare la politica di coesione nel contesto dell’attuale crisi economica e finanziaria dell’Unione, sia per far fronte alle ricadute della stessa sulle condizioni economiche delle regioni meno favorite e suscettibili di subire più di altre i contraccolpi della crisi, specie sul piano occupazionale, sia per farne un ulteriore strumento di pressione sugli Stati membri oggetto di sorveglianza ai sensi degli artt.
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121 e 126 TFUE (retro, p. 680 ss.), per indurli, attraverso una rigorosa condizionalità, ad orientarne la politica fiscale in direzione di un effettivo risanamento. Il pacchetto (modificato poi dal reg. UE n. 2017/825, del PE e del Consiglio, del 17 maggio 2017, GUUE L 129, 1) si impernia sul già citato reg. 1303/2013 e su una serie di altri regolamenti volti a disciplinare specifici aspetti della materia. Si tratta, in particolare, oltre che dei già menzionati reg. nn. 1299/2013, 1300/2013, 1301/2013 e 1302/2013, dei reg. (UE) del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013: n. 1296/2013, relativo a un programma dell’Unione europea per l’occupazione e l’innovazione sociale («EaSI») e recante modifica della dec. 283/2010/UE, che istituisce Progress, cioè uno strumento europeo di microfinanza per l’occupazione e l’inclusione sociale (GUUE L 347, 238); n. 1297/2013, recante modifica del reg. (CE) n. 1083/2006 del Consiglio per quanto attiene a talune disposizioni relative alla gestione finanziaria per alcuni Stati membri che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà relativamente alla loro stabilità finanziaria, alle norme di disimpegno per alcuni Stati membri, e alle norme relative ai pagamenti del saldo finale; n. 1298/2013, che modifica il reg. (CE) n. 1083/2006 del Consiglio per quanto riguarda la dotazione finanziaria del Fondo sociale europeo per alcuni Stati membri; e del 17 dicembre 2013; n. 1309/2013, sul Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (2014-2020) e che abroga il reg. (CE) n. 1927/2006 (GUUE L 347, rispettivamente, 238, 253, 256 e 833). Vanno altresì segnalati, in tale contesto, ancorché fondati su altra base giuridica, i reg. del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2013: n. 1304/2013, relativo al Fondo sociale europeo e che abroga il reg. (CE) n. 1081/2006 del Consiglio; n. 1305/2013, sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) e che abroga il reg. (CE) n. 1698/2005 del Consiglio (GUUE L 347, rispettivamente 470 e 487); reg. (UE) delegato n. 1299/2013, della Commissione, del 17 dicembre 2013, recante disposizioni specifiche per il sostegno del Fondo europeo di sviluppo regionale all’obiettivo di cooperazione territoriale europea (GU L 347 del 20 dicembre 2013, p. 259).
La nuova normativa, come precisa l’art. 1 del reg. n. 1303/2013, «stabilisce le norme comuni applicabili al Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), al Fondo sociale europeo (FSE), al Fondo di coesione (FC), al Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) e al Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP), che operano nell’ambito di un quadro comune (“fondi strutturali e di investimento europei – Fondi SIE”), [nonché] le disposizioni necessarie per garantire l’efficacia dei Fondi SIE e il coordinamento dei Fondi tra loro e con altri strumenti dell’Unione». Ma oltre alle norme comuni applicabili ai fondi SIE, il regolamento detta le norme generali che disciplinano i compiti, gli obiettivi prioritari e l’organizzazione dei Fondi strutturali (FESR e il FSE) e del FC, nonché i criteri che gli Stati membri e le regioni sono tenuti a soddisfare per essere ammissibili al sostegno dei Fondi, le risorse finanziarie disponibili e i criteri per la loro ripartizione; come pure le norme generali applicabili ai fondi strutturali e al FEAMP. Conformemente alla funzione a esse assegnate, come si è visto, dall’art. 177 TFUE, le misure in questione provvedono dunque al coordinamento dei Fondi, alla definizione di compiti, organizzazione e obiettivi di ciascuno di essi, alle modalità del loro funzionamento, alle risorse finanziarie disponibili, ai criteri per la relativa ripartizione, all’ammissibilità degli interventi, ai meccanismi di erogazione, alle modalità di verifica e controllo, e così via. In proposito, le misure intervenute nel corso di questi decenni, e la relativa prassi di applicazione, hanno conformato la materia secondo alcuni principi di base che si sono via via affinati ed hanno ispirato tutti i successivi passaggi della relativa normativa, anche di quella più recente.
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Per ricordarne molto sinteticamente i principali, si possono menzionare: il principio della convergenza fra le economie degli Stati membri e delle regioni in ritardo di sviluppo, che costituisce la stessa ragion d’essere di tutti i fondi strutturali e che viene perseguita in funzione di obiettivi precisati nei vari programmi e aggiornati in funzione delle esigenze che via via emergono; il principio della concentrazione e del coordinamento dei vari Fondi e degli altri interventi dell’Unione, insieme con quelli di coerenza e di efficienza dell’azione degli stessi; il principio della conformità della loro gestione alle decisioni e alle priorità dell’Unione, vale a dire agli indirizzi di massima delle politiche economiche e agli orientamenti del Consiglio per l’occupazione, oltre che ovviamente, e in generale, al diritto dell’Unione; i principi di sussidiarietà e proporzionalità, che svolgono un ruolo cardine in una politica che vede comunque anzitutto gli Stati membri come protagonisti per la realizzazione delle relative finalità; il principio della complementarietà tra l’azione di quest’ultima e quella degli Stati membri (a livello nazionale, regionale e locale), in conformità alla natura della competenza in esame quale competenza parallela; il principio della programmazione nell’impiego delle risorse dei Fondi, attraverso la pianificazione degli interventi su base pluriennale e la fissazione di priorità, condizioni e modalità, e ciò secondo orientamenti strategici per la coesione economica, sociale e territoriale definiti dal Consiglio con il c.d. Quadro strategico comune (QSC), condivisi con lo Stato membro interessato e definiti in un quadro di riferimento generale a livello europeo e in piani operativi nazionali; il principio del partenariato, in base al quale i Fondi operano nel quadro di una stretta cooperazione tra la Commissione e i singoli Stati membri interessati, con l’obiettivo di coinvolgere nella programmazione e nella gestione dei Fondi non solo le varie istituzioni pubbliche e le categorie economiche interessate, ma anche la società civile nelle sue diverse articolazioni; il principio della condizionalità, che subordina la concessione dei contributi al rispetto delle condizioni fissate nell’accordo di partenariato (nel nuovo sistema è stata introdotta anche la condizionalità ex ante, che comporta il rispetto delle condizioni concordate già al momento della approvazione del contratto di partenariato); i principi del cofinanziamento, che comporta il contestuale impegno di risorse nazionali nella realizzazione di alcuni programmi europei, in modo da rendere per l’appunto complementare il sostegno finanziario dell’una con quello degli altri; il connesso principio dell’addizionalità, che impone comunque una partecipazione finanziaria dello Stato, e quindi una sua responsabilizzazione negli interventi per lo sviluppo delle proprie aree svantaggiate; il principio della gestione concorrente tra Unione e Stati membri anche nelle procedure per la concessione dei contributi e nella gestione dei programmi; il principio del controllo congiunto della Commissione e degli Stati membri sul rispetto delle regole sostanziali e procedurali vigenti in materia, ma soprattutto quanto alla responsabilità e ai poteri della prima nel trarre le conseguenze da eventuali violazioni di quelle regole e adottare le misure conseguenti. Quanto al principio della convergenza fra le economie, si pensi ad es. agli obiettivi che il FESR si è fissato per quanto riguarda lo sviluppo della competitività regionale e dell’occupazione, nonché a quello della cooperazione territoriale europea, volto a rafforzare la cooperazione transfrontaliera, transnazionale e interregionale. Peraltro, come si è detto, tali obiettivi sono stati adattati in funzione dell’emergenza di nuove esigenze (basti ricordare ad es. l’ambiente, i cambiamenti clima-
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tici, le opportunità offerte dallo sviluppo tecnologico e della società dell’informazione e della conoscenza, l’evoluzione della situazione delle aree urbane e rurali, e così via), ma anche degli stessi sviluppi del processo d’integrazione. Così, se inizialmente le regioni che beneficiavano del FESR erano quelle con un PIL pro capite inferiore al 75% del PIL medio dell’Unione (c.d. livello NUTS II), il criterio fu rivisto in ragione dell’adesione di Stati i cui livelli di reddito molto bassi avrebbero portato all’esclusione di molte delle «vecchie» regioni, che, pur restando in ritardo di sviluppo, si sarebbero trovate al di sopra di quel livello e quindi escluse dal sostegno dei FESR. È stato così previsto un periodo transitorio per continuare ad ammettere al finanziamento alcune di quelle regioni. Analoga logica è stata seguita per i contributi del FC. Quanto alla coerenza tra politica di coesione e governance economica dell’Unione, specie in relazione alla gestione dei Fondi in funzione del rispetto dei vincoli imposti agli Stati assistiti per il mantenimento di una politica fiscale sana ed efficace, v. il considerando 24 e l’art. 4 del reg. n. 1303/2013. Con riguardo al principio della programmazione nell’impiego delle risorse dei Fondi, va ricordato che il QSC stabilisce orientamenti strategici per agevolare il processo di programmazione e il coordinamento settoriale e territoriale degli interventi dell’Unione nel quadro dei fondi SIE e con altre politiche e altri strumenti pertinenti dell’Unione, in linea con le finalità e gli obiettivi della strategia dell’Unione per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, tenendo conto delle principali sfide territoriali delle varie tipologie di territorio (art. 10). A loro volta, gli Stati membri devono definire i propri programmi operativi. Quanto al principio del partenariato, ogni Stato membro interessato deve preparare il c.d. «accordo di partenariato», cioè un documento predisposto «con il coinvolgimento dei partner in linea con l’approccio della governance a più livelli, che definisce la strategia e le priorità di tale Stato membro, nonché le modalità di impiego efficace ed efficiente dei fondi SIE al fine di perseguire la strategia dell’Unione per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva e approvato dalla Commissione in seguito a valutazione e dialogo con lo Stato membro interessato» (artt. 2 e 14 ss., reg. n. 1303/2013). In questa ottica, il regolamento prevede anche l’istituzione di «gruppi di azione locale», destinati a elaborare e attuare le strategie di sviluppo locale di tipo partecipativo (art. 34). Gli accordi di partenariato definiscono quindi anche gli specifici obiettivi dell’intervento dell’Unione e i relativi investimenti strategici. Inoltre, come si è accennato, la condizionalità per l’erogazione dei fondi sarà ora anche ex ante, nel senso che le condizioni concordate dovranno essere presenti prima di tale erogazione, oltre che, come già ora avviene, ex post ai fini dell’erogazione degli ulteriori finanziamenti. Per il principio della gestione concorrente si parla al riguardo di una «coamministrazione», cioè di una partecipazione delle autorità europee e nazionali, nel perseguimento delle finalità dei Fondi e nella corretta gestione finanziaria delle risorse. Ciò malgrado, come si è già accennato, gli Stati membri detengono la responsabilità primaria per la conduzione dei propri programmi e sono quindi tenuti ad organizzare meccanismi di gestione e di controllo al riguardo.
Da tali principi risulta dunque un sistema all’apparenza abbastanza semplice nel suo schema generale, anche se assai complesso nel suo funzionamento e nella sua gestione. In estrema sintesi, si può dire che l’Unione, dopo aver definito una strategia complessiva per l’azione dei fondi (QSC), concorda volta a volta, per il tramite della Commissione e nel contesto di tale strategia, un accordo di partenariato con gli Stati membri interessati che definisce tutte le condizioni per l’intervento coordinato dei vari fondi e gli impegni che, a livello nazionale e locale e nel quadro di un programma anche nazionale di riforma, lo Stato deve assumere e dei quali deve rendere periodicamente dettagliato conto. Gli accordi di partenariato definiscono quindi anche gli specifici obiettivi dell’intervento dell’Unione e i relativi investimenti strategici. Inoltre, come si è accennato, la condizionalità per l’erogazione dei fondi sarà ora anche ex ante, nel senso che le condizioni concordate dovranno
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essere presenti prima di tale erogazione, oltre che, come già ora avviene, ex post ai fini dell’erogazione degli ulteriori finanziamenti. A proposito del FSE, la Corte ha chiarito che, in nome del principio di sana amministrazione finanziaria, la chiusura dei conti deve essere effettuata entro un termine ragionevole, che è stabilito dalla Commissione e può essere accompagnato dalla previsione di sanzioni idonee a garantirne l’osservanza. Tale potere va però esercitato nel rispetto dei principi della certezza e del legittimo affidamento dei beneficiari, con la conseguenza che l’eventuale fissazione di termini a pena di decadenza del diritto al pagamento deve risultare in modo chiaro e preciso dalla decisione che accorda il sussidio (Corte giust. 26 maggio 1982, 44/81, Germania e Bundesanstalt für Arbeit c. Commissione, 1856).
La gestione ed il controllo dei Fondi è affidata a titolo principale allo Stato membro interessato, ma ciò sotto il costante controllo e con l’attiva partecipazione della Commissione, e anche secondo uno schema assai simile per tutti i Fondi e secondo principi e processi comuni di preparazione, negoziazione e attuazione dei programmi di finanziamento. Quanto a tale schema, la normativa in vigore ha mantenuto i consueti strumenti finanziari, ma ne ha anche previsti d’innovativi, vuoi perché istituiti a livello dell’Unione, vuoi perché definiti secondo modelli uniformi stabiliti dalla stessa Commissione. La sorveglianza sull’attuazione del programma e la valutazione della stessa sono organizzate secondo criteri e meccanismi comuni che s’impongono agli Stati membri; ma alle loro incombenze si aggiungono quelle della Commissione, alla quale spettano decisive funzioni di supervisione, anche con controlli in loco, nonché e soprattutto di erogare le risorse dei Fondi. In particolare, gli Stati membri devono istituire, anche con il contributo finanziario dell’Unione, organi o autorità che si occupino della gestione, della certificazione, dell’audit e della sorveglianza. L’autorità di gestione è responsabile dell’attuazione e della sana gestione finanziaria del programma nazionale, e deve, in particolare, garantire che le operazioni beneficiarie del finanziamento siano selezionate conformemente ai criteri dettati dal programma, nonché trasmettere alla Commissione un rapporto annuale e un rapporto finale di esecuzione del programma nazionale di intervento. Gli Stati devono inoltre designare un’autorità di certificazione delle dichiarazioni di spesa e delle domande di pagamento da inviare alla Commissione; un’autorità di audit, responsabile di verificare il corretto funzionamento del sistema di gestione e di controllo; e un comitato di sorveglianza, che accerti l’efficacia e la qualità dell’attuazione del programma operativo. Quanto all’erogazione dei fondi da parte della Commissione, essa si svolge in tre fasi: il prefinanziamento, i pagamenti intermedi (su domanda corredata di documentazione giustificativa) e il saldo finale. Qualora la Commissione riscontri la presenza di carenze significative dei sistemi nazionali di gestione e di controllo o gravi irregolarità o inadeguatezze nel sistema di certificazione, essa può decidere, godendo al riguardo di un ampio margine di discrezionalità, di interrompere il pagamento dei contributi finché lo Stato membro interessato non adotti le misure necessarie (Corte giust. 15 settembre 2005, C-199/03, Irlanda c. Commissione, I-8027).
La nuova normativa ha cercato altresì di semplificare le regole relative alla concreta esecuzione dei finanziamenti, all’ammissibilità delle spese sostenute, alla valutazione dei costi, e così via. Infine, apposite previsioni sono stabilite per le ipotesi di irregolarità o comunque di inosservanza delle regole relative all’utilizzazione dei finanziamenti. In questi casi, la Commissione, nel rispetto dei diritti di difesa, può procedere alla riduzione o alla sospensione totale o parziale del contributo a un programma operativo e chiederne il recupero, eventualmente allo stesso Stato interessa-
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to, il quale a sua volta deve comunque adottare tutte le misure necessarie per le rettifiche in materia, e per sanzionare e recuperare le somme indebitamente erogate. Per il rispetto dei diritti di difesa, la Commissione deve assicurare il coinvolgimento e il contraddittorio con lo Stato membro interessato e motivare adeguatamente le proprie misure in modo da permettere ai beneficiari del finanziamento l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale (Corte giust. 4 giugno 1992, C-181/90, Consorgan c. Commissione, I-3557; 25 maggio 1993, C334/91 P, IRI c. Commissione, I-2851; 4 settembre 2014, C-192/13 P, Spagna c. Commissione). Ma il procedimento che porta alle eventuali decisioni di riduzione o di sospensione dei finanziamenti deve rispettare anche i diritti di difesa delle persone fisiche o giuridiche che ne siano colpite nei propri interessi (Corte giust. 21 settembre 2000, C-462/98 P, Mediocurso c. Commissione, I-7183), così come deve tener conto del loro legittimo affidamento (Trib. 18 giugno 2010, T-549/08, Lussemburgo c. Commissione, II-2477). Quanto alla riduzione o alla sospensione totale o parziale del contributo, se non riesce, per ragioni ad esso imputabili, a recuperare le somme indebitamente erogate, lo Stato deve provvedere esso stesso a versarle al bilancio dell’Unione (sul punto v., con riferimento al FEAOG, Corte giust. 22 gennaio 2004, C-271/01, COPPI, I-1029). Per l’obbligo dello Stato di adottare tutte le misure necessarie per le rettifiche, va notato che esso gode di ampia discrezionalità, purché rispetti i principi di equivalenza ed effettività (Corte giust. 8 luglio 1999, C-186/98, Nunes e de Matos, I-4883). D’altra parte, i beneficiari di finanziamenti non dovuti o comunque irregolarmente percepiti, non possono invocare il rispetto dei principi della certezza del diritto o del legittimo affidamento se non nei casi consentiti dal diritto dell’Unione, ad es. se non sono stati informati dallo Stato delle condizioni cui era subordinata la decisione di concessione del contributo (Corte giust. 21 giugno 2007, C-158/06, ROM-projecten, I-5103; 13 marzo 2008, C-383/06 e C-385/06, Vereniging Nationaal Overlegorgaan Sociale Werkvoorziening e a., I-1561).
Va, infine, segnalato che di recente anche per rispondere agli effetti della crisi economico-finanziaria, l’Unione ha istituito il Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS), insieme con una garanzia dell’Unione, un polo europeo di consulenza sugli investimenti (PECI) e un portale dei progetti d’investimento europei (v. reg. (UE) n. 2015/1017, del PE e del Consiglio, del 25 giugno 2015, GUUE L 169, 1) che interessa anche ai fini della politica ora in esame.
8. Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio Altri settori di competenza dell’Unione sono la ricerca e lo sviluppo tecnologico, nonché la politica spaziale. Di quest’ultima ci occuperemo alla fine del presente paragrafo; quanto agli altri due settori, è a tutti noto che la creazione di «uno spazio europeo della ricerca» che rafforzi, sul piano interno e internazionale, lo sviluppo complessivo e la competitività della costruzione europea è un’ambizione che l’Unione coltiva da lungo tempo, ancor prima che essa si esprimesse nel corpo stesso del Trattato. Se è vero, in effetti, che il TCEE taceva quasi del tutto al riguardo, già l’allora CEE aveva avviato progetti in materia di ricerca scientifica e tecnologica, senza per l’appunto attendere l’inserimento di una specifica base giuridica. Utilizzando la nota clausola c.d. di flessibilità (p. 415 ss.), essa intraprese ben presto un’attività nel settore, con il varo di alcuni importanti programmi (in particolare, il primo programma
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di ricerca e sviluppo per il periodo 1984-1987, da cui presero origine vari programmi specifici, come ESPRIT, Research Development in Advanced Communication, nel 1984, e RACE, Research in Advanced Technologies for Europe, nel 1985). Sicché, appena se ne presentò l’occasione, la materia fu formalmente inserita nel Trattato; e questo avvenne già con l’AUE del 1985, con l’introduzione di un Titolo ad hoc dedicato alla «Ricerca e sviluppo tecnologico» (artt. 130F-130Q). I successivi Trattati di revisione confermarono e affinarono l’innovazione, fino al Trattato di Lisbona, il quale, dopo aver menzionato la promozione del «progresso scientifico e tecnologico» tra gli obiettivi fondamentali dell’Unione (art. 3, par. 3, comma 1, TUE), da un lato colloca i settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio tra le competenze parallele dell’Unione (supra, p. 422), precisando che in essi «l’Unione ha competenza per condurre azioni, in particolare la definizione e l’attuazione di programmi, senza che l’esercizio di tale competenza possa avere per effetto di impedire agli Stati membri di esercitare la loro» (art. 4, par. 3, TFUE), dall’altro ne specifica la disciplina in un apposito Titolo (XIX), composto dagli artt. 179-190 TFUE. Un cenno a tale politica si rinveniva solo nell’art. 41 TCEE, che alludeva a un coordinamento nel settore della ricerca ai fini della realizzazione della politica agricola. Di ricerca si occupava invece il TCECA (non più in vigore) come strumento per realizzare le politiche di sostegno alle imprese (particolarmente, art. 55 TCECA), e di essa si occupava, e ancora si occupa ampiamente, con riguardo tuttavia solo alla ricerca nucleare, il TCEEA, che colloca tale ricerca addirittura tra gli obiettivi principali dell’Euratom (art. 2 TCEEA). La relativa disciplina è quindi separata da quella oggetto del TFUE, anche se resta in qualche modo in rapporto di specialità rispetto a quella generale dell’Unione. Tuttavia, la separazione non è sempre possibile quando si tratta di ricerche trasversali, e questo può dar luogo ad interferenze, cui si cerca di porre rimedio nel programma quadro di ricerca, di cui si dirà più avanti, che tende proprio a dare coerenza e coesione all’insieme delle attività di ricerca dell’Unione. Alla materia allude anche l’art. 13 TFUE che elevando al livello di Trattato un obbligo finora dettato soltanto nelle decisioni del Consiglio che, di volta in volta, approvavano i programmi quadro pluriennali, impone di tener conto del benessere degli animali nella formulazione e nell’attuazione di varie politiche dell’Unione, inclusa quella qui in esame; nonché la Dichiarazione n. 34, allegata al Trattato di Lisbona, relativa all’art. 179 TFUE, che impone all’Unione di tener conto, nell’attuazione di detta politica, «degli orientamenti e delle scelte fondamentali delle politiche in materia di ricerca degli Stati membri».
Sebbene, come emerge dal richiamato brano dell’art. 4, par. 3, TFUE, il Trattato non parli di una «politica comune» della ricerca, visto che la norma si limita a conferire all’Unione la mera competenza a «condurre azioni» in materia, cionondimeno l’idea di una simile politica è emersa sempre più nella prassi, come nell’opinione e nel linguaggio comuni, e d’altra parte, lo stesso art. 179 TFUE, che apre la disciplina della materia, enuncia esplicitamente l’obiettivo della «realizzazione di uno spazio europeo della ricerca», che comunque evoca l’idea di un complesso di interventi organici e coerenti nel settore. Anche se non si è tradotta pienamente nel testo dell’art. 179 TFUE, la definizione di tale spazio era fornita in termini più compiuti e anche più ambiziosi dalla Commissione nella comunicazione «Verso uno spazio europeo della ricerca», del 18 gennaio 2000 (COM (2006) 6 def.), e nel Libro Verde «Nuove prospettive per lo spazio europeo della ricerca», del 4 aprile 2007 (COM (2007) 161 def.).
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a) Venendo ora all’esame di tale normativa, va anzitutto ricordato che, ai sensi appunto del richiamato art. 179 TFUE, l’Unione «si propone l’obiettivo di rafforzare le sue basi scientifiche e tecnologiche con la realizzazione di uno spazio europeo della ricerca nel quale i ricercatori, le conoscenze scientifiche e le tecnologie circolino liberamente, di favorire lo sviluppo della sua competitività, inclusa quella della sua industria, e di promuovere le sue azioni di ricerca ritenute necessarie ai sensi di altri capi dei Trattati» (par. 1). E per far ciò essa deve incoraggiare le imprese, i centri di ricerca e le università nei loro sforzi di ricerca e di sviluppo tecnologico di alta qualità, sostenendo gli sforzi di cooperazione, soprattutto per permettere ai ricercatori di collaborare liberamente oltre le frontiere e alle imprese di sfruttare appieno le potenzialità del mercato interno grazie, in particolare, all’apertura degli appalti pubblici nazionali (riferimento, questo, che evoca le limitazioni che ancora impone, per alcuni settori legati alla ricerca scientifica e tecnologica, l’art. 16, dir. 2004/18, retro, p. 517), alla definizione di norme comuni e all’eliminazione degli ostacoli giuridici e fiscali a detta cooperazione (par. 2). Va subito notato che, anche se gli indicati obiettivi sono enunciati in modo un po’ generico e disordinato, un primo aspetto emerge comunque con evidenza, e cioè che la nuova formulazione della disposizione svincola la politica della ricerca da quella subalternità alle esigenze dell’industria in cui la collocava il precedente art. 163 TCE, che in materia esplicitamente prospettava all’Unione l’obiettivo di «rafforzare le basi scientifiche e tecnologiche dell’industria» e «di favorire la […] competitività internazionale» di quest’ultima. Nella nuova prospettiva, l’accento viene invece posto sulla «realizzazione di uno spazio europeo della ricerca nel quale i ricercatori, le conoscenze scientifiche e le tecnologie circolino liberamente», e sull’obiettivo di favorire lo sviluppo della competitività dell’Unione nel suo complesso, inclusa (ma non più solo) «quella della sua industria». Lo sviluppo della ricerca e della tecnologia viene dunque depurato dal sottolineato carattere di strumentalità per assumere una propria autonomia e un proprio valore intrinseco (il che dovrebbe anche eliminare o comunque ridurre le possibili interferenze, specie sul piano delle basi giuridiche, con la politica dell’industria, quale enunciata dall’art. 173 TFUE); e questo comporta che esso potrà essere incoraggiato sia che si tratti di ricerca fondamentale che di ricerca applicata, eventualmente anche in funzione della sua eventuale utilizzazione per le attività industriali. Inoltre, ma questo era previsto anche prima del Trattato di Lisbona, l’art. 179 TFUE indica quale ulteriore obiettivo dell’Unione in materia la promozione di «azioni di ricerca ritenute necessarie ai sensi di altri capi dei Trattati», e quindi ai fini della realizzazione delle altre politiche dell’Unione, quali ad esempio quelle sociali, dell’ambiente, della sanità, e così via. Questo, tuttavia, senza pregiudizio dell’autonomia e della coerenza della politica in esame. Al riguardo, infatti, l’art. 179, par. 3, TFUE, ribadisce che «[t]utte le azioni dell’Unione ai sensi dei Trattati, comprese le azioni dimostrative, nel settore della ricerca e dello sviluppo tecnologico sono decise e realizzate conformemente alle disposizioni del presente titolo». E ciò all’evidente fine, ripetiamo, di evitare dispersioni, incoerenze e frammentazioni nella realizzazione della politica di ricerca.
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Ma ciò, ovviamente, non deve far passare in secondo piano il fatto che comunque la politica in esame si sviluppa nel contesto di un mercato unico e deve concorrere anche alla migliore realizzazione dello stesso; e questo spiega l’insistenza del par. 2 della disposizione sulla collaborazione che s’impone in materia tra i vari protagonisti «per permettere ai ricercatori di cooperare liberamente oltre le frontiere e alle imprese di sfruttare appieno le potenzialità del mercato interno». b) Per la realizzazione degli indicati obiettivi l’Unione dispone di una propria autonoma e specifica competenza, che tuttavia non si sostituisce, ma si affianca a quella degli Stati membri. Come si è già accennato, infatti, la sua competenza in materia va considerata come una competenza «parallela», nel senso, come si disse a suo tempo (supra, p. 421 s.), che le azioni dell’una e degli altri devono integrarsi sulla base di un obbligo di coerenza e di coordinamento reciproco, con l’intesa che poi, fatto salvo tale obbligo, gli Stati membri restano liberi di definire le proprie politiche nazionali di ricerca, e che l’esercizio della propria competenza da parte dell’Unione non comporta una corrispondente limitazione alla libertà degli Stati di avviare a loro volta iniziative analoghe (significativa in proposito è la Dichiarazione n. 34, allegata al Trattato di Lisbona, richiamata supra, p. 770). Lo stesso Trattato del resto esplicitamente chiarisce, da un lato, che «le azioni dell’Unione di cui abbiamo detto possono solo “integrare” quelle degli Stati membri» (art. 180 TFUE), e dall’altro che l’Unione e gli Stati membri «coordinano la loro azione in materia di ricerca e sviluppo tecnologico per garantire la coerenza reciproca delle politiche nazionali e della politica dell’Unione» (art. 181, par. 1, TFUE). In tale contesto, va ancora sottolineato che, per la parte che le è riservata, l’Unione dispone di specifici poteri che esercita attraverso procedure che si caratterizzano in funzione dei singoli tipi di intervento; se ne farà menzione quindi volta a volta più avanti. Qui va solo sottolineato, per completare il quadro istituzionale della materia, che in tali procedure assume un posto di rilievo il Parlamento europeo, il quale, se in precedenza era ai margini dei relativi processi decisionali, ora invece, come vedremo, partecipa a pieno titolo ai più importanti di essi. Quanto alla Commissione, essa mantiene il ruolo tradizionale d’iniziativa, impulso e controllo. Nello specifico, spetta a tale istituzione prendere, in stretta collaborazione con gli Stati membri, le iniziative utili a promuovere il predetto coordinamento, in particolare quelle finalizzate «alla definizione di orientamenti e indicatori, all’organizzazione di scambi di migliori pratiche e alla preparazione di elementi necessari per il controllo e la valutazione periodici», tenendone pienamente e permanentemente informato il PE, anche sulla base di accordi quadro tra le due istituzioni. In tale prospettiva, è previsto che essa presenti all’inizio di ogni anno un’apposita relazione al PE e al Consiglio, nonché relazioni intermedie sullo svolgimento delle azioni in corso, oltre ad esercitare un controllo costante e sistematico sull’attuazione dei programmi dell’Unione, e riferire entro due anni dal completamento del programma quadro e dei relativi programmi specifici sull’attuazione e sui risultati delle ricerche effettuate. V. art. 181, par. 2, TFUE. Va segnalato che ai fini di detto coordinamento, la Commissione può contare sull’European Research Area Committee (ERAC), già CREST, organo consultivo pre-
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visto in allegato alla risoluzione del Consiglio del 31 maggio 2013, sul lavoro preparatorio per l’area europea di ricerca. La relazione annuale della Commissione verte in particolare sulle attività svolte in materia di ricerca e di sviluppo tecnologico e di divulgazione dei risultati durante l’anno precedente, nonché sul programma di lavoro dell’anno in corso (art. 190 TFUE). Questo consente anche di informare il PE sulla destinazione e l’utilizzazione dei fondi per la ricerca, i quali rientrano tra le spese non obbligatorie del bilancio dell’Unione, sulle quali si esercita il controllo dello stesso PE. Le relazioni intermedie riguardano ovviamente la qualità, la gestione e l’impatto delle attività di ricerca in corso e sul loro stato di avanzamento.
c) Venendo più puntualmente alle attribuzioni dell’Unione in materia, va anzitutto segnalato che, per perseguire poi gli obiettivi indicati, essa è autorizzata a svolgere, ad integrazione di quelle degli Stati membri, talune azioni specificamente elencate ai sensi dell’art. 180 TFUE. In particolare, deve attuare programmi di ricerca, sviluppo tecnologico e dimostrazione, promuovendo la cooperazione con e tra le imprese, i centri di ricerca e le università (come vedremo tra breve, nel contesto dell’attuazione del programma quadro pluriennale l’Unione fissa le norme per la partecipazione delle imprese, dei centri di ricerca e delle università: art. 183 TFUE); promuovere la cooperazione in materia di ricerca, sviluppo tecnologico e dimostrazione dell’Unione con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali, cooperazione che può svolgersi attraverso la conclusione di accordi internazionali, ma anche attraverso intese meramente tecniche volte a stabilire, nell’ambito di programmi quadro di ricerca e in modo meno formale e solenne, meccanismi di collaborazione con altri enti di ricerca (sul punto v. anche più avanti in questo paragrafo); diffondere e valorizzare i risultati delle attività in materia di ricerca, sviluppo tecnologico e dimostrazione dell’Unione (anche a tal proposito, come presto vedremo, l’art. 183 TFUE prevede che, nella cornice dell’attuazione del programma quadro pluriennale, l’Unione fissi le norme applicabili alla divulgazione dei risultati della ricerca); dare impulso alla formazione e alla mobilità dei ricercatori dell’Unione. L’insieme di questi obiettivi si realizza all’interno di un contesto organico definito anzitutto da un programma generale pluriennale, da programmi specifici e da altri interventi, sui quali si tornerà subito. Per ora ci limitiamo a segnalare che, nel rispetto del diritto dell’Unione, le azioni appena menzionate possono essere realizzate direttamente dalla stessa Unione attraverso i propri centri di ricerca, oppure in collaborazione con altri istituti e centri di ricerca nazionali, specie università e imprese (c.d. azioni concertate), o ancora con una mera partecipazione finanziaria ad altrui ricerche. A tal proposito, peraltro, va segnalato che la normativa comunitaria in materia di concorrenza e di aiuti di Stato prevede specifiche deroghe ai divieti sanciti nel settore in esame (supra, pp. 632 ss. e 648 ss.). Quanto alla prima, si ricorda che, a determinate condizioni, gli accordi in materia di ricerca e sviluppo che non diano alle imprese interessate la possibilità di eliminare la concorrenza in relazione ad una parte sostanziale del mercato dei prodotti e dei servizi nuovi o migliorati, possono essere esentati dal divieto di cui all’art. 101, par. 1, TFUE (v. il reg (UE) n. 1217/2010 della Commissione, del 14 dicembre 2010, relativo all’applicazione dell’art. 101, par. 3, TFUE a talune categorie di accordi ricerca e sviluppo, GUUE L 335, 36; nonché il reg. (UE) n. 316/2014 della Commissione, del 21 marzo 2014, relativo all’applicazione dell’art. 101, par. 3, TFUE a categorie di accordi di trasferimento di tecnologia, GUUE L 93, 17). In materia di aiuti, invece, è previsto che quelli a favore della ricerca e sviluppo tecnologico rientrano tra gli aiuti che possono essere
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dichiarati compatibili con gli artt. 107 e 108 TFUE, ai sensi del reg. (CE) n. 994/98 del Consiglio, del 7 maggio 1998, sull’applicazione degli artt. 92 e 93 TCE (ora artt. 107 e 108 TFUE) a determinate categorie di aiuti di Stato orizzontali (GUCE L 142, 1), più volte modificato ed infine codificato dal reg. (UE) n. 2015/1588 del Consiglio, del 13 luglio 2015, sull’applicazione degli articoli 107 e 108 del TFUE a determinate categorie di aiuti di Stato orizzontali (L 248, 1). A tale riguardo, va anche segnalata la comunicazione della Commissione: «Disciplina degli aiuti di Stato a favore di ricerca, sviluppo e innovazione», del 27 giugno 2014 (GUUE C 198, 1). Quanto ai centri di ricerca dell’Unione, essi sono costituiti oggi dal Centro comune di ricerca (CCR), con sede prima solo in Italia (Ispra) e poi in altri quattro Stati membri: Belgio (Geel), Germania (Karlsruhe), Olanda (Petten) e Spagna (Siviglia). Il CCR fornisce, anche coordinandosi con reti comunitarie di enti nazionali di ricerca, università, industria avanzata degli Stati membri e collaborando con enti e reti extraeuropee, un sostegno scientifico e tecnico alla progettazione, allo sviluppo, all’attuazione e al controllo delle politiche di ricerca dell’Unione, grazie al finanziamento diretto che questa assicura loro per garantirne l’indipendenza da interessi privati o dalle singole politiche nazionali. In tale contesto, va anche segnalata l’istituzione, con reg. (CE) n. 294/2008 del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2008 (GUUE L 97, 1), modificato dal reg. (UE) n. 1292/2013 del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013 (GUUE L 347, 174), dell’Istituto europeo di innovazione e tecnologia («EIT»), che, come si disse, ha il compito di contribuire alla crescita economica e alla competitività sostenibili in Europa rafforzando la capacità d’innovazione degli Stati membri e della Comunità; e, nel perseguire tale obiettivo, promuovere e integrare l’istruzione superiore, la ricerca e l’innovazione ai massimi livelli. Quanto alla collaborazione con altri istituti e centri di ricerca nazionali, l’Unione si limita a finanziare le spese di carattere amministrativo, gli altri costi restando a carico degli Stati membri. A tal fine essa sottoscrive appositi accordi con gli enti responsabili delle ricerche. La partecipazione finanziaria ad altrui ricerche può spingersi invece fino al 50% dei costi totali dei progetti di ricerca selezionati secondo una procedura di evidenza pubblica, nella quale tuttavia la Commissione e gli organismi che l’assistono nell’attuazione del programma di ricerca godono di un ampio potere discrezionale, purché rispettino gli obblighi di motivazione della scelta operata (v. per tutte Trib. 13 dicembre 1995, T-109/94, Windpark Goothusen c. Commissione, II-3007, confermata da Corte giust. 14 maggio 1998, C-48/96 P, Windpark Goothusen c. Commissione, I-2873; Trib. 17 febbraio 2000, T-183/97, Micheli e a. c. Commissione, II-287).
d) Quanto alle iniziative che l’Unione può autonomamente assumere in materia, la prima e di gran lunga la più importante riguarda l’adozione del programma quadro pluriennale (PQP). Ai sensi dell’art. 182 TFUE, infatti, il legislatore dell’Unione, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale, è abilitato ad adottare detto programma. Quest’ultimo comprende l’insieme delle azioni che l’Unione può svolgere ai fini della propria politica di ricerca e sviluppo tecnologico. In particolare, in esso l’Unione: fissa gli obiettivi scientifici e tecnologici da realizzare mediante le azioni di cui all’art. 180 TFUE, menzionate sopra sub c), e le relative priorità; indica le grandi linee di dette azioni; stabilisce l’importo globale massimo e le modalità della partecipazione finanziaria dell’Unione allo stesso programma, nonché le quote rispettive di ciascuna delle azioni previste. Il PQP viene adattato o completato in funzione dell’evoluzione della situazione, il che presuppone un controllo costante della Commissione sull’andamento delle ricerche programmate e, all’occorrenza, un suo intervento con proposte di modifica del programma (art. 182, parr. 1 e 2, TFUE). Per l’attuazione del programma, inoltre, l’Unione provvede a fissare le norme per la partecipazione delle imprese, dei centri di ricerca e delle università; e le norme applicabili alla divulgazione dei risultati della ricerca (art. 183 TFUE).
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In proposito, è previsto che il legislatore dell’Unione, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del CES, deve adottare le misure di cui nel testo, segnatamente al fine di garantire sempre l’accessibilità dei risultati e quindi rendere più competitiva l’industria europea. Per tali misure, v., da ultimo, reg (UE) n. 1290/2013 del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, che stabilisce le norme in materia di partecipazione e diffusione nell’ambito del programma quadro di ricerca e innovazione (2014-2020) – Orizzonte 2020 e che abroga il reg. (CE) n. 1906/2006 (GUUE L 347, 81). Quanto al PQP, quello attualmente in vigore è stato definito dal reg. (UE) n. 1291/2013 del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, che istituisce il programma quadro di ricerca e innovazione (2014-2020) – Orizzonte 2020 e abroga la dec. 1982/2006/CE (GUUE L 347, 104), in parte modif. dal citato reg. n. 2015/2017 (v. paragrafo precedente). Esso costituisce l’ottavo programma quadro, il primo essendo stato adottato con risoluzione del Consiglio del 25 luglio 1983 (GUCE C 208, 1), sulla base dell’art. 235 TCEE (ora 352 TFUE), per il periodo 1984-1987, ed il settimo con dec. 1982/2006/CE del PE e del Consiglio, del 18 dicembre 2006, per il periodo 2007-2013 (GUUE L 412, 1). I primi sei programmi avevano durata quinquennale, mentre a partire dal settimo la durata è stata portata a sette anni. Il programma in atto si ricollega apertamente (v. considerando 10) alla comunicazione della Commissione del 29 giugno 2011 dal titolo «Un bilancio per Europa 2020», nella quale si proponeva di affrontare con un unico quadro strategico comune per la ricerca e l’innovazione i settori interessati dal settimo programma quadro e la parte relativa all’innovazione del programma quadro per la competitività e l’innovazione (2007-2013), istituito con dec. 1639/2006/CE del PE e del Consiglio (GUUE L 310, 15), nonché il menzionato l’Istituto europeo di innovazione e tecnologia («EIT»), al fine di conseguire l’obiettivo della strategia Europa 2020 di aumentare la spesa in ricerca e sviluppo fino al 3% del PIL entro il 2020. In detta comunicazione la Commissione si è altresì impegnata a integrare i cambiamenti climatici nei programmi di spesa dell’Unione e a destinare almeno il 20% del bilancio generale dell’Unione agli obiettivi legati al clima.
e) A sua volta, il PQP è attuato mediante programmi specifici sviluppati nell’ambito di ciascuna delle predette azioni. Tali programmi, che sono adottati dal Consiglio secondo una procedura legislativa speciale, e previa consultazione del PE e del Comitato economico e sociale, precisano le modalità per la propria realizzazione, fissano la propria durata e prevedono i mezzi necessari, con l’intesa che la somma degli importi da stanziare per l’insieme dei programmi specifici non può superare l’importo globale massimo fissato per il PQP e per ciascuna delle azioni dell’Unione in materia di ricerca (art. 182, parr. 3 e 4, TFUE). Anche qui, il compito di vigilare sull’avanzamento di tali programmi compete alla Commissione. f) Ma nell’attuazione del PQP il legislatore dell’Unione, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale, può decidere anche altre iniziative. Anzitutto, esso può varare programmi complementari, vale a dire dei programmi cui partecipano soltanto alcuni Stati membri che ne assicurano il finanziamento, senza però escludere la possibilità di una partecipazione anche dell’Unione. Naturalmente, l’adozione di tali programmi richiede l’accordo degli Stati membri interessati (art. 188 TFUE). Inoltre, va notato che anche per questi programmi l’Unione adotta apposite norme, in particolare in materia di divulgazione delle conoscenze e di accesso di altri Stati membri (art. 184 TFUE). Sempre nel contesto dell’attuazione del PQP e con la stessa procedura, poi, l’Unione può prevedere, d’intesa con gli Stati membri interessati, la partecipazione a programmi di ricerca e sviluppo avviati da più Stati membri, ivi compresa la parteci-
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pazione alle strutture instaurate per l’esecuzione di detti programmi (art. 185 TFUE). In questo caso, tuttavia, non è imposta l’adozione di norme in materia di divulgazione delle conoscenze e di accesso di altri Stati membri, mentre nulla si dice quanto al finanziamento di tali programmi, per il quale occorre presumibilmente risalire alle regole generali del programma quadro (si noti anche che, grazie all’art. 185, la Comunità ha aderito, ad es., a taluni progetti di EUREKA, European Research Coordination Agency, istituiti dagli Stati membri a Parigi il 17 luglio 1985). Ancora, nell’ambito dell’attuazione del PQP l’Unione, e sempre con la ricordata procedura, può prevedere una cooperazione in materia di ricerca, sviluppo tecnologico e dimostrazione dell’Unione con paesi terzi o organizzazioni internazionali, con modalità da definire attraverso appositi accordi stipulati con questi ultimi ai sensi dell’art. 216 TFUE (art. 186 TFUE). Ma la cooperazione con istituti di ricerca esterni all’Unione può essere realizzata anche con contratti di diritto privato conclusi dalla Commissione ai sensi dell’art. 335 TFUE. Attualmente sono associati al programma quadro vari paesi non UE (tra gli altri, Norvegia, Islanda, Liechtenstein, Israele, Turchia, Serbia, Macedonia), naturalmente concorrendo al relativo finanziamento, mentre vari accordi di ricerca e sviluppo tecnologico sono stati stipulati con Stati terzi (es.: Canada, Russia, Cina, Argentina). Ai fini della migliore esecuzione dei programmi di ricerca, sviluppo tecnologico e dimostrazione, l’Unione può poi creare imprese comuni o qualsiasi altra struttura necessaria a detti fini. La decisione è presa dal Consiglio su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo e del Comitato economico e sociale (art. 187 TFUE). I testi non dicono altro in proposito, ma è naturale pensare che il modello preso a riferimento sia quello delle imprese comuni create in seno all’Euratom, a cominciare dal progetto JET (Joint European Tours, dec. 78/471/Euratom del Consiglio, del 30 maggio 1978, GUCE L 151, 50). Secondo il regolamento finanziario dell’Unione (reg. (UE, Euratom) n. 966/2012 del PE e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che stabilisce le regole finanziarie applicabili al bilancio generale dell’Unione e che abroga il reg. (CE, Euratom) n. 1605/2012, GUUE L 298, 1), le imprese comuni sono considerate «enti di diritto comunitario» e sono quindi, come tali, finanziate dal bilancio dell’Unione, secondo le regole previste da quel regolamento e dal reg. (CE, Euratom) n. 2343/2002 della Commissione, del 19 novembre 2002, che reca regolamento finanziario quadro degli organismi di cui all’art. 185 del reg. (CE, Euratom) n. 1605/2002 del Consiglio che stabilisce il regolamento finanziario applicabile al bilancio generale delle Comunità europee (GUCE L 357, 72).
Va infine segnalato che, oltre al PQP, il legislatore dell’Unione è autorizzato ad adottare, con procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale, altre misure necessarie all’attuazione dello spazio europeo della ricerca (art. 182, par. 5, TFUE). g) Da ultimo, deve essere evidenziata una novità assoluta del TFUE, e cioè la previsione, accanto a quella della ricerca e dello sviluppo tecnologico, di una politica spaziale europea. Ai sensi dell’art. 189 TFUE, infatti, per favorire il progresso tecnico e scientifico, la competitività industriale e l’attuazione delle sue politiche, e senza pregiudizio per le azioni in materia di ricerca e sviluppo tecnologico fin qui esaminate, l’Unione elabora una politica spaziale europea, anche promuovendo iniziative
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comuni, sostenendo la ricerca e lo sviluppo tecnologico e coordinando gli sforzi necessari per l’esplorazione e l’utilizzo dello spazio. A tal fine, il legislatore dell’Unione stabilisce le misure necessarie, che possono assumere la forma di un programma spaziale europeo, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri, trattandosi anche qui di una competenza parallela dell’Unione (art. 4, par. 3, TFUE e retro in questo paragrafo). Quest’ultima instaura inoltre tutti i collegamenti utili con l’Agenzia spaziale europea (ESA). Occorre precisare, peraltro, che anche se, come appena notato, è nel Trattato di Lisbona che tale politica appare per la prima volta al livello del diritto primario, ancora una volta tale innovazione fornisce in realtà una base giuridica per dare organicità e prospettive a iniziative già in vario modo, seppur timidamente, avviate in ambito europeo. In particolare, va ricordato che da tempo l’Unione ha stabilito collegamenti con l’ESA, anche se l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha permesso di definire al riguardo un più chiaro quadro formale. V. in proposito, tra i vari documenti rilevanti, il Libro Bianco «Spazio: una nuova frontiera europea per un’Unione in espansione» (COM (2003) 673 def., dell’11 novembre 2003) e le comunicazioni COM (2005) 208 def., del 23 maggio 2005, nella quale la Commissione ha stabilito gli elementi preliminari della politica spaziale; e COM (2007) 212 def., del 26 aprile 2007, sulla politica spaziale europea, nella quale già si annuncia che la «politica spaziale europea dovrebbe consentire all’Unione europea, all’Agenzia spaziale europea (ASE, secondo l’acronimo italiano) e ai loro Stati membri di aumentare il coordinamento delle proprie attività e programmi e di organizzare i rispettivi ruoli per quanto riguarda lo spazio, mettendo a disposizione un quadro più flessibile per facilitare gli investimenti comunitari nelle attività spaziali». Ciò vale anche per i programmi spaziali nei settori della sicurezza e della difesa e per l’integrazione della politica spaziale nel quadro delle relazioni esterne dell’UE (v. anche reg. UE n. 1316/2013, del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, dell’11 dicembre 2013, che istituisce il meccanismo per collegare l’Europa e che modifica il reg. (UE) n. 913/2010 e che abroga i reg. (CE) n. 680/2007 e (CE) n. 67/2010). In materia, v. anche la comunicazione della Commissione: «Liberare il potenziale di crescita economica nel settore spaziale», del 28 febbraio 2013, (COM(2013) 108 def.), riguardante in particolare lo sviluppo di una politica industriale spaziale. Quanto ai collegamenti con l’ESA, nella comunicazione da ultimo citata si ricorda per l’appunto, quali importanti iniziative per rafforzare il rapporto tra le due istanze, il lancio dei progetti europei Galileo e Monitoraggio globale per l’ambiente e la sicurezza (GMES), e soprattutto il varo dell’accordo quadro CE-ASE (v. dec. 2004/578/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, concernente la conclusione dell’accordo quadro tra la Comunità europea e l’Agenzia spaziale europea, GUUE L 261, 63), accordo che prevede azioni comuni di coordinamento da adottarsi nel corso delle riunioni periodiche del Consiglio dello Spazio, nel quale siedono i rappresentanti delle due organizzazioni. Più recentemente, v. le comunicazioni della Commissione al Consiglio e al PE del 4 aprile 2011, «Verso una strategia spaziale dell’UE al servizio dei cittadini» (COM (2011) 152 def.), e del 14 novembre 2012, «Istituzione di adeguate relazioni tra l’Unione europea e l’Agenzia spaziale europea» (COM (2012) 671 def.).
9. La politica dell’ambiente Tra le competenze oggetto del presente Capitolo un posto di assoluto rilievo, sul piano sia dei principi generali che delle normative di attuazione, spetta sicuramente
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alla politica dell’Unione in materia di ambiente, che per gli importanti sviluppi che l’hanno segnata in questi anni meriterebbe di certo un’ampia ed autonoma trattazione. Rinviando alla ricchissima bibliografia già maturata al riguardo per quegli approfondimenti che le imperative ragioni più volte indicate rendono impossibili in questa sede, tenteremo di delineare nelle prossime pagine i profili di maggiore interesse di questa peraltro assai complessa materia. a) Per cominciare, si può osservare che anche quella in esame, come molte delle competenze considerate in questo Capitolo, appare nei testi comunitari solo in occasione di quella meritoria apertura che l’AUE realizzò a favore delle varie politiche settoriali fino ad allora (e per le ragioni più volte ricordate) ignorate dai Trattati comunitari (artt. 130R-130T), sebbene, va riconosciuto, anche in questa materia la CEE non fosse rimasta in precedenza del tutto inattiva. Negli anni successivi, con i vari testi di revisione, la disciplina del settore è stata progressivamente ampliata e affinata, permettendo lo sviluppo di un’intensa e articolata produzione normativa e anche di una consistente giurisprudenza, che consentono ormai di parlare al riguardo non più, come nell’AUE, di una «azione», ma di una «politica» dell’Unione in materia di ambiente e perfino di un «diritto europeo dell’ambiente». La necessità di riservare un’attenzione particolare alle questioni ambientali nel contesto dell’espansione economica e del miglioramento della qualità della vita fu sottolineata già in occasione del Vertice di Parigi, del 1972, cui fece seguito un primo «piano d’azione ambientale», nonché una serie di misure adottate grazie ad una interpretazione estensiva dei fini della Comunità enunciati dall’art. 2 TCEE, e al ricorso, secondo i casi, all’art. 100 dello stesso Trattato, relativo al ravvicinamento delle legislazioni (oggi art. 115 TFUE), o alla nota clausola di flessibilità di cui all’art. 235 TCEE (ora art. 352 TFUE). A sua volta, fin dalla metà degli anni ‘80, la Corte aveva avuto modo di dichiarare che «la tutela dell’ambiente […] costituisce uno degli scopi essenziali della Comunità» (Corte giust. 7 febbraio 1985, 240/83, ADBHU, 531, punto 13), e sulla scia di tale sentenza aveva poi aggiunto (ma ad AUE intanto entrato in vigore) che, appunto in quanto «scopo essenziale» della Comunità, detta tutela costituisce «un’esigenza imperativa, che può limitare l’applicazione dell’art. 30 [TCEE]» (ora art. 34 TFUE: Corte giust. 20 settembre 1988, 302/86, Commissione c. Danimarca, 4607, punto 9). Una raccolta sistematica degli atti in materia di ambiente può essere rinvenuta sui seguenti siti Internet: http://europa.eu/ legislation_summaries/environment/index_it.htm; e http://eur-lex.eu ropa.eu/it/legis/latest/chap1510.htm. -
Il Trattato di Lisbona non ha fatto altro che recepire detta disciplina, apportandovi qualche modifica redazionale. In particolare, dopo aver collocato l’elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente tra gli obiettivi dell’Unione (art. 3 TUE) e aver proclamato che le esigenze di tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche e azioni dell’Unione, specie al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile (clausola orizzontale di integrazione), quel Trattato dedica alla specifica disciplina della materia l’intero Titolo XX della Parte terza del TFUE (artt. 191-193). La clausola orizzontale si trova enunciata all’art. 11 TFUE. Quasi negli stessi termini si esprime l’art. 37 Carta dir. fond. Come la Corte ha avuto modo di affermare a proposito dell’art. 6 TCE, corrispondente all’art. 11 TFUE, tale disposizione «sottolinea il carattere trasversale e fon-
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damentale» dell’obiettivo della tutela dell’ambiente (Corte giust. 15 novembre 2005, C-320/03, Commissione c. Austria, I-9871, punto 73). Per i problemi che possono derivare dalla trasversalità della disciplina in esame quanto all’identificazione della base giuridica di alcuni atti, v. infra, p. 781. Riferimenti alla materia si rinvengono peraltro anche: nell’art. 3, par. 1, lett. d), TFUE, con riguardo alla conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca (v. supra, p. 476 ss.); nell’art. 4, par. 2, lett. e), TFUE, con riferimento alla natura concorrente delle competenze dell’Unione in detta materia; nell’art. 13 TFUE, con riguardo alle «esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti»; nell’art. 114 TFUE, secondo cui le proposte della Commissione per le eventuali misure di armonizzazione previste da detta disposizione che rilevino in materia di ambiente devono perseguire livelli di protezione elevata (par. 3) e tollerare eccezioni da parte degli Stati membri se giustificate da esigenze imperative legate alla tutela dell’ambiente (parr. 4-7); nell’art. 194, par. 1, TFUE, che impone alla politica dell’Unione nel settore dell’energia di tener conto dell’esigenza di preservare e migliorare l’ambiente. Infine, alle esigenze della tutela ambientale, nell’ottica della richiamata clausola trasversale di cui all’art. 11 TFUE, devono conformarsi anche le relazioni internazionali dell’Unione, come prescrivono l’art. 3, par. 5, TUE, e più specificamente l’art. 21, par. 2, lett. f), TUE, secondo il quale l’Unione è chiamata a «contribuire all’elaborazione di misure internazionali volte a preservare e migliorare la qualità dell’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali».
Secondo le disposizioni di quel Titolo, la politica dell’Unione in materia ambientale «contribuisce a perseguire» una serie di obiettivi indicati dallo stesso Trattato, e segnatamente: la salvaguardia, la tutela e il miglioramento della qualità dell’ambiente; la protezione della salute umana; l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali; la promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici (art. 191, par. 1, TFUE). Nel perseguire tali obiettivi, inoltre, la politica in questione deve mirare «ad un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione», e deve fondarsi «sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”» (art. 191, par. 2, TFUE). Infine, quella politica deve tener conto «dei dati scientifici e tecnici disponibili, delle condizioni dell’ambiente nelle varie regioni dell’Unione, dei vantaggi e degli oneri che possono derivare dall’azione o dall’assenza di azione, dello sviluppo socioeconomico dell’Unione nel suo insieme e dello sviluppo equilibrato delle sue singole regioni» (art. 191, par. 3, TFUE). Vedremo tra breve il significato e la portata di tali disposizioni. Per ora conviene completare il quadro della normativa in esame precisando che, per l’esercizio delle indicate competenze, il Trattato attribuisce al legislatore dell’Unione il potere di intraprendere le azioni appropriate, di solito mediante l’adozione di direttive. Salvo taluni casi in cui spetta al solo Consiglio, deliberando all’unanimità secondo una procedura legislativa speciale e previa consultazione del Parlamento europeo, del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni (e senza quindi che sia necessario attendere la proposta della Commissione), intraprendere quelle azioni, le stesse sono deliberate dal PE e dal Consiglio secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni (art. 192, par. 1, comma 1, TFUE). Con la medesima procedura, inoltre, ma di solito con decisioni, il legislatore dell’Unione, può adottare programmi generali
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d’azione che, senza avere portata vincolante, fissano gli obiettivi prioritari da raggiungere, con l’intesa che le relative misure di attuazione sono assunte, secondo i casi, sulla base delle procedure, appena richiamate, indicate ai parr. 1 e 2 della disposizione (art. 192, par. 3, TFUE). Come già ricordato poc’anzi, programmi in materia ambientale erano stati adottati già negli anni ’70, ai quali molti altri hanno fatto seguito. L’ultimo, attualmente in vigore, è il Settimo programma generale di azione dell’Unione in materia di ambiente fino al 2020, che ha da poco raccolto l’eredità del «Sesto programma» (di cui alla dec. 1600/2002/CE del PE e del Consiglio, del 22 luglio 2002, GUCE L 242, 1), destinato a coprire il decennio 2002-2012. In continuità con il suo predecessore, il nuovo programma, «Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta», adottato con dec. 1386/2013/UE del PE e del Consiglio, del 20 novembre 2013 (GUUE L 16, 90), per il periodo 2013-2020, si propone di perseguire riforme strutturali che offrano all’Unione «nuove opportunità per dirigersi verso un’economia verde inclusiva», ed è animato dall’intento di «potenziare gradualmente il contributo della politica ambientale alla transizione verso un’economia efficiente nell’uso delle risorse e a basse emissioni di carbonio, in grado di proteggere e valorizzare il capitale naturale nonché di tutelare la salute e il benessere dei cittadini». Al pari dei due programmi che l’hanno immediatamente preceduto, anche quest’ultimo rivela una visione più globale della politica ambientale, nonché una spiccata attenzione agli aspetti procedimentali, nel senso di favorire la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti, pubblici e privati, al processo decisionale, promuovere la cooperazione e lo scambio delle migliori prassi, specie attraverso il metodo aperto di coordinamento, e assicurare un controllo diffuso dell’azione amministrativa insieme con un più ampio accesso alla giustizia. Tra i programmi già adottati (o, meglio, rinnovati e migliorati) per l’attuazione del Settimo programma generale, segnatamente quanto al supporto finanziario dello stesso, v. reg. (UE) n. 1293/2013 del PE e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013, sull’istituzione di un programma per l’ambiente e l’azione per il clima (LIFE) e che abroga il reg. (CE) n. 614/2007 (GUUE L 347, 185). Quanto alla portata non vincolante dei programmi generali d’azione, la Corte ha avuto modo di precisare che essi mirano solo a «fornire una cornice per la definizione e la messa in atto della politica [dell’Unione] nel settore dell’ambiente, ma non comporta[no] norme giuridiche vincolanti» (Corte giust. 12 dicembre 1996, C-142/95 P, Associazione agricoltori della Provincia di Rovigo e a. c. Commissione e a., I-6669, punto 32).
b) La competenza di cui si discute, come precisa lo stesso Trattato (art. 4, par. 2, lett. e), TFUE), è una competenza concorrente dell’Unione (supra, p. 422), e del resto si è visto poc’anzi che lo stesso art. 191, par. 1, TFUE dichiara che l’Unione «contribuisce» a perseguire gli obiettivi della politica in esame. Ciò implica che quegli obiettivi possono essere oggetto anche d’interventi degli Stati membri, purché questi non riguardino settori già coperti da misure comuni e comunque non pregiudichino l’esercizio delle competenze dell’Unione. Queste ultime, inoltre, devono essere esercitate (anche, se non soprattutto in questo settore) nel rispetto del principio di sussidiarietà; in particolare, non possono precludere ai singoli Stati membri di mantenere e di prendere provvedimenti per una protezione ancora maggiore dell’ambiente, purché compatibili con il Trattato e notificati alla Commissione (art. 193 TFUE). Per altro verso, il Trattato prevede pure che le misure di armonizzazione adottate dall’Unione per perseguire la propria politica ambientale comportano, nei casi opportuni, una clausola di salvaguardia che autorizza gli Stati membri a prendere, per motivi ambientali di natura non economica, misure provvisorie soggette a una procedura di controllo dell’Unione (art. 191, par. 2, comma 2, TFUE).
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La Corte ha tuttavia precisato che l’art. 191, par. 2, TFUE non può essere invocato dalle autorità competenti in materia ambientale per imporre misure di prevenzione e riparazione in assenza di un fondamento giuridico nazionale (Corte giust., 4 marzo 2015, C-534/13, Fipa Group e a.). Comunque, le direttive in materia definiscono di solito un’armonizzazione minimale, che lascia quindi spazio agli interventi più avanzati degli Stati membri. Nell’ipotesi ora in considerazione, diversamente da quella di cui subito dopo diciamo nel testo, è lo Stato membro interessato a decidere, unilateralmente, le misure in questione, sempre che ovviamente le stesse abbiano effettivamente oggetto e finalità ambientali (v., per varie ipotesi, Corte giust. 7 febbraio 1985, 173/83, Commissione c. Francia, 491; 25 giugno 1998, C-203/96, Dusseldorp e a., I-4075; 29 settembre 1999, C-232/97, Nederhoff, I-6385; 23 ottobre 2001, C-510/99, Tridon, I-7777; 19 giugno 2008, C-219/07, Nationale Raad van Dierenkwekers en Liefhebbers, I-4475; 16 luglio 2009, C-165/08, Commissione c. Polonia, I-6843); né lo Stato deve chiedere, come accade invece per l’analoga disciplina relativa al ravvicinamento delle legislazioni (art. 114, parr. 5-6, TFUE), una preventiva autorizzazione della Commissione, anche se è tenuto a notificare le misure a quest’ultima e comunque a restare nei limiti del rispetto del diritto dell’Unione (v., anche per ulteriori approfondimenti in materia: Corte giust. 22 giugno 1993, C-11/92, Gallaher, I-3545; 22 giugno 2000, C-318/98, Fornasar, I-4785; 14 aprile 2005, C-6/03, Deponiezweckverband Eiterköpfe, I-2753; 15 settembre 2005, C-281/03 e C-282/03, Cindu Chemicals, I-8069; 20 aprile 2010, C-246/07, Commissione c. Svezia, I-3317; 21 luglio 2011, C-2/10, Azienda Agro-Zootecnica Franchini e Eolica di Altamura, I6561; 31 gennaio 2013, C-26/11, Belgische Petroleum Unie e a.; 11 giugno 2015, C-98/14, Berlington Hungary e.a.). Quanto alle misure provvisorie soggette a una procedura di controllo dell’Unione, la Corte ha avuto modo di chiarire che, nell’ambito di tale procedura, la Commissione deve assicurare il «rispetto delle garanzie conferite dall’ordinamento giuridico comunitario nelle procedure amministrative», e in particolare, «esaminare in modo accurato e imparziale tutti gli elementi rilevanti della fattispecie» (Corte giust. 6 novembre 2008, C-405/07 P, Paesi Bassi c. Commissione, I-8301, punto 56; v. anche Corte giust. 13 settembre 2007, C-439/05 P e C-454/05 P, Land Oberösterreich e Austria c. Commissione, I-7141). A parte ciò, va notato che la disposizione in esame evoca da vicino, come già accennato, le analoghe ipotesi disciplinate, in modo peraltro più articolato, dall’art. 114 TFUE, che ugualmente consente agli Stati membri di mantenere (par. 5) o di introdurre (par. 6) misure di salvaguardia rispetto a norme adottate dall’Unione per il ravvicinamento delle legislazioni (supra, p. 663 ss.). In effetti, come pure si è segnalato, le due discipline sono assai simili e tendono nella prassi ad affiancarsi o a sovrapporsi, creando problemi quanto alla precisa identificazione della base giuridica dei singoli atti e quindi provocando talvolta anche l’intervento della Corte di giustizia (v., ad es., le note sentenze 11 giugno 1991, C-300/89, Commissione c. Consiglio, I-2867; 17 marzo 1993, C-155/91, Commissione c. Consiglio, I-939; nonché 23 ottobre 2007, C-440/05, Commissione c. Consiglio, I-9097; e, più di recente, 6 settembre 2012, C-490/10, Parlamento c. Consiglio). Ma, data la ricordata portata orizzontale della politica ambientale, il problema può riguardare anche altre disposizioni dei Trattati, da quelle in materia agricola, a quelle in materia commerciale, di trasporti, ecc. (v., ad es., Corte giust. 11 giugno 1991, C-300/89, Commissione c. Consiglio, I-2867; 25 febbraio 1999, C-164/97 e C-165/97, Parlamento c. Consiglio, I1139; parere 6 dicembre 2001, 2/00, sul c.d. Protocollo di Cartagena, I-9713; 19 settembre 2002, C-336/00, Huber, I-7699; 13 settembre 2005, C-176/03, Commissione c. Consiglio, I-7879; 23 ottobre 2007, C-440/05, Commissione c. Consiglio, cit.; 10 gennaio 2006, C-178/03, Commissione c. Parlamento e Consiglio, I-107; 8 settembre 2009, C-411/06, Commissione c. Parlamento e Consiglio, I-7585; 22 giugno 2017, C-549/15, E.Onn Biofor Sverige).
Sempre con riguardo al rapporto tra l’Unione e gli Stati membri, conviene anche ricordare, da un lato, che, in linea di principio, gli Stati membri provvedono al finanziamento e all’esecuzione della politica in materia ambientale (art. 192, par. 4, TFUE), e che, fatto salvo il principio «chi inquina paga», qualora una misura basata
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sul par. 1 dello stesso art. 192 TFUE implichi costi ritenuti sproporzionati per le pubbliche autorità di uno Stato membro, tale misura deve prevedere disposizioni appropriate in forma di deroghe temporanee e/o sostegno finanziario del Fondo di coesione (supra, p. 763 ss.) (art. 192, par. 5, TFUE). Infine va segnalato che, in materia di relazioni esterne nel settore de qua, il Trattato prevede che, nel quadro delle loro competenze rispettive, l’Unione e gli Stati membri collaborino con i paesi terzi e con le competenti organizzazioni internazionali, secondo modalità definite sulla base di appositi accordi conclusi tra quest’ultima e i terzi interessati. Ciò, però, senza pregiudizio della competenza degli Stati membri a negoziare nelle sedi internazionali e a concludere accordi internazionali, ancora una volta, però, nei limiti del rispetto del diritto dell’Unione e delle competenze di quest’ultima (art. 191, par. 4, commi 1 e 2, TFUE). Come la Corte ha chiarito da tempo, riferendosi agli artt. 174, par. 4, TCE e 175 TCE (ora, rispettivamente, art. 191, par. 4, e 192, par. 1 e 2, TFUE), «[il primo] definisce gli obiettivi da perseguire nell’ambito della politica dell’ambiente, mentre [il secondo] costituisce la base giuridica su cui gli atti comunitari vengono adottati» (v. Corte giust., parere 6 dicembre 2001, 2/00, cit., punto 43; nonché già sentenze 14 luglio 1990, C-379/92, Peralta, I-3453; e 14 luglio 1998, C284/95, Safety Hi-Tech, I-4301). La procedura da seguire al riguardo è poi precisata dall’art. 218, parr. 6 e 8, TFUE (infra, p. 834 ss.). Naturalmente la natura «concorrente» della competenza in esame si riflette anche sul piano delle relazioni esterne dell’Unione, come conferma lo stesso art. 191, par. 4, comma 2, TFUE, che fa salva la competenza degli Stati membri a stipulare accordi internazionali in materia, sia pur nei limiti poc’anzi indicati (sui quali, comunque, v. più in generale infra, p. 822 ss.): cfr. al riguardo Corte giust. 14 luglio 1994, C-379/92, Peralta, cit.; 30 maggio 2006, C-459/03, Commissione c. Irlanda, I-4635; 3 giugno 2008, C-308/06, Intertanko, I-4057; 20 aprile 2010, C-246/07, Commissione c. Svezia, I-3317; 21 dicembre 2011, C-366/10, Air Transport Association of America, I-13755; 26 novembre 2014, C-66/13, Green Network). Questa situazione può talvolta spingere alla conclusione dei c.d. accordi misti ove ricorrano entrambe le competenze in questione (v. Corte giust. 1° ottobre 2009, C-370/07, Commissione c. Consiglio, I-8917; 8 marzo 2011, C-240/09, Lesoochranárske zoskupenie, I-1255, nonché ancora infra, p. 833 ss.). In tal caso, come noto, s’impone alle parti, ma in particolare agli Stati membri, un obbligo di leale cooperazione (Corte giust. 20 aprile 2010, C-246/07, Commissione c. Svezia, cit.). Nella prassi, oltre che a numerosi accordi bilaterali, l’Unione partecipa alle principali convenzioni internazionali collettive e a tutti i negoziati globali in materia di cambiamenti climatici.
c) Ciò chiarito, torniamo alla disciplina materiale dettata dal Trattato. Cominciando dagli obiettivi enunciati dall’art. 191, par. 1, TFUE, e sopra ricordati, va subito rilevato che essi si presentano, per varietà e ampiezza, come particolarmente ambiziosi, ed in parte anzi assorbono o si sovrappongono ad altri obiettivi autonomamente enunciati dai Trattati. Ad ogni modo, essi concorrono tutti a legittimare un intervento del legislatore dell’Unione, il quale gode di ampia discrezionalità nelle scelte necessarie a modulare il loro armonico perseguimento e conciliarlo con le altre politiche ed azioni comuni previste dai Trattati. Il fatto che essi assorbono o si sovrappongono ad altri obiettivi autonomamente enunciati dai Trattati vale, ad es., per l’obiettivo della protezione della salute umana e per quello, analogo, enunciato dall’art. 168 TFUE, per la sanità pubblica (retro, p. 740 ss.). In proposito, la Corte ha precisato che gli obiettivi e i criteri dell’azione ambientale appaiono talora «strettamente connessi tra di loro, in particolare nell’ambito della lotta contro l’inquinamento dell’aria finalizzata a limi-
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tare i rischi per la salute legati al degrado dell’ambiente», e che, di conseguenza, «l’obiettivo della tutela della salute risulta già compreso, in linea di principio, nell’obiettivo di tutela dell’ambiente» (Corte giust. 21 dicembre 2011, C-28/09, Commissione c. Austria, I-13525). Ma, a parte ciò, va ricordato che, secondo la Corte, l’art. 174 TCE (corrispondente all’attuale art. 191 TFUE) «prevede […] una serie di obiettivi, principi e criteri che il legislatore comunitario deve rispettare nell’attuazione della politica ambientale. Tuttavia, in ragione della necessità di prendere in considerazione alcuni obiettivi e principi enunciati [dall’art. 174 TCE], nonché della complessità dell’attuazione dei criteri stessi, il controllo giurisdizionale deve necessariamente limitarsi a verificare se il Consiglio, nell’adottare il regolamento, abbia commesso un errore di valutazione manifesto quanto alle condizioni di applicabilità [dello stesso art. 174 TCE]» (Corte giust. 14 luglio 1998, C-341/95, Bettati, I-4355; sulla stessa linea, v. Corte giust. 14 luglio 1994, C379/92, Peralta, cit.; 14 luglio 1998, C-284/95, Safety Hi-Tech, I-4301; 6 dicembre 2005, C453/03, C-11/04, C-12/04 e C-194/04, ABNA e a., I-10423).
In tale valutazione, esso dovrà ispirarsi ad alcuni canoni indicati dallo stesso TFUE (e che s’impongono anche agli Stati membri in sede di attuazione della normativa, ambientale o non, dell’Unione), nel senso che deve puntare al più elevato livello di tutela (oltre che tener conto della diversità delle situazioni delle varie regioni dell’Unione), e promuovere lo sviluppo sostenibile, obiettivo questo che è enunciato in particolare nella c.d. clausola trasversale di cui all’art. 11 TFUE, sopra ricordata, e che quindi permea tutte le politiche e le azioni dell’Unione, riqualificando in senso ecologico, almeno sul piano del metodo e delle finalità, l’intero sviluppo economico del Continente. Art. 191, par. 2, TFUE. Resta peraltro inteso che ciò non implica che il livello di tutela da garantire «non deve essere necessariamente il più elevato possibile sotto il profilo tecnico», tanto più che, come si è visto, lo stesso Trattato (art. 193 TFUE) prevede che gli Stati membri possono mantenere o istituire misure di protezione rinforzata rispetto a quelle decise dall’Unione (Corte giust. 14 luglio 1998, C-284/95, Safety Hi-Tech, cit., punto 49; nonché 14 luglio 1998, C-341/95, Bettati, cit.). Sul principio in questione v. anche Corte giust. 1 marzo 2007, C-176/05, KVZ retec, I-1721; 6 ottobre 2009, C-438/07, Commissione c. Svezia, I-9517; 6 settembre 2011, C-442/09, Bablok e a., I-7419; 8 settembre 2011, C-58/10 a C-68/10, Monsanto e a., I-7763; 13 luglio 2017, C-129/16, Túrkevei Tejtermelő Kft. Quanto alla clausola trasversale, è significativa la comunicazione della Commissione, del 24 luglio 2009, Integrare lo sviluppo sostenibile nelle politiche dell’UE: riesame 2009 della strategia dell’Unione europea per lo sviluppo sotenibile (COM (2009) 400 def.), che evoca, come aspetti rilevanti per la sostenibilità ambientale: cambiamenti climatici, energia pulita, trasporto sostenibile, consumo e produzione sostenibili, conservazione e gestione delle risorse naturali, sanità pubblica, inclusione sociale, demografia e flussi migratori, istruzione e formazione, ricerca e sviluppo, ecc.
d) Ancor più interessanti sono i principi che l’art. 191, par. 2, TFUE pone a fondamento dell’azione dell’Unione in materia ambientale. Si tratta, come si è visto, dei principi di precauzione e dell’azione preventiva; del principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente; nonché del principio c.d. «chi inquina paga» (per i quali, avendo avuto modo di occuparsene, la Corte ha esplicitamente parlato di «principi fondamentali di tutela dell’ambiente»: Corte giust., parere del 6 dicembre 2001, 2/00, cit., 29; nonché sentenza 9 dicembre 2008, C121/07, Commissione c. Francia, I-9159; 4 marzo 2015, C-534/13, Fipa Group). Quanto al principio di precauzione e dell’azione preventiva, che costituisce un
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principio cardine della politica ambientale dell’Unione, esso implica, come ha precisato la Corte, che in presenza di una minaccia o di un rischio di pregiudizio alla tutela dell’ambiente e della salute umana o comunque «quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, le istituzioni possono adottare misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi». A determinate condizioni (esame approfondito caso per caso, carattere non sistematico delle misure, loro proporzionalità, ecc.), tale principio può giustificare anche provvedimenti unilaterali degli Stati membri. V. Corte giust. 5 maggio 1998, C-180/96, Regno Unito c. Commissione, I-2265, 99. Nell’applicazione del principio, occorre verificare se l’Unione, pur godendo di potere discrezionale al riguardo, si sia comunque preoccupata «di garantire un certo equilibrio tra, da una parte, la protezione della salute, dell’ambiente e dei consumatori e, dall’altra, gli interessi economici degli operatori, nel perseguimento dell’obiettivo, ad esso assegnato dal Trattato, di garantire un livello elevato di protezione della salute e dell’ambiente» (Corte giust. 8 luglio 2010, C-343/09, Afton Chemical, I-7027, 56). E soprattutto di verificare il rispetto del principio di proporzionalità, cui la Corte attribuisce, per ovvi motivi, una particolare importanza ai fini in questione, specie in relazione alla durata delle eventuali misure restrittive. Sul principio v. anche, tra le tante, Corte giust. 5 maggio 1998, C-157/96, National Farmers’Union e a., I-2211; 9 settembre 2003, C-236/01, Monsanto Agricoltura Italia e a., I-8105; 23 settembre 2004, C-280/02, Commissione c. Francia, I-8573; 2 dicembre 2004, C-41/02, Commissione c. Paesi Bassi, I-11375; 26 maggio 2005, C-132/03, Codacons e Federconsumatori, I-4167; 29 aprile 2010, C-446/08, Solgar, I-3973; 22 dicembre 2010, C-77/09, Gowan Comércio Internacional, I-13533; 26 maggio 2011, C-538/09, Commissione c. Belgio, I4687; 21 luglio 2011, C-15/10, Etimine, I-6681; 6 settembre 2011, C-442/09, Bablok e a., cit.; 9 giugno 2016, C-78/16 e C-79/16, Pesce e.a. Sui provvedimenti unilaterali degli Stati membri, v. ad es. Corte giust. 2 dicembre 2004, Commissione c. Paesi Bassi, cit. A questo proposito, ma anche in termini più generali, va sottolineato che se è vero che la normativa dell’Unione nella materia de qua, nel rispetto del principio di sussidiarietà, lascia spesso agli Stati membri un certo margine di discrezionalità (Corte giust. 29 aprile 1999, C-293/97, Standley e a., I-2603; 8 giugno 2006, C-60/05, WWF Italia, I-5083; 6 novembre 2008, C-381/07, Association nationale pour la protection des eaux et rivières – TOS, I-8281; 15 settembre 2011, C-53/10, Franz Mücksch, I-8311; 19 novembre 2014, C-404/13, ClientEarth; 5 aprile 2017, C-488/15, Commissione c. Bulgaria), è anche vero che la Corte svolge un controllo assai rigoroso sul rispetto dei parametri prescritti da quella normativa (v., ad es., Corte giust. 23 marzo 2006, C-209/04, Commissione c. Austria, I-2755; 9 novembre 2006, C-216/05, Commissione c. Irlanda, I-10787; 10 maggio 2007, C-508/04, Commissione c. Austria, I-3787; 4 marzo 2010, C241/08, Commissione c. Francia, I-1697; 21 luglio 2011, C-14/10, Nickel Institute, I-6609; 15 marzo 2012, C-340/10, Commissione c. Cipro; 26 aprile 2017, C-142/16, Commissione c. Germania).
Nei limiti, non sempre evidenti, in cui si distingue da quello di precauzione (in effetti, talvolta i due principi sono evocati congiuntamente dalla Corte: v. ad es. sentenza 5 ottobre 1999, C-175/98 e C-177/98, Lirussi e Bizzaro, I-6881), il principio dell’azione preventiva tende a creare le condizioni perché si possa intervenire non già (e se e quando ancora possibile) per rimediare a danni ambientali anche solo eventuali, ma per evitare che si verifichi un pregiudizio per l’ambiente in una situazione di rischio comprovato. Testimonianza dell’attenzione per tale principio sono le note direttive dell’Unione sulla valutazione dell’impatto ambientale, che impongono alle autorità nazionali di operare una simile valutazione rispetto a piani o progetti
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relativi alla destinazione o all’uso del territorio. Proprio anzi in relazione alla natura e alle finalità di tale principio, dette direttive introducono apposite e interessanti procedure volte non solo a precisare i termini e le modalità delle valutazioni, ma anche ad assicurare un controllo diffuso sulle stesse. V. dir. 2011/92/UE del PE e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati (GUUE L 26, 1), che ha codificato precedenti direttive; dir. 2001/42/CE del PE e del Consiglio, del 27 giugno 2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente (GUCE L 197, 30), relativamente alla quale v., di recente, Corte giust. 28 febbraio 2012, C-41/11, Inter-Environnement Wallonie e Terre wallonne, nonché 27 ottobre 2016, C-290/15, D’Oultremont e a.; 26 luglio 2017, C196/16 e C-197/16, Comune di Corridonia. Ma analoghe disposizioni si ritrovano anche in direttive settoriali: v. ad es. art. 6, par. 3, dir. 92/43/CEE del Consiglio, del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, c.d. «direttiva Habitat» (GUCE L 206, 7); art. 6, par. 2, dir. 2008/1/CE del PE e del Consiglio, del 15 gennaio 2008, sulla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento (GUUE L 28, 8), poi abrogata dalla dir. 2010/75/UE del PE e del Consiglio, del 24 novembre 2010, relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento) (GUUE L 334, 17). In materia, oltre la normativa, anche la giurisprudenza della Corte è cospicua e ha permesso di precisare alcuni aspetti di tale normativa, segnatamente per quanto riguarda la portata degli obblighi sostanziali e proce-durali da essa imposti (v., fra le tante, Corte giust. 16 settembre 1999, C435/97, World Wildlife Fund (WWF), I-5613; 19 settembre 2000, C-287/98, Linster, I-6917; 6 giugno 2002, C-159/00, Sapod Audic, I-5031; 7 gennaio 2004, C-201/02, Wells, I-1723; 10 giugno 2004, C-87/02, Commissione c. Italia, I-5975; 7 settembre 2004, C-127/02, Waddenvereniging e Vogelbeschermingsvereniging, I-7405; 4 maggio 2006, C-290/03, Barker, I-3949; 28 febbraio 2008, C-2/07, Abraham, I-1197; 18 ottobre 2011, da C-128/09 a C-131/09, C-134/09 e C-135/09, Boxus e a., I-9711; 22 marzo 2012, C-567/10, Inter-Environnement Bruxelles), anche ampliando o integrando quella portata (v. ad es., Corte giust. 25 luglio 2008, C-142/07, Ecologistas en AcciónCODA, I-6097; 10 dicembre 2009, C-205/08, Umweltanwalt von Kärnten, I-11525; 17 marzo 2011, C-275/09, Brussels Hoofdstedelijk Gewest e a., I-1753; 26 maggio 2011, da C-165/09 a C167/09, Stichting Natuur en Milieu e a., I-4599; 22 settembre 2011, C-295/10, Valčiukienė e a., I8819; nonché la citata sentenza Inter-Environnement Bruxelles). Quanto al controllo diffuso sulle valutazioni, la Corte ha prodotto un’interessante e consistente giurisprudenza rilevante sotto vari profili. Anzitutto, e pur nel rispetto del principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri (supra, p. 356 ss.), essa è stata molto rigorosa nel richiedere il rispetto della garanzia della tutela giurisdizionale in relazione all’osservanza della normativa ambientale dell’Unione da parte delle autorità nazionali (v. tra le altre, oltre la giurisprudenza citata alla nota precedente, Corte giust. 23 maggio 2000, C-209/98, Sydhavnens Sten & Grus, I3743; 6 giugno 2002, C-159/00, Sapod Audic, cit.; 7 settembre 2004, C-127/02, Waddenvereniging e Vogelbeschermingsvereniging, cit.; 25 luglio 2008, C-237/07, Janecek, I-6221). Ma sulla stessa linea la Corte si è orientata anche per quanto riguarda i diritti d’informazione e di partecipazione dei cittadini ai processi decisionali in materia ambientale, in relazione alle varie direttive rilevanti in proposito (ad es.: dir. 2003/4/CE del PE e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale, GUUE L 41, 26) e soprattutto alla Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998, sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico nei processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale (v. tra le altre, Corte giust. 12 giugno 2003, C-316/01, Glawischnig, I-5995; 21 aprile 2005, C-186/04, Housieaux, I-3299; 30 aprile 2009, C75/08, Mellor, I-3799; 15 ottobre 2009, C-263/08, Djurgården-Lilla Värtans Miljöskyddsförening, I-9967; 22 dicembre 2010, C-524/09, Ville de Lyon, I-14115; 8 marzo 2011, C-240/09, Lesoochranárske zoskupenie, cit.; 12 maggio 2011, C-115/09, Bund für Umwelt und Naturschutz Deutschland, Landesverband Nordrhein-Westfalen, I-3673; 28 luglio 2011, C-71/10, Office of Communications, I-7205; 18 ottobre 2011, da C-128/09 a C-131/09, C-134/09 e C-135/09, Boxus e a., cit.;
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14 febbraio 2012, C-204/09, Flachglas Torgau; 16 febbraio 2012, C-182/10, Solvay; 11 settembre 2012, C-43/10, Nomarchiaki Aftodioikisi Aitoloakarnanias; 15 gennaio 2013, C-416/10, Križan e a.; 11 aprile 2013, C-260/11, Edwards; 19 dicembre 2013, C-279/12, Fish Legal e Shirley; 6 ottobre 2015, C-71/14, East Sussex County Council; 23 novembre 2016, C-442/14, Bayer CropScience e Stichting De Bijenstichting).
Per quanto concerne poi il principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, principio ugualmente non identificabile con nettezza rispetto a quelli già esaminati, si può dire che esso autorizza, anche in deroga alla normativa comune, interventi di tutela già in sede di adozione delle pertinenti misure, al fine di evitare che un danno possa diffondersi o assumere forme ancora più gravi. È quanto ha sottolineato la Corte, ad es., a proposito delle deroghe che gli Stati membri possono porre alla libera circolazione dei rifiuti nel mercato unico in attuazione della disciplina adottata in materia dall’Unione (reg. (CE) n. 1013/2006 del PE e del Consiglio, del 14 giugno 2006, relativo alle spedizioni di rifiuti, GUUE L 190, 1; dir. 2008/98/CE del PE e del Consiglio, del 19 novembre 2008, relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive, GUUE L 312, 3): v. Corte giust. 23 maggio 2000, C-209/98, Sydhavnens Sten & Grus, I-3743; nonché, tra le altre, 9 luglio 1992, C2/90, Commissione c. Belgio, I-4431; 8 novembre 2007, C-221/06, Stadtgemeinde Frohnleiten e Gemeindebetriebe Frohnleiten, I-9643; 4 marzo 2010, C-297/08, Commissione c. Italia, I-1749; 12 dicembre 2013, C-292/12, Ragn-Sells.
In ordine infine al principio «chi inquina paga», esso mira, come noto, a evitare per quanto possibile che la collettività sopporti i costi degli eventuali danni ambientali, imputandoli invece ai soggetti che ne sono responsabili, e ciò sia a fini, per così dire, di deterrenza che di riparazione. V. al riguardo, tra le altre, Corte giust. 29 aprile 1999, C-293/97, Standley e a., cit.; 7 settembre 2004, C-1/03, van de Walle, I-7613; 24 giugno 2008, C-188/07, Commune de Mesquer, I-4501; 25 febbraio 2010, C-172/08, Pontina Ambiente, I-1175; 9 marzo 2010, C-378/08, ERG e a., I-1919; 24 maggio 2012, C-97/11, Amia; 4 marzo 2015, C-534/13, Fipa Group e.a.; 30 marzo 2017, C335/16, VG Čistoća; 13 luglio 2017, C-129/16, Túrkevei Tejtermelő Kft.
e) Come si è anticipato, l’attuazione degli obiettivi della politica ambientale dell’Unione ha prodotto una pervasiva e penetrante serie di atti di diritto derivato, di cui non è qui possibile dare analiticamente conto. Ci limiteremo quindi a segnalare, tra i più significativi, quelli che consentono di meglio cogliere il senso e la portata della politica dell’Unione in materia. In quest’ottica, si possono individuare, secondo le indicazioni degli stessi programmi generali, quattro principali ambiti d’azione. Il primo concerne la sfida posta dal cambiamento climatico e attiene soprattutto al sistema di controllo delle quote di emissioni dei gas a effetto serra; il secondo riguarda la protezione dei sistemi naturali e della biodiversità; il terzo attiene alla salvaguardia della qualità dell’ambiente e della salute umana; e il quarto, infine, ha ad oggetto la gestione delle risorse naturali e dei rifiuti. Quanto al primo ambito d’azione, v., in particolare, dir. 2003/87/CE del PE e del Consiglio, del 13 ottobre 2003, che istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto
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serra nella Comunità e che modifica la dir. 96/61/CE del Consiglio (GUUE L 275, 32), già a sua volta in più occasioni modificata (specie dalla dir. 2008/101/CE del PE e del Consiglio, del 19 novembre 2008, GUUE L 8, 3, tesa in sostanza ad estendere il campo d’applicazione del sistema di scambio di quote contemplato dalla dir. 2003/87 anche al settore aereo a partire dal 2012: v. in proposito Corte giust. 21 dicembre 2011, C-366/10, Air Transport Association of America e a., cit.; sulla dir. 2003/87, v. anche Corte giust. 16 dicembre 2008, C-127/07, Arcelor Atlantique e Lorraine e a., I-9895; 17 ottobre 2013, C-203/12, Billerud Karlsborg e Billerud Skärblacka; 22 giugno 2016, C-540/14 P, DK Recycling und Roheisen; 21 dicembre 2016, C-272/15, Swiss International Air Lines; 8 marzo 2017, C-321/15, ArcelorMittal Rodange e Schifflange). Il sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nell’Unione (c.d. «sistema comunitario») stabilito dalla direttiva in questione è inteso a favorire la riduzione delle emissioni di tali gas per rispettare gli impegni che l’Unione e gli Stati membri hanno assunto per ridurre le emissioni di gas a effetto serra di origine antropica nell’ambito del c.d. Protocollo di Kyoto (allegato alla convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), approvato con dec. 2002/358/CE del Consiglio, del 25 aprile 2002 (GUCE L 130, 1), direttiva che tiene conto anche dell’adempimento congiunto dei relativi impegni. In materia è intervenuto anche il reg. (UE) n. 525/2013 del PE e del Consiglio, del 21 maggio 2013, relativo ad un meccanismo di monitoraggio e comunicazione delle emissioni di gas a effetto serra e di comunicazione di altre informazioni in materia di cambiamenti climatici a livello nazionale e dell’UE e che abroga la dec. 280/2004/CE (GUUE L 165, 13), seguito dalla dec. 529/2013/UE delle stesse istituzioni, in pari data, sulle norme di contabilizzazione relative alle emissioni e agli assorbimenti di gas a effetto serra risultanti da attività di uso del suolo e silvicoltura e sulle informazioni relative alle azioni connesse a tali attività (GUUE L 165, 80). Va infine segnalata la dec. (UE) 2016/1841 del Consiglio, del 5 ottobre 2016, relativa alla conclusione, a nome dell’Unione europea, dell’accordo di Parigi adottato nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (GUUE L 282, 1). Per il secondo ambito d’azione, v. la citata dir. 92/43, c.d. «direttiva Habitat» (più volte modificata, anche sulla spinta della giurisprudenza della Corte), la quale, per l’essenziale, istituisce una rete ecologica di zone speciali protette, denominata «Natura 2000». Per il terzo, cfr., tra i numerosissimi atti in materia, la dir. 96/62/CE del Consiglio, del 27 settembre 1996, in materia di valutazione e di gestione della qualità dell’aria ambiente (GUCE L 296, 55), abrogata poi dalla dir. 2008/50/CE del PE e del Consiglio, del 21 maggio 2008, relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa (GUUE L 152, 1); nonché la citata dir. 2010/75/UE, in materia di emissioni industriali. Quanto al quarto, v. dir. 2000/60/CE del PE e del Consiglio, del 23 ottobre 2000, che istituisce un quadro per l’azione comunitaria in materia di acque (GUCE L 327, 1), anch’essa più volte già modificata, in particolare dalla dir. 2008/105/CE del PE e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, relativa a standard di qualità ambientale nel settore della politica delle acque, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive del Consiglio 82/176/CEE, 83/513/CEE, 84/156/CEE, 84/491/CEE e 86/280/CEE (GUUE L 348, 84). V. anche, in giurisprudenza, per tutte, Corte giust. 7 dicembre 2016, C-686/15, Vodoopskrba i odvonja); e la citata dir. 2008/98, in materia di rifiuti.
Benché si collochino fuori da tale schematizzazione, meritano di essere segnalati, per la loro importanza e per la loro portata trasversale, anche alcuni altri atti rilevanti in materia. Si allude, in particolare, al reg. (CEE) n. 1210/90 del Consiglio, del 7 maggio 1990, sull’istituzione dell’Agenzia europea dell’ambiente e della Rete europea d’informazione e di osservazione in materia ambientale (GUCE L 120, 1); alla dir. 2004/35/CE del PE e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, GUUE L 143, 56 (in giurisprudenza, v. Corte giust. 9 marzo 2010, C-378/08, ERG e a., cit.; da ultimo, 13 luglio 2017, C-129/16, Túrkevei Tejtermelő Kft); alla dir. 2008/99/CE del PE e del Consiglio, del 19 novembre 2008, sulla tutela penale dell’ambiente (GUCE L
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328, 28); nonché alla già citata dir. 2011/92, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati. Il reg. n. 1210/90 del Consiglio è stato poi abrogato e sostituito dal reg. (CE) n. 401/2009 del PE e del Consiglio, del 23 aprile 2009 (GUUE L 126, 13), che codifica le numerose modifiche successive dello stesso. L’Agenzia si configura come un organismo indipendente con il compito di proteggere e migliorare l’ambiente conformemente alle disposizioni stabilite nei Trattati e ai programmi di azione dell’Unione in materia, segnatamente nell’ottica di promuovere uno sviluppo sostenibile. La direttiva dir. 2008/99/CE impone agli Stati membri di prevedere sanzioni penali per i comportamenti assunti in violazione della normativa ambientale dell’Unione, quando siano posti in essere intenzionalmente o per grave negligenza da persone fisiche o giuridiche (v. sul punto Corte giust. 12 maggio 1987, 372/85 e 374/85, Traen, 2141; 7 novembre 1989, 125/88, Nijman, 3533; 26 settembre 1996, C-168/95, Arcaro, I-4705; 11 novembre 2004, C-457/02, Niselli, I10853). Va segnalato che detta direttiva rappresenta il risultato di un lungo conflitto interistituzionale quanto alla scelta della pertinente base giuridica dell’intervento dell’Unione. Essa è stata infatti adottata dopo che la Corte (sentenza 13 settembre 2005, C-176/03, Commissione c. Consiglio, cit.) aveva annullato, perché fondata su una base giuridica non corretta, la dec. quadro 2003/80/GAI del Consiglio, del 27 gennaio 2003, relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale (GUCE L 29, 55). Sulla stessa linea, Corte giust. 23 ottobre 2007, C-440/05, Commissione c. Consiglio, cit., con riguardo all’annullamento della dec. quadro 2005/667/GAI del Consiglio, del 12 luglio 2005, intesa a rafforzare la cornice penale per la repressione dell’inquinamento provocato dalle navi (GUUE L 255, 164).
10. L’energia, il turismo e la protezione civile Pur avendo aspetti tra loro assai diversi, i tre settori esaminati in questo paragrafo sono accomunati da una medesima sorte, e cioè di essere stati prima, e per lungo tempo, fuori dal cerchio delle competenze dell’Unione, poi di aver fatto per qualche anno una sorta di anticamera in attesa di varcarne il confine e alla fine di esservi entrate a pieno titolo. In effetti, sotto la pressione di sopravvenute esigenze e del più volte sottolineato allargamento dell’area di azione dell’Unione, quelle materie avevano via via fatto capolino in modo discreto, e sul terreno della prassi, tra le iniziative dell’allora Comunità, per poi trovare a Maastricht una certa visibilità a livello di Trattato, ma ciò solo nel senso di essere elencate tra gli obiettivi della Comunità (art. 3, lett. t), TCE), perché poi all’inserimento in tale elenco non si accompagnava, come per tutte le altre competenze, la previsione di corrispondenti norme materiali volte a definire la portata e i termini specifici di una competenza dell’Unione al riguardo. Si può dire, in un certo senso, che quei settori restavano come sospesi nel vuoto, e tuttavia il fatto di rientrare tra gli obiettivi dell’Unione, permetteva comunque di adottare delle misure al riguardo, utilizzando disposizioni per la cui attivazione quella previsione poteva essere sufficiente (ad esempio per la c.d. clausola di flessibilità di cui oggi all’art. 352 TFUE). Del resto, al Trattato di Maastricht era allegata una Dichiarazione sulla protezione civile, l’energia e il turismo (n. 1), che proclamava la volontà degli autori del Trattato di esaminare «la questione dell’inserimento [già nel TCE] di Titoli relativi [a detti] settori», e al tempo stesso im-
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pegnava la Commissione a portare avanti l’azione della Comunità in tali settori «sulla base delle disposizioni vigenti» dei Trattati.
Con il Trattato di Lisbona, comunque, questa lacuna è stata colmata e i tre settori hanno ricevuto, come subito vedremo, una specifica e autonoma regolamentazione anche al livello delle norme materiali. a) Cominciando dal settore dell’energia, va subito ricordato che, se la CECA e l’Euratom ponevano questo settore al centro o quasi della loro attenzione, la CEE invece lo ha a lungo ignorato, almeno fino all’AUE, nel quale esso faceva sia pur solo indirettamente capolino, ma soprattutto fino al Trattato di Maastricht, nel quale invece esso fu esplicitamene evocato, ancorché nei singolari termini appena ricordati. L’AUE inserì tra le competenze dell’allora Comunità alcune materie rilevanti ai presenti fini, come le reti transeuropee, tra le quali rientrano quelle per il trasporto di elettricità e gas (art. 129 B TCE, oggi 170 TFUE); la ricerca e lo sviluppo tecnologico (artt. 130 F e 130 G TCE, oggi 179 e 180 TFUE); e l’ambiente (art. 130 R TCE, oggi 191 TFUE). Com’è noto, il TCECA aveva tra le sue ragioni fondative proprio l’esigenza di regolamentare quella che allora era una delle più importanti fonti produttive di energia (il carbone), e quello CEEA invece aveva ad oggetto quella che si annunciava come la fonte energetica del futuro (l’energia atomica). Nel TCEE, invece, la materia veniva ricollegata alla Comunità solo in ragione delle connessioni eventuali con la realizzazione ed il funzionamento del mercato comune: circolazione delle merci e, in particolare i monopoli commerciali di cui all’art. 37 TCEE (supra, p. 464 ss.), tanto più che, come già ricordato l’energia elettrica era qualificata come «merce» (Corte giust. 15 luglio 1964, 6/64, Costa c. ENEL, 1127; 27 aprile 1994, C-393/92, Almelo, I-1477), così come i rischi per l’approvvigionamento energetico (nella specie, dei prodotti petroliferi) potevano essere ricondotti ai motivi di pubblica sicurezza quale legittimo limite alla circolazione delle merci ex (allora) art. 36 TCEE (Corte giust. 10 luglio 1984, 72/83, Campus Oil, 2727).
Questa limitata attenzione a livello di Trattati non impedì, però, come pure si è accennato, che la Comunità, oltre ad adottare specifici interventi, procedesse, soprattutto a partire da metà degli anni ’90, alla progressiva elaborazione di una strategia in materia di energia, volta a far fronte, sul piano interno e internazionale, alle crescenti esigenze del settore, anche perché tali esigenze si intrecciavano con gli sviluppi che intanto si realizzavano sul versante delle altre competenze comunitarie in qualche modo collegate (agricoltura, trasporti, reti, industria, ambiente, ecc.), e con i processi di liberalizzazione e di armonizzazione normativa che ne conseguivano e che inevitabilmente si proiettavano (o erano suscettibili di proiettarsi) sulle politiche energetiche nazionali. Si possono ricordare al riguardo il Libro Verde, dell’8 marzo 2006, Una strategia europea per un’energia sostenibile competitiva, sicura (COM (2006) 105 def.), nonché le varie comunicazioni della Commissione che annunciavano le iniziative che poi la stessa istituzione avrebbe proposto negli anni successivi: v. per tutte la comunicazione del 23 gennaio 2008, «Due volte 20 per il 2020 – L’opportunità del cambiamento climatico per l’Europa» (COM (2008) 30 def.), che ha lanciato il c.d. «pacchetto clima-energia» incentrato sulla strategia conosciuta come «20-20-20», perché prevedeva di realizzare, entro il 2020, il taglio delle emissioni di gas serra del 20%; la riduzione del consumo di energia del 20%; il 20% del consumo energetico totale europeo generato da fonti rinnovabili. Alla comunicazione ha fatto poi seguito il predetto pacchetto, adottato il 23 aprile
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2009 con l’emanazione di una serie di direttive del PE e del Consiglio, tra le più importanti delle quali ricordiamo: dir. 2009/28/CE, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili (GUUE L 140, 16); dir. 2009/29/CE, che modifica la dir. 2003/87/CE al fine di perfezionare ed estendere il sistema comunitario per lo scambio di quote di emissione di gas a effetto serra (GUUE L 140, 63. In giurisprudenza, v., di recente, Corte giust. 1° luglio 2014, C-573/12, Alands Vindkraft; 19 gennaio 2017, C-460/15, Schaefer Kalk; 2 marzo 2017, C-4/16, J.D.); dir. 2009/30/CE, che modifica la dir. 98/70/CE per quanto riguarda le specifiche relative a benzina, combustibile diesel e gasolio nonché l’introduzione di un meccanismo inteso a controllare e ridurre le emissioni di gas a effetto serra, modifica la dir. 1999/32/CE del Consiglio per quanto concerne le specifiche relative al combustibile utilizzato dalle navi adibite alla navigazione interna e abroga la dir. 93/12/CEE (GUUE L 140, 88); dir. 2009/31/CE, relativa allo stoccaggio geologico di biossido di carbonio (GUUE L 140, 114); nonché la dec. 406/2009/CE, concernente gli sforzi degli Stati membri per ridurre le emissioni dei gas a effetto serra al fine di adempiere agli impegni della Comunità al riguardo entro il 2020 (GUUE L 140, 136). Tra i precedenti, specifici interventi, possiamo ricordare le seguenti misure, fondate su varie basi giuridiche (artt. 95 e 175 TCE, oggi, rispettivamente, artt. 114 e 192 TFUE; art. 308 TCE, oggi art. 352 TFUE): dir. 94/22/CE del PE e del Consiglio, del 30 maggio 1994, relativa alle condizioni di rilascio e di esercizio delle autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione d’idrocarburi (GUCE L 164, 3); dec. 1999/21/CE, Euratom del Consiglio, del 14 dicembre 1998, che adotta un programma quadro pluriennale di azioni nel settore dell’energia (1998-2002) e successivi programmi specifici (GUCE L 7, 16); dir. 2009/28/CE del PE e del Consiglio, del 23 aprile 2009, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE (GUUE L 140, 16). Anche sul piano delle relazioni esterne la Comunità ha intrattenuto una fitta rete di accordi di cooperazione e partenariato, per concorrere alla ricerca delle soluzioni appropriate delle più gravi questioni energetiche: dialogo con i paesi produttori di petrolio e di gas, e Partenariato EuroMediterraneo e con i paesi dell’ex Unione Sovietica per i problemi dell’approvvigionamento; adesione al Protocollo di Kyoto per assicurare la sostenibilità ambientale; adesione al Trattato sulla Carta dell’energia del 17 dicembre 1994 (dec. 98/181/CE, CECA e Euratom del Consiglio e della Commissione, del 23 settembre 1997, concernente la conclusione da parte delle Comunità europee del Trattato sulla Carta dell’energia e del Protocollo della Carta dell’energia sull’efficienza energetica e sugli aspetti ambientali correlati, GUCE L 69, 1) e al Trattato istitutivo della Comunità dell’energia del 20 luglio 2006, che raggruppa i 27 Stati membri dell’Unione europea e i 7 Stati e territori europei dei Balcani e crea un mercato interno dell’energia elettrica e del gas naturale (dec. 2006/500/CE del Consiglio, del 29 maggio 2006, relativa alla conclusione da parte della Comunità europea del Trattato della Comunità dell’energia, GUUE L 198, 15).
È tuttavia il Trattato di Lisbona, come già accennato, che, superando la tradizionale riluttanza degli Stati membri (di cui comunque vedremo tra breve le persistenti tracce) a subire in questo settore interferenze con le politiche energetiche nazionali, ha fatto finalmente rientrare la materia nel diritto primario dell’Unione, con l’inserimento di un apposito Titolo (il Titolo XXI), composto dal solo art. 194 TFUE, che conferisce all’Unione un’autonoma competenza sull’energia. Rilevano peraltro in materia anche l’art. 4, par. 2, lett. i), TFUE, che colloca l’energia tra le materie nelle quali l’Unione gode, come vedremo, di una competenza concorrente con quella degli Stati membri; l’art. 122, par. 1, TFUE, che prevede la possibilità che il Consiglio decida, «in uno spirito di solidarietà, le misure adeguate alla situazione economica, in particolare qualora sorgano gravi difficoltà nell’approvvigionamento di determinati prodotti, in particolare nel settore dell’energia»; l’art. 170 TFUE (sulle reti transeuropee, anche nel settore dell’energia); l’art. 192 TFUE (in materia di ambiente); nonché la Dichiarazione n. 35, allegata al Trattato di Lisbona, relativa
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all’art. 194 TFUE, secondo la quale detto articolo non pregiudica «il diritto degli Stati membri di adottare le disposizioni necessarie per garantire il loro approvvigionamento energetico alle condizioni previste dall’art. 347 [TFUE]», il quale, a sua volta, impone agli Stati membri di consultarsi al fine di prendere di comune accordo le disposizioni che s’impongono ove il funzionamento del mercato interno possa risentire delle misure che uno Stato membro è costretto ad adottare in caso di gravi difficoltà interne o internazionali.
In particolare, la disposizione prevede che «[n]el quadro dell’instaurazione o del funzionamento del mercato interno e tenendo conto dell’esigenza di preservare e migliorare l’ambiente, la politica dell’Unione nel settore dell’energia è intesa, in uno spirito di solidarietà tra Stati membri, a: a) garantire il funzionamento del mercato dell’energia; b) garantire la sicurezza dell’approvvigionamento energetico nell’Unione; c) promuovere il risparmio energetico, l’efficienza energetica e lo sviluppo di energie nuove e rinnovabili; d) promuovere l’interconnessione delle reti energetiche» (par. 1). Per una prima applicazione della disposizione, v. Corte giust. 6 settembre 2012, C-490/10, Parlamento c. Consiglio. La disposizione nulla dice quanto alla competenza esterna dell’Unione nel settore dell’energia, diversamente da quanto avviene per molte delle competenze esaminate in questo Capitolo; ma ciò non significa che l’Unione non goda di competenze in tale settore a titolo delle disposizioni generali in materia (artt. 216 e 352 TFUE, rispettivamente infra, p. 822 ss. e supra, p. 415 ss.), come del resto conferma la prassi evocata poc’anzi.
Analizzeremo subito il senso e la portata di tale disposizione. Prima conviene sottolineare, in termini generali, che gli interventi di cui essa parla sono inquadrati nel contesto di una «politica dell’Unione nel settore dell’energia», a sottolineare, forse con eccessiva ambizione, che gli stessi non devono (o non dovrebbero) avere carattere episodico e occasionale, ma esprimere il senso di scelte coerenti ed organiche, che si inseriscano armonicamente, e «in uno spirito di solidarietà tra Stati membri», nel contesto dell’instaurazione o del funzionamento del mercato interno e della politica ambientale dell’Unione. Per realizzare tale disegno, e in particolare per perseguire gli obiettivi da esso enunciati, l’art. 194 TFUE abilita il legislatore dell’Unione ad adottare, seguendo la procedura legislativa ordinaria, e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, tutte le misure necessarie (par. 2, comma 1). Per contro, sarà il Consiglio, deliberando secondo una procedura legislativa speciale all’unanimità e previa consultazione del PE, a stabilire quelle misure, se le stesse sono principalmente di natura fiscale (par. 3); e ciò in considerazione dell’importanza della tassazione delle fonti energetiche e soprattutto dell’incidenza che la diversità dei regimi fiscali nazionali può proiettare sulla competitività del mercato energetico. Salvo quanto diremo tra breve, il Trattato non precisa ulteriormente l’ambito d’intervento di dette misure, che saranno quindi delimitate in funzione dei predetti obiettivi, ma potranno vertere su tutti gli aspetti della materia. Si tratta, peraltro, come precisa lo stesso art. 4, par. 2, lett. i), TFUE, di una competenza concorrente, una competenza cioè che, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, non esclude quella degli Stati membri (rileva al riguardo anche la Dichiarazione n. 35, allegata al Trattato di Lisbona), ma solo nella misura in cui l’Unione non abbia ancora esercitato la propria e comunque senza pregiudicare tale esercizio (supra, p. 423).
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Le preoccupazioni degli Stati membri sopra segnalate non sono però rimaste senza seguito. Lo stesso art. 194 TFUE stabilisce infatti che il legislatore dell’Unione non può adottare misure che incidano sul diritto di uno Stato membro di determinare le condizioni di utilizzo delle sue fonti energetiche (in linea con l’art. 345 TFUE, secondo cui i Trattati non pregiudicano il regime di proprietà esistente negli Stati membri), la scelta tra varie fonti energetiche e la struttura generale del suo approvvigionamento energetico, salvo per quanto riguarda le misure adottate, ex art. 192, par. 2, lett. c), TFUE, a questi ultimi due fini nel contesto della politica ambientale (art. 194, par. 2, comma 2, TFUE) (il che, va detto, si presta ad alimentare molte difficoltà interpretative e soprattutto applicative, visto che la formulazione della disposizione sembra voler far concorrenza al celebre responso della sibilla cumana …). Passando ora a un esame più analitico della disciplina materiale dettata dal Trattato, e segnatamente all’art. 194 TFUE, va anzitutto ribadito che tale disciplina viene ricollegata alla realizzazione del mercato interno e ad altre politiche dell’Unione, in particolare a quella volta a preservare e migliorare l’ambiente (ma è implicito, nel richiamo alla «solidarietà tra gli Stati membri», anche quello alla politica economica dell’Unione, come conferma la previsione dell’art. 122 TFUE, di cui si è detto poc’anzi, nonché a p. 690 s.). Il che non può certo sorprendere dati gli evidenti nessi tra i due aspetti, confermati altresì dai riferimenti che le norme sull’ambiente operano a loro volta al settore dell’energia (basti pensare all’art. 191 TFUE, secondo il quale la politica dell’Unione in materia di ambiente persegue «l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali», e quindi soprattutto delle risorse energetiche). Relativamente poi ai quattro obiettivi indicati dall’art. 194 TFUE, e sopra elencati, basterà ricordare, per quel che concerne il funzionamento del mercato dell’energia, che una politica energetica competitiva passa necessariamente attraverso la sia pur graduale liberalizzazione dei relativi mercati, specie elettricità e gas. Ed è in effetti in tale direzione che l’Unione ha operato ed opera da tempo, anche con il supporto della giurisprudenza della Corte di giustizia. Ciò soprattutto attraverso l’adozione nel tempo e in «fasi diverse» di «pacchetti» di misure relative ai servizi di interesse economico generale di cui sono incaricate le imprese energetiche e allo smantellamento dei monopoli pubblici nei mercati di elettricità e gas: v., tra le più recenti direttive del PE e del Consiglio: dir. 2009/72/CE, del 13 luglio 2009, relativa a norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica e che abroga la dir. 2003/54/CE (GUUE L 211, 55); dir. 2009/73/CE, del 13 luglio 2009, relativa a norme comuni per il mercato interno del gas naturale e che abroga la dir. 2003/55/CE (GUUE L 211, 94), sulle quali v. Corte giust. 7 giugno 2005, C-17/03, VEMW e a., I-4983; 22 maggio 2008, C-439/06, Citiworks, I-3913; 21 dicembre 2011, C-242/10, ENEL, I13665; 7 settembre 2016, C-121/15, ANODE. V. anche reg. (CE) n. 713/2009 del PE e del Consiglio, del 13 luglio 2009 (GUUE L 211, 1), che ha istituito la «Agenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia»; reg. (CE) n. 715/2009 del PE e del Consiglio, del 13 luglio 2009, relativo alle condizioni di accesso alle reti di trasporto del gas naturale e che abroga il reg. (CE) n. 1775/2005; nonché reg. (UE) n. 1227/2011 del PE e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, concernente l’integrità e la trasparenza del mercato dell’energia all’ingrosso (GUUE L 326, 1). Quanto alla giurisprudenza, cfr. già Corte giust. 2 febbraio 1988, 67/85, 68/85 e 70/85, Kwekerij van der Kooy e a. c. Commissione, 219; 27 aprile 1994, C-393/92, Almelo, I-1477; 23 ottobre 1997, C157/94, Commissione c. Paesi Bassi, I-5699; 23 ottobre 1997, C-158/94, Commissione c. Italia, I5789; 23 ottobre 1997, C-159/94, Commissione c. Francia, I-5815; 23 ottobre 1997, C-160/94, Commissione c. Spagna, I-5851; 13 marzo 2001, C-379/98, PreussenElektra AG, I-2099; 8 novem-
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bre 2001, C-143/99, Adria-Wien Pipeline e Wietersdorfer & Peggauer Zementwerke, I-8365; 4 dicembre 2003, C-448/01, EVN e Wienstrom, I-14527; 17 luglio 2008, C-206/06, Essent Netwerk Noord e a., I-5497; 19 dicembre 2013, C-262/12, Association Vent De Colère e a.; 5 giugno 2014, C-198/12, Commissione c. Bulgaria; 19 marzo 2015, C-510/13, E.ON Földgáz Trade.
Non poteva neppure mancare, tra gli obiettivi della politica in esame, la sicurezza dell’approvvigionamento energetico, che rappresenta una delle principali preoccupazioni di quella politica, specie dopo le crisi petrolifere degli anni ’70. Su questo tema, peraltro, l’Unione deve fare i conti, da un lato, con la potenziale ampia portata di tale obiettivo, che si presta a interferire con le politiche nazionali ed internazionali degli Stati membri, dall’altro, con le competenze che gli Stati membri si sono riservati ai sensi della più volte ricordata Dichiarazione n. 35, allegata al Trattato di Lisbona, che fa salvo il diritto di questi ultimi di adottare le disposizioni (nazionali) necessarie per garantire il loro approvvigionamento energetico. Comunque, l’Unione non è rimasta inerte su questo fronte e ha preso varie misure per tentare di ridurre la ben nota dipendenza energetica dei propri Stati membri. Garantire la sicurezza degli approvvigionamenti significa infatti, per un verso, incidere sull’efficienza dei meccanismi nazionali di prevenzione e gestione delle crisi energetiche, sulle scelte quanto alle scorte di prodotti energetici e alle reti di trasmissione degli stessi, e per l’altro verso, sull’azione internazionale dello Stato volta ad assicurare le necessarie forniture di energia. A parte la comunicazione della Commissione, del 7 settembre 2011, su La politica energetica dell’UE: un impegno con i partner al di là delle nostre frontiere (COM (2011) 539 def.) e il libro verde «Un quadro per le politiche dell’energia e del clima all’orizzonte 2030» (COM(2013) 169 def., del 27 marzo 2013), v. in materia il reg. (UE) n. 994/2010 del PE e del Consiglio, del 20 ottobre 2010, concernente misure volte a garantire la sicurezza dell’approvvigionamento di gas e che abroga la dir. 2004/67/CE del Consiglio, (GUUE L 295, 1); la dir. 2005/89/CE, del PE e del Consiglio, del 18 gennaio 2006, riguardante misure volte a garantire la sicurezza di approvvigionamento di elettricità e gli investimenti nelle infrastrutture (GUUE L 33, 22), e la dir. 2009/119/CE, del Consiglio, del 14 settembre 2009, che stabilisce l’obbligo per gli Stati membri di mantenere un livello minimo di scorte di petrolio greggio e/o di prodotti petroliferi (GUUE L 265, 9).
Quanto all’obiettivo del risparmio energetico, dell’efficienza energetica e dello sviluppo di energie nuove e rinnovabili, lo sforzo dell’Unione si è qui rivolto soprattutto ad assicurare il rispetto degli obblighi imposti dalla Convenzione quadro sul cambiamento climatico del 9 maggio 1992, e del noto Protocollo di Kyoto dell’11 dicembre 1997, che coinvolge evidentemente anche aspetti legati alla politica dell’ambiente. Tale obiettivo è comunque ora ricondotto fra quelli prioritari della nuova strategia dell’Unione (c.d. «strategia Europa 2020» per una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva, già ricordata), che prospetta la necessità di una nuova strategia per l’efficienza energetica per consentire agli Stati membri di svincolare l’uso dell’energia dalla crescita economica, e impone loro, al fine di attuare tale obiettivo a livello nazionale, di fissare obiettivi nazionali di concerto con la Commissione. Per la realizzazione di tale disegno, v. la recente dir. 2012/27/UE del PE e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, sull’efficienza energetica, che modifica le dir. 2009/125/CE e 2010/30/UE e abroga le dir. 2004/8/CE e 2006/32/CE (GUUE L 315, 1), la quale per l’appunto stabilisce un quadro comune di misure per la promozione dell’efficienza energetica nell’Unione al fine di ga-
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rantire il conseguimento dell’obiettivo principale dell’Unione relativo all’efficienza energetica del 20% entro il 2020 e di gettare le basi per ulteriori miglioramenti dell’efficienza energetica al di là di tale data. Quanto precede vale anche per gli aspetti legati alle energie rinnovabili, v. dir. 2009/28/CE del PE e del Consiglio, del 23 aprile 2009, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle dir. 2001/77/CE e 2000/30/CE (GUUE L 140, 16), fondata, anche perché precedente al Trattato di Lisbona, sull’art. 175 TCE, ora art. 192 TFUE, in materia di ambiente; nonché dir. (UE) 2015/1513 del PE e del Consiglio, del 9 settembre 2015, che modifica la dir. 98/70/CE, relativa alla qualità della benzina e del combustibile diesel, e la dir. 2009/28/CE, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili (GUUE L 239, 1).
Quanto infine all’interconnessione delle reti energetiche, la sua regolamentazione in questa sede si ricollega con tutta evidenza alle esigenze dell’approvvigionamento e della sicurezza energetica degli Stati membri, il che spiega l’apparente duplicazione con la disciplina sulle reti transeuropee. Dato l’evidente ruolo fondamentale che tali reti svolgono per il trasporto di energia da uno Stato membro all’altro, l’Unione è intervenuta su di esse ancor prima che sulla regolamentazione dei mercati interni di elettricità e gas. Sull’apparente duplicazione con la disciplina sulle reti transeuropee, v. art. 170 TFUE e retro, p. 751 ss. Il che non esclude, evidentemente, rischi d’interferenza tra le due basi giuridiche. In linea di principio, si può ritenere che ricadono sotto la disciplina delle reti transeuropee gli aspetti per così dire più strettamente infrastrutturali, legati cioè al potenziamento ed allo sviluppo di quelle reti (v, ad es., dec. 1364/2006/CE del PE e del Consiglio, del 6 settembre 2006, che stabilisce orientamenti per le reti transeuropee nel settore dell’energia e abroga la dec. 96/391/CE e la dec. 1229/2003/CE, GUUE L 262, 1). Per contro, possono essere ricondotte alla normativa in esame le misure relative alle condizioni di accesso o quelle che istituiscono un sistema di cooperazione tra i gestori nazionali delle reti. È il caso di alcune misure adottate prima del Trattato di Lisbona sulla base dell’art. 95 TCE (ora art. 114 TFUE) e che ora potrebbero fondarsi sull’art. 194 TFUE (v. ad es. i regolamenti citati alla nota seguente). Per la disciplina dei mercati interni di elettricità e gas, v. i reg. (CE), del PE e del Consiglio, del 13 luglio 2009, n. 714/2009, relativo alle condizioni di accesso alla rete per gli scambi transfrontalieri di energia elettrica e che abroga il reg. (CE) n. 1228/2003 (GUUE L 211, 15); e 715/2009, relativo alle condizioni di accesso alle reti di trasporto del gas naturale e che abroga il reg. (CE) n. 1775/2005 (GUUE L 215, 36), poi modificato.
b) Sviluppi analoghi a quelli appena descritti per l’energia ha subito il settore del turismo, ugualmente ignorato fino alla ricordata evocazione nel Trattato di Maastricht e poi oggetto di specifica disciplina nel Trattato di Lisbona (art. 195 TFUE). Anche per il turismo, comunque, qualche, per la verità molto modesta, iniziativa era già stata avviata prima di questa innovazione, ma in realtà gli interventi più significativi si rinvenivano, come ancora si rinvengono oggi, nella normativa relativa a settori indirettamente rilevanti per il turismo (soprattutto: trasporti, ambiente e protezione dei consumatori). Si è trattato per lo più di atti di soft law, espressi in risoluzioni, comunicazioni e piani di azione. V. a titolo di esempio e tra i tanti, la comunicazione della Commissione, del 30 novembre 1982, «Primi orientamenti per una politica comunitaria del turismo» (COM (1982) 385 def.); la
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risoluzione del Consiglio, del 10 aprile 1984, concernente una politica comunitaria del turismo (GUCE C 115, 1); la dec. 86/664/CEE del Consiglio, del 31 dicembre 1986 (GUCE L 384, 52), che ha istituito una procedura di consultazione e cooperazione tra gli Stati membri attraverso un Comitato consultivo del turismo; la dec. 94/421/CEE del Consiglio, del 13 agosto 1992 (GUCE L 231, 26), recante il Piano di azioni comunitarie a favore del turismo; la dir. 95/57/CE del Consiglio, del 23 novembre 1995, relativa alla raccolta di dati statistici nel settore del turismo (GUUE L 291, 32), poi sostituita dal reg. (UE) n. 692/2011 del PE e del Consiglio, del 6 luglio 2011 (GUUE L 192, 17); la dec. 2006/516/CE del Consiglio, del 27 giugno 2006, sulla conclusione dei Protocolli difesa del suolo, energia e turismo della Convenzione alpina (GUUE L 201, 31).
Ad ogni modo, il Trattato di Lisbona ha colmato la lacuna, e questo non dovrebbe sorprendere se si considera l’importanza, non solo economica, di questo settore per la costruzione comunitaria. Si veda al riguardo la Comunicazione della Commissione, del 30 giugno 2010, «L’Europa, prima destinazione turistica mondiale – Un nuovo quadro politico per il turismo europeo» (COM (2010) 352 def.), nella quale si rileva, tra l’altro, che il turismo rappresenta la terza maggiore attività socioeconomica dell’Unione (dopo il settore del commercio e della distribuzione e quello della costruzione); che in Europa vi sono circa 1,8 milioni di imprese attive nel settore turistico, principalmente PMI, che occupano il 5,2% circa della manodopera totale (approssimativamente 9,7 milioni di posti di lavoro, di cui una quota considerevole è rappresentata da giovani); e che l’industria turistica europea genera più del 5% del PIL dell’Unione, con una tendenza a un costante aumento, e che sale a più del 10% se si considerano anche i settori connessi (in particolare, quelli della distribuzione, della costruzione, le società di trasporto in generale, nonché il settore culturale). V. anche la Comunicazione della Commissione del 20 febbraio 2014, Strategia europea per una maggiore crescita e occupazione nel turismo costiero e marittimo (COM(2014) 86 final), che propone «risposte concertate alle molteplici sfide che si pongono, nell’ottica di sfruttare i punti di forza dell’Europa e di riuscire ad apportare un contributo rilevante agli obiettivi di crescita intelligente, sostenibile e inclusiva di Europa 2020».
Va però riconosciuto che a tale innovazione non ha corrisposto l’attribuzione di significative competenze in materia. In effetti, ai sensi dell’art. 195 TFUE, l’Unione può solo «completare» l’azione degli Stati membri, in particolare promuovendo la competitività delle imprese attive nel settore del turismo. E ciò, incoraggiando la creazione di un ambiente propizio allo sviluppo delle imprese in detto settore; e favorendo la cooperazione tra Stati membri, in particolare attraverso lo scambio delle buone pratiche (par. 1). A tal fine, il legislatore dell’Unione, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, può stabilire le misure specifiche destinate a completare le azioni svolte negli Stati membri al fine di realizzare gli obiettivi di cui al presente articolo, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli stessi Stati membri (par. 2). Si tratta dunque, come aveva già anticipato l’art. 6, lett. d), TFUE, di una competenza parallela, nel senso di cui si disse a suo tempo (p. 421 s.), ma ancor più limitata, visto che l’Unione può appunto solo «completare» l’azione degli Stati membri, e non altresì sostenerla e coordinarla, come avviene di solito per simili competenze. Inoltre, gli obiettivi che la norma individua per l’intervento eventuale dell’Unione sono soprattutto quelli di natura economica, laddove è noto che il turismo comporta implicazioni molto più ampie, dati i suoi riflessi politici, sociali e culturali.
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Sta di fatto comunque che vuoi per i motivi indicati, vuoi perché il legislatore dell’Unione ritiene soddisfatte le esigenze del settore con gli interventi nei ricordati settori connessi, ancora non si registrano significative misure ex art. 195 TFUE. c) Indubbiamente più corposi sono stati gli interventi in materia di protezione civile, che pure ha conosciuto sviluppi molto simili a quelli dei due settori fin qui esaminati, visto che a lungo ugualmente ignorato dai Trattati, affiorò poi nel Trattato di Maastricht nei termini sopra illustrati, per essere alla fine oggetto di una disciplina materiale nel Trattato di Lisbona. Ma nell’arco di tempo che separa i due Trattati, e perfino in quello che li precede, la Comunità prima e l’Unione dopo non sono rimaste inattive. In effetti, già nel maggio 1985 un vertice interministeriale (svoltosi non a caso a Roma, visto che l’Italia è lo Stato membro che ha più spinto per l’inserimento della protezione civile tra le materie di competenza comunitaria) riconobbe la necessità di iniziative europee in materia; ad esso fece seguito la redazione di un vademecum contenente la lista dei corrispondenti nazionali per settori, da contattare per lo scambio delle informazioni necessarie in caso di calamità. Ma v. anche la risoluzione del Consiglio e dei Rappresentanti Permanenti riuniti in sede di Consiglio, dell’8 luglio 1991, sul miglioramento dell’assistenza reciproca tra Stati membri in caso di catastrofe naturale o tecnologica. Tra gli interventi della Comunità/Unione, si può ricordare che già nel 1997 fu varato il primo Programma d’azione biennale volto a diminuire i rischi e i danni alle persone e ai beni da catastrofi naturali, migliorare la preparazione dei soggetti preposti alla protezione civile, rafforzare l’efficacia delle tecniche d’intervento e promuovere l’informazione e la sensibilizzazione della popolazione alle regole di «autoprotezione» (dec. 98/22/CE del Consiglio, del 19 dicembre 1997, che istituiva detto programma GUCE L 8, 20), successivamente più volte rinnovato. Ma soprattutto merita di essere segnalato che, già in quegli anni, e sulla base dell’art. 308 TCE, ora art. 352 TFUE (c.d. clausola di flessibilità), furono avviati quegli importanti interventi che segneranno l’evoluzione della materia fino ai nostri giorni: v. la dec. 2001/792/CE, Euratom del Consiglio, del 23 ottobre 2001, che istituiva un meccanismo comunitario inteso ad agevolare una cooperazione rafforzata negli interventi di soccorso della protezione civile (GUCE L 297, 1), successivamente modificata ed ampliata dalla dec. 2007/779/CE, Euratom, del Consiglio, dell’8 novembre 2007, che istituiva un meccanismo comunitario di protezione civile (rifusione) (GUCE L 314, 9); nonché la dec. 2007/162/CE, Euratom, del Consiglio, del 5 marzo 2007, che istituiva uno strumento finanziario per la protezione civile (GUCE L 71, 9), grazie alla quale furono previsti i primi stanziamenti per il finanziamento di azioni in materia di protezione civile condotte dagli Stati membri, tutte poi sostituite, come vedremo più avanti, dalla dec. 1313/2013/UE.
È vero, d’altra parte, che esse non potevano restare insensibili a situazioni che di tutta evidenza non solo hanno un pesante impatto sullo Stato membro colpito, ma possono ripercuotersi, nei loro riflessi diretti o indiretti, anche sugli altri Stati membri, e spesso anche su alcune politiche comuni, se non sul complessivo funzionamento del sistema. Si pensi solo ai rischi di pandemie, che certo non rispettano le frontiere. Ma riflessi possono aversi anche sul piano del corretto funzionamento del mercato interno e della coesione economica e sociale, e della sicurezza interna degli Stati membri, in caso di disastri che colpiscono infrastrutture strategiche, per non parlare dei casi in cui l’evento sia provocato da attentati terroristici. È del resto anche per questi motivi che la normativa in esame non esige la sussistenza di profili transfrontalieri, ma si applica anche se una calamità colpisce un solo Stato membro.
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E in effetti tracce di tale attenzione si rinvengono ancora in alcune disposizioni del Trattato di Lisbona (come nei Trattati precedenti), quali quelle che prevedono, a favore dello Stato membro colpito da calamità, un’assistenza finanziaria ex art. 122 TFUE nel quadro, come si è visto (supra, p. 690 s.), degli interventi di politica economica (art. 122, par. 2, TFUE), o l’attivazione della c.d. clausola di solidarietà di cui all’art. 222 TFUE. Ai sensi del quale l’Unione «mobilita tutti gli strumenti di cui dispone, inclusi i mezzi militari messi a sua disposizione dagli Stati membri, per […] prestare assistenza a uno Stato membro sul suo territorio, su richiesta delle sue autorità politiche, in caso di calamità naturale o provocata dall’uomo» (infra, p. 887 ss.). Peraltro, la Dichiarazione n. 37, allegata al Trattato di Lisbona, relativa all’art. 222 TFUE, precisa che fino all’attivazione degli strumenti di cui parla la disposizione, ogni Stato membro può autonomamente adottare tutte le misure a suo avviso appropriate per assolvere al proprio obbligo di solidarietà.
Ma si tratta, per l’appunto, di previsioni isolate e parziali, e soprattutto destinate più a predisporre una qualche riparazione che a organizzare la prevenzione e la protezione dalle calamità. Va notato che, pur rispondendo a logiche in parte analoghe, gli interventi a titolo di aiuto umanitario che l’Unione è autorizzata ad operare a favore di paesi terzi sono oggetto di specifica e distinta disciplina (art. 214 TFUE e infra, p. 880 ss.). Un problema di coordinamento si pone invece con le azioni dell’Unione in materia di PESC. E ciò non solo e non tanto perché, come vedremo, gli interventi a titolo di protezione civile possono attuarsi anche con mezzi militari, sia pur come extrema ratio, e non soltanto per la rilevanza della citata clausola di solidarietà nel generale contesto PESC (art. 42, par. 7, TUE), ma perché l’art. 21, par. 1, lett. g) TUE, prevede che l’Unione si adoperi per assicurare un «elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali […] al fine di aiutare le popolazioni, i paesi e le regioni colpiti da calamità naturali o provocate dall’uomo», e perché le missioni condotte in attuazione della politica di sicurezza e di difesa comune ex art. 42 TUE, possono essere rivolte anche a finalità umanitarie e di soccorso (art. 43, par. 1, TUE) e dunque con l’utilizzazione degli strumenti predisposti ai fini della protezione civile. D’altra parte, come vedremo, il sistema di intervento dell’Unione per la protezione civile può essere utilizzato anche in caso di emergenze gravi all’esterno dell’Unione. Deve dunque ritenersi che in tali eventualità, considerato l’obbligo che incombe alle istituzioni dell’Unione di assicurare la coerenza tra l’azione esterna e le altre politiche dell’Unione (art. 21, par. 3, comma 2, TUE), un ruolo debba essere svolto anche dall’Alto Rappresentante per la PESC e dalle relative strutture.
Una compiuta previsione al riguardo è stata invece finalmente dettata, dopo i passaggi indicati, dall’art. 196 TFUE (Titolo XXIII: «Protezione civile»), ai sensi del quale, l’Unione «incoraggia la cooperazione tra gli Stati membri al fine di rafforzare l’efficacia dei sistemi di prevenzione e di protezione dalle calamità naturali o provocate dall’uomo» (par. 1, comma 1). A tal fine la sua azione «è intesa a: a) sostenere e completare l’azione degli Stati membri a livello nazionale, regionale e locale concernente la prevenzione dei rischi, la preparazione degli attori della protezione civile negli Stati membri e l’intervento in caso di calamità naturali o provocate dall’uomo all’interno dell’Unione; b) promuovere una cooperazione operativa rapida ed efficace all’interno dell’Unione tra i servizi di protezione civile nazionali; c) favorire la coerenza delle azioni intraprese a livello internazionale in materia di protezione civi-
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le» (par. 1, comma 2). Il PE e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono le misure necessarie per contribuire «alla realizzazione» dei suddetti obiettivi, «ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri» rilevanti in materia (par. 2). Si tratta peraltro anche qui, come si vede, e come ugualmente annunciato dall’art. 6, lett. f), TFUE, di una competenza parallela, volta unicamente a incoraggiare, sostenere e completare l’azione degli Stati membri, senza potersi sostituire alla competenza di questi ultimi e con la consueta esclusione di ogni iniziativa di armonizzazione legislativa. Se questo costituisce sicuramente un limite all’azione dell’Unione, è anche vero che particolarmente in questa materia il ruolo dell’Unione e quello degli Stati membri sono strettamente intrecciati. E ciò non solo, evidentemente, perché si tratta di realizzare interventi operativi sul territorio di uno Stato, interferendo quindi con la sovranità territoriale dello stesso, ma anche perché occorre avvalersi delle sue strutture e dei suoi servizi di protezione civile, che rispondono a criteri non necessariamente omogenei in tutti gli Stati membri. Affidando all’Unione il compito di promuovere una «cooperazione operativa rapida ed efficace» tra quei servizi, l’art. 196 TFUE tenta di realizzare un equilibrio tra le diverse esigenze, riconoscendo implicitamente agli Stati membri il potere di controllare il proprio territorio e di dirigere i mezzi ricevuti per far fronte ad un’emergenza, ma attribuendo all’Unione il coordinamento degli strumenti disponibili se richiesta dallo Stato. Né a questi interventi possono restare estranei gli altri Stati membri, se non altro perché su di essi incombe, in virtù della ricordata clausola di solidarietà (art. 222, par. 1, lett. a), TFUE), l’obbligo di prestare assistenza ad uno Stato membro colpito da una calamità, mobilitando, a richiesta dell’Unione e delle autorità politiche di quello Stato, «tutti gli strumenti di cui dispone, inclusi i mezzi militari messi a sua disposizione dagli Stati membri»; senza dimenticare che essi hanno la facoltà di farlo anche prima dell’intervento dell’Unione: sia collettivamente ma coordinandosi in seno al Consiglio; sia addirittura unilateralmente (v. la ricordata Dichiarazione n. 37). Venendo ora ad un esame più analitico dell’art. 196 TFUE, e sottolineato che esso riguarda allo stesso modo sia la protezione che la prevenzione, e sia le calamità naturali che quelle di origine antropica, va osservato che, per quanto enunciati separatamente, i tre obiettivi indicati dalla disposizione (prevenzione dei rischi, preparazione degli attori della protezione civile e intervento in caso di calamità; promozione di una cooperazione operativa rapida ed efficace tra i servizi di protezione civile nazionali; coerenza delle azioni intraprese a livello internazionale in materia) rispondono con evidenza ad una medesima logica, e come tali sono stati oggetto della normativa di attuazione, che li persegue tutti simultaneamente. Tale normativa fa leva sul c.d. meccanismo unionale per la protezione civile, istituito dalla dec. 1313/2013/UE, che ha recentemente assorbito e sostituito la disciplina che aveva in precedenza a lungo regolato la materia, dandole anche maggiore ampiezza ed organicità (v. decisione del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, GUUE L 347, 924, poi modificato dal reg. 2017/1199/UE, del PE e del Consiglio del 4 luglio 2017, GUUE L 176, 1). Esso è destinato infatti ad assicurare la tutela dell’Unione non solo alle persone, ma anche all’ambiente e ai beni, compreso il pa-
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trimonio culturale, nei confronti di ogni tipo di catastrofe naturale e provocata dall’uomo, incluse le catastrofi ambientali, l’inquinamento marino e le emergenze sanitarie gravi che si verificano all’interno o al di fuori dell’Unione; e al tempo stesso contribuire anche all’attuazione dell’art. 222 TFUE, mettendo a disposizione, ove necessario, le sue risorse e capacità. Ai fini indicati, detto meccanismo facilita la mobilitazione e il coordinamento degli interventi di assistenza, avvalendosi di una struttura centrale, e cioè il Centro di coordinamento della risposta alle emergenze (ERCC), istituito appunto dalla decisione e gestito dalla Commissione (esso è al servizio degli Stati membri e della Commissione con una capacità operativa 24 ore su 24, sette giorni su sette), da una Capacità europea di risposta emergenziale (EERC), sotto forma di un pool volontario di mezzi preimpegnati dagli Stati membri e di esperti formati, nonché da un Sistema comune di comunicazione e informazione in caso di emergenza (CECIS) tra l’ERCC e i punti di contatto degli Stati membri, ugualmente gestito dalla Commissione, la quale deve inoltre contribuire allo sviluppo e alla migliore integrazione di sistemi transnazionali di rilevamento, allerta rapida e allarme di interesse europeo per consentire una risposta rapida, nonché per promuovere l’interconnessione tra sistemi nazionali di allerta rapida e di allarme e il loro collegamento con l’ERCC e il CECIS. In tale contesto, la decisione prefigura anzitutto una serie di azioni di prevenzione, organizzate dalla Commissione e, sotto il suo controllo, dagli Stati membri, attraverso molteplici interventi, aventi ad oggetto il miglioramento e la diffusione delle conoscenze e delle esperienze rilevanti; la valutazione e la mappatura del rischio; la condivisione delle migliori prassi; il sostegno alle campagne nazionali di informazione e educazione, e così via. In particolare, viene istituita la ricordata EERC, costituita da un pool volontario di mezzi di risposta preimpegnati degli Stati membri e comprendente i c.d. «moduli», cioè un insieme autosufficiente e autonomo di mezzi degli Stati membri predefinito in base ai compiti e alle necessità, oppure una squadra mobile operativa degli Stati membri costituita da un insieme di mezzi umani e materiali. In caso di una catastrofe, in atto o imminente, lo Stato membro interessato deve avvertire la Commissione perché informi gli altri Stati membri e attivi i servizi competenti. Con l’occasione, esso può chiedere assistenza tramite l’ERCC, specificando la propria richiesta. L’ERCC, utilizzando per l’appunto il CECIS, provvede ad attivare gli strumenti di intervento appositamente predisposti da parte degli Stati membri nell’ambito dei rispettivi servizi di protezione civile e ad assicurarne il coordinamento operativo. Sono quegli Stati però a decidere le risorse da mettere a disposizione, mentre allo Stato assistito spetta dirigere gli interventi di assistenza e definire direttive e precisare i compiti affidati ai moduli o a altri mezzi di risposta. Apposite disposizioni regolano poi le condizioni e le forme di intervento dell’Unione ove la richiesta di assistenza provenga da uno Stato terzo. Va notato che la decisione in esame espressamente prevede che il meccanismo unionale è aperto alla partecipazione dei paesi EFTA, membri dello Spazio economico europeo (SEE), e di altri paesi europei se previsto da accordi e procedure, nonché dei paesi candidati potenziali, o dei paesi associati con i vari partenariati. Inoltre, le organizzazioni internazionali o regionali possono
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cooperare alle attività nell’ambito del meccanismo unionale se previsto da pertinenti accordi bilaterali o multilaterali sottoscritti con l’Unione. Ciò senza contare ovviamente gli accordi bilaterali conclusi dagli Stati membri in materia.
La decisione appresta anche uno strumento finanziario per il sostegno alle azioni del meccanismo unionale, sul quale possono gravare anche i contributi allo sviluppo di sistemi di rilevamento e allerta rapida nel territorio degli Stati membri, alla formazione ed esercitazione nonché alle campagne d’informazione dell’opinione pubblica, oltre al costo del trasporto dei mezzi di soccorso, che deve essere rimborsato da parte degli Stati membri che prestano assistenza in misura di non più del 55% dei costi ammissibili totali (ma in alcuni casi può arrivare all’85%, e perfino al 100%). Va ricordato, per completezza, che gli Stati colpiti da catastrofe possono anche chiedere, per i danni stimati a oltre 3 miliardi di euro che non siano né assicurabili né coperti da altri fondi di qualsiasi tipo, l’intervento del Fondo di solidarietà dell’UE (retro, p. 762).
11. La cooperazione amministrativa A differenza delle altre fin qui illustrate, la competenza ora in esame si definisce non già su una base materiale, ma in termini per così dire funzionali e orizzontali, in quanto attiene alla realizzazione di una cooperazione, riduttivamente e forse anche impropriamente qualificata come «amministrativa», tra l’Unione e i suoi Stati membri, al fine di favorire un’efficace ed effettiva attuazione del diritto comunitario. In questo senso, è comune e fondata opinione che essa affondi le proprie radici nel ben noto principio di leale collaborazione, di cui all’art. 4, par. 3, TUE, ai sensi del quale, l’Unione e i suoi Stati membri «si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai Trattati» (comma 1), e i secondi, più specificamente, devono adottare «ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione» (comma 2): principio che, come ugualmente ben noto, la Corte ha costantemente confermato e valorizzato in tutta la propria giurisprudenza. Sul versante che qui interessa la riaffermazione di tale principio riflette in modo particolare una più specifica esigenza, che si è affacciata fin dall’inizio del processo d’integrazione e che si ricollega a uno degli aspetti più originali e qualificanti di quest’ultimo. Come più volte abbiamo segnalato lungo tutto il presente volume, infatti, quel processo ha vocazione ad operare come fattore di integrazione anche e soprattutto all’interno delle strutture giuridiche degli Stati membri, non solo creando uno stretto intreccio tra le normative dell’Unione e quelle nazionali, ma alimentando altresì, nello stesso senso e nella stessa direzione, quel circuito orizzontale, quella integrazione tra i sistemi in causa, che si suole definire «strutturale», proprio perché interessa e penetra tutti i gangli dell’apparato statale (ma anche della società civile) e li salda funzionalmente e operativamente a quelli dell’Unione, coinvolgendoli e obbligandoli ad un ruolo attivo all’interno e in funzione delle esigenze del sistema integrato. In altri termini, e parafrasando quanto si è detto a suo tempo per i giudici na-
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zionali, si può affermare che le amministrazioni nazionali hanno ugualmente un ruolo «comunitario», nel senso che anch’esse operano come «organi decentrati del diritto dell’Unione» per assicurare il rispetto e l’attuazione di quest’ultimo. E questo è tanto più importante in quanto, come pure si è detto più volte, quel diritto «cammina sulle gambe» degli Stati membri e ha bisogno quindi dell’apporto di questi ultimi a tutti i livelli per potersi affermare, non solo sul piano formale e legislativo, ma anche in termini di effettività ed operatività. A questo fine, è evidente che il coinvolgimento dell’apparato pubblico, centrale e locale, degli Stati membri è assolutamente decisivo: esso è anzi il primo fronte per l’attuazione di quel diritto. V. per tutte la nota sentenza 22 giugno 1989, 103/88, Fratelli Costanzo, 1839 (ma v. anche sentenza 9 settembre 2003, C-198/01, CIF, I-8055), nella quale la Corte ebbe appunto modo di affermare che ove ne ricorrano le condizioni, l’amministrazione nazionale è tenuta, al pari dei giudici, ad applicare le norme dell’Unione e a disapplicare quelle del diritto nazionale a esso non conformi. Il che comporta che gli interessati possono pretendere e ottenere, già nel corso del procedimento innanzi alle autorità amministrative competenti, la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive fondate sul diritto dell’Unione. Sul punto v. anche, più ampiamente, retro, p. 355 ss.
Nel corso di questi decenni, del resto, l’interrelazione tra i due livelli in questione ha già avuto ampiamente modo di svilupparsi nella pratica quotidiana dei rapporti tra le istituzioni dell’Unione, in particolare la Commissione, e le amministrazioni nazionali, alcune delle quali sono anzi nate proprio in funzione del processo d’integrazione (per l’Italia lo vedremo ampiamente più avanti, nella Parte Sesta). Ma tali rapporti si muovevano, e ancora si muovono, lungo un preciso binario formale: fermo restando che gli Stati membri sono tenuti al pieno ed integrale rispetto del diritto dell’Unione, l’attuazione di quest’ultimo è poi rimessa a quegli Stati, in nome del principio della c.d. autonomia procedurale degli stessi, il quale per l’appunto riconosce loro la piena libertà di auto-organizzarsi a tal fine, anche quindi quanto alle competenze e alle procedure dei rispettivi apparati pubblici. Sul punto v., anche per la pertinente giurisprudenza della Corte, supra, p. 356 ss. Come si è detto in quella sede, il principio dell’autonomia procedurale (oggi in qualche modo confermato anche dall’art. 291, par. 1, TFUE) comporta che spetta agli Stati membri definire le regole e le procedure interne per l’attuazione del diritto dell’Unione, con la sola riserva, come pure si disse in quella sede, che le condizioni per la tutela dei diritti dallo stesso conferiti non siano meno favorevoli di quelle imposte per le analoghe situazioni puramente interne (principio di equivalenza) e non siano tali da rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio di quei diritti (principio di effettività). Ciò, evidentemente, salvo che non sia lo stesso diritto dell’Unione a precisare i termini dei rapporti tra le autorità in questione, come ad es. nei casi indicati alla nota precedente o in materia di concorrenza (v. retro, p. 621 ss.), o nei casi in cui sia attribuito alla Commissione il compito di definire condizioni uniformi di esecuzione degli atti dell’Unione (art. 291, par. 2, TFUE). Quanto alla pratica dei rapporti tra le istituzioni dell’Unione e le amministrazioni nazionali, va anche ricordato che in molti casi (dei quali si è detto nelle rispettive sedi) l’interrelazione è insita negli stessi meccanismi di alcune politiche dell’Unione, come ad es. nel sistema del mutuo riconoscimento, nel funzionamento del mercato interno dei servizi, nella collaborazione in materia di frodi fiscali, nello scambio d’informazioni bancarie, nei meccanismi di ammissione o di espulsione degli stranieri (sistema SIS), e così via.
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L’esigenza emersa nel corso del tempo è stata per l’appunto quella di creare le basi per una collaborazione tra i due livelli che consentisse, pur nel rispetto dell’autonomia statale, di favorire il compito delle amministrazioni nazionali di cui si discute e, al tempo stesso, di avvicinare le rispettive prassi ai fini di una migliore capacità attuativa del diritto dell’Unione in tutti gli Stati membri. E ciò anche in considerazione delle oggettive difficoltà che spesso l’attuazione del diritto dell’Unione solleva, anzitutto per la nota complessità dello stesso, ma anche – va detto – per la purtroppo persistente scarsa familiarità che con esso intrattengono le amministrazioni nazionali. Conviene al riguardo ricordare, per connessione, che con riferimento all’esercizio dell’attività amministrativa, precisi principi si impongono anche alle istituzioni dell’Unione. Alludiamo in particolare ai principi di trasparenza e di apertura ai cittadini dell’Unione di cui agli artt. 15 e 24 TFUE, e più in generale al principio di cui all’art. 298, par. 1, TFUE, secondo cui l’Unione deve basarsi su «un’amministrazione europea aperta, efficace ed indipendente», principi ripresi e consacrati altresì dalla Carta dir. fond. (v. in particolare artt. 41 e 42), ma che potrebbero essere considerati ugualmente alla stregua di principi generali di diritto che si impongono anche agli Stati membri, come limiti all’applicazione delle rispettive norme procedurali nazionali e come base per la formazione (del resto, da più parti auspicata) di principi comuni per un «procedimento amministrativo europeo».
Quella esigenza del resto aveva trovato un’eco già prima del Trattato di Lisbona, sia in alcune disposizioni del TCE, in parte riprese da tale Trattato, sia nel varo di alcuni strumenti operativi, in particolare nel settore per il quale la cooperazione in esame è certamente più necessaria e utile, cioè il mercato interno, ma non solo. Riprendendo in buona parte, ma anche sviluppandola, la precedente disciplina del TCE, il TFUE prevede vari casi specifici di «cooperazione amministrativa» tra le autorità dell’Unione e
quelle nazionali, in particolare nel settore dello SLSG (v. retro, p. 534). Quanto alle iniziative precedenti Lisbona, a parte quelle, enunciate in particolare nel Libro Bianco della Commissione, del 5 agosto 2001, su «La governance europea» (COM (2001) 428 def.), che proponeva varie misure per la collaborazione amministrativa di cui ora si discute, merita specifica segnalazione la creazione di una rete per la soluzione dei problemi nel mercato interno (c.d. SOLVIT), cioè una rete di centri istituiti dagli Stati membri nell’ambito delle amministrazioni nazionali, quale strumento rapido e informale per risolvere i problemi che i cittadini e le imprese incontrano nell’esercizio dei loro diritti nel mercato interno (v. racc. n. 2001/893/CE della Commissione, del 7 dicembre 2001, relativa ai principi di funzionamento del SOLVIT, GUCE L 331, 79, seguita dalla racc. n. 2013/461/UE della Commissione, del 17 settembre 2013, sui principi di funzionamento di SOLVIT, GUUE L 249, 10). Va segnalata al riguardo anche la recente comunicazione della Commissione: «Piano d’azione sul potenziamento di SOLVIT – Portare i benefici del mercato unico ai cittadini e alle imprese» (COM(2017) 255 def.), nella quale è delineata una strategia per migliorare la qualità della rete SOLVIT attraverso il potenziamento delle capacità e la condivisione delle conoscenze con gli Stati membri (v. anche p. 261).
Ma attualmente essa trova formale e generalizzata espressione nell’art. 197 TFUE, il quale non solo dichiara esplicitamente che «[l]’attuazione effettiva del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri, essenziale per il buon funzionamento dell’Unione, è considerata una questione di interesse comune» (par. 1), ma appresta al-
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tresì, e questa è la vera novità, una base giuridica per alcuni interventi giudicati utili in materia. Fermo restando, infatti, che essa non pregiudica né «l’obbligo degli Stati membri di attuare il diritto dell’Unione né le prerogative e i doveri della Commissione», né, ancora, «le altre disposizioni dei Trattati che prevedono la cooperazione amministrativa fra gli Stati membri e fra questi ultimi e l’Unione» (par. 3), la norma stabilisce che l’Unione «può sostenere gli sforzi degli Stati membri volti a migliorare la loro capacità amministrativa di attuare il diritto dell’Unione», svolgendo un’azione consistente «in particolare nel facilitare lo scambio di informazioni e di funzionari pubblici e nel sostenere programmi di formazione»; e che all’uopo «[i]l Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono le misure necessarie a tal fine, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri» (par. 2). Si tratta ancora una volta, come si vede e come conferma l’art. 6, lett. g), TFUE, di una competenza c.d. parallela, perché l’Unione può solo «sostenere gli sforzi degli Stati membri» nella materia de qua e «facilitare» la cooperazione tra le autorità interessate; e d’altra parte, gli Stati membri non sono neppure tenuti ad avvalersi del sostegno dell’Unione di cui si è detto (par. 2). Ma questo nulla toglie all’importanza e all’utilità della normativa in esame. Questa conclusione non è contraddetta dal fatto che lo strumento apprestato per gli interventi del legislatore dell’Unione in questa materia siano i regolamenti, dato che questo tipo di atto non è incompatibile con l’indicata natura della competenza dell’Unione, che si qualifica nel senso detto in funzione dei contenuti della misura adottata, non già della natura della stessa. Senza contare che la scelta dello strumento del regolamento serve ad agevolare l’uniformità dei comportamenti suggeriti o richiesti alle amministrazioni nazionali e la chiarezza e la certezza dei programmi volti a favorire il miglioramento e lo sviluppo della cooperazione.
Sotto il primo aspetto, infatti, assume rilievo il fatto che l’attuazione effettiva del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri sia qualificata come «essenziale per il buon funzionamento» della stessa Unione, e come «questione di interesse comune». La prima definizione in effetti, ribadisce, al di là dell’apparente banalità, il ruolo decisivo delle amministrazioni nazionali per dare autentica sostanza al diritto dell’Unione soprattutto là dove più esso può e deve dispiegare i propri concreti effetti ed assicurare il «buon funzionamento» del sistema. La seconda, pur senza intaccare il ricordato principio dell’autonomia procedurale, eleva a questione d’interesse comune non solo il conseguimento del risultato voluto dal diritto dell’Unione (e cioè il pieno adempimento degli obblighi da esso imposti), ma altresì le concrete modalità con le quali a tale risultato si perviene, nel senso che anche questo profilo non è irrilevante né per l’Unione né per gli altri Stati membri, perché è interesse comune realizzare nella maniera più appropriata ed efficace il diritto dell’Unione. Vale la pena notare che, per altro verso ma con analoga finalità, viene ora richiesto agli Stati membri di stabilire anche «i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva» del diritto dell’Unione, consentendo così alla Corte di verificare il rispetto di tale prescrizione (art. 19, par. 1, comma 2, TUE).
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In termini di efficacia pratica, poi, la disposizione appresta, come si è detto, una base giuridica per iniziative utili per migliorare la capacità amministrativa degli Stati membri, sia nei rapporti con l’Unione che nei loro rapporti reciproci, facilitando, come essa stessa dichiara, «lo scambio di informazioni e di funzionari pubblici e [sostenendo] programmi di formazione», ma senza limitarsi a questi aspetti. Formazione e scambio di conoscenze sono infatti preziosi per puntare al miglioramento delle prassi nazionali, perché favoriscono una maggiore familiarità con le normative dell’Unione e con la prassi del suo complesso apparato burocratico, la comparazione delle esperienze dei singoli Stati membri, e soprattutto la divulgazione delle c.d. buone pratiche delle amministrazioni più performanti. Ma il legislatore dell’Unione può apprestare anche altri strumenti per realizzare l’obiettivo della cooperazione amministrativa. È questo, ad esempio, il caso assai significativo del c.d. «Regolamento IMI», relativo alla cooperazione amministrativa attraverso il sistema d’informazione del mercato interno, il quale per l’appunto muove dalla costatazione, come si legge nei suoi considerando, che l’attuazione della normativa dell’Unione relativa a detto mercato «richiede agli Stati membri di cooperare in modo più efficace e di scambiarsi informazioni gli uni con gli altri e con la Commissione», e che poiché spesso in tale normativa «non sono specificati i mezzi pratici per attuare lo scambio di informazioni», si rende opportuno offrire «un efficace strumento di facile utilizzo per l’attuazione della cooperazione amministrativa». Nella specie, tale strumento viene individuato per l’appunto nel c.d. «sistema di informazione del mercato interno» («IMI»), vale a dire in «un’applicazione software accessibile tramite internet, sviluppata dalla Commissione in collaborazione con gli Stati membri, al fine di assistere gli Stati membri nell’attuazione concreta dei requisiti relativi allo scambio di informazioni stabiliti in atti dell’Unione fornendo un meccanismo di comunicazione centralizzato che faciliti lo scambio di informazioni transfrontaliero e la mutua assistenza. In particolare, l’IMI aiuta le autorità competenti a individuare le loro omologhe in un altro Stato membro, a gestire lo scambio di informazioni, fra cui dati personali, sulla base di procedure semplici e unificate, nonché a superare le barriere linguistiche sulla base di procedure predefinite e pre-tradotte», con costi contenuti. V. reg. (UE) n. 1024/2012 del PE e del Consiglio, del 25 ottobre 2012 (GUUE L 316, 1), adottato peraltro, date le sue più ampie implicazioni, sulla base dell’art. 114 TFUE (v., in particolare, i suoi considerando 1 e 4). Pare importante segnalare, anche ai fini di un’eventuale estensione del modello ad altri settori, l’adozione a valle di tale regolamento della dir. 2013/55/UE del PE e del Consiglio, del 20 novembre 2013, recante modifica della dir. 2005/36/CE relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali (c.d. direttiva qualifiche) e appunto del reg. n. 1024/2012 (GUUE L 354, 132). La direttiva prevede la possibilità di fruire del sistema IMI anche per il rilascio e la circolazione di documenti che attestano le qualità dei prestatori di servizi (c.d. tessera professionale europea), e ciò con la creazione del c.d. «fascicolo IMI», vale a dire un dossier online dell’interessato, che raccoglie tutti i dati utili e le informazioni sull’esperienza formativa acquisita, con obbligo di aggiornamento costante del fascicolo da parte degli Stati membri coinvolti dall’attività transnazionale del professionista. V. anche dir. 2015/2240/UE del PE e del Consiglio, del 25 novembre 2015, che stabilisce un programma d’interoperabilità e quadri comuni per le pubbliche amministrazioni, le imprese e i cittadini europei (programma ISA), come mezzo per modernizzare il settore pubblico (GUUE L 318, 1).
Parte Quinta
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CAPITOLO I
Profili generali Sommario: 1. Evoluzione e inquadramento della materia. La complessità dell’azione esterna. – 2. Principi e obiettivi. – 3. I profili istituzionali. In particolare, l’Alto Rappresentante e il SEAE. – 4. Segue: La rappresentanza esterna dell’Unione. – 5. Gli strumenti: a) le misure autonome. In particolare le misure restrittive. – 6. b) Gli accordi con paesi terzi o organizzazioni internazionali. La c.d. competenza a stipulare dell’Unione. – 7. Segue: La procedura per la conclusione degli accordi internazionali dell’Unione. – 8. I rapporti con organizzazioni internazionali.
1. Evoluzione e inquadramento della materia. La complessità dell’azione esterna La varietà e l’importanza delle materie rispetto alle quali le istituzioni erano chiamate a esercitare le loro competenze in base ai Trattati istitutivi spiega perché il processo d’integrazione europea sia stato fin dall’inizio caratterizzato da una marcata proiezione esterna. Un compiuto esercizio di quelle competenze non consentiva che l’azione delle istituzioni riguardasse solo i profili «intracomunitari» di quelle materie, senza investire anche quelli attinenti ai rapporti con il mondo circostante. D’altra parte, il consolidarsi progressivo del mercato interno e delle altre politiche comuni alimentava un interesse sempre maggiore degli stessi paesi terzi per l’instaurazione di rapporti diretti con le istituzioni europee. Questa proiezione esterna si è concretizzata nel corso degli anni in un complesso assai ampio di attività, di diversa natura, svolte dalle istituzioni delle allora Comunità europee sul piano internazionale: rapporti di natura diplomatica con Stati non membri, relazioni con organizzazioni internazionali universali e regionali, partecipazione a conferenze diplomatiche multilaterali e soprattutto stipulazione di accordi bilaterali e multilaterali con paesi terzi. Per lungo tempo, queste attività sono state però svolte al di fuori di un disegno complessivo. Gli obiettivi da esse perseguiti erano infatti strettamente funzionali agli interessi della specifica politica comunitaria cui ciascuna si ricollegava. Solo più recentemente, si è invece affermata l’esigenza che questa azione internazionale settoriale fosse, se non inquadrata, quanto meno accompagnata da una qualche forma di politica estera comune.
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Questa comincia in realtà a muovere i suoi primi passi sotto la veste di mera cooperazione tra gli Stati membri, cui l’AUE fornisce nel 1987 un quadro formale di consultazione ai fini del coordinamento delle politiche estere nazionali. Bisognerà invece aspettare il Trattato di Maastricht e la nascita dell’Unione europea, perché quella cooperazione si trasformi in un sistema strutturato nell’ambito del quale è l’Unione in quanto tale ad essere incaricata, come recitava l’art. 11, par. 1, TUE preLisbona, di stabilire e attuare «una politica estera e di sicurezza comune» (PESC). È a partire da allora, infatti, che questa diventa uno dei tre pilastri sui quali quel Trattato riorganizza il processo di integrazione europea (supra, p. 21) e la sua gestione diventa compito dell’Unione attraverso le istituzioni comuni. E tuttavia, proprio in ragione di quella ripartizione in pilastri, fino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la partecipazione dell’Unione europea alla vita di relazione internazionale si è svolta attraverso, per così dire, due canali separati, ma paralleli, gestiti, ciascuno, da una delle due diverse entità con cui fino a quel momento il processo di integrazione europea si identificava, e operanti sulla base di poteri, strumenti e procedure differenti: da un lato, appunto, la PESC, affidata all’Unione e al metodo intergovernativo; dall’altro, le c.d. relazioni esterne delle Comunità – i profili esterni cioè delle loro diverse politiche –, gestite dalle istituzioni di queste secondo l’originario metodo comunitario. Tale assetto è stato modificato dal Trattato di Lisbona. La riconduzione a unità del processo di integrazione europea operata da quel Trattato è stata accompagnata, infatti, da un’analoga ristrutturazione della sua proiezione esterna. Negli attuali Trattati l’insieme delle attività che l’Unione è chiamata a esercitare sul piano internazionale, che si tratti di quelle precedentemente afferenti a competenze comunitarie o di quelle più propriamente politiche, sono inquadrate in un ambito giuridico-istituzionale unitario, quello appunto dell’azione esterna dell’Unione, in cui, come vedremo, tali attività rispondono a principi e obiettivi comuni. D’altra parte, questo è stato un effetto quasi inevitabile del venir meno della Comunità europea come entità separata dall’Unione. La formale identificazione del processo d’integrazione europea nella sola Unione europea ha portato infatti con sé la personificazione unicamente in questa anche della sua proiezione esterna: come esplicitamente precisa il TUE, è l’Unione che ha ora la «personalità giuridica» (art. 47), ed è in capo ad essa che i rapporti giuridici internazionali precedentemente assunti dalla Comunità continuano ad esplicare i loro effetti (art. 1: «l’Unione sostituisce e succede alla Comunità europea»). Va da sé, pertanto, che non avrebbe avuto più senso, nemmeno dal punto di vista formale, continuare a tenere nettamente separate tra di loro due sfere di attività dell’unico soggetto Unione, ambedue ugualmente incidenti sulla sua presenza sulla scena internazionale. Le disposizioni che disciplinano l’azione esterna si ritrovano così raggruppate, oggi, all’interno di un Titolo unico del TUE e di una Parte unica del TFUE, secondo uno schema che riflette, come abbiamo a suo tempo visto, la struttura stessa dei due Trattati e i rapporti tra di essi: nel TUE si dà conto dei principi e degli obiettivi generali dell’azione esterna dell’Unione, così come della sua dimensione più strettamente politica, rappresentata dalla PESC e, come sua «parte integrante» (art. 42, par. 1, TUE), dalla PSDC, la c.d. politica di sicurezza e difesa comune; nel TFUE si
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regolano nel dettaglio tanto gli strumenti attraverso cui tale azione prende corpo, quanto le politiche settoriali e le specifiche azioni dell’Unione che hanno nel rapporto di questa con paesi terzi la loro principale ragion d’essere: vengono così esplicitamente ricondotte all’interno del nuovo quadro unitario dell’azione esterna dell’Unione la politica commerciale comune e le attività nei settori della cooperazione allo sviluppo, dell’aiuto umanitario fuori dei confini dell’Unione e della cooperazione economica, finanziaria e tecnica con paesi terzi. Tanto la PESC/PESD che queste altre politiche e attività non esauriscono, peraltro, tutti i possibili elementi di cui si compone l’azione esterna dell’Unione. In essa devono essere infatti considerati ugualmente ricompresi anche i profili esterni di tutte le altre politiche settoriali dell’Unione, a partire, come si vedrà, dalla conclusione di accordi con paesi terzi nell’esercizio delle competenze relative a tali politiche, i quali ugualmente concorrono, al pari delle politiche e delle azioni precedentemente citate, a determinare la politica estera dell’Unione, caratterizzandone la partecipazione alla vita di relazione internazionale. L’art. 21, par. 3, comma 1, TUE sottolinea che i principi e gli obiettivi generali dell’azione esterna, di cui si dirà nel paragrafo successivo, vanno rispettivamente rispettati e perseguiti nell’elaborazione e attuazione non solo dei settori che dell’azione esterna fanno formalmente parte ai sensi delle norme dei Trattati che la concernono, ma anche delle altre politiche dell’Unione «nei loro aspetti esterni».
Benché sia contemplata da un articolo non incluso tra quelli specificamente dedicati all’azione esterna dell’Unione, è poi certamente parte di quest’ultima la c.d. politica di vicinato. L’art. 8 TUE chiama, infatti, l’Unione a sviluppare con i paesi limitrofi, attraverso gli strumenti tipici dell’azione esterna, «relazioni privilegiate al fine di creare uno spazio di prosperità e buon vicinato fondato sui valori dell’Unione e caratterizzato da relazioni strette e pacifiche basate sulla cooperazione». L’art. 8, peraltro, aggiunge anche che a questi fini l’Unione potrà concludere accordi specifici con i paesi interessati (par. 2). La specificità di questi accordi non deriva da una loro peculiare natura giuridica, né individua una specifica competenza materiale delle istituzioni, ma appare unicamente collegata alla finalizzazione degli stessi alla creazione di uno spazio di buon vicinato e quindi alla limitata cerchia dei paesi con cui essi possono essere conclusi. La politica di vicinato va perciò realizzata attraverso le competenze e gli strumenti convenzionali di cui, come vedremo, l’Unione dispone ad altro titolo. Del resto, essa identifica un ambito dell’azione esterna dell’Unione attivo in realtà già da prima che il Trattato di Lisbona introducesse tale articolo nel TUE e che inquadra in una dimensione politica rapporti già esistenti o futuri con i paesi terzi che ne sono oggetto.
Nonostante la formale unitarietà acquisita grazie al Trattato di Lisbona, l’azione esterna non si presenta quindi come un politica dell’Unione in senso proprio, ma si identifica con un insieme complesso e potenzialmente assai vasto di attività collegate tra loro dal fatto di contribuire tutte, singolarmente o in combinazione reciproca, alla partecipazione dell’Unione alla vita di relazione internazionale. In ragione di ciò, peraltro, essa non riflette nemmeno una competenza specifica dell’Unione, ma si avvale di tutti i diversi tipi di competenza che i Trattati riconoscono alle istituzioni.
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Mentre infatti, come abbiamo a suo tempo detto, nel quadro della politica commerciale queste godono di una competenza esclusiva che preclude qualsiasi azione autonoma degli Stati nella stessa materia, in altri settori, quali la cooperazione allo sviluppo, la competenza esercitata dalle istituzioni è piuttosto ascrivibile alle competenze che abbiamo definito parallele, in quanto lasciano sopravvivere le corrispondenti competenze nazionali senza interferire con le stesse. Nei settori invece in cui l’azione esterna dell’Unione consiste nell’attuazione sul piano internazionale di sue politiche interne, la competenza delle istituzioni è per lo più concorrente con quella degli Stati, con la conseguenza che non vi può essere un contemporaneo esercizio della stessa da parte delle prime e dei secondi. Per quanto riguarda la PESC, infine, la competenza che l’Unione è chiamata ad esercitare a questo titolo si caratterizza in maniera ancora differente, non presentandosi né come esclusiva, né come concorrente, senza potere però, allo stesso tempo, essere del tutto assimilata, come vedremo in particolare per il settore della difesa, nemmeno a una competenza parallela a quelle corrispondenti degli Stati. Tutto ciò introduce senza dubbio un fattore di complessità nel funzionamento dell’azione esterna dell’Unione. Le diverse competenze e le diverse modalità di esercizio che fanno capo ai differenti settori dell’azione esterna possono comportare infatti, in alcuni casi, la necessità di delimitare i rispettivi ambiti di applicazione di questi ai fini dell’inquadramento di una determinata iniziativa dell’Unione nell’uno o nell’altro settore o, in ogni caso, di un eventuale coordinamento di quelle modalità di esercizio. Questa complessità risulta vieppiù accentuata, poi, dal fatto che, pur se nel quadro unitario dell’azione esterna dell’Unione, la PESC rimane anche dopo il Trattato di Lisbona «soggetta a norme e procedure specifiche» (art. 24, par. 1, comma 2, TUE). Questa specificità, sottolineata peraltro anche dalla sua differente collocazione rispetto alle altre componenti di quell’azione (nel TUE invece che nel TFUE), si manifesta, come si vedrà, nella perdurante caratterizzazione in senso strettamente intergovernativo dell’assetto istituzionale e procedurale che presiede al suo funzionamento (ruolo dominante del Consiglio, generalizzazione della regola dell’unanimità, assoluta marginalità del Parlamento europeo, pressoché totale assenza del controllo della Commissione e della Corte di giustizia). Ciò non significa che la PESC si configuri ancora, seppur sotto altra forma, come un pilastro separato, visto che, a differenza di quanto avveniva in precedenza, tali norme e procedure specifiche sono ora inserite all’interno di un sistema giuridico unico fondato sul TUE e sul TFUE, e ai cui principi e criteri interpretativi risultano quindi, in mancanza di diversa previsione, pienamente soggette. E tuttavia non c’è dubbio che ciò rappresenta un elemento di particolare complicazione per la gestione dell’azione esterna dell’Unione. Da un lato, data la più marcata diversità esistente tra le regole e procedure «specifiche» cui è soggetta la PESC e quelle applicabili agli altri settori dell’azione esterna, la necessità di delimitare i rispettivi ambiti di applicazione delle diverse componenti di quest’ultima si pone in relazione alla PESC in maniera più forte di quanto non si prospetti nel rapporto tra le altre politiche e azioni esterne dell’Unione; tanto più che lo stesso TUE, come abbiamo visto, tutela con un’apposita norma quei ri-
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spettivi ambiti di applicazione da reciproche interferenze. Secondo l’art. 40 di questo Trattato, infatti, l’azione ai sensi rispettivamente della PESC e di tutte le altre politiche e azioni dell’Unione deve lasciare «impregiudicata l’applicazione delle procedure e la rispettiva portata delle attribuzioni delle istituzioni previste […] per l’esercizio delle competenze dell’Unione» nell’uno e negli altri ambiti. Dall’altro lato, però, questa operazione di delimitazione è resa particolarmente complicata, nel caso della PESC, dal fatto che, anche nella definizione che ne dà il Trattato, il perimetro di questa competenza dell’Unione rimane sostanzialmente vago: l’art. 24, par. 1, TUE, si limita a identificarlo genericamente con «tutti i settori della politica estera e tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione», e d’altra parte la materia «politica estera» è definita più dai fini perseguiti, che dai contenuti delle azioni ad essa riconducibili, le quali si avvalgono anzi, in molti casi, di contenuti propri di altre competenze (materiali) dell’Unione. Evidentemente diversa è però, come vedremo nel successivo Capitolo (par. 2), la situazione di quella componente della PESC che è la politica di sicurezza e di difesa comune, la quale è più fortemente agganciata a contenuti materiali specifici, identificati dalla dimensione militare e di difesa delle iniziative esercitabili nel suo ambito.
2. Principi e obiettivi Come si è poc’anzi sottolineato, le diverse attività riconducibili all’azione esterna dell’Unione sono chiamate oggi a svolgersi nel quadro di principi e obiettivi generali e comuni. Il par. 3 dell’art. 21 del TUE introduttivo dell’azione esterna dell’Unione dispone, infatti, che nell’elaborazione e attuazione di tale azione nelle sue diverse componenti, «l’Unione rispetta i principi e persegue gli obiettivi di cui ai paragrafi 1 e 2». I paragrafi citati dell’art. 21 elencano in effetti i diversi principi e obiettivi cui deve uniformarsi la conduzione dell’azione esterna dell’Unione. Se i primi coincidono essenzialmente con quelli che abbiamo visto essere i valori fondanti dell’Unione (democrazia, Stato di diritto, diritti dell’uomo, rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale), i secondi comprendono finalità assai generali che vanno dall’affermazione dei valori appena citati alla tutela della sicurezza e dell’indipendenza e integrità dell’Unione, dalla salvaguardia della pace e della sicurezza internazionale, alla promozione dello sviluppo sostenibile e della liberalizzazione degli scambi commerciali. Così facendo, l’art. 21 TUE ribadisce in realtà, con maggiori dettagli e precisione, quanto già puntualizzato in uno dei primi articoli dello stesso Trattato con riguardo alle finalità dell’Unione in quanto tale. Il par. 5 dell’art. 3 TUE specifica, infatti, che nelle sue relazioni con il resto del mondo l’Unione, oltre a salvaguardare i propri valori e interessi a tutela dei propri cittadini, «contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti del minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite».
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La lista appena citata, e ancor più quella contenuta nell’art. 21 TUE, riflettono chiaramente la complessità che abbiamo visto caratterizzare l’azione esterna dell’Unione. Accanto a finalità classiche di politica estera, vi si ritrovano obiettivi («integrazione di tutti i paesi nell’economia mondiale» e «sviluppo sostenibile») che riecheggiano alcune di quelle politiche settoriali dell’Unione che, come si è detto, ugualmente contribuiscono, nei loro profili internazionali, all’azione esterna della stessa. Ciò comporta che questi ultimi, da obiettivi relativi a specifiche politiche materiali dell’Unione, quali la politica commerciale o la politica ambientale, finiscono per costituire anche finalità generali dell’azione esterna in quanto tale, così come, d’altronde, quelle specifiche politiche, insieme alle altre politiche settoriali che compongono l’azione esterna, vengono ad essere a loro volta inquadrate anche da obiettivi di politica estera generale.
Come si è detto, il Trattato impone all’Unione di conformarsi, nello svolgimento concreto della sua azione esterna, ai principi e agli obiettivi generali sopra ricordati. Ciò non significa che attraverso essi si sia voluto porre un limite formale agli interventi di politica estera dell’Unione, circoscrivendoli unicamente a quelli volti a realizzare quei principi e quegli obiettivi. D’altronde, pur nella maggior specificazione data dall’art. 21 TUE, la loro formulazione appare troppo generale e generica perché se ne possa effettivamente ricavare una limitazione di questo genere per l’operato delle istituzioni. Semmai, la funzione di questi principi e obiettivi sembra essere piuttosto, in linea generale, quella di assicurare la coerenza generale della partecipazione dell’Unione alla vita di relazione internazionale, inquadrando la stessa, a qualunque titolo svolta, all’interno di una cornice di politica estera unitaria. Un’eccezione a quanto appena osservato è certamente rappresentata dal «rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale», che, come si è a suo tempo detto, costituisce, nei limiti in cui la Corte possa essere chiamata a pronunciarsi al riguardo, un parametro di legittimità dell’azione esterna dell’Unione. Oltre a quanto detto supra, p. 153 ss., si veda al riguardo Corte giust. 21 dicembre 2011, C-366/10, Air Transport Association of America e a.: «[o]ccorre ricordare che, come risulta [dall’art. 3, par. 5, TUE], l’Unione contribuisce alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale. Di conseguenza, quando adotta un atto, l’Unione è tenuta a rispettare il diritto internazionale nella sua globalità, ivi compreso il diritto internazionale consuetudinario al cui rispetto sono vincolate le istituzioni dell’Unione medesima» (punto 101). Un es. specifico di obbligo di rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite è quello cui l’Unione è al riguardo tenuta nell’effettuazione di missioni militari nel quadro della politica di sicurezza e difesa comune, di cui infra, p. 858 ss. Inoltre, nello stesso senso, la Corte ha affermato che «il principio consuetudinario di autodeterminazione ricordato, in particolare, all’articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite è […] un principio di diritto internazionale applicabile a tutti i territori non autonomi e a tutti i popoli non ancora acceduti all’indipendenza. Esso costituisce, inoltre, un diritto opponibile erga omnes nonché uno dei principi essenziali del diritto internazionale»: in quanto tale, esso fa parte norme di diritto internazionale applicabili nelle relazioni tra l’Unione e gli Stati terzi (Corte giust. 21 dicembre 2016, C-104/16 P, Consiglio c. Fronte Polisario, punti 88 e 89).
L’esigenza di coerenza che va garantita all’azione esterna dell’Unione è del resto particolarmente sottolineata nel Trattato, trovando ragion d’essere nella pluralità di competenze che, come abbiamo visto e meglio vedremo in seguito, contribuiscono a tale azione e nelle diverse modalità e procedure di funzionamento che continuano comunque a caratterizzare la PESC rispetto agli altri settori dell’azione esterna. Essa non può evidentemente essere soddisfatta solo attraverso il rispetto dei
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principi e degli obiettivi generali indicati direttamente dal Trattato. Non a caso il TUE impone specificamente alle istituzioni di assicurare tale coerenza tra i vari settori dell’azione esterna e tra questi e le altre politiche dell’Unione, chiedendo in particolare al Consiglio e alla Commissione di provvedervi in cooperazione tra loro e con l’aiuto dell’Alto Rappresentante. Così l’art. 21, par. 3, comma 2, TUE: «[l]’Unione assicura la coerenza tra i vari settori dell’azione esterna e tra questi e le altre politiche. Il Consiglio e la Commissione, assistiti dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, garantiscono tale coerenza e cooperano a questo fine».
Il primo terreno sul quale la collaborazione a tali fini tra queste istituzioni (e tra loro e l’Alto Rappresentante) evidenzia la sua importanza è quello della trasposizione dei principi e degli obiettivi generali dell’azione esterna sopra ricordati in obiettivi operativi. L’art. 22 TUE chiede infatti al Consiglio europeo di individuare in concreto, a partire da quei principi e obiettivi generali, gli interessi e gli obiettivi strategici relativi a un determinato paese o regione ovvero a una determinata questione, cui l’Unione deve attenersi nell’esercizio delle sue competenze in materia di azione esterna. Il Consiglio europeo vi deve provvedere con decisioni da prendere all’unanimità, quale che siano (il o) i settori dell’azione esterna coinvolti. Esso decide però sulla base di raccomandazioni del Consiglio, le quali, invece, sono da adottare secondo le modalità procedurali e di voto previste per ciascun settore interessato. Ciò comporta che laddove esse riguardino il settore della PESC, le raccomandazioni dovranno essere prese all’unanimità su eventuale iniziativa dell’Alto Rappresentante, mentre per quelle relative agli altri settori dell’azione esterna, il Consiglio si troverà a pronunciarsi il più delle volte a maggioranza qualificata e su proposta della Commissione. E proprio in ragione di ciò, per facilitare la ricerca della coerenza complessiva dell’azione esterna dell’Unione, il Trattato prevede, non a caso, che l’Alto Rappresentante e la Commissione possano eventualmente presentare, ciascuno in relazione al proprio settore di competenza, «proposte congiunte al Consiglio» (art. 22, par. 2, TUE).
3. I profili istituzionali. In particolare, l’Alto Rappresentante e il SEAE Nelle modalità appena descritte di individuazione degli interessi e di adozione degli obiettivi strategici dell’Unione può dirsi sintetizzato l’assetto istituzionale dell’azione esterna dell’Unione. Ciò non perché in questo assetto si esaurisca l’intero spettro dei meccanismi istituzionali cui sono affidati i rapporti internazionali dell’Unione, ma perché esso riflette, a fronte della complessità di un’azione esterna fatta di un insieme di singole politiche e azioni collegate tra loro dalla comune proiezione internazionale, il solo momento unitario, dal punto di vista istituzionale, di quella azione: il momento programmatico e di indirizzo di quell’insieme di politiche e azioni. Al suo interno ritroviamo, cioè, le sole istituzioni e figure istituzionali che, attraverso il coinvolgimento in tale momento, finiscono per giocare un ruolo rispetto all’azione esterna in quanto tale.
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Questo assetto istituzionale vi appare essenzialmente imperniato sul ruolo del Consiglio europeo e del Consiglio, da un lato, e su quello dell’Alto Rappresentante e della Commissione, dall’altro. E il ruolo che essi rispettivamente vi giocano trova in buona parte corrispondenza in quello a ciascuno di essi generalmente assegnato dai Trattati. Il Consiglio europeo è chiamato a svolgere rispetto all’azione esterna quei compiti di impulso e di definizione degli orientamenti e delle priorità politiche generali che l’art. 15, par. 1, TUE gli riconosce in via generale rispetto al funzionamento dell’Unione. All’Alto Rappresentante e alla Commissione spetta la tradizionale funzione di proposta che essi comunemente esercitano rispetto alle decisioni del Consiglio. Quest’ultimo vi svolge a sua volta un ruolo di raccomandazione che, pur se apparentemente anomalo da punto di vista formale rispetto ai suoi ordinari compiti istituzionali, può essere nella sostanza ricondotto alla funzione preparatoria delle riunioni del Consiglio europeo che l’art. 16, par. 6, comma 3, TUE gli riconosce in via generale.
Ciascuna delle politiche e azioni da cui è composta l’azione esterna dell’Unione è però, governata, per il suo funzionamento concreto, da uno specifico apparato istituzionale e procedurale, che si differenzia in misura più o meno significativa da quello delle altre in ragione delle scelte operate dalle norme dei Trattati che specificamente disciplinano quella determinata politica o azione. Di esso possono essere parti, a seconda dei casi, oltre che altre istituzioni politiche e di controllo dell’Unione, anche le istituzioni e le figure istituzionali sopra ricordate. Ciò è certamente vero per il Consiglio europeo, che come si è appena detto esercita una generale funzione di indirizzo politico di tutte le attività dell’Unione, e per il Consiglio, che è organo centrale dell’intero quadro istituzionale di questa e quindi anche delle sue singole politiche e azioni. Ma altrettanto può dirsi per la Commissione e l’Alto Rappresentante, benché nel loro caso i rispettivi ruoli si configurino per molti versi come alternativi. Sebbene, infatti, la prima sia stata generalmente rimpiazzata dal secondo nel pur limitato potere d’iniziativa di cui disponeva nel quadro della PESC prima del Trattato di Lisbona, essa vi gioca ancora un qualche ruolo in appoggio alle iniziative dell’Alto Rappresentante (art. 30, par. 1, TUE) e in materia di sicurezza e difesa comune. Come si vedrà, e con maggiori dettagli, anche nel par. 2 del Capitolo successivo, in materia di sicurezza e difesa comune la Commissione risulta in particolare coinvolta nell’individuazione dei mezzi e strumenti (nazionali o dell’Unione) da utilizzare nelle missioni dell’Unione in paesi terzi e in taluni aspetti del funzionamento dell’Agenzia europea per la difesa.
Quanto all’Alto Rappresentante, il suo contributo al di fuori dell’àmbito specifico della PESC, pur non sostanziandosi in puntuali adempimenti o prerogative procedurali, è implicito nel ruolo che esso è chiamato a svolgere all’interno della Commissione nel quadro dell’incarico di Vicepresidente della stessa, che si cumula, come abbiamo a suo tempo visto, con quello di Alto Rappresentante. In questa duplice veste egli finisce, in effetti, per essere responsabile dell’intero ventaglio della dimensione esterna dell’Unione. Si tratta ovviamente di una responsabilità diversamente graduata. Mentre nell’ambito tradizionale della PESC, l’Alto Rappresentante «guida» in prima persona la politica dell’Unione, ivi compresa quella di sicurezza e difesa comune, contribuendo con le sue proposte alla sua elaborazione e attuandola in qualità di mandatario del
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Consiglio (artt. 18, par. 2, e 27 TUE), rispetto alle altre competenze esterne dell’Unione le sue funzioni non sono altrettanto incisive. L’incarico di responsabile del portafoglio «Relazioni esterne» e del coordinamento degli altri aspetti dell’azione esterna dell’Unione che gli è affidato, per espressa previsione del Trattato, nella sua veste di Vicepresidente della Commissione (art. 18, par. 4, TUE), gli consente certamente di influire in qualche misura anche sulla proiezione esterna delle singole politiche settoriali di competenza della Commissione, ma comunque unicamente a titolo di mero coordinamento dei Commissari competenti per quelle azioni. Un’ulteriore capacità di influenza sulle politiche esterne dell’Unione diverse dalla PESC gli deriva in ogni caso, oltre che dalla presidenza, ad esso unicamente affidata, della formazione del Consiglio dell’Unione cui compete, secondo l’art. 16, par. 6, comma 3, TUE, la trattazione e la coerenza di tutte le questioni rientranti nell’azione esterna dell’Unione (il Consiglio «Affari esteri»), anche dalla responsabilità del Servizio europeo di azione esterna (SEAE) e, attraverso questo, delle delegazioni dell’Unione presso paesi terzi o organizzazioni internazionali. Il SEAE è stato creato dal Trattato di Lisbona come una sorta di vero e proprio corpo diplomatico europeo. Il TUE lo delinea come un organo dell’Unione di natura ibrida, comunitaria-intergovernativa, per la sua composizione – «è composto da funzionari dei servizi competenti del segretariato generale del Consiglio e della Commissione e da personale distaccato dei servizi diplomatici nazionali» (art. 27, par. 3, TUE) – e per le sue funzioni – assiste l’Alto Rappresentante, il Presidente del Consiglio europeo, il Presidente della Commissione e la Commissione «nell’esercizio delle loro rispettive funzioni nel settore delle relazioni esterne» –, ma allo stesso tempo dotato di piena autonomia funzionale. Esso opera sotto l’autorità dell’Alto Rappresentante ed è giuridicamente tenuto ad assicurare la compatibilità della sua azione politica con le altre politiche dell’Unione. L’art. 27, par. 3, TUE, che ha previsto l’istituzione del SEAE, ha attribuito al Consiglio il compito di definirne l’organizzazione e il funzionamento con una procedura decisionale assai originale, che è strettamente funzionale alla composizione ibrida del SEAE (cfr. di seguito nel testo): delibera del Consiglio a maggioranza qualificata su proposta dell’Alto Rappresentante e previa consultazione del PE ed approvazione della Commissione. Il Consiglio vi ha provveduto con propria dec. 2010/427/UE, del 26 luglio 2010 (GUUE L 201, 30). Ad ogni modo, ulteriori atti hanno dovuto essere adottati per consentire la piena operatività del SEAE: v. reg. (UE, Euratom) n. 1080/2010 del PE e del Consiglio, del 24 novembre 2010, che modifica lo Statuto dei funzionari delle Comunità europee e il regime applicabile agli altri agenti di tali Comunità (GUUE L 311, 1); e reg. (UE, Euratom) n. 1081/2010 del PE e del Consiglio, del 24 novembre 2010, recante modifica del reg. (CE, Euratom) n. 1605/2002 del Consiglio, che stabilisce il regolamento finanziario applicabile al bilancio generale delle Comunità europee, relativamente al servizio europeo per l’azione esterna (ibidem, 9). Il SEAE, che ha cominciato a funzionare a gennaio 2011, disponeva al momento della sua nascita di 1.643 dipendenti, provenienti, più o meno in una proporzione di un terzo ciascuno, dalla Commissione, dal Consiglio e dagli Stati membri. A regime, il Servizio disporrà di circa 7.000-8.000 dipendenti. L’assistenza che il SEAE è chiamato a prestare in particolare all’Alto Rappresentante è disciplinata dall’art. 2 della citata dec. 2010/427/UE, il quale precisa, tra l’altro, che l’Alto Rappresentante è assistito dal SEAE non solo nell’esecuzione delle sue funzioni in materia di PESC e di Presidente del Consiglio «Affari esteri», ma anche «nella sua veste di Vicepresidente della Commissione ai fini dell’esercizio nell’ambito di tale istituzione delle competenze che ad essa incombono
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nel settore delle relazioni esterne e ai fini del coordinamento di altri aspetti dell’azione esterna dell’Unione, senza pregiudizio delle funzioni ordinarie dei servizi della Commissione». Tra i compiti del SEAE vi è inoltre quello di assistere l’Alto Rappresentante nell’esecuzione dei suoi mandati, per quanto riguarda, tra l’altro, la presidenza del Consiglio «Affari esteri»: è infatti affidata a funzionari del SEAE, in qualità di rappresentanti dell’Alto Rappresentante, la presidenza dei gruppi di lavoro e degli altri comitati più direttamente coinvolti nella preparazione dei lavori di questa formazione del Consiglio. Ad ogni modo, oltre che all’Alto Rappresentante (e alla Commissione e ai Presidenti di quest’ultima e del Consiglio europeo), il SEAE deve prestare «assistenza e cooperazione appropriati anche alle altre istituzioni e organi dell’Unione, in particolare al Parlamento europeo» (art. 3, par. 4, dec. 2010/427/UE).
Al SEAE è richiesto di lavorare in stretta collaborazione con i servizi diplomatici degli Stati membri (art. 27, par. 3, TUE), nonché con il segretariato generale del Consiglio e con i servizi della Commissione, al fine di assicurare la coerenza tra i vari settori dell’azione esterna e tra questi settori e le altre politiche dell’Unione. In questo quadro, peraltro, esso deve consultarsi con i servizi della Commissione su tutte le tematiche inerenti all’azione esterna dell’Unione – con la sola esclusione di quelle riguardanti la PSDC – e partecipare «ai lavori preparatori e alle procedure preparatorie relativi agli atti che la Commissione deve elaborare in questo settore» (art. 3, parr. 1 e 2, dec. 2010/427/UE). Al SEAE fanno infine capo anche le delegazioni dell’Unione presso i paesi terzi e le organizzazioni internazionali, che ne costituiscono anzi parte integrante. Le delegazioni «assicurano la rappresentanza dell’Unione» presso lo Stato o l’organizzazione di accreditamento (art. 221, par. 1, TFUE). Prima del Trattato di Lisbona esse erano in realtà delegazioni «diplomatiche» della sola Commissione cui si affiancavano, in taluni casi, anche delegazioni del Consiglio specificamente competenti per le questioni PESC. Con il passaggio a una struttura unitaria dell’azione esterna e la creazione di un Alto Rappresentante della stessa dotato di un c.d. «doppio cappello» del Consiglio e della Commissione, esse sono divenute appunto delegazioni diplomatiche «unitarie» dell’Unione in quanto tale, che rappresentano questa presso la sede di accreditamento in relazione a tutto lo spettro delle sue attività e competenze, contribuendo anche all’attuazione del diritto di tutela assicurato ai cittadini dell’Unione nel territorio dei paesi terzi e che si è visto essere parte dello status di cittadinanza dell’Unione. Il loro personale, peraltro, pur provenendo, com’è ovvio, principalmente dal SEAE, può essere integrato anche da membri del personale della Commissione. Ai sensi della dec. 2010/427/UE istitutiva del SEAE, questo «si articola in un’amministrazione centrale e nelle delegazioni dell’Unione nei paesi terzi e presso le organizzazioni» (art. 1, par. 4). Costituendo parte integrante del SEAE, dal punto di vista gerarchico «le delegazioni dell’Unione sono poste sotto l’autorità dell’Alto Rappresentante» (art. 221, par. 2, TFUE). Non a caso l’art. 5, par. 3, della decisione di cui sopra, prevede che «il capodelegazione riceve istruzioni dall’Alto Rappresentante e dal SEAE». È però previsto che «nei settori in cui esercita i poteri conferitili dai trattati, la Commissione può anche […] impartire istruzioni alle delegazioni, cui è data esecuzione sotto la responsabilità generale del capodelegazione» (art. 5, par. 3, comma 2, della stessa decisione). In ogni caso, nell’esercizio delle loro funzioni, le delegazioni dell’Unione collaborano e condi-
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vidono informazioni con i servizi diplomatici degli Stati membri dell’Unione e con le missioni diplomatiche e consolari degli stessi (art. 221, par. 2, TFUE). Alle delegazioni dell’Unione sono di regola riconosciuti, sulla base di un accordo tra l’Alto Rappresentante e lo Stato terzo interessato, le immunità e i privilegi tipici dello status diplomatico (art. 5, par. 6, dec. 2010/427/UE cit.: «[l]’Alto Rappresentante conclude gli accordi necessari con il paese ospitante, l’organizzazione internazionale o il paese terzo interessato. In particolare, l’Alto Rappresentante adotta le misure necessarie per assicurare che gli Stati ospitanti accordino alle delegazioni dell’Unione, al loro personale e ai relativi beni, privilegi e immunità equivalenti a quelli di cui alla convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 18 aprile 1961»); così come del resto, in chiave di reciprocità, gli stessi privilegi e immunità sono riconosciuti dall’art. 16 del Protocollo (n. 7) sui privilegi e sulle immunità dell’Unione europea, alle numerose missioni diplomatiche di paesi terzi e di organizzazioni internazionali accreditate presso l’Unione a Bruxelles (per l’esattezza, l’articolo prevede che «lo Stato membro, sul cui territorio è situata la sede dell’Unione, riconosce alle missioni dei paesi terzi accreditate presso l’Unione le immunità e i privilegi diplomatici d’uso».
4. Segue: La rappresentanza esterna dell’Unione Mentre la rappresentanza diplomatica dell’Unione presso singoli paesi terzi od organizzazioni internazionali è ora assicurata, grazie alle delegazioni dell’Unione, in maniera unitaria (l’Unione è oggi rappresentata nel mondo da una rete di circa 160 delegazioni, delle quali 11 sono presso organizzazioni internazionali), non altrettanto avviene, anche dopo il Trattato di Lisbona, per gli altri livelli di rappresentanza esterna dell’Unione. Anche in essi si trovano infatti riflesse tutte le complessità dell’azione esterna di questa. È in effetti previsto che per le materie relative alla PESC sia il Presidente del Consiglio europeo ad assicurare la rappresentanza esterna dell’Unione, ferme restando però le attribuzioni al riguardo dell’Alto Rappresentante. Quanto invece agli altri settori dell’azione esterna, l’art. 17, par. 1, TUE attribuisce espressamente alla Commissione il compito di rappresentare l’Unione. È ovvio poi che, quale che sia l’ambito di competenza interessato, il livello della rappresentanza varierà a seconda del livello protocollare dell’evento. Per la PESC, infatti, se è in linea generale l’Alto Rappresentante che «conduce, a nome dell’Unione, il dialogo politico con i terzi ed esprime la posizione dell’Unione nelle organizzazioni internazionali e in seno alle conferenze internazionali», spetta invece al Presidente del Consiglio europeo, per espressa previsione del TUE, assicurare la rappresentanza dell’Unione «al suo livello». Analogamente, nel caso della Commissione, la sua rappresentanza può essere garantita, in ragione delle stesse considerazioni, sia dal suo Presidente, che, su designazione di quest’ultimo, da uno degli altri membri (art. 3, par. 5, del regolamento interno della Commissione). Per quanto riguarda gli ambiti rispettivi di rappresentanza, l’art. 15, par. 6, comma 2, TUE specifica, in effetti, che «[i]l Presidente del Consiglio europeo assicura, al suo livello e in tale veste, la rappresentanza esterna dell’Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune, fatte salve le attribuzioni dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza». Dal canto suo, quest’ultimo opera, ai sensi dell’art. 27, par. 2, TUE, «per le materie che rientrano nella politica estera e di sicurezza comune». Quanto infine alla Commissio-
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ne l’art. 17, par. 1, TUE, nel precisare genericamente che essa «assicura la rappresentanza esterna dell’Unione», fa espressa eccezione oltre che della PESC, anche «degli altri casi previsti dai Trattati». Questi ultimi sembrano limitarsi essenzialmente alla partecipazione a istituzioni e conferenze finanziarie internazionali di cui all’art. 138 TFUE, e alla negoziazione di accordi con Stati terzi in materia monetaria di cui all’art. 219 TFUE, sulla quale vedi, oltre a quanto detto di seguito nel testo, supra, p. 682 s., e la successiva p. 836). La Corte di giustizia ha peraltro individuato, sulla base dell’art. 335 TFUE, un’altra ipotesi di rappresentanza esterna della Commissione nella rappresentanza dinanzi a tribunali internazionali. Sebbene, infatti, il disposto di questo articolo parli espressamente solo della rappresentanza negli Stati membri, la Corte ha ritenuto che esso esprima «un principio generale in virtù del quale l’Unione possiede la capacità giuridica e a tal fine è rappresentata dalla Commissione» (Corte giust. 6 ottobre 2015, C-73/14, Consiglio c. Commissione, punto 58). Si deve pertanto ritenere che l’articolo in questione costituisca la base giuridica perché sia la Commissione a rappresentare l’Unione dinanzi a un giudice internazionale (e nella specie dinanzi al tribunale internazionale del mare), fermo restando che «il principio di leale cooperazione impone alla Commissione, quando quest’ultima intende esprimere posizioni in nome dell’Unione dinanzi a un giudice internazionale, l’obbligo di consultare previamente il Consiglio» (ivi, punto 86).
Indipendentemente dal livello cui essa è assicurata nel caso concreto, la diversa titolarità della rappresentanza esterna dell’Unione in funzione degli ambiti di competenza interessati comporta nei fatti non solo che essa faccia capo a una pluralità di soggetti o istituzioni, ma anche che in molti casi questi ultimi finiscano per assicurarla congiuntamente, compromettendo, se non altro nella percezione degli interlocutori, l’idea stessa dell’esistenza di una responsabilità unica nella conduzione delle relazioni internazionali dell’Unione. Questa diversa titolarità risulta infatti disciplinata dai Trattati in termini espressamente alternativi solo per quanto attiene alla responsabilità di negoziati internazionali diretti alla conclusione di accordi con paesi terzi o organizzazioni internazionali: come vedremo più avanti, a seconda che l’accordo da negoziare riguardi esclusivamente o principalmente la PESC o le altre materie di competenza dell’Unione, spetterà all’Alto Rappresentante o alla Commissione rappresentare nel negoziato l’Unione (art. 218, par. 3, TFUE). Al di fuori di questa ipotesi, però, essa non esclude, anche in ragione dell’esigenza di coerenza che il Trattato chiede sia garantita all’azione esterna dell’Unione, che vi possano essere forme di rappresentanza congiunta all’interno di una delegazione unica dell’Unione. Ciò è vero soprattutto quando si tratti di incontri e vertici a più forte caratterizzazione politica. Riprendendo una prassi invalsa da prima del Trattato di Lisbona con la presidenza di turno del Consiglio europeo, è regola costante, ad esempio, che quando quegli incontri e vertici vedano la partecipazione di capi di Stato o di governo l’Unione sia rappresentata congiuntamente, e indipendentemente dalla complessità dell’agenda della riunione, dal Presidente della Commissione e da quello del Consiglio europeo. Ma analogamente avviene, a livello diverso, in altri casi in cui, per la pluralità delle materie da affrontare in un dato contesto internazionale, l’Unione è rappresentata da una delegazione collegiale, in cui possono essere rappresentati, insieme con la Commissione, anche la presidenza di turno del Consiglio o l’Alto Rappresentante, o finanche tutti gli Stati membri. La partecipazione a istituzioni e conferenze finanziarie internazionali vede poi di regola la partecipazione, oltre che
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degli Stati membri direttamente interessati, anche della BCE, senza però che vi sia formalmente assicurata una rappresentanza della zona euro in quanto tale. Per queste istanze l’ipotesi di una rappresentanza «unificata» è esplicitamente auspicata, in particolare per l’area euro, dall’art. 138, par. 2, TFUE, che prevede, in effetti, che «il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare le misure opportune per garantire una rappresentanza unificata nell’ambito delle istituzioni e conferenze finanziarie internazionali. Il Consiglio delibera previa consultazione della Banca centrale europea». La disposizione non ha ancora ricevuto attuazione, anche se la Commissione ha presentato nel 2015 una proposta di decisione del Consiglio volta alla progressiva introduzione di una rappresentanza unificata della zona euro nel Fondo monetario internazionale (COM(2015) 603). La proposta, ancora in discussione in seno al Consiglio, si pone l’obiettivo di arrivare al riconoscimento del ruolo di rappresentante dell’Unione (e in particolare della zona euro) al presidente dell’Eurogruppo, attraverso un periodo transitorio in cui la zona otterrebbe lo status di osservatore, venendo rappresentata dal rappresentante di uno Stato membro euro, in associazione con Commissione e BCE.
5. Gli strumenti: a) le misure autonome. In particolare le misure restrittive L’azione esterna dell’Unione trova realizzazione da un lato attraverso la conclusione di accordi internazionali con paesi terzi o con organizzazioni internazionali, dall’altro per mezzo di misure c.d. «autonome», perché consistenti in atti della sola Unione, ma comunque produttivi di effetti per tutti o per alcuni paesi terzi (o per loro cittadini), in quanto volti a disciplinare profili generali di una delle politiche o azioni che fanno specificamente parte dell’azione esterna, ovvero a dare attuazione a queste in relazione a un caso concreto. È evidentemente più difficile immaginare l’esistenza di misure di questo tipo nell’ambito invece delle politiche materiali dell’Unione che possono contribuire alla sua azione attraverso i propri profili esterni, dato che questi ultimi consistono, per definizione, nella conclusione di accordi internazionali destinati a regolare quella data politica nel rapporto con uno o più paesi terzi. Si veda però, di seguito nel testo, il caso delle misure restrittive in attuazione di sanzioni internazionali.
In ragione del principio di attribuzione, a queste misure autonome l’Unione può ricorrere nei limiti in cui esse siano esplicitamente previste da un articolo dei Trattati che consenta alle istituzioni di adottarle definendo la procedura per farlo ed eventualmente il tipo di atto da utilizzare. E, in effetti, per ciascuna delle politiche e azioni di cui sopra è prevista una base giuridica specifica. Come vedremo meglio nel Capitolo successivo, per quanto riguarda le politiche e azioni diverse dalla PESC, quella base giuridica prevede per tutte la possibilità che con procedura legislativa ordinaria siano adottati atti per la definizione del relativo «quadro di attuazione». Mentre per la politica commerciale viene data un’indicazione specifica riguardo al tipo di atto da adottare, ossia il regolamento (art. 217, par. 2, TFUE), nel caso delle altre politiche l’articolo rilevante del TFUE si limita a un generico riferimento a «misure», lasciando così al «legislatore» dell’Unione il compito di scegliere tra gli strumenti normativi previsti dal Trattato il tipo di atto più consono, in funzione delle proprie caratteristiche, ai contenuti e
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agli obiettivi dell’intervento da realizzare e alla natura della competenza esercitata dall’Unione. Si vedano rispettivamente: per la cooperazione allo sviluppo, l’art. 209, par. 1, TFUE; per la cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i paesi terzi diversi dai paesi in via di sviluppo, l’art. 212, par. 2, TFUE, e per l’aiuto umanitario, l’art. 214, par. 3, TFUE, anche se il par. 5 dell’articolo prevede, in quest’ultimo caso, il ricorso allo specifico strumento di un regolamento per l’istituzione di un «corpo volontario europeo di aiuto umanitario» (sul quale v. infra, p. 884 s.).
Quanto alla PESC, anche rispetto ad essa il Trattato, in questo caso il TUE, fornisce indicazioni puntuali circa gli strumenti giuridici e i meccanismi procedurali attraverso cui l’Unione è chiamata a «condurre» tanto l’azione di vera e propria politica estera, quanto, come diremo, la sua dimensione più militare e di difesa. Solo che anche con riguardo a questo profilo emerge la specificità di questo settore rispetto alle altre componenti dell’azione esterna. In particolare, in sintonia con i caratteri strettamente intergovernativi che la PESC ha mantenuto anche dopo il Trattato di Lisbona, è espressamente esclusa l’adozione al suo interno di atti legislativi. Tale «divieto» è anzi ribadito più di una volta (artt. 24, par. 1, comma 2, e 31, par. 1, comma 1, TUE), benché esso dia conto più di un’impossibilità assoluta che di un limite posto all’operato delle istituzioni, visto che, come si è più volte ricordato, il processo decisionale di questo settore dell’azione esterna è unicamente incentrato sul Consiglio europeo e sul Consiglio, e non è prevista alcuna forma di intervento da parte del Parlamento europeo. Se in questo il Trattato di Lisbona non ha innovato rispetto alla situazione precedente, un cambiamento significativo ne è invece derivato per quanto riguarda il tipo di atti adottabili dal Consiglio europeo e dal Consiglio. Prima di Lisbona, in effetti, gli atti di cui le due istituzioni potevano servirsi per agire nell’ambito della PESC differivano notevolmente da quelli «tipici» dell’allora TCE (e che ora ritroviamo nel TFUE). Per la maggior parte di essi – le strategie comuni, le posizioni comuni e le azioni comuni (art. 12 TUE pre-Lisbona) – la diversità emergeva già dalla denominazione; ma anche per quelli, come le decisioni, per i quali almeno questa era coincidente, la natura giuridica risultava comunque differente da quella propria degli omonimi atti «comunitari», sia perché le caratteristiche rispettive differivano – la decisione «comunitaria» era atto tipicamente individuale –, sia perché erano atti che trovavano la loro regolamentazione giuridica in due Trattati differenti e separati, tanto che almeno da un punto di vista formale il regime comune a quelli comunitari non era applicabile agli atti adottati in applicazione del TUE. L’art. 28 TUE pre-Lisbona escludeva peraltro esplicitamente l’applicabilità degli artt. 253 e 254 TCE (attuali artt. 296 e 297 TFUE), che definiva gli elementi di quel regime comune, agli atti PESC. Quanto alle caratteristiche di questi, si ricorda che, se per le strategie comuni si trattava essenzialmente di atti di inquadramento e indirizzo politico generale, le posizioni comuni erano finalizzate a definire, all’indirizzo degli Stati membri, l’«approccio» dell’Unione rispetto ad una «questione particolare» di natura geografica o tematica (art. 15 TUE pre-Lisbona); dal canto loro, le azioni comuni erano gli strumenti attraverso cui si realizzava «un intervento operativo dell’Unione» (art. 14 TUE pre-Lisbona).
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Con il Trattato di Lisbona, invece, la decisione diventa l’unico tipo di atto a disposizione delle istituzioni nel quadro della PESC. L’art. 25 TUE stabilisce infatti, in modo inequivocabile, che «l’Unione conduce la politica estera e di sicurezza comune […] adottando decisioni». Non per questo è venuta anche meno la varietà degli interventi che le istituzioni possono realizzare in questo settore. Per espressa previsione sempre dell’art. 25, le decisioni possono qui assumere contenuti e finalità diversi e tipizzati che replicano nella sostanza le caratteristiche che abbiamo appena ricordato essere proprie degli atti PESC precedenti al Trattato di Lisbona: decisioni che definiscono le azioni da intraprendere, decisioni che definiscono le posizioni da assumere e decisioni che definiscono le modalità di attuazione dei due precedenti tipi di decisione. Solo che qui questi diversi contenuti e finalità sono perseguiti attraverso un tipo di strumento, la decisione, che non solo diviene l’unico utilizzabile nell’ambito della PESC, ma non è più nemmeno diverso dall’omonimo atto a disposizione delle istituzioni in tutti gli altri settori di attività dell’Unione. Esso appare pienamente riconducibile, infatti, alla categoria delle decisioni elencate nell’art. 288 TFUE: pur se evocate in un Trattato diverso da quello in cui è inserito quest’ultimo articolo, le decisioni PESC, al pari delle altre decisioni menzionate nel TUE, fanno infatti parte di un sistema di fonti unitario, tanto che esse non risultano nemmeno più escluse, come avveniva in precedenza, dal regime comune applicabile agli atti elencati nel suddetto art. 288. Inoltre, e a conferma di quanto appena detto, le decisioni PESC sono indistintamente considerate tra gli atti che l’art. 291 TFUE considera possano essere adottati in esecuzione di atti giuridicamente vincolanti dell’Unione: «Allorché sono necessarie condizioni uniformi di esecuzione degli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione, questi conferiscono competenze di esecuzione alla Commissione o, in casi specifici debitamente motivati e nelle circostanze previste agli artt. 24 e 26 del Trattato sull’Unione europea, al Consiglio» (par. 2). Se ne veda un esempio nella dec. di esecuzione 2011/156/PESC del Consiglio del 10 marzo 2011 che attua la decisione 2011/137/PESC concernente misure restrittive in considerazione della situazione in Libia (GUUE L 64, 29).
Fermo restando quanto appena detto, la possibilità di un uso «congiunto» nel quadro dell’azione esterna dell’Unione di misure autonome PESC e misure autonome riconducibili ad altri settori di attività delle istituzioni è esplicitamente prevista dall’art. 215 TFUE, che disciplina l’adozione da parte dell’Unione di sanzioni internazionali, consistenti in c.d. misure restrittive di carattere economico-finanziario nei confronti di paesi terzi o di singoli. Sulle differenze tra queste due categorie di destinatari delle sanzioni dell’Unione, soprattutto ai fini del regime a queste applicabile prima del Trattato di Lisbona, cfr. Corte giust. 13 marzo 2012, C-376/10 P, Tay Za c. Consiglio (in particolare, punto 60 ss.).
Sanzioni di questo genere, che possono comprendere, quando dirette verso singoli, anche misure diverse da quelle economico-finanziarie (Corte giust. 19 luglio 2012, C-130/10, Parlamento c. Consiglio, punto 57), quali, ad esempio, restrizioni sui visti di ingresso nel territorio dell’Unione, rappresentano uno strumento specifico di politica estera, frutto talvolta di decisioni prese in sede di Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Nel caso dell’Unione esse richiedono però, in ragione del principio
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di attribuzione che governa la sua azione, di essere tradotte in atti riguardanti il o i settori specifici di competenza in cui ricadono le singole misure restrittive. A questo fine, l’art. 215 TFUE stabilisce che, laddove una decisione PESC preveda «l’interruzione o la riduzione, totale o parziale, delle relazioni economiche e finanziarie con uno o più paesi terzi» (par. 1) o «misure restrittive nei confronti di persone fisiche o giuridiche, di gruppi o di entità non statali» (par. 2), il Consiglio debba prendere le «misure necessarie». Queste vanno adottate a maggioranza qualificata su proposta congiunta dell’Alto Rappresentante e della Commissione e, quando prese nei confronti di paesi terzi, ne deve essere informato il Parlamento europeo. Sanzioni contro persone fisiche o giuridiche, gruppi ed entità non statali, necessarie a contrastare «il terrorismo e le attività connesse», possono essere adottate anche ai sensi dell’art. 75 TFUE. Il contenuto che possono assumere queste sanzioni coincide in parte con quello tipico delle misure restrittive sopra menzionate («misure amministrative concernenti i movimenti di capitali e i pagamenti, quali il congelamento dei capitali, dei beni finanziari o dei proventi economici appartenenti» ai soggetti cui sono indirizzate). Divergono però i presupposti e le modalità di adozione. Mentre l’art. 215, par. 2, TFUE «è idoneo a costituire il fondamento normativo di misure restrittive, ivi comprese le misure finalizzate alla lotta contro il terrorismo, nei confronti di persone fisiche o giuridiche, di gruppi o di entità non statali adottate dall’Unione quando la decisione di adottare dette misure ricade nella sua azione nel contesto della PESC» (sentenza C-130/10, Parlamento c. Consiglio, appena cit., punto 65), le sanzioni dell’art. 75 TFUE non rientrano formalmente nell’ambito della salvaguardia della pace e della sicurezza internazionale e quindi di un obiettivo dell’azione esterna dell’Unione, ma sono finalizzate a garantire la sicurezza dell’Unione. Di conseguenza, esse non danno attuazione a una previa decisione presa dal Consiglio nell’ambito della PESC; e sono adottate mediante regolamenti e secondo la procedura legislativa ordinaria. L’art. 75 TFUE ne prevede l’adozione «quando sia necessario per conseguire gli obiettivi di cui all’art. 67 [TFUE]», che sono quelli dello SLSG di cui al Cap. V della precedente Parte Quarta.
6. b) Gli accordi con paesi terzi o organizzazioni internazionali. La c.d. competenza a stipulare dell’Unione La parte più significativa dell’attività internazionale dell’Unione è senza dubbio rappresentata dalla conclusione di accordi internazionali con paesi terzi o organizzazioni internazionali. Essi sono stati del resto lo strumento principale attraverso cui ha preso gradualmente corpo la proiezione esterna del processo d’integrazione europea e su di essi si è concretamente costruita, al di là della sua previsione esplicita nei Trattati, la stessa soggettività internazionale della Comunità europea prima e dell’Unione europea adesso. Dall’originario art. 210 TCEE all’attuale art. 47 TUE i Trattati hanno costantemente incluso una disposizione secondo cui la Comunità/Unione «ha personalità giuridica». Ma com’è noto, nel dibattito scientifico e nella giurisprudenza internazionale è largamente condivisa l’idea dell’insufficienza per l’effettivo possesso della qualità di soggetto internazionale da parte di un’unione di Stati di eventuali previsioni in questo senso dei loro atti istitutivi, in ragione dell’irrilevanza di tali previsioni al di fuori della cerchia degli Stati membri. È affermazione comune, invece, che la personalità giuridica di una data organizzazione non trovi il suo fondamento solo in un assetto interno di detta organizzazione volto a consentirne l’agire nella comunità internazionale, ma soprattut-
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to nel fatto che quell’agire vi sia concretamente, facendo acquisire a quell’organizzazione, anche per il riscontro dato dall’atteggiamento degli altri soggetti di quella comunità, un effettivo grado di autonomia rispetto agli Stati membri.
Gli accordi con paesi terzi o organizzazioni internazionali, inoltre, sono anche lo strumento grazie al quale l’azione esterna dell’Unione ha modo di esprimersi in tutta la sua ampiezza: è essenzialmente attraverso la conclusione di accordi internazionali, infatti, che anche le politiche dell’Unione diverse da quelle a carattere specificamente internazionale contribuiscono a tale azione. I Trattati prevedono in effetti il potere delle istituzioni di stipulare accordi con uno o più paesi terzi o organizzazioni internazionali non solo, com’è ovvio che sia, nel quadro dell’attuazione di una delle politiche o azioni formalmente incluse nell’azione esterna dell’Unione. Lo stesso potere è loro riconosciuto anche in relazione a tutte le altre politiche di questa. Come vedremo, questo riconoscimento è operato talora in maniera esplicita, attraverso la previsione formale, in un’apposita base giuridica, della competenza dell’Unione a concludere uno specifico tipo di accordi internazionali o, più genericamente, della possibilità della stessa di fare ricorso a questo strumento per attuare una determinata politica. Più generalmente, però, tale potere è riconosciuto dai Trattati, anche indipendentemente da una previsione specifica, in tutti quei casi in cui, come stabilito dall’art. 216, par. 1, TFUE, «la conclusione di un accordo sia necessaria per realizzare, nell’ambito delle politiche dell’Unione, uno degli obiettivi fissati dai Trattati, o sia prevista in un atto giuridico vincolante, oppure possa incidere su norme comuni o alterarne la portata». È appena il caso di osservare che la competenza dell’Unione a contrarre impegni internazionali include il potere di dettare disposizioni istituzionali a contorno di tali impegni. La presenza di queste disposizioni nell’accordo non ha alcuna incidenza sulla natura della competenza a concludere l’accordo medesimo. Infatti, dette disposizioni hanno carattere ausiliario e sono dunque riconducibili alla medesima competenza cui risalgono le disposizioni di merito che esse accompagnano (in questo senso, da ultimo, Corte giust. 13 maggio 2017, parere 2/15, sull’Accordo di libero scambio tra l’Unione europea e la Repubblica di Singapore, punto 276, anche per la giurisprudenza precedente).
a) Così facendo, l’art. 216, introdotto dal Trattato di Lisbona, ha in pratica dato veste formale a una giurisprudenza risalente, sviluppata dalla Corte di giustizia in relazione al TCE. Benché, infatti, quel Trattato prevedesse alle origini unicamente una competenza della Comunità a stipulare accordi tariffari e commerciali e c.d. accordi di associazione, la Corte si è più volte espressa nel senso dell’esistenza di un parallelismo tra competenze interne e competenze esterne, che comporta che queste ultime sussistano in tutti i casi in cui, pur in mancanza di espresse disposizioni al riguardo, esse siano necessarie per conseguire un obiettivo per il quale le istituzioni dispongano di poteri sul piano interno. Per la verità, i giudici del Lussemburgo avevano inizialmente collegato la possibilità di ricavare dalle disposizioni del TCE una competenza implicita della Comunità a stipulare accordi internazionali, unicamente alla circostanza che le istituzioni avessero già usato dei loro poteri «interni», adottando disposizioni di attuazione di una determinata politica comunitaria, «contenenti, sotto qualsivoglia forma, norme co-
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muni» (Corte giust. 31 marzo 1971, 22/70, Commissione c. Consiglio, 263, punti 1619). Ciò perché si deve ritenere che in tal caso gli Stati membri non debbano poter più contrarre con i paesi terzi – né individualmente, né collettivamente – obblighi «atti ad incidere su dette norme o ad alterarne l’efficacia» (punti 20-22), dato che ne risulterebbe compromessa l’unità del mercato interno e l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione (punto 31). Si tratta della sentenza conosciuta anche come sentenza AETS, perché avente ad oggetto un Accordo europeo relativo al trasporto su strada. In successive pronunce la Corte ha incluso tra i provvedimenti interni su cui fondare una competenza delle istituzioni a concludere un accordo internazionale anche l’ipotesi di un atto legislativo dell’Unione che conferisca espressamente ad esse una competenza a negoziare con i paesi terzi: cfr. ad esempio, anche per i riferimenti alla precedente giurisprudenza, Corte giust. 5 novembre 2002, C-467/98, Commissione c. Danimarca, I9519, punto 83.
La Corte ha però poi chiarito che l’esistenza di una competenza a stipulare della Comunità non è da considerarsi necessariamente limitata ai casi in cui i poteri inerenti alla competenza interna siano stati già esercitati. Essa ha infatti precisato che detta competenza sussiste anche nell’ipotesi in cui «i provvedimenti comunitari di carattere interno vengano adottati solo in occasione della stipulazione e dell’attuazione dell’accordo internazionale» (parere 26 aprile 1976, 1/76, sull’Accordo relativo all’istituzione di un Fondo europeo d’immobilizzazione della navigazione interna, 754, punto 4). Ad avviso della Corte, infatti, «la competenza ad impegnare la Comunità nei confronti degli Stati terzi deriva comunque, implicitamente, dalle disposizioni del Trattato relative alla competenza interna, nella misura in cui la partecipazione della Comunità all’accordo internazionale sia, come nel caso in esame, necessaria alla realizzazione di uno degli obiettivi della Comunità» (ivi). Da questo punto di vista, il principio del parallelismo tra competenze interne e competenze esterne riflette un profilo ulteriore dell’impossibilità di «separare il regime dei provvedimenti interni alla Comunità da quello delle relazioni esterne» posta all’origine di tale principio dalla originaria giurisprudenza della Corte (sentenza AETS, cit., punto 19), che è quello della possibilità che l’efficace regolamentazione di politica dell’Unione possa essere solo «il risultato del concorso e dell’effetto combinato dei provvedimenti interni ed esterni» (parere 11 novembre 1975, 1/75, concernente l’Accordo sulle spese locali OCSE, 1362), o addirittura dell’eventualità che questi ultimi siano indispensabili al conseguimento di obiettivi dei Trattati «che non possono essere raggiunti con l’adozione di norme autonome» (parere 15 novembre 1994, 1/94, sulla competenza della Comunità a stipulare accordi internazionali in materia di servizi e di tutela della proprietà intellettuale, punto 85), perché queste sarebbero poco o per nulla efficaci se non si applicassero anche a paesi terzi o a situazioni non soggette al diritto dell’Unione. Esempi si ritrovano nella stessa giurisprudenza della Corte. Da un lato, si pensi alla sentenza nel caso Kramer (14 luglio 1976, 3/76, 4/76 e 6/76, 1279), che evidenzia la scarsa efficacia di una limitazione dell’attività di pesca in alto mare affidata unicamente a misure normative interne alla Comunità, se le stesse restrizioni non fossero state rese applicabili, mediante accordi internazionali anche alle navi battenti bandiera di paesi terzi. Dall’altro lato, può essere invece ricordata la vi-
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cenda all’origine del già citato parere 1/76, che riguardava un accordo internazionale con la Svizzera in materia di gestione del trasporto fluviale nel bacino renano, reso necessario dal fatto che l’adozione di una disciplina solo comunitaria si sarebbe scontrata con la tradizionale partecipazione di battelli svizzeri alla navigazione sulle vie navigabili interessate.
Anche se la giurisprudenza in materia di parallelismo tra competenze interne e competenze esterne richiama da vicino, nell’evocare il criterio della «necessità» delle prime per realizzare gli obiettivi delle seconde, la formulazione della clausola di flessibilità di cui al già commentato art. 352 TFUE (p. 415 ss.), un’estensione delle competenze dell’Unione a stipulare accordi con paesi terzi e organizzazioni internazionali anche al di là delle espresse previsioni dei Trattati può venire anche da quest’ultimo articolo. La stessa Corte di giustizia ha riconosciuto del resto che tale articolo consente «al Consiglio di adottare “le disposizioni del caso” pure nel campo delle relazioni esterne» (sentenza AETS, cit., punti 95-96), trovando conferma in ciò anche nella prassi. Il ricorso alla clausola di flessibilità per la conclusione di accordi internazionali è rimasto però confinato a casi in cui questi concernevano materie che avevano trovato previa regolamentazione interna solo sulla base della stessa clausola ovvero, più raramente, materie rispetto alle quali, per l’inesistenza stessa di una competenza interna delle istituzioni, non sussistevano i presupposti per l’operare del principio del parallelismo. È così che sull’allora art. 235 TCEE si è fondata la partecipazione dell’Unione ad accordi in materia di ambiente, quali la Convenzione di Parigi per la prevenzione dell’inquinamento marino di origine tellurica (GUCE L 194/1975, 5), la Convenzione di Barcellona per la protezione del Mediterraneo dall’inquinamento (GUCE L 240/1977, 3), e la Convenzione di Bonn per la protezione del Reno dall’inquinamento chimico (GUCE L 240/1977, 92). Con ricorso congiunto allo stesso articolo e ad altra base giuridica del Trattato – quella relativa alla politica commerciale –, sono stati inoltre conclusi alcuni accordi bilaterali di cooperazione economica e commerciale, nei quali le disposizioni relative alla cooperazione economica non apparivano direttamente implicate dalla parte commerciale degli stessi: è il caso, ad es., dell’Accordo quadro di cooperazione economica con il Canada, del 6 luglio 1976 (GUCE L 260, 2), e dell’Accordo di cooperazione con Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore e Tailandia, Stati membri dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (ASEAN), del 7 marzo 1980 (GUCE L 144, 1).
b) Ferma restando l’ampiezza delle competenze in materia di stipulazione di accordi internazionali che l’Unione ricava implicitamente dalle disposizioni dei Trattati, alcuni articoli di questi prevedono in maniera formale, come si è in precedenza accennato, il potere delle istituzioni di concludere accordi con paesi terzi o organizzazioni internazionali. Alcuni di questi articoli riguardano ancora una volta, seppur in maniera esplicita, materie o temi estranei alle politiche e azioni formalmente incluse nell’azione esterna dell’Unione; e la competenza in questo quadro attribuita all’Unione è talvolta limitata alla conclusione di uno specifico accordo (art. 6, par. 2, TUE, per l’adesione alla Convenzione europea del 1950 per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) o di una specifica categoria di accordi (accordi di riammissione, accordi in materia di tassi di cambio dell’euro), talaltra verte su ambiti di competenza più ampi (accordi di cooperazione in materia di ricerca e sviluppo tecnologico, ac-
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cordi di cooperazione in materia di ambiente, accordi in materia monetaria o valutaria). Per queste diverse categorie di accordi si vedano, rispettivamente, l’art. 79, par. 3, TFUE («[l]’Unione può concludere con i paesi terzi accordi ai fini della riammissione, nei paesi di origine o di provenienza, di cittadini di paesi terzi che non soddisfano o non soddisfano più le condizioni per l’ingresso, la presenza o il soggiorno nel territorio di uno degli Stati membri»), l’art. 219, par. 1, comma 1, TFUE («il Consiglio […] può concludere accordi formali su un sistema di tassi di cambio dell’euro nei confronti delle valute di Stati terzi»), l’art. 186 TFUE («[n]ell’attuazione del programma quadro pluriennale l’Unione può prevedere una cooperazione in materia di ricerca, sviluppo tecnologico e dimostrazione dell’Unione con paesi terzi o organizzazioni internazionali. Le modalità di questa cooperazione possono formare oggetto di accordi tra l’Unione e i terzi interessati»), l’art. 191, par. 4, comma 1, TFUE («[n]ell’àmbito delle rispettive competenze [in materia di ambiente], l’Unione e gli Stati membri collaborano con i paesi terzi e con le competenti organizzazioni internazionali. Le modalità della cooperazione dell’Unione possono formare oggetto di accordi tra questa ed i terzi interessati»), e l’art. 219, par. 3, TFUE («accordi in materia di regime monetario o valutario»). In materia di ambiente, accanto alla competenza a stipulare attribuita dall’esplicita previsione sopra riportata, l’Unione dispone ovviamente anche di una competenza implicita fondata sul principio del parallelismo, come sottolineato anche da Corte giust. 6 dicembre 2001, parere 2/00, I-9713 (sul Protocollo di Cartagena), in particolare ai punti 43 e 44: l’art. 174, n. 4, CE (attuale art. 191, par. 4 TFUE) prevede specificamente che le «modalità della cooperazione della Comunità» con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali «possono formare oggetto di accordi negoziati e conclusi conformemente all’art. 300»; mentre, laddove un accordo sia diretto a stabilire «norme precise» relative alla realizzazione di obiettivi generali della politica comune dell’ambiente, la base giuridica adeguata per la sua stipulazione a nome della Comunità è l’art. 175, par. 1, CE (attuale art. 192, n. 1, TFUE). In tema vedi anche sopra, p. 782. Accanto agli articoli appena citati, non mancano poi nei Trattati, all’interno di altri articoli, riferimenti impliciti a basi giuridiche per altre materie. L’art. 207, par. 5, TFUE, ad es., fa riferimento ad accordi internazionali dell’Unione nel settore dei trasporti. La competenza a stipulare accordi internazionali nell’ambito dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia (SLSG) è invece riconosciuta indirettamente dal Protocollo (n. 21) sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda rispetto allo SLSG, il cui art. 2 prevede che «nessuna disposizione di accordi internazionali conclusi dall’Unione a norma [del titolo del Trattato relativo allo SLSG] è vincolante o applicabile nel Regno Unito o in Irlanda», e dalla Dichiarazione n. 36, allegata ai Trattati, relativa all’art. 218 TFUE sulla negoziazione e conclusione da parte degli Stati membri di accordi internazionali relativi allo SLSG. Non possono al contrario essere considerate vere e proprie basi giuridiche per la conclusione di accordi internazionali le disposizioni di analogo tenore («[l]’Unione e gli Stati membri favoriscono la cooperazione con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali competenti») contenute negli artt. 165, par. 3, TFUE (istruzione), 166, par. 3, TFUE (formazione professionale), 167, par. 3, TFUE (cultura), 168, par. 3, TFUE (sanità pubblica); esse, infatti, non esplicitano lo strumento da utilizzare per questa cooperazione. Un caso particolare è infine, per la difficoltà di ascriverlo effettivamente all’azione esterna dell’Unione, quello dell’accordo, di cui all’art. 50, par. 2, TUE, che l’Unione può trovarsi a dover concludere con uno Stato membro che intenda recedere da essa, al fine di regolare le modalità del recesso (in proposito si rinvia a quanto osservato supra, p. 47 ss.).
Altri articoli danno invece espressamente conto del ricorso allo strumento dell’accordo internazionale nel quadro della vera e propria azione esterna dell’Unione. Essi prevedono in particolare, come vedremo meglio nel Capitolo successivo, la competenza di questa a concludere accordi con uno o più paesi terzi o organizzazioni internazionali nei settori di pertinenza della PESC (art. 37 TUE), nei diversi settori del-
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la politica commerciale comune (art. 207, par. 3 ss., TFUE), per l’attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo (art. 209, par. 2, TFUE), per la definizione delle modalità della cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i paesi terzi diversi da quelli in via di sviluppo (art. 212, par. 3, TFUE) e per la realizzazione delle azioni dell’Unione nel settore dell’aiuto umanitario ai paesi terzi in caso di calamità naturali o provocate dall’uomo (art. 214, par. 4, TFUE). Accanto a questi ambiti specifici di competenza, il TFUE contempla poi un’ulteriore categoria di accordi internazionali a disposizione dell’azione esterna dell’Unione: gli accordi di associazione. Ribadendo un’ipotesi presente nei Trattati fin dalle origini, infatti, l’art. 217 dispone che «[l]’Unione può concludere con uno o più paesi terzi o organizzazioni internazionali accordi che istituiscono un’associazione caratterizzata da diritti ed obblighi reciproci, da azioni in comune e da procedure particolari». L’effettiva identità di questa categoria di accordi dell’Unione non è immediatamente evidente. A differenza degli accordi rientranti nelle categorie precedentemente citate, quelli di associazione non risultano collegati a una competenza materiale dell’Unione. Essi sono infatti definiti unicamente dalla loro finalizzazione alla creazione di «azioni in comune» e «procedure particolari» nei rapporti con la controparte, evocando così l’idea di una certa qual forma di istituzionalizzazione quale loro esclusiva caratteristica. E in effetti, tutti gli accordi di associazione finora conclusi hanno dato vita a organi paritetici, composti di rappresentanti dell’Unione e (del o) dei paesi terzi “associati”, i quali sotto il nome di «consigli di associazione» hanno il compito, spesso con l’ausilio di altri organi sussidiari (comitati di associazione o altro), di assicurare, anche attraverso l’adozione di decisioni vincolanti, la corretta gestione dell’accordo e un quadro di consultazione tra le parti contraenti. L’Accordo di associazione con gli Stati c.d. ACP (Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico) ha, ad es., un assetto istituzionale basato su un Consiglio dei Ministri, composto da rappresentanti a livello governativo di tutti gli Stati membri e di tutti i paesi ACP, un Comitato degli Ambasciatori, con identica composizione ma a un livello inferiore, e un’Assemblea parlamentare congiunta, formata da un numero uguale di parlamentari europei e parlamentari dei paesi ACP. Alcuni accordi prevedono anche un meccanismo di soluzione delle controversie tra le parti contraenti: per esempi recenti si vedano i protocolli allegati agli accordi di associazione con il Libano (GUUE L 328/2010, 21), l’Egitto (GUUE L 138/2011, 3), il Marocco (GUUE L 176/2011, 2) e la Giordania (GUUE L 177/2011, 3).
La circostanza, però, che anche una gran parte degli accordi commerciali dell’Unione preveda forme più o meno ampie di istituzionalizzazione – in tal caso operano di regola delle commissioni miste con funzioni simili a quelle sopra indicate – costringe a individuare altrove l’elemento di effettiva differenziazione tra questi e gli altri accordi dell’Unione. Dal punto di vista formale, questo può essere indicato, vista l’assenza di un esplicito collegamento tra gli accordi di associazione e uno specifico ambito di competenza dell’Unione, proprio nell’ampiezza dei contenuti che tali accordi possono assumere: attraverso essi, come ha sottolineato la stessa Corte di giustizia, l’Unione può contrarre «impegni nei confronti di Stati terzi in tutti i settori disciplinati dal
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Trattato» (sentenza 30 settembre 1987, 12/86, Demirel, 3747, punto 9). Conferme in questo senso vengono del resto da una parte degli accordi che sono stati storicamente conclusi sulla base della disposizione ora contenuta nell’art. 217 TFUE. Un esempio per tutti: l’accordo del 1961 con la Grecia (allora paese terzo), il quale affiancava a disposizioni di carattere commerciale, previsioni relative all’armonizzazione delle politiche agricole, alla disciplina della concorrenza, al ravvicinamento delle legislazioni, nonché norme circa il coordinamento delle politiche economiche delle parti contraenti. In quel caso, come in altri più recenti, l’ampiezza dei contenuti era strettamente funzionale alla finalità dell’accordo quale anticamera di una successiva adesione alle Comunità europee: in vista di quell’obiettivo era ovvio che l’associazione dovesse disciplinare, nei rapporti con il paese terzo, tutte o buona parte delle materie per le quali le istituzioni dispongono di poteri normativi interni. La prassi ha però successivamente conosciuto anche esempi di accordi di associazione caratterizzati da una dimensione quasi esclusivamente commerciale e/o conclusi con paesi terzi privi dei requisiti formali per l’adesione, a dimostrazione che quello dell’accordo di associazione è, in realtà, uno strumento assai variabile nella struttura e nei contenuti, così come nelle sue finalità. Oltre che con Stati destinati ad aderire all’Unione – si vedano gli accordi di associazione con Malta del 1970 (GUCE L 61/1970, 2), con Cipro del 1973 (GUCE L 133/1973, 2), nonché i c.d. Accordi europei conclusi con i Paesi dell’Europa centrale e orientale dopo la caduta del muro di Berlino: Ungheria (GUCE L 347/1993, 2), Polonia (GUCE L 348/1993, 2), Repubblica ceca (GUCE L 360/1994, 2), Slovacchia (GUCE L 359/1994, 2), Bulgaria (GUCE L 358/1994, 3), Romania (GUCE L 357/1994, 2), Estonia (GUCE L 68/1998, 3), Lituania (GUCE L 51/1998, 3), Lettonia (GUCE L 26/1998, 3), Slovenia (GUCE L 51/1999, 3) e Croazia (GUUE L 26/2005, 3); e a questa categoria può essere ugualmente ascritto, anche per l’ampiezza del suo contenuto, analogo a quello del citato accordo con la Grecia, l’Accordo di associazione concluso con la Turchia nel 1963 nella prospettiva di una successiva adesione di questo paese alla Comunità europea (GUCE L 217/1964, 3687) – accordi di associazione sono stati infatti conclusi con paesi europei desiderosi di condividere tutta una serie di normative dell’Unione senza diventarne membri (oltre che l’accordo con la Svizzera di cui si dirà di seguito, si veda l’Accordo di associazione istitutivo del c.d. Spazio economico europeo (SEE), originariamente firmato con Austria, Finlandia, Svezia, Svizzera, Islanda, Liechtenstein, Norvegia (vedilo in GUCE L 1/1994, 1), e ora in vigore solo con gli ultimi tre Stati), con i paesi europei usciti dalla dissoluzione della ex-Iugoslavia (e dal crollo dell’Unione Sovietica, e alla ricerca di una stabilità politica ed economica (c.d. accordi di stabilizzazione e associazione, conclusi con la Repubblica ex iugoslava di Macedonia (GUCE L 348/1997, 2), con la Croazia (GUUE L 26/2005, 3), con la Serbia (GUUE L 278/2013, 14), con l’Albania (GUUE L 107/2009, 166), con il Montenegro (GUUE L 108/2010, 3), con la Bosnia-Erzegovina (GUUE L164, 2), e con il Kosovo (GUUE L71, 3)); è poi in corso la ratifica dell’Accordo di associazione con l’Ucraina, firmato il 17 marzo 2014, GUUE L 161, 1), con i paesi terzi del Mediterraneo in vista del rafforzamento della cooperazione economica, sociale e culturale e del dialogo politico nell’area (accordi euromediterranei con la Tunisia (GUCE L 97/1998, 2), l’Autorità palestinese (GUCE L 187/1997, 2), il Marocco (GUCE L 70/2000, 2), Israele (GUCE L 147/2000, 3), la Giordania (GUCE L 129/2002, 3), l’Egitto (GUUE L 404/2004, 38), l’Algeria (GUUE L 265/2005, 2), il Libano (GUUE L 143/2006, 2)), con i già citati ACP a fini di cooperazione allo sviluppo e di una progressiva integrazione degli stessi nell’economia mondiale (l’Accordo di associazione concluso con i paesi ACP costituisce lo strumento attraverso il quale la Comunità prima, e ora l’Unione, hanno perseguito obiettivi di cooperazione allo sviluppo economico, sociale e culturale
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di questi paesi fin dal 1963; esso ha poi assunto successive denominazioni a seguito dei ripetuti rinnovi: si è passati dall’originaria Convenzione di Yaoundé alle Convenzioni di Lomé del 1975, 1979, 1984, 1989, per arrivare, infine, all’attuale Accordo di Cotonou del 2000, GUCE L 317/2000, 3), con i paesi dell’area latino-americana in chiave di dialogo politico, cooperazione e commercio (si veda per tutti, oltre che l’accordo con il Cile (GUCE L 352/2002, 3), quello firmato nel 2012 con i paesi dell’America centrale: Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua e Panama (GUUE L 346/2012, 3); è ancora in corso, invece, il negoziato per un accordo con il MERCOSUR, l’unione doganale composta da Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay e Venezuela).
Insomma, l’accordo di associazione sembra rappresentare non tanto un modello formalmente e sostanzialmente individuabile di esercizio delle competenze esterne dell’Unione, quanto un vero e proprio strumento di «politica estera» della stessa nei confronti di determinati paesi terzi o aree geografiche. Nel tentativo di definirlo, la Corte di giustizia ha non a caso posto l’accento soprattutto sulla sua finalità di «creare vincoli particolari e privilegiati con uno Stato terzo il quale deve, almeno in parte, partecipare al regime comunitario» (sentenza Demirel, cit., punto 9). E da questo punto di vista esso finisce in effetti per identificare più il tipo di rapporto che l’Unione stabilisce con la controparte, che l’atto giuridico per mezzo del quale quel rapporto viene posto in essere, tanto che almeno in un caso il rapporto di associazione con un paese terzo è stato instaurato non attraverso un singolo accordo, ma attraverso una concatenazione di singoli accordi settoriali, tutti però ugualmente conclusi sulla base della disposizione ora contenuta nell’art. 217 TFUE. È il caso del rapporto di associazione con la Svizzera che, non avendo potuto assumere la veste di un vero e proprio accordo di questo tipo a seguito del referendum negativo svoltosi in quel paese nel dicembre 1992 sulla ratifica dell’Accordo istitutivo del SEE, è oggi costituito da una serie di accordi settoriali, sette conclusi nel 1999 e nove nel 2004, tutti basati sulla disposizione dei precedenti Trattati corrispondente all’art. 217 TFUE. È attualmente in corso il negoziato tra l’Unione e la Svizzera per la conclusione di un accordo «istituzionale» orizzontale, che dovrebbe fornire al rapporto di associazione di fatto esistente tra le due parti l’assetto istituzionale tipico di questo tipo di rapporti. Allo stesso tempo, poi, la prassi ha conosciuto anche casi di rapporti sostanzialmente di associazione allacciati attraverso accordi non basati formalmente sull’art. 217 TFUE per ragioni politiche generali (accordo con Israele del 1975) o specifiche della controparte (precedente accordo con la Svizzera del 1972).
c) Completando quanto già detto in via generale nel quadro della trattazione del sistema delle competenze dell’Unione, alcune osservazioni vanno infine fatte in relazione ai rapporti esistenti tra l’esistenza di una competenza delle istituzioni a stipulare accordi con paesi terzi e organizzazioni internazionali in una certa materia e le corrispondenti competenze degli Stati membri. Nell’enumerare le materie di competenza esclusiva dell’Unione (unione doganale, definizione delle regole di concorrenza, politica monetaria per gli Stati euro, conservazione delle risorse biologiche marine nell’ambito della politica comune della pesca, e politica commerciale comune), il TFUE si limita ad affermare che essa «ha inoltre competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell’Unione o è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata» (art. 3, par. 2).
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Questa precisazione non riguarda evidentemente la conclusione di accordi internazionali nel quadro di una delle competenze enumerate come esclusive nel par. 1 dello stesso articolo, anche se il Trattato prevede esplicitamente la competenza a stipulare accordi con paesi terzi solo per alcune di esse (la politica monetaria e la politica commerciale). Va da sé, infatti, che, come ha osservato a suo tempo la Corte rispetto alla seconda di queste due politiche, il carattere esclusivo di una competenza dell’Unione esclude alla radice «una competenza degli Stati membri parallela a quella della Comunità, sia nell’ordinamento comunitario che in quello internazionale» (parere 19 marzo 1993, 2/91, sulla Convenzione n. 170 dell’Organizzazione internazionale del lavoro in materia di sicurezza durante l’impiego delle sostanze chimiche sul lavoro, I-1061, punto 8). Del resto l’art. 2, par. 1, TFUE precisa che, quando i Trattati attribuiscono all’Unione una competenza esclusiva, gli Stati membri possono «adottare atti giuridicamente vincolanti […] autonomamente solo se autorizzati dall’Unione oppure per dare attuazione agli atti dell’Unione»; e tra gli «atti giuridicamente vincolanti» vanno evidentemente ritenuti compresi anche gli accordi internazionali cui uno Stato voglia decidere di partecipare. La disposizione sopra riportata dell’art. 3, par. 2, TFUE ha rilievo, quindi, unicamente per i casi in cui la competenza dell’Unione europea a concludere accordi internazionali si presenta come concorrente con quella degli Stati membri, sia che la sua previsione sia contenuta in una esplicita disposizione dei Trattati, sia che l’Unione ne sia titolare in via solo implicita, in ragione del principio del parallelismo tra competenze interne e competenze esterne. E infatti essa riprende, in buona sostanza, la giurisprudenza che la Corte ha sviluppato, in connessione proprio con il citato principio del parallelismo, in relazione alla natura delle competenze esterne che da esso derivano in capo all’Unione e al loro rapporto con quelle corrispondenti degli Stati membri. La natura concorrente della competenza dell’Unione a concludere accordi internazionali è prevista espressamente dalle basi giuridiche, già precedentemente citate, che le attribuiscono tale competenza in materia di cooperazione allo sviluppo (art. 209, par. 2, TFUE), di cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i paesi terzi diversi da quelli in via di sviluppo (art. 212, par. 3, TFUE), di aiuto umanitario (art. 214, par. 4, TFUE), di ricerca e sviluppo tecnologico (art. 186 TFUE) e di ambiente (art. 191, par. 4, comma 1, TFUE); basi giuridiche, nel riconoscere esplicitamente tale competenza, precisano tutte, e con identica formulazione, che ciò «non pregiudica la competenza degli Stati membri a negoziare nelle sedi internazionali e a concludere accordi». Analoga precisazione è ugualmente contenuta, anche se in questo caso non in relazione ad una competenza esplicitamente attribuita, nel Protocollo (n. 23) sulle relazioni esterne degli Stati membri in materia di attraversamento delle frontiere esterne, e nella Dichiarazione n. 36 relativa all’art. 218 TFUE sulla negoziazione e conclusione da parte degli Stati membri di accordi internazionali relativi allo SLSG.
In pratica, la Corte ha affermato che fintantoché non sia concretamente esercitata dalle istituzioni, una competenza dell’Unione a stipulare accordi internazionali diversa da quelle attribuitele in via esclusiva non preclude in linea di principio agli Stati membri di assumere, sia pure a titolo provvisorio, impegni internazionali nelle materie relative. Allo stesso tempo, essa ha però precisato che mano a mano che l’Unione esercita la sua competenza sul piano interno, adottando autonomamente, o conte-
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stualmente alla conclusione di un accordo internazionale, norme comuni, la sua parallela competenza esterna si afferma come esclusiva e «gli Stati membri non hanno più il potere – né individualmente, né collettivamente – di contrarre con gli Stati terzi obblighi che incidano su dette norme o che ne alterino la portata» (Corte giust. 5 novembre 2002, C-467/98, Commissione c. Danimarca, cit., punto 77), perché altrimenti, attraverso l’assunzione di quegli obblighi internazionali, finirebbero per compromettere le norme comuni adottate dalle istituzioni nell’esercizio della loro competenza interna, impedendo così all’Unione «di adempiere il proprio compito nella tutela dell’interesse comune» (ivi, punto 79). E, come è stato puntualizzato, un accordo con uno Stato terzo deve essere considerato idoneo ad incidere sulla portata di tali norme comuni o a modificarla, quando lo stesso preveda l’applicazione, ai rapporti internazionali da esso disciplinati, di norme che si sovrapporranno in larga parte alle norme comuni dell’Unione applicabili alle situazioni intracomunitarie. Infatti, malgrado l’assenza di contraddizione con le citate norme comuni, il senso, la portata e l’efficacia di queste ultime possono comunque venirne influenzati. Questo effetto si ha, secondo la Corte, anche laddove siano adottate disposizioni «in settori non rientranti in politiche comuni e, in particolare, in settori in cui esistono disposizioni di armonizzazione» (parere 7 febbraio 2006, 1/03, sulla competenza della Comunità a concludere la nuova Convenzione di Lugano concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, I-1145, punto 118). E altrettanto si produce, alla luce di tale giurisprudenza, «allorché la Comunità include nei suoi atti legislativi interni clausole relative al trattamento da riservare ai cittadini di paesi terzi o conferisce espressamente alle proprie istituzioni una competenza a negoziare con i paesi terzi» (Corte giust. 5 novembre 2002, C-472/98, Commissione c. Lussemburgo, I-9741, punto 89). Il criterio dell’incidenza su norme dell’Unione o dell’alterazione della loro portata da parte di obblighi contratti o da contrarre con paesi terzi è stato interpretato dalla giurisprudenza nel senso che esso sussiste non solo nel caso in cui vi sia difformità puntuale tra quegli obblighi e le norme dell’Unione, ma anche quando, indipendentemente da tale difformità, gli obblighi in questione «rientrano nell’ambito di applicazione delle norme comuni o comunque di un settore già in gran parte disciplinato da tali norme» (Corte giust. 5 novembre 2002, C-467/98, Commissione c. Danimarca, cit., punto 82) e sono quindi atti ad incidere effettivamente o potenzialmente su queste (parere 15 novembre 1994, 1/94, cit., punti 77 e 96). La Corte ha peraltro ritenuto che tale incidenza possa venire non solo dal contenuto degli obblighi assunti sul piano internazionale dagli Stati membri, ma anche dalla loro portata soggettiva. In una caso riguardante la competenza o meno degli Stati membri ad accettare, secondo una procedura bilaterale pattizia tra soli Stati prevista dalla stessa Convenzione, l’adesione di un nuovo Stato terzo alla Convenzione dell’Aia del 25 ottobre 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori (Convenzione strettamente connessa con la disciplina dettata nella stessa materia da un regolamento europeo), essa ha infatti concluso che tale competenza spetta all’Unione «se gli Stati membri – e non l’Unione – fossero competenti ad accettare o no l’adesione di un nuovo Stato terzo alla Convenzione dell’Aia del 1980, vi sarebbe un rischio di pregiudizio per l’applicazione uniforme e coerente del regolamento n. 2201/2003 e, in particolare, per le norme sulla cooperazione tra le autorità degli Stati membri, ogni volta che una situazione di sottrazione internazionale di minore riguardasse uno Stato terzo e due Stati membri, uno dei quali avesse ac-
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cettato l’adesione di questo Stato terzo alla convenzione, e l’altro no» (parere 14 ottobre 2014, 1/13, sull’accettazione dell’adesione di Stati terzi alla Convenzione sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori, punto 89).
Recentemente, anzi, la Corte ha affermato che non è necessario nemmeno che sussista una concordanza completa tra il settore disciplinato dall’accordo internazionale e quello della normativa comunitaria: «qualora occorra determinare se il criterio indicato dalla formula “di un settore già in gran parte disciplinato da norme comunitarie” sia soddisfatto, l’analisi deve basarsi non solo sulla portata delle disposizioni in questione, ma anche sulla natura e sul contenuto delle stesse», e deve «prendere in considerazione non soltanto lo stato attuale del diritto comunitario nel settore interessato, ma anche le sue prospettive di evoluzione, qualora esse siano prevedibili al momento di tale analisi», al fine di accertare che «l’accordo non sia tale da pregiudicare l’applicazione uniforme e coerente delle norme comunitarie e il corretto funzionamento del sistema che esse istituiscono» (parere 1/03, cit., punti 126 e 133). Al fine di valutare le prospettive di evoluzione del diritto dell’Unione nel settore interessato dall’accordo internazionale della cui competenza a concludere si discute nel caso concreto, la Corte ha fatto riferimento anche al fatto che la disciplina interna all’Unione preveda esplicitamente la possibilità di una sua eventuale integrazione successiva, sulla base di una valutazione da parte della Commissione prima della prassi di applicazione della stessa (sentenza 26 novembre 2014, C66/13, Green Network SpA, punto 62). Per certi versi nella stessa linea, se gli Stati membri rimangono liberi di assumere impegni internazionali in una data materia oggetto di competenza concorrente con l’Unione fintantoché le istituzioni di questa non l’abbiano concretamente esercitata alle condizioni sopra ricordate, ciò non significa che prima di allora essi non siano vincolati da alcun obbligo in materia nei confronti dell’Unione. Infatti, secondo quanto ha precisato la Corte di giustizia, l’avvio di un’azione concertata dell’Unione sul piano internazionale, come ad esempio l’adozione da parte del Consiglio di una decisione che autorizza la Commissione a negoziare un accordo a nome dell’Unione con un paese terzo, implica l’obbligo per gli Stati membri di astenersi dal condurre negoziati bilaterali con il medesimo paese terzo sulle materie specificamente contemplate dalle direttive di negoziato (Corte giust. 2 giugno 2005, C-266/03, Commissione c. Lussemburgo, I-4805, punto 60). Essi sono infatti tenuti dall’art. 4, par. 3, TUE a facilitare l’Unione nell’adempimento dei suoi compiti e ad astenersi da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione dei suoi obiettivi.
d) Non è detto, comunque, che l’individuazione degli organi (dell’Unione o degli Stati membri) competenti a stipulare un determinato accordo internazionale si ponga necessariamente in termini di alternativa. Può darsi, infatti, che la disciplina in esso contenuta sia solo in parte riconducibile alla competenza esterna dell’Unione, rientrando per il resto nella competenza degli Stati membri. Una situazione analoga può prodursi anche per il fatto che a fronte di disposizioni dell’accordo coperte da una competenza concorrente dell’Unione e degli Stati membri, questi ultimi preferiscano esercitare la loro, lasciando che l’Unione possa usare della propria solo rispetto alle disposizioni riconducibili a una sua competenza esclusiva. Quando ciò si è verificato, la soluzione è stata quella di una partecipazione all’accordo anche degli Stati membri, i quali hanno proceduto a negoziarlo e ratificarlo congiuntamente alle istituzioni europee, e conformemente alle rispettive procedure costituzionali. La giurisprudenza ha avallato questa soluzione. In passato, ad esempio, pronun-
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ciandosi sulla competenza a stipulare un accordo che prevedeva clausole di aiuto finanziario a favore del paese terzo, la Corte ha affermato che, poiché il finanziamento per l’attuazione dello stesso non gravava sul bilancio dell’allora Comunità, ma incombeva sugli Stati membri, era necessario «l’assenso [di questi ultimi] circa le modalità di finanziamento in progetto e di conseguenza la loro partecipazione all’accordo congiuntamente alla Comunità» (parere 4 ottobre 1979, 1/78, sull’Accordo internazionale sulla gomma naturale, 2871, punto 60). Essa ha poi indirettamente ribadito questa opinione in termini di esigenza generale, osservando che «qualora risulti che la materia disciplinata da un accordo o da una convenzione rientra in parte nella competenza della Comunità e in parte in quella degli Stati membri, occorre garantire una stretta cooperazione tra questi ultimi e le istituzioni comunitarie tanto nel processo di negoziazione e di stipulazione quanto nell’adempimento degli impegni assunti». Così Corte giust. 20 aprile 2010, C-246/07, Commissione c. Svezia, cit., punto 73. Con il parere 1/78 appena cit. la Corte ha rovesciato in realtà quanto essa stessa aveva affermato in altra occasione (parere 1/75, cit.) circa la questione dell’incidenza sulla competenza a stipulare della Comunità dell’eventuale finanziamento di impegni internazionali: a tal fine «poco conta che gli obblighi e gli oneri finanziari relativi all’esecuzione dell’accordo gravino direttamente sugli Stati membri» (p. 1364).
Il ricorso alla tecnica di questi c.d. accordi misti (il termine è stato usato ufficialmente dalla Corte per la prima volta nella sentenza Demirel, cit., punto 8) è stato generalmente assai ampio. Di gran parte delle convenzioni multilaterali cui ha aderito l’Unione sono ugualmente parti tutti o alcuni Stati membri, così come quasi tutti gli accordi di associazione, di cui si è in precedenza parlato, sono stati stipulati in forma mista. Nel caso delle prime il ricorso ad essa è stato dovuto anche a fattori politici, quale in alcuni casi di un passato più lontano la stessa volontà dei paesi terzi di non vincolarsi alla sola Comunità, o strettamente tecnici, come la limitazione ai soli Stati della possibilità di aderire a talune convenzioni; ma per lo più quel ricorso trovava di regola più di una giustificazione sul piano giuridico. Ad esempio, la Convenzione ONU di Montego Bay del 10 dicembre 1982 sul diritto del mare, per fare un esempio, cui l’Unione europea ha aderito nel 1998 in aggiunta ai suoi Stati membri (dec. 98/392/CE del Consiglio, del 23 marzo 1998, concernente la conclusione, da parte della Comunità europea, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, del 10 dicembre 1982 e dell’accordo del 28 luglio 1994 relativo all’attuazione delle parte XI della Convenzione, GUCE L 179, 1), contiene norme riconducibili tanto a una competenza concorrente, quanto alla competenza esclusiva rispettivamente dell’Unione e dei soli Stati membri. Per quanto riguarda invece gli accordi di associazione, in linea teorica la partecipazione anche degli Stati membri potrebbe apparire giuridicamente molto meno motivata, vista l’ampiezza delle competenze che abbiamo visto essere ricomprese nel rapporto di associazione; è anche vero, però, che, sulla base di un indirizzo politico ormai risalente del Consiglio dell’Unione, in molti di questi accordi (e non solo) sono state inserite clausole di condizionalità, che per il loro carattere squisitamente politico giustificavano, almeno prima del Trattato di Lisbona, l’intervento degli Stati membri accanto alle istituzioni della allora Comunità. Inserite negli accordi di associazione, ma non solo, le clausole di condizionalità (clausola diritti umani e democrazia, clausola di non proliferazione e clausola antiterrorismo) collegano l’insieme delle relazioni negoziali tra l’Unione e il o i paesi terzi controparte al rispetto da parte di questi ultimi di determinati standard o principi espressione dei valori di politica estera dell’Unione. La
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clausola diritti umani e democrazia, in particolare, configura il rispetto dei diritti dell’uomo e dei principi democratici come «elemento essenziale» dell’accordo in cui è inserita, fornendo così una base formale per la denuncia, la sospensione o la non esecuzione dell’accordo stesso in caso di violazione. La configurazione come «elemento» di tale clausola, usata per la prima volta nella IV Convenzione di Lomé del 15 dicembre 1989 con i paesi ACP, fu decisa all’inizio degli anni ’90 dal Consiglio e dagli Stati membri in seguito alle difficoltà incontrate per la sospensione degli accordi di cooperazione stipulati con la Iugoslavia e con Haiti (cfr. risoluzione del Consiglio e degli Stati membri, del 28 novembre 1991, sui diritti dell’uomo, la democrazia e lo sviluppo, GUCE C 255/1993, 122).
Ciò detto, va da sé che la volontà politica degli Stati membri di non lasciare alla sola Comunità/Unione la gestione di rapporti internazionali rilevanti sembra essere stata determinante nella scelta di un ricorso così diffuso alla forma mista per la stipulazione di questi e di altri accordi. Sul piano ancora strettamente giuridico, infatti, va ricordato come la Corte di giustizia abbia prospettato la possibilità che l’eventuale presenza in un accordo di clausole concernenti materie sottratte alla competenza a stipulare dell’Unione non debba necessariamente tradursi nella partecipazione alla sua conclusione anche degli Stati membri. Qualora tali clausole siano «di carattere in ultima analisi accessorio od ausiliario» allo scopo e all’oggetto dell’accordo, la loro negoziazione e messa in vigore devono «seguire il regime da applicarsi all’accordo nel suo complesso» (Corte giust., parere 1/78, cit., punto 56). In altri termini, quest’ultimo dovrebbe essere stipulato dalle sole istituzioni dell’Unione, secondo le procedure stabilite dalla base giuridica rilevante prevista dai Trattati.
7. Segue : La procedura per la conclusione degli accordi internazionali dell’Unione I Trattati assoggettano la negoziazione e stipulazione da parte dell’Unione di accordi con paesi terzi e organizzazioni internazionale a una procedura unica, disciplinata nell’art. 218 TFUE e applicabile a tutti i tipi di accordi dell’Unione ricordati nel precedente paragrafo. In realtà alcune regole in materia sono dettate anche da altre disposizioni dello stesso Trattato dedicate alla conclusione di accordi internazionali in talune materie specifiche. Tali disposizioni, però, non fanno altro che prevedere delle varianti a quella procedura unica, varianti non molto diverse, nella rilevanza e nella sostanza, da quelle comunque già contemplate all’interno dell’art. 218 TFUE per tener conto delle peculiarità istituzionali che contraddistinguono in via generale talune materie di competenza dell’Unione. La procedura disciplinata dall’art. 218 TFUE riguarda la conclusione di «accordi internazionali». Come ha sottolineato la Corte di giustizia da un punto di vista generale, il termine va inteso in senso lato: esso «designa cioè ogni impegno a carattere vincolante assunto da soggetti di diritto internazionale, indipendentemente dalla sua forma» (Corte giust., parere 1/75, cit., 1359). In realtà, lo stesso art. 218 TFUE detta poi regole specifiche, come vedremo, anche per l’assunzione da parte dell’Unione di impegni in seno ad organi creati da accordi internazionali. In generale, però, la procedura che descriveremo di seguito va considerata applicabile a qualsiasi situazione
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in cui l’Unione si trovi a dover esprimere la propria volontà di vincolarsi sul piano internazionale. La Corte ha così ritenuto, nel caso già ricordato dell’adesione alla Convenzione dell’Aia del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori (parere 1/13 cit.), che fosse da considerare un accordo internazionale ai sensi dell’art. 218 la combinazione tra l’atto di adesione di un nuovo Stato e la dichiarazione di sua accettazione da parte di uno Stato membro dell’Unione, già parte della Convenzione, con la conseguenza della necessaria sottoposizione di tale dichiarazione alle procedure previste dall’art. 218 (punto 37 ss.). In un altro caso, poi, essa è arrivata alla stessa conclusione rispetto alla dichiarazione dell’Unione di concessione ai pescherecci battenti bandiera venezuelana di pescare nella zona economica esclusiva al largo delle coste della Guyana francese, combinata con la sua accettazione implicita, per comportamenti conclusivi, da parte del Venezuela (26 novembre 2014, C-103/12 e C-165/12, Parlamento e Commissione c. Consiglio, punto 67).
La procedura prevista dall’art. 218 evoca per molti versi quelle sulla base delle quali si arriva in generale all’adozione di atti di diritto derivato. Le istituzioni vi svolgono, infatti, un ruolo che presenta connotati analoghi a quelli che contraddistinguono la funzione a ciascuna di esse riservata ai fini dell’emanazione di norme sul piano interno. Così come il processo decisionale è organizzato a questi fini intorno al triangolo istituzionale costituito da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione, così la procedura di conclusione di accordi internazionali vede coinvolte tutte e tre le stesse istituzioni (così anche Corte giust. 24 giugno 2014, C-658/11, Parlamento c. Consiglio, punto 55). Naturalmente questa corrispondenza di procedure e di ruoli si ritrova in primo luogo, come si vedrà, nelle diverse decisioni che le istituzioni sono chiamate a prendere sul piano interno in relazione ai successivi passaggi in cui si articola la conclusione di un accordo dal punto di vista del diritto internazionale, e alle diverse vicende che possono caratterizzare la vita di tale accordo. Ma un’analoga, seppur parziale, corrispondenza la si ritrova anche nelle modalità con cui i Trattati hanno organizzato la gestione sul piano internazionale da parte delle istituzioni di quei passaggi e di quelle vicende. È così che, mentre la firma e la ratifica dell’accordo spettano all’istituzione che all’interno del sistema istituzionale detiene in via principale il potere decisionale, cioè il Consiglio, la competenza a negoziare riflette la distribuzione che ha la titolarità principale del potere di iniziativa nei Trattati: mentre in linea generale tale competenza è assegnata alla Commissione, quando l’accordo coinvolge la PESC essa spetta all’Alto Rappresentante. Le analogie tra le procedure che portano all’adozione di atti di diritto derivato e quelle dirette alla conclusione di accordi con paesi terzi sono del resto talmente forti che, come si vedrà, la disciplina delle seconde è talvolta esplicitamente fondata su un parallelismo con le prime, nel senso che le modalità con cui le istituzioni intervengono nella procedura di conclusione di un accordo sono formalmente condizionate da quelle con le quali è previsto che esse debbano agire quando decidono, nei settori toccati dall’accordo, sul piano interno. a) Ai sensi dell’art. 218 TFUE, tale procedura si avvia su iniziativa della Commissione o, quando l’accordo previsto riguardi unicamente o principalmente la PESC,
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dell’Alto Rappresentante. Essi possono, infatti, presentare una raccomandazione al Consiglio affinché questo autorizzi con apposita decisione l’avvio del negoziato con lo o gli Stati terzi. Con tale decisione il Consiglio dovrà anche designare il negoziatore dell’Unione «in funzione della materia dell’accordo previsto» (par. 3). Anche se non è specificato, è ovvio che la scelta seguirà lo stesso criterio in base al quale è ripartita tra Commissione e Alto Rappresentante la competenza a prendere l’iniziativa all’avvio della procedura. Il fatto però che la stessa disposizione preveda che, al posto di un negoziatore, il Consiglio può designare «il capo della squadra di negoziato dell’Unione», fa pensare che in taluni casi la mescolanza delle materie oggetto dell’accordo possa spingere il Consiglio a coinvolgere nel negoziato, sia pure affidandone la responsabilità a uno solo tra loro, sia l’Alto Rappresentante, che la Commissione. In questa fase preliminare, l’art. 219 TFUE assegna poi un ruolo formale, come abbiamo visto, anche alla BCE: sulla raccomandazione della Commissione al Consiglio in vista dell’apertura del negoziato di un accordo internazionale in materia di regime monetario o valutario deve essere consultata la BCE, la quale si vede anzi riconoscere un autonomo potere di iniziativa nel caso in cui l’accordo riguardi il tasso di cambio dell’euro; inoltre, sempre la BCE sembra dover essere coinvolta, seppur implicitamente, nella conduzione del negoziato, visto che ad esso la Commissione è, ai sensi dell’articolo, solo associata (seppur «a pieno titolo»). Così, rispettivamente il par. 1 e il par. 3 dell’art. 219 TFUE. In particolare, il secondo stabilisce che «in deroga [all’art. 218 TFUE], qualora accordi in materia di regime monetario o valutario debbano essere negoziati dall’Unione con uno o più Stati terzi o organizzazioni internazionali, il Consiglio, su raccomandazione della Commissione e previa consultazione della Banca centrale europea, decide le modalità per la negoziazione e la conclusione di detti accordi. Tali modalità devono assicurare che l’Unione esprima una posizione unica. La Commissione è associata a pieno titolo ai negoziati». Quanto invece al par. 1, va rilevato che l’esercizio da parte della BCE del suo potere d’iniziativa non fa invece scattare l’obbligo del Consiglio di consultare la Commissione prima dell’adozione dell’atto al contrario di altre disposizioni dei Trattati che ugualmente riconoscono un potere di iniziativa per determinati atti a due diverse istituzioni, accompagnandolo con un obbligo di consultazione di quella che non ha presentato la proposta (si veda per un es. l’art. 281 TFUE, in relazione al ruolo rispettivo della Commissione e della Corte di giustizia nella procedura di modifica dello Statuto di quest’ultima): il che dà evidentemente conto di un diverso peso comunque assegnato, nel caso citato nel testo, alle due istituzioni che vengono coinvolte nella procedura di conclusione degli accordi internazionali in materia di tassi di cambio dell’euro.
Il negoziatore dell’Unione dovrà condurre i negoziati sulla base delle direttive che il Consiglio gli può impartire nella decisione di autorizzazione. Quest’ultimo può anche designare se del caso un comitato speciale, composto da rappresentanti degli Stati membri, che deve essere consultato dal negoziatore nel corso dei negoziati (par. 4). La designazione del comitato da parte del Consiglio è obbligatoria in caso di accordi commerciali; e anzi l’art. 207 TFUE stabilisce che la Commissione, cui spetta negoziare questo tipo di accordi, deve riferire periodicamente al comitato speciale (e al Parlamento europeo) sull’andamento dei negoziati (si veda in proposito anche infra, p. 872). Questa ulteriore compressione dell’autonomia del negoziatore si spiega quando si
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consideri la differente portata che può avere il potere negoziale della Commissione o dell’Alto Rappresentante, rispetto a quello di iniziativa di cui essi dispongono sul piano interno. Se, infatti, la capacità del potere di iniziativa di influenzare le scelte finali del Consiglio trova comunque un limite nella possibilità dello stesso Consiglio di modificare le proposte della Commissione o dell’Alto Rappresentante, tale possibilità appare attenuata nel caso di un progetto di accordo negoziato con un paese terzo: esso non può essere modificato dal Consiglio, il quale potrà solo accettarlo o tutt’al più respingerlo nella sua interezza, chiedendo eventualmente al negoziatore, in quest’ultimo caso, di riaprire il negoziato con la controparte. La compressione dell’autonomia del negoziatore da parte del Consiglio non può andare però oltre certi limiti. La Corte di giustizia li ha ad esempio ritenuti superati in un caso in cui una decisione del Consiglio che aveva impartito alla Commissione le direttive di negoziato per un accordo internazionale, le aveva, da un lato, dettato «posizioni di negoziato dettagliate» e, dall’altro, aveva disposto che, se necessario, quelle posizioni dettagliate avrebbero potuto essere riviste dal comitato speciale e che comunque, più puntualmente, il comitato era legittimato a stabilire esso stesso, prima di ogni sessione di negoziato, posizioni di negoziato (16 luglio 2015, C-425/13, Commissione c. Consiglio, punto 67 ss.).
La fase negoziale si chiude con la parafatura del progetto di accordo da parte del negoziatore e la presentazione di una sua proposta al Consiglio per l’adozione della decisione di autorizzazione alla firma dell’accordo (par. 5). E tale decisione può anche disporre l’applicazione provvisoria dell’accordo in attesa dell’entrata in vigore dello stesso a seguito della sua conclusione formale. La decisione di procedere a quest’ultima da parte dell’Unione è presa ugualmente dal Consiglio su proposta del negoziatore (par. 6). Con essa il Consiglio, secondo una formula ormai tipica, autorizza la Presidenza a notificare allo Stato terzo che «le necessarie procedure per l’entrata in vigore dell’accordo sono state completate», impegnando così l’Unione sul piano internazionale. Nulla esclude, però, che in luogo di questa procedura solenne in due tappe si segua una procedura semplificata, prevedendo direttamente nella decisione di firma che questa stessa valga come espressione della volontà dell’Unione a vincolarsi all’accordo. L’art. 218 TFUE stabilisce che il Parlamento europeo debba esprimersi sugli accordi che il Consiglio intende concludere, prima che questo prenda la decisione di conclusione. In alcuni casi specifici, la conclusione è anzi subordinata a un’approvazione dello stesso Parlamento (par. 6, comma 2). Ovviamente, laddove sia fatto ricorso alla procedura semplificata, la consultazione del PE, se obbligatoria, deve esservi sulla proposta di decisione del Consiglio volta ad autorizzare la manifestazione di volontà dell’Unione a vincolarsi all’accordo mediante la firma dello stesso. Oltre che per gli accordi di associazione di cui all’art. 217 TFUE e per quelli ad essi in qualche modo assimilabili, perché diretti a creare «un quadro istituzionale specifico organizzando procedure di cooperazione», la necessità dell’approvazione parlamentare è in particolare imposta per la conclusione di accordi che riguardino settori ai quali si applica la procedura legislativa ordinaria (o quella speciale con approvazione del Parlamento) e di accordi che abbiano «ripercussioni finanziarie considerevoli per l’Unione» (art. 218, par. 6, comma 2, lett. a), iv), TFUE). Tanto la
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prima che la seconda previsione sono evidentemente dirette, in applicazione di quel principio di parallelismo delle procedure di cui si è poc’anzi parlato, a tutelare le competenze in materia normativa e di bilancio di cui il Parlamento europeo è titolare sul piano interno, evitando che attraverso la conclusione di un accordo internazionale il Consiglio possa pregiudicare il loro esercizio. Mentre l’individuazione della prima categoria è legata a criteri oggettivi, non è così per la seconda. In relazione ad essa la Corte di giustizia ha però precisato che la sua definizione non può basarsi su un raffronto tra l’onere finanziario annuo di un accordo internazionale e il bilancio complessivo dell’Unione: secondo la Corte il raffronto deve essere piuttosto tra le spese derivanti da quell’accordo e l’importo degli stanziamenti destinati a finanziare le azioni esterne dell’Unione, completato eventualmente, laddove si tratti di un accordo settoriale, dal raffronto tra le spese ad esso conseguenti e il complesso del totale degli stanziamenti iscritti al bilancio per il settore considerato (Corte giust. 8 luglio 1999, C-189/97, Parlamento c. Consiglio, I-4741, punti 31-32).
L’approvazione del Parlamento è richiesta anche per l’accordo che l’Unione dovrà concludere per aderire, come previsto dall’art. 6, par. 2, TUE, alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Per questo specifico accordo è anzi stabilito che ci debba essere anche l’approvazione previa degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali. Questa, che verrà evidentemente dai parlamenti nazionali, non può però essere interpretata come una ratifica anche da parte degli Stati membri dell’accordo di adesione, alla stregua di ciò che si verifica, come si vedrà più avanti, nel caso degli accordi misti. Gli Stati membri sono già parti, infatti, della Convenzione europea; e in ogni caso la loro approvazione è richiesta ai fini dell’entrata in vigore non dell’accordo di adesione, ma della decisione di conclusione adottata dal Consiglio, così come è previsto da altri basi giuridiche cui si è più volte fatto cenno (ma in particolare a p. 165 s.). Al di fuori dei casi precedentemente citati, la decisione di conclusione dell’accordo deve essere presa dal Consiglio solo su consultazione del Parlamento europeo. Al pari di quella che si ha sugli altri atti di diritto derivato, il parere che è chiamato ad esprimere il Parlamento non ha carattere vincolante, anche se, come si è osservato a suo tempo parlando della procedura di consultazione, il Consiglio non potrà adottare la sua decisione senza averlo prima ottenuto; a differenza, però, da quanto avviene nel caso dell’adozione di atti puramente «interni», qui è previsto che in funzione dell’urgenza il Consiglio possa imporre al Parlamento un termine per la pronuncia del parere, trascorso il quale la decisione di conclusione dell’accordo potrà essere comunque adottata. Così l’art. 218, par. 6, comma 2, lett. b), TFUE. Va notato che nel caso degli accordi per i quali è richiesta l’approvazione del PE, lo stesso articolo prevede che il PE ed il Consiglio possano, in caso d’urgenza, concordare un termine per l’approvazione. È evidente che in questo caso il mancato rispetto del termine non permetterà al Consiglio di andare comunque avanti, ma gli darà unicamente certezza sulla non approvazione dell’accordo da parte del PE.
Un qualsiasi coinvolgimento del Parlamento europeo è escluso invece per espressa previsione dell’art. 218, par. 6, comma 2, TFUE, nel caso degli accordi che riguardano «esclusivamente» la PESC. Questa esclusione appare anch’essa in linea
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con il citato principio del parallelismo delle procedure, visto il ruolo marginale che si è più volte ricordato essere riservato al Parlamento in tale settore. La circostanza che l’esclusione operi formalmente solo rispetto agli accordi che riguardano «esclusivamente» questo settore sembrerebbe configurare una falla nel muro della specificità che contraddistingue anche sotto questo profilo la PESC e a cui tutela è posta la più volte ricordata clausola di non interferenza di cui all’art. 40 TUE (supra, p. 811). Già di per sé, la disposizione citata dell’art. 218 avrebbe potuto essere infatti interpretata nel senso che la consultazione del Parlamento debba invece esserci nel caso di un accordo che, pur concernendo principalmente il settore della PESC, tocchi pur marginalmente altri settori di attività dell’Unione. La Corte ha in realtà escluso una tale eventualità, leggendo quella disposizione alla luce della sua giurisprudenza in materia di basi giuridiche, che come abbiamo visto privilegia, in caso di atti che perseguano più di una finalità o abbiano più di una componente, la base giuridica richiesta dalla finalità o componente che, caratterizzando in via prevalente l’atto nel suo complesso, appaia principale o preponderante rispetto alle altre (24 giugno 2014, C-658/11, Parlamento c. Consiglio, punto 58 s. e 14 giugno 2016, C-263/14, Parlamento c. Consiglio, punto 55). Ciò significherebbe però che, laddove sia impossibile evitare il cumulo con altre basi giuridiche di una base giuridica PESC per l’uguale peso che tutte rivestono nell’economia dell’atto da adottare, i Trattati consentirebbero di non tenere conto della specificità della PESC, avendo essi stessi risolto a favore del coinvolgimento del Parlamento europeo l’incompatibilità tra procedure decisionali ugualmente applicabili.
In ogni caso, indipendentemente dal diverso coinvolgimento del Parlamento nelle decisioni del Consiglio che l’art. 218 prevede a seconda del tipo di accordo da concludere o del settore cui esso è riconducibile, il par. 10 dell’articolo impone come regola generale allo stesso Consiglio che il Parlamento sia «immediatamente e pienamente informato in tutte le fasi della procedura» che porta alla conclusione di un accordo, quale che sia la natura di quest’ultimo. E l’eventuale mancata informazione comporta, come ha sentenziato in due recenti casi la Corte di giustizia, l’illegittimità della decisione del Consiglio di conclusione dell’accordo, anche quando esso riguardi esclusivamente la PESC. Ciò perché, se è vero che il ruolo del Parlamento in questo settore è limitato, resta cionondimeno il fatto che esso non può considerarsi «privato di qualunque diritto di controllo su tale politica dell’Unione» a tutela del principio democratico sul quale la stessa si fonda; con la conseguenza che la sua informazione costituisce un requisito di forma sostanziale, la cui violazione determina la nullità dell’atto viziato (24 giugno 2014, C-658/11, Parlamento c. Consiglio, punto 83 ss., e 14 giugno 2016, C-263/14, Parlamento c. Consiglio, punto 69 ss.). Il principio del parallelismo delle procedure caratterizza anche le modalità di voto con cui il Consiglio è chiamato ad adottare i diversi atti che scandiscono la procedura di conclusione di un accordo con un paese terzo (art. 218, par. 8, comma 1, TFUE). È previsto, infatti, che esso deliberi in tutti questi casi a maggioranza qualificata, salvo quando si tratti di accordi di associazione o di cooperazione finanziaria e tecnica con paesi candidati all’adesione, nonché nel caso del già ricordato accordo di adesione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e, più in generale, degli accordi riguardanti un settore in cui sul piano interno è richiesta l’unanimità: qui sarà appunto questa la regola di voto applicabile (par. 8, comma 2). In aggiunta a questi casi, tuttavia, il ricorso all’unanimità è imposto dall’art. 207 TFUE anche per la negoziazione e la conclusione di taluni accordi commerciali.
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Secondo quanto stabilito dal par. 4, comma 3, dell’art. 207, si tratta degli accordi «nel settore degli scambi di servizi culturali e audiovisivi, qualora tali accordi rischino di arrecare pregiudizio alla diversità culturale e linguistica dell’Unione»; e degli accordi relativi agli «scambi di servizi nell’ambito sociale, dell’istruzione e della sanità, qualora tali accordi rischino di perturbare seriamente l’organizzazione nazionale di tali servizi e di arrecare pregiudizio alla competenza degli Stati membri riguardo alla loro prestazione». Cfr. in proposito p. 870 ss.
Una parziale variante di alcuni aspetti della procedura di conclusione degli accordi internazionali dell’Unione può peraltro venire dalla circostanza in precedenza evocata che un determinato accordo debba essere concluso contemporaneamente anche dagli Stati membri, perché le sue norme sono solo in parte riconducibili alla competenza esterna dell’Unione. In tali casi, la negoziazione dell’accordo misto è assicurata di regola da una delegazione unica in cui il negoziatore dell’Unione è affiancato dallo Stato cui spetta la presidenza del Consiglio. Rimane però fermo che gli atti formali che contraddistinguono l’iter di negoziazione e conclusione dell’accordo da parte dell’Unione dovranno essere adottati secondo le procedure previste dall’art. 218. È in particolare da escludere che essi possano assumere la forma di c.d. atti ibridi, atti, cioè, adottati allo stesso tempo dal Consiglio e dai rappresentanti dei governi degli Stati membri, perché altrimenti si farebbero intervenire questi ultimi in una sfera procedurale di competenza dell’Unione (Corte giust., 28 aprile 2015, C28/12, Commissione c. Consiglio, punto 49 ss.), mentre, come ha più volte osservato la Corte, «le regole relative alla formazione della volontà delle istituzioni dell’Unione sono sancite dai trattati e … non sono derogabili né dagli Stati membri né dalle stesse istituzioni» (6 maggio 2008, C-133/06, Parlamento c. Consiglio, I-3189, punto 54). È altrettanto vero, però, che la ratifica dell’accordo misto da parte dell’Unione potrà aversi solo una volta che gli Stati membri abbiano tutti provveduto a compiere tale passo sul piano internazionale. b) Va anche osservato che in taluni casi la competenza a concludere un accordo internazionale è attribuita dai Trattati alla stessa Commissione e all’Alto Rappresentante, senza però che sia sempre chiaro come si distribuiscono le rispettive competenze. È così, ad esempio, per quanto riguarda gli accordi diretti a formalizzare forme di collaborazione o di collegamento reciproci con altre organizzazioni internazionali, per i quali la responsabilità a provvedervi è riconosciuta genericamente alla Commissione e all’Alto Rappresentante (art. 220, par. 2, TFUE). Altrettanto genericamente è poi previsto che, nel concludere un accordo, il Consiglio possa delegare al negoziatore dell’Unione il compito di «approvare a nome dell’Unione le modifiche dell’accordo se quest’ultimo ne prevede l’adozione con una procedura semplificata o da parte di un organo istituito dall’accordo stesso» (art. 218, par. 7, TFUE). Infine, l’art. 6, comma 2, del Protocollo (n. 7) sui privilegi e sulle immunità dell’Unione europea, attribuisce alla Commissione, e questa volta unicamente a lei, il compito di concludere accordi per il riconoscimento come titoli di viaggio validi sul territorio degli Stati terzi dei lasciapassare rilasciati ai membri ed agli agenti delle istituzioni; mentre spetta all’Alto Rappresentare, come si è già ricordato, negoziare e concludere accordi con i paesi terzi di accreditamento per il riconoscimento da parte di questi alle delegazioni dell’Unione dei privilegi e immunità diplomatiche d’uso.
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È invece da escludere che, in aggiunta ai limitati casi appena ricordati, competenze ulteriori della Commissione in questo campo possano dedursi in via implicita da quelle espressamente riconosciutele dai Trattati. Ad esempio, non potrebbe ritenersi che l’adesione in qualità di membro a un’organizzazione internazionale da parte dell’Unione possa essere decisa dalla Commissione in ragione della sua ricordata competenza ad instaurare forme di cooperazione con altri enti internazionali, e non invece dal Consiglio sulla base delle norme e procedure che regolano la conclusione di accordi internazionali nella materia su cui incide l’attività di quel dato ente (cfr. al riguardo il paragrafo successivo). Né una competenza della Commissione a stipulare accordi con Stati terzi, seppur di carattere strettamente tecnico, potrebbe ricavarsi dai poteri di cui la Commissione dispone sul piano interno. Quest’ultima eventualità è stata esplicitamente esclusa dalla Corte di giustizia, la quale, annullando un accordo in materia di concorrenza concluso dalla Commissione con la corrispondente autorità antitrust statunitense, ha sottolineato che «la competenza interna non è tale da modificare la ripartizione delle competenze tra le istituzioni [dell’Unione] in materia di conclusione di accordi internazionali, ripartizione che è fissata dall’art. 228 del Trattato [poi art. 300 TCE, ora art. 218 TFUE]» (Corte giust. 9 agosto 1994, C-327/91, Francia c. Commissione, I-3641, punto 41). La Corte ha peraltro escluso anche che la Commissione disponga, in forza del suo potere di rappresentanza esterna ai sensi dell’art. 17, par. 1, TUE, del potere di firmare senza l’autorizzazione preventiva del Consiglio un accordo non vincolante con un paese terzo, pur se negoziato su mandato di negoziazione conferitole dallo stesso Consiglio (Corte giust. 28 luglio 2016, C-660/13, Consiglio c. Commissione europea, punto 38 ss.).
Un’ultima osservazione merita il par. 11 dell’art. 218 TFUE, il quale prevede che nel corso della procedura di conclusione di un accordo internazionale il Parlamento europeo, il Consiglio, la Commissione o uno Stato membro possano chiedere alla Corte di giustizia un parere circa la compatibilità dell’«accordo previsto» con i Trattati; e che, in caso di parere negativo, l’accordo non possa entrare in vigore, o, per meglio dire, l’Unione non possa esprimere definitivamente la volontà di vincolarsi ad esso (così, implicitamente, Corte giust., parere 1/94, cit., punto 12), se non dopo modifica dell’accordo ovvero dei Trattati. Se per le condizioni formali e sostanziali di attivazione di questa competenza consultiva della Corte e per gli effetti del parere da esso reso conviene rinviare a quanto già esposto in precedenza (p. 351 ss.), va qui sottolineato che l’introduzione in Corte di una richiesta di parere non ha un effetto preclusivo al prosieguo della procedura di stipulazione dell’accordo che ne sia oggetto. Di fronte al verificarsi di una situazione del genere, la stessa Corte si è limitata a prendere atto che a seguito della conclusione dell’accordo la richiesta era rimasta senza oggetto, concludendo che non vi era più luogo a pronunciarsi su di essa. Cfr. Corte giust., parere 13 dicembre 1995, 3/94, I-4577 (concernente un Accordo quadro sulle banane). Secondo quanto sottolineato dalla Corte, infatti, la competenza consultiva della Corte mira «a prevenire le complicazioni che risultino dall’incompatibilità con il Trattato di accordi internazionali che vincolano la Comunità e non a tutelare gli interessi e i diritti dello Stato membro o dell’istituzione comunitaria che hanno proposto la domanda di parere», dato che essi dispongono in ogni caso «del ricorso di annullamento contro la decisione del Consiglio di stipulare l’accordo, nonché della facoltà di chiedere, in tale occasione, provvedimenti provvisori in sede di urgenza» (punti 21 e 22).
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8. I rapporti con organizzazioni internazionali L’esercizio di competenze esterne da parte dell’Unione non può non tenere conto del fatto che gran parte della vita di relazione internazionale trova i suoi canali d’espressione nell’azione di organizzazioni intergovernative. Ci si riferisce non tanto al fatto che esse possono rappresentare degli interlocutori inevitabili di rapporti convenzionali dell’Unione, come è dimostrato da alcuni accordi internazionali che, al pari di quanto fatto con tanti paesi terzi, essa ha concluso, sulla base dell’art. 217 TFUE, con organizzazioni internazionali. Se ne veda un es. nell’Accordo quadro di cooperazione del 23 aprile 1993 tra la CEE e il Patto andino, organizzazione subregionale creata dall’accordo di Cartagena, e i cui paesi membri sono la Repubblica della Bolivia, la Repubblica della Colombia, la Repubblica dell’Ecuador, la Repubblica del Perù e la Repubblica del Venezuela (GUCE L 127/1998, 11).
Ben più rilevante è la circostanza che sempre più spesso queste costituiscono il quadro istituzionale entro il quale si svolge la negoziazione di accordi multilaterali o, finanche, l’elaborazione di norme internazionali direttamente vincolanti per chi partecipa a quella data organizzazione. Altrettanto spesso, poi, singole convenzioni internazionali multilaterali non si limitano a dettare norme disciplinanti una determinata materia, ma creano organismi, di varia natura, incaricati della gestione futura della stessa. È evidente che, nella misura in cui l’ambito di competenza materiale di questi organismi o di quelle organizzazioni internazionali coinvolge settori di competenza dell’Unione, si prospetta la necessità di una sua associazione alle loro attività, accanto eventualmente ai suoi Stati membri che già vi partecipino in quanto tali. La Corte di giustizia (sentenza 12 febbraio 2009, C-45/07, Commissione c. Grecia, I-701) ha precisato, che anche «la competenza esclusiva della Comunità non impedisce la partecipazione attiva degli Stati membri [a un’organizzazione internazionale], posto che le posizioni assunte da questi ultimi nell’ambito di tale organizzazione internazionale sono state oggetto, ex ante, di un coordinamento comunitario» (punto 28).
Ciò non esige in ogni caso una sua partecipazione ugualmente a titolo di membro. Il rispetto delle prerogative delle istituzioni europee potrà essere assicurato anche attraverso modalità differenti, a seconda delle funzioni e dei poteri di cui dispone ciascun ente internazionale e del grado di coinvolgimento delle competenze esterne dell’Unione. In alcuni casi, ci sarà soprattutto l’esigenza di non escludere l’Unione da specifiche attività di questi, come la negoziazione di accordi al loro interno e la successiva adesione agli stessi; in altri – in particolare quando l’ente internazionale è dotato di veri e propri poteri di gestione – il rispetto effettivo delle norme dei Trattati potrebbe invece aversi solo attraverso l’acquisto della qualità di membro. Del resto, gli stessi Trattati non prospettano necessariamente quest’ultima come l’unica soluzione. Per quel che riguarda infatti l’associazione dell’Unione ai lavori di organizzazioni internazionali, essi si limitano anzi a prevedere in maniera esplicita
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solo l’ipotesi dell’instaurazione, ai sensi dell’art. 220 TFUE e di altri articoli dello stesso Trattato, di forme di coordinamento e di collaborazione tra la prima e le seconde. In particolare, l’art. 220 TFUE contempla in via generale che l’Unione possa attuare «ogni utile forma di cooperazione con gli organi delle Nazioni Unite e degli istituti specializzati delle Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa, l’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa [OSCE] e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico [OCSE]. L’Unione assicura inoltre i collegamenti che ritiene opportuni con altre organizzazioni internazionali». Dal canto loro, gli artt. 165, par. 3, TFUE (istruzione), 166, par. 3, TFUE (formazione professionale), 167, par. 3, TFUE (cultura), 168, par. 3, TFUE (sanità pubblica) prevedono più genericamente che «[l]’Unione e gli Stati membri favoriscono la cooperazione con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali competenti» in ciascuna di queste materie.
Questi collegamenti e quelle forme di cooperazione si concretizzano, di regola, in intese organizzative di diverso tenore, che, a seconda della campo d’azione dell’organizzazione interessata, spetta alla Commissione o all’Alto Rappresentante concludere per conto dell’Unione, e che possono andare dalla previsione di un semplice scambio di documenti e informazioni con enti o organizzazioni la cui attività rivesta interesse per l’azione delle istituzioni dell’Unione, all’attribuzione a quest’ultima di uno status formale di osservatore all’interno dell’organizzazione interessata. E anche il contenuto dello status di osservatore può variare non poco, potendo limitarsi alla semplice partecipazione passiva (senza diritto di parola) alle riunioni dell’organo assembleare dell’organizzazione, oppure estendersi anche agli altri organi della stessa, o ancora consentire una partecipazione attiva, seppur senza diritto di voto, finanche comprensiva, talvolta, della possibilità di presentare proposte e emendamenti. Di uno status di osservatore di quest’ultimo contenuto l’Unione gode in particolare all’interno delle Nazioni Unite, del Consiglio d’Europa e dell’OCSE. In molti casi queste intese trovano in effetti riscontro formale in norme dell’atto istitutivo dell’organizzazione controparte o in atti dell’organo competente della stessa. Nel caso delle Nazioni Unite, in effetti, l’Unione gode di uno status di osservatore particolarmente significativo. Questo gli è stato riconosciuto fin dal 1974 (risoluzione dell’Assemblea generale n. 3208 (XXIX) dell’11 ottobre 1974, come Comunità europea, ed è stato rinnovato con significative integrazioni, come Unione, nel 2011 a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (cfr. la risoluzione dell’Assemblea generale 65/276 del 3 maggio 2011). Sulla base di questo status essa partecipa ai dibattiti dell’Assemblea generale e dei suoi organi sussidiari con diritto di parola, ma non di voto; può inoltre esprimersi in quanto tale nelle Commissioni dell’Assemblea e presentare proposte. Tale status si applica peraltro anche alla partecipazione dell’Unione ai diversi istituti specializzati, conferenze e organi sussidiari appartenenti alla c.d. famiglia delle Nazioni Unite. Il rapporto con il Consiglio d’Europa è regolato a sua volta da un Memorandum d’intesa concluso il 23 maggio 2007, che consente all’Unione di partecipare, senza diritto di voto, alle riunioni del Comitato dei ministri del Consiglio, nonché ai gruppi e comitati di questo o istituiti da convenzioni concluse nel quadro dello stesso Consiglio d’Europa. Nel caso infine dell’OCSE lo status riconosciuto all’Unione, che ricorda quello di cui essa dispone nelle Nazioni Unite, trova fondamento nello stesso Statuto dell’Organizzazione (art. 13 e art. 2 del protocollo addizionale n. 1).
Alcune delle intese amministrative con organizzazioni internazionali sopra ricordate hanno aperto la strada a una partecipazione, se non sistematica quanto meno
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ampia, dell’Unione in quanto tale alle convenzioni multilaterali negoziate in seno a quelle organizzazioni. Ciò è avvenuto ad esempio nel quadro del Consiglio d’Europa, che ha consentito e consente talvolta la partecipazione piena, talaltra la successiva adesione dell’Unione a molte delle convenzioni approvate sotto la sua egida. E lo stesso si è verificato nel quadro di altre organizzazioni, grazie all’inserimento nelle relative convenzioni o di clausole di adesione specifiche (clausole cioè che menzionano specificamente la possibilità della sola Unione di aderire allo stesso titolo degli Stati membri) o di clausole dello stesso tipo ma generali (clausole che aprono questa possibilità a «unioni economiche e doganali», «organizzazioni di integrazione economica» ovvero «organizzazioni intergovernative» di cui sia accertata la competenza a negoziare e ratificare la convenzione). Va da sé, però, che i limiti inerenti allo status di osservatore non garantiscono in ogni caso il rispetto delle competenze esterne attribuite dai Trattati alle istituzioni dell’Unione. Nei casi in cui la ratifica delle convenzioni elaborate da un’organizzazione è aperta ai soli Stati membri della stessa, infatti, il possesso di quello status non consentirà comunque una partecipazione dell’Unione a tali convenzioni. Laddove, poi, tra le funzioni dell’organo di un’organizzazione, cui l’Unione europea partecipi nella veste unicamente di osservatore, rientri addirittura l’adozione diretta di norme indirizzate ai membri dell’ente, a maggior ragione dovrebbe essere l’Unione, secondo le procedure delineate nei Trattati, e non i suoi Stati membri parti dell’organizzazione, a negoziare e assumere gli obblighi relativi. La Corte ha indicato un rimedio nell’obbligo di leale cooperazione con l’Unione gravante sugli Stati membri ai sensi dell’art. 4, par. 3, TUE, nel senso che, quando l’Unione non partecipa a pieno titolo a una data organizzazione, gli Stati membri non solo devono astenersi, a pena di violazione di quell’obbligo, dal compiere al suo interno atti che possano ledere le competenze esterne dell’Unione senza un previo coordinamento con le istituzioni, ma essi sono anche tenuti, congiuntamente e sulla base di un’autorizzazione del Consiglio, ad esercitare tali competenze in sua vece e nel suo interesse. Essa ha anzi precisato che nulla osta a che l’Unione adotti, sulla base dell’art. 218, par. 9, TFUE, una decisione che stabilisca una posizione da adottare a suo nome in un organismo istituito da un accordo internazionale di cui non è parte: «quando l’ambito interessato appartiene a una sfera di competenza dell’Unione come quella descritta al punto precedente, la circostanza che Unione non sia parte dell’accordo internazionale in questione non le impedisce di esercitare detta competenza stabilendo, nel quadro delle sue istituzioni, una posizione da adottare a suo nome nell’organismo istituito da tale accordo, segnatamente tramite gli Stati membri parti di detto accordo, che agiscono congiuntamente nel suo interesse» (7 ottobre 2014, C-399/12, Germania c. Consiglio, punti 50 e 52). Ad esempio, già da tempo essa, pronunciandosi sull’impossibilità dell’Unione di aderire all’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) e quindi di partecipare alla conclusione delle convenzioni internazionali del lavoro da essa elaborate (parere 2/91, cit.), ha ammesso che, «se a norma della Costituzione dell’OIL la Comunità non può concludere direttamente la [Convenzione n. 170], la sua competenza esterna può se del caso essere esercitata per il tramite degli Stati membri agenti congiuntamente nell’interesse della Comunità» (punto 5). Tuttavia, come essa ha osservato nella sentenza 12 febbraio 2009, C-45/07, Commissione c. Grecia, cit., «il semplice fatto
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che la Comunità non sia membro di un’organizzazione internazionale non autorizza in alcun modo uno Stato membro, che agisca a titolo individuale nell’ambito della sua partecipazione ad un’organizzazione internazionale, ad assumere impegni atti ad incidere su norme comunitarie adottate per perseguire gli scopi del Trattato» (punto 30), o anche solo, com’era nel caso specifico, a presentare unilateralmente una proposta idonea ad avviare un processo che può condurre all’adozione, da parte di quell’organizzazione, di norme che incidano sulla competenza dell’Unione (punto 21).
È indubbio, tuttavia, che in tutti questi casi il pieno rispetto delle competenze dell’Unione in materia di stipulazione di accordi internazionali sarebbe meglio assicurato attraverso una formale adesione a pieno titolo dell’Unione a quella data organizzazione. Un’ipotesi del genere rientra pienamente nelle previsioni dei Trattati. Infatti, anche se nulla di esplicito è da essi detto al riguardo, la manifestazione di volontà diretta all’acquisto della qualità di membro di un’organizzazione internazionale può senz’altro aversi sulla base delle norme e delle procedure precedentemente analizzate, che regolano l’esercizio della competenza a stipulare dell’Unione, dato che tale manifestazione di volontà non è altro che l’elemento costitutivo di un accordo. Come la Corte di giustizia ha avuto occasione di affermare, infatti, in base alle competenze esterne di cui dispone l’Unione «ha non solo la capacità di stringere […] rapporti contrattuali con uno Stato terzo, ma anche la competenza, nel rispetto del Trattato, a concorrere con tale Stato alla creazione di una struttura organica» (Corte giust., parere 1/76, cit., punto 5). E anche in tal caso il fondamento giuridico della partecipazione organica a una determinata organizzazione internazionale andrà individuato, alla stregua di tutti gli altri accordi stipulabili dall’Unione, con riferimento alle materie su cui incide l’attività di quella specifica organizzazione. A causa degli ostacoli tecnici per lo più presenti negli statuti delle varie organizzazioni internazionali – questi non contemplano in genere l’ammissione di enti diversi dagli Stati –, ma anche delle reticenze politiche degli Stati membri a consentire questo passo all’Unione, finora la possibilità della formale adesione dell’Unione a un’organizzazione internazionale si è realizzata in pochi casi. L’adesione non ha sempre implicato, peraltro, l’attribuzione all’Unione di diritti pienamente corrispondenti a quelli spettanti agli altri membri dell’organizzazione. Se in sporadici casi, infatti, l’Unione ha ottenuto una partecipazione a titolo esclusivo al posto dei propri Stati membri, per lo più tale partecipazione è stata consentita a titolo cumulativo, in aggiunta cioè a quella degli Stati. Un (raro) esempio di partecipazione dell’Unione a titolo esclusivo è quello dell’ICCAT (International Convention for the Conservation of Atlantic Tunas), in GUCE L 162/1986, 34. La seconda ipotesi ricorre, invece, nel caso della partecipazione dell’Unione alla FAO (cui l’Unione ha aderito il 26 novembre 1991 a seguito di un’apposita modifica apportata alla Costituzione dell’Organizzazione), all’OMC (di cui l’Unione è membro originario, essendovi entrata fin dall’inizio, come Comunità europea, sulla base dell’art. XI dell’Accordo istitutivo di tale organizzazione) e alla Conferenza dell’Aia di diritto internazionale privato (l’adesione dell’Unione alla Conferenza, che è un’organizzazione intergovernativa internazionale che elabora accordi multilaterali in materia di diritto internazionale privato, è avvenuta con la dec. 2006/719/CE del Consiglio, del 5 ottobre 2006, GUUE L 297, 1, e a seguito della modifica dello Statuto della Conferenza, il cui nuovo art. 2
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A ha aperto alla partecipazione ad essa anche di c.d. Regional Economic Integration Organisations). Rispetto a queste tre organizzazioni il principio che regola la partecipazione congiunta dell’Unione e dei suoi Stati membri, è quello dell’esercizio alternativo dei diritti legati allo status di membro dell’organizzazione. Nel caso della FAO, ad esempio, a seconda delle rispettive competenze, quali indicate in un’apposita dichiarazione prodotta al momento dell’adesione, tali diritti, e in specie quelli di voto, vengono esercitati o dall’Unione o dai suoi Stati membri: se, cioè, un data questione rientra nelle competenze dell’Unione, sarà questa che voterà al posto degli Stati membri, esprimendo un numero di voti pari al totale di quelli detenuti da questi ultimi (art. II della Costituzione della FAO). Identica regola vale nell’OMC e nella Conferenza dell’Aia di diritto internazionale privato.
Va infine osservato che, anche laddove essa sia possibile in base alle regole dell’organizzazione interessata, l’adesione dell’Unione a organizzazioni internazionali o ad organi previsti da convenzioni con paesi terzi deve in ogni caso tener conto della specificità proprie dell’Unione, e in particolare del suo sistema istituzionale e del suo diritto. Da queste specificità potrebbero derivare infatti problemi per quel che riguarda la compatibilità o meno con i Trattati dei poteri dell’ente del quale l’Unione acquisti la qualità di membro. Nulla vieta in linea di principio, evidentemente, che l’Unione possa concorrere «a dotare gli organi […] di un ente di congrui poteri di decisione» (Corte giust., parere 1/76, cit., punto 5). Ma, come ha chiarito la Corte, la sua competenza a partecipare ad organizzazioni internazionali trova un limite nel divieto di modificare la sua «costituzione interna attraverso l’alterazione di elementi essenziale della struttura comunitaria per quanto riguarda le prerogative delle istituzioni, il processo di decisione nell’ambito di queste e la posizione reciproca degli Stati membri» (ivi, punto 12).
CAPITOLO II
I singoli settori dell’azione esterna Sommario: 1. La politica estera e di sicurezza comune. I profili generali. – 2. Segue: I meccanismi di funzionamento. – 3. La politica di sicurezza e di difesa comune. – 4. La politica commerciale comune. Portata e natura della competenza dell’Unione. – 5. Segue: Gli strumenti della politica commerciale. – 6. La cooperazione allo sviluppo. La cooperazione economica, finanziaria e tecnica con paesi terzi. L’aiuto umanitario. – 7. La clausola di solidarietà.
1. La politica estera e di sicurezza comune. I profili generali L’art. 2, par. 4, TFUE prevede che «l’Unione ha competenza […] per definire e attuare una politica estera e di sicurezza comune [PESC], compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune». Come si è più volte ricordato nel Capitolo precedente, questa politica costituisce il primo dei settori dell’azione esterna dell’Unione europea. Essa è però anche il settore con il quale quest’azione evidentemente più coincide. Ambedue, infatti, appaiono identificate più dalla loro finalità, peraltro identica (il ruolo dell’Unione come attore globale), che da competenze materiali o contenuti loro specifici: l’azione esterna è fatta di un insieme complesso e potenzialmente assai vasto di attività delle istituzioni collegate tra loro principalmente dal fatto di contribuire, singolarmente o in combinazione reciproca, alla partecipazione dell’Unione alla vita di relazione internazionale; in modo per certi versi analogo, la PESC finisce in molti casi, come si è già detto, per perseguire questa stessa finalità attraverso iniziative caratterizzate da contenuti riconducibili, sul piano sostanziale, ad altri settori di attività dell’Unione. Tutto ciò non consente di individuare con certezza i confini della competenza attribuita all’Unione sulla base del citato art. 2 TFUE. Gli stessi Trattati, del resto, nel definire questa competenza non fanno che dare atto, con affermazione in buona parte ovvia, che «[l]a competenza dell’Unione in materia di politica estera e di sicurezza comune riguarda tutti i settori della politica estera e tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune che può condurre a una difesa comune» (art. 24, par. 1, comma 1, TUE). Certo, da questa definizione emerge una componente almeno della PESC, quella militare e di difesa, che si identifica con contenuti propri, che la individuano anzi, co-
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me vedremo nel paragrafo successivo, quasi come una politica a se stante all’interno della stessa PESC. Ma, ferma restando questa eccezione, il riferimento generico ai settori della politica estera operato dall’articolo in questione non traccia un confine immediatamente evidente tra la PESC e le altre politiche dell’Unione. Né aiuta a tracciarlo l’assenza di obiettivi specifici della PESC in quanto tale. Mentre nei precedenti Trattati essa perseguiva infatti obiettivi propri, riassunti nell’art. 11, par. 1, TUE pre-Lisbona, questi stessi sono diventati oggi, opportunamente integrati, obiettivi generali dell’azione esterna nel suo complesso e quindi anche delle componenti di questa diverse dalla PESC. Si è d’altra parte già sottolineato che l’individuazione del confine tra quest’ultima e le altre politiche dell’Unione appare indispensabile, come ricorda l’art. 40 TUE, per il fatto che l’attuazione della PESC «lascia impregiudicata l’applicazione delle procedure e la rispettiva portata delle attribuzioni previste dai Trattati per l’esercizio delle [altre] competenze dell’Unione» (par. 1) e viceversa (par. 2). Ciò può obbligare, di fronte, ad esempio, ad un accordo internazionale che abbia contenuti riconducibili ad una materia oggetto di una politica dell’Unione diversa dalla PESC, a determinare se lo stesso sia da ritenere un accordo rientrante nel settore della PESC o, al contrario, un accordo volto a dare attuazione, nei rapporti con uno o più paesi terzi, a quella politica materiale dell’Unione. Un esempio è fornito da due accordi del 2011 e del 2014, relativi alle condizioni del trasferimento rispettivamente alla repubblica di Mauritius e alla Tanzania delle persone sospettate di atti di pirateria da parte della forza navale diretta dall’Unione europea nell’ambito della missione di contrasto alla pirateria al largo delle coste della Somalia (c.d. missione Atalanta), i quali sono stati oggetto di due sentenze della Corte (24 giugno 2014, C-658/11, Parlamento c. Consiglio, e 14 giugno 2016, C-263/14, Parlamento c. Consiglio). Le stesse ne hanno certificato la natura PESC, pur contenendo essi, prevalentemente, disposizioni attinenti ad altri settori di attività dell’Unione: disposizioni di cooperazione giudiziaria in materia penale (assistenza alle autorità dei due paesi terzi ai fini dell’indagine e dell’azione giudiziaria nei confronti delle persone trasferite, regime delle notifiche, trattamento degli elementi di prova e produzione delle testimonianze), di cooperazione di polizia (trasmissione della documentazione relativa al fermo delle persone trasferite), e di cooperazione allo sviluppo (assistenza tecnica e logistica alla controparte nei settori della legislazione, della formazione dei giudici, ecc.).
Il criterio di valutazione va probabilmente indicato proprio in una considerazione dei contenuti dell’accordo in funzione degli obiettivi perseguiti: misure che tocchino una materia rientrante in un settore di competenza dell’Unione dovrebbero essere cioè ritenute effettivamente riconducibili a quel settore e non alla PESC, solo laddove esse, abbiano o meno dimensione interna o esterna, siano dirette a realizzare uno degli obiettivi per i quali quella competenza è stata attribuita all’Unione e quindi comunque a completare, seppur nel quadro di un rapporto convenzionale con paesi terzi, la disciplina interna di quella materia. Certamente questo criterio risulterebbe difficilmente applicabile per delimitare il rispettivo raggio d’azione tra un’azione PESC e un’azione realizzata nel quadro di una delle altre politiche specificamente ricomprese nell’azione esterna dell’Unione, dato che queste hanno nel rapporto dell’Unione con paesi terzi la loro stessa ragion d’essere (politica commerciale, coope-
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razione allo sviluppo, ecc.). È però ragionevole ritenere che in questo caso soccorrerebbe ai fini di quella delimitazione il principio, più volte ribadito dalla Corte di giustizia, della prevalenza di una competenza specifica su quella generale, nel senso che «laddove esista nel Trattato una disposizione più specifica che possa costituire il fondamento giuridico dell’atto di cui trattasi, quest’ultimo deve fondarsi su tale disposizione» (Corte giust. 6 novembre 2008, C-155/07, Parlamento c. Consiglio, I8103, punto 34 e giurisprudenza ivi citata). L’esigenza di una delimitazione puntuale tra gli ambiti di applicazione rispettivi della PESC e delle altre politiche dell’Unione, imposta dalla citata clausola di «non interferenza» reciproca contenuta nell’art. 40 TUE, trova la sua motivazione nella circostanza, più volte ricordata, che anche dopo il Trattato di Lisbona la PESC rimane «soggetta a norme e procedure specifiche» (art. 24, par. 1, comma 2, TUE), i cui elementi essenziali sono peraltro riassuntivamente elencati in questo stesso articolo: il potere decisionale è riservato unicamente alle due istituzioni intergovernative, Consiglio europeo e Consiglio, che lo esercitano, per regola, all’unanimità e con atti esplicitamente non legislativi; l’attuazione è affidata all’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, mentre Parlamento europeo e Commissione risultano relegati in ruoli marginali; la Corte di giustizia non dispone infine di competenze rispetto al settore della PESC in quanto tale. Vedremo tra poco come queste «specificità» risultano declinate nel dettaglio dei meccanismi di funzionamento della PESC. Va subito detto, invece, che il loro mantenimento, pur nella cornice unitaria dell’azione esterna, riflette evidentemente la perdurante volontà degli Stati membri di preservare il loro controllo sulla dimensione più squisitamente politica (e militare) di tale azione, se non di limitarne l’effettiva portata. Ciò per certi versi non deve stupire: da un lato, quella dimensione è al cuore della sovranità degli Stati membri, dei quali conforma per certi versi finanche l’identità costituzionale; dall’altro lato, la loro rispettiva posizione sulla scena internazionale è probabilmente troppo differente in termini politici e di potenza (passato ex coloniale o meno, titolarità o meno di un seggio permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, disponibilità o meno di arsenale nucleare, ecc.) per consentire una loro effettiva comunanza di interessi su tutte le questioni che si presentano su quella scena. La conseguenza è che gli Stati non solo si sono riservati, attraverso le «norme e procedure specifiche» sopra citate, un ruolo determinante nella definizione e conduzione della PESC da parte delle istituzioni, ma sono anche rimasti attori a pieno titolo della scena internazionale, conservando la responsabilità delle rispettive politiche estere. Due dichiarazioni allegate ai Trattati, ambedue relative alla PESC, lo confermano espressamente, precisando concordemente, e in maniera netta, che le disposizioni del TUE riguardanti questa politica «lasciano impregiudicate sia le competenze degli Stati membri, quali esistono attualmente, per la formulazione e la conduzione della loro politica estera sia la loro rappresentanza nazionale nei paesi terzi e nelle organizzazioni internazionali» (Dichiarazione n. 13); e che le stesse «non incidono» sui poteri e le responsabilità che derivano agli Stati dalla partecipazione a tali organizzazioni, «compresa l’appartenenza di uno Stato membro al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite» (Dichiarazione n. 14). Ma, soprattutto, non poche delle dispo-
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sizioni sulla PESC contenute nel TUE si rivolgono in realtà proprio agli Stati membri nella loro veste di gestori delle rispettive politiche estere. Già l’art. 24 TUE, infatti, lascia subito intendere che la PESC non si sostituisce alle politiche estere nazionali, visto che «[n]el quadro dei principi e degli obiettivi dell’azione esterna, l’Unione conduce, stabilisce e attua una politica estera e di sicurezza comune fondata […] sulla realizzazione di un livello sempre maggiore di convergenza delle azioni degli Stati membri» (par. 2). Lo stesso articolo invita anzi gli Stati membri, da un lato, a sostenere «attivamente e senza riserve la politica estera e di sicurezza dell’Unione in uno spirito di lealtà e solidarietà reciproca e [a rispettare] l’azione dell’Unione in questo settore» (par. 3, comma 1), e, dall’altro, a operare «congiuntamente per rafforzare e sviluppare la loro reciproca solidarietà politica», astenendosi «da qualsiasi azione contraria agli interessi dell’Unione o tale da nuocere alla sua efficacia come elemento di coesione nelle relazioni internazionali» (par. 3, comma 2). È poi previsto che gli Stati debbano consultarsi «in sede di Consiglio europeo e di Consiglio in merito a qualsiasi questione di politica estera e di sicurezza di interesse generale per definire un approccio comune», in particolare prima «di intraprendere qualsiasi azione sulla scena internazionale o di assumere qualsiasi impegno che possa ledere gli interessi dell’Unione»; così come essi devono assicurare, «mediante la convergenza delle loro azioni, che l’Unione possa affermare i suoi interessi e i suoi valori sulla scena internazionale» (art. 32, comma 1, TUE). Infine, gli Stati membri sono tenuti a coordinare «la propria azione nelle organizzazioni internazionali e in occasione di conferenze internazionali», e se rappresentati in organizzazioni internazionali o conferenze internazionali alle quali non tutti gli Stati membri partecipano, a tenere «informati questi ultimi e l’Alto Rappresentante in merito ad ogni questione di interesse comune»; allo stesso modo, in particolare, gli Stati membri che sono anche membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite devono concertarsi e tenere «pienamente informati gli altri Stati membri e l’Alto Rappresentante» (art. 34, parr. 1 e 2, TUE). Il risultato è che difficilmente la PESC può definirsi una vera e propria politica comune, visto che la sua missione principale sembra essere più quella di coordinare le politiche estere nazionali, che di affermarne una sua propria. Lo stesso rafforzamento progressivamente assicurato ai suoi meccanismi di funzionamento dalle successive revisioni dei Trattati, è sembrato diretto soprattutto a rendere possibile un maggior numero di iniziative comuni in questo settore, vincolando gli Stati membri ad una convergenza quanto più stretta delle loro politiche estere, piuttosto che a dar vita ad una effettiva politica comune.
2. Segue: I meccanismi di funzionamento Fermo restando quanto appena osservato, passiamo a esaminare i meccanismi di funzionamento della PESC. Questi sono descritti in un apposito Capo del Titolo dedicato dal TUE all’azione esterna dell’Unione, Capo che è a sua volta suddiviso in due sezioni, una contenente le disposizioni «comuni» alla politica estera e alle questioni della sicurezza, l’altra riguardante specificamente la componente militare e di
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difesa della PESC. In realtà, se si escludono talune norme concernenti anche i temi oggetto di questa seconda sezione, la prima appare principalmente concentrata sulla politica estera in quanto tale. E il quadro che ne esce è appunto quello di un settore di attività dell’Unione governato, sulla base del c.d. metodo intergovernativo, da un apparato istituzionale essenziale e attraverso procedure e regole di voto altrettanto essenziali. Il punto di partenza è che, secondo quanto previsto dall’art. 26 TUE, la PESC è chiamata a svilupparsi sulla base di interessi strategici, obiettivi e orientamenti generali ad essa specifici, individuati e stabiliti dal Consiglio europeo con apposite decisioni, adottate all’unanimità e alla luce degli interessi e degli obiettivi generali dell’azione esterna da esso stesso indicati ai sensi dell’art. 22 TUE. E in chiave ugualmente di indirizzo politico generale, spetta sempre al Consiglio europeo definire, con le stesse modalità, le linee strategiche da seguire di fronte al prodursi di sviluppi internazionali imprevisti, quale, ad esempio, una improvvisa situazione di tensione tra Stati o di crisi internazionale. È invece compito del Consiglio, nella sua formazione «Affari esteri», prendere le decisioni necessarie a condurre nel concreto la politica estera dell’Unione sulla base degli orientamenti generali e delle linee strategiche di cui sopra (art. 26, par. 2, TUE). A questo fine il Consiglio può adottare, come recita l’art. 25, lett. b), TUE, decisioni che definiscono le azioni che l’Unione deve intraprendere, decisioni che definiscono le posizioni da assumere e decisioni che definiscono le modalità di attuazione dei due precedenti tipi di decisione. Questi contenuti tipici, che ricalcano, come si è visto, la sostanza della preesistente tipologia degli atti PESC, appaiono strettamente funzionali al tipo di attività che l’Unione può essere chiamata a svolgere in questo settore. Attraverso le decisioni che definiscono una posizione dell’Unione, infatti, viene fissato l’atteggiamento di questa rispetto ad una «questione particolare di natura geografica o tematica» di politica internazionale (art. 29 TUE). Su questa base, che è servita in passato di fondamento, ad esempio, alla definizione della posizione dell’Unione rispetto alla situazione di determinati paesi terzi (in questo senso si vedano le posizioni comuni 2001/56/PESC, del 22 gennaio 2001, relativa all’Afghanistan, GUCE L 21, 1, e 2000/391/PESC, del 19 giugno 2000, sull’Angola, GUCE L 146, 1), sono state adottate tra le altre, dopo Lisbona, decisioni riguardanti la posizione da tenere nel quadro di una determinata conferenza internazionale multilaterale (cfr. per tutte la dec. 2010/212/PESC del Consiglio, del 29 marzo 2010, relativa alla posizione dell’Unione europea per la conferenza di revisione del 2010 delle parti del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, GUUE L 90, 8; e la dec. 2015/2096/PESC del Consiglio, del 16 novembre 2015, sulla posizione dell’Unione europea relativa all’ottava conferenza di revisione della convenzione sull’interdizione della messa a punto, produzione e immagazzinamento delle armi batteriologiche (biologiche) e tossiniche e sulla loro distruzione (BTWC), GUUE L 303, 13), o il modo di trattare una specifica vicenda internazionale (così ad es. la dec. 2011/845/PESC del Consiglio, del 16 dicembre 2011, sull’accoglienza temporanea di alcuni palestinesi da parte di Stati membri dell’UE, GUUE L 335, 78). Ma, con una lettura dell’articolo che ribadisce una prassi sviluppatasi già con riferimento alle posizioni comuni previste dal precedente TUE, si è avuto anche un uso decisamente più puntuale e meno politico di questo stesso tipo di decisioni: attraverso esse, infatti, l’Unione ha adottato anche, di propria iniziativa o su impulso del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sanzioni economiche o politiche nei confronti di paesi terzi o di persone fisiche o giuridiche: si vedano per tutte la dec. 2011/137/PESC del Consiglio,
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del 28 febbraio 2011, concernente misure restrittive in considerazione della situazione in Libia (GUUE L 58, 53) e la più recente dec. 2016/849/PESC del Consiglio, del 27 maggio 2016, relativa a misure restrittive nei confronti della Repubblica popolare democratica di Corea (GUUE L 141, 79); ma cfr. anche, con riferimento in questo caso però solo a individui, la dec. 2014/119/PESC del Consiglio, del 5 marzo 2014, relativa a misure restrittive nei confronti di talune persone, entità e organismi in considerazione della situazione in Ucraina (GUUE L 66, 26) e, da ultimo, la dec. 2016/1693/PESC del Consiglio, del 20 settembre 2016, concernente misure restrittive nei confronti dell’ISIL (Dàesh) e di Al Qaeda e di persone, gruppi, imprese ed entità a essi associati (GUUE L 255, 25).
Le posizioni dell’Unione definite dal Consiglio con una decisione assunta ai sensi dell’art. 29 TUE vincolano gli Stati membri nella loro azione sulla scena internazionale. Essi sono infatti tenuti a conformarvi le rispettive politiche nazionali (come precisa questo stesso articolo) e a difenderle nelle organizzazioni e nelle conferenze internazionali cui partecipano (art. 34, par. 1, TUE). A ciò sono in particolare chiamati gli Stati membri che sono membri del Consiglio di sicurezza, «fatte salve le responsabilità che loro incombono in forza delle disposizioni della Carta delle Nazioni Unite» (art. 34, par. 2, comma 2, TUE); all’interno del Consiglio di sicurezza, anzi, quando l’Unione abbia definito una posizione su un tema all’ordine del giorno dello stesso, «gli Stati membri che vi partecipano chiedono che l’Alto Rappresentante sia invitato a presentare la posizione dell’Unione» (art. 34, par. 2, comma 3, TUE). Venendo invece alle decisioni che definiscono un’azione dell’Unione, lo strumento appare in linea di principio finalizzato a realizzare «un intervento operativo» dell’Unione in una specifica situazione, specificandone gli obiettivi, la portata, i mezzi e le condizioni di attuazione, oltre che, eventualmente, la durata (art. 28, par. 1, TUE). Se ne vedano degli esempi nella dec. 2017/633/PESC del Consiglio, del 3 aprile 2017, a sostegno del programma d’azione delle Nazioni Unite per prevenire, combattere e sradicare il commercio illecito di armi leggere e di piccolo calibro in tutti i suoi aspetti (GU L 90, 12) e nella dec. 2017/915/PESC del Consiglio, del 29 maggio 2017, relativa alle attività di sensibilizzazione dell’Unione a sostegno dell’attuazione del trattato sul commercio di armi (GUUE L 139, 38). Non sono mancate però, sulla base dell’art. 28 TUE, anche decisioni di carattere più istituzionale che operativo, quale la dec. 2014/75/PESC del Consiglio, del 10 febbraio 2014, sull’Istituto dell’Unione europea per gli studi sulla sicurezza (GUUE L 41, 13) o la 2016/2382/PESC del Consiglio, del 21 dicembre 2016, che istituisce l’Accademia europea per la sicurezza e la difesa (AESD) (GU L 352, 60).
I vincoli che derivano da una decisione di questo tipo in capo agli Stati membri, i quali devono conformarvi le proprie posizioni e azioni (par. 2), sono precisi: qualsiasi posizione o azione nazionale da prendere in attuazione della decisione del Consiglio deve essere preliminarmente comunicata a quest’ultimo, perché esso possa, se del caso, procedere a una concertazione al suo interno prima della messa in atto da parte dello Stato membro (par. 3); in caso poi di difficoltà rilevanti incontrate da uno Stato membro nell’applicare la decisione, questo deve investire della questione il Consiglio, cui solo spetta individuare le soluzioni appropriate che non pregiudichino gli obiettivi e l’efficacia della stessa (par. 5); gli Stati membri, infine, possono sì prendere d’urgenza misure nazionali «[i]n caso di assoluta necessità connessa con l’evoluzione della situazione e in mancanza di una revisione della decisione del Consiglio», ma essi devono comunque informarne immediatamente il Consiglio (par. 4).
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La possibilità di adottare misure nazionali, consentita in quest’ultima ipotesi, attenua in parte un possibile effetto della previsione che, nell’attribuire al Consiglio il compito di rivedere i principi e gli obiettivi di una decisione che definisce un’azione in presenza di un mutamento delle circostanze tale da avere una netta incidenza sulla questione oggetto della decisione, lascia questa in vigore fino a quando il Consiglio non abbia deliberato (par. 1, comma 2). Ciò appare giustificato, nella logica del sistema, dalla volontà di evitare che, come avviene invece nel diritto internazionale, uno Stato possa invocare un mutamento delle circostanze per svincolarsi unilateralmente dagli obblighi posti dalla decisione del Consiglio. Ma, d’altra parte, la circostanza che quest’ultimo debba votare all’unanimità dà il potere anche a un singolo Stato membro di bloccare una modifica della decisione in questione, pur in presenza di un effettivo mutamento delle circostanze che avevano portato alla sua adozione.
Al pari di quanto previsto per il Consiglio europeo, il Consiglio è chiamato a prendere le decisioni di cui sopra deliberando all’unanimità. Per ambedue, infatti, è questa la regola generale di voto nel settore della PESC. Con una parziale deroga da questa regola, però, nel caso del solo Consiglio l’astensione di un membro non solo può non ostare, come previsto in via generale dall’art. 238, par. 4, TFUE, al raggiungimento dell’unanimità, ma può anche escludere, a certe condizioni, l’applicabilità della decisione allo Stato che si è astenuto. Si tratta della già ricordata «astensione costruttiva» prevista dall’art. 31, par. 1, comma 2, TUE, ai sensi della quale se uno Stato accompagna la sua astensione in Consiglio con una dichiarazione formale di non voler essere vincolato da una decisione di questo, esso non sarà destinatario dei conseguenti obblighi. Ciò consente che un’azione dell’Unione nell’ambito PESC non sia necessariamente bloccata dal fatto che uno o più Stati non sono disponibili a impegnarvisi. Come si è ugualmente già ricordato, però, per evitare che tale azione trovi un sostegno troppo limitato per giustificarne l’effettiva messa in atto, lo stesso articolo pone una soglia alle astensioni costruttive esprimibili, nel senso che quando vi fanno ricorso almeno un terzo dei membri del Consiglio che totalizzano almeno un terzo della popolazione dell’Unione, la decisione si considera comunque non adottata. Se l’unanimità è la regola di voto generalmente da applicare nel quadro della PESC, ciò non significa che il Consiglio non possa comunque, in alcuni casi espressamente previsti, deliberare anche qui a maggioranza qualificata. Esso può farvi in particolare ricorso, per espressa previsione del TUE (art. 31, par. 2, comma 1, TUE), quando adotta decisioni che definiscono un’azione o una posizione dell’Unione in base a una proposta dell’Alto Rappresentante, presentata in seguito a una richiesta specifica rivolta a quest’ultimo dal Consiglio europeo, ovvero nel caso di decisioni che attuano precedenti decisioni dello stesso Consiglio o del Consiglio europeo; o ancora per decidere la nomina di un rappresentante speciale dell’Unione. Senza contare poi che il Consiglio europeo può decidere all’unanimità che il Consiglio possa deliberare a maggioranza anche in casi ulteriori rispetto a quelli appena citati (art. 31, par. 3, TUE). Per quanto riguarda le decisioni di attuazione di precedenti decisioni, esse sono quelle che definiscono un’azione o una posizione dell’Unione sulla base di una decisione del Consiglio europeo relativa agli interessi e obiettivi strategici dell’Unione (primo trattino) e delle decisioni relative all’attuazione di una decisione che definisce un’azione o una posizione dell’Unione (terzo trattino). Dato che il rapporto tra la misura di attuazione e l’atto o gli atti della cui attuazione si tratti si
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inquadra nell’ambito delle previsioni di cui all’art. 291 TFUE (se ne veda il par. 2 e supra, p. 213 ss.), il ricorso alla maggioranza qualificata per l’adozione dell’atto di attuazione in tanto si giustifica, in quanto lo stesso rimanga nei limiti di quanto previsto dall’atto da attuare. Per un es., dec. di esecuzione 2011/156/PESC del Consiglio, del 10 marzo 2011, che attua la dec. 2011/137/PESC concernente misure restrittive in considerazione della situazione in Libia (GUUE L 64, 29). È appena il caso di segnalare, inoltre, che anche nell’ambito della PESC il Consiglio delibera a maggioranza semplice quando decide di questioni di mera procedura (art. 31, par. 5, TUE).
È tuttavia previsto, a parziale attenuazione di questa apertura alla regola della maggioranza qualificata, che uno Stato membro possa opporsi «per specificati e vitali motivi di politica nazionale» all’adozione con tale maggioranza di una decisione da parte del Consiglio (art. 31, par. 2, comma 2, TUE). In tal caso, non si procede alla votazione e l’Alto Rappresentante deve cercare con questo Stato una soluzione di compromesso che gli consenta di dare il via libera alla decisione del Consiglio. E se il tentativo non ha successo, il Consiglio può chiedere (comunque a maggioranza qualificata) che della questione sia investito il Consiglio europeo, affinché lo stesso si pronunci all’unanimità: è da pensare che la conseguente decisione del Consiglio europeo possa consistere anch’essa nell’indicazione al Consiglio di una soluzione di compromesso accettabile anche per lo Stato membro che si era opposto alla maggioranza qualificata. Anche per quanto riguarda l’iniziativa normativa, la PESC si differenzia dagli altri settori di competenza dell’Unione. Già in passato, benché fosse previsto che la Commissione (o uno Stato membro) potesse presentargli proposte, il Consiglio adottava queste decisioni sempre su impulso della sua presidenza, nel senso che era questa che provvedeva di regola a formalizzare in un testo anche eventuali suggerimenti o proposte provenienti da Stati membri o dalla Commissione. Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, fermo restando il potere di proposta degli Stati membri, la Commissione è stata invece formalmente rimpiazzata nel suo ruolo d’iniziativa dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, restandole ormai solo la possibilità di dare il suo appoggio alle proposte di quest’ultimo. D’altra parte, il riconoscimento all’Alto Rappresentante del potere d’iniziativa non rappresenta un’effettiva innovazione, visto che esso è, in linea di continuità con la prassi precedente, anche il Presidente del Consiglio Affari esteri. Nell’ambito della nuova disciplina, anzi, lo stimolo a concentrare ancor più nelle mani dell’Alto Rappresentante/Presidente del Consiglio il potere d’iniziativa viene certamente dal fatto che, come abbiamo appena detto, delibere prese dal Consiglio sulla base di una sua proposta sono, a certe condizioni, soggette ad una modalità di voto meno gravosa. Se la Commissione in quanto tale si trova quindi sostanzialmente estromessa dai meccanismi di funzionamento della PESC, potendo solo associarsi alle proposte dell’Alto Rappresentante, un ruolo appena un poco più significativo è riconosciuto al Parlamento europeo. Esso è infatti chiamato a esprimere la sua opinione, su iniziativa dell’Alto Rappresentante, unicamente con riguardo ai principali aspetti e alle scelte fondamentali della PESC (art. 36, comma 1, TUE). Al contrario, sulle singole decisioni del Consiglio (e del Consiglio europeo) prese nel quadro della PESC, non è prevista alcuna sua consultazione, con la sola eccezione della decisione che il Consiglio può prendere per stabilire le procedure specifiche per garantire il rapido acces-
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so agli stanziamenti del bilancio dell’Unione destinati al finanziamento urgente di iniziative nel quadro della PESC, e in particolare al finanziamento di una missione dell’Unione (art. 41, par. 3, TUE). Per il resto, il Parlamento europeo può tenere dibattiti sui progressi di questa e rivolgere interrogazioni o formulare raccomandazioni al Consiglio e all’Alto Rappresentante (art. 36, comma 2, TUE). Quanto infine alla Corte di giustizia, abbiamo già ricordato come una sua competenza rispetto alla PESC e agli atti adottati sulla base di questa sia espressamente esclusa, in via generale, dagli artt. 24 TUE e 275 TFUE, essendole consentito di pronunciarsi solo sul rispetto della clausola di non interferenza reciproca dell’art. 40 TUE e sulla legittimità di misure restrittive prese nei confronti di individui. Il Consiglio europeo e il Consiglio sono in compenso affiancati, nella gestione della PESC, dall’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. A questa figura istituzionale, creata con il Trattato di Lisbona e le cui caratteristiche essenziali sono state già esaminate (p. 100 s.), spetta infatti il compito, da un lato, di contribuire con le proprie proposte all’elaborazione della PESC (art. 27, par. 1, TUE) e, dall’altro, di attuare questa, ricorrendo ai mezzi nazionali e a quelli dell’Unione (art. 26, par. 3, TUE). Sotto quest’ultimo profilo, l’Alto Rappresentante appare per certi versi come il braccio operativo di questo settore dell’azione esterna dell’Unione: esso «assicura l’attuazione delle decisioni adottate dal Consiglio europeo e dal Consiglio» (art. 27, par. 1, TUE); conduce nelle materie della PESC il dialogo politico con i paesi terzi ed esprime, in relazione ad esse, la posizione dell’Unione nelle organizzazioni internazionali e in seno alle conferenze internazionali (art. 27, par. 2, TUE); convoca d’urgenza il Consiglio «Affari esteri» in caso di emergenze internazionali (art. 30, par. 2, TUE); assicura il coordinamento degli Stati membri tanto nelle organizzazioni e nelle conferenze internazionali, che ai fini della definizione e applicazione di eventuali approcci comuni elaborati dagli stessi, in sede di Consiglio europeo o di Consiglio, su questioni di politica estera e di sicurezza di interesse generale (art. 32 TUE). Un ruolo essenziale nelle attività legate alla PESC è poi svolto dal Comitato Politico e di Sicurezza (COPS), organo permanente del Consiglio previsto dall’art. 38 TUE, che monitora la situazione internazionale fornendo pareri al Consiglio al fine di contribuire alla definizione delle politiche e preparandone i lavori. Composto da rappresentanti permanenti degli Stati membri per la PESC, esso opera formalmente sotto l’autorità del COREPER, anche se, in realtà, quest’ultimo si limita per lo più a trasmettere direttamente al Consiglio, senza ulteriore discussione, i dossier istruiti dal COPS. Va infine osservato che l’Alto Rappresentante può avvalersi per questioni relative a determinate aree geografiche o a temi specifici di «rappresentanti speciali» dell’Unione, nominati dal Consiglio su sua proposta. La figura dei rappresentanti speciali è prevista dall’art. 33 TUE. I rappresentanti speciali (attualmente in numero di 9) esercitano il loro mandato sotto l’autorità dell’Alto Rappresentante. Per un es. recente di rappresentanti speciali con mandato tematico si vedano la dec. (PESC) 2015/599 del Consiglio, del 15 aprile 2015, che nomina l’italiano Fernando Gentilini rappresentante speciale dell’Unione europea per il processo di pace in Medio Oriente (GUUE L 99, 29), prorogato con dec. (PESC) 2017/380 del Consiglio del 3 marzo 2017 (GUUE L 58, 29); e la dec.
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2012/440/PESC del Consiglio, del 25 luglio 2012, che nomina il rappresentante speciale dell’UE per i diritti umani (GUUE L 200, 21), prorogato da ultimo con dec. (PESC) 2017/346 del Consiglio, del 27 febbraio 2017 (GUUE L 50, 66). Più numerosi sono i rappresentanti speciali «geografici»: per un es. recente cfr. la dec. 2015/2274 del Consiglio, del 7 dicembre 2015, che nomina il rappresentante speciale dell’UE per il Sahel (GUUE L 322, 44).
3. La politica di sicurezza e di difesa comune La dimensione militare e della difesa è stata presente fin dalle origini tra gli obiettivi del processo d’integrazione europea. Come si è ricordato all’inizio di questo volume, in contemporanea con l’istituzione della CECA vi fu addirittura il tentativo di dar vita a una Comunità europea di difesa (CED), che avrebbe dovuto portare alla creazione di un esercito comune europeo. Si trattava, infatti, di un progetto di collaborazione militare tra gli Stati europei, il cui Trattato istitutivo, firmato il 27 maggio 1952, fu bloccato dalla mancata ratifica da parte della Francia. Il Trattato prevedeva l’integrazione dei corpi d’armata degli originari sei Stati membri (Italia, Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi) in forze armate della Comunità denominate «Forze Europee di Difesa» sottoposte al comando di un Commissariato, nominato di comune accordo dai governi degli Stati membri e investito di poteri di azione e di controllo. Esso sarebbe stato assistito nel suo operato da un’Assemblea e da un Consiglio dei Ministri, mentre la Corte di giustizia della CECA lo avrebbe controllato.
Per la verità, il fallimento dell’iniziale tentativo di creare la CED di quel tentativo portò dapprima a riorientare la cooperazione in questi settori all’interno della preesistente Unione dell’Europea occidentale (UEO), organizzazione internazionale regionale di sicurezza militare e cooperazione politica che vedeva la partecipazione di Stati membri tanto della allora CEE, che della NATO, e i cui obiettivi annoveravano anche quello della definizione di un’identità europea di difesa e della graduale armonizzazione delle relative politiche. Ma proprio attraverso la UEO la dimensione militare e di difesa fu progressivamente recuperata nell’alveo del processo di integrazione europea. Quando con il Trattato di Maastricht furono poste le fondamenta di una politica estera comune, ricomprendendo al suo interno quella dimensione quale strumento indispensabile per rafforzare la «sicurezza dell’Unione e dei suoi Stati membri in tutte le sue forme», l’azione al riguardo dell’appena istituita Unione europea fu infatti incentrata su un coinvolgimento diretto dell’UEO, di cui si chiedeva la collaborazione nell’attuazione delle decisioni e delle azioni dell’Unione «aventi implicazioni in materia di difesa» (art. J.4, par. 2). Con il Trattato di Amsterdam, poi, il rapporto tra le due organizzazioni si trasformò in un vincolo di sostanziale subordinazione politica della seconda alla prima: la competenza del Consiglio europeo a definire gli orientamenti generali della PESC venne formalmente estesa all’UEO «per le questioni per le quali l’Unione ricorre a quest’ultima», facendo così di quella organizzazione una sorta di braccio operativo dell’Unione («L’Unione si avvarrà dell’UEO per elaborare ed attuare decisioni ed azioni dell’Unione che hanno implicazioni nel settore della difesa»). Così prevedeva, in effetti, l’art. 17, par. 3, TUE pre-Lisbona, quale modificato dal Trattato di Amsterdam. Il vincolo di subordinazione all’UE era stato di fatto accettato dall’UEO (istituita con il
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Trattato di Bruxelles del 17 marzo 1948, modificato il 23 ottobre 1954) con la «Dichiarazione dell’Unione dell’Europa occidentale sul ruolo dell’Unione dell’Europa occidentale e le sue relazioni con l’Unione europea e con l’alleanza atlantica» del suo Consiglio dei Ministri del 22 luglio 1997, che fu poi allegata al Trattato di Amsterdam e nella quale si stabiliva che l’UEO avrebbe fornito all’UE l’accesso ad una capacità operativa di difesa per l’attuazione delle sue missioni militari.
Il passaggio delineato dal Trattato di Amsterdam finì per segnare la definitiva inversione di tendenza verso la riconduzione formale della dimensione militare e della difesa all’interno dell’Unione europea. Dopo un periodo di stretta collaborazione operativa con l’UEO e il contemporaneo trasferimento di alcune delle capacità operative di questa all’Unione, infatti, il Trattato di Lisbona ha coronato quel percorso. Dopo Amsterdam aveva preso del resto sempre più corpo, anche sul piano politico, l’esigenza di una politica europea di difesa dell’Unione. Essa fu in particolare rilanciata dalla Dichiarazione adottata al termine del vertice franco-britannico di Saint Malo nel 1998 e dai Consigli europei di Colonia del giugno 1999, di Helsinki del dicembre 1999 e di Feira del giugno 2000, ai quali si deve la sua effettiva creazione e messa in atto, successivamente formalizzata dall’entrata in vigore del Trattato di Nizza. L’idea subì poi una notevole accelerazione nella sua concreta realizzazione dopo i tragici attacchi terroristici dell’11 settembre, con l’adozione nel 2003 di una Strategia europea in materia di sicurezza. Fatto sta che in breve tempo si arrivò, prima, all’integrazione nell’Unione europea di alcuni meccanismi UEO (ad es. l’Istituto per gli studi sulla sicurezza di Parigi e il Centro satellitare di Torrejon in Spagna, organi sussidiari di questa, divennero il 1º gennaio 2002 agenzie dell’Unione europea), e poi, quasi in coincidenza con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, alla chiusura stessa della UEO: il 30 marzo 2010 la presidenza spagnola della UEO, a nome degli Stati membri, proclamava la decisione collettiva di porre fine all’Organizzazione, che terminò le sue residue attività nel giugno del 2011.
Portando di fatto alla fine della UEO, il nuovo TUE restituisce, in effetti, alla piena competenza dell’Unione l’effettuazione di missioni umanitarie e di soccorso, di attività di mantenimento della pace e di missioni di gestione delle crisi, comprese quelle tese al ristabilimento della pace conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite (le c.d. missioni di Petersberg); ma allo stesso tempo sancisce la nascita di una vera e propria «politica di sicurezza e di difesa comune» dell’Unione (PSDC), basata, da un lato, su un vincolo di reciproca assistenza tra gli Stati membri di fronte ad aggressioni subite da uno di loro e, dall’altro, su una «politica europea delle capacità e degli armamenti», diretta a sviluppare le capacità militari e operative degli Stati membri e la «base industriale e tecnologica» del settore della difesa all’interno dell’Unione (art. 42, par. 3, TUE). Le missioni di Petersberg, così chiamate dal nome dell’omonimo castello presso Bonn che ospitò la riunione del 19 giugno 1992 dei ministri della difesa dell’UEO che le definì nel quadro dello sviluppo delle proprie capacità operative, corrispondono a una serie di operazioni di mantenimento della pace (peace-keeping), di gestione delle crisi (peace-management) e di ripristino della pace (peace-enforcement) per le quali vi era la disponibilità degli Stati membri dell’UEO di mettere a disposizione della UEO stessa, della Nato e dell’UE, contingenti militari, provenienti dalle forze armate di ciascun paese.
La PSDC non comporta per il momento alcuna integrazione degli apparati militari nazionali. Questi restano pienamente sotto la responsabilità degli Stati membri, i
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quali conservano peraltro la loro piena competenza in materia di difesa. Le azioni esercitabili dall’Unione nel quadro della PSDC si configurano, quindi, unicamente come espressioni di una competenza parallela di sostegno e complemento di quelle degli Stati, dalle quali anzi, per almeno un aspetto, l’effettivo esercizio di quelle azioni finisce per essere fortemente tributaria. Come vedremo, infatti, per l’effettuazione delle missioni sopra citate l’Unione può avvalersi unicamente di mezzi e strumenti messi a disposizione dagli Stati membri, non disponendo al momento di capacità militari autonome. Il TUE prospetta per la verità la possibilità che ciò possa avvenire in futuro. Secondo l’art. 42, par. 2, TUE, infatti, il Consiglio europeo potrà un giorno decidere all’unanimità, e gli Stati membri confermare sulla base delle rispettive procedure costituzionali, che l’attuale politica di difesa comune dell’Unione si trasformi in una vera e propria difesa comune. Ma quel giorno appare allo stato assai lontano, dato che la dimensione militare e di difesa costituisce un aspetto centrale della sovranità degli Stati, caratterizzando in alcuni casi la loro stessa identità nazionale. Non a caso, al momento lo stesso art. 42 TUE precisa che la PSDC non pregiudica né il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri, né gli obblighi assunti da altri in relazione ad altre forme di difesa comune (dichiarazioni nn. 13 e 14), riferendosi da un lato allo status di neutralità di paesi quali l’Austria, la Finlandia, la Svezia e l’Irlanda, dall’altro alla contemporanea appartenenza di molti degli Stati membri al sistema di difesa collettiva della NATO. Agli Stati neutrali appena citati va aggiunta la Danimarca. Infatti, il Protocollo (n. 22) allegato al Trattato di Lisbona (ma già adottato con il Trattato di Amsterdam, sulla base dell’accordo che nel 1992 permise la ratifica da parte danese del Trattato di Maastricht) riconosce alla Danimarca un opt-out in materia militare, sulla base del quale essa «non partecipa all’elaborazione e all’attuazione di decisioni e azioni dell’Unione che hanno implicazioni di difesa», né, quindi, alle operazioni militari della PSDC, ma soltanto a quelle civili (art. 5). Quanto invece alla NATO, ventidue dei ventotto suoi membri sono membri della UE.
a) Il TUE considera la PSDC come «parte integrante» della PESC e quindi dell’azione esterna dell’Unione (artt. 24, par. 1, e 42, par. 1, TUE), tanto che, come si era anticipato nel precedente paragrafo, gli articoli che la disciplinano costituiscono una sezione specifica delle disposizioni da esso dedicate alla PESC. Ciò non è solo un retaggio dell’accostamento originariamente operato dal Trattato di Maastricht tra l’azione esterna dell’Unione e la sua sicurezza, ma riflette la prevalente finalizzazione di quest’ultima a un più efficace perseguimento degli obiettivi di politica estera dell’Unione. Essa appare oggi, infatti, come lo strumento attraverso cui l’Unione si dota delle capacità operative per contribuire, quale attore globale, al mantenimento della pace e al rafforzamento della sicurezza internazionale. Questo contributo si concretizza essenzialmente, come precisato dall’art. 42, par. 1, TUE, nella realizzazione di missioni all’esterno dell’Unione, da effettuare con il ricorso a mezzi sia civili che militari. A questo fine il Trattato elenca, andando anche al di là delle citate missioni di Petersberg, tutta una tipologia di operazioni in cui l’Unione può essere impegnata, anche a fini di lotta al terrorismo: esse vanno dalle operazioni congiunte in materia di disarmo alle missioni umanitarie e di soccorso,
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dalle azioni di consulenza e assistenza in materia militare alle missioni di unità di combattimento in teatri di crisi, dalle operazioni di ristabilimento della pace a quelle di stabilizzazione al termine dei conflitti, fino ad arrivare ad azioni di sostegno agli sforzi di paesi terzi nel contrasto al terrorismo sul loro territorio. Il comune obiettivo di queste possibili iniziative è quello della prevenzione dei conflitti internazionali e della gestione delle crisi. Tale obiettivo va perseguito, per espressa previsione dell’art. 42 TUE, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite. Quest’obbligo di conformità implica che l’attività dell’Unione in questo campo debba inquadrarsi nel sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite. Il punto è richiamato nella Dichiarazione (n. 13) allegata al Trattato di Lisbona, dove si sottolinea che l’UE e i suoi Stati membri «resteranno vincolati dalle disposizioni della Carta delle Nazioni Unite e, in particolare, dalla responsabilità primaria del Consiglio di sicurezza e dei suoi membri per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali». Laddove si tratti perciò di operazioni comportanti l’uso della forza, esse devono essere previamente autorizzate dal Consiglio di sicurezza dell’ONU, a meno che le stesse non si configurino di per sé come un uso legittimo della forza ai sensi di quei principi o siano effettuate con il consenso o su richiesta del paese sul cui territorio devono svolgersi.
Le diverse iniziative sopra elencate possono essere effettuate con strumenti dell’Unione o con mezzi messi a disposizione dagli Stati membri. Spetta all’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza proporre al Consiglio, che deve autorizzarlo, il ricorso agli uni e/o agli altri per la realizzazione di una missione (art. 42, par. 4, TUE). La proposta dell’Alto Rappresentante deve essere formulata, se del caso, insieme alla Commissione. Tale eventualità ricorrerà evidentemente nel caso in cui si voglia far ricorso a mezzi civili dell’Unione, come ad es. avviene quando si tratti di missioni civili in ambito PSDC incentrate sull’assistenza allo Stato di diritto. È ovvio, però, che laddove una missione richieda l’impiego di mezzi militari, essi potranno essere messi a disposizione solo dagli Stati membri, non disponendo al momento l’Unione, come si è detto, di capacità militari autonome. Ciò non significa che non vi sia la possibilità di forme di collaborazione tra Stati membri o di coordinamento degli stessi in questo campo, che consentano all’Unione di avvalersi per le sue missioni di forze militari di carattere multinazionale. Da un lato, lo stesso Trattato prevede che Stati membri possano costituire tra di loro forze di questo tipo da mettere a disposizione della PSDC (art. 42, par. 3, TUE). Dall’altro lato, è stato posto in essere già da prima del Trattato di Lisbona, sotto il nome per certi versi fuorviante di Forza di reazione rapida europea (European Rapid Reaction Force), uno schema coordinato di cooperazione tra le forze armate nazionali per una messa a disposizione dell’Unione di capacità militari degli Stati membri. In passato, inoltre, l’Unione si è avvalsa anche di forze e capacità militari della NATO, così come previsto da un pacchetto di accordi (conosciuto come il Berlin Plus agreement) conclusi tra questa e la stessa Unione nel 2002. L’accordo Berlin Plus è il titolo breve di un pacchetto globale di accordi stipulati tra la NATO e l’UE il 16 dicembre 2002. Tali accordi si basavano sulle conclusioni del vertice di Washington della NATO del 1999, che ha permesso all’UE di ricorrere a mezzi militari della NATO, previa
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approvazione unanime dei membri di questa, nelle proprie operazioni di peace-keeping. Quanto alla European Rapid Reaction Force, essa consiste in effetti in un meccanismo di coordinamento, attraverso il quale nel 2004 gli Stati membri si sono impegnati ad assicurare all’Unione la possibilità di schierare entro un massimo di 60 giorni e per periodi di missione anche prolungati (fino ad un anno) grandi spiegamenti di contingenti militari provenienti dai diversi Stati membri (fino a 15 brigate o 50.000-60.000 uomini), in grado di raggiungere tutti gli obiettivi previsti dalle missioni decise dall’Unione e di tutelare gli interessi europei in qualunque zona di crisi, fino a 4.000 km da Bruxelles. Questo schema è stato formalizzato da un accordo raggiunto il 22 novembre 2004 a seguito di quanto deciso dal Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999 (il c.d. Helsinki Headline Goal) che sviluppava la Dichiarazione di Saint Malo del dicembre 1998 tra Francia e Regno Unito, secondo la quale, come primo passo per la creazione di una politica di difesa comune, l’UE avrebbe dovuto dotarsi di forze militari credibili per conseguire capacità di azione autonoma complessa. Un esempio ante litteram di capacità militari messe a disposizione dagli Stati membri nel quadro di un contingente multinazionale, come previsto oggi previsto dall’art. 42, par. 3, TUE («Gli Stati membri che costituiscono tra loro forze multinazionali possono mettere anche tali forze a disposizione della politica di sicurezza e di difesa comune»), è invece costituito dalla Forza di gendarmeria europea (Eurogendfor o EGF), istituita nel settembre 2004 tra Italia, Francia, Spagna, Paesi Bassi, Portogallo e Romania, e composta da forze di polizia ad ordinamento militare di questi Stati, in grado di intervenire in aree di crisi. Il comando del corpo è situato a Vicenza. Compiti e poteri della Eurogendfor sono disciplinati dal Trattato di Velsen (nei Paesi Bassi), firmato il 18 ottobre 2007.
Lo svolgimento di una missione dell’Unione può essere in effetti affidato anche a un gruppo ristretto di Stati membri, che si dichiarino disponibili e che posseggano le capacità all’uopo necessarie. L’ipotesi si è già prodotta in passato con l’operazione «Artemide», e oggi è anche formalmente prevista dal Trattato, che la inquadra in una decisione di autorizzazione del Consiglio, che ne può stabilire, al pari di quanto disposto per tutte le missioni dell’Unione, l’obiettivo, la portata e le modalità generali di realizzazione (art. 43, par. 2, TUE), lasciando comunque all’Alto Rappresentante il compito di concordare con gli Stati partecipanti la gestione concreta della missione. In ogni caso, gli Stati in questione sono tenuti a informare periodicamente il Consiglio dell’andamento della missione e soprattutto dell’eventualità che dalla sua realizzazione discendano conseguenze non previste che impongano una modifica degli obiettivi o delle caratteristiche della stessa. L’operazione «Artemide» ebbe come teatro di operazione la Repubblica democratica del Congo. Iniziata il 21 giugno 2003 (azione comune 2003/423/PESC del Consiglio, del 5 giugno 2003, in GUUE L 143, 50), essa si concluse il 1° settembre successivo. Vi parteciparono, insieme alla Francia (designata come “nazione quadro” dall’art. 2 dell’azione comune), Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Germania, Italia e Spagna. L’idea di nazione quadro, consistente nella designazione di uno Stato membro a capo di una missione multinazionale europea, è stata definita e approvata il 24 luglio 2002 dall’Unione quale base concettuale per lo svolgimento di operazioni autonome di gestione delle crisi da essa dirette designare uno Stato membro quale nazione quadro.
b) La prospettiva di un ricorso più sistematico a missioni effettuate da un gruppo ristretto di Stati membri è poi aperta dalla previsione nel settore della PSDC di una «cooperazione strutturata permanente» (o PESCO, dal termine inglese Permanent Structured Cooperation) tra un numero ristretto di Stati membri. Come si è già visto,
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infatti, l’art. 42, par. 6, TUE e il successivo art. 46 TUE creano un quadro di cooperazione cui possono aderire gli Stati membri «che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari» e che, così facendo, accettino di vincolarsi a una serie di impegni in materia di capacità militari specificati in un apposito Protocollo allegato ai Trattati, il Protocollo (n. 10) sulla cooperazione strutturata permanente istituita dall’art. 42 TUE. Questi impegni riguardano in particolare lo sviluppo e l’armonizzazione delle rispettive capacità militari, in termini di loro interoperabilità, flessibilità e schierabilità, ai fini della possibilità di fornire entro tempi ravvicinati all’Unione unità di combattimento mirate alle missioni previste dal Trattato. Secondo l’art. 1, lett. b), del Protocollo (n. 10), gli Stati partecipanti devono in via generale «fornire […] a titolo nazionale o come componente di gruppi di forze multinazionali, unità di combattimento mirate alle missioni previste, configurate sul piano tattico come gruppi tattici, con gli elementi di supporto, compresi trasporto e logistica, capaci di intraprendere missioni menzionate [all’art. 43 TUE], entro un termine da 5 a 30 giorni, in particolare per rispondere a richieste [dell’ONU], e sostenibili per un periodo iniziale di 30 giorni prorogabili fino ad almeno 120 giorni». Ulteriori impegni sono fissati nell’art. 2 dello stesso Protocollo.
La cooperazione strutturata permanente sarà avviata non appena gli Stati membri che soddisfino i requisiti sopra indicati abbiano notificato al Consiglio e all’Alto Rappresentante la loro intenzione di parteciparvi e il Consiglio, dopo aver verificato l’effettiva rispondenza a quei requisiti, abbia adottato a maggioranza qualificata la decisione istitutiva (artt. 42, par. 6, e 46, par. 1, TUE). Essa sarà aperta all’adesione successiva di ogni Stato membro che soddisfi gli stessi requisiti, fermo restando che, a differenza della cooperazione rafforzata “generale”, la partecipazione è reversibile: è infatti possibile sia la sospensione della partecipazione di uno Stato che non soddisfi più i criteri richiesti, che il recesso volontario. La decisione di sospensione, così come quella concernente l’adesione di un nuovo Stato partecipante sono ugualmente di spettanza del Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata. Al contrario di queste, invece, le decisioni che il Consiglio può essere chiamato a prendere in relazione al funzionamento della cooperazione strutturata, e in particolare, è da pensare, quelle riguardanti l’eventuale partecipazione o accettazione dell’affidamento di una missione dell’Unione e le conseguenti decisioni operative, devono essere adottate all’unanimità dei membri del Consiglio partecipanti alla cooperazione. Mentre quella riguardante l’avvio della cooperazione è presa con il voto di tutti gli Stati membri, tutte queste decisioni sono assunte con il voto dei soli Stati partecipanti alla cooperazione strutturata. Dopo quattro anni dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il primo passo per l’istituzione della cooperazione strutturata permanente è stato finalmente compiuto dal Consiglio europeo. Il 22 giugno 2017 i capi di Stato o di governo hanno espresso il loro accordo politico sulla necessità «di avviare una cooperazione strutturata permanente (PESCO) inclusiva e ambiziosa» (Conclusioni, par. 8). A questo fine, è stato previsto che, al fine di una sua possibile formalizzazione entro la fine dello stesso 2017, «entro tre mesi gli Stati membri redigeranno un elenco comune di criteri e impegni vincolanti, in piena conformità dell’articolo 42, paragrafo 6, e dell’articolo 46 del TUE, nonché del protocollo 10 del trattato – anche in considerazione delle missioni più impegnative – con un calendario preciso e specifici meccanismi di valutazione, al fine di consentire a quegli Stati membri che sono in condizione di farlo di notificare senza indugio l’intenzione di partecipare» (ivi).
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Le finalità della cooperazione strutturata permanente sono ad ogni modo parzialmente condivise con quelle di un’altra iniziativa, l’Agenzia europea per la difesa, che, pur trovando solo oggi specifica disciplina nel TUE, è in realtà già da tempo operativa. L’Agenzia è stata infatti istituita il 12 luglio 2004 dal Consiglio con l’azione comune 2004/551/PESC (GUUE L 245, 17), oggi sostituita, in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, prima dalla dec. 2011/411/PESC del Consiglio, del 12 luglio 2011 (GUUE L 183, 16), e poi dalla dec. 2015/1835/PESC del 12 ottobre 2015 (GUUE L 266, 55), con la quale sempre il Consiglio ha proceduto alla rifusione, sulla base dell’attuale art. 45 TUE, delle regole che ne disciplinano lo statuto, la sede e le modalità di funzionamento. Sede dell’Agenzia è Bruxelles.
In effetti, creata dal Consiglio nel 2004, l’Agenzia ha anch’essa la missione di sviluppare le capacità di difesa degli Stati membri, e quindi dell’Unione, nel settore della gestione delle crisi, promuovendo e intensificando la cooperazione europea in materia di armamenti e rafforzando la base industriale e tecnologica di difesa europea. E anche i suoi compiti operativi non sembrano lontani da quelli assegnati alla cooperazione strutturata permanente. Come specifica oggi l’art. 45 TUE, essa deve infatti contribuire a individuare gli obiettivi di capacità militari degli Stati membri, promuovere l’armonizzazione delle esigenze operative e la cooperazione in materia di armamenti, e sostenere tanto la ricerca nel settore della tecnologia della difesa, che una maggiore efficacia delle spese militari, creando un mercato europeo competitivo dei materiali di difesa. Si aggiunga, inoltre, che anche il quadro giuridico e istituzionale offerto dall’Agenzia appare ispirato alla stessa idea di un impegno differenziato degli Stati membri che caratterizza la cooperazione strutturata permanente. Essa è infatti aperta ai soli Stati membri che desiderino farne parte, e uno Stato che voglia recederne può farlo previa notifica al Consiglio e informazione dell’Alto Rappresentante (art. 1, decisione istitutiva). Così come è prevista la possibilità che progetti o programmi di competenza dell’Agenzia siano realizzati da gruppi ristretti di Stati ad essa partecipanti (artt. 19 e 20, decisione istitutiva). c) Fatto salvo il ruolo di orientamento politico del Consiglio europeo, l’apparato istituzionale della PSDC ruota essenzialmente intorno al Consiglio e all’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Al primo spetta in via esclusiva il ruolo decisionale: è il Consiglio che adotta, infatti, tutte le decisioni relative a questo settore, e in specie, come si è visto, quelle inerenti all’avvio di una missione dell’Unione all’esterno dei suoi confini, definendone l’obiettivo, la portata e le modalità di realizzazione, o quelle volte ad affidarne lo svolgimento a un gruppo di Stati membri che lo desiderino e che dispongano delle capacità all’uopo necessarie. Sono affidate invece all’Alto Rappresentante l’iniziativa e la gestione successiva delle decisioni del Consiglio: ai fini di cui sopra, infatti, il Consiglio decide a partire da proposte dell’Alto Rappresentante (salve eventuali iniziative di Stati membri); è quest’ultimo che deve inoltre proporre il ricorso a mezzi nazionali o a strumenti dell’Unione per lo svolgimento di una missione; spetta poi ad esso presiedere il Consiglio quando questo delibera in materia di difesa, spettando alla formazione “Affari esteri” tale competenza; è infine compito suo coordinare, sotto l’autorità del Consiglio, gli aspetti civili e militari delle missioni dell’Unione.
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E analogo schema si ritrova simmetricamente applicato al funzionamento dell’Agenzia per la difesa: essa è posta sotto l’autorità politica del Consiglio e la responsabilità gestionale dell’Alto Rappresentante, che ne è il «capo» (art. 7, par. 1, decisione istitutiva) e presiede il comitato direttivo, organo decisionale dell’Agenzia composto dai ministri della difesa degli Stati membri partecipanti o da un loro rappresentante. L’art. 4, par. 3, decisione istitutiva stabilisce che «[i]l Consiglio, deliberando all’unanimità e previo parere del CPS [Comitato politico e di sicurezza] o, se del caso, di altri organismi competenti del Consiglio, emana orientamenti in merito ai lavori dell’Agenzia, con particolare riguardo al suo quadro di pianificazione triennale». Quanto al comitato direttivo, pur essendo possibile farsi sostituire da un rappresentante, è previsto che esso debba riunirsi a livello di ministri della difesa almeno due volte l’anno (art. 8, decisione istitutiva). Al comitato direttivo partecipa anche un rappresentante della Commissione, seppur senza diritto di voto, in ragione dei collegamenti tra le competenze dell’Agenzia e altre politiche dell’UE, e in particolare quelle in materia di ricerca e di mercato interno (si pensi, a titolo di es., alla questione dei trasferimenti all’interno dell’UE di prodotti per la difesa, che è oggetto di una direttiva del PE e del Consiglio, del 6 maggio 2009, ossia la 2009/43/CE, in GUUE L 146, 1).
D’altronde, da questo punto di vista la disciplina della PSDC riproduce le caratteristiche istituzionali che abbiamo visto essere proprie della PESC, di cui essa è comunque una parte specifica. Semmai può essere notato come, in ragione anche della stretta dipendenza dagli Stati membri del suo funzionamento, la PSDC presenta un carattere, se possibile, ancor più marcatamente intergovernativo di quello che già di per sé contraddistingue, da un punto di vista generale, il settore della PESC. Questa forte caratterizzazione in senso intergovernativo è in particolar modo marcata dalle modalità di voto del Consiglio. La regola dell’unanimità prevista in via generale per le deliberazioni prese nel quadro della PESC, non conosce qui infatti, per espressa disposizione dell’art. 31, par. 4, TUE, nemmeno quelle poche eccezioni che il TUE pure consente in relazione alla politica estera. Viene anzi espressamente esclusa finanche l’eventualità che il carattere assoluto di tale regola possa essere intaccato per vie diverse da una revisione solenne dei Trattati: per espressa previsione di questi, infatti, non si applicano alle «decisioni che hanno implicazioni militari o che rientrano nel settore della difesa» né la possibilità del passaggio dall’unanimità alla maggioranza qualificata mediante procedura di revisione semplificata, prevista dall’art. 48, par. 7, comma 1, TUE per tutte le altre disposizioni dei Trattati, né l’analoga possibilità di cui possono avvalersi gli Stati membri partecipanti a una cooperazione rafforzata in relazione alle delibere che il Consiglio può trovarsi a prendere nel quadro di tale cooperazione (si veda in proposito l’art. 333 TFUE, e in particolare il suo par. 3). L’unica eccezione è, a ben vedere, quella della cooperazione strutturata permanente, visto che alcune delle decisioni che il Consiglio deve prendere in relazione ad essa, a partire da quella di avvio, possono essere deliberate, come si è prima ricordato, a maggioranza qualificata.
Pur restando all’interno dello schema istituzionale appena delineato, l’apparato organico che presiede al funzionamento della PSDC è comunque andato arricchendosi anche al di là della previsioni espresse dei Trattati. Il rapido incremento del
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numero, della tipologia e della complessità delle missioni civili e militari dell’Unione ha infatti comportato, ancor prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, un parallelo sviluppo di strutture, strumenti e procedure, destinati a preparare e facilitare l’azione del Consiglio e dell’Alto Rappresentante. In particolare, un ruolo essenziale è riservato al già ricordato Comitato politico e di sicurezza (COPS), il quale costituisce all’interno della PSDC uno snodo centrale della catena di comando dell’Unione. Pur senza intaccare le competenze del COREPER, esso esercita infatti, per espressa previsione del TUE, il controllo politico e la direzione strategica delle operazioni di gestione delle crisi sotto la responsabilità del Consiglio e dell’Alto Rappresentante (così l’art. 38, commi 2 e 3, TUE), un rappresentante del quale ne presiede le riunioni. A questi fini il COPS può essere anzi investito anche di un potere decisionale: il Consiglio lo può infatti autorizzare a prendere le decisioni necessarie all’attuazione di una missione. Nello svolgimento delle sue funzioni il COPS è assistito da una serie di comitati e organismi specializzati, tra i quali va in particolare segnalato, oltre che il Comitato per gli aspetti civili della gestione delle crisi (CIVCOM), il Comitato militare dell’Unione europea (CMUE). Istituito da una decisione del Consiglio, del 22 gennaio 2001 (dec. 2001/79/ PESC, in GUCE L 27, 4), e composto dai capi di Stato maggiore della difesa degli Stati membri o da loro rappresentanti, il CMUE costituisce infatti l’istanza di consultazione e cooperazione militare che, in caso di crisi, assume la direzione delle operazioni militari e fornisce le conseguenti direttive a un apposito Stato maggiore dell’Unione europea (SMUE). Il CMUE si riunisce almeno una volta a semestre in formato capi di Stato maggiore e settimanalmente a livello di loro rappresentanti; e in aggiunta ai compiti operativi indicati nel testo, formula pareri e raccomandazioni in materia militare all’indirizzo del COPS. Il suo Presidente, generale di grado più elevato, è designato dal Consiglio su proposta dei capi di Stato maggiore per la durata di tre anni, e partecipa alle riunioni del COPS e del Consiglio Affari esteri, oltre a svolgere il ruolo di consigliere militare dell’Alto Rappresentante. Lo SMUE, invece, creato con la dec. 2001/80/PESC del Consiglio, del 21 gennaio 2001 (GUCE L 27, 7), successivamente modificata dalla dec. 2005/395/PESC del Consiglio, del 10 maggio 2005 (GUUE L 132, 17), è costituito da personale militare degli Stati membri distaccato presso il Segretariato generale del Consiglio ed è responsabile della gestione delle operazioni sul terreno. Infine, con dec. 2017/971/UE dell’8 giugno 2017 (GUUE L 146, 133) il Consiglio ha da ultimo istituito, in seno allo SMUE a Bruxelles, una capacità militare di pianificazione e condotta (MPCC, dall’inglese Military Planning and Conduct Capability) incaricata, a livello strategico, della pianificazione e della condotta operative delle missioni militari senza compiti esecutivi, quelle, cioè, che hanno compiti unicamente di addestramento e sostegno alle forze armate di un paese terzo (attualmente in Somalia, Repubblica Centroafricana e Mali). Essa agirà sotto il controllo politico e la direzione strategica del COPS. Quanto al CIVCOM, esso formula raccomandazioni e pareri al COPS sui diversi aspetti civili della gestione delle crisi, ed è composto da diplomatici o esperti di settore. Nel valutare e pianificare gli aspetti civili della gestione delle crisi, esso opera in coordinamento con la Commissione, che ne è membro di pieno diritto. L’art. 41 TUE prevede che le spese amministrative derivanti da operazioni nel settore militare o della difesa (a meno che il Consiglio non decida altrimenti all’unanimità) sono a carico degli Stati membri secondo un criterio di ripartizione basato sul prodotto nazionale lordo. A questo scopo è stato predisposto fin dal 2004 un meccanismo denominato “meccanismo Athena”, concepito per amministrare il finanziamento di una serie di spese definite come comuni dalla decisione istitutiva, oggi completamente riformata dalla dec. 2015/528/CFSP del Consiglio del 27 marzo 2015 (GUUE L 84, 39). Ad Athena partecipano tutti gli Stati membri ad eccezione della Danimarca, in ragione dell’opt-out di cui gode in relazione alla PSDC.
Va infine ricordato che, come si è all’inizio accennato, la PSDC include anche una clausola di difesa reciproca. Il par. 7 dell’art. 42 TUE stabilisce, infatti, che gli
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Stati membri sono tenuti a prestare aiuto e assistenza a chi di loro sia oggetto di un’aggressione armata sul suo territorio. L’inserimento di questa clausola, dovuta al Trattato di Lisbona, ha un forte significato politico, come ulteriore espressione dell’esistenza di un principio di solidarietà tra gli Stati membri (sul quale si veda l’art. 222 TFUE e l’ultimo paragrafo di questo Capitolo), ma appare molto meno rilevante sul piano strettamente operativo. La maggior parte degli Stati membri sono infatti anche parti della NATO e sono, quindi, già inseriti in un preesistente sistema di difesa collettiva, ispirato allo stesso principio in caso di attacco armato contro uno Stato dell’alleanza. Del resto, il Trattato non solo specifica, come abbiamo visto, che la PSDC non pregiudica gli obblighi derivanti per quegli Stati membri dalla loro appartenenza alla NATO, ma precisa anche, nello stesso art. 42, che questa «resta, per gli Stati che ne sono membri, il fondamento della loro difesa collettiva e l’istanza di attuazione della stessa» (par. 7, comma 2). L’art. 5 del Trattato NATO dispone che «[l]e parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica».
4. La politica commerciale comune. Portata e natura della competenza dell’Unione La politica commerciale comune rappresenta uno degli strumenti principali dell’azione esterna dell’Unione, di cui ha costituito anzi il nucleo iniziale, in quanto nel quadro di tale politica si sono avviate, sotto la forma in particolare di accordi tariffari e commerciali con paesi terzi, le prime relazioni esterne della originaria CEE. Dal punto di vista dei contenuti, la politica commerciale appare strettamente collegata all’esistenza del mercato interno e di un’unione doganale tra gli Stati membri, di cui rappresenta per così dire il risvolto esterno. La sua previsione fin dall’inizio nei Trattati istitutivi è stata cioè una conseguenza naturale dell’instaurazione tra gli Stati membri di tale unione e della conseguente sostituzione, come si è visto (supra, p. 449 ss.), delle tariffe nazionali con una tariffa doganale comune nei confronti delle merci provenienti da paesi terzi. Ciò ha comportato, infatti, l’esigenza di tutelare gli Stati membri da queste merci, visto che, una volta entrate nel territorio dell’Unione, e quindi nel mercato interno, esse vi sono considerate «in libera pratica» (art. 29 TFUE), nel senso che sono soggette allo stesso regime di libera circolazione previsto per quelle provenienti da altri Stati membri e nei loro confronti non è possibile adottare alcuna misura protezionistica: come ha ricordato perciò la Corte di giustizia, «l’applicazione dei principi suesposti presuppone l’instaurazione di una politica commerciale comune. In realtà, l’assimilazione tra prodotti comunitari e merci in libera pratica può essere pienamente efficace solo se per queste ultime valgono le stesse condizioni di importazione, doganali e commerciali, indipendentemente dallo Sta-
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to membro nel quale è stata effettuata la messa in libera pratica» (Corte giust. 15 dicembre 1976, 41/76, Donckerwolcke, 1922, punti 24-26). La giurisprudenza comunitaria del tempo ha subito sottolineato l’inesistenza di differenze «di regime circolatorio tra prodotti a seconda che siano di origine comunitaria ovvero di origine extracomunitaria, ma messi in libera pratica in uno Stato membro, dato che le due categorie di prodotti sono indistintamente fuse in un identico regime di libera circolazione» (Sentenza Donckerwolcke, cit., punti 21-23).
Ciò non significa, tuttavia, che l’Unione, costituendosi fin dalle origini in unione doganale caratterizzata dall’assenza di ostacoli alle relazioni commerciali tra gli Stati membri, si sia voluta porre in contrasto con l’obiettivo di uno sviluppo armonioso del commercio mondiale e presentare come una fortezza commerciale di tipo protezionistico, chiusa rispetto all’esterno. La stessa unione doganale ha costituito infatti nelle sue finalità specifiche, come ricorda anche oggi l’art. 206 TFUE, uno strumento attraverso cui l’Unione contribuisce, nell’interesse comune, allo sviluppo armonioso del commercio mondiale, alla graduale soppressione delle restrizioni agli scambi internazionali e agli investimenti esteri diretti e alla riduzione delle barriere doganali e di altro tipo. La sua creazione, d’altra parte, si collocava pienamente nel quadro delle regole del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), l’accordo con cui, all’uscita dalla seconda guerra mondiale, i paesi ad economia di mercato posero le basi di quel sistema multilaterale di relazioni commerciali volto a favorire la liberalizzazione del commercio mondiale, che portò poi, nel 1994, alla istituzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Tanto che di quel sistema la Comunità entrò subito a far parte, in ragione proprio della sua competenza in materia di politica commerciale, in un primo tempo a titolo di successione nei diritti e negli obblighi degli Stati membri in seno al GATT, poi come membro originario dell’OMC. Quest’ultimo passo è avvenuto con la dec. 94/800/CE del Consiglio, del 22 dicembre 1994, relativa alla conclusione a nome della CE, per le materie di sua competenza, degli accordi dei negoziati multilaterali dell’Uruguay Round (1986-1994) (GUCE L 336, 1). Il GATT fu adottato nel 1947 (c.d. GATT 1947) su iniziativa del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, che si proponeva in realtà, inizialmente, di istituire un’organizzazione internazionale per il commercio (International Trade Organization o ITO) da affiancare alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale (FMI). A seguito però della mancata ratifica dell’accordo istitutivo dell’ITO da parte degli Stati Uniti, il GATT ne assunse di fatto le funzioni seppur sulla base di un apparato istituzionale embrionale. Il ruolo che avrebbe dovuto essere dell’ITO è stato pienamente assunto invece, dal 1° gennaio 1995, dall’OMC, organizzazione permanente dotata di proprie istituzioni che ha fatto propri i principi e gli accordi raggiunti in seno al GATT 1947, il quale continua comunque ad operare come sistema normativo ed è periodicamente aggiornato nel corso di periodici round negoziali. In particolare, il GATT 1947 è stato aggiornato dal c.d. GATT 1994, in coincidenza con la creazione dell’OMC e l’approvazione, il 15 aprile 1994 a Marrakech, di tre nuovi accordi: il GATT 1994, un accordo generale sul commercio dei servizi (General Agreement on Trade in Services o GATS) e un accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale (Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights o TRIPS). La partecipazione ad esso della CEE è stata in effetti frutto di una «sostituzione» della Comunità agli Stati membri, parti contraenti del GATT da prima della creazione della Comunità, nei relativi diritti e obblighi (Corte giust. 16 marzo 1983, da 267/81 a 269/81, SPI-SAMI, punto 17: «la sostituzione della Comunità negli impegni assunti con l’Accordo generale è avvenuta il 1° lu-
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glio 1968, in seguito alla entrata in vigore della tariffa doganale comune. È, infatti, in quel momento che la Comunità, in anticipo rispetto alla fine del periodo transitorio, ha assunto pienamente le sue competenze nell’ambito di applicazione dell’Accordo generale»). A differenza di altri impegni convenzionali preesistenti degli Stati, ciò è stato ritenuto essersi verificato non solo per il fatto che la CEE aveva assunto poteri già spettanti agli Stati membri nella materia regolata dal GATT, ma, soprattutto, in ragione sia dell’atteggiamento favorevole a tale successione di fatto da parte tanto degli stessi Stati membri, che delle altre parti contraenti del GATT, sia dell’azione effettivamente svolta dalle istituzioni europee nel suo ambito. V. anche, in proposito, Corte giust. 12 dicembre 1972, da 21/72 a 24/72, International Fruit co. e a., 1219 (segnatamente, punto 10 ss.).
La competenza in materia di politica commerciale dell’Unione, e prima della Comunità, si presenta come esclusiva. Oggi, come abbiamo visto, l’art. 3, par. 1, lett. e), TFUE lo stabilisce formalmente. Ma questo carattere di esclusività era stato già da tempo affermato dalla Corte di giustizia. Essa lo aveva fatto, peraltro, proprio in ragione del collegamento tra questa politica comune e il mercato interno. È infatti nella prospettiva del funzionamento di quest’ultimo, ha detto la Corte, che la politica commerciale è concepita «per la salvaguardia dell’interesse globale della Comunità, entro i cui limiti devono conciliarsi gli interessi dei rispettivi Stati membri». E tale concezione rende palesemente «inammissibile che in un settore […] che fa parte […] della politica commerciale comune, gli Stati membri conservino una competenza parallela a quella comunitaria, sia nell’ordinamento comunitario che in quello internazionale […]: riconoscere tale competenza significherebbe ammettere che gli Stati membri possono assumere, nei rapporti con i paesi terzi, atteggiamenti divergenti dall’orientamento generale della Comunità, quindi ne resterebbe falsato il gioco istituzionale, ne risulterebbe scossa la buona fede nell’ambito della Comunità, che non sarebbe più in grado di assolvere il proprio compito che è soprattutto la tutela dell’interesse comune». Così Corte giust., parere 11 novembre 1975, 1/75 (sull’Accordo riguardante una norma sulle spese locali dell’OCSE), 1350, 1363-1364. È noto che il carattere esclusivo di una competenza dell’Unione fa sì che solo le istituzioni di questa possano legiferare e stipulare accordi con paesi terzi o organizzazioni internazionali, mentre gli Stati membri «possono farlo autonomamente solo se autorizzati dall’Unione o per dare attuazione agli atti dell’Unione» (art. 2, par. 1, TFUE). La prima delle due eccezioni è stata particolarmente importante nel caso della politica commerciale, per il fatto che, come vedremo, una parte di essa si realizza proprio attraverso la conclusione di accordi internazionali. Soprattutto in passato, ci sono stati infatti casi di rifiuto «politico» di taluni paesi terzi a contrattare direttamente con la Comunità in questa materia; come numerosi sono stati anche gli accordi bilaterali commerciali conclusi dagli Stati membri con paesi terzi prima del trasferimento all’Unione di questa competenza. In ambedue gli scenari è stato perciò necessario autorizzare gli Stati membri a negoziare con paesi terzi ovvero a rinnovare tacitamente o a mantenere in vigore accordi preesistenti con gli stessi. Per il primo caso si veda la dec. 69/494/CEE del Consiglio del 16 dicembre 1969, concernente la graduale uniformazione degli accordi relativi alle relazioni commerciali degli Stati membri con i paesi terzi e la negoziazione degli accordi comunitari (GUCE L 326, 39), il cui preambolo sottolineava come, «ove per la Comunità non fosse ancora possibile negoziare e un’interruzione nelle relazioni convenzionali possa compromettere, a danno della Comunità e degli Stati membri, lo sviluppo delle relazioni commerciali con il paese terzo in questione, occorre prevedere, a titolo transitorio e per un periodo limitato, la possibilità di negoziazione da parte degli Stati membri». Per il secondo, si rinvia invece alla dec. 2001/855/CE del Consiglio, del 15 novembre 2001, che autorizza il tacito rinnovo o
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il mantenimento in vigore delle disposizioni relative a materie che rientrano nella politica commerciale comune contenute nei trattati d’amicizia, di commercio e di navigazione e negli accordi commerciali conclusi dagli Stati membri con i paesi terzi (GUCE L 320, 13).
Nella sostanza, la politica commerciale comune ha come oggetto la disciplina e la gestione, in tutti i loro aspetti, degli scambi commerciali dell’Unione con i paesi terzi o, in altre parole, le condizioni e le modalità in base alle quali i beni provenienti da paesi terzi possono entrare nel territorio dell’Unione europea e quelli prodotti negli Stati membri possono essere esportati verso paesi terzi. Ciò comporta che «un atto dell’Unione rientra nella politica commerciale comune se verte specificamente sugli scambi internazionali in quanto è sostanzialmente destinato a promuovere, facilitare o disciplinare tali scambi e sortisce su di loro effetti diretti ed immediati» (Corte giust. 18 luglio 2013, C-414/11, Daiichi Sankyo e Sanofi-Aventis Deutschland, punto 51). La nozione di politica commerciale va peraltro interpretata, come fin dall’inizio ha sottolineato sempre la Corte di giustizia, in senso ampio ed evolutivo. Stabilendo un’equazione tra politica commerciale comune e politica commerciale statale, essa ha anzi dichiarato che tale politica «ha contenuto invariato, vuoi nell’ambito della sfera d’azione internazionale di uno Stato vuoi nella sfera d’azione comunitaria» (Corte giust., parere 1/75, cit., 1362). La Corte di giustizia ha voluto così impedire, fin dai primi passi della politica commerciale comune, che sviluppi delle relazioni commerciali internazionali si traducessero in una riappropriazione della loro gestione da parte degli Stati membri, restringendo la portata reale delle competenze attribuite alle istituzioni europee in questo settore. Fin d’allora era in effetti forte la tendenza delle relazioni commerciali tra Stati, soprattutto nel settore del commercio internazionale delle materie prime, alla disciplina del mercato mondiale, piuttosto che alla semplice liberalizzazione degli scambi. Da questo punto di vista, ha osservato la Corte, non c’è dubbio che una politica commerciale comune limitata «all’impiego degli strumenti destinati a incidere unicamente sugli aspetti tradizionali del commercio estero, ad esclusione di congegni più complessi […], sarebbe destinata a divenire gradualmente inoperante» (Corte giust., parere 4 ottobre 1979, 1/78, 2871, punto 44). Nella sentenza 26 marzo 1987, 45/86, Commissione c. Consiglio, 1493, la Corte aveva peraltro rilevato come fra gli scopi della politica commerciale l’allora art. 110 CEE (al pari dell’attuale art. 206 TFUE) enumerasse «quello di contribuire “allo sviluppo armonico del commercio mondiale”, scopo il quale postula l’adattamento di detta politica agli eventuali mutamenti di concezione nella società internazionale» (punto 19).
In particolare, la Corte ha escluso, ad esempio, che l’esercizio delle competenze in materia delle istituzioni possa essere bloccato dalla possibile incidenza di un accordo sulla politica economica degli Stati membri. Una siffatta incidenza è resa del resto sempre più probabile dalla circostanza che la regolamentazione internazionale degli scambi commerciali tende ad essere inserita, specialmente nei rapporti con i paesi in via di sviluppo, in un contesto più ampio, affiancandovi forme e strumenti di cooperazione economica. Ancora una volta, però, la Corte è stata esplicita: «quando l’organizzazione dei vincoli economici della Comunità con i paesi terzi può avere
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ripercussioni su determinati settori della politica economica, quali l’approvvigionamento di materie prime della Comunità o la politica dei prezzi, come avviene appunto per la disciplina del commercio internazionale dei prodotti di base, questa considerazione non costituisce una ragione per escludere oggetti del genere dal campo d’applicazione delle norme relative alla politica commerciale comune» (Corte giust., parere 1/78, cit., punto 49). Nella stessa linea, e nella stessa occasione, la Corte ha anche affermato che la competenza esclusiva dell’Unione in materia commerciale non è compromessa dall’eventuale presenza in un accordo «di clausole riguardanti oggetti quali l’assistenza tecnica, i programmi di ricerca, le condizioni di lavoro nell’industria di cui trattasi o le consultazioni relative alle politiche fiscali nazionali che possono incidere sul prezzo» della materia prima oggetto dell’accordo. Queste clausole non possono infatti «modificare la qualificazione dell’accordo, la quale va fatta in considerazione dello scopo essenziale di questo, non già in funzione di clausole particolari, di carattere in ultima analisi accessorio od ausiliario». Allo stesso tempo, però, la Corte di giustizia ha anche precisato che l’ampiezza che va riconosciuta alla nozione di politica commerciale non permette comunque di ricondurre al suo interno misure o accordi con paesi terzi che, pur avendo finalità diverse, possano avere un’incidenza sugli scambi commerciali, quali, ad esempio, quelle che disciplinano in chiave di tutela dell’ambiente le importazioni e le esportazioni di rifiuti tra Stati membri e paesi terzi, anche quando effettuate nel quadro di una transazione commerciale (Corte giust. 8 settembre 2009, C-411/06, Commissione c. Parlamento e Consiglio, 7585, punto 72). Infatti, la semplice circostanza che un atto dell’Unione, come un accordo concluso da quest’ultima, possa avere talune implicazioni sugli scambi commerciali con uno o più Stati terzi non è sufficiente per concludere che tale atto debba essere classificato nella categoria di quelli che rientrano nella politica commerciale comune. La Corte ha fatto da ultimo applicazione di questo principio per escludere che il Trattato di Marrakech del 28 giugno 2013, volto a facilitare l’accesso alle opere pubblicate per le persone non vedenti, con disabilità visive o con altre difficoltà nella lettura di testi a stampa, rientri nell’ambito della politica commerciale comune: tale Trattato, ha osservato infatti la Corte nel suo parere del 14 febbraio 2017, 3/15, punto 82, «ha lo scopo di migliorare la condizione dei beneficiari facilitando, in diversi modi, l’accesso di tali persone alle opere pubblicate e non di promuovere, facilitare o disciplinare il commercio internazionale delle copie in formato accessibile».
Il Trattato fornisce un’elencazione di misure specifiche che sono da considerare ricomprese nella competenza dell’Unione in materia di politica commerciale, precisando però, fin dalla versione originaria dell’articolo rilevante, che tale elencazione non è comunque esaustiva. Essa comprendeva inizialmente le modificazioni tariffarie, la conclusione di accordi tariffari e commerciali, l’uniformazione delle misure di liberalizzazione, la politica di esportazione, nonché le misure di difesa commerciale, tra cui quelle da adottarsi in casi di dumping e di sovvenzioni. A questa lista il Trattato di Lisbona ha poi aggiunto gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale e gli investimenti esteri diretti, nonché la precisazione che gli accordi tariffari e commerciali possono riguardare non solo gli scambi di merci, ma anche quelli di servizi (con l’esclusione di quelli in materia di trasporti).
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L’art. 207, par. 1, TFUE fa precedere esplicitamente tale elencazione dalla precisazione «in particolare» (analogamente il corrispondente art. 133 del precedente TCE usava l’avverbio «specialmente»). Il carattere aperto dell’elencazione è stato confermato anche dalla Corte di giustizia, ad es. nel più volte citato parere 1/78 (cfr. ivi, punto 45). In relazione invece al settore dei trasporti, il par. 5 dell’art. 207 esplicitamente precisa che la negoziazione e la conclusione di accordi internazionali in materia sono soggette al Titolo VI della Parte Terza del TFUE (quello, appunto sui trasporti) e all’art. 218 dello stesso Trattato. Al riguardo v. supra, p. 589 s.
Quest’ultima integrazione appare certamente innovativa per quanto riguarda gli investimenti esteri diretti, dato che gli stessi non rientravano sicuramente, prima del Trattato di Lisbona, nell’ambito della politica commerciale comune, come dimostrano i numerosi accordi bilaterali finora autonomamente conclusi dagli Stati membri con paesi terzi per regolare i reciproci investimenti tanto sotto il profilo dell’accesso ai rispettivi mercati, che della successiva protezione degli investimenti effettuati. Per investimenti diretti si devono intendere gli investimenti di qualsiasi tipo effettuati da persone fisiche o giuridiche che servano a stabilire legami durevoli e diretti fra l’investitore e l’impresa cui l’investimento è destinato ai fini dell’esercizio di un’attività economica. Ad esempio, l’assunzione di partecipazioni in un’impresa costituita in forma di società per azioni è un investimento diretto qualora le azioni detenute dall’azionista conferiscano a quest’ultimo la possibilità di partecipare effettivamente alla gestione di tale società o al suo controllo (v., per tutte, Corte giust. 26 marzo 2009, C-326/07, Commissione c. Italia, I-2291, punto 35, e soprattutto Corte giust., 24 novembre 2016, C-464/14, SECIL, punti 75-76). Non rientrano invece in questa nozione, e non sono quindi riconducibili alla nozione di politica commerciale comune di cui all’art. 207, par. 1, TFUE, gli investimenti diversi da quelli diretti (Corte giust., parere 16 maggio 2017, 2/15, sull’Accordo di libero scambio tra l’Unione europea e la Repubblica di Singapore, punti 83 e 226 ss.), come ad es. quelli c.d. “di portafoglio”, consistenti in un’acquisizione di titoli societari volta a realizzare un investimento finanziario senza l’intenzione di esercitare un’influenza sulla gestione e sul controllo dell’impresa. In proposito si veda anche la Comunicazione della Commissione del 7 luglio 2010, Verso una politica globale europea degli investimenti diretti (COM(2010) 343). Quanto alla ragione di questa distinzione ai fini della delimitazione dell’ambito di applicazione della politica commerciale comune, essa va indicata, secondo quanto ha osservato la Corte di giustizia nel parere 2/15, cit., punto 84, nella «circostanza che qualsiasi atto dell’Unione, il quale promuova, faciliti o disciplini la partecipazione, da parte di una persona fisica o giuridica di uno Stato terzo nell’Unione e viceversa, alla gestione o al controllo di una società esercente un’attività economica, è idoneo ad avere effetti diretti e immediati sugli scambi commerciali tra detto Stato terzo e l’Unione, mentre un siffatto nesso specifico con questi scambi risulta assente nel caso di investimenti che non portino ad una partecipazione di questo tipo».
La riconduzione della materia degli investimenti esteri diretti alla politica commerciale comune, e quindi a una competenza dell’Unione di carattere esclusivo, ha posto subito il problema della sorte dei citati accordi bilaterali degli Stati membri, visto che, come si è poc’anzi ricordato, in presenza di una competenza di quel tipo gli Stati non possono più agire se non autorizzati dall’Unione: al pari di quanto abbiamo visto essere avvenuto per la politica commerciale comune in quanto tale, la soluzione è stata anche in questo caso quella dell’adozione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio di un apposito regolamento che ha definito le condizioni alle quali gli Stati membri sono autorizzati, a titolo transitorio, a mantenere in vigore, a modificare o a continuare a concludere gli accordi di cui sopra.
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Si tratta del reg. (UE) n. 1219/2012, del 12 dicembre 2012, che stabilisce disposizioni transitorie per gli accordi bilaterali conclusi tra Stati membri e paesi terzi in materia di investimenti (GUUE L 351, 40). Dai dati della Commissione risulta che (allo stato attuale) gli accordi bilaterali degli Stati membri in materia di investimenti sono circa 1200.
Per quanto riguarda invece il commercio internazionale di servizi e gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale, l’aggiunta operata dal Trattato di Lisbona non sembrerebbe altrettanto innovativa, trovando riflesso in una precedente giurisprudenza di Lussemburgo. Nel suo parere 15 novembre 1994, 1/94, I-5267, sulla competenza dell’allora Comunità europea a stipulare accordi internazionali in materia di servizi e di tutela della proprietà intellettuale, la Corte di giustizia aveva infatti già affermato che, nella misura in cui avvengano con paesi terzi, le forniture transfrontaliere di servizi che non implicano alcun trasferimento di persone, perché rese da un prestatore stabilito in un determinato paese a un beneficiario residente in un altro paese, rientrano nella nozione di politica commerciale comune per la loro somiglianza con uno scambio di merci (punto 44); e analogamente essa aveva concluso circa la riconducibilità della materia della proprietà intellettuale alla politica commerciale, limitando però tale possibilità ai soli profili che riguardano il divieto di immissione in libera pratica di merci contraffatte (punto 71). Per le forniture transfrontaliere di servizi, la Corte aveva invece escluso la riconducibilità alla politica commerciale delle modalità di fornitura di servizi definite dal GATS «consumo all’estero» (trasferimento del beneficiario verso il territorio del paese dove il prestatore è stabilito), «presenza commerciale» (presenza di una consociata o di una succursale sul territorio dove il servizio dev’essere reso) e «presenza di persone fisiche» (il prestatore stabilito in un paese membro fornisce servizi sul territorio di qualsiasi altro paese membro), facendo leva sull’argomento che, dal punto di vista del diritto dell’Unione, queste ipotesi rientrano nelle norme dei Trattati dedicate alla libera circolazione delle persone, tanto fisiche quanto giuridiche (ivi, punto 45 ss.).
La menzione formale degli uni (gli scambi di servizi) e degli altri (gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale) nell’art. 207, par. 1, TFUE suona perciò, più che altro, come una conferma di quella giurisprudenza, anche se, almeno per i secondi, la stessa Corte di giustizia ha già interpretato la modifica di Lisbona in senso evolutivo. In una recente sentenza (18 luglio 2013, C-414/11, Daiichi Sankyo e Sanofi-Aventis), infatti, pur ribadendo che, tra i diversi profili della proprietà intellettuale, solo quelli «che presentano un nesso specifico con gli scambi commerciali internazionali possono rientrare nella nozione di “aspetti commerciali della proprietà intellettuale”», essa ha tuttavia affermato che quel nesso può essere costituito anche dal solo fatto che quei profili siano trattati all’interno di un accordo internazionale di carattere commerciale (punto 52). In altri termini, com’era nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che anche norme sostanziali in materia di brevettabilità, pur «se non vertono sulla disciplina, doganale o di altro tipo, delle operazioni di commercio internazionale in quanto tali» (punto 53), possono considerarsi assorbite nella competenza in materia di politica commerciale dell’Unione quando inserite in un accordo internazionale di quel tipo. Nello specifico si trattava dell’art. 27 dell’accordo TRIPS. La citata sentenza Daiichi Sankyo e Sanofi-Aventis definisce, peraltro, l’aggiunta esplicita degli «aspetti commerciali della proprietà
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intellettuale» nell’art. 207, par. 1, TFUE una «significativa evoluzione» (punti 47-48). La sentenza è stata ulteriormente confermata da due successive ordinanze del 30 gennaio 2014, C-372/13, e C462/13, Warner-Lambert e Pfizer.
5. Segue: Gli strumenti della politica commerciale La competenza dell’Unione in materia di politica commerciale presenta una dimensione sia esterna, che interna, nel senso che, come emerge dallo stesso art. 207 TFUE, per attuare la politica commerciale comune le istituzioni dell’Unione possono ricorrere sia a misure autonome di regolamentazione degli scambi con paesi terzi, sia ad accordi internazionali con gli stessi. Secondo quanto sostenuto dalla Corte, infatti, la politica commerciale è «il risultato del concorso e dell’effetto combinato dei provvedimenti interni ed esterni, che non sono affatto subordinati gli uni agli altri: talvolta sono gli accordi a determinare la politica, talvolta è la politica che detta gli accordi» (Corte giust., parere 1/75, cit., 1362). a) Per quanto riguarda la conclusione di accordi internazionali con paesi terzi o organizzazioni internazionali, è previsto che ci si arrivi sulla base della procedura ordinaria di negoziazione e stipulazione degli accordi internazionali dell’Unione, seppur con alcune varianti specificamente applicabili agli accordi commerciali. Lo stesso art. 207, par. 3, TFUE specifica infatti subito che «[q]ualora si debbano negoziare e concludere accordi con uno o più paesi terzi o organizzazioni internazionali, si applica [l’art. 218 TFUE], fatte salve le disposizioni particolari del presente articolo» (comma 1). In particolare, come nella procedura ordinaria l’iniziativa deve partire dalla Commissione con la presentazione di una raccomandazione al Consiglio, che l’autorizza ad avviare i negoziati necessari impartendole le opportune direttive. Ma è espressamente previsto che i negoziati devono essere condotti dalla Commissione in consultazione con un comitato speciale designato dal Consiglio per assisterla in questo compito, comitato che fa parte dei comitati e gruppi preparatori del Consiglio ed è comunemente noto come «comitato 207». A tal fine, inoltre, la Commissione è tenuta ad informare regolarmente dei progressi dei negoziati il comitato; e analoga informazione deve fornire al Parlamento europeo (art. 207, par. 3, TFUE). Quanto invece al Consiglio, sia per l’autorizzazione di cui sopra, che per le decisioni necessarie alla conclusione degli accordi, esso delibera di regola a maggioranza qualificata, tranne che in alcuni casi specifici, tutti legati alle nuove materie che abbiamo visto essere state aggiunte alla lista iniziale dei contenuti della politica commerciale. È richiesta infatti l’unanimità «per la negoziazione e la conclusione di accordi nei settori degli scambi di servizi, degli aspetti commerciali della proprietà intellettuale e degli investimenti esteri diretti, […] qualora tali accordi contengano disposizioni per le quali è richiesta l’unanimità per l’adozione di norme interne» (art. 207, par. 4, comma 2). Nel caso specifico degli accordi nel settore degli scambi di servizi, l’unanimità è poi ugualmente necessaria quando si tratti di scambi di servizi culturali e audiovisivi che rischiano di «arrecare pregiudizio alla diversità culturale e linguistica del-
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l’Unione», o di scambi di servizi nell’ambito sociale, dell’istruzione e della sanità, che rischiano «di perturbare seriamente l’organizzazione nazionale di tali servizi e di arrecare pregiudizio alla competenza degli Stati membri riguardo alla loro prestazione» (art. 207, par. 4, comma 3, rispettivamente lett. a) e lett. b), TFUE). Tanto in un caso (meglio noto come «eccezione culturale»), come nell’altro (c.d. eccezione sociale), infatti, il voto all’unanimità è stato fortemente voluto da alcuni Stati membri, sia per la sensibilità delle materie coinvolte, che a tutela degli operatori economici europei attivi nei settori considerati. Va comunque osservato che, malgrado l’ampiezza assunta dalla nozione di politica commerciale comune e l’interpretazione ulteriormente evolutiva ad essa data dalla Corte, la prassi in materia di accordi internazionali dell’Unione ha presentato e presenta non poche deviazioni dal principio dell’esclusività della competenza dell’Unione. In molti casi, infatti, gli Stati continuano a concludere per proprio conto accordi a carattere (anche) commerciale o ad imporre anche la propria partecipazione nella negoziazione e conclusione di accordi commerciali dell’Unione. Gli stessi accordi mondiali sui prodotti di base, per i quali la Corte si è esplicitamente pronunciata a favore della ricomprensione nell’ambito della politica commerciale comune, sono stati quasi sempre oggetto di ratifica tanto da parte della Comunità/Unione, che degli Stati membri, proprio in ragione del coinvolgimento di aspetti di politica economica generale. Un’intesa tra Consiglio e Commissione di qualche tempo fa ha anzi «istituzionalizzato» tale prassi: «ogni accordo internazionale che interessi i prodotti di base sarà siglato contemporaneamente dalla Comunità e dai singoli Stati membri, che faranno quindi parte dell’accordo stesso». L’intesa è nota come Proba 20 (dalla crasi di prodotti di base). L’occasione per la pronuncia della Corte di giustizia sopra riportata era stata invece fornita dal più volte cit. parere 1/78, concernente la partecipazione all’Accordo internazionale sulla gomma naturale, negoziato in sede UNCTAD, dove si è stabilito che la competenza in materia commerciale, ai sensi dell’allora art. 113 TCEE, si estendeva all’accordo internazionale per la gomma naturale.
b) Venendo ora alle c.d. misure autonome di politica commerciale, con un’innovazione significativa rispetto ai Trattati precedenti che affidavano la relativa competenza al solo Consiglio, il quadro di attuazione della politica commerciale comune è definito, ai sensi dell’art. 207, par. 2, TFUE, con regolamenti adottati dal Parlamento europeo e dal Consiglio secondo la procedura legislativa ordinaria. In precedenza, invece, con una soluzione presente in quel Trattato fin dalle origini, l’art. 133 TCE si limitava a stabilire, in effetti, che la Commissione presentava proposte per l’attuazione del-
la politica commerciale (par. 2), e che su di esse il Consiglio si pronunciava a maggioranza qualificata (par. 4). Nessuna menzione era invece fatta del PE, al quale non spettava quindi nemmeno un ruolo consultivo sull’adozione delle misure autonome (come anche sulla conclusione di accordi internazionali).
Attraverso queste misure autonome l’Unione persegue i propri obiettivi di politica commerciale, dotandosi degli strumenti giuridici per la difesa dei propri interessi commerciali, ma, allo stesso tempo, contribuisce al sistema delle relazioni commerciali internazionali in attuazione degli obiettivi più generali della sua azione esterna.
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Di questa seconda categoria di interventi fa ad esempio parte il sistema di preferenze generalizzate (SPG), diretto, attraverso la concessione di un trattamento di favore alle importazioni di merci provenienti dai paesi in via di sviluppo, a stimolare l’economia di questi paesi in maniera distinta dai programmi e le iniziative proprie della cooperazione allo sviluppo. Come ha rilevato la Corte di giustizia (sentenza 26 marzo 1987, 45/86, Commissione c. Consiglio, cit.), «il modello cui è informato il regime comunitario delle preferenze generalizzate […] è espressione di una nuova concezione delle relazioni commerciali internazionali, che dà ampio spazio ad obiettivi di sviluppo» (punto 18), ma, in ogni caso, «il nesso con i problemi dello sviluppo non fa esulare [detto regime] dal campo della politica commerciale comune come definita dal Trattato» (punto 20). In pratica il sistema delle preferenze generalizzate, che è stato istituito per la prima volta nel 1971 ed è stato recentemente rinnovato per il periodo 2014-2023 (reg. (UE) n. 978/2012 del PE e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, relativo all’applicazione di un sistema di preferenze tariffarie generalizzate, GU L 303, 1), incentiva in via unilaterale, e quindi non su una base di reciprocità, le importazioni nell’Unione di beni originari di quei mercati, abbassando o addirittura annullando i dazi doganali che invece gravano sulla stessa tipologia di prodotto quando esso è originario da altri paesi terzi non beneficiari del SPG. Questo è organizzato intorno ad un regime generale, concesso in via residuale a tutti i paesi beneficiari, e in due regimi speciali: un regime speciale di incentivazione per lo sviluppo sostenibile e il buon governo (SPG+) di cui sono beneficiari i paesi in via di sviluppo che abbiano assunto impegni internazionali sul rispetto dei diritti umani, dei diritti dei lavoratori, dei principi ambientali e del buon governo, e un regime speciale (denominato «Tutto tranne le armi» o «Everything but arms» – EBA) a favore dei paesi meno avanzati inclusi in una lista redatta dalle Nazioni Unite e periodicamente aggiornata (attualmente comprendente 49 Stati).
Il regime generale prevede una sospensione totale dei dazi della tariffa doganale comune per i prodotti non sensibili, cioè le merci la cui importazione non produce un effetto particolarmente negativo sulle merci «comunitarie» equivalenti. Ai prodotti sensibili, cioè quelli che competono a tutti gli effetti con i loro equivalenti «comunitari», si applica non la sospensione, bensì una semplice riduzione dei dazi doganali. Sono invece del tutto esclusi dalle preferenze generalizzate i prodotti agricoli. Dal canto suo, il SPG+ concede agevolazioni tariffarie aggiuntive rispetto a quello delle SPG; mentre il regime speciale per i paesi meno avanzati consiste nella totale eliminazione dei dazi doganali sui prodotti provenienti da questi paesi tranne, appunto, le armi e le munizioni. I regimi preferenziali possono essere temporaneamente revocati, con delibera a maggioranza qualificata del Consiglio, nel caso di gravi violazioni delle condizionalità imposte ai paesi beneficiari (rispetto dei diritti umani e delle norme internazionali del lavoro, divieto di sfruttamento del lavoro dei detenuti, controllo del traffico di droga e del riciclaggio, rispetto delle norme sulla pesca, divieto di pratiche commerciali sleali e di frodi sulle norme d’origine). È infine prevista una clausola di salvaguardia, che contempla la possibilità di ripristinare i diritti della tariffa doganale comune per i prodotti la cui importazione provoca o può provocare gravi difficoltà per i produttori europei di prodotti simili o direttamente concorrenti. c) Nella stessa linea della clausola di salvaguardia appena citata, l’Unione ha poi adottato una serie di misure autonome di politica commerciale di carattere più propriamente difensivo dei produttori europei.
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Tra di esse meritano una particolare menzione innanzitutto le misure di difesa commerciale volte a contrastare comportamenti commerciali sleali, messi in atto da imprese o paesi terzi, che alterano la parità delle condizioni concorrenziali di partenza tra i prodotti originati all’interno dell’Unione e quelli importati da paesi terzi, provocando un pregiudizio all’industria dell’Unione, intesa come il complesso dei produttori di prodotti simili a quelli provenienti da paesi terzi. Nella prassi, questi comportamenti si identificano in primo luogo con le c.d. pratiche di dumping, consistenti nell’esportazione verso il mercato europeo di prodotti di imprese di paesi terzi messi in commercio a prezzi inferiori al prezzo di vendita sul mercato d’origine. Per l’esattezza, «un prodotto è considerato oggetto di dumping quando il suo prezzo all’esportazione nella Comunità è inferiore ad un prezzo comparabile del prodotto simile, applicato nel paese esportatore nell’ambito di normali operazioni commerciali» (così l’art. 1, par. 2, del reg. (UE) n. 2016/1036 del PE e del Consiglio, dell’8 giugno 2016, relativo alla difesa contro le importazioni oggetto di dumping da parte di paesi non membri dell’Unione europea, c.d. regolamento dumping). E a tal fine per «prodotto simile» si intende «un prodotto identico, vale a dire simile sotto tutti gli aspetti al prodotto considerato oppure, in mancanza di un tale prodotto, un altro prodotto che, pur non essendo simile sotto tutti gli aspetti, abbia caratteristiche molto somiglianti a quelle del prodotto considerato» (par. 4 dello stesso articolo).
L’altra ipotesi è invece che il vantaggio competitivo per quei prodotti derivi dal fatto che le imprese produttrici godono di aiuti e sovvenzioni pubblici concessi dai paesi terzi di origine in violazione delle regole commerciali internazionali. Secondo il c.d. regolamento sovvenzioni (reg. (UE) n. 2016/1037 del PE e del Consiglio, dell’8 giugno 2016, relativo alla difesa contro le importazioni oggetto di sovvenzioni provenienti da paesi non membri dell’Unione europea, GUUE L 176, 55), si deve trattare di «una sovvenzione concessa, direttamente o indirettamente, per la fabbricazione, la produzione, l’esportazione o il trasporto di qualsiasi prodotto la cui immissione in libera pratica nella Comunità causi un pregiudizio» (art. 1, par. 1). Nel determinare l’esistenza di una sovvenzione, è in particolare necessario dimostrare che c’è stato un contributo finanziario da parte di una pubblica amministrazione o di qualsiasi ente pubblico nel territorio di un paese, o che c’è stata una forma di sostegno dei redditi o dei prezzi ai sensi dell’art. XVI del GATT 1994, e che in tal modo è stato conferito un vantaggio all’impresa beneficiaria. Sono ad esempio ammesse sovvenzioni concesse in attuazione di una politica sociale o a favore di regioni svantaggiate ben determinate. Si ricorda in proposito, che l’allegato 1A dell’accordo che istituisce l’OMC («accordo OMC»), approvato con la dec. 94/800/CE, cit., comprende, tra l’altro, l’accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio del 1994 («il GATT 1994») e un accordo sulle sovvenzioni e sulle misure compensative («accordo sulle sovvenzioni»).
In un caso come nell’altro, le misure di difesa commerciale dell’Unione mirano appunto ad annullare quel vantaggio competitivo attraverso l’imposizione di un dazio addizionale (il c.d. dazio anti-dumping) o di un dazio compensativo su tali prodotti, che ne aumenta il costo dell’importazione nel territorio dell’Unione. Nei confronti delle pratiche di dumping le modalità procedurali per arrivare all’imposizione del dazio in questione e le condizioni alle quali essa è subordinata sono disciplinate dal citato regolamento dumping. La difesa contro importazioni da paesi terzi oggetto di sovvenzioni statali è invece regolata, per gli stessi profili, dal
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regolamento sovvenzioni. Ambedue recepiscono, in pratica, regole negoziate a suo tempo a livello internazionale nell’ambito del GATT e ora integrate nell’OMC; e ambedue dettano una disciplina sostanzialmente analoga delle due differenti ipotesi. Tale disciplina si articola sul ricorso a un procedimento quasi amministrativo, che consiste in un’inchiesta condotta dalla Commissione d’ufficio o dietro presentazione di una denuncia da parte dei soggetti interessati, volta a determinare l’esistenza, il grado e l’effetto di una presunta pratica di dumping o di una sovvenzione anticoncorrenziale. L’inchiesta può appunto portare, in caso di accertamento dell’esistenza della pratica di dumping o della sovvenzione, all’applicazione ai prodotti che ne sono oggetto di un dazio all’importazione o di un dazio compensativo, di un dazio, cioè, volto ad innalzare il prezzo finale del bene importato fino al livello di quello vigente nel mercato d’origine della merce. I soggetti interessati all’avvio dell’inchiesta possono presentare una denuncia alla Commissione direttamente ovvero per il tramite delle autorità competenti degli Stati membri. Sono legittimati a presentare tale denuncia i produttori del bene in concorrenza con quello importato che rappresentino almeno il 25% del totale della produzione interna all’Unione (art. 5 del regolamento dumping e art. 10 del regolamento sovvenzioni). La procedura normalmente si chiude in un anno dal suo inizio. In ogni caso, il termine perentorio previsto dai due regolamenti è di 15 mesi in caso di dumping e di 13 mesi in caso di sovvenzioni (art. 6, par. 9, regolamento dumping e art. 11, par. 9, regolamento sovvenzioni). Dopo 60 giorni dall’inizio della procedura, laddove si accerti un rischio effettivo di pregiudizio per l’industria dell’UE, possono essere imposti dazi provvisori alle imprese esportatrici del paese terzo da cui proviene la merce, per un periodo massimo di 6 mesi, prorogabili di 3 (art. 7 regolamento dumping e art. 12 regolamento sovvenzioni). L’inchiesta deve essere condotta nel pieno rispetto del principio del contraddittorio e dei diritti della difesa (di recente, v. Corte giust. 1° ottobre 2009, C-141/08 P, Foshan Shunde Yongjian Housewares & Hardware c. Consiglio, I-9147, punto 83 ss.). Nel caso del regolamento dumping il dazio addizionale è imposto, a meno che non sia possibile concludere con le aziende produttrici dei beni importati un accordo di prezzo minimo che abbia lo stesso effetto (art. 9, par. 5). Quanto invece al dazio compensativo anti-sovvenzione (art. 15, par. 1, regolamento sovvenzioni), il suo livello deve essere in linea di principio pari all’entità del sussidio di cui hanno beneficiato le imprese produttrici (espresso in percentuale rispetto al prezzo di esportazione); ma qualora un dazio inferiore sia comunque in grado di eliminare ogni pregiudizio per l’industria europea, il valore del dazio sarà pari al livello in cui tale pregiudizio risulta annullato (regola del c.d. «dazio minimo»).
L’imposizione di questi dazi è decisa con regolamento dal Consiglio, su proposta della Commissione e dietro consultazione con gli Stati membri, ma, con una procedura diversa da quella ordinaria, la proposta della Commissione si considera approvata a meno che il Consiglio non si esprima a maggioranza semplice in senso negativo entro un mese dalla presentazione della proposta (c.d. maggioranza semplice invertita: art. 9, par. 4, regolamento dumping e art. 15, par. 1, regolamento sovvenzioni). I dazi restano in vigore per cinque anni, a meno che le parti interessate o la Commissione, d’ufficio, non richiedano un «riesame in previsione della scadenza», sulla base della motivazione che questa «implica il rischio del persistere o della reiterazione del dumping [o delle sovvenzioni] e del pregiudizio» (art. 11 regolamento dumping e art. 18 regolamento sovvenzioni). In ogni caso, i dazi sono applicati se, nel corso dell’inchiesta svolta dalla Commis-
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sione, vengono accertati, oltre che l’esistenza della pratica pregiudizievole per l’industria dell’Unione, di un importante pregiudizio a carico dei produttori di questa e di un nesso causale tra il pregiudizio e la pratica accertata, anche l’interesse dell’Unione all’imposizione del dazio, nel senso che i benefici derivanti dalla introduzione del dazio devono essere superiori ai costi che ne deriverebbero, ad esempio a carico dei consumatori (art. 21 regolamento dumping e art. 31 regolamento sovvenzioni). Le valutazioni operate dalla Commissione e dal Consiglio con riguardo al sussistere di queste condizioni possono essere oggetto di controllo da parte del giudice dell’Unione. Per quanto riguarda il nesso tra il pregiudizio recato e la pratica accertata, il Tribunale dell’Unione ha precisato che «secondo una giurisprudenza costante, in sede di determinazione del danno il Consiglio e la Commissione sono tenuti a valutare se il danno che intendono constatare provenga effettivamente dalle importazioni oggetto di dumping e ad escludere invece ogni danno derivante da altri fattori, in particolare quello causato dallo stesso comportamento dei produttori comunitari»; allo stesso modo, spetta a queste istituzioni «assicurarsi che il danno imputabile a tali diversi fattori non sia preso in considerazione nella determinazione del danno […] e che, di conseguenza, il dazio anti-dumping o compensativo istituito non ecceda quanto è necessario per eliminare il danno causato dalle importazioni oggetto di dumping o di una sovvenzione» (Trib. 17 dicembre 2008, T-462/04, HEG e Graphite India c. Consiglio, II-3685, punti 135 e 146). Anche se va considerato, secondo il Tribunale, che «il problema di sapere se l’industria comunitaria abbia subito un danno e se quest’ultimo sia imputabile ad importazioni oggetto di un dumping o di una sovvenzione, nonché quello di sapere se le importazioni originarie di altri paesi, o, più in generale, altri fattori noti, abbiano contribuito al pregiudizio subito dall’industria comunitaria presuppongono la valutazione di questioni economicamente complesse, in ordine alla quale le istituzioni dispongono di un ampio potere discrezionale. Il sindacato del giudice comunitario sulle valutazioni delle istituzioni deve pertanto limitarsi all’accertamento del rispetto delle norme procedurali, dell’esattezza materiale dei fatti considerati nell’operare la scelta contestata e dell’assenza di errore manifesto nella valutazione di tali fatti o di sviamento di potere» (punto 120). Sul nesso di causalità si vedano anche Corte giust. 28 febbraio 2008, C-398/05, AGST Draht– und Biegetechnik, I-1057, punto 29 ss.; e 3 settembre 2009, C-535/06 P, Moser Baer India c. Consiglio, I-7051, punto 269 ss. Mentre con riguardo alla nozione di interesse dell’UE, anche per il profilo dei consumatori, cfr. Trib. 27 gennaio 2000, T-256/97, BEUC c. Commissione, II-101, punto 78.
d) Non costituiscono invece una reazione a pratiche commerciali «illecite» di imprese o di paesi terzi, le c.d. misure di salvaguardia, che possono essere attivate in presenza di un grave danno alle imprese dell’Unione derivante da distorsioni del mercato. Esse servono a proteggere il mercato europeo di un determinato prodotto dai danni al sistema produttivo che possono essere causati da anomale e sensibili alterazioni dei flussi commerciali (ad esempio, improvvisi e consistenti flussi di importazioni che non consentono ai produttori dell’Unione di riorganizzare la produzione per contrastarne l’impatto). Questo tipo di misure è contemplato in via generale dall’accordo OMC (c.d. salvaguardie ordinarie) e, in relazione a specifiche situazioni, da accordi bilaterali, come nel caso delle salvaguardie temporanee negoziate nel quadro della accessione della Cina all’OMC (c.d. salvaguardie speciali). Il Protocollo di adesione della Cina all’OMC del 2001 prevede un periodo di 12 anni durante il quale gli Stati membri del OMC possono, nel corso del processo di liberalizzazione verso i prodotti cinesi, adottare misure di salvaguardia transitorie per difendere specifici settori dell’eco-
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nomia che possano entrare in grave crisi a seguito dell’improvvisa apertura alla concorrenza cinese. Il Consiglio dell’UE ha così approvato, con il reg. (CE) n. 427/2003, del 28 gennaio 2003 (complementare al reg. (CE) n. 3285/94 del Consiglio, del 22 dicembre 1994, in GUCE L 349, 53, che prevede la salvaguardia verso tutti gli altri membri OMC, e al reg. (CE) n. 519/94 del Consiglio, del 7 marzo 1994, in GUCE L 67, 89, che applica la salvaguardia ai paesi non membri dell’OMC), lo strumento di salvaguardia verso la Cina, il cosiddetto TPSSM (Transitional Product-Specific Safeguard Mechanism). Tale strumento consente di difendere le imprese dell’UE attraverso l’introduzione di dazi di salvaguardia e quote ovvero attraverso altri tipi di soluzioni negoziate con la Cina, quali per es. restrizioni volontarie alle esportazioni.
Non essendo destinate a contrastare fenomeni di concorrenza sleale come il dumping o le sovvenzioni prima esaminate, le misure di salvaguardia comportano una maggiore sensibilità politica e le condizioni per la loro messa in atto risultano generalmente più rigorose. Esse del resto, a ulteriore differenza delle misure anti-dumping o anti-sovvenzioni, sono applicate erga omnes, nel senso che colpiscono le importazioni del prodotto che ne è oggetto quale che sia il paese di provenienza, incidendo quindi in misura generale sugli scambi. Non a caso in passato è stato anche sollevato il dubbio che esse potessero essere in contrasto con i principi dell’art. 110 TCE (l’attuale art. 206 TFUE), secondo il quale la Comunità contribuiva nell’interesse comune «allo sviluppo armonico del commercio mondiale, alla graduale soppressione delle restrizioni agli scambi internazionali ed alla riduzione delle barriere doganali». La Corte di giustizia l’ha comunque escluso, osservando che l’art. 110 TCE «non può interpretarsi nel senso che esso vieti alla Comunità di adottare, a pena di violare il Trattato, qualsiasi misura atta a pregiudicare gli scambi coi paesi terzi, soprattutto quando, come nella fattispecie, l’adozione di una misura del genere e richiesta dall’esistenza, nel mercato della Comunità, d’un rischio di perturbazione grave atto a compromettere le finalità di cui all’art. 39 del Trattato, e quando essa trova la sua giustificazione giuridica in disposizioni del diritto comunitario» (sentenza 15 luglio 1982, 245/81, Edeka, 2746, punto 24).
La procedura di imposizione delle salvaguardie ordinarie è disciplinata dal reg. n. 2015/478/UE del Consiglio. Essa è in linea generale incentrata sull’azione della Commissione, con il Consiglio che può venirne investito in seconda battuta da uno Stato membro. È in ogni caso previsto, però, che, «quando gli interessi [dell’Unione] lo richiedano», la decisione di prendere misure appropriate per impedire che un prodotto sia importato nella Comunità in quantitativi talmente accresciuti e/o condizioni tali da danneggiare o rischiare di danneggiare gravemente i produttori europei di prodotti simili o direttamente concorrenti, possa essere presa, su proposta della Commissione, anche direttamente dal Consiglio a maggioranza qualificata (artt. 16 e 17, reg. n. 2015/478). Il regolamento in questione è il reg. 2015/478/UE dell’11 marzo 2015, relativo al regime comune applicabile alle importazioni (GUUE L 83, 16). La disciplina ordinaria è completata dal reg. 2015/755/UE del PE e del Consiglio, del 29 aprile 2015, relativo al regime comune applicabile alle importazioni da alcuni paesi terzi (GUUE L 123, 33). I due regolamenti hanno recepito le disposizioni in materia di salvaguardie generali previste nell’accordo OMC. La procedura ordinaria è avviata dalla Commissione d’ufficio o dietro presentazione di un ricorso da parte di uno o più Stati membri. La sua durata è fissata in nove mesi dalla data del suo inizio, prorogabili in caso di necessità per altri due mesi; e dopo 60 giorni dall’inizio della proce-
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dura, possono essere imposte misure provvisorie per una durata massima di 200 giorni. La procedura è comunque preceduta da un’inchiesta svolta dalla stessa Commissione, previa consultazione con gli Stati membri e in collaborazione con gli stessi (art. 5 ss., reg. n. 2015/478). Laddove l’inchiesta dimostri che l’andamento delle importazioni di un prodotto originario di un paese terzo rischia di arrecare un pregiudizio ai produttori dell’Unione, l’importazione di quel prodotto può essere assoggettata a vigilanza comunitaria (art. 10 ss., reg. n. 2015/478). Qualora, invece, l’inchiesta porti ad accertare l’esistenza in atto di un incremento improvviso, evidente e rilevante delle importazioni di un determinato prodotto, tale da arrecare un pregiudizio grave ai produttori dell’Unione dello stesso settore o di un settore analogo, la Commissione può decidere, sempre in consultazione con gli Stati membri, l’applicazione in via eccezionale e temporanea (massimo quattro anni) di un contingente all’importazione nei confronti di quel prodotto allo scopo di proteggere la produzione europea (art. 16 ss., reg. n. 2015/478): la salvaguardia è, infatti, una misura quantitativa in deroga agli obblighi internazionali, che può assumere la forma di una limitazione di volume consistente nella previsione di un contingente quantitativo (le importazioni che superano un volume specifico non sono autorizzate) o di un contingente tariffario (le importazioni che vanno oltre il limite indicato sono possibili, ma soggette ad un dazio supplementare). Entro un mese dalla sua adozione, la decisione della Commissione può essere sottoposta da uno Stato membro al Consiglio il quale può confermarla, modificarla o abrogarla a maggioranza qualificata, fermo restando che, se non si pronuncia entro tre mesi, la decisione della Commissione si considera abrogata.
Va infine detto che misure di salvaguardia sono previste in via generale anche con riguardo alle esportazioni dal territorio dell’Unione, al fine di prevenire o porre rimedio a una situazione critica dovuta a penuria di prodotti essenziali. E anche qui la procedura prevista, che è comunque scandita su tempi molto ravvicinati, è incentrata sulla Commissione. La materia è disciplinata dal reg. 2015/479/UE del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2015, relativo a un regime comune applicabile alle esportazioni (GUUE L 83, 34). Va sottolineato che, come ricorda l’art. 1 di questo regolamento, il principio generale in materia di esportazioni è che quelle dell’UE «verso paesi terzi sono libere, vale a dire non soggette a restrizioni quantitative», con la sola eccezione, appunto, delle misure di salvaguardia di cui di seguito nel testo. Un regime di controllo delle esportazioni indipendente da quello occasionale disciplinato dal regolamento citato esiste però, per motivi diversi e legati all’esigenza di rispettare gli impegni e le responsabilità internazionali dell’UE e degli Stati membri in materia di non proliferazione, nei confronti dei prodotti c.d. «a duplice uso» («prodotti, inclusi il software e le tecnologie, che possono avere un utilizzo sia civile sia militare», e che «comprendono tutti i beni che possono avere sia un utilizzo non esplosivo sia un qualche impiego nella fabbricazione di armi nucleari o di altri congegni esplosivi nucleari»): su di essi si veda il reg. (CE) n. 428/2009 del Consiglio, del 5 maggio 2009, che istituisce un regime comunitario di controllo delle esportazioni, del trasferimento, dell’intermediazione e del transito di prodotti a duplice uso (GUUE L 134, 1). A livello procedurale, quando vi sia bisogno di un’azione immediata, spetta alla Commissione adottare le misure appropriate entro cinque giorni dalla richiesta di uno Stato membro o di sua iniziativa; e le stesse, che sono di immediata applicazione, sono comunicate al PE, al Consiglio e agli Stati membri. Entro poi i dodici giorni successivi, la Commissione adotta misure appropriate, non più d’urgenza, con una procedura di comitologia (art. 5 e 6).
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6. La cooperazione allo sviluppo. La cooperazione economica, finanziaria e tecnica con paesi terzi. L’aiuto umanitario Un apposito Titolo (il III) della Parte (Quinta) del TFUE dedicata all’azione esterna dell’Unione raggruppa una serie di disposizioni che disciplinano la cooperazione dell’Unione con i paesi terzi e l’aiuto umanitario. Sotto questa denominazione, dalla portata non immediatamente evidente, sono raggruppate disposizioni riguardanti, da un lato, attività specificamente rivolte ai paesi in via di sviluppo (artt. 208211 TFUE) e, dall’altro, la cooperazione con e l’eventuale assistenza a paesi terzi diversi da questi ultimi, e in particolare ai paesi candidati all’adesione e a quelli non in via di sviluppo del Mediterraneo e dell’Europa orientale (artt. 212 e 213 TFUE). A queste disposizioni si aggiunge, in chiusura, l’art. 214 TFUE, relativo all’aiuto umanitario, la cui portata soggettiva abbraccia invece tutti i paesi terzi. Da questo punto di vista si comprende la riconduzione di questo insieme di competenze all’azione esterna dell’Unione: al di là degli obiettivi specifici da ciascuna di esse perseguiti, infatti, tutte e tre le sfere di attività appena menzionate costituiscono tipicamente degli strumenti al servizio della politica estera dell’Unione, nel quadro dei principi e obiettivi della quale è non a caso previsto che le stesse devono essere realizzate. Quest’ultimo punto è richiamato espressamente dall’art. 208, par. 1, TFUE, per la cooperazione allo sviluppo; dall’art. 212, par. 1, TFUE, per la cooperazione con i paesi terzi diversi da quelli in via di sviluppo; e dall’art. 214, par. 1, TFUE, per l’aiuto umanitario.
Per quanto riguarda la portata materiale delle competenze che ne ritrae l’Unione, la cooperazione allo sviluppo e la cooperazione economica, finanziaria e tecnica con paesi terzi appaiono certamente contigue per molti aspetti, anche se esse si differenziano sia per i loro destinatari, che, di conseguenza, per l’ampiezza delle materie ad esse rispettivamente riconducibili. Mentre la prima, infatti, è diretta evidentemente ai paesi in via di sviluppo, la seconda designa esplicitamente come propri beneficiari i paesi terzi che non rientrano in questa categoria (ossia, nei termini dell’art. 212, par. 1, TFUE, i «paesi terzi diversi dai paesi in via di sviluppo»). E se quest’ultima è nominativamente confinata ad ambiti di cooperazione ben definiti («cooperazione economica, finanziaria e tecnica»), la cooperazione allo sviluppo, pur avendo come obiettivo principale, e implicitamente identificativo dei suoi destinatari, la «riduzione e, a termine, l’eliminazione della povertà» (art. 208, par. 1, comma 2, TFUE), persegue obiettivi più ampi di sviluppo economico e sociale in quanto tale dei paesi beneficiari, obiettivi che fanno ricadere al suo interno non solo quegli stessi ambiti di cooperazione, ma anche un ventaglio ulteriore di azioni, tra le quali, non ultime, quelle di incentivazione allo sviluppo e al consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto, e al rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. È da osservare, del resto, che non solo l’obiettivo espressamente menzionato nell’art. 208 TFUE è definito «principale» e quindi non esclusivo, ma nella medesima disposizione si precisa anche che l’UE deve tenere conto, nell’attuazione di altre politiche che possono avere incidenze
sui paesi in via di sviluppo, «degli obiettivi della cooperazione allo sviluppo». Peraltro, la versione precedente dell’art. 208 TFUE faceva menzione più estesamente, tra gli obiettivi della cooperazio-
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ne allo sviluppo dell’UE, oltre che alla lotta contro la povertà, anche allo «sviluppo economico e sociale sostenibile dei paesi in via di sviluppo, in particolare di quelli più svantaggiati», all’«inserimento armonioso e progressivo dei paesi in via di sviluppo nell’economia mondiale» e «all’obiettivo generale di sviluppo e consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto, nonché al rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (art. 177 TCE). Dal canto suo, la giurisprudenza ha confermato in modo costante la portata particolarmente ampia della base giuridica relativa alla cooperazione allo sviluppo. Sulla premessa che «non si devono limitare gli obiettivi dell’attuale politica comunitaria di cooperazione allo sviluppo alle misure direttamente intese alla lotta contro la povertà», e dunque una misura rientra in tale politica, se contribuisce al perseguimento degli obiettivi di sviluppo economico e sociale di quest’ultima (Corte giust. 20 maggio 2008, C-91/05, Commissione c. Consiglio, I-3651, punto 67), la Corte ha infatti più volte ribadito che gli obiettivi di questa politica dell’UE sono «ampi nel senso che le misure necessarie al loro perseguimento devono poter riguardare varie materie specifiche» (3 dicembre 1996, C-268/94, Portogallo c. Consiglio, I-6207, punto 37). Tanto che essa ha di recente annullato una decisione che autorizzava la firma di un accordo di cooperazione tra l’UE e le Filippine che interessava anche altre materie di competenza dell’Unione (quali, nella specie, i trasporti, l’ambiente o la circolazione delle persone), per la parte in cui la stessa contemplava anche le basi giuridiche relative a tali materie (Corte giust. 11 giugno 2014, C-377/12, Commissione c. Consiglio). E, naturalmente, la Corte ha anche precisato che, come si è appena detto, nella cooperazione allo sviluppo deve ritenersi ricompresa, quando indirizzata ai paesi appartenenti a questa categoria, anche la cooperazione economica, finanziaria e tecnica, perché anch’essa «può configurare, a seconda delle sue modalità, una forma tipica di cooperazione allo sviluppo» (Corte giust. 6 novembre 2008, C-155/07, Parlamento c. Consiglio, I-8103, punto 40).
Sicuramente più delimitato, dal punto di vista oggettivo, è invece l’ambito di applicazione dell’aiuto umanitario di cui all’art. 214 TFUE, visto che questo ne definisce la nozione come l’azione che mira «a fornire, in modo puntuale, assistenza, soccorso e protezione alle popolazioni dei paesi terzi vittime di calamità naturali o provocate dall’uomo, per far fronte alle necessità umanitarie risultanti da queste diverse situazioni» (par. 1). In compenso, l’articolo non limita sul piano soggettivo tale azione, potendone beneficiare tutti i paesi terzi. Si tratta, per tutti i tre settori appena descritti, di attività in cui l’Unione è impegnata da tempo, e in alcuni casi anche da prima che i Trattati le fornissero una base giuridica specifica. Per quanto riguarda la cooperazione allo sviluppo, ad esempio, essa ne ha perseguiti gli obiettivi sostanziali nel quadro di diverse sue azioni precedenti al Trattato di Maastricht, cui si deve l’inserimento per la prima volta nei Trattati di quella base giuridica. Come si è peraltro già visto, misure finalizzate allo sviluppo sono state infatti attuate a titolo di politica commerciale fin dal 1971 con il sistema di preferenze generalizzate; attraverso lo strumento dell’associazione con le successive convenzioni con gli ACP, la prima delle quali risale al 1975; ancora nel contesto della politica commerciale per mezzo degli accordi multilaterali sulle materie prime; adottando finanche misure specifiche in materia grazie alla clausola di flessibilità (reg. 443/92/CEE del Consiglio, del 25 febbraio 1992, riguardante l’aiuto finanziario e tecnico per i paesi in via di sviluppo dell’America latina e dell’Asia nonché la cooperazione economica con tali paesi, GUCE L 52, 1, preso sulla base dell’allora art. 235 TCE); senza contare che un intero Capitolo dei Trattati, quello dedicato all’associazione dei paesi e territori d’oltremare, risulta orientato, fin dalle origini del processo d’integrazione europea, agli obiettivi dello sviluppo.
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Nell’attuale TFUE si tratta degli artt. 198-204, il cui scopo è stato, fin dalla prima versione degli stessi, risalente al Trattato istitutivo della CEE del 1957, quello «di associare all’Unione i paesi e i territori non europei che mantengono con la Danimarca, la Francia, i Paesi Bassi e il Regno Unito delle relazioni particolari» (originariamente gli Stati membri interessati erano Belgio, Francia, Italia e Paesi Bassi), al fine «di promuovere lo sviluppo economico e sociale dei paesi e territori» (art. 198 TFUE).
Non diversamente è avvenuto per la cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i paesi terzi diversi dai paesi in via di sviluppo, prima che il Trattato di Maastricht aggiungesse al TCEE un apposito articolo con quell’oggetto, visto che prima di allora si contano numerosi provvedimenti in materia adottati sulla base della clausola di flessibilità; e su questa stessa base, peraltro, sono stati effettuati anche molti dei successivi interventi che hanno preceduto la modifica di Lisbona, data la portata più limitata della norma precedente rispetto a quella attuale. La disposizione contenuta nel precedente art. 181 A TCE (che da solo componeva il Titolo XXI di quel Trattato, dedicato appunto alla «Cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i paesi terzi») non copriva, ad es., l’assistenza finanziaria d’urgenza, ora esplicitamente prevista dall’art. 213 TFUE (sul quale cfr. di seguito nel testo). Ciò spiega perché anche dopo il Trattato di Nizza molti provvedimenti concernenti questo aspetto sono stati adottati sulla base della clausola di flessibilità (in quel momento costituita dall’art. 308 TCE): si veda per tutti la dec. 2009/892/CE del Consiglio, del 30 novembre 2009, relativa alla concessione di assistenza macrofinanziaria a favore della Serbia (GUUE L 320, 9).
Non sono mancate infine, prima dell’introduzione nel TFUE dell’art. 214, nemmeno misure specifiche di aiuto umanitario, basate però su basi giuridiche relative a competenze diverse, ma contigue, dell’Unione. Si vedano, ad es., il reg. (CE) n. 1257/96 del Consiglio, del 20 giugno 1996, relativo all’aiuto umanitario (GUCE L 163, 1), basato sull’art. 130 W poi 179 TCE (cooperazione allo sviluppo), e la dec. 93/603/PESC del Consiglio, dell’8 novembre 1993, relativa all’azione comune decisa dal Consiglio in base all’art. J.3 del precedente TUE, per sostenere l’inoltro dell’aiuto umanitario in Bosnia Erzegovina (GUCE L 286, 1), adottata nel quadro della PESC.
Tutti e tre i tipi di attività di cui parliamo si basano su una competenza dell’Unione che abbiamo definito parallela, perché destinata a convivere con quella degli Stati membri. Sia l’Unione, che questi ultimi possono prendere proprie iniziative in materia, infatti, senza che l’esercizio da parte della prima della sua competenza abbia l’effetto di impedire o incidere sulla pienezza della corrispondente competenza degli Stati membri. Il Trattato lo esclude formalmente: già secondo l’art. 4, par 4, TFUE, infatti, «[n]ei settori della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario, l’Unione ha competenza per condurre azioni e una politica comune, senza che l’esercizio di tale competenza possa avere per effetto di impedire agli Stati membri di esercitare la loro»; inoltre, gli artt. 209, par. 2, 212, par. 3, e 214, par. 4, TFUE, precisano, ciascuno per il proprio settore, che l’Unione può concludere con il paesi terzi e le organizzazioni internazionali competenti qualsiasi accordo utile alla realizzazione degli obiettivi per esso previsti, senza che ciò pregiudichi la competenza degli Stati membri a negoziare nelle sedi internazionali e a concludere accordi. Ma non basta: sem-
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pre il Trattato sottolinea anche, in questo caso in modo esplicito, il carattere parallelo, ma allo stesso tempo complementare delle due sfere di competenza. Secondo quegli stessi articoli, infatti, sia nel campo della cooperazione allo sviluppo, che in quelli della cooperazione con i paesi terzi e dell’aiuto umanitario, le politiche e le azioni dell’Unione e degli Stati membri «si completano e si rafforzano reciprocamente». Nel caso della cooperazione allo sviluppo, anzi, l’art. 210 TFUE auspica un coordinamento delle rispettive politiche e una concertazione dei rispettivi programmi anche all’interno delle organizzazioni internazionali e in occasione delle conferenze internazionali, proprio al fine di favorire «la complementarità e l’efficacia» delle azioni messe in campo, se del caso anche congiuntamente, dall’Unione e dagli Stati membri. In vista di ciò, lo stesso articolo invita la Commissione a prendere qualsiasi iniziativa utile a promuovere tale coordinamento. Tutte e tre queste sfere di attività, infine, implicano il ricorso tanto ad atti delle istituzioni dell’Unione di natura puramente interna, quanto ad accordi internazionali. Per quanto riguarda i primi si tratta essenzialmente, in tutti e tre i casi, di atti di portata generale, da adottare con la procedura legislativa ordinaria, destinati a fissare la cornice normativa e finanziaria dei successivi interventi operativi. Si vedano al riguardo, per i tre settori, gli artt. 209, par. 1, 212, par. 2, e 214, par. 3, TFUE. Nel caso della cooperazione allo sviluppo è esplicitamente previsto che questi atti possano anche riguardare «programmi pluriennali di cooperazione con paesi in via di sviluppo o programmi tematici». In realtà questo è possibile anche per la cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i paesi terzi di cui all’art. 212 TFUE, come confermano del resto i regolamenti fin qui adottati sulla base dei due articoli e di cui di seguito nel testo, con cui sono stati istituiti strumenti anche tematici.
E in ragione della contiguità dei rispettivi ambiti di applicazione e dell’identità delle procedure decisionali da utilizzare, nel caso delle due forme di cooperazione (cooperazione allo sviluppo e cooperazione con paesi terzi) le relative disposizioni sono state spesso adottate anche congiuntamente all’interno di uno stesso atto. Ciò è in particolare avvenuto per i primi esempi di applicazione delle norme scaturite dal Trattato di Lisbona. Sulla base tanto dell’art. 209 TFUE, che dell’art. 212 TFUE, sono stati infatti adottati una serie di regolamenti con cui sono stati istituiti uno strumento di partenariato per la cooperazione con paesi terzi (in via di sviluppo e non), uno strumento inteso a contribuire alla stabilità e alla pace indirizzato ad ambedue le categorie di paesi, nonché i relativi strumenti finanziari e le norme e procedure per la loro attuazione. Ma non sono mancati, in questo stesso periodo, anche regolamenti specificamente riguardanti una sola delle due forme di cooperazione, come quelli contenenti, rispettivamente, uno strumento di assistenza preadesione e uno strumento europeo di vicinato, ambedue riconducibili essenzialmente alla cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i paesi terzi diversi da quelli in via di sviluppo. Questi diversi atti meritano di essere elencati nell’ordine. Si tratta del reg. (UE) n. 234/2014 del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2014, che istituisce uno strumento di partenariato per la cooperazione con i paesi terzi (GUUE L 77, 77), del reg. (UE) n. 230/2014 del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2014, che istituisce uno strumento inteso a contribuire alla stabilità e alla pace (GUUE L 77, 1), e del reg. (UE) n. 235/2014 del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2014, che istituisce uno strumento finanziario per la promozione della democrazia e i diritti umani nel mondo
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(GUUE L 77, 85). È stato ugualmente adottato su una base giuridica congiunta il reg. (UE) n. 233/2014 del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2014, che istituisce uno strumento per il finanziamento della cooperazione allo sviluppo per il periodo 2014-2020 (GUUE L 77, 44), perché, pur riguardando essenzialmente i paesi in via di sviluppo, può eccezionalmente coprire anche azioni rivolte a paesi e territori non ascrivibili a tale categoria. Si vedano poi il reg. (UE) n. 236/2014 del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2014, che stabilisce norme e procedure comuni per l’attuazione degli strumenti per il finanziamento dell’azione esterna dell’UE (GUUE L 77, 95), il reg. (UE) n. 231/2014 del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2014, che istituisce uno strumento di assistenza preadesione (IPA II) (GUUE L 77, 11), e il reg. (UE) n. 232/2014 del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2014, che istituisce uno strumento europeo di vicinato (GUUE L 77, 27).
Nell’ambito della cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i paesi terzi diversi da quelli in via di sviluppo, il TFUE fornisce anche, per la prima volta, la base giuridica per l’adozione di provvedimenti specifici. L’art. 213 TFUE stabilisce infatti, che «[a]llorché la situazione in un paese terzo esige un’assistenza finanziaria urgente da parte dell’Unione, il Consiglio, su proposta della Commissione, adotta le decisioni necessarie». E di questa base giuridica, che riguarda appunto solo provvedimenti puntuali di concessione di tale assistenza, il Consiglio, che è chiamato a deliberare a maggioranza qualificata, si è già avvalso. Se ne vada un esempio nella dec. 2014/215/UE del Consiglio, del 14 aprile 2014, relativa alla concessione di assistenza macrofinanziaria a favore dell’Ucraina (GUUE L 111, 85). Appare perciò incomprensibile la dec. 938/2010/UE del PE e del Consiglio, del 20 ottobre 2010, relativa alla concessione di assistenza macrofinanziaria a favore della Repubblica moldova (GUUE L 277, 1), adottata invece sul fondamento dell’art. 212 TFUE, articolo in cui rientra invece l’eventuale definizione di un quadro generale per azioni di questo tipo. Su quest’ultima base giuridica era infatti fondata la proposta di regolamento del PE e del Consiglio diretta a stabilire le disposizioni generali relative all’assistenza macrofinanziaria ai paesi terzi, presentata dalla Commissione il 4 luglio 2011 (COM(2011) 396 def.) e poi ritirata a seguito della sentenza della Corte di giustizia 14 aprile 2015, C-409/13, Consiglio c. Commissione, di cui si è parlato supra, p. 199.
Quanto invece all’aiuto umanitario, il quadro di attuazione delle relative azioni, previsto dall’art. 214, par. 3, TFUE, non è stato finora definito, lasciando pertanto ancora in vigore, per il momento, quello precedente, basato sull’art. 179 TCE, e quindi sulla competenza dell’Unione in materia di cooperazione allo sviluppo (reg. (CE) n. 1257/96 del Consiglio, del 20 giugno 1996, relativo all’aiuto umanitario, GUCE L 163, 1). In compenso è stato però adottato il regolamento, di cui al par. 5 dello stesso art. 214 TFUE, con cui il Parlamento europeo e il Consiglio hanno fissato, in procedura legislativa ordinaria, lo statuto e le modalità di funzionamento di un corpo volontario europeo di aiuto umanitario. Il regolamento prevede la mobilitazione di volontari, con formazione in qualità di «Volontari europei per l’aiuto umanitario», in progetti umanitari in tutto il mondo. I volontari dovranno essere selezionati e mobilitati da organizzazioni umanitarie certificate che aderiscono a una serie di norme e procedure sulla gestione dei volontari nel settore degli aiuti umanitari, fissate dallo stesso regolamento. Si prevede inoltre che la Commissione fornisca finanziamenti, un programma europeo di formazione, un registro centrale comprendente tutti i volontari sottoposti a formazione, e una rete informatica che consenta ai volontari di interagire on-line prima, durante e dopo la mobilitazione.
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Il regolamento in questione è il reg. (UE) n. 375/2014 del PE e del Consiglio, del 3 aprile 2014 (GUUE L 122, 1), che istituisce il Corpo volontario europeo di aiuto umanitario («iniziativa Volontari dell’Unione per l’aiuto umanitario»). Per far parte dei volontari occorre aver compiuto 18 anni ed essere cittadini o residenti di lunga durata di un paese dell’UE o di un altro paese europeo partecipante (art. 11 del regolamento). E può trattarsi di giovani che vogliono fare un’esperienza di lavoro nel settore umanitario, di esperti o di pensionati già in possesso di qualifiche utili. Le organizzazioni certificate (sulla base di una procedura elaborata dalla Commissione) potranno chiedere finanziamenti per inviare sul campo i volontari europei per lavorare su progetti opportunamente scelti (art. 12 del regolamento). L’UE provvederà anche alla formazione di personale e volontari locali (per un totale di 7.000 persone) di organizzazioni dei paesi in via di sviluppo (art. 13 del regolamento).
Un cenno va infine alla possibilità, prevista per tutti e tre i settori di azione esterna sopra esaminati, che l’Unione si avvalga, per la loro attuazione, anche di accordi con paesi terzi o organizzazioni internazionali, da concludere con la procedura stabilita dall’art. 218 TFUE. Tale possibilità, che si è tradotta in passato in una serie di accordi bilaterali soprattutto in materia di cooperazione allo sviluppo, non ha ancora avuto applicazione concreta dopo il Trattato di Lisbona. Unica eccezione, riguardante peraltro proprio il settore dell’aiuto umanitario, è stata l’adesione dell’Unione in quanto tale alla Convenzione di Londra sull’assistenza alimentare del 25 aprile 2012, decisa con la dec. 2012/738/UE del Consiglio, del 13 novembre 2012 (GUUE L 330, 1).
7. La clausola di solidarietà Il TFUE contempla la possibilità che l’Unione si mobiliti in aiuto anche di uno Stato membro. L’ipotesi è oggetto di un apposito articolo (ossia, l’art. 222 TFUE), comunemente denominato «clausola di solidarietà», inserito anch’esso nel Titolo del Trattato dedicato all’azione esterna dell’Unione. Per questo motivo ne trattiamo in questa sede, anche se neppure i possibili punti di contatto con l’aiuto umanitario a paesi terzi, di cui si è parlato nel paragrafo precedente, sembrano giustificare un effettivo collegamento con l’azione svolta dall’Unione sul piano internazionale. È vero che tra le cause che possono motivare, ai sensi di tale articolo, un intervento in aiuto di uno Stato vi è non solo il fatto che, come previsto per i paesi terzi, questo sia «vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo», ma anche quella che esso sia «oggetto di un atto terroristico», ipotesi che può in effetti presentare risvolti legati alla politica estera dell’Unione (si pensi a un attacco terroristico riconducibile a un paese terzo o comunque proveniente dall’esterno dell’Unione) e che può implicare anche il ricorso a mezzi militari nel quadro della PSDC. Va da sé, tuttavia, che a prescindere dalle eventuali iniziative che potranno essere assunte ai sensi degli articoli che disciplinano la PESC, il tipo di intervento che potrà essere dispiegato in base all’art. 222 TFUE sarà in ogni caso limitato al territorio dell’Unione. Ciò emerge in modo esplicito dalle stesse disposizioni di questo articolo. Esso prevede, infatti, che quando ricorra una delle tre situazioni sopra elencate (attacco terroristico, calamità naturale o calamità provocata dall’uomo), l’Unione debba mo-
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bilitare tutti gli strumenti di cui dispone, inclusi i mezzi militari messi a sua disposizione dagli Stati membri, per, nel primo caso, prevenire la minaccia terroristica «sul territorio degli Stati membri», prestare assistenza allo Stato attaccato «sul suo territorio», e proteggerne le istituzioni democratiche e la popolazione civile da un eventuale attacco terroristico; e, nel secondo caso, per «prestare assistenza a uno Stato membro sul suo territorio, su richiesta delle sue autorità politiche, in caso di calamità naturale o provocata dall’uomo». Almeno per l’ipotesi terroristica, il meccanismo di solidarietà disciplinato dall’art. 222 sembra per certi versi sovrapporsi alla clausola di difesa reciproca che abbiamo visto essere prevista nell’art. 42, par. 7, TFUE. Se è vero, infatti, che quest’ultima appare principalmente orientata su casi di aggressione tra Stati, si potrebbe ugualmente sostenere la riconducibilità ad essa anche di un’aggressione terroristica, visto che vi si parla testualmente di «aggressione armata» nel territorio di uno Stato membro. Proprio il fatto, però, che l’art. 222 TFUE evochi esplicitamente, e specificatamente, la solidarietà dell’Unione e degli Stati membri a fronte di eventi terroristici, dovrebbe indurre piuttosto a escludere che rispetto ad essi possa essere invece invocata la clausola di difesa reciproca. Diversamente sembra averla interpretata la Francia, quando l’ha formalmente invocata, per la prima volta, dopo gli attentati terroristici di Parigi del novembre 2015. Subito dopo questi, infatti, il presidente francese François Hollande ha espressamente chiesto l’aiuto e l’assistenza degli altri Stati membri sulla base dell’art. 42, par. 7, TUE. E dal canto loro, com’era scontato, i ministri della difesa degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio Affari esteri del 17 novembre successivo hanno espresso il loro unanime sostegno alla Francia e si sono detti pronti a fornire tutto l’aiuto e l’assistenza necessari. Non è dato però sapere in che termini la richiesta francese e la reazione degli altri Stati membri hanno avuto effettivamente seguito.
Il dovere di solidarietà sancito dalla clausola di cui all’art. 222 in relazione al prodursi degli eventi da essa previsti è peraltro imposto tanto all’Unione in quanto tale, quanto ai singoli Stati membri, i quali sono analogamente tenuti dal par. 2 dell’articolo a prestare assistenza, su richiesta delle sue autorità politiche, allo Stato vittima. L’intervento dell’Unione e degli Stati membri non si presenta formalmente come alternativo. È ovvio però che la possibilità di un intervento contemporaneo dovrà essere oggetto di una valutazione congiunta, da svolgersi, probabilmente, nel quadro del coordinamento che gli Stati membri, come richiesto dalla disposizione da ultimo citata, devono tenere in sede di Consiglio. Per l’intervento dell’Unione in quanto tale, invece, è previsto (art. 222, par. 3) che le modalità di attuazione debbano essere definite dal Consiglio con una decisione da adottare a maggioranza qualificata su proposta congiunta della Commissione e dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, decisione di cui è informato il Parlamento europeo. Quando però tale decisione ha implicazioni nel settore della difesa, perché, ad esempio comporta l’impiego di mezzi militari, il Consiglio delibera all’unanimità. Il Consiglio vi ha provveduto con una decisione del 24 giugno 2014 (dec. 2014/415/UE, GUUE L 192, 53), senza però toccare aspetti implicanti il settore della difesa (art. 2, par. 2).
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La decisione fissa in particolare la procedura per fare ricorso alla clausola, stabilendo che lo Stato interessato può invocarla, rivolgendosi alla presidenza del Consiglio dell’Unione e al presidente della Commissione, quando, «dopo essersi avvalso delle possibilità offerte dai mezzi e dagli strumenti esistenti a livello nazionale e dell’Unione, ritiene che la crisi oltrepassi chiaramente le capacità di risposta di cui dispone» (art. 4, par. 1). In tal caso, l’Unione farà ricorso, a seconda dei casi, principalmente al meccanismo di protezione civile dell’Unione europea (di cui di seguito nel testo) e alle strutture istituzionali della politica di sicurezza e di difesa comune.
Che il ricorso a mezzi militari non sia una mera eventualità è dimostrato dal fatto che, ai fini dell’attuazione in quanto tale della clausola di solidarietà da parte dell’Unione, è stabilito in via generale che il Consiglio debba essere assistito in ogni caso dal COPS, con il sostegno delle strutture sviluppate nell’ambito della politica di sicurezza e difesa comune, e dal Comitato per la sicurezza interna di cui all’art. 71 TFUE (supra, p. 534). E anche eventuali pareri al Consiglio sulle decisioni da prendere devono essere presentati congiuntamente dal COPS e dal Comitato per la sicurezza interna. La possibilità di un impiego di mezzi militari ha indotto a precisare in una Dichiarazione (n. 37), allegata ai Trattati, al fine di venire incontro agli Stati membri che seguono una politica di neutralità, che, fatte salve le misure adottate dall’Unione per assolvere agli obblighi di solidarietà nei confronti di uno Stato membro di cui all’art. 222 TFUE, nessuna delle disposizioni di questo articolo «pregiudica il diritto di un altro Stato membro di scegliere i mezzi più appropriati per assolvere ai suoi obblighi di solidarietà nei confronti dello Stato membro in questione». Va da sé che, in ogni caso, come previsto anche dalla decisione del 2014, nell’attuazione della clausola di solidarietà giocherà un ruolo importante, anche per la sua vocazione ad operare come sede di coordinamento degli Stati membri, soprattutto il meccanismo unionale di protezione civile, istituito da un recente regolamento del Consiglio, il quale è espressamente chiamato a «contribuire all’attuazione [dell’art. 222 TFUE], mettendo a disposizione, ove necessario, le sue risorse e capacità». Così il considerando n. 4 della dec. 1313/2013/UE del PE e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, relativo al meccanismo unionale di protezione civile (GUUE L 347, 924), in vigore dal 1° gennaio 2014. Su di esso v. anche p. 798 ss. Tale atto riforma il Meccanismo europeo di protezione civile istituito con decisione del Consiglio del 23 ottobre 2001. La nuova riforma integra, in un solo atto, le attività di cooperazione europea in materia di protezione civile, e la relativa programmazione finanziaria per il periodo 2014-2020. I poteri dell’UE in materia di protezione civile sono sanciti all’art. 196 TFUE, in virtù del quale l’azione dell’Unione è intesa a promuovere una cooperazione operativa rapida ed efficace all’interno dell’Unione tra i servizi di protezione civile nazionali e a favorire la coerenza delle azioni intraprese a livello internazionale in tale materia.
Va infine osservato che la solidarietà dell’Unione a fronte di catastrofi naturali che possono colpire uno Stato membro ha trovato regolamentazione anche ad altro titolo e sulla base di altri articoli dei Trattati. Fin dal 2002, infatti, sulla base dell’allora art. 159, comma 3, TCE (attuale art. 175, comma 3, TFUE) è stato istituito il Fondo di solidarietà dell’Unione europea, fondo che permette a questa di sostenere finanziariamente uno Stato membro in caso di gravi catastrofi naturali che hanno prodotto profonde ripercussioni sulle condizioni di vita, sull’ambiente naturale o
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L’azione esterna dell’Unione
sull’economia di una o più sue regioni. L’intervento del Fondo, che si concretizza in un contributo finanziario del bilancio dell’Unione a parziale copertura degli interventi per l’emergenza e il risanamento delle zone sinistrate, deve essere attivato dallo Stato interessato con una richiesta circostanziata, anche dal punto di vista finanziario, alla Commissione. Il Fondo di solidarietà è stato istituito con il reg. 2012/2002/CE del Consiglio, dell’11 novembre 2002 (GUCE L 311, 3). Creato a seguito di una serie di alluvioni che devastarono in quell’anno l’Europa centrale, esso fu adottato sulla base giuridica relativa alla coesione economica, sociale e territoriale (unitamente alla clausola di flessibilità dell’art. 308 TCE), per l’assenza, all’epoca, di una base giuridica specifica nei Trattati come l’attuale art. 222 TFUE. L’Italia è stata finora lo Stato membro che ha ricevuto i contributi più ingenti dal Fondo di solidarietà: 500 milioni di euro per il terremoto dell’Aquila e 1,2 miliardi per il terremoto dell’Italia centrale del 2016.
Nel 2016, poi, l’Unione si è dotata di un’ulteriore strumento per la fornitura di sostegno di emergenza all’interno dell’Unione, con l’adozione del reg. 2016/369/UE del Consiglio, del 15 marzo 2016 (GUUE L 70, 1), regolamento basato sull’art. 122, par. 1, TFUE, che consente anch’esso un intervento finanziario di emergenza dell’Unione in caso di una di quelle catastrofi naturali o provocate dall’uomo che giustificano, come abbiamo appena visto, l’attivazione della clausola di solidarietà dell’art. 222 TFUE. Tale strumento, finalizzato a far fronte alle esigenze umanitarie delle persone colpite da catastrofi sul territorio dell’Unione, «ad esempio sotto forma di assistenza alimentare, assistenza sanitaria di urgenza, rifugio, acqua, servizi igienico sanitari, protezione e istruzione» (considerando n. 5 del regolamento), prevede a differenza da quello precedentemente citato il finanziamento di azioni dell’Unione in quanto tale, perché attivate dal Consiglio con decisione presa su proposta della Commissione (art. 2), e attuate da quest’ultima direttamente o tramite «organizzazioni partner» da essa selezionate (art. 3, par. 4). È naturalmente previsto che questo sostegno di emergenza dell’Unione debba intervenire a supporto e integrazione delle azioni dello Stato membro interessato, con il quale deve essere assicurata una stretta cooperazione e consultazione (art. 1, par. 2). Ma è soprattutto importante segnalare che lo stesso regolamento precisa nel suo preambolo che tra le catastrofi naturali o provocate dall’uomo che ne giustificano l’applicazione deve ritenersi compresa anche «la crisi migratoria e dei rifugiati che affronta attualmente l’Unione», perché «esempio di una situazione che, nonostante gli sforzi compiuti dall’Unione per risolverne le cause profonde individuate nei paesi terzi, può ripercuotersi direttamente sulla situazione economica degli Stati membri» (considerando n. 2), situazione economica alla cui stabilizzazione è finalizzato l’art. 122 TFUE che fornisce appunto la base giuridica al regolamento ed alle azioni da esso previste.
Parte Sesta
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CAPITOLO I
Profili generali Sommario: 1. Premessa. – 2. L’assetto dei rapporti tra gli ordinamenti dell’Unione e italiano. In generale. – 3. Segue: L’incidenza sui rapporti tra il Governo e il Parlamento nazionale. – 4. Segue: E sui rapporti tra lo Stato e le autonomie locali.
1. Premessa Anche se la scelta europeista è stata e resta una costante della politica italiana e ne ha marcato per quasi 60 anni gli sviluppi, non può certo dirsi che l’esperienza della nostra partecipazione al processo d’integrazione europea si sia sviluppata secondo un percorso piano e lineare. Tutt’altro. Com’è accaduto in varia misura per molti altri Stati membri, e certamente per quasi tutti i «fondatori», anche per l’Italia lo sforzo di adeguamento alla costruzione dell’Unione e ai suoi incessanti, ma inizialmente imprevedibili, sviluppi si è rivelato assai faticoso. Nel nostro Paese, poi, esso ha dovuto scontare, più che in altri, le carenze storiche, le rigidità, i ritardi e i problemi strutturali del sistema, come pure la lenta ed esitante maturazione delle forze politiche, economiche e sociali, degli apparati pubblici, della società civile e, diremmo, della coscienza stessa della collettività nazionale. Col tempo, tuttavia, la situazione è progressivamente migliorata, grazie anzitutto agli sviluppi inarrestabili del processo d’integrazione. Di tali sviluppi – lo si può dire senza indulgere all’ottimismo – si è progressivamente acquisita nel nostro paese una crescente e più matura consapevolezza, espressa oltre che da un approccio più concreto e costruttivo da parte di tutti gli ambienti interessati, anche dalle reazioni normative e organizzative di cui diremo più avanti, tese a creare, malgrado la persistenza di molteplici difficoltà, le condizioni per un più efficace adeguamento complessivo del sistema alle esigenze dell’appartenenza all’Unione europea. Nelle prossime pagine, illustreremo per l’appunto come il nostro sistema istituzionale ha risposto all’impatto con l’esperienza europea o, meglio, come questa ha inciso sulla configurazione e l’evoluzione di detto sistema. Naturalmente, data l’ampia gamma dei problemi che vengono in rilievo, ci si limiterà a quelli più significativi ai presenti fini.
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2. L’assetto dei rapporti tra gli ordinamenti dell’Unione e italiano. In generale In primo luogo, viene in rilievo la lunga querelle che ha segnato la ricerca di un complessivo e convincente assetto dei rapporti tra l’ordinamento giuridico dell’Unione e quello italiano (così come, sia pur con le specificità di ciascuno, è avvenuto per gli ordinamenti degli altri Stati membri). Una querelle che ha coinvolto necessariamente tutte le tematiche connesse a quei rapporti: dalla ricerca dello stesso ancoraggio costituzionale della partecipazione dell’Italia alla Comunità prima e all’Unione dopo, e quindi della legittimità costituzionale (della legge ordinaria di ratifica) dei Trattati comunitari, alla questione della gerarchia e della forza delle norme dell’uno e dell’altro ordinamento, della salvaguardia dei principi fondamentali enunciati dalla Costituzione, e così via; e che si è sviluppata soprattutto in parallelo con l’evoluzione che intanto marcava rapidamente e profondamente il sistema comunitario, segnatamente con l’affermazione dei principi del primato e della c.d. applicabilità diretta del relativo diritto nell’ordinamento giuridico degli Stati membri. Molto riassuntivamente, dato che questa problematica sarà più ampiamente esaminata nel capitolo successivo, basti qui notare che la soluzione delle indicate questioni non è stata certo agevolata dal sostanziale silenzio che la nostra Carta fondamentale, pur molto aperta sul terreno delle relazioni internazionali, manteneva e ha sostanzialmente continuato a mantenere sul punto, privando di un chiaro e convincente ancoraggio costituzionale la partecipazione italiana al processo d’integrazione; un silenzio che ha resistito malgrado le molteplici proposte formulate per superarlo e la diversa reazione di altri Stati fondatori delle Comunità (e ancor più di quelli che hanno aderito successivamente), e che – oltre ad alimentare alluvionali dibattiti dottrinali – ha costretto a continui equilibrismi per cercare di conciliare le esigenze della partecipazione alla costruzione europea con le pertinenti ma scarne disposizioni della Costituzione del 1948, che certo non erano state scritte in funzione di quel processo. Come si vedrà, però, un qualche assestamento alla fine è stato trovato, ed esso va ascritto a merito della Corte costituzionale, la quale ha definito un efficace e fin qui resistente equilibrio nell’assetto dei rapporti tra diritto dell’Unione e diritto italiano, supplendo con la propria giurisprudenza alla segnalata situazione. Certo, restano al riguardo non poche incertezze teoriche, e, sul piano strettamente formale, una situazione di ambiguità, che neppure la recente modifica costituzionale (con l’inserimento del nuovo art. 117 Cost.) ha definitivamente risolto, visto che l’intero impianto continua a poggiare per l’essenziale su una costruzione giurisprudenziale, ancorché di rango costituzionale. Per non parlare delle difficoltà che talvolta quest’ultima suscita nella sua concreta applicazione o, meglio, dei pretesti che se ne traggono a valle (fortunatamente ormai in pochi ed isolati casi) per sviluppi con essa poco coerenti. Occorre tuttavia chiedersi seriamente se la situazione attuale possa davvero essere sostanzialmente e concretamente migliorabile a Costituzione invariata. E ciò non solo perché nell’arco di circa 30 anni, all’inizio faticosamente ma poi via via in modo più convinto, la soluzione delineata dalla Consulta negli anni ’80 e affinata dalle successive pronunce, si è in qualche modo affermata nella prassi e, prima ancora, nella
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coscienza degli operatori giuridici italiani, a partire dagli stessi giudici. Non solo perché finalmente essa ha prodotto in concreto risultati assai apprezzabili, per giunta in un contesto di rapporti molto positivi nel dialogo tra Corte di giustizia e giudici italiani. Ma anche perché, a ben vedere, non è facile immaginare oggi soluzioni alternative, capaci di compensare l’abbandono di una pratica consolidata con la certezza di risolvere davvero le segnalate difficoltà, senza crearne di nuove. Né, d’altra parte, convince pienamente l’idea di un’integrazione del dettato costituzionale sul punto. In effetti, a parte l’estrema difficoltà – comprovata dai fallimenti di tutti i tentativi effettuati in questi anni – di conseguire un simile obiettivo, c’è da chiedersi se, tenuto conto dei termini in cui si è ormai sviluppata la costruzione europea, davvero potrebbero ritenersi risolti tutti i problemi relativi all’assetto dei rapporti tra i due ordinamenti in causa. È stato (ed è) certo legittimo, se non doveroso, interrogarsi sulla qualificazione di tali rapporti, e segnatamente sull’individuazione del fondamento del primato del diritto dell’Unione, e proporsi l’inquadramento teorico di tali questioni alla luce della «storica» alternativa monismo/dualismo. Ma è molto dubbio che simili soluzioni, imperniate per definizione su una costruzione puramente verticale di detti rapporti, riuscirebbero a far fronte alla complessità di un processo che ha rivelato negli anni una straordinaria capacità di penetrazione e ramificazione in tutte le strutture (normative, giudiziarie, organizzative, ecc.) e in tutti i segmenti dell’esperienza politica, sociale ed economica degli enti che vi partecipano, connotandosi per questo motivo in un senso che si potrebbe qualificare piuttosto come circolare o, se si preferisce, «a ragnatela». Vero è che i problemi che un simile intreccio solleva difficilmente possono ricevere risposte pienamente soddisfacenti sulla sola base del tradizionale armamentario formale, perché la rilevata complessità delle situazioni non si presta a contrapposizioni tra scelte semplificate e alternative, e quindi inevitabilmente radicali, ma suggerisce piuttosto, specie in caso di tensioni più profonde, una considerazione delle ragioni di tutti i sistemi in causa, e quindi probabilmente soluzioni meno rigide, del tipo appunto di quella che ora assicura lo schema definito dalla Corte costituzionale.
3. Segue : L’incidenza sui rapporti tra il Governo e il Parlamento nazionale A parte quelli appena esaminati, un particolare interesse rivestono anche i temi che attengono più direttamente all’assetto costituzionale dello Stato e al modo di essere e di funzionare delle sue istituzioni. Sotto questo profilo va ricordata anzitutto l’incidenza del processo d’integrazione europea sui rapporti tra i poteri supremi dello Stato e sulle alterazioni degli equilibri costituzionali che ne sono conseguiti. Il problema si è posto in via principale – e in parte ancora si pone – in riferimento ai rapporti tra il Governo e il Parlamento nazionale. È ben noto, infatti, che il ruolo del primo sul piano delle relazioni internazionali dello Stato è di gran lunga preminente rispetto al secondo; ma per quanto qui interessa, tale preminenza è stata ulteriormente rafforzata dal fatto che nelle sedi europee i reali centri decisionali sono stati a lungo rappresentati quasi esclusivamente da istanze composte da membri degli esecutivi nazionali (Consiglio, Vertici, Consi-
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glio europeo, ecc.). I trasferimenti di competenze (specie legislative) dagli Stati membri alle Comunità si prestavano quindi a tradursi in una parallela espropriazione delle competenze dei parlamenti da parte degli esecutivi nazionali, dato che per l’indicata via questi ultimi potevano in qualche modo recuperare la possibilità di interferire nell’esercizio di quelle competenze. In Italia, poi, questa situazione assunse per un certo tempo aspetti davvero sconcertanti, visto che non solo il negoziato a livello europeo, ma perfino l’attuazione della normativa che ne conseguiva furono quasi interamente lasciati al Governo. Il che portava in definitiva all’abbandono della politica comunitaria nelle mani della burocrazia ministeriale, che provvedeva cosi a gestirla al di fuori e al di sopra del Parlamento. Oggi, dopo l’intenso dibattito che si è svolto in materia e dopo la profonda evoluzione intervenuta anche all’interno del sistema dell’Unione, la situazione è di molto cambiata. E ciò non solo perché lo stesso Parlamento europeo si è visto attribuire progressivamente un ruolo assai più importante in seno all’Unione, fino a diventare in un numero crescente di materie un autentico co-legislatore (supra, p. 189 ss.), ma soprattutto, e per quanto qui interessa, perché i parlamenti nazionali hanno rivendicato con maggiore convinzione e fermezza (e in parte ottenuto) un ruolo più attivo e incisivo nel processo decisionale europeo, specie dopo che anche i più distratti tra essi hanno potuto misurare come e quanto la ormai generalizzata accettazione del principio del primato del diritto dell’Unione ne limiti la possibilità di interferire nelle materie oggetto di interventi di quel diritto. Non a caso quindi gli stessi Trattati hanno finito con l’accordare, come si è visto a suo tempo, un’esplicita attenzione al ruolo dei parlamenti nazionali, da un lato esaltando il principio c.d. di sussidiarietà, dall’altro imponendo un maggiore e più diretto coinvolgimento delle assemblee parlamentari nelle vicende dell’Unione. Ne è testimonianza il nuovo art. 12 TUE, che riconosce direttamente l’attivo contributo dei parlamenti nazionali al funzionamento dell’Unione e conseguentemente conferisce loro alcune significative attribuzioni, ulteriormente specificate nei già richiamati Protocolli (n. 1) sul ruolo dei parlamenti nazionali nell’Unione europea, e (n. 2) sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità (supra, p. 433 ss.). Di pari passo, naturalmente, questa evoluzione ha marcato anche il ruolo dei parlamenti nazionali nei meccanismi istituiti all’interno degli Stati per l’elaborazione e l’attuazione degli atti dell’Unione. E questo, come più puntualmente si vedrà nei prossimi Capitoli, è avvenuto anche in Italia.
4. Segue : E sui rapporti tra lo Stato e le autonomie locali Sempre sul piano istituzionale, infine, un riferimento va operato al problema dei rapporti tra il processo d’integrazione europea e le Regioni. Assai emarginate inizialmente da una qualsiasi forma significativa di partecipazione a detto processo, anche per le Regioni italiane, come per il Parlamento, l’evoluzione delle vicende europee ha portato a una progressiva valorizzazione del loro
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ruolo, di pari passo del resto con il crescente rilievo assunto dalle istanze autonomistiche in quasi tutto il Continente. Non è il caso, naturalmente, di ripercorrere qui le complesse vicende che hanno segnato tale evoluzione. Basterà ricordare che anche a questo proposito si è inizialmente assistito, allo stesso modo che per le prerogative del Parlamento, a una generale espropriazione delle competenze attribuite alle Regioni dalla Costituzione a vantaggio delle istituzioni comunitarie, ma anche, se non soprattutto, degli organi centrali dello Stato; e che solo dopo diversi anni di indifferenza per le istanze autonomistiche, il problema si è imposto all’attenzione con serietà e concretezza sia a livello europeo, che a livello nazionale. Per quanto attiene al livello europeo, si ricorderà in particolare il varo negli anni ’70 della c.d. politica regionale comunitaria, che restava certo in buona parte (e specie nella configurazione iniziale) un’azione centralistica ancorché mirata verso le istanze locali, ma assicurava comunque per la prima volta forme di partecipazione di queste ultime alla progettazione e alla realizzazione di quella politica. Ma soprattutto converrà ricordare l’istituzione del Comitato delle Regioni, come sede di rappresentanza degli interessi delle diverse forme di autonomia locale, nonché, come pure si è già accennato in precedenza, la possibilità di partecipazione diretta di rappresentanti regionali addirittura in seno al Consiglio (supra, p. 81). Senza contare il rilievo che a più riprese viene dato alle istanze regionali nel quadro del già citato nuovo Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità (in particolare, artt. 2, 5, 6 e 8). A livello italiano (ma processi analoghi si sono registrati ovviamente, e talvolta in forma anche più accentuata, in vari altri Stati membri) la pressione delle istanze regionaliste ha portato a valorizzare insieme con il principio costituzionale dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica, anche quello, ugualmente di dignità costituzionale, della tutela delle autonomie locali. Da qui, dunque, il superamento in termini generali di alcune pregiudiziali di natura politica e giuridica, e il maturare dei primi significativi progressi anche ai fini qui considerati. Così, se a livello dell’Unione, come appena sottolineato, si dava in vario modo un rilievo anche formale al ruolo delle autonomie locali, a livello nazionale – attraverso successivi interventi legislativi e perfino con la ricordata modifica costituzionale del 2001 – venivano tenute in crescente considerazione e via via largamente accolte le pretese delle Regioni volte a contrastare il monopolio che sulle questioni europee intendevano esercitare gli organi centrali dello Stato, perfino rispetto a materie trasferite dalla Costituzione agli enti locali. Come e con quali risultati si sia realizzata la cennata evoluzione lo vedremo meglio nei prossimi Capitoli (pp. 897 ss. e 925 ss.). Qui basterà sottolineare, su un piano molto generale, che malgrado i significativi risultati conseguiti, vari aspetti della materia restano ancora irrisolti, o comunque risolti – specie sul terreno della prassi – in modo non pienamente soddisfacente; e di questo non si può dar colpa solo alle resistenze degli apparati centrali, perché un miglioramento effettivo della partecipazione delle Regioni al processo d’integrazione europea passa necessariamente anche attraverso una seria riflessione sul loro modo di organizzarsi e di rapportarsi a quel processo.
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Il diritto dell’Unione e l’ordinamento giuridico italiano Sommario: 1. Premessa: il rapporto tra diritto dell’Unione e diritto degli Stati membri nella giurisprudenza della Corte di giustizia. – 2. Diritto dell’Unione e diritto interno in Italia: la giurisprudenza costituzionale. – 3. Segue: Il problema con riguardo alle norme costituzionali. – 4. Cenni sul rapporto con il diritto dell’Unione negli altri Stati membri.
1. Premessa: il rapporto tra diritto dell’Unione e diritto degli Stati membri nella giurisprudenza della Corte di giustizia Come già più volte segnalato, l’ordinamento giuridico dell’Unione europea si è presentato fin dall’inizio come «un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale», la cui caratteristica principale sta senz’altro nel fatto di avere a propri «soggetti non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini». Riprendendo ancora una volta le parole espresse dalla Corte di giustizia con riguardo in quel momento al TCE, i Trattati sono andati, infatti, «al di là di un accordo che si limitasse a creare degli obblighi reciproci fra gli Stati contraenti», e hanno portato all’«instaurazione di organi dotati di poteri sovrani da esercitarsi nei confronti degli Stati membri e dei loro cittadini» ai fini dell’attuazione degli scopi dei Trattati (5 febbraio 1963, 26/62, van Gend & Loos, 7, in particolare 22-23). Trasferendo alla Comunità/Unione quei poteri, gli Stati membri «hanno quindi creato un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi», che ha dato vita ad un ordinamento giuridico autonomo, «integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri all’atto dell’entrata in vigore del Trattato e che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare» (15 luglio 1964, 6/64, Costa c. ENEL, 1144). Sul piano dei rapporti con il diritto degli Stati, ciò non è evidentemente privo di conseguenze. Ne deriva infatti che dal punto di vista del diritto dell’Unione non si pone, affinché le sue norme producano i loro effetti e raggiungano i loro destinatari disciplinando fattispecie «interne», la necessità di un intervento dei singoli ordinamenti nazionali che, a seconda delle preferenze teoriche, trasformi, recepisca o dia efficacia a quelle norme, in quanto norme «estranee».
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Ciò è vero innanzitutto per le norme dei Trattati e gli atti dell’Unione da essi stessi riconosciuti come direttamente applicabili (i regolamenti), la cui efficacia nei confronti e all’interno degli Stati è in re ipsa, essendo essi di per sé in vigore per tutti i soggetti dell’ordinamento per il solo effetto della ratifica dei Trattati (le prime) e della loro adozione formale da parte del legislatore europeo (i secondi). E, quindi, laddove le norme dei Trattati o di quegli atti pongano, ad esempio, un obbligo preciso, completo e incondizionato a carico dello Stato, i giudici di questo sono tenuti a farlo osservare senza che vi sia bisogno, a questo fine, di un provvedimento dello Stato che così disponga. Ma anche in quei casi nei quali un intervento normativo interno di attuazione non è escluso o è addirittura imposto dallo stesso diritto dell’Unione, come ad esempio nel caso delle direttive, per il carattere non direttamente applicabile delle stesse, esso deve essere interpretato, dal punto di vista del diritto dell’Unione, come espressione solo di un particolare modo di operare dell’atto utilizzato, in cui si riflette un funzionamento «decentrato» dei poteri delle istituzioni, e non di una inidoneità in quanto tale di quella fonte dell’Unione a operare all’interno degli Stati. Tanto è vero che, come si è visto parlando a suo tempo di questi atti dell’Unione (p. 175 ss.), recepite o meno che siano, anche le direttive operano comunque come riferimento normativo formale dei giudici nazionali, tenuti come essi sono ad interpretare conformemente ad esse le norme interne. E, soprattutto, talune delle loro disposizioni – anche in questo caso quelle dal contenuto preciso, completo e incondizionato – possono anch’esse avere effetti diretti all’interno dello Stato, seppur sotto la sola forma degli effetti diretti verticali. Trattandosi pur sempre di atti non direttamente applicabili, infatti, tali effetti, a differenza di quelli propri delle norme dei Trattati o degli atti delle istituzioni direttamente applicabili, sono stati ammessi dalla Corte solo come rimedio per così dire “surrogato e temporaneo” all’eventuale inadempimento degli Stati all’obbligo di recepire le direttive con un provvedimento interno; e quindi essi possono prodursi solo a titolo di tutela che i giudici nazionali devono assicurare al diritto che il privato ricavi da un obbligo che la direttiva pone in capo allo Stato. Merita poi di osservare come lo stesso carattere di parametro interpretativo ai fini dell’interpretazione conforme di una normativa nazionale sia stato riconosciuto dalla Corte di giustizia anche alle decisioni-quadro in materia di giustizia penale previste dal precedente TUE e ancora in vigore (supra, p. 161), nonostante che alle stesse, per espressa previsione della norma che le prevedeva (art. 34, par. 2, lett. b), TUE pre-Lisbona), non possano essere riconosciuti effetti diretti alla stregua di ciò che avviene per atti dalle analoghe caratteristiche, come appunto le direttive: infatti, l’«obbligo di interpretazione conforme del diritto nazionale è insito nel sistema del Trattato FUE, in quanto permette ai giudici nazionali di assicurare, nell’ambito delle rispettive competenze, la piena efficacia del diritto dell’Unione quando risolvono le controversie ad essi sottoposte» (Corte giust. 8 novembre 2016, C-554/14, Ognyanov, punto 59).
La capacità del diritto dell’Unione di disciplinare direttamente fattispecie interne agli Stati non esclude tuttavia che esista anche per l’ordinamento dell’Unione, e dal punto di vista di questo, un problema di rapporti con le legislazioni nazionali, cui quelle fattispecie sono ugualmente soggette. Come ha sottolineato la stessa Corte di giustizia in una delle sentenze prima citate (15 luglio 1964, 6/64, Costa c. ENEL, 1141), i due ordinamenti vivono in un rapporto di integrazione, che vede quello
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dell’Unione, a causa della sua parzialità, avvalersi dell’ordinamento degli Stati per molti aspetti del suo funzionamento; con il risultato di una permanente situazione di interferenza, e di potenziale conflitto, tra le rispettive norme. Rimane però che, in ragione della prospettiva utilizzata, gli aspetti di quel problema che finiscono per assumere priorità agli occhi dell’ordinamento dell’Unione sono in parte diversi da quelli consueti nei rapporti tra ordinamenti e comunque diverso è il modo in cui essi risultano affrontati. Ciò è vero in particolare per quanto riguarda la questione del rapporto tra le norme europee ed eventuali norme interne con esse contrastanti. Il punto è stato affrontato dalla Corte, fin dalle sue prime pronunce, sulla base dell’affermazione del principio della supremazia del diritto dell’Unione rispetto a quelle norme. Ma ciò che conta è che, come ricorda anche la Dichiarazione (n. 17) relativa al primato, allegata al Trattato di Lisbona, questo principio viene ancorato proprio alla «natura specifica» dell’Unione e alle caratteristiche sopra ricordate del suo ordinamento. La stessa sentenza della Corte evocata in quella Dichiarazione (proprio la Costa c. ENEL, appena cit.) ricorda, infatti, come l’«integrazione nel diritto di ciascuno Stato membro di norme che promanano da fonti comunitarie, e più in generale, lo spirito e i termini del Trattato, hanno per corollario l’impossibilità per gli Stati di fare prevalere, contro un ordinamento giuridico da esse accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore»; d’altra parte, «scaturito da una fonte autonoma, il diritto nato dal Trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico» dell’Unione europea (ivi, 1144-1145). Come si vede, il ragionamento si fonda non su di una prevalenza (gerarchica o meno) tra norme, bensì sulla considerazione delle rispettive sfere di azione dell’ordinamento dell’Unione e di quello nazionale: dice, infatti, la Corte che «il trasferimento, effettuato dagli Stati a favore dell’ordinamento giuridico comunitario, dei diritti e degli obblighi corrispondenti alle disposizioni del Trattato implica […] una limitazione definitiva dei loro diritti sovrani, di fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore, incompatibile con il sistema della Comunità, sarebbe del tutto privo di efficacia» (ivi). E il ragionamento si fa maggiormente esplicito nelle sentenze successive, quando, chiamata a pronunciarsi sul modo in cui gli Stati sono tenuti ad assicurare l’operatività del principio della preminenza del diritto dell’Unione nei loro ordinamenti, la Corte sottolinea che gli atti legislativi nazionali che invadono sfere di competenza dell’Unione vanno considerati privi di «qualsiasi efficacia giuridica», dato che il corretto esercizio della competenza normativa delle istituzioni europee, quando si traduca in atti direttamente applicabili, ha l’effetto «di impedire la valida formazione di atti legislativi nazionali» (9 marzo 1978, 106/77, Simmenthal, 629, punto 17). Ciò comporta che «qualsiasi giudice nazionale, adito nell’ambito della sua competenza, ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto [dell’Unione] e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore che successiva» (ivi, punto 21). E per lo stesso motivo, a identico obbligo sono tenuti anche gli altri organi dello Stato, e in specie quelli amministrativi: sarebbe, infatti, «contraddittorio statuire che i singoli
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possono invocare dinanzi ai giudici nazionali le disposizioni di una direttiva […] e al contempo ritenere che l’amministrazione non sia tenuta ad applicare le disposizioni della direttiva disapplicando le norme nazionali ad esse non conformi» (Corte giust. 22 giugno 1989, 103/88, Fratelli Costanzo, 1839, punto 31). E ciò comporta anche che identico esito debba avere il contrasto tra una norma dello Stato e disposizioni dei Trattati o atti delle istituzioni direttamente applicabili, quando questi non mirino ad attribuire diritti ai privati, ma si limitino a porre in capo allo Stato un obbligo di risultato ugualmente preciso e non accompagnato da alcuna condizione quanto all’applicazione della regola da essi enunciata (Corte giust. 8 settembre 2015, C-105/14, Taricco e a., punto 50 ss.). La Corte di giustizia ha comunque precisato che la disapplicazione da parte degli organi giudiziari o amministrativi dello Stato di una norma interna per incompatibilità con norme dell’Unione chiare precise e incondizionate non esclude che tale Stato debba comunque procedere anche all’abrogazione o modifica espressa della norma in questione. Non farlo manterrebbe, infatti, «gli interessati in uno Stato di incertezza circa la possibilità loro garantita di fare appello al diritto comunitario» (24 marzo 1998, 104/86, Commissione c. Italia, punto 12). Ciò tanto più se l’incompatibilità con il diritto dell’Unione è stata formalmente affermata dalla Corte di giustizia all’esito di una procedura d’infrazione.
È in questa prospettiva che vanno perciò ugualmente inquadrati alcuni ulteriori svolgimenti della giurisprudenza della Corte che, partendo ancora una volta dal principio della preminenza del diritto dell’Unione, hanno portato all’affermazione dell’obbligo dei giudici nazionali di non applicare norme dello Stato, «quand’anche di rango costituzionale», che, pur senza risultare direttamente in contrasto con la norma europea applicabile alla fattispecie, ne impediscano l’effettiva applicazione, menomando l’unità e l’efficacia del diritto dell’Unione (da ultima, Corte giust. 8 settembre 2010, C-409/06, Winner Wetten, I-8015, punto 61), come può avvenire quando, pur nella sua piena competenza al riguardo, lo Stato si sia dato, per i ricorsi giurisdizionali interni volti a garantire la salvaguardia dei diritti derivanti dalle norme europee, modalità procedurali «meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) e non siano strutturate in modo da rendere in pratica impossibile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)» (16 marzo 2006, C-234/04, Kapferer, I-2585, punto 22). La differenza con le ipotesi di contrasto puntuale tra norme sembrava peraltro essere già stata anticipata dalla ugualmente citata sentenza Simmenthal, là dove essa aveva precisato che «il riconoscere una qualsiasi efficacia giuridica ad atti legislativi nazionali che invadano la sfera nella quale si esplica il potere legislativo della Comunità, o altrimenti incompatibili con il diritto comunitario, equivarrebbe […] a negare […] il carattere reale di impegni incondizionatamente e irrevocabilmente assunti, in forza del Trattato, dagli Stati membri, mettendo così in pericolo le basi stesse della Comunità» (punto 18).
La Corte ha così deciso, ad esempio, con riguardo a una norma del diritto inglese che avrebbe vietato al giudice britannico di sospendere in via cautelare l’applicazione di una disposizione interna finché non ne fosse stata accertata la compatibilità con il diritto dell’Unione (19 giugno 1990, C-213/89, Factortame e a., I-2433, punto
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21). E ad analoga conclusione è arrivata nei confronti di una norma processuale belga che vietava al giudice nazionale di valutare d’ufficio la compatibilità di un provvedimento di diritto nazionale con una disposizione dell’Unione, quando quest’ultima non fosse stata invocata dal singolo entro un determinato termine (14 dicembre 1995, C-312/93, Peterbroeck, I-4599, punto 21). Nella citata sentenza Factortame la Corte ha anche osservato che «la piena efficacia del diritto comunitario sarebbe del pari ridotta se una norma di diritto nazionale potesse impedire al giudice chiamato a dirimere una controversia disciplinata dal diritto comunitario di concedere provvedimenti provvisori allo scopo di garantire la piena efficacia della pronuncia giurisdizionale sull’esistenza dei diritti invocati in forza del diritto comunitario» (punto 21).
Come ulteriore conseguenza di tale principio la Corte ha poi recentemente affermato l’obbligo di non tener conto di una disposizione nazionale – nel caso di specie l’art. 2909 c.c. italiano – che sancisce il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto dell’Unione e la cui incompatibilità è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva (18 luglio 2007, C119/05, Lucchini, I-6228, punto 63). A questa conclusione la Corte è arrivata, in realtà, alla luce delle peculiarità specifiche di quella vicenda, in cui la sentenza del giudice nazionale passata in giudicato finiva per mettere in discussione i principi stessi che disciplinano la ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e l’Unione europea in materia di aiuti di Stato, posto che la Commissione europea dispone di una competenza esclusiva per esaminare la compatibilità con il mercato interno di una misura nazionale di aiuti di Stato; perché altrimenti, come essa ha in altre occasioni specificato, «l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali … al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia», esclude in linea di principio che un giudice nazionale sia tenuto a «disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione» (3 settembre 2009, C-2/08, Fallimento Olimpiclub Srl, I-7501, punti 22 s. e 25; nello stesso senso, v. anche 10 luglio 2014, C-213/13, Impresa Pizzarotti, punto 60).
E allo stesso modo la Corte ha precisato che il giudice nazionale deve disapplicare una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato, ugualmente italiana, che prevede che l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di IVA comporta il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale, laddove tale normativa impedisca di infliggere, ai sensi dell’art. 325, par. 1, TFUE, sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, o laddove preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti a tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea, in violazione del par. 2 di quello stesso articolo (sentenza Taricco e a., cit., punto 58).
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In tutti questi casi l’argomento pare appunto ricavato dal principio della preminenza del diritto dell’Unione, inteso nel senso dell’incompatibilità «con le esigenze inerenti alla natura stessa [di questo diritto di] qualsiasi disposizione facente parte dell’ordinamento giuridico di uno Stato membro o qualsiasi prassi legislativa, amministrativa o giudiziaria, la quale porti a una riduzione della concreta efficacia del diritto comunitario» (Sentenza Factortame, cit., punto 20).
2. Diritto dell’Unione e diritto interno in Italia: la giurisprudenza costituzionale La prospettiva utilizzata dalla Corte di giustizia in relazione ai rapporti dell’ordinamento scaturito dai Trattati con il diritto degli Stati membri ha faticato non poco a farsi strada tra le giurisdizioni nazionali. D’altra parte queste, muovendo dall’interno del proprio ordinamento, non potevano non essere portate a privilegiare una sistemazione di quei rapporti strettamente modellata sui principi dell’ordinamento nazionale, dovendo comunque ricavare da questo il fondamento dell’applicabilità nello Stato delle norme europee. Esemplificativa del diverso percorso logico-giuridico che hanno dovuto compiere le giurisdizioni nazionali è certamente la giurisprudenza in materia di diritto dell’Unione della nostra Corte costituzionale. Ne emerge, infatti, un cammino segnato da avvicinamenti progressivi alle posizioni espresse dalla Corte di giustizia, ma proprio per questo costellato da non poche sconfessioni di precedenti pronunce. Del resto, quando si rifletta sulle caratteristiche proprie del nostro sistema costituzionale, ciò non può certo meravigliare. Basti solo pensare al fatto che la Corte costituzionale ha dovuto finanche pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della partecipazione italiana al processo di integrazione europea. Va ricordato, infatti, che, in linea con la prassi corrente in materia di accordi internazionali, l’adesione tanto agli originari Trattati istitutivi che ai successivi atti modificativi o integrativi degli stessi è stata sempre autorizzata e resa esecutiva in Italia mediante legge ordinaria. È stato di conseguenza posto da alcuni giudici di merito l’interrogativo sulla sufficienza a questo scopo dello strumento utilizzato, in considerazione delle indubbie ricadute costituzionali di molti aspetti del sistema di integrazione europea. a) In un passato più lontano tale interrogativo è stato sollevato con riferimento al Trattato istitutivo (della CEE) in quanto tale, investendone in particolare la disposizione che, attraverso la previsione di uno strumento direttamente applicabile come il regolamento, consente l’operare con forza di legge nell’ordinamento dello Stato di atti non provenienti dagli organi ai quali la Costituzione riserva la funzione legislativa (Corte cost. 27 dicembre 1973, n. 183, Frontini c. Ministero delle Finanze). In seguito analogo interrogativo è stato ribadito in relazione al «vecchio» Protocollo sui privilegi e sulle immunità delle Comunità europee del 1965, nella parte in cui esso determinava l’estensione ai parlamentari europei di immunità e privilegi, quale l’istituto dell’autorizzazione a procedere, riconosciuti ai parlamentari della Repubblica
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mediante norme costituzionali (Corte cost. 28 dicembre 1984, n. 300, Cecovini c. Almirante). Sul tema, ma in relazione al Trattato di Roma in quanto tale (reso esecutivo con legge 14 ottobre 1957, n. 1203, in GURI 23 dicembre 1957, n. 317, s.o.), la Corte costituzionale si era per la verità già pronunciata in precedenza, seppur indirettamente, con la sentenza 7 marzo 1964, n. 14, Costa c. ENEL. Con riferimento poi al TCECA (reso esecutivo con legge 25 giugno 1952, n. 766, in GURI 12 luglio 1952, n. 160, s.o.), cfr. anche la sentenza 27 dicembre 1965, n. 98, Acciaierie San Michele.
In un caso, come nell’altro, la Corte costituzionale ha concluso che le leggi ordinarie di esecuzione in Italia di quegli atti trovano «sicuro fondamento di legittimità nella disposizione dell’art. 11 Cost., in base alla quale “l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni”, e quindi “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”»: ciò «significa che, quando ne ricorrano i presupposti, è possibile stipulare Trattati i quali comportino limitazione della sovranità, ed è consentito darvi esecuzione con legge ordinaria» (Sentenza Frontini, cit., parr. 4 e 6). Secondo la Corte, infatti, la disposizione dell’art. 11 Cost. «risulterebbe svuotata del suo specifico contenuto normativo, se si ritenesse che per ogni limitazione di sovranità prevista [da tale articolo] dovesse farsi luogo ad una legge costituzionale. È invece evidente che essa ha un valore non solo sostanziale ma anche procedimentale, nel senso che permette quelle limitazioni di sovranità, alle condizioni e per le finalità ivi stabilite, esonerando il Parlamento dalla necessità di ricorrere all’esercizio del potere di revisione costituzionale». Del resto, benché l’art. 11 Cost. fosse stato originariamente formulato avendo a mente l’obiettivo dell’adesione italiana alle Nazioni Unite, l’apertura alle organizzazioni internazionali in esso contenuta non era limitata alle sole Nazioni Unite, come solitamente si crede sul presupposto che, in effetti, nel 1948 era questa la più significativa e importante esperienza di collaborazione internazionale ai fini menzionati da quell’articolo. In realtà nel corso dei lavori preparatori della Costituzione fu esplicitamente fatto riferimento anche all’integrazione europea, sia pure come prospettiva e non con riguardo a una specifica esperienza, allora non ancora in corso. Ma poi gli appositi riferimenti, pur proposti, non entrarono nel testo, un po’ per la banale obiezione che la cooperazione internazionale assorbiva anche quella europea, molto più perché lo stadio del processo d’integrazione europea era così embrionale che una specifica menzione non si presentava tanto necessaria e qualificante come appare oggi.
b) Sulla citata disposizione dell’art. 11 Cost., peraltro, la Corte costituzionale ha successivamente basato anche la soluzione del più specifico problema del rapporto che intercorre tra le norme dell’Unione e quelle poste da leggi dello Stato. In una primissima giurisprudenza, per la verità, essa aveva affrontato tale questione in maniera del tutto indipendente da quella disposizione. Interpretando la funzione dell’art. 11 Cost. in chiave di mera autorizzazione a dare esecuzione con legge ordinaria a Trattati comportanti limitazioni di sovranità, la Corte aveva, infatti, concluso che tale funzione non importava «alcuna deviazione dalle regole vigenti in ordine all’efficacia nel diritto interno degli obblighi assunti dallo Stato nei rapporti con gli altri
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Stati, non avendo l’art. 11 [Cost.] conferito alla legge ordinaria, che rende esecutivo il Trattato, un’efficacia superiore a quella di tale fonte di diritto» (Corte cost. 7 marzo 1964, n. 14, Costa c. ENEL); la conseguenza era, secondo questa vecchia pronuncia, che alle norme del diritto dell’Unione andava riconosciuto lo stesso rango (ordinario) della legge di esecuzione del Trattato attraverso cui esse erano «entrate» nell’ordinamento italiano e che quindi le stesse erano soggette, nei confronti delle leggi dello Stato, ai principi comuni in tema di successione delle norme nel tempo. La Corte costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi sulla eventuale incostituzionalità della legge istitutiva dell’ENEL (legge 6 dicembre 1962, n. 1643) per violazione dell’allora TCEE, di cui il giudice remittente sosteneva appunto il carattere costituzionale per il tramite dell’art. 11 Cost.
Ma subito dopo questa prima pronuncia, la Corte si è ben presto allineata alle conclusioni della Corte di giustizia in materia di supremazia delle norme europee sulle norme nazionali contrastanti, anche successive. E con un capovolgimento ulteriore della precedente giurisprudenza, essa ha finito per giustificare proprio sull’art. 11 Cost. tale supremazia. Il ragionamento, esplicitato per la prima volta nella sentenza del 30 ottobre 1975, n. 232, ICIC, diviene in sostanza che è sulla base di questo articolo che si è avuto «il trasferimento agli organi della Comunità del potere di emanare norme giuridiche»; per cui le norme di legge devono cedere di fronte a regolamenti europei anche anteriori, per il fatto che il contrasto con quei regolamenti pone la norma di legge in conflitto con lo stesso art. 11 Cost.; in altri termini, la supremazia del diritto dell’Unione è giustificata e alimentata dalla copertura offerta a quel diritto dalla norma costituzionale che ne consente l’efficacia nell’ordinamento dello Stato. c) Se con questa nuova giurisprudenza si sanava la frattura esistente tra le posizioni delle due Corti quanto al principio in sé della supremazia del diritto dell’Unione su quello nazionale, rimanevano ciò non di meno aperte le divergenze quanto al modo di interpretare quella supremazia e le relative conseguenze. Nella giurisprudenza ora ricordata della Corte costituzionale, infatti, l’art. 11 Cost. non serve a giustificare l’operare in quanto tale nello Stato dell’ordinamento scaturito dai Trattati, ma viene utilizzato come parametro di costituzionalità delle singole norme di legge. In altri termini, il contrasto di queste con un precedente regolamento dell’Unione diventa un problema di legittimità costituzionale di tali norme in rapporto alla conseguente violazione dell’art. 11 Cost. che quel contrasto determina. Il punto è che, nel quadro particolare del nostro ordinamento, le conseguenze di tale conclusione si mettevano per altri profili in rotta di collisione con la sistemazione del rapporto tra norme europee e norme di legge incompatibili operata dalla Corte di giustizia. Si ricorderà, infatti, che, muovendo dall’idea che il trasferimento di poteri effettuato dagli Stati membri a favore dell’ordinamento dell’Unione ha comportato «una limitazione definitiva dei loro diritti sovrani, di fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore, incompatibile con il sistema della Comunità sarebbe del tutto privo di efficacia» (Corte giust. sentenza Costa c. ENEL, cit., 1145), la Corte di giustizia aveva concluso che «qualsiasi giudice nazionale, adito nell’ambito della sua
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competenza, ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore che successiva» (Corte giust. sentenza Simmenthal, cit., punto 21). È d’altra parte noto che nel nostro sistema costituzionale tale possibilità appariva preclusa al giudice, essendo lo stesso tenuto in via generale, di fronte al contrasto di una norma di legge con la Costituzione, a sollevare il relativo incidente di fronte alla Corte costituzionale. E puntualmente quest’ultima, nel riportare il contrasto tra norme europee e norme di legge ad una questione di incostituzionalità delle seconde, aveva concluso che «il giudice è tenuto a sollevare la questione della loro legittimità costituzionale» innanzi alla Corte, potendo la norma interna incompatibile con il diritto dell’Unione essere rimossa solo mediante dichiarazione di illegittimità costituzionale (Corte cost. sentenza ICIC, cit.). La divergenza tra le posizioni delle due Corti non poteva essere più netta, visto che nella sentenza appena sopra citata la Corte di giustizia aveva esplicitamente dichiarato «incompatibile con le esigenze inerenti alla natura stessa del diritto comunitario» l’eventualità che, «in caso di conflitto tra una disposizione di diritto comunitario ed una legge nazionale posteriore, la soluzione fosse riservata ad un organo diverso dal giudice cui è affidato il compito di garantire l’applicazione del diritto comunitario», spettando invece a quest’ultimo disapplicare «all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale» (Corte giust. sentenza Simmenthal, cit., punto 24). E la divergenza si è potuta perciò sanare solo a prezzo di un nuovo mutamento di giurisprudenza della Corte costituzionale. Merita di essere sottolineato che il rinvio pregiudiziale sulla base della quale la Corte ha pronunciato tale sentenza veniva da un giudice italiano, il Pretore di Susa, il quale poneva quindi alla Corte il quesito proprio alla luce del sistema (accentrato) di controllo di costituzionalità operante in Italia.
d) Il revirement è stato affidato ad una sentenza del 1984, nel caso Granital (Corte cost. 8 giugno 1984, n. 170). Con essa la Corte costituzionale ha fatto propria la conclusione ora riportata della Corte di giustizia e ha riconosciuto il potere del giudice interno di applicare direttamente un regolamento delle istituzioni europee, malgrado l’esistenza di norme statali successive con esso contrastanti. Il revirement non ha però riguardato solo questo specifico punto. Per giungere a tale conclusione, infatti, la Corte costituzionale ha dovuto procedere anche a una sostanziale revisione della sistemazione fino a quel momento data ai rapporti tra ordinamento giuridico dell’Unione e ordinamento nazionale. La sentenza Granital vi arriva partendo dalla premessa che i due ordinamenti, pur distinti e autonomi, sono coordinati, per il fatto di «avere la legge di esecuzione del Trattato trasferito agli organi comunitari, in conformità dell’art. 11 Cost., le competenze che questi esercitano, beninteso nelle materie loro riservate». Ciò ha comportato che l’ordinamento nazionale si è aperto alla normazione europea «lasciando che le regole in cui essa si concreta vigano nel territorio italiano, quali sono
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scaturite dagli organi competenti a produrle», senza perciò entrare a far parte del diritto italiano o essere soggette al regime vigente per le leggi dello Stato. Dal canto suo, rispetto alla sfera del diritto dell’Unione «la legge statale rimane […] collocata in un ordinamento che non vuole interferire nella produzione normativa del distinto ed autonomo ordinamento della Comunità, sebbene garantisca l’osservanza di essa nel territorio nazionale». Proprio in ragione di ciò, «le confliggenti statuizioni di una legge interna non possono costituire ostacolo al riconoscimento della “forza e valore”, che il Trattato conferisce al regolamento dell’Unione, nel configurarlo come atto produttivo di regole immediatamente applicabili»: il giudice dovrà comunque applicare quest’ultimo, dato che la sua vigenza impedisce che l’eventuale normativa dello Stato, sia essa anteriore o successiva, venga in rilievo ai fini della soluzione della controversia. Come si vede, lo spostamento verso le posizioni della Corte di giustizia è sostanziale, e non solo per quanto attiene al ruolo del giudice nazionale nell’applicazione del diritto dell’Unione. Rimangono in parte diverse, inevitabilmente, le premesse e il modo di intendere il rapporto tra i due ordinamenti. Mentre, come ricorda la stessa sentenza Granital, la Corte del Lussemburgo parte dall’idea della forza autoapplicativa di un ordinamento giuridico dell’Unione che si integra in quello degli Stati (la sua giurisprudenza si basa sull’idea della «fonte normativa della Comunità e quella del singolo Stato come integrate in un solo sistema, e quindi muove da diverse premesse, rispetto a quelle accolte nella giurisprudenza» costituzionale), la Corte costituzionale non può non continuare, ponendosi dal punto di vista del proprio ordinamento di appartenenza, a fondare quel rapporto su tale ordinamento, e in particolare sull’art. 11 Cost. Tuttavia la portata del richiamo a questo articolo diventa nella sentenza Granital significativamente diversa, dato che la norma interna contrastante con il diritto dei Trattati non vi viene più considerata costituzionalmente illegittima, bensì inapplicabile al caso di specie; e quindi l’eventuale ricorso alla Corte costituzionale sulla base di questo presupposto sarebbe da ritenere inammissibile. La sentenza precisa in effetti che la vigenza del regolamento non ha l’«effetto di caducare la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale». Né la norma interna risulta «affetta da alcuna nullità», ma «serba intatto il proprio valore e spiega la sua efficacia». In una successiva sentenza (18 aprile 1991, n. 168, Industria dolciaria Giampaoli) la Corte costituzionale ha poi precisato che le norme dell’ordinamento comunitario vengono, in forza dell’art. 11 Cost. a ricevere diretta applicazione nell’ordinamento statale, pur rimanendo estranee al sistema delle fonti statali, e «l’effetto di tale diretta applicazione non è la caducazione della norma interna incompatibile, bensì la mancata applicazione di quest’ultima da parte del giudice nazionale al caso di specie, oggetto della sua cognizione, che, pertanto, sotto tale aspetto è attratto nel plesso normativo comunitario».
La sentenza Granital ha ricostruito questo nuovo modello di rapporti tra ordinamento giuridico dell’Unione e ordinamento nazionale avendo riguardo all’ipotesi che il potere trasferito all’Unione si estrinsechi «con una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno»; ciò perché «fuori dall’ambito materiale, e dai limiti temporali, in cui vige la disciplina comunitaria così configurata, la regola nazionale serba intatto il proprio valore e spiega la sua efficacia», soggiacendo
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«al regime previsto per l’atto del legislatore ordinario, ivi incluso il controllo di costituzionalità». In successive sentenze la Corte costituzionale ha però precisato, in linea con la giurisprudenza del Lussemburgo in materia di effetti diretti, che il riferimento alla compiutezza e diretta applicabilità della norma europea va inteso nel senso che esso copre anche ipotesi diverse da quella che l’Unione agisca mediante regolamento, come era avvenuto nel caso all’origine della sentenza Granital. Il ragionamento svolto in quelle sentenze è stato in effetti che la normativa dell’Unione opera nel sistema dello Stato con gli effetti appena indicati ogniqualvolta essa soddisfi i requisiti dai quali l’ordinamento di appartenenza fa discendere la sua diretta applicabilità da parte degli organi interni. Di conseguenza, la Corte costituzionale ha affermato l’obbligo del giudice di non applicare la legge interna contrastante con norme di direttive europee dotate di effetti diretti o con norme dei Trattati cui possa riconoscersi la stessa efficacia. Per le norme dei Trattati, il punto lo si trova affermato, ad es., dalla sentenza 11 luglio 1989, n. 389, Provincia autonoma di Bolzano, in cui si trattava dell’efficacia diretta, dopo la scadenza del periodo transitorio, degli artt. 52 e 59 TCE, quali interpretati dalla Corte di giustizia. Quanto invece alle norme di direttive produttive di effetti diretti, cfr. sentenza 18 aprile 1991, n. 168, Industria dolciaria Giampaoli. Ma si veda già, in proposito, Corte cost. 18 gennaio 1990, n. 64, in cui la Corte costituzionale ha concluso per l’applicabilità di norme di direttive dotate di effetti diretti a discapito di qualsiasi disposizione di diritto interno non conforme ad esse e quindi anche di un referendum abrogativo, «che è atto-fonte di diritto interno e che pertanto, al pari delle altre fonti, deve essere coordinato con la normativa comunitaria secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato»: è in altri termini da escludere che l’esito di un referendum possa incidere sull’applicabilità nell’ordinamento nazionale delle direttive in questione.
E, a completamento di questo suo percorso, la Corte costituzionale ha esteso identica conclusione anche al contrasto con statuizioni risultanti da sentenze interpretative della Corte di giustizia. «Non v’è dubbio» – essa ha infatti detto – «che la precisazione o l’integrazione del significato normativo [di norme comunitarie aventi effetti diretti] compiute attraverso una sentenza dichiarativa [di quest’ultima Corte] abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate». In questi termini la sentenza Provincia autonoma di Bolzano, cit. sulla base del presupposto che «poiché ai sensi dell’art. 164 del Trattato spetta alla Corte di giustizia assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del medesimo Trattato, se ne deve dedurre che qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in definitiva, l’ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative». Qui la Corte si riferiva a interpretazioni di norme comunitarie pronunciate nell’ambito di un procedimento per inadempimento contro uno Stato membro. Ma si veda anche Corte cost. 19 aprile 1985, n. 113, Beca, in relazione a interpretazioni fornite dalla Corte di giustizia in risposta a quesiti posti mediante rinvio pregiudiziale ex art. 234 TCE (allora art. 177 TCEE; ora 267 TFUE).
Merita infine di essere aggiunto che la Corte costituzionale ha avuto anch’essa occasione di confermare, in linea con le pronunce in questo senso di Lussemburgo, la portata soggettiva dell’obbligo di disapplicazione: «tutti i soggetti competenti nel
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nostro ordinamento a dare esecuzioni alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di leggi) – tanto se dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi amministrativi – sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili» con norme comunitarie direttamente applicabili (sentenza Provincia autonoma di Bolzano, cit.). E sempre collocandosi nel solco della giurisprudenza europea (supra, p. 900), essa ha anche precisato che, indipendentemente dalla disapplicabilità della norma interna, lo Stato è tenuto ad apportare «le necessarie modificazioni o abrogazioni del proprio diritto interno al fine di depurarlo da eventuali incompatibilità o disarmonie con le prevalenti norme comunitarie» (ivi). e) Insomma, alla luce della giurisprudenza Granital, l’art. 11 Cost. rimane il fondamento dell’operatività dell’ordinamento dell’Unione in quanto tale nel «sistema statuale», nonché lo strumento del coordinamento tra questo sistema e quell’ordinamento. Solo che la sua funzione di parametro indiretto di legittimità costituzionale viene ad essere circoscritta ad alcune ipotesi ben definite, rispetto alle quali, perciò, giudice del contrasto di una norma nazionale con le regole europee rimane la Corte costituzionale. Prima tra queste è quella, richiamata dalla stessa sentenza Granital, in cui si tratti di valutare la conformità alla Costituzione di una legge dello Stato diretta «ad impedire o pregiudicare la perdurante osservanza del Trattato, in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei suoi principi». Tale ipotesi che, come ha precisato la Corte costituzionale, è «evidentemente diversa da quella che si verifica quando ricorre l’incompatibilità fra norme interne e singoli regolamenti comunitari», rimette infatti in gioco la responsabilità della Corte costituzionale e l’obbligo del giudice nazionale di sollevare dinanzi ad essa la questione del se «il legislatore ordinario abbia ingiustificatamente rimosso alcuno dei limiti della sovranità statuale, da esso medesimo posti, mediante la legge di esecuzione del Trattato, in diretto e puntuale adempimento dell’art. 11 Cost.». Va da sé poi, viste le caratteristiche delle norme dell’Unione cui la Corte costituzionale ha agganciato la sua diversa ricostruzione dei loro rapporti con le norme italiane, che l’art. 11 Cost. continui a dover essere invocato quale parametro di legittimità costituzionale anche nell’ipotesi in cui il contrasto della legge italiana si manifesti rispetto a norme dell’Unione non direttamente applicabili e prive dei requisiti che consentono loro di esplicare effetti diretti nell’ordinamento nazionale. La Corte costituzionale ha avuto occasione di rilevarlo, ad esempio, con riferimento al principio di non discriminazione di cui all’allora art. 12 TCE, il cui divieto, «pur essendo in linea di principio di diretta applicazione ed efficacia, non è dotato di una portata assoluta tale da far ritenere sempre e comunque incompatibile la norma nazionale che formalmente vi contrasti. Al legislatore dello Stato membro, infatti, è consentito di prevedere una limitazione alla parità di trattamento tra il proprio cittadino e il cittadino di un altro Stato membro, a condizione che sia proporzionata e adeguata» (sentenza 21 giugno 2010, n. 227). Essa è arrivata poi alla stessa conclusione in relazione a direttive o decisioni-quadro pre-Lisbona, dalla cui applicazione sarebbe derivata una responsabilità penale dell’individuo o perché comunque relative alla materia penale (cfr. la sentenza appena citata, nonché Corte cost. 25 gennaio 2010, n. 28).
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Nell’opinione dei giudici della Consulta, infatti, «l’impossibilità di non applicare la legge interna in contrasto con una direttiva comunitaria non munita di efficacia diretta non significa tuttavia che la prima sia immune dal controllo di conformità al diritto comunitario, che spetta a questa Corte, davanti alla quale il giudice può sollevare questione di legittimità costituzionale» (sentenza n. 28/2010, appena cit.). Anche se essi hanno comunque precisato che, prima di rimettergli tale questione, il giudice comune deve valutare la «possibilità di una interpretazione della disposizione censurata conforme al parametro di costituzionalità» (ivi). Tanto che il mancato previo assolvimento dell’obbligo di interpretazione conforme ha costituito anche motivo di dichiarazione di inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale relative a casi di contrasto con norme dell’Unione prive di effetti diretti (Corte cost., ordinanze 4 luglio 2011, n. 222, e 22 novembre 2011, n. 326). Si veda, di recente, anche l’ordinanza 3 luglio 2013, n. 207, nella quale la Corte costituzionale ha affermato che «in caso di contrasto con una norma comunitaria priva di efficacia diretta – contrasto accertato eventualmente mediante ricorso alla Corte di giustizia – e nell’impossibilità di risolvere il contrasto in via interpretativa, il giudice comune deve sollevare la questione di legittimità costituzionale, spettando poi a questa Corte valutare l’esistenza di un contrasto insanabile in via interpretativa e, eventualmente, annullare la legge incompatibile con il diritto comunitario».
Rimane infine ferma la competenza della Corte costituzionale, in quanto qui giudice della controversia, a pronunciarsi lei stessa sulla compatibilità di norme interne con il diritto dell’Unione, quando la questione venga sollevata nel quadro di un ricorso in via principale, come ad esempio avviene, ai sensi dell’art. 127 Cost., su ricorso del Governo contro una delibera di un Consiglio regionale. La stessa Corte lo ha ammesso, rilevando come l’obiettivo di evitare la «lesione del principio della certezza e della chiarezza normativa» giustifichi già di per sé che si impedisca la stessa formazione di una legge regionale che violi obblighi posti dal diritto dell’Unione (Corte cost. 10 novembre 1994, n. 384, Regione Umbria). A seguito della riforma dell’art. 127 Cost., quale risultante dalla sostituzione operata dall’art. 8 della legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (GURI 24 ottobre 2001, n. 248), legge sulla quale si ritorna di seguito nel testo, il contenzioso in via principale davanti alla Corte costituzionale in caso di violazione di norme europee da parte delle Regioni è peraltro aumentato in modo consistente. In base al nuovo testo di questa disposizione, il Governo «quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione». La Corte costituzionale ha così ritenuto che la violazione di norme dell’Unione costituisca violazione, per norma interposta, dell’art. 117, comma 1, Cost. Secondo questa giurisprudenza «le direttive comunitarie fungono da norme interposte atte ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale [all’art. 117, comma 1, Cost.]. La norma costituzionale citata, collocata nella Parte seconda della Costituzione, si ricollega al principio fondamentale contenuto nell’art. 11 Cost. e presuppone il rispetto dei diritti e dei principi fondamentali garantiti dalla Costituzione italiana» (Corte cost. 23 marzo 2006, n. 129). In precedenza, v. Corte cost. 24 ottobre 2005, n. 406; 13 gennaio 2004, n. 7; e 7 giugno 2004, n. 166; e così anche Corte cost. 9 marzo 2007, n. 64, dove però la Corte non è passata al merito della supposta violazione di norme dell’Unione in forza del difetto in capo all’atto di ricorso di «requisiti minimi argomentativi».
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f) Nel 2001, quasi a compimento del faticoso percorso giurisprudenziale compiuto dalla Corte costituzionale, i vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea sono stati finalmente integrati nel dettato costituzionale. Le modalità di questa integrazione sembrano peraltro evocare, per certi versi, proprio la direzione intrapresa dalla giurisprudenza costituzionale con la sentenza Granital: la prevalenza del diritto dell’Unione è affermata con riferimento all’ordinamento giuridico di questa nel suo complesso, quale sistema autonomo e distinto al cui pieno funzionamento la potestà legislativa dello Stato non può frapporre ostacoli. Nel distribuire la funzione legislativa tra Stato e regioni nel quadro di una riforma federalista dello Stato italiano, la appena citata legge cost. 2001, n. 3/2001, recante modifiche al Titolo V della Parte seconda della Costituzione, ha in effetti modificato l’art. 117 Cost., iscrivendovi il principio che «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali»; a sua volta, la legge 5 giugno 2003, n. 131 (GURI 10 giugno 2003, n. 132), successivamente venuta a dettare disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale del 2001, ha ribadito con termini identici, almeno per quel che riguarda i vincoli europei, che «costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, ai sensi [dell’art. 117, comma 1, Cost.], quelli derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, di cui [all’art. 10 Cost.], da accordi di reciproca limitazione della sovranità, di cui [all’art. 11 Cost.], dall’ordinamento comunitario e dai Trattati internazionali» (art. 1, comma 1). La Corte costituzionale ha successivamente chiarito il rapporto tra l’art. 11 e l’art. 117, comma 1, Cost., precisando che quest’ultimo ha «confermato espressamente, in parte, ciò che era stato già collegato all’art. 11 Cost., e cioè l’obbligo del legislatore, statale e regionale, di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. Il limite all’esercizio della funzione legislativa imposto [dall’art. 117, comma 1, Cost.], è tuttavia solo uno degli elementi rilevanti del rapporto tra diritto interno e diritto dell’Unione europea, rapporto che complessivamente considerato e come disegnato da questa Corte nel corso degli ultimi decenni, trova ancora “sicuro fondamento” nell’art. 11 Cost. Restano, infatti, ben fermi, anche successivamente alla riforma, oltre al vincolo in capo al legislatore e alla relativa responsabilità internazionale dello Stato, tutte le conseguenze che derivano dalle limitazioni di sovranità che solo l’art. 11 Cost. consente, sul piano sostanziale e processuale, per l’amministrazione e i giudici» (Corte cost. 21 giugno 2010, n. 227).
3. Segue : Il problema con riguardo alle norme costituzionali Un’ultima ipotesi in cui il sindacato di legittimità costituzionale collegato al rispetto dell’art. 11 Cost. rimane riservato alla Corte costituzionale è quella che ad essere messa in discussione non sia la compatibilità con il diritto dell’Unione di norme nazionali, ma il contrasto di norme di quel diritto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e con i diritti fondamentali della persona umana.
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Nei termini in cui è stata prospettata dalla Corte di giustizia, infatti, la supremazia del diritto scaturito dai Trattati si esprime evidentemente nei confronti dell’ordinamento nazionale nel suo complesso. Ciò comporta, come si è già accennato, che di fronte a norme di quel diritto debbano cedere anche eventuali disposizioni contrastanti della nostra Costituzione, essendo inammissibile che norme di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, possano menomare l’unità e l’efficacia del diritto dell’Unione: «il diritto nato dal Trattato, che ha una fonte autonoma, per sua natura non può infatti trovare un limite in qualsivoglia norma di diritto nazionale. … Di conseguenza, il fatto che siano menomati vuoi i diritti fondamentali sanciti dalla costituzione di uno Stato membro, vuoi i principi di una costituzione nazionale, non può sminuire la validità di un atto della Comunità né la sua efficacia nel territorio dello stesso Stato» (Corte giust. 17 dicembre 1970, 11/70, Internationale Handelsgesellschaft, 1126, punto 3). Come si ricorderà, quando la Corte costituzionale ha dovuto affrontare tale questione sotto il profilo specifico della legittimità costituzionale della partecipazione italiana all’Unione europea, essa l’ha risolta con un’affermazione implicita di supremazia, anche in questo caso, del diritto dell’Unione (sentenza Frontini, cit.). In quell’occasione la Corte aveva in effetti concluso che, in ragione della previsione dell’art. 11 Cost., le limitazioni di sovranità derivanti da tale partecipazione avevano potuto validamente essere assunte mediante lo strumento della legge ordinaria; conclusione questa che implicava appunto la prevalenza delle norme europee concretanti quelle limitazioni di sovranità sulle corrispondenti norme della Costituzione. Questa conclusione era però formulata, in realtà, in relazione alle disposizioni costituzionali che regolano la formazione delle leggi e l’organizzazione dei poteri dello Stato. Nella stessa occasione, infatti, la Corte costituzionale ha anche precisato che, «in base all’art. 11 Cost., sono state consentite limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate, e deve quindi escludersi che siffatte limitazioni, concretamente puntualizzate nel Trattato di Roma […] possano comunque comportare per gli organi della CEE un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana» (ivi). In sostanza, mentre ammetteva la prevalenza del diritto dell’Unione anche su norme costituzionali, la Corte costituzionale ne prospettava un limite con riferimento a un nucleo di principi strutturali e diritti fondamentali della persona, specificamente caratterizzanti il nostro assetto costituzionale; limite sul rispetto del quale essa si riservava di esercitare puntualmente, su rinvio dei giudici di merito, il proprio sindacato costituzionale. La tesi dell’esistenza di c.d. controlimiti costituzionali (vedi qui sotto) alle limitazioni di sovranità derivanti dall’appartenenza all’Unione europea non è stata formulata unicamente dalla nostra Corte costituzionale. Come vedremo nel prossimo paragrafo, infatti, essa si ritrova affermata, seppur con peculiarità legate anche alle caratteristiche dei rispettivi sistemi costituzionali, anche nella giurisprudenza delle corti supreme di altri Stati membri. Le affermazioni al riguardo sembrano anzi essersi moltiplicate in tempi recenti, quasi a diventare espressione di una tendenza diffusa tra tali corti; tendenza che, dietro la finalità principalmente dichiarata di porsi a baluardo dei diritti fondamentali della persona, pare difficile non mettere in collegamento con gli umori di un’opinione pubblica europea, che in alcune sue parti vede sempre più prevalere, in questi ultimi an-
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ni, sentimenti di chiusura nazionalistica e, quindi, di disaffezione per il processo d’integrazione europea.
Pur ribadendo più volte nella sua giurisprudenza successiva, l’esistenza di questo limite, la Corte non ha finora fornito elementi interpretativi realmente capaci di aiutare a meglio comprendere il contenuto effettivo di quel nucleo di principi e diritti, che in una recente sentenza essa ha anche definito come «“controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea» nel nostro ordinamento e, quindi, alle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost. (sentenza 22 ottobre 2014, n. 238). La sentenza verteva in realtà sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze in merito alla «norma prodotta nel nostro ordinamento mediante il recepimento, ai sensi dell’art. 10, primo comma, Cost.», della consuetudine internazionale accertata dalla Corte internazionale di giustizia (CIG) nella sentenza del 3 febbraio 2012, nella parte in cui nega la giurisdizione, nelle azioni risarcitorie per danni da crimini di guerra commessi, almeno in parte, nello Stato del giudice adito, iure imperii dal Terzo Reich. E in questo quadro la Corte costituzionale ha appunto affermato che «non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un “limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione” (sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali “controlimiti” all’ingresso delle norme dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168 del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti Lateranensi e del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971)».
L’unica indicazione al riguardo, che viene peraltro proprio da quest’ultima sentenza, sembra però delimitarne il perimetro in modo piuttosto restrittivo, visto che vi viene puntualizzato che quei principi e diritti «rappresentano … gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale». I principi e diritti sottratti alla revisione costituzionale sono stati a suo tempo descritti dalla stessa Corte costituzionale (sentenza 15-29 dicembre 1988, n. 1146) nei seguenti termini: «La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana. Questa Corte, del resto, ha già riconosciuto in numerose decisioni come i principi supremi dell’ordinamento costituzionale abbiano una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale, sia quando ha ritenuto che anche le disposizioni del Concordato, le quali godono della particolare “copertura costituzionale” fornita dall’art. 7, comma secondo, Cost., non si sottraggono all’accertamento della loro conformità ai “principi supremi dell’ordinamento costituzionale” (v. sentt. nn. 30 del 1971, 12 del 1972, 175 del 1973, 1 del 1977, 18 del 1982), sia quando ha affermato che la legge di esecuzione del Trattato della CEE può essere assoggettata al sindacato di questa Corte “in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana” (v. sentt. nn. 183 del 1973, 170 del 1984)».
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Non deve perciò meravigliare se ancora la Corte costituzionale abbia ritenuto l’ipotesi che effettivamente si produca un simile contrasto tra norme dell’Unione e uno di questi controlimiti, non solo «aberrante» (sentenza Frontini, cit.), ma anche «sommamente improbabile» benché «pur sempre possibile» (13-21 aprile 1989, n. 232, Fragd). Da un lato, infatti, quando la si consideri dal punto di vista dei valori da tutelare, l’ipotesi non può che ritenersi di per sé eccezionale, dato che, come abbiamo appena visto, la Consulta ha parlato di essi in termini di «essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana»; tanto “essenziali” che, non a caso, l’unico di essi espressamente indicato come tale da quest’ultima è la forma repubblicana, formalmente esclusa dall’art. 139 Cost. come possibile «oggetto di revisione costituzionale». Dall’altro lato, lo stesso ordinamento dell’Unione europea pone più di un argine a questo eventuale conflitto. Per quanto riguarda i diritti fondamentali della persona umana, i progressi che si è visto essere stati compiuti in materia da tale ordinamento – grazie, in successione, alla giurisprudenza della Corte di giustizia, alla previsione esplicita nel diritto primario, con l’art. 6 TUE, di un obbligo di rispetto di quei diritti da parte delle istituzioni europee, all’adozione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e alla sua integrazione attuale nei Trattati – hanno drasticamente ridotto le possibilità che l’eventuale contrasto tra una norma europea e i diritti fondamentali della persona umana non sia sanato direttamente a livello dell’ordinamento dell’Unione, tramutandosi in un conflitto di quella norma con la nostra Costituzione. E lo stesso deve dirsi rispetto alla salvaguardia dell’assetto costituzionale degli Stati membri, visto che essa è ugualmente evocata oggi a livello dei Trattati, che impongono all’Unione ed alle sue istituzioni il rispetto della «identità nazionale [degli Stati] insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali» (art. 4, par. 2, TUE). La previsione di improbabilità di quel conflitto è d’altronde confermata dal fatto che, finora, ne sia stata prospettata l’ipotesi alla Corte costituzionale pochissime volte e che, con una sola eccezione, essa ne ha sempre esclusa la fondatezza. Per quanto riguarda l’eventuale contrasto con principi strutturali del nostro assetto costituzionale, la questione è stata ad esempio posta alla Corte in riferimento alla possibilità di ammettere deroghe di origine europea al riparto di competenze tra Stato e regioni disposto dalla nostra Carta costituzionale (Corte cost. 17 aprile 1996, n. 126, e 11 aprile 1977, n. 93); mentre in relazione al rispetto dei diritti fondamentali della persona umana, il problema si è prospettato rispetto alla compatibilità con l’art. 24 Cost. del meccanismo del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sotto il profilo degli effetti nel tempo delle sentenze rese a Lussemburgo a questo titolo in materia di validità degli atti delle istituzioni dell’Unione (sentenza Fragd, cit.). Rispetto ad ambedue le ipotesi la Corte ha escluso che ricorresse un conflitto tra le norme dell’Unione messe in questione e principi o diritti fondamentali del nostro sistema costituzionale: solo che nel primo caso, a conferma dell’essenzialità che questi ultimi devono riflettere, essa ha fondato tale conclusione sul fatto che, in realtà, «non [venivano] in considerazione … principi supremi della Costituzione» (così, in particolare, sentenza n. 93/1977, cit.); mentre nel secondo caso, pur affermando che l’art. 24 Cost. va ascritto «tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso principio di democrazia l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio», la Corte ha invece ritenuto che non era rinvenibile alcuna lesione di quel principio da parte della norma europea invocata.
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L’eccezione è costituita dalla recente ordinanza con cui la Corte costituzionale ha rinviato in via pregiudiziale una serie di questioni riguardanti la vicenda, già in precedenza evocata (p. 130 s.), della portata dell’obbligo posto agli Stati dall’art. 325, par. 1, TFUE di assicurare il contrasto alle frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione con sanzioni equivalenti a quelle previste per i reati analoghi commessi a danno dello Stato e, in ogni caso, con sanzioni effettive e dissuasive. Come si ricorderà, infatti, con una sua sentenza del 2015 (sentenza Taricco, cit.) la Corte di giustizia ha affermato che in ragione del carattere completo, preciso e incondizionato di quell’obbligo i giudici italiani siano tenuti a disapplicare la normativa italiana che prevede per il primo tipo di frodi termini di prescrizione più ridotti e tali da dar luogo, in ragione della durata dei processi nel nostro Paese, a una sostanziale impunità. Ebbene, la conseguente estensione retroattiva di questa disapplicazione anche ai procedimenti in corso ha fatto ritenere alla Corte costituzionale, investita del problema, che la regola posta dai giudici del Lussemburgo attraverso la loro sentenza interpretativa lederebbe il principio di legalità in materia penale di cui all’art. 25, comma 2, Cost., principio che esprime «un principio supremo dell’ordinamento, posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo». È opportuno precisare, per una miglior comprensione della vicenda, che a differenza di quanto avviene nella grande maggioranza degli altri Stati membri, la prescrizione in materia penale ha in Italia natura sostanziale e non processuale. Per questo essa è ricondotta dalla Corte costituzionale al principio di legalità declinato come divieto di applicazione retroattiva di una regola che, secondo la Coste costituzionale, aggraverebbe la posizione di un imputato in un processo penale: «occorre infatti che la disposizione scritta con cui si decide quali fatti punire, con quale pena, e, nel caso qui a giudizio, entro quale limite temporale, permetta “una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo (sentenza n. 5 del 2004)”».
Il convincimento espresso al riguardo dalla Corte costituzionale l’ha appunto portata a porre alla Corte di giustizia, per la via del rinvio pregiudiziale, la questione del se l’obbligo di disapplicazione vada osservato dai giudici di uno Stato membro anche quando esso si ponga «in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro». In realtà, però, in questo suo rinvio pregiudiziale la Corte costituzionale imprime due indubbi sviluppi alla precedente giurisprudenza in materia di controlimiti. Da un lato, essa fa esplicitamente del nucleo di principi strutturali e diritti fondamentali della persona meritevoli di tutela da limitazioni recate da norme dell’Unione un aspetto dell’«identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato», che l’Unione è tenuta formalmente a rispettare ai sensi dell’art. 4, par. 2, TUE, agganciando così il principio dei controlimiti a un obbligo posto formalmente in capo alle istituzioni europee dai Trattati. Dall’altro lato, la Corte costituzionale esprime anche, per la prima volta in modo esplicito, il suo convincimento che «la verifica ultima circa l’osservanza dei principi supremi dell’ordinamento nazionale» di uno Stato membro da parte di una norma del diritto dell’Unione non spetti alla Corte di giustizia, ma debba essere rimessa alle competenti autorità di quello Stato, e nello specifico alla stessa Corte costituzionale. La prima tesi sembra per la verità portare, se fondata, verso una visione ancora
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più restrittiva del perimetro dei controlimiti, dato il carattere di ancor maggior essenzialità che indubbiamente devono rivestire gli elementi che concretizzano l’identità nazionale di uno Stato. Quanto, invece, alla competenza a valutare l’effettiva sussistenza nel caso concreto di un controlimite costituzionale all’efficacia di una norma dell’Unione, la tesi della Corte costituzionale sembra destinata ad essere difficilmente condivisibile da parte della Corte di giustizia: se i controlimiti si identificano con l’identità nazionale dello Stato e vengono perciò ricondotti all’obbligo di rispetto posto dall’art. 4 TUE, la competenza di quest’ultima è esplicitamente imposta dai Trattati, visto che spetta in via esclusiva ad essa, ai sensi dell’art. 19, par. 1, TUE, «assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati»; in ogni caso, come dimostra la giurisprudenza dell’Unione su materie di competenza degli Stati (retro, p. 423 s.), pure ad ammettere che la valutazione della sussistenza del controlimite non possa non essere prima di tutto il frutto di una valutazione dello Stato interessato, da effettuare attraverso i propri organi competenti, sarebbe difficilmente contestabile il potere della Corte di giustizia di giudicare della fondatezza e delle conseguenze di quella valutazione alla luce dei Trattati.
4. Cenni sul rapporto con il diritto dell’Unione negli altri Stati membri Con l’adesione al processo di integrazione europea non solo l’Italia, ma tutti gli Stati membri sono stati posti dinanzi all’esigenza di individuare un esplicito fondamento normativo per le limitazioni della sovranità statale che sempre più ampie e numerose scaturivano da quel processo. Anche in altri ordinamenti, del resto, l’affermazione del primato del diritto dell’Unione sul diritto interno ha messo in luce il rischio, almeno potenziale, di conflitti tra norme di matrice sovranazionale e norme fondamentali dello Stato. Vale quindi la pena, dopo avere esaminato la situazione italiana, di percorrere velocemente l’esperienza al riguardo degli altri Stati. a) La soluzione elaborata nei diversi Stati membri per la definizione dei rapporti tra i due ordinamenti, seppur non uniforme dal punto di vista degli strumenti, si è rivelata tuttavia sostanzialmente univoca negli esiti. Molti Stati hanno deciso di inserire all’interno delle proprie costituzioni una clausola di cessione di sovranità o di attribuzione dell’esercizio di competenze a favore dell’Unione. Una clausola di questo tipo è prevista in Francia, dove la ratifica dei Trattati internazionali, dotati di rango sovraordinato alla legge (art. 55 Cost. francese: «Les traités ou accords régulièrement ratifiés ou approuvés ont, dès leur publication, une autorité supérieure à celle des lois, sous réserve, pour chaque accord ou traité, de son application par l’autre partie»), avviene mediante legge ordinaria. Prima del 1992, l’adesione della Repubblica francese alle Comunità europee era stata convalidata in via interpretativa dal Conseil Constitutionnel, al quale l’art. 54 della Costituzione francese affida il compito di valutare la compatibilità costituzionale dei Trattati internazionali. A seguito di una sua decisione del 9 aprile 1992 (décision n. 92-308 DC, Maastricht I) che ha dichiarato incompatibili con la Costituzione talune disposizioni
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del Trattato di Maastricht, subordinando così la ratifica di questo a una previa revisione costituzionale, la loi constitutionnelle del 25 giugno 1992, n. 92-554 (JORF du 26 juin 1992, n. 147, p. 8406) ha sancito il trasferimento di competenze statali all’ordinamento giuridico dell’Unione e la conseguente primauté di quest’ultimo, attraverso l’inserimento in Costituzione di un nuovo titolo che, in deroga alle disposizioni generali relative alla sovranità nazionale, contiene una norma specifica per la partecipazione della Francia alle Comunità europee e all’Unione europea secondo le modalità previste dal Trattato di Maastricht. A seguito di tale modifica, l’art. 88-1 Cost. francese stabilisce che «La République participe à l’Union européenne constituée d’États qui ont choisi librement d’exercer en commun certaines de leurs compétences en vertu du traité sur l’Union européenne et du traité sur le fonctionnement de l’Union européenne, tels qu’ils résultent du traité signé à Lisbonne le 13 décembre 2007». Ad ogni modo, chiamato nuovamente a pronunciarsi sullo stesso Trattato, il Conseil Constitutionnel ne ha affermato la legittimità costituzionale all’esito di quella revisione costituzionale (Cons. Const., décision n. 92-312 DC du 2 septembre 1992, Maastricht II) e ha dichiarato la propria incompetenza una volta intervenuta l’approvazione in via referendaria del disegno di legge di autorizzazione alla ratifica (Cons. Const., décision n. 92-313 DC du 23 septembre 1992, Maastricht III).
Gli sviluppi del processo d’integrazione europea hanno tuttavia reso necessari ulteriori adattamenti della Costituzione francese. Censure di incostituzionalità sollevate dal Conseil Constitutionnel rispetto al Trattato di Amsterdam, al Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa e al Trattato di Lisbona si sono infatti tradotte in altrettante revisioni costituzionali. In particolare, con la decisione del 20 dicembre 2007 relativa alla compatibilità costituzionale del Trattato di Lisbona (Cons. Const., décision n. 2007-560 DC du 20 décembre 2007, Recueil, p. 459, che richiama le valutazioni espresse nella precedente decisione sul Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa in relazione alle parti successivamente recuperate nel Trattato di Lisbona (Cons. Const., décision n. 2004-505 DC du 19 novembre, Recueil, p. 173), il Conseil Constitutionnel ha richiesto l’adozione di una previa riforma costituzionale sia per ratificare quelle disposizioni del Trattato che più condizionano la sovranità nazionale – e precisamente i trasferimenti di competenza all’Unione in ulteriori materie, le diverse modalità di esercizio delle competenze già trasferite, il passaggio dal voto all’unanimità alla maggioranza qualificata con decisione del Consiglio e le procedure di revisione semplificata –, sia per attuare le nuove prerogative riconosciute dal Trattato di Lisbona ai parlamenti nazionali nel quadro dell’Unione. Va inoltre ricordato che mentre la loi constitutionnelle del 2005 (Loi constitutionnelle n. 2005-204 du 1er mars 2005, JORF du 2 mars 2005, n. 51, p. 3696, adottata in occasione del Trattato costituzionale europeo) aveva previsto che ogni disegno di legge di autorizzazione alla ratifica di un Trattato relativo all’adesione di un nuovo Stato membro all’Unione fosse sottoposto a referendum indetto dal Presidente della Repubblica, la riforma del 23 luglio 2008, volta alla modernizzazione delle istituzioni della V Repubblica (Loi constitutionnelle n. 2008-724 du 23 juillet 2008, JORF du 24 juillet 2008, n. 171, p. 11890), ha introdotto a questo fine, come alternativa al referendum, la procedura di approvazione parlamentare a maggioranza dei tre quinti (art. 88-5, par. 2, Cost. francese).
Anche la Germania ha disciplinato la sua partecipazione al processo d’integrazione europea con una norma ad hoc della legge fondamentale (Grundgesetz). L’art. 23 di questa, riscritto dalla riforma costituzionale del 1992, qualifica la partecipazione della Repubblica federale tedesca all’integrazione europea come uno scopo dello
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Stato, nel rispetto dei principi di democrazia, dello Stato di diritto, sociale e federale, nonché del principio di sussidiarietà e di una tutela dei diritti fondamentali sostanzialmente paragonabile a quella garantita dalla legge fondamentale, legittimando il trasferimento a tal fine dei diritti di sovranità tramite legge approvata dal Bundesrat. Gli strumenti di verifica del rispetto di questi principi sono il potere di ratifica dei Trattati riconosciuto al Parlamento e la necessità di seguire il procedimento aggravato di revisione costituzionale previsto dall’art. 79, commi 2 e 3, Grundgesetz per l’adozione di tutti quegli atti con cui si opera un trasferimento di diritti di sovranità nei confronti dell’Unione. Con questa disposizione il legislatore tedesco ha posto una solida base giuridica su cui fondare il rapporto tra l’ordinamento dell’Unione e quello nazionale e allo stesso tempo ha riconosciuto al Parlamento un ruolo determinante nel convalidare la conformità del diritto dell’Unione alla Costituzione tedesca attraverso la ratifica dei Trattati. La giurisprudenza costituzionale, dal canto suo, ha fornito preziosi strumenti di interpretazione in ciascuna fase del processo di integrazione europea. Il primo problema affrontato dal Bundesverfassungsgericht è stato quello relativo al rapporto tra trasferimento dei diritti di sovranità e Costituzione, con particolare riferimento al profilo della tutela dei diritti fondamentali. Con una decisione del 29 maggio 1974, la Corte tedesca ha in un primo tempo precisato che, in assenza di revisione costituzionale, il trasferimento dei diritti di sovranità non consentiva di modificare la struttura fondamentale della Costituzione, della quale i diritti fondamentali costituiscono parte integrante e incomprimibile; per cui fintantoché l’ordinamento scaturito dai Trattati non avesse assicurato un livello adeguato di protezione di tali diritti, sarebbe spettato alla Corte stessa garantirne il rispetto, verificando la compatibilità del diritto dell’Unione con i diritti fondamentali (29 Mai 1974, Internationale Handelsgesellschaft/EVGF, Solange I, BVerfGE 37, 271). Questo orientamento è stato riconsiderato nel 1986, quando il Bundesverfassungsgericht ha riconosciuto la sostanziale equivalenza rispetto all’ordinamento nazionale del livello di protezione dei diritti fondamentali garantito dall’ordinamento giuridico dell’Unione, e in particolare dalla Corte di giustizia del Lussemburgo. La Corte costituzionale tedesca ha così escluso l’esigenza di un suo puntuale controllo sugli atti di diritto derivato adottati dalle istituzioni dell’Unione (22 Oktober 1986, Wünsche Handelsgesellschaft, Solange II, BVerfGE 73, 339), salvo che nel caso di violazioni continuate e sistematiche dei diritti fondamentali, tali da dimostrare una insormontabile inadeguatezza delle istanze di tutela della stessa Unione (7 Juni 2000, 2 BvL 1/97, Bananen II). Più recentemente, però, la Corte è tornata a ribadire con decisione l’esistenza di controlimiti costituzionali al primato del diritto dell’Unione, che spetta ad essa stessa valutare, ricordando come tale primato può considerarsi che operi solo nei limiti del trasferimento di sovranità operato con l’adesione all’Unione, e non può comunque entrare in conflitto con l’identità costituzionale tedesca garantita dall’art. 79, sec. 3, GG, di cui sono parte essenziale la protezione dei diritti fondamentali e i principi costituzionali della democrazia e dello Stato di diritto. Essa lo ha fatto, sotto il primo profilo, con riguardo a talune iniziative degli ultimi anni della BCE, ritenute di dubbia competenza di questa e quindi dell’Unione, rivolgendosi però in via pregiudiziale alla Corte di giustizia per averne conferma o meno; sotto il secondo profilo, rispetto
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ad un’applicazione fatta da un giudice tedesco della decisione-quadro che disciplina il mandato di cattura europeo, che essa ha invece giudicato direttamente incompatibile con un diritto fondamentale tutelato dall’art. 1, sec. 1, GG. I primi due casi riguardavano rispettivamente il già citato programma OMT (Outright Monetary Transactions), con cui la BCE ha proceduto all’acquisto diretto di titoli di stato a breve termine emessi da paesi in difficoltà macroeconomica grave e conclamata (retro, p. 705); e il programma PSPP (Public Sector Purchase Programme), anche conosciuto come quantitative easing, basato sull’acquisto da parte della stessa Banca di titoli nel settore pubblico. In ambedue i casi, come si è detto, la Corte costituzionale ha posto un quesito pregiudiziale a Lussemburgo circa il rispetto dei limiti di competenza della BCE: per il primo ha già ricevuto risposta positiva (Corte giust. 16 giugno 2015, C-62/14, Gauweiler), ritenendosene sostanzialmente soddisfatta (Urteil vom 21. Juni 2016, 2 BvR 2728/13, und a.); per il secondo, invece, il procedimento dinanzi alla Corte di giustizia (C-493/17, Weiss) è solo agli inizi (il rinvio è stato fatto con Beschluss vom 18. Juli 2017, 2 BvR 859/15 und a.). Quanto invece al terzo caso, essa ha considerato superfluo porre il problema alla Corte di giustizia, ritenendo che ricorressero gli estremi della teoria del c.d. “atto chiaro”, nel senso che il modo in cui la legislazione dell’Unione doveva essere correttamente applicata era a suo avviso talmente ovvio che non vi era alcuno spazio per dubbi ragionevoli (Beschluss vom 15. Dezember 2015, 2 BvR 2735/14).
Nel pronunciarsi a suo tempo sulla compatibilità del Trattato di Maastricht con i diritti fondamentali garantiti dal Grundgesetz, la Corte costituzionale tedesca ha anche dichiarato che uno degli strumenti per garantire la democraticità dell’Unione consiste nell’attribuzione di compiti e funzioni di carattere sostanziale al Parlamento tedesco, e in particolare nel potere di ratifica dei Trattati, con cui si stabiliscono i limiti e la portata dei diritti di sovranità trasferiti alle istituzioni europee; l’art. 23, comma 1, Cost. tedesca, in combinato disposto con l’art. 38 della stessa, che disciplina l’elezione dei membri del Bundestag, impone dunque all’organo legislativo, secondo quella Corte costituzionale, l’obbligo di definire in maniera chiara, circoscritta e determinata il trasferimento dei diritti di sovranità all’Unione (12 Oktober 1993, Maastricht, BVerfGE 89, 155). Questa centralità del Parlamento nazionale nel processo d’integrazione europea è stata messa in luce dal Bundesverfassungsgericht con un’evidenza ancora maggiore nella più recente decisione del 30 giugno 2009 (30 Juni 2009, BVerfG, 2 BvE 2/08, Lissabon). Nel dichiarare la compatibilità del Trattato di Lisbona con la legge fondamentale, detta Corte ha ritenuto necessaria, prima della conclusione del processo di ratifica, una modifica della legge sull’ampliamento e sul rafforzamento dei diritti del Bundestag e del Bundesrat nella partecipazione all’Unione, in ragione del contrasto con gli artt. 38, comma 1 e 23, comma 1, del Grundgesetz, da essa affermato, delle norme di quella legge che definivano la partecipazione del Parlamento all’esame degli atti normativi dell’Unione, alle procedure di revisione semplificata dei Trattati e al controllo sul principio di sussidiarietà sono state ritenute. Secondo la Corte costituzionale tedesca, in particolare, il ricorso del governo alle clausole passerella, in quanto procedure semplificate di revisione dei Trattati, alla clausola di flessibilità ed al meccanismo del c.d. freno d’emergenza, richiede una previa legge del Bundestag, che assicuri la responsabilità del Parlamento dinanzi ai cittadini per la partecipazione al processo di integrazione (Integrationsverantwortung).
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Le prescritte modifiche sono state approvate dal Parlamento tedesco il 22 settembre 2009: Gesetz über die Ausweitung und Stärkung der Rechte des Bundestages und des Bundesrates in Angelegenheiten der Europäischen Union, vom 22.9.2009, verkündet in Jahrgang 2009 Nr. 60 vom 24.9.2009.
Analoghe clausole costituzionali esplicitamente riferite al processo di integrazione europea sono state adottate anche da Cipro, Estonia, Irlanda, Portogallo, Slovacchia, Svezia e Ungheria. Talvolta la revisione costituzionale è stata finalizzata più che a fondare le limitazioni di sovranità provenienti dai Trattati, a disciplinare modalità di partecipazione dello Stato all’Unione europea. È questo, ad esempio, il caso dell’Austria, la cui adesione all’Unione ha comportato l’inserimento nella relativa Costituzione di sei articoli, concernenti essenzialmente il riparto di competenze tra Federazione e Länder nei rapporti con Bruxelles. Gli altri Stati membri, ovvero Belgio, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Grecia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca, Spagna, Romania e Slovenia, non hanno invece adottato disposizioni ad hoc per l’adesione al processo di integrazione europea, rispetto al quale trovano dunque applicazione le norme costituzionali di carattere generale relative ai Trattati internazionali e alla partecipazione ad organizzazioni internazionali. Spesso, peraltro, come nel caso dell’art. 93 Cost. spagnola o dell’art. 23 Cost. greca, queste norme sono state elaborate proprio nella prospettiva dell’ingresso nell’Unione. Pare opportuno sottolineare qui come, in linea con la giurisprudenza costituzionale italiana e tedesca a suo tempo esaminata, anche in alcuni degli altri Stati membri sopra menzionati le rispettive corti supreme ha affermato l’esistenza di controlimiti costituzionali all’ingresso nel proprio ordinamento del diritto dell’Unione europea; anche se in linea generale tale affermazione non ha portato, nei fatti, a negare l’efficacia della norma o dell’atto dell’Unione che era in gioco. Un caso del genere è stato quello che ha visto il Tribunal constitucional spagnolo rivolgersi (petición 28 de julio de 2011, Procedimiento penal contra Stefano Melloni) alla Corte di giustizia in via pregiudiziale sulla compatibilità con un diritto fondamentale della persona umana sancito dalla Costituzione spagnola, per poi escludere (sentencia 26/2014, de 13 de febrero 2014), dopo la risposta della Corte (Corte giust. 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni), che effettivamente vi fosse una lesione del diritto ad un processo equo e ai diritti della difesa garantiti dalla sua Costituzione. Un’affermazione invece del tutto astratta della teoria dei controlimiti è stata poi fatta anche dalla Corte costituzionale ungherese in una sua decisione del 30 novembre 2016 (Decision 22/2016. (XII. 5.) AB on the Interpretation of Article E) (2) of the Fundamental Law), con la quale essa prospetta il suo potere, sulla base di un’interpretazione dell’art. E), par. 2) della Costituzione di quel Paese, di esaminare se l’azione delle istituzioni dell’Unione europea violi un diritto fondamentale della persona umana, la sovranità dell’Ungheria o la sua identità costituzionale derivante dalla costituzione storica del Paese.
Nel Regno Unito la ratifica dei trattati internazionali è un privilegio della Corona (Royal Prerogative) esercitato dal governo. L’approvazione parlamentare è comunque necessaria affinché un Trattato acquisti forza di legge e possa essere applicato dal giudice. Nel caso della partecipazione del Regno Unito all’Unione europea ciò è avvenuto con l’adozione, al momento dell’adesione, dell’European Communities Act 1972 (ECA 1972), il quale costituisce tuttora la base giuridica del rapporto tra l’ordinamento britannico e il diritto dell’Unione. Esso è stato però negli anni ripetu-
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tamente modificato, in particolare per inserirvi la menzione dei successivi atti di modifica dei Trattati istitutivi approvati in occasione delle diverse conferenze intergovernative di revisione o delle adesioni di nuovi Stati membri. Per il Trattato di Lisbona si è provveduto con l’European Union (Amendment) Act 2008-EUA 2008. Il potere legislativo costituisce evidentemente una prerogativa sovrana del Parlamento britannico. Per la dottrina inglese ciò comporta, come ribadito da un recente provvedimento di legge (l’European Union Act 2011-EUA 2011), che anche le norme direttamente applicabili o suscettibili di effetti diretti del diritto dell’Unione europea possono, in linea di principio, esplicare la loro efficacia nel Regno Unito solo sulla base di un atto del Parlamento di Londra. Questa base legale è stata in effetti assicurata, ma una volta per tutte, dall’ECA 1972, attraverso una disposizione che prevede formalmente che quelle norme sono efficaci nel Regno Unito senza necessità di ulteriore promulgazione, e vi devono essere quindi riconosciute e applicate. La Section 18 («Status of EU law dependent on continuing statutory basis») dell’EUA 2011 stabilisce che «Directly applicable or directly effective EU law (that is, the rights, powers, liabilities, obligations, restrictions, remedies and procedures referred to in section 2(1) of the European Communities Act 1972) falls to be recognised and available in law in the United Kingdom only by virtue of that Act or where it is required to be recognised and available in law by virtue of any other Act». Dal canto suo, la Section 2, paragraph 1 dell’ECA 1972 prevede che «All such rights, powers, liabilities, obligations and restrictions from time to time created or arising by or under the Treaties, and all such remedies and procedures from time to time provided for by or under the Treaties, as in accordance with the Treaties are without further enactment to be given legal effect or used in the United Kingdom shall be recognised and available in law, and be enforced, allowed and followed accordingly; and the expression “enforceable EU right” and similar expressions shall be read as referring to one to which this subsection applies». È appena il caso di osservare che l’EUA 2011, richiamando come si è visto formalmente l’ECA 1972 al suo interno, ha riconosciuto esplicitamente questa funzione di «base legale permanente» per l’efficacia del diritto dell’Unione nell’ordinamento inglese della disposizione appena citata.
Affermando inoltre che il diritto dell’Unione si impone su ogni norma nazionale già in vigore o successivamente adottata, la disposizione citata dell’ECA 1972 ha sancito anche il primato delle norme europee su quelle interne. Di per sé, il riconoscimento di quel primato in una norma di legge non sarebbe decisivo, visto che il principio della sovranità parlamentare implica tradizionalmente che il Parlamento inglese non possa vincolare i suoi successori («what a sovereign Parliament can do, a sovereign Parliament can always undo»), con la conseguenza che la norma più recente prevale su quella anteriore, abrogandola anche per implicito. Inoltre l’ordinamento del Regno Unito non accorda alcuno statuto speciale ai trattati internazionali e alle norme da essi prodotte. Tuttavia, la previsione dell’ECA 1972 ha trovato riscontro nelle decisioni dei giudici inglesi. La giurisprudenza ha dato, infatti, pieno riconoscimento al primato del diritto dell’Unione, facendo leva da un lato, con la decisione Factortame II (United Kingdom House of Lords Decision 7 (26 July 1990), [1990] 2 LLR 365, R v Secretary of State for Trasport ex parte Factortame Ltd., n. 2), sul carattere volontario delle limitazioni della sovranità nazionale, liberamente accettate dal Parlamento inglese; dall’altro lato, con la decisione Thoburn v. Sunderland City Council (18 February 2002, English High Court (Queen’s Bench Divisional Court),
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[2002] 3 WLR, 247, Thoburn), sulla natura sostanzialmente «costituzionale» dell’ECA 1972, che lo renderebbe derogabile o modificabile solo in via esplicita. Secondo Factortame II, infatti, «whatever limitation of its sovereignty Parliament accepted when it enacted the European Communities Act 1972 was entirely voluntary». Dal canto suo, Thoburn, Para. 62-63, ha affermato che «In the present state of its maturity the common law has come to recognise that there exist rights which should properly be classified as constitutional or fundamental [...] And from this a further insight follows. We should recognise a hierarchy of Acts of Parliament: as it were “ordinary” statutes and “constitutional” statutes. The two categories must be distinguished on a principled basis. In my opinion a constitutional statute is one which (a) conditions the legal relationship between citizen and State in some general, overarching manner, or (b) enlarges or diminishes the scope of what we would now regard as fundamental constitutional rights. …. The special status of constitutional statutes follows the special status of constitutional rights. [...] The ECA clearly belongs in this family. It incorporated the whole corpus of substantive Community rights and obligations, and gave overriding domestic effect to the judicial and administrative machinery of Community law. [...] The ECA is, by force of the common law, a constitutional statute. Ordinary statutes may be impliedly repealed. Constitutional statutes may not. [...] A constitutional statute can only be repealed, or amended in a way which significantly affects its provisions touching fundamental rights or otherwise the relation between citizen and State, by unambiguous words on the face of the later statute».
In questa seconda decisione, peraltro, il giudice inglese ha anche affrontato il problema dell’eventuale esistenza di controlimiti nazionali al primato del diritto dell’Unione. La questione è stata risolta, analogamente a quanto avvenuto negli Stati dotati di una costituzione scritta, nel senso che l’ECA 1972 non consentirebbe in ogni caso l’incorporazione nell’ordinamento britannico di una misura europea che fosse «repugnant to a fondamental or constitutional right guaranteed by the law of England». Ibidem, para. 69: «(4) The fundamental legal basis of the United Kingdom’s relationship with the EU rests with the domestic, not the European, legal powers. In the event, which no doubt would never happen in the real world, that a European measure was seen to be repugnant to a fundamental or constitutional right guaranteed by the law of England, a question would arise whether the general words of the ECA were sufficient to incorporate the measure and give it overriding effect in domestic law. But that is very far from this case».
In occasione della ratifica del Trattato di Lisbona l’ECA 1972 è stato oggetto, sempre attraverso l’EUA 2008, di modifiche riguardanti anche il controllo parlamentare sulle decisioni che il governo britannico è chiamato a prendere a livello di Unione europea. In pratica, è stata esclusa la possibilità del governo di esprimere il proprio voto in sede di Consiglio europeo o di Consiglio senza un previo consenso del Parlamento rispetto a talune materie e procedure ritenute particolarmente sensibili. Più recentemente, poi, l’EUA 2011 ha ulteriormente rafforzato il controllo sull’operato del governo in quelle sedi. Da un lato, viene infatti prevista la necessità di un atto del Parlamento o comunque di una sua approvazione prima che il rappresentante del governo in Consiglio o in Consiglio europeo possa dare il suo assenso ad una serie di decisioni europee ancora più ampia di quella elencata nell’EUA 2008. Dall’altro lato, quando una di quelle decisioni comporta un trasferimento di poteri o
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competenze dal Regno Unito all’Unione, la stessa deve essere soggetta anche a referendum prima che il governo possa dare il suo assenso in sede europea (c.d. «referendum lock»). b) Il fatto che in linea di principio le norme dell’ordinamento giuridico dell’Unione siano in grado di raggiungere direttamente gli individui, non significa che sia di per sé escluso rispetto ad esse ogni intervento normativo dello Stato ai fini della loro attuazione. In base ai Trattati, del resto, la necessità di un intervento del genere non si prospetta, in linea di principio, solo nel caso di norme contenute in regolamenti o in decisioni dirette ad individui, visto che in questo caso è nella natura stessa dell’atto di cui si tratta l’effetto di applicarsi direttamente nell’ordinamento degli Stati. E pur tuttavia, anche in questo caso un intervento normativo dello Stato può rendersi necessario: come si è a suo tempo detto, infatti, può ben darsi che un regolamento lasci spazio ad un’attività di integrazione normativa da parte degli Stati o che comunque vi sia il bisogno di quell’attività perché la disciplina da esso dettata possa concretamente operare all’interno di un dato ordinamento nazionale. La necessità di un intervento normativo dello Stato si prospetta come regola, invece, per le altre norme dell’Unione. Nel caso di quelle contenute in direttive o in decisioni indirizzate agli Stati, tale necessità è connaturata al tipo di atto di cui si tratta, il quale non ha come destinatari formali gli individui. È vero che anche le norme in questione possono, a determinate condizioni, esplicare effetti direttamente in capo ai singoli, ma questi effetti diretti sono da considerare, come si è visto, una «garanzia minima», che non fa venir meno l’obbligo dello Stato di dare attuazione puntuale attraverso provvedimenti normativi agli atti in questione. L’attuazione del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri avviene secondo modalità la cui scelta spetta agli Stati stessi in base al principio dell’autonomia istituzionale. L’autorità competente per la trasposizione è dunque individuata sulla base delle regole costituzionali proprie di ciascuno Stato, che delineano il riparto di competenze tra potere legislativo e potere esecutivo. In linea generale, tale trasposizione può avvenire secondo il procedimento legislativo ordinario, con approvazione parlamentare di un disegno di legge di iniziativa governativa, oppure con provvedimento del governo, che può a sua volta agire o in esercizio di poteri propri o su delega del Parlamento all’adozione dell’atto di trasposizione. Tralasciando per il momento il sistema italiano, di cui si ritiene utile parlare più nei dettagli nel successivo Capitolo, si può osservare che la «soluzione governativa», in particolare attraverso il meccanismo della delega, è un’opzione molto diffusa tra gli Stati membri. Si tratta di una scelta chiaramente ispirata dall’idea che le direttive dell’Unione europea abbiano un contenuto principalmente tecnico, più agevolmente trasponibile dalle strutture amministrative del governo, nonché dall’esigenza di una maggiore celerità del procedimento di recepimento. In alcuni Stati, peraltro, come Germania e Danimarca, la delega non è limitata dal punto di vista temporale, ma si estende a coprire anche le eventuali modificazioni apportate da direttive successive a quella per il cui recepimento la delega è stata conferita. La delega al Governo può essere conferita in via generale o caso per caso. In Ir-
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landa, ad esempio, l’European Communities Act 1972 attribuisce una delega permanente al governo per l’emanazione degli atti di recepimento del diritto dell’Unione; al Parlamento è comunque riconosciuto un potere di controllo, esercitabile entro un anno con l’eventuale annullamento dell’atto di trasposizione. Anche nel Regno Unito, laddove sia indispensabile, il recepimento avviene con atto del governo, che agisce tramite Orders in Council o Statutory Instruments (EUA 1972, Section 2, paragraphs 1, 2 and 4). In Francia, il riparto di competenze tra potere esecutivo e potere legislativo, fissato in via generale dagli artt. 34 e 37 Cost. francese, si riverbera sull’attività di recepimento: il governo può adottare atti di trasposizione delle direttive in materie non coperte da riserva di legge o, nelle materie a quest’ultima riservate, previa autorizzazione dal Parlamento ai sensi dell’art. 38 Cost. francese. Dal canto suo, il Conseil Constitutionnel ha riconosciuto al recepimento delle direttive la natura di vero e proprio obbligo costituzionale, derogabile solo in caso di espressa disposizione contraria della Costituzione francese (décision n. 2004-497 DC du 1 Juillet 2004, Recueil, p. 107); poiché la verifica del rispetto di quest’obbligo è affidata al Conseil Constitutionnel, quest’ultimo potrà eventualmente dichiarare l’illegittimità costituzionale di una norma interna manifestamente in contrasto con la direttiva che essa mira a recepire. In questo senso si veda Cons. Const., décision n. 2006-543 du 30 Novembre 2006, Recueil, p. 120, cons. 4-7: «Considérant […] qu’ainsi, la transposition en droit interne d’une directive communautaire résulte d’une exigence constitutionnelle; […] que la transposition d’une directive ne saurait aller à l’encontre d’une règle ou d’un principe inhérent à l’identité constitutionnelle de la France, sauf à ce que le constituant y ait consenti; […] qu’il ne saurait en conséquence déclarer non conforme à l’article 88-1 de la Constitution qu’une disposition législative manifestement incompatible avec la directive qu’elle a pour objet de transposer».
Quanto alla Spagna, l’attuazione avviene qui normalmente con legge, mentre la delega al Governo, per quanto tecnicamente possibile, è molto rara; nelle materie non coperte da riserva di legge la trasposizione avviene tuttavia con atto del Governo (Real decreto). Ulteriori profili di specificità nel recepimento degli atti dell’Unione emergono poi con riguardo agli Stati federali o con forti autonomie territoriali, nei quali il rispetto degli obblighi sovranazionali esige la chiara individuazione del livello di governo competente per l’adozione delle misure di trasposizione, nonché la previsione di meccanismi suppletivi in caso di inadempimento. In Germania la Federazione recepisce il diritto dell’Unione nelle materie che rientrano nella sua competenza legislativa, in base al riparto di competenze tra Bund e Länder delineato dagli artt. 70, 73 e 74 del Grundgesetz: il governo federale (Bundesregierung) può adottare atti di recepimento su autorizzazione del Bundestag, che, ai sensi dell’art. 80 della legge fondamentale, definisce preventivamente con legge contenuto, scopo e portata dell’atto da emanare. Dal canto loro, i Länder sono tenuti al rispetto dell’ordinamento dell’Unione sia ai sensi dell’art. 24 della legge fondamentale, sia in base al principio di lealtà federale (Bundestreue): in caso di mancata attuazione da parte dei Länder, il Bund può esercitare i poteri sostitutivi di cui all’art.
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72 o ricorrere alla c.d. «coercizione federale» (Bundeszwang) di cui all’art. 39 del Grundgesetz. Il modello tedesco sui rapporti tra autorità centrale e territoriale ha ispirato a sua volta la revisione costituzionale in Austria, che ha introdotto, con riguardo al rapporto tra Stato centrale e autonomie regionali, strumenti analoghi di riparto di competenze e poteri sostitutivi. E anche in Belgio il riparto di competenze tra Stato e Communautés sancito dalla Costituzione belga è assistito da poteri sostitutivi esercitabili dalle autorità centrali per garantire il rispetto degli obblighi internazionali o sovranazionali; è inoltre previsto un meccanismo di rivalsa dello Stato per le sanzioni inflitte in caso di violazioni imputabili agli enti territoriali. L’art. 169 Cost. belga prevede infatti che «Afin de garantir le respect des obligations internationales ou supranationales, les pouvoirs visés aux articles 36 et 37 peuvent, moyennant le respect des conditions fixées par la loi, se substituer temporairement aux organes visés aux articles 115 et 121. Cette loi doit être adoptée à la majorité prévue à l’article 4, dernier alinéa». Secondo invece l’art. 16, § 3, Loi spéciale de réformes institutionnelles du 8 Août 1980 (M.B. du 15 Août 1980, p. 9434), modifiée par la loi spéciale visant à achever la structure fédérale de l’Etat du 16 Juillet 1993 (M.B. du 20 Juillet 1993, p. 16774), «L’Etat peut récupérer, auprès de la Communauté ou de la Région concernée, les frais du non-respect par celle-ci d’une obligation internationale ou supranationale. Cette récupération peut prendre la forme d’une retenue sur les moyens financiers à transférer en vertu de la loi à la Communauté ou à la Région concernée».
CAPITOLO III
Organizzazione e procedure per la partecipazione dell’Italia all’Unione europea Sommario: 1. Introduzione alla normativa rilevante. – 2. La c.d. fase ascendente. Premessa: l’apparato governativo. – 3. Segue: Il ruolo del Parlamento. – 4. Segue: Il coordinamento a livello governativo. Il CIAE. – 5. Segue: La partecipazione delle Regioni. – 6. La c.d. fase discendente. Dalla «legge comunitaria» alle «leggi europee». – 7. Segue: In particolare, la legge di delegazione europea e il recepimento delle direttive. – 8. Il ruolo delle Regioni.
1. Introduzione alla normativa rilevante Passiamo ora a descrivere in modo più dettagliato gli specifici meccanismi istituiti in Italia per l’elaborazione e l’attuazione delle politiche dell’Unione europea. Va detto subito che la materia è stata a lungo regolata in modo confuso e occasionale e questo ha concorso non poco ad aggravare le difficoltà che il nostro sistema ha incontrato fin dall’inizio per far fronte alle esigenze della partecipazione al processo d’integrazione europea. Bisognerà infatti attendere l’approvazione della c.d. «legge La Pergola», per vedere una prima risposta coerente del nostro legislatore a quelle esigenze, risposta peraltro che costituì, a suo merito, la prima legge ad hoc fino ad allora emanata da uno Stato membro per disciplinare in modo organico le modalità della partecipazione a quel processo. Si trattava della legge 9 marzo 1989, n. 86, contenente norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari (GURI 10 marzo 1989, n. 58), più nota appunto col nome del Ministro proponente, Antonio La Pergola. Prima di questa non mancarono, comunque, parziali tentativi di regolamentare taluni aspetti della materia, i più importanti dei quali furono, da un lato, la legge 16 aprile 1987, n. 153, recante «coordinamento delle politiche riguardanti l’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee e adeguamento dell’ordinamento interno agli atti normativi comunitari» (GURI 13 maggio 1987, n. 109, s.o.); dall’altro, la quasi contestuale legge 23 agosto 1988, n. 400, recante disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri (GURI 12 settembre 1988, n. 214, s.o.), il cui art. 5, n. 3, lett. a), attribuiva al Presidente del Consiglio o al Ministro da lui delegato (in realtà, quello per il coordinamento delle politiche comunitarie) competenze, anche di coordinamento, in materia di attuazione delle politiche comunitarie, di adempimento dei relativi obblighi, di informazione al Parlamento.
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In realtà, la legge La Pergola si concentrava su una parte soltanto dei profili di cui si compone la partecipazione di uno Stato al processo d’integrazione europea. Essa disciplinava in modo compiuto, infatti, principalmente la c.d. «fase discendente» di quella partecipazione, la fase cioè di attuazione da parte dello Stato degli obblighi derivanti dall’appartenenza alle allora Comunità europee. Solo marginalmente, invece, erano toccati i temi della «fase ascendente» e delle modalità, quindi, attraverso cui lo Stato provvede a definire la posizione nazionale da sostenere a Bruxelles nel quadro del negoziato sui differenti dossier europei. Quella legge aprì però la strada a una serie di successivi interventi normativi, che con il tempo sono venuti a completare il quadro regolatorio della materia. Va innanzitutto ricordato, se non altro per il suo rango formale, il complesso normativo costituito dalla già evocata riforma costituzionale del 2001, che ha modificato l’art. 117, comma 1, Cost., inserendovi il principio secondo cui la «potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali», e della legge 5 giugno 2003, n. 131 (GURI 10 giugno 2003, n. 132), che ha adeguato a quella riforma l’ordinamento della Repubblica, da un lato ribadendo detto principio in termini identici, almeno per quel che riguarda i vincoli comunitari (art. 1, comma 1), dall’altro precisando nei dettagli alcune delle previsioni generali della novella costituzionale riguardanti la partecipazione delle Regioni alla politica europea del paese (ci si riferisce in particolare all’art. 5 della legge, recante attuazione del comma 5 del nuovo art. 117 Cost. per la parte relativa alla «partecipazione delle Regioni in materia comunitaria», e sul quale si veda infra, p. 933 s.).
Ma il vero contributo alla definizione degli strumenti e delle modalità di gestione dei rapporti dell’Italia con le istituzioni di Bruxelles è arrivato dalle successive modifiche alla legge La Pergola. Alcune si limitarono ad interventi puntuali su sue disposizioni; altre, ben più importanti, sono state invece il frutto di revisioni complessive della disciplina in essa contenuta. La prima di queste fu la legge 4 febbraio 2005, n. 11 (GURI 15 febbraio 2005, n. 37), meglio conosciuta, anche qui in ragione del ministro proponente, come legge Buttiglione, la quale, nel sostituire, abrogandola, l’intera legge La Pergola, ne confermò sì l’impianto originario, di cui anzi assorbì, pur con opportune modifiche, le principali disposizioni, ma allo stesso tempo vi apportò una corposa integrazione in materia di fase ascendente, colmando così la segnalata lacuna di quella prima legge. Con l’entrata in vigore poi del Trattato di Lisbona, il processo riformatore si è (per il momento) completato con l’approvazione della legge 24 dicembre 2012, n. 234 (GURI 4 gennaio 2013, n. 3). Anche in questo caso si è trattato formalmente di una revisione complessiva della precedente legge Buttiglione, che ne risulta quindi integralmente abrogata. Ma anche in questo caso la revisione non ha portato a uno sconvolgimento radicale della sostanza di quella legge, visto che l’ossatura di molte disposizioni della legge Buttiglione si ritrova nella nuova legge. Ciononostante le novità sono numerose e in taluni casi di rilievo. Oltre a recepire quelle dovute al Trattato di Lisbona (nuovi meccanismi di coinvolgimento dei parlamenti nazionali, mutate denominazioni degli atti, venir meno della Comunità europea e delle sue aggettivazioni, ecc.), essa da un lato rivede in maniera significativa il rapporto delle Camere con il Governo nella gestione della politica europea del paese e, dall’altro lato,
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cerca di imprimere una maggior efficacia ai meccanismi di adeguamento dell’ordinamento nazionale agli obblighi europei. Proprio per l’ampiezza della disciplina delineata nei suoi 61 articoli, la legge n. 234/2012 si pone nei fatti, ancor più di quelle che l’hanno preceduta, come una sorta di testo unico o di codice dei rapporti con l’Unione europea. Tale vocazione è peraltro rafforzata dal fatto che essa tende a prospettarsi come tale anche sotto il profilo della portata formale di talune sue disposizioni – si pensi a quelle che, vedremo, limitano il contenuto delle leggi di attuazione degli obblighi europei da essa previste o dettano i criteri direttivi generali di delega cui devono essere informati atti delegati da assumere sulla base delle stesse – e sotto quello della sua modificabilità successiva – che nell’impostazione della legge mirerebbe ad essere apparentemente possibile, all’evidente scopo di una sua maggior ponderatezza, solo attraverso provvedimenti di legge appositi e comunque diversi dalle leggi specificamente dedicate dalla stessa n. 234/2012 all’attuazione degli obblighi europei. Volutamente, infatti, l’art. 30, comma 3, della legge, che elenca i possibili contenuti della legge europea (p. 937), non menziona tra di essi eventuali interventi di modifica della stessa legge n. 234/2012. Tuttavia, ciò non sembra essere servito, purtroppo, ad evitare che la legge europea venisse utilizzata anche a questo fine. Con l’esclusione, infatti, di quelle relative al primo anno di vigore della legge n. 234/2012 (legge europea 2013 e legge europea 2013-bis), nelle successive leggi europee (legge europea 2014 e legge europea 2015-2016) sono state puntualmente inserite una o più modifiche della legge n. 234/2012; e altrettanto è stato fatto nel caso del disegno di legge europea 2017, attualmente in corso di adozione da parte del Parlamento.
2. La c.d. fase ascendente. Premessa: l’apparato governativo Venendo ad un esame più puntuale della riferita normativa, conviene partire dalla disciplina da essa dettata per la c.d. «fase ascendente». A questo proposito conviene ricordare che in Italia (come del resto nella maggior parte degli altri paesi) la gestione della partecipazione dello Stato alla formazione delle politiche e dei diversi tipi di atti adottati dalle istituzioni dell’Unione è stata a lungo rimessa sostanzialmente alle competenti autorità centrali: in primis alla Presidenza del Consiglio dei ministri e al Ministero degli affari esteri, nonché, settorialmente, ai singoli Ministeri volta a volta competenti per materia. Mancava tuttavia, in seno alla Presidenza, una specifica sede istituzionale di coordinamento. Una svolta in questa direzione è stata avviata dalla ricordata legge n. 153/1987, il cui art. 1 ha istituito il «Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie», facendone la struttura di cui si avvale il Presidente del Consiglio (o un Ministro da lui delegato) per l’esercizio delle sue funzioni in materia europea e aprendo la via ad una riforma del sistema, che la prassi successiva si è incaricata di sviluppare ulteriormente. L’alternativa ricorrente nella legge n. 234/2012 tra il Presidente del Consiglio e il Ministro per gli affari europei per la gestione degli adempimenti da essa previsti è dovuta al fatto che in linea teorica un Governo potrebbe non annoverare tra le sue fila un Ministro per gli affari europei, laddove il Presidente del Consiglio decidesse di gestire direttamente le relative funzioni, senza delegarle a un apposito Ministro. Nulla impedisce poi, come dimostrano anche vicende politiche passate e recenti, che il Presidente del Consiglio possa delegare all’uopo un Sottosegretario, invece che un Ministro; e che in questo caso la scelta possa cadere non necessariamente su un Sottosegre-
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tario della Presidenza del Consiglio, ma anche su un Sottosegretario (o Vice Ministro) incardinato formalmente sul Ministero degli Affari esteri, ma pur sempre responsabile politicamente del Dipartimento appena menzionato.
In effetti, al Dipartimento (ora denominato «Dipartimento per le politiche europee»), che, salvo quanto appena detto, è di regola posto sotto la direzione politica di un Ministro per gli affari europei, sono state dapprima conferite competenze di coordinamento tra le amministrazioni interessate sia ai fini negoziali (ma esso gode anche di autonome competenze al riguardo, segnatamente in relazione alle attività del Consiglio dell’Unione europea nel settore del mercato interno), sia ai fini dell’attuazione della normativa dell’Unione. Col tempo, però, le attribuzioni del Dipartimento si sono notevolmente estese, insieme con il suo crescente ruolo complessivo, che ne fa oggi, almeno sul piano legislativo, il punto di riferimento (ma anche d’impulso) per il coordinamento della politica italiana rispetto agli adempimenti europei, e ciò con riguardo ai diversi attori nazionali: dalle Camere, cui esso deve garantire, come vedremo, l’informazione sulla partecipazione al processo decisionale dell’Unione; alle Regioni e agli enti locali, per la consultazione e il coinvolgimento agli stessi fini; alle categorie socio-economiche interessate, e così via. Tutto ciò, peraltro, fermo restando che, per la proiezione esterna di questa attività, il Dipartimento si coordina strettamente, oltre che con la Presidenza del Consiglio, cui fa formalmente capo, con il Ministero degli affari esteri, che svolge tuttora un ruolo fondamentale nel complessivo negoziato europeo, soprattutto in relazione alle vicende legate più direttamente al funzionamento dei Trattati (loro revisione, modifiche della membership, questioni istituzionali) e, com’è ovvio, al settore della PESC e più in generale dell’azione esterna dell’Unione. Tanto più che fa capo proprio a questo Ministero quell’essenziale e insostituibile ufficio che è la Rappresentanza permanente d’Italia presso l’UE a Bruxelles, sede diplomatica attraverso cui – come del resto avviene per tutti gli Stati membri – passa l’insieme dei rapporti tra il nostro Governo e le istituzioni dell’Unione.
3. Segue : Il ruolo del Parlamento Ciò posto, e passando ai concreti meccanismi, va segnalato anzitutto che la legge n. 234/2012 si preoccupa non solo di incidere sulla qualità e sulla portata dell’informazione che il Governo deve fornire alle Camere in ordine alla partecipazione dell’Italia all’Unione, ma soprattutto di assicurare un maggiore e più efficace coinvolgimento delle stesse nella fase di formazione degli atti dell’Unione. A questo fine la legge impone al Governo, e segnatamente al Presidente del Consiglio o al Ministro per gli affari europei, una serie diversificata di obblighi informativi finalizzati ad un coinvolgimento del Parlamento nella definizione della politica europea dell’Italia e nel processo di formazione degli atti dell’Unione. Tali obblighi sono assolti talvolta attraverso una partecipazione diretta del Governo ai lavori parlamentari, ma più spesso con una trasmissione documentale.
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Il Governo è tenuto così a illustrare alle Camere, prima di ciascuna riunione del Consiglio europeo o del Consiglio dell’Unione europea, la posizione che intende assumere, e a riferire successivamente, entro quindici giorni, sulle risultanze di tali riunioni (art. 4, comma 1). Più generalmente, poi, esso deve trasmettere alle Camere, rispettivamente entro il 31 dicembre e il 28 febbraio di ogni anno, una relazione programmatica e una relazione consuntiva volte a informare nei dettagli il Parlamento, l’una sugli orientamenti e le priorità che il Governo intende perseguire nell’anno successivo con riferimento agli sviluppi del processo d’integrazione europea (art. 13, comma 1), l’altra sugli sviluppi avuti da tale processo nell’anno precedente e sulla politica seguita al riguardo dal Governo (art. 13, comma 2).
Con riguardo invece all’informazione finalizzata al coinvolgimento del Parlamento nell’attività negoziale del Governo su specifici dossier, la legge n. 234/2012 obbliga quest’ultimo a trasmettere alle Camere, contestualmente alla loro ricezione, tutti i progetti di atti dell’Unione e i documenti di consultazione della stessa, quali libri verdi, libri bianchi e comunicazioni della Commissione (art. 6). Gli uni e gli altri devono essere accompagnati da una nota illustrativa contenente una valutazione del Governo. In più, per i progetti di atti legislativi è richiesta un’ulteriore relazione con il parere del Governo circa la conformità di ciascun progetto ai principi di attribuzione, di sussidiarietà e di proporzionalità, nonché circa la sua rispondenza o meno all’interesse nazionale e l’impatto finanziario e giuridico sulle competenze regionali e delle autonomie locali, l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni e le attività dei cittadini e delle imprese. La relazione in questione, che è finalizzata a garantire alle Camere un’informazione qualificata e tempestiva sui progetti di atti legislativi e di cui va assicurato il costante e tempestivo aggiornamento, deve essere inoltre accompagnata da una «tabella di corrispondenza tra le disposizioni del progetto e le norme nazionali vigenti» (art. 6, comma 5). Inoltre, nonostante la comprensività degli obblighi informativi appena citati, gli stessi sono poi specificamente ribaditi da apposite previsioni in relazione a taluni settori di attività dell’Unione particolarmente sensibili: politica estera e di difesa comune (art. 4, comma 2), coordinamento delle politiche economiche e di bilancio e funzionamento dei meccanismi di stabilizzazione finanziaria (art. 4, comma 4), accordi tra Stati membri in materia finanziaria e monetaria (art. 5).
Come si è detto, questo insieme di obblighi informativi gravanti sul Governo è diretto a consentire alle Camere di orientare la politica europea dell’esecutivo. Del resto, in aggiunta alle regole generali sulle prerogative del Parlamento nei suoi rapporti con quest’ultimo, la legge n. 234/2012 prevede a questo fine meccanismi specifici di intervento, in particolare con riferimento alla fase di formazione degli atti dell’Unione. È ad esempio espressamente stabilita (art. 7) la possibilità per le Camere di formulare ogni opportuno atto di indirizzo sui negoziati in corso in sede europea (come su ogni altra questione portata alla loro attenzione ai sensi della legge); atto di indirizzo cui il Governo è tenuto ad attenersi, salvo a riferire alle Camere fornendo le adeguate motivazioni, laddove ciò non sia stato possibile. Inoltre, l’art. 10 della legge disciplina anche per l’Italia, al pari di quanto è previsto da tempo in altri Stati membri, l’istituto della c.d. riserva di esame parlamentare, attraverso la quale il rappresentante del Governo in seno al Consiglio dell’Unione
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europea fa stato della sua impossibilità di esprimere il voto su un determinato atto, perché in attesa del parere del Parlamento al riguardo. In particolare, il Governo è tenuto ad apporre tale riserva ove le Camere glielo richiedano; ovvero lo stesso Governo può decidere di apporla di propria iniziativa rimettendo la questione alla valutazione del Parlamento, quando lo ritenga utile o opportuno in ragione della particolare sensibilità politica, economica o sociale del progetto di atto in discussione in sede europea. In un caso come nell’altro, il Governo potrà procedere alle attività di sua competenza solo dopo che sulla riserva si siano espresse le Camere e comunque, anche in assenza del loro avviso, dopo che siano trascorsi trenta giorni dalla comunicazione alle stesse dell’apposizione della riserva. Sempre con riguardo al ruolo del Parlamento nella fase ascendente, la legge n. 234/2012 disciplina infine, dal punto di vista del diritto interno, l’utilizzo o la partecipazione delle Camere a taluni meccanismi previsti dal Trattato di Lisbona dai quali quel ruolo è direttamente o indirettamente influenzato. Si tratta in primo luogo della verifica del rispetto del principio di sussidiarietà di cui al Protocollo (n. 2) sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità (retro, p. 429 ss.), rispetto alla quale l’art. 8 della legge si limita però a stabilire che le Camere debbano trasmettere contestualmente anche al Governo gli eventuali pareri motivati che quel Protocollo prevede possano essere da esse inviati direttamente al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione europea per contestare la conformità al principio di sussidiarietà di un progetto di atto legislativo dell’Unione. Più innovative risultano invece le modalità di funzionamento interno, dettate dall’art. 11 della legge, delle diverse procedure semplificate di modifica previste dai Trattati. Per lo più queste si basano genericamente, come si è a suo tempo visto, su un’approvazione da parte degli Stati membri «conformemente alle rispettive norme costituzionali» di una decisione presa dal Consiglio europeo in merito alle modifiche o integrazioni da apportare a determinate disposizioni dei Trattati. Colmando una lacuna del nostro ordinamento, il citato art. 11 detta ora tali norme, affidando quell’approvazione a una pronuncia del Parlamento assunta, a seconda dei casi, con legge o con semplice deliberazione. L’adozione o l’approvazione con legge è necessaria per le procedure semplificate di cui agli artt. 42, par. 2 (passaggio a una difesa comune), e 48, par. 6, TUE (revisione semplificata della Parte terza del TFUE), e all’art. 311, comma 3, TFUE (risorse proprie); e il Governo è obbligato a presentare entro trenta giorni il relativo disegno di legge. Per gli altri casi l’art. 11 si limita, invece, a rinviare alle «opportune deliberazioni» delle Camere: la determinazione della natura e della forma di queste viene perciò lasciata all’autonomia regolamentare di ciascuna di esse. Prima della legge in esame, l’ordinamento italiano non prevedeva in effetti, a livello costituzionale o di legge ordinaria, una procedura esplicitamente o chiaramente applicabile alla formalizzazione della volontà dello Stato di vincolarsi agli atti con cui l’Unione dà luogo a una delle procedure semplificate di revisione previste dai Trattati. Date le caratteristiche di queste, infatti, il ricorso alla procedura di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali disciplinata dall’art. 80 Cost. solleva più di una perplessità. Non a caso essa è stata utilizzata solo nel caso recente dell’approvazione della dec. 2011/199/UE, del 25 marzo 2011 (GUUE L 91, 1), con la quale, sulla base della procedura semplificata prevista dall’art. 48, par. 6, TUE, il Consiglio europeo ha modificato l’art. 136 TFUE relativamente a un meccanismo di stabilità per gli Stati membri la cui moneta è l’euro (v. supra, p. 697 s.): con legge 23 luglio 2012, n. 115 (GURI 28 luglio 2012, n. 175,
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s.o. n. 160), è stata infatti autorizzata la «ratifica» ex art. 80 Cost. della decisione del Consiglio europeo da parte del Presidente della Repubblica (art. 1) e la sua piena e intera esecuzione (art. 2). In tutti i precedenti casi di ricorso dell’Unione a procedure semplificate di questo genere si è invece proceduto diversamente: o si è adottata una legge contenente la «approvazione» diretta del Parlamento e le norme di esecuzione dell’atto del Consiglio (così la legge 6 aprile 1977, n. 150, in GURI 30 aprile 1977, n. 116, recante approvazione ed esecuzione dell’Atto relativo all’elezione dei rappresentanti nell’assemblea a suffragio universale diretto, firmato a Bruxelles il 20 settembre 1976, allegato alla decisione del Consiglio delle Comunità europee, adottata a Bruxelles in pari data; nonché la legge 28 dicembre 2001, n. 448 – legge finanziaria per il 2002, art. 77, commi 1 e 2, in GURI 29 dicembre 2001, n. 301, s.o. n. 285, contenente approvazione ed esecuzione della dec. 2000/597/CE del Consiglio, del 29 settembre 2000, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee); ovvero ci si è limitati alla sola esecuzione dello stesso (legge 27 marzo 2004, n. 78, in GURI 29 marzo 2004, n. 74, che dà attuazione alla dec. 2002/772/CE, Euratom del Consiglio, del 25 giugno 2002 e del 23 settembre 2002, che modifica l’Atto relativo all’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo a suffragio universale diretto, allegato alla dec. 76/787/CECA, CEE, Euratom; e legge 24 dicembre 2007, n. 244 – legge finanziaria 2008, art. 2, comma 66, in GURI 28 dicembre 2007 n. 300, s.o. n. 285, che dà «piena e diretta esecuzione» alla dec. 2007/436/CE/Euratom del Consiglio, del 7 giugno 2007, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee).
L’art. 12, infine, riconosce un ruolo al Parlamento nella decisione sul ricorso al c.d. freno d’emergenza previsto da alcune norme dei Trattati, ai sensi delle quali un Governo può opporsi per motivi vitali di politica nazionale o per la salvaguardia di principi fondamentali del proprio ordinamento, a una delibera del Consiglio dell’Unione da prendere a maggioranza qualificata (supra, p. 72). L’articolo stabilisce che la decisione del Governo di avvalersene non sia lasciata alla sola volontà dell’esecutivo, ma che l’impulso possa venire anche da un atto di indirizzo del Parlamento.
4. Segue : Il coordinamento a livello governativo. Il CIAE Tranne in quei casi, come l’approvazione di procedure semplificate di modifica dei Trattati, nei quali la posizione dell’Italia si identifica formalmente con quella del Parlamento, la partecipazione di quest’ultimo alla fase ascendente interviene, condizionandola, su una posizione del Governo già autonomamente assunta o in via di formazione nel quadro di un coordinamento a livello intergovernativo. Spetta infatti in primo luogo al Governo definire, sulla base delle valutazioni espresse da tutte le amministrazioni competenti e degli altri soggetti interessati, la posizione che l’Italia sosterrà, attraverso lo stesso Governo, in sede europea. Ai fini di questo coordinamento un ruolo di primo piano spetta per legge, come già ricordato, al Ministro per gli affari europei e al Dipartimento per le politiche europee. È in particolare previsto che esso debba essere esercitato per mezzo di un organismo a suo tempo istituito dall’art. 2 della legge n. 11/2005 e oggi confermato dal medesimo articolo della legge n. 234/2012. Si tratta del Comitato interministeriale per gli affari europei (CIAE), che costituisce una sorta di «Gabinetto degli affari europei» con il compito di concordare a livello ministeriale – sotto la presidenza del Presidente del Consiglio o del Ministro per gli affari europei – le linee politiche del
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Governo nel processo di formazione della posizione italiana da esprimere nella fase di predisposizione degli atti dell’Unione, nonché di consentire l’adempimento degli altri compiti previsti dalla stessa legge. Il Comitato è convocato e presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri o dal Ministro per gli affari europei. Ne sono parte il Ministro degli affari esteri, il Ministro dell’economia e finanze, il Ministro per gli affari regionali, il Ministro per la coesione territoriale e gli altri Ministri aventi competenza nelle materie oggetto dei provvedimenti e delle tematiche inseriti all’ordine del giorno della riunione; ma possono chiedere di parteciparvi, quando si trattano questioni che interessano anche le Regioni e le Province autonome, il Presidente della Conferenza dei presidenti delle Regioni e Province autonome o uno di questi da lui delegato e, per gli ambiti di competenza degli enti locali, i presidenti delle associazioni rappresentative degli enti locali, rispetto ai quali l’art. 2, comma 2, fa espressa menzione del Presidente dell’Associazione nazionale dei Comuni italiani (ANCI), del Presidente dell’Unione delle Province d’Italia (UPI) e del Presidente dell’Unione nazionale Comuni, comunità, enti montani (UNCEM). Va in ogni caso precisato che, ai sensi dell’art. 2, comma 3, il CIAE deve operare «nel rispetto delle competenze attribuite dalla Costituzione e dalla legge al Parlamento, al Consiglio dei ministri e alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano [c.d. Conferenza Stato-Regioni]».
L’art. 19 della legge n. 234/2012 stabilisce che per la preparazione delle proprie riunioni il CIAE si avvale di un c.d. Comitato tecnico di valutazione (CTV) degli atti dell’Unione europea (dalla precedente legge denominato più semplicemente e più puntualmente Comitato tecnico permanente), istituito presso il Dipartimento per le politiche europee. Il CTV, che è composto da un rappresentante di ogni Ministro (ed eventualmente di ogni Regione o Provincia autonoma), ha il compito di coordinare al suo livello, nel quadro degli indirizzi del Governo, la predisposizione della posizione italiana nella fase di formazione degli atti dell’Unione, raccogliendo le istanze provenienti dalle diverse amministrazioni e definendo quella posizione, salvo a rimetterla, quando necessario, a una deliberazione del CIAE. Il CTV è coordinato e presieduto dal direttore della Segreteria del CIAE, ufficio che integra, ai sensi dell’art. 2, comma 9, della legge, l’organigramma del Dipartimento per le politiche europee (si veda anche il decreto del Sottosegretario per gli affari europei del 25 maggio 2016, recante organizzazione interna del Dipartimento per le politiche europee della Presidenza del Consiglio dei ministri, in www.politiche europee.it). Il CTV, che è composto da un rappresentante di ogni Ministro, ha il compito di coordinare al suo livello, nel quadro degli indirizzi del Governo, la predisposizione della posizione italiana nella fase di formazione degli atti dell’Unione, raccogliendo le istanze provenienti dalle diverse amministrazioni e definendo quella posizione, salvo a rimetterla, quando necessario, a una deliberazione del CIAE. Qualora si trattino questioni che interessano anche le Regioni e le Province autonome, il Comitato tecnico è integrato da un rappresentante di ciascuna Regione e Provincia autonoma e, per gli ambiti di competenza degli enti locali, da rappresentanti delle associazioni rappresentative di questi. In tal caso, il Comitato è convocato d’intesa con il direttore dell’ufficio di segreteria della Conferenza Stato-Regioni, presso la cui sede si riunisce. Il funzionamento del CIAE e del CTV è ulteriormente disciplinato, rispettivamente, dal d.P.R. 26 giugno 2015, n. 118 (GURI 6 agosto 2015, n. 181) e dal d.P.R. 2 luglio 2015, n. 119 (GURI 7 agosto 2015, n. 182).
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5. Segue : La partecipazione delle Regioni Una significativa evoluzione nella formazione della posizione italiana da sostenere in sede europea ha infine riguardato, col tempo, anche la disciplina relativa al coinvolgimento degli enti territoriali nella fase ascendente. Riprendendo e ampliando le previsioni dell’art. 10 della legge La Pergola e delle disposizioni della legge n. 11/2005, la vigente normativa definisce finalmente un quadro più organico e adeguato della materia. Gli artt. 24 e 26, legge n. 234/2012 impongono infatti al Governo di rispettare a favore di quegli enti (ma in misura maggiore per le Regioni che per gli enti locali), e limitatamente beninteso alle materie di loro competenza, obblighi corrispondenti a quelli indicati più sopra a proposito delle Camere (informazione, riserva di esame, ecc.). Le medesime disposizioni prevedono inoltre, sempre per le materie di loro competenza, la partecipazione degli stessi enti alla formazione degli atti dell’Unione. In passato era previsto solo che la Conferenza Stato-Regioni fosse consultata sugli indirizzi generali relativi alla elaborazione e attuazione degli atti dell’Unione che riguardavano le competenze regionali (art. 12, n. 5, lett. b), legge n. 400/1988). L’art. 9, legge n. 183/1987, aveva poi esteso a favore delle Regioni l’obbligo d’informazione da parte del Governo circa i progetti di atti comunitari e la possibilità di presentare osservazioni al riguardo. Ora, invece, la partecipazione delle Regioni (e degli enti locali) alla formazione degli atti dell’Unione può aversi sia con l’invio di osservazioni sui progetti in corso, sia prevedendo la convocazione all’uopo della Conferenza Stato-Regioni o della Conferenza Stato-città ed autonomie locali (istituita con d.p.c.m. 2 luglio 1996, GURI 27 gennaio 1997, n. 21, la Conferenza Stato-città e autonomie locali è disciplinata dal d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, GURI 30 agosto 1997, n. 202). È inoltre stabilito che le assemblee e i consigli regionali possano far pervenire alle Camere, di propria iniziativa o su consultazione di queste, proprie osservazioni ai fini della verifica del principio di sussidiarietà, che, come si è visto, le Camere possono esercitare nel quadro di quanto disposto dal Protocollo (n. 2) sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità (artt. 25 e 8, comma 3, legge n. 234/2012).
Ma oltre a questa forma di partecipazione indiretta al processo di formazione degli atti dell’Unione, la legge 5 giugno 2003, n. 131, di attuazione della già evocata riforma del 2001 dell’art. 117 Cost. ha previsto anche la possibilità di un concorso diretto delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano a quel processo. L’art. 5 di questa legge stabilisce infatti che, nelle materie di loro competenza legislativa, esse possano anche partecipare direttamente ai lavori del Consiglio dell’Unione e delle sue istanze preparatorie, integrando la delegazione governativa secondo modalità da definire in un accordo della Conferenza Stato-Regioni, ma ferma restando l’unitarietà della rappresentazione della posizione italiana da parte del capo delegazione designato dal Governo. Ai sensi dell’art. 5 la determinazione delle modalità di partecipazione al processo decisionale europeo deve tenere conto della particolarità delle autonomie speciali, la cui presenza deve essere comunque assicurata all’interno delle delegazioni italiane attraverso la partecipazione di almeno un rappresentante delle Regioni a Statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano. Su questa base un Accordo generale tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano per la partecipazione delle Regioni e Province autonome alla formazione degli
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atti comunitari, è stato concluso il 16 marzo 2006. Il suo art. 4 prevede in particolare, per il capo delegazione, che anche nelle materie che spettano alle Regioni ai sensi dell’art. 117, comma 4, Cost., la funzione di capo della delegazione italiana in seno al Consiglio è attribuita al rappresentante del Governo, salva «diversa determinazione assunta su istanza delle Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano, mediante apposita intesa con il Governo da raggiungersi in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano». Tale previsione applica per l’appunto l’art. 5 della legge La Loggia che, per quanto attiene alla questione del capo delegazione, prevede che «nelle materie che spettano alle Regioni ai sensi dell’art. 117, comma 4, Cost., il capo delegazione, che può essere anche un Presidente di giunta regionale o di Provincia autonoma, è designato dal Governo sulla base di criteri e procedure determinati con un accordo generale di cooperazione tra Governo, Regioni a statuto ordinario e a statuto speciale stipulato in sede di Conferenza Stato-Regioni. In attesa o in mancanza di tale accordo, il capo delegazione è designato dal Governo». Indipendentemente dalla partecipazione diretta o meno alla formazione degli atti dell’Unione che toccano materie di competenza legislativa delle Regioni, a tutela di tale competenza il comma 2 del citato art. 5 della legge n. 131/2003 prevede anche l’obbligo del Governo di impugnare innanzi alla Corte di giustizia, su richiesta della Conferenza Stato-Regioni, gli atti normativi dell’Unione da questa ritenuti illegittimi, ove per l’appunto concernano le materie rientranti in detta competenza.
Una qualche forma, sia pur assai più limitata, di coinvolgimento nel processo di formazione della posizione negoziale da sostenere a Bruxelles è infine prevista dalla legge n. 234/2012 anche (art. 28) a favore delle parti sociali e delle categorie produttive per il tramite del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL).
6. La c.d. fase discendente. Dalla «legge comunitaria» alle «leggi europee» Venendo alla c.d. fase discendente, va innanzitutto rilevato che in Italia l’adempimento degli obblighi imposti dall’Unione non si è quasi mai rivelato facile, e ciò ha spesso determinato situazioni di particolare gravità, che hanno avuto conseguenze assai pregiudizievoli per gli interessi e per l’immagine stessa del Paese. Le cause di questa cronica difficoltà sono certamente di varia natura, ma almeno per i ritardi nel recepimento delle direttive esse si ricollegavano in primo luogo alla lentezza delle procedure parlamentari di approvazione dei relativi provvedimenti. A tale situazione si cercò nei primi tempi di ovviare attraverso meccanismi che consentissero, da un lato di concentrare i provvedimenti relativi a più direttive all’interno di un unico iter parlamentare e, dunque, di un’unica legge di attuazione, dall’altro di semplificare al massimo, particolarmente attraverso il ricorso a leggi di delega al Governo, il passaggio in Parlamento di tali provvedimenti. La prima soluzione, però, non faceva in realtà che spostare i termini del problema, perché i ritardi si trasferivano sulla legge contenitore. Ma non meno discutibile si rivelò anche la seconda soluzione, che divenne anzi l’espressione più vistosa di quella logica dell’emergenza che ha a lungo caratterizzato la disciplina della materia. Essa comportava, infatti, il ricorso quasi obbligato a leggi delega, che si presentavano in realtà come enormi e confusi contenitori, destinati alla trasposizione in blocco di gruppi sempre più consistenti di direttive a termini ormai ampiamente scaduti. Per giunta, oltre ad essere poco efficace quanto ai risultati concreti, quella prassi appariva anche di dubbia correttezza costituzionale, perché dette leggi si configuravano in realtà, in contrasto con l’art. 76 Cost. che impone limiti alla delega al Governo, come un insieme di dele-
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ghe in bianco, prive di principi e criteri direttivi degni di questo nome. La prassi in discorso risale addirittura alla legge 14 ottobre 1957, n. 1203, che dette esecuzione ai Trattati di Roma. Ad essa fecero seguito, sempre per limitarci alle deleghe di carattere generale, la legge 13 luglio 1965, n. 871, e la legge 13 ottobre 1969, n. 740, entrambe volte a far fronte alle esigenze imposte dalla scadenza del periodo transitorio per l’instaurazione del mercato comune. Per la fase successiva intervennero poi la legge 9 febbraio 1982, n. 42, per l’attuazione di novantasette direttive, fino a battere ogni record con la ricordata legge n. 183/1987, che conferiva la delega per l’attuazione di ben cento direttive.
Per ovviare a tali difficoltà, intervenne sul finire degli anni ’80 la più volte ricordata legge La Pergola. E punto di partenza di tale legge fu appunto, per il profilo che ora interessa, la consapevolezza dell’assoluta necessità di porre fine a una prassi di interventi occasionali, episodici e soprattutto tardivi in materia di adempimento degli obblighi comunitari, contrapponendovi una disciplina finalmente organica, capace di dare continuità, razionalità e tempestività ai meccanismi di attuazione della normativa dell’Unione. Con la legge La Pergola, infatti, il sistema italiano di attuazione della normativa dell’Unione si è sostanzialmente incentrato su uno strumento legislativo annuale (ribadito anche dalla successiva legge n. 11/2005), consistente nella c.d. «legge comunitaria», diretta a «raccogliere» in un unico provvedimento le norme di legge necessarie ad assicurare l’adempimento di più atti od obblighi posti dalle norme europee in capo all’Italia. In pratica, entro il 31 gennaio di ogni anno il Governo era tenuto a predisporre un disegno di legge, che assumeva per l’appunto la denominazione di disegno di «legge comunitaria» per l’anno di riferimento, anno di riferimento che ne andava a completare l’intitolazione. Nella legge comunitaria trovavano posto in primo luogo le disposizioni volte a modificare o ad abrogare norme interne incompatibili con quegli obblighi (oggetto o meno che fossero di procedure d’infrazione) e le disposizioni necessarie a dare attuazione diretta ai nuovi atti normativi della Comunità. Per quanto riguardava invece le direttive, la cui trasposizione costituiva gran parte del contenuto di ciascuna legge comunitaria, questa per lo più non provvedeva direttamente a tale trasposizione, ma l’affidava al Governo conferendogli la delega legislativa ad adottare i provvedimenti di recepimento di un insieme di direttive sulla base di principi e criteri direttivi, indicati però, nella maggior parte dei casi, in maniera solo generale e generica. L’utilizzazione della legge comunitaria ha vissuto storicamente vicende alterne. La sua approvazione ha conosciuto negli anni vari incidenti di percorso, che hanno fatto sì che la cadenza annuale non sia sempre stata rispettata. Per la verità, dopo un primo periodo di rodaggio, la situazione sembrava essersi sostanzialmente normalizzata. Infatti, a fronte delle sole cinque leggi comunitarie approvate nei primi nove anni di vita della legge La Pergola, tra il 1998 e il 2009 il Parlamento ha licenziato, seppur non sempre nei termini previsti, una legge comunitaria all’anno. Si tratta delle leggi comunitarie per il 1990 (29 dicembre 1990, n. 428, in GURI 12 gennaio 1991, n. 10, s.o. n. 6), 1991 (19 febbraio 1992, n. 142, in GURI 20 febbraio 1992, n. 42, s.o. n. 36), 1993 (22 febbraio 1994, n. 146, in GURI 4 marzo 1994, n. 52, s.o. n. 39), 1994 (6 febbraio 1996, n. 52, in GURI 10 febbraio 1996, n. 34, s.o. n. 24), 1995-1997 (24 aprile 1998, n. 128, in GURI del 7 maggio 1998, n. 104, s.o. n. 88), 1998
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(5 febbraio 1999, n. 25, in GURI 12 febbraio 1999, n. 35, s.o. n. 33), 1999 (21 dicembre 1999, n. 526, in GURI 18 gennaio 2000, n. 13, s.o. n. 15), 2000 (29 dicembre 2000, n. 422, in GURI 20 gennaio 2001, n. 16, s.o. n. 14), 2001 (1° marzo 2002, n. 39, in GURI 26 marzo 2002, n. 72, s.o. n. 54), 2002 (3 febbraio 2003, n. 14, in GURI del 7 febbraio 2003, n. 31, s.o. n. 19), 2003 (31 ottobre 2003, n. 306, in GURI 15 novembre 2003, n. 266, s.o. n. 173), 2004 (18 aprile 2005, n. 62, in GURI 27 aprile 2005, n. 96, s.o. n. 76), 2005 (25 gennaio 2006, n. 29, in GURI 8 febbraio 2006, n. 32, s.o. n. 34), 2006 (6 febbraio 2007, n. 13, in GURI 17 febbraio 2007, n. 40, s.o. n. 41), 2007 (25 febbraio 2008, n. 34, in GURI 6 marzo 2008, n. 56, s.o. n. 54), 2008 (7 luglio 2009, n. 88, in GURI 14 luglio 2009, n. 161, s.o. n. 110), e 2009 (4 giugno 2010, n. 96, in GURI 25 giugno 2010, n. 146, s.o. n. 138). Dopo quest’ultima data, però, il percorso parlamentare della legge ha conosciuto una nuova crisi. La legge comunitaria per il 2010, il cui disegno di legge era stato approvato dal Consiglio dei ministri all’inizio di quell’anno, ha completato il suo iter solo alla fine del 2011 (legge 15 dicembre 2011, n. 217, GURI 2 gennaio 2012, n. 1), dopo che tensioni tra le forze politiche nel corso delle votazioni alla Camera ne avevano fatto addirittura temere una bocciatura definitiva. Dal canto loro, le leggi comunitarie 2011 e 2012 non hanno proprio visto la luce, anche in questo caso per contrasti politici su alcune delle norme in esse contenute.
Sorte non migliore ha di conseguenza avuto, in tutti questi anni, l’attività di recepimento delle direttive oggetto di delega da parte delle singole leggi comunitarie. I ritardi nell’approvazione di queste ultime si sono infatti ripercossi in maniera fortemente negativa sulla capacità dell’Italia di rispettare i termini di trasposizione imposti da ciascuna direttiva. Si aggiunga poi che il termine per l’esercizio delle deleghe, sistematicamente fissato dalle leggi comunitarie in una data indipendente (e per lo più successiva) alla scadenza indicata dalle stesse direttive, aggravava la situazione, in ragione della marcata «tendenza» delle amministrazioni ministeriali competenti per ciascuna delega a ignorare la scadenza comunitaria a vantaggio del termine stabilito dalla legge. Per lungo tempo il termine per l’esercizio della delega a recepire le direttive inserite in ciascuna legge comunitaria è stato in effetti fissato in un anno dall’entrata in vigore della stessa legge comunitaria, senza quindi graduarlo sul termine indicato da ciascuna direttiva. Ciò comportava il mancato rispetto di quest’ultimo termine per una gran parte delle direttive, visti, da un lato, i ritardi già ricordati nell’approvazione delle leggi comunitarie e, dall’altro lato, la mancanza dello stimolo ad accelerare l’azione di recepimento che sarebbe potuto venire dal rischio di scadenza della delega. Il fenomeno si è poi ulteriormente aggravato quando, con le leggi comunitarie per il 2003-2005, il termine concesso al Governo per l’esercizio della delega è stato portato, salvo eccezioni specifiche, da un anno a diciotto mesi, allargando così ulteriormente il disallineamento tra tale termine e quello fissato dalle singole direttive.
I problemi appena citati hanno indotto il legislatore a cercare, nel quadro della riforma della legge n. 11/2005, dei possibili rimedi almeno per quel che riguarda la trasposizione delle direttive, e ciò anche in considerazione della possibilità, introdotta dal Trattato di Lisbona, che per il mancato rispetto dell’obbligo di trasposizione lo Stato possa essere condannato al pagamento di sanzioni pecuniarie fin dalla prima sentenza della Corte di giustizia (retro, p. 273 s.). Un primo passo era in realtà già stato fatto, facendo coincidere, a partire dalla legge comunitaria per il 2007, il termine per l’esercizio della delega al Governo con quello previsto da ciascuna direttiva
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per il suo recepimento. Ma ben più rilevante è stato il passo compiuto con la legge n. 234/2012. Modificando il sistema introdotto fin dalla legge La Pergola, la nuova legge ha infatti disposto (art. 29) lo «sdoppiamento» dell’unica legge comunitaria annuale in due leggi «europee», l’una, la «legge di delegazione europea», finalizzata unicamente al conferimento di deleghe al Governo per il recepimento di direttive o per l’attuazione di altri obblighi europei (art. 30, comma 2), l’altra, la «legge europea», destinata a contenere norme di attuazione diretta di quegli obblighi (art. 30, comma 3). Come recita l’art. 29, comma 4, il titolo esatto del disegno di legge di delegazione è «Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea», completato dall’indicazione: «Legge di delegazione europea» seguita dall’anno di riferimento. Mentre ai sensi dell’art. 29, comma 5, il titolo esatto dell’altro disegno di legge è «Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea», completato dall’indicazione: «Legge europea» seguita dall’anno di riferimento.
La decisione di separare le sorti del recepimento delle direttive da quelle degli altri adempimenti europei, attraverso lo sdoppiamento dei rispettivi «contenitori» legislativi, trova la sua ragion d’essere nella constatazione che, storicamente, i ritardi nell’approvazione delle leggi comunitarie sono stati per lo più dovuti più a contrasti politici riguardanti le norme di attuazione diretta, che a problemi legati alle deleghe per il recepimento di direttive. L’idea che ha mosso il legislatore è perciò che una legge annuale dedicata esclusivamente a queste ultime sia suscettibile di avere un iter parlamentare più rapido, velocizzando di conseguenza almeno questa parte degli adempimenti europei dell’Italia. L’idea sembra aver trovato per il momento conferma nella pratica. Nei cinque anni di applicazione della legge n. 234/2012 sono state adottate quattro leggi di delegazione europea, mentre il disegno di legge della quinta è attualmente all’esame del Parlamento. E paradossalmente «la legge di delegazione» ha fatto da «traino» anche alla «legge europea», visto che, ad oggi, se ne contano altrettante anche di queste. Va però osservato che in realtà questo risultato è stato raggiunto grazie all’adozione per il 2013, come peraltro vedremo essere consentito dalla legge n. 234/2012, di una legge di delegazione europea e di una legge europea bis, con la conseguenza che il disegno di legge di delegazione europea all’esame delle Camere ha come anno di riferimento il 2016, risultando così in ritardo rispetto a quanto formalmente previsto dalla legge n. 234/2012. Mentre lo stesso non sarà per la nuova legge europea, che sarà per il 2017, ma solo perché l’ultima ad essere adottata è stata trasformata, a seguito di un emendamento parlamentare, in una legge europea “biennale” assumendo il titolo di «legge europea 2015-2016» (legge 7 luglio 2016, n. 122, GURI 8 luglio 2016, n. 158).
Come in passato per la legge comunitaria, il meccanismo delle due leggi europee non impedisce che il legislatore proceda all’adempimento di obblighi imposti dal diritto dell’Unione all’interno di altri provvedimenti di legge o attraverso specifici atti legislativi. Ciò può essere il frutto di una scelta politica, legata all’importanza della materia oggetto di quel determinato intervento normativo. Ma talvolta il ricorso a una normazione ulteriore o ad hoc può rivelarsi addirittura necessario o perché si tratta di modificare o abrogare norme di legge per porre rimedio, senza aspettare la legge europea, a casi di cattiva applicazione del diritto dell’Unione, ovvero perché si
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deve far fronte urgentemente a un ritardo grave nella trasposizione di una direttiva nell’ordinamento nazionale. In effetti, l’eventualità di un’attuazione di norme europee «extra legge europea» è esplicitamente evocata dalla stessa legge n. 234/2012 con riferimento all’eventualità «di atti normativi dell’Unione europea e di sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea ovvero dell’avvio di procedure d’infrazione nei confronti dell’Italia», per l’adeguamento ai quali si debba provvedere entro una scadenza anteriore alla data di presunta entrata in vigore della legge di delegazione europea o della legge europea relativa all’anno in corso (art. 37): in tal caso «il Presidente del Consiglio dei ministri o il Ministro per gli affari europei può proporre al Consiglio dei ministri l’adozione dei provvedimenti, anche urgenti, […] necessari». Ciò può avvenire con la presentazione di un disegno di legge di cui il Governo chiede poi alle Camere una trattazione urgente, ma anche con il ricorso allo strumento del decreto legge. Questo è anzi quanto è frequentemente accaduto in questi ultimi anni. Anche per i problemi prima ricordati che ha frequentemente conosciuto l’iter di approvazione delle leggi comunitarie, dal 2006 al 2009 è stato adottato un decreto legge c.d. «salva-infrazioni» all’anno: si tratta dei decreti legge 27 dicembre 2006, n. 97 (GURI 27 dicembre 2006, n. 299); 15 febbraio 2007, n. 10 (GURI 15 febbraio 2007, n. 38); 8 aprile 2008, n. 59 (GURI 9 aprile 2008, n. 84); e 25 settembre 2009, n. 135 (GURI 30 settembre 2009, n. 223). E a fine 2012 si è fatto lo stesso per porre rimedio a una serie di procedure d’infrazione suscettibili di portare alla condanna dell’Italia a sanzioni pecuniarie ai sensi dell’art. 260 TFUE: d.l. 10 dicembre 2012, n. 216 (c.d. decreto «salva-sanzioni»), in GURI 11 dicembre 2012, n. 288, poi non convertito e confluito nella legge di stabilità per il 2013.
7. Segue : In particolare, la legge di delegazione europea e il recepimento delle direttive Mentre per il disegno di legge europea la legge n. 234/2012 non indica un termine, seppur ordinatorio, di adozione da parte del Governo, quello di delegazione europea deve essere presentato alle Camere, ai sensi dell’art. 29, comma 4, della legge, entro il 28 febbraio di ogni anno, dopo una verifica dello stato di conformità dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dagli atti delle istituzioni dell’Unione. È inoltre previsto che, nel caso, per vero per lo più improbabile, del sopravvenire nel corso dell’anno di ulteriori esigenze di adempimento di obblighi europei attraverso delega al Governo, questo possa presentare entro il 31 luglio un secondo disegno di legge di delegazione europea (art. 29, comma 8). L’ipotesi che si renda necessaria nel corso dello stesso anno una seconda legge di delegazione europea sembra abbastanza improbabile, salvo casi eccezionali, dato che ciò presupporrebbe che nel corso dell’anno siano adottate dall’Unione direttive (e in numero tale da giustificare una legge di delegazione europea), che vadano a scadenza in tempi così rapidi da non consentire di provvedervi con la legge di delegazione europea dell’anno successivo. Non a caso nell’unico caso finora avutosi di legge di delegazione bis (quella, già citata, per il 2013) la quasi totalità delle direttive in essa inserite ha termini di recepimento che si collocano tra la fine dell’anno successivo (2014) e il 2015, mentre per le uniche due che hanno una scadenza ravvicinata o addirittura passata (31 di-
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cembre 2013 per la dir. 2013/36/UE del PE e del Consiglio, del 26 giugno 2013, relativa all’attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento, che modifica la dir. 2002/87/CE e abroga le dirr. 2006/48/CE e 2006/49/CE, in GUUE L 176, 338; e 30 giugno 2013 per la dir. 2009/138/CE del PE e del Consiglio, del 25 novembre 2009, in materia di accesso ed esercizio delle attività di assicurazione e di riassicurazione, in GUUE L 335, 1, quale modificata dalla dir. 2012/23/UE del PE e del Consiglio, del 12 settembre 2012, in GUUE L 249, 1), sarebbe stato più utile provvedervi con uno specifico disegno di legge di attuazione diretta, proprio in considerazione, da un lato, dell’urgenza del recepimento e, dall’altro, dei tempi al contrario necessari per l’approvazione della nuova legge di delegazione europea e per il successivo esercizio della delega da parte del Governo.
Con un’ulteriore innovazione rispetto al passato, la legge n. 234/2012 semplifica poi non poco il conferimento delle deleghe da disporre attraverso la legge di delegazione europea. Sia la legge La Pergola, che la successiva legge n. 11/2005 lasciavano infatti alle singole leggi comunitarie il compito di definire le procedure per l’esercizio delle deleghe e i principi e i criteri direttivi generali di delega. Tanto le une che gli altri, ormai consolidatisi nel tempo senza modifiche tra una legge comunitaria e l’altra, sono ora riportati direttamente in articoli della legge n. 234/2012 (artt. 31 e 32), così da consentire d’ora in poi alle singole leggi di delegazione europea di limitarsi a un semplice rinvio a quegli articoli. Si vedano in proposito, per tutti, gli artt. 1 e 2 della legge di delegazione europea 2013. Naturalmente, questi principi e criteri generali di delega vanno distinti dai principi e criteri specifici che la legge di delegazione europea (e in passato la legge comunitaria) può dettare in relazione a una specifica direttiva da recepire, e che, evidentemente, rimangono di pertinenza di ciascuna legge di delegazione; ma, al pari di questi ultimi, anch’essi possono essere motivo, in caso di loro mancato rispetto in sede di esercizio della delega, di illegittimità dell’atto delegato di recepimento della direttiva per violazione dell’art. 76 Cost. Come si è detto, nella sostanza i citati artt. 31 e 32 riproducono la prassi legislativa precedente. Non mancano però alcune innovazioni. Per quanto attiene alle procedure per l’esercizio delle deleghe, è stato ad esempio previsto, al fine di velocizzare i tempi del recepimento delle direttive, un termine di esercizio delle deleghe anticipato a «quattro mesi antecedenti a quello di recepimento indicato in ciascuna delle direttive» (art. 31, comma 1), fermo restando che per le direttive già scadute o in scadenza nei tre mesi dall’entrata in vigore della legge di delegazione quel termine rimane stabilito, come avveniva in passato, in tre mesi da tale entrata in vigore. La motivazione sta nel fatto che, perché il termine di delega sia osservato, è sufficiente che il decreto legislativo sia approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri e non è necessaria la sua adozione definitiva, che, invece, può appunto richiedere, in ragione dei passaggi procedurali previsti (parere delle commissioni parlamentari competenti e della Conferenza Stato-Regioni), circa quattro mesi dall’approvazione preliminare. L’anticipo mira così a consentire di evitare l’apertura di procedure d’infrazione per mancato recepimento, visto che per questo tipo di procedure d’infrazione la Commissione apre le stesse non appena scaduto il termine di trasposizione previsto dalla direttiva. Quanto invece ai principi e criteri generali di delega, le novità contenute nell’art. 32 sono essenzialmente il divieto di introdurre in sede di recepimento di una direttiva livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalla stessa, il c.d. gold-plating (lett. c); e la previsione che nella stessa sede deve essere «assicurata la parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto ai cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea e non può essere previsto in ogni caso un trattamento sfavorevole dei cittadini italiani» (lett. i).
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Riprendendo anche qui una soluzione già utilizzata volta per volta in passato dalle leggi comunitarie, la legge n. 234/2012 consente inoltre al Governo di adottare con le stesse procedure sopra descritte disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi di recepimento emanati sulla base della legge di delegazione europea, entro ventiquattro mesi dalla loro entrata in vigore (art. 31, comma 5). Ma identica possibilità viene ora prevista dalla legge anche per la situazione, nella sostanza analoga a quella appena menzionata, in cui si tratti di recepire, entro lo stesso termine, atti delegati dell’Unione di cui all’art. 290 TFUE, che modificano o integrano direttive già recepite con decreto legislativo nel nostro ordinamento (art. 31, comma 6). Se l’importanza di quest’ultima previsione sta nel riflesso in questo modo dato alla nuova gerarchia degli atti dell’Unione nei meccanismi di attuazione interna degli stessi, la novità effettiva e formalmente più rilevante per ambedue le ipotesi viene dal fatto che esse configurano un meccanismo di delega, il ricorso al quale non appare necessariamente condizionato a una previsione ad hoc nella legge di delegazione europea, sembrando essere allo scopo sufficiente il rinvio dalla stessa operato all’articolo della legge n. 234/2012 che ne detta la disciplina. Il recepimento in via legislativa delle direttive europee non passa necessariamente attraverso la legge di delegazione europea. Già in passato il legislatore aveva talvolta fatto ricorso a questo scopo a differenti strumenti di legge. Ad esempio, con la legge 19 dicembre 1992, n. 489, emanata per recepire una serie di direttive relative al completamento del mercato interno, si varò addirittura una sorta di «legge comunitaria» esterna alla allora legge La Pergola, adottando cioè un provvedimento impostato secondo struttura, meccanismi e finalità del tutto analoghi a quelli della legge comunitaria annuale. Oggi questa eventualità sembra meno probabile, almeno nelle forme di una delega «generale», vista l’esplicita previsione, poc’anzi ricordata, della possibilità di adottare nel corso dell’anno una seconda legge di delegazione europea. Ad ogni modo, la stessa legge n. 234/2012 non esclude che ciò possa avvenire, tanto da prevedere, al pari di quanto faceva la precedente legge n. 11/2005, che «i decreti legislativi di recepimento o di attuazione di atti dell’Unione europea ovvero di modifica di disposizioni attuative dei medesimi, la cui delega è contenuta in leggi diverse dalla legge di delegazione europea annuale, sono adottati nel rispetto degli altri principi e criteri direttivi generali previsti dalla stessa legge di delegazione europea per l’anno di riferimento» (art. 34, par. 1). Ciò è recentemente avvenuto, ad esempio, per l’attuazione delle direttive nn. 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE che hanno dettato la nuova disciplina europea in materia di appalti pubblici e concessioni. Il loro recepimento non è entrato in una legge di delegazione europea, ma stato affidato ad un’apposita legge, la legge 28 gennaio 2016, n. 11, recante deleghe al Governo per l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (GURI 29 gennaio 2016, n. 23). Tali deleghe sono state poi attuate con il decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (GURI 19 aprile 2016, n. 91, s.o. n. 10), decreto legislativo oggetto di un successivo correttivo con il d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56 (GURI 5 maggio 2017, n. 103, s.o. n. 22).
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Maggiormente plausibile, almeno in linea teorica, appare invece l’eventualità che il recepimento in via legislativa di una direttiva al di fuori dei meccanismi specifici previsti dalla legge n. 234/2012 avvenga per mezzo di norme di attuazione diretta. Seppur raramente (dato l’ampio numero di disposizioni che il recepimento di una direttiva di regola richiede), ciò si è già verificato nel quadro di provvedimenti di legge a finalità più generale. Si veda ad es. l’art. 8 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (GURI 19 ottobre 2012, n. 245), convertito con legge 17 dicembre 2012, n. 221 (GURI 18 dicembre 2012, n. 294, s.o. n. 208), articolo al cui interno è stata recepita la dir. 2010/40/UE del PE e del Consiglio, del 7 luglio 2010, relativa a un quadro generale per la diffusione dei sistemi di trasporto intelligenti (ITS) nel settore del trasporto stradale e nelle interfacce con altri modi di trasporto (GUUE L 207, 1). Analogamente è avvenuto, nello stesso anno per la dir. 2009/12/CE del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2009, concernente i diritti aeroportuali (GUUE L 70, 11), recepita con norme di attuazione diretta negli artt. 71-82 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (GURI 24 gennaio 2012, n. 19), convertito con legge 24 marzo 2012, n. 27 (GURI 24 marzo 2012, n. 71, s.o. n. 53).
Dal canto suo, l’art. 38 della legge n. 234/2012 evoca esplicitamente anche l’ipotesi, già ricordata, e per la verità scontata, che «in casi di particolare importanza politica, economica e sociale», il Governo decida di proporre al Parlamento «un apposito disegno di legge recante le disposizioni occorrenti per dare attuazione o assicurare l’applicazione di un atto normativo emanato dagli organi dell’Unione riguardante le materie di competenza legislativa statale». Prima che l’attuale legge lo prevedesse, ciò era già avvenuto, ad es., nel caso della decisionequadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, sul mandato d’arresto europeo (GUCE L 190, 1), cui è stata data attuazione con un apposito provvedimento legislativo (legge 22 aprile 2005, n. 69, recante «Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione-quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri», in GURI 29 aprile 2005, n. 98).
Il recepimento delle direttive europee non richiede in ogni caso il ricorso allo strumento legislativo, diretto o delegato che esso sia. In taluni casi, infatti esso può avvenire anche per via amministrativa, mediante regolamenti o altri atti amministrativi generali. Tale possibilità dipende ovviamente dal contenuto della direttiva da recepire e dalla circostanza che esso vada o meno a impattare, sul piano interno, su norme di legge. Anche quando ciò avvenga, in realtà, è ipotizzabile il ricorso alla via amministrativa, se non si tratta di materia coperta da riserva assoluta di legge. Solo che in questo caso, come si è già ricordato in precedenza, il recepimento «delegificato» della direttiva, da attuare mediante regolamento adottato ai sensi della legge n. 400/1988, deve essere comunque previamente autorizzato con legge nel quadro della legge di delegazione europea (art. 35, comma 1, legge n. 234/2012). Può essere invece fatto direttamente ricorso a un decreto ministeriale o interministeriale per il recepimento di una direttiva, quando la stessa tocchi materia non disciplinata dalla legge (art. 35, comma 3), ovvero quando si tratti di dare attuazione ad una direttiva di esecuzione di altra già recepita nel nostro ordinamento (art. 36). Non essendo formalmente collegata alla natura della materia su cui la direttiva è de-
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stinata ad incidere sul piano interno, ma unicamente al carattere esecutivo o meno dell’atto dal punto di vista dell’ordinamento dell’Unione, questa seconda previsione sembrerebbe prefigurare, quando abbia un impatto seppur limitato su norme di legge, una delegificazione autorizzata direttamente dalla legge n. 234/2012.
8. Il ruolo delle Regioni Le leggi La Pergola e Buttiglione prima e la legge n. 234/2012 ora hanno dettato nuove disposizioni anche nella tormentata materia dei rapporti tra Stato e Regioni per quanto riguarda l’attuazione degli obblighi europei che incidono su materie di competenza regionale, cioè in una materia per la quale né gli sviluppi della giurisprudenza costituzionale, né i numerosi interventi legislativi via via succedutisi erano valsi a rimuovere le difficoltà e le insoddisfazioni accumulatesi nel corso degli anni. Inizialmente, in virtù del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, e poi della legge n. 183/1987, nonché della giurisprudenza costituzionale, lo schema dei rapporti tra Stato e Regioni nella materia de qua si era assestato sulle seguenti linee. Ferma restando la competenza delle Regioni ad esercitare, senza necessità di previi atti statali le funzioni connesse all’applicazione di regolamenti comunitari (art. 6, d.P.R. n. 616/1977) e all’attuazione in via amministrativa delle direttive che non riguardassero materie già disciplinate con legge o coperte da riserva di legge (art. 11, legge n. 183/1987), per le altre direttive si prevedeva una diversa soluzione secondo che si trattasse di Regioni ordinarie o di Regioni a statuto speciale (e Province autonome). Per le seconde, l’art. 13 della legge n. 183/1987 aveva stabilito che nelle materie di competenza esclusiva esse potessero dare immediata attuazione alle direttive, salvo adeguarsi alle successive leggi dello Stato nei limiti previsti dalla Costituzione e dai relativi statuti speciali. Per le altre Regioni (e per quelle speciali, nelle materie loro non riservate), l’attuazione delle direttive era invece subordinata al previo recepimento delle stesse con legge dello Stato, legge che doveva altresì fissare «le necessarie norme di principio» inderogabili dalle Regioni, nonché (ai sensi del d.P.R. n. 616/1977) le disposizioni di dettaglio da applicare in caso di inerzia di queste ultime.
Un impulso decisivo a intervenire nella materia è venuto dalla ricordata modifica del Titolo V della Costituzione. Il comma 5 del nuovo art. 117 Cost. ha, in effetti, sancito a livello costituzionale il principio dell’attuazione diretta degli atti dell’Unione, stabilendo che le «Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro competenza, […] provvedono all’attuazione e all’esecuzione […] degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza». Si noti peraltro che, a sua volta, tale potere sostitutivo trova un’ulteriore menzione a livello costituzionale nel nuovo art. 120, comma 2, Cost. («[i]l Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto […] della normativa comunitaria»), che affida poi anch’esso alla legge il compito di definire «le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione». Su questa base, la legge n. 234/2012 dichiara ora, in via generale, che Stato, Regioni e Province autonome hanno, ciascuno per il proprio ambito di competenza, la
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responsabilità di procedere direttamente all’attuazione delle direttive (art. 29, par. 1) e provvede poi a disciplinare più dettagliatamente la materia in un successivo articolo (art. 40). Ne consegue che a detta attuazione Regioni e Province autonome possono procedere direttamente e immediatamente, anche ricorrendo, sul modello della leggi europee «statali», a «leggi annuali di recepimento» (evocate dall’art. 29, par. 7, lett. f). E, in effetti, molte Regioni si sono incamminate, seppur non sistematicamente, su questa strada. In compenso tutte le Regioni (con l’eccezione del Piemonte, che dispone al riguardo solo di norme all’interno dello Statuto) si sono invece date, sulla falsariga della legge n. 234/2012, una legge regionale di procedura per la partecipazione ai meccanismi europei e l’attuazione delle norme dell’Unione: Abruzzo, legge reg. 10 novembre 2014, n. 39; Basilicata, legge reg. 5 ottobre 2009, n. 31; Calabria, legge reg. 30 settembre 2016, n. 30; Campania, legge reg. 11 dicembre 2008, n. 18; Emilia Romagna, legge reg. 28 luglio 2008, n. 16; Friuli Venezia Giulia, legge reg. 2 aprile 2004, n. 10; Lazio, legge reg. 9 febbraio 2015, n. 1; Liguria, legge reg. 16 agosto 1995, n. 44; Lombardia, legge reg. 21 novembre 2011, n. 17; Marche, legge reg. 2 ottobre 2006, n. 14; Molise, legge reg. 9 febbraio 2016, n. 2; Puglia, legge reg. 28 settembre 2011, n. 24; Sardegna, legge reg. 30 giugno 2010, n. 13; Sicilia, legge reg. 26 aprile 2010, n. 10; Toscana, legge reg. 22 maggio 2009, n. 26; Umbria, legge reg. 11 luglio 2014, n. 11; Valle d’Aosta, legge reg. 16 marzo 2006, n. 8; Veneto, legge reg. 25 novembre 2011, n. 26. Altrettanto hanno fatto le due Province autonome di Trento e Bolzano: Bolzano, legge prov. 12 ottobre 2015, n. 14; Trento, legge prov. 16 febbraio 2015, n. 2.
Fatte salve peraltro le predette competenze regionali, resta il fatto che al centro del processo di trasposizione delle direttive dell’Unione nell’ordinamento italiano rimangono pur sempre la legge statale e più in generale l’attività attuativa dello Stato. Per le materie di competenza concorrente, infatti, possono ugualmente provvedere le Regioni e le Province autonome, ma la legge di delegazione europea è chiamata comunque a indicare i «principi fondamentali» nel rispetto dei quali quegli enti possono esercitare la propria competenza normativa (art. 30, par. 2, lett. g). Ma soprattutto lo Stato può, per così dire, «anticipare» l’intervento delle Regioni e Province autonome adottando disposizioni attuative degli obblighi europei anche in materie rientranti nelle competenze di quegli enti. Ciò con l’intesa tuttavia che esse non saranno applicabili che a decorrere dalla scadenza del termine stabilito per l’attuazione di detti obblighi e lo saranno solo per le Regioni e le Province autonome che non abbiano tempestivamente adottato la propria normativa di attuazione (art. 41, comma 1). E in ogni caso esse perderanno «efficacia dalla data di entrata in vigore dei provvedimenti di attuazione di ciascuna Regione e Provincia autonoma», dovendo anzi recare «l’esplicita indicazione della natura sostitutiva del potere esercitato e del carattere cedevole delle disposizioni in esse contenute». Disposizioni dello stesso genere possono essere contenute anche nella legge di delegazione europea; ovvero nei regolamenti volti a recepire, attraverso un intervento di delegificazione, direttive che incidono su materie non coperte da riserva di legge; o ancora nei decreti ministeriali attraverso cui, come si è in precedenza visto, è data attuazione ad atti dell’Unione di esecuzione di direttive già recepite. In un caso come negli altri, questa interferenza dello Stato nelle competenze regionali e provinciali è esplicitamente giustificata come esercizio in via meramente preventiva del po-
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tere sostitutivo dello Stato di cui agli artt. 117, comma 5, e 120, comma 2, Cost., allo scopo di evitare qualsiasi rischio che un ritardo nell’emanazione dei necessari provvedimenti da parte anche di una sola delle Regioni o Province autonome o un contenuto incompleto degli stessi possa determinare una situazione d’inadempienza dello Stato nei confronti dell’Unione. Analogo meccanismo di sostituzione dell’azione normativa o amministrativa dello Stato a quella delle Regioni e Province autonome è previsto dalla legge n. 234/2012 per l’eventualità che si tratti di adempiere con carattere di urgenza ad atti delle istituzioni o a sentenze dei giudici dell’Unione che riguardino materie di competenza regionale e provinciale (art. 41, comma 2, in relazione alle ipotesi di cui all’art. 37). Con la differenza però che qui l’esercizio del potere sostitutivo non assume carattere preventivo, ma può esplicarsi solo «in caso di mancato tempestivo adeguamento» da parte di una Regione o Provincia autonoma, e una volta che la stessa sia stata preliminarmente invitata a provvedervi entro un termine fissato dal Presidente del Consiglio dei ministri o dal Ministro per gli affari europei. Le disposizioni conseguentemente adottate dallo Stato avranno comunque anch’esse, al pari di quelle che possono essere prese nel quadro del potere sostitutivo preventivo, carattere cedevole. Più in generale, comunque, l’intervento sostitutivo dello Stato a fronte d’inadempimenti a obblighi europei da parte di Regioni e Province autonome è disciplinato dall’art. 8 della già citata legge n. 131/2003, che ha dato così attuazione al nuovo art. 120, comma 2, Cost. Vi si prevede in particolare che tale intervento possa consistere non solo, come abbiamo appena visto, nell’adozione diretta da parte del Governo dei «provvedimenti necessari, anche normativi», ma anche nella «nomina di un apposito commissario», fermo restando che l’una o l’altra strada può essere imboccata solo dopo che sia inutilmente decorso il congruo termine che il Presidente del Consiglio deve previamente assegnare alla Regione o Provincia autonoma interessata, perché la stessa ponga autonomamente rimedio all’inadempimento all’obbligo europeo con l’adozione dei necessari provvedimenti. Solo «nei casi di assoluta urgenza, qualora l’intervento sostitutivo non sia procrastinabile senza mettere in pericolo le finalità tutelate [dall’art. 120 Cost.]», il Governo potrà adottare senza previa messa in mora dell’ente interessato i provvedimenti necessari (art. 8, comma 4). Ma non è tutto. Un’apposita disposizione della legge n. 234/2012 (art. 43), consente allo Stato di rivalersi nei confronti di Regioni o di altri enti pubblici delle somme che esso sia stato costretto a pagare a titolo di sanzione a seguito di una sentenza di condanna pronunciata dalla Corte di giustizia per una violazione del diritto dell’Unione a essi imputabile. Tale disposizione è evidentemente destinata a operare soprattutto in caso di mancato esercizio del potere sostitutivo da parte dello Stato, quando cioè l’inadempimento alle norme dell’Unione è ormai perpetrato. Ma è altrettanto evidente che la sua stessa previsione finisce comunque per svolgere una funzione di deterrenza preventiva rispetto a comportamenti «comunitariamente» illegittimi delle Regioni e degli altri enti interessati. Sta di fatto che, a seguito della previsione del diritto di rivalsa, è stato concluso il 24 gennaio 2008 un Accordo tra il Governo, le Regioni e Province autonome, le Province, i Comuni e le Comunità montane, sulle modalità di attuazione degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea e sulle garanzie di informazione da parte del Governo,
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accordo diretto per l’appunto a disciplinare la gestione delle procedure d’infrazione che vedono coinvolti enti territoriali. Il citato art. 43 della legge n. 234/2012 riproduce quanto già previsto dall’art. 1, commi 12131222, legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria per il 2007), in GURI 27 dicembre 2006, n. 299, s.o. n. 244, e successivamente inserito nell’art. 16 bis, legge n. 11/2005. Ciò spiega perché il diritto di rivalsa, benché disciplinato ora nella legge di sistema riguardante i rapporti dello Stato con l’Unione, si estenda anche, ai sensi del comma 10 dell’art. 43, ai casi di violazione della CEDU accertati da sentenze della Corte EDU. Un primo esempio di azione di rivalsa per violazione di norme dell’Unione europea è quella avviata nei confronti della Regione Friuli Venezia Giulia e di alcuni suoi Comuni, a fronte della sentenza con cui la Corte di giustizia ha condannato l’Italia al pagamento di sanzioni pecuniarie per l’inosservanza di direttive in materia di discariche (sentenza 2 dicembre 2014, C-193/13, Commissione c. Italia), azione per la quale si veda la sentenza del TAR Lazio 8 febbraio 2017, n. 3400, che, accogliendo il ricorso della Regione, ha per il momento bloccato la procedura.
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Schede 1. Trattati istitutivi e Trattati modificativi Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio Firma: Parigi, 18 aprile 1951 Entrata in vigore: 23 luglio 1952 Data di scadenza: 23 luglio 2002 Trattato istitutivo della Comunità economica europea Firma: Roma, 25 marzo 1957 Entrata in vigore: 1° gennaio 1958 Trattato istitutivo della Comunità economica dell’energia atomica Firma: Roma, 25 marzo 1957 Entrata in vigore: 1° gennaio 1958 Trattato che istituisce un Consiglio unico ed una Commissione unica delle Comunità europee (Trattato c.d. di fusione degli Esecutivi) Firma: Bruxelles, 8 aprile 1965 Entrata in vigore: 1° luglio 1965 Atto Unico europeo Firma: Lussemburgo, 17 febbraio 1986 e l’Aja, 28 febbraio 1986 Entrata in vigore: 1° luglio 1987 Trattato sull’Unione europea Firma: Maastricht, 7 febbraio 1992 Entrata in vigore: 1° novembre 1993 Trattato di Amsterdam che modifica il Trattato sull’Unione europea, i Trattati che istituiscono le Comunità europee e alcuni atti connessi Firma: Amsterdam, 2 ottobre 1997 Entrata in vigore: 1° maggio 1999 Trattato di Nizza che modifica il Trattato sull’Unione europea, i Trattati che istituiscono le Comunità europee e alcuni atti connessi Firma: Nizza, 26 febbraio 2001 Entrata in vigore: 1° febbraio 2003 Trattato di riforma Firma: Lisbona, 13 dicembre 2007 Entrata in vigore: 1° dicembre 2009 Trattato che istituisce il meccanismo europeo di stabilità Firma: Bruxelles, 2 febbraio 2012 Entrata in vigore: 27 settembre 2012
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Schede
2. Stati membri dell’Unione 1952: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi 1973: Danimarca, Irlanda e Regno Unito 1981: Grecia 1986: Portogallo, Spagna 1995: Austria, Finlandia, Svezia 2004: Repubblica ceca, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria 2007: Bulgaria, Romania 2013: Croazia
3. Stati membri che hanno adottato l’euro 1999: Austria, Belgio, Germania, Finlandia, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna 2001: Grecia 2007: Slovenia 2008: Cipro e Malta 2009: Slovacchia 2011: Estonia 2014: Lettonia 2015: Lituania
4. Stati aderenti allo spazio Schengen 1985-1997: Austria, Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna 2000: Grecia 2001: Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Svezia 2007: Repubblica ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria 2008: Svizzera 2011: Liechtenstein Adesioni in corso: Bulgaria, Cipro, Croazia, Romania
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Schede
5. Procedura legislativa ordinaria (art. 294 TFUE) 1 a
1 lettura
Proposta della Commissione 2
Posizione del PE
Se il Consiglio approva la posizione del PE, l’atto è adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del PE
Se il Consiglio non approva la posizione del PE, adotta 3 una posizione e la comunica al PE
La Commissione 2 informa il PE sulla sua posizione
2ª lettura 4 Se il PE approva la posizione del Consiglio
Se il PE non prende posizione
L’atto è adottato in conformità alla posizione del Consiglio
Se il PE emenda la posizione del Consiglio 5
Entro un mese la Commissione emette un parere sugli emendamenti
Se il PE rigetta la posizione del Consiglio 5
L’atto non è adottato
Il Consiglio 3 Approva 6 solo alcuni emendamenti
Approva 6 tutti gli emendamenti del PE e adotta l’atto Comitato di conciliazione 7 Approva 8 un progetto comune
Non approva un progetto comune 8
L’atto non è adottato a
3 lettura Il PE 9 e il Consiglio dispongono ciascuno di un termine di sei settimane a decorrere dall’approvazione per adottare l’atto in questione in base al progetto comune. Altrimenti, l’atto si considera non adottato
1
Salvo diversa indicazione, in tutti i passaggi qui sotto descritti, il Consiglio delibera a maggioranza qualificata. Se la procedura legislativa è avviata su iniziativa di un gruppo di Stati membri, su raccomandazione della BCE o su richiesta della Corte di giustizia, la Commissione può essere ugualmente coinvolta nel prosieguo della procedura. 3 Il Consiglio deve pronunciarsi all’unanimità se l’atto costituisce emendamento della proposta della Commissione. 4 Nel termine di tre mesi, prorogabile di un mese al massimo su iniziativa del PE o del Consiglio. 5 A maggioranza assoluta dei membri. 6 Il Consiglio deve pronunciarsi all’unanimità per gli emendamenti su cui la Commissione ha dato parere negativo. 7 Il Comitato di conciliazione è composto dai membri del Consiglio e da altrettanti membri del PE. Il Comitato deve essere convocato entro un termine di sei settimane, prorogabile di due settimane su iniziativa del PE o del Consiglio. 8 Il Consiglio vota a maggioranza qualificata e il PE a maggioranza dei membri della delegazione in Comitato di conciliazione. Il termine per deliberare è di sei settimane, prorogabile di due settimane su iniziativa del PE o del Consiglio. 9 A maggioranza assoluta dei voti espressi. 2
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Schede
6. La maggioranza qualificata nel Consiglio europeo e nel Consiglio La maggioranza qualificata si considera raggiunta con il voto favorevole del 55% dei membri che rappresentino almeno il 65% della popolazione dell’Unione europea (meccanismo di “doppia maggioranza”), con un minimo di 15 Stati, quando la delibera è presa su proposta della Commissione o dell’Alto Rappresentante; in caso contrario, con il voto favorevole del 72% dei membri che rappresentino almeno il 65% della popolazione. La minoranza di blocco deve comprendere almeno quattro Stati membri (artt. 16, par. 4, TUE e 238, par. 2, TFUE). Nel caso del solo Consiglio:
– Qualora un membro ritenga che un progetto di atto legislativo, che si sta adottando con procedura legislativa ordinaria sulla base degli artt. 48, comma 2, 82, par. 3, o 83, par. 3, del TFUE, incida su aspetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico, esso può chiedere che il Consiglio europeo sia investito della questione (c.d. “freno di emergenza”). In tal caso, la procedura legislativa è sospesa. Se entro quattro mesi il Consiglio europeo trova un accordo al suo interno, la questione viene riassunta dal Consiglio facendo così riprendere il corso normale della procedura di adozione. In caso contrario, questa si interrompe definitivamente e l’atto inizialmente proposto si considera non adottato. – Se non tutti i membri partecipano al voto, ad esempio in caso di “opt-out” per taluni settori politici, una decisione è adottata se vota a favore il 55% dei membri partecipanti: tale percentuale deve rappresentare almeno il 65% della popolazione degli Stati membri partecipanti.
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Schede
7. Agenzie dell’Unione europea I. Organismi specializzati ACER – Agenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia (reg. (CE) n. 713/2009 del PE e del Consiglio, del 13 luglio 2009, GUUE L 211, 1) BEREC – Organismo dei regolatori europei delle comunicazioni elettroniche (reg. (CE) n. 1211/2009 del PE e del Consiglio, del 25 novembre 2009, GUUE L 337, 1) CdT – Centro di traduzione degli organismi dell’Unione europea (reg. (CE) n. 2965/94 del Consiglio, del 28 novembre 1994, GUCE L 314, 1) CEDEFOP – Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale (reg. (CEE) n. 337/75 del Consiglio, del 10 febbraio 1975, GUCE L 39, 1) CEPOL – Agenzia dell’Unione europea per la formazione delle autorità di contrasto (reg. (UE) 2015/2219 del PE e del Consiglio, del 25 novembre 2015, GUUE L 319, 1) CPVO – Ufficio comunitario delle varietà vegetali (reg. (CE) n. 2100/94 del Consiglio, del 27 luglio 1994, GUCE L 227, 1) EASA – Agenzia europea per la sicurezza aerea (reg. (CE) n. 216/2008 del PE e del Consiglio, del 20 febbraio 2008, GUUE L 79, 1) EASO – Ufficio europeo di sostegno all’asilo (reg. (UE) n. 439/2010 del PE e del Consiglio, del 19 maggio 2010, GUUE L 132, 11) EBA – Autorità bancaria europea (reg. (UE) n. 1093/2010 del PE e del Consiglio, del 24 novembre 2010, GUUE L 331, 12) ECDC – Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (reg. (CE) n. 851/2004 del PE e del Consiglio, del 21 aprile 2004, GUUE L 142, 1) ECHA – Agenzia europea per le sostanze chimiche (reg. (CE) n. 1907/2006 del PE e del Consiglio, del 18 dicembre 2006, GUUE L 396, 1) EDA – Agenzia europea per la difesa (dec. (PESC) 2015/1835 del Consiglio, del 12 ottobre 2015, GUUE L 266, 55) EEA – Agenzia europea dell’ambiente (reg. (CE) n. 401/2009 del PE e del Consiglio, del 23 aprile 2009, GUUE L 126, 13) EFCA – Agenzia europea di controllo della pesca (reg. (CE) n. 768/2005 del Consiglio, del 26 aprile 2005, in GUUE L 128, 1) EFSA – Autorità europea per la sicurezza alimentare (reg. (CE) n. 178/2002 del PE e del Consiglio, del 28 gennaio 2002, GUCE L 31, 1) EIGE – Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (reg. (CE) n. 1922/2006 del PE e del Consiglio, del 20 dicembre 2006, GUUE L 403, 9) EIOPA – Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali (reg. (UE) n. 1094/2010 del PE e del Consiglio, del 24 novembre 2010, GUUE L 331, 48)
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Schede
EIT – Istituto europeo di innovazione e tecnologia (reg. (CE) n. 294/2008 del PE e del Consiglio, dell’11 marzo 2008, GUUE L 97, 1) EMA – Agenzia europea per i medicinali (reg. (CE) n. 726/2004 del PE e del Consiglio del 31 marzo 2004, GUUE L 136, 1) EMCDDA – Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (reg. (CE) n. 1920/2006 del PE e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, GUUE L 376, 1) EMSA – Agenzia europea per la sicurezza marittima (reg. (CE) n. 1406/2002 del PE e del Consiglio, del 27 giugno 2002, GUCE L 208, 1) ENISA – Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza delle reti e dell’informazione (reg. (UE) n. 526/2013 del PE e del Consiglio, del 21 maggio 2013, GUUE L 165, 41) ERA – Agenzia dell’Unione europea per le ferrovie (reg. (UE) 2016/796 del PE e del Consiglio, dell'11 maggio 2016, GUUE L 138, 1) ESA (Euratom Supply Agency) – Agenzia di approvvigionamento dell’Euratom (dec. 2008/114/CE, Euratom del Consiglio, del 12 febbraio 2008, GUUE L 41,15) ESMA – Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (reg. (UE) n. 1095/2010 del PE e del Consiglio, del 24 novembre 2010, GUUE L 331, 84) ETF – Fondazione europea per la formazione (reg. (CE) n. 1339/2008 del PE e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, GUUE L 354, 82) EUISS – Istituto dell’Unione europea per gli studi sulla sicurezza (dec. 2014/75/PESC del Consiglio, del 10 febbraio 2014, GUUE L 41, 13) Eu-LISA – Agenzia europea per la gestione operativa dei sistemi IT su larga scala nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia (reg. (UE) n. 1077/2011 del PE e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, GUUE L 286, 1) EU-OSHA – Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (reg. (CE) n. 2062/94 del Consiglio, del 18 luglio 1994, GUCE L 216, 1) EUROFOUND – Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (reg. (CEE) n. 1365/75 del Consiglio, del 26 maggio 1975, GUCE L 139, 1) EUROJUST – Unità di cooperazione giudiziaria dell’Unione europea (dec. 2002/187/GAI del Consiglio, del 28 febbraio 2002, GUCE L 63, 1) EUROPOL – Ufficio europeo di polizia (dec. 2009/371/GAI del Consiglio, del 6 aprile 2009, GUUE L 121, 37) EUSC – Centro satellitare dell’Unione europea (dec. 2014/401/PESC del Consiglio, del 26 giugno 2014, GUUE L 188, 73) FRA – Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (reg. (CE) n. 168/2007 del Consiglio, del 15 febbraio 2007, GUUE L 53, 1) FRONTEX – Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (reg. (UE) 2016/1624 del PE e del Consiglio, del 14 settembre 2016, GUUE L 251, 1)
Schede
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GSA – Agenzia del GNSS europeo (reg. (UE) n. 912/2010 del PE e del Consiglio, del 22 settembre 2010, GUUE L 276, 11) OHIM – Ufficio per l’armonizzazione del mercato interno (reg. (CE) n. 207/2009 del Consiglio, del 26 febbraio 2009, GUUE L 78, 1)
II. Agenzie esecutive CER – Agenzia esecutiva del Consiglio europeo della ricerca (dec. 2013/779/UE della Commissione, del 17 dicembre 2013, GUUE L 346, 58) CHAFEA – Agenzia esecutiva per i consumatori, la salute e la sicurezza alimentare (dec. 2013/770/UE della Commissione, del 17 dicembre 2013, GUUE L 341, 69) EACEA – Agenzia esecutiva per l’istruzione, gli audiovisivi e la cultura (dec. 2013/776/UE della Commissione, del 18 dicembre 2013, GUUE L 343, 46) EASME – Agenzia esecutiva per le piccole e le medie imprese (dec. 2013/771/UE della Commissione, del 17 dicembre 2013, GUUE L 341, 73) REA – Agenzia europea per la ricerca (dec. 2013/778/UE della Commissione, del 13 dicembre 2013, GUUE L 346, 54) TEN-TEA – Agenzia esecutiva per l’innovazione e le reti (dec. 2013/801/UE della Commissione, del 23 dicembre 2013, GUUE L 352, 65)
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Schede
Indice cronologico della giurisprudenza citata 1
A. Giurisprudenza dell’Unione europea I. II. III.
Pronunce della Corte di giustizia Conclusioni degli Avvocati generali Pronunce del Tribunale
B. Giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo C. Giurisprudenza italiana I. II.
Corte costituzionale Altre giurisdizioni
D. Giurisprudenza di altri Stati membri I. Austria II. Danimarca III. Francia IV. Germania V. Regno Unito VI. Repubblica Ceca VII. Spagna VIII. Ungheria
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Ove non diversamente precisato, l’indicazione si riferisce alle sentenze.
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Indice cronologico della giurisprudenza citata
A. Giurisprudenza dell’Unione europea I. Pronunce della Corte di giustizia 1954 21 dicembre, 1/54, Francia c. Alta Autorità, 292 1955 21 marzo, 6/54, Paesi Bassi c. Alta Autorità, 107 1956 23 aprile, 7/54 e 9/54, Groupement des industries sid. luxemb. c. Alta Autorità, 140 29 novembre, 8/55, Fédération charbonnière de Belgique, 284 1957 12 luglio, 7/56 e 3/57 a 7/57, Algera e a. c. Assemblée, 234, 285 10 dicembre, 1/57 e 14/57, Usines à tubes de la Sarre, 284 1958 4 febbraio, 1/58, Stork, 144 13 giugno, 9/56 e 10/56, Meroni, 65, 113 1959 4 febbraio, 17/57, De gezamenljike Steenkolemjinen in Limburg c. Alta Autorità, 314 17 luglio, 42/58, S.A.F.E., 284 17 dicembre, 14/59, Société des fonderies de Pontà-Mousson, 284 1960 12 febbraio, 15/59 e 29/59, Société metallurgique de Knutange, 285 12 febbraio, 16/59, 17/59 e 18/59, Geitling Ruhrkohlen-Verkaufsgesellschaft e a., 284, 285 10 maggio, da 27/58 a 29/58, Hautes Fourneaux de Givors e a. c. Alta Autorità, 601 15 luglio, 24/58 e 34/58, Chambre Syndicale de la Siderurgie e a. c. Alta Autorità, 601 16 dicembre, 41/59 e 50/59, Hamborner Bergbau, 285, 315 16 dicembre, 6/60, Humblet c. Belgio, 271 1961 22 marzo, 42/59 e 49/59, S.N.U.P.A.T., 284, 285 13 luglio, 22/60 e 23/60, Elz, 314 19 dicembre, 7/61, Commissione c. Italia, 264, 270, 271 12 luglio, 18/60, Worms, 320 12 luglio, 9/61, Paesi Bassi c. Alta autorità, 231 ord. 3 dicembre, 2/62 e 3/62, Commissione c. Lussemburgo e Belgio, 450 14 dicembre, 16/62 e 17/62, Conf. nat. prod. fruits et légumes c. Consiglio, 170
1963 5 febbraio, 26/62, van Gend & Loos, 38, 143, 448, 897 4 luglio, 24/62, Germania c. Commissione, 289 15 luglio, 25/62, Plaumann, 296, 316 17 luglio, 13/63, Italia c. Commissione, 392 5 dicembre, 23/63, 25/63 e 52/63, Usines Emile Henricot e a., 283 5 dicembre, 28/63, Hoogovens NV, 283 5 dicembre, 53/63 e 54/63, Lemmerz-Werke e a., 283 16 dicembre, 18/62, Barge, 168 1964 19 marzo, 72/63, Unger, 483 2 luglio, 103/63, Rhenania, 315 15 luglio, 6/64, Costa c. ENEL, 39, 220, 306, 464, 789, 897, 898, 899, 904 13 novembre, 90/63 e 91/63, Commissione c. Lussemburgo e Belgio, 40 17 dicembre, 102/63, Boursin, 285 1965 31 marzo, 12/64 e 29/64, Ley c. Commissione, 285 31 marzo, 16/64, Rauch, 285 31 marzo, 21/64, Macchiorlati Dalmas e Figli, 287 7 aprile, 11/64, Weighardt, 285 17 novembre, 20/65, Collotti c. Corte di Giustizia, 285 14 dicembre, 21/65, Morina c. Parlamento, 285 14 dicembre, 47/65, Kalkuhl c. Parlamento, 285 1966 1° marzo, 48/65, Lutticke, 265 13 luglio, 56/64 e 58/64, Consten & Grunding, 630 1968 8 febbraio, 28/66, Paesi Bassi c. Commissione, 601 8 febbraio, 3/67, Fonderie Mandelli, 168 13 marzo, 30/67, Industria molitoria imolese, 171 11 luglio, 6/68, Zückerfabrik, 170 10 dicembre, 7/68, Commissione c. Italia, 448 19 dicembre, 13/68, Salgoil, 367 1969 13 febbraio, 14/68, Wilhelm, 422 1° luglio, 2/69 e 3/69, Sociaal Fonds voor de Diamantarbeiders, 450 9 luglio, 1/69, Italia c. Commissione, 601 12 novembre, 29/69, Stauder, 120, 145 1970 16 aprile, 64/69, La Compagnie française commerciale et financière, 171, 297
Indice cronologico della giurisprudenza citata 5 maggio, 77/69, Commissione c. Belgio, 262 9 luglio, 26/69, Commissione c. Francia, 265 15 luglio, 41/69, Chemiefarma c. Commissione, 628 6 ottobre, 9/70, Grad, 181 21 ottobre, 23/70, Haselhorst, 589 18 novembre, 15/70, Chevalley c. Commissione, 311 17 dicembre, 11/70, Internationale Handelsgesellschaft, 911 17 dicembre, 25/70, Köster, 167 1971 11 febbraio, 39/70, Norddeutsches Vieh- und Fleischkontor, 171, 172 31 marzo, 22/70, Consiglio c. Commissione (c.d. AETS), 280, 282, 431, 589, 590, 824, 825 28 aprile, 4/69, Lütticke, 316 13 maggio, da 41/70 a 44/70, International Fruit Company e a., 156, 158, 160, 170, 297 26 ottobre, 15/71, Mackprang c. Commissione, 311, 313 23 novembre, 62/70, Bock, 298 25 novembre, 22/71, Béguelin, 628 2 dicembre, 5/71, Zuckerfabrick Schöppenstedt, 316, 319 1972 17 maggio, 93/71, Leonesio, 171 13 giugno, 9/71 e 11/71, Compagnie d’approvisionnement, 316 13 luglio, 48/71, Commissione c. Italia, 271 14 luglio, 48/69, ICI, 44, 302, 628 14 luglio, 52/69, Geygy AG c. Commissione, 302 14 luglio, 53/69, Sandoz AG c. Commissione, 302 17 ottobre, 8/72, Vereeniging van Cementhandelaren, 629 12 dicembre, da 21/72 a 24/72, International Fruit, 156, 158, 160, 170, 867 1973 7 febbraio, 39/72, Commissione c. Italia, 171 21 febbraio, 6/72, Continental Can, 634, 636, 641 12 luglio, 2/73, Geddo c. Ente Nazionale Risi, 455 10 ottobre, 34/73, F.lli Variola, 171 24 ottobre, 5/73, Balkan, 470, 690 24 ottobre, 9/73, Schlüter, 154, 181, 690 13 novembre, 63/72 a 69/72, Werhahn, 317 11 dicembre, 120/73, Lorenz, 367 1974 15 gennaio, 134/73, Holtz & Willemsen c. Consiglio e Commissione, 313 16 gennaio, 166/73, Rheinmühlen, 332 30 gennaio, 127/73, BRT c. SABAM, 456, 623, 12 febbraio, 152/73, Sotgiu, 392, 487, 488, 508
957 4 aprile, 167/73, Commissione c. Francia (c.d. Marinai francesi), 270, 486, 593, 596, 610 30 aprile, 155/73, Sacchi, 393, 495, 503, 627 30 aprile, 181/73, Haegeman, 154, 327 28 maggio, 187/73, Callemeyn, 490 21 giugno, 2/74, Reyners, 143, 393, 497, 505, 510, 516 11 luglio, 8/74, Dassonville, 455, 456, 459 31 ottobre, 15/74, Centrafarm, 628 3 dicembre, 33/74, Van Binsbergen, 497, 510, 511 4 dicembre, 41/74, Van Duyn, 175, 176, 401 12 dicembre, 36/74, Walrave, 143, 171, 393, 481, 483, 496, 497, 502, 505, 733 1975 23 gennaio, 31/74, Galli, 690 4 febbraio, 169/73, Compagnie Continentale France, 320 20 febbraio, 21/74, Airola, 384 26 febbraio, 67/74, Bonsignore, 402 28 ottobre, 36/75, Rutili, 146 30 ottobre, 23/75, Rey Soda, 208, 339 parere 11 novembre, 1/75, 352, 414, 415, 425, 800, 833, 834, 867, 868, 872 18 novembre, 100/74, CAM, 297 26 novembre, 39/75, Coenen, 507 16 dicembre, da 40/73 a 48/73, 50/73, da 54/73 a 56/73, 111/73, 113/73 e 114/73, Suiker Unie c. Commissione, 629 1976 3 febbraio, 59/75, Manghera, 181, 464 5 febbraio, 87/75, Bresciani, 327 26 febbraio, 52/75, Commissione c. Italia, 40 8 aprile, 43/75, Defrenne, 136, 143, 146, 339, 723, 725 8 aprile, 48/75, Royer, 173, 403 parere 26 aprile 1977, 1/76, 415, 590, 608, 824, 825, 845, 846 20 maggio, 104/75, De Peijper, 456, 457 2 giugno, 56/74 a 69/74, Kampffmeyer Muhlenvereinigung KG e a., 319 15 giugno, 110/75, Mills c. BEI, 99, 281 15 giugno, 113/75, Frecassetti, 327 14 luglio, 3/76, 4/76 e 6/76, Kramer e a., 590, 824 14 luglio, 13/76, Donà, 483, 502, 505, 733 27 ottobre, 130/75, Prais, 146 15 dicembre, 41/76, Donckerwolcke, 421, 866 16 dicembre, 33/76, Rewe, 247, 357 16 dicembre, 45/76, Comet, 247, 357 1977 2 febbraio, 50/76, Amsterdam Bulb, 170 3 febbraio, 52/76, Benedetti, 336 16 febbraio, 20/76, Schöttle, 653
958 2 marzo, 44/76, Eier-Kontor c. Consiglio e Commissione, 319 parere 26 aprile, 1/76, 590, 825, 845, 846 28 aprile, 71/76, Thieffry, 498, 505, 516 9 giugno, 90/76, Van Ameyde, 505 28 giugno, 11/77, Patrick, 497 20 settembre, 29/77, Roquette Frères, 470 19 ottobre, 117/76 e 16/77, Rukdeschel e HansaLagerhaus Stroeh, 339, 723 19 ottobre, 124/76 e 20/77, Moulins et Huileries de Pont-Mousson, 339 27 ottobre, 30/77, Boucherau, 401, 402, 424 16 novembre, 13/77, INNO c. ATAB, 626 23 novembre, 38/77, Enka, 173 6 dicembre, 55/77, Maris, 40 1978 1° febbraio, 19/77, Miller, 631 14 febbraio, 27/76, United Brands, 634, 635 16 febbraio, 61/77, Commissione c. Irlanda, 170 9 marzo, 106/77, Simmenthal, 221, 332, 361, 899, 900, 905 13 marzo, 91/78, Hansen, 465 11 aprile, 95/77, Commissione c. Paesi Bassi, 262 3 maggio, 112/77, Töpfer, 144 25 maggio, 83 e 94/76, 4, 15 e 40/77, HNL, 319 15 giugno, 149/77, Defrenne, 146 28 giugno, 70/77, Simmenthal, 334 29 giugno, 77/77, B.P., 690 12 ottobre, 156/77, Commissione c. Belgio, 593, 599 23 novembre, 7/78, Thompson, 522 28 novembre, 16/78, Choquet, 606 28 novembre, 97/78, Schumalla, 595 30 novembre, 31/78, Bussone, 171 1979 18 gennaio, 110/78 e 111/78, Van Wesemael, 495, 497, 511 25 gennaio, 98/78, Racke, 153, 290 7 febbraio, 115/78, Knoors, 499, 511 7 febbraio, 128/78, Commissione c. Regno Unito, 171 7 febbraio, 136/78, Auer, 383, 499 13 febbraio, 85/76, Hoffmann-La Roche, 634, 635 636 20 febbraio, 120/78, Rewe-Zentral (c.d. Cassis de Dijon), 458, 460, 745 6 marzo, 92/78, Simmenthal c. Commissione, 298, 310 28 marzo, 90/78, Granaria c. Consiglio e Commissione, 313 29 marzo, 113/77, NTN Toyo Bearing e a. c. Consiglio, 168, 298
Indice cronologico della giurisprudenza citata 5 aprile, 148/78, Ratti, 175 31 maggio, 22/78, Hugin, 630 31 maggio, 207/78, Even e ONPTS, 486 27 settembre, 230/78, Eridania, 144, 171 parere 4 ottobre, 1/78, 352, 590, 833, 834, 869, 4 ottobre, 64/76, 113/76, 167/78, 239/78, 27/79, 28/79 e 45/79, Dumortier frères, 319 4 ottobre, 141/78, Francia c. Regno Unito, 276 4 ottobre, 238/78, Ireks/Arkady, 319 4 ottobre, 241/78, 242/78, e 245/78 a 250/78, DGV, 319 8 novembre, 251/78, Denkavit, 438, 462 8 novembre, 15/79, Groenveld, 461 13 dicembre, 44/79, Hauer, 145, 146 1980 11 marzo, 104/79, Foglia c. Novello, 334 18 marzo, 52/79, Debauve, 495, 503, 511 18 marzo, 62/79, Coditel, 495, 503, 511 27 marzo, 61/79 Denkavit italiana, 338 27 marzo, 66/79, 127/79 e 128/79, Meridionale Industria Salumi e a., 124 27 marzo, 129/79, Machartys, 724 6 maggio, 102/79, Commissione c. Belgio, 174, 175, 172 18 giugno, 138/80, Borker, 328 8 ottobre, 810/79, Überschär, 391 14 ottobre, 812/79, Burgoa, 160 15 ottobre, 145/79, Roquettes Frères, 338 29 ottobre, 138/79, Roquette Frères, 88, 190, 200 29 ottobre, 139/79, Maizena, 200 1981 14 gennaio, 819/79, Germania c. Commissione, 168 28 gennaio, 32/80, Kortmann, 653 31 marzo, 96/80, Jenkins, 727 5 maggio, 804/79, Commissione c. Regno Unito, 421, 423, 425 13 maggio, 66/80, International Chemical Corporation, 338 27 maggio, 142/80 e 143/80, Essevi e Salendo, 327 14 luglio, 172/80, Zückner, 629 6 ottobre, 246/80, Broekmeulen, 328, 499 11 novembre, 203/80, Casati, 520 16 dicembre, 244/80, Foglia c. Novello, 334 16 dicembre, 269/80, Tymen, 421 17 dicembre, 279/80, Webb, 497, 503, 507, 510, 511 1982 19 gennaio, 8/81, Becker, 177 27 gennaio, 256/80, 257/80, 265/80, 267/80 e 5/81, Birra Wührer c. Cons., 319, 320 27 gennaio, 51/81, De Franceschi c. Consiglio e Commissione, 319
Indice cronologico della giurisprudenza citata 3 febbraio, 62/81 e 63/81, Seco e Desquenne & Giral, 503, 507 4 febbraio, 828/79, Adam, 64 4 febbraio, 1253/79, Battaglia, 64 2 marzo, 6/81, Industrie Diensten Groep, 456 23 marzo, 53/81, Levin, 483 23 marzo, 102/81, Nordsee, 328 5 maggio, 15/81, Schul, 444 13 maggio, 16/81, Alaimo, 64 18 maggio, 155/79, AM&S Europe, 146, 18 maggio, 115/81 e 116/81, Adoui e Cornuaille, 402 25 maggio, 96/81, Commissione c. Paesi Bassi, 174 26 maggio, 149/79, Commissione c. Belgio, 381, 488, 488 26 maggio, 44/81, Germania e Bundesanstalt für Arbeit c. Commissione, 768 10 giugno, 246/81, Bethell c. Commissione, 313 15 luglio, 245/81, Edeka, 878 15 luglio, 270/81, Felicitas, 175 6 ottobre, 283/81, CILFIT, 135, 329 26 ottobre, 104/81, Kupferberg, 155, 156, 28 ottobre, 135/81, Groupement des agences de voyages, 294 24 novembre, 249/81, Commissione c. Irlanda, 262, 456 14 dicembre, da 314/81 a 316/81 e 83/82, Waterkeyn e altri, 272 15 dicembre, 211/81, Commissione c. Danimarca, 266 1983 10 febbraio, 230/81, Lussemburgo c. Parlamento, 36, 65 16 marzo, da 267/81 a 269/81, SPI-SAMI, 866 13 luglio, 152/82, Forcheri, 733, 866 21 settembre, da 205/82 a 215/82, Deutsche Milchkontor, 144 25 ottobre, 107/82, AEG, 628 9 novembre, 322/81, Michelin, 631, 634 9 novembre, 199/82, San Giorgio, 357 1984 31 gennaio, 286/82 e 26/83, Luisi e Carbone, 395, 497, 500, 521 29 febbraio, 37/83, Rewe-Zentrale, 456 10 aprile, 14/83, Von Colson e Kamann, 358 12 aprile, 281/82, Unifrex, 317 15 maggio, 121/83, Zückerfabrik Franken c. Hauptzollamt Würzburg, 208 10 luglio, 63/83, Kirk, 146 10 luglio, 72/83, Campus Oil, 789 12 luglio, 107/83, Klopp, 492, 516 12 luglio, 237/83, Prodest, 44, 483, 496 13 dicembre, 251/83, Haug-Adrion, 392
959 1985 17 gennaio, 11/82, Piraiki-Patraiki e a., 298 29 gennaio, 147/83, Binderer, 167, 319 30 gennaio, 143/83, Commissione c. Danimarca, 718 30 gennaio, 290/83, Commissione c. Francia, 644 7 febbraio, 173/83, Commissione c. Francia, 781 7 febbraio, 240/83, ADBHU, 778 13 febbraio, 293/83, Gravier, 734 27 febbraio, 112/83, Societé des produits de mais, 327 20 marzo, 41/83, Italia c. Commissione, 628 22 maggio, 13/83, Parlamento c. Consiglio, 589, 592, 596, 610 23 maggio, 29/84, Commissione c. Germania, 174 3 luglio, 277/83, Commissione c. Italia, 653 9 luglio, 179/84, Bozzetti, 367 11 luglio, 60/84 e 61/84, Cinéthèque, 141, 503 11 luglio, 101/84, Commissione c. Italia, 263 17 settembre, 25/84 e 26/84, Ford, 628 7 novembre, 145/83, Adams, 146 11 dicembre, 192/84, Commissione c. Grecia, 261 1986 23 gennaio, 298/84, Iorio, 483 28 gennaio, 270/83, Commissione c. Francia, 508 28 gennaio, 169/84, Cofaz, 298 18 febbraio, 174/84, Bulk Oil, 421 26 febbraio, 152/84, Marshall, 178, 725, 727 26 febbraio, 175/84, Krohn, 317 ord. 5 marzo, 69/85, Wünsche, 336 23 aprile, 294/83, Les Verts c. Parlamento, 134, 303 30 aprile, da 209/84 a 213/84, Asjes e a. (c.d. Nouvelles Frontières), 593, 596, 610 6 maggio, 25/85, Nuovo Campsider, 314 7 maggio, 131/85, Gül, 486 13 maggio, 170/84, Bilka-Kaufhaus, 725, 727 15 maggio, 222/84, Johnston, 146, 357, 726 3 giugno, 307/84, Commissione c. Francia, 488 10 giugno, 81/85 e 119/85, Usinor, 314 24 giugno, 157/85, Brugnoni e Ruffinengo, 523 1° luglio, 237/85, Rummler, 727 3 luglio, 66/85, Lawrie-Blum, 483, 488 3 luglio, 34/86, Consiglio c. Parlamento, 144 10 luglio, 235/84, Commissione c. Italia, 718 10 luglio, 149/85, Wybot, 65 23 settembre, 5/85, Akzo Chemie c. Commissione, 65, 100 15 ottobre, 168/85, Commissione c. Italia, 263, 264 2 dicembre, 239/85, Commissione c. Belgio, 174 4 dicembre, 205/84, Commissione c. Germania, 494, 511
960 1987 14 gennaio, 281/84, Zuckerfabrik Bedburg e a. c. Consiglio e Commissione, 319 27 gennaio, 45/85, Verband der Sachversicherer, 629 11 marzo, 279/84, 280/84, 285/84 e 286/84, Rau, 470 26 marzo, 45/86, Commissione c. Consiglio, 192, 414, 420, 868, 874 9 aprile, 363/85, Commissione c. Italia, 174 12 maggio, 372/85 e 374/85, Traen, 788 21 maggio, 249/85, Albako, 181 11 giugno, 14/86, Pretore di Salò, 328 16 giugno, 225/85, Commissione c. Italia, 488 16 giugno, 46/86, Romkes, 167 17 giugno, 154/85, Commissione c. Italia, 456 9 luglio, 281/85, 283/85, 284/85, 285/85 e 287/85, Germania, Francia, Paesi Bassi, Danimarca, Regno Unito c. Commissione, 107, 414, 718 17 settembre, 70/86, Commissione c. Grecia, 262 29 settembre, 351/85 e 360/85, Fabrique de fer de Charleroi, 291 29 settembre, 81/86, De Boer Buizen, 317 30 settembre, 12/86, Demirel, 155, 327, 415, 828, 829, 833 14 ottobre, 248/84, Germania c. Commissione, 644 15 ottobre, 222/86, Heylens, 142, 357 22 ottobre, 314/85, Foto-Frost, 330 17 novembre, 142/84 e 156/84, BAT e Reynolds, 284, 641 18 novembre, 137/85, Maizena, 432 1988 14 gennaio, 63/86, Commissione c. Italia, 506 2 febbraio, 67/85, 68/85 e 70/85, Kwekerij van der Kooy e a. c. Commissione, 792 2 febbraio, 309/85, Barra, 338, 358 2 febbraio, 24/86, Blaizot, 338, 733 4 febbraio, 113/86, Commissione c. Italia, 270 19 febbraio, 292/86, Gullung, 516 23 febbraio, 68/86 e 131/86, Regno Unito c. Consiglio, 136 25 febbraio, 331/85, 376/85 e 378/85, Bianco e Girard, 358 3 marzo, 85/86, Commissione c. BEI, 64, 104, 281 15 marzo, 147/86, Commissione c. Grecia, 510 24 marzo, 104/86, Commissione c. Italia, 900 26 aprile, 352/85, Bond van Adverteerders, 502 28 aprile, 31/86 e 35/86, LAISA, 140 4 maggio, 30/87, Bodson, 464 7 giugno, 57/86, Grecia c. Commissione, 644
Indice cronologico della giurisprudenza citata 21 giugno, 39/86, Lair, 484, 733 21 giugno, 32/87, 52/87 e 57/87, Industrie Siderurgiche Associate, 291 30 giugno, 318/86, Commissione c. Francia, 726 6 luglio, 236/86, Dillinger Hüttenwerke c. Commissione, 302 14 luglio, 33/86, 44/86, 110/86, 226/86 e 285/86, Stahlwerke Peine-Salzgitter e a., 291 14 luglio, 308/86, Lambert, 522 20 settembre, 302/86, Commissione c. Danimarca, 778 21 settembre, 267/86, Van Eycke, 334 27 settembre, 114/86, Regno Unito c. Commissione, 285 27 settembre, 204/86, Grecia c. Consiglio, 66 27 settembre, 51/87, Commissione c. Consiglio, 451 27 settembre, 81/87, Daily Mail, 499 27 settembre, 165/87, Commissione c. Consiglio, 420 27 settembre, 235/87, Matteucci, 159 5 ottobre, 196/87, Steymann, 483 1989 2 febbraio, 186/87, Cowan, 392, 395, 500 14 febbraio, 247/87, Star Fruit, 265 11 aprile, 66/86, Saeed Flugreisen e Silver Line Reisebüro, 596 27 aprile, 324/87, Commissione c. Italia, 173 11 maggio, 193/87 e 194/87, Maurissen, 294 18 maggio, 249/86, Commissione c. Germania, 402 18 maggio, 266/87 e 267/87, Association of Pharmaceutical Importers e a., 456 30 maggio, 242/87, Commissione c. Consiglio, 733 30 maggio, 305/87, Commissione c. Grecia, 506 30 maggio, 355/87, Commissione. c. Consiglio, 597 30 maggio, 20/88, Roquette Frères, 317 30 maggio, 56/88, Regno Unito c. Consiglio, 733 31 maggio, 344/87, Bettray, 483 13 giugno, 380/87, Enichem Base e a., 367 22 giugno, 103/88, Fratelli Costanzo, 801, 900 11 luglio, 246/86, Belasco, 631 13 luglio, 5/88, Wachauf, 145, 146 13 luglio, 171/88, Rinner-Kuehn, 727 21 settembre, 46/87 e 227/88, Hoechst, 146 21 settembre, 68/88, Commissione c. Grecia, 131, 572 27 settembre, 9/88, Lopes da Veiga, 44 17 ottobre, 85/87, Dow Benelux, 146 17 ottobre, 109/88, Danfoss, 328, 727 24 ottobre, 16/88, Commissione c. Consiglio, 207, 214
Indice cronologico della giurisprudenza citata 7 novembre, 125/88, Nijman, 788 9 novembre, 386/87, Bessin et Salson, 358 21 novembre, C-244/88, UCDV, 297 28 novembre, C-379/87, Groener, 487 5 dicembre, C-3/88, Commissione c. Italia, 510 13 dicembre, C-204/88, Paris, 470 13 dicembre, C-322/88, Grimaldi, 183, 327 1990 11 gennaio, C-38/89, Blanguernon, 41, 263 22 febbraio, C-221/88, Busseni, 35 14 marzo, C-133/87 e C-150/87, Nashua Corporation e a. c. Comm. e Cons., 284 15 marzo, C-339/87, Commissione c. Paesi Bassi, 174 22 marzo, C-201/89, Le Pen e a. c. Puhzin, 318 2 maggio, C-358/88, Hopermann, 317 8 maggio, C-175/88, Biehl, 487 17 maggio, C-262/88, Barber, 724, 726 17 maggio, C-87/89, Sonito, 265, 316 22 maggio, C-70/88, Parlamento c. Consiglio, 65, 144, 293, 294 ord. 23 maggio, C-72/90, Asia Motor France c. Commissione, 265 19 giugno, C-213/89, Factortame, 221, 247, 357, 361, 900, 901 26 giugno, C-152/88, Sofrimport, 319 27 giugno, C-33/89, Kowalska, 724 28 giugno, C-174/89, Hoche, 164 12 luglio, C-188/89, Foster, 178 ord. 12 luglio, C-195/90 R, Commissione c. Germania, 270 14 luglio, C-379/92, Peralta, 782, 783 20 settembre, C-192/89, Sevince, 155, 327 9 ottobre, C-366/88, Francia c. Commissione, 185 18 ottobre, C-297/88 e C-197/89, Dzodzi, 326 13 novembre, C-370/88, Marshall, 146 13 novembre, C-106/89, Marleasing, 179 21 novembre, C-12/90, Infoterc c. Commissione, 302 12 dicembre, C-100/89 e C-101/89, Kaefer e Procacci, 181 1991 24 gennaio, C-339/89, Alsthom Atlantique, 378 21 febbraio, C-143/88 e C-92/89, Zuckerfabrik, 362 26 febbraio, C-292/89, Antonissen, 484 28 febbraio, C-234/89, Delimitis, 361, 623 28 febbraio, C-332/89, Marchandise e a., 503 19 marzo, C-202/88, Francia c. Commissione, 627, 628 21 marzo, C-303/88, Italia c. Commissione, 644, 646 21 marzo, C-305/89, Italia c. Commissione, 644, 646
961 7 maggio, C-340/89, Vlassopulou, 517 16 maggio, C-96/89, Commissione c. Paesi Bassi, 269 11 giugno, C-51/89, C-90/89 e C-94/89, Regno Unito e a. c. Consiglio, 733 11 giugno, C-300/89, Commissione c. Consiglio, 193, 195, 758, 781 18 giugno, C-260/89, ERT, 146, 627 3 luglio, C-62/86, AKZO c. Commissione, 635, 636 9 luglio, C-146/89, Commissione c. Regno Unito, 160 25 luglio, C-221/89, Factortame, 611 25 luglio, C-76/90, Säger, 495, 507 25 luglio, C-208/90, Emmot, 358 4 ottobre, C-159/90, Society for the Protection of Unborn Children Ireland, 500 7 novembre, C-313/89, Commissione c. Spagna, 310 13 novembre, C-303/90, Francia c. Commissione, 284 17 novembre, C-4/91, Bleis, 488 19 novembre, C-6/90 e C-9/90, Francovich, 363 365 10 dicembre, C-179/90, Gabrielli, 484 13 dicembre, C-33/90, Commissione c. Italia, 41 13 dicembre, C-69/90, Commissione c. Italia, 175 parere 14 dicembre, 1/91, 134, 228, 349 1992 28 gennaio, C-332/90, Steen I, 369 18 febbraio, C-54/90, Weddel & co. c. Commissione, 118 26 febbraio, C-357/89, Raulin, 485 26 febbraio, C-3/90, Bernini, 483 13 marzo, C-282/90, Industrie en Handelsoderneming Vreugdenhil, 317 19 marzo, C-311/90, Hierl, 470 31 marzo, C-284/90, Consiglio c. Parlamento, 126 parere 10 aprile, 1/92, 351 19 maggio, C-104/89 e C-37/90, Mulder, 319 19 maggio, C-195/90, Commissione c. Germania, 594 20 maggio, C-106/91, Ramrath, 494 4 giugno, C-181/90, Consorgan c. Commissione, 769 4 giugno, C-360/90, Bötel, 724 7 luglio, C-295/90, Parlamento c. Consiglio, 308 7 luglio, C-369/90, Micheletti, 384 7 luglio, C-370/90, Singh, 397, 484, 549 9 luglio, C-2/90, Commissione c. Belgio, 786 16 luglio, C-65/90, Parlamento c. Consiglio, 201 16 luglio, C-163/90, Legros e a., 450 27 ottobre, C-240/90, Germania c. Commissione, 208, 211
962 10 novembre, C-156/91, Hanza Fleisch, 178 2 dicembre, C-370/89, SGEEM e Etroy c. BEI, 64, 281, 318 3 dicembre, C-97/91, Oleificio Borelli, 358 16 dicembre, C-237/91, Kus, 327 1993 21 gennaio, C-188/91, Deutsche Shell, 154 26 gennaio, da C-320 a 322/90, Telemarsicabruzzo, 333 3 febbraio, C-148/91, Veronica Omroep Organisatie, 511 16 febbraio, C-107/91, ENU, 314 10 marzo, C-111/91, Commissione c. Lussemburgo, 508 17 marzo, C-72/91 e C-73/91, Sloman Neptun Schiffahrts, 644 17 marzo, C-155/91, Commissione c. Consiglio, 194, 781 parere 19 marzo, 2/91, 352, 830, 844 31 marzo, C-89/85, C-104/85, C-114/85, C116/85, C-117/85 e da C-125/85 a C-129/85, Ahlström Osakeyhtiö, 629 31 marzo, C-184/91 e C-221/91, Oorburg e Van Messem, 594 31 marzo, C-19/92, Kraus, 485, 510 19 maggio, C-320/91, Corbeau, 627 25 maggio, C-334/91 P, IRI c. Commissione, 769 27 maggio, C-310/91, Schmid, 490 15 giugno, C-225/91, Matra, 290 16 giugno, C-325/91, Francia c. Commissione, 169, 284 22 giugno, C-11/92, Gallaher, 781 29 giugno, C-298/89, Gibilterra c. Consiglio, 294 30 giugno, C-181/91 e C-248/91, Parlamento c. Consiglio e Commissione, 159, 280 13 luglio, C-42/92, Thijssen, 510 2 agosto, C-158/91, Levy, 159 2 agosto, C-259/91, C-331/91 e C-332/91, Alluè e a., 487, 488 2 agosto, C-271/91, Marshall, 724 6 ottobre, C-109/91, Ten Oever, 725 20 ottobre, C-10/92, Balocchi, 334 27 ottobre, C-127/92, Enderby, 727 24 novembre, C-15/91 e C-108/91, Buckl, 315 24 novembre, C-267/91 e C-268/91, Keck e Mithouard, 459 9 dicembre, C-45/92 e C-46/92, Lepore e Scamuffa, 489 15 dicembre, C-292/92, Hünermund e a., 456 1994 19 gennaio, C-364/92, SAT c. Eurocontrol, 625 23 febbraio, C-236/92, Comitato per il coord. della difesa della Cava, 176, 367
Indice cronologico della giurisprudenza citata 2 marzo, C-316/91, Parlamento c. Consiglio, 280 3 marzo, C-332/92, C-333/92 e C-335/92, Eurico Italia e a., 334 9 marzo, C-188/92, TWD Textilwerke Deggendorf, 327, 651 15 marzo, C-387/92, Banco Exterior de España, 644 24 marzo, C-275/92, Schindler, 455, 503 12 aprile, C-1/93, Halliburton, 508 27 aprile, C-393/92, Comune di Almelo, 328, 464, 789, 792 5 maggio, C-421/92, Habermann, 725 17 maggio, C-18/93, Corsica Ferries, 328, 627 18 maggio, C-309/89, Codorniu, 318, 393 1° giugno, C-388/92, Parlamento c. Consiglio, 201 8 giugno, C-382/92, Commissione c. Regno Unito, 263 15 giugno, C-137/92, Commissione c. BASF e a., 286 16 giugno, C-132/93, Steen II, 369 14 luglio, C-91/92, Faccini Dori, 178 14 luglio, C-353/92, Grecia c. Consiglio, 470 9 agosto, C-327/91, Francia c. Commissione, 136, 158, 841 9 agosto, C-412/92 P, Parlamento c. Meskens, 309 20 settembre, C-12/93, Drake, 489 28 settembre, C-7/93, Beune, 725 28 settembre, C-28/93, val den Akker, 726 5 ottobre, C-23/93, TV 10, 510 5 ottobre, C-280/93, Germania c. Consiglio, 158, 198, 470 5 ottobre, C-323/93, La Crespelle, 627 parere 15 novembre, 1/94, 352, 590, 831, 841, 871 6 dicembre, C-410/92, Johnson, 358 15 dicembre, C-195/91 P, Bayer c. Commissione, 303 1995 ord. 13 gennaio, C-253/94 P, Roujansky c. Consiglio, 78 ord. 13 gennaio, C-264/94 P, Bonnamy c. Consiglio, 78 9 febbraio, C-412/93, Leclerc-Siplec, 333 14 febbraio, C-279/93, Schumacher, 659 23 febbraio, C-358/93 e C-416/93, Bordessa, 521, 522, 523 parere 24 marzo, 2/92, 352 30 marzo, C-65/93, Parlamento c. Consiglio, 66, 200 10 maggio, C-384/93, Alpine Investments, 504 10 maggio, C-417/93, Parlamento c. Consiglio, 200
Indice cronologico della giurisprudenza citata 31 maggio, C-400/93, Royal Copenhaghen, 724 1° giugno, C-414/93, Teirlinck, 609 13 luglio, C-156/93, Parlamento c. Commissione, 292 11 agosto, C-431/92, Commissione c. Germania, 265, 291 17 ottobre, C-450/93, Kalanke, 727 19 ottobre, C-111/94, Job Centre, 329 9 novembre, C-465/93, Atlanta, 362 14 novembre, C-484/93, Svensson e Gustavsson, 522, 523 30 novembre, C-55/94, Gebhard, 494, 510, 517 parere 13 dicembre, 3/94, 841 14 dicembre, C-312/93, Peterbroeck, 332, 357, 901 14 dicembre, C-348/89, Mecanarte, 332 14 dicembre, C-430/93 e C-431/93, Van Schijndel e van Veen, 358 14 dicembre, C-444/93, Megner e Scheffel, 727 14 dicembre, C-163/94, C-165/94 e C- 250/94, Sanz de Lera, 521, 523 15 dicembre, C-415/93, Bosman, 393, 482, 483, 505, 733 1996 15 febbraio, C-53/95, Inasti, 492 29 febbraio, C-56/93, Belgio c. Commissione, 644 29 febbraio, C-193/94, Shanavy e Chryssanthakoupolos, 606 5 marzo, C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e Factortame, 262, 363, 364 7 marzo, C-360/93, Parlamento c. Consiglio, 308 19 marzo, C-25/94, Commissione c. Consiglio, 66, 82, 186 26 marzo, C-392/93, British Telecommunications, 363 26 marzo, C-271/94, Parlamento c. Consiglio, 192, 751 parere 28 marzo, 2/94, 151, 352, 416 30 aprile, C-214/94, Boukhalfa, 44, 483 30 aprile, C-13/94, P./S., 726 23 maggio, C-5/94, Hedley Lomas, 40, 363 23 maggio, C-237/94, O’Flynn, 487 27 giugno, C-107/94, Asscher, 484 2 luglio, C-473/93, Commissione c. Lussemburgo, 488 19 settembre, C-236/95, Commissione c. Grecia, 362 26 settembre, C-168/95, Arcaro, 179, 175, 788 8 ottobre, C-178/94, C-179/94, C-188/94 e C190/94, Dillenkofer, 363, 365 17 ottobre, C-283/94, C-291/94 e C-292/94, Denkavit International, 363
963 12 novembre, C-84/94, Regno Unito c. Consiglio, 313, 432, 718 14 novembre, C-333/94 P, Tetrapak c. Commissione (c.d. Tetrapak II), 636 24 novembre, C-73/95, Viho, 628 3 dicembre, C-268/94, Portogallo c. Consiglio, 881 5 dicembre, C-85/95 Reisdorf, 334 12 dicembre, C-302/94, BritishTelecommunications, 625 12 dicembre, C-74/95 e C-129/95, Procura di Torino, 328 12 dicembre, C-142/95 P, Associazione agricoltori c. Commissione e a., 780 12 dicembre, C-241/95, Accrington Beef e a., 310 1997 9 gennaio, C-143/95 P, Commissione c. Socurte e a., 302 16 gennaio, C-134/95, USSL n. 47 di Biella, 369 23 gennaio, C-246/95, Coen, 303 30 gennaio, C-178/95, Wiljo, 327, 608 20 febbraio, C-107/95 P, Bundesverband der Bilanzbuchhalter, 269 20 febbraio, C-344/95, Commissione c. Belgio, 484 13 marzo, C-197/96, Commissione c. Francia, 263 20 marzo, C-57/95, Francia c. Commissione, 284 20 marzo, C-96/95, Commissione c. Germania, 172 ord. 21 marzo, C-95/97, Regione vallona, 41 17 aprile, C-147/95, Evrenopulos, 725 13 maggio, C-233/94, Germania c. Parlamento e Consiglio, 431, 433 15 maggio, C-355/95 P, TWD c. Commissione, 651 5 giugno, C-64/96 e C-65/96, Uecker e Jacquet, 369 10 giugno, C-392/95, Parlamento c. Consiglio, 201 9 luglio, C-222/95, Parodi, 507, 522 17 luglio, C-28/95, Leur Bloem, 326 17 luglio, C-130/95, Giloy, 326 17 luglio, C-219/95 P, Ferriere Nord, 631 17 luglio, C-248/95 e C-249/95, SAM Schiffahrt e Stapf, 589, 608 17 luglio, C-334/95, Krüger, 362 ord. 1° ottobre, C-180/97, Regione Toscana, 41 2 ottobre, C-1/95, Gerster, 724 2 ottobre, C-259/95, Parlamento c. Consiglio, 44 16 ottobre, C-69/96 a C-79/96, Garofalo e a. c. Ministero della Sanità, 328 23 ottobre, C-157/94, Commissione c. Paesi Bassi, 626, 792
964 23 ottobre, C-158/94, Commissione c. Italia, 792 23 ottobre, C-159/94, Commissione c. Francia, 792 23 ottobre, C-160/94, Commissione c. Spagna, 792 23 ottobre, C-189/95, Franzén, 464 4 novembre, C-337/95, Parfums Christian Dior, 330 11 novembre, C-359/95 P e C-379/95 P, Ladbroke Racing, 628 11 novembre, C-408/95, Eurotunnel, 198, 201, 328, 334 11 novembre, C-409/95, Marschall, 727 27 novembre, C-62/96, Commissione c. Grecia, 611 27 novembre, C-137/96, Commissione c. Germania, 175 4 dicembre, C-207/96, Commissione c. Italia, 726 9 dicembre, C-265/95, Commissione c. Francia, 456 11 dicembre, C-246/96, Magorrian e Cunningham, 724 18 dicembre, C-360/95, Commissione c. Spagna, 172 18 dicembre, C-129/96, Inter-Environnement Wallonie, 176 1998 15 gennaio, C-15/96, Shoenig-Kougebetopoulou, 488 10 marzo, C-122/95, Germania c. Consiglio, 158 19 marzo, C-1/96, Compassion in World Farming, 462 28 aprile, C-120/95, Decker, 528 28 aprile, C-158/96, Kohll, 504, 528 5 maggio, C-157/96, National Farmers’ Union e a., 433, 784 5 maggio, C-180/96, Regno Unito c. Consiglio, 285, 313, 784 5 maggio, C-386/96, Dreyfus c. Commissione, 298 12 maggio, C-85/96, Martínez Sala, 390, 486 12 maggio, C-106/96, Regno Unito c. Commissione, 128, 308 12 maggio, C-170/96, Commissione c. Consiglio, 255, 14 maggio, C-48/96 P, Windpark Groothusen c. Commissione, 774 28 maggio, C-22/96, Parlamento c. Consiglio, 751 16 giugno, C-53/96, Hermès, 327 16 giugno, C-162/96, Racke, 153,169, 291 25 giugno, C-203/96, Dusseldorp e a., 781 2 luglio, C-225/95 a C-227/95, Kapasakalis e a., 369
Indice cronologico della giurisprudenza citata 14 luglio, C-284/95, Safety Hi-Tech, 782 14 luglio, C-341/95, Bettati, 783 16 luglio, C-93/97, Fédération belge des chambres syndicales de médecins, 329 17 luglio, C-422/97 P, Sateba, 265 22 settembre, C-185/97, Coote, 727 26 novembre, C-7/97, Oscar Bronner c. Mediaprint, 634 1° dicembre, C-410/96, Ambry, 522 1999 26 gennaio, C-18/95, Terhoeve, 369, 487 9 febbraio, C-167/97, Seymour, 724, 727 23 febbraio, C-42/97, Parlamento c. Consiglio, 194, 738 25 febbraio, C-164/97 e C-165/97, Parlamento c. Consiglio, 781 9 marzo, C-212/97, Centros, 499, 510, 511 16 marzo, C-222/97, Trumme e Mayer, 521 22 aprile, C-340/96, Commissione c. Regno Unito, 269 29 aprile, C-224/97, Ciola, 508 29 aprile, C-293/97, Standley e a., 784, 786 4 maggio, C-262/96, Sürül, 155 11 maggio, C-309/97, Angestelltenbetriebstrat der Wiener Gebietskrankenkasse, 724 1° giugno, C-302/97, Konle, 262, 363, 506, 522, 523 8 giugno, C-198/97, Commissione c. Germania, 100 8 giugno, C-337/97, Meeusen, 484 17 giugno, C-295/97, Piaggio, 647 8 luglio, C-199/92 P, Hüls, 629 8 luglio, C-189/97, Parlamento c. Consiglio, 838 8 luglio, C-186/98, Nunes e de Matos, 131, 424, 747 9 settembre, C-257/98 P, Lucaccioni, 318 16 settembre, C-435/97, WWF e a., 334, 785 29 settembre, C-232/97, Nederhoff, 781 5 ottobre, C-175/98 e C-177/98, Lirussi e Bizzaro, 784 14 ottobre, C-439/97, Sandoz, 523 21 ottobre, C-333/97, Lewen, 724 21 ottobre, C-67/98, Zenatti, 510 28 ottobre, C-328/96, Commissione c. Austria, 266 28 ottobre, C-187/98, Commissione c. Grecia, 718 18 novembre, C-249/99 P, Pescados Congelados Jogamar c. Commissione, 314 23 novembre, C-149/96, Portogallo c. Consiglio, 156, 184 ord. 26 novembre, C-192/98, Anas, 329 ord. 26 novembre, C-440/98, RAI, 329
Indice cronologico della giurisprudenza citata 2000 11 gennaio, C-285/98, Kreil, 726 13 gennaio, C-220/98, Estée Lauder, 749 27 gennaio, C-190/98, Graf, 487 3 febbraio, C-207/88, Mahlburg, 725 ord. 4 febbraio, C-17/98, Emesa Sugar c. Aruba, 241 10 febbraio, C-50/96, Deutsche Telekom, 723, 727 14 marzo, C-54/99, Eglise de Scientologie, 523 16 marzo, C-395/96 P e C-396/96 P, Compagnie Maritime e a. c. Comm, 597, 635 28 marzo, C-158/97, Badeck, 727 6 aprile, C-443/97, Spagna c. Commissione, 285 11 aprile, C-51/96 e C-191/97, Deliège, 482, 733 13 aprile, C-176/96, Lehtonen, 483, 733 13 aprile, C-251/98, Baars, 503 13 aprile, C-274/98, Commissione c. Spagna, 262 20 maggio, C-388/95, Belgio c. Spagna, 276 23 maggio, C-106/98 P, Comité d’entreprise de la Société française, 292 23 maggio, C-209/98, Sydhavnens Sten & Grus, 625, 785, 786 23 maggio, C-58/99, Commissione c. Italia, 523 6 giugno, C-35/98, Verkoijen, 523 6 giugno, C-281/98, Angonese, 393, 482, 486 15 giugno, C-237/98, Dorsch Consult, 318 22 giugno, C-318/98, Fornasar, 781 27 giugno, C-240/98, Océano Grupo Editorial, 358 4 luglio, C-387/97, Commissione c. Grecia, 273 4 luglio, C-424/97, Haim, 363, 364, 6 luglio, C-407/98, Abrahamsson, 727 6 luglio, C-236/99, Commissione c. Belgio, 262, 269, 291 13 luglio, C-423/98, Albore, 523 19 settembre, C-287/98, Linster, 785 21 settembre, C-462/98 P, Mediocurso c. Commissione, 769 16 novembre, C-291/98 P, Sarriò, 168 5 dicembre, C-448/98, Guimont, 326, 370, 7 dicembre, C-79/99, Schnorbus, 727 ord. 13 dicembre, C-44/00 P, Sodima, 315 14 dicembre, C-300/98 e C-392/98, Dior e a., 155, 327 14 dicembre, C-446/98, Fazenda pública, 337 2001 11 gennaio, C-403/98, Azienda Agricola Monte Arcosu, 171, 172, 1° febbraio, C-333/99, Commissione c. Francia, 262 15 febbraio, C-239/99, Nachi Europe, 310 20 febbraio, C-192/99, Kaur, 142, 382
965 20 febbraio, C-205/99, Analir e a., 612 6 marzo, C-274/99 P, Connolly c. Commissione, 118 13 marzo, C-379/98, Preussen Elektra, 644, 792 29 marzo, C-163/99, Portogallo c. Commissione, 40 10 maggio, C-144/99, Commissione c. Paesi Bassi, 175 21 maggio, C-283/99, Commissione c. Italia, 488 26 giugno, C-173/99, BECTU, 728 26 giugno, C-212/99, Commissione c. Italia, 482 26 giugno, C-381/99, Brunnhofer, 724 20 settembre, C-184/99, Grzelczyk, 338, 380, 390, 401 20 settembre, C-453/99, Courage, 374, 633 9 ottobre, C-377/98, Paesi Bassi c. Parlamento e Consiglio, 431 9 ottobre, C-379/99, Menauer, 725 18 ottobre, C-441/99, Gharehveran, 177 23 ottobre, C-510/99, Tridon, 781 8 novembre, C-143/99, Adria-Wien Pipeline, 329, 647, 792 8 novembre, C-228/99, Silos, 338 22 novembre, C-452/98, Nederlandse Antillen c. Consiglio, 294, 29 novembre, C-17/00, De Coster, 500 29 novembre, C-366/99, Griesmar, 724 parere 6 dicembre, 2/00, 781, 782, 783, 826 13 dicembre, C-1/00, Commissione c. Francia, 100 13 dicembre, C-206/00, Mouflin, 724 2002 15 gennaio, C-439/99, Commissione c. Italia, 507, 510 22 gennaio, C-390/99, Canal Satéllite Digital, 455 7 febbraio, C-279/00, Commissione c. Italia, 523 19 febbraio, C-309/99, Wouters e a., 250, 624 5 marzo, C-515/99, C-519/99 a C-524/99 e C526/99 a C-540/99, Reisch e a., 370, 12 marzo, C-27/00 e C-122/00, Omega Air e a., 152, 589 12 marzo, C-168/00, Simone Leitner, 749 19 marzo, C-476/99, Lommers, 727 19 marzo, C-280/00, Altmark, 600, 646, parere 18 aprile, 1/00, 349 23 aprile, C-234/99, Nygård, 653 16 maggio, C-482/99, Francia c. Commissione, 645 16 maggio, C-142/01, Commissione c. Italia, 41, 263 4 giugno, C-367/98, Commissione c. Portogallo, 523
966 4 giugno, C-483/99, Commissione c. Francia, 524 4 giugno, C-503/99, Commissione c. Belgio, 523, 528 4 giugno, C-99/00, Lyckeskog, 330 6 giugno, C-159/00, Sapod Audic, 785 11 luglio, C-224/98, D’Hoop, 387 11 luglio, C-60/00, Carpenter, 397 11 luglio, C-62/00, Marks & Spencer, 176 12 luglio, C-210/00, Käserei Ghampignon Hofmeister, 432 25 luglio, C-459/99, MRAX, 397 25 luglio, C-50/00 P, UPA c. Consiglio, 299, 320 17 settembre, C-413/99, Baumbast e R, 395, 396, 416 17 settembre, C-320/00, Lawrence, 724 19 settembre, C-336/00, Huber, 195, 392, 781 15 ottobre, C-238/99 P, C-244/99 P, C-245/99 P, C-247/99 P, da C-250/99 P a C-252/99 P e C254/99 P, Limburgse Vinyl Maatschappij e a. c. Commissione, 307 ord. 18 ottobre, C-232/02 P, Commissione c. Technische Glaswerke, 147 22 ottobre, C-241/01, National Farmers’ Union, 310 5 novembre, C-466/98, Commissione c. Regno Unito, 590, 592, 617 5 novembre, C-467/98, Commissione c. Danimarca, 431, 590, 592, 617, 831 5 novembre, C-468/98, C-471/98, C-472/98 e C476/98, Commissione c. Svezia, Belgio, Lussemburgo e Germania, 590, 592, 617, 831 5 novembre, C-475/98, Commissione c. Austria, 431, 590, 592, 617 5 novembre, C-208/00, Überseering, 499 5 novembre, C-325/00, Commissione c. Germania, 262, 456 19 novembre, C-188/00, Kurz, 484 21 novembre, C-473/00, Cofidis, 358 26 novembre, C-100/01, Oteiza Olazabal, 402 10 dicembre, C-29/99, Commissione c. Consiglio, 66 10 dicembre, C-491/01, British American Tobacco, 196, 432, 433 12 dicembre, C-456/00, Francia c. Commissione, 290 12 dicembre, C-281/01, Commissione c. Consiglio, 195 2003 16 gennaio, C-388/01, Commissione c. Italia, 500, 528 21 gennaio, C-318/00, Bacardi, 334 21 gennaio, C-378/00, Commissione c. Parlamento e Consiglio, 166, 293
Indice cronologico della giurisprudenza citata 28 gennaio, C-334/99, Germania c. Commissione, 646 30 gennaio, C-167/01, Inspire Art, 499, 510 11 febbraio, C-187/01 e C-385/01, Gözütok e Brügge, 562, 565 27 febbraio, C-389/00, Commissione c. Germania, 450 10 aprile, C-142/00 P, Commissione c. Nederlandse Antillen, 316 8 maggio, C-438/00, Kolpak, 483 8 maggio, C-122/01 P, T. Port c. Commissione, 318 8 maggio, C-171/01, Wählergruppe Gemeinsam, 155, 329 15 maggio, C-214/00, Commissione c. Spagna, 362 20 maggio, C-465/00, C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk e a., 329 12 giugno, C-112/00, Schmidberger, 145, 150, 456, 460, 511 12 giugno, C-234/01, Gerritse, 508, 660 12 giugno, C-316/01, Glawischnig, 785 24 giugno, C-72/02, Commissione c. Portogallo, 173 10 luglio, C-11/00, Commissione c. BCE, 104, 129, 130, 310, 676, 677, 678 10 luglio, C-15/00, Commissione c. BEI, 130, 281 ord. 30 luglio, C-320/03 R, Commissione c. Austria, 270 9 settembre, C-137/00, Milk Marque e National Farmers’ Union, 511 9 settembre, C-198/01, CIF, 628, 801 9 settembre, C-236/01, Monsanto Agricoltura Italia e a., 784 11 settembre, C-445/00, Austria c. Consiglio, 140, 362 11 settembre, C-6/01, Anomar e a., 370 11 settembre, C-13/01, Safalero, 357 11 settembre, C-211/01, Commissione c. Consiglio, 194, 308 25 settembre, C-58/01, Océ van der Grinten, 201 30 settembre, C-167/01, Inspire Art, 499, 510 30 settembre, C-224/01, Köbler, 262, 335, 359, 363, 364, 366 30 settembre, C-405/01, Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Española, 488 2 ottobre, C-12/02, Grilli, 606 2 ottobre, C-148/02, Garcia Avello, 385, 386 6 novembre, C-243/01, Gambelli, 494 4 dicembre, C-63/01, Evans, 363 4 dicembre, C-448/01, EVN e Wienstrom, 792 9 dicembre, C-129/00, Commissione c. Italia, 262, 263, 331 ord. 12 dicembre, C-258/02 P, Bactria Industriehygiene-Service, 299
Indice cronologico della giurisprudenza citata 2004 7 gennaio, C-117/01, K.B., 726 7 gennaio, C-201/02, Wells, 175, 785 13 gennaio, C-453/00, Kühne & Heitz, 338, 339, 359 13 gennaio, C-256/01, Allonby, 724 ord. 15 gennaio, C-235/02, Saetti e Freudiani, 328 22 gennaio, C-271/01, COPPI, 769 5 febbraio, C-380/01, Schneider, 333 5 febbraio, C-157/02, Rieser Internationale Transporte, 178 18 marzo, C-342/01, Merino Gómez, 728 23 marzo, C-234/02 P, Mediatore europeo c. Lamberts, 250, 316 1° aprile, C-263/02 P, Commissione c. Jégo-Quéré, 299 9 aprile, C-102/02, Beuttenmüller, 177 29 aprile, C-387/99, Commissione c. Germania, 263 29 aprile, C-277/00, Germania c. Commissione, 651 29 aprile, C-298/00 P, Italia c. Commissione, 168, 318 29 aprile, C-338/01, Commissione c. Parlamento, 193 29 aprile, C-476/01, Kapper, 606 29 aprile, C-482/01 e C-493/01, Orfanopoulos e Oliveri, 402 29 aprile, C-224/02, Pusa, 387 ord. 29 aprile, C-202/03, DAC, 362 8 giugno, C-220/02, Österreichischer Gewerkschaftsbund, 727 10 giugno, C-87/02, Commissione c. Italia, 262, 785 29 giugno, C-486/01 P, Front National c. Parlamento, 298 1° luglio, C-169/03, Wallentin, 660 13 luglio, C-82/03, Commissione c. Italia, 283 13 luglio, C-27/04, Commissione c. Consiglio, 101, 284, 689 7 settembre, C-127/02, Waddenvereniging e Vogelbeschermingsvereniging, 785 7 settembre, C-319/02, Manninen, 659 7 settembre, C-456/02, Trojani, 400, 483 7 settembre, C-1/03, van de Walle, 786 9 settembre, C-304/01, Spagna c. Commissione, 289 9 settembre, C-184/02 e C-223/02, Spagna e Finlandia c. Parlamento e Consiglio, 193 9 settembre, C-72/03, Carbonati Apuani, 450 23 settembre, C-280/02, Commissione c. Francia, 784
967 5 ottobre, da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., 179 5 ottobre, C-442/02, CaixaBank France, 507 12 ottobre, C-222/02, Paul e a., 379 14 ottobre, C-36/02, Omega, 145, 460, 511 19 ottobre, C-200/02, Zhu e Chen, 383 11 novembre, C-457/02, Niselli, 788 2 dicembre, C-41/02, Commissione c. Paesi Bassi, 784 14 dicembre, C-434/02, André, 663 14 dicembre, C-210/03, Swedish Match, 195, 663 2005 18 gennaio, C-257/01, Commissione c. Consiglio, 214 18 gennaio, C-325/03 P, Zuazaga Meabe c. UAMI, 303 1° febbraio, C-203/03, Commissione c. Austria, 726 ord. 17 febbraio, C-250/03, Mauri, 370 1° marzo, C-281/02, Owusu, 555 3 marzo, C-414/03, Commissione c. Germania, 292 10 marzo, C-235/03, QDQ, 177 10 marzo, C-469/03, Miraglia, 565 15 marzo, C-209/03, Bidar, 338, 339, 733 14 aprile, C-6/03, Deponiezweckverband Eiterköpfe, 781 14 aprile, C-157/03, Commissione c. Spagna, 397 21 aprile, C-186/04, Housieaux, 785 26 aprile, C-494/01, Commissione c. Irlanda, 263 3 maggio, C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e a., 177 12 maggio, C-287/03, Commissione c. Belgio, 266 26 maggio, C-301/02 P, Tralli c. BCE, 110, 346 26 maggio, C-132/03, Codacons e Federconsumatori, 784 31 maggio, C-53/03, Syfait, 328, 623 2 giugno, C-266/03, Commissione c. Lussemburgo, 608, 832 7 giugno, C-17/03, VEMW e a., 792 16 giugno, C-105/03, Pupino, 36, 146, 180, 342, 535, 569 30 giugno, C-28/04, Tod’s, 393 7 luglio, C-147/03, Commissione c. Austria, 733 12 luglio, C-304/02, Commissione c. Francia, 272, 273 12 luglio, C-403/03, Schempp, 387 14 luglio, C-433/03, Commissione c. Germania, 608 21 luglio, C-231/03, Coname, 508 21 luglio, C-207/04, Vergani, 725 13 settembre, C-176/03, Commissione c. Consiglio, 255, 572, 781, 788
968 15 settembre, C-199/03, Irlanda c. Commissione, 768 15 settembre, C-281/03 e C-282/03, Cindu Chemicals, 781 15 settembre, C-495/03, Intermodal Transports, 329 6 ottobre, C-291/03, MyTravel, 339 ord. 6 ottobre, C-256/05, Telekom Austria, 328 13 ottobre, C-458/03, Parking Brixen, 508 20 ottobre, C-6/04, Commissione c. Regno Unito, 173 15 novembre, C-320/03, Commissione c. Austria, 779 22 novembre, C-144/04, Mangold, 177, 333, 334, 727 24 novembre, C-138/03, C-324/03 e C-431/03, Italia c. Commissione, 304 6 dicembre, C-453/03, C-11/04, C-12/04 e C194/04, ABNA, 362, 783 8 dicembre, C-220/03, BCE c. Germania, 363 8 dicembre, C-33/04, Commissione c. Lussemburgo, 266 2006 10 gennaio, C-94/03, Commissione c. Consiglio, 255 10 gennaio, C-178/03, Commissione c. Parlamento e Consiglio, 193, 196, 308, 781 10 gennaio, C-344/04, IATA, 158, 203, 618 31 gennaio, C-503/03, Commissione c. Spagna, 397, 539 parere 7 febbraio, 1/03, 426, 555, 590, 831, 832 21 febbraio, C-255/02, Halifax e a, 511 23 febbraio, C-346/03 e C-529/03, Atzeni e a., 290 23 febbraio, C-513/03, Van Hilten, 521 9 marzo, C-436/04, Van Esbroeck, 565 16 marzo, C-131/04 e C-257/04, Robinson-Steele, 728, 729 16 marzo, C-234/04, Kapferer, 359, 900 23 marzo, C-209/04, Commissione c. Austria, 784 30 marzo, C-451/03, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, 369, 370, 510 6 aprile, C-428/04, Commissione c. Austria, 174 6 aprile, C-456/04, Agip Petroli, 612 6 aprile, C-124/05, Federatie Nederlandse Vakbeweging, 729 27 aprile, C-441/02, Commissione c. Germania, 397 27 aprile, C-423/04, Richards, 726 2 maggio, C-436/03, Parlamento c. Consiglio, 417, 663 2 maggio, C-217/04, Regno Unito c. Parlamento e Consiglio, 114, 414
Indice cronologico della giurisprudenza citata 4 maggio, C-290/03, Barker, 785 16 maggio, C-372/04, Watts, 510 18 maggio, C-221/04, Commissione c. Spagna, 268 30 maggio, C-459/03, Commissione c. Irlanda, 349, 590, 782 30 maggio, C-317/04 e C-318/04, Parlamento c. Consiglio, 352 8 giugno, C-517/04, Koornstra, 653 8 giugno, C-60/05, WWF Italia, 784 13 giugno, C-173/03, Traghetti del Mediterraneo, 364 15 giugno, C-393/04 e C-41/05, Air Liquide Industries, 653 27 giugno, C-540/03, Parlamento c. Consiglio, 147, 550 4 luglio, C-212/04, Adeneler e a., 179 11 luglio, C-432/04, Commissione c. Cresson, 98, 347 13 luglio, da C-295/04 a C-298/04, Manfredi, 358, 630, 631, 632, 633 13 luglio, C-103/05, Reisch Montage, 556 18 luglio, C-519/04 P, Meca-Medina, 733 6 settembre, C-88/03, Portogallo c. Commissione, 290, 644 12 settembre, C-131/03 P, Reynolds Tobacco e a. c. Commissione, 284 12 settembre, C-145/04, Spagna c. Regno Unito, 90, 389 12 settembre, C-196/04, Cadbury Schweppes, 499, 511, 661 12 settembre, C-300/04, Eman e Sevinger, 90, 389 14 settembre, C-386/04, Centro di Musicologia di Walter Staffer, 661 19 settembre, C-506/04, Graham Wilson, 328, 517 21 settembre, C-113/04 P, Technische Unie, 629 28 settembre, C-282/04 e C-283/04, Commissione c. Paesi Bassi, 524 28 settembre, C-467/04, Gasparini e a., 565 28 settembre, C-150/05, Van Straaten, 565 3 ottobre, C-290/04, FKP Scorpio Konzertproduktionen, 508 3 ottobre, C-452/04, Fidium Finanz, 522 3 ottobre, C-475/03, Banco Popolare di Cremona, 339 3 ottobre, C-17/05, Cadman, 723 26 ottobre, C-168/05, Mostaza Claro, 358, 745, 749 26 ottobre, C-192/05, Tas-Hagen e Tas, 386 9 novembre, C-520/04, Turpeinen, 387 9 novembre, C-216/05, Commissione c. Irlanda, 784 9 novembre, C-236/05, Commissione c. Regno Unito, 270
Indice cronologico della giurisprudenza citata 9 novembre, C-243/05 P, Agraz e a. c. Commissione, 318 9 novembre, C-346/05, Chateignier, 335 14 novembre, C-513/04, Kerchaert e Morres, 659 23 novembre, C-238/05, Asnef-Equifax, 334 30 novembre, C-293/05, Commissione c. Italia, 266 5 dicembre, C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., 369, 510, 516 12 dicembre, C-380/03, Germania c. Parlamento e Consiglio, 663, 744 12 dicembre, C-374/04, Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation, 522, 525 12 dicembre, C-446/04, Test Claimants in the FII Group Litigation, 365, 521, 525 14 dicembre, C-170/05, Denkavit Internationaal e Denkavit France, 660 2007 11 gennaio, C-40/05, Kaj Lyyski, 733 18 gennaio, C-229/05 P, PKK e KNK c. Consiglio, 255, 295 25 gennaio, C-278/05, Robins, 363 25 gennaio, C-370/05, Festersen, 521 1° febbraio, C-266/05 P, Sison c. Consiglio, 440 8 febbraio, C-3/06 P, Groupe Danone c. Commissione, 307 27 febbraio, C-355/04, Segi e a. c. Consiglio, 342 1° marzo 2007, C-176/05, KVZ retec, 783 6 marzo, C-292/04, Meilicke e a., 338, 339 6 marzo, C-338/04, C-359/04 e C-360/04, Placanica, 510 13 marzo, C-524/04, Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, 365, 522 13 marzo, C-432/05, Unibet, 222, 357, 361 22 marzo, C-15/06 P, Regione Siciliana c. Commissione, 294 19 aprile, C-282/05 P, Holcim (Deutschland), 319 24 aprile, C-523/04, Commissione c. Paesi Bassi, 266, 617 3 maggio, C-303/05, Advocaten voor de Wereld, 562 10 maggio, C-508/04, Commissione c. Austria, 174 24 maggio, C-157/05, Holböck, 522, 525 7 giugno, C-80/06, Carp, 181 14 giugno, C-422/05, Commissione c. Belgio, 269 21 giugno, C-173/05, Commissione c. Italia, 450 21 giugno, C-158/06, ROM-projecten, 169, 769 28 giugno, C-467/05, Dell’Orto, 342, 569 5 luglio, C-321/05, Kofoed, 175 18 luglio, C-134/05, Commissione c. Italia, 507 18 luglio, C-503/04, Commissione c. Germania, 274
969 18 luglio, C-119/05, Lucchini, 327, 358, 359, 360, 648, 651 18 luglio, C-134/05, Commissione c. Italia, 507 18 luglio, C-212/05, Hartmann, 485 18 luglio, C-288/05, Kretzinger, 565 18 luglio, C-367/05, Kraaijenbrink, 565 11 settembre, C-76/05, Schwarz e GootjesSchwarz, 508 11 settembre, C-318/05, Commissione c. Germania, 508 11 settembre, C-431/05, Merck Genéricos, 155 13 settembre, C-307/05, Del Cerro Alonso, 717 13 settembre, C-439/05 P e C-454/05 P, Land Oberösterreich e a. c. Comm., 663, 781 4 ottobre, C-179/06, Commissione c. Italia, 262 18 ottobre, C-19/05, Commissione c. Danimarca, 262 23 ottobre, C-112/05, Commissione c. Germania, 524 23 ottobre, C-403/05, Parlamento c. Commissione, 167, 211 23 ottobre, C-440/05, Commissione c. Consiglio, 572,781, 788 23 ottobre, C-11/06 e C-12/06, Morgan e Bucher, 387 25 ottobre, C-167/06 P, Komminou e a., 226 ord. 8 novembre, C-421/06, Fratelli Martini e Cargill, 338 8 novembre, C-221/06, Stadtgemeinde Frohnleiten, 786 22 novembre, C-525/04 P, Spagna c. Lenzig, 298 22 novembre, C-260/05 P, Sniace, 298 29 novembre, C-393/05, Commissione c. Austria, 510 29 novembre, C-404/05, Commissione c. Germania, 510 6 dicembre, C-298/05, Columbus Container Service, 503 6 dicembre, C-516/06 P, Ferriere Nord Spa, 284 11 dicembre, C-291/05, Eind, 397 11 dicembre, C-438/05, International Transport Workers’ Federation e Finnish Seamen’s Union (Viking), 145, 147, 376, 717, 719 11 dicembre, C-161/06, Skoma-Lux, 120, 169, 339 13 dicembre, C-465/05, Commissione c. Italia, 507 18 dicembre, C-64/05 P, Svezia c. Commissione, 410, 440, 18 dicembre, C-77/05, Regno Unito c. Consiglio, 536 18 dicembre, C-101/05, A, 521, 525
970 18 dicembre, C-341/05, Laval un Partneri, 145, 148, 376, 716, 717, 719 18 dicembre, C-281/06, Jundt, 508 2008 17 gennaio, C-152/05, Commissione c. Germania, 268 17 gennaio, C-37/06 e C-58/06, Viamex Agrar Handel e ZVK, 439 31 gennaio, C-380/05, Centro Europa 7, 333 12 febbraio, C-2/06, Kempter, 359 26 febbraio, C-132/05, Commissione c. Germania, 171 28 febbraio, C-398/05, AGST Draht- und Biegetechnik, 877 28 febbraio, C-2/07, Abraham, 785 13 marzo, C-227/06, Commissione c. Belgio, 456 13 marzo, C-383/06 e C-385/06, Vereniging Nationaal Overlegorgaan, 769 1° aprile, C-14/06 e C-295/06, Parl. c. Comm. e Danimarca c. Comm., 308 1° aprile, C-212/06, Gouvernement de la Communauté française et Gouvernement wallon, 370, 485, 487 1° aprile, C-267/06, Maruko, 725, 726 3 aprile, C-346/06, Rüffert, 717 3 aprile, C-187/07, Endendijk, 121 8 aprile, C-337/05, Commissione c. Italia, 267 15 aprile, C-268/06, Impact, 180, 357, 717 17 aprile, C-404/06, Quelle, 747 6 maggio, C-133/06, Parlamento c. Consiglio, 62, 214, 840 ord. 14 maggio, C-109/07, Pilato, 328 15 maggio, C-442/04, Spagna c. Consiglio, 292, 310 20 maggio, C-91/05, Commissione c. Consiglio (c.d. ECOWAS), 194, 527, 881 20 maggio, C-194/06, Orange, 525 22 maggio, C-439/06, citiworks, 792 3 giugno, C-308/06, Intertanko, 157, 158, 614, 782 19 giugno, C-219/07, Nationale Raad van Dierenkwekers en Liefhebbers, 439, 781 24 giugno, C-188/07, Commune de Mesquer, 786 ord. 24 luglio, C-76/08 R, Commissione c. Malta, 270 26 giugno, da C-334/06 a C-336/06, Zerche e a., 606 1° luglio, C-39/05 P e C-52/05 P, Svezia e Turco c. Consiglio, 440 1° luglio, C-341/06 P e C-342/06 P, Chronopost e La Poste, 146 10 luglio, C-33/07, Jipa, 387, 401, 402
Indice cronologico della giurisprudenza citata 10 luglio, C-173/07, Emirates Airlines, 618 17 luglio, C-51/05 P, Commissione c. Cantina sociale di Dolianova e a., 320 17 luglio, C-206/06, Essent Netwerk Noord e a., 792 17 luglio, C-66/08, Kozlowski, 563 25 luglio, C-142/07, Ecologistas en Acción-CODA, 785 25 luglio, C-237/07, Janecek, 785 ord. 25 luglio, C-152/08, Real Sociedad de Fùtbol, 155 12 agosto, C-296/08 PPU, Santesteban Goicoechea, 331, 342, 563 3 settembre, C-402/05 P e 415/05 P, Kadi c. Cons. e Comm., 255, 278, 308, 527 9 settembre, C-120/06 P e C-121/06 P, FIAMM c. Consiglio e Commissione, 156, 319 11 settembre, C-11/07, Eckelkamp e a., 523 11 settembre, C-43/07, Arens-Sikken, 523 11 settembre, C-141/07, Commissione c. Germania, 528 2 ottobre, C-360/06, Heinrich Bauer, 522 9 ottobre, C-239/07, Sabatauskas e a., 329 9 ottobre, C-404/07, Katz, 342, 569 14 ottobre, C-353/06, Grunkin e Paul, 386 21 ottobre, C-200/07 e C-201/07, Marra, 92 6 novembre, C-155/07, Parlamento c. Consiglio, 193, 194, 849, 881 6 novembre, C-381/07, Association nationale protection des eaux et rivières, 784 6 novembre, C-405/07 P, Paesi Bassi c. Commissione, 781 13 novembre, C-46/07, Commissione c. Italia, 726 18 novembre, C-158/07, Förster, 733 18 novembre, C-214/07, Commissione c. Francia, 651 20 novembre, C-1/07, Weber, 606, 747 20 novembre, C-209/07, Beef Industry Development Society e Barry Brothers, 630 20 novembre, C-18/08, Foselev Sud-Ouest, 178, 606 27 novembre, C-418/07, Papillon, 661 1° dicembre, C-388/08 PPU, Leyman e Pustovarov, 563 9 dicembre, C-121/07, Commissione c. Francia, 783 11 dicembre, C-295/07 P, Commissione c. Département du Loiret e Scott SA, 168, 309 11 dicembre, C-297/07, Bourquain, 565 16 dicembre, C-210/06, Cartesio, 328, 330, 332, 333, 499 16 dicembre, C-524/06, Huber, 441 16 dicembre, C-73/07, Satakunnan Markkinapörssi e Satamedia, 441
Indice cronologico della giurisprudenza citata 16 dicembre, C-127/07, Arcelor Atlantique e Lorraine e a., 786 16 dicembre, C-205/07, Gysbrechts e Santurel Inter, 461 18 dicembre, C-338/06, Commissione c. Spagna, 263 22 dicembre, C-282/07, Truck Center, 659 22 dicembre, C-283/07, Commissione c. Italia, 269 22 dicembre, C-333/07, Régie Networks, 339 22 dicembre, C-491/07, Turansky, 565 22 dicembre, C-549/07, Wallentin-Hermann, 618 2009 20 gennaio, C-350/06 e C-520/06, Schultz-Hoff, 728 22 gennaio, C-377/07, STEKO Industriemontage, 521 27 gennaio, C-318/07, Persche, 523 29 gennaio, C-311/06, Consiglio nazionale degli ingegneri, 514 10 febbraio, C-110/05, Commissione c. Italia, 250, 460 10 febbraio, C-301/06, Irlanda c. Parlamento e Consiglio, 662 12 febbraio, C-45/07, Commissione c. Grecia, 40, 590, 842, 844 12 febbraio, C-67/08, Block, 521 17 febbraio, C-465/07, Elgafaji, 146, 544 19 febbraio, C-228/06, Soysal e Savatli, 501 19 febbraio, C-321/07, Schwarz, 606 5 marzo, C-250/07, Kattner, 625 5 marzo, C-388/07, Age Concerned England, 263 10 marzo, C-345/06, Heinrich, 169 10 marzo, C-169/07, Hartlauer, 510 12 marzo, C-458/07, Commissione c. Portogallo, 262 24 marzo, C-445/06, Danske Slagterier, 363 26 marzo, C-326/07, Commissione c. Italia, 522, 870 ord. 26 marzo, C-535/08, Pignataro, 403 23 aprile, C-261/07 e C-299/07, VTB-VAB e Galatea, 176 23 aprile, C-167/08, Draka NK Cables e a., 556 28 aprile, C-420/07, Apostolides, 44, 335 30 aprile, C-497/06 P, CAS Succhi di Frutta SpA 30 aprile, C-393/07 e C-9/08, Italia c. Parlamento, 279 30 aprile, C-75/08, Mellor, 785 7 maggio, C-504/07, Antrop e a., 599 7 maggio, C-553/07, Rijkeboer, 441 14 maggio, C-34/08, Azienda Agricola Disarò Antonio e a., 470
971 4 giugno, C-568/07, Commissione c. Grecia, 272 4 giugno, C-8/08, T-Mobile Netherlands, 629 4 giugno, C-22/08 e C-23/08, Vatsouras e Koupatantze, 391 4 giugno, C-243/08, Pannon, 749 11 giugno, C-521/07, Commissione c. Paesi Bassi, 525 11 giugno, C-335/08 P, Transports Schiocchet – Excursions, 320 7 luglio, C-369/07, Commissione c. Grecia, 272, 273 16 luglio, C-208/07, von Chamier-Glisczinski, 489 16 luglio, C-165/08, Commissione c. Polonia, 781 16 luglio, C-189/08, Zuid-Chemie, 556 3 settembre, C-535/06 P, Moser Baer India c. Consiglio, 877 3 settembre, C-166/07, Parlamento c. Consiglio, 193 3 settembre, C-534/07 P, Prym e Prym Consumer c. Commissione, 307 3 settembre, C-2/08, Fallimento Olimpiclub, 359, 901 8 settembre, C-411/06, Commissione c. Parlamento e Consiglio, 193, 781, 869 8 settembre, C-42/07, Liga Portuguesa, 250 10 settembre, C-100/08, Commissione c. Belgio, 439 17 settembre, C-242/06, Sahin, 482 17 settembre, C-182/08, Glaxo Wellcome, 522, 661 17 settembre, C-519/07, Commissione c. Koninklijke FrieslandCampina, 298 24 settembre, C-125/07 P, C-133/07 P, C-135 e 137/07 P, Erste Group Bank, 631 1° ottobre, C-370/07, Commissione c. Consiglio, 192, 782 1° ottobre, C-567/07, Woningstichting Sint Servatius, 523 1° ottobre, C-141/08 P, Foshan Shunde Yongjian c. Consiglio, 876 6 ottobre, C-501/06 P, C-513/06 P, C-515/06 P e C-519/06 P, GlaxoSmithKline, 622 6 ottobre, C-438/07, Commissione c. Svezia, 783 6 ottobre, C-40/08, Asturcom Telecomunicaciones, 358, 359, 749 6 ottobre, C-123/08, Wolzenburg, 563 15 ottobre, C-263/08, Djurgården-Lilla Värtans Miljöskyddsförening, 785 22 ottobre, C-301/08, Bogiatzi, 618 12 novembre, C-199/07, Commissione c. Grecia, 265 12 novembre, C-154/08, Commissione c. Spagna, 263
972 17 novembre, C-169/08, Presidente del Consiglio dei Ministri, 329 19 novembre, C-402/07 e C-432/07, Sturgeon, 618 19 novembre, C-540/07, Commissione c. Italia, 660 10 dicembre, C-205/08, Umweltanwalt von Kärnten, 785 15 dicembre, C-239/06, Commissione c. Italia, 440 15 dicembre, C-284/05, Commissione c. Finlandia, 446 23 dicembre, C-305/08, CoNISMa, 328 2010 14 gennaio, C-112/09 P, SGAE c. Commissione, 303 21 gennaio, C-311/08, SGI, 391 26 gennaio, C-362/08 P, Internationaler Hilfsfonds c. Commissione, 284 11 febbraio, C-541/08, Fokus Invest, 525 25 febbraio, C-172/08, Pontina Ambiente, 786 25 febbraio, C-386/08, Brita, 154 2 marzo, C-135/08, Rottmann, 382, 384, 385, 2 marzo, C-175/08, C-176/08, C-178/08 e C179/08, Salahadin Abdulla e a., 544 4 marzo, C-38/06, Commissione c. Portogallo, 424 4 marzo, C-241/08, Commissione c. Francia, 784 4 marzo, C-297/08, Commissione c. Italia, 262, 263, 269, 786 4 marzo, C-578/08, Chakroun, 400, 550 9 marzo, C-518/07, Commissione c. Germania, 441 9 marzo, C-378/08, ERG e a., 786, 787 16 marzo, C-325/08, Olympique Lyonnais, 482, 733 13 aprile, C-73/08, Bressol e a., 338, 392 20 aprile, C-246/07, Commissione c. Svezia, 261, 781, 782, 833 29 aprile, C-446/08, Solgar, 784 20 maggio, C-160/09, Ioannis Katsivardas – Nikolaos Tsitsikas, 155 1° giugno, C-570/07 e C-571/07, Blanco Pérez e Chao Gómez, 326, 369, 494 3 giugno, C-484/08, Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid, 378 3 giugno, C-487/08, Commissione c. Spagna, 270 8 giugno 2010, C-58/08, Vodafone e a., 432, 433, 662, 663 15 giugno, C-211/08, Commissione c. Spagna, 741, 744 17 giugno, C-31/09, Bolbol, 544 22 giugno, C-188/10 e C-189/10, Melki e Abdeli, 332, 538
Indice cronologico della giurisprudenza citata C-28/08 P, Bavarian Lager, 441 1° luglio, C-233/09, Dijkman, 521, 659 8 luglio, C-543/08, Commissione c. Portogallo, 524 8 luglio, C-343/09, Afton Chemical, 310, 784 2 settembre, C-290/07 P, Commissione c. Scott, 646 8 settembre, C-409/06, Winner Wetten, 142, 329, 494, 900 14 settembre, C-550/07 P, Akzo Nobel c. Commissione e a., 637 15 settembre, C-271/08, Commissione c. Germania, 720 21 settembre, C-514/07 P, C-528/07 P e C552/07 P, Svezia e a. c. API e Commissione, 440 5 ottobre, C-173/09, Elchinov, 337 5 ottobre, C-400/10 PPU, McB., 149 7 ottobre, C-515/08, Santos Palhota, 507 7 ottobre, C-162/09, Lassal, 396 12 ottobre, C-45/09, Rosenbladt, 720 14 ottobre, C-535/07, Commissione c. Austria, 288 21 ottobre, C-81/09, Idryma Typou, 522 21 ottobre, C-205/09, Eredics e Sápi, 569 21 ottobre, C-306/09, B., 563 26 ottobre, C-482/08, Regno Unito c. Consiglio, 536 28 ottobre, C-350/08, Commissione c. Lituania, 44, 269 28 ottobre, C-72/09, Établissements Rimbaud, 525 9 novembre, C-540/08, Mediaprint Zeitungs-und Zeitschriftenverlag, 747 9 novembre, C-57/09 e C-101/09, B e D, 544 9 novembre, C-92/09 e C-93/09, Volker und Markus Schecke e Eifert, 290, 339, 441 ord. 11 novembre, C-20/10, Vino, 148 16 novembre, C-261/09, Mantello, 563, 565 16 novembre, C-73/10 P, Internazionale Fruchtimport c. Commissione, 303 ord. 16 novembre, C-76/10, Pohotovosť, 749 18 novembre, C-250/09 e C-268/09, Georgiev, 178 18 novembre, C-356/09, Kleist, 726 24 novembre, C-40/10, Commissione c. Consiglio, 66 22 dicembre, C-77/09, Gowan Comércio Internacional, 784 22 dicembre, C-118/09, Koller, 328, 514 22 dicembre, C-245/09, Omalet, 370 22 dicembre, C-524/09, Ville de Lyon, 785 22 dicembre, C-91/10 PPU, Aguirre Zarraga, 556
Indice cronologico della giurisprudenza citata 2011 20 gennaio, C-155/09, Commissione c. Grecia, 392 25 gennaio, C-382/08, Neukirchinger, 250, 393, 593 27 gennaio, C-490/09, Commissione c. Lussemburgo, 500, 744 3 febbraio, C-359/09, Ebert, 517 10 febbraio, C-25/10, Missionswerk Werner Heukelbach, 523 17 febbraio, C-52/09, TeliaSonera Sverige, 614, 622, 623 1° marzo, C-236/09, Association belge des Consommateurs Test-Achats e a., 290 3 marzo, C-437/09, AG2R Prévoyance, 625 parere 8 marzo, 1/09, 222, 228, 323, 349, 666, 667 8 marzo, C-34/09, Ruiz Zambrano, 387 8 marzo, C-240/09, Lesoochranárske zoskupenie, 157, 327, 782, 785 17 marzo, C-275/09, Brussels Hoofdstedelijk Gewest e a., 785 17 marzo, C-128/10 e C-129/10, Naftiliaki Etaireia Thasou, 612 29 marzo, C-565/08, Commissione c. Italia, 510, 516 31 marzo, C-450/09, Schröder, 521, 523, 659, 660 28 aprile, C-61/11 PPU, El Dridi, 552 5 maggio, C-384/09, Prunus, 525 5 maggio, C-434/09, McCarthy, 386, 395, 538 10 maggio, C-147/08, Römer, 178, 724, 726 12 maggio, C-115/09, Bund für Umwelt und Naturschutz Deutschland, 785 12 maggio, C-176/09, Lussemburgo c. Parlamento e Consiglio, 427, 432, 433 12 maggio, C-391/09, Runevič-Vardyn e Wardyn, 119 12 maggio, C-294/10, Eglītis e Ratnieks, 618 19 maggio, C-184/10, Grasser, 606 24 maggio, C-47/08, Commissione c. Belgio, 510 24 maggio, C-50/08, Commissione c. Francia, 510 24 maggio, C-51/08, Commissione c. Lussemburgo, 510 24 maggio, C-53/08, Commissione c. Germania, 510 24 maggio, C-61/08, Commissione c. Grecia, 510 26 maggio, da C-165/09 a C-167/09, Stichting Natuur en Milieu e a., 785 26 maggio, C-538/09, Commissione c. Belgio, 784 14 giugno, C-196/09, Miles, 328 14 giugno, C-360/09, Pfleiderer, 633, 639, 16 giugno, C-65/09 e C-87/09, Gebr. Weber, 747 ord. 22 giugno, C-161/11, Vino, 148
973 30 giugno, C-262/09, Meilicke e a., 521, 659 21 luglio, C-506/08 P, Svezia c. My Travel e Commissione, 440 21 luglio, C-503/09, Stewart, 386 21 luglio, C-2/10, Azienda Agro-Zootecnica Franchini e Eolica di Altamura, 781 21 luglio, C-14/10, Nickel Institute, 784 21 luglio, C-15/10, Etimine, 784 21 luglio, C-186/10, Oguz, 501 28 luglio, C-69/10, Samba Diouf, 545 28 luglio, C-71/10, Office of Communications, 785 28 luglio, C-403/10 P, Mediaset c. Commissione, 644 6 settembre, C-442/09, Bablok e a., 783, 784 6 settembre, C-163/10, Patriciello, 92 8 settembre, da C-58/10 a C-68/10, Monsanto e a., 783 8 settembre, C-120/10, European Air Transport, 619, 786 8 settembre, C-297/10 e C-298/10, Hennigs e Mai, 720 13 settembre, C-447/09, Prigge e a., 720 15 settembre, C-310/09, Accor, 223, 522 15 settembre, C-483/09, Gueye, 569 15 settembre, C-1/10, Salmerón Sánchez, 569 15 settembre, C-53/10, Franz Mücksch, 784 15 settembre, C-155/10, Williams e a., 728 22 settembre, C-295/10, Valčiukienė e a., 785 13 ottobre, C-83/10, Sousa Rodriguez e a., 618 13 ottobre, C-463/10 P e C-475/10 P, Deutsche Post c. Commissione, 284 18 ottobre, da C-128/09 a C-131/09, C-134/09 e C-135/09, Boxus e a., 785 18 ottobre, C-406/09, Realchemie Nederland, 556 20 ottobre, C-369/09, Interedil, 336 25 ottobre, C-509/09 e C-161/10, eDate Advertising, 556 ord. 26 ottobre, C-52/11 P, Fernando Marcelino c. Parlamento e Commissione, 314 27 ottobre, C-255/09, Commissione c. Portogallo, 744 10 novembre, C-212/09, Commissione c. Portogallo, 268, 524 15 novembre, C-106/09, Government of Gibraltar, 647 15 novembre, C-256/11, Dereci e a., 149, 387 17 novembre, C-496/09, Commissione c. Italia, 274, 622 17 novembre, C-412/10, Homawoo, 558 22 novembre, C-214/10, KHS, 729 24 novembre, C-379/10, Commissione c. Italia, 364
974 24 novembre, C-468/10 e C-469/10, ASNEF e FECMD, 441 29 novembre, C-371/10, National Grid Indus, 499 6 dicembre, C-329/11, Achghubabian, 552 8 dicembre, C-389/10 P, KME Germany e a. c. Commissione, 307 21 dicembre, C-27/09 P, Francia c. People’s Mojahedin Organization of Iran, 526 21 dicembre, C-28/09, Commissione c. Austria, 608, 783 21 dicembre, C-242/10, ENEL, 792 21 dicembre, C-316/10, Danske Svineproducenter, 331 21 dicembre, C-366/10, Air Transport Association of America e a., 619, 782, 812 21 dicembre, C-411/10 e C-493/10, N.S., 151, 547 21 dicembre, C-424/10 e C-425/10, Ziolkowski e Szeja, 44, 399 21 dicembre, C-507/10, X, 569 2012 24 gennaio, C-282/10, Dominguez, 179, 363, 729 14 febbraio, C-204/09, Flachglas Torgau, 786 16 febbraio, C-72/10 e C-77/10, Costa e Cifone, 510 16 febbraio, C-182/10, Solvay, 786 28 febbraio, C-41/11, Inter-Environnement Wallonie e Terre wallonne, 331, 358, 608, 785 1° marzo, C-467/10, Akyüz, 606 ord. 1° marzo, C-208/11 P, Internationaler Hilfsfonds c. Commissione, 285 13 marzo, C-380/09 P, Melli Bank c. Consiglio, 527 13 marzo, C-376/10 P, Tay Za c. Consiglio, 527, 821 15 marzo, C-135/10, SCF Consorzio fonografici, 157 15 marzo, C-292/10, G, 557 15 marzo, C-340/10, Commissione c. Cipro, 761 22 marzo, C-567/10, Inter-Environnement Bruxelles, 785 6 aprile, C-419/10, Hofmann, 606 10 aprile, C-83/12 PPU, Vo, 541 19 aprile, C-443/09, Grillo Star Fallimento, 347 19 aprile, C-213/10, F-Tex, 557 24 aprile, C-571/10, Kamberaj, 550 26 aprile, C-456/10, ANETT, 464 26 aprile, C-472/10, Invitel, 750 26 aprile, C-508/10, Commissione c. Paesi Bassi, 549 26 aprile, da C-578/10 a C-580/10, van Putten, 522 26 aprile, C-92/12 PPU, Health Service Executive, 556
Indice cronologico della giurisprudenza citata 10 maggio, da C-338/11 a C-347/11, Santander Asset Management, 660 24 maggio, C-97/11, Amia, 179, 786 5 giugno, C-124/10, Commissione c. EDF, 646 5 giugno, C-489/10, Bonda, 565 7 giugno, C-615/10, Insinööritoimisto InsTiimi, 446, 448 7 giugno, C-106/11, Bakker, 44 14 giugno, C-355/11, Brouwer, 439 14 giugno, C-542/09, Commissione c. Paesi Bassi, 393 14 giugno, C-606/10, ANAFE, 538 14 giugno, C-618/10, Banco Español de Crédito, 358 21 giugno, C-84/11, Susisalo e a., 326 26 giugno, C-335/09 P, Polonia c. Commissione, 302 28 giugno, C-172/11, Erny, 393, 482, 720 28 giugno, C-192/12 PPU, West, 563 3 luglio, C-128/11, UsedSoft, 661 5 luglio, C-318/10, SIAT, 511 5 luglio, C-527/10, ERSTE Bank Hungary, 557 12 luglio, C-378/10, VALE, 499 12 luglio, C-602/10, SC Volksbank România, 522 12 luglio, C-79/11, Giovanardi e a., 569 12 luglio, C-171/11, Fra.bo, 456, 460 19 luglio, C-130/10, Parlamento c. Consiglio, 197, 255, 527, 821, 822, 901 19 luglio, C-628/10 P e C-14/11 P, Alliance One c. Commissione e Commissione, 624 19 luglio, C-154/11, Mahamandia, 154 19 luglio, C-112/11, ebookers.com Deutschland, 616 19 luglio, C-470/11, Garkalns, 494 19 luglio, C-278/12 PPU, Adil, 538 21 luglio, C-404/10 P, Éditions Odile Jacob, 440 21 luglio, C-447/10 P, Commissione c. Agrofert, 440 5 settembre, C-355/10, Parlamento c. Consiglio, 211, 212, 540 5 settembre, C-42/11, Lopes Da Silva Jorge, 563 5 settembre, C-71/11 e C-99/11, Y e Z, 544 6 settembre, C-38/10, Commissione c. Portogallo, 269 6 settembre, C-262/10, Döhler Neuenkirchen, 250 6 settembre, C-490/10, Parlamento c. Commissione, 192, 690,781, 791 6 settembre, C-170/11, Lippens e a., 558 6 settembre, C-380/11, DI. VI. Finanziaria di Diego della Valle & C, 510 11 settembre, C-43/10, Nomarchiaki Aftodioikisi Aitoloakarnanias, 786 27 settembre, C-137/11, Partena, 335
Indice cronologico della giurisprudenza citata 27 settembre, C-179/11, Cimade e GISTI, 547 4 ottobre, C-22/11, Finnair, 618 4 ottobre, C-249/11, Byankov, 374, 398 4 ottobre, C-321/11, Rodríguez Cachafeiro e Martínez-Reboredo Varela-Villamor, 618 16 ottobre, C-364/10, Ungheria c. Slovacchia, 154, 159, 160, 276 16 ottobre, C-614/10, Commissione c. Austria, 441 18 ottobre, C-385/10, Elenca, 459 18 ottobre, C-502/10, Singh, 549 23 ottobre, C-581/10 e C-629/10, Nelson e a., 339, 618 25 ottobre, C-557/10, Commissione c. Portogallo, 603 6 novembre, C-199/11, Otis, 633 8 novembre, C-528/10, Commissione c. Grecia, 603 8 novembre, C-268/11, Gülbahce, 335 8 novembre, C-469/11 P, Evropaïki Dynamiki c. Commissione, 320 13 novembre, C-35/11, Test Claimants in the FII Group Litigation, 500, 522 15 novembre, C-539/10 P e C-550/10 P, Al-Aqsa c. Cons. e Paesi Bassi c. Al-Aqsa, 527 22 novembre, C-116/11, Bank Handlowy e Adamiak, 557 22 novembre, C-136/11, Westbahn Management, 599 22 novembre, C-277/11, M., 544 22 novembre, C-385/11, Elbal Moreno, 727 27 novembre, C-370/12, Pringle, 26, 138, 166, 351, 418, 690, 691, 698, 699, 701 27 novembre, C-566/10 P, Italia c. Commissione, 117, 122, 6 dicembre, C-124/11, C-125/11 e C-143/11, Dittrich, 724 6 dicembre, C-356/11 e C-357/11, O. e S., 386, 387, 550 6 dicembre, C-430/11, Sagor, 552 6 dicembre, C-441/11 P, Commissione c. Verhuizingen Coppens, 309 9 dicembre, C-364/11, Abed El Karem El Kott e a., 544 11 dicembre, C-610/10, Commissione c. Spagna, 272 13 dicembre, C-215/11, Szyrocka, 557 13 dicembre, C-560/11, Debiasi, 334 19 dicembre, C-68/11, Commissione c. Italia, 262, 263, 19 dicembre, C-325/11, Alder e Alder, 557 19 dicembre, C-374/11, Commissione c. Irlanda, 272
975 2013 15 gennaio, C-416/10, Križan e a., 330, 361, 785 17 gennaio, C-23/12, Zakaria, 538 29 gennaio, C-396/11, Radu, 563 31 gennaio, C-12/11, McDonagh, 618 31 gennaio, C-26/11, Belgische Petroleum Unie e a., 781 31 gennaio, C-175/11, D. e A., 545 21 febbraio, C-332/11, ProRail, 558 21 febbraio, C-111/12, Ordine degli ingegneri di Verona e Provincia, 326, 370 26 febbraio, C-617/10, Åkerberg Fransson, 148, 149, 565 26 febbraio, C-11/11, Folkerts, 618 26 febbraio, C-399/11, Melloni, 148, 150, 329, 563, 919 28 febbraio, C-460/09 P, Inalca e Cremonini c. Commissione, 320 28 febbraio, C-473/10, C-483/10, C-555/10 e C556/10, Commissione c. Ungheria, Spagna, Austria e Germania, 603 28 febbraio, C-427/11, Kenny e a., 724 28 febbraio, C-544/11, Petersen e Petersen, 483, 496 28 febbraio, C-1/12, Ordem dos Técnicos Oficiais de Contas, 624 14 marzo, C-32/11, Allianz Hungária Biztosító e a., 326 14 marzo, C-415/11, Aziz, 358, 749 21 marzo, C-92/11, RWE Vertrieb, 749 11 aprile, C-260/11, Edwards, 786 11 aprile, C-636/11, Berger, 746 16 aprile, C-202/11, Las, 119 16 aprile, C-274/11 e C-295/11, Spagna e Italia c. Consiglio, 53, 54, 424, 667 18 aprile, C-625/10, Commissione c. Francia, 603 18 aprile, C-103/11 P, Commissione c. Systran e Systran Luxembourg, 316, 318 25 aprile, C-55/12, Commissione c. Irlanda, 608 8 maggio, C-197/11 e C-203/11, Libert, 326 30 maggio, C-512/10, Commissione c. Polonia, 603 30 maggio, C-534/11, Arslan, 552 30 maggio, C-168/13 PPU, F, 329, 563 6 giugno, C-536/11, Donau Chemie, 624, 633, 639 13 giugno, C-144/12, Goldbet Sportwetten, 557 13 giugno, C-193/12, Commissione c. Francia, 608 20 giugno, C-7/12, Riežniece, 727 27 giugno, C-575/11, Nasiopoulos, 498 27 giugno, C-71/12, Vodafone Malta e Mobisle Communications, 329 ord. 11 luglio, C-496/09 INT, Italia c. Commissione, 274
976 11 luglio, C-412/11, C-545/10 e C-627/10, Comm. c. Luss., Rep. ceca e Slovenia, 603 18 luglio, C-136/12, Consiglio Nazionale dei Geologi, 331 18 luglio, C-265/12, Citroën Belux, 326 18 luglio, C-584/10 P, C-593/10 P e C-595/10 P, Commissione e a. c. Kadi, 527 18 luglio, C-414/11, Daiichi Sankyo e SanofiAventis Deutschland, 868, 871 18 luglio, C-523/11 e C-585/11, Prinz, 387 10 settembre, C-383/13 PPU, G. e R., 358, 552 12 settembre, C-475/11, Konstantinides, 508 12 settembre, C-660/11 e C-8/12, Biasci, 494 12 settembre, C-64/12, Schlecker, 557 17 settembre, C-77/11, Consiglio c. Parlamento, 127 19 settembre, C-216/12 e C-217/12, Hliddal, 725 19 settembre, C-251/12, van Buggenhout e van de Mierop (faillite Grontimmo), 557 19 settembre, C-297/12, Filev e Osmani, 552 24 settembre, C-221/11, Demirkan, 482, 501 26 settembre, C-431/11, Regno Unito c. Consiglio, 536 26 settembre, C-546/11, Dansk Jurist- og Økonomforbund, 725 26 settembre, Polyelectrolyte Producers Group GEIE – PPG, 302 3 ottobre, C-369/11, Commissione c. Italia, 603 3 ottobre, C-583/11 P, Inuit c. Parlamento e Consiglio, 221, 222, 223, 296, 300, 323, 3 ottobre, C-32/12, Duarte Hueros, 358, 747 10 ottobre, C-86/12, Alokpa e a., 388 17 ottobre, C-181/12, Welte, 521, 524, 661 17 ottobre, C-184/12, UNAMAR, 345, 557 17 ottobre, C-203/12, Billerud Karlsborg e Billerud Skärblacka, 787 17 ottobre, C-291/12, Schwarz, 150, 541 22 ottobre, da C-105/12 a C-107/12, Essent e a., 528 22 ottobre, C-276/12, Sabou, 658 22 ottobre, C-137/12, Commissione c. Consiglio, 193 24 ottobre, C-77/12 P, Deutsche Post c. Commissione, 284 24 ottobre, C-214/12 P, C-215/12 P e C-223/12 P, Land Burgenland c. Comm., 646 24 ottobre, C-220/12, Thiele Meneses, 387, 733 24 ottobre, C-275/12, Elrick, 387, 733 26 ottobre, C-539/11, Ottica New Line, 744 7 novembre, C-313/12, Romeo, 326, 333, 7 novembre, C-322/11, K, 510, 521 14 novembre, C-4/11, Puid, 547
Indice cronologico della giurisprudenza citata 14 novembre, C-60/12, Baláž, 562, 563, 564 19 novembre, C-49/13, MF 7, 328 19 novembre, C-66/12, Consiglio c. Commissione, 315 19 novembre, C-196/12, Consiglio c. Commissione, 315 21 novembre, C-284/12, Deutsche Lufthansa, 649 26 novembre, C-40/12 P, Gascogne Sack Deutschland c. Comm., 290, 324, 337, 318, 320 26 novembre, C-50/12 P, Kendrion c. Commissione, 290, 324, 337, 318, 320 26 novembre, C-58/12 P, Groupe Gascogne c. Commissione, 290, 324, 337, 318, 320 4 dicembre, C-111/10, C-117/10, C-118/10 e C121/10, Commissione c. Consiglio, 292, 649 5 dicembre, C-159/12 a C-161/12, Venturini e a., 326 5 dicembre, C-446/11 P, Commissione c. Edison, 638 5 dicembre, C-447/11 P, Caffaro c. Commissione, 638 5 dicembre, C-448/11 P, SNIA c. Commissione, 638 5 dicembre, C-449/11 P, Solvay Solexis c. Commissione, 629, 638 5 dicembre, C-455/11 P, Solvay c. Commission, 638 5 dicembre, C-508/12, Vapenik, 557 10 dicembre, C-394/12, Abdullhai, 547 12 dicembre, C-292/12, Ragn-Sells, 786 12 dicembre, C-327/12, Soa Nazionale Costruttori, 624, 626, 627 14 dicembre, C-121/10, Commissione c. Consiglio, 292 19 dicembre, C-84/12, Koushkaki, 540, 541 19 dicembre, C-262/12, Association Vent De Colère e a., 792 19 dicembre, C-274/12 P, Telefónica c. Commissione, 221, 296, 300, 301 19 dicembre, C-279/12, Fish Legal e Shirley, 786 2014 15 gennaio, C-292/11 P, Commissione c. Portogallo, 274 16 gennaio, C-226/12, Constructora Principado, 749 16 gennaio, C481/12, Juvelta, 459 22 gennaio, C-270/12, Regno Unito c. Parlamento e Consiglio, 114, 703 ord. 30 gennaio, C-372/13, e C-462/13, WarnerLambert e Pfizer, 872 5 febbraio, C-385/12, Hervis Sport- és Divatkereskedelmi, 659
Indice cronologico della giurisprudenza citata 13 febbraio, C-152/12, Commissione c. Bulgaria, 603 13 febbraio, C-69/13, Mediaset, 624 24 febbraio, C-470/12, Pohotovost’, 334 27 febbraio, C-132/12 P, Stichting Woonpunt e a. c. Commissione, 297, 298 27 febbraio, C-133/12, Stichting Woonlinie e a. c. Commissione, 297, 298 27 febbraio, C-365/12 P, Commissione c. Enbw Energie Baden-Württemberg, 639 27 febbraio, C-110/13, HaTeFo, 758 12 marzo, C-457/12, S. e G., 397 13 marzo, C-52/13, Posteshop SpA, 747 14 marzo, C-512/12, Octopharma France, 744 18 marzo, C-628/11, International Jet Management, 593, 615 18 marzo, C-167/12, D., 726 18 marzo, C-363/12, Z., 723 18 marzo, C-427/12, Commissione c. Parlamento e Consiglio, 210, 309 27 marzo, C-224/12 P, Commissione c. Paesi Bassi e a., 648 27 marzo, C-17/13, Alpina River Cruises e Nicko Tours, 612 1° aprile, C-80/12, Felixstowe Dock and Railway Company, 500 ord. 4 aprile, C-27/13, Flughafen Lübeck, 649 8 aprile, C-288/12, Commissione c. Ungheria, 441 8 aprile, C-293/12 e C-594/12, Digital Rights Ireland e a., 290, 329, 440 30 aprile, C-209/13, Regno Unito c. Consiglio, 53, 657 6 maggio, C-43/12, Commissione c. Parlamento e Consiglio, 308, 580 8 maggio, C-604/12, H.N., 544 13 maggio, C-131/12, Google Spain e Google, 441 22 maggio, C-539/12, Lock, 728 27 maggio, C-129/14 PPU, Spasic, 565 5 giugno, C-557/12, Kone e a., 633 5 giugno, C-198/12, Commissione c. Bulgaria, 793 11 giugno, C-377/12, Commissione c. Consiglio, 881 12 giugno, C-377/13, Ascendi Beiras Litoral, 328 12 giugno, C-578/11 P, Deltafina c. Commissione, 318 19 giugno, C-507/12, Saint Prix, 484 24 giugno, C-658/11, Parlamento c. Consiglio, 288, 835, 839, 848 1° luglio, C-573/12, Alands Vindkraft, 790 10 luglio, C-295/12 P, Telefónica e Telefónica de España c. Commissione, 306 17 luglio, C-533/12, Commissione c. DEI, 625 3 luglio, C-165/13, Gross, 335 10 luglio, C-213/13, Impresa Pizzarotti, 359, 901
977 17 luglio, C-141/12, YS e a., 441 17 luglio, C-58/13 e C-59/13, Torresi, 328, 514, 517 17 luglio, C-173/13, Leone, 725 17 luglio, C-338/13, Noorzia, 550 17 luglio, C-427/13, Emmeci, 328 17 luglio, C-469/13, Tahrir, 549 4 settembre, C-114/12, Commissione c. Consiglio, 426 4 settembre, C-474/12, Schiebel Aircraft, 391, 446 4 settembre, C‑184/13 a C‑187/13, C‑194/13, C‑195/13 e C‑208/13, API e a., 601 4 settembre, C-192/13 P, Spagna c. Commissione, 769 4 settembre, C-211/13, Commissione c. Germania, 521, 523 11 settembre, C-91/13, Essent Energie Productie, 482, 501, 11 settembre, C-527/2012, Commissione c. Germania, 263 7 ottobre, C-399/12, Germania c. Consiglio, 844 Parere 14 ottobre, 1/13, 832, 835 15 ottobre, C-65/13, Parlamento c. Commissione, 214 19 ottobre, C-148/15, Deutsche Parkinson Vereinigung, 460 11 novembre, C-333/13, Dano, 400, 550 19 novembre, C-404/13, ClientEarth, 784 26 novembre, C-165/12, Commissione c. Consiglio, 835 26 novembre, C-66/13, Green Network, 782, 832 26 novembre, C-418/13, Napolitano e a., 329 2 dicembre, C-196/13, Commissione c. Italia, 274, 945 2 dicembre, C-378/13, Commissione c. Grecia, 274 9 dicembre, C-261/13 P, Schönberger c. Parlamento, 227 11 dicembre, C-678/11, Commissione c. Spagna, 494 parere 18 dicembre, 2/13, 38, 40, 41, 152, 228, 323, 324, 325, 349, 554 18 dicembre, C-81/13, Regno Unito c. Consiglio, 288, 536 18 dicembre, C-640/13, Commissione c. Regno Unito, 261 2015 9 gennaio, C-498/14 PPU, Bradbrooke, 556 13 gennaio, C-404/12 e C-405/12, Consiglio e Commissione c. Stichting Natuur en Milieu e Pesticide Action Network Europe, 156 21 gennaio, C-529/13, Felber, 723, 725
978 22 gennaio, C-463/13, Stanley International Betting, 494 5 febbraio, C-451/14, Petrus, 327 Parere 14 febbraio, 3/15, 869 24 febbraio, C-559/13, Grünewald, 521 26 febbraio, C-359/13, Martens, 387 4 marzo, C-534/13, Fipa Group e a., 781, 783, 786 11 marzo, C-464/13 e C-465/13, Oberto O’ Leary, 327 19 marzo, C-286/13 P, Dole Food e Dole Fresh Fruit Europe c. Commissione, 629 19 marzo, C-510/13, E.ON Földgáz Trade, 357, 793 19 marzo, C-672/13, OTP Bank, 644 14 aprile, C-409/13, Consiglio c. Commissione, 199, 884 28 aprile, C-28/12, Commissione c. Consiglio, 840 28 aprile, C-456/13, T & L Sugars, 300, 301, 29 aprile, C-528/13, Léger, 743 5 maggio, C-146/13, Spagna c. Parlamento e Consiglio, 292, 668 5 maggio, C-147/13, Spagna c. Consiglio, 668 4 giugno, C-497/13, Faber, 747 4 giugno, C-5/14, Kernkraftwerke Lippe-Ems, 334 4 giugno, C-285/14, Brasserie Bouquet 11 giugno, C-98/14, Berlington Hungary e a., 781 16 giugno, C-62/14, Gauweiler, 323, 326, 337, 705, 918 16 giugno, C-593/13, Rina Services, 510 16 giugno, C-237/15 PPU, Lanigan, 563 18 giugno, C-508/13, Estonia c. Parlamento e Consiglio, 433 18 giugno, C-612/13 P, ClientEarth, 440 21 maggio, C-560/13, Wagner-Raith, 523 21 maggio, C-339/14, Wittmann, 606 9 luglio, C-229/14, Balkaya, 483 16 luglio, C-425/13, Commissione c. Consiglio, 837 16 luglio, C-681/13, Diageo Brands, 363 16 luglio, C-88/14, Commissione c. Parlamento e Consiglio, 209, 210 2 settembre, C-309/14, CGIL e INCA, 549 8 settembre, C-105/14, Taricco e a., 131, 323, 900, 901, 913 9 settembre, C-160/14, Ferreira da Silva e Brito, 331, 366 9 settembre, C-72/14 e C-197/14, X e van Dijk, 331 10 settembre, C-270/13, Haralambidis, 483, 488 10 settembre, C-151/14, Commissione c. Lettonia, 510 10 settembre, C-363/14, Parlamento c. Consiglio, 188
Indice cronologico della giurisprudenza citata 15 settembre, C-67/14, Alimanovic, 550 6 ottobre, C-61/14, Orizzonte Salute, 358 6 ottobre, C-71/14, East Sussex County Council, 358, 786 6 ottobre, C-69/14, Târșia, 338, 359, 6 ottobre, C-298/14, Brouillard, 488, 498 6 ottobre, C-362/14, Schrems, 212, 441 6 ottobre, C-203/14, Consorci sanitari del Maresme, 328 15 ottobre, C-216/14, Covaci, 568 19 ottobre, C-582/14, Breyer, 441 22 ottobre, C-185/14, “Easy Pay” e “Finance engineering”, 627 11 novembre, C-505/14, Klausner Holz Niedersachsen, 359 12 novembre, C-439/13, Elitaliana c. Eulex Kosovo, 255 12 novembre, C-121/14, Regno Unito c. Parlamento e Consiglio, 652, 752, 755 12 novembre, C-198/14, Valev Visnapuu, 460 19 novembre, C-455/15 PPU, P 10 dicembre, C-553/14 P, Kyocera Mita Europe c. Commissione, 300 10 dicembre, C-552/14 P, Canon Europe c. Commissione, 300 23 dicembre, C-293/14, Hiebler, 510 23 dicembre, C-333/14, The Scotch Whisky Association, 460, 470 23 dicembre, C-595/14, Parlamento c. Consiglio, 288 2016 20 gennaio, C-373/14, Toshiba Corporation c. Commissione, 628 28 gennaio, C-375/14, Laezza, 494 15 febbraio, C-601/15 PPU, J.N., 547, 552 25 febbraio, C-299/14, Garcia Nieto, 550 25 febbraio, C-520/15, Aiudapds, 327 1° marzo, C-440/14 P, National Iranian Oil Company c. Consiglio, 207 1° marzo, C-433/14, Alo, 54 8 marzo, C-431/14 P, Grecia c. Commissione, 648 10 marzo, C-94/14, Flight refund, 557 17 marzo, C-286/14, Parlamento c. Commissione, 209, 212 8 marzo, C-431/14 P, Grecia c. Commissione, 185 5 aprile, C-689/13, PFE, 332 5 aprile, C-404/15 e C-659/15 PPU, Aranyosi e Căldăraru, 563 12 aprile, C-561/14, Genc, 482, 501, 17 aprile, C-483/14, KA Finanz, 557 19 aprile, C-441/14, Dansk Industri, 323, 329, 21 aprile, C-558/14, Mimoun Khachab, 550
Indice cronologico della giurisprudenza citata 4 maggio, C-358/14, Polonia c. Parlamento e Consiglio, 431, 432, 4 maggio, C-477/14, Pillbox, 432 4 maggio, C-547/14, Philip Morris, 432.744 24 maggio, C-396/14, MT Højgaard e Züblin, 328 24 maggio, C-108/16 PPU, Dworzecki, 563 26 maggio, C-48/15, NN (L), 660 2 giugno, C-438/14, Bogendorff von Wolffersdorff, 386 2 giugno, C-122/15, C. 7 giugno, C-47/15, Affum, 552 7 giugno, C-63/15, Ghezelbash, 545 8 giugno, C-479/14, Hünnebeck, 521 9 giugno, C-586/14, Budișan, 338, 339 9 giugno, C-25/15, Balogh, 566, 568 9 giugno, C-.78/16, Pesce e a., 784 14 giugno, C-263/14, Parlamento c. Consiglio, 288, 308, 839 14 giugno, C-361/14, Commissione c. McBride e a., 315 16 giugno, 169/15, Lesar, 335 16 giugno, C-351/14, Rodríguez Sánchez, 326 22 giugno, C-540/14 P, DK Recycling und Roheisen c. Commissione, 787 29 giugno, C-468/15, Kossowski, 565 30 giugno, C-178/15, Sobczyszyn, 728, 729 13 luglio, C-133/16, Ferenschild, 747 14 luglio, C-335/15, Ornano, 723, 726 19 luglio, C-526/14, Kotnik, 518, 700 5 luglio, C-614/14, Ognyanov, 324, 332, 337, 898 19 luglio, C-526/14, Kotnik e a., 185 19 luglio, C-455/14, H. c. Consiglio, 255, 346 28 luglio, C-660/13, Consiglio c. Commissione, 841 28 luglio, C-168/15, Tomášová, 262, 363, 366, 749 28 luglio, C-191/15, Verein für Konsumenteninformation, 750 6 settembre, C-182/15, Petruhhin, 563 7 settembre, C-101/15 P, Pilkington Group e a. c. Commissione, 307 7 settembre, C-121/15, ANODE, 792 8 settembre, C-225/15, Politanò, 334, 494 13 settembre, C-304/14, CS, 388 13 settembre, C-164/14, Rendón Marín, 388 20 settembre, C-8/15 a C-10/15, Ledra, 700 20 settembre, C-105/15 a 109/15, Mallis e a. c. Commissione e BCE, 284 21 settembre, C-221/15, Etablissements Fr. Colruyt, 460 22 settembre, C-525/14, Commissione c. Repubblica ceca, 449 11 ottobre, C-601/14, Commissione c. Italia, 309
979 6 ottobre, C-318/15, Tecnoedi, 334, 446 12 ottobre, C-92/15, Mathys 13 ottobre, C-303/15, M. e S., 335 18 ottobre, C-135/15, Nikiforidis, 557 26 ottobre, C-211/15 P, Orange, 644 27 ottobre, C-114/15, Audace, 333 27 ottobre, C-290/15, D’Oultremont e a., 755 27 ottobre, C-456/14, Wieland e Rothwangl, 44 8 novembre, C-41/15, Dowling, 700 9 novembre, C-149/14, Wathelet, 747 15 novembre, C-268/15, Ullens de Schooten, 326, 369 17 novembre, C-216/15, Betriebsrat der Ruhrlandklinik, 483 23 novembre, C-673/13 P, Commissione c. Stichting Greenpeace Nederland e PAN Europe, 440 23 novembre, C-442/14, Bayer CropScience e Stichting De Bijenstichting, 250, 786 24 novembre, C-464/14, SECIL, 525, 870 24 novembre, C-443/15, Parris, 723 7 dicembre, C-686/15, Vodoopskrba i odvodnja, 787 21 dicembre, C-20/15, Commissione c. World Duty Free Group, 644 21 dicembre, C-131/15, Club Hotel Loutraki, 646 21 dicembre, C-203/15 e C-698/16, Tele2 Sverige, 149 21 dicembre, C-327/15, TDC, 627 21 dicembre, C-104/16 P, Consiglio c. Fronte Polisario, 154, 812 21 dicembre, C-524/14 P, Commissione c. Hansestadt Lübeck, 297 21 dicembre, C-154/15, Gutiérrez Naranjo, 749 21 dicembre, C-201/15, AGET Iraklis, 377, 511, 717 21 dicembre, C-203/15 e C-698/15, Tele2 Sverige, 441 21 dicembre, C-272/15, Swiss International Air Lines, 787 23 dicembre, C-595/14, Parlamento c. Consiglio, 288 2017 11 gennaio, C-508/16, Boudjellal, 334 19 gennaio, C-344/15, National Roads authority, 331 19 gennaio, C-351/15 P, Commissione c. Total e Alf Aquitaine, 284, 285 19 gennaio, C-460/15, Schaefer Kalk, 790 25 gennaio, C-640/15, Vilkas, 563 26 gennaio, C-421/14, Banco Primus, 749 31 gennaio, C-573/14, Lounani, 333, 544
980 1° febbraio, C-392/15, Commissione c. Ungheria, 510 8 febbraio, C-562/15, Carrefour Hypermarchés, 747 15 febbraio, C-317/15, X, 521 15 febbraio, C-499/15, W e V, 556, 557 16 febbraio, C-507/15, Agro Foreign Trade & Agency, 501 16 febbraio, C-578/16 PPU, C. K. e a., 547 2 marzo, C-4716, J.D., 790 7 marzo, C-638/16, X e X, 541, 544 8 marzo, C-321/15, ArcelorMittal Rodange e Schifflange, 787 8 marzo, C-660/15 P, Viasat Broadcasting UK, 627 8 marzo, C-14/16, Euro Park Service, 358 9 marzo, C-342/15, Piringer, 510, 517 9 marzo, C-484/15, Zulfikarpašić, 557 9 marzo, C-615/15 P, Samsung SDI e a. c. Commissione, 638 9 marzo, C-105/16 P, Polonia c. Commissione 14 marzo, C-157/15, Achbita, 438, 727 14 marzo, C-162/15, Evonik Degussa c. Commissione, 639 14 marzo, C-189/15, Bougnani, 438, 727 15 marzo, C-3/16, Aquino, 330, 358, 18 marzo, C-72/15, Rosneft, 255, 326, 343, 527 22 marzo, C-497/15, Euro-Team, 608 22 marzo, C-665/15, Commissione c. Portogallo, 606 29 marzo, C-652/15, Tekdemir, 482 30 marzo, C-335/16, VG Čistoća, 608, 786 4 aprile, C-337/15 P, Mediatore europeo c. Claire Staelen, 226 5 aprile, C-217/15 e C-350/15, Orsi e Baldetti, 148, 565 5 aprile, C-488/15, Commissione c. Bulgaria, 784 22 aprile, C-672/15, Noria Distribution, 456, 458 26 aprile, C-632/15, Popescu, 606 27 aprile, C-469/15 P, FSL c. Commissione, 307 4 maggio, C-315/15, Pešková and Peška, 618 4 maggio, C-339/15, Vanderborght, 747 10 maggio, C-133/15, Chavez-Vilchez, 388 11 maggio, C-562/14 P, Svezia c. Commissione, 440 11 maggio, C-302/16, Krijgsman, 618 Parere 16 maggio, 2/15, 349, 870 16 maggio, C-682/15, Berlioz Investment Fund, 658 17 maggio, C-68/15, X, 660 17 maggio, C-339/16 P, Portogallo c. Commissione, 302
Indice cronologico della giurisprudenza citata 18 maggio, C-99/16, Lahorgue, 517 18 maggio, C-150/16, Fondul Proprietatea, 644 30 maggio, C-45/15 P, Safa Nicu Sepahan c. Consiglio, 320, 527 8 giugno, C-111/17 PPU, OL, 556 8 giugno, C-541/15, Freitag, 386 8 giugno, C-580/15, Van der Weegen e a., 508, 659 8 giugno, C-54/16, Vinyls Italia, 358 13 giugno, C-258/14, Florescu, 700 13 giugno, C-591/15, The Gibraltar Betting and Gaming Association, 326, 496 14 giugno, C-75/16, Menini e Rampanelli, 558 15 giugno, C-249/16, Kareda, 556 21 giugno, C-9/16, A., 538 21 giugno, C-449/16, Martinez Silva, 550 22 giugno, C-549/15, E.ON Biofor Sverige, 781 22 giugno, C-49/16, Unibet International, 495 27 giugno, C-74/16, Congregación de Escuelas Pías Provincia Betania, 644 28 giugno, C-482/14, Commissione c. Germania, 603 29 giugno, C-579/15, Poplawski, 180, 535, 563 30 giugno, C-115/15, NA, 388 6 luglio, C-180/16 P, Toshiba c. Commissione, 638 6 luglio, C-290/16, Air Berlin, 615 13 luglio, C-60/15 P, Saint-Gobain Glass Deutschland, 440, 13 luglio, C-129/16, Túrkevei Tejtermelő Kft., 783, 786, 787 13 luglio, C-193/16, E, 402 13 luglio, C-354/16, Kleinsteuber, 723 C-433/16, Bayerischen Motoren Werke, 556 18 luglio, C-566/15, Erzberger, 391 20 luglio, C-206/16, Marco Tronchetti Provera e a., 516 Parere 26 luglio, 1/15, 158, 441 26 luglio, C-670/15, Šalplachta, 558, 568 26 luglio, C-646/16, Jafari, 538, 546 26 luglio, C-490/16, A.S., 538, 546 26 luglio, C-196/16 e C-197/16, Comune di Corridonia, 785 6 settembre, C-413/14 P, Intel c. Commissione, 44, 635, 636 6 settembre, C-643/15 e C-647/15, Slovacchia e Ungheria c. Consiglio, 73, 162, 198, 547 7 settembre, C-248/15, Austria Asphalt, 640 12 settembre, C-648/15, Austria c. Germania, 351 25 ottobre, C-106/16, Polbud – Wykonawstwo, 499
Indice cronologico della giurisprudenza citata Cause pendenti C-524/15, Menci, 565 C-57/16 P, ClientEarth, 440 C-187/16, Commissione c. Austria, 446 C-210/16, Wirtschaftsakademie SchleswigHolstein, 441 C-284/16, Achmea, 328, 349, C-372/16, Sahyouni, 558 C-426/16, Liga van Moskeeën, 439 C-442/16, Gusa, 484 C-496/16, Aranyosi, 563 C-528/16, Confédération paysanne e a., 743 C-537/16, Garlsson Real Estate, 565 C-596/16, Di Puma, 565 C-597/16, Consob, 565 C-673/16, Coman, 389 C-42/17, M.A.S. e M.B., 323, 329 C-493/17, Weiss e a., 918 C-671/15, APVE, 469
II. Conclusioni degli Avvocati generali BOT, 8 giugno 2010, C-145/09, Tsakouridis, 401 BOT, 6 marzo 2012, C-348/09, I., 401 JACOBS, 21 marzo 1991, C-358/89, Extramet Industrie c. Consiglio, 299 JACOBS, 15 settembre 1993, C-188/92, TWD Textilwerke Deggendorf, 299, 651 JACOBS, 19 marzo 1998, C-274/96, Bickel e Franz, 390 JACOBS, 17 maggio 2001, C-475/99, Ambulanz Glöckner, 625 JACOBS, 21 marzo 2002, C-50/00 P, UPA c. Consiglio, 299 JACOBS, 17 marzo 2005, C-475/03, Banca Popolare di Cremona, 339 SAUGMANDSGAARD ØE, 14 settembre 2017, C372/16, Sahyouni, 558 POIARES MADURO, 16 dicembre 2004, C-160/03, Spagna c. Eurojust, 119 RUIZ-JARABO COLOMER, 12 settembre 1996, C142/95 P, Ass. agricoltori, 299 RUIZ-JARABO COLOMER, 28 giugno 2001, C17/00, De Coster, 328 SÁNCHEZ-BORDONA, 12 settembre 2017, C524/15, Menci, 565
981 SÁNCHEZ-BORDONA, 12 settembre 2017, C537/16, Garlsson Real Estate, 565 SÁNCHEZ-BORDONA, 12 settembre 2017, C596/16, Di Puma, 565 SLYNN, 6 maggio 1982, 246/81, Bethell, 299 STIX-HACKL, 14 marzo 2006, C-475/03, Banca Popolare di Cremona, 339 STIX-HACKL, 5 ottobre 2006, C-292/04, Meilicke, 339 TIZZANO, 8 febbraio 2001, C-173/99, BECTU, 147 TIZZANO, 8 maggio 2001, C-53/00, Ferring, 646 TIZZANO, 31 gennaio 2002, da C-466/98 a C469/98, C-471/98, C-472/98, C-475/98 e C476/98, Commissione c. Regno Unito, Danimarca, Svezia, Finlandia, Belgio, Lussemburgo, Austria e Germania, 590 TIZZANO, 21 febbraio 2002, C-99/00, Lyckeskog, 331 TIZZANO, 19 giugno 2003, C-277/00, Germania c. Commissione, 651 TIZZANO, 25 marzo 2004, C-442/02, Caixa Banca, 460, 512 TIZZANO, 30 giugno 2005, C-144/04, Mangold, 333 TIZZANO, 10 novembre 2005, C-292/04, Meilicke, 339 TIZZANO, 6 aprile 2006, C-145/04, Spagna c. Regno Unito, 390 TIZZANO, 6 aprile 2006, C-300/04, Eman e Sevinger, 390 WATHELET, 26 settembre 2013, C-295/12 P, Telefónica c. Commissione, 306
III. Pronunce del Tribunale ord. 14 luglio 1994, T-584/93 e T-179/94, Roujansky e Bonnamy c. Consiglio, 78, 136 13 dicembre 1995, T-109/94, Windpark Goothusen c. Commissione, 774 9 gennaio 1996, T-575/93, Koelmann, 339 26 novembre 1996, T-68/95, T. Port, 314 ord. 15 maggio 1997, T-175/96, Berthu, 136 17 giugno 1998, T-135/96, UEAPME c. Consiglio, 720 8 luglio 1999, T-266/97, Vlaamse Televisie, 100 ord. 23 novembre 1999, T-173/98, UPA c. Consiglio, 299 27 gennaio 2000, T-256/97, BEUC c. Commissione, 877
982
Indice cronologico della giurisprudenza citata
17 febbraio 2000, T-183/97, Micheli e a. c. Commissione, 774 2 ottobre 2001, T-222/99, T-327/99 e T-329/99, Martinez e a. c. Parlamento, 91 10 aprile 2002, T-209/00, Lamberts c. Mediatore europeo, 64, 250, 409 15 gennaio 2003, T-377/00, T-379 e 380/00, T260/01 e T-272/01, Philip Morris, 147 9 luglio 2003, T-224/00, Archer Daniels Midland Company, 147 5 agosto 2003, T-116/01 e T-118/01, P & O European Ferries, 147 17 dicembre 2003, T-219/99, British Airways, 99 17 dicembre 2003, T-146/01, D.L.D. Trading, 171 ord. 2 aprile 2004, T-231/02, Gonnelli c. Associazione Italiana Frantoiani Oleari, 299 8 luglio 2004, T-67/00, T-68/00, T-71/00 e T78/00, Engineering Corp. e a., 147 15 giugno 2005, T-17/02, Olsen c. Commissione, 302 21 settembre 2005, T-306/01, Ahmed Ali Yusuf e a. c. Consiglio e Commissione, 419 21 novembre 2005, T-426/04, Tramarin c. Commissione, 302 14 dicembre 2005, T-69/00, FIAMM e FIAMM Technologies, 319 10 maggio 2006, T-395/04, Air One, 314
31 gennaio 2007, T-362/04, Minin c. Commissione, 45 ord. 13 dicembre 2007, T-215/07, Donnici c. Parlamento, 279 17 dicembre 2008, T-462/04, HEG e Graphite India c. Consiglio, 877 11 marzo 2009, T-354/05, TF1 c. Commissione, 323 30 aprile 2009, T-393/07, Italia e Donnici c. Parlamento, 279 18 giugno 2010, T-549/08, Lussemburgo c. Commissione, 769 13 settembre 2010, T-166/07 e T-285/07, Italia c. Commissione, 122 ord. 6 settembre 2011, T-18/10, Inuit, 300 21 settembre 2011, T-268/11, PPG e SNF c. ECHA, 302 17 gennaio 2013, T-346/11 e T-347/11, Gollnisch c. Parlamento, 91 9 settembre 2015, T-104/13, Toshiba c. Commissione, 44 24 settembre 2015, T-124/13 e T-191/13, Italia c. Commissione, 122 3 febbraio 2017, T-646/13, Minority SafePack one million signatures for diversity in Europe c. Commissione, 197 10 maggio 2017, T-754/14, Michael Efler e a. c. Commissione, 197
B. Giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, 565 20 febbraio 1996, Vermeulen c. Belgio, 241 30 giugno 2005, Bosphorus, 222 10 febbraio 2009, Zolotoukhine c. Russia, 565 21 gennaio 2011, M.S.S., 547
10 aprile 2012, Vergauwen, 332 8 aprile 2014, Dhahbi, 332 21 luglio 2015, Schipani, 332 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, 565
C. Giurisprudenza italiana I. Corte costituzionale 7 marzo 1964, n. 14, Costa c. ENEL., 903, 904 27 dicembre 1965, n. 98, Acciaierie San Michele, 144, 903 27 dicembre 1973, n. 183, Frontini, 902, 903, 911 22 ottobre 1975, n. 232, ICIC, 904, 905 11 aprile 1977, n. 93, 913
8 giugno 1984, n. 170, Granital, 905, 906, 908 28 dicembre 1984, n. 300, Cecovini c. Almirante, 903 19 aprile 1985, n. 113, Beca, 338, 907 21 aprile 1989, n. 232, Fragd, 913 11 luglio 1989, n. 389, Provincia autonoma di Bolzano, 907, 908 18 aprile 1991, n. 168, Industria dolciaria Giampaoli, 226, 227, 329, 906, 907
Indice cronologico della giurisprudenza citata 10 novembre 1994, n. 384, Regione Umbria, 909, 30 marzo 1995, n. 94, Regione Sicilia, 229 16 giugno 1995, n. 249, 370 ord. 15-29 dicembre 1995, n. 536, 329 17 aprile 1996, n. 126, 913 30 dicembre 1997, n. 443, 370 ord. 8 maggio 1998, n. 165, 368 ord. 21 marzo 2002, n. 85, 335 18 dicembre 2003-13 gennaio 2004, n. 7, 909 7-11 giugno 2004, n. 166, 909 24 ottobre-3 novembre 2005, n. 406, 909 23-28 marzo 2006, n. 129, 909 21 febbraio-9 marzo 2007, n. 64, 909 13 luglio 2007, n. 284, 228 ord. 13 febbraio 2008, n. 103, 329 25 gennaio 2010, n. 28, 908, 909 21 giugno 2010, n. 227, 908, 910 15 aprile 2011, n. 136, 575 ord. 4 luglio 2011, n. 222, 909 ord. 22 novembre 2011, n. 326, 909 ord. 3 luglio 2013, n. 207, 228 ord. 18 luglio 2013, n. 207, 909
983 22 ottobre 2014, n. 238, 912
II. Altre giurisdizioni Cass. 25 maggio 1984, n. 3223, 331 Cass. 10 agosto 1996, n. 7410, 331 Cass. 28 marzo 1997, n. 2787, 271, 338 Cass. 3 ottobre 1997, n. 9653, 338 Cass. 22 luglio 1999, n. 500, 368 Cass. 14 settembre 1999, n. 9813, 334 Cass. 7 luglio 2005, n. 25006, 335 Cass. 9 ottobre 2006, n. 21635, 335 Cass. 19 maggio 2008, n. 12641, 360 Cass. 27 gennaio 2010-19 maggio 2010, n. 12249, 360 Cass. 19 gennaio 2011, n. 1328, 397 Cass. 14 dicembre 2016, n. 25629, 331 Cons. Stato, Sez. VI, 8 giugno 2009, n. 3464, 360 Trib. Milano, ord. 11 novembre 2004, 334 Trib. Roma 23 marzo 2011, n. 6039, 360 Trib. Reggio Emilia, 16 febbraio 2012, 397
D. Giurisprudenza di altri Stati membri I. Austria
IV. Germania
Verfassungsgerichtshof, 9 settembre 2003, 332
BVG, 29 maggio 1974, Internationale Handelsgesellschaft/EVGF, Solange I, 917 BVG, 22 ottobre 1986, Wünsche Handelsgesellschaft, Solange II, 332, 917 BVG, 12 ottobre 1993, Maastricht Urteil, 698, 918 BVG, 7 giugno 2000, Bananen II, 917 BVG, 30 giugno 2009, Lissabon, 329, 918 BVG, 6 luglio 2010, Honeywell, 329 BVG, 12 settembre 2012, 13902, 697 BVG, ord. 14 gennaio 2014, 329 BVG, 18 marzo 2014, 1390, 697 BVG, ord. 15 dicembre 2015, 918 BVG, 16 giugno 2016, Gauweiler, 323, 705, 918 BVG, ord. 21 giugno 2016, Weiss, 918
II. Danimarca Højesteret (Corte suprema), 6 dicembre 2016, 323
III. Francia Cons. Const., décision n. 92-308 DC, 9 aprile 1992, Maastricht I, 915 Cons. Const., décision n. 92-312 DC, 2 settembre 1992, Maastricht II, 916 Cons. Const., décision n. 92-313 DC, 23 settembre 1992, Maastricht III, 916 Cons. Const., décision n. 2004-497 DC, 1° luglio 2004, 923 Cons. Const., décision n. 2004-505 DC, 19 novembre 2004, 916 Cons. Const., décision n. 2006-543 DC, 30 novembre 2006, 923 Cons. Const., décision n. 2007-560 DC, 20 dicembre 2007, 916
V. Regno Unito House of Lords, Decision 7, 26 luglio 1990, Factortame Ltd., 920 High Court (Queen’s Bench Divisional Court), 18 febbraio 2002, Thoburn, 920
984
VI. Repubblica Ceca
Indice cronologico della giurisprudenza citata Tribunal Constitucional, 13 febbraio 2014, n. 26 Melloni, 919
Ustavni Soud (Corte costituzionale), 8 gennaio 2009, n. 1009/08, 332
VIII. Ungheria VII. Spagna Tribunal Constitucional, 19 aprile 2004, n. 58, 332
Kúria, 30 novembre 2016, n. 22, 919
Indice analitico *
A ABE/EBA (Autorità bancaria europea) v. Unione economica e monetaria Abuso di posizione dominante v. Concorrenza Accordi interistituzionali: 185 s. – Legiferare meglio: 206, 212 Accordi internazionali: – dell’Unione: 153 ss., 822 ss. – – commerciali e tariffari: 865 ss. – – di adesione alla CEDU: 38, 151 ss., 232, – – di associazione: v. Associazione – – di riammissione: 825 s. – – di vicinato: v. Politica di vicinato – – euromediterranei: 828 – – “formali” in materia di tassi di cambio: v. Unione economica e monetaria – – in materia di aiuto umanitario: v. Aiuto umanitario – – in materia di cooperazione allo sviluppo: v. Cooperazione allo sviluppo – – nell’ambito della PESC: 818 s., 826 s. – misti: 782, 833 – tra e degli Stati membri: 159 ss., 349 – – preesistenti ai Trattati: 159 s. competenza dell’Unione a stipulare: 822 ss. efficacia e rango degli – nell’ordinamento dell’Unione: 154 ss. pareri consultivi della Corte di giustizia: v. Corte di giustizia dell’Unione procedura di conclusione degli –: 834 ss. v. anche: Adesione; Azione esterna; Organizzazioni internazionali; Politica commerciale comune
* I rinvii si riferiscono ai numeri di pagina del volume.
Accordo generale sul commercio dei servizi (GATS): 526, 590, 866 s. Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT): 448, 452, 866 s. ACCP (Agenzia comunitaria di controllo della pesca) v. Pesca ACP (Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico) v. Convenzione ACP-CE «Acquis»: comunitario: 24, 35, 43 s. – – e cooperazione rafforzata: 56 – – in materia di adesione di nuovi Stati membri: 43 ss., 50 – – in materia di applicazione territoriale dei Trattati: 50 di Schengen: v. Schengen Adesione (all’Unione): 22 ss., 43 ss. accordi di stabilizzazione e associazione: 43 condizioni per l’–: 42 s. “criteri di Copenaghen”: 43 s. v. anche: Diritti fondamentali; Recesso; Stati membri AEAP (Autorità europea per le assicurazioni e le pensioni aziendali e professionali) v. Unione economica e monetaria AESFEM/ESMA (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati) v. Unione economica e monetaria AEV (Autorità europee di vigilanza) v. Unione economica e monetaria Affari interni v. Spazio di libertà, sicurezza e giustizia
986 Agenti (dell’Unione) v. Funzionari e agenti Agenzia comunitaria di controllo della pesca (ACCP) v. Pesca Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione nell’attività di contrasto (Europol) v. Europol Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza delle reti e dell’informazione (ENISA) v. Reti transeuropee Agenzia dell’Unione europea per le ferrovie: 603, 605 Agenzia europea di controllo della pesca: 476 Agenzia europea per i medicinali v. Sanità pubblica Agenzia europea per l’ambiente v. Ambiente (Tutela dell’) Agenzia europea per la cooperazione nell’attività di contrasto v. Europol Agenzia europea per la difesa v. Politica di sicurezza e di difesa comune Agenzia europea per la gestione operativa dei sistemi IT v. Frontiere Agenzia europea per la sicurezza aerea: 618 Agenzia europea per la sicurezza marittima: 613 Agenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia v. Energia Agenzia spaziale europea (ESA) v. Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio Agenzie europee (in generale): 112 ss. Agricoltura: 467 ss. obiettivi della PAC (Politica agricola comune): 470 organizzazioni comuni dei mercati agricoli: 467, 472 ss. – – regime del “pagamento unico”: 473 – – regolamento unico delle – –: 469, 473 v. anche: Fondi strutturali; Pesca Aiuti di Stato (Divieto degli): 623 ss., 643 ss. – e agricoltura: 477
Indice analitico – e cultura: 738 – e traporti: 598 ss. criterio c.d. dell’investitore operante in un’economia di mercato: 645 s. deroghe al –: 647 ss. nozione di “aiuto”: 643 ss. procedura di controllo: 648 ss. regola c.d. de minimis: 645 v. anche: Concorrenza; Imprese Aiuto allo sviluppo v. Cooperazione allo sviluppo Aiuto umanitario: 880 ss. v. anche: Cooperazione allo sviluppo; Corpo volontario europeo di aiuto umanitario Allarme preventivo (Early warning) v. Unione economica e monetaria Alta Autorità della CECA v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza: 95 s. v. anche: Azione esterna; Politica di sicurezza e di difesa comune Ambiente (Tutela dell’): 777 ss. Agenzia europea dell’ambiente: 113, 787 misure di attuazione della politica relativa alla –: 781 ss. misure unilaterali degli Stati membri: 784 s. obiettivi e principi in materia di –: 777 ss., 783 s. Rete europea di informazione e di osservazione in materia ambientale: 787 v. anche: Accordi internazionali; Energia; Trasporti Amministrazione (Principio di buona): 425, 776 s. Ammissione di nuovi Stati v. Adesione Animali (Benessere degli): 438 s., 738, 770, 779 Appalti pubblici: 517 v. anche: Stabilimento e servizi Apparato amministrativo dell’Unione: 115 ss. v. anche: Funzionari e agenti Armonizzazione delle legislazioni nazionali v. Fiscalità; Mercato interno; Ravvicinamento delle legislazioni Asilo: 537, 542 ss. acquisto e perdita del diritto di –: 544 s. apolidi: 544 asylum shopping: 545
987
Indice analitico EASO (Ufficio europeo di sostegno per l’asilo): 548 non-refoulement (principio di): 543 protezione sussidiaria: 544 ss. protezione temporanea: 544 rifugiati: 543 ss. sfollati: 544 “sistema di Dublino”: 537, 545 ss. solidarietà (principio di): 537, 547 s. Stato competente per l’esame delle domande di –: 545 v. anche: Frontiere; Immigrazione; Spazio di libertà, sicurezza e giustizia Assemblea della CEE v. Parlamento europeo Assicurazioni: 517 s. v. anche: Stabilimento e servizi Associazione (Accordi di): 43, 500 s., 823, 827 ss. v. anche: Adesione; Cooperazione allo sviluppo Atti delle istituzioni: 160 ss. – atipici: 183 ss. – delegati: 161 s., 207 ss. – di esecuzione: 161 s., 207 ss. – legislativi: 161 ss., 202 ss., 300 s. – – ricorsi contro gli – –: 300 s. base giuridica degli –: v. Processo decisionale decisioni: 180 ss. decisioni-quadro: 161, 180 direttive: 173 ss. motivazione degli –: 168 s., 288 pareri: 183 ss. pubblicità: 169, 301 s. raccomandazioni: 183 ss. rapporti tra gli –: 164 ss., 290 regolamenti: 170 ss. v. anche: Accordi internazionali; Consiglio; Corte di giustizia dell’Unione; Diritto dell’Unione; Politica estera e di sicurezza comune; Ricorsi di annullamento di atti dell’Unione Atto relativo alle elezioni del Parlamento europeo v. Parlamento europeo Atto Unico europeo (AUE): 4, 19 s. Autonomia procedurale (Principio di) v. Diritto dell’Unione Autorità bancaria europea (ABE/EBA) v. Unione economica e monetaria
Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (AESFEM/ESMA) v. Unione economica e monetaria Autorità europea per la sicurezza alimentare v. Consumatori Autorità europea per le assicurazioni e le pensioni aziendali e professionali (AEAP) v. Unione economica e monetaria Autorità europee di vigilanza (AEV) v. Unione economica e monetaria Avvocati v. Diplomi e titoli professionali Avvocati generali v. Corte di giustizia dell’Unione Azione di danni v. Responsabilità dell’Unione Azione esterna (dell’Unione): 138, 153 ss., 807 ss. Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza: 54 s., 56, 88, 96 s., 100 s., 813 ss., 853 ss. cooperazione internazionale in materia di: – – ambiente: 782 – – cultura: 740 s. – – formazione professionale: 731 – – istruzione: 731 – – ricerca: 773, 776, 825 s., 830 – – sanità pubblica: 741 – – trasporti: 599 s. cooperazione tra missioni diplomatiche e consolari: 406, 816 delegazioni dell’Unione: 406, 815 ss. personalità internazionale dell’Unione: v. Unione europea rapporti con le organizzazioni internazionali: 842 ss. rappresentanza esterna dell’Unione: 75, 816, 817 ss., 841 relazioni diplomatiche dell’Unione: 815 ss. Servizio europeo di azione esterna (SEAE): 815 ss. strumenti dell’–: 819 ss. – – misure autonome dell’Unione: 819 ss. v. anche: Accordi internazionali; Associazione; Cooperazione allo sviluppo; Organizzazioni internazionali; Paesi e territori d’oltremare; Personalità giuridica dell’Unione; Politica commerciale comune; Politica di sicurezza e di difesa comune; Politica estera e di sicurezza comune; Salvaguardia; Sanzioni; Solidarietà; Unione economica e monetaria
988
Indice analitico B
Banca centrale europea (BCE): 103 ss., 675 ss. atti: 106, 677 attribuzioni: 61, 105 s., 675 ss., 691 s. controllo giurisdizionale sulla –: 281, 293, 323, 678 political accountability della – 678 privilegi e immunità: 118 v. anche: Comitato economico e finanziario; Comitato monetario; Istituto Monetario Europeo; Sistema europeo di banche centrali; Unione economica e monetaria Banca europea per gli investimenti (BEI): 64, 103, 106 s., 758 composizione: 106 s. controllo della Corte dei conti sulla –: 102 controllo giurisdizionale sulla –: 346 iniziativa legislativa della –: 196 personalità giuridica: 103 privilegi e immunità: 118 Banche: 517 s. libera prestazione dei servizi bancari: 508, 517 s. v. anche: Stabilimento e servizi Banche centrali nazionali (BCN): 60 s., 104, 679 ss., 686 v. anche: Unione economica e monetaria
Berlin Plus agreement v. NATO
Bilancio (dell’Unione): 126 ss., 198 entrate: 123 ss. esecuzione del –: 128 s. procedura di –: 89, 126 s. quadro finanziario pluriennale: 128 s. regolamento finanziario: 126 ss. spese: 123 ss. v. anche: Corte dei conti; Risorse proprie; Ufficio europeo per la lotta antifrode Bolkestein (Direttiva c.d.) v. Stabilimento e servizi Borse: 517 v. anche: Stabilimento e servizi Brevetto comunitario: 665 ss. Convenzione di Monaco (1973): 666 s. regime linguistico: 667 Tribunale unificato dei brevetti (accordo sul): 668 Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO): 665
Ufficio europeo dei brevetti (EPO): 667 v. anche: Marchio comunitario; Ravvicinamento delle legislazioni C Cabotaggio (Attività di) v. Trasporti Capitali (Libera circolazione dei): 520 ss. – e paesi terzi: 525 s. delimitazione rispetto alle altre libertà: 522 deroghe alla –: 526 ss. golden share: 524 grandfather clause: 525 investimenti diretti: 523 s., 870 pagamenti: 524 v. anche: Merci; Politica commerciale comune; Salvaguardia; Stabilimento e servizi; Unione economica e monetaria Carta dei diritti fondamentali: 23, 142, 146 ss. ambito di applicazione: 148 s. efficacia vincolante: 147 limitazioni ai diritti e alle libertà riconosciuti dalla –: 150 spiegazioni della –: 149 v. anche: Diritti fondamentali; Regno Unito Carta dei diritti sociali fondamentali (1989): 710, 728, 734 v. anche: Politica sociale Carta sociale europea (1965; 1996): 147, 710, 716, 719, 728, 734 v. anche: Politica sociale CDC v. Codice doganale comunitario CEDEFOP v. Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale CEF v. Comitato economico e finanziario Centro comune di ricerca v. Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale (CEDEFOP): 735 Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie v. Sanità pubblica
989
Indice analitico CERS (Comitato europeo per il rischio sistemico v. Unione economica e monetaria
Clausole di salvaguardia v. Salvaguardia
CES v. Comitato economico e sociale
CMUE (Comitato militare dell’Unione europea) v. Politica di sicurezza e di difesa comune
Chiese e associazioni religiose: 377, 438
Codecisione (Procedura di) v. Processo decisionale
CIAE (Comitato interministeriale per gli affari europei) v. Italia Cielo unico europeo v. Trasporti Circolazione e soggiorno (Libertà di) v. Asilo; Cittadinanza; Immigrazione; Spazio di libertà, sicurezza e giustizia Cittadinanza (dell’Unione): 379 ss. acquisto e perdita della –: 381 ss. circolazione e soggiorno: 393 ss., 396 ss. diritto di interpello delle istituzioni: 409 s. diritto di petizione al Parlamento europeo: 388, 409 diritto di rivolgersi al Mediatore europeo: 409 s. doveri: 381 elettorato attivo e passivo: 380, 403 ss. – – nelle elezioni comunali: 404 ss. – – nelle elezioni europee: 404 ss. natura e nozione: 21, 379 ss. potere di iniziativa legislativa: v. Processo decisionale protezione diplomatica e consolare: 406 ss. Regno Unito: 382 s. situazioni puramente interne: 386 s., 446 status di cittadino dell’Unione: 380, 385 ss. v. anche: Azione esterna; Danimarca; Discriminazione; Mediatore europeo; Parlamento europeo; Regime linguistico Cittadini di paesi terzi v. Asilo; Cittadinanza; Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale; Frontiere; Immigrazione
Codice doganale comunitario (CDC): 449 Codice europeo di buona condotta amministrativa: 227 Coesione economica, sociale e territoriale: 759 ss. accordi di partenariato: 766 s. Gruppo europeo di cooperazione territoriale (GECT): 762 iniziative comunitarie (Interreg, Leader, Urban, ecc.): 764 Nuovo strumento comunitario (NIC): 764 Operazioni integrate: 764 Programmi integrati mediterranei (PIM): 764 Quadro strategico comune (QSC): 766 ss. v. anche: Banca europea per gli investimenti; Fondi strutturali; Strategia “Europa 2020” Comitato bancario europeo: 518 Comitato consultivo per la formazione professionale: 735 Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER): 81 s., 169, 203, 855 v. anche: Consiglio Comitato del codice doganale v. Unione doganale Comitato delle regioni (CDR): 107 s., 110 ss., 189, 895 Comitato di conciliazione v. Processo decisionale Comitato economico e finanziario (CEF) v. Unione economica e monetaria
CIVCOM (Comitato per gli aspetti civili della gestione delle crisi) v. Politica di sicurezza e di difesa comune
Comitato economico e sociale (CES): 19, 107 ss. v. anche: Coesione economica, sociale e territoriale; Comitato delle regioni; Reti transeuropee
Clausola compromissoria v. Contratti dell’Unione; Corte di giustizia dell’Unione
Comitato europeo per il rischio sistemico (CERS) v. Unione economica e monetaria
Clausola di flessibilità v. Competenze dell’Unione
Comitato interministeriale per gli affari europei (CIAE) v. Italia
Clausola di solidarietà v. Solidarietà
Comitato militare dell’Unione europea (CMUE) v. Politica di sicurezza e di difesa comune
990 Comitato monetario: 681 Comitato per gli aspetti civili della gestione delle crisi (CIVCOM) v. Politica di sicurezza e di difesa comune Comitato per l’occupazione v. Occupazione Comitato per la protezione sociale: 721 Comitato politico e di sicurezza (COPS) v. Politica di sicurezza e di difesa comune; Politica estera e di sicurezza comune Comitato trasporti v. Trasporti Comitologia: 166 s., 182, 209, 215 ss. v. anche: Processo decisionale Commissione: 92 ss., 207 ss. attribuzioni: 92 s. composizione: 94 s. mozione di censura: 98 s. nomina: 95 ss. organizzazione interna: 99 ss. v. anche: Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza; Comitologia; Istituzioni e organi dell’Unione; Parlamento europeo; Privilegi e immunità dell’Unione; Processo decisionale Commissioni di inchiesta v. Parlamento europeo Competenza di piena giurisdizione v. Ricorsi di annullamento di atti dell’Unione Competenza pregiudiziale: 321 ss. – e PESC: 326 – e terzo pilastro: 341 ss., 535, 561 – pre-Lisbona: 339 ss. finalità: 321 ss. limitazioni della –: 342 ss. procedura: 250, 334 ss. questioni pregiudiziali d’urgenza: 251, 336 v. anche: Convenzione di Bruxelles (1958); Convenzione di Roma (1980); Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia civile; Corte di giustizia dell’Unione Competenze dell’Unione: 411 ss. attribuzione (principio di): 411 ss. classificazione delle –: 420 ss. clausola di flessibilità: 415 ss. implicite: 414 ss., 828 s. v. anche: Accordi internazionali; Proporzionalità; Sussidiarietà
Indice analitico Compromesso di Ioannina v. Consiglio Compromesso di Lussemburgo v. Consiglio Comunità economica europea (CEE): 6 s., 18 ss. Comunità europea (CE): 6 s., 18 ss. Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA): 6 s., 18 ss. Alta Autorità della –:18 s. scadenza del Trattato CECA: 34 Comunità europea dell’energia atomica (CEEA/ Euratom): 6 s., 18 ss. Comunità europea di difesa (CED): 18, 856 Concentrazioni v. Concorrenza Concorrenza: 621 ss. abuso di posizione dominante: 633 ss. concentrazioni: 640 ss. – e agricoltura: 469 impegni: 638, 642 intese (divieto delle): 624 ss., 627 ss., 631 ss. modernizzazione della politica di –: 623 s. programmi di clemenza: 638 s. ruolo e poteri della Commissione: 623 s., 649 ss. ruolo e poteri delle autorità nazionali: 623 s., 632 settlements (transazioni): 638 s. violazione delle regole di –: – – enforcement: 637 s. v. anche: Aiuti di Stato; Imprese; Monopoli; Ravvicinamento delle legislazioni; Trasporti Conferenza intergovernativa (CIG) v. Trattati istitutivi; Unione europea Consiglio: 19, 78 ss. modalità di voto: 20 s., 84 ss. organizzazione interna: – – formazioni: 79 ss. – – istanze preparatorie: 82 s. – – presidenza: 82 – – segretariato generale: 83 v. anche: Comitato dei rappresentanti permanenti; Privilegi e immunità dell’Unione; Processo decisionale; Regime linguistico Consiglio d’Europa: 18 cooperazione con il –: 843 v. anche: Accordi internazionali Consiglio europeo: 20, 70 ss. modalità di voto: 73 s., 76 ss.
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Indice analitico Consultazione (Procedura di) v. Processo decisionale
Cooperazione (Obbligo di leale) v. Stati membri
Consumatori (Protezione dei): 744 ss. Autorità europea per la sicurezza alimentare: 746 contratti dei consumatori: 746 s. – – clausole abusive: 746, 748 s. Rete europea extragiudiziale (EEJ-net): 750 risoluzione alternativa delle controversie dei – (ADR): 750 risoluzione delle controversie online dei – (ODR): 749 s. v. anche: Trasporti
Cooperazione allo sviluppo: 880 ss. v. anche: Aiuto umanitario; Associazione; Convenzione ACP-CE
Contratti collettivi di lavoro v. Politica sociale Contratti dell’Unione: competenza della Corte relativa ai – (clausola compromissoria): 347 s. v. anche: Corte di giustizia dell’Unione Convenzione ACP-CE: 829, 834, 881 v. anche: Cooperazione allo sviluppo Convenzione di Bruxelles (1958) sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle sentenze in materia civile e commerciale: 340, 555 s. v. anche: Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia civile Convenzione di Ginevra (1951) relativa allo status di rifugiati: 543 v. anche: Asilo Convenzione di Lugano (1988 e 2007) sulla competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale: 555 s. v. anche: Asilo
Cooperazione amministrativa: 413, 800 ss. – in materia: – – doganale: 454 – – fiscale: 658 – – di prestazione di servizi: 515 – – di spazio di libertà, sicurezza e giustizia: 534 – per l’ordine pubblico e la sicurezza interna: 535 – – comitato per la sicurezza interna: 534, 887 Rete per la soluzione di problemi del mercato interno (SOLVIT): 261, 801 Sistema di informazione del mercato interno (e regolamento IMI): 804 s. Cooperazione di polizia: 202, 341, 454, 578 ss., 583 v. anche: Eurojust; Europol; Frontex; Schengen; Spazio di libertà, sicurezza e giustizia; TREVI Cooperazione doganale: 453 ss. v. anche: Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale Cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i paesi terzi: 880 ss. v. anche: Accordi internazionali; Aiuto umanitario; Associazione; Azione esterna; Cooperazione allo sviluppo
Convenzione per l’avvenire dell’Europa: 23 s. v. anche: Trattati istitutivi
Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia civile: 553 ss. accesso effettivo alla giustizia: 558 assunzione dei mezzi di prova: 558 conflitti di leggi e di giurisdizione: 557 formazione dei magistrati: 558 s. mediazione in materia civile e commerciale: 558 notificazione e comunicazione transnazionali degli atti giudiziari ed extragiudiziari: 557 procedimento europeo per le controversie di modesta entità: 558 riconoscimento reciproco delle decisioni: 554, 555 v. anche: Convenzione di Bruxelles (1958); Convenzione di Lugano (1988 e 2007); Convenzione di Roma (1980); Magistrati; Rete giudiziaria europea; Spazio di libertà, sicurezza e giustizia
Convenzioni tra Stati membri v. Accordi internazionali
Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale: 559 ss., 573 ss.
Convenzione di Monaco (1973) sul brevetto europeo v. Brevetto comunitario Convenzione di Roma (1980) sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali: 340, 557 v. anche: Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia civile Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) v. Accordi internazionali
992
Indice analitico
armi (traffico illecito di): 570 contraffazione di mezzi di pagamento: 570 s. corruzione: 570 s. criminalità grave e organizzata (lotta alla): 569 s., 579 droga (lotta alla): 874 Mandato di arresto europeo (MAE): 563 Mandato europeo di ricerca delle prove (MER): 563 minori (reati contro i): 569 s. ne bis in idem (principio del): 564 s. Ordine di protezione europeo per le vittime di reati: 564, 569 Ordine europeo di indagine penale (OEI): 563 Osservatorio per la prevenzione della criminalità: 573 ravvicinamento delle legislazioni penali degli Stati membri: 561, 567 ss. razzismo e xenofobia: 570, 732 reciproco riconoscimento delle decisioni penali: 561 ss. Rete europea di prevenzione della criminalità: 572 riciclaggio di denaro: 570 s., 874 stupefacenti (traffico illecito di): 570 s. tratta degli esseri umani: 552, 569, 570 v. anche: Accordi internazionali; Asilo; Cooperazione rafforzata; Eurojust; Europol; Frodi; Frontiere; Immigrazione; Magistrati; Osservatorio europeo delle droghe e della tossicodipendenza; Procura europea; Rete giudiziaria europea; Spazio di libertà, sicurezza e giustizia; Terrorismo
comitato c.d. “Articolo 255”: 242 competenze: 253 ss. – – limitazioni alle – –: v. Competenza pregiudiziale; Stati membri composizione: 238 ss. – e sviluppo del diritto dell’Unione: 253 ss. – unica delle Comunità europee: 19 s., 238 s. denominazione: 239 giudici: 240 s. istituzione della –: 237 ss. missione della –: 227 ss. organizzazione della –: 237 ss. origini: 237 ss. Presidente: 243 procedura: 248 ss. provvedimenti urgenti: 243, 270 regolamento di procedura: 239, 248 ss. ruolo svolto dalla –: 230 ss. sentenze: 252 – – procedura di interpretazione delle – : 252 statuto: 237 ss., 248 Vicepresidente: 243 v. anche: Competenza pregiudiziale; Contratti dell’Unione; Pareri; Privilegi e immunità dell’Unione; Regime linguistico; Responsabilità dell’Unione; Ricorsi di annullamento di atti dell’Unione; Ricorsi in carenza; Ricorsi per inadempimento degli Stati membri; Stati membri; Tribunale; Tribunale della funzione pubblica; Tutela giudiziaria
Cooperazione rafforzata: 49 ss., 72, 131, 202, 205, 421, 533, 536, 553, 557 ss., 577, 657, 667 s.
Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) v. Accordi internazionali; Carta dei diritti fondamentali
Cooperazione strutturata permanente v. Politica di sicurezza e di difesa comune COPS (Comitato politico e di sicurezza) v. Politica di sicurezza e di difesa comune; Politica estera e di sicurezza comune COREPER v. Comitato dei rappresentanti permanenti Corpo volontario europeo di aiuto umanitario: 820, 885 v. anche: Aiuto umanitario Corte dei conti: 19, 102 s., 126 v. anche: Bilancio Corte di giustizia dell’Unione europea: 18 s., 101 s., 227 ss., 237 ss. avvocati generali: 240 s. cancelliere: 244 clausola compromissoria: 347 s., 679, 701
Costituzione per l’Europa: 23 s. CREST/ERAC v. European Research Area Committee Criminalità grave e organizzata (Lotta alla) v. Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale Cultura: 737 ss. accordi internazionali in materia di –: 740 ss. – e altre politiche dell’Unione: 738 programma “Cultura”: 739 programma “Europa creativa”: 739 programma “MEDIA”: 739 programma “MEDIA Mundus”: 739 tutela del pluralismo culturale dell’Unione: 738 v. anche: Istruzione
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Indice analitico D Danimarca: Protocollo (n. 16) su talune disposizioni relative alla –: 57, 672 Protocollo (n. 17) sulla –: 672 Protocollo (n. 19) sull’acquis di Schengen: 57, 533 Protocollo (n. 22) sulla posizione della –: 51, 57, 536 Protocollo (n. 32) sull’acquisto di beni immobili in –: 50 Dati personali (Tutela dei): 377, 440, 580, – Garante europeo della protezione dei –: 441 Dazi doganali v. Unione doganale Decisioni v. Atti delle istituzioni; Politica estera e di sicurezza comune Deficit pubblici eccessivi v. Unione economica e monetaria Democrazia – partecipativa: 719 – rappresentativa: 88, 376, 719 principi democratici: 380 principio di –: 21, 32, 88, 189, 913, 231, 374, 811 v. anche: Cittadinanza; Diritto dell’Unione; Parlamento europeo; Principi generali Dialogo sociale v. Politica sociale Dichiarazione di Stoccarda (1983): 4 Difesa comune v. Politica di sicurezza e di difesa comune Diplomi e titoli professionali (Riconoscimento dei): 513 s. architetti: 513 avvocati: 516 professioni mediche e paramediche: 513 sistema generale di – (direttiva qualifiche): 513, 804 Direttive v. Atti delle istituzioni Diritti dell’uomo e libertà fondamentali v. Carta dei diritti fondamentali; Diritti fondamentali Diritti fondamentali: 143 ss., 232 s. Agenzia dell’Unione europea per i –: 109 obbligo di rispetto dei – e adesione all’Unione: 42 s., 374
violazione dei – da parte di uno Stato membro: 45 v. anche: Accordi internazionali; Carta dei diritti fondamentali; Principi generali; Stati membri Diritto ad un ricorso effettivo v. Tutela giudiziaria Diritto comunitario v. Diritto dell’Unione Diritto dell’Unione ambito di applicazione territoriale: v. Trattati istitutivi applicazione differenziata del –: 49 ss. – – e diritto interno degli Stati membri: 11 ss., 915 ss. – – e diritto italiano: 366 ss., 902 ss. attuazione negli Stati membri: 356 ss. – – autonomia procedurale (principio dell’): 356 ss. – – effettività ed equivalenza (principi di): 356 ss. diritto primario e derivato: 133 ss., 138 ss., 160 ss. dottrina del –: 12 effetti diretti del –: 142 s., 155 s., 175 ss., 232, 897 ss. primato del –: 232, 899 ss. rapporti con il diritto internazionale: 10 ss., 38, 153 ss., 377 v. anche: Accordi internazionali; Atti delle istituzioni; Cooperazione rafforzata; Corte di giustizia dell’Unione; Italia; Stati membri; Unione europea Diritto di stabilimento v. Stabilimento e servizi Diritto internazionale: – – consuetudinario: 153 s. principi generali del –: 154 v. anche: Accordi internazionali; Diritto dell’Unione Disavanzi pubblici eccessivi v. Unione economica e monetaria Discriminazione (Divieto di): 438, 445, 480 ss., 485 ss., 495 ss., 504 ss., 506 ss., 592 discriminazioni a rovescio: 369, 446, 494 discriminazioni indirette (o occulte): 486, 507 ss. v. anche: Capitali; Cittadinanza; Fiscalità; Lavoratori; Merci; Persone; Stabilimento e servizi Disposizioni fiscali v. Fiscalità Documento amministrativo unico (DAU): 450
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Indice analitico
Droga v. Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale; Osservatorio europeo delle droghe e della tossicodipendenza; Sanità pubblica
EPO (Ufficio europeo dei brevetti) v. Brevetto comunitario
Dumping (Pratiche di): 869, 875 ss.
ESMA/AESFEM (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati) v. Unione economica e monetaria
E
Early warning (Allarme preventivo) v. Unione economica e monetaria
EASO (Ufficio europeo di sostegno per l’asilo) v. Asilo Eccezione di invalidità degli atti dell’Unione v. Ricorsi di annullamento di atti dell’Unione Economia di mercato aperta (Principio dell’): 43, 622, 684, 691 v. anche: Concorrenza
ESA (Agenzia spaziale europea) v. Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio
Esperti nazionali distaccati (END) v. Funzionari e agenti ESPRIT v. Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio EUIPO v. Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale Euratom/CEEA v. Comunità europea dell’energia atomica Euro v. Unione economica e monetaria
Effetti diretti v. Accordi internazionali; Atti delle istituzioni; Diritto dell’Unione; Trattati istitutivi
Eurodac (Banca dati per il confronto delle impronte digitali) v. Frontiere
EIT (Istituto europeo di innovazione e tecnologia) v. Industria
Eurogruppo v. Unione economica e monetaria
Elettorato attivo e passivo v. Cittadinanza
Eurojust: 66 s., 112, 560, 566 s., 573 ss.
Elezioni comunali v. Cittadinanza Elezioni europee v. Cittadinanza; Parlamento europeo Elusione fiscale v. Fiscalità END (Esperti nazionali distaccati) v. Funzionari e agenti Energia: 754 s., 789 ss. Agenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia: 755, 792 Carta dell’energia: 790 – e ambiente: 790 Protocollo di Kyoto (1997): 790 Trattato della Comunità dell’energia: 790 v. anche: Accordi internazionali; Ambiente; Reti transeuropee; Strategia “Europa 2020” ENISA (Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza delle reti e dell’informazione) v. Reti transeuropee
“Europa 2020” (Strategia) v. Strategia “Europa 2020”
European Rapid Reaction Force (Forza di reazione rapida europea): 859
European Research Area Committee (CREST/ ERAC): 772 Europol (Ufficio europeo di polizia): 63, 66 s., 112, 542, 575 s., 578 ss. campo d’azione di –: 581 squadre investigative comuni: 581, 583 Eurosistema v. Unione economica e monetaria Eurosummit (o “Vertice euro”) v. Unione economica e monetaria Eurosur (Sistema europeo di sorveglianza delle frontiere) v. Frontiere F FC (Fondo di coesione) v. Fondi strutturali
Indice analitico FEAMP (Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca) v. Agricoltura; Fondi strutturali FEAOG (Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia) v. Agricoltura; Fondi strutturali FEASR (Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale) v. Agricoltura; Fondi strutturali Federalismo v. Unione europea FEI (Fondo europeo per gli investimenti) v. Fondi strutturali FEIS (Fondo europeo per gli investimenti strategici) v. Fondo europeo per gli investimenti strategici FEP (Fondo europeo per la pesca) v. Agricoltura; Fondi strutturali FES (Fondo di solidarietà) v. Fondi strutturali FESF (Fondo europeo di stabilizzazione finanziaria) v. Unione economica e monetaria FESR (Fondo europeo di sviluppo regionale) v. Fondi strutturali Finanze (dell’Unione): 123 ss. lotta contro le frodi alle –: 130 s., 454, 570 – – principio di assimilazione: 130 v. anche: Bilancio; Risorse proprie; Ufficio europeo per la lotta antifrode
Fiscal compact
v. Unione economica e monetaria Fiscalità: 652 ss. armonizzazione delle legislazioni fiscali in materia di imposte: 655 ss. – e libera circolazione delle merci: 653 s. elusione fiscale: 659 imposte dirette: 658 ss. – – Organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM): 659 imposte indirette: 655 ss. – – forum shopping: 661 – – imposta sulle transazioni finanziarie (ITF): 657 rapporti con le libertà di circolazione: 653 ss. v. anche: Cooperazione amministrativa; Mercato interno; Merci; Organismi di investimento collettivo in valori mobiliari; Ripetizione dell’indebito; Società
995 FMI v. Fondo monetario internazionale Fondi strutturali: 762 ss. coordinamento dei –: 763 ss. Fondo di coesione (FC): 751, 763 Fondo di solidarietà (FES): 762, 887 Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA): 474 s., 760 Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEAOG): 474 s., 760 ss. Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR): 472 s., 475, 765 Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR): 760 ss. Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP): 475, 477, 765 Fondo europeo per gli investimenti (FEI): 758, 762 Fondo europeo per la pesca (FEP): 475, 477 Fondo sociale europeo (FSE): 760 ss. Fondi strutturali e di investimento europei (Fondi SIE): 765 v. anche: Banca europea per gli investimenti; Politica sociale; Reti transeuropee; Unione economica e monetaria Fondo Asilo, migrazione e integrazione: 537 Fondo di coesione (FC) v. Fondi strutturali Fondo di sicurezza interna: 537 Fondo di solidarietà (FES) v. Fondi strutturali Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEAOG) v. Agricoltura; Fondi strutturali Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) v. Agricoltura; Fondi strutturali Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione: 765 Fondo europeo di stabilizzazione finanziaria (FESF) v. Unione economica e monetaria Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) v. Fondi strutturali Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP) v. Agricoltura; Fondi strutturali
Indice analitico
996 Fondo europeo per gli investimenti (FEI) v. Fondi strutturali
GATT v. Accordo generale sulle tariffe e il commercio
Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS): 759, 769 Fondo europeo per la pesca (FEP) v. Agricoltura; Fondi strutturali Fondo monetario internazionale (FMI): 677, 681 v. anche: Unione economica e monetaria
GECT v. Gruppo europeo di cooperazione territoriale
Fondo sociale europeo (FSE) v. Fondi strutturali
Giustizia e affari interni v. Spazio di libertà, sicurezza e giustizia
Formazione professionale v. Istruzione
Golden share
Forza di reazione rapida europea (European Rapid Reaction Force): 859 Freno di emergenza v. Processo decisionale Frodi v. Bilancio; Ufficio europeo per la lotta antifrode Frontex v. Frontiere Frontiere (Controlli alle): 537 ss. Agenzia europea per la gestione operativa dei sistemi IT: 540 Eurodac: 540, 546 Eurosur: 540 Frontex: 540 ss., 583 S.I.R.E.N.E. (Ufficio): 539 VIS: 540, 542, 579 v. anche: Immigrazione; Schengen; Spazio di libertà, scurezza e giustizia; Visti Funzionari e agenti (dell’Unione): 115 ss. accesso alla funzione pubblica europea: 117 s. diritti e doveri dei –: 115 s. esperti nazionali distaccati (END): 116 Statuto del personale: 116 v. anche: Apparato amministrativo dell’Unione; Privilegi e immunità dell’Unione; Responsabilità dell’Unione; Segreto professionale; Tribunale della funzione pubblica Funzione pubblica europea v. Funzionari e agenti G Garante europeo della protezione dei dati v. Dati personali (Tutela dei) GATS v. Accordo generale sul commercio dei servizi
GEIE (Gruppo europeo di interesse economico) v. Stabilimento e servizi Gioventù (Politica in materia di) v. Istruzione
v. Capitali
Governance economica
v. Unione economica e monetaria
Grandfather clause
v. Capitali Grandi orientamenti di politica economica (GOPE): 685 Groenlandia applicazione del Trattato alla –: 47 Gruppo europeo di cooperazione territoriale v. Coesione economica, sociale e territoriale Gruppo europeo di interesse economico (GEIE) v. Stabilimento e servizi I IATA (International Air Transport Association) v. Trasporti ICAO (International Civil Aviation Organization) v. Trasporti Identità nazionale (Rispetto dell’): 119, 376 v. anche: Stati membri IME v. Istituto Monetario Europeo IMI (Sistema di informazione del mercato interno) v. Cooperazione amministrativa Immigrazione: 537, 548 ss. v. anche: Asilo; Cittadinanza; Frontiere; Spazio di libertà, sicurezza e giustizia; Visti Immunità v. Privilegi e immunità dell’Unione Impieghi nella pubblica amministrazione v. Lavoratori Imposte v. Fiscalità
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Indice analitico Imprese: 624 s. – incaricate di servizi di interesse economico generale: 438, 465, 514, 626 s., 646, 741, 761, 792 – piccole e medie (PMI): 472, 657, 718, 758 ss. – pubbliche: 465, 625 – titolari di diritti speciali ed esclusivi: 465, 524, 625 s. v. anche: Aiuti di Stato; Concorrenza; Industria; Merci; Trasporti Inchiesta (Commissioni di) v. Parlamento europeo Incompetenza v. Ricorsi di annullamento di atti dell’Unione Industria: 756 ss. Enterprise Europe Network (“rete”): 759 Istituto europeo di innovazione e tecnologia (EIT): 759, 774 Memorandum su “La politica industriale della Comunità” (1970): 756 Programma quadro di ricerca e innovazione (Orizzonte 2020): 759, 775 Programma per la competitività delle imprese e le piccole e le medie imprese (COSME): 759 Rapporto Davignon: 756 Small Business Act for Europe (SBA): 759 v. anche: Fondi strutturali; Imprese; Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio; Strategia “Europa 2020” Iniziativa legislativa europea v. Cittadinanza; Processo decisionale Integrazione europea v. Unione europea
International Air Transport Association (IATA)
v. Trasporti
International Civil Aviation Organization (ICAO) v. Trasporti
Internet: 754 Intese tra imprese v. Concorrenza Investimenti diretti v. Capitali; Politica commerciale comune Irlanda Protocollo (n. 19) sull’acquis di Schengen: 57, 533 Protocollo (n. 20) sull’applicazione di alcuni aspetti dell’articolo 26 TFUE: 51, 536 Protocollo (n. 21) sulla posizione dell’– rispetto allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia: 51, 343, 536, 826
Protocollo (n. 35) sull’articolo 40.3.3 della costituzione irlandese: 51 Istituto europeo di innovazione e tecnologia (EIT) v. Industria Istituto Monetario Europeo (IME): 670, 676 v. anche: Banca centrale europea; Sistema europeo di banche centrali; Unione economica e monetaria Istituzioni e organi dell’Unione: 59 ss., 62 ss. istituzioni di controllo: 101 ss. istituzioni politiche: 69 ss. principi di funzionamento: – – auto-organizzazione: 62 – – equilibrio istituzionale: 64 s., 70, 73, 78, 144, 186, 197 s. – – leale cooperazione (o collaborazione): 65 s., 144, 171, 200, 356, 363, 375, 626 quadro istituzionale: 32, 59 ss. sede: 63, 65 – – Protocollo (n. 6) sulle sedi delle –: 63, 92, 245 v. anche: Accordi interistituzionali; Agenzie europee; Banca centrale europea; Banca europea per gli investimenti; Comitato delle Regioni; Comitato economico e sociale; Commissione; Consiglio; Consiglio europeo; Corte di giustizia dell’Unione; Democrazia; Parlamento europeo; Regime linguistico; Stati membri Istruzione: 730 ss. programmi in materia di –: 731 s., 734 s. – – programma “Erasmus+”: 736 v. anche: Accordi internazionali Italia (Partecipazione all’Unione europea dell’): 891 ss., 897 ss., 925 ss. attuazione degli obblighi europei (c.d. fase discendente): 926, 934 ss. – – Legge di delegazione europea: 937 ss. – – Legge europea: 934 ss. – – recepimento delle direttive: 938 ss. legge n. 234/2012: 927 ss. ordinamento italiano e diritto dell’Unione: – – Costituzione e diritto dell’Unione: 892 ss., 902 ss. – – giurisprudenza costituzionale in materia di: 892 ss., 902 ss. partecipazione al processo decisionale (c.d. fase ascendente): 927 ss. – – Comitato interministeriale per gli affari europei (CIAE): 931 s. – – Dipartimento per le politiche europee: 928 – – Governo (ruolo del): 927 s. – – Parlamento (ruolo del): 928 ss. Regioni e Unione: 894 ss., 933 ss.
998 – – – v.
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– partecipazione alla fase ascendente: 933 s. – partecipazione alla fase discendente: 942 ss. – potere sostitutivo dello Stato: 940 ss. anche: Legge Buttiglione; Legge comunitaria; Legge La Pergola
ITF (Imposta sulle transazioni finanziarie) v. Fiscalità J Joint European Tours (JET): 776 L Lavoratori (Libera circolazione dei): 479 ss. ambito di applicazione: 482 ss. – e attività sportive professionali: 483 – e cittadini di paesi terzi: 482 diritti sociali fondamentali: 709 ss. divieto di discriminazioni: 485 ss. impieghi nella pubblica amministrazione: 488 sicurezza sociale dei – migranti: 489 s. v. anche: Cittadinanza; Politica sociale; Stabilimento e servizi Leader (strumento di sostegno allo sviluppo locale): 472, 764 v. anche: Coesione economica, sociale e territoriale Leale cooperazione v. Istituzioni e organi dell’Unione; Stati membri Legalità (Principio di) v. Stato di diritto Legge Buttiglione: 926, 942 v. anche: Italia Legge comunitaria: 934 s. v. anche: Italia Legge La Pergola: 925, 935, 942 v. anche: Italia Legiferare meglio (accordo interistuzionale): v. Accordi interistituzionali Libera pratica (Merci in) v. Merci; Politica commerciale comune Libera prestazione dei servizi v. Politica commerciale comune; Stabilimento e servizi Lingue dell’Unione v. Regime linguistico
M Magistrati (Formazione e scambio di): 553 s., 558 s., 562, 566 s. Mandato d’arresto europeo (MAE) v. Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale Mandato europeo di ricerca delle prove (MER) v. Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale Marchio comunitario: 665 Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (UAMI): 665 Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO): 665 Meccanismo europeo di stabilità (MES) v. Unione economica e monetaria Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (MESF) v. Unione economica e monetaria Mediatore europeo: 226 ss., 409 Medici v. Diplomi Mercato comune v. Mercato interno Mercato interno: 443 ss. – e mercato comune: 443 v. anche: Capitali; Cooperazione amministrativa; Lavoratori; Merci; Ravvicinamento delle legislazioni; Stabilimento e servizi Merci (Libera circolazione delle): 447 ss. ambito di applicazione territoriale: 448 s. – in libera pratica: 449, 653, 865 restrizioni alle esportazioni: 461 restrizioni quantitative (divieto delle): 455 – – deroghe al divieto: 461 ss. – – misure di effetto equivalente alle – –: 450, 455 ss. v. anche: Capitali; Fiscalità; GATT; Monopoli; OMC/WTO; Politica commerciale comune; Ripetizione dell’indebito; Unione doganale MES (Meccanismo europeo di stabilità) v. Unione economica e monetaria MESF (Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria) v. Unione economica e monetaria
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Indice analitico Metodo aperto di coordinamento: 712 v. anche: Occupazione; Politica sociale Metodo comunitario e metodo intergovernativo: 9, 33 ss., 808 v. anche: Unione europea MiFID: 519, 526 Missioni di Petersberg v. Politica di sicurezza e di difesa comune Misure di salvaguardia v. Politica commerciale comune; Salvaguardia Misure restrittive v. Sanzioni Moneta unica europea v. Unione economica e monetaria Monopoli – commerciali: 464 ss., 789 – e aiuti di stato 464 s. – fiscali: 465, 626 N NATO: 10, 856 ss. Nazioni Unite (ONU): 843, 859 s. v. anche: Cooperazione allo sviluppo; Organizzazioni internazionali; Politica estera e sicurezza comune
Ne bis in idem (Principio del) v. Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale Norvegia: – e acquis di Schengen: 533, 538 s. Nuovo strumento comunitario (NIC) v. Coesione economica, sociale e territoriale O Obiettivi dell’Unione: 376 ss., 443 v. anche: Azione esterna; Politica estera e di sicurezza comune Occupazione: 711 ss. Comitato per l’–: 107, 712 s., 720 programma per l’occupazione e l’innovazione sociale (“EaSI”): 714, 765 Strategia di Lisbona: 711, 734
Strumento europeo Progress di microfinanza per l’–: 714, 765 v. anche: Fondi strutturali; Grandi orientamenti di politica economica; Politica sociale; Strategia “Europa 2020” OICVM v. Organismi di investimento collettivo in valori mobiliari OMC/WTO (Organizzazione mondiale del commercio): 448, 517, 526, 590, 845 s., 866 s. OMT (Outright monetary transactions) v. Unione economica e monetaria ONU v. Nazioni Unite
Open sky (Accordi; Sentenze) v. Trasporti
Ordinamento giuridico dell’Unione (Caratteri generali dell’): 37 ss. v. anche: Diritto dell’Unione; Stati membri Ordine di protezione europeo per le vittime di reati v. Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale Ordine europeo di indagine penale (OEI) v. Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale Ordine pubblico v. Cittadinanza; Competenza pregiudiziale; Cooperazione amministrativa; Stati membri Organi dell’Unione v. Istituzioni e organi dell’Unione Organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (OICVM): 517 ss., 659 s. v. anche: Fiscalità Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa (OSCE): 843 Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE): 10, 526, 677, 732, 843 v. anche: Organizzazioni internazionali Organizzazioni comuni di mercato (o.c.m.) v. Agricoltura; Pesca Organizzazioni internazionali: 153, 842 ss. v. anche: Accordi internazionali; Associazione; Azione esterna; Consiglio d’Europa; Cooperazione allo sviluppo; NATO; Nazioni Unite; OMC/ WTO; Organizzazione per la cooperazione e la
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sicurezza in Europa; Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico “Orientamenti generali” v. Politica estera e di sicurezza comune Orientamenti integrati v. Grandi orientamenti di politica economica Osservatorio europeo delle droghe e della tossicodipendenza: 583, 742 Osservatorio per la prevenzione della criminalità (OPC) v. Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale P PAC (Politica agricola comune) v. Agricoltura Paesi e territori d’oltremare: 51, 192, 525, 881 v. anche: Associazione; Cooperazione allo sviluppo Pagamenti (Divieto di restrizione ai) v. Capitali Pareri – conformi del Parlamento europeo: v. Processo decisionale – consultivi della Corte sugli accordi dell’Unione: 253, 351 ss. v. anche: Accordi internazionali; Atti delle istituzioni; Parlamento europeo Parità di trattamento v. Discriminazione; Politica sociale Parlamenti nazionali: 66 ss. funzioni di controllo: – – sull’attività di Europol: 582 – – sul rispetto del principio di sussidiarietà: 66, 162, 294, 417, 429 ss., 534, 554, 560, 576, 894, 930 informazione dei –: 67, 162, 534, 929 partecipazione al processo decisionale: 66 ss., 137, 162, 930 v. anche: Italia; Sussidiarietà Parlamento europeo: 18 ss., 26, 88 ss. Assemblea della CEE: 19 commissioni di inchiesta: 226 elezione a suffragio universale diretto: 19 formazione e adozione del bilancio: 124 ss. istituzione: 18 mozione di censura contro la Commissione: 98 s.
petizione (diritto di): 388 presidenza: 91 sessioni: 92 v. anche: Accordi internazionali; Bilancio; Cittadinanza; Commissione; Corte di giustizia; Istituzioni e organi dell’Unione; Mediatore europeo; Parlamenti nazionali; Privilegi e immunità dell’Unione; Processo decisionale Patto di bilancio v. Unione economica e monetaria Patto di stabilità e crescita (PSC) v. Unione economica e monetaria Patto Euro plus v. Unione economica e monetaria Personalità giuridica dell’Unione: 32 v. anche: Azione esterna; Unione europea Persone (Libera circolazione delle): 393 ss., 479 ss. cittadini dell’Unione: v. Cittadinanza cittadini di Stati terzi: 541, 542 s., 548 ss. v. anche: Asilo; Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia civile; Frontiere; Immigrazione; Lavoratori; Spazio di libertà, sicurezza e giustizia; Stabilimento e servizi; Visti PESC v. Politica estera e di sicurezza comune Pesca: 475 ss. Agenzia europea di controllo della pesca (EFCA): 476 conservazione e gestione delle risorse alieutiche: 476 organizzazione comune dei mercati nel settore dei prodotti della – e dell’acquacoltura: 476 Total Allowable Catches (TAC): 476 v. anche: Agricoltura; Fondi strutturali Petizioni v. Cittadinanza; Parlamento europeo Piccole e medie imprese (PMI) v. Imprese Politica agricola comune (PAC) v. Agricoltura Politica commerciale comune: 865 ss. accordi internazionali in materia di –: 872 s. misure autonome: 872 ss. – – di difesa commerciale: 874 ss. – – di salvaguardia: 873 ss. nozione: 868 ss.
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Indice analitico Sistema delle preferenze generalizzate (SPG e SPG+): 874 s. v. anche: Accordi internazionali; Azione esterna; Dumping; GATT; OMC/WTO; Salvaguardia; Unione doganale Politica comune della pesca (PCP) v. Pesca Politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC): 808 s., 856 ss. Agenzia europea per la difesa: 862 s. clausola di difesa reciproca: 864 Comitato militare dell’Unione europea (CMUE): 864 Comitato per gli aspetti civili della gestione delle crisi (CIVCOM): 864 cooperazione strutturata permanente: 56, 860 s. difesa comune (passaggio a una): 858 missioni dell’Unione: 860 ss. – – missioni di Petersberg: 857 s. principio di solidarietà: 865 Stato maggiore dell’Unione: 858 v. anche: Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza; Comunità europea di difesa; Forza di reazione rapida europea; NATO; Nazioni Unite; Politica estera e di sicurezza comune; Solidarietà; Unione europea occidentale
Politica industriale v. Industria Politica monetaria v. Unione economica e monetaria Politica regionale v. Coesione economica, sociale e territoriale; Comitato delle regioni; Regioni Politica sociale: 714 s. accordi collettivi: 715, 719 ss. – – organizzazioni rappresentative delle parti sociali: 719 ss. Accordo sulla –: 710 Comitato per la –: 721 dialogo sociale: 716 ss. diritto al congedo retribuito: 727 ss. parità di trattamento uomo-donna in materia di lavoro: 722 s. – – azioni positive: 727 ruolo delle parti sociali: 719 ss. Vertice sociale trilaterale per la crescita e l’occupazione –: 721 v. anche: Carta dei diritti sociali fondamentali; Carta sociale europea; Fondi strutturali; Istruzione; Occupazione
Politica di vicinato: 740, 809
Polizia (Cooperazione di) v. Cooperazione di polizia; Europol
Politica economica v. Unione economica e monetaria
Posizione dominante (Abuso di) v. Concorrenza
Politica estera e di sicurezza comune (PESC): 808 ss., 847 ss. Comitato politico e di sicurezza (COPS): 855 s., 864 competenze in materia di –: 255, 414, 419, 847 ss. – – clausola di “non interferenza” reciproca con altre competenze: 255, 849, 855 – – competenze degli Stati membri: 849 s. Consiglio: – – modalità di voto nel – –: 84, 853 ss. decisioni prese nel settore della –: 183, 850 ss. – – orientamenti generali: 851 – – “posizioni”: 852 obiettivi della –: 811 ss. Parlamento europeo (ruolo del): 854 s. Rappresentanti speciali dell’Unione: 855 v. anche: Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza; Azione esterna; Commissione; Consiglio; Consiglio d’Europa; Consiglio europeo; Danimarca; NATO; Nazioni Unite; Organizzazioni internazionali; Parlamento europeo
“Posizioni” v. Politica estera e di sicurezza comune Poteri impliciti v. Competenze dell’Unione PQP (Programma quadro pluriennale) v. Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio Primato del diritto dell’Unione v. Diritto dell’Unione Principi generali: 21, 144, 374 ss., 445, 480 ss. – di diritto: 143 ss., 917 v. anche: Amministrazione; Democrazia; Diritti fondamentali; Diritto dell’Unione; Discriminazione; Proporzionalità; Prossimità; Stati membri; Stato di diritto; Sussidiarietà; Trasparenza; Unione europea Principio “chi inquina paga”: 608, 779, 781 s., 783 ss. Principio di effettività v. Diritto dell’Unione
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Principio di equivalenza v. Diritto dell’Unione
Programmi di formazione professionale (Comett, Eurotecnet, Force ecc.): 735 s.
Principio di legalità: 221 s., 285 s.
Programmi di istruzione per la gioventù (Erasmus, Jean Monnet, Leonardo, Trasversale ecc.): 732
Privilegi e immunità dell’Unione: 91, 118, 817, 840 Procedimento pregiudiziale v. Competenza pregiudiziale; Corte di giustizia dell’Unione Procedura di infrazione v. Ricorsi per inadempimento degli Stati membri Procedura legislativa dell’Unione v. Processo decisionale Processo decisionale: base giuridica: 169, 187, 192 ss., 288 freno di emergenza: 54, 73, 87, 205, 489, 536, 561, 931 potere di iniziativa: – – del cittadino dell’Unione: 197 – – del Parlamento europeo: 196 s. – – della BCE: 106 – – della Commissione: 93, 195 ss. potere di revoca dell’iniziativa: 199 procedura di adozione di atti di esecuzione: 214 ss. procedura di approvazione: 206 s. procedura di consultazione: 199 ss. procedura di cooperazione: 20, 190 procedura di co-decisione: 190 procedura di delega legislativa: 207 ss., 210 ss. procedura di revisione dei Trattati: 137 s. procedura legislativa ordinaria: 190, 202 ss. – – comitato di conciliazione: 127, 203 s. – – triloghi: 205 s. procedura legislativa speciale: 191 s. v. anche: Accordi interistituzionali; Accordi internazionali; Atti delle istituzioni; Bilancio; Comitologia; Consiglio; Istituzioni e organi dell’Unione; Parlamento europeo; Politica estera e di sicurezza comune; Spazio di libertà, sicurezza e giustizia; Unione economica e monetaria
Programmi integrati mediterranei (PIM) v. Coesione economica, sociale e territoriale Proporzionalità (Principio di): 163 s., 427 ss., 663, 757, 784 v. anche: Sussidiarietà Proposta (Potere di) v. Processo decisionale Proprietà (Regime di): 792 Proprietà industriale e commerciale (Tutela della) v. Marchio comunitario Proprietà intellettuale (Diritti di) v. Brevetto comunitario; Politica commerciale comune; Ravvicinamento delle legislazioni Prossimità (Principio di): 375 v. anche: Democrazia; Sussidiarietà; Trasparenza Protezione civile: 796 ss. capacità europea di risposta emergenziale (EERC): 799 Centro di coordinamento della risposta alle emergenze (ERCC): 799 Meccanismo unionale per la – : 798 – – e paesi terzi: 795, 887 Sistema comune di comunicazione e informazione in caso di emergenza (CECIS): 799 v. anche: Politica di sicurezza e di difesa comune; Solidarietà Protezione dei consumatori v. Consumatori Protezione diplomatica v. Azione esterna; Cittadinanza Protezione sussidiaria v. Asilo
Procura europea: 560, 573 ss. v. anche: Spazio di libertà, sicurezza e giustizia
Protezione temporanea v. Asilo
Professioni v. Diplomi e titoli professionali
Protocolli v. Parlamenti nazionali; Regno Unito; Sussidiarietà; Trattati istitutivi
Programma quadro di ricerca e innovazione (Orizzonte 2020) v. Industria; Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio
PSDC v. Politica di sicurezza e di difesa comune
Programma quadro pluriennale (PQP) v. Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio
Pubblici poteri (Partecipazione all’esercizio dei) v. Stabilimento e servizi
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Indice analitico Pubblicità degli atti dell’Unione v. Atti delle istituzioni
Quadro strategico comune (QSC) v. Coesione economica, sociale e territoriale
Regno Unito: Brexit: v. Recesso (dall’Unione) Protocollo (n. 15) su talune disposizioni relative al –: 57 Protocollo (n. 19) sull’acquis di Schengen: 57, 533 Protocollo (n. 20) sull’applicazione di alcuni aspetti dell’articolo 26 TFUE: 51, 536 Protocollo (n. 21) sulla posizione del – rispetto allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia: 51, 343, 536 Protocollo (n. 30) sull’applicabilità della Carta dei diritti fondamentali: 25, 50, 150 s. v. anche: Cittadinanza
Qualifiche professionali v. Diplomi e titoli professionali
Regolamenti v. Atti delle istituzioni
Questioni pregiudiziali v. Competenza pregiudiziale
Regole di concorrenza v. Concorrenza
Q Quadro finanziario pluriennale (QFP) v. Bilancio Quadro istituzionale v. Istituzioni e organi dell’Unione
R RABIT (Squadre di intervento rapido alle frontiere) v. Frontiere Raccomandazioni v. Atti delle istituzioni RACE: 770 Ravvicinamento delle legislazioni: 661 ss. – e alterazioni della concorrenza: 662, 664 ss. – e diritti di proprietà intellettuale: 665 ss. – e mercato interno: 661 ss. – e misure unilaterali degli Stati membri: 663 ss. v. anche: Brevetto comunitario; Fiscalità Razzismo e xenofobia v. Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale Recesso (dall’Unione): 47 ss. – – del Regno Unito (c.d. Brexit): 7, 27, 136 procedura di –: 48 v. anche: Adesione; Stati membri Regime linguistico: 119 ss. – della Corte di giustizia: 244 s. Regioni: – insulari e ultraperiferiche: 51, 761 – meno favorite: 761 v. anche: Coesione economica, sociale e territoriale; Comitato delle Regioni; Italia; Reti transeuropee; Trasporti
Relazioni diplomatiche v. Azione esterna Relazioni esterne dell’Unione v. Accordi internazionali; Azione esterna REPC: 573 Responsabilità dell’Unione: 316 ss. competenza delle giurisdizioni dell’Unione: 316 – contrattuale: 316, 347 s. – extracontrattuale: 316 ss. – – azione di risarcimento per – –: 316 ss. v. anche: Banca centrale europea; Contratti dell’Unione; Corte di giustizia dell’Unione; Funzionari e agenti Restrizioni quantitative e misure di effetto equivalente (Divieto di) v. Merci Rete europea di prevenzione della criminalità (REPC) v. Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale Rete europea di servizi per l'impiego (EURES): 481 Rete giudiziaria europea: 554, 559, 567, 573, 575 v. anche: Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia civile Reti transeuropee: 750 ss. Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza delle reti e dell’informazione (ENISA): 755 energia: 754 ss. Meccanismo per collegare l’Europa (MCE): 755
1004 progetti prioritari: 753 ss. regioni insulari e periferiche: 751 telecomunicazioni: 754 trasporti: 591, 753 ss. v. anche: Fondi strutturali Revisione (Procedura di) v. Processo decisionale; Trattati istitutivi Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio: 769 ss. Agenzia spaziale europea (ESA): 777 ss. Centro comune di ricerca: 774 ESPRIT: 770 imprese comuni: 776 ss. Programma quadro di ricerca e innovazione (Orizzonte 2020): 775 Programma quadro pluriennale (PQP): 774 ss. programmi di ricerca (Galileo, GMES, EUREKA): 776 s. v. anche: Accordi internazionali; Industria; Strategia “Europa 2020” Ricorsi di annullamento di atti dell’Unione: 279 ss. atti impugnabili: 281 ss. atti regolamentari: 300 s. competenza di piena giurisdizione della Corte: 305 ss. eccezione di invalidità nell’ambito dei –: 309 ss. legittimazione attiva: 293 ss. legittimazione passiva: 280 s. sentenza di annullamento: – – effetti: 307 ss. – – mantenimento degli effetti dell’atto annullato: 308 s. vizi degli atti: 285 ss. – – incompetenza: 287 – – sviamento di potere: 290 ss. – – violazione dei Trattati: 289 s. – – violazione di forme sostanziali: 287 s. Ricorsi in carenza: 311 ss. Ricorsi per inadempimento degli Stati membri: 259 ss. procedure di infrazione promosse dalla Commissione: 260 ss. procedure di infrazione promosse da uno Stato membro: 274 ss. sanzioni nei confronti degli Stati membri per inadempimento: 271 ss. sentenza di accertamento dell’inadempimento: 271 s. – – ricorso per inosservanza della – –: 272 ss. v. anche: Corte di giustizia dell’Unione; Stati membri
Indice analitico Rifugiati v. Asilo Ripetizione dell’indebito (Diritto alla): 453 s., 655 Risarcimento dei danni (Ricorsi per) v. Responsabilità dell’Unione Risorse alieutiche v. Pesca Risorse proprie (dell’Unione): 123 ss. v. anche: Bilancio S Salvaguardia: clausola di –: 519, 663, 780, 874 ss. misure di –: v. Politica commerciale comune Sanità pubblica: 740 ss. Agenzia europea per i medicinali: 741 Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie: 743 rimborso delle cure sanitarie prestate in altri Stati membri: 741 v. anche: Accordi internazionali; Osservatorio europeo delle droghe e della tossicodipendenza Sanzioni: – nei confronti di paesi terzi o individui: v. 819 ss. – pecuniarie nei confronti degli Stati membri: v. Corte di giustizia dell’Unione; Terrorismo; Unione economica e monetaria Schengen (Accordi di): 530 ss., 531 ss. acquis di –: 532 s. – e Stati terzi: 532 s. sistema di informazione Schengen (SIS): 532, 539 s., 579 v. anche: Danimarca; Frontiere; Irlanda; Regno Unito Scudo anti spread v. Unione economica e monetaria SEBC v. Sistema europeo di banche centrali Sedi v. Istituzioni e organi dell’Unione Segretariato del Consiglio v. Consiglio Segreto professionale v. Funzionari e agenti
1005
Indice analitico Servizi (Libera prestazione dei) v. Politica commerciale comune; Stabilimento e servizi Servizi di interesse economico generale v. Imprese Servizi pubblici v. Imprese; Trasporti Servizio europeo di azione esterna (SEAE) v. Azione esterna SEVIF (Sistema europeo di vigilanza finanziaria) v. Unione economica e monetaria Sicurezza pubblica v. Competenza pregiudiziale; Cooperazione amministrativa; Stati membri Sicurezza sociale dei lavoratori migranti v. Lavoratori SID (Sistema di informazione doganale) v. Unione doganale
Single Resolution Mechanism (SRM) v. Unione economica e monetaria Single Supervisory Mechanism o Sistema di vigilanza unico (SSM) v. Unione economica e monetaria S.I.R.E.N.E. (Ufficio) v. Frontiere SIS (Sistema di informazione Schengen) v. Schengen Sistema di informazione visti (VIS) v. Frontiere Sistema di vigilanza unico o Single Supervisory Mechanism (SSM) v. Unione economica e monetaria Sistema europeo di banche centrali (SEBC): 104, 188, 671, 675, 691 v. anche: Banca centrale europea; Istituto Monetario Europeo; Unione economica e monetaria Sistema europeo di sorveglianza delle frontiere (Eurosur) v. Frontiere Sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF) v. Unione economica e monetaria Sistema giurisdizionale dell’Unione v. Corte di giustizia dell’Unione; Tutela giudiziaria Sistema monetario europeo (SME) v. Unione economica e monetaria
Situazioni puramente interne v. Cittadinanza
Six pack
v. Unione economica e monetaria SME (Sistema monetario europeo) v. Unione economica e monetaria Società: direttive in materia societaria: 515 ss. diritto di stabilimento delle –: 490 ss. Società cooperativa europea: 416, 516, 658 Società europea: 416, 516, 658 Soggiorno (Diritto di) v. Asilo; Cittadinanza; Immigrazione Solidarietà (Clausola di): 797 s., 885 s. v. anche: Politica di sicurezza e di difesa comune; Protezione civile Sorveglianza multilaterale v. Unione economica e monetaria Spazio v. Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio Spazio di libertà, sicurezza e giustizia (SLSG): 529 ss., 534 ss. spazio di giustizia: 553 ss.; v. anche: Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia civile spazio di libertà: 537 ss.; v. anche: Asilo; Frontiere; Immigrazione spazio di sicurezza: 559 ss.; v. anche: Cooperazione di polizia; Cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale; Eurojust; Europol; Procura europea Spazio economico europeo (SEE): 488 Spazio ferroviario europeo unico: v. Trasporti Sport v. Istruzione Squadre investigative comuni v. Europol Stabilimento (Diritto di) e servizi (libera prestazione dei): 490 ss. ambito di applicazione territoriale: 496 – – nel tempo: 496 s. direttiva servizi (c.d. Bolkestein): 514 s. divieto di discriminazioni: 504 ss. – – fondate sulla residenza: 506 ss. Gruppo europeo di interesse economico (GEIE): 516
1006 limitazioni : 509 ss. – – partecipazione all’esercizio di pubblici poteri: 509 s. – – restrizioni indistintamente applicabili: 506 ss. nozione di servizi: 501 ss. nozione di stabilimento (primario e secondario): 492 ss. v. anche: Appalti pubblici; Assicurazioni; Banche; Borse; Capitali; Cooperazione amministrativa; Diplomi e titoli professionali; GATS; Organismi di investimento collettivo in valori mobiliari; Politica commerciale comune; Società Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP) v. Convenzione ACP-CE Stati membri: attuazione degli obblighi europei: 922 ss. – – inadempimento degli obblighi incombenti agli –: v. Ricorsi per inadempimento degli Stati membri – – responsabilità degli – per violazione del diritto dell’Unione: 261 ss. controversie tra –: 350 s. – – compromesso per istituire la competenza della Corte: 350 s. – – obbligo di risolvere le – – all’interno del sistema: 349 s. identità nazionale degli – (rispetto dell’): 119, 376 obbligo di leale cooperazione (o collaborazione): 65 s., 375, 626, 449, 626, 651, 800 ordinamenti nazionali e diritto dell’Unione: v. Diritto dell’Unione riserva di competenza in materia di ordine pubblico e sicurezza interna: 266, 343, 448, 534, 539, 561; v. anche: Cooperazione amministrativa; Merci; Stabilimento e servizi ruolo degli –: 42 ss. status di –: 42 ss. tutela giudiziaria in ambito nazionale: v. Tutela giudiziaria violazione dei diritti fondamentali da parte degli –: v. Diritti fondamentali v. anche: Accordi internazionali; Adesione; Cooperazione rafforzata; Corte di giustizia dell’Unione; Italia; Salvaguardia; Unione europea Stato di diritto: rispetto dei principi dello –: 21, 46, 221, 231, 374, 811 v. anche: Democrazia Stato maggiore dell’Unione (SMUE) v. Politica di sicurezza e di difesa comune
Indice analitico Strategia di Lisbona v. Occupazione Strategia “Europa 2020”: – e coesione economica, sociale e territoriale: 764 – ed energia: 793 – e industria: 759 – e occupazione: 714 – e ricerca e sviluppo tecnologico: 775 Sussidiarietà (Principio di) controllo sul rispetto del –: 427 ss., 663, 757, 780 – – ruolo dei parlamenti nazionali: 66, 294, 417, 429 ss., 894, 918, 929 ss. – – ruolo della Corte di giustizia: 294, 430 s. nozione: 428 s. Protocollo (n. 2) sull’applicazione dei principi di – e proporzionalità: 66, 111, 139, 162, 294, 429 ss. v. anche: Democrazia; Parlamenti nazionali; Proporzionalità; Prossimità; Trasparenza Sviamento di potere v. Ricorsi di annullamento di atti dell’Unione Sviluppo tecnologico v. Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio T TAC (Total Allowable Catches) v. Pesca Tariffa doganale comune (TDC) v. Unione doganale Tariffa integrata dell’Unione (Taric) v. Unione doganale Tasse di effetto equivalente ai dazi doganali v. Unione doganale Telecomunicazioni v. Reti transeuropee Territorio dell’Unione v. Diritto dell’Unione; Trattati istitutivi Terrorismo: 526 s., 535, 570 s., 575, 579 s., 822, 833, 858 s. v. anche: Spazio di libertà, sicurezza e giustizia
Total Allowable Catches (TAC) v. Pesca
Trasparenza (Principio di): 438 – e accesso ai documenti dell’Unione: 410
1007
Indice analitico Trasporti (Politica comune dei): 585 ss. cabotaggio (attività di): 590, 592, 598, 603, 611 s., 615 Comitato trasporti: 589 diritti dei passeggeri in materia di –: 587, 605, 608, 617 infrastrutture dei –: 586 libera prestazione dei servizi: 504 Memorandum sui – (1961): 586 obblighi di servizio pubblico in materia di – (OSP): 599 s., 611 principi informatori: 592 ss. – – principio di non discriminazione: 593 ss. regime speciale per la Germania: 601 regole di concorrenza e disciplina sugli aiuti di Stato in materia di –: 595 ss. – e ambiente: 619, 781 trasporto aereo: 614 ss. – – Agenzia europea per la sicurezza aerea: 611 – – “cielo unico europeo”: 616 – – International Air Transport Association (IATA): 614 – – International Civil Aviation Organization (ICAO): 590, 614 – – “open sky” (accordi; sentenze) 590, 592, 616 s. – – regime di Varsavia: 618 trasporto ferroviario: 602 ss. – – Spazio ferroviario europeo unico: 603 trasporto fluviale: 608 ss. – – servizi armonizzati d’informazione fluviale (RIS): 610 trasporto marittimo: 610 ss. – – Agenzia europea per la sicurezza marittima: 613 – – codice di condotta sulle conferenze marittime: 597, 610 – – codice internazionale di gestione della sicurezza delle navi e della prevenzione dell’inquinamento (c.d. codice ISM): 614 – – comitato per la sicurezza marittima e la prevenzione dell’inquinamento provocato dalle navi (comitato COSS): 613 trasporto stradale: 605 ss. – – Eurobollo: 607 – – patente di guida comunitaria: 606 v. anche: Ambiente; Azione esterna; Coesione economica, sociale e territoriale; Reti transeuropee Trattati istitutivi: ambito di applicazione territoriale: 44, 51, 71, 448, 496 durata: 47
effetti delle norme dei –: 142 ss. natura: 130 ss. Protocolli: 139 s. ratifica ed entrata in vigore: 24 revisione: 22 s., 36, 132 ss. – – clausole passerella: 141, 165, 208 – – procedura di – –: 36, 134 ss., 863 struttura e contenuti: 31 ss. v. anche: Atto Unico europeo; Diritto dell’Unione; Regime linguistico; Stati membri; Unione europea Trattato che adotta una costituzione per l’Europa v. Costituzione per l’Europa Trattato “Spinelli” (1984): 4 Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e monetaria (TSCG)/Fiscal Compact v. Unione economica e monetaria Trattato sull’Unione europea: v. anche: Trattati istitutivi TREVI (Gruppo): 579, 580 Tribunale: 238 s., 245 ss. competenze: 246, 347 impugnazione delle sentenze del –: 252 s. istituzione del –: 61, 238, 245 ss. missione: 245 Presidente del –: 247 procedura: 248 ss. riesame delle sentenze del –: 248, 252 Vicepresidente del –: 247 Tribunale di primo grado: 238, 245 v. anche: Corte di giustizia dell’Unione; Tribunale della funzione pubblica Tribunale della funzione pubblica (TFP): 238, 242, 247 ss., 346 competenze: 248, 345 ss. composizione: 248 impugnazione delle sentenze del –: 238, 248 soppressione del – 248 v. anche: Corte di giustizia dell’Unione; Funzionari e agenti; Tribunale Tribunale di primo grado (TPI) v. Tribunale Tribunali specializzati: 238, 247 s., 252 v. anche: Tribunale della funzione pubblica Triloghi v. Processo decisionale TRIPS (Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale): 866
1008
Indice analitico
Turismo: 794 s. – sanitario: 741 Tutela degli interessi finanziari dell’Unione v. Eurojust; Finanze; Procura europea; Ufficio europeo per la lotta antifrode Tutela dei consumatori v. Consumatori Tutela giudiziaria: 221 ss. azione di danni per violazioni del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri: v. Stati membri obblighi degli Stati membri di assicurare una – effettiva: 222 s. riesame delle sentenze nazionali definitive: 358 ss., 901 tutela cautelare: 361 ss. – come principio generale di diritto dell’Unione: 221 ss. – in ambito nazionale: 330, 355 ss.; 356 ss., 900 – nell’ambito dell’Unione: 252 v. anche: Autonomia procedurale; Corte di giustizia dell’Unione; Diritto dell’Unione Tutela non giudiziaria: 226 s.
Two pack
v. Unione economica e monetaria U UAMI (Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno) v. Marchio comunitario UEM v. Unione economica e monetaria Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) v. Brevetto; Marchio comunitario Ufficio europeo dei brevetti (EPO) v. Brevetto comunitario Ufficio europeo di coordinamento della compensazione delle domande e delle offerte di lavoro: 481 Ufficio europeo di polizia (Europol) v. Europol Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO) v. Asilo Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF): 129 s., 574, 578, 579, 678
Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (UAMI) v. Marchio comunitario Unione doganale: Comitato del codice doganale: 453 dazi doganali (divieto di): 450 ss. nomenclatura combinata (NC): 451 sistema di informazione doganale (SID): 454 tariffa doganale comune (TDC): 451 ss., 865 tariffa integrata dell’Unione (Taric): 451 tasse di effetto equivalente ai dazi doganali: 143, 449 ss., 653 v. anche: Cooperazione amministrativa; Documento amministrativo unico; GATT; Merci; OMC/ WTO; Politica commerciale comune Unione economica e monetaria (UEM): 669 ss. accordi «formali» in materia di tassi di cambio : 674, 682 ss. accordi internazionali in materia di –: 682, 818, 836 Autorità europee di vigilanza (AEV): 703 – – Autorità bancaria europea (ABE/EBA): 518, 703 s. – – Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (AESFEM/ESMA): 519, 703 – – Autorità europea delle assicurazioni e le pensioni aziendali e professionali (AEAP): 518, 703 Bretton Woods (accordi di): 669 s. Comitato economico e finanziario (CEF): 680 s. Comitato europeo per il rischio sistemico (CERS): 703 Consiglio generale: 679 s. coordinamento delle politiche economiche: 670 ss., 680 s., 685 criteri di convergenza: 671 disavanzi (o deficit) pubblici eccessivi (divieto dei): 165, 687 ss. early warning (allarme preventivo o “necessarie raccomandazioni”): 685 Ecofin: 80 s., 680 s. Eurogruppo: 80, 680 s. Eurosistema: 675 ss., 690 s. Eurosummit (o “Vertice euro”): 80, 681, 700 Fiscal compact / Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e monetaria (TSCG): 697, 699 ss., Fondo europeo di stabilizzazione finanziaria (FESF): 699 governance economica: 26, 696, 700 indirizzi di massima: 680, 684 ss., 694 s.
1009
Indice analitico Meccanismo europeo di stabilità (MES/ESM): 159, 418, 697 ss. Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (MESF/EFSM): 698 s. moneta unica europea (euro): 21, 57, 80, 106, 377, 425, 671, 690 no bail-out clause: 687 Outright monetary transactions (OMT): 329, 705 s. Patto di bilancio: 692, 697, 700 Patto di stabilità e crescita (PSC): 686, 695 s. Patto Euro plus: 26, 696 Patto per la crescita e l’occupazione: 702 scudo anti spread: 697 Semestre europeo: 695 serpente monetario: 670 Single Resolution Mechanism (SRM): 704 Sistema di vigilanza unico / Single Supervisory Mechanism (SSM): 704 Sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF): 703 Sistema monetario europeo (SME): 670, 694 Six pack: 26, 696 s. sorveglianza multilaterale: 684 s., 695 s. – – misure contro gli Stati inadempienti: 690 ss. Stati membri con deroga: 692 ss. tassi di cambio (fissazione dei): 105, 679 Two pack: 26, 702 s. v. anche: Banca centrale europea; Banche centrali nazionali; Comitato monetario; Consiglio; Consiglio europeo; Economia di mercato aperta; Fondo monetario internazionale; Grandi orientamenti di politica economica; Istituto Monetario Europeo; Metodo comunitario e metodo intergovernativo; Salvaguardia; Sistema europeo di banche centrali Unione europea: architettura dell’–: 33 ss.
ed altri modelli di integrazione: 5 ss. istituzione: 21 ss. nozione: 3 ss. personalità giuridica: 32, 808 principi e valori: 35 s., 38, 42 s., 49, 134 s., 146, 373 ss., 811 simboli: 23, 31 storia: 3 ss., 17 ss. v. anche: Accordi internazionali; Adesione; Diritto dell’Unione; Obiettivi dell’Unione; Stati membri Unione europea occidentale (UEO): 856 s. V Valori dell’Unione v. Principi generali; Unione europea Violazione del diritto dell’Unione v. Responsabilità dell’Unione; Ricorsi di annullamento di atti dell’Unione; Stati membri; Tutela giudiziaria Violazione di forme sostanziali v. Ricorsi di annullamento di atti dell’Unione VIS (Sistema di informazione visti) v. Frontiere Visti: 21, 530 s., 539, 541 s., 549, 821 v. anche: Frontiere W WTO/OMC (Organizzazione mondiale del commercio) v. OMC/WTO
Indice generale
pag. Presentazione
V
Presentazione della prima edizione
VII
Piano dell’opera
IX
Abbreviazioni
XI
Nota bibliografica e di documentazione Cronologia essenziale
XV XIX
Introduzione CAPITOLO I
L’Unione europea e il suo diritto 1. 2. 3. 4. 5.
La nozione di Unione europea Il diritto dell’Unione europea La sua autonomia La dottrina e i metodi di studio Fonti di informazione, ricerca e documentazione. Rinvio
3 8 10 12 14
CAPITOLO II
Origini e sviluppi del processo di integrazione europea 1. 2. 3. 4.
Il processo di integrazione europea: dalle origini all’Atto unico europeo Il Trattato di Maastricht e la creazione dell’Unione europea L’allargamento e il cammino verso il Trattato di Lisbona Dall’attuazione del Trattato di Lisbona al referendum sulla Brexit
17 20 22 25
Indice generale
1012
pag.
PARTE PRIMA
L’ordinamento giuridico dell’Unione CAPITOLO I
Profili generali 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Struttura e contenuti dei Trattati istitutivi dopo Lisbona L’architettura dell’Unione tra metodo comunitario e metodo intergovernativo Caratteri generali dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea Il ruolo degli Stati membri. L’acquisto e le vicende dello status di membro Segue: Il recesso dall’Unione di uno Stato membro Segue: L’applicazione differenziata del diritto dell’Unione agli Stati membri. In particolare, la cooperazione rafforzata
31 33 37 42 47 49
CAPITOLO II
Il quadro istituzionale 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19.
Profili introduttivi La nozione di «istituzione» Principi di funzionamento del sistema istituzionale. L’equilibrio istituzionale e la leale collaborazione Sistema istituzionale dell’Unione e parlamenti nazionali Le istituzioni politiche a) Il Consiglio europeo b) Il Consiglio Segue: La maggioranza qualificata in sede di Consiglio europeo e di Consiglio c) Il Parlamento europeo d) La Commissione L’Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza Le istituzioni di controllo: la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte dei conti Gli organismi monetari e finanziari: a) la Banca centrale europea b) La Banca europea per gli investimenti Gli organi consultivi: a) il Comitato economico e sociale b) Il Comitato delle regioni Le agenzie europee L’apparato amministrativo dell’Unione Il regime linguistico delle istituzioni
59 62 64 66 69 70 78 85 88 92 100 101 103 106 107 110 112 115 119
Indice generale
1013
pag. 20. Le finanze dell’Unione e in particolare l’adozione e l’esecuzione del bilancio e il controllo sulle frodi
123
CAPITOLO III
Le fonti 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14.
Profili introduttivi. Il diritto primario e il diritto derivato I Trattati: il loro carattere «costituzionale» Segue: I Trattati e le altre norme di diritto primario Segue: Gli effetti delle norme di diritto primario sui soggetti dell’ordinamento I principi generali di diritto. In particolare il principio del rispetto dei diritti fondamentali Segue: La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’adesione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo Il diritto internazionale. In particolare gli accordi internazionali dell’Unione Gli atti normativi tipici di diritto derivato Segue: Il rapporto tra gli atti normativi tipici Segue: Il regime comune agli atti normativi tipici a) I regolamenti b) Le direttive c) Le decisioni Gli altri atti tipici dell’Unione e gli atti atipici
133 134 138 142 143 146 153 160 164 168 170 173 180 183
CAPITOLO IV
Il processo decisionale 1. 2. 3. 4.
I profili generali Le procedure normative dell’Unione. Le procedure legislative Segue: La scelta della procedura applicabile Segue: Il potere d’iniziativa. In particolare, il potere di proposta della Commissione 5. Le singole procedure: a) la procedura di consultazione 6. b) La procedura legislativa ordinaria 7. c) La procedura di approvazione 8. Le procedure basate sulla delega di competenze normative e di esecuzione 9. a) La procedura di delega legislativa 10. b) La procedura di adozione di atti di esecuzione
187 188 192 195 199 202 206 207 210 213
Indice generale
1014
pag.
PARTE SECONDA
La tutela dei diritti Introduzione
221 CAPITOLO I
Considerazioni generali 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Premessa Cenni alla tutela non giudiziaria. In particolare, il Mediatore europeo La tutela giudiziaria. L’istituzione di un organo giudiziario ad hoc. La Corte di giustizia. In generale Segue: Il ruolo svolto dalla Corte. Il rafforzamento del sistema e delle sue garanzie. La tutela dei diritti fondamentali Segue: Lo sviluppo del diritto dell’Unione e la sua integrazione con gli ordinamenti nazionali Considerazioni conclusive
225 226 227 230 233 235
CAPITOLO II
Organizzazione e funzionamento della Corte di giustizia dell’Unione europea 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Origini e sviluppi Gli organi: la Corte di giustizia Segue: Il Tribunale Segue: I tribunali specializzati. Il Tribunale della funzione pubblica La procedura Le competenze. In generale Segue: Sintesi delle stesse
237 239 245 247 248 253 256
CAPITOLO III
I giudizi sui comportamenti degli Stati membri 1. 2. 3.
Premessa I ricorsi della Commissione per inadempimento degli obblighi incombenti agli Stati membri. I presupposti generali. La nozione di inadempimento La procedura di infrazione: la fase precontenziosa
259 260 264
Indice generale
1015
pag. 4. 5. 6. 7.
Segue: La fase giudiziaria Segue: La pronuncia della Corte e i suoi effetti Segue: I ricorsi per la sua inosservanza I ricorsi per inadempimento promossi da uno Stato membro
268 271 272 274
CAPITOLO IV
Il controllo sui comportamenti delle istituzioni dell’Unione 1.
Introduzione
277
I ricorsi di annullamento Premessa La legittimazione passiva Gli atti impugnabili I vizi degli atti. In generale Segue: I singoli vizi La legittimazione attiva: i) delle istituzioni; ii) degli Stati membri Segue: iii) dei soggetti privati Il ricorso: termini ed effetti Segue: La portata del sindacato della Corte. La competenza di piena giurisdizione 11. La sentenza di annullamento 12. L’accertamento incidentale dell’illegittimità di un atto
279 279 280 281 285 287 293 294 301
II. I ricorsi in carenza 13. Condizioni generali 14. Gli aspetti procedurali
311 311 314
III. L’azione di danni 15. Caratteristiche e specificità di tale azione 16. Le condizioni per la sua promozione
316 316 318
I. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.
303 307 309
CAPITOLO V
La competenza pregiudiziale 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Premessa Le finalità della competenza pregiudiziale Le condizioni per il suo esercizio Gli aspetti procedurali Gli sviluppi della competenza pregiudiziale prima del Trattato di Lisbona Segue: Le attuali limitazioni
321 323 325 334 339 342
Indice generale
1016
pag. CAPITOLO VI
Le competenze «minori» 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Premessa La competenza sulle controversie relative alla funzione pubblica europea Il potere di pronunciare le dimissioni d’ufficio di membri degli organi dell’Unione La competenza in materia contrattuale L’obbligo degli Stati membri di risolvere le proprie controversie nell’ambito dell’Unione. La competenza della Corte sulle controversie tra Stati membri connesse con l’oggetto del Trattato La funzione consultiva
345 345 347 347 348 351
CAPITOLO VII
La tutela giudiziaria in ambito nazionale 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Premessa Il principio dell’autonomia procedurale. I principi di equivalenza ed effettività Segue: Profili critici. La questione del riesame delle sentenze e delle decisioni nazionali definitive La tutela cautelare Il risarcimento dei danni provocati da violazioni del diritto dell’Unione La qualificazione in Italia delle situazioni giuridiche soggettive fondate su norme dell’Unione Valutazioni conclusive. Le c.d. discriminazioni a rovescio
355 356 358 361 362 366 368
PARTE TERZA
Obiettivi e competenze dell’Unione CAPITOLO I
Valori e obiettivi dell’Unione 1. 2. 3.
Premessa I principi e i valori Gli obiettivi
373 374 376
Indice generale
1017
pag. CAPITOLO II
La cittadinanza dell’Unione 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.
Natura e significato della cittadinanza dell’Unione Acquisto e perdita della cittadinanza dell’Unione Lo status di cittadino dell’Unione I contenuti dello status di cittadino dell’Unione e il principio di non discriminazione a) Il diritto di libera circolazione e di soggiorno nel territorio degli Stati membri Segue: La disciplina di applicazione: la direttiva 2004/38 b) Il diritto di esercitare l’elettorato attivo e passivo alle elezioni comunali e alle elezioni europee in uno Stato membro diverso da quello di appartenenza c) Il diritto alla protezione diplomatica e consolare nei paesi terzi d) Gli altri diritti del cittadino dell’Unione
379 381 385 388 393 396 403 406 408
CAPITOLO III
Il sistema delle competenze 1. 2. 3. 4. 5.
Il principio delle competenze di attribuzione La clausola di flessibilità Competenze esclusive e competenze concorrenti e parallele Segue: La classificazione delle competenze dell’Unione I principi di sussidiarietà e di proporzionalità
411 415 420 424 427
PARTE QUARTA
Le politiche dell’Unione Introduzione
437 CAPITOLO I
Il mercato interno 1. 2.
Premessa. La nozione di mercato interno Le libertà fondamentali. In generale
443 445
Indice generale
1018
pag. CAPITOLO II
La libera circolazione delle merci 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.
Profili generali L’abolizione dei dazi doganali e delle tasse di effetto equivalente Segue: La tariffa doganale comune e il codice doganale comunitario Segue: L’obbligazione doganale e la ripetizione dell’indebito Segue: La cooperazione doganale in seno all’Unione Il divieto di restrizioni quantitative e di misure di effetto equivalente Segue: Le restrizioni alle esportazioni Segue: Le deroghe al divieto I monopoli commerciali
447 449 451 453 453 455 461 461 464
CAPITOLO III
La politica agricola comune e della pesca 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Premessa L’ambito di applicazione della PAC. Le regole di concorrenza Gli obiettivi della PAC. Gli interventi strutturali L’organizzazione comune dei mercati agricoli Il finanziamento della PAC La politica comune della pesca
467 468 470 472 474 475
CAPITOLO IV
La libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali I. 1. 2. 3. 4. 5.
La libera circolazione dei lavoratori Considerazioni generali Ambito di applicazione Il contenuto della libertà Le limitazioni alla libera circolazione Le misure in materia di sicurezza sociale
Il diritto di stabilimento e la libera prestazione dei servizi Profili generali Il diritto di stabilimento e la prestazione dei servizi. Nozione. L’elemento transfrontaliero 8. L’ambito di applicazione della liberalizzazione: a) temporale 9. Segue: b) soggettivo 10. Segue: c) oggettivo
II. 6. 7.
479 479 482 485 488 489 490 490 492 496 498 501
Indice generale
1019
pag. 11. Portata e contenuto della liberalizzazione. Le restrizioni vietate. Le discriminazioni fondate sulla nazionalità 12. Segue: Le discriminazioni fondate sulla residenza o su altri profili della prestazione. Le restrizioni c.d. indistintamente applicabili 13. I limiti all’esercizio del diritto di stabilimento e della libera circolazione dei servizi 14. L’attuazione delle liberalizzazioni. In generale 15. Segue: Le principali direttive di armonizzazione: a) il riconoscimento delle qualifiche professionali; b) la direttiva generale «servizi»; c) le direttive in materia societaria; d) altre direttive settoriali (avvocati, appalti, banche e assicurazioni) III. 16. 17. 18. 19. 20.
Capitali e pagamenti Introduzione La portata della liberalizzazione La prassi applicativa Le relazioni con i paesi terzi Le restrizioni alla liberalizzazione
504 506 509 512
513 519 519 520 523 525 526
CAPITOLO V
Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia 1. 2.
Considerazioni introduttive L’evoluzione della disciplina della materia. Gli Accordi di Schengen e gli sviluppi successivi 3. Profili comuni di detta disciplina 4. Lo spazio di libertà: a) la soppressione dei controlli alle frontiere 5. Segue: b) la politica comune in materia di asilo 6. Segue: c) la politica comune in materia di immigrazione 7. Lo spazio di giustizia: la cooperazione giuridica e giudiziaria in materia civile 8. Lo spazio di sicurezza: la cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale 9. Segue: Eurojust e la Procura europea 10. Segue: La cooperazione di polizia ed Europol
529 531 534 537 542 548 553 559 573 578
CAPITOLO VI
La politica comune dei trasporti 1. 2. 3.
Premessa Profili comuni della disciplina sui trasporti. Aspetti istituzionali Segue: Ambito di applicazione
585 587 590
Indice generale
1020
pag. Segue: I principi informatori L’applicabilità delle regole di concorrenza e della disciplina sugli aiuti di Stato 6. I singoli modi di trasporto. Il trasporto ferroviario 7. Il trasporto stradale 8. Il trasporto fluviale 9. Il trasporto marittimo 10. Il trasporto aereo
4. 5.
592 595 602 605 608 610 614
CAPITOLO VII
Concorrenza, fiscalità e ravvicinamento delle legislazioni
7. 8. 9.
Concorrenza e aiuti di Stato Considerazioni introduttive a) Le regole applicabili alle imprese. Il divieto delle intese Segue: Le intese vietate Segue: Le esenzioni. La nullità delle intese e le sue conseguenze L’abuso di posizione dominante Segue: La procedura per l’applicazione dei divieti. Gli impegni. I programmi di clemenza Le concentrazioni b) Il divieto degli aiuti di Stato Le deroghe al divieto
637 640 643 647
II. 10. 11. 12.
Le disposizioni fiscali Il divieto di imposizioni fiscali discriminatorie L’armonizzazione fiscale. Le imposte indirette Segue: Le imposte dirette
652 652 655 658
III. 13. 14. 15.
Il ravvicinamento delle disposizioni legislative La disciplina generale Le disposizioni nazionali pregiudizievoli per la concorrenza I diritti di proprietà intellettuale. Il brevetto comunitario
661 661 664 665
I. 1. 2. 3. 4. 5. 6.
621 621 624 627 631 633
CAPITOLO VIII
La politica economica e monetaria 1. 2. 3.
Introduzione Profili sistematici e istituzionali. In generale Segue: Gli organi dell’UEM: a) il SEBC; b) la BCE; c) il Consiglio generale; d) le Banche centrali nazionali; e) l’Eurogruppo; f) l’Eurosummit; g) il Comitato economico e finanziario
669 673 675
Indice generale
1021
pag. 4. 5. 6. 7. 8.
9.
Segue: Le relazioni esterne dell’UEM La politica economica La politica monetaria Il regime degli Stati membri con deroga Le innovazioni conseguenti alla crisi dei debiti sovrani: a) il Semestre europeo; b) il Patto Euro plus; c) il Six Pack; d) il Meccanismo europeo di stabilità; e) il Fiscal Compact; f) il Patto per la crescita e l’occupazione; g) il Two Pack; h) la vigilanza unica (il sistema europeo di vigilanza finanziaria; le Autorità europee di vigilanza; il Meccanismo di vigilanza unica; l’unione bancaria e il ruolo della BCE); i) le OMT Considerazioni conclusive
682 683 690 692
694 705
CAPITOLO IX
Occupazione e politiche sociali 1. 2. 3. 4.
Premessa L’occupazione La politica sociale: a) obiettivi e competenze dell’Unione; b) il ruolo delle parti sociali; c) il principio della parità uomo-donna; d) il diritto al congedo retribuito; e) il Fondo sociale europeo Istruzione, formazione professionale, gioventù e sport
709 711 714 730
CAPITOLO X
Le politiche settoriali 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.
Premessa L’azione dell’Unione nel settore della cultura La sanità pubblica La protezione dei consumatori Lo sviluppo delle reti transeuropee L’industria La coesione economica, sociale e territoriale Ricerca, sviluppo tecnologico e spazio La politica dell’ambiente L’energia, il turismo e la protezione civile La cooperazione amministrativa
737 737 740 744 750 756 759 769 777 788 800
Indice generale
1022
pag.
PARTE QUINTA
L’azione esterna dell’Unione CAPITOLO I
Profili generali 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
Evoluzione e inquadramento della materia. La complessità dell’azione esterna Principi e obiettivi I profili istituzionali. In particolare, l’Alto Rappresentante e il SEAE Segue: la rappresentanza esterna dell’Unione Gli strumenti: a) le misure autonome. In particolare le misure restrittive b) Gli accordi con paesi terzi o organizzazioni internazionali. La c.d. competenza a stipulare dell’Unione Segue: La procedura per la conclusione degli accordi internazionali dell’Unione I rapporti con organizzazioni internazionali
807 811 813 817 819 822 834 842
CAPITOLO II
I singoli settori dell’azione esterna 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
La politica estera e di sicurezza comune. I profili generali Segue: I meccanismi di funzionamento La politica di sicurezza e di difesa comune La politica commerciale comune. Portata e natura della competenza dell’Unione Segue: Gli strumenti della politica commerciale La cooperazione allo sviluppo. La cooperazione economica, finanziaria e tecnica con paesi terzi. L’aiuto umanitario La clausola di solidarietà
847 850 856 865 872 880 885
Indice generale
1023
pag.
PARTE SESTA
La partecipazione dell’Italia al processo d’integrazione europea CAPITOLO I
Profili generali 1. 2. 3. 4.
Premessa L’assetto dei rapporti tra gli ordinamenti dell’Unione e italiano. In generale Segue: L’incidenza sui rapporti tra il Governo e il Parlamento nazionale Segue: E sui rapporti tra lo Stato e le autonomie locali
891 892 893 894
CAPITOLO II
Il diritto dell’Unione e l’ordinamento giuridico italiano 1. 2. 3. 4.
Premessa: il rapporto tra diritto dell’Unione e diritto degli Stati membri nella giurisprudenza della Corte di giustizia Diritto dell’Unione e diritto interno in Italia: la giurisprudenza costituzionale Segue: Il problema con riguardo alle norme costituzionali Cenni sul rapporto con il diritto dell’Unione negli altri Stati membri
897 902 910 915
CAPITOLO III
Organizzazione e procedure per la partecipazione dell’Italia all’Unione europea 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
Introduzione alla normativa rilevante La c.d. fase ascendente. Premessa: l’apparato governativo Segue: Il ruolo del Parlamento Segue: Il coordinamento a livello governativo. Il CIAE Segue: La partecipazione delle Regioni La c.d. fase discendente. Dalla «legge comunitaria» alle «leggi europee» Segue: In particolare, la legge di delegazione europea e il recepimento delle direttive Il ruolo delle Regioni
925 927 928 931 933 934 938 942
1024
Indice generale
pag. Schede 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Trattati istitutivi e Trattati modificativi Stati membri dell’Unione Stati membri che hanno adottato l’euro Stati aderenti allo spazio Schengen Procedura legislativa ordinaria La maggioranza qualificata nel Consiglio europeo e nel Consiglio Agenzie dell’Unione europea I. Organismi specializzati II. Agenzie esecutive
947 948 948 948 949 950 951 951 953
Indice cronologico della giurisprudenza citata
955
Indice analitico
985
Indice generale
1011
Indice generale
1025
Indice generale
1026
Finito di stampare nel mese di ottobre 2017 nella Stampatre s.r.l. di Torino – Via Bologna, 220