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Italian Pages 204 Year 2023
Davide Monaco L’Uno senza fondamento Cusano tra platonismo ed ermeneutica
Zeugma
Collana diretta da:
Massimo Adinolfi e Massimo Donà
Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.
Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 32 - Proposte
Davide Monaco
L’Uno senza fondamento Cusano tra neoplatonismo ed ermeneutica
Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN
Stampato con fondi del Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell’Università degli Studi di Salerno
© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 32 - maggio 2023 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-404-1 ISBN – Ebook: 978-88-5529-419-5 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Key visual of colorful tree of life in front of a galaxy © FantasyDreamArt – stock.adobe.com
A Werner Beierwaltes, in memoriam
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Abbreviazioni
Le citazioni delle opere cusaniane rimandano alle pagine dell’edizione critica: Nicolai de Cusa Opera omnia, iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita, Meiner, Leipzig-Hamburg 1932 ss. Di seguito vengono sciolte le sigle utilizzate nel testo attraverso l’indicazione del titolo, del volume in cifre romane, eventualmente del fascicolo in cifre arabe e dei curatori degli opera omnia a cui rinviano, dell’editore, del luogo di edizione e dell’anno. Apol.
Apologia doctae ignorantiae, vol. II, a cura di R. Klibansky, Meiner, Hamburg 1932 (2007²).
Comp.
Compendium, vol. XI/3, a cura di B. Decker K. Bormann, Meiner, Hamburg 1964.
De aequal.
De aequalitate, vol. X/1, a cura di H.G. Senger, Meiner, Hamburg 2001.
De ap. theor.
De apice theoriae, vol. XII, a cura di R. Kli bansky - H.G. Senger, Meiner, Hamburg 1982.
De beryl.
De beryllo, vol. XI/1, a cura di H.G. Senger K. Bormann, Meiner, Hamburg 1988.
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De coni.
De coniecturis, vol. III, a cura di J. Koch K. Bormann - H.G. Senger, Meiner, Hamburg 1972.
De dato
De dato patris luminum, vol. IV, a cura di P. Wilpert, Meiner, Hamburg 1959.
De docta ign.
De docta ignorantia, vol. I, a cura di E. Hoffmann - R. Klibansky, Meiner, Leipzig 1932.
De fil.
De filiatione Dei, vol. IV, a cura di P. Wilpert, Meiner, Hamburg 1959.
De gen.
De genesi, vol. IV, a cura di P. Wilpert, Meiner, Hamburg 1959.
De poss.
De possest, vol. XI/2, a cura di R. Steiger, Meiner, Hamburg 1973.
De princ.
De Deo unitrino principio, vol. X/2b, a cura di K. Bormann - A.D. Riemann, Meiner, Hamburg 1988.
De quaer.
De quaerendo Deum, vol. IV, a cura di P. Wilpert, Meiner, Hamburg 1959.
De theol. compl. De theologicis complementis, vol. X/2a, a cura di A.D. Riemann - K. Bormann, Meiner, Hamburg 1994. De ven. sap.
De venatione sapientiae, vol. XII, a cura di R. Klibansky - H.G. Senger, Meiner, Hamburg 1982.
De vis.
De visione Dei, vol. VI, a cura di A.D. Riemann, Meiner, Hamburg 2000.
De non aliud
Directio speculantis seu de non aliud, vol. XIII, a cura di L. Baur - P. Wilpert, Meiner, Leipzig 1944.
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De sap.
Idiota de sapientia, vol. V, a cura di R. Steiger, Meiner, Hamburg 1983.
Le citazioni delle opere cusaniane riportano: la sigla del titolo dell’opera, l’eventuale indicazione del libro e del capitolo in cifre latine (quando queste indicazioni sono possibili), del numero del paragrafo e delle pagine in cifre arabe. Le indicazioni di pagina alla traduzione italiana – da noi rivista quando ritenuto opportuno – rimandano all’edizione: Niccolò Cusano, Opere filosofiche, teologiche e matematiche, a cura di E. Peroli, Bompiani, Milano 2017. I sermoni cusaniani sono citati indicando il numero del sermone secondo la nuova numerazione dell’edizione critica, il numero del paragrafo, il riferimento in cifre latine al volume e in cifre arabe al fascicolo dell’edizione critica, il numero delle pagine.
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Introduzione
Cusano tra neoplatonismo, differenza ontologica ed ermeneutica
Se con “differenza ontologica” si intende la distinzione tra “essere” ed “essere dell’ente”, dove la distinzione è ciò che produce proprio la loro differenza, se inoltre il “nulla”, “che cooriginariamente è la stessa cosa dell’essere”, deve essere pensato come il “totalmente altro dall’ente” o come “il non dell’ente”, allora mi sembra legittima la domanda: l’intento del concetto neoplatonico di Uno e degli enigmatici nomi cusaniani del principio (non aliud, idem, possest) non è proprio quello di mettere anzitutto in evidenza l’assoluta differenza proprio di questo principio da ogni ente e non solo di “rappresentare” qualcosa di superlativamente “differente” che fosse incluso all’interno della stessa dimensione, cioè insieme all’ente?1
1. W. Beierwaltes, Identität und Differenz. Zum Prinzip cusanischen Denkens, Rheinisch-Westfälische Akademie der Wissenschaften, Opladen 1977, ora in Id., Identität und Differenz, Klostermann, Frankfurt a.M. 1980, pp. 105-143: pp. 134-135 (tr. it. di S. Saini, Identità e differenza come principio del pensiero cusaniano, in Identità e differenza, Vita e Pensiero, Milano 1989, pp. 145-173 e pp. 365-378: pp. 369-370). Le citazioni interne rimandano al testo di M. Heidegger, Zur Seinsfrage, Klostermann, Frankfurt a.M. 1959 (tr. it. di F. Volpi, La questione dell’essere, in M. Heidegger, Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 335-374).
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Le parole di uno dei massimi studiosi del pensiero cusaniano e della tradizione neoplatonica ci permettono di chiarire quale sia la questione, il problema, che muove le ricerche contenute nel presente volume. La riflessione di Werner Beierwaltes (1931-2019) non suggerisce soltanto che la filosofia cusaniana possa rappresentare una crepa nella monolitica e uniformante ricostruzione della storia della metafisica heideggeriana – non si tratta infatti di mettere in dubbio la conformità reale o presunta delle tesi di Heidegger ad una effettiva storia del pensiero, indipendente dalle sue ricostruzioni – bensì permette di collocarsi ad una altezza speculativa tale da rendere possibile confrontarsi con alcuni aspetti fondamentali del pensiero cusaniano. Cusano è il teorico di un pensiero ermeneutico che, sebbene attento alla finitezza e alla prospetticità del sapere e alla singolarità e pluralità degli enti, non risolve l’Uno nel molteplice, l’essere nelle interpretazioni, la verità nei diversi punti di vista da cui è accessibile, il principio in qualcosa di entificabile, la realtà in mero oggetto nelle mani dell’uomo, il pensare in semplice calcolare. Secondo la tesi heideggeriana, tanto nota da essere diventata una “canzone da organetto”2, il pensiero occidentale sarebbe essenzialmente tutto all’interno del perimetro della storia della “metafisica”, ossia del destinale oblio dell’essere o della differenza ontologica tra l’essere e gli enti3. La filosofia occidentale
2. L’espressione è utilizzata dallo Zarathustra di Nietzsche per rimproverare ai suoi animali di aver ridotto l’eterno ritorno a una vuota dottrina o a una filastrocca: cfr. F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, in Id., Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI/1, de Gruyter, Berlin-New York 1968, p. 269 (tr. it. di M. Montinari, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano 1968, p. 256). Sul tema cfr. F. Tomatis, Come leggere Nietzsche, Bompiani, Milano 2006, pp. 48-54. 3. Cfr. M. Heidegger, Der Spruche des Anaximander, in Id., Holzwege, Klostermann, Frankfurt a.M. 1950, p. 336 (tr. it. di P. Chiodi, Il detto di Anas-
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da Anassimandro a Nietzsche avrebbe pensato l’essere sempre e solo o come il carattere più generale della totalità degli enti o come l’ente universale supremo, culmine della serie causale degli enti, apice di una serie piramidale, e quindi incluso all’interno della stessa catena ontica di cui sarebbe causa prima e fondamento. Per Heidegger, non si tratterebbe di un’omissione accidentale, di un’incomprensione, una casualità o una dimenticanza – come quella di un professore di filosofia, che abbia lasciato da qualche parte l’ombrello – ma un processo che dipende dalla stessa essenza della metafisica4. Il pensiero occidentale possiederebbe una costituzione essenzialmente “onto-teo-logica”, che lo porterebbe a rappresentare l’essere sia come l’ente più universale (ontologia) sia come l’ente sommo (teologia), creando così un’unità inscindibile, un rapporto circolare, tra ontologia e teologia5. simandro, in M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 340). 4. M. Heidegger, Zur Seinsfrage, cit., p. 35 (tr. it. cit., p. 364). 5. M. Heidegger, Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik, Kotta, Stuttgart 1957, pp. 51 ss. (tr. it. di G. Gurisatti, La struttura onto-teo-logica della metafisica, in M. Heidegger, Identità e differenza, Adelphi, Milano 2009, pp. 70 ss.). Alla ricostruzione della storia della metafisica di Heidegger sono direttamente connesse la sua diagnosi della civiltà occidentale e le sue tesi sul suo destino. Al termine della storia della metafisica, compiutasi con il dominio planetario della tecnica, dell’essere, ridotto all’ente perfettamente manipolabile all’interno del sistema tecnico-scientifico contemporaneo, non ne sarebbe più nulla. L’oblio dell’essere sarebbe all’origine di quella razionalità strumentale e di quel rappresentare calcolante che caratterizzano in maniera radicale l’epoca della tecnica, l’epoca del Ge-Stell. Secondo il punto di vista heideggeriano sarebbe inutile rivendicare, contro la razionalizzazione imperante, un ritorno ai valori umanistici, perché quello stesso dispiegamento della scienza-tecnica moderna sarebbe frutto di una storia in cui l’umanesimo era stato un momento determinante. La tecnica si sarebbe svelata non come mezzo a disposizione dell’uomo, ma come evento, anche se in negativo, del darsi dell’essere stesso. L’uomo come soggetto in grado di dominare la tecnica verrebbe meno, ma contro questo non si potrebbe
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La fortuna della critica heideggeriana della metafisica e della sua storia – che è stata accolta da un tale numero di imitatori e di epigoni, ma in molti casi anche dai critici di Heidegger, da diventare a forza di ripetizioni, una communis opinio – rende necessaria una sua disamina e problematizzazione6. Beierwaltes ha messo in dubbio la ricostruzione di Heidegger, affermando che essa si basa su un arbitrario procedimento di rimozione e di occultamento di concezioni e di teorie di autori che invece sono decisivi nella storia del pensiero7. Se il filosofo della Selva Nera avesse concentrato la sua attenzione sulla tradizione neoplatonica – e si fosse occupato anche di autori come Plotino, Proclo, Dionigi, Giovanni Scoto, Meister
rivendicare un ritorno alla “soggettità” dell’uomo perché la stessa tecnica discenderebbe da una storia dell’essere in cui l’uomo avrebbe acquisito il ruolo di soggetto in opposizione alla natura e alla divinità. Cfr. Id., Die Frage nach der Technik, in Id., Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1957 (tr. it. di G. Vattimo, La questione della tecnica, in M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27); M. Heidegger, Die Zeit des Weltbildes, in Id., Holzwege, cit., pp. 75-113 (tr. it. di P. Chiodi, L’epoca delle immagini del mondo, in M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., pp. 71-101). Sul tema cfr. G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985, pp. 39-56. 6. Cfr. W. Beierwaltes, Heideggers Rückgang zu den Griechen, Verlag der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, München 1995, ora in Id., Fussnoten zu Plato, Klostermann, Frankfurt a.M. 2010, pp. 345-370 (tr. it. di E. Peroli, Il ritorno di Heidegger ai greci, in «Annuario filosofico», 12, 1996, pp. 53-77). Ad una disamina critica del pensiero di Heidegger, Beierwaltes ha dedicato anche i seguenti saggi: Identität und Differenz, cit.; “EPEKEINA”. Eine Anmerkung zu Heideggers Platon-Rezeption, in L. Honnefelder - W. Schüssler (a cura di), Transzendenz. Zu einem Grundwort der klassischen Metaphysik, Schöningh, Paderborn-München-Wien-Zürich 1992, pp. 39-55 (ora in W. Beierwaltes, Fussnoten zu Plato, cit., pp. 371388); Heideggers Gelassenheit, in R. Enskat (a cura di), Amicus Plato magis amica veritas, de Gruyter, Berlin-New York 1998, pp. 5-35, ora in W. Beierwaltes, Fussnoten zu Plato, cit., pp. 389-426. 7. W. Beierwaltes, Heideggers Rückgang zu den Griechen, cit., pp. 366 (tr. it. cit., p. 73).
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Eckhart, Cusano8 – la sua ricostruzione della storia dell’essere sarebbe stata scompaginata e non avrebbe potuto essere pienamente sostenuta9. Secondo Beierwaltes, la visione heideggeriana del pensiero occidentale come destinato a concepire l’essere sempre e solo come “fondamento”, mancando il “nonpensato” della metafisica, ossia il carattere eventuale dell’essere, l’ereignet dell’Ereignis, il suo Abgrund, l’essere senza fondamento10, non avrebbe tenuto presente la paradossale unità di accesso positivo e negativo al Principio primo sviluppata dai neoplatonici e da Cusano11. Non è possibile, infatti, isolare il lato affermativo della via al Principio, disconoscendone l’ulteriorità e la trascendenza: l’Uno è sì fondamento di tutto – in quanto l’ente che è altro rispetto da esso può essere quello che è solo attraverso l’Uno – ma al medesimo tempo è nella sua 8. Sul confronto di Heidegger con gli autori neoplatonici cfr. W. Beierwaltes, Identität und Differenz, cit., p. 135 (tr. it. cit., p. 368); A. Charles-Sager, Aphaíresis et Gelassenheit. Heidegger et Plotin, in J.-F. Courtine - R. Brague (a cura di), Herméneutique et ontologie. Mélanges en hommage à Pierre Aubenque, PUF, Paris 1990, pp. 323-344; C. Yannaràs, Heidegger e Dionigi Areopagita. Assenza e ignoranza di Dio, Città Nuova, Roma 1995; J.D. Caputo, The Mystical Element in Heidegger’s Thought, Ohio University Press, Athens 1978; J.-M. Narbonne, Hénologie, ontologie et Ereignis (Plotin – Proclus – Heidegger), Les Belles Lettres, Paris 2001; C. Esposito - P. Porro (a cura di), Heidegger e i medievali, num. mon. di «Quaestio», 1, 2001; S. Poggi, La medievistica tedesca tra Ottocento e Novecento, la mistica e il giovane Heidegger, ivi, pp. 23-38; J.-M. Narbonne, Heidegger et le néoplatonisme, ivi, pp. 55-82; V. Vitiello, “Abgeschiedenheit”, “Gelassenheit”, “Angst”. Tra Eckhart e Heidegger, ivi, pp. 305-316; G. Strummiello, “Got(t)heit”: la Deità in Eckhart e Heidegger, ivi, pp. 339-360; S. Poggi, La logica, la mistica, il nulla. Una interpretazione del giovane Heidegger, Edizioni della Normale, Pisa 2006. 9. Cfr. W. Beierwaltes, Identität und Differenz, cit., p. 135 (tr. it. cit., p. 368). 10. Cfr. M. Heidegger, Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1968, p. 62 (tr. it. di E. Mazzarella, Tempo ed essere, Guida, Napoli 1980, p. 162). 11. Cfr. W. Beierwaltes, Identität und Differenz, cit., p. 137 (tr. it. cit., pp. 370-371).
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essenza oltre l’esser-fondamento e l’esser-causa. L’Uno è causa non “in sé”, ma solo “per noi”: quando lo chiamiamo “causa” infatti esprimiamo il nesso dell’altro con l’identico, ma non questo identico stesso. Secondo Cusano, benché il Principio operi come causa di tutte le cose, non viene affatto pensato a livello dell’ente, bensì esso è nel tutto restando nulla di tutto, è nel mondo non nel modo del mondo. La paradossale co-appartenenza di immanenza e trascendenza è uno dei Leitmotiv della tradizione neoplatonico-cristiana sull’Uno: Cusano e prima di lui Dionigi e i neoplatonici cristiani hanno elaborato con consapevole rigore una visione del Principio come unità dialettica e dinamica di trascendenza e immanenza, di “in” e “al di là”, che rappresenta l’elemento fondamentale e basilare della sua concezione henologica. Il paradosso consiste nell’unità di due momenti: secondo il primo, l’Uno si mostra quale principio o causa di tutto, fondamento senza fondamento che forma e conserva la realtà mondana, peghé “presente” in tutte le cose; tuttavia, per il secondo, al medesimo tempo, l’Uno è pánton epékeina, pura differenza da ogni ente, assenza che non si identifica con nessuna delle cose create, nulla di tutto. Il pensiero cusaniano, così come più in generale neoplatonico, non procederebbe istituendo relazioni di fondamento in direzione di un “ente sommo” cui spetta il massimo grado di “essere”, ma vivrebbe del dislivello tra il piano del Principio e il piano del principato, della differenza e della distanza tra l’Uno e la totalità del reale, sfuggendo allo schema onto-teo-logico. La riflessione beierwaltesiana sull’eccedenza della riflessione cusaniana rispetto alla critica alla metafisica di Heidegger include anche la problematizzazione dell’altro noto adagio heideggeriano, ripetuto instancabilmente, secondo cui la storia della metafisica occidentale sarebbe caratterizzata dal declino della domanda sull’essenza della verità, che a partire da Plato-
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ne sarebbe stata ridotta all’esattezza dello sguardo e attraverso l’aristotelismo ad adaequatio rei et intellectus12. La verità invece secondo Heidegger dovrebbe essere intesa nel suo senso originario nascosto nella sua stessa etimologia che la vuole derivante da a-letheia, non-nascondimendo, ossia attraverso l’attenzione all’alfa privativo presente nell’etimologia del termine stesso bisognerebbe rammemorare l’originaria ascosità della verità, dalla cui ri-velazione dipenderebbe la possibilità della verità come conformità dell’enunciato alla realtà. In termini heideggeriani la verità andrebbe pensata come Ent-bergung, ossia come ci indica la terminazione tedesca “-ung”, come un movimento continuo e non come un qualcosa di già dato a cui poi il pensiero debba adeguarsi. La verità come adeguazione dipenderebbe dunque da un originario, anche qui obliato destinalmente dalla tradizione metafisica. Tuttavia, come sottolinea Beierwaltes, se già Platone si sottrae a tale interpretazione, grazie alla sua concezione dell’idea come essere vero o essere in senso proprio, determinazione che Heidegger respinge a favore di un’interpretazione etimologizzante del termine “idea”, l’intera tradizione neoplatonica, che pensa la verità come una caratteristica dell’essere ed invero dell’essere assoluto stesso, sfugge completamente alla riduzione heideggeriana. In Cusano stesso la verità come corrispondenza è possibile solo sulla base di una più originaria identità dell’ente con sé stesso, che a sua volta dipenderebbe dalla partecipazione della creatura alla aequalitas absoluta o veritas absoluta. Scrive infatti Cusano: «Senza l’eguaglianza non si comprende la verità, che è l’adeguazione della cosa e
12. W. Beierwaltes, Heideggers Rückgang zu den Griechen, cit., p. 366 (tr. it. cit., p. 73).
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dell’intelletto»13. In altri termini, la verità come adaequatio sarebbe solo un modo derivato della verità dipendente dalla possibilità dell’identità della cosa con sé stessa, identità essenzialmente radicata nel rapporto verticale di partecipazione della creatura all’assoluta trascendente aequalitas, ri-velatesi nella stessa eguaglianza della creatura con sé stessa come l’aequalitas assoluta stessa. In altri termini, ogni cosa sarebbe quello che è e potrebbe fungere da referente della nostra conoscenza e delle nostre asserzioni in quanto tale cosa partecipa di una verità o unità originaria, forma universale dell’essere e del conoscere a cui tutte le cose devono partecipare per poter essere quello che sono ed essere conoscibili. L’interpretazione heideggeriana della metafisica occidentale come essenziale e destinale oblio dell’essere, ridotto ad ente, e oblio dell’essenza della verità, ridotta a conformità, è possibile dunque, paradossalmente, sulla base di un altro, strategico, oblio, quello dell’autentico significato speculativo e storico del pensiero platonico e neoplatonico da parte di Heidegger stesso. Al contrario, secondo Beierwaltes, il pensiero dell’essere inteso come “differenza”, “radura”, “evento”, troverebbe nel pensiero dell’Uno (o della verità) inteso come omnium nihil, differenza rispetto a tutto ciò che da esso deriva (ossia l’ente o le congetture14), un punto di riferimento privilegiato
13. De aequal., 27, p. 36 (tr. it., pp. 1284-1285): «Sine aequalitate non intelligitur veritas, quae est adaequatio rei et intellectus». 14. De coni., I, 11, 57, p. 58 (tr. it., p. 373): «Coniectura igitur est positiva assertio, in alteritate veritatem, uti est, participans». Sul prospettivismo veritativo cusaniano, cfr. N. Herold, Menschliche Perspektive und Wahrheit. Zur Deutung der Subjektivität in den philosophischen Schriften des Nikolaus von Kues, Aschendorff, Münster 1975; G. Cuozzo, Mystice videre. Esperienza religiosa e pensiero speculativo in Cusano, Trauben, Torino 2002, pp. 130-143; M. Riedenauer, Pluralität und Rationalität, Kohlhammer, Stuttgart 2007; D. Monaco, Cusano e la pace della fede, pref. di F. Tomatis, Città Nuova,
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e paradigmatico15. Tra i maestri della filosofia dell’interpretazione alcune osservazioni sulla portata teoretico-ermeneutica della riflessione
Roma 2013, pp. 75-112; E. Peroli, Niccolò Cusano. La vita, l’opera, il pensiero, Carocci, Roma 2021, pp. 203-210. 15. Secondo Beierwaltes, che nei neoplatonici venga scorto il pensiero di una differenza ontologica non significa fare di questi pensatori dei pre-heideggeriani, con tutte le conseguenze che ne derivano, né stilizzare Heidegger come un neoplatonico. Cfr. W. Beierwaltes, Heideggers Rückgang zu den Griechen, cit., pp. 367 (tr. it. cit., p. 74). Sull’idea di una parentela profonda e densa di contrasti tra la speculazione di Heidegger e quella neoplatonica non mancano posizioni opposte da parte degli studiosi. Cfr. U. Ugazio, Heidegger e il neoplatonismo, in «Annuario filosofico», 20, 2004, in part. p. 82. Due tesi opposte sono riconducibili a Joseph Moreau e a Gerard Huber. Moreau ha sostenuto che, nel corso della storia della filosofia, proprio a Plotino (e al neoplatonismo) spetterebbe il merito di aver dato espressione nel modo più compiuto alla differenza ontologica nel senso di Heidegger. Al contrario, Gerard Huber ha affermato che la differenza ontologica sarebbe insufficiente rispetto alla trascendenza plotiniana, che riguarda la distinzione tra l’essere e l’Assoluto, procedendo oltre quella tra l’essere e l’ente. Cfr. G. Huber, Das Sein und das Absolute, Verlag für Rechte und Gesellschaft, Basel 1955; J. Moreau, La conscience et l’être, Aubier-Montaigne, Paris 1958. Sul tema cfr. P. Hadot, Heidegger et Plotin, in «Critique», 142, 1959, pp. 539-556; J.D. Jones, A Non-Entitative Understanding of Be-ing and Unity: Heidegger and Neoplatonism, in «Dionysius», 6, 1982, pp. 94-110; R. Schürmann, Neoplatonic Henology as an Overcoming of Metaphysics, in «Research in Phenomenology», 13, 1983, pp. 25-41; K. Kremer, Zur ontologischen Differenz. Plotin und Heidegger, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», 43, 1989, pp. 67-94; A. Charles-Sager, Aphaíresis et Gelassenheit, cit.; C. Yannaràs, Heidegger e Dionigi Areopagita, cit.; J.D. Caputo, The Mystical Element in Heidegger’s Thought, cit.; J.- M. Narbonne, Hénologie, ontologie et Ereignis, cit.; C. Esposito - P. Porro (a cura di), Heidegger e i medievali, cit.; R. Schürmann, Broken Hegemonies, tr. ingl. di R. Lilly, Indiana University Press, Bloomington 2003, pp. 145-160; C. Ciancio, Introduzione al convegno: Presenza della tradizione neoplatonica nella filosofia del Novecento, in «Annuario filosofico», 20, 2004, pp. 33-37; W.J. Hankey, Why Heidegger’s “History” of Metaphysics is Dead, in «American Catholic Philosophical Quarterly», 78, 3, 2004, pp. 425-443.
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neoplatonica sono state avanzate dal filosofo italiano Luigi Pareyson (1918-1991), a cui è dedicato il capitolo conclusivo del presente lavoro. Secondo Pareyson, quando Heidegger parla della differenza ontologica tra l’essere e gli enti, sottolineando come non si possano mettere sullo stesso piano e non se ne possa parlare nella stessa maniera, egli sta alludendo a qualcosa di molto vicino alla concezione neoplatonica dell’Uno come al di là dell’essere16. La differenza ontologica heideggeriana trova una sua anticipazione nell’ontologia e teologia negativa neoplatonica secondo la quale Dio non è solamente essere ma superessere. Secondo Heidegger dell’essere non si può parlare come se fosse un ente ed è per questo che ne parla come del nulla, proprio come per i pensatori neoplatonici è necessario parlare negativamente del Principio. Secondo il filosofo italiano quando di parla di sovrabbondanza e inesauribilità dell’Uno, affermando che in virtù della sua trascendenza non se ne può dire nulla perché ogni predicazione è sempre inadeguata – come accade nella riflessione cusaniana – in fondo lo si affida a una forma di conoscenza che è l’interpretazione. Tutto quello che si afferma del principio è sempre cifra, simbolo, perché esso di per sé è ineffabile. All’inesauribilità dell’essere corrisponde l’infinità dell’interpretazione17. L’essere manifesta la sua natura abissale nell’interpretazione perché esso risiede nell’interpretazione come una presenza senza figura; è l’interpretazione che gli dà figura ma essa non assorbe mai completamente l’essere. L’essere non si riduce mai soltanto all’interpretazione, pur essendo vero che l’essere è sempre presente nell’interpretazione che se ne dà, al punto da identificarsi di volta in volta con essa. Sebbe-
16. Cfr. L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, in Id., Opere complete, vol. XIX, a cura di F. Tomatis, Mursia, Milano 1998, p. 64. 17. Cfr. ivi, p. 65.
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ne l’Uno resti, nella sua trascendenza e nel suo mistero, inesprimibile e incomprensibile, Cusano cerca di coglierne ed esprimerne, congetturalmente, il carattere abissale, fontale e inesauribile, attraverso una molteplicità di concetti simbolici e di immagini enigmatiche18. Come abbiamo già sottolineato, non è in discussione tanto la tesi di Heidegger, quanto l’accesso ad una comprensione del pensiero di Cusano a partire da una prospettiva che possiamo definire ermeneutica, ossia caratterizzata, da un lato, dall’uni versalizzarsi del fenomeno dell’interpretazione e, dall’altro, da una concezione della verità o dell’essere che faccia propria l’istanza critica dell’idea heideggeriana di differenza ontologica. All’interno di questo orizzonte di ricerca si inseriscono le indagini contenute nel presente volume.
18. Cfr. De aequal., 2, p. 5 (tr. it., p. 1245). Sul carattere simbolico-enigmatico della conoscenza del Principio in Cusano, cfr. W. Beierwaltes, Der verborgene Gott, Trierer Cusanus-Lecture, Heft 4, Trier 1997, rip. in Id., Platonismus im Christentum, Klostermann, Frankfurt a.M. 1998, pp. 130-171 (tr. it. di A. Trotta, Il Dio nascosto: Dionigi e Cusano. Un episodio dell’incontro tra cristianesimo e platonismo, in «Annuario filosofico», 14, 1998, pp. 7-24, poi tr. it. di M. Falcioni, Il Dio nascosto. Dionigi e Cusano, in W. Beierwaltes, Platonismo nel cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano 2000, pp. 153-202); M. Maurizi, La nostalgia del totalmente non altro. Cusano e la genesi della modernità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008; D. Monaco, Deus Trinitas. Dio come non altro nel pensiero di Nicolò Cusano, pref. di W. Beierwaltes, Città Nuova, Roma 2010, pp. 236-250.
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Capitolo I
Il Platone di Cusano Una lettura neoplatonica
1. Cusano e Platone Marsilio Ficino, dopo una lunga elaborazione, nel 1484 diede alle stampe a Firenze la prima versione latina completa dei dialoghi platonici, rendendo possibile un’ampia diffusione e una conoscenza più profonda della filosofia di Platone1. Alle spalle dell’importantissima impresa ficiniana c’era il lavoro dei tanti umanisti che, lungo tutto il corso del Quattrocento, si erano impegnati nella traduzione di una o più opere platoniche2. Tra i pensatori che prima del lavoro di Ficino ebbero una buona conoscenza della filosofia di Platone va annoverato Nicolò Cusano. Vespasiano da Bisticci nelle sue Vite di uomini illustri del secolo XV definisce il cardinale un “grande platonista”3; Giovanni Andrea Bussi nel tesserne le lodi filosofiche lo descrive 1. Sul tema cfr. J. Hankins, La riscoperta di Platone nel Rinascimento italiano, tr. it. di S.U. Baldassarri - D. Downey, Edizioni della Normale, Pisa 2009, pp. 307-502; C. Garfagnini (a cura di), Marsilio Ficino e il ritorno di Platone. Studi e documenti, 2 voll., Olschki, Firenze 1986. 2. Cfr. J. Hankins, La riscoperta di Platone, cit., p. 36. 3. Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, a cura di P. D’Ancona - E. Aeschlimann, Hoepli, Milano 1951, pp. 118-119.
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come un grande conoscitore di Platone4. Tali testimonianze dimostrano come la fama di Cusano quale esperto dell’opera platonica fosse già diffusa presso i suoi contemporanei. In effetti egli si era molto adoperato per la raccolta delle traduzioni latine sia medievali sia umanistiche dei dialoghi di Platone ed aveva un’ottima conoscenza delle versioni disponibili al suo tempo. Il cardinale conservava una raccolta quasi completa delle traduzioni latine dei testi di Platone disponibili al suo tempo e sembra che ne fosse un lettore molto attento5. Tra le opere che erano in suo possesso risultano: Apologia, Fedone, Critone, Menone e Fedro nella traduzione latina di Leonardo Bruni Aretino e Enrico Aristippo (Codex Cusanus 177); la Repubblica nella traduzione di Pier Candido Decembrio (Codex Cusanus 178); le Leggi nella traduzione di Giorgio da Trebisonda (Harl. 3261); le Lettere nella traduzione di Leonardo Bruni; la traduzione parziale del Timeo trasmessa dal commento di Calcidio (Harl. 2652)6; e la
4. G.A. Bussi, Prefazioni alle edizioni di Sweynheym e Pannartz prototipografi romani, a cura di M. Miglio, Il Polifilo, Milano 1978, p. 17. 5. Cfr. J. Hankins, La riscoperta di Platone, cit., p. 268; J. Marx, Verzeichnis der Handschrift-Sammlung des Hospitals zu Cues bei Bernkastel a./Mosel, Schaar & Dathe, Trier 1905, pp. 164-169; P.O. Kristeller, Studies in Renaissance Thought and Letters, vol. I, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1956, pp. 35-36; H.G. Senger, Die Exzerpte und Randnoten des Nikolaus von Kues zu den lateinischen Übersetzungen der Proclus-Schriften. Theologia Platonis-Elementatio theologica, Winter, Heidelberg 1986, p. 24. Ciononostante, con le annotazioni marginali ai testi platonici Cusano era piuttosto parco: cfr. G. Santinello, Glosse di mano del Cusano alla Repubblica di Platone, in «Rinascimento», XX, 1969, p. 136. Cfr. anche M.L. Fuehrer, Cusanus Platonicus. References to the Term ‘Platonici’ in Nicholas of Cusa, in S. Gersch - M.J.F.M. Hoenen (a cura di), The Platonic Tradition in the Middle Ages. A Doxographic Approach, de Gruyter, Berlin-New York 2002, pp. 345-370. 6. Cfr. J. Hirschberger, Das Platon-Bild bei Nikolaus von Kues, in G. Santinello (a cura di), Nicolò Cusano agli inizi del mondo moderno, Atti del Congresso internazionale in occasione del V centenario della morte di Nicolò Cusano, Bressanone, 6-10 settembre 1964, Sansoni, Firenze 1970, pp. 113-
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prima versione latina completa del Parmenide (Codex Volterranus 6021). Cusano aveva, pertanto, una conoscenza diretta dei dialoghi di Platone, sebbene nella loro traduzione latina7.
2. La Repubblica: l’interpretazione cusaniana dell’analogia solare Tra i dialoghi tradotti in latino prima dell’impresa ficiniana spicca una delle opere principali di Platone: la Repubblica. Una versione pre-ficianiana della Repubblica fu compiuta dall’uma nista patavino Pier Candido Decembrio, figlio di Uberto traduttore anch’egli a suo tempo dell’opera8.
135; P.O. Kristeller, A Latin Translation of Gemistos Plethon’s De fato by Johannes Sophianos dedicated to Nicholas of Cusa, ivi, pp. 175-193, in part. pp. 190-191. Sull’importanza del Timeo nella genesi della concezione cusaniana dello spazio e della materia cfr. D. Thiel, Chóra, locus, materia. Die Rezeption des platonischen Timaios (48a-53c) durch Nikolaus von Kues, in J.A. Aesten - A. Speer (a cura di), Raum und Raumvorstellungen im Mittelalter, de Gruyter, Berlin-New York 1997, pp. 52-73. 7. Su Cusano lettore di Platone cfr. J. Hirschberger, Das Platon-Bild bei Nikolaus von Kues, cit.; B. Mojsisch, Platonisches und Platonistisches in der Philosophie des Nikolaus von Kues, in T. Kobusch - T. Mojsisch (a cura di), Platon in der abendländischen Geistesgeschichte. Neue Forschungen zum Platonismus, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1997, pp. 134142; M.L. Fuehrer, Cusanus Platonicus, cit., pp. 345-370; C. Horn, Cusanus über Platon und dessen Pythagoreismus, in K. Reinhardt - H. Schwaetzer (a cura di), Nicolaus von Kues in der Geschichte des Platonismus, Roderer, Regensburg 2006, pp. 9-31; C. D’Amico, Plato and Platonic Tradition in the Philosophy of Nicholas of Cusa, in A. Kim (a cura di), Brill’s Companion to German Platonism, Brill, Leiden-Boston 2019, pp. 15-42. Sulla conoscenza cusaniana della tradizione platonica successive a Platone cfr. P.O. Kristeller, A Latin Translation of Gemistos Plethon’s De fato, cit. 8. Su Pier Candido Decembrio e la sua traduzione della Repubblica cfr. La riscoperta di Platone, pp. 190-230. Sulle traduzioni della Repubblica cfr.
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Il Codex Cusanus 178, conservato nella biblioteca di Bernkastel- Kues, contiene la traduzione latina dell’opera fatta da Pier Candido Decembrio9; un’altra copia della versione decembriana è contenuta in un codice posseduto dalla biblioteca del Seminario Maggiore di Bressanone, ove Cusano fu vescovo per molti anni10. Come ha dimostrato Giovanni Santinello, il codice di Bressanone dipende da quello della biblioteca cusaniana di Bernkastel-Kues, riportando il primo correzioni e annotazioni provenienti dall’altro11. Entrambi i codici contengono le glosse di Pier Candido Decembrio, spesso ricopiate dalla mano dello stesso Cusano. Tuttavia, Cusano non ha annotato tutte le copiose glosse decembriane alla Repubblica, ma solo una parte. Il dato della copiatura parziale è molto interessante perché permette di cogliere quali aspetti hanno colpito maggiormente l’interesse del pensatore tedesco. Delle glosse sino al V libro solo tre sono di Cusano, mentre nei libri successivi se ne contano 41 di sua mano: 30 glosse al libro VI (concentrate in particolare nella seconda anche M. Vegetti - P. Pissavino (a cura di), I Decembrio e la tradizione della Repubblica di Platone tra Medioevo e Umanesimo, Bibliopolis, Napoli 2005. 9. J. Marx, Verzeichnis der Handschrift-Sammlung, cit., p. 166. 10. R. Danzer, Nikolaus von Kues in der Überlieferungsgeschichte der lateinischen Literatur nach Ausweis der Londoner Handschriften aus seinem Besitz, in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 4, 1964, p. 388; G. Santinello, Glosse di mano del Cusano, cit., p. 117. Come Cusano abbia avuto i due codici della Repubblica non è possibile dirlo con certezza, tuttavia il suo nome ricorre nella corrispondenza tra Francesco Pizzolpasso e Decembrio negli anni 1437-1439, negli anni in cui quest’ultimo sta lavorando alla versione latina dell’opera, di cui tiene costantemente informato Pizzolpasso. Dalla corrispondenza risulta che Decembrio non conosceva Cusano, ma la sua figura gli venga presentato nelle epistole da Pizzolpasso. Cfr. R. Sabbadini, Storia e critica dei testi latini, Battiato, Catania 1914, pp. 232-237; J. Koch, Nikolaus von Kues und seine Umwelt, Winter, Heidelberg 1948, pp. 9-12. 11. Cfr. Santinello, Glosse di mano del Cusano, cit., p. 122.
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metà); 2 glosse al libro VII; 1 glossa al libro VIII; 1 glossa al libro IX; 7 glosse al libro X12. Ci sembra importante sottolineare che Cusano abbia sentito l’esigenza di copiare solo quelle relative ai libri VI-X, con una particolare predilezione per quelle relative al VI libro che hanno un carattere più filosofico-speculativo e religioso13: un chiaro segno degli interessi con cui si rivolgeva alla Repubblica. Tra esse vanno ricordate quelle relative al parallelo tra il Sole e il bene, sulla trascendenza del bene rispetto all’essere, e sulla sua capacità di conferire l’essere e l’essere conosciuto14. A ciò va aggiunto che, se si esclude una annotazione frutto di un’incomprensione testuale, l’unica nota attribuibile originalmente a Cusano, ossia di cui lui non è copista ma autore, è quella riguardante l’identificazione del Sole con Dio15. L’interesse morale, politico e filologico-umanistico del Decembrio lettore della Repubblica lascia ben poca traccia nel lavoro di Cusano, così come l’interesse cusaniano sembra molto diverso da quello essenzialmente pratico degli umanisti e da cui nasceva l’attenzione al tempo per l’opera di Platone16.
12. Cfr. ivi, p. 120. 13. Cfr. ivi, p. 123. 14. Il testo delle glosse è ora disponibili in ivi, pp. 112-145. 15. Cfr. ivi, p. 133, nota 3. Per il testo della annotazione cfr. ivi, p. 142: «nota dicit deum Solem». L’unica altra nota frutto di una glossa autonoma di Cusano è legata al VII libro e alla necessità dello studio dell’aritmetica nella formazione del filosofo. Cfr. ivi, p. 143: «nota per numerorum intellectum ad nature nocionem pervenire». Un errore nella traduzione di Decembrio induce Cusano a intendere il numero come strumento per lo studio nella natura, quando invece Platone sta parlando della natura del numero. Cfr. Resp., 525b-c. La nota sui numeri come strumenti di conoscenza della natura, in quanto rappresenta un tema che ha ampi sviluppi nel pensiero cusaniano, dimostra che Cusano nei passaggi per lui più importanti è intervenuto personalmente. 16. Cfr. E. Garin, Ricerche sulle traduzioni di Platone nella prima metà del sec. XV, in Aa. Vv., Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Sansoni, Firenze 1955, vol. I, p. 347.
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Cusano piuttosto è preso dagli aspetti metafisici del testo platonico e si concentra in particolare sulla concezione del bene attraverso la metafora del Sole presente nel VI libro. Come è noto, nella seconda metà del VI libro della Repubblica, attraverso l’uso di un’analogia, Platone colloca l’idea del bene in una posizione superiore rispetto alle altre idee17. Platone paragona la primazialità e l’azione dell’idea del bene rispetto al mondo delle forme a quella del Sole rispetto al mondo sensibile. Come il Sole è causa della visibilità degli oggetti in quanto attraverso la luce li rende visibili, così il bene è causa della intelligibilità delle idee in quanto le rende intelligibili. Il bene è pertanto la causa della conoscibilità delle idee. Tuttavia, la sua azione non limitata al solo piano gnoseologico, poiché il bene è causa anche ontologica delle idee in quanto fornisce realtà sostanziale agli intellegibili facendoli essere quello che sono. Come il Sole conferisce alle cose generate il principio della generazione, così il bene trasmette alle idee quei caratteri che le qualificano come tali, rendendole forme distinte dalle altre cose. Di qui il carattere più eminente del bene: in quanto causa dell’essere, l’idea del bene è al di là dell’essere, al di là dell’essenza, per dignità e potenza. Dalla lettura delle glosse si scopre, che sulla scorta dell’interpretazione neoplatonica, la quale ha ampiamente discusso tali passaggi del testo platonico, che questi sono gli elementi che maggiormente hanno stimolato l’immaginazione filosofica di Cusano e che lo hanno portato ad una lettura teologica del VI libro della Repubblica con l’applicazione della metafora solare e l’attribuzione dei caratteri del Bene platonico a Dio18. 17. Cfr. Platone, Resp., 507e-509e. 18. L’uso dell’analogia solare platonica, reinterpretata neoplatonicamente e teologicamente, è ricorrente nell’opera del cardinale. Cfr. De coni., II, XIII, 136, p. 133 (tr. it., p. 467): «Deus autem ipse infinitus sol intelligentiarum est, intelligentiae vero ut varia contractiora lumina rationum»; De beryl, 27,
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Per cogliere l’interpretazione data dal cardinale, approfondendone l’originalità, bisogna concentrarsi su alcune delle sue ultime opere, in particolare sulla Directio speculantis seu de non aliud, sul Compendium e sul De apice theoriae19. La Directio speculantis, composta nell’inverno tra il 1462 e il 1463, si sviluppa in forma dialogica attraverso ventiquattro capitoli a cui si aggiunge un’appendice contenente venti pro-
p. 30 (tr. it., p. 1183): «Plato in libro De re pubblica recipit Solem et eius attendit in sensibilibus virtutem et ex conformitate illius se elevat ad lucem intelligentiae intellectus conditoris»; De ven. sap., XXXIX, 124, p. 113 (tr. it., p. 1757): «Laudant non immerito cuncti magnum Platonem, qui de Sole ad sapientiam per similitudinem ascendit»; Comp., I, 2, p. 4 (tr. it., p. 1913): «Ponas igitur Solem patrem esse sensibilis lucis, et in eius similitudine concipe deum patrem rerum lucem omni cognitione inaccessibilem, res autem omnes illius lucis splendores, ad quos se habet visus mentis sicut visus sensus ad lucem solis». Cfr. inoltre De dato, IV, 108-111, pp. 79-82 (tr. it., pp. 637643); De quaer., II, 34, p. 24 (tr. it., p. 555); De ap. theor., 8, pp. 122-123 (tr. it., p. 1977). Cusano sembra rifiutare invece l’idea che le Forme e i numeri siano entità separate dai particolari sensibili. Cfr. C. D’Amico, Plato and Platonic Tradition, cit., p. 20. 19. L’opera ci è stata trasmessa grazie ad una copia manoscritta portata a termine il 6 Aprile del 1496 a Norimberga dall’umanista Hartmann Schedel (München Bayerische Staatsbibliothek, Clm 24848). Il manoscritto, ritrovato da Barach, direttore della biblioteca di Strasburgo, è stato edito solo nel 1888 da Übinger: cfr. J. Übinger, Die Gotteslehre des Nikolaus Cusanus, Schöningh, Münster-Paderborn 1888, pp. 150-193. Nel 1944 Paul Wilpert, sulla base del lavoro precedentemente condotto da Ludwig Bauer, lo pubblicò come vol. XIII degli opera omnia cusaniana e nel 1950 vi aggiunse Addenda et corrigenda per venire incontro alle molte imperfezioni del testo. Oggi possediamo un nuovo testimone dell’opera grazie al ritrovamento da parte di Klaus Reinhardt di un manoscritto nella Biblioteca capitolare di Toledo contenente, oltre a numerosi altri scritti cusaniani, una copia del testo risalente all’incirca al 1460 (Toledo, Biblioteca Capítulares, To 19-26). Il testo di Monaco è però più preciso di quello di Toledo, in quanto quest’ultimo contiene numerosi errori di copiatura, molto probabilmente a causa dell’ignoranza del copista sull’oggetto del suo lavoro. Cfr. D. Monaco, Deus Trinitas, cit., pp. 21-30.
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posizioni. Tre interlocutori si alternano nel porre domande al cardinale Cusano: l’abate Andrea Vigevio, fine conoscitore di Platone e di Proclo; il futuro vescovo di Nicotera Pietro Balbo di Pisa, traduttore della Teologia platonica di Proclo e di altre opere dell’età antica e patristica; il medico portoghese Ferdinando Matim di Roritz, esperto di Aristotele20. Il testo si apre individuando nella definizione l’elemento centrale della conoscenza: noi conosciamo le cose in quanto le definiamo21. L’elemento originale della teoria della conoscenza esposta da Cusano consiste nell’individuare nel non aliud l’elemento cardine della definizione22. Ogni cosa è conoscibile in quanto è non altro che ciò che è: il cielo è non altro che cielo,
20. Sugli interlocutori del dialogo cfr. Nicolaus von Kues, Vom Nichtanderen, a cura di P. Wilpert, Meiner, Hamburg 1952, pp. 99-103; Nicolás de Cusa, Acerca de lo no-otro o de la definición que todo define. Nuevo texto crítico original, intr. e tr. sp. di J.M. Machetta, testo critico e note a cura di C. D’Amico - M. D’Ascenso - A. Eisenkopf - J. G. Rios - J.M. Machetta K. Reinhardt - C. Rusconi - H. Schwaetzer, Editorial Biblos, Buenos Aires 2008, pp. 243-246; M. von Perger, Nichts Anderes – Ein Fund des Cusanus auf der Namenssuche für das erste Prinzip aller Dinge, in «Internationale Zeitschrift für Philosophie», 2, 2004, pp. 114-139. 21. Cfr. De non aliud, 1, pp. 3-4 (tr. it., p. 1447): «Nicolaus: Abs te igitur in primis quaero: quid est quod nos apprime facit scire? Ferdinandus: Definitio». 22. Se la definizione aristotelica è composta da almeno due predicati, ossia dall’indicazione del genere prossimo e della differenza specifica, quella cusaniana ha nel non aliud il suo fulcro, il suo cardine essenziale. Inoltre se la definitio di matrice aristotelica pone il suo oggetto all’interno dell’orizzonte più comprensivo del genere per poi determinarlo e distinguerlo attraverso l’indicazione della sua differenza specifica, quella cusaniana – in modo solo formalmente analogo alla prima – è strutturata secondo un doppio movimento: in primis pone l’oggetto all’interno dell’orizzonte assolutamente indefinito dell’aliud per poi, attraverso la potenza della negazione data dal non, riportare l’oggetto presso di sé come sé stesso staccandolo dall’orizzonte del totalmente indeterminato e rivelandolo per quello che è. Sul non aliud come principio della definizione cfr. S. Dangelmayr, Gotteserkenntnis und Gottes-
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l’altro è non altro che altro23. Tuttavia, tale capacità definitoria del non aliud non ha valore solo gnoseologico, ma anche ontologico24. Non solo sono conoscibili, ma le cose sono quello che sono in virtù del fatto che sono non altro che quello che sono. Ogni cosa è quello che è in quanto è non altro che sé stessa25. Per illustrare il duplice valore, gnoseologico e ontologico della capacità definitoria del non aliud, Cusano utilizza la metafora della luce26. Come la vista sensibile non vede nulla senza la
begriff in den philosophischen Schriften des Nikolaus von Kues, Hain, Meisenheim a.Gl. 1969, pp. 246-248. 23. Cfr. De non aliud, I, 1, p. 5 (tr. it., p. 1447): «Nicolaus: […] Quid enim responderes, si quis te “quid est aliud?” interrogaret? Nonne diceres: “non aliud quam aliud”? Sic, “quid caelum?”; responderes: “non aliud quam caelum”. Ferdinandus: Utique veraciter sic respondere possem de omnibus, quae a me definiri expeterentur». Cfr. De non aliud, III, 10, pp. 7-8 (tr. it., p. 1457): «Nam cum omne, quod quidem est, sit non aliud quam id ipsum, hoc utique non habet aliunde; a “non alio” igitur habet. Non igitur aut est aut cognoscitur esse id, quod est, nisi per “non aliud”, quae quidem est eius causa, adaequatissima ratio scilicet sive definitio». 24. Cfr. C. Rusconi, La definición que se define a sí misma y a todo, in Nicolás de Cusa, Acerca de lo no-otro, cit., pp. 336-346. 25. Cusano prende le distanze dalla concezione platonica, contenuta nella VII Lettera (cfr. Platone, Epist., VII, 342b-344d), secondo la quale la definizione non attinge direttamente l’essenza, il quid, il “che cosa” della cosa definita. Cfr. De non aliud, XXII, 101, p. 1561: «Meministi, puto, Platonem negare quid rei definitionem attingere, quia quidditati circumponitur, uti etiam Proculus explanat. Unde non fit ita, cum ipsum “non aliud” se atque omnia definit. Non enim sic ipsum principium quidditativum definit, quasi qui lineis circumpositis triangularem determinat seu definit superficiem, sed quasi superficiem, quae trigonus dicitur, constituat». Secondo l’interpretazione del cardinale, a differenza della definizione platonica, il non aliud, in quanto principio quidditativo, e la definizione su di esso fondata non girano attorno al quid della cosa come se delimitassero la superficie della cosa dall’esterno, ma definendola la costituiscono dall’interno. 26. Oltre che Platone, qui il riferimento cusaniano è certamente lo PseudoDionigi; si vedano le molteplici citazioni in cui ricorre la metafora della luce,
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luce e il colore o il visibile sensibile non sono altro che la terminazione o definizione della luce sensibile, così la mente senza quella luce intelligibile che è il non aliud non può conoscere alcuna creatura, la quale è quello che è in quanto partecipa della luce intelligibile che è il non aliud27. Fermo restando le differenze, ossia principalmente che l’azione dell’idea del bene in Platone sembra esplicarsi sul solo piano del mondo intelligibile, come nella metaforizzazione solare platonica dell’idea del bene, per Cusano il non aliud opera in modo duplice donando realtà sia gnoseologica sia ontologica alle cose. Tuttavia, Cusano sembra approfondire e cercare di chiarificare le ambiguità connesse all’idea del bene platonico – che ricordiamolo nel suo particolare statuto di principio dell’essere e della conoscenza, sembra porsi al di là delle essenze per dignità e potenza pur essendo a sua volta una idea – attraverso una sua reinterpretazione. Il non aliud, infatti, non è solo causa dell’essere e dell’intelligibile, ma in quanto principio trascende tutte le cose da lui principiate. Il non aliud, infatti, si autodefinisce sia ontologicamente sia gnoseologicamente in quanto anche «il non altro è non altro che non altro». Grazie alla sua capacità di autodefinirsi il non altro supera anche l’idea di bene nella sua capacità di accennare al principio primo28. Nel capitolo XXIII del De non aliud29 la concezione platonica è esplici-
tratte dal IV libro del De divinis nominibus, contenute nel cap. XIV dell’opera. Cfr. De non aliud, XIV, 61-62, p. 33 (tr. it., p. 1517). 27. Cfr. De non aliud, III, 8-10, pp. 6-8 (tr. it., pp. 1455-1457). 28. Sulla priorità del non aliud sul bene, e sull’Uno, attribuita dal cardinale in dialogo critico con la tradizione platonica e neoplatonica cfr. De non aliud, IV, 13, p. 10 (tr. it., pp. 1461-1463); XXIII, 106, pp. 55-56 (tr. it., pp. 15651567). Sull’antecedenza del non aliud sull’Uno cfr. anche De ven. sap. XXI, 59, p. 57 (tr. it., pp. 1667-1669). 29. Cfr. De non aliud, XXIII, 107, pp. 55-56 (tr. it., p. 1567): «Verum nonbonum bono non est melius, quodcirca secundum hoc bonum antecedit, et
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tamente richiamata al fine di sottolinearne l’affinità con l’idea del non aliud, ma allo stesso tempo per segnalare la maggiore precisione di quest’ultima espressione nel guidare alla visione divina. Anche il bene nella prospettiva cusaniana è non altro che bene, e pertanto deriva la propria identità o meglio non alterità dal non aliud. Inoltre, l’inferiorità dell’idea di bene è data anche dal fatto che al bene inoltre sembra ancora opporsi il non-bene mentre Dio, il principio primo, non ha opposti, ma non è altro né dal bene né dal non-bene. Il non aliud al contrario non si oppone a quello che dovrebbe essere il suo opposto poiché anche l’aliud non è altro che aliud30. Il non aliud è il principio costitutivo anche dell’aliud che partecipa del non aliud per essere ciò che è31. Il non altro, in quanto è il principium essendi et cognoscendi di ogni cosa32 è pura espressione dell’infinita e libera causalità del principio, di Dio come creatore33. Esso indica la volontà creatrice divina operante ogni cosa,
solus Deus bonum est, cum bono nihil sit melius. Bonum vero, quia aliud videtur a non-bono, non est praecisum nomen Dei. Et ideo negatur a Deo, sicut etiam alia omnia nomina, cum Deus nec a bono, nec a non-bono aliud sit, neque denique ab omni nominabili. Quare significatum li “non aliud” praecisius in Deum quam bonum dirigit». 30. Cfr. De non aliud, VI, 21, p. 14 (tr. it., p. 1471): «Deus autem, quia non aliud est ab alio, non est aliud, quamvis non aliud et aliud videantur opponi; sed non opponitur aliud ipsi, a quo habet quod est aliud». 31. Cfr. De non aliud, II, 7, p. 6 (tr. it., p. 1453): «Aliud enim cum sit non aliud quam aliud, utique “non aliud” praesupponit, sine quo non foret aliud». 32. Cfr. De non aliud, III, 9, p. 7 (tr. it., p. 1457): «Deus igitur per “non aliud” siginificatus essendi et cognoscendi omnibus principium est. Quem si quis subtrahit, nihil manet neque in re, neque in cognitione. Quemadmodum luce subtracta iris aut visibile nec est nec videtur, et sublato sono nec est audibile nec auditur, sic subtracto “non aliud” neque est nec cognoscitur quidquam». 33. Cfr. De ven. sap., XXIII, 70, p. 67 (tr. it., p. 1683): «Nam aequalitas est verbum illud ipsius non aliud, scilicet dei creatoris se et omnia dicentis et diffinientis». Sul concetto di aequalitas, cfr. H. Schwaetzer, Aequalitas, Olms, Hildesheim 2000; D. Monaco, Deus Trinitas, cit., pp. 132-138.
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la sua potenza causale che fonda, conserva e dona la propria singolarità a tutte e a ciascuna cosa che non è altro da ciò che è34. Cusano sembra attingere alla concezione platonica del VI libro della Repubblica, guidato dalle letture neoplatoniche, in particolare di Proclo35, ma procedendo a una sua reinterpretazione e rielaborazione originale attraverso il non aliud, la guida per chi specula più adeguata ad ascendere al principio primo. Ma la metafora solare ritorna anche nelle ultimissime opere del pensatore tedesco, composte a ridosso della sua dipartita, il Compendium e il De apice theoriae. In queste opere gli afferma di aver raggiunto quello che è l’apex, il vertice della sua visione, della sua riflessione, la sua proposta teorica più matura e compiuta, così come quello lui considera la vetta più alta conquistabile dalla visione, dalla speculazione tout court, il punto più elevato raggiungibile e raggiunto dalla contemplazione filosofica. In queste opere Cusano presenta una dottrina segretissima mai apertamente comunicata prima – sebbene fosse già presente in modo embrionale ed implicito nelle sue opere precedenti36 – la visione dell’Uno quale posse e dei mol-
34. Cfr. De non aliud, IX, 34, p. 20 (tr. it., p. 1487): «Et sic illa vides voluntate omnia determinari, causari, ordinari, firmari, stabiliri et conservari, et in universo relucere». 35. Accanto al pensiero trinitario patristico, fondamentale per comprendere la genesi del De non aliud è l’interpretazione procliana del Parmenide platonico. L’idea di non aliud rappresenta infatti un profondo e radicale ripensamento della concezione della negazione contenuta nel VI libro del Commento al Parmenide di Proclo, ripresa da Dionigi nello sviluppo della teologia negativa. Per una più ampia ricostruzione e analisi delle fonti del non aliud e la relativa bibliografia sul tema cfr. D. Monaco, Deus Trinitas, cit., pp. 172-211. 36. Il pensatore tedesco nelle battute conclusive del dialogo invita il suo interlocutore a rileggere, alla luce del segreto dell’Uno inteso come posse e del molteplice come sua apparizione, tutta la sua opera precedente, presentando tale dottrina come chiave di lettura della sua speculazione e indicando alcune opere in cui, sulla base della sua chiara rivelazione, è possibile ora ritro-
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ti come sue apparizioni37. Cusano descrive il posse come la migliore denominazione possibile del principio divino, superiore persino al possest a cui pure aveva dedicato numerosi sforzi speculativi e che pure sembra di molto avvicinarsi al suo significato essendone il più prossimo antecedente38. Certamente pensando Dio come possest, ossia quale realtà di ogni possibilità, coincidenza di attualità assoluta e possibilità pura, indifferenza atemporale tra potenza e atto, Cusano aveva riconosciuto pari dignità e valore a entrambi e la loro completa reversibilità. Inoltre, inserendo tra il potere e l’essere, tra la potenza e l’atto un terzo, il nesso tra entrambi, era riuscito a introdurre una logica trinitaria vare alcuni prodromi di tale concezione. Cfr. De ap. theor., 16, p. 130 (tr. it., p. 1985): «Velis igitur, mi Petre valde dilecte, mentis oculum acuta intentione ad hoc secretum convertere et cum ista resolutione nostra scripta et alia, quaecumque legis, subintrare et maxime te exercitare in libellis et sermonibus nostris, singulariter De dato lumine, qui bene intellectus secundum praemissa, idem continet quod iste libellus. Item De icona sive visu dei et De quaerendo deum libellos in memoria tua recondas, ut in his theologicis melius habitueris, et istis memoriale apicis theoriae, quod nunc quam breviter subicio, magno affectu coniungas. Eris, spero, acceptus Dei contemplator et pro me inter sacra indesinenter orabis». Cusano suggerisce persino che la dottrina segretissima del potere e delle sue molteplici apparizioni costituisca un vero e proprio metodo risolutivo per rileggere non solo i propri scritti, ma quelli dei filosofi precedenti. In effetti le differenze tra i diversi filosofi sono da attribuire al fatto che essi hanno guardato a uno dei due aspetti, ossia o al potere piuttosto che al suo apparire o alle sue molteplici e varie apparizioni piuttosto che alla loro radice nel potere. Tuttavia, ciò non negherebbe la loro essenziale concordanza pur nelle summenzionate differenze. Cfr. De ap. theor., 14, p. 126 (tr. it., p. 1983). 37. Cfr. De ap. theor., 14, p. 126 (tr. it., p. 1983): «Hanc nunc facilitatem tibi pandere propono prius non aperte communicatam, quam secretissimam arbitror: puta omnem praecisionem speculativam solum in posse ipso et eius apparitione ponendam, ac quod omnes qui recte viderunt, hoc conati sunt exprimere». 38. Cfr. De ap. theor., 5, p. 120 (tr. it., p. 1973).
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all’interno della metafisica di stampo aristotelico costruita generalmente su coppie concettuali39. Tuttavia, all’apice della sua visione il pensatore tedesco compie un passo ulteriore: scioglie l’Uno o Dio dall’essere e dall’atto pensandolo come posse, potere oltre l’essere stesso, oltre lo stesso poter-essere e possest che rappresentano solo un’immagine di quello, qualcosa di successivo alla purezza del Primo40. Il cardinale, operando una trasformazione dell’interpretazione classica dell’onnipotenza divina, non intende Dio semplicemente come onnipotente, nel senso che egli sarebbe in grado di fare tutto – e dunque l’onnipotenza meramente come uno dei suoi attributi –, ma quale onni-potenza, ossia come tutto il possibile, potere di ogni potenza, unità di ogni possibilità, complicazione di ogni possibile 41.
39. Cfr. D. Monaco, Act and Potency in Cusanus’ Later Thought, in E. Vimercati - V. Zaffino (a cura di), Nicholas of Cusa and the Aristotelian Tradition. A Philosophical and Theological Survey, de Gruyter, Berlin-Boston 2020, pp. 161-176; D. Monaco, In principio era il Possest. Cusano contra Aristotele, in «Annuario filosofico», 36, 2020, pp. 90-108. 40. Cfr. Comp., X, 29, p. 23 (tr. it., p. 1947): «Ipso posse nihil prius esse potest. Quid enim posse anteiret, si anteire non posset? Posse igitur, quo nihil potentius aut prius esse potest, utique est principium omnipotens. Est enim ante esse et non esse»; De ap. theor., 20, p. 131 (tr. it., p. 1987): «Posse cum addito imago est ipsius posse, quo nihil simplicius. Ita posse esse est imago ipsius posse, et posse vivere imago ipsius posse, et posse intelligere imago ipsius posse». In ciò Cusano si spinge oltre Bruno che non compirà mai tale passo restando nell’orizzonte dell’ontologia. Cfr. S. Mancini, La sfera infinita. Identità e differenza nel pensiero di Giordano Bruno, Mimesis, Milano 2000, pp. 269-270. 41. Cfr. De ap. theor., 28, p. 136 (tr. it., pp. 1993-1995): «Per posse ipsum deus trinus et unus, cuius nomen omnipotens seu posse omnis potentiae, apud quem omnia possibilia et nihil impossibile et qui fortitudo fortium et virtus virtutum, significatur». Sul tema cfr. C. Catà, La Croce e l’Inconcepibile. Il pensiero di Nicola Cusano tra filosofia e predicazione, EUM, Macerata 2009, pp. 54-56 e 72-78.
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Sciolto dall’essere il posse non complica in sé solo le cose che sono, ma contiene nella sua potenza tutti i possibili, sia delle cose che sono, sia di quelle che non sono – che per non essere devono poter non essere42. La sua libertà e assolutezza rispetto all’atto e all’essere, al mondo e alla creazione, è tale che in esso i possibili che vengono portati all’atto non hanno alcuno statuto di realtà diverso da quelli che sono e che resteranno puramente possibili. Il posse non è mero fondamento o ragione della creazione e del mondo: le cose che effettivamente esistono non hanno nessuna diversa realtà, alcun valore aggiunto rispetto agli infiniti possibili tutti compresenti e compossibili nel posse. Sia le cose che sono sia le cose che non sono restano egualmente puramente possibili nella sua infinita potenza43. Attraverso il posse Cusano cerca di dare voce all’Uno o a Dio come indifferenza di tutti i possibili, ossia come non opposto a essi, ma loro fonte inesauribile, al di là della loro stessa esistenza o realtà, e concependolo non come necessitato all’atto e all’essere, ma libero da essi. L’Uno come posse rappresenta, tuttavia, uno dei due volti della concezione cusaniana. L’altro aspetto, altrettanto essenziale, riguarda la molteplicità, i molti intesi quali apparizioni dell’Uno. Tutte le cose non sono altro che manifestazioni, rivelazioni, teofanie dell’Uno-Dio inteso come posse44. Infatti, 42. Cfr. De ap. theor., 8, p. 122 (tr. it., p. 1975): «Hinc posse ipsum est omnium quiditas et hypostasis, in cuius potestate tam ea quae sunt quam quae non sunt necessario continentur». 43. Cfr. Comp., X, 30, p. 24, p. 1949: «Posse igitur, quod se aequaliter ad contradictoria habet, ut non possit plus unum quam aliud, per aequalitatem suam se aequaliter habet». Cfr. anche ivi: «Patet satis quod posse aequaliter unit omnia, complicat et explicat». 44. Cfr. De ap. theor., 15, p. 379: «Qui dicunt deum – patrem omnipotentem – creatorem caeli et terrae, id quod nos dicimus dicunt, scilicet posse ipsum, quo nihil omnipotentius, creare caelum et terram et omnia per suam apparitionem».
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in tutte le cose non si vede altro che il potere della causa prima e del Principio primo45. Entra qui in gioco l’analogia solare di ascendenza platonica. Se il sole, che non è visibile direttamente alla vista, è il padre della luce sensibile, Dio, che è luce inaccessibile, è il padre delle di tutte le cose che non sono altro che riflessi della luce divina46. Nel De apicae theoriae, per spiegare tale duplice aspetto della sua concezione Cusano impiega ancora una volta la metafora della luce. La luce è l’unica hypostasis di ogni colore e di ogni visibile, in quanto senza la luce né il colore né il visibile sussistono, mentre i colori e il visibile non sono altro che apparizioni nei loro vari modi d’essere della luce stessa47. Il pensatore tedesco stabilisce un’analogia tra il rapporto della luce con i colori e il visibile in genere e quella del posse con il molteplice. Come la luce è l’hypostasis di ogni colore o visibile e questi non sono altro che manifestazioni di essa, così il posse è la quidditas e l’hypostasis di ogni ente – che intanto è ed è quello che è perché può essere e perché deriva tale potere dal posse stesso – ed i vari enti non sono altro che modi di manifestarsi diversi dello stesso posse48.
45. Cfr. De ap. theor., 7, p. 122 (tr. it., p. 1975): «Dicerem me non nisi posse causae primae et primi principii videre». 46. Cfr. Comp., I, 2, p. 4 (tr. it., p. 1913). 47. Cfr. De ap. theor., 8, pp. 122-123 (tr. it., p. 1977): «Posse igitur ipsius per quosdam sanctos lux nominatur, non sensibilis aut rationalis sive intelligibilis, sed lux omnium quae lucere possunt, quoniam ipso posse nihil lucidius esse potest nec clarius nec pulchrius. Respicias igitur ad lucem sensibilem, sine qua non potest esse sensibilis visio, et attende quomodo in omni colore et omni visibili nulla est alia hypostasis quam lux varie in variis essendi modis colorum apparens, ac quod luce subtracta nec color nec visibile nec visus manere potest». 48. Cfr. De ap. theor., 8, p. 122 (tr. it., p. 1975): «Hinc posse ipsum est omnium quiditas et hypostasis». Cfr. De ap. theor., 9, p. 123 (tr. it., p. 1977):
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Attraverso la reinterpretazione della analogia platonica, Cusano accenna altresì alla dottrina della partecipazione quale momento di intermediazione tra l’Uno e il molteplice. La luce non viene mai vista in sé, ma solo per come si manifesta nei visibili; essa si rivela in essi non in modo visibile ma in modo invisibile, poiché in questi la sua chiarezza non può mai essere vista in sé e non viene vista in tutti i visibili in modo eguale, ma in uno più chiaramente, in altro più oscuramente, perché essa è partecipata in modo diverso da essi49. Allo stesso modo, il posse è visto manifestarsi variamente nelle sue diverse apparizioni e modi di apparire, poiché esso è partecipato in modi diversi dai diversi enti, mentre in sé esso non viene mai visto, in quanto vengono viste solo le sue diverse manifestazioni50. Nei molti, che non sono altro che apparizioni dello stesso Uno, il posse non è mai visto come è in sé, poiché esso in sé supera, trascende ogni chiarezza visibile ed è invisibile non per mancanza, ma per eccesso di lucore. Infatti, come la luce in sé complica tutti i visibili e supera la loro chiarezza e la loro bellezza, così il posse in sé complica ogni sua successiva determinazione o apparizione, trascendendone ogni possibile bellezza e chiarezza51.
«Et non videbis varia entia nisi apparitionis ipsius posse varios modos; quiditatem autem non posse variam esse, quia est posse ipsum varie apparens». 49. Cfr. De ap. theor., 8, p. 123 (tr. it., p. 1977): «Claritas vero lucis, ut in se est, visivam potentiam excellit. Non igitur videtur, uti est, sed in visibilibus se manifestat, in uno clarius, in alio obscurius. Et quanto visibile magis clare lucem repraesentat, tanto nobilius et pulchrius». 50. Cfr. De ap. theor., 19, p. 131 (tr. it., p. 1987): «Et quia posse ipsum omne posse cum addito antecedit, non potest nec esse nec nominari nec sentiri nec imaginari nec intelligi. Omnia enim talia id, quod per posse ipsum significatur, praecedit, licet sit hypostasis omnium sicut lux colorum». 51. Cfr. De ap. theor., 8, p. 123 (tr. it., p. 1977): «Lux vero omnium visibilium claritatem et pulchritudinem complicat et excellit».
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3. Il Parmenide Al cardinale si deve, quale mecenate e committente, la prima versione latina del Parmenide di Platone; Giovanni Andrea Bussi nel prologo alla sua edizione del Didascalico di Apuleio ricorda che fu proprio il cardinale a volere fortemente la traduzione del dialogo platonico52. Dopo il suo arrivo a Roma il 30 settembre 1458 il cardinale commissionò la traduzione a Giorgio da Trebisonda detto il Trapezunzio, che lavorò concludendola e componendo la dedica a Cusano presente sul manoscritto probabilmente tra l’11 gennaio 1459 e il 30 settembre del medesimo anno53. Il cardinale ricevette la versione sicuramente non prima del mese di giugno quando ormai aveva concluso il De principio (9 giugno 1459) in cui è costante il riferimento a Platone, ma senza alcuna citazione diretta al testo platonico, bensì sempre attraverso il Commento al Parmenide di Proclo54.
52. Cfr. G.A. Bussi, Prefazioni alle edizioni di Sweynheym e Pannartz, cit., p. 18. In realtà il Didascalico è oggi attribuito ad Alcinoo. 53. Cfr. I. Ruocco, Introduzione, in Id. (a cura di), Il Platone latino. Il Parmenide: Giorgio di Trebisonda e il cardinale Cusano, Olschki, Firenze 2003, p. 9. Una traduzione che, vista l’esistenza di un solo testimone, non ebbe diffusione. 54. Tale cronologia è stata proposta da Monfasani a correzione di quella proposta in precedenza da Klibansky che indicava invece come datazione il 1450-51. Cfr. J. Monfasani, George of Trebizond. A Biography and a Study of His Rhetoric and Logic, Brill, Leiden 1976, pp. 161-170; R. Klibansky, Plato’s Parmenides in the Middle Ages and the Renaissance. A Chapter in the History of Platonic Studies, in «Medieval and Renaissance Studies», 1, 1943, pp. 281-330. In realtà già il famoso storico della tradizione platonica aveva avanzato dei dubbi su tale datazione rilevando come tra il 1450/51 e la composizione del De non aliud non ci siano riferimenti diretti nell’opera di Cusano al testo platonico. La nuova datazione è stata poi accettata anche dallo stesso Klibansky: cfr. la prefazione a Plato’s Parmenides in the Middle Ages and the Renaissance, in R. Klibansky, The Continuity of the Platonic
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La traduzione del Parmenide platonico, scoperta da Raymond Klibansky nel 1942 e contenuta nel Codice 6021 della Biblioteca Guarnaci di Volterra, rappresenta l’unico testimone della prima versione latina integrale del testo platonico, antecedendo di almeno cinque anni quella ficiniana55. Sino ad allora il dialogo era conosciuto in Occidente attraverso la traduzione del Commento al Parmenide di Proclo fatta da Guglielmo di Moerbeke che si interrompe alla fine della I ipotesi: il testo era dunque noto solo in forma indiretta e in maniera incompleta. Lo stesso Cusano, che già in anni giovanili aveva avuto un primo contatto coi testi di Proclo, a partire dal 1450-1455 ebbe a sua disposizione il testo del commentario procliano annotandolo a più riprese e, a partire dal De beryllo (1458), citandolo più volte56. Pertanto, fu merito di Cusano se la versione
Tradition during the Middle Ages. Outlines of a Corpus Platonicum medii aevi, Kraus, München 1981, pp. V-IX. 55. La traduzione è conservata nel codice Volterranus 6021, ff. 61r-81v; ora è edita in I. Ruocco (a cura di), Il Platone latino, cit., pp. 35-84. Sulla scoperta della traduzione cfr. R. Klibansky, Plato’s Parmenides in the Middle Ages and the Renaissance, cit. Sulle traduzioni pre-ficiniane delle opere platoniche cfr. E. Garin, Ricerche sulle traduzioni di Platone, cit. 56. Un giovanile contatto con i testi procliani è attestato dagli estratti di mano cusaniana contenuti nell’attuale codice Argentoratensis bibliothecae Universitatis 84 e editi ora in R. Haubst, Die Thomas- und Proklos-Exzerpte des “Nicolaus Treverensis” in Codicillus Strassburg 84, in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 1, 1961, pp. 17-51. Il primo a richiamare l’attenzione su questi estratti è stato E. Vansteenberghe, Quelques lectures de jeunesse de Nicolas de Cues d’après un manuscrit inconnu de sa bibliothèque, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 3, 1928, pp. 275-284. La conoscenza da parte di Cusano del Commento al Parmenide di Proclo è attestata dalle note a margine di suo pugno presenti nei codici Vaticanus Latinus 3074 e Codex Cusanus 186, di cui entrò in possesso negli anni 1450-1455. Cfr. C. Steel, Introduction, in Proclo, Commentaire sur le Parménide de Platon, tr. fr. di G. de Moerbeke, a cura di C. Steel, Brill, Leiden 1982, vol. I, pp. 12-17.
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parziale medievale e quella diretta e completa umanistica del Parmenide furono introdotte in Italia57. Nell’opera cusaniana una prima menzione del Parmenide di Platone è presente nel sermone Maria optimam partem elegit del 15 agosto 144658. In questo sermone Platone è accostato a Boezio e a Dionigi Areopagita quale sostenitore di una concezione dell’Uno inteso come necessarium, affinché i molti siano, e allo stesso tempo come superexaltatum, in quanto al di là dei molti, ossia gli viene attribuita una visione dell’Unum di stampo sostanzialmente neoplatonica. Cusano afferma esplicitamente la corrispondenza tra la dottrina cristiana e quella dei seguaci del Parmenide, che egli chiama i “platonici”, elencando come punti di contatto: l’idea che l’Uno sia l’origine di ogni cosa; l’assoluta necessità dell’Uno, causa e ragione di tutto, la visione dell’Uno come complicatio omnium in quanto causa di ogni cosa59. Si tratta di una interpretazione di Platone e del Parmenide ribadita e approfondita ulteriormente nell’Apologia doctae ignorantiae del 1449: Quando Avicenna si sforza di ascendere alla singolarità di Dio mediante la teologia negativa, egli scioglie Dio da tutto ciò che è singolare e universale. Ma, prima di Avicenna, e in maniera più acuta, il divino Platone, nel Parmenide, si sforzò di aprire in questo modo la via che conduce a Dio; il divino Dionigi lo ha imitato a tal punto che è possibile constatare come in lui, molto spesso, si ritrovano testualmente le stesse parole di Platone.60
57. Cfr. J. Hankins, La riscoperta di Platone, cit., p. 35, nota 4. 58. Cfr. Sermo LXXI, 9, in Sermones XVII/5, p. 427. 59. Cfr. C. D’Amico, Plato and Platonic Tradition, cit., p. 23. 60. Apol., 13, p. 10 (tr. it., p. 739): «Unde, quando Avicenna in Dei singularitatem conatur ascendere per theologiam negativam, Deum ab omni singu-
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Il Parmenide platonico viene letto come luogo fondativo della via teologica negativa61. Se si tiene conto di una citazione del De beryllo e delle glosse cusaniane al Codex Cusanus 186 contenente il Commento al Parmenide di Proclo non è difficile individuare la fonte di tale interpretazione. Nel De beryllo (1458) Cusano infatti scrive che: Giustamente, pertanto, come riferisce Proclo nel Commento al Parmenide, Platone nega ogni predicato del principio. Allo stesso modo, anche il nostro Dionigi preferisce la teologia negativa a quella affermativa.62
“Divino Platone” è inoltre un’espressione ricorrente nei testi cusaniani che si ritrova nel testo di Proclo precisamente glossata e riportata a margine del manoscritto contenente il Commento al Parmenide posseduto dal cardinale63. L’aderenza dell’interpretazione cusaniana a quella procliana di Platone quale padre della teologia negativa è confermata e rafforzata inoltre dalle annotazioni cusaniane al commento procliano, lari et universali absolvit; sed acutius ante ipsum divinus Plato in Parmenide tali modo in Deum conatus est viam pandere; quem adeo divinus Dionysius imitatus est, ut saepius Platonis verba seriatim posuisse reperiatur». 61. Una linea di continuità tra l’interpretazione cusaniana del Parmenide e quella procliana è stata riconosciuta già da R. Klibansky, Plato’s Parmenides in the Middle Ages and the Renaissance, cit. Sulla lettura di carattere neoplatonico e cristiano di Platone data da Cusano cfr. J. Hirschberger, Das Platon-Bild bei Nikolaus von Kues, cit.; W. Beierwaltes, Das Seiende Eine. Zur neuplatonischen Interpretation der zweiten Hypothesis des platonischen Parmenides: das Beispiel Cusanus, in G. Boss - G. Seel (a cura di), Proclus et son influence, Grand Midi, Zürich 1987, pp. 287-297; rip. in W. Beierwaltes, Procliana. Spätantikes Denken und seine Spuren, Klostermann, Frankfurt a.M. 2007, pp. 215-222. 62. De beryl., 12, p. 15 (tr. it., p. 1169): «Recte igitur, ut Proclus recitat in commentariis Parmenidis, Plato omnia de ipso principio negat». 63. Cfr. K. Bormann, Die Exzerpte und Randnoten des Nikolaus von Kues zu den lateinischen Übersetzungen der Proclus-Schriften. Expositio in Parmenidem Platonis, Winter, Heidelberg 1986, p. 16, marg. 33: «Plato divinissimus».
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che si soffermano spesso a sottolineare come il divino Platone non abbia affermato nulla dell’Uno, bensì negato tutto per ascendere ad esso64. Cusano leggeva Platone attraverso le lenti del neoplatonismo e della teologia negativa di Proclo e di Dionigi e secondo la tradizione procliana attribuiva a Platone e al Parmenide la fondazione della via teologica negativa. Il Parmenide platonico, tuttavia, presenta un ulteriore aspetto di interesse quale fonte del pensiero cusaniano. Dopo che Cusano ne ebbe a disposizione il testo completo nella versione latina, la prima opera in cui il dialogo è citato esplicitamente è il De non aliud del 1461-146265. A partire da tale momento, benché l’interpretazione cusaniana generale del dialogo resti segnata dall’esegesi procliana e dionisiana, il Parmenide di Platone viene distinto esplicitamente e chiaramente dal commento di Proclo66. La sua influenza sulla genesi del De non aliud e sulla visione del Primo come non aliud propria dell’ultimo Cusano non
64. Cfr. ivi, marg. 494, p. 123: «plato abnegatione ad exaltatum unum ascendit»; n. 497, p. 123: «plato nichil de deo affirmat»; n. 518, p. 128: «plato ab uno omnia negat et deo nichil affirmat». 65. Per una ricostruzione delle fonti e una disamina e interpretazione più ampia del significato del non aliud, cfr. D. Monaco, Deus Trinitas, cit., pp. 163-203. 66. De non aliud, I, 1, p. 3 (tr. it., p. 1447). La relazione tra il De non aliud e il Parmenide platonico è stata spesso trascurata dalla Cusanus-Forschung: ancora Paul Wilpert nel suo commentario all’opera del 1952 negava la conoscenza da parte di Cusano del dialogo platonico. Cfr. Nikolaus von Kues, Vom Nichtanderen, cit., p. 135. A richiamare l’attenzione su tale relazione sono stati in particolare Egil Anders Wyller e Werner Beierwaltes: cfr. E.A. Wyller, Zum Begriff “non aliud” bei Cusanus, in G. Santinello (a cura di), Nicolò Cusano agli inizi del mondo moderno, cit., pp. 419-443; Id., Nicolaus Cusanus “De non aliud” und Platons Dialog “Parmenides”, in K. Döring W. Kullmann (a cura di), Studia Platonica, John Benjamins, Amsterdam 1974, pp. 239-251; W. Beierwaltes, Procliana, cit., pp. 215-222.
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è stata adeguatamente sottolineata da parte della Cusanus- Forschung, che si è soffermata, non senza buone ragioni, sulle fonti procliane e dionisiane. Tuttavia, nonostante la marcata influenza del neoplatonismo tardo-antico esiste un plausibile influsso del contenuto del dialogo sulla teologia o filosofia dell’ultimo Cusano. Visto infatti che, nella seconda parte del dialogo platonico, la questione posta dal vecchio Parmenide del rapporto tra l’Uno e i molti nello svolgimento del suo discorso si sposta terminologicamente verso uno schema che vede emergere come oggetto di indagine principalmente l’Uno e gli altri dall’Uno67, Cusano può aver ritrovato nel dialogo una prefigurazione del rapporto tra non aliud e aliud che è il tema della sua opera del 1461-1462. Ad un’attenta analisi, l’Uno-uno della prima ipotesi mostra alcuni caratteri che sono propri della concezione cusaniana del Principio primo come non aliud, in particolare il suo non essere né identico sia a sé sia ad altro né diverso sia da sé sia da altro68. L’Uno che è uno infatti non è diverso da sé, altrimenti sarebbe diverso dall’Uno e pertanto non sarebbe l’Uno69, così come il non aliud non è aliud, ma non aliud dal non aliud. Allo stesso tempo l’Uno della prima ipotesi non è identico ad una cosa diversa, altrimenti non sarebbe più l’Uno, bensì una
67. Cfr. M. Migliori, Dialettica e Verità. Commentario filosofico al “Parmenide” di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1990, p. 193. Sul Parmenide platonico e le sue interpretazioni cfr. F. Ferrari, L’enigma del Parmenide, in Platone, Parmenide, BUR, Milano 2004, pp. 9-161. Da un punto di vista speculativo cfr. V. Vitiello (a cura di), Il “Parmenide” di Platone, Guida, Napoli 1992. 68. Cfr. Platone, Parm., 139b 4-139e 6. Cusano attinge pertanto sia alla prima sia alla seconda ipotesi del Parmenide e non solo alla seconda, come invece afferma Wyller: cfr. E.A. Wyller, Zum Begriff “non aliud” bei Cusanus, cit., pp. 419-443. 69. Cfr. Platone, Parm., 139b 7-8.
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cosa diversa70, proprio come il non aliud non è identico, ma non aliud dall’aliud. L’Uno della prima ipotesi non è tuttavia neanche identico a sé altrimenti non sarebbe più uno, ma due (uno e identico o uno identificato e uno che si identifica)71, così come il non aliud è non aliud quam non aliud. Per Platone, inoltre, l’Uno della prima ipotesi non è neanche diverso da una cosa diversa in quanto la diversità non appartiene all’Uno, bensì solo a ciò che è diverso72, così come il non aliud non è aliud dall’aliud. Secondo Cusano, Platone ha intuito che prima e al di là dell’altro non è un altro, bensì l’Hén, il quale non è altro nemmeno dall’altro: il non aliud sembra l’espressione più precisa per dire l’Uno del Parmenide73, infatti di esso non si predica la diversità o alterità da nulla in quanto è sempre e solo non aliud anche dall’aliud e mai aliud proprio in quanto non aliud74. Benché abbia più di qualche affinità con l’Hén platonico, il non aliud si differenzia da esso, perché nella sua semplicità e originarietà precede anche l’Uno: lo stesso Unum, infatti, essendo l’unum non aliud quam unum, è ciò che è grazie al non aliud e non viceversa75. L’Uno pertanto è ancora aliud rispetto al non aliud e il non aliud nella sua auroralità e inizialità precede l’Hén76.
70. Cfr. ivi, 139b 9-13. 71. Cfr. ivi, 139d 2-e 2. 72. Cfr. ivi, 139c 5-d 1. 73. De non aliud, XXII, 100, pp. 52-53 (tr. it., p. 1559). 74. Per una lettura teoretica del non aliud, quale approfondimento del tema platonico della diversità cfr. F. Tomatis, Ipseità, diversità e dia-ferenza, in «Teoria», 1, 2006, pp. 31-35. 75. De non aliud, IV, 13, p. 10 (tr. it., pp. 1461-1463); De ven. sap., XXI, 59, p. 57 (tr. it., pp. 1667-1669). 76. De non aliud, IV, 13, p. 10 (tr. it., p. 1461).
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Cusano riconosce però a Platone di essersi avvicinato moltissimo al mistero del non aliud ponendo l’Uno al di là della contraddizione77; nel Parmenide l’Hén platonico è infatti oggetto di predicazioni opposte e contraddittorie in quanto di esso nella prima ipotesi si negano sia l’essere intero sia l’esser parte, l’essere in sé e in altro, il movimento e la stasi, l’identità e la diversità, la somiglianza e la dissomiglianza, l’eguaglianza e la diseguaglianza, la giovinezza e la vecchiaia: negazioni che nella dimensione del finito e del determinato sarebbero patentemente contraddittorie si attribuiscono simultaneamente all’Uno-uno78. Cusano ponendo il Principio primo oltre la contraddizione ha un intento polemico nei riguardi di Aristotele e di tutti gli aristotelici che a partire dal IV libro della Metaphysica ritengono il principio di non-contraddizione il principium firmissimum a cui tutto deve sottostare79. Riletto neoplatonicamente, il Parmenide platonico assume pertanto un legame essenziale con il problema fondamentale che è al centro del De non aliud. Ripensata innanzitutto attraverso la speculazione di Proclo e di Dionigi e poi costantemente approfondita e rielaborata in tutto il suo cammino di pensiero, la questione dell’Uno, che trova la sua formulazione apicale nella concezione di Dio come non aliud, è fortemente legata alla lettura neoplatonica del Parmenide platonico, anzi da questo punto di vista il non aliud non è altro che una delle più originali riformulazioni che la storia del pensiero occidentale abbia mai conosciuto della tremenda questione che i neoplatonici avevano scorto nell’opera più enigmatica e inquietante del padre della filosofia. 77. Ibidem. 78. Platone, Parm., 139c 4-142a 8. 79. Cfr. Aristotele, Metaph., 1005a 20-1012b 31. La polemica con Aristotele e le varie forme di aristotelismo scolastico su queste tematiche è costante in Cusano: cfr. Apol.
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4. Cusano critico di Platone Cusano conosceva molti testi di Platone e si adoperò per la loro traduzione, ma rimase sostanzialmente estraneo alla rinascita umanistico-filologica degli studi platonici avviatasi nel Quattrocento. Il Platone cusaniano è infatti più vicino a quello di Proclo e di Dionigi che al “Platone autentico”, ovvero la sua immagine del pensatore greco risente fortemente della interpretazione che ne diedero i due filosofi neoplatonici. A tal proposito ci sentiamo di poter sottoscrivere l’affermazione di Eugenio Garin secondo la quale: «Dalla rinascenza platonica, come esigenza e gusto di tornare al testo con la maggiore compiutezza possibile, con una più esatta precisione storica, il Cusano rimase fuori»80. Non a caso il cardinale non conosceva bene il greco, né senti l’esigenza di attingere nella loro lingua originale i testi della tradizione classica; egli aveva infatti intenti e propositi diversi ed era inquietato da questioni differenti da quelle degli umanisti81. 80. E. Garin, Cusano e i platonici italiani del Quattrocento, in P. Flores d’Arcais (a cura di), Nicolò da Cusa. Relazioni tenute al Convegno interuniversitario di Bressanone nel 1960, Sansoni, Firenze 1962, pp. 75-96, p. 88. 81. Lo stesso dibattito relativo all’influsso di Cusano sul contesto culturale dell’umanesimo è ancora aperto e si è lontani da aver raggiunto conclusioni definitive. Tuttavia, come ha mostrato Eugenio Garin, le tesi di Ernst Cassirer contenute nel suo famoso volume del 1932, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento sull’importanza dell’opera cusaniana per lo sviluppo dell’Umanesimo e del Rinascimento si sono rivelate eccessivamente entusiastiche e poco fondate filologicamente. Cfr. E. Cassirer, Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, in Id., Gesammelte Werke. Hamburger Ausgabe, vol. XIV, a cura di F. Plaga - C. Rosenkranz, Meiner, Hamburg 2002, pp. 1-220, pp. 54-84 (tr. it. di F. Federici, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 79-118); E. Garin, Cusano e i platonici italiani del Quattrocento, cit. Si collocano su posizioni forse “troppo ottimistiche” rispetto alla possibilità di individuare un influsso determinante da parte di Cusano nei riguardi dell’umanesimo anche gli studi di Giuseppe Saitta; lo stesso si può dire di quelli di Pierre Duhem – sui
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Al contrario di quanto è stato affermato82 – come evidenzia l’analisi della lettura della Repubblica e del Parmenide – Cusano non legge i dialoghi platonici neanche semplicemente secondo categorie procliano-dionisiane, poiché rielabora originalmente i suoi contenuti. L’Uno cusaniano non è una mera riproposizione di una concezione platonica né tantomeno di quella neoplatonica procliano-dionisiana, come testimoniano le critiche mosse dal cardinale a Platone (e pertanto anche, o forse soprattutto, ai suoi interpreti neoplatonici). Sebbene tutto il cammino di pensiero cusaniano possa essere riletto come il tentativo di pensare l’Uno tenendo insieme gli esiti della prima ipotesi del Parmenide e quelli della seconda, interpretati neoplatonicamente, tuttavia la concezione del Principio di Cusano si differenzia profondamente da quella platonica e procliano-dionisiana. Il cardinale cerca di pensare Dio come al di là dell’essere, l’Uno-uno della prima ipotesi, e al medesimo tempo come creatore dell’essere, l’Uno-cheè della seconda. Seguendo in questo Dionigi e il neoplatonismo cristiano, egli non pensa l’Uno assoluto al di là dell’essere e del pensiero e l’Uno fonte dell’essere e del pensiero come cui studi sembra basarsi Cassirer – per quanto riguarda l’influsso cusaniano su Leonardo da Vinci. Cfr. G. Saitta, Nicolò Cusano e l’Umanesimo italiano, Tamari, Bologna 1957; P. Duhem, Nicolas de Cues et Léonard de Vinci, in Id., Études sur Léonard de Vinci, Hermann, Paris 1909, pp. 97-279. Su posizioni più moderate e maggiormente equilibrate gli studi successivi relativi alla fortuna del pensiero cusaniano in età umanistico-rinascimentale e protomoderna: cfr. K. Flasch, Nikolaus von Kues und Pico della Mirandola, in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 14, 1980, pp. 113-120; Id., Cusano e gli intellettuali italiani del Quattrocento, in C. Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P.C. Pissavino, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 175-192; S. Meier-Oeser, Die Präsenz des Vergessenen. Zur Rezeption der Philosophie des Nicolaus Cusanus vom 15. bis zum 18. Jahrhundert, Aschendorff, Münster 1989; G. Cuozzo, Raffigurare l’invisibile. Cusano e l’arte del tempo, Mimesis, Milano-Udine 2012. 82. Cfr. J. Hirschberger, Das Platon-Bild bei Nikolaus von Kues, cit.
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due ipostasi diverse e separate. Inoltre, rifiuta la visione propria al neoplatonismo pagano ed arabo di una creatio pensata come emanazione o processione attraverso gradi intermedi o interposte ipostasi, propria a modi di pensare da lui stesso attribuiti al neoplatonismo arabo83. Per il cardinale ogni singola cosa è frutto della immediata creazione da parte di Dio, senza bisogno dell’intervento mediatore di enti o di realtà intermedie e senza il frapporsi di nessuna zona mediana tra l’Uno e gli enti individuali creati. In questo originale ripensamento e rielaborazione della tradizione platonica e neoplatonica l’elemento speculativo decisivo è la concezione che Cusano ha dell’Uno, ossia il suo attribuirgli un carattere fortemente volontaristico, avvicinandosi così speculativamente – sebbene non ne conoscesse i testi – a Plotino piuttosto che a Platone, a Proclo o a Dionigi84. Due le critiche principali che Cusano muove alla visione platonica dell’Uno. La prima riguarda la trinitarietà del Principio: Platone avrebbe solo toccato e sfiorato la Trinità senza riuscire a intuirla pienamente85. Il grande filosofo greco è riuscito, ascendendo dal causato alla causa, risalendo dal mondo sensibile e visibile a quello intelligibile e invisibile, a scorgere
83. Cfr. De docta ign., II, IV, 116, pp. 74-75 (tr. it., p. 116). 84. Cfr. Plotino, Enn., VI, 8. Ricordiamo che Cusano non aveva una conoscenza diretta delle Enneadi di Plotino, ma indiretta attraverso il De preparatione evangelica di Eusebio di Cesarea, il quale riporta alcuni frammenti dell’edizione non di Porfirio, ma di Eustochio, un altro allievo di Plotino, che egli conosceva attraverso Numenio. L’opera di Eusebio era stata tradotta in latino da Giorgio Trapezunzio del 1448 e una copia manoscritta, con numerose annotazioni a margine di Cusano, è contenuta nel Cod. Cus. 41. Cusano, dopo averlo prestato ai monaci di Tegernsee, lo richiedeva indietro in una lettera del 16 agosto 1454, probabilmente in vista della stesura del De beryllo. Cfr. E. Vansteenberghe, Autour de la docte ignorance. Une controverse sur la Théologie Mystique au XVè Siècle, Aschendorff, Münster 1915, p. 140. 85. Cfr. De beryl., 35-37, pp. 38-42 (tr. it. cit., p. 1193-1197).
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il Padre e il Figlio, intendendo il secondo come un intelletto creatore e il primo come Dio causa di tutto e padre di tale intelletto86. La critica che Cusano muove a Platone, come a tutti gli altri filosofi pagani, è di non essere riuscito a giungere alla visione della Spirito o come lui stesso lo definisce del principio della connessione87. L’altro elemento decisivo su cui Platone – così come Aristotele – ha profondamente errato e da cui discendono tutti i suoi errori speculativi è l’attribuzione di un operare necessario all’Uno. La seconda critica che Cusano muove alla concezione del Primo di Platone è di essere partito da un fondamento falso: l’attribuzione alla causa prima un modo d’agire secondo necessità88. Al contrario il ripensamento cusaniano della tradizione platonica o neoplatonica muove da tutt’altro presupposto: l’attribuzione a Dio di un agire volontario e libero. La stessa possibilità di tenere insieme, pur distinguendole, le prime due ipotesi del
86. Cfr. De beryl., 35, p. 39 (tr. it., p. 1193). 87. De beryl., 42, pp. 48-49 (tr. it., p. 1201). In alcuni passaggi del De beryllo Cusano sembra orientato a concepire la stessa funzione alla platonica anima del mondo: cfr. De beryl., 35, p. 40 (tr. it., pp. 1193-1195). Tuttavia, egli intrattiene un rapporto per lo più di critica nei confronti dell’anima del mondo, anche se il suo atteggiamento al riguardo non è sempre lineare: cfr. De beryl., 37, pp. 42-43 (tr. it., pp. 1195-1997). Per una estesa critica alla dottrina dell’anima del mondo cfr. De docta ign., II, IX, 141-151, pp. 89-96 (tr. it., pp. 165-179). Su tale critica cfr. S. Mancini, Congetture su Dio. Singolarità, finalismo, potenza nella teologia razionale di Nicola Cusano, Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 29-68. 88. Cfr. De beryl., 38, p. 43 (tr. it. cit., p. 1197): «Istud ignorabant tam Plato quam Aristoteles. Aperte enim uterque credidit conditorem intellectum ex necessitate naturae omnia facere, et hoc omnis eorum error secutus est». Cfr. inoltre De beryl., 68, p. 78 (tr. it., p. 1233), riferendosi ancora una volta sia a Platone sia ad Aristotele: «Sed hoc evenit eis ex malo praesupposito, quoniam necessitatem primae causae imposuerunt».
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Parmenide platonico è fondata proprio dalla visione cusaniana dell’azione del Primo come volontaria e libera. L’Uno è creatore dell’essere pur essendo allo stesso tempo al di là dell’essere in quanto agisce liberamente e volontariamente, ossia è concepito tenendo insieme trascendenza e libertà. Per ogni modo d’essere è più che sufficiente il primo principio unitrino, il quale, anche se assoluto e superesaltato – perché non è principio contratto a natura, che opera secondo necessità – è tuttavia principio della stessa natura; è quindi al di là della natura, libero, tale che crea ogni cosa secondo volontà.89
Solo in quanto l’Uno è al di là della natura egli è libero da essa e quindi capace di decidere volontariamente di esserne o meno causa. Tuttavia, non per questo agisce come una natura o uno strumento necessitato da un comando superiore, bensì mediante la sua libera volontà, che costituisce la sua essenza.90
Cusano compie un passo ulteriore in quanto non concepisce semplicemente l’Uno come essere sommamente libero, ossia come se la libertà fosse da pensarsi come un predicato divino, ma pensa Dio stesso come libera volontà: la libera volontà non è un attributo di Dio, una delle sue qualità, bensì costituisce la sua stessa essenza91.
89. De beryl., 37, pp. 42-43 (tr. it. cit., p. 1197): «Se ad omnem essendi modum sufficit habunde primum principium unitrinum, licet sit absolutum et superexaltatum, cum non sit principium contractum ut natura, quae ex necessitate operatur, sed sit principium ipsius naturae et ita supernaturale, liberum, quod voluntate creat omnia». 90. De beryl., cit., 38, p. 44 (tr. it. cit., p. 1197): «[…] non tamen propterea agit quasi natura seu instrumentum necessitatum per superioris imperium, sed per liberam voluntatem quae est et essentia eius». 91. Per una trattazione più ampia e approfondita della concezione di Dio o dell’Uno di Cusano come libertà o volontà originaria, cfr. D. Monaco, Deus Trinitas, cit., pp. 270-328. Cfr. anche Id., Dio come libertà nell’ultimo Cusa-
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Nella concezione cusaniana trascendenza e libertà si coimplicano circolarmente. Senza trascendenza, senza l’ulteriorità dell’Uno, non è possibile pensarne la libertà creatrice, il suo essere fonte volontaria dell’essere, poiché egli necessariamente e immediatamente sarebbe risolto nella relazione con l’essere. L’Uno al di là dell’essere serba la libertà di Dio di entrare in relazione con l’essere e di creare o di non creare. Tuttavia, allo stesso tempo senza tale libertà, senza possibilità di farsi Uno-che-è, la trascendenza dell’Uno assoluto sarebbe segnata a restare necessariamente abisso incolmabile, distanza e separazione infinita, lasciando Dio in un silenzio impensabile e indicibile. La chiave dell’interpretazione cusaniana dell’henologia platonica e neoplatonica è nella sua visione dell’Uno come libertà o volontà.
no (1458-1464), in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 33, 2012, pp. 213-227.
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Capitolo II
Cusano e il neoplatonismo nella lettura di Werner Beierwaltes
1. Immanenza e trascendenza dell’Uno nella tradizione neoplatonica Il nome di Beierwaltes è certamente da annoverare tra i massimi interpreti del pensiero neoplatonico e della sua Wirkungsgeschichte che la seconda metà del Novecento e i primi decenni del XX secolo abbiano avuto1. In un arco temporale di quasi
1. Sulla ricezione dell’opera di Beierwaltes in Italia cfr. A. Bausola, Significato e importanza dell’«Identità e differenza» di Werner Beierwaltes, in W. Beierwaltes, Identità e differenza, tr. it. di S. Siani, Vita e Pensiero, Milano 1988, pp. 9-22. G. Reale, Il «Proclo» di W. Beierwaltes: il maggior contributo alla comprensione del Neoplatonismo venuto dalla Germania, in W. Beierwaltes, Proclo. I fondamenti della sua metafisica, tr. it. di N. Scotti, Vita e Pensiero, Milano 1988, pp. 11-38; N. Scotti, Aspetti di attualità teoretica del pensiero procliano negli studi di Werner Beierwaltes, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», LXXXII, 1, 1990, pp. 120-145; G. Reale, Significato e portata del Pensare l’Uno di Werner Beierwaltes, in W. Beierwaltes, Pensare l’Uno. Studi sulla filosofia neoplatonica e sulla storia dei suoi influssi, tr. it. di M.L. Gatti, Vita e Pensiero, Milano 1991, pp. 9-20; M.L. Gatti, Importanza storica e teoretica del pensiero neoplatonico nel Pensare l’Uno di Werner Beierwaltes, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», LXXXIV, 2-3, 1992, pp. 261-292; G. Rea le, Introduzione al Plotino di Beierwaltes, in W. Beierwaltes, Plotino. Un cammino di liberazione verso l’interiorità, lo Spirito e l’Uno, tr. it. di E. Pe-
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sessant’anni di studi, lo studioso tedesco ha dedicato a Nicolò Cusano un gran numero di saggi di rara acribia storica e finezza ermeneutica, tentando, da un lato, di ricostruire la relazione dell’opera cusaniana con la tradizione filosofica greca e medievale e, dall’altro, di approfondire l’originalità del suo pensiero2. roli, Vita e Pensiero, Milano 1993, pp. 9-21; G. Reale, L’«Autoconoscenza ed esperienza dell’unità» di Werner Beierwaltes, in W. Beierwaltes, Autoconoscenza ed esperienza dell’Unità, tr. it. di A. Trotta, Vita e Pensiero, Milano 1995, pp. 9-30; G. Reale, Introduzione, in W. Beierwaltes, Platonismo nel cristianesimo, cit., pp. VII-XXVIII; S. Mancini, Beierwaltes nella corrente dell’eriugenismo: la duplex theoria e lo statuto trascendentale della manifestazione, in «Annuario filosofico», 22, 2006, pp. 117-134; Id., Beierwaltes e la trascendentalità del pensiero, in «Giornale di Metafisica», XXIX, 1, 2007, pp. 191-210; Id., Congetture su Dio, cit., pp. 167-200; V. Cicero, Henologia e oblio dell’Essere. A proposito di una figura speculativa centrale in Heidegger, in «Dialeghestai. Rivista telematica di filosofia», 13, 2011, disponibile online: https://mondodomani.org/dialegesthai/articoli/vincenzo-cicero-01; V. Zaffino, Identifying Difference: Beierwaltes on Cusanus and Hegel, in D. Albertson (a cura di), Cusanus Today. Thinking with Nicholas of Cusa between Philosophy and Theology, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 2023, i.c.s.; Per una rilettura delle categorie rinascimentali: Werner Beierwaltes, in M. Marianelli - L. Mauro - M. Moschini - G. D’Anna (a cura di), Anima, corpo, relazioni. Storia della filosofia da una prospettiva antropologica, vol. II, Periodo moderno, Città Nuova, Roma 2023, pp. 85-88. 2. Cfr. W. Beierwaltes, Philosophische Marginalien zu Proklos-Texten, «Philosophische Rundschau», 11, 1963, pp. 49-90; Id., Deus oppositio oppositorum. Nicolaus Cusanus, De visione Dei XIII, in «Salzburger Jahrbuch für Philosophie», 8, 1964, pp. 175-185; Id., Cusanus und Proclus. Zum neuplatonischen Ursprung des non aliud, in G. Santinello (a cura di), Nicolò Cusano agli inizi del mondo moderno, cit., pp. 138-140; W. Beierwaltes, Visio absoluta. Reflexion als Grundzug des göttlichen Prinzips bei Nicolaus Cusanus, Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, phil.-hist. Klasse, Heft 1, Heidelberg 1978, poi in W. Beierwaltes, Identität und Differenz, cit., pp. 144-175 (tr. it. di S. Saini, Visio absoluta. Riflessione assoluta in Cusano, in Identità e differenza, Vita e Pensiero, Milano 1989, pp. 174-207); Id., Subjektivität, Schöpfertum, Freiheit. Die Philosophie der Renaissance zwischen Tradition und neuzeitlichem Bewusstsein, in Aa. Vv., Der Übergang zur Neuzeit und die Wirkung von Traditionen., Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1978, pp. 15-31, ora in W. Beierwaltes, Catena aurea,
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Tali obiettivi l’hanno condotto ad una riflessione sulla ricezione Klostermann, Frankfurt a.M. 2017, pp. 361-379; Id., Identität und Differenz, cit.; W. Beierwaltes, Über die Cusanus-Ausgabe, in M. Meiner, Ceterum censeo… Bemerkungen zur Aufgabe und Tätigkeit eines philosophischen Verlegers. Richard Meiner zum 8. April 1983, Meiner, Hamburg 1983, pp. 26-30; W. Beierwaltes, Einheit und Gleichheit. Eine Fragestellung im Platonismus von Chartres und ihre Rezeption durch Nicolaus Cusanus, in Id., Denken des Einen. Studien zum Neuplatonismus und dessen Wirkungsgeschichte, Klostermann, Frankfurt a.M. 1985, pp. 368-384 (tr. it. di L.M. Gatti, Unità e Uguaglianza. Una formulazione del problema nel platonismo di Chartres e la sua recezione attraverso Niccolò Cusano, in W. Beierwaltes, Pensare l’Uno, cit., pp. 315-328); Id., Das Seiende Eine, cit.; Id., Visio facialis. Sehen ins Angesicht. Zur Coincidenz des endlichen und unendlichen. Blicks bei Cusanus, Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, phil.-hist. Klasse, Heft 1, München 1988, rip. in vers. abbreviata in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 18, 1989, pp. 91-124, e in vers. integrale in W. Beierwaltes, Fussnoten zu Plato, cit., pp. 181-231; Id., Die Cusanus-Ausgabe. Nicolai de Cusa Opera Omnia iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis ad codicum fidem edita, in «Jahrbuch der Heidelberger Akademie der Wissenschaften», 1987, pp. 101-106; Id., Eriugena und Cusanus, in Id. (a cura di), Eriugena redivivus. Zur Wirkungsgeschichte Eriugenas im Mittelalter und im Übergang zur Neuzeit. Vorträge des V. Internationalen Eriugena-Colloquiums. Werner-Reimers-Stiftung Bad Homburg, 26-30, August 1985, Abhandlungen der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, phil.-hist. Klasse, Heft 1, Heidelberg 1987; rip. in vers. ampl. in Id., Eriugena. Grundzüge seines Denkens, Klostermann, Frankfurt a.M. 1994, pp. 266-312 (tr. it. di E. Peroli, Eriugena e Cusano, in W. Beierwaltes, Eriugena. I fondamenti del suo pensiero, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 295-344); Id., Der verborgene Gott, cit.; Id., “Centrum tocius vite”. Zur Bedeutung von Proklos’ “Theologia Platonis” im Denken des Cusanus, in A.Ph. Segonds - C. Steel (a cura di), Proclus et la théologie platonicienne. Actes du Colloque international de Louvain (13-16 mai 1998) en l’honneur de H. D. Saffrey et L. G. Westerink, Leuven University Press-Les Belles Lettres, Louvain-Paris 2000, pp. 629-651, rip. in W. Beierwaltes, Procliana, cit., pp. 191-214; Id., Mystische Elemente im Denken des Cusanus, in W. Haug - W. Schneider-Lastin (a cura di), Deutsche Mystik im abendländischen Zusammenhang. Neu erschlossene Texte, neue methodische Ansätze, neue theoretische Konzepte. Kolloquium Kloster Fischingen 1998, Niemeyer, Tübingen 2000, pp. 425-448, ora in W. Beierwaltes, Catena aurea, cit., pp. 255-286; Id., Das Verhältnis von Philosophie und Theologie bei Nicolaus
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cusaniana del neoplatonismo (in particolare di Proclo, Dionigi e Giovanni Scoto) e sulla sua inedita riformulazione di alcuni temi essenziali di tale corrente di pensiero, facendo sì che l’indagine storiografica sia stata sempre inseparabilmente vincolata all’interesse sistematico verso i concetti fondamentali della sua Cusanus, in «Philotheos», 1, 2001, pp. 150-176, rip. in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 28, 2003, pp. 65-102, e poi in W. Beierwaltes, Fussnoten zu Plato, cit., pp. 143-180 (tr. it., Il rapporto tra filosofia e teologia in Cusano, in G. Ferretti [a cura di], Identità cristiana e filosofia, Rosenberg & Sellier, Torino 2002, pp. 131-166); Id., Hans Gerhard Senger. Ein Leben mit Cusanus, in «Litterae Cusanae», 2, 2002, pp. 50-65; Id., Nicolaus Cusanus: Innovation durch Einsicht aus der Überlieferung – Paradigmatische Gezeigt an seinem Denken des Einen, in A. Aertsen - M. Pickave (a cura di), Herbst des Mittelalters?, de Gruyter, Berlin-New York 2004, pp. 351-370, rip. in W. Beierwaltes, Procliana, cit., pp. 165-190 (tr. it. di M. Falcioni, Qual è l’elemento cristiano del neoplatonismo di Niccolò Cusano?, in M. Di Pasquale Barbanti - C. Martello [a cura di], Neoplatonismo pagano vs neoplatonismo cristiano. Identità e intersezioni, Atti del Seminario, Catania, 25-26 settembre 2004, CUECM, Catania 2006, pp. 171-195); Id., Dank und Gedanken, in W. Beierwaltes - H.G. Senger (a cura di), Nicolai de Cusa Opera Omnia. Symposium zum Abschluß der Heidelberger Akademie-Ausgabe. Heidelberg 11. und 12. Februar 2005, Winter, Heidelberg 2006, pp. 9-19; W. Beierwaltes, Visio dei. Die mystische Theologie des Nicolaus Cusanus im Kontext benediktinischer Spiritualität, in «Studien und Mittleitungen des Benediktinerordens und seiner Zweige», 117, 2006, pp. 81-96, ora in Id., Catena aurea, cit., pp. 287-306; Id., Theophanie. Nicolaus Cusanus und Johannes Scottus Eriugena. Eine Retractatio, in «Philotheos», 6, 2006, pp. 153-175; rip. in K. Reinhardt - H. Schwaetzer (a cura di), Nikolaus von Kues in der Geschichte des Platonismus, cit., pp. 103-134, e in W. Beierwaltes, Catena aurea, cit., pp. 205-242; W. Beierwaltes, Prefazione, in D. Monaco, Deus Trinitas, cit., pp. 9-15; W. Beierwaltes, Venatio sapientiae. Das Nicht-Andere und das Licht, in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 32, 2010, pp. 83-104, ora in Id., Catena aurea, cit., pp. 307-330; Id., Idem absolutum, in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 34, 2016, pp. 21-47, ora in Id., Catena aurea, cit., pp. 331-360. Alcuni dei principali saggi di Beierwaltes su Cusano sono ora raccolti in traduzione spagnola nel volume: W. Beierwaltes, Cusanus. Reflexión metafísica y espiritualidad, tr. sp. di J.A. Ciria Cosculluela, EUNSA, Pamplona 2005.
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opera. Cuore dell’ermeneutica beierwaltesiana è stata la concezione henologica di Cusano e il suo tentativo di pensare l’Uno e di esprimerne la contemporanea immanenza e trascendenza. La paradossale immanenza e trascendenza dell’Uno è uno dei Leitmotiv di tutta la speculazione neoplatonica: i pensatori neoplatonici – con le dovute differenze – hanno elaborato con consapevole rigore una visione del Principio come unità dialettica e dinamica di trascendenza e immanenza, di “in” e “al di là”, che rappresenta l’elemento fondamentale e basilare della loro concezione henologica3. Il paradosso consiste nell’unità di due momenti: l’Uno è pánton epékeina, pura differenza da ogni ente, assenza che non si identifica con nessuna delle cose create, nulla di tutto, tuttavia, al medesimo tempo, l’Uno si mostra quale principio o causa di tutto, fondamento senza fondamento che forma e conserva la realtà mondana, peghé “presente” in tutte le cose. In primis Plotino, interpretando la seconda parte del Parmenide platonico, ha individuato nella sua idea di Uno assoluto epékeina noû kaì ousías, sciolto e anteriore ad ogni forma di molteplicità, l’origine inesauribile di tutta la realtà. L’Uno plotiniano è ad un tempo, paradossalmente, assoluta Trascen-
3. Lo studioso tedesco ha affrontato il tema in numerosi contributi, puntualmente raccolti in volumi monografici: cfr. W. Beierwaltes, Proklos. Grundzüge seiner Metaphysik, Klostermann, Frankfurt a.M. 1965, II ed. ampl. 1979 (tr. it. di N. Scotti, Proclo, cit.); Id., Platonismus und Idealismus, Klostermann, Frankfurt a.M. 1972, 20042 (tr. it. di E. Marmiroli, Platonismo e idealismo, Il Mulino, Bologna 1987); Id., Identität und Differenz, cit.; Id., Pensiero dell’Uno, Guida, Napoli 1989; Id., Il paradigma neoplatonico nell’interpretazione di Platone, Istituto Suor Orsola Benincasa, Napoli 1991, rip. in G. Reale (a cura di), Verso una nuova immagine di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1992, pp. 43-69; Id., Denken des Einen, cit.; Id., Eriugena. Grundzüge seines Denkens, cit.; Id., Platonismus im Christentum, cit.; Id., Das wahre Selbst. Studien zu Plotins Begriff des Geistes und des Einen, Klostermann, Frankfurt a.M. 2001; Id., Procliana, cit.; Id., Catena aurea, cit.
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denza e Principio supremo da cui procedono discensivamente secondo un rigido ordine gerarchico tutti i diversi gradi del reale. Plotino con decisione tiene separato l’“oggetto” della prima ipotesi, l’Uno assoluto, da quello della seconda, l’Unomolti, lo hén-pollá, il noûs – erede diretto del primo motore immobile “pensiero di pensiero” di Aristotele – che rappresenta l’identità di pensiero ed essere4. Nel Commentarium in Parmenidem Platonis, Proclo ha forse ancora più nettamente distinto l’Uno-uno al di là dell’essere e 4. Sulla concezione dello Hén e del Noûs di Plotino, cfr. W. Beierwaltes, Plotin. Über Ewigkeit und Zeit (Enneade III 7). Übersetzt, eingeleitet und kommentiert, Klostermann, Frankfurt a.M. 1967 (tr. it. di A. Trotta, Eternità e Tempo, Plotino, Enneade III 7. Saggio introduttivo, testo, con traduzione e commentario, Vita e Pensiero, Milano 1995); Id., Reflexion und Einung. Zur Mystik Plotins, in W. Beierwaltes - H.U. von Balthasar - A.M. Haas, Grundfragen der Mystik, Einsiedeln, Freiburg i.Br. 1974, pp. 7-36; W. Beierwaltes, Plotins Metaphysik des Lichtes, in C. Zintzen (a cura di), Die Philosophie des Neuplatonismus, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1977, pp. 75-117; W. Beierwaltes, Identität und Differenz, cit., pp. 24-36 (tr. it. cit., pp. 53-66); Id., Denken des Einen, cit., pp. 38-63, 116-225, 172-204 (tr. it. cit., pp. 46-74, 142-172, 203-244); Id., Einführung, in Plotin, Geist – Ideen – Freiheit, Meiner, Hamburg 1990, pp. XI-XLII; W. Beierwaltes, Selbsterkenntnis und Erfahrung der Einheit, Klostermann, Frankfurt a.M. 1991 (tr. it. di A. Trotta, Autoconoscenza ed esperienza dell’Unità, cit.); Id., Plotino. Un cammino di liberazione, cit.; Id., All-Einheit und Einung. Zu Plotins “Mystik” und deren Voraussetzungen, in D. Henrich (a cura di), All-Einheit. Wege eines Gedankens in Ost und West, Klett-Cotta, Stuttgart 1985, pp. 58-72; W. Beierwaltes, Causa sui. Plotins Begriff des Einen als Ursprung des Gedankens der Selbstursächlichkeit, in J.J. Cleary (a cura di), Traditions of Platonism. Essays in Honour of John Dillon, Ashgate, Aldershot-Brookfield-Singapore-Sydney 1999, pp. 191-226; W. Beierwaltes, Das wahre Selbst, cit.; Id., Plotins Theologik, in D.N. Basta Č.D. Koprivika (a cura di), Das Denken in den Wirren unserer Zeit, Gutenbergova Galaksija, Beograd 2005, pp. 37-55, ora in W. Beierwaltes, Fussnoten zu Plato, cit., pp. 27-50 (tr. it., La teo-logica di Plotino, in «Annuario filosofico», 25, 2009, pp. 67-89); Id., Plotins philosophische Mystik und ihre Bedeutung für das Christentum, in P. Schäfer - E. Müller-Luckner (a cura di), Wege mystischer Gotteserfahrung. Mystical Approaches to God, Oldenburg, München 2006, pp. 81-95; W. Beierwaltes, Catena aurea, cit., pp. 1-130.
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del pensiero della prima ipotesi del Parmenide dall’Uno-che-è e dunque in relazione all’essere e coordinato alla molteplicità della seconda: nella sua assoluta semplicità il Primo deve restare privo di ogni determinazione, totalmente impartecipato, assolutamente irrelato e austero e pertanto non deve nemmeno precontenere le cause della susseguente molteplicità presente nel mondo intelligibile. Se all’Uno-che-è è possibile attribuire determinazioni positive tramite l’affermazione, l’Uno-uno resta in sé inconoscibile e ineffabile, al di là di ogni parola, attingibile solo attraverso un laborioso procedimento mistico-teologico afairetico, il quale richiede in primo luogo l’impiego della negazione e in secondo luogo della negazione della stessa negazione, approdando come suo sbocco ultimo il superamento e del pensiero e del linguaggio nel silenzio5. Dionigi reinterpretando la teoria filosofica procliana alla luce dell’evangelo cristiano, e dunque sulla base della rivelazione di un Dio personale e trinitario che crea senza mediazioni tutta la realtà mondana, ha riportato gli esiti delle prime due ipotesi del dialogo platonico ad un medesima realtà, il Dio vivente del cristianesimo, fondando la possibilità e di una teologia affermativa, che dà ragione dei predicati attribuiti al divino nel5. Sulla concezione procliana dell’Uno, cfr. W. Beierwaltes, Eine Reflexion zum Geist-Begriff des Proklos, «Archiv für Geschichte der Philosophie», 43, 1961, pp. 119-127; Id., Proklos. Grundzüge seiner Metaphysik, cit.; Id., Andersheit. Zur neuplatonischen Struktur einer Problemgeschichte, in Le Néoplatonisme, Éditions du Centre National de la Recherche Scientifique, Paris 1971, pp. 365-372; Id., Identität und Differenz, cit., pp. 36-49 (tr. it. cit., pp. 67-80); Id., Denken des Einen, cit., pp. 155-280 (tr. it. cit., pp. 142-245); Id., Platonismus im Christentum, cit., pp. 44-84; Id., Il paradigma neoplatonico nell’interpretazione di Platone, cit.; Id., Proklos’ Begriff des Guten aus der Perspektive seiner Platon-Deutung, in A. Kijewska (a cura di), Being or Good? Metamorphoses of Neoplatonism, Wydawnictvo KUL, Lublin 2004, pp. 99-120; W. Beierwaltes, Prefazione, in Proclo, Teologia platonica, tr. it., con testo a fronte, a cura di M. Abbate, Bompiani, Milano 2005, pp. V-XII; W. Beierwaltes, Procliana, cit., pp. 25-128.
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le Sacre Scritture, e di una teologia negativa, che nega di Dio ogni attribuzione positiva serbandone il mistero e la trascendenza. Dionigi ha riunito in un’unica prospettiva quelli che in Proclo erano ancora due differenti punti di vista sull’Uno: da un lato egli attribuisce a Dio come liberamente esistente e creatore di tutta la realtà mondana una serie di predicati positivi di origine biblica e filosofica, i nomi divini, dall’altro glieli nega poiché, in quanto superesse, al di là dell’essere, egli è oltre ogni possibile determinazione positiva. Tuttavia, anche per Dionigi, così come per la metodologia teologica procliana, l’esito ultimo del processo conoscitivo dell’Uno non è l’apo fasi, di cui anche in questo caso va operato un superamento attraverso la negatio negationis, ma l’oltrepassamento di ogni forma di discorso teologico e facoltà conoscitiva nella perfetta non-conoscenza dell’unio mystica6. Anche per Giovanni Scoto, detto l’Eriugena, Dio è l’Uno per eccellenza, al di fuori e al di sopra di ogni molteplicità e differenza. L’Unità assoluta non viene concepita come un ente accanto agli altri, anche se supremo, ma è piuttosto “prima” e “al di sopra” dell’essere come singolo e come tutto, ed in questo senso è “Nulla” di tutto ciò rispetto a cui esso, in modo sovraessente, è il fondamento costitutivo. Tuttavia, proprio la trascendenza, la separatezza e differenza rispetto a tutto del Nulla, il suo essere al di sopra di ogni qualcosa, stabilisce la 6. Sulla concezione dionisiana di Dio in relazione alla dinamica di trascendenza e immanenza, cfr. W. Beierwaltes, Identität und Differenz, cit., pp. 49-56 (tr. it. cit., pp. 81-88); Id., Unity and Trinity in Dionysius and Eriugena, in Aa. Vv., Neoplatonica. Studies in the Neoplatonic Tradition. Proceedings of the Dublin Conference on Neoplatonism, University of Dublin Press, Dublin 1994, pp. 1-20; W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, cit., pp. 44-84, 130-171 (tr. it. cit., pp. 49-84; 153-202), la III ed. ampl. di questo testo (Klostermann, Frankfurt a.M. 2013) contiene anche un nuovo saggio dedicato a Dionigi: Sophia und Logos in der philosophischen Theologie des Dionysius Areopagita, ivi, pp. 229-248.
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sua causalità per tutte le altre realtà al di fuori di lui e sottolinea la sua presenza in tutto attraverso il suo dispiegarsi creativo in sé stesso e con ciò nel mondo, costituendolo. L’Uno è tutto come suo fondamento, ma allo stesso tempo è nulla di tutto, di ogni singolo ente, altrimenti non potrebbe essere il suo principio. Al contrario che per Plotino e per Proclo, ma in linea con Dionigi, l’Uno non è solo sovraessente ma anche l’Essere in senso eminente, attestato dall’autoaffermazione di Es. 3,14. L’Uno eriugeniano si dispiega trinitariamente in sé stesso senza che la sua unità sia sacrificata, ma anzi rendendo pensabile l’Uni-Trinità divina come autorelazione, autoriflessione e autocostituzione. Dio, in quanto autodispiegarsi atemporale, “crea sé stesso” come autorelazione che conosce, pensa e vuole sé stessa, congiungendosi con sé in quanto principio di questo movimento e fondamento di sé stesso. A differenza di Dionigi, dove l’idea dell’autodispiegamento trinitario è sviluppata in modo rudimentale, in Giovanni Scoto diventa un tratto essenziale della sua concezione della Trinità, assumendo la forma di un’autocostituzione assoluta di Dio. Inoltre, nella concezione eriugeniana, l’apertura e il dispiegarsi dell’Uno è una processione creatrice nel mondo e come mondo da concepirsi come theophania, attiva manifestazione di Dio nell’essere come colui il quale in sé non è manifesto7. La concezione neoplatonica dell’Uno come tutto in tutto e, allo stesso tempo, al di sopra di tutto è viva e operante anche in Meister Eckhart nella forma paradossale di divergenza ed unità di distinto e indistinto: Dio è un indistinto che si distin-
7. Sulla concezione di Giovanni Scoto, cfr. W. Beierwaltes, Denken des Einen, cit., pp. 337-367 (tr. it. cit., pp. 289-314); Id., Eriugena. Grundzüge seines Denkens, cit.; Id., Eriugena. Philosophie im frühen Mittelalter, in «Einsichten. Forschung an der Ludwig-Maximilians-Universität München», 1, 1995, pp. 22-26; Id., Unity and Trinity in Dionysius and Eriugena, cit.; Id., Catena aurea, cit., pp. 205-242.
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gue mediante la sua indistinzione da tutto il creato, Deus sua indistinctione distinguitur. Nella visione del maestro turingio Dio per essere vero Uno e vero Dio è l’assolutamente indistinto rispetto a sé stesso e all’altro (il distinto) e, al medesimo tempo, proprio in forza della sua indistinzione, anche da tutto distinto e diverso. L’unità assoluta non ha in sé qualcosa di determinato, non vi è in essa alcuna diversità, alterità o molteplicità; tutto è Dio come egli stesso. Mediante questa indistinzione in sé, si distingue, in quanto pura unità o identità, dal ciò che è invece distinto e altro. Dio non è come ogni altro ente, distinto dal distinto o altro dall’altro, ma è nulla di tutto o al di sopra di tutto il distinto, in-finito, negando in sé ogni negazione o distinzione propria del finito. Al medesimo tempo, grazie alla sua indistinzione da tutto Dio è in ogni ente, il fondamento universalmente fondante o ponente l’essere, la parte più interna dell’ente, ciò che è in comune a tutto e senza il quale l’ente (non) sarebbe nulla. La creatura partecipando dell’indistinzione divina è indistinta in sé, ma non in maniera assoluta perché nella sua finitezza è sempre determinata, e tanto più è indistinta tanto più si distingue dall’altro indistinto distinto8.
2. L’Uno cusaniano Secondo la lettura beierwaltesiana nella concezione cusaniana di Dio come l’Uno o l’Unità si incontrano la tradizione neoplatonica e quella cristiana. L’Uno, ovvero l’esser-uno, viene interpretato come il fondamento costitutivo e la condizione
8. Su Meister Eckhart, cfr. W. Beierwaltes, Identität und Differenz, cit., pp. 97-104 (tr. it. cit. 134-141); Id., Platonismus im Christentum, cit., pp. 100129, 130-171 (tr. it. cit., pp. 117-152); Id., Procliana, cit., pp. 125-164.
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strutturale dell’essere dell’ente, della sua determinatezza e del suo essere identico a sé stesso e della sua differenza da tutto ciò che è altro da sé9. «L’Uno è ciò che tutti coloro che fanno teologia o filosofia si sforzano di esprimere in una varietà di modi»10. L’intera storia del pensiero è interpretata da Cusano come un’unica ininterrotta caccia all’Uno. Secondo Beierwaltes però non è questo l’unico senso della lapidaria affermazione cusaniana: non soltanto la storia della filosofia e della teologia è interpretabile come un inesausto tentativo di pensare l’Unità, ma è filosoficamente necessario e prioritario pensare l’Uno11 – «Unum est necessarium»12 – perché esso costituisce la dimensione sorgiva intrascendibile di ogni nostro pensare ed essere. L’Uno sembra acquisire nella sua dimensione relazionale e fondativa dell’ambito degli enti finiti e molteplici e, in chiave aristotelica ma sarebbe meglio dire cristiana, una certa convertibilità con l’essere. Tuttavia, secondo Beierwaltes, collocando Cusano nella tradizione neoplatonica, è possibile meglio cogliere come il pensatore tedesco, insistendo sul nesso tra trascendenza e immanenza, concepisca sì il principio divino come all’interno di una relazione dialettica con il mondo, ma senza che, come origine e misura di tale relazionalità,
9. Beierwaltes nota come fondamentale per la teoria cusaniana dell’Unità e dell’Uno sia anche il principio che recita: Omnia enim in tantum sunt, in quantum unum sunt, una tesi che risale ad Aristotele e che venne poi approfondita da una tradizione prevalentemente platonica e scolastica. Cfr. W. Beierwaltes, Nicolaus Cusanus: Innovation, cit., pp. 169-170 (tr. it. cit., pp. 175-176). 10. De fil., V, 83, p. 59 (tr. it., p. 607). 11. Cfr. W. Beierwaltes, Nicolaus Cusanus: Innovation, cit., p. 170 (tr. it. cit., p. 176). 12. Lc 10,11. Cusano connette l’asserzione evangelica con la dottrina procliana: cfr. De princ., 6-8, pp. 5-7 (tr. it., pp. 1305-1307).
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esso stesso si risolva, si esaurisca o sia superato nel rapporto13, senza che venga mai meno la primazia dell’Uno sull’essere. Cusano pensa la vicinanza del Principio al principato, ma “nonostante” o “nella” differenza. La concezione neoplatonica modificatasi con il cristianesimo pensa l’“essere in” del principio nell’ente in modo paradossalmente complementare al suo sottrarsi14. Il fondamento speculativo della concezione cusaniana dell’Uno è costituito dall’interpretazione delle prime due ipotesi del Parmenide di Platone, non come attinenti due “oggetti” diversi, ma come riguardanti lo stesso principio. Sulla scia della tradizione neoplatonica cristiana, l’“Uno-sovraessente”, che è prima e al di là dell’essere, assolutamente irrelato e trascendente, e l’“Uno-che-è”, essere in senso pieno, intelletto che pensa sé stesso e che coordina la molteplicità, rigorosamente distinti da Plotino e Proclo, vengono identificati15. L’Uno non viene più concepito come l’assolutamente irrelativo, bensì alla luce della Trinità come Unità trinitariamente auto-relazionale e auto-costituentesi che malgrado il suo auto-dispiegamento riflessivo deve essere concepita come non-molteplice e nondifferente, prima di ogni molteplicità e differenza. Viene così a delinearsi e ad approfondirsi una dialettica paradossale di trascendenza e immanenza del Principio divino che è, al medesimo tempo, omnia in omnibus, “tutto in tutto” e omnium
13. Cfr. W. Beierwaltes, Identität und Differenz, cit., pp. 174-175, nota 114 (tr. it. cit., pp. 206-207, nota 114). 14. Cfr. ibidem. 15. Per un inquadramento generale dell’importanza interpretazione del Parmenide platonico nella costituzione dell’henologia neoplatonica, cfr. W. Beierwaltes, Denken des Einen, cit., pp. 9-37, 193-225 (tr. it. cit., pp. 23-45, 173-199); Id., Fussnoten zu Plato, cit., pp. 3-26; Sulla lettura cusaniana del Parmenide platonico, cfr. Id., Platonismus im Christentum, cit., pp. 130-171 (tr. it. cit., pp. 153-202); Procliana, cit., pp. 215-222.
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nihil, “nulla di tutto”16. Tale dialettica assume in Cusano, alla luce dei concetti cristiani di creazione e di incarnazione e della riflessione dionisiano-eriugeniana, una nuova configurazione: l’immanenza del principio nell’ente viene considerata in modo più fecondo grazie alla diversa valutazione della creatura: il mondo diventa essenzialmente teofania, rivelazione, immagine, specchio, partecipazione, esplicazione di Dio e senza che ciò annulli o consumi la trascendenza divina17. Si nega dell’Uno l’esistere nel modo di una qualsivoglia singolarità, l’attribuzione d’ogni forma categoriale determinata o determinante o di qualsiasi figura e temporalità, finitudine creaturale e così di ogni modalità del molteplice e di qualsivoglia reale differenziazione. L’esito di questa sequenza apofatica o, per dirla con Proclo, di quest’inno di negazioni, è il diniego delle strutture più generali dell’essere e del pensare. La dialettica negativa di ascesa al Primo conduce a situare il Principio aldilà di tutto, anche del nostro stesso concepirlo, così da far rilucere la sua differenza e trascendenza rispetto
16. Cfr. W. Beierwaltes, Deus oppositio oppositorum, cit.; Id., Identität und Differenz, cit., pp. 105-143 (tr. it. cit., pp. 145-173, 365-378); Id., Eriugena, cit., pp. 266-312 (tr. it. cit., pp. 295-344); Id., Platonismus im Christentum, cit., pp. 130-171 (tr. it. cit., pp. 153-202); Id., Procliana, cit., pp. 191-214. Cfr. inoltre M. Alvarez-Gómez, Die verborgene Gegenwart des Unendlichen bei Nikolaus von Kues, Pustet, München-Salzburg 1969, pp. 179-199; K. Kremer, Gott – in allem alles, in nichts nichts – Bedeutung und Herkunft dieser Lehre des Nikolaus von Kues, in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 17, 1986, pp. 188-219; J. Stallmach, Das Nichtandere als Begriff des Absoluten, in Id., Ineinsfall der Gegensätze und Weisheit des Nichtwissens. Grundzüge der Philosophie des Nikolaus von Kues, Aschendorff, Münster 1989, pp. 59-67; Id., Immanenz und Transzendenz im Denken des Cusanus, in L. Honnefelder - W. Schüssler (a cura di), Transzendenz, cit., pp. 183-192. 17. Cfr. W. Beierwaltes, Identität und Differenz, cit., p. 115 (tr. it. cit., p. 154).
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a tutto ciò che da lui è fondato18. L’Uno non è l’essere né un ente determinato, non è alcunché di determinato che potrebbe essere preda del concetto, divenendo un oggetto del pensare, bensì è Nulla sovraessenziale. Il ricorso a tale espressione non deve però far pensare all’inesistenza, ma ad una realtà che esiste al di là di ogni aliquid, a un Essere sommo che è sopra o prima di ogni ente determinato o qualcosa. Cusano porta Dio alla parola mediante il nome di “Nulla sopra-essente” (nihil omnium)19, nulla di tutto ciò di cui è fondamento e principio causante e creante, differenziandolo rigorosamente da ogni ente che è un qualcosa. Tuttavia, la sua alterità è, allo stesso tempo, tale che tutte le realtà determinate sono contenute in Dio in sé come Sé stesso in quanto omnia in deo deus. Dio nel suo essere in sé è al di sopra dell’ambito dell’essere determinabile in maniera categoriale; di conseguenze è l’“eccelso Nulla” di tutto, non in senso privativo, ma in-finito: super-esse, superessentialitas, nihil20. Tuttavia, per i “neoplatonici cristiani”, tra i quali Cusano spicca come una tra le voci più autorevoli, Dio non è solo al di là dell’essere, ma allo stesso tempo l’essere in senso più alto ed eminente, cosa che al contrario i neoplatonici pagani come Plotino e Proclo non avevano ammesso per la prima ipostasi, ma solo per la seconda. L’accostamento Deus-esse è possibile non tanto sulla base di una ripresa del Commentario al Parmenide di Porfirio – che pure aveva interpretato le prime due ipotesi del dialogo platonico come inerenti a due aspetti della medesima unità, attribuendo una forma d’essere anche al
18. Cfr. W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, cit., p. 138 (tr. it. cit., p. 161). 19. Cfr. Ibid., p. 139 (tr. it. cit., p. 162). 20. Cfr. W. Beierwaltes, Eriugena, cit., pp. 267-268 (tr. it. cit., pp. 296297).
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Principio Primo21– quanto sull’immagine del Dio personale e trinitario contenuta nelle Sacre Scritture e su affermazioni come Es 3, 14, «Ego sum qui sum», che attribuiscono al divino l’essere in senso pieno e più alto22. Come Beierwaltes non manca di precisare23, per Cusano, Dio è sì l’esse omnium, l’entitas, la quidditas, omnia in omnibus, ma causaliter e non essentialiter24. Dio è il fondamento individuante e singolarizzante, fondamento distinto da tutto e per questo anche distinguente, principio che pone e custodisce, ma che nella sua essenza si sottrae. Dio è sì di volta in volta questo particolare qualcosa, ma nel suo agire, in quanto causa, restando sciolto da tutto. Probabilmente il cardinale rammemora una distinzione applicata da Tommaso nel suo commentario al De divinis nominibus secondo la quale Dio non è l’esse
21. In verità i testi su cui è fondata tale ricostruzione della filosofia di Porfirio rientrano in quei frammenti dell’anonimo commentario al Parmenide che Pierre Hadot attribuisce con buone argomentazioni a Porfirio. Cfr. P. Hadot, Porphyre et Victorinus, vol. II, Études augustiniennes, Paris 1968, pp. 162 ss. L’attribuzione dell’anonimo torinese a Porfirio è stata ripresa da Beierwaltes che la spiega in collegamento alla dottrina cristiana della Trinità di Mario Vittorino, cfr. W. Beierwaltes, Identität und Differenz, cit., pp. 56 (tr. it. cit., p. 87); Id., Denken des Einen, cit., pp. 198-201 (tr. it. cit., pp. 177-179). Sull’attribuzione dei frammenti a Porfirio e sulla loro interpretazione, cfr. anche H.D. Saffrey, Recherches sur le néoplatonisme après Plotin, Vrin, Paris 1990; G. Girgenti, Il pensiero forte di Porfirio, Vita e Pensiero, Milano 1996. 22. Cfr. W. Beierwaltes, Identität und Differenz, cit., pp. 54-56 (tr. it. cit., pp. 86-88); Id., Platonismus im Christentum, cit., pp. 57 ss. (tr. it. cit., pp. 67 ss.). Per una disamina più ampia e generale cfr. Id., Platonismus und Idealismus, cit., pp. 5-66 (tr. it. cit., pp. 11-76). 23. W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, cit., p. 162 (tr. it. cit., pp. 185-186). 24. Cfr. L. Baur, Nicolaus Cusanus und Ps. Dionysius im Lichte der Zitate und Randbemerkungen des Cusanus, Winter, Heidelberg 1941, p. 99, marg. 188.
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formale delle cose esistenti, ma con il linguaggio dei platonici l’esse separatum, da intendere – con l’espressione tommasiana ripresa dal cardinale – causaliter25. Dio è l’essere di tutto, ma allo stesso tempo è nulla di tutto, assolutamente al di sopra di ogni cosa, ossia egli non si identifica immediatamente ed esaustivamente con l’essere delle creature, come se fosse l’essere formale o universale di esse, ma è l’essere delle cose di cui è causa poiché la causa non può mancare affatto al suo causato pur restando separata ed antecedente ad esso26. La distinzione tra forma formarum e forma formata permette di approfondire il senso dell’attribuzione dell’essere a Dio: inteso quale creatore di tutte le cose egli coincide con l’essere e, poiché è la forma che conferisce l’essere, egli è il formatore di tutto. Tuttavia, una cosa è la forma formarum, la forma di tutte le forme che dona l’essere, altra la forma formata, la forma della cosa che le conferisce il suo essere esistente. Dio è l’esse omnium, ma come forma formarum e mai come forma formata, ossia è sempre l’essere nel suo senso verbale, causale e dinamico, che si dona, e mai l’essere in senso sostantivato, contratto, causato, donato: tra Dio come essere e l’essere degli enti permane una profonda differenza qualitativa. Con altre parole del cardinale: Dio è «omne ens non enter»27, è tutti gli enti, ma non nel modo degli enti, nel loro essere una contrazione dell’essere nel suo participio presente. In tutto il suo Denkweg il cardinale cerca di pensare paradossalmente, ossia contemporaneamente, trascendenza e im25. Su questo passaggio cfr. K. Kremer, Gott, cit., p. 196. Sulla conoscenza del commento tommasiano da parte del cardinale e sullo studio cusaniano di Tommaso cfr. R. Haubst, Nikolaus von Kues auf Spuren des Thomas von Aquin, in «Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft», 5, 1965, pp. 15-62. 26. Cfr. Apol., 37, p. 26 (tr. it., p. 767). 27. Cfr. Apol., 25, p. 17 (tr. it., p. 753).
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manenza di Dio, componendole in un’unità dialettica in cui ciascuno dei due termini, seppur indisgiungibile dall’altro, resta distinto da esso. Innanzitutto, l’immanenza, l’“essere-in” tutto, non cancella la trascendenza di Dio, il suo essere “al di sopra” e “al di là” di tutto: «nam sicut omnia est, ita quidem et nihil omnium»28. Sin dalla sua prima opera teoretica l’explicatio creativa non toglie l’unità complicativa, l’assolutezza di Dio, il suo non identificarsi col finito, bensì come scrive nell’Apologia rispondendo alle critiche mossegli dal teologo aristotelico di Heidelberg Johannes Wenck, che lo accusava né più né meno che di “panteismo”29. Dio è sì tutte le cose, ma complicite, ossia tutte le cose sono in lui non come se fossero una distinta dall’altra, una accanto all’altra, ma in lui una è l’altra, poiché tutto in lui è lui stesso, e allo stesso tempo è explicite niente di tutto, ossia resta sciolto da tutte le cose create, non identificabile con nessuna cosa del mondo: solo spezzando la dialettica circolare di immanenza e trascendenza che a chiare lettere Cusano ha sempre rivendicato è stato possibile a Wenk accusarlo di panteismo, travisando l’autentico pensiero del cardinale30. La ripresa dell’insegna-
28. De docta ign., I, XVI, 43, p. 31 (tr. it., p. 57). 29. Apol., 46, p. 31 (tr. it., pp. 775-777): «Nam cum habeatur in Docta ignorantia quomodo “Deus non istud quidem est et aliud non est, sed est omnia et nihil omnium” – quae sunt verba sancti Dionysii –, dicit hoc contradictionem in se habere “esse omnia et nihil omnium” et non intelligit, quomodo est complicative omnia et nihil omnium explicative». 30. Cfr. W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, cit., p. 165 (tr. it. cit., p. 188). Per il testo contenente le accuse di Wenk, cfr. E. Vansteenberghe, Le “De ignota litteratura” de Jean Wenck de Herrenberg contre Nicolas de Cuse, Aschendorff, Münster 1910; Sulla disputa cfr. K. Flasch, Wissen oder Wissen des Nicht-Wissens – Johannes Wenck gegen Nikolaus von Kues, in Id., Einführung in die Philosophie des Mittelalters, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1987, pp. 181-195.
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mento di 1Cor 15,28, «Deus omnia in omnibus»31, non implica il superamento dell’assoluta trascendenza di Dio, il quale, sebbene sia tutto in tutte le cose, resta assolutamente sciolto da tutto. Nessuna immanenza concilia la distanza tra Dio e il mondo, la loro distinzione, bensì anche nel momento di maggiore vicinanza – nel rivelarsi di Dio come Principio che crea, conserva e redime la realtà mondana – tra creatore e creatura permane un’infinita differenza qualitativa. L’explicatio creativa, l’atto di creazione, non si risolve in una identificazione con il finito, non nega la trascendenza di Dio, il suo essere exaltatus32. L’Uno, benché principio di tutto, non fa parte della successione degli enti finiti, nemmeno come prótos, primo di una serie, o Ursprung, origine di un processo, altrimenti sarebbe già tutto determinato quale causa prima facente parte della onniconcatenazione degli enti e perfettamente ricompresa in essa. Ascendendo nell’ordine degli enti non si può pervenire al maximum absolutum che in quanto tale resta superesaltato al di sopra di ogni ordine e grado. Pur essendo causa di tutto, Dio resta nulla di tutto, ossia assolutamente trascendente rispetto a tutto ciò che da lui procede. Il ri-velarsi di Dio non è completa manifestazione, compiuta estrinsecazione delle profondità divine, non annulla o cancella la trascendenza, l’ulteriorità, la hyperoché di Dio, bensì accenna al suo Mistero, al suo restare, benché revelatus, nondimeno absconditus. Se l’immanenza dell’Uno, il suo essere principio di tutto, non annulla o divora il suo essere “al di sopra” di tutto, al medesimo tempo la sua trascendenza non lo separa attraverso l’abisso incolmabile dell’alterità assoluta dai suoi potenziali causati,
31. Cfr. inoltre 1Cor 12,6; Col 3,11. Sull’interpretazione cusaniana della formula paolina cfr. W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, cit., p. 165 (tr. it. cit., p. 188). 32. Cfr. ivi, p. 162 (tr. it. cit., p. 185).
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dalle sue creature, non annulla la possibilità dell’immanenza del Primo, la potenza di essere “in” tutte le cose quale loro principio fontale e generativo33. Pur trascendendo e non essendo identico ai suoi causati, il Principio non è altro da essi altrimenti sarebbe chiuso e definito nella sua assoluta solitudine, austerità e irrelatività, nella sua incolmabile differenza, ed essendo totalmente altro dalle sue creature costituirebbe con esse una pluralità che – poiché l’unità è il principio di ogni molteplicità – richiederebbe un altro principio per essere spiegata. Il Creatore non è né identico né altro dalle sue creature, ma non altro da esse: la sua trascendenza non cancella la sua immanenza. Il Neoplatonismo ha concepito il Primo principio di tutto ciò che è – il Bene o l’Uno in sé, inteso come identico a Dio – come una realtà che nella sua essenza è incomprensibile e indicibile, malgrado tutti gli sforzi che possono essere intrapresi dal concetto34. Come ha chiarito Beierwaltes, tuttavia, per i neoplatonici cristiani, il Deus absconditus non impedisce a priori il pensiero, non lo cancella, ma lo suscita, in una continua esperienza di vicinanza e lontananza di ciò che viene ricercato35. Per Cusano – il cui caso è paradigmatico a tal proposito36 – l’incomprensibilità di Dio non costituisce una forma di negazione del pensare, ma piuttosto l’impulso e l’abbrivio per uno slancio della riflessione che attraverso il concetto e oltre esso si approssima in maniera crescente all’anselmiano quo maius quam cogitari possit37. Se, da un lato, il linguaggio, 33. Cfr. ivi, pp. 150-151 (tr. it. cit., pp. 171-172). 34. Cfr. ivi, pp. 130-131 (tr. it. cit., pp. 153-154). 35. Cfr. ivi, p. 9 (tr. it. cit., p. 21). 36. Cfr. ibidem. 37. Cfr. W. Beierwaltes, Catena aurea, cit., pp. 259-260. Cfr. Anselmo d’Ao sta, Proslogion, in Id., Opera omnia, a cura di F.S. Schmitt, vol. I, Nelson, Edinburgh 1946, p. 112.
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a causa della sua intrinseca natura predicativa determinante e differenziante, non è in grado di esprimere Dio – che non è qualcosa di determinato – tuttavia, dall’altro, deve necessariamente riferirsi al fondamento o al presupposto indicibile e incomprensibile che rende possibile il dire e il pensare38. La Parola rivela, mostra, disvela, il nascosto, l’incomprensibile, l’indicibile. Ma come dire l’indicibile?
3. La caccia al nome di Dio Secondo Beierwaltes, l’unità dialettica e dinamica di immanenza e trascendenza “in” o “come” Dio è il fondamento e il filo rosso della originale elaborazione di quei nomi divini, ovvero di quelle immagini concettuali di Dio (aenigmata) – coincidentia oppositorum, idem, possest, non aliud, per citare quelli che sono stati diretta oggetto di analisi da parte dello studioso tedesco – che costituiscono uno degli elementi più originali della speculazione del cardinale39. Cusano, lungo tutto il suo cammino di pensiero ha elaborato una ricca serie di espressioni paradossali40 al fondo delle quali c’è la concezione, per lo più essenzialmente invariata41, secondo cui l’UnoDio è paradossalmente, ossia simultaneamente: epékeina tês ousías, superesse, al di là dell’essere, e tuttavia Unum-ens, liberamente in relazione all’essere come aitía toû eînai, causa dell’essere; è superexaltatum e impartecipabiliter rispetto alla
38. Cfr. W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, cit., p. 148 (tr. it. cit., p. 168). 39. Cfr. ivi, pp. 130-171 (tr. it. cit., pp. 153-202); W. Beierwaltes, Procliana, cit., p. 187 (tr. it. cit., p. 192). 40. Per una ampia raccolta di occorrenze cfr. K. Kremer, Gott, cit. 41. Cfr. W. Beierwaltes, Procliana, cit., pp. 215 ss.
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molteplicità e, nondimeno, fonte e ordinatore dei molti – i quali sono tali solo in quanto partecipano dell’Uno; è absconditus, assolutamente inconoscibile, e al medesimo tempo per sua stessa volontà revelatus quale creatore e redentore del mondo; è niente di tutto, nihil omnium, e simul tutto in tutto, omnia in omnibus. I nomi, che non sono esaustivi del Principio divino, poiché, in quanto parola, sempre frutto della ratio finita umana, sono piuttosto immagini enigmatiche che, rinviando a ciò che in senso proprio resta innominabile, vengono impiegate per approssimarsi sempre più, anche se mai in modo definitivo, alla praecisio absoluta dell’essere in sé di Dio. Gli aenigmata cusaniani non vanno intesi come meri predicati positivi, bensì costituiscono l’inizio della via che conduce al Deus incognitus sive absconditus, ispirando e mettendo in movimento la riflessione che mira ad esso. I nomi cusaniani di Dio o meglio le caratterizzazioni enigmatiche dell’origine divina riuniscono ambedue i suddetti aspetti di sopra-essere ed essere-in, di assoluta trascendenza ed assoluta immanenza, da pensare in modo paradossale, ossia contemporaneamente42. La dialettica libera e non necessaria tra il Deus absconditus e il Deus incarnatus di nascondimento e manifestazione propria al Dio ri-velato cristiano non nega o impedisce il pensiero, bensì addirittura lo esige e lo suscita mostrandone al contempo il limite. Si spiega così perché, nonostante tutte le riserve metodiche rispetto alla possibilità di dare nome al Deus absconditus, alla mai abbandonata professione di docta ignorantia, Cusano ha sempre tentato di riguadagnarlo alla parola creando nuovi percorsi, concetti, nomi o immagini concettuali, di cui nessuno può considerarsi uno approdo definitivo.
42. Cfr. W. Beierwaltes, Identität und Differenz, cit., p. 118 (tr. it. cit., p. 153).
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La coincidentia oppositorum sive contradictoriorum costituisce una determinazione della natura dell’essere divino volta a sottolinearne la sporgenza rispetto ad ogni opposizione e contraddizione, ma anche l’incommensurabilità rispetto a tutto ciò che è nella dimensione dell’alterità e del finito. Il concetto di infinitas absoluta è l’orizzonte primario di tutte le determinazioni cusaniane che cercano di esprimere l’essere di Dio come un assoluto43. L’infinitas, in quanto negazione del finito, negatio negationis, va intesa come coincidenza di ogni opposizione nel senso di eguaglianza che esclude ogni differenziazione individuale, complicatio unitaria ed uguagliante che abbraccia in sé tutto il possibile. L’infinità di Dio è rischiarata dunque primariamente da Cusano attraverso l’idea di coincidentia oppositorum, che mostra la differenza dell’origine divina dal piano del finito44: il finito, infatti, è sempre qualcosa di determinato attraverso la sua identità e quindi altro o differente dall’altro di cui manca, alterità che può progredire sino all’opposizione contraria o contraddittoria; esso è pertanto un insieme con un’intensità sempre diversa di unità e alterità, identità e differenza. L’origine divina è piuttosto pensata come coincidentia oppositorum il massimo assoluto di unità e di autoidentità; essa è in sé stessa la negazione di tutto il finito, in-finitum. Ciò che nell’ambito del finito è determinato nel suo essere attraverso l’alterità e l’opposizione, nell’infinito è superato nella sua alterità o opposizione in quanto in esso l’attualmente massimo, che è allo stesso tempo il minimo senza differenza, è tutto quello che può essere. Pensare l’Unità assoluta come coincidentia oppositorum permette di comprendere, secondo
43. Cfr. W. Beierwaltes, Catena aurea, cit., p. 261. 44. Sulla coincidentia oppositorum e sulla concezione cusaniana dell’infinito, cfr. W. Beierwaltes, Catena aurea, cit., pp. 255-286.
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un noto adagio spesso ripetuto dal cardinale, che tra il finito e l’infinito non c’è proporzione45. Beierwaltes ha saputo cogliere, tuttavia, come la dottrina della coincidentia oppositorum già nel De docta ignorantia abbia due momenti: secondo il primo, infatti, Dio complica gli opposti in unità, ma per l’altro, come nella tradizione neoplatonica, Dio supra omnem oppositionem est. Paradossalmente, di conseguenza, secondo il De docta ignorantia, Dio è oltre gli opposti e, al medesimo tempo, la loro coincidentia. Non a caso nel successivo De visione Dei (1453) Cusano non identifica il pensiero della coincidentia oppositorum con l’infinità assoluta, ma lo riconduce a un livello o a una condizione precedenti rispetto alla visione dell’infinito: la coincidentia oppositorum diventa una forma ancora concettuale del pensiero intellettuale che per toccare l’infinito deve essere superato in un vedere che non è né comprensivo né oggettuale. Cusano utilizza dunque la metafora del “muro del Paradiso” per indicare la coincidentia oppositorum oltre cui sarebbe attingibile Dio. Tale modifica è dovuta secondo Beierwaltes al rischio che il concetto di coincidentia potesse provocare una falsa comprensione dell’unità di Dio come una coesistenza di opposti o come un loro perdurare; tuttavia, tale variazione non significa che l’idea di coincidentia sia soppressa, bensì piuttosto, che pensata sino in fondo nella metafora del “muro del paradiso”, sia segno di un’esperienza del limite del concetto. Per Beierwaltes, dunque, la metafora del muro degli opposti non segna nessuna modificazione fondamentale nel pensiero di Cusano, ma una precisazione e una chiarificazione delle implicazioni di ciò che già in esso era contenuto. Per il cammino verso la visio Dei Cusano è dunque cosciente che la coincidentia op-
45. Cfr. W. Beierwaltes, Identität und Differenz, cit., p. 110 (tr. it. cit., p. 150); Id., Catena aurea, cit., p. 262.
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positorum non può valere come espressione immediata e allo stesso tempo ultima dell’infinito, come il suo modo originario di essere, ma come un livello necessario per passare all’infinitas absoluta. Malgrado ciò l’infinito non può essere visto senza un attraversamento del pensiero della coincidenza degli opposti o contraddittori perché esso è la complicatio al di là dell’opposizione e della contraddizione. La coincidentia oppositorum al di là di ogni opposizione può dunque essere pensata, per lo studioso tedesco, secondo un’altra espressione cusaniana come oppositio oppositorum sine oppositione46. Tale formulazione, che Cusano riporta a Dionigi, ma che non trova un riscontro letterale in lui – anche se potrebbe essere ricostruita dai diversi elementi del suo pensiero – trova secondo Beierwaltes nell’opera di Giovanni Scoto una sua sicura fonte47. La formula oppositio oppositorum sine oppositione ha per Beierwaltes due sensi. Secondo il primo l’opposizione degli opposti va intesa come opposizione a tutti gli opposti, ossia come alterità o differenza assoluta, senza opposizione, dall’opposizione. Questo primo senso dice l’incommensurabile alterità del principio. Sine oppositione in sé e fuori di sé vuol dire che l’essere dell’origine assoluta è assoluta semplicità e unità. Il concetto di oppositio oppositorum sine oppositione si mostra così come un’interpretazione della coincidentia poiché indica l’oltre-categoriale differenza da tutto del Principio divino 46. W. Beierwaltes, Deus oppositio oppositorum, cit., pp. 175-185. 47. Nel I libro del Periphyseon si trova l’espressione oppositorum oppositio, che nella copia posseduta da Cusano è stata evidenziata con una nota a margine: cfr. W. Beierwaltes, Deus oppositio oppositorum, cit., p. 184; Id., Eriugena, cit., p. 272 (tr. it. cit., p. 301). I marginalia cusaniani al I libro del De divisione naturae di Giovanni Scoto e alla Clavis Physicae di Onorio sono raccolti in P. Lucentini, Platonismo medievale. Contributi per la storia dell’eriugenismo, La Nuova Italia, Firenze 1980².
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attraverso l’alterità e l’opposizione ai derivati determinati in quanto unità al di là degli opposti. Il secondo senso in cui il concetto di oppositio oppositorum approfondisce il pensiero fondamentale della coincidenza degli opposti sta invece nel suo indicare allo stesso tempo l’origine dell’opposizione degli opposti. L’opposizione assoluta è dunque il fondamento che opera in tutti gli opposti facendo sì che in quanto reciprocamente opposti siano quel che sono; in tal modo è il fondamento della loro distinzione e della loro autoidentità o autoeguaglianza. Il principio è coincidenza assoluta, infinita uguaglianza e così allo stesso tempo fondamento e origine del dividersi e dell’esplicarsi degli opposti come elementi costitutivi del mondo. È tutto in tutto, ogni cosa è la sua contrazione sebbene lui resti in sé trascendente. In lui tutto è identico a lui. L’oppositio oppositorum è origine dell’opposizione degli opposti in quanto è la complicazione di essi. Dio è dunque oppositio oppositorum in quanto è il fondamento della rispettiva opposizione degli opposti, è l’opposto che opera in tutti gli opposti e che tutti gli opposti determina. Tuttavia, poiché non è possibile pensare nulla di opposto rispetto al fondamento universale degli opposti, Dio, paradossalmente rispetto al primo aspetto, è attiva opposizione rispetto ad ogni altra cosa. Dio nega quindi di sé tutto ciò che è opposto, ragione per la quale, proprio in quanto oppositio oppositorum, non è da questo affetto o determinato. Questa interpretazione risponde all’elemento centrale del pensiero neoplatonico approfondito da Cusano: Dio, nonostante o proprio per il suo essere in ogni essere, è separato da e è innalzato al di sopra di ogni essere, e pertanto è al medesimo tempo tutto e nulla di tutto. In siffatto modo l’idea di coincidentia oppositorum non sarebbe superata nel senso di un essere lasciata alle spalle, bensì, secondo il significato dell’Aufheben hegeliano o del tollere latino superata portandola a un livello di verità superiore, approfondita come oppositio oppositorum sine opposi-
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tione aprendo la strada a quei nomi divini che rappresentano le cifre del pensiero cusaniano48. Il primo “nome divino” o la prima “immagine-concetto” elaborato da Cusano è, per Beierwaltes, quello di idem o di idem
48. In alcuni contributi fondamentali sul tema, Beierwaltes ha approfondito un altro importante elemento del pensiero cusaniano, fondamentale per comprendere la sua elaborazione dei nomi divini: la concezione di Dio come visio absoluta, sviluppata dal pensatore tedesco in dialogo con i pensatori neoplatonici e in particolare Giovanni Scoto. Innanzitutto, concepire Dio come visio absoluta significa per Beierwaltes concepirlo come visione o pensiero di sé stesso che, vista la coincidenza di vedere, pensare e creare in Dio, indica un suo autocostituirsi riflessivamente o, secondo il De non aliud, il suo essere conceptus absolutus, autocostituzione di sé stesso in quanto autoriflessione assoluta. Tale unità non si costituisce, pertanto, in un modo tale che essa, come nel contesto procliano, escluda la relazionalità, piuttosto essa è e vive proprio di questa. Il vedere nell’assoluto è, proprio mediante l’esclusione della differenza, puro concepire sé stesso, esprimere sé stesso, vedere sé stesso. L’assoluto vedere tuttavia non è chiuso in sé, ma s’apre alla costituzione dell’alterità, la quale è nondimeno connessa alla propria origine. Il vedere assoluto penetra, comprende e rende vivo ogni ente come sua essenza e insieme lo trascende. Tanto poco si può infatti sottrarre il vedere assoluto ad un ente quanto questi potrebbe rinunciare alla propria identità. Il mondo attraverso il vedere assoluto che costituisce l’essere diventa allora teofania, manifestazione, esplicazione, immagine dell’assoluto, secondo il modo della contrazione. La finitudine dell’uomo diviene il luogo di manifestazione e di operazione dell’assoluto in quanto è il vedere infinito che vede e si manifesta nel vedere finito. La visio absoluta è dunque, secondo l’interpretazione beierwaltesiana dell’Uno-Dio cusaniano, allo stesso tempo trascendente, in quanto assoluta rispetto al vedere finito, e immanente, in quanto fondamento del vedere finito. Il vedere-se-stessi è un autocostituirsi di Dio e in tal modo fondamento per la creazione ad extra. In quest’unico atto trinitario il soggetto della visione, il visibile e l’atto del soggetto sono reciprocamente distinti e ciononostante devono essere pensati come una relazionalità in sé unitaria o come un’unità in sé dinamica in virtù del concetto che vede e crea sé stesso. Cfr. W. Beierwaltes, Eriugena, cit., pp. 268-381 (tr. it. cit., pp. 297-309); Id., Visio absoluta, cit.; Id., Visio facialis, cit., pp. 181-231.
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absolutum49. Beierwaltes intende l’idem absolutum come un ulteriore approfondimento del concetto di coincidenza degli opposti in quanto in esso «non è possibile trovare alcuna opposizione»50: tutto, anche il differente o l’opposto, è in esso lo stesso identico assoluto. Il nome di idem sottolinea che l’essere divino, prima di ogni differenziazione e correlazione tra identità e differenza, è un’autoeguaglianza in sé stessa pura, ad intra autopensantesi e ritornante a sé stessa riflessivamente in una tri-unitas. Allo stesso tempo, però, nel suo operare creativo ad extra, l’idem identificat, ossia pone l’altro come alcunché di identico a sé e diverso rispetto all’altro e forma così il mondo, comunicandogli la sua identità e rendendolo una unita interconnessione globale di ciò che è differente. L’idem esprime tanto all’assoluta trascendenza di Dio quanto al suo operare nell’ente: è pura unità o autoidentità e, ad un tempo, fondamento operante dell’identità di ogni ente con sé stesso. Con il possest Cusano indica l’unità del possibile e del reale, della potenza e dell’atto, da intendersi, tuttavia, non come la loro mera sussistenza insieme in Dio, ma come la perfetta coincidenza delle due dimensioni che nel piano del finito si danno come distinte e contrapposte. L’alternativa, secondo cui ciò che è possibile può anche non essere, dunque che il principio possa ancora qualcosa che ancora non è, è già superata dal concetto stesso51. Solo Dio è possest perché è tutto ciò che può essere e ciò che esso può essere, non vi è nulla, infatti, che in esso sia ancora da realizzare, che gli manchi affinché sia raggiunta la più completa realtà, mentre ogni ente derivante dal principio non è tutto ciò che esso può essere. 49. Cfr. W. Beierwaltes, Idem absolutum, cit.; Id., Identität und Differenz, cit., pp. 112-115 (tr. it. cit., pp. 158-161). 50. Cfr. De gen. I, 145 (tr. it., p. 675); W. Beierwaltes, Idem absolutum, cit., p. 26. 51. W. Beierwaltes, Identität und Differenz, cit., p. 126 (tr. it. cit., p. 161).
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Dio, dunque, prima di tutto ciò che può diventare altro e che, anche nel suo relazionarsi, si differenzia da tutto il resto, è unificazione o identità di poter essere ed essere in atto prima di ogni differenza e, dunque, anche prima della differenza tra indifferenza e differenza, assoluto “prima”52. L’identità di possibilità e realtà o essere non deve essere concepita come coincidenza di poli che si negano o sono opposti, ma come l’unione che precede assolutamente la dimensione dell’opposto e del differente e che rende possibile l’opposizione o la differenza stesse, il fondamento che rende possibile il rapporto tra possibile e reale. Se nei suoi studi all’idem e al possest ha dedicato uno spazio limitato, è sul non aliud che la riflessione dello studioso tedesco si è distesamente e approfonditamente concentrata53. Per Beierwaltes, a partire dagli anni del De Beryllo (1458) e del De principio (1459), Cusano avverte la necessità di una revisione della teoria del Principio assoluto sulla base della concezione filosofica dell’unità di Proclo ed è proprio grazie al non aliud che il concetto di Uno viene precisato concettualmente e può essere espresso in forma dialettica proprio in riferimento alla relazione tra trascendenza e immanenza del principio divi-
52. Cfr. W. Beierwaltes, Nicolaus Cusanus: Innovation, cit., pp. 186-187 (tr. it. cit., pp. 190-191). 53. Cfr. W. Beierwaltes, Deus oppositio oppositorum, cit., pp. 175-185; Id., Cusanus und Proclus, cit.; Id., Visio absoluta, cit.; Id., Identität und Differenz als Prinzip des cusanischen Denkens, in Id., Identität und Differenz, cit., pp. 105-143 (tr. it. cit., pp. 145-173 e pp. 365-378); Id., Eriugena und Cusanus, in Id., Eriugena. Grundzüge seines Denkens, cit., pp. 266-312 (tr. it. cit., pp. 295-344); Der verborgene Gott, cit.; Id., “Centrum tocius vite”, cit.; Id., Nicolaus Cusanus: Innovation, cit.; Id., Prefazione, in D. Monaco, Deus Trinitas, cit., pp. 9-15; W. Beierwaltes, Venatio sapientiae, cit. Sull’interpretazione beierwaltesiana del non aliud cfr. D. Monaco, Deus Trinitas, cit., pp. 49-53.
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no54. Il non aliud indica che Dio è differenza assoluta rispetto a tutto ciò che è altro e allo stesso tempo che non è diverso dall’altro, ma opera in esso quale sua essenza, come fondamento individuante, singolarizzante e distinguente; allo stesso tempo in quanto non aliud est non aliud quam non aliud55, esso definisce sé stesso e definendosi, poiché la definizione non va intesa in senso logico-formale, ma ontologico (non è il semplice accertamento di ciò che già è), crea sé stesso, si autocostituisce trinitariamente. Il non aliud rinvia così all’autodispiegarsi trinitario di Dio, di cui il compimento è la Trinità come non aliud triniter repetitum. La stessa autodefinizione come autocreazione ne fa poi il presupposto della definizione dell’altro, la non-alterità dell’assoluto che si manifesta nella singola realtà, in quanto ogni cosa è non altro da quello che è, è il fondamento costitutivo dell’esistenza di ogni singolo ente, della sua identità e individualità. Il non aliud, oltre a essere definizione che definisce ogni cosa, è tuttavia, allo stesso tempo, anche ciò che è definito in ogni altro, di modo che in ogni altro si può vedere in fondo teofanicamente solo il non altro che in quello si definisce. In ogni singola realtà si manifesta pertanto il non altro come non altro da essa, al medesimo tempo però la sua manifestazione rinvia alla sua trascendenza. Uno dei molti meriti degli studi beierwaltesiani è stato quello di mostrare come Cusano intese l’enigma del non aliud come una precisazione e una continuazione della teoria procliana dell’Uno. Il non aliud, infatti, come mostrano gli importanti marginalia cusaniani a Proclo, in particolare alla Teologia platonica e al Commento al Parmenide, rappresenta una radicalizzazione o una reinterpretazione dell’Uno assoluto pro-
54. Cfr. W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, cit., pp. 167-168 (tr. it. cit., pp. 198-199). 55. De non aliud, I, 4, p. 4 (tr. it., p. 1479); V, 18, p. 12 (tr. it., p. 1467).
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cliano56. Entrambi sono: origine che in sé è oltre tutti gli opposti; prima di affermazione e negazione; da nulla altro; prima dell’altro; prima di identità e alterità; nulla di tutto e allo stesso tempo causa di tutto. Se forti sono le affinità, tuttavia, non minori sono le divergenze. Mentre l’Uno assoluto procliano è in sé stesso senza relazione, al di là di tutte le opposizioni e gli enti relativi, solo in sé, il cusaniano non aliud, pur essendo oltre tutti gli opposti, è in sé essenzialmente trinitario. Inoltre, per la sua irrelatività l’Uno procliano non pensa in quanto anche se pensasse solo sé stesso sarebbe già relazione a sé, mentre il cusaniano non aliud è concetto assoluto pensante e definiente sé stesso e tutte le cose. Contro l’esclusione procliana del pensiero e per tanto anche dell’autoriflessione dall’Uno – e Cusano, annota Beierwaltes, era molto cosciente di questo presupposto – sta il non aliud trinitario come conceptus absolutus che si autodefinisce riflessivamente57. La triunitas divina si evidenzia per Cusano come autofondazione che definisce sé stessa e che in questa autodefinizione – da pensare ontologicamente – si muove fuori da sé medesima con il pensiero e con l’amore. Certamente l’auto-differenziazione che si realizza in questo movimento non deve essere intesa, come nell’Uno non pensante, come un’alterità addizionale che si separa realmen-
56. Sulle annotazioni marginali di Cusano ai testi di Proclo cfr. W. Beierwaltes, Philosophische Marginalien zu Proklos-Texten, cit., pp. 49-90; Id., Cusanus und Proclus, cit. Specificamente sul rapporto tra il pensiero procliano e quello cusaniano cfr. W. Beierwaltes, Procliana, cit., pp. 191-222. Per le annotazioni cusaniane ai testi procliani cfr. H.G. Senger, Die Exzerpte und Randnoten, cit.; K. Bormann, Die Exzerpte und Randnoten, cit. 57. Cusano era ben cosciente delle differenze: basti pensare all’annotazione alla Theologia platonica in cui egli scrive «Ostendit PLATONEM principalem causam ponere supra intellectum»: cfr. H.G. Senger, Die Exzerpte und Randnoten, cit., p. 74, marg. 152. Sulle differenze tra il sistema procliano e quello cusaniano cfr. W. Beierwaltes, Cusanus und Proclus, cit.; Id., Procliana, cit., pp. 191-215.
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te e che turba e distrugge l’unità, ma come l’auto-apertura che non permette in assoluto la scissione né l’opposto del non altro primo nel non altro secondo, non distinto da quello grazie alla mediazione del non altro terzo che fonde entrambi nella trinità assoluta. Malgrado le affinità, le differenze fondamentali tra il non aliud cusaniano e l’Uno assoluto procliano sono date dal contesto cristiano in cui pensa e opera Cusano, in particolare dalla necessità di riflettere sulla trinità, la creazione, l’incarnazione e la personalità di Dio. Proprio sulla base di tali presupposti, scrive Beierwaltes, Cusano pensando il non aliud come auto-concetto trinitario è andato decisamente al di là di Dionigi e di Proclo nell’approfondimento e articolazione della paradossale coincidenza di trascendenza e immanenza, di nascondimento e manifestazione, di Dio58. Tuttavia, c’è un altro elemento importante, che però Beierwaltes ha mancato di approfondire59: Cusano approfondisce ulteriormente la concezione neoplatonica, innovandola. Secondo la concezione del diadoco ateniese il Principio deve essere nulla di tutto affinché esso sia causa di tutto, solo essendo il nulla, inteso come sovracategoriale pienezza assoluta e non come mancanza, esso può essere principium omnium60. A differenza di Proclo, che vedeva un rapporto necessario tra il sovra-essere di Dio e il suo esser causa di tutto, per il cardinale – sulla base dell’annuncio cristiano del Dio che libera-
58. W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, cit., p. 169 (tr. it. cit., p. 200). 59. Si tratta di elemento a cui si accenna rapidamente ivi, p. 140 (tr. it. cit., p. 168). Seppur con alcune importanti cautele linguistiche alla libertà dell’uno si fa riferimento in Plotino, come lo studioso tedesco non manca di sottolineare in W. Beierwaltes, Einführung, cit.; Id., Plotins Theologik, cit., p. 38 (tr. it. cit., p. 78). 60. Sul tema cfr. W. Beierwaltes, Proklos. Grundzüge seiner Metaphysik, cit., pp. 348-357 (tr. it. cit., pp. 379-388).
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mente si rivela, crea, si incarna e redime la realtà mondana pur serbando la sua ascosità, il suo mistero – tra il nascondimento e il mostrarsi di Dio, tra il suo essere “al di sopra” e “in” tutte le cose, c’è una dialettica libera e scevra da ogni rigida necessità. L’immanenza dell’Uno non è presupposta o addirittura posta dalla sua trascendenza, la processione che dall’Uno si dipana non ha la sua necessaria precondizione nell’eccellenza del Primo altrimenti lo si determinerebbe a procedere oltre sé stesso ponendo un presupposto nella sua pienezza o sovra-essenzialità e togliendo l’incondizionatezza del suo atto creatore. La trascendenza del divino non è un fondamento necessario al suo atto creativo, bensì egli è liberamente nulla di tutto e allo stesso tempo causa di tutto, creatore del mondo: nessuna dialettica necessaria annulla la libertà dell’arché, la creazione resta un atto gratuito che non ha nessuna ragione che la precomprenda, restando affidata alla libera volontà e scelta di Dio. Tra trascendenza e immanenza c’è una circolarità libera e aperta non predeterminata da alcunché, ma sospesa all’abisso della sola libertà e volontà del Principio divino: così come Dio liberamente crea e si incarna pur essendo assolutamente trascendente, così allo stesso modo, per sua stessa volontà, dopo la rivelazione e la sua immanenza causale permane in sé absconditus, trascendente la sua stessa opera e la sua stessa manifestazione e incarnazione. La paradossalità dell’espressione omnia in omnibus licet omnium nihil indica una relazione tra immanenza e trascendenza che resta libera ed aperta, sospesa all’abissale volontà di Dio stesso. Da un lato l’esser causa, l’atto creativo, l’immanenza divina, il suo essere “in”, non annulla la trascendenza di Dio, il suo essere “al di sopra” e “al di là”, il suo non identificarsi con nulla, dall’altro la trascendenza, l’ulteriorità dello Hén, la sua hyperoché, non toglie o cancella nell’abisso di un’incolmabile distanza e separazione la possibilità della creazione, conservazione e redenzione di tutti gli enti, il permeare la realtà sin
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nelle sue più minute pieghe da parte della potenza fontale divina. Non solo trascendenza e immanenza non si escludono a vicenda, ma non si predeterminano nemmeno l’una con l’altra: tra i due termini il rapporto resta sempre libero e aperto, assolutamente mai determinato da alcuna logica necessaria. Il Dio pur essendo trascendente crea facendo vuoto in sé e si incarna assumendo su di sé il travaglio della finitezza umana usque ad mortem e allo stesso tempo resta al di là, ulteriore, rispetto a tutta la sua creazione e allo stesso Lógos; eppure, tutto ciò avviene liberamente e volontariamente con un atto gratuito, una cháris ohne warum, spiegabile solo a partire dall’assoluta e indifferente, ossia mai predeterminata, volontà e libertà assoluta che Dio “è”. Si tratta di aspetti della concezione cusaniana, legati alle riflessioni sul possest e sul posse, sviluppati in confronto critico soprattutto con la speculazione aristotelica e predominanti in particolare nella sua ultimissima speculazione, che i lavori di Beierwaltes lasciano ancora aperti e meritevoli di approfondimento61.
61. Sul tema cfr. D. Monaco, Act and Potency in Cusanus’ Later Thought, cit.; E. Peroli, Niccolò Cusano, cit., pp. 475-532; D. Monaco, In principio era il Possest, cit. Per un approfondimento teoretico di queste tematiche cfr. M. Cacciari, Dell’Inizio, Adelphi, Milano 1990; Id., Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004; V. Vitiello, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Città Nuova, Roma 2002; Id., La nascita del mondo moderno. Un passaggio necessario: Cusano, in Id., Immanuel Kant. L’architetto della Neuzeit. Dall’abisso della ragione il fondamento della morale e della religione, Inschibboleth, Roma 2021, pp. 105-139; F. Tomatis, Il Dio vivente. Libertà, male, Trinità in Schelling e Pareyson, Morcelliana, Brescia 2022, pp. 25-50.
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Capitolo III
La potenza che non è preceduta dall’atto
1. Premessa Nei suoi ultimi scritti, Cusano sviluppa una filosofia della potenza che cerca di superare il primato dell’essere della metafisica aristotelica e di ripensare le categorie tradizionali con le quali l’ontoteologia scolastica aveva parlato del Principio e della realtà1. Il testo che inaugura questa fase del pensiero cusaniano è il De possest, una tra le opere speculativamente più dense e originali del cardinale. Nel De possest uno dei principi fondamentali della tradizione filosofica occidentale, di matrice aristotelica, è messo in discussione e criticamente ripensato: il primato dell’atto sulla potenza. Come è noto, per spiegare il “movimento” e il “mutamento”, più in generale potremmo dire il “divenire”, Aristotele impiega la coppia concettuale di “potenza” e “atto”, indicando con il termine “potenza” una capacità, una disposizione, la quale è in relazione con la sua realizzazione, da intendersi come effettiva “attualità” o “atto”2.
1. Cfr. E. Peroli, Niccolò Cusano, cit., p. 475. 2. Per un primo inquadramento dell’uso aristotelico dei concetti di “potenza” e “atto” nell’ambito dell’indagine naturale, cfr. E. Berti, Profilo di Aristotele,
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Nella Metaphysica aristotelica – letta e annotata da Cusano nella versione latina del cardinale Bessarione3 – si arriva a sancire che, poiché la potenza non può realizzarsi se non c’è qualcosa in atto che ne causi il passaggio all’atto4, la priorità dell’atto sulla potenza è l’evidenza somma5. Nella ricerca di una causa prima del divenire, secondo Aristotele, è necessario presupporre l’esistenza di un Principio primo la cui sostanza sia l’atto stesso6. Se il Principio, che spiega il movimento del cielo, non fosse in atto ma solo in potenza, potrebbe non muovere – visto che ciò che è in potenza può passare ma può anche non passare all’atto – portando a conclusioni assurde per Aristotele: nella sua visione il movimento del cielo è eterno, ossia continuo e incessante, e pertanto implica una causa che non solo sia in atto, ma che abbia l’atto come propria sostanza7.
Studium, Roma 1979, pp. 169-172; L. Repici, Fisica e cosmologia, in E. Berti (a cura di), Guida ad Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 126-130. 3. Dai dati in nostro possesso, Cusano aveva letto e annotato la Metafisica di Aristotele nella traduzione latina di Bessarione, ricevuta in dono nel 1453. Cfr. J. Marx, Verzeichnis der Handschrift-Sammlung, cit., p. 182. Sui rapporti di Cusano con l’opera e il pensiero di Aristotele, cfr. E. Vimercati - V. Zaffino (a cura di), Nicholas of Cusa and the Aristotelian Tradition, cit. 4. Cfr. Aristotele, Metaph., 1071b 29-30. 5. Cfr. ivi, 1049b 5; 1049b 24-25. Per una visione panoramica più articolata della dottrina dell’atto e della potenza e della priorità del primo termine sul secondo, cfr. M. De Carolis, Dynamis e Macht. Il problema della potenza in Nietzsche e in Aristotele, in M. De Carolis - F. Fusillo - G. Russo - M. Zanardi, Sulla potenza. Da Aristotele a Nietzsche, Guida, Napoli 1989, pp. 7-52; V. Vitiello, Ethos e natura, in «Paradosso», 2, 1992, pp. 9-65; P. Donini, La Metafisica di Aristotele. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 1995, pp. 109-136; C. Ferraro, Potenza e atto in Aristotele. Le coordinate fondamentali, in «Aquinas», LIX, 2016, pp. 27-60. 6. Cfr. Aristotele, Metaph., 1071b 20. 7. Cfr. ivi, 1071b 19-20. Sul tema cfr. C. Rossitto, Metafisica, in E. Berti (a cura di), Guida ad Aristotele, cit., pp. 235-236. Sugli aspetti problematici
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Secondo Aristotele, poiché l’atto precede la potenza, prima del mondo non c’è stato un tempo in cui ci furono il Caos o la Notte, come invece volevano i poeti e i teologi precedenti, ma “sempre le stesse cose o in modo ciclico o in modo differente”8. La concezione aristotelica, tuttavia, ha una conseguenza – o sarebbe forse meglio dire un presupposto – inaccettabile per Cusano: l’eterna medesimezza, necessità del tutto. Se l’atto precede la potenza allora prima del Giorno del mondo non c’è stato un tempo infinito in cui furono Caos o Notte, ma al contrario da sempre, come scrive lo Stagirita criticando theológoi e physikoí, tautà aeí, sempre le stesse cose9. Contro l’evidenza somma, la priorità dell’atto sulla potenza, Cusano scaglierà alcune delle sue più acute e dure critiche nel De possest.
delle tesi aristoteliche così ricostruite cfr. E. Berti, Potenza e atto in Aristotele: concetti assoluti o relativi?, in «Aquinas», LIX, 2016, pp. 13-25. 8. Cfr. Aristotele, Metaph., 1071b 26-1072a 10. Per un approfondimento del tema dal punto di vista teoretico cfr. V. Vitiello, Storia della filosofia, Jaca Book, Milano 1992, pp. 14-24; Id., Elogio dello spazio. Ermeneutica e topologia, Bompiani, Milano 1994, pp. 31-39; Id., La favola di Cadmo. La storia tra scienza e mito da Blumenberg a Vico, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 61-62; Id., Redenzione o salvezza del finito?, in G. Ferretti (a cura di), Ermeneutiche della finitezza, Atti del VII Colloquio su Filosofia e Religione, Macerata, 16-18 maggio 1996, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1998, pp. 131-152; Id., Oblio e memoria del Sacro, Moretti & Vitali, Bergamo 2008, pp. 10-11 e 122-124. 9. Aristotele, Metaph., 1071b 26-1072a 10. Sul tema cfr. V. Vitiello, Il Dio possibile, cit.; Id., La nascita del mondo moderno, cit.
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2. Il De possest Il Trialogus de possest, scritto durante i primi mesi del 1460 probabilmente nel castello di Andraz sulle Dolomiti10, dove Cusano si era rifugiato per sfuggire alle persecuzioni del duca Sigismondo d’Austria, racconta di un colloquio tra Cusano e due interlocutori11. Il primo partecipante alla discussione è Bernardo di Krayburg, cancelliere dell’arcivescovo di Salisburgo, il secondo Giovanni Andrea Vigevio, meglio conosciuto come Giovanni Andrea Bussi, abate del monastero di S. Giustina di Sedazio e al tempo segretario personale di Cusano12. L’intento del De possest è quello di ottenere un nome o un concetto che indichi positivamente, per quanto nelle forze dell’uomo, quegli aspetti di Dio che è possibile cogliere a partire dal suo rapporto con il mondo13. Non si tratta pertanto di 10. Sul soggiorno nel castello di Andraz cfr. G. Piaia, Nicolò Cusano, vescovo filosofo, e il castello di Andraz, Comune di Livinallongo del Col di Lana, Belluno 2007. 11. Cfr. E. Vansteenberghe, Le cardinal Nicolas de Cues (1401-1464). L’action – la pensée, Champion, Paris 1920, p. 273; E. Meuthen, Nikolaus von Kues 1401-1464. Skizze einer Biographie, Aschendorff, Münster 1992, p. 108. 12. Cfr. E. Meuthen, Die letzen Jahren des Nikolaus von Kues, Westdeutscher Verlag, Köln 1958, pp. 100-101, 164-168. 13. Secondo alcuni interpreti, l’opera sarebbe all’origine di quella “metafisica del posse” che Cusano svilupperebbe nelle sue ultime opere. Cfr. J. Stallmach, Sein und das Können-selbst bei Nikolaus von Kues, in K. Flasch (a cura di), Parusia. Studien zur Philosophie Platons und zur Problemgeschichte des Platonismus. Festgabe für Johannes Hirschberger, Minerva, Frankfurt a.M. 1965, pp. 407-421; A. Brüntrup, Können und Sein. Der Zusammenhang der Spätschriften des Nikolaus von Kues, Pustet, München 1973, p. 63; T. Leinkauf, Nicolaus Cusanus. Eine Einführung, Aschendorff, Münster 2006, pp. 68-83; Id., Renovatio und unitas. Nicolaus Cusanus zwischen Tradition und Innovation. Die ‘Reformation’ des Möglichkeitsbegriff, in Id., Cusanus, Ficino, Patrizi. Formen platonischen Denkens in der Renaissance, Trafo, Berlin 2014, pp. 105-122; S. Mancini, Congetture su Dio,
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esprimere la verità dell’essenza divina, che in sé resta inconoscibile all’uomo14, ma di arrivare alla formulazione di alcune “congetture” riguardo alla sua natura creatrice15. Il dialogo si apre con la citazione di un passo della Lettera ai Romani (1,20)16, Secondo la lettura cusaniana, di sapore marcatamente neoplatonizzante, l’apostolo con le sue parole avrebbe insegnato agli uomini che il mondo ha una natura essenzialmente teofanica, essendo una manifestazione del proprio creatore, e avrebbe indicato una via attraverso la quale risalire dal visibile al Principio invisibile di esso, facendo esplicito riferimento alla sua eternità, potenza (virtus) e divinità. La citazione paolina permette a Cusano di introdurre la tematica del dialogo, relativa alla coppia concettuale potenza-atto,
cit., pp. 103-164; J. Maaßen, Metaphysik und Möglichkeitsbegriff bei Aristoteles und Nikolaus von Kues. Eine historisch-systematische Untersuchung, de Gruyter, Berlin-Boston 2015. 14. La docta ignorantia cusaniana prevede che, poiché la nostra conoscenza razionale avviene sempre tramite la proporzione del noto con l’ignoto, non si possa mai raggiungere una conoscenza precisa di Dio (o dell’infinito), che in sé sfugge ad ogni relazione comparativa con il finito e il determinato, costituente l’oggetto del sapere umano. Sul principio della docta ignorantia cfr. De docta ign., I, I-III, 1-10, pp. 5-10 (tr. it., pp. 7-15). 15. Cfr. De poss, 14-15, pp. 18-20 (tr. it., pp. 1367-1369). Per il concetto cusaniano di coniectura, cfr. De con., I, XI, 57, p. 58 (tr. it., p. 373): «Coniectu ra igitur est positiva assertio, in alteritate veritatem, uti est, participans». 16. Cfr. De poss., 2, pp. 3-4 (tr. it., p. 1351): «Iohannes: Incidi in studium epistulae Pauli apostoli ad Romanos et legi, quomodo deus manifestat hominibus ea, quae eis de ipso nota sunt. Ait autem hoc fieri hoc modo: “Invisibilia enim ipsius a creatura mundi per ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur, sempiterna quoque eius virtus et divinitas”. Istius modi elucidationem a te audire exposcimus. Cardinalis: Quis melius sensum Pauli quam Paulus exprimeret? Invisibilia alibi ait aeterna esse. Temporalia imagines sunt aeternorum. Ideo si ea quae facta sunt intelliguntur, invisibilia dei conspiciuntur, uti sunt sempiternitas, virtus eius et divinitas. Ita a creatura mundi fit dei manifestatio».
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e di avviare il confronto critico con la filosofia e la teologia aristotelico-scolastiche17. Dal momento che tutto ciò che esiste può essere quello che è in atto, da ciò noi vediamo l’attualità assoluta, in virtù della quale le cose che sono in atto sono ciò che esse sono. Allo stesso modo, quando vediamo con il nostro occhio sensibile delle cose bianche, intuiamo con l’intelletto la bianchezza, senza la quale ciò che è bianco non sarebbe bianco. Pertanto, dal momento che l’attualità è in atto, anch’essa certamente può essere, dato che ciò che è impossibile che sia non è. Ora, la possibilità assoluta non può essere qualcosa di altro dal potere, così come l’attualità assoluta non può essere qualcosa di altro dall’atto. Ma questa possibilità che abbiamo appena menzionato [scil. la possibilità assoluta] non può essere anteriore all’attualità, diversamente da quanto accade, invece, per una qualche potenza particolare, della quale diciamo che essa precede l’atto. In che modo, infatti, [scil. la possibilità assoluta] sarebbe giunta all’atto se non in virtù dell’attualità? In effetti, se il poter-essere-fatto passasse da sé stesso all’atto, esso sarebbe in atto prima di essere in atto. Pertanto, questa possibilità assoluta, di cui stiamo parlando e grazie alla quale le cose che sono in atto possono essere in atto, non precede l’attualità e neppure la segue. In che modo, infatti, potrebbe esservi l’attualità se non vi fosse la possibilità? La potenza assoluta, l’atto e il nesso dell’una e dell’altro sono dunque coeterni. E non vi sono più realtà eterne, ma essi sono eterni in modo da essere la stessa eternità.18
17. Sul tema cfr. C. Giacon, Il possest del Cusano e le dottrine aristotelicotomistiche dell’atto e potenza e dell’essenza ed esistenza, in G. Santinello (a cura di), Nicolò Cusano agli inizi del mondo moderno, cit., pp. 375-384. 18. De poss., 6, pp. 6-8 (tr. it., pp. 1355-1357): «Cum omne exsistens possit esse id quod est actu, hinc actualitatem conspicimus absolutam, per quam quae actu sunt id sunt quod sunt. Sicut cum alba videmus visibile oculo, albedinem intellectualiter intuemur, sine qua album non est album. Cum igitur actualitas sit actu, utique et ipsa potest esse, cum impossibile esse non sit. Nec potest ipsa absoluta possibilitas aliud esse a posse, sicut nec abso-
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Come per Aristotele, anche per Cusano, ogni creatura, potendo essere ciò che è in atto, ha bisogno di una causa in atto per divenire attuale poiché la potenza non può passare in atto se non in virtù dell’attualità. Tuttavia, al contrario che per lo Stagirita, l’atto primo, l’absoluta actualitas, non può sussistere senza che sia possibile, senza l’absoluta possibilitas, la possibilità assoluta, la quale non può precedere né seguire l’attualità assoluta. Per Cusano, né la possibilità né l’attualità hanno una priorità: se la possibilità fosse infatti anteriore, allora sarebbe necessario presupporre un’altra attualità, grazie alla quale essa verrebbe portata all’atto; al contrario, se fosse posteriore all’attualità assoluta ne risulterebbe che questa è impossibile. Da tali presupposti, Cusano deduce che la possibilità assoluta e l’attualità assoluta si implicano reciprocamente e sono eterne. Ma poiché non possono esistere più eternità, altrimenti l’una limiterebbe l’altra, atto, potenza e il loro nesso (nexus) nel Principio coincidono perfettamente19. Cusano riprende i concetti fondamentali della metafisica aristotelica, ma per rivolgerli contro lo Stagirita e la teologia aristotelico-scolastica. Secondo il cardinale, la distinzione di luta actualitas aliud ab actu. Nec potest ipsa iam dicta possibilitas prior esse actualitate quemadmodum dicimus aliquam potentiam praecedere actum. Nam quomodo prodisset in actum nisi per actualitatem? Posse enim fieri si se ipsum ad actum produceret, esset actu antequam actu esset. Possibilitas ergo absoluta, de qua loquimur, per quam ea quae actu sunt actu esse possunt, non praecedit actualitatem neque etiam sequitur. Quomodo enim actualitas esse posset possibilitate non exsistente? Coaeterna ergo sunt absoluta potentia et actus et utriusque nexus. Neque plura sunt aeterna, sed sic sunt aeterna quod ipsa aeternitas». 19. Sin dalla sua prima opera filosofica, il De docta ignorantia, Cusano cerca di esprimere la Trinità attraverso una serie di terne concettuali, come ad esempio quella di origine chartriana unitas-aequalitas-nexus (o connexio). Il nexus riflette la relazione tra le prime due persone trinitarie. Per una disamina del tema, cfr. R. Haubst, Das Bild des Einen und Dreieinen Gottes in der Welt nach Nikolaus von Kues, Paulinus, Trier 1952.
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dýnamis ed enérgheia (virtus e operatio, possibilitas e actualitas, potenza e atto) vale per le cose finite, che non sono all’origine di sé, che non sono tutto ciò che possono essere, che possono essere altro da ciò che sono, ma non vale per ciò che è all’origine di sé, che è potenza di essere ciò che è, ossia non per Dio che non soltanto è, ma è omne id quod esse potest, ha in sé la capacità di essere quello che è. La distinzione di atto e potenza, valido per le cose finite che non sono all’origine di sé stesse, non è applicabile al Principio eterno e infinito di tutte le cose che, essendo all’origine di sé stesso, differisce infinitamente dal finito20. In altri termini, ogni creatura, potendo essere ciò che è, ha bisogno di una causa in atto per passare dalla potenza all’atto – próteron enérgheia dynámeos, l’atto precede la potenza dice Aristotele21 – pertanto per non andare all’infinito si avrà bisogno di un atto primo, l’infinita actualitas per Cusano. Diversificando la propria concezione da quella di Aristotele, che intende Dio come ciò che è atto per essenza, actus sine potentia, che necessariamente è, Cusano concepisce il Principio primo come l’unico essente che non solo perfettamente è, ma che ha in sé la potenza di tutte le cose e la capacità di essere ciò che è. Dio è il principio del mondo, anteriore a quell’attualità che si distingue dalla potenza e da quella possibilità che si distingue dall’atto, perfetta coincidentia di atto e potenza22. 20. Cfr. De poss., 10, p. 12 (tr. it., p. 1361): «Sed sicut video, nec nomen nec res, nec quicquam omnium, quae create magnitudini convenient, convenienter de deo dicuntur, cum differant per infinitum». In un’annotazione marginale all’Elementatio theologica di Proclo, Cusano aveva sottolineato come la potenza perfetta coincida con l’atto perfetto, cfr. H.G. Senger, Die Exzerpte und Randnoten, cit., p. 118, marg. 49. 21. Aristotele, Metaph., 1049b 5 ss. 22. Sul tema cfr. D. Cürsgen, Die Logik der Unendlichkeit. Die Philosophie des Absoluten im Spätwerk des Nikolaus von Kues, Peter Lang, Frankfurt a.M. 2007, pp. 63-90.
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Per indicare la coincidenza perfetta di potenza e atto, Cusano conia un nuovo termine, quello di possest23: Ammettiamo che vi sia una qualche espressione che designi in modo semplicissimo quanto è indicato dall’espressione composta “potere è”, ossia che il potere stesso è. Ora, poiché ciò che è, è in atto, dire “potere essere” è come dire “potere essere in atto”. Chiamiamolo possest.24
Attraverso il nome divino di possest, Dio è pensato quale trinitaria coincidenza di posse, esse e del loro nexus25. Il possest è il nome del Deus Trinitas inteso come potenza di essere quello che è, ossia che trinitariamente pone e costituisce sé stesso26. La concezione del divino come potenza assoluta che aionicamente dispiega sé stessa permanendo nel suo essere uno e costituendosi come un’unità dinamica e relazionale trova infatti naturaliter il suo presupposto e inveramento nell’idea della Trinità. La differenza con il Dio aristotelico è pantagruelica: il Dio atto puro di Aristotele, infatti, è e soltanto è, è necessariamente,
23. Per una ricostruzione della cornice storico-filosofica del termine, cfr. T. Leinkauf, Nicolaus Cusanus und Bonaventura. Zum Hintergrund von Cusanus’ Gottesname «Possest», in Id., Cusanus, Ficino, Patrizi, cit., pp. 59-77. 24. De poss., 14, pp. 17-18 (tr. it., p. 1367): «Esto enim quod aliqua dictio significet semplicissimo significato quantum complexum “posse est”, scilicet quod ipsum posse sit. Et quia quod est actu est, ideo posse esse est tantum quantum posse est actu. Puta vocetur possest». 25. L’atto acquisisce il significato di essere già nel libro IX della Metafisica di Aristotele. Cfr. Aristotele, Metaph., 1045b 27-1052a 11, in particolare 1048a 30-1048b 9. 26. Per una ricostruzione della riflessione trinitaria cusaniana, anche alla luce del De possest, cfr. F. Reisch, Triunitas. Die Trinitätsspekulation des Nikolaus von Kues, Aschendorff, Münster 2014. Per un approfondimento delle valenze teoretiche del concetto di possest cfr. F. Tomatis, Il Dio vivente, cit., pp. 25-50.
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ed ha escluso già da sempre da sé il mondo e il non-essere; il Dio di Cusano al contrario è colui che ha in sé la potenza d’essere non solo di tutte le cose, ma in primis di sé stesso. L’annuncio di Es 3, 14 «Ego sum qui sum» per il cardinale di Kues significa “Io sono Dio onnipotente”, “Io sono l’atto di ogni potenza”27, possest, ossia assume il valore di un’affermazione della capacità autopoietica del Principio, del suo porre sé medesimo trinitariamente con un atto di libertà o volontà originaria, come un’autoenunciazione nella quale Dio si rivela come creante trinitariamente sé medesimo28. Nel possest Cusano cerca di fare segno ad una potenza così pura che non sia necessitata a passare all’atto, che non sia potenza-di-essere. Possest è l’unione del verbo intransitivo posse e dell’est, terza persona singolare del verbo esse: esso indica un potere, una potenza che intransitivamente è, che è atto senza transitare a potentia ad actum e senza risolversi definitivamente e irrevocabilmente nell’atto, nell’im-possibilizzazione del possibile29, che resta potenza senza risolversi tutta nell’atto. Il possest è l’atto del possibile, ma in quanto atto del possibile ha in sé ogni possibilità, ogni potenza di essere, anche dell’esistente, e si differenzia radicalmente dall’ente determinato in cui le due dimensioni, dell’atto e della potenza, sono opposte, ossia da quella attualità che si distingue dalla potenza e da quella possibilità che si distingue dall’atto. E affermo che ci risulta ora evidente che Dio è il Principio semplice del mondo, anteriore sia a quell’attualità che è distinta dalla potenza, sia a quella possibilità che è distinta dall’atto. Tutto ciò che esiste dopo di lui è caratterizzato dalla distinzione della potenza e dell’atto, di modo che solo
27. Cfr. De poss., 14, p. 18 (tr. it., p. 1367). 28. Sul tema cfr. F. Tomatis, Il Dio vivente, cit., pp. 25-50. 29. Cfr. Plotino, Enneadi, VI, 8, 1.
101 Dio è ciò che egli può essere, mentre non è così per nessuna delle creature, poiché la potenza e l’atto sono la stessa cosa solo nel Principio.30
Siamo dinanzi a un possibile così puro da coincidere con l’atto, con l’atto puro, ed è un atto così puro da coincidere col possibile puro. Il possibile del possest non deve essere, non è necessitato ad essere in alcun modo, ma allora è già immediatamente esistente nel suo essere puramente possibile. In quanto est non deve essere, non è necessitato ad essere in quanto già è, e in quanto posse può anche esistere, è possibilità che ha in sé anche la potenza di essere. In quanto pura potenza che non è costretta, necessitata ad essere, esso coincide col puro atto: è pura potenza, potenza che è, che è essa stessa atto, ossia posse-est. Il possest tiene insieme contraddittoriamente ciò che può essere e il puro essente, la potenza di essere e l’atto puro, ossia è in-differenza tra poter essere e puro essente, tra potenza e atto puri. Come In-differenza tra posse ed est il Principio è libero di essere e di non-essere, libero di essere già attuale nella sua potenzialità e sempre puramente possibile anche nella sua stessa attualità. Proprio nella libertà da ogni necessità ad essere Cusano pensa la coincidenza del puro possibile e del puro atto nel possest. Nessuna opposizione o separazione, pertanto, tra la potentia e la sua realizzazione, ma in Dio è già da sempre realizzata l’eterna unità della realtà attuale di ogni essere possibile e della capacità, della potenza di ogni possibilità. La fecondità della riflessione cusaniana svolta nel De possest sembra pertan-
30. De poss., 7, p. 8 (tr. it., p. 1357): «Et dico nunc nobis constare deum ante actualitatem, quae distinguitur a potentia, et ante possibilitatem, quae distinguitur ab actu, esse ipsum simplex mundi principium. Omnia autem quae post ipsum sunt cum distinctione potentiae et actus, ita ut solus deus id sit quod esse potest, nequaquam autem quaecumque creatura, cum potentia et actus non sint idem nisi in principio».
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to risiedere nel tentativo di pensare ad un possibile che non presuppone un essere a cui sarebbe subordinato, ad una potenza che non è necessariamente preceduta da un atto che la determini. Negando la priorità dell’essere e dall’atto rispetto alla potenza, Cusano cerca di andare oltre la visione del Principio primo aristotelico quale attualità pura che ha da sempre escluso da sé il possibile riconducendolo a mera sua premessa e addomesticandolo.
3. Creatio ex nihilo La questione della libertà e potenza di Dio si affaccia nell’opera cusaniana già nei suoi primi scritti teoretici, ma viene esplicitamente tematizzata a partire dagli scritti della maturità ed acquisisce all’interno del suo cammino di pensiero un ruolo sempre più decisivo, sino a divenire nelle ultime opere – intrecciandosi a quello trinitario – il tema fondamentale della sua speculazione e della sua ricerca del nome di Dio31. Senza soffermarci sui limiti della concezione cusaniana del divino
31. Sull’idea che Cusano rappresenti il momento cardine del passaggio della concezione dell’Uno come libertà di origine neoplatonica al progetto, rimasto incompiuto, di elaborare una filosofia della libertà del pensiero moderno, cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, pref. di G. Riconda - G. Vattimo, Einaudi, Torino 1995, p. 7. A Luigi Pareyson va il merito di aver con le sue ricerche e storiche e teoretiche sia reso possibile individuare tale tradizione, in particolare in ambito moderno, sia di aver partecipato ad essa con alcuni contributi speculativi sul tema della libertà divenuti ormai imprescindibili per chiunque voglia affrontare la questione. A scandagliare le implicazioni trinitarie che un’ontologia della libertà presuppone è stato Piero Coda. Sul tema cfr. P. Coda, Il logos e il nulla. Trinità religioni e mistica, Città Nuova, Roma 2003, in part. pp. 306-330. Sull’ultimo Pareyson cfr. F. Tomatis, Ontologia del male. L’ermeneutica di Pareyson, Città Nuova, Roma 1995.
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contenuta nel De docta ignorantia (1440) – ci riferiamo in particolare al ruolo predominante che in essa riveste la teologia negativa e la negazione, che sarà sottoposto a critica e oggetto di una esplicita revisione già a partire dalla seconda grande opera teorica, intitolata De coniecturis (1441/1442)32 – è chiaro che lo schema complicatio-explicatio impiegato nell’opera del 1440 testimonia il fatto che la visione dell’Uno come possest sia prefigurata, sebbene solo in nuce, già dalle sue prime formulazioni della sua filosofia. Nella prima grande fatica speculativa del cardinale, il De docta ignorantia, Dio è inteso come Unità infinita che è «in atto ogni possibile»33, ma non come accade alle cose finite che passano dalla potenza all’atto, bensì massimamente quale coincidenza perfetta di atto e potenza34. Dio non è concepito come opposto al molteplice, non è l’atto puro aristotelico che ha fuori di sé il mondo, bensì egli lo ricomprende dall’eternità in sé in unità. La visione dell’Uno come «tutto ciò che può essere»35 è ben espressa da un termine caratteristico della speculazione del cardinale, quello di complicatio: Dio è la complicatio di tutte le cose, anche dei contraddittori36, ossia egli è l’unità infinita pre-
32. Su questo tema cfr. D. Monaco, Deus Trinitas, cit., pp. 91-95 e 204-206. 33. Cfr. De docta ign., I, II, 5, p. 7 (tr. it., p. 11): «Et quoniam nihil sibi opponitur, secum simul coincidit minimum; quare et in omnibus; et quia absolutum, tunc est actu omne possibile esse, nihil a rebus contrahens, a quo omnia». 34. Cfr. De docta ign., I, XVI, 42, p. 30 (tr. it., p. 55): «Quidquid enim possibile est, hoc est actu ipsum maximum maxime; non ut ex possibili est, sed ut maxime est». 35. Cfr. De docta ign., I, IV, 11, p. 10 (tr. it., p. 17): «Et sicut non potest esse maius, eadem ratione nec minus, cum sit omne id, quod esse potest». 36. Cfr. De docta ign., I, XXII, 67, p. 44 (tr. it., p. 83): «Et quoniam ex prioribus manifestum est deum esse omnium complicationem, etiam contradictoriorum, tunc nihil potest eius effugere providentiam».
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cedente ogni opposizione e che tutte le cose stanno in lui senza composizione nell’unità della sua semplicità. Nella sua complicatio non vi sono l’essenza della luna, quella del sole e così di tutte le cose, bensì in lui l’essenza assoluta del sole non è altro da quella della luna37. Tutto in Dio è Dio stesso, tutto nell’Uno è Uno, senza alterità o differenza, al di là di ogni possibile opposizione: in lui non vi sono semplicemente sia l’uomo sia il leone oppure sia il cielo sia la terra come nella totalità dell’universo, ma in lui l’uomo è il leone e il leone è l’uomo, come il cielo è la terra e la terra è il cielo, poiché essi sono la stessa unità infinita38. In Dio le cose non sono l’una accanto all’altra, l’una distinta dall’altra, ma ogni cosa è nella sua indistinzione perfettamente ricompresa nell’unità infinita di tutti i possibili. Tutto in Dio coincide in unità, in quanto egli è da pensarsi quale «coincidentia oppositorum sive contradictoriorum»39. L’unità infinita abbraccia tutti gli opposti, anche i contraddittori, prevenendone in anticipo l’opposizione e la contraddittorietà,
37. Cfr. De docta ign., II, IV, 115, p. 74 (tr. it., p. 137): «Et quia quidditas solis absoluta non est aliud a quidditate absoluta lunae – quoniam est ipse Deus, qui est entitas et quidditas absoluta omnium». 38. Cfr. De docta ign., I, XXIV, 77, p. 49 (tr. it., p. 93): «Quis enim intelligere possit unitatem infinitam per infinitum omnem oppositionem antecedentem, ubi omnia absque compositione sunt in simplicitate unitatis complicata, ubi non est aliud vel diversum, ubi homo non differt a leone et caelum non differt a terra, et tamen verissime ibi sunt ipsum, non secundum finitatem suam, sed complicite ipsamet unitas maxima?». 39. Questo è il fine del primo libro secondo la lettera conclusiva dell’opera: cfr. De docta ign., epistola auctoris, 264, p. 164 (tr. it., p. 307). La nozione di coincidentia oppositorum sive contradictoriorum non esaurisce il suo significato solo in ambito teologico, ma possiede delle connotazioni anche di carattere gnoseologico, ontologico e metodologico. Sulle diverse interpretazioni della nozione di coincidenza degli opposti o contraddittori cfr. K. Flasch, Nikolaus von Kues. Geschichte einer Entwicklung. Vorlesungen zur Einführung in seine Philosophie, Klostermann, Frankfurt a.M. 1998, pp. 46-70.
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perché abbraccia qualunque cosa40; in essa non c’è semplicemente tutto, anche le cose opposte e contraddittorie, ma tutto coincide perfettamente nella perfetta indistinzione e indeterminazione dell’unità infinita. Accanto al concetto di complicatio, per indicare il rapporto tra il molteplice e l’Uno, tra Dio e le cose create, Cusano utilizza quello di explicatio. Come complicare significa contenere in sé, nell’unità del proprio potere, tutte le cose, così explicare significa dispiegare nella molteplicità quanto era originariamente contenuto nell’unità, ossia che l’Uno è in tutte le cose41. Come l’unità matematica complica tutti i numeri e tutti i numeri esplicano l’unità in quanto in essi non si trova altro che unità, così – benché questa come qualsivoglia altra similitudine non possa che essere imprecisa – Dio complica tutte le cose perché tutte le cose sono una sola cosa in lui e le esplica perché egli è in tutte le cose quell’essere che esse sono42. La creazione è un creare ex se, un’explicatio da parte del Principio di qualcosa che era originariamente complicato nella sua unità43. Tra complicatio ed explicatio non esiste una perfetta simmetria e reversibilità:
40. Cfr. De docta ign., I, XXII, 67, p. 45 (tr. it., p. 83): «Et ita patet quomodo per praemissa, quae nos docent maximum omnem anteire oppositionem, quoniam omnia qualitercumque complectitur et complicat, quid de providentia dei et aliis consimilibus verum sit, apprehendimus». 41. Cfr. De docta ign., II, III, 107, p. 70 (tr. it., p. 127): «Deus ergo est omnia complicans in hoc, quod omnia in eo; est omnia explicans in hoc, quod ipse in omnibus». 42. Cfr. De docta ign., II, III, 105, p. 69 (tr. it., p. 125): «Unitas igitur infinita est omnium complicatio; hoc quidem dicit unitas, quae unit omnia. Non tantum ut unitas numeri complicatio est, est maxima, sed quia omnium; et sicut in numero explicante unitatem non reperitur nisi unitas, ita in omnibus, quae sunt, non nisi maximum reperitur». 43. Cfr. De poss., 73, p. 86 (tr. it., p. 1441).
106 Con la posizione della complicazione non è posta la cosa complicata, mentre con la posizione dell’esplicazione è posta anche la complicazione.44
Attraverso l’asimmetria tra complicatio ed explicatio, in quanto l’Uno non si risolve nella sua esplicazione, Cusano cerca di dare voce a un aspetto fondamentale della sua concezione henologica: l’inesauribilità dell’Uno, la sua trascendenza. L’affermazione di un’asimmetria tra complicatio ed esplicatio, e dunque di una trascendenza e inesauribilità del Principio rispetto al mondo, permette di pensare la libertà di Dio, il suo non risolversi nella creazione e nel suo stesso processo esplicativo. Benché Dio sia tutto ciò che può essere, contenga in sé tutto il possibile, ciò non vuol dire che, posta una possibilità in Dio, essa debba necessariamente esplicarsi, attualizzarsi, nel mondo. Al contrario, se si pensasse che tutto ciò che è complicato debba trovare esplicazione nel mondo, la libertà divina sarebbe seriamente inficiata in quanto Dio non sarebbe libero di scegliere né cosa creare, ossia quali possibili esplicare, né se creare, cioè se dare inizio all’esplicazione. La trascendenza della complicatio rispetto explicatio dà ragione del fatto che Dio complica e prevede in sé non solo tutte le cose che sono e avvengono, ma anche tutte quelle che non sono e non avvengono eppure potrebbero essere e accadere. Dio complica in sé tutti i possibili, anche quelli tra loro contraddittori. Nella complicatio in cui tutto è l’Uno e in cui l’essere non è diverso dal non essere, le cose che avvengono o sono non possiedono nessuno statuto ontologico o valore aggiunto rispetto a quelle che, pur potendo essere, non sono o non sa-
44. De docta ign., I, XXII, 69, p. 45 (tr. it., pp. 85-87): «Nam posita complicatione non ponitur res complicata, sed posita explicatione ponitur com plicatio».
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ranno45. All’interno della complicatio nulla predetermina che le cose che sono siano e quelle che non sono non siano, ma il possibile resta nella sua purezza perfettamente coincidente con l’attualità perfetta. Il possest è l’atto del possibile, ma in quanto atto del possibile ha in sé ogni possibilità, ogni potenza di essere, sia dell’esistente sia di ciò che è destinato a restare semplice possibilità. Il possest rivela la trascendenza del Principio sulla creazione, indicando che nulla lo necessita all’atto creatore: la sua libertà e assolutezza rispetto al mondo e alla creazione è tale che in esso i possibili che vengono portati all’atto non hanno alcuno statuto di realtà diverso da quelli che sono e che resteranno puramente possibili. Sia le cose che sono sia le cose che non sono restano egualmente possibili nella sua infinita potenza. Si tratta ancora una volta di una critica della dottrina di Aristotele in favore dell’idea di creatio ex nihilo, per cui nulla può essere presupposto alla creazione divina. Secondo Cusano, Aristotele – così come Platone – ha sbagliato nell’attribuire un agire necessario a Dio46. L’agire volontario e libero divino che trova voce nell’infinita potenza già da sempre in atto nel Principio non presuppone nulla, nemmeno una materia increata originaria. Cusano chiude risolutamente in merito alla necessità di presupporre esternamente al possest una materia sensibile increata ed eterna che renda possibile l’esplicarsi del Principio nelle diverse forme creaturali. Il possest non ha bisogno di una materia passiva
45. Cfr. De docta ign., I, IV, 12, p. 11 (tr. it., p. 19): «Et omne id quod concipitur esse non magis est quam non est; et omne id quod concipitur non esse, non magis non est quam est. Se ita est hoc, quod est omnia, et ita omnia quod est nullum». 46. Cfr. De beryl., 38, p. 43 (tr. it., p. 1197). La critica è ripetuta in De beryl., 68, p. 78 (tr. it., p. 1233).
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per attuarsi, poiché esso ricomprende in sé la polarità della passività e dell’attività in piena coincidenza: in esso il poter fare e il poter esser fatto costituiscono un tutt’uno. La distinzione tra attività e passività, tra poter fare e poter esser fatto o materia è applicabile all’operare umano, finito e creaturale, ma non al Principio infinito ed eterno. Cusano fuga ogni dubbio anche su un altro equivoco in cui potrebbe incorrere il lettore del De possest: asserire l’eterna coincidenza nel Principio prima del potere e dell’atto non significa in alcun modo affermare l’eternità della materia. Nella prospettiva aristotelica, infatti, l’essere in potenza dipende dalla materia, così come l’atto dipende dalla forma: all’interno di tale schema concettuale il poter esser fatto potrebbe corrispondere alla materia prima. Ma Cusano precisa che nel posse facere di Dio è originariamente complicato anche il posse fieri del mondo, così come nella mente dello scrittore è complicata la possibilità di essere scritto del libro di cui è autore47. 47. De poss., 28-29, p. 35 (tr. it., p. 1385): «Bernardus: Quia mundus potuit creari, semper ergo fuit ipsius essendi possibilitas. Sed essendi possibilitas in sensibilibus materia dicitur. Fuit igitur semper materia. Et quia numquam creata, igitur increata. Quare principium aeternum. Iohannes: Non videtur procedere hoc tuum argumentum. Nam increata possibilitas est ipsum possest. Unde quod mundus ab aeterno potuit creari, est quia possest est aeternitas. Non est igitur verum aliud requiri ad hoc quod possibilitas essendi mundum sit aeterna nisi quia possest est possest, quae est unica ratio omnium modorum essendi. Cardinalis: Abbas bene dicit. Nam si posse fieri non habet initium, hoc ideo est, quia possest est sine initio. Praesupponit enim posse fieri absolutum posse, quod cum actu convertitur, sine quo impossibile est quicquam fieri posse. Quod si absolutum posse indigeret alio, scilicet materia sine qua nihil posset, non esset ipsum possest. Quod enim hominis posse facere requirat materiam quae possit fieri, quia non est ipsum possest, in quo facere et fieri sunt ipsum posse. Hoc enim posse quod de facere verificatur est idem posse quod de fieri verificatur. Bernardus: Difficile est mihi hoc capere. Cardinalis: Quando attendis in deo non-esse esse ipsum possest, capies. Nam si in posse facere non-esse coincidit, utique et posse fieri coincidit. Ac si tu fores auctor libri quem scribis, in posse tuo activo,
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Cusano si spinge così chiaramente oltre lo schema aristotelico materia-forma e della dualità potenza-atto, cercando di offrire una lettura della dottrina della creatio ex nihilo attraverso la sua teoria del Principio primo come possest. Il possest non si esaurisce così in fondamento o ragione della creazione: nessuna necessità o alcun passaggio dialettico collegano l’esistente determinato del creato al possest facendo di quest’ultimo il suo fondamento. Tra la creatura e il possest, e il Principio, vi è una differenza infinita48: solo il possest è il puro atto del possibile che nulla presuppone; la creatura invece presuppone il possest da cui però non può dedurre nulla riguardo alla sua effettiva esistenza. La sua esistenza non dice nulla più che la sua provenienza, il venire dal puramente possibile, senza che alcun passaggio, alcun transito leghi necessariamente la creatura al puramente possibile in atto. L’esistenza creaturale fa segno alla potenza del possest senza in alcun modo esaurirla, sussumerla o comprenderla. Il possest cusaniano esclude alcun collegamento necessario dell’esistente effettivo al Principio: in esso tutte le cose esistenti sono altrettanto reali che le meramente solo possibili, ogni possibile è nella sua in-differenza perfettamente equivalente49. Il possest non si risolve nell’essere mero fondamento dell’esistente reale, della creazione, ma rivela la trascendenza del Principio rispetto al suo decidersi alla creazione: nulla necessita Dio non solo all’atto creatore ma anche ad una determinata creazione in quanto infiniti mondi possibili, anche se sola mente, sono e restano intuibili. Anche dopo la creazione, anche dopo il suo rivelarsi quale provenienza dell’esserci cre-
scilicet in ipso scribere librum, complicaretur ipsum posse passivum, scilicet ipsum scribi ipsius libri, quia non-esse libri in tuo posse esse haberet». 48. Cfr. De poss., 10, p. 12 (tr. it., p. 1361). 49. Cfr. M. Cacciari, Sul presupposto, in «aut aut», 211-212, 1986, pp. 43-65.
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ato, il possest mostra la sua trascendenza, la sua ulteriorità, la sua libertà dalla e nella creazione. Il nome divino di possest permette a Cusano anche un ripensamento della questione del nulla, a cui la dottrina della crea zione fa riferimento. Infatti, anche il non essere da cui tutte le cose sono chiamate all’essere – che non è né creatura, né un principio positivo altro da Dio – è ricondotto al potere di Dio in quanto in lui il non essere è lo stesso possest. Secondo la visione cusaniana, il non-essere e l’essere nel possest non sarebbero opposti, non si escluderebbero vicendevolmente, in quanto in esso i due termini non si contraddirebbero50. La non contraddittorietà dell’essere e del non essere nel possest indicherebbe per Cusano che Dio, quando crea ex nihilo, crea tutto da sé stesso51. L’affermazione che Dio crei dal nulla indica pertanto che Dio crea tutto ex se, ex se ipso, ossia da null’altro che dalla sua potenza originaria: il nihil dell’ex nihilo non è altro che il nulla della potenza divina che ni-ente o non altro presuppone. Il possest nulla esclude da sé, ossia non solo la totalità dei compossibili, compresi quelli esplicati nel mondo, ma lo stesso non-essere da cui vengono tutte le creature è complicato nella sua potenza infinita. Il non-essere da cui tutte le cose sono chiamate all’essere, infatti, non è né creatura52, né un principio positivo altro da Dio, perché in Dio il non essere è lo stesso
50. Cfr. De poss., 26, p. 32 (tr. it., p. 1383): «Illi enim principio non convenit nec nomen unitatis seu singularitatis nec pluralitatis aut multitudinis nec aliud quodcumque nomen per nos nominabile seu intelligibile, cum esse et non-esse ibi sibi non contradicant nec alia quaecumque opposita aut discretionem affirmantia vel negantia». 51. De poss., 73, p. 86 (tr. it., p. 1441): «Ideo de nullo alio creat, sed ex se, cum sit omne quod esse potest». 52. De poss., 5, p. 6 (tr. it., p. 1355): «non esse non est creatura».
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possest53. Dio, infatti, non crea da null’altro che da sé stesso essendo come possest tutto ciò che è possibile. Il non-essere e l’essere in lui non sono opposti, non si escludono, in quanto nel possest essi non si contraddicono54. Che in Dio il non-essere non si opponga all’essere, ma che anzi sia lo stesso possest significa che, poiché Dio crea tutto da sé stesso, nel poter fare del Principio è complicato anche il poter essere fatto della creatura il cui non-essere ha il suo essere nel potere del Principio, nel possest. Nel possest il non-essere significa essere tutte le cose55, tutte le cose come possibili senza che alcuno degli infiniti possibili abbia maggior valore d’essere degli altri. Il possest è il ni-ente degli enti determinati, è l’in-visibile del visibile, in quanto complicazione di tutto il possibile in atto in cui gli enti effettivamente esistenti non hanno alcun più di realtà, ma in cui essi permangono come puramente possibili. Esso è segno dell’ex nihilo della creazione, della libertà originaria divina da cui tutte le cose sono portate all’essere e dunque è un carattere del creare divino perfettamente incondizionato e interamente ricompreso nel possest medesimo. Il non-esse ci dice la provenienza dell’ex-sistente dal Principio in cui tutti i possibili sono nella loro in-differenza.
4. Deus absconditus Il possest ha sì in sé il non-essere, ma un non-essere che è ancora solo il non da cui le creature provengono e che in quanto
53. De poss., 30, p. 35 (tr. it., p. 1385): «in deo non-esse esse ipsum possest». 54. De poss., 26, p. 32 (tr. it., p. 1383). 55. De poss., 25, p. 31 (tr. it., p. 1383).
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nega l’essere lo presuppone. Esso comporta l’essere eterno e nega quell’essere che ha avuto inizio solo dopo il non-essere56. Il non-essere nel De possest è inteso come la proposizione che nega l’essere, ma l’essere già determinato e non l’Essere eterno che al contrario presuppone. Pertanto, il non appartiene solo alle infinite cose possibili alla potenza del possest e non al possibile stesso del Principio, benché Cusano non inserisca alcun passaggio dialettico, alcuna necessità che conduca dal possest all’esserci determinato creato facendo di esso il Grund dell’esistente57. Cusano avrebbe così pensato la libertà divina in rela-
56. De poss., 66, pp. 78-79 (tr. it., p. 1431): «Cardinalis: Nonne negativa illa praesupponit et negat? Iohannes: Utique praesupponit esse et negat esse. Cardinalis: Id igitur esse quod praesupponit ante negationem est. Iohannes: Utique sic est necesse secundum nostrum intelligenti modum. Cardinalis: Esse igitur quod negatio praesupponit utique Aeternum est. Est enim ante non-esse, et esse id quod negat post non-esse est initiatum». Per un’attenta e puntuale analisi critica delle aporie in cui incorre il pensiero cusaniano del De possest riducendo il non esse al ni-ente cfr. M. Cacciari, Dell’Inizio, cit., pp. 142 ss.; V. Vitiello, La nascita del mondo moderno, cit. 57. Contro l’idea che il possest non possa valere come Grund dell’esistente si sono sollevate le stringenti critiche del filosofo napoletano Vincenzo Vitiello (cfr. V. Vitiello, La nascita del mondo moderno, cit., pp. 105-139) che in un serrato confronto speculativo col De possest ha sostenuto che in Cusano il possest si traduce immediatamente in necessità non solo di Dio, ma di tutte le cose, in quanto il cardinale si sarebbe interrogato solo sulla possibilità dell’essere e non del possibile stesso, finendo per fare del possest un essere eterno che non sarebbe scalfito dal non-essere, ma che anzi antecedendolo lo avrebbe già da sempre asservito a sé. In Dio il non-essere sarebbe tutto ciò che può essere, da qui la necessità eterna non solo di Dio, ma di tutte le cose stesse che sarebbero già da sempre nell’essere necessario di Dio, la cui possibilità consisterebbe nell’avere la potenza di esplicare, di estrinsecare ciò che in lui sarebbe già in atto. A nostro avviso, se è vero che Cusano nel De possest non ha piegato la negazione del possibile sul possibile stesso, allo stesso modo egli non ha ridotto il possest a Grund dell’esistente, in quanto ha pensato sì la necessità del possibile in Dio, ma come necessità della complicatio e non dell’explicatio. Altrimenti detto, se è vero che tutte le cose sono da sempre in Dio, ciò nulla toglie né aggiunge alla possibilità della loro ex-
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zione alla creazione, ma non avrebbe saputo tenersi all’altezza delle sue premesse teoretiche, ossia pensare Dio stesso come libertà, ossia libero in relazione a sé medesimo. Il possest contiene in sé ogni possibilità, persino l’impossibilità, in lui sono visibili a priori tutte le relazioni possibili sino alla creazione trinitaria dell’essere e dell’universo, includendo esso tutto e nulla escludendo, anche il non-essere58. Ma lui stesso può non essere? È libero di essere libero? L’onnicompossibilità del possest è tanto perfetta da essere irrevocabile, nel De possest Dio è ancora necessariamente libero, è ancora necessitato ad essere possest. Tuttavia, se Dio è autocreazione libera di sé, che ne è della sua libertà rispetto a sé medesimo? Se il possest pur non essendo sarebbe, in quanto il non-essere è in lui stesso, che ne è della sua libertà rispetto alla sua stessa libertà? Se Dio si risolve immediatamente nel suo essere
plicatio nel mondo, al loro venire all’essere di cui solo Dio sarebbe il libero e volontario artefice. Posta una cosa esplicata si dà necessariamente la sua complicazione in Dio, ma posta la complicazione della cosa in Dio non si dà necessariamente la sua esplicazione nel mondo. L’espressione del De poss., 16, p. 21 (tr. it., p. 1369) andrebbe letta proprio in tale senso: «Omnia igitur quae facta sunt in ipso ab aeterno necesse est fuisse. Quod enim factum est, in posse esse semper fuit, sine quo factum est nihil». Allo stesso modo il passo – indicato anche da Vitiello per sostenere la sua critica al cardinale – va letto come la necessità di tutto il possibile in Dio e non solamente di tutto l’esistente, lasciando spazio alla libertà divina di decidersi al passaggio all’essere: «Aeternum igitur esse est necessitas essendi omnibus» (De poss., 68, p. 80; tr. it., p. 1433). I possibili sono già da sempre in atto nel possest, ma i possibili realmente esistentificati non hanno alcun maggior valore di realtà in esso. Sul tema cfr. M. Cacciari, Sul presupposto, cit. 58. De poss., 27, p. 33 (tr. it., p. 1385): «[Cardinalis:] Solum principium quia est ipsum possest, non potest esse quod non est. Bernardus: Clarum est hoc. Si enim principium posset non esse, non esset, cum sit quod esse potest. Iohannes: Est igitur absoluta necessitas, cum non possit non esse. Cardinalis: Recte dicis. Nam quomodo posset non esse, quando non-esse in ipso sit ipsum».
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trinitario è veramente libero di autocostituirsi trinitariamente quale uno e trino? La nostra disamina critica del De possest sembra concludersi individuando nell’onni-compossibilità divina che pone sé stessa trinitariamente quale coincidenza di posse, esse e utrius nexus e che ha da sempre e per sempre asservito a sé e in sé il non-essere un’inscalfibile irrevocabilità di Dio. Il nonessere nel possest è negazione determinata, ossia negazione non del possibile stesso, non del possibile in quanto tale, ma delle possibilità in atto in lui: il Principio divino “è” in sé, nel suo essere eterno, al di là dell’essere che viene dopo il non-essere, che è tratto dal non-essere, e del non-essere da cui è scaturito l’essere e di cui è la negazione. Il non-essere che presuppone l’essere eterno e nega l’essere determinato è mero ni-ente, negazione del possibile determinato, ma non dell’essere dello stesso Principio inteso come possest che è eterno. Il possest in sé non può pertanto non essere poiché il non-esse in lui è lo stesso possest: la sua onni-compossibilità non è mai revocata in dubbio, scalfita, egli è potenza non destinata all’atto di tutti i possibili già da sempre in lui in atto, ma lo è necessariamente. Esso è libero “solo” di essere libera onni-compossibilità di tutti i possibili intransitivamente in lui in atto, libero di essere quella possibilità così pura da coincidere con l’atto e di non essere dunque necessitata all’atto, ma di restare pur nella purissima attualità sempre possibile. Con altri termini Dio come possest è libero solo di essere libero creatore o non creatore di tutto l’esistente determinato e di ogni infinito mondo possibile, ma la sua onnicompossibilità è nella sua inscalfibile perfezione e pienezza assolutamente necessaria, non libera. Per poter pensare ad una libertà dalla sua libertà sarebbe necessario pensare ad un prius della sua stessa divina perfetta onni-compossibilità nel quale sia realmente possibile in uno con le sue altre infinite possibilità il suo non essere possibile. Bisognerebbe pensare ad un possi-
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bile che sia tale non solo in relazione all’atto, ma che sia possibile nel suo stesso essere possibile59. Il possest è libero dalla potenza di essere, dalla sua estrinsecazione in atto in quanto già da sempre in atto come possibile, ma tale possibilità non prevede alcuna possibilizzazione del suo stesso essere possibile, ossia non è possibile e impossibile possibilità del possest medesimo. La stessa esistenza del possest, il suo essere eterno, la sua perfetta ommicompossibilità, non prevede mai la negazione di sé, la possibilità dell’impossibilità del possest stesso. Il Dio del De possest è così chiuso e necessitato nella sua irrevocabile (im)perfezione e il-libera libertà, ridotto a mera onnicompossibilità determinata, alla povertà di una libertà che nella sua finitezza appartiene al finito e non all’infinito, al principiato e non al Principio, al mondo e non a Dio: è l’ente mondano che dal momento in cui è posto come libero pur cercando di non essere libero è costretto a riaffermare la sua libertà, è la creatura che appartiene alla libertà. Tuttavia, può essere così anche per Dio? Il possest è una delle “immagini-concetto” elaborate dal cardinale per ascendere a quel Dio nascosto che la nostra mente ignora poiché è ineffabilmente al di sopra di ogni nome60. Cusano si discosta dalla tradizione dei nomi divini di origine dionisiana innovandola profondamente: egli non ricerca più l’esatta serie di attributi che indicano l’opera creatrice e provvidenziale di Dio nelle sue determinazioni più generali, composta per lo più sulla base dei predicati attribuiti all’Uno-che-è e negati all’Uno-uno nel Parmenide platonico o degli appella-
59. Dal punto di vista teoretico sul tema cfr. M. Cacciari, Dell’Inizio, cit.; Id., Della cosa ultima, cit.; V. Vitiello, Cristianesimo senza redenzione, Laterza, Roma-Bari 1995; Id., Il Dio possibile, cit. 60. Cfr. De poss., 54, p. 65 (tr. it., p. 1415); 25, p. 31 (tr. it., p. 1381). Sul tema cfr. anche F. Tomatis, Il Dio vivente, cit., pp. 30-34.
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tivi assegnati al divino dalle Scritture61. I nomi divini cusaniani, come il possest, si fondano sulla processione del divino nel creato, ma non hanno più il fine di indicare le determinazioni più generali, eminenti e universali della partecipazione del mondo a Dio, bensì, pur avendo la forma del concetto, sono anch’essi immagini enigmatiche, vie e sentieri simbolici. Essi non sono contenuti, ma processi del pensiero: il loro criterio di verità non ha il valore “oggettivo” posseduto da una presunta conoscenza razionale universalmente valida poiché sono metafore, simboli, in cui non c’è più rapporto tra due cose, la rigida relazione significante-significato del concetto, ma è nel simbolo stesso che il simbolizzato si manifesta. Nelle figure enigmatiche noi conosciamo come non saputo, come sempre da sapere, come non sapere sempre da arricchirsi di nuovo, ciò che in esse trova espressione62. Il possest, pertanto, indica, fa segno ad una via per ascendere nell’ignoranza come forma di conoscenza verso un’ulteriorità, un prius, rispetto alla stessa immagine-concetto. Questo nome, dunque, conduce colui che riflette attentamente al di sopra del senso, della ragione e dell’intelletto, fino alla visione mistica, là dove termina l’ascesa di ogni facoltà conoscitiva ed ha inizio la rivelazione del Dio ignoto. In effetti, quando colui che cerca la verità, abbandonato tutto, sarà asceso al di sopra di sé stesso ed avrà scoperto di non poter procedere oltre per accedere al Dio invisibile, che rimane per lui invisibile in quanto egli non può vederlo mediante la luce della sua ragione, allora egli attenderà, con un desiderio pieno di devozione, che quel sole onnipotente, con il suo sorge61. Cfr. E. Corsini, Il trattato De divinis nominibus dello Pseudo Dionigi e i commenti neoplatonici al Parmenide, Giappichelli, Torino 1962; S. Lilla, Dionigi l’Areopagita e il platonismo cristiano, Morcelliana, Brescia 2005. 62. Sul carattere simbolico-metaforico del pensiero cusaniano cfr. K. Jaspers, Nikolaus von Kues, Piper, München 1964 (ed. or. in Id., Die grossen Philosophen, vol. I, Piper, München 1957).
117 re, dissolva la tenebra e lo illumini, in modo da poter vedere l’Invisibile per quel tanto che esso si manifesterà. È così io intendo come l’apostolo dica che, a partire dalla comprensione delle creature del mondo, ossia quando comprendiamo che il mondo è una realtà creata e quando, trascendendo il mondo, cerchiamo il suo creatore, Dio stesso si manifesta come creatore a coloro che lo cercano con una fede formata nel modo più profondo.63
Dio dispiega sé stesso come possest, ma in quanto Deus revelatus, senza dimenticare il Deus absconditus, senza cancellare la sua trascendenza, l’abisso, la caligo, da cui egli stesso si rivela come creatore che pone sé stesso. La trascendenza divina non viene mai meno, Dio è essenzialmente creatore di sé, la libertà è certamente la sua essenza, ma nella sua infinità egli è anche oltre il suo stesso essere creatore. La hyperoché divina serba, custodisce la sua libertà: il suo essere anche oltre sé stessa rende possibile non identificare necessaristicamente l’essenza divina con il suo atto di creare sé medesima. Dio non è necessitato da nulla, nemmeno dalla sua essenza, egli è sovraessenziale: che egli sia per essenza libertà di creare sé stesso non nega tale libertà, ma anzi rivela come la medesima essenza divina creatrice di sé sia abisso a sé medesima, “fondata” su un ancor più originario nascondimento. 63. De poss., cit., 15, p. 19 (tr. it., p. 1367): «Ducit ergo hoc nomen speculantem super omnem sensum, rationem et intellectum in mysticam visionem, ubi est finis ascensus omnis cognitivae virtutis et revelationis incogniti dei initium. Quando enim supra se ipsum omnibus relictis ascenderit veritatis inquisitor et reperit se amplius non habere accessum ad invisibilem deum, qui sibi manet invisibilis, cum nulla luce rationis suae videatur, tunc exspectat devotissimo desiderio solem illum omnipotentem et per sui ipsius ortum pulsa caligine illuminari, ut invisibilem tantum videat quantum se ipsum manifestaverit. Sic intelligo apostolum deum a creatura mundi intellecta, puta quando ipsum mundum creaturam intelligimus et mundum transcendentes creatorem ipsius inquirimus, se manifestare ipsum ut creatorem suum summa formata fide quaerentibus».
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Non possiamo tuttavia evitare di chiederci: restando nella logica dei due termini non si rischia sempre che prevalgano o l’abisso e il silenzio del Dio nascosto o la Parola e la manifestazione del Dio rilevato? Più precisamente l’absconditus non è tale solo in relazione al revelatus? Cusano si sottrae a tali tensioni pensando ad una trascendenza che è anche dopo l’immanenza, ad una rivelazione che non è totale manifestazione, estrinsecazione: secondo la concezione del cardinale Dio resta nascosto anche dopo la sua rivelazione, la sua immanenza non annulla o cancella la sua trascendenza. Il Deus revelatus non è dunque mera negazione del Deus absconditus, bensì una delle possibilità già da sempre comprese nel Deus absconditus stesso che è insieme silenzio e parola, abisso e manifestazione. Il Deus revelatus non è dunque altro dal Deus absconditus, ma una delle infinite possibilità dall’inizio presenti in esso. Un tentativo di dar voce anche allora alla sovrasostanziale divina caligo che non è tale per un difetto, ma per pienezza d’essere, ossia che è oscurità per la sua sovraessenziale luminosità, per la sua ultraluminosità, nella quale in uno e simul sono compresi tutti i contraddittori, anche la possibilità della rivelazione e del silenzio, senza separarla nell’incolmabile abisso del totalmente altro – che con la sua negatività sarebbe il massimo della determinazione – né riducendola ad origine già da sempre destinata ad essere tolta, ad essere inghiottita dal processo di manifestazione divina. Ma allora la divina caligo non sarà da pensare come la possibilità dell’impossibilità di ogni possibilità a cui anche lo stesso principio divino resta sempre sospeso64?
64. Per un approfondimento teoretico del tema cfr. M. Cacciari, Dell’Inizio, cit.; Id., Della cosa ultima, cit.; V. Vitiello, Il Dio possibile, cit.; Id., La nascita del mondo moderno, cit.
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Capitolo IV
Inesauribilità, abissalità e libertà dell’Uno Pareyson, Plotino e Cusano
1. L’ontologia dell’inesauribile Nonostante le rare occorrenze del nome di Cusano all’interno dell’opera di Pareyson, il pensatore tedesco non era un autore a lui estraneo. Alla sapiente direzione di Pareyson della “Collana di Filosofi Moderni”, per l’editore bolognese Zanichelli, dobbiamo la traduzione in due volumi, affidata a Giovanni Santinello, degli Scritti filosofici di Cusano1; conoscendo la 1. Cfr. Nicolò Cusano, Scritti filosofici, a cura di G. Santinello, 2 voll., Zanichelli, Bologna 1965. Nella sua introduzione, Santinello interpreta il pensiero cusaniano come dominato e unificato dal motivo della dotta ignoranza e dalle conseguenze che essa provoca, ossia, da un lato, l’istanza sistemica e, dall’altro, la molteplicità di prospettive sul medesimo oggetto in cui quel principio critico-negativo si invera. In questo testo, riprendendo la prospettiva filosofica del suo maestro Luigi Stefaniani, Santinello parla di “immaginismo del Cusano”, al fine di indicare la natura simbolica del sapere rispetto al suo oggetto. In un testo precedente, Santinello aveva già sottolineato la centralità che assume il concetto di “prospettiva” in Cusano: cfr. G. Santinello, Nicolò Cusano e Leon Battista Alberti: pensieri sul bello e sull’arte, in P. Flores d’Arcais (a cura di), Nicolò da Cusa, cit., pp. 147-184. Un accostamento esplicito del nome di Pareyson a quello di Cusano è stato avanzato da Santinello, nello specifico avvicinando la speculazione cusaniana sul posse ipsum e sulla libertà del Principio al pensiero rivelativo e all’ontologia della
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cura che il filosofo italiano dedicava all’intero progetto editoriale e ai singoli volumi che lo componevano, così come l’attenzione che rivolgeva ad ogni opera pubblicata sotto la sua direzione in genere, si comprende come i testi cusaniani non gli fossero solo familiari, bensì costituissero l’oggetto di un chiaro interesse speculativo2. Un’altra possibile fonte cusaniana di Pareyson è rappresentata da Jaspers e dal volume Nikolaus Cusanus pubblicato all’interno della sua monumentale opera I grandi filosofi3; come è noto, il pensatore tedesco era
libertà pareysoniana. Cfr. G. Santinello, “Concordia philosophorum” e possibilità dell’errore in Nicolò da Cusa, in A. Caracciolo (a cura di), Il problema dell’errore nelle concezioni pluriprospettivistiche della verità, Marietti, Genova 1987, pp. 27-28. 2. La stessa scelta dei testi raccolti nel I volume è significativa, infatti esso contiene, oltre all’Idiota, il De possest, il Compendium, il De apice theoriae, ossia proprio quelle opere in cui Cusano sviluppa la sua idea dell’Uno come potenza e approfondisce il carattere volontaristico dell’Uno. 3. Cfr. K. Jaspers, Nikolaus von Kues, cit. Jaspers, in realtà, cita Cusano e in particolare il De docta ignorantia già nella seconda edizione della Psicologia delle visioni del mondo (1922) e nella quarta della Psicopatologia generale (1947). Tuttavia, se nelle opere di questo periodo Cusano non ha un ruolo di spicco tra le fonti e gli interlocutori della sua filosofia dell’esistenza, nel cammino speculativo successivo di Jaspers, Cusano diventa sempre più un punto di riferimento; secondo alcuni studiosi l’influenza delle dottrine cusaniane sull’impostazione filosofica di Jaspers è superiore a quanto il filosofo tedesco stesso non abbia ammesso. Inigo Bocken, ad esempio, ha sostenuto che la prospettiva jasperiana delle “Cifre della trascendenza” del 1961 è largamente ispirata alla filosofia “congetturale” di Cusano e alla sua convinzione che la verità permanga in ultima istanza sempre nascosta al pensiero e che tuttavia, al contempo, essa si manifesti continuamente nel mondo, lasciando dietro di sé alcuni segni, tracce o “cifre della trascendenza” che l’uomo ha a disposizione per approcciare il mistero divino. Cfr. I. Bocken, Der Kampf um Kommunikation. Karl Jaspers’ existenzielle Cusanus-Cusanus-Lektüre, in H. Schwaetzer - K. Reinhardt (a cura di), Cusanus-Rezeption in der Philosophie des 20. Jahrhunderts, Roderer, Regensburg 2005, pp. 51-66. Sul tema cfr. P. Žitko, Karl Jaspers lettore di Cusano. Presupposti interpretativi ed esiti teoretici, Orthotes, Napoli-Salerno 2018; A. Fiamma, Jaspers inter-
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un autore a lui molto familiare, frequentato sin dalla sua tesi di laurea e dai suoi primissimi scritti4. Secondo un’interpretazione che Pareyson stesso ha dato del suo cammino di pensiero, tre sono le tappe della sua riflessione5. Se la prima fase è segnata dagli studi sull’Existenzphilosophie e dall’elaborazione di una propria prospettiva esistenzialistica6, la seconda fase teoreticamente è caratterizzata dalla formulazione di una originale filosofia ermeneutica, il cui apice è costituito dall’ontologia dell’inesauribile proposta in Verità e interpretazione7, mentre l’ultima è incentrata sull’ela-
prete di Cusano: per una filosofia pratica, in P. Ricci Sindoni (a cura di), Un filosofo tra i filosofi. Karl Jaspers e il pensiero occidentale, Mimesis, MilanoUdine 2018, pp. 163-191. 4. Cfr. L. Pareyson, La filosofia dell’esistenza e Carlo Jaspers, Loffredo, Napoli 1939, ora Id., Karl Jaspers, Marietti, Casale Monferrato 1997; Id., Studi sull’esistenzialismo, Sansoni, Firenze 1943; ora in Id., Opere complete, vol. II, a cura di C. Ciancio, Mursia, Milano 2001. Gianluca Cuozzo vede in Gioberti il mediatore tra Pareyson e Cusano: cfr. G. Cuozzo, Le avventure della speranza. Un percorso nella filosofia di Giuseppe Riconda, in G. Cuozzo A. Dell’Igna (a cura di), Metafisici torinesi, Mimesis, Milano-Udine 2022, p. 109. Su Gioberti e Cusano, cfr. G. Cuozzo, Dal panteismo ontoteistico alla teologia infinitesimale, Aragno, Torino 2007. 5. Cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona, il melangolo, Genova 2002, pp. 7-36, 266, 269. Cfr. F. Tomatis, Escatologia della negazione, Città Nuova, Roma 1999, p. 97; Id., Il Dio vivente, cit., p. 255. 6. Un punto di contatto teoretico tra la riflessione esistenzialista pareysoniana e la speculazione cusaniana è costituito da quella concezione positiva del finito e della singolarità che segna un punto di svolta per la riflessione di Pareyson rispetto all’esistenzialismo kierkegaardiano e tedesco e della filosofia cusaniana rispetto alla tradizione neoplatonica precedente. Cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., pp. 167-168, 170. Sul tema cfr. F. Tomatis, Escatologia della negazione, cit., p. 99. Per Cusano, De ven. sap., XXII, 64-67, pp. 61-65 (tr. it., pp. 1675-1681). Sul tema cfr. D. Monaco, Cusano e la pace della fede, cit., pp. 67-74; W. Beierwaltes, Venatio sapientiae, cit. 7. Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 33. Tomatis sottolinea come sia stato merito di Pareyson introdurre in Italia le tematiche della filo-
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borazione di una ontologia o filosofia della libertà e del male anche attraverso una ermeneutica della letteratura, del mito e dell’esperienza religiosa. Come è stato notato da Pareyson stesso, le esigenze e i motivi della seconda fase sono già ampiamente anticipati nella prima fase8. Nella sua polemica contro il razionalismo metafisico, Pareyson propone il concetto di “incommensurabilità” di finito e infinito9 e sottrae, esistenzialisticamente, il singolo alla subordinazione alla totalità per salvaguardarne l’irriducibilità il carattere irripetibile. L’esistenzialismo pareysoniano è animato dall’esigenza di cogliere l’esistenza singola, la finitezza, sofia dell’interpretazione, sviluppando almeno dal 1947, indipendentemente e precedentemente rispetto a Gadamer e Ricoeur, una filosofia ermeneutica. Il saggio del 1947 a cui fa riferimento Tomatis è L. Pareyson, Il compito della filosofia oggi, in Id., Esistenza e persona, cit., pp. 141-157. Un altro testo fondamentale per comprendere lo sviluppo pioneristico di una filosofia dell’interpretazione da parte di Pareyson è Unità della filosofia del 1951: cfr. L. Pareyson, Unità della filosofia, in Id., Interpretazione e storia, in Id., Opere complete, vol. XIV, a cura di A. De Maria, Mursia, Torino 2007, pp. 97-108. 8. Cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 34. Sul tema cfr. F. Tomatis, Escatologia della negazione, cit., p. 99; F.P. Ciglia, Ermeneutica e libertà. L’itinerario filosofico di Luigi Pareyson, Bulzoni, Roma 1995, pp. 103-117; Sul tema cfr. F. Marino, L’esplicito inesauribile. Pareyson e la storiografia filosofica, Mimesis, Milano-Udine 2015, pp. 277-328. Un altro polo della prima riflessione pareysoniana in cui germogliano problematiche e concettualità ermeneutiche è quello estetico: cfr. ivi, pp. 145-159 e p. 268, nota 155. Sul rapporto tra l’estetica pareysoniana, l’ontologia dell’inesauribile e il successivo pensiero tragico cfr. G. Vattimo, Etica dell’interpretazione, Rosenberg & Sellier, Torino 1986, pp. 49-62; Id., Pareyson dall’estetica all’ontologia, in «Rivista di estetica», 40-41, 1992, pp. 3-16, ora in Id., Essere e dintorni, La nave di Teseo, Milano 2018, pp. 311-324; Id., Oltre l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 68-69; Id., Pareyson e l’ermeneutica contemporanea, in A. Di Chiara (a cura di), Luigi Pareyson filosofo della libertà, La Città del Sole, Napoli 1996, pp. 45-59. 9. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 12. Da notare che anche per Cusano tra finito e infinito non si dà proporzione. Cfr. De docta ign. I, III, 9, p. 8 (tr. it., p. 13).
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nella sua ricchezza, nella sua positività, nel suo essere apertura all’essere10. La matrice della teoria dell’interpretazione pareysoniana è rintracciabile in quell’esistenzialismo che intende l’esistenza come paradossale coincidenza di autorelazione o eterorelazione11 o come costituita da un problematico rapporto con l’essere o con la verità12. Pareyson declina il proprio esistenzialismo in un personalismo ontologico, secondo il quale la persona non può rapportarsi a sé medesima senza relazionarsi all’essere. Tuttavia, l’essere, sebbene sia accessibile solo attraverso un rapporto personale, resta irrelativo, non riducibile alla relazione, che anzi istituisce nella sua possibilità e di cui costituisce l’orizzonte13. A partire dalla sua elaborazione dell’esistenzialismo in una direzione che afferma non solo il carattere interpretativo di ogni relazione umana, ma anche il carattere ontologico di ogni interpretazione, si può comprendere come il tratto distintivo della teoria ermeneutica pareysoniana sia la sua insistenza sulle implicazioni ontologiche o veritative del concetto di interpretazione14. Tuttavia, il riferimento alla dimensione ontologica o veritativa non è sufficiente per cogliere l’originalità dell’ermeneutica pareysoniana se non la si rapporta all’idea di inesauribilità che essa propone. Lo schema di comprensione dell’uomo e dei suoi rapporti con sé stesso e con il mondo non è più quello soggetto-oggetto, in quanto la verità non può essere ridotta ad oggettività, ma deve piuttosto essere compresa come la fonte o l’origine capace di darsi a quegli infiniti pro10. Cfr. F. Tomatis, Pareyson. Vita, filosofia, bibliografia, Morcelliana, Brescia 2003, p. 41. 11. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., pp. 13-14, 226-228. 12. Cfr. ivi, pp. 228-230. 13. G. Riconda, Tradizione e pensiero, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2009, p. 235. 14. Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971, p. 53.
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cessi interpretativi che suscita senza ridursi a nessuno di essi né alla loro totalità15. Il correlato della teoria dell’interpretazione pareysoniana è un’ontologia dell’inesauribile. La prospettiva ermeneutica pareysoniana presentata in Verità e interpretazione si distingue da altre filosofie ermeneutiche innanzitutto per la sua portata veritativa, intesa nella sua unicità inesauribile16. Pareyson sviluppa un pensiero che sia attento alla molteplicità delle interpretazioni e, al tempo stesso, affermi con fermezza l’unicità della verità. Tuttavia, unicità della verità e molteplicità delle interpretazioni non devono essere intese come sussistenti separatamente per poi essere conciliate, mediate o poste in relazione, piuttosto, verità e interpretazione, uno e molti, identità e alterità, non possono che essere comprese come originariamente interrelate, benché né necessariamente né indistintamente17. Verità e interpretazione si rimandano l’una all’altra: non c’è interpretazione che della verità e della verità non c’è che interpretazione18; tuttavia verità e interpretazione non si identificano pienamente, resta uno scarto, una differenza e distinzione qualitativa tra verità e interpretazione che riguarda l’ulteriorità e la trascendenza della verità rispetto ogni interpretazione finita. La verità è presente pienamente nell’interpretazione, ma nella forma propria alla verità stessa, quindi nella sua inesauribile ulteriorità, trascendenza, infinità e mantenendo la sua priorità ontologica rispetto all’interpretazione19. Se si deve indicare un autore con il quale Pareyson si è maggiormente confrontato nell’elaborazione della sua ontologia 15. Cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., pp. 19, 22-23; G. Riconda, Tradizione e pensiero, cit., p. 236. 16. Cfr. F. Tomatis, Il Dio vivente, cit., p. 247. 17. Cfr. ibidem. 18. Cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 20. 19. Cfr. F. Tomatis, Il Dio vivente, cit., p. 248.
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dell’inesauribile, questi è sicuramente Heidegger20, in particolare il secondo, con la sua idea di differenza ontologica e di non negatività del nulla21. Come in un dialogo silenzioso ma critico, Pareyson sviluppa la sua idea di una ontologia dell’inesauribile anche come una presa di posizione tra le possibili interpretazioni del filosofo tedesco, ossia opponendosi criticamente a una lettura incline al “misticismo dell’ineffabile” o all’“ontologia negativa”22. La proposta di Pareyson è quella di un’ermeneutica che interpreti l’essere come differenza ontologica, senza fermarsi alla sua inoggettivabilità e irrapresentabilità, ma che lo colga nel suo darsi inesauribilmente negli enti e nelle interpretazioni di esso. Si situa qui, dal punto di vista dell’ermeneutica filosofica, uno dei tratti speculativamente più fecondi della tradizione neoplatonica: l’essere inesauribile non è un nulla indicibile di fronte a cui si può solo tacere, ma è neoplatonicamente peghé, fonte, sorgente che incessantemente si dà, ri-velandosi, negli enti, origine suscitatrice della molteplicità differenziata delle interpretazioni23; in particolare, tra le fonti a cui Pareyson attinge per approfondire l’inoggettivabilità dell’essere, tipica
20. Cfr. F. Tomatis, Ontologia del male, cit., p. 48. 21. Cfr. ivi, p. 19. 22. Cfr. ivi, p. 20. Sulla lettura pareysoniana di Heidegger, cfr. ivi, pp. 4752; U. Ugazio, Pareyson interprete di Heidegger, in «Archivio di filosofia», LVII, 1-3, 1989, pp. 93-102. Riconda ha ricordato che l’idea di inesauribilità circolava negli ambienti torinesi già negli anni dei primi studi universitari di Pareyson, in particolare grazie agli studi e gli insegnamenti di Guzzo e di Mazzantini. Tuttavia, egli ha anche precisato che Pareyson giunge a un’ontologia dell’inesauribile per vie autonome attraverso la meditazione sull’estetica, sulla storia della filosofia, sull’idealismo classico e sull’esistenzialismo. Cfr. G. Riconda, Torino 1950-1990: il pensiero religioso, in «Annuario filosofico», 25, 2009, p. 14. Sul tema cfr. F. Marino, L’esplicito inesauribile, cit., p. 268, nota 155. 23. Cfr. F. Tomatis, Escatologia della negazione, cit., p. 100.
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della ontologia negativa, nella direzione dell’inesauribilità va annoverato Plotino24. Secondo Pareyson la presenza della verità nella parola non è quella dell’oggetto nel discorso ma della sua origine: essa vi risiede non come l’oggetto d’una seppur ideale esplicitazione completa, ma come lo stimolo d’una interpretazione interminabile25. «Noi dobbiamo fare il discorso sul principio, però discorso inesauribile; perché l’inesauribilità del discorso è l’unico modo con cui noi possiamo possedere un qualcosa di infinito: come principio, come verità»26. Nel contesto speculativo dello sviluppo dell’ontologia negativa in una concezione della verità come inesauribile si colloca una prima citazione esplicita di Cusano, che compare nelle note di un importante testo pareysoniano del 1965, Pensiero espressivo e pensiero rivelativo, raccolto poi nel 1971 in Verità e interpretazione. Significativamente, introducendo la differenza tra il misticismo dell’ineffabile e l’ontologia dell’inesauribile27, Pareyson cita Cusano e in particolare la sua confessione autocritica, presente nel De apice theoriae – «un tempo ritenevo che la verità la si trovasse meglio nell’oscurità»28 – alla quale collega la difesa della vis vocabuli presente nel II libro del De sapientia29. Pareyson con questo duplice riferimento ai testi cusaniani
24. Cfr. L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, cit., pp. 46-47. Tra le fonti dell’ontologia dell’inesauribile, Riconda cita Plotino: cfr. G. Riconda, Esistenzialismo, ermeneutica e pensiero tragico. La proposta speculativa di Luigi Pareyson, in «Paradigmi», 28, 1992, p. 18. 25. L. Pareyson, Verità e interpretazione, cit., p. 162. 26. L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, cit., p. 46. 27. L. Pareyson, Verità e interpretazione, cit., p. 27. 28. De ap. theor., 5, p. 20 (tr. it., p. 1973): «Putabam ego aliquando ipsam in obscure melius reperiri». La citazione è riportata in latino nel testo di Pareyson: cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, cit., p. 241. 29. Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, cit., p. 241. Il riferimento è a De sap. II, 33, p. 66 (tr. it., pp. 829-831): «Intelligo nunc te dicere velle,
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richiama l’autointerpretazione del proprio cammino di pensiero formulata da Cusano nella sua ultima opera speculativa, il De apice theoriae (1464)30. Il pensatore tedesco individua due tappe principali della sua ricerca: una prima, in cui la verità è stata vista risplendere nella tenebra; una seconda, iniziata con lo scritto Idiota del 1450 – a cui fa riferimento Pareyson in cui invece si insiste sulla potenza manifestativa della verità e sul suo rilucere in ogni cosa. Nel capitolo conclusivo – non a caso dedicato alla teologia negativa – della trattazione del divino e della verità contenuta nel De docta ignorantia, corrispondente al I libro dell’opera, si afferma «possiamo concludere che nella tenebra della nostra ignoranza la precisione della verità risplende in un modo che non è da noi comprensibile»31. Nelle sue prime opere speculative, Cusano sembra essere il sostenitore di una concezione della verità e del discorso teologico di stampo dionisiano32, in cui è chiara la preferenza per la via apofatica tendente al silenzio e alla contemplazione della tenebra mistica. La stessa idea di coincidentia oppositorum o contradictoriorum, che sembra rappresentare la cifra del De docta ignorantia, affermante l’identità degli opposti o dei contraddittori nella verità divina, è una forma di negatio negationis, una mera negazione della finitezza del finito – dell’opposizione e contraddittorietà che lo contraddistinguono – apice e principio quod in theologia sermocinali, scilicet ubi de deo locutiones admittimus et vis vocabuli penitus non excluditur, ibi sufficientiam difficilium in facilitatem modi de deo propositiones veriores formandi redegisti». 30. De ap. theor., 5, p. 20 (tr. it., p. 1973): «Putabam ego aliquando ipsam in obscuro melius reperiri. Magnae potentiae veritas est, in qua posse ipsum valde lucet. Clamitat enim in plateis, sicut libello “de idiota” legisti». 31. De docta ign. I, 26, 89, p. 56 (tr. it., p. 105). 32. In una nota a margine del commento di Alberto Magno alla quinta lettera di Dionigi Areopagita, Cusano scrive: «deus non potest videri nisi in tenebris luminis humani». Cfr. L. Baur, Nicolaus Cusanus und Ps. Dionysius, cit., p. 112, marg. 603.
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di una teologia negativa ancora lontana dalla potenza fontale e generatrice della verità e del divino, che invece gioca un ruolo centrale nella speculazione successiva di Cusano. Un’altra citazione diretta è presente nel testo redatto nel 1967, Filosofia e senso comune, contenuto a partire dal 1971 in Verità e interpretazione, all’interno della Parte III dedicata al tema: verità e filosofia33. Introducendo il problema dei rapporti tra filosofia e senso comune, Pareyson, dei tanti modi di configurare i rapporti tra il senso comune e la filosofia, ne considera due particolarmente significativi: uno è rintracciabile in Hegel ed è costituito dall’opposizione tra filosofia e senso comune, l’altro si trova in Cusano, che nella sua opera introduce la figura dell’idiota, ossia del profano, in contrapposizione a quella dell’oratore e del filosofo, al fine di testimoniare come la sapienza non consista nell’arte oratoria o sia contenuta nei libri, ma gridi all’aperto nelle piazze34. Anche in questo, il riferimento pareysoniano sottolinea come il pensatore tedesco sia il sostenitore di una concezione della verità capace di sottolinearne la potenza manifestativa e fontale, il suo risplendere ovunque. La lettura pareysoniana di Cusano sembra dare forma alla figura di pensatore capace di andare oltre la teologia negativa le cui acquisizioni restano imprescindibili – verso un’idea di verità che si dona e si rivela nello spazio aperto della parola sempre plurale. Ma, al di là delle citazioni dirette, sul tema esistono delle affinità concettuali e speculative molto forti tra i due autori. L’ontologia negativa per Pareyson, così come la docta ignorantia per Cusano, non costituisce l’esito dell’indagine, ma il presupposto critico di qualsiasi ricerca ulteriore in quanto conduce il pensiero dinanzi al nulla, quale istanza critica che non permette alcuna oggettivazione identificante 33. L. Pareyson, Verità e interpretazione, cit., pp. 211-233. 34. Ivi, p. 212.
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l’essere o la verità con qualsivoglia ente finito. L’ontologia negativa e la docta ignorantia hanno il giusto merito di criticare le metafisiche dell’essere o le ontologie positive, che pretendono di oggettivare l’essere, entificandolo e interpretandolo come l’ente supremo. Tenendo ferma la differenza ontologica tra l’essere, o Dio, e gli enti, l’ontologia negativa, per salvaguardarne l’inoggettivabilità, ammette la dicibilità solo in negativo dell’essere così come la docta ignorantia permette di evitare di identificare la verità o il divino, idolatricamente, con alcunché di finito. Per Pareyson, così come per Cusano, è questo il primo passo, critico-negativo, del pensiero, e non l’ultimo, come invece accade in quella tradizione mistica che ritiene non dicibile positivamente il principio primo di ogni realtà, l’Uno al di là dell’essere, indicabile apofaticamente solo attraverso la negazione di ogni sua negazione35. Non ci può fermare alla solo ontologia negativa, o per dirla in termini cusaniani alla docta ignorantia, ma – senza mai abbandonare l’istanza critico-negativa – occorre approfondirla in una ontologia dell’inesauribile o congetturale che intenda l’essere come inoggettivabile, ma non perché opposto o totalmente altro dal finito, ma perché lo comprende come la fonte inesauribile di ogni finito essere e pensiero36. Per Pareyson, come 35. F. Tomatis, Il Dio vivente, cit., p. 267. 36. In anni successivi, ritornando sulla questione, Pareyson chiarirà, in alcune pagine dedicate a Plotino, che a suo dire si tratta di sostituire il concetto di ineffabilità con quello di inesauribilità e parlerà della teologia negativa e dell’ontologia negativa come di una trascrizione rispettivamente teologica e filosofica di un’esperienza mistica e religiosa, sottolineando come non sia opportuno mescolare indifferentemente i campi. Cfr. L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, cit., pp. 46-47. Da questo angolo prospettico è possibile comprendere la preferenza pareysoniana per Plotino rispetto a Dionigi, ossia il riferimento solo occasionale agli scritti dionisiani rispetto alle citazioni plotiniane, che testimoniano un legame più profondo e strutturale della speculazione pareysoniana con le Enneadi. Cfr. T. Ottobrini, Dell’estasi razionale: intorno all’ipermetafisica dell’ineffabile dentro l’esperienza del mondo. Pre-
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per Cusano, la trascendenza della verità indica certamente sua inoggettivabilità – per cui non è possibile entificarla, finitizzarla, renderla un oggetto determinato pienamente rappresentabile e possedibile da un soggetto – ma come primo passo per comprendere la sua inesauribilità. Non bisogno arrestarsi alla mistica dell’ineffabile, che nel silenzio, nell’afasia, crede di cogliere la verità, ma approfondirne l’inoggettivabilità sino ad un’ontologia dell’inesauribile, la quale comprende la verità come tutta presente, eppure, anche sempre ulteriore in ciascuna delle sue molteplici interpretazioni37. L’ontologia dell’inesauribile nasce come passo di approfondimento ulteriore rispetto ad un’ontologia negativa, critica, mai abbandonata o superata, ma indispensabile38. Sebbene i riferimenti espliciti siano esigui, in realtà tutta l’ontologia dell’inesauribile esposta in Verità e interpretazione possiede una forte impronta cusaniana. Se è vero, infatti, che la configurazione del rapporto tra unicità della verità e pluralità delle interpretazioni ha una struttura facilmente riconducibile alla concezione Uno-molti elaborato dal neoplatonismo39, all’interno della policromatica tradizione neoplatonica, l’erme-
senza di Plotino in Pareyson e il caso poziore di Damascio, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», 20, 2018, disponibile online: https://mondodomani.org/dialegesthai. 37. Cfr. F. Tomatis, Il Dio vivente, cit., p. 250. 38. Cfr. ivi, p. 268. 39. Umberto Eco, riferendosi all’estetica, ha scritto che: «qui - come altrove - Pareyson sembra preso da un raptus neoplatonico, e verrà forse un giorno la pena di andare a ricercare fonti inconfessate della sua estetica oltre il romanticismo, da Platone al Cusano, per dire, o del neoplatonismo rinascimentale e seicentesco». Cfr. U. Eco, Le sporcizie della forma, in «Rivista di estetica», 40-41, 1993, p. 19. A nostro avviso, un esempio è sicuramente da ricercarsi nell’idea di formatività. Tutte le attività in cui si manifesta l’eccellenza dell’uomo, come ad esempio la conoscenza e le arti, sono contraddistinte da un comune denominatore: possiedono tutte un carattere formativo.
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neutica pareysoniana sembra avere maggiori affinità proprio con la speculazione cusaniana tesa a salvaguardare il valore del finito e il carattere positivo e rivelativo della sua singolarità e pluralità. Il prospettivismo di Cusano tiene insieme, da un lato, il variare nel tempo delle nostre congetture, il valore positivo della molteplicità dei punti di vista, delle plurali e singolari prospettive finite quali irripetibili aperture sulla verità, dall’altro, il riconoscimento esplicito non solo della unicità della verità ma della possibilità per l’umano intelletto di cogliere la verità nella sua infinitas, ossia nel suo essere incessantemente ulteriore, sempre nuovamente da ricercare40. Sia in Cusano sia in Pareyson, il rapporto tra verità e interpretazione può essere compreso come rapporto tra Uno e molti41. Cfr. D. Monaco, Cusano e l’analogia tra il potere creatore divino e la conoscenza umana, in «Bruniana & Campanelliana», XXIV, 1, 2018, pp. 189-199. 40. Sul tema, un accostamento di Pareyson a Cusano è proposto da G. Piaia, Pericolo turco, universalità del vero e pluralità delle filosofie nel De pace fidei di Nicolò Cusano, in K. Reinhardt - H. Schwaetzer (a cura di), Universalität der Vernunft und Pluralität der Erkenntnis bei Nikolaus Cusanus, Roderer, Regensburg 2008, in part. pp. 37-38. 41. Per Pareyson, cfr. F. Tomatis, Il Dio vivente, cit., p. 248. Propriamente Cusano non parla di interpretazione, ma di coniectura. Cfr. De coni., I, 11, 57, p. 58 (tr. it., pp. 371-373): «Coniectura igitur est positiva assertio, in alteritate veritatem, uti est, participans». Cusano con il termine coniectura non intende alcunché di incerto o di probabile, né qualcosa di assimilabile a una ipotesi o a una supposizione, come il nostro termine moderno “congettura” potrebbe far pensare. Al contrario, Cusano definisce esplicitamente la coniectura come un’affermazione o un’asserzione che partecipa alla verità in sé; essa consta pertanto di una relazione essenziale con la verità in sé e ne rappresenta un’espressione positiva. Per spiegare tale definizione Cusano utilizza un’immagine (cfr. De coni., I, 11, 57, p. 58; p. 371). Dobbiamo immaginare di osservare il volto del sommo pontefice (all’epoca Eugenio IV). Se noi lo osserviamo, pensiamo di poter affermare riguardo al suo volto qualcosa di certo, tuttavia, se dal senso della vista ci eleviamo alla ragione, riflettendo su quello che abbiamo visto, comprendiamo che tutto quello che il senso può affermare è contratto nell’alterità, in quanto è attinto a partire
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Unicità della verità e molteplicità delle interpretazioni sono coessenziali in quanto la verità è pienamente presente nell’interpretazione, ma nella sua infinità, nella sua trascendenza inesauribile, nel suo essere incessantemente ulteriore, tale da suscitare sempre una nuova ricerca. Si comprende come sia l’inesauribilità della verità stessa a esigere molteplici interpretazioni, sia nel senso di essere incessante pungolo alla ricerca e approfondimento ulteriore da parte della singola interpretazione, sia nel senso di richiedere l’ascolto di sé nella pluralità delle sue innumerevoli interpretazioni42. La trascendenza della verità impedisce l’oggettivazione, l’identificazione, e rende possibile la relazione, la compossibilità di una molteplicità di distinte interpretazioni e il loro dialogare. Senza l’infinità della verità scompare anche l’alterità e ogni differenza possibile, non solo verticale ma anche orizzontale. La verità lungi dal comportare una sua indicibilità finita e l’impossibilità di un suo attingimento singolare, è essa stessa, nella sua unicità inesauribile, a suscitare il pluralismo delle interpretazioni43.
dall’angolo proprio a quel determinato occhio che è diverso dall’angolo di tutti gli altri. Questo non significa che quello che l’occhio vede sia falso, non sia la verità, ma l’immagine ci permette di comprendere come ogni nostra conoscenza sia congettura in quanto la verità in sé è attinta da senso, come da ogni altra facoltà conoscitiva, solo a partire da un determinato punto di vista, da una prospettiva sempre individuale, singolare. L’esperienza estetica del vedere acquisisce nell’opera cusaniana una funzione fondamentale: la vista sensibile viene usata come paradigma per tutta la conoscenza umana. Attraverso l’universalizzazione della metafora visiva, il suo impiego per descrivere ed elaborare la concezione di ogni conoscenza e la sottolineatura del riferimento necessario al punto di vista, Cusano elabora una visione prospettica dell’intero conoscere umano. Cfr. D. Monaco, Cusano e la pace della fede, cit., pp. 83-87. 42. Cfr. F. Tomatis, Il Dio vivente, cit., pp. 248-249. 43. Come abbiamo già sottolineato, attraverso l’universalizzazione della metafora visiva, ossia il suo impiego per descrivere ed elaborare la concezione di ogni conoscenza umana, e la sottolineatura del riferimento necessario al
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L’interpretazione nasce plurale e la sua pluralità deriva dalla natura sovrabbondante di quella stessa verità che in essa vi risiede, e lungi dal disperderla in una serie di formulazioni indifferenti, la rivela nella sua inesauribile ricchezza44. La molteplicità delle formulazioni della verità non compromette in nessun modo l’unicità della verità, ma piuttosto la realizza, al modo in cui le esecuzioni di un’opera musicale non ne distruggono l’identità con la loro diversità45. La molteplicità punto di vista, Cusano elabora una visione prospettica del sapere. Come una sola cosa visibile è vista da molti, ma mai in modo eguale, poiché due non possono vedere precisamente allo stesso modo così la stessa identica realtà è conosciuta da una molteplicità di menti attraverso congetture che non possono che essere plurali. Cfr. De theol. compl., 11, pp. 57: «Collige igitur, quod sicut unum visibile per multos videtur, non tamen aequaliter, quia duo aequaliter praecise videre nequeunt; unusquisque enim per proprium et singularem angulum oculi attingit visibile et mensurat ipsum et non iudicat visibile maius nec minus esse quam ut oculo suo attingit, non tamen attingitur per aliquem oculum praecise visibile, uti est visibile; sic de mente et eius obiecto, scilicet veritate seu deo; id enim, quod est angulus, per quem visus videt, est capacitas, per quam mens mensurat». Per una disamina più analitica e approfondita del tema cfr. D. Monaco, Cusano e la pace della fede, cit., pp. 75-112. 44. Sulla natura necessariamente plurale delle congetture cusaniane, cfr. M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, pp. 145-156. Sul carattere plurale dell’interpretazione in Pareyson, cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, cit., p. 61. 45. Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, cit., pp. 45, 68. Sul tema cfr. G. Riconda, Tradizione e pensiero, cit., p. 236. Cusano nell’approfondire la relazione tra l’Uno e i molti, tra la verità e le congetture, è fermo nel sostenere che la participatio, la partecipazione, non va intesa assolutamente come un partem capere, un prender parte. Cfr. De docta, II, 2, 102, p. 67, 13-15: «Quam quidem rationem non potest participare partem capiendo, cum sit infinita et indivisibilis». L’explicatio e la contractio dell’Uno non vanno affatto concepiti come un suo frazionarsi, un suo dividersi, perché l’Uno si dona sempre nella sua interezza, malgrado il comunicarsi nella sua totalità, l’esser presente nella sua completezza in ciascuno dei molti, non annulli la trascendenza, l’ulteriorità dell’Uno o di Dio rispetto a essi, non esaurisca la sua potenza o infici la sua libertà. L’unità divina essendo infinità non si fraziona in
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delle interpretazioni è ciò che la verità stessa sollecita, esige, ispira46, favorendo un prospettivismo dialogico in cui l’unica verità suscita infinitamente le molte sue formulazioni e richiede il dialogo tra i diversi interpreti fatto di alterità degli interlocutori e trascendenza infinita della verità unica presente in ciascuna interpretazione47. parti, ma si comunica sempre nella sua unità, nella sua indivisibilità; essa è nella sua infinità e pienezza in qualsivoglia cosa singolare o individualità, senza identificarsi con nessuna. La partecipazione non avviene come quella del tutto nelle parti, poiché l’infinità divina non è né totalità né parte. Sul tema, cfr. D. Monaco, Cusano e la pace della fede, cit., pp. 72-73. 46. Nella prospettiva pareysoniana, la pluralità delle interpretazioni della verità, lungi dal disperderla in una serie di formulazioni indifferenti, ne testimonia l’inesauribile ricchezza. Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, cit., p. 45. Cusano sottolinea il carattere positivo della pluralità, affermando che essa è forse il modo migliore in cui l’infinito e la sua potenza fontale possono apparire nel finito. Cfr. De dato, 4, 108, pp. 79-80 (tr. it., p. 637): «Sed quia unus est pater et fons luminum, tunc omnia sunt apparitiones unius dei, qui, etsi sit unus, non potest tamen nisi in varietate apparere. Quomodo enim infinita virtus aliter quam in varietate apparere posset?». 47. Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, cit., p. 80. Sul tema, cfr. F. Tomatis, Il Dio vivente, cit., p. 314. Per Pareyson, il dialogo non è possibile senza verità e senza alterità. Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, cit., pp. 170, 250. Non sono mancati filosofi e teologi che hanno elaborato prospettive dialogiche di matrice ermeneutica proprio richiamandosi a Pareyson e alla sua declinazione veritativa del paradigma interpretativo. Cfr. F. Tomatis, Il Dio vivente, cit., p. 247. Sulla necessità del dialogo in Cusano, cfr. De vis., 25, 117, p. 88 (tr. it., p. 1151): «Et sunt omnes intellectuales spiritus cuilibet spiritui opportuni. Nam nisi forent innumerabiles, non posses tu, deus infinitus, meliori modo cognosci. Quisque enim intellectualis spiritus videt in te deo meo aliquid, quod nisi aliis revelaretur, non attingerent te deum suum meliori quo fieri posset modo. Revelant sibi mutuo secreta sua amoris pleni spiritus et augetur ex hoc cognitio amati et desiderium ad ipsum et gaudii dulcedo inardescit». Il valore positivo della pluralità delle congetture è fondato sull’infinità della verità o di Dio: è perché Dio o la verità sono infiniti che la pluralità assume un valore positivo in quanto più adeguata espressione di essi o modo migliore in cui possano essere conosciuti. Se l’Uno o la verità nella sua inesauribilità e libertà si rivela nella singolarità sempre plurale del-
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La verità si rivela nella singolarità della parola delle molteplici interpretazioni di essa. Ogni interpretazione sempre singolare e personale rivela la verità come inesauribile e infinita e allo stesso tempo esprime la situazione storico-esistenziale, la prospettiva finita, di chi l’attinge e l’esprime. Nell’interpretazione della verità espressione e rivelazione si danno insieme: al tempo stesso si rivela la verità come inesauribile e si esprime la persona o la prospettiva interpretante48. Non c’è rivelazione le diverse prospettive è a quella particolare libertà finita di accogliere la sua rivelazione che bisogna rivolgersi: solo dialogando con essa sarà possibile cogliere la verità in quello specifico e unico libero rivelarsi a tale libertà finita. Impossibile non cogliere i legami tra il prospettivismo cusaniano e la sua riflessione sulla necessità del dialogo in chiave interpersonale e interreligiosa; sul tema cfr. R. Celada Ballanti, Pensiero religioso liberale. Lineamenti, figure, prospettive, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 46-50, 107-126; D. Monaco, Cusano e la pace della fede, cit., pp. 113-138; R. Celada Ballanti, Filosofia del dialogo interreligioso, Morcelliana, Brescia 2020, pp. 33-54. 48. Secondo Pareyson, l’interpretazione è quella forma di conoscenza in cui non l’oggetto conosciuto si rivela nella misura in si esprime il soggetto conoscente, e viceversa. Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, cit., p. 54. Sul tema cfr. F. Tomatis, Il Dio vivente, cit., p. 250. Si tratta di una concezione della conoscenza facilmente avvicinabile a quella cusaniana: cfr. De vis. Dei, 6, 19, p. 21 (tr. it., p. 1045): «Qui igitur amorosa facie te intuetur, non reperiet nisi faciem tuam se amorose intuentem, et quanto studebit te amorosius inspicere, tanto reperiet similiter faciem tuam amorosiorem; qui te indignanter inspicit, reperiet similiter faciem tuam talem; qui te laete intuetur, sic reperiet laetam tuam faciem, quemadmodum est ipsius te videntis. Sicut enim oculus iste carneus, per vitrum rubeum intuens omnia, quae videt, rubea iudicat et, si per vitrum viride, omnia viridia, sic quisque oculus mentis obvolutus contractione et passione iudicat te, qui es mentis obiectum, secundum naturam contractionis et passionis. Homo non potest iudicare nisi humaniter». In Cusano, la prospettiva non ha un senso solo quantitativo secondo il quale l’uomo conoscendo rende l’oggetto proporzionale al soggetto che lo vede, ma slegandosi dalle leggi della geometria, a cui era stata strettamente legata sino ad allora, assume un significato anche qualitativo. Secondo il cardinale si vede ora in modo amoroso e lieto, ora in modo doloroso ed irato, ora in modo infantile, ora in modo adulto, ora in modo senile a seconda delle condizioni del soggetto conoscente. L’uomo
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dell’infinità della verità se non nella singolarità dell’interpretazione. Proprio nell’atto stesso in cui l’interpretazione consapevole della propria dotta ignoranza esprime sinceramente la finitezza della propria prospettiva singolare, la verità si rivela nella sua ulteriore ascosità, trascendenza, infinità, inesauribilità. La verità è dunque presente nell’interpretazione, ma come presenza di un’assenza, di un infinito, sempre ancora da ricercare.
2. Abissalità e libertà dell’Uno L’ultima filosofia di Pareyson è un’ontologia della libertà intenta a pensare l’essere non come l’ente sommo e necessario del razionalismo metafisico, né come la differenza inoggettivabile di cui si può solo tacere, ma come libertà originaria alla cui abissalità è sospesa tutta la realtà. Tra gli interlocutori con i quali Pareyson ha dialogato nel radicale approfondimento della sua ultima proposta speculativa campeggiano i nomi
infatti conoscendo colora l’oggetto secondo la propria situazione affettiva o stato d’animo. Il vedere prospettico dell’oggetto è allora allo stesso tempo un esprimersi del soggetto, la conoscenza di qualcosa è allo stesso tempo sempre anche un’espressione di noi stessi. Non solo la cosa viene conosciuta rendendola proporzionale a colui che la conosce, viene compresa a partire dal suo punto di vista, dal suo orizzonte conoscitivo, ma, al medesimo tempo, nell’atto conoscitivo viene ad espressione la singolarità, la finitezza, la contrazione del conoscente. Visione ed espressione non si oppongono ma si integrano: vedere, o conoscere, l’altro da sé è sempre anche al medesimo tempo un esprimere sé stessi. Sul tema, cfr. G. Santinello, Nicolò Cusano e Leon Battista Alberti, cit., pp. 171-172; D. Monaco, La visione di Dio e la pace nella fede, in K. Reinhardt - H. Schwaetzer (a cura di), Universalität der Vernunft, cit., pp. 21-30, poi in A. Musco (a cura di), Universalità della ragione e pluralità delle filosofie nel Medioevo, Officina di Studi Medievali, Palermo 2012, vol. II/2, pp. 805-810.
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di Heidegger, Schelling e Dostoevskij49. Lo Schelling di Pareyson – felice scoperta dei suoi anni più tardi50 – è il pensatore dello stupore della ragione, della filosofia positiva, della libertà e del male51; filosofo non solamente post-hegeliano – capace di essere allo stesso tempo alternativa a Hegel e alla sua dissoluzione – ma addirittura post-heideggeriano52. Dostoevskij è presente come impareggiabile scandagliatore della questione del male e della sofferenza, come colui il quale più di ogni altro, certamente più di ogni altro filosofo, ne ha compreso, indagato e raccontato, con i suoi romanzi, la realtà e la positività53. Al filosofo tedesco e allo scrittore russo, si affianca, quale ideale compagno di cordata dell’ascesa speculativa pareysoniana, Martin Heidegger. Sebbene il filosofo della Selva Nera sia un interlocutore imprescindibile lungo tutta la meditazione pareysoniana54, nell’elaborazione della sua ulti-
49. Pareyson traccia il suo orizzonte storiografico all’inizio delle lezioni napoletane e nella sua lezione di congedo dall’università del 1988, Filosofia della libertà: cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., pp. 463-478. 50. Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., pp. 9, 167. 51. Sullo Schelling di Pareyson cfr. F. Tomatis, Ontologia del male, cit., pp. 5-10, 37-46, 68-76; G. Riconda, Pareyson e la filosofia della libertà dei Weltalter, in «Annuario filosofico», 24, 2008, pp. 165-180; C. Ciancio, Pareyson e l’ultimo Schelling, ivi, pp. 231-242; G. Riconda, Tradizione e avventura, SEI, Torino 2001, pp. 253-268. Per un approfondimento del pensiero di Schelling in chiave pareysoniana, cfr. F. Tomatis, Kenosis del logos. Ragione e rivelazione nell’ultimo Schelling, Città Nuova, Roma 1994, ora in F.W. Schelling, Sui principi sommi. Filosofia della rivelazione 1841-1842, tr. it., con testo a fronte, a cura di F. Tomatis, Bompiani, Milano 2016, pp. 94-116. 52. Cfr. F. Tomatis, Ontologia del male, cit., p. 40. 53. Cfr. F. Tomatis, Pareyson, cit., p. 54. 54. Come nota Tomatis, non è forse casuale che il saggio d’esordio di Pareyson, Note sulla filosofia dell’esistenza, datato 1938, come l’ultimo, pubblicato nel 1989, Heidegger: la libertà e il nulla, riguardino Heidegger. Heidegger è infatti l’unico autore tra quelli citati da Pareyson con cui in-
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ma filosofia assume la fisionomia del pensatore che ha opportunamente impostato il problema della libertà ponendola in relazione non alla necessità, ma al nulla55. Nonostante siano Schelling, Dostoevskij e Heidegger gli autori di riferimento privilegiati da Pareyson nell’elaborazione e discussione di tutta la sua ultima filosofia, è già in Plotino, definito “la lettura di tutta una vita”56, che egli ritrova i suoi temi57. Il filosofo greco costituisce il trait d’union tra l’ontologia dell’inesauribile e l’ontologia della libertà58: L’Uno non è semplicemente il niente dell’ontologia negativa, ma al di là dell’essere e al di là della relazione di opposizione con la molteplicità, irrelativo che pone la relazione di opposizione, tanto irrelativo che nel porre questa relazione non sminuisce la sua unicità, non degrada la sua esuberanza, ma erompe nella sua sovrabbondanza, riaffermandosi come tale nella generosità del riversarsi nell’essere come fonte inesauribile59. Posta l’irrelatività e l’inesauribilità dell’Uno è possibile comprendere la sua libertà originaria e il rapporto che intercorre con la molteplicità finita. L’Uno è talmente libero da essere all’origine di
terloquisca in tutti e tre i periodi del suo commino speculativo. Cfr. F. Tomatis, Ontologia del male, cit., p. 47. 55. F. Tomatis, Pareyson, cit., p. 64. 56. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 131. 57. Su Pareyson e Plotino cfr. F. Tomatis, Ontologia del male, cit., pp. 3940, 72-76; R. Longo, Il tempo nell’eternità: L. Pareyson lettore di Plotino e interprete di Schelling, in G. Casertano (a cura di), Il concetto di tempo, Atti del XXXII Congresso Nazionale della Società Filosofica Italiana, Caserta, 28 aprile-1 maggio 1995, Loffredo, Napoli 1997, pp. 285-292. 58. F. Tomatis, Ontologia del male, cit., p. 39. 59. Già nella sua riflessione giovanile Pareyson aveva concepito l’assoluto come l’irrelativo che pone la relazione tra l’irrelativo e il relativo, pur restando nella relazione irrelativo e, dunque, sebbene in relazione, libero dalla relazione che istituisce. Cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 13.
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sé per auto-originazione60. Il pensatore greco si rivela essere un interlocutore decisivo dell’ultima filosofia pareysoniana, in particolare per la sua originale elaborazione dell’abissalità e della libertà dell’Uno61. Accanto e dopo Plotino, tra i filosofi neoplatonici presenti nelle pagine pareysoniane (Proclo62, Dionigi, Meister Eckhart63), è a Cusano che spetta un ruolo particolare, visto che nel suo ultimo corso universitario, tenuto nell’anno 1983, Essere e libertà. Il principio e la dialettica, egli lo indica come il filosofo 60. F. Tomatis, Ontologia del male, cit., p. 39. 61. Pareyson pensa che lo stesso Schelling sia filosofo della libertà in quanto compitore della riflessione plotiniana sulla libertà dell’Uno. Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 9. Pareyson tra le varie forme di neoplatonismo privilegia consciamente quello plotiniano e la sua dimensione protologica e fontale. Cfr. T. Ottobrini, Dell’estasi razionale, cit., p. 7. Massimo Cacciari ha sottolineato come l’ontologia della libertà si avvicini al neoplatonismo cristiano, in particolare alla sua lettura della creatio ex nihilo, secondo la quale Dio crea tutte le cose dal fondo abissale della libertà divina. Nello stesso saggio Cacciari nota come Pareyson usi la metafisica neoplatonica nella direzione di una possibile radicalizzazione dell’ermeneutica heideggeriana, nel tentativo di proseguire la critica all’onto-teo-logia. Cfr. M. Cacciari, Pareyson e la domanda fondamentale, in «Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche», CXXVIII, 2, 1994, p. 62. Cfr. anche Id., Ontologia della libertà. Osservazioni preliminari, in C. Ciancio M. Pagano (a cura di), Il pensiero della libertà. Luigi Pareyson a cent’anni dalla nascita, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 15-24. 62. Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 171. A Proclo Pareyson riconosce una più adeguata concezione del male rispetto a Plotino. 63. Cfr. L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, cit., p. 155. Di Eckhart Pareyson dirà che è colui che avrebbe colto più di ogni altro quell’atmosfera di gratuità che regna nelle profondità divine, là dove la nullità e l’unità dell’origine si manifestano come libertà. I nomi di Meister Eckhart e di Cusano ricorrono in alcune pagine di Prospettive di filosofia moderna e contemporanea dedicate alla recensione del testo di A. Klein, Meister Eckhart. La dottrina della giustificazione, Mursia, Milano 1979: cfr. L. Pareyson, Prospettive di filosofia moderna e contemporanea, in Id., Opere complete, vol. XVI, a cura di F. Tomatis, Mursia, Milano 2017, pp. 564-565.
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che, insieme ai mistici, ha ripreso la speculazione plotiniana sul principio64. Cusano è annoverato, insieme a Plotino, tra quei rarissimi pensatori capaci di misurarsi con l’abisso, tradizionalmente appartenente al dominio extrarazionale della mistica, restando fedeli ai metodi e agli strumenti della filosofia e di dargli voce all’interno di un discorso di natura filosofica65. Secondo Pareyson, Plotino è stato il primo a criticare l’idea aristotelica di un fondamento stabile del mondo ponendo al suo posto quella di un principio pensato come abisso, a cui il filosofo greco dà il nome di Uno. L’abisso plotiniano però non è un vuoto, ma un pieno da intendersi “forse” come fonte, scaturigine, origine inesauribile. Per differenziarlo rispetto al molteplice empirico Plotino usa il termine “Uno”, senza però intendere il principio solo come il termine di una relazione oppositiva con gli enti. Infatti, se il principio viene inteso semplicemente come in contrasto, in opposizione, in contraddizione con gli enti, si finisce per includerlo all’interno di una relazione in cui è posto a livello degli enti, sul loro stesso piano66. Il carattere abissale del principio mette capo a una contraddizione, a un paradosso che secondo Pareyson è da spiegare, ma non annullare o comporre67. Il principio è nulla, è negazione, ma allo stesso tempo principio: porre il nulla come principio significa far coincidere posizione e negazione68. Secondo Pareyson il principio non deve essere niente di quello che gli enti sono altrimenti non potrebbe esserne la fonte. Pareyson afferma la trascendenza assoluta del principio rispetto agli enti 64. L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, cit., p. 26. 65. Cfr. T. Ottobrini, Dell’estasi razionale, cit. 66. Per un’introduzione alla concezione plotiniana dell’Uno, cfr. A. Magris, Invito al pensiero di Plotino, Mursia, Milano 1986, pp. 93-118, 175-180. 67. Cfr. ivi, p. 30. 68. Cfr. ivi, p. 34.
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esprimendola negativamente attraverso la concezione del principio come quell’abisso che è il nulla da cui escono tutte le cose. Tuttavia, allo stesso tempo, il principio per essere fonte deve possedere tutto ciò che è necessario per spiegare l’essere e il mondo. La contraddittorietà del discorso sul principio consiste nel suo essere, da un lato, il nulla assolutamente indeterminato, al di là dei singoli enti e della totalità di essi, al di là dell’essere, ma allo stesso tempo nell’essere in relazione con gli enti, con la totalità degli enti, con l’essere che deve spiegare e con cui deve avere un rapporto69. Bisogna pertanto che il principio paradossalmente sia al tempo stesso tutto e nulla, assimilabile a tutto e partecipabile a tutto, eppure al medesimo tempo al di fuori di tutto e dissimile da tutto70. Il principio non deve solo essere opposto agli enti, ma anche irrelativo rispetto ad essi, ossia al di là dell’opposizione con qualsivoglia realtà. Affinché la trascendenza del principio rispetto agli enti sia serbata, si deve pensare l’irrelatività del principio come fondativa della stessa possibilità della relazione intesa come opposizione. Secondo Pareyson, solo ciò che è irrelativo agli enti può fondare l’opposizione tra lui stesso e gli enti. Forse è questo passaggio dalla trascendenza assoluta alla relazione che rende possibile il passaggio dall’Uno ai molti, dal nulla all’essere, dal principio agli enti. Forse l’irrelatività del principio è il fondamento dell’opposizione71.
69. Cfr. ivi, pp. 35-36 70. Cfr. ivi, p. 36. Pareyson riporta alcune espressioni plotiniane, cfr. ivi, pp. 42-43. 71. Pareyson ripete ossessivamente «forse». Cfr. L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, cit., pp. 24-25. Il ripetersi quasi ossessivo dei “forse” cerca probabilmente di dare voce alla difficoltà che il pensiero si trova ad affrontare quando cerca di parlare del principio obbligandosi ad esprimersi o attraverso immagini, simboli, cifre oppure, come in questo caso, attraverso concetti estremamente astratti. Cfr. ivi, p. 37. Con i suoi “forse”, Pareyson sembra
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L’ultima grande opera di Pareyson, l’Ontologia della libertà – a cui l’autore attendeva prima negli ultimi anni della sua vita e pubblicata postuma nel 1995 amplia notevolmente le prospettive storiografiche del suo pensiero. Se, precedentemente, le sue ricostruzioni storiografiche della filosofia moderna ruotavano attorno alla dissoluzione dell’hegelismo, visto come evento centrale e dirimente, con cui la filosofia contemporanea doveva imprescindibilmente misurarsi, si affaccia ora una prospettiva storiografica del tutto nuova: l’interpretazione della filosofia moderna come tentativo di elaborare una filosofia della libertà, che resta tuttavia un progetto latente e incompiuto a causa delle tendenze filosofiche necessitaristiche e razionalistiche dominanti e maggioritarie. In altri termini, secondo Pareyson, la filosofia moderna si caratterizzerebbe per aver per la prima volta affrontato veramente il problema della libertà, senza però averlo sviluppato e approfondito perfettamente sino ad elaborare una compiuta filosofia della libertà a causa del filone necessitaristico che sin dall’inizio la percorre72. La visione pareysoniana della storia della filosofia moderna è bilineare73. Secondo Pareyson, il punto di partenza del pensiero moderno sarebbe il neoplatonismo rinascimentale da cui si genererebbero due grandi filoni: quello della filosofia della libertà e quello della filosofia della necessità, o dell’essere74. All’origine di questa ambiguità ci sarebbe la duplice ricezio-
fare eco alla riserva con Plotino procede nella sua trattazione del Principio quando, parlando della libertà e volontà dell’Uno, ammette che per parlare dell’Uno sarà costretto a servirsi di termini che sul piano critico non sarebbero adeguati e che pertanto essi vanno intesi come preceduti da un “per così dire”. Cfr. Plotino, Enneadi, VI, 8, 13. 72. Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 7. 73. Cfr. G. Riconda, Tradizione e pensiero, cit., p. 237. 74. Nel saggio su Heidegger, Pareyson contrappone filosofie dell’essere e filosofie della libertà: cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., pp. 439-
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ne del neoplatonismo, da un lato in direzione monistica, razionalistica e necessitaristica, con Spinoza e Hegel, dall’altro abbracciando un pensiero della trascendenza e della libertà, con pensatori come Pascal, Fichte, Schelling, Kierkegaard e gli esistenzialisti75. L’indicazione pareysonianana opera in direzione di una revisione delle tendenze storiografiche dominanti, sia di quelle di matrice illuminista, idealistica o empirista, sia quelle più recenti di matrice heideggeriana, a favore di una lettura più articolata della storia della filosofia in cui il neoplatonismo è chiamato a giocare il fondamentale ruolo di vero e proprio inizio della filosofia moderna76. Due gli spunti storiografici e teoretici cusaniani di Pareyson: da un lato, l’idea che il neoplatonismo sarebbe agli albori della filosofia moderna, soprattutto con la filosofia di Nicolò Cusano, dall’altro, la sua convinzione che il concetto centrale del neoplatonismo sia quello di Dio come libertà77. La doppia intuizione di Pareyson permette un’ermeneutica nuova dei testi cusaniani: una lettura attenta a individuare e ricostruire le tracce di una filosofia o meglio henologia della libertà che, presente in nuce nelle prime opere speculative, viene decisamente approfondita ed elaborata da Cusano nei testi degli ultimi anni.
462. Sul tema, cfr. G. Riconda in Giornata pareysoniana, in «Annuario filosofico», 12, 1996, p. 12. 75. Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 9. 76. Claudio Ciancio ha notato come rileggendo le pagine paresyoniane dedicate a questa nuova interpretazione della filosofia moderna venga da chiedersi se e in che senso Cartesio rappresenti ancora un punto di svolta. Cfr. C. Ciancio, Introduzione al convegno, cit., pp. 33-37. 77. Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 7.
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Secondo Pareyson, nella sua critica alla concezione di un fondamento stabile, a Plotino spetta anche il merito di essere stato il primo pensatore ad essersi posto il problema dell’autoposizione di Dio e pertanto la questione del cominciamento del principio stesso, dell’essere prima dell’essere78. Pareyson non esita ad affermare che il principio plotiniano è libertà79, una libertà così pura e originaria da essere al di là anche dell’intenzionalità80. Secondo la lettura pareysoniana, attribuendo come fa Plotino al Principio il carattere della libertà, la possibilità stessa di una fondazione viene meno e si apre la via alla vertigine dell’abisso che porta all’affermazione secondo cui la realtà, essendo perché è, è senza fondamento81. L’Uno non è pensato come l’essere della metafisica, come il fondamento, né ridotto a ente, seppur il primo e il sommo della catena, ma come fondamento senza fondamento, abisso, differenza assoluta. Plotino non solo si sarebbe posto il problema dell’eteroproduzione, ossia della fondazione di tutte le cose da parte del Principio, ma il problema dell’autoproduzione dell’Uno, ossia della sua stessa autoposizione. Si tratta di un problema che nell’orizzonte della metafisica classica era assurdo in quanto il principio primo essendo incondizionato non può essere messo in questione, né era posto dalla Bibbia; invece, Plotino non solo si chiede perché e come dall’Uno i molti? Ma più a fondo: perché l’Uno stesso è quello che è. Si tratta di una questione che, dopo Plotino, troverà in Cusano un deciso approfondimento trinitario. Riprendendo e approfondendo la concezione dina78. Cfr. ivi, p. 39. 79. Cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 29; Id., Essere libertà ambiguità, cit., pp. 44,50, 89. Anche se, come ammette Pareyson, in Plotino resta sempre un senso di inadeguatezza del linguaggio rispetto all’Uno: cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., p. 21. 80. Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., p. 38. 81. Cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona, cit., pp. 24-25.
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mica della Trinità come vita già di Giovanni Scoto Eriugena e, prima ancora, anche di Mario Vittorino e dei padri greci82, Cusano concepisce la Trinità come processo autocostitutivo dell’Uno. Un nome divino come quello di non aliud non ci mostra solo la libertà o volontà del Principio rispetto alla creazione, agli enti creati – esplicantesi nella sua capacità di definire tutte le cose – bensì anche e soprattutto, grazie alla sua triplice ripetizione autodefinitoria non aliud est non aliud quam non aliud, l’ancora più originaria e abissale libertà o volontà del Principio di autocostituirsi83, per cui non solo Dio si conosce trinitariamente, ma si costituisce trinitariamente84. I testi di Plotino e di Cusano diventano lo spazio teoretico di un’interrogazione che mostra la possibilità di pensare in modo radicalmente diverso il principio metafisico: tenendo insieme la paradossale coincidenza di immanenza e trascendenza dell’Uno e pensandolo come fonte, sorgente, volontà, dynamis, è possibile sporgersi oltre la concezione del principio come fondamento stabile e necessario. Come chiarisce Pareyson, è Plotino il primo a concepire l’Uno come dynamis85, una potenza tale da creare sé stesso, il proprio stesso essere86, peghé87, fonte, sorgente o scaturigine. «L’unica cosa che si può dire dell’Uno è che è una dynamis, cioè una 82. Sul tema cfr. E. Vansteenberghe, Le cardinal Nicolas de Cues, cit., p. 296; W. Beierwaltes, Eriugena, cit., pp. 204-261 (tr. it. cit., pp. 231-290); Id., Identität und Differenz, cit., pp. 57-74 (tr. it. cit., pp. 91-110). 83. De non aliud, V, 17-19, pp. 13-14 (tr. it., pp. 1465-1469). 84. Cfr. D. Monaco, Deus Trinitas, cit., pp. 315-318; Id., Trinità e Inizio nel pensiero di Nicolò Cusano, in «Filosofia e teologia», XXV, 3, 2011, pp. 583-594. 85. Sull’Uno come dynamis in Plotino cfr. L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, cit., p. 41. 86. Cfr. ivi, p. 50 87. Cfr. ivi, p. 44; L. Pareyson, Ontologia della libertà, cit., pp. 134, 137-138.
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potenza»88. Tuttavia, Pareyson chiarisce come tale potenza non abbia nulla a che fare con la concezione aristotelica della potenza, come ciò che deve diventare atto, che si muove per attuarsi, piuttosto il suo atto è la sua potenza e la sua potenza è il suo atto. Si tratta di una concezione plotiniana che trova eco in Cusano e precisamente nel suo tentativo di pensare il principio come possest. Per Pareyson pensare l’originario come libertà significa conferire il primato alla categoria della realtà, perché se l’essere ha il suo principio nella pura libertà allora non è né necessario né possibile, ma è dono, elargizione gratuita e non predeterminata da nulla, nemmeno dalla potenza89. Tuttavia, qui Cusano sembra fornire spunti di riflessione diversi e ulteriori rispetto a quelli di Pareyson, capaci di permettere un approfondimento e sviluppo ulteriore. Cusano, approfondendo il tema della libertà divina attraverso l’idea del posse – slegando pertanto completamente il Principio dall’essere e dall’attualità a cui era legato con il precedente nome divino di possest – ripensa radicalmente il concetto di potenza, conferendo il primato alla categoria della possibilità piuttosto che a quella della realtà90. Non si pensi che Plotino o Cusano disegnino il perimetro speculativo all’interno del quale si muova la riflessione pareysoniana. Cosa aggiunge o modifica Pareyson dell’ontologia neoplatonica? Con Pascal e Kierkegaard, ma soprattutto con 88. Cfr. L. Pareyson, Essere libertà ambiguità, cit., p. 41. 89. Ivi, pp. 44, 80. Sulla centralità della categoria della realtà in Pareyson cfr. R. Šerpytytė, Realtà e negatività: Pareyson tra Heidegger e Gadamer, in «Annuario filosofico», 32, 2017, pp. 52-67. 90. Cfr. G. Santinello, Novità nel pensiero del tardo Cusano, in L. Hagemann - R. Glei (a cura di), En kai plēthos. Einheit und Vielheit. Festschrift für Karl Bormann zum 65. Geburtstag, Echter, Würzburg 1993, pp. 161-173; S. Mancini, La sfera infinita, cit., pp. 269-270; Id., Congetture su Dio, cit., pp. 103-164; D. Monaco, Act and Potency in Cusanus’ Later Thought, cit.
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l’ultimo Schelling, Pareyson innesta l’idea di una frattura ontologica, causata dalla positività e radicalità del male: il mondo non è più semplicemente una manifestazione del divino. L’ultimo Schelling con la sua idea di estasi della ragione, aprendo a una filosofia positiva, diventa l’anello di congiunzione tra neoplatonismo ed ermeneutica dell’esperienza di fede cristiana. La lettura pareysoniana è particolarmente interessante e originale perché suggerisce una lettura di Cusano che va oltre le maglie della storiografia dominante secondo la quale il nome di Cusano è accostato a quello di Proclo e di Dionigi. Pareyson invece sa cogliere come teoreticamente il pensiero cusaniano sia più affine a quello plotiniano che a quello di questi due autori, che pur costituiscono sue fonti imprescindibili. Il pensiero cusaniano andrebbe teoreticamente e topologicamente accostato non a quello di Proclo, dunque, con il suo tentativo di colmare tutti i vuoti attraverso mediazioni e gradi intermedi, né Dionigi con la sua celebrazione del silenzio contemplante e dell’alterità dell’Uno, ma a quello di Plotino con la sua idea di abissalità e libertà dell’Uno e la sua visione del carattere fontale e inesauribile del Principio.
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Indice
Abbreviazioni Introduzione Cusano tra neoplatonismo, differenza ontologica ed ermeneutica I Il Platone di Cusano. Una lettura neoplatonica 1. Cusano e Platone 2. La Repubblica: l’interpretazione cusaniana dell’analogia solare 3. Il Parmenide 4. Cusano critico di Platone II Cusano e il neoplatonismo nella lettura di Werner Beierwaltes 1. Immanenza e trascendenza dell’Uno nella tradizione neoplatonica 2. The Historical Understanding of the Social 3. La caccia al nome di Dio
p. 9
p. 13 p. 25 p. 25 p. 27 p. 42 p. 50
p. 57 p. 57 p. 66 p. 76
III La potenza che non è preceduta dall’atto 1. Premessa 2. Il De possest 3. Creatio ex nihilo 4. Deus absconditus
p. 91 p. 91 p. 94 p. 102 p. 111
IV Inesauribilità, abissalità e libertà dell’Uno. Pareyson, Plotino e Cusano 1. L’ontologia dell’inesauribile 2. Abissalità e libertà dell’Uno
p. 119 p. 119 p. 136
Bibliografia
p. 149
Zeugma
Lineamenti di Filosofia italiana | Proposte Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ
1. Francesco Valagussa, La scienza incerta. Vico nel Novecento. 2. Alfredo Gatto, René Descartes e il teatro della modernità. 3. Fabio Vander, Ortologia della contraddizione. Critica di Heidegger interprete di Aristotele. 4. Ernesto Forcellino (a cura di), Verità dell’Europa. 5. Lucilla Guidi, Il rovescio del performativo. Studio sulla fenomenologia di Heidegger. 6. Armando d’Ippolito, Arte e metafisica delle forme. Creazione. Crisi. Destino. 7. Guido Bianchini, L’inquietudine dell’Altro. Ebraismo e cristianesimo. 8. Pedro Manuel Bortoluzzi, Carlo Michelstaedter e la testimonianza della verità dell’essere. 9. Antonio Branca (a cura di), Possibilità. Dell’uomo e delle cose. 10. Federico Croci, Deus Terribilis. Quattro studi su onnipotenza e me-ontologia nel Medioevo.
11. Federica Buongiorno, La linea del tempo. Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl. 12. Giuseppe Pintus (a cura di), Figure dell’alterità. 13. Marco Martino, Il sistema dei bisogni di Hegel. Un possibile itinerario. 14. Maria Teresa Pansera, La specificità dell’umano. Percorsi di antropologia filosofica. 15. Massimo Donà - Francesco Valagussa (a cura di), Alterità e negazione. 16. Giuseppe Pintus (a cura di), Relazione e alterità. 17. Maurizio Maria Malimpensa, La scienza inquieta. Sistema e nichilismo nella Wissenschaftslehre di Fichte. 18. Marco Bruni, La natura divisa. Hans Jonas e la questione del dualismo. 19. Nazareno Pastorino, Destino ed eternità di tutti gli enti. L’opera di Emanuele Severino. 20. Massimo Adinolfi, Qui, accanto. Movimenti del pensiero. 21. Giuseppe Gris, L’escatologia del destino. L’apocalisse del linguaggio nell’opera di Emanuele Severino. 22. Michele Ricciotti, Provare l’Io. Julius Evola e la filosofia. 23. Valentina Gaudiano, La filosofia dell’amore in Dietrich von Hildebrand. Spunti per una ontologia dell’amore. 24. Silvia Dadà, Il paradosso della giustizia. Levinas e Derrida. 25. Giulio Goria, La filosofia e l’immagine del metodo. 26. Carmelo Marcianò, Essere epicurei. Divagazioni su Epicuro e noi.
27. Fabio Vander, Genesi e destino. Filosofia e onto-teologia del mysterium iniquitatis. 28. Massimo Villani, Time and History. Researches on the Ontology of the Present.
29. Massimo Villani, On Extension. Jean-Luc Nancy in the Wake of Hannah Arendt. 30. Raul Buffo, Pensare dal riconoscimento. Paul Ricoeur e il sapere come evento intersoggettivo. 31. Enrico Arduin, K. Bucefalo e i Cavalli del Dottore. 32. Davide Monaco, L’Uno senza fondamento. Cusano tra neoplatonismo ed ermeneutica.
Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 32 - Proposte
Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:
Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.
ISBN ebook 9788855294195
Il volume approfondisce, da un alto, il dialogo che Nicolò Cusano (1401-1464) ha intrattenuto con alcuni maestri della tradizione filosofica (come Platone, Aristotele, Proclo, Dionigi Areopagita, Giovanni Scoto, Eckhart) e, dall’altro, le riflessioni che alcuni pensatori contemporanei (in particolare Pareyson e Beierwaltes) hanno sviluppato nelle loro letture della sua opera. Intrecciando queste due dimensioni, il lavoro intende evidenziare le profondità teoretiche della speculazione cusaniana, sviluppando sia la felice intuizione di Luigi Pareyson, secondo cui il filosofo tedesco sarebbe tra quei pensatori che hanno elaborato una concezione dell’Uno come libertà, sia la tesi di Werner Beierwaltes, relativa all’eccedenza dell’henologia cusaniana rispetto a quella tradizione di pensiero che Heidegger ha denominato criticamente “onto-teologia”.
Davide Monaco è Professore associato di Filosofia Teoretica presso l’Università di Salerno. È stato borsista della Fondazione Alexander von Humboldt. Tra i suoi lavori principali: Religione e filosofia secondo Leo Strauss, Città del Vaticano 2018; Nicholas of Cusa. Trinity, Freedom and Dialogue, Münster 2016; Cusano e la pace della fede, Roma 2013; Deus Trinitas. Dio come non altro nel pensiero di Nicolò Cusano, Roma 2010; Gianni Vattimo. Ontologia ermeneutica, cristianesimo e postmodernità, Pisa 2006.
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