L'ultimo Dio. internet, il mercato e la religione stanno creando una società post-umana


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L'ultimo Dio. internet, il mercato e la religione stanno creando una società post-umana

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libelli vecchi e nuovi / 17 collana diretta da Enzo Marzo

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Paolo Ercolani

L’ultimo Dio

Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana prefazione di Umberto Galimberti

edizioni Dedalo

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La collana “libelli vecchi e nuovi” rappresenta la “biblioteca ideale” di “Critica liberale”, mensile della sinistra liberale pubblicato dalle edizioni Dedalo. [Fondazione Critica liberale, via delle Carrozze 19, 00187 Roma [email protected] – www.criticaliberale.it]

© 2012 Edizioni Dedalo srl Viale Luigi Jacobini 5, 70132 Bari www.edizionidedalo.it

Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

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A tutte le vittime dell’11 settembre 2001. E con loro a quelle venute prima e dopo il tragico evento!

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Ringraziamenti Un grazie enorme al Prof. Umberto Galimberti per i suoi pensieri e i suoi scritti, per averli discussi con me in una serata indimenticabile del 2007 e per aver acconsentito a impreziosire il mio lavoro con una sua autorevole prefazione! Grazie di cuore a Enzo Marzo, persona libera e alfiere di tante battaglie per la libertà di tutti! Un grazie fondamentale e vitale a Domenico Losurdo, il mio Maestro. Ringrazio di cuore anche il Prof. Massimo Baldacci, autorevole pedagogista e figura imprescindibile per chiunque abbia a cuore le sorti della formazione delle nuove generazioni. Alla Professoressa Nicola Panichi e, con lei che ne è illustre Direttore, a tutti i colleghi del Dipartimento di scienze dell’uomo dell’Università di Urbino «Carlo Bo». Un grazie importante va a tutti gli studenti dell’Università di Urbino e di molti altri atenei, per aver acconsentito a confrontarsi con me su questi temi così complessi. A Giovanni Lani e, con lui, alla cara memoria di Paolo Nonni. A Simone Moretti, Flavio Orazi, Loretta Liera e Giuseppe Davide Galli, amici di una vita! Ad Anita, Chiara, Lucio, Milena e Nella, la mia famiglia. Infine a Sara Giovagnoli (e Muttley), con amore!

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Prefazione

di Umberto Galimberti

Quando mai gli uomini sono stati soggetti della storia? Forse mai, con due eccezioni: l’epoca dei Greci antichi e l’epoca illuministica. Anche i Greci erano dominati da una figura meta-storica che si chiamava «Necessità (Anánke)», ma questa figura serviva loro per prendere coscienza dei limiti umani, sigillati da quell’evento che si chiamava morte. «Mortali» essi chiamavano gli uomini, e così scandivano la vicenda biografica e storica sul ciclo della natura, sfondo immutabile di ogni vicenda umana. L’Illuminismo è stato scolpito dall’enunciato kantiano «Sapere aude (Abbi il coraggio di far uso del tuo intelletto)» senza farti dirigere, nella conduzione della tua vita, da precetti religiosi (Glaube) o consuetudini superstiziose (Aberglaube). Ai Greci non possiamo ritornare, e l’Illuminismo, nonostante siano trascorsi ormai due secoli, ancora stenta a farsi strada. E così la storia, che l’uomo assume come suo teatro, anzi come sua essenza che lo distingue dal mondo animale, fatica ancora a vedere l’uomo come soggetto, perché istanze meta-storiche ancora la governano. Meta-storica fu nel Medioevo l’idea di Dio che, a partire da Agostino e per tutto il Medioevo, concedeva all’uomo quello spazio subordinato che era «la città terrena formata da uomini che vogliono vivere secondo la carne, differenza della città celeste abitata da quelli che vogliono 7

vivere secondo lo spirito. […] La vera giustizia è solo in quello Stato, se pure si può chiamare così, fondato e retto da Cristo». Meta-storica fu nel Seicento la scienza matematica che, prima con Cartesio e poi con Leibniz, assegnò a Dio persino le procedure dalla creazione: «Cum Deus calculat, fit mundus». Dalla scienza alla tecnica, il passo fu breve. E tecnica divenne anche l’economia di mercato, calcolabile con i due assi cartesiani della domanda e dell’offerta. La tecnica esprime il massimo della razionalità che consiste nel raggiungere il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi. Una razionalità che oltrepassa la stessa razionalità economica, perché questa soffre ancora di una passione umana che è la sete di profitto, da cui la tecnica si esonera. Paolo Ercolani, in questo suo libro ricco di intuizioni, chiaro nell’esposizione, dalla lettura scorrevole e suggestiva, prende in esame le figure meta-storiche contemporanee che ancora non consentono all’uomo di essere soggetto della storia. Esse sono nell’ordine la religione, con cui gli uomini cercano di proteggersi dalla precarietà della loro esistenza; la tecnica che non tende a uno scopo, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità, ma semplicemente funziona, avendo in vista unicamente il proprio autopotenziamento; l’economia globalizzata che mai come oggi fa sorgere la domanda che il filosofo Franco Totaro si pone: «I fini dell’economia sono anche i nostri fini?»; e da ultimo quel dilagare del virtuale che di giorno in giorno divora lo spazio del reale. La tecnica erode progressivamente il trono di Dio, non tanto perché gli uomini, grazie alla tecnica, possono ottenere da sé quel che un tempo chiedevano a Dio, ma perché, coordinando i mezzi al presente disponibili ai fini da realizzare nell’immediato futuro, la tecnica contrae la temporalità nel breve intervallo che corre tra l’oggi e il domani, rendendo la psiche umana incapace di pensare a tempi 8

escatologici dove, nell’ultimo giorno, si realizza quello che all’inizio era stato promesso. Ciò nonostante, l’insensatezza dell’accadere tecnico che, come notava Pier Paolo Pasolini, conosce solo lo sviluppo che non coincide necessariamente con il progresso, priva l’uomo di quell’orizzonte di senso, che nell’età pretecnologica era garantito dalla fede religiosa. E siccome l’uomo sembra non possa vivere in una totale assenza di senso, la meta-storia descritta dalla religione non cessa di governare un’umanità che, dopo la morte di Dio, continua a cercare quel senso che Dio garantiva. Come espressione della massima razionalità, la tecnica concepisce gli uomini come semplici funzionari dei suoi apparati che descrivono e prescrivono le azioni da compiere, con una cogenza di gran lunga superiore alla cogenza della morale perché, a differenza della morale, la tecnica, per effetto dei suoi supremi valori che sono l’efficienza e la produttività, non prevede il perdono, ma l’espulsione dall’apparato che, in una società tecnicamente regolata, equivale a un’esclusione sociale. Reificando l’uomo e trattandolo alla stregua delle cose (res), la tecnica trasferisce l’identità nella funzione, risolve la libertà individuale nella libertà di ruolo, capovolge il rapporto dell’uomo con la natura, riducendo quest’ultima a materia prima a disposizione della tecnica; vanifica la politica trasferendo il potere decisionale all’economia, i cui investimenti sono decisi dalle innovazioni tecniche; rende impotente la morale che solo in modo patetico può chiedere alla tecnica che può di non fare ciò che può; e con tutta probabilità determina la fine della storia, perché non si può chiamare «storia», ma semplicemente «tempo», un processo che avviene al di fuori di ogni orizzonte di senso. In una santa alleanza con l’economia globalizzata, la tecnica eleva il denaro a generatore simbolico di tutti i valori, per cui nulla più sappiamo di cosa è buono, cosa è bello, cosa è giusto, cosa è vero, cosa è sacro, ma unica9

mente cos’è utile, con conseguente visualizzazione dell’uomo a partire dall’efficacia delle sue prestazioni. Si porta così a compimento l’estinzione del pensiero ridotto, come giustamente annota Heidegger, a ragione calcolante (Denken als Rechnen), la più idonea a regolare i rapporti tra gli uomini, ridotti a semplici titolari di interessi, che si incontrano non più in base a rapporti personali, ma a quei rapporti oggettivi che li prevedono come semplici rappresentanti di beni da produrre, vendere e consumare. Il tutto velocizzato da quella realtà virtuale che abolisce lo spazio e il tempo, rendendo vicine le distanze e immediate le comunicazioni. Rifornendo gli individui di mondi possibili, di identità proteiformi e di scelte sempre reversibili, la virtualità instilla una sensazione di onnipotenza, che in realtà è una forma di dipendenza, di cui ci si rende conto solo in occasione di qualche guasto tecnico, che ci fa toccare con mano che il mondo che ritenevamo fosse a portata di mano d’improvviso scompare. Ma anche in questo caso invochiamo di nuovo la tecnica, affinché ci restituisca in artificio quel mondo che, con tutte le sue possibilità virtuali, ci fa dimenticare che siamo stati deprivati del mondo naturale, e ormai anche della possibilità di abitarlo. Siamo dunque nell’epoca del post-umano che già Spengler, Weber, Heidegger, Jaspers, Anders nel secolo scorso avevano segnalato. L’effetto è che, come nel mito gnostico, gli uomini conducono una «vita straniera» perché estranea a se stessi. Gli Arconti che presiedono l’heimarmene, la gabbia razionale con cui hanno ordinato il mondo, fanno dimenticare alle anime perse nel mondo il loro nome, al punto che quando Iddio, memore di loro, manda il Messaggero per richiamarle, questi ritorna e dice: «Io le ho chiamate, ma loro hanno dimenticato il loro nome». Gli Arconti del nostro tempo sono per Paolo Ercolani, la religione, la tecnica, l’economia globalizzata e la virtualità, che più non consentono agli uomini di esprimere una propria storia personalizzata, perché ridotti a interpre10

ti della storia degli apparati, rispetto alla quale, gli uomini d’oggi sono diventati, per usare un’espressione di Günther Anders, «co-storici», in attesa di diventare «a-storici». Paolo Ercolani, pur mantenendo uno sguardo lucido sulla realtà del nostro tempo, non inclina al pessimismo, ma intravvede la riscoperta di un nuovo umanesimo che sappia rimettere in circolazione «l’intelligenza, la critica, la conoscenza, la sensibilità, l’autonomia della persona», che sembrano in via d’estinzione in quest’epoca da lui giustamente definita «post-umana», perché forse, a differenza di quanto pensava Heidegger, il Terribile non è ancora accaduto.

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Prologo Il mito non nasconde né rende manifesto alcunché. Esso deforma. Il mito non è né una menzogna né una confessione. È un’inflessione. Ronald Barthes 1957: 215.

Cosa potrà mai accomunare tre realtà così importanti ma diverse, fin dalle fondamenta, come il mercato, la religione e la Rete, al punto da scriverci sopra un libro con la pretesa dell’unitarietà? Perché affrontare insieme, nelle loro interconnessioni e reciproche influenze, tre veri e propri «miti» dell’epoca contemporanea, capaci di estendere la loro influenza in ogni anfratto del mondo umano? Potremmo cavarcela con una risposta filosofica, magari parafrasando il celebre enunciato di Terenzio, e affermare che l’elemento unitario è proprio l’uomo, rispetto al quale nulla di ciò che concerne il mondo umano è alieno. Ma non basterebbe. Occorre andare oltre, perché certamente è la nostra vita, la vita dell’uomo che riguarda e accomuna queste tre «dimensioni», ma in un senso che, a causa delle conformazioni che hanno assunto nel mondo contemporaneo, può far parlare di annullamento dell’uomo, ossia della capacità che queste tre realtà assai diverse, ma mai come oggi confluenti, manifestano di configurare un «mondo» in cui le specificità dell’essere umano vengono gradualmente ma inesorabilmente derubricate e ridotte alla più ininfluente marginalità. Siamo entrati a tutti gli effetti in un’epoca in cui i meccanismi sociali dominanti hanno bisogno dell’uomo ma 13

non della sua umanità, in cui egli è uno strumento (per il profitto, per il potere) ma non un fine, e per ottenere ciò è necessario oscurare quanto più possibile le sue facoltà più individuali: la percezione, il pensiero, l’agire consapevole, la capacità critica, l’autonomia di giudizio, la sensibilità reale (contrapposta a quella artificiale e fittizia offerta dal mondo virtuale). Per ottenere questo risultato, i poteri globali più forti (economico, politico, religioso e tecnico) utilizzano l’influenza pervasiva e meticolosa di cui ai diversi livelli sono capaci il mercato, la religione e la Rete. Questo non vuol dire pretendere di accomunare queste tre entità all’interno di un giudizio negativo che, per di più, aspiri alla completezza. Non si sta parlando di queste tre dimensioni in senso assoluto e onnicomprensivo, ma piuttosto si è cercato di individuare e analizzare quelle dinamiche particolari che le riguardano e che al giorno d’oggi si rivelano largamente predominanti, perché finanziate e promosse da poteri che mai come in questo tempo, per ragioni in apparenza diverse, ritengono di avere bisogno di controllare, manipolare e quindi governare grandi masse di individui. Questi individui devono essere disposti a tutto, o quasi, pur di immolarsi in maniera acritica e quasi meccanica a un prodotto o a un dio, ma potremmo dire a un’ideale di vita che sia funzionale al perpetuamento e potenziamento dei pochi che detengono quei poteri. Non ci troviamo certamente di fronte a un fenomeno inaudito della storia, perché i rapporti fra il «potere» e coloro sui quali esso si esercita è sempre stato contrassegnato dai tentativi del primo, spesso riusciti, di subordinare e coartare la volontà e le azioni dei secondi. Ma a nostro avviso è nella nostra epoca, per ragioni storiche nonché per le innumerevoli e maggiori possibilità offerte dalle nuove tecnologie mediatiche, che esso per mantenersi in vita ed esercitarsi col massimo dell’efficacia richiede ai più vari livelli (economico, politico, religioso) l’annulla14

mento dell’uomo, la proiezione delle sue facoltà e dei suoi interessi in un «aldilà» che sia dato dalla provvidenza religiosa, dalla mano invisibile dell’economia o dal panteismo anarchico della Rete. Quanto meno l’uomo è padrone della propria identità di essere umano, quanto meno egli regola la propria vita sulla base dei suoi pensieri e desideri, dei suoi interessi e scopi, tanto più il potere è in grado di prendere in custodia la sua esistenza, rassicurandolo sulla bontà dei risultati resi possibili da un ordine superiore spontaneo e provvidenziale. Quanto più l’uomo si affida a questi ordini superiori, tanto meno si impegna fattivamente per migliorare la propria condizione e quella della società in cui vive, lasciando ai pochi che detengono il potere campo libero per poterlo esercitare in maniera sempre più incontrastata. Non è un caso che proprio nel Tractatus Theologicopoliticus, opera volta alla difesa della libertà di pensiero rispetto alle ingerenze del potere politico e religioso, da sempre in stretta connessione, il filosofo Spinoza affermasse che il fine ultimo dello Stato non è quello di dominare gli uomini o tenerli a freno per mezzo della paura, consegnandoli in questo modo alla tutela di un altro (un dio, un feticcio, un potere), né quello di trasformare gli uomini in bestie o «automi» (automata), bensì di fare in modo che la loro mente e il loro corpo svolgano le proprie funzioni in sicurezza e che essi possano servirsi di una ragione libera (Spinoza, 1670: 241-242). Ben lungi da questo fine ultimo enunciato dal pensatore olandese, invece, in questa epoca abbiamo a che fare non soltanto con il tradimento dell’ideale kantiano, quello di un consorzio umano che tratti l’uomo come un fine e non come un mezzo, ma siamo arrivati al momento culminante e più evoluto di quel «capovolgimento dei mezzi in fini» a cui si assiste quando la logica mercificante del mercato ha raggiunto un dominio assoluto e incontrastato sul mondo umano, mondo umano in cui non esistono quasi più (o sem15

pre meno) «rapporti immediatamente sociali tra persone, ma rapporti di cose fra persone e rapporti sociali fra cose», per citare la celebre espressione de Il capitale di Marx (Marx, 1867-1883: 105, v. I; Galimberti, 1999: cap. 35). Mai come nella nostra epoca le cose contano più delle persone e la vita stessa di queste, le loro scelte, le idee, le passioni, i propositi, la sensibilità, vengono incanalate all’interno di un ordine di senso che è l’ordine del mercato, che le riconosce e valorizza solo nella misura in cui possono produrre un profitto. È oggi che persino l’incontro di due anime perfettamente sconosciute, con tutto ciò che ne può conseguire, avviene sempre più spesso attraverso l’intermediazione di un’entità commerciale e impersonale quale è la Rete, con le sue dinamiche impregnate di una logica mercificante surrettizia e potentissima. È oggi che la bontà di una società si misura esclusivamente attraverso un misuratore impersonale e numerico come il Pil (prodotto interno lordo), senza minimamente considerare la qualità della vita delle persone che compongono quella stessa società, qualità che è data da elementi, possibilità e fattori che spesso nulla o quasi hanno a che vedere con la logica stretta del mercato e molto di più con la realizzabilità di propositi umani (WilkinsonPickett, 2009). Tutto questo è stato reso possibile dall’affermarsi inesorabile di un potere diverso da quello che abbiamo storicamente conosciuto. Se quello di un tempo aveva come caratteristiche fondanti la forza, la coercizione fisica e manifesta o tutt’al più la censura, nella nostra epoca il potere dominante si serve di mezzi assai meno evidenti, capaci di colpire e influenzare le menti, al limite spegnerle, senza neanche il bisogno di nascondere le informazioni con la censura, ma rendendole indecifrabili e quindi superflue grazie all’anarchia informativa della Rete, in cui il 16

caos delle informazioni ottiene il medesimo scopo dell’organizzazione capillare volta alla selezione occhiuta e censoria. Ecco perché un autore assai interessato alla libertà come Bertrand Russell, nel suo libro sul rapporto fra gli individui e il potere, da una parte denunciava come nelle società altamente organizzate vi è sempre la tendenza a ostacolare indebitamente le attività degli individui che vogliono e possono distinguersi, ma dall’altra teneva a sottolineare anche il rischio opposto, comunque a favore del potere e contro la libertà individuale: quello per cui «troppa poca libertà conduce alla stagnazione» tanto quanto «un eccesso di libertà conduce diritti al caos!» (Russell, 1949: 46-47). Se questo è vero per ogni ambito in cui si coltiva la pericolosa utopia della libertà assoluta, nella nostra epoca il caos di cui parlava Russell sembra rappresentato in maniera esemplare dalla Rete e, in generale, da un sistema informativo che tende a contenere tutto e il suo contrario, rendendo oltremodo faticoso al cittadino comune il discernimento tra il verosimile e l’inverosimile o, addirittura, il falso. Una dimensione, insomma, quella che ai giorni nostri concerne l’informazione e la comunicazione, che somiglia sempre più a un luogo in cui le poche notizie vere si fondono e confondono col magma infinito di invenzioni e sciocchezze, pettegolezzi, opinioni di persone spesso incompetenti, chiacchiericcio e distrazioni varie, incarnando quel mondo «rovesciato» di cui parlava Debord, in cui «il vero è un momento del falso e il falso un momento del vero» (Debord, 1967: § 9). Sempre più i cittadini, le persone «normali», hanno oggi a che fare con un potere mai così pervasivo ma che, contemporaneamente, ama nascondersi. Ed è proprio da nascosto, sul terreno viscido e indecifrabile della segretezza, che riesce a spargere i propri frutti avvelenati. Mai come oggi, insomma, gli arcana imperii confinano con il «mistero della fede», perché il potere nascosto è il più influente e 17

pericoloso, come quello di un dio a cui si riconduce ogni cosa senza che sia possibile rintracciarlo in alcuna cosa. Ed è grazie alla straordinaria evoluzione delle tecnologie mediatiche che questo potere è detenuto da chi «conosce le intenzioni altrui ma non lascia conoscere le proprie», alla stregua di un dio «che è onnipotente proprio perché è l’onniveggente invisibile», per richiamare le riflessioni quanto mai profetiche di due esperti del rapporto fra potere e popolo come Canetti e Bobbio (Canetti, 1960: 353; Bobbio, 1999: 354). Si tratta di un potere certamente terreno, che però aspira sempre più a configurarsi come un dio terreno, che alla maniera delle divinità narrate dai miti fondativi della civiltà cristiana vuole evitare ad ogni costo che l’uomo giunga a quella conoscenza che è in grado di emanciparlo dalla tutela di entità superiori o ritenute tali. Non più il Dio freddo descritto da Aristotele, quel primo motore immobile che è incurante delle faccende umane in quanto «intelligenza che pensa se stessa», «impassibile e inalterabile», ma certamente una divinità che ci ama e protegge soltanto nella misura in cui riconosciamo che solo in lei risiede la sapienza, senza lasciarci trarre in errore dalla «filosofia» e dai «vuoti allettamenti» propri della tradizione umana e di questo mondo ma «non conformi a Cristo», come scriveva Sant’Agostino nelle Confessioni. Una divinità che ci considera figli suoi fintantoché gli uomini non coltivino «sogni di grandezza» né si compiacciano della loro sapienza e, in questo modo, siano:

Sottomessi alle autorità preposte, perché non si dà autorità non istituita da Dio e quelle esistenti sono da lui stabilite. Di conseguenza chi si ribella all’autorità, si ribella alla disposizione di Dio», e per questo subirà l’inevitabile condanna, secondo le parole di San Paolo1. 1 ARISTOTELE, Metafisica: XII,7, 1072 b20 e 1073 a10; S. AGOSTINO, Confessiones: 3,4; LA BIBBIA, Giobbe: XII,13, Lettera ai Colossesi: II, 8 sgg.; Lettera ai Romani: XII,16 e XIII,1-2.

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Suscita più di un motivo di riflessione il fatto che la stessa «inevitabile condanna», nella tradizione greca, fosse stata inflitta a Prometeo, colpevole di aver donato all’uomo quelle arti demiurgiche che gli avrebbero consentito di dare vita alla città dell’uomo, a uno spazio autonomo dalla tutela della divinità. E fa ancora più riflettere che Eschilo, nel Prometeo incatenato, lasciasse al «Potere» (Chratos), a riprova del fatto che è anzitutto una questione di potere, il compito di motivare la condanna inflitta al titano filantropo, accusato di non aver imparato ad accettare «il potere assoluto di Zeus» e di non essersi così piegato alla realtà per cui «nessuno è libero all’infuori di Zeus» (Eschilo, Prometeo incatenato: vv. 8-10, 49-50). La stessa brama di conoscenza e di esperienza coraggiosa del mondo e dell’ignoto che aveva caratterizzato Ulisse, che per questa ragione Dante aveva situato all’Inferno insieme al suo compagno di avventure Diomede, entrambi costretti al «martirio» per via della «punizione divina». Caso unico nell’Inferno dantesco, persino Virgilio si rivolge con profondo rispetto nonché stima al nobile Ulisse, che con orgoglio sommo rivendica «l’ardore a divenir del mondo esperto», fino al celebre apologo di una certa condizione umana che non si rassegna a piegarsi all’ignoranza e alla passività in cui vorrebbe relegarla il potere: «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri, Inferno: vv. 97-98, 118-120). Se per secoli è stata la visione della divinità trascendente e gelosa della propria sapienza a dominare, una visione di cui si è avvalso il vero potere terreno (la Chiesa), con lo svilupparsi dell’economia e della scienza (intese anch’esse in maniera religiosa, con tanto di fede nelle virtù salvifiche, taumaturgiche e ireniche dell’«ordine spontaneo» o del «progresso»), ci si è gradualmente spostati su un piano diverso: quello di una divinità immanente, terrena, che per certi versi è persino creazione dell’uomo e da questi con19

trollabile e padroneggiabile, anche se questa facoltà è propria soltanto di quei pochi individui che a vario titolo governano l’economia e la tecnica. Il punto vero, che costituisce poi l’oggetto e il collante di questo libro, è che se confidare in una divinità provvidenziale trascendente, cioè situata in un Aldilà, può influire in maniera più o meno forte sulla condotta della vita degli uomini, affidarsi invece a una forma di Provvidenza o divinità terrena equivale ad abdicare al mestiere di vivere, privarsi di quella dignità di uomini altamente celebrata dal Prometeo di Eschilo e dall’Ulisse di Dante e, alla fine, spogliarsi dell’identità di uomini intesi come soggetti coscienti e conoscenti, autonomi e responsabili. Spogliarsi di questa identità significa vestire quella degli «automi», di incauti e inconsapevoli veneratori della «religione cibernetica di carattere mercantile» descritta da Erich Fromm in Avere o essere?, in cui l’uomo «ha fatto di se stesso un dio avendo acquisito la capacità tecnica per una “seconda creazione” del mondo, sostituendo la prima creazione da parte del Dio della religione tradizionale». È l’epoca in cui «abbiamo fatto della macchina un dio, e ci siamo resi simili a dio servendo la macchina», o, per dirla con le parole inquietanti di Fromm, è l’epoca in cui «gli esseri umani, nella condizione della loro più grande impotenza effettiva si immaginano onnipotenti in virtù della connessione stretta con la scienza e la tecnica» (Fromm, 1976: 124-125). Può sembrare un paradosso, ma è proprio oggi che abbiamo sviluppato in maniera impensabile il dono delle arti tecniche fatto all’uomo da Prometeo, che ne tradiamo come mai prima l’intenzione di fondo, quella di permettere al mondo umano di rendersi autonomo da tutele superiori e trascendenti. Si tratta forse dell’istinto atavico dell’uomo a cercare un riferimento superiore, un padre onnipotente che lo protegga dal male di esistere, ma fatto sta che proprio a par20

tire dal mito di Prometeo possiamo dire, con Vernant, che la creatura umana non ha retto alla separazione dal creatore divino, non ha accettato di non poter più sedere al banchetto degli dèi, cacciato dal loro mondo (a causa della sete di conoscenza) per essere relegato in quella situazione angosciante e foriera di cattivi presagi che è propria di chi non è né bestia né uomo: «Gli uomini preferiranno sempre disperare in ginocchio piuttosto che in piedi», secondo la caustica sentenza di Emil Cioran (Vernant, 2007, v. I: 859; Cioran, 1956: 931). L’essere umano incapace di autonomia? Non in grado di sostenere i colpi della sorte senza poter confidare in un’entità superiore? Forse è proprio così, perché è difficile spiegare altrimenti il fatto che anche nella dimensione in cui egli ha saputo sviluppare maggiormente il proprio potere sulla natura, la tecnica appunto, l’uomo cerca costantemente di ritrovare un’entità mitologica a cui votarsi anima e corpo. È tutto umano, insomma, il «bisogno psicologico o emotivo di un dio», al punto che ci dimentichiamo, vogliamo dimenticarci con tutte le forze che tanto una cosa può essere desiderabile quanto in realtà è falsa, e che spesso confondiamo la «credenza in Dio» con la «credenza nella credenza», come spiegato dallo scienziato evolutivo Richard Dawkins. Si tratta di un bisogno incessante e radicale, che riguarda anche coloro che hanno perso la fede o non l’hanno mai avuta, che poi sono quelli che devono fare i conti con la sfida tutta umana di «sostituirlo con qualcos’altro, se non esiste» (Dawkins, 2006: 352). In questi termini quasi nessuno, o forse proprio nessuno, è escluso da una dinamica del genere, né lo siamo noi uomini della contemporaneità, epigoni straordinari di Prometeo che, con la nostra capacità tecnica, ci siamo spinti ben oltre l’opera del titano, fino ad arrivare al punto di uccidere Dio per (illuderci di) sostituirci a lui. Eppure proprio noi che lo abbiamo ucciso siamo gli inconsolabili orfani del padre, viandanti alla disperata ricer21

ca della redenzione: «Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? […] Quali riti espiatori, quali sacre rappresentazioni dovremo inventare?», si chiede l’uomo folle descritto da Nietzsche ne La gaia scienza (Nietzsche, 1882: § 125). Quell’uomo folle, reso folle dalla consapevolezza di aver ucciso ciò che vi era di più sacro, quell’uomo folle siamo noi. Nel nostro tempo cerchiamo disperatamente questo dio, o un suo sostituto o anche surrogato, in qualunque cosa, che sia il progresso della tecnica, l’economia, la religione o la grande Rete di Internet. Si tratta di una sconfitta dell’umano che nasce anzitutto da quel grande rimosso della tradizione occidentale (soprattutto ma non solo) che è la morte. Un vero e proprio «rifiuto metafisico», come lo chiamava Cioran, di fronte all’unico avvenimento che davvero conti, ma che in realtà costituisce il fondamento di quella condizione emotiva per cui continuiamo a cercare miti, padri e divinità salvifiche in ogni dove, pur di non doverla guardare negli occhi. Auto-condannandoci a subire il dominio di sistemi di potere perfettamente in grado di fare leva su quella nostra condizione per piegarci ai loro voleri e interessi. È sempre Cioran a ricordarci che «tutto ciò che mira ad agire sull’uomo – ivi comprese le religioni – è viziato da un sentimento grossolano della morte» (Cioran, 1956: 965), e del resto lo possiamo notare anche nelle incredibili incongruenze della nostra vita quotidiana, al punto che il nostro amato animaletto domestico può abbandonarsi serenamente alla morte con l’ausilio di una semplice iniezione, mentre noi ci condanniamo a una potenziale sofferenza che ci fa patire il trapasso come un evento terribile e angosciante, in grado di influire su tutto il percorso della nostra vita a partire dal momento in cui diveniamo coscienti della nostra mortalità. Ma, paradossalmente, questa nostra atavica e reiterata rimozione della morte, il non voler fare i conti con essa per 22

affrontarla ad occhi (e ragione) aperti anche e soprattutto negli aspetti quotidiani della nostra vita, equivale a non vivere pienamente. Relegandoci al ruolo di cercatori disperati di sempre nuovi miti salvifici e consolatori, di entità onnipotenti capaci di non farci pensare alla morte, o di illuderci di poterla superare in qualche modo. Non sapendo che è proprio lì che ci condanniamo alla peggiore delle morti. Quella di non vivere. Una religione si instaura sul crollo di una saggezza: i raggiri messi all’opera da quella non si confanno a questa. Sempre gli uomini preferiranno disperare in ginocchio piuttosto che in piedi. Alla salvezza, sono la loro viltà e la loro fatica che vi aspirano, la loro incapacità di innalzarsi all’inconsolabilità e di scorgervi delle ragioni d’orgoglio. Si disonora chiunque muoia scortato dalle speranze che lo hanno fatto vivere. Émile Cioran, 1956: 931

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È perseguendo il suo proprio interesse che ogni individuo promuove frequentemente quello dell’intera società, ben più di quanto realmente faccia quando intenda promuoverlo effettivamente. Non ho mai saputo che sia stato ottenuto molto da coloro che ostentano di commerciare per il bene pubblico. Adam Smith, 1776: 456, v. I Gli esseri umani sono i più potenti strumenti di produzione e quindi ognuno è ansioso di utilizzare i servigi dei propri simili per incrementare il suo benessere. Di qui la sete intensa e universale di potere e l’odio altrettanto diffuso per la subordinazione. Infatti ogni uomo si scontra con una resistenza ostinata al proprio volere, e ciò genera naturalmente antipatia verso quegli esseri che vanificano o contravvengono ai suoi voleri. Jeremy Bentham, 1822: 75 Mettendo da parte gli innumerevoli artifici con cui compratori e venditori si imbrogliano a vicenda, che sono quotidianamente ammessi e praticati tra i commercianti più corretti, ditemi qual è quel mercante che abbia sempre rivelato i difetti dei suoi beni a coloro che tirano sul prezzo degli stessi; anzi, dove si possa trovare uno che qualche volta non si sia industriato a nasconderli, a danno del compratore? Dov’è il mercante che, contro coscienza, non abbia sempre magnificato le proprie merci ben oltre il loro valore per poterle piazzare al meglio?. Bernard de Mandeville, 1705-1729: 61, v. I

Il primo segno della corruzione dei costumi consiste nella messa al bando della verità […] La nostra verità di oggi non è data da ciò che è, ma da ciò di cui si riesce a persuadere gli altri. Michel de Montaigne, 1580-1588: 327, v. II

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Capitolo primo

L’innocenza del divenire

La favola cattiva: armonia umana, ironia della storia Prologo: Africa, 1898…

All’incirca nello stesso periodo (Primavera del 1898) in cui il generale piemontese Bava Beccaris veniva insignito di un’alta onorificenza da Umberto I, per aver represso con atroce violenza le folle di studenti e lavoratori milanesi che protestavano per la scarsezza del pane, per le impossibili condizioni di vita delle classi sociali più deboli e per ottenere maggiori diritti civili, provocando un centinaio di morti, in un luogo remoto della costa occidentale dell’Africa accadeva un episodio tanto minore quanto significativo. Ci si trovava all’apogeo della dominazione inglese di quelle terre ed etnie, con l’enorme Impero vittoriano impegnato nella gestione economica delle colonie. Il governatore inglese, un po’ per far dilettare i coloni compatrioti e un po’ per costituire un terreno in cui gli inglesi potessero manifestare la propria superiorità sui nativi, al di là dell’ambito militare e in un contesto in cui le medesime regole valide per tutti non lasciassero dubbi, decise di far erigere due campi da cricket, uno per ognuna delle fazioni. 27

Il fatto che il tipo di sport scelto per stabilire la superiorità di una delle due parti non appartenesse propriamente alla cultura africana, non contribuì a far sorgere il minimo dubbio nelle menti degli inglesi, tanto che le partite venivano viste alla stregua di test per stabilire le diverse capacità razziali e le vittorie dei sudditi della Regina celebrate come una trionfale conferma delle bizzarre teorie espresse da Carlyle. Sennonché un bel giorno accadde l’imprevisto. Sarà stata colpa del caldo, oppure avranno giocato un ruolo le medesime regole valide per entrambe le squadre, evento più unico che raro se dallo sport ci si spostava su altri campi, successe che la rappresentativa dei nativi sconfisse clamorosamente l’autorevole squadra inglese. Come conseguenza, in nome del rispetto delle regole uguali per tutti e del riconoscimento del migliore all’interno di una partita giocata ad armi pari, nonché del celebre e celebrato aplomb degli inglesi, il governatore dette l’ordine di interrompere le partite e smantellare immediatamente i due campi. Niente più cricket! Ironia della storia, not cricket è un’espressione idiomatica inglese con cui si denota la scarsa lealtà e sportività… (Hopkins, 1973: 256). L’ironia della storia è spesso in grado di smentire la facile armonia con cui gli essere umani sono soliti ammantare le proprie vicende, tanto che può rivelarsi sufficiente un episodio minore per smascherare e contraddire secoli di retorica e ipocrisia. Quella stessa retorica e ipocrisia che, per esempio, spinge il nostro Occidente liberale ad auto-raffigurarsi in maniera acritica come la culla della libertà, un luogo talmente pregno di cultura e prassi democratica da poterla esportare e contagiarne quelle etnie e civiltà che soltanto fossero disposte a lasciarsi illuminare (Canfora, 2007). In pochi altri casi come quello del libero mercato, poi, le armi della retorica si concentrano per confezionare il 28

ritratto di un Occidente in cui la considerazione della libertà individuale, unita al rispetto per le regole e alla presenza di uno stato che si limita a svolgere la funzione di arbitro, contribuisce in maniera determinante a fare della civiltà liberale il centro e l’apogeo del mondo sviluppato. Libertà, democrazia, rispetto delle regole, sviluppo pacifico conseguito grazie all’ordine spontaneo del mercato, costituiscono certamente dei tasselli fondamentali dell’identità occidentale, al punto che sarebbe sciocco e falso volerlo negare, ma servono poco a comprendere la storia qualora venissero usati per edificare una costruzione esclusivamente armonica. Parlare di ironia della storia, in tal senso, e stando molto attenti a tenersi lontano dai rischi di personificazione, teologizzazione o idolatria della stessa, equivale ad affermare che essa, ben lungi dal limitarsi a costituire un mero susseguirsi di fatti e vicende umane, rappresenta un terreno complicato e contraddittorio in cui tutti i campi dell’umanità possono trovare realizzazione e «spiegazione», ma anche un terreno minato in cui si manifestano fenomeni ambigui e conflittuali, che sono inscindibili dalla condizione esistenziale dell’uomo. Questo poiché la storia è una padrona di casa straordinaria, ospita tutto e il contrario, concede la ribalta a grandi eventi che edificano le vicende umane ma anche a immani tragedie che le umiliano e deturpano. Così accade che, non di rado, il confine tra eventi edificanti e grandi drammi umani è assai sottile, tanto che le parti possono invertirsi e i ruoli confondersi, all’interno di un turbinio di rivolgimenti che oscura la vista e indebolisce la distinzione tra positivo e negativo. Una rivoluzione condotta sulla base di condizioni oggettivamente gravose e drammatiche per un popolo, può finire col trasformarsi in un evento disumano e anti-umano. Ma anche una tradizione di pensiero, che magari costituisce il punto più alto dell’affermazione teorica della libertà indi29

viduale e dei diritti dell’uomo, può implicare schiavitù, discriminazioni, persino milioni di morti tra le fila di quegli esseri umani che vengono esclusi dalle categorie di «uomo» e «individuo», e così si vedono negati diritti e libertà individuali da chi su questi fondamenti ha costruito la propria civiltà. Ciò molto spesso, non sempre, malgrado le volontà e le intenzioni degli uomini stessi. Quasi che la storia si divertisse a raggirarci, con lo scopo di ricordarci che siamo noi gli ospiti, noi quelli che, volenti o nolenti, siamo esposti alla fine delle cose. Siamo noi a finire, non la storia. Di fronte a tutto ciò, possiamo indulgere all’ottimismo e pensare che essa, grande «tribunale del mondo», ci concederà di sapere, seppure alla fine di un percorso che può comportare sofferenze e perdite, quale sarà la «verità» che riuscirà a emergere per un periodo comunque limitato, perché al proprio interno essa conterrà già quegli elementi di dissoluzione per cui sarà sostituita da una verità nuova, anche se altrettanto precaria. Oppure possiamo abbandonarci al pessimismo più cupo e pensare che la storia, nella sua disarmante complessità, ci inganna continuamente su ciò che è vero e falso, salvo svelarci l’arcano, anch’esso instabile e provvisorio, solo dopo averci costretto a vivere eventi tragici di cui molti di noi possono non arrivare a vedere la fine. Di sicuro, però, non possiamo permetterci la visione «armonica» della storia (in greco antico il termine armonìa stava a indicare l’adattamento, il buon incastrarsi delle cose, la giusta corrispondenza delle parti con l’intero), quella in cui tutto si incastra, per cui le idee degli uomini possono, a vario titolo, fare a meno di contaminarsi col terreno viscido della materialità e della concretezza, di contaminarsi con la storia e da questa lasciarsi inevitabilmente modificare. Le grandi idee (che fossero politiche, scientifiche, filosofiche) sono sempre state modificate dal contatto con quel 30

turbine sconvolgente che chiamiamo storia. Nessuna di esse è uscita dal conflitto – o anche solo dal confronto – storico con le idee avverse (o semplicemente contemporanee) e con la realtà fattuale mantenendo integri gli assunti originari. Costituisce legge dura e inevitabile quella per cui ogni entità vivente, se vuole proseguire il proprio cammino, è costretta ad accettare la legge del mutamento e della contaminazione. Ecco allora che, se facciamo propria questa visione «ironica» delle cose (eironeía significava originariamente «dissimulazione», «finzione» o, in un senso estremo, «raggiro»), difficilmente possiamo pensare che i costrutti armonici che spesso e volentieri noi uomini elaboriamo per conferire senso alle nostre idee e azioni, alla nostra esistenza nella sua globalità, riescano effettivamente a imporsi sulla realtà senza conflitti e contraddizioni, senza che la fattualità storica intervenga per smentirci e raggirarci. In ambito di grandi teorie politiche e ideali filosofici, l’inveterata abitudine dell’uomo di credere alla favola prodotta dalla visione armonica della realtà, quella per cui all’applicazione rigorosa e incontaminata di certi assunti teorici dovrebbe immancabilmente far seguito la realizzazione di un mondo perfetto (il paradiso portato sulla terra di cui parlava Popper), non è stata estranea pressoché ad alcuna grande tradizione di pensiero, che si ispirasse a qualche religione, al marxismo o al liberalismo classico. Ma mentre nei primi due casi sono in pochi a nutrire dubbi, anche se in rapporto alla religione si tende a rimuovere gli esiti spesso violenti e coercitivi cui è pervenuto il cristianesimo nel corso della storia (concentrandosi ultimamente soltanto sulle forme di fondamentalismo aggressivo proprie dell’islam), ancora oggi rappresentano la maggioranza quelli che credono alla favola dell’Occidente liberale che si è sviluppato al di sopra di tutte le altre civiltà grazie alla rigorosa ed equanime applicazione della libertà 31

individuale e delle leggi del libero mercato. In virtù dell’esistenza di un meccanismo spontaneo e autoregolantesi, il mercato appunto, all’interno del quale:

Lo sforzo naturale di ogni individuo per migliorare la propria condizione, qualora lo si lasci agire con libertà e sicurezza, si rivela un principio così potente che da solo, e senza alcun aiuto, è capace di condurre la società alla ricchezza e alla prosperità (Smith, 1976: 540, v. 1).

La visione ottimistica che si poteva scorgere nelle parole testé citate di Adam Smith, per cui «ogni individuo» può raggiungere prosperità e ricchezza all’interno di quel «gioco» giusto, pacifico e neutrale che è il mercato, faceva il paio con le considerazioni altrettanto buoniste e armoniche espresse dal connazionale e contemporaneo David Hume, il quale, significativamente nel saggio Sul commercio, si lasciava andare a considerazioni secondo cui «un’eccessiva sproporzione fra i cittadini indebolisce ogni stato», aggiungendo che «ogni persona, se possibile, dovrebbe godere dei frutti del proprio lavoro, nel pieno possesso di tutte le cose necessarie e di molte di quelle che costituiscono delle comodità per la vita». Nessuno può dubitare, concludeva Hume, che «tale uguaglianza è la più conforme alla natura umana, e toglie molto meno alla felicità del ricco di quanto non aggiunga a quella del povero (Hume, 1752: 298). Se queste visioni classiche, del commercio come della competizione fra individui e lavoratori in genere, improntate sul ritenere il «campo da gioco perfettamente piatto» e la partita condotta da giocatori corretti e rispettosi delle regole comuni, potevano essere più comprensibili agli albori della rivoluzione industriale, oggigiorno risultano ingenue o ipocrite, poiché la storia ci ha consegnato l’immagine del mercato quale gioco in cui molti sono disposti a barare pur di predominare sugli altri e conseguire maggiori ricchezze. 32

Né sono autori di minore portata quelli che in tempi a noi più vicini ripropongono il ritratto armonico e favolistico sia del capitalismo sia della tradizione liberale tout court, che nel libero mercato ha sempre visto uno dei suoi capisaldi più importanti. È il caso di George Reisman, che nel suo monumentale lavoro sul Capitalismo si spingeva a raffigurare quest’ultimo come l’ambito in cui regnano «la libertà della competizione economica» e «un’armonia dei rispettivi interessi materiali di tutti gli individui che vi prendono parte» (Reisman, 1996: 19). Più enfatica ma sulla stessa falsariga la pensatrice russa, naturalizzata americana, Ayn Rand, la quale vedeva nello sviluppo delle istituzioni del capitalismo nientemeno che «la realizzazione del diritto dell’uomo alla vita», riferendosi in particolar modo al diritto di «realizzare tutte quelle azioni richieste dalla natura di un essere razionale in vista del sostentamento, dell’avanzamento, dell’appagamento e del godimento della sua vita» (Rand, 1964: 124-125). Non si tratta soltanto di letture della competizione economica in cui la forte componente conflittuale (con gli annessi dell’imbroglio e della prevaricazione) è pressoché taciuta se non rimossa, ma ci troviamo di fronte anche ad assunti generici e impersonali e, quindi, apparentemente estendibili a tutti gli individui (universalizzabili), a prescindere da distinzioni etniche o di altro tipo. Tale questione porta alla luce una contraddizione storica del liberalismo classico: da una parte, infatti, esso si è impegnato a teorizzare la centralità della «libertà individuale», intesa come la libertà essenziale, quella da cui tutte le altre prendono senso e forma, il «diritto di vivere a modo mio, di agire secondo il mio intendimento fintantoché non faccio del male a qualcuno o non lo impedisco nella sua libertà» (Faguet, 1902: 45); dall’altra parte lo stesso liberalismo classico non si è fatto scrupoli a non riconoscere, fino al XX secolo inoltrato, la patente di individuo a molte categorie umane, che de facto venivano discriminate sulla base 33

del censo, della razza o dell’appartenenza sessuale e, quindi, per stare alle parole dell’autore liberale appena citato, risultavano impediti nell’esercizio della loro libertà (Losurdo, 2005). È fin troppo evidente che, rimuovendo il dato dell’effettiva applicazione storica di determinati princípi, si può agevolmente darne per assodata la veridicità, fino a condurre gli intendimenti astratti alle conseguenze più coerenti e affermare con il premio Nobel per l’economia Fredrich A. Hayek, che:

La battaglia per l’uguaglianza formale, cioè contro ogni discriminazione fondata sull’origine sociale, sulla nazionalità, sulla razza, sul credo religioso, sul sesso, ecc., costituiva una delle più forti caratteristiche della tradizione liberale (Hayek, 1978: 142).

Ora, abbiamo visto come sia sufficiente un solo episodio, anche appartenente alle vicende minori della storia umana, per falsificare alla radice un impianto retorico che va avanti da secoli e che sparge a piene mani la favola del libero mercato paragonabile a una pacifica e sana competizione in cui tutti gli atleti, fatto salvo il rispetto delle regole comuni, sono liberi di giocare la propria partita e aspirare alla meritata vittoria. La storia non è una favola, scritta in maniera definitiva e immutabile per soddisfare i cultori di una morale o di un credo ideologico, essa è un contenitore infinito di contraddizioni e conflitti imprevedibili, spesso destinati a smentire le perfette costruzioni della mente umana; è esposta al cambiamento tanto repentino quanto costante, così da non consentire interpretazioni univoche e manichee di alcun elemento che la abita. La storia è sempre pronta a smentire noi e tutte le nostre favole, buone o cattive che siano. Anche domani, anche fra un attimo. Raccontare e raccontarci favole può produrre lo stesso effetto che con i bambini è auspicabile tanto quanto con gli 34

adulti sarebbe da evitare: farci addormentare di un sonno che, come affermava qualcuno, produce mostri.

L’armonia prestabilita

L’idea di fondo, che permea fin dalle fondamenta tutto l’impianto della teoria liberista, consiste nella convinzione che il libero mercato finisce sempre col produrre una benefica armonia tra gli interessi degli individui in competizione e il bene comune della società. Tanto più, insomma, i singoli competitori sono lasciati liberi di perseguire i propri scopi all’interno di quell’agone concorrenziale che è il mercato, non intralciati in ciò dalla nefasta intromissione del governo e del potere politico in genere, tanto più ciò comporterà la naturale emersione di meccanismi spontanei e invisibili che, in maniera pienamente armonica, finiranno col coordinare gli interessi di tutti producendo inevitabilmente un aumento della ricchezza collettiva. In questo modo, evidentemente, si è ritenuto di individuare un terreno in cui la naturale inclinazione umana all’egoismo e alla cura dei propri interessi, non soltanto potesse trovare pieno dispiegamento seppur all’interno di regole prestabilite, ma si rivelasse anche prolifica ai fini dell’avanzamento e dello sviluppo della comunità umana nel suo insieme. Potremmo anzi dire che fosse indispensabile trovare una dimensione che valorizzasse in qualche modo il self-interest, in un’epoca, quella della teoria economica moderna ai suoi albori, in cui i grandi moralisti, a cominciare da quell’Adam Smith che applicava la propria filosofia morale all’economia, erano per lo più concordi nel ritenere «l’amore di sé» un principio che non può mai essere virtuoso in nessun grado o direzione, ma che addirittura si rivela «vizioso» qualora ostacoli il «bene comune» (Smith, 1759: 303). 35

Boschi e semafori: metafore dell’«ordine spontaneo»

Questa visione della società civile e del mercato come regno dell’armonia fra gli interessi e le attività degli uomini è stata esemplificata da molti e autorevoli pensatori attraverso delle metafore divenute celebri nel corso del tempo. È il caso della «metafora del bosco», ricorrente nel filosofo tedesco Immanuel Kant. Con essa, infatti, il grande pensatore dell’Illuminismo intendeva esprimere il concetto per cui all’interno di un consesso regolato da norme valide per tutti (il «recinto» della società civile contrapposto alla libertà selvaggia dello stato di natura), gli alberi (gli individui, fuor di metafora), proprio perché vicini e quindi impegnati su un terreno comune, per far crescere i propri rami alti e forti contendendosi l’aria e il sole finiscono col diventare tutti quanti mediamente più belli e robusti rispetto a quanto non avviene per le piante isolate, che avendo la possibilità di mettere i rami comodamente e senza ostacoli si ritrovano a crescere storte e tortuose. Ancora più celebre è il vero e proprio apologo di Adam Smith in cui, a partire dalla constatazione della necessità di una divisione del lavoro all’interno della società, si arrivava a scoraggiare l’uomo dal cercare l’aiuto benevolo che gli altri individui potrebbero accordargli, invitandolo piuttosto a indirizzare a proprio favore l’egoismo di quelli col mostrargli che è nel loro stesso interesse venire incontro ai suoi bisogni: Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che possiamo aspettarci il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura dei loro propri interessi. Noi possiamo fare appello non certo alla loro umanità, ma all’amore che hanno per se stessi, non parlandogli mai delle nostre necessità bensì dei vantaggi per loro1. La metafora del bosco è rintracciabile, per esempio, in I. KANT, Idea per una storia universale, 1784: 104, tesi V, mentre il celebre apo1

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Questa felice armonizzazione degli sforzi che ogni individuo compie per raggiungere i propri obiettivi e conseguire benessere, all’interno del regime organizzato e concorrenziale reso possibile dall’affermarsi della società civile, è il frutto del funzionamento di meccanismi spontanei e naturali che trovano la massima forma di espressione nel mercato e nel sistema dei prezzi che lo regola. Il binomio mercato/libero gioco dei prezzi si configura agli occhi dei liberisti alla stregua di un processo di coordinamento dell’interagire dei singoli individui e, al tempo stesso, di diffusione delle informazioni puramente spontaneo, insostituibile e incontrollabile nella sua globalità da alcuna autorità esterna, poiché presenta ogni volta dei risultati imprevedibili che sono la derivazione di miliardi di interazioni fra i liberi concorrenti e poiché è l’unico in grado di fornire una miriade di informazioni a un numero incalcolabile di soggetti. Informazioni di cui nessuna autorità centrale potrebbe disporre e che vengono spontaneamente selezionate dagli agenti economici stessi in base al fatto che, per esempio, si trovino a operare all’interno di un ramo produttivo piuttosto che di un altro (Vaughn, 1980: 545; Lavoie, 1985: 87-91). Il mercato fornisce ai singoli competitori un terreno libero e neutro perché entrino in concorrenza, mentre il sistema dei prezzi gli fa avere quelle informazioni che, non controllabili né conoscibili da alcuno nella loro totalità, permettono a ogni individuo di raggiungere gli obiettivi che si è prefissato senza che nessun altro competitore, o peggio ancora il governo centrale, possano costringerlo verso alcuna direzione indesiderata. In tal modo, il sistema dei prezzi funge da fattore di regolazione e coordinamento delle azioni dei singoli e quindi della produzione nel suo insieme, dando vita a un «ordine sociale spontaneo in cui gli sforzi logo del macellaio è contenuto in A. SMITH, An Inquiry Into the Nature, 1776: 26-27, v. 1.

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di tutti gli individui sono coordinati tramite la loro iniziativa individuale», mentre la libertà degli individui stessi va incontro all’«interesse generale», secondo la felice sintesi di Michael Polanyi, autore de La logica della libertà2. Sono gli autori del Novecento in particolare, fra cui Mises, Friedman ed Hayek, ad aver contribuito all’affermazione dell’idea del mercato come dimensione del libero e spontaneo interagire degli individui, e del sistema dei prezzi come entità impersonale di coordinamento delle attività degli individui stessi, al punto che uno studioso di Hayek, commentando il ruolo che il meccanismo dei prezzi ricopre nel risolvere i problemi di conoscenza dispersa, lo paragona alle «luci che regolano il traffico stradale», contesto in cui vi è l’assenza di una «mente superiore pianificatrice» e in cui, quindi, ogni individuo è libero di prendere la direzione che preferisce senza scontrarsi con gli altri poiché ciascuno potrà fare riferimento a quella «regola di condotta impersonale» che è data dal semaforo. Quello del traffico stradale, insomma, costituisce per i fautori del liberalismo economico un esempio efficace di ordine in cui ognuno non conosce la direzione che prenderanno gli altri, dove ciascuno è libero di andare nella direzione che preferisce ma in cui tutti vengono inevitabilmente coordinati da un meccanismo impersonale e valido per ogni individuo alla stessa stregua3. 2 M. POLANYI, The Logic of Liberty, 1951: 159. L. VON MISES, in Omnipotent Government, 1944: 244, definisce i prezzi «guide e regolatori della produzione», mentre per una ricostruzione di insieme rimandiamo a P. ERCOLANI, Il Novecento negato, 2006: 45 sgg. 3 I.M. KIRZNER, Prices, 1985: 193 sgg. Scriveva M. & R. FRIEDMAN, in Capitalism and Freedom, 1962: 119-120: «L’essenza di un mercato competitivo consiste nel suo carattere impersonale. Nessuno di coloro che partecipano alla competizione può determinare unilateralmente le condizioni alle quali gli altri partecipanti possono avere accesso ai beni o agli impieghi. Tutti devono prendere i prezzi come dati dal mercato e nessun individuo può da solo esercitare un’influenza più che trascura-

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Tutte metafore, quella del bosco, del macellaio e del semaforo, che stanno a indicare l’intenzione da parte dei teorici del liberismo di configurare un mondo umano in cui maggiore è la possibilità di lasciar avvenire le cose in maniera naturale e spontanea e più grandi saranno di conseguenza i benefìci che deriveranno per la società nel suo complesso. Tutto questo origina indubbiamente da una concezione di fondo che, a partire da Adam Smith, ha portato avanti una sorta di «credenza ottimistica nell’organizzazione spontanea della vita economica attraverso la libera concorrenza degli interessi particolari», ma che fondamentalmente sarebbe impossibile da prendere sul serio se non fosse sorretta da quella incrollabile fiducia nell’armonia delle cose che caratterizzava il filosofo scozzese e che lo portava a considerare la società umana alla stregua di «una grande, immensa macchina i cui movimenti regolari e armoniosi producono una quantità ragguardevole di effetti benefici»4. Con John Locke, alla fine del Seicento, i liberali avevano preso atto del fatto che ogni uomo, entrando in società e costituendo il governo civile, abbandona inevitabilmente quell’«uguaglianza, libertà e potere effettivo» di cui dispone nello stato di natura, per consegnarlo nelle mani della società e del potere legislativo a patto che ne facciano un uso che non trascenda gli ambiti del «bene comune», il tutto in nome della «pace, della sicurezza e del bene pubblico» dei membri della società stessa. Ma se con il grande filosofo inglese si trattava di uscire dall’epoca dell’assolutismo, in cui i diritti individuali bile sul prezzo, benché tutti i partecipanti nel loro complesso determinino il prezzo per l’effetto congiunto delle loro azioni individuali». 4 Per la concezione ottimistica che Smith aveva della vita economica, si veda A. PIETTRE, Histoire de la pensée economique, 1966: 6667. La citazione della società umana come grande macchina armoniosa è contenuta in SMITH (1759: 316).

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erano misconosciuti in nome del diritto totale che sulle loro vite esercitava il potere reale, con gli autori della fine del Settecento si trattava di fornire le chiavi interpretative e la legittimità teorica a una rivoluzione industriale sempre più impellente. Se con Locke, insomma, si manifestava la necessità di individuare e legittimare un «governo civile» e costituzionale che, limitando il potere del re, riconoscesse dignità e spazi di azione alla libertà individuale, con Adam Smith ci si trovava di fronte alla necessità di fornire legittimità all’agire economico degli individui, limitando il potere del governo civile e al tempo stesso assicurando che non sarebbe venuto meno il progresso della società nel suo complesso. In questo senso Smith raffigurava realisticamente l’imprenditore come quell’individuo che, generalmente, non agisce per promuovere l’«interesse pubblico» ma solo per il «proprio guadagno», aggiungendo però che nel perseguire il proprio interesse questi finisce col promuovere l’interesse della società in maniera molto più efficace di quanto non sarebbe avvenuto persino se avesse deciso di farlo consapevolmente. Sia gli individui della società politica di Locke decidevano razionalmente di limitare la propria libertà individuale per costituire una società che ne garantisse maggiormente la sicurezza, quanto gli individui descritti da Adam Smith si ritrovavano a promuovere il benessere della società grazie a forze spontanee e naturali di cui essi stessi non erano consapevoli (Locke, 1679-1689, v. 4, II Trattato, § 131: 414-415; Smith, 1776: 456, v. 1). Il salto di qualità non è di poco conto, poiché con Locke era chiaro che si stava parlando di una libertà individuale che non era quella dello stato di natura, ma che piuttosto derivava da una scelta consapevole e razionale degli individui, mentre con il grande teorico dell’economia si trattava invece di recuperare buona parte di quella libertà naturale che l’individuo di Locke aveva messo nelle mani della società e del potere legislativo. Un individuo però, quello 40

di Smith, che se da una parte recuperava una certa libertà naturale, dall’altra cedeva una buona porzione di quella consapevolezza e razionalità che caratterizzavano l’agire degli individui descritti dal pensatore inglese. Stava emergendo, insomma, una nuova dimensione sociale, quella dell’agone economico di matrice moderna, che costituiva un terreno inedito di confronto e interazione fra individui che operano anzitutto per il proprio tornaconto, senza tenere razionalmente in considerazione quel «common good» che invece ispirava consapevolmente i cittadini di Locke. In tale ambito era necessario per gli individui riprendersi buona parte di quella libertà che avevano messo nelle mani del potere politico costituzionale per uscire dall’assolutismo, trovando nelle tesi di Smith e nelle metafore che abbiamo citato una legittimazione al tempo stesso ontologica e morale, poiché il progresso della società nella sua interezza era comunque fatto salvo. Questo è il nuovo scenario che, sull’onda del grande sviluppo economico ed industriale iniziato alla fine del Settecento, la teoria del liberalismo economico si è trovata a descrivere con sorprendente vigore: un nuovo scenario costituito da individui meno razionali e consapevoli ma più liberi di perseguire il proprio esclusivo tornaconto, in quanto protetti da quel «pensiero provvidenziale che vigila sui destini umani» e che si manifesta tramite l’infinita varietà di climi, stagioni, forze naturali e attitudini che Dio ha sì ripartito in maniera diseguale tra gli uomini, ma con il solo scopo di unirli, attraverso lo «scambio», all’interno di un «legame di fraternità universale», come scriveva enfaticamente il liberale dell’Ottocento Bastiat (Bastiat, 1846: 2). Che si trattasse dell’ordine spontaneo, della natura o di un dio, che fosse la mano invisibile di Adam Smith o il pensiero provvidenziale che vigila sui destini umani di Bastiat, era evidente l’appiglio che i teorici liberisti cercavano in forze che esulavano dall’ambito umano, con lo scopo di con41

ferire al meccanismo del mercato concorrenziale quell’armonia naturale fra le azioni degli individui che altrimenti non sarebbe stata realisticamente pensabile in un contesto in cui ogni persona ricerca con tutte le forze il proprio tornaconto, spesso e volentieri a spese dei concorrenti. In questo modo è stato possibile per il teorico più importante dell’«ordine spontaneo», Friedrich Hayek, connotare lo stesso come un qualcosa di «non prodotto dall’uomo», i cui gradi di complessità non sono padroneggiabili dalla «mente umana»: insomma un ordine «astratto» e non «concreto» (Hayek, 1982: v. 1, 38). Ecco allora che all’interno della teoria liberista il confine fra economia e teologia (o metafisica) sembra assumere dei contorni quanto mai sfumati e incerti. Quella divinità trascendente in cui gli uomini ripongono le più essenziali speranze per un futuro di salvezza e redenzione, rispetto a un mondo terreno imperfetto e corrotto dal peccato originale, diviene per i teorici liberisti una realtà terrena (il mercato) che con l’apporto di forze immanenti ma sovrumane rende possibile un regime di concorrenza armonica e «ottimale»5, tale da giustificare le eventuali disuguaglianze e storture del momento in vista di un fine superiore comunque garantito. Si tratta di una visione che non è possibile limitare ai soli economisti, poiché nel corso della storia è appartenuta anche a teorici politici che l’hanno utilizzata per esempio in chiave antirivoluzionaria. È stato il caso di Edmund 5 Un cantore contemporaneo di questo tipo di liberalismo economico, fondato su una visione armonica e a-conflittuale sulla scia di Say e Bastiat, è P. Salin (Liberalisme, 2000: 187), che avalla la definizione del mercato concorrenziale come quella «situazione in cui esiste un gran numero di produttori di cui ciascuno non possiede che una porzione limitata di mercato, in maniera tale che nessuno acquisisca un peso sufficiente a influenzare il funzionamento del mercato stesso. In questo caso, il prezzo del mercato è determinato dalla domanda e dall’offerta in una maniera impersonale che appare ottimale».

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Burke, il quale, riflettendo sulle crisi economiche tanto cicliche quanto fisiologiche, invitava a combattere l’idea malsana per cui spetterebbe al governo intervenire per supplire agli inevitabili impoverimenti delle persone, e questo in nome del fatto che non si può intralciare il corso delle leggi economiche, che sono «leggi di natura e quindi di Dio». Ma anche Tocqueville, circa mezzo secolo dopo, di fronte ai rivolgimenti del febbraio 1848, se la prendeva con la rivoluzione montante poiché ispirata da «teorie politiche ed economiche» che vorrebbero far «credere che le miserie umane siano opera delle leggi e non della provvidenza, e che si potrebbe eliminare la povertà mutando l’ordinamento sociale»6. Abbiamo a che fare con una lunga tradizione di pensiero che ha operato nella modernità, e che nella seconda metà del 1800, quando la teoria liberista raggiungeva al tempo stesso il punto più alto e l’inizio del declino, conduceva il sociologo Herbert Spencer a parlare della «legge della domanda e dell’offerta» come di una verità evidente che doveva essere affermata al pari di quanto si era fatto secoli prima con la legge di gravitazione, ossia contro tutte le superstizioni anti-scientifiche. Questo perché lo sviluppo della scienza economica, con la relativa fede nelle «forze impersonali» che assicurano l’armonia della concorrenza fra individui, si inseriva secondo Spencer all’interno di una lunga serie di cambiamenti che sono cominciati con «la prima vittoria della filosofia naturale sulla superstizione» (Spencer, 1851: 303). 6 E. BURKE, Thoughts and Details, 1795: 404. Tale affermazione è perfettamente in linea con l’idea di fondo del filosofo inglese, per cui «la politica deve essere regolata non secondo la ragione umana, ma secondo la natura umana, di cui la ragione non costituisce che una parte e di certo neppure la più grande». Si vedano anche E. BURKE, Observations, 1769: 170; A DE TOCQUEVILLE, Oeuvres complétes, 1951 sg.: 92-94, 84 v. XII. Per una ricostruzione esaustiva si veda D. LOSURDO, Nietzsche, il ribelle aristocratico, 2002: 684-688.

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La fede nutrita da tutti questi pensatori nei meccanismi spontanei e naturali che regolano l’ambito economico, fede che riposa nella profonda convinzione che l’esito provvidenzialistico (divino o meno che sia) è assicurato purché il governo, la politica e ogni istituzione esterna al mercato stesso si guardino bene dall’intromettersi con «azioni personali» consapevoli e razionali, si estende fino al punto paradossale di tacciare di superstizione ogni intervento della ragione e del governo umani per far fronte alle inevitabili storture prodotte da un meccanismo lasciato allo stato naturale. Quella medesima idiosincrasia per gli interventi della ragione e del governo umani, rispetto alle leggi immodificabili che presiedono all’attività concorrenziale all’interno della società civile che, più vicino ai giorni nostri, manifestava ancora una volta il Nobel per l’economia Friedrich Hayek. Questi, infatti, scagliandosi contro la fede prevalente ai suoi tempi nella «giustizia sociale» (si era negli anni ’70 del Novecento), considerava quest’ultima alla stregua di una «superstizione religiosa» che proveniva da menti poco propense a un’«analisi razionale spietata», che invece avrebbe dovuto condurre alla comprensione del fatto che la realtà sociale non può essere giusta o ingiusta, poiché nei fatti riproduce uno stato di cose che non essendo stato «deliberatamente prodotto dagli uomini, non possiede né intelligenza, né virtù, né giustizia né alcun altro dei valori umani»7. 21 F.A. HAYEK, Law, Legislation and Liberty, 1982: 66, 69, v. 2, 136. Per risalire all’autore che ha sistematizzato questa visione della società civile come composta da istituzioni che sono «suggerite dalla natura» e quindi «risultato dell’azione umana, ma non realizzazione di alcun disegno umano», si veda A. FERGUSON, An Essay on the History, 1767: 205, 304, che a sua volta aveva subìto, alla stregua di tutta la scuola illuministica scozzese, la profonda influenza di un autore come M.T. CICERO, De re publica, II,1,2, il quale, parlando per bocca di Catone, affermava che la buona Costituzione non è mai il frutto di un singolo

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Su queste basi, e attingendo alla lunga tradizione che abbiamo sommariamente ripercorso, il pensiero liberista ha trovato i propri fondamenti per disegnare una realtà che deve procedere fisiologicamente senza l’intervento dell’uomo e del governo, una realtà la cui momentanea disarmonia di risultati va accettata dall’umanità, la quale, nella sua radicale limitatezza, non è in grado di cogliere l’armonia superiore che sovrasta e giustifica tutto il processo. Questo è l’impianto della teoria con cui si è portata avanti l’idea del mercato come espressione e regno dell’«innocenza del divenire»8, ossia come dimensione che proprio perché governata da meccanismi spontanei e naturali non consente al mondo umano alcun intervento volto al tentativo di affermare, in maniera superstiziosa e liberticida, qualsivoglia giustizia sociale. Si raggiunge in questo senso, proprio nel periodo in cui la teoria liberista trovava i suoi massimi consensi, alla fine dell’Ottocento, l’apice di quella rivolta contro la ragione umana che è esemplificata dalle considerazioni del filosofo Nietzsche, secondo il quale l’uomo che ha deciso di votarsi alla ragione «ha privato l’esistenza in generale della sua innocenza, riconducendo ogni modo d’essere a volontà, a intenzioni, ad atti responsabili», volendo cercare col pensiero quella giustizia umana e sociale che invece è negata dalla natura stessa (Nietzsche, 1996: 411-412, § 765). ingegno, ma di quel «genio collettivo» che costituisce il prodotto della tradizione e degli insegnamenti che da essa sa trarre la società nel suo complesso. 8 L’espressione «innocenza del divenire» è del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, ed è richiamata efficacemente da D. LOSURDO, Nietzsche, 2002: 361, 364, per descrivere il punto più estremo raggiunto da una teoria per la quale «parlare di profonda ingiustizia dell’ordinamento sociale significa inventare responsabilità che non esistono e inventarle peraltro a partire dal rancore covato per il proprio fallimento».

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Semplicemente, la giustizia sociale non esiste, non si trova in natura, poiché quest’ultima procede sulla base di regole e meccanismi che non sono né giusti né sbagliati (secondo la logica umana), ma soltanto accadono, e che l’uomo non può tentare di modificare in nome di costrutti della propria ragione se non al prezzo di violare l’ordine costituito di un meccanismo di cui egli è soltanto un ingranaggio, per quanto importante. Il mercato, insomma, è un prodotto naturale formatosi spontaneamente grazie all’azione inconsapevole degli uomini nella loro totalità, ma senza che alcun individuo in particolare abbia fatto uso della propria ragione o anche soltanto della propria intenzione per crearlo. E così, come si è formato spontaneamente altrettanto spontaneamente deve essere lasciato funzionare. Contestare questo ordine spontaneo immanente ma sovrumano, o anche soltanto pretendere di modificarlo secondo criteri ritenuti umanamente più giusti, equivale per i teorici del liberismo a una «presunzione fatale», a un «abuso della ragione» che si configura alla stregua di una superstizione somma che pretende di opporsi nientemeno che al corso naturale e immodificabile delle cose.

Un mondo perfetto: la società in Rete

Questa idea di un ordine spontaneo che, di fatto, governa l’agire economico umano all’interno della società civile in maniera virtuosa, ha ricoperto un ruolo fondamentale nel periodo compreso fra le due grandi rivoluzioni sociali e tecnologiche che hanno caratterizzato la cosiddetta società industriale. Infatti, sia la prima rivoluzione industriale, con epicentro la Gran Bretagna della seconda metà del XVIII secolo e fondata sul passaggio dagli utensili manuali alle macchine (in specie quelle a vapore), sia la seconda, che circa un secolo dopo ha spostato l’asse geo46

economico sulla Germania e sugli Stati Uniti, basandosi su scoperte scientifiche come l’elettricità, il motore a scoppio e le tecnologie di comunicazione quali il telefono e il telegrafo, hanno visto prevalere, con i debiti distinguo e le differenze del caso, quello che Karl Polanyi ha definito polemicamente «lo sforzo utopistico del liberalismo economico di allestire un sistema di mercato autoregolantesi»9. Questa idea di un meccanismo capace di regolarsi da solo e di coordinare virtuosamente le azioni degli agenti economici, che operano in vista del proprio profitto ma nell’ignoranza del meccanismo complessivo e degli esiti finali, è quanto i teorici del libero mercato (o del liberalismo economico) hanno affermato con le metafore analizzate in precedenza, e che a partire dalla mano invisibile di Smith sono arrivate fino all’ordine spontaneo teorizzato in tempi a noi prossimi dal premio Nobel Friedrich Hayek. Le cose non sono cambiate, anzi, se possibile l’idea di ordine spontaneo ha trovato persino possibilità più ampie per esprimersi, sia in termini concettuali che pratici, con la terza fase della rivoluzione industriale, che il sociologo Daniel Bell ha codificato attraverso la locuzione «rivoluzione dell’informazione» e che Manuel Castells ha analizzato in maniera più ampia nella sua opera monumentale dedicata alla Nascita della società in rete (Bell, 1987: 11; Castells 2000). Se, infatti, con le prime due fasi della rivoluzione industriale, il terreno su cui gli individui e le forze economiche dovevano operare spontaneamente era quello della società civile, quindi comunque di un mercato dai confini reali e ben visibili, per quanto ampliatisi oltremodo col fenomeno della cosiddetta globalizzazione, con l’avvento della società in rete molti autori hanno ritenuto di individuare una nuova dimensione, tanto più fluida e sconfinata poi9 K. POLANYI, The Great Transformation, 1944: 31 e, per l’analisi più dettagliata delle prime due rivoluzioni industriali, si veda M. CASTELLS, The Rise of the Network Society, 2000: 33-35.

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ché inserita nel contesto virtuale della world wide web e, quindi, capace di fornire agli individui in competizione un agone potenzialmente infinito e libero dagli interventi coercitivi o comunque limitanti della sfera politica e delle istituzioni governative. È il caso, per esempio, del giurista Yochai Benkler, professore alla scuola di diritto di Yale, il quale in un’opera che fin dal titolo si richiama al padre del liberalismo economico Adam Smith, La ricchezza della rete, dopo aver preso atto di trovarsi di fronte a un nuovo stadio dell’economia dell’informazione, che egli chiama «economia dell’informazione in rete» (networked information economy), la descrive come una dimensione in cui le «azioni individuali decentralizzate» riescono a ritagliarsi un ruolo molto più rilevante di quanto non accadesse con l’«economia dell’informazione industriale»: ciò poiché, di fatto, la Rete, ancor più di quanto non fosse possibile col mercato proprio della società industriale, ha fatto emergere un contesto virtuoso in cui la somma degli effetti prodotti dalle azioni individuali, anche laddove non consapevolmente ispirate alla cooperazione, produce un ambiente informazionale rinnovato e più ricco (Benkler, 2006: 3-5). La Rete descritta da Benkler, capace di coordinare gli effetti delle azioni individuali facendo progredire l’insieme della società, senza che i singoli individui ne siano consapevoli, non è altro che una forma rinnovata di quell’ordine spontaneo di cui parlava Hayek, che si incarnava in un mercato che quanto più veniva lasciato libero dalle intrusioni governative tanto più, grazie al sistema naturale della domanda e dell’offerta, aumentava la ricchezza generale. Questo ideale del liberalismo economico o liberismo, ha trovato oggi nella società in Rete e nel fenomeno Internet un’occasione ulteriore per affermare la bontà dell’idea secondo cui l’agire umano è naturalmente governato e felicemente coordinato da un ordine spontaneo che rende dan48

nosa, più ancora che superflua, ogni intromissione da parte della ragione critica e della politica governativa e istituzionale. Se tale idea è espressa in maniera più implicita e moderata da un accademico come Benkler, non lascia invece spazio ad alcun dubbio il guru di Internet e fondatore della celebre rivista «Wired», vero e proprio testo sacro della società dei nuovi media. Sì, perché Kevin Kelly, questo il suo nome, esprime senza mezzi termini tutto il proprio debito culturale nei confronti di Friedrich Hayek e del suo concetto di ordine spontaneo in cui «una singola variabile, il prezzo, è usata per regolare tutte le altre variabili di ripartizione delle risorse», rendendo possibile un «controllo automatico (o non controllo umano)» che lascerà alla natura auto-correttiva dell’intero meccanismo automatico il compito di pervenire all’optimum. Quel meccanismo impersonale di auto-correzione che nella visione di Hayek era rappresentato dal libero mercato e dal sistema dei prezzi, assume in Kelly le fattezze di una network economics che finisce con l’inglobare la società nel suo insieme (senza più distinzione tra dimensione politica ed economica, che pur permaneva nell’autore austriaco): «L’atto centrale della nuova èra – scrive il guru di Internet – è di connettere ogni cosa con ogni altra. Tutte le cose, piccole e grandi, saranno collegate all’interno di vaste reti di networks a più livelli. Senza grandi reti non c’è vita, intelligenza né evoluzione; con i networks c’è tutto questo e anche di più». Sono evidenti i toni al tempo stesso enfatici e religiosi. Li avevamo potuti già riscontrare per l’ordine spontaneo di cui parlava Hayek, rilevando una deriva metafisica che di fatto priva l’uomo e la sua ragione di ogni possibilità di intervento sulle storture del sistema nel suo insieme, ma diventano ancora più espliciti nel caso di Kelly. Quest’ultimo, infatti, richiamandosi espressamente al concetto di «mente planetaria» elaborato dal controverso teolo49

go Teilhard de Chardin, parla di una società, quella caratterizzata dalla Rete, in cui emerge una «mente globale» che è il frutto largamente complesso e caratterizzato da insondabile indeterminatezza dell’unione dei computer con la natura, e che per gli uomini, ancora una volta ignari e impotenti, si presenta alla stregua di una «mano invisibile» di cui vanno accettati i misteriosi disegni10. Ciò che non era stato realizzabile con il mercato ai tempi della società industriale, insomma, sembra oggi concretizzarsi con l’epoca di Internet, grazie a una dimensione, quella della Rete appunto, in cui gli individui sarebbero totalmente liberi di agire e interagire all’interno di un meccanismo virtuoso che garantisce l’evoluzione del sistema nel suo insieme: «La tecnologia digitale – riassume sinteticamente il direttore del Media Lab presso il MIT, Nicholas Negroponte – può essere una forza naturale che porterà le persone all’interno di una maggiore armonia su scala globale» (Negroponte, 1996: 230). Il fine dei teorici liberisti della società in rete, come Nicholas Negroponte e lo stesso Kevin Kelly, è il medesimo che abbiamo visto caratterizzare gli sforzi dei fautori del libero mercato del Settecento e dell’Ottocento: pervenire a una «nuova e superiore armonia» in cui «tutte le contraddizioni finiranno per rivelarsi apparenti», e questo potrà accadere all’interno di quel mondo de-materializzato e felice che è costituito dalla Rete, dimensione «fuori del controllo» per eccellenza (secondo il titolo dell’opera principale di Kelly) e «versione postmoderna della mano invisibile», come la definisce felicemente Carlo Formenti nel suo Incantati dalla Rete (Formenti, 2000: 208). 10 K. KELLY, Out of Control, 1994: 156-157, 259-260. Per i riferimenti più precisi al teologo Teilhard de Chardin quale precursore della «cyber-teologia» si veda l’ottimo lavoro di C. FORMENTI, Incantati dalla rete, 2000: capitolo 2.

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Ma rispetto ai teorici classici del liberismo, concentrati esclusivamente sulla salvaguardia della massima libertà degli individui in concorrenza per i propri scopi, i neoliberisti della nuova economia emersa con la società in rete vantano una pretesa ulteriore tutt’altro che di poco conto. Sì, perché costoro ritengono che con l’«economia dell’informazione in rete (networked information economy)» si sia pervenuti a uno stadio in cui trovano realizzazione e sviluppo tutte le teorie liberali sulla giustizia, anche quelle che, come nel caso di Rawls e Dworkin, hanno visto uno spostarsi del liberalismo su posizioni che accolgono istanze più democratiche e votate a una maggiore equità sociale. Se infatti uno dei limiti del vecchio liberalismo era quello di non considerare la «sfortuna» rispetto alle dotazioni iniziali come una delle ragioni principali e irrisolvibili della povertà, ora questo nuovo tipo di società in rete, in cui vige la massima disponibilità di risorse informazionali gratuite, costituisce anche un meccanismo di contenimento della cattiva sorte iniziale. I prodotti dell’economia dell’informazione in rete sono disponibili gratuitamente per ciascuno come input di base del proprio agire, che questo agire sia interno o esterno al mercato: è sulla base di queste considerazioni che il già citato Benkler arriva a scrivere che «dalla prospettiva delle teorie liberali sulla giustizia, l’emergere dell’economia dell’informazione in rete costituisce un assoluto progresso», arrivando a rendere possibile quell’«uguaglianza delle opportunità» a prescindere dalla dotazione iniziale che rappresenta un punto fermo del liberalismo più attento all’equità sociale (Benkler, 2006: 305, 307-308). Quindi, i teorici del libero mercato non soltanto vedono in Internet una dimensione in grado di far dispiegare l’ordine spontaneo con quella massima libertà che non si era riusciti a raggiungere nella società industriale, ma ritengono anche che per le sue stesse modalità di funziona51

mento la società in Rete garantisce un’economia democratica, un mercato perfetto in cui gli individui si ritrovano a perseguire i propri scopi su un piano di parità, a cominciare da quello fondamentale della dotazione iniziale. Internet alfiere della libertà e della democrazia, quindi? Il salto di qualità balza agli occhi con evidenza, soprattutto riguardo al secondo termine: mai prima d’ora, infatti, i teorici del libero mercato si erano spinti al punto di sostenere che esso è compatibile con la democrazia e, anzi, che addirittura la favorisce. Almeno non il tipo di democrazia (universalistica, fondata sul suffragio universale, e improntata a politiche sociali) che l’Occidente si è trovato a sperimentare dalla seconda metà del Novecento. Il fatto che la Rete sia un luogo liberamente accessibile a tutti, in cui le informazioni sono le stesse per ciascuno e da ciascuno gratuitamente reperibili, ha portato i cyber-anarco-capitalisti a individuarvi lo «scenario di un capitalismo senza proprietà», in cui la concorrenza è finalmente libera di dispiegare tutte le sue potenzialità poiché gli individui per primi sono affrancati dai lacci del governo, ma anche dall’eventuale iniquità di una proprietà iniziale che rischia di porre alcuni su un piano più alto fin dal momento della partenza. Il «Dio mercato» veniva esaltato da Adam Smith in quanto ritenuto capace di incrementare la libertà dei singoli individui e, così facendo, della società nel suo insieme, mentre le «virtù taumaturgiche» che i profeti dell’èra digitale attribuiscono al «Dio Rete» non producono soltanto benessere economico ma, attraverso le «interazioni spontanee fra milioni di individui in rete», garantiscono anche libertà politica e partecipazione democratica, riduzione delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali, potenziamento del cittadino utente/consumatore, secondo la sintesi istruttiva di Carlo Formenti. Lo stesso Formenti ne deduce che «la visione smithiana del mercato, ancorché carica di suggestioni “provvi52

denziali”, appare più “laica” di certi miti “scientifici” postmoderni» (Formenti, 2008: 21, 239-240), e il nostro accordo con lo studioso italiano è completo. Il padre del liberalismo economico, infatti, pur avendo fornito una descrizione provvidenzialistica del mercato, si rivelava «laico» nella misura in cui non assolutizzava le doti autoregolantesi del mercato ma anzi, in più punti, riconosceva il ruolo imprescindibile della politica e dello stato. Che si trattasse dell’«obbligo» che il governo aveva di mantenere «l’economicità delle merci», oppure di rinforzare il diritto, che era necessario per preservare «quella opportuna diseguaglianza nelle fortune degli uomini», o che, al limite, si trattasse di ammettere la necessità delle leggi «per proteggere il ricco dal povero», in Adam Smith le doti del mercato erano ben lungi dal garantire da sole la pace e il benessere della società nel suo insieme. Così come egli era ben lontano dal negare i contraccolpi nefasti che il sistema capitalistico riversava sui poveri, «il cui tempo e lavoro nei paesi civilizzati è sacrificato al mantenimento dei ricchi nell’agio e nel lusso» (Smith, 1982: 333, 338, 340). Non erano certo propositi e ammissioni propri di un fanatico tout court del mercato e delle sue doti di perfetta armonizzazione delle vicende umane nella loro interezza. Quegli apologeti del libero mercato in Rete che, entusiasticamente, rimarcano le doti che questo avrebbe di promuovere la felicità e la piena libertà di tutti gli individui nonché la perfetta democrazia di fronte ad Adam Smith, recitano certamente la parte dei sacerdoti fondamentalisti. Che il rapporto fra libero mercato e democrazia sia stato sempre problematico (volendo limitarsi a un eufemismo) è un dato che emerge con chiarezza da almeno due punti di vista: quello storico, potendo ricordare che per tutto il periodo in cui il sistema capitalistico ha visto un’intromissione più ridotta da parte della sfera politica, l’elemento cardine della democrazia, il suffragio, era precluso alla 53

grande maggioranza dei cittadini (almeno fino al primo ventennio del Novecento e in non pochi paesi, fra cui l’Italia, anche oltre). Ma anche dal punto di vista ideologico, considerando che molti fra i più importanti teorici del libero mercato del XX secolo si sono scagliati con veemenza contro la democrazia, intesa come quel sistema in cui un governo regolarmente eletto dalla maggioranza del popolo può legittimamente intervenire sulla sfera economica per tutelare quanto possibile anche il benessere di quella stessa maggioranza che altrimenti sarebbe esclusa da buona parte della ricchezza prodotta (welfare state). Senza volersi concentrare troppo sugli eccessi di Ayn Rand, che si spingeva a parlare di «nuovo fascismo» a proposito del sistema di governo che, derivando dal «consenso» popolare, non si limita al ruolo del poliziotto che protegge i diritti degli individui ma pretende di interferire con le attività economiche degli uomini, si possono ricordare le considerazioni dell’anarcocapitalista per eccellenza, l’americano Rothbard, il quale riteneva che l’essenza della democrazia consistesse nel suo essere «una forma di governo instabile e transitoria», quindi incompatibile con una società libera. Stesso concetto espresso ai giorni nostri dal premio Nobel George Reisman, per il quale la democrazia è un sistema che non fornisce garanzie all’individuo e non protegge le sue iniziative, in quanto le politiche del governo possono essere cambiate in caso di sconfitta alle elezioni della maggioranza: «Questo non vuol dire, come spesso addotto dai fautori dell’intervento governativo, che il governo è controllato “da noi”», ma che esso è esposto al voto di migliaia o milioni di persone e, quindi, è totalmente «fuori controllo (out of control)». Curiosa l’espressione usata da Reisman (out of control), soltanto due anni dopo che Kevin Kelly l’aveva impiegata per dare il titolo al suo libro principale, volto a dimostrare che la bontà della società in Rete consiste proprio nell’essere fuori dal controllo di ogni istituzione governativa. Verrebbe da chie54

dersi perché mai se ad agire fuori da ogni controllo sono gli utenti in Rete allora i risultati saranno per forza di cose positivi, mentre il libero votare di milioni di cittadini dovrebbe costituire un’assenza di controllo foriera dei peggiori danni?11. Né le cose andavano meglio con Hayek, cui pure si ispira esplicitamente il guru dell’èra digitale Kelly, poiché il pensatore austriaco rifiutava la democrazia come l’abbiamo conosciuta nel Novecento, proponendo un sistema costituzionale alternativo (che egli chiamava demarchia) che di fatto annullava il suffragio universale, e si dichiarava fieramente d’accordo con Schumpeter laddove questi aveva parlato di «conflitto insanabile» tra democrazia e capitalismo12. Il salto di qualità operato ai giorni nostri dagli anarcocapitalisti della Rete risulta a questo punto evidente. Da una parte, infatti, i teorici liberisti della società industriale, sentivano minacciato il loro idolo, cioè il libero mercato, dalle politiche governative che col Novecento si sono sviluppate sempre più, fino ad arrivare di fatto a quell’«economia mista» tanto esecrata da Rand e Hayek, ritenendo quindi di avere validi motivi per criticare e financo contrastare la democrazia. Oggigiorno, invece, gli anarcocapitalisti ritengono di aver individuato nella Rete un luogo finalmente libero dal controllo governativo e per di più in grado di mettere tutti gli internauti su un piano di perfetta parità. Un luogo meraviglioso in cui, insomma, giunge a soluzione il secolare conflitto fra libertà e democrazia, e in cui 33 A. RAND, Capitalism, New York 1966: 204, 214-215; M.N. ROTHBARD, Man, Economy and State, Auburn 2004: 1282; G. REISMAN, Capitalism. A Treatise of Economy, 1996: 150. 12 P. ERCOLANI, Il Novecento negato, 2006: 69. Per il rifiuto della democrazia da parte di Hayek si veda il capitolo VII del medesimo lavoro.

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si fa salva la libertà dell’individuo pur salvaguardando la democraticità del sistema stesso. Un mondo perfetto!

La favola dell’homo œconomicus Al di là delle differenze prodotte dai tempi mutati, nonché da quella vera e propria rivoluzione che è emersa con l’èra digitale, gli ideologi liberisti della società industriale e quelli della società in Rete sono legati da un fondamento teorico comune che garantisce, per così dire, l’unitarietà del processo. Infatti, che si trattasse di difendere l’ordine spontaneo del mercato dalle intrusioni della politica e del governo, o che si ritenga di aver individuato nella Rete un luogo in cui l’agire economico avviene con la massima uguaglianza da parte dei singoli concorrenti – tanto da garantire la democrazia, oltre che la libertà per ciascuno, senza bisogno di alcun intervento da parte dell’istituzione politica – il comune denominatore che qualifica la teoria liberista fin dalle fondamenta consiste nell’individuo e nella libertà che a questo deve essere garantita di poter operare per conseguire i propri scopi. L’elemento sulle cui fondamenta posa ogni società libera, insomma, è l’individuo e l’individualismo è il metodo corretto per comprendere le dinamiche sociali. Ancora di più, secondo gli autori liberisti la società in sé non esiste se non in quanto entità convenzionale che deriva dal libero e fruttuoso agire degli individui che la compongono, essi soltanto veramente esistenti con i propri bisogni e obiettivi e con l’ingegnosa capacità di iniziativa atta a realizzarli. Pensare che la società rappresenti un qualcosa di più rispetto alla somma degli individui che la compongono equivale ad avallare un «mito pericoloso», per esempio 56

secondo l’anarco-capitalista Pierre Lemieux, e si capisce bene il senso del suo ragionamento: se la società in quanto «organismo animato» in realtà non esiste, trattandosi in effetti di un insieme di interazioni e di risultati di azioni individuali che sono il risultato di ciò che gli individui credono e fanno, voler a tutti i costi individuare un organismo chiamato «società» equivale a porre le basi perché lo «Stato controllore», in nome di una supposta «volontà collettiva» della società stessa di cui esso sarebbe il rappresentante, si arroghi a tutti gli effetti il potere di controllare le persone e le relazioni sociali che queste intrattengono (Lemieux, 1983: 41, 45, 50). In questo ragionamento possiamo cogliere uno dei nerbi costitutivi della teoria liberista, secondo cui quello spazio che noi chiamiamo società civile è e deve essere il regno incontrastato degli individui, ognuno con le proprie capacità e possibilità e i propri obiettivi da raggiungere, individui che devono essere lasciati nella piena facoltà di interagire in libera concorrenza e che, soprattutto, non possono essere ridotti alla stregua di un’entità organica o collettiva rispetto alla quale qualche autorità superiore possa pretendere di rappresentarne la volontà collettiva e quindi guidarne le azioni. La società civile deve essere, in tal senso, mantenuta distinta dalla società politica, poiché quest’ultima è per definizione portatrice e rappresentante di azioni e valori collettivi che finirebbero con lo sminuire e depotenziare la grande ricchezza costituita da una dimensione in cui ogni individuo, con la sua irriducibile singolarità, è guida di se stesso. Quando la separazione fra società politica e società civile viene meno, accade allora che lo «Stato sovrano» fa appello a quell’«interesse generale» che André Thirion definiva «avversario implacabile dell’uomo» e di cui lo Stato stesso si ritiene unico depositario, diventando in questo modo onnipotente e annullando quella «sovranità del57

l’individuo» che sola garantisce il corretto funzionamento di una società libera. Si tratta della grande «lezione» che i liberisti ritengono si debba trarre dallo studio dell’economia: è la libertà individuale a generare una società efficace, ed efficace è quella società che è al servizio degli obiettivi individuali e che funziona da sola in quanto si autoregola senza bisogno di ricorrere a forme di sovranità collettiva (Lemieux, 1987: 45-46). Quello che emerge è un vero e proprio circolo virtuoso per cui la massima libertà degli individui in competizione produce una società che è efficace e funzionale proprio perché, limitando al minimo l’interferenza dell’autorità statale, garantisce ai singoli un contesto in cui cercare di realizzare i propri obiettivi all’insegna della libera concorrenza: non a caso l’economista francese René Passet, nella sua ricostruzione dell’«illusione neoliberale», osserva come secondo tale ideologia «non vi è alcuna interruzione dalla libera iniziativa individuale all’armonia sociale»: l’assenza di un potere coercitivo all’interno della dimensione economica è proprio ciò che sta alla base, grazie alle forze spontanee di cui abbiamo parlato, della costituzione di una forma di ordine perfetta in quanto fondata sulla libertà assoluta degli individui. Può sembrare una contraddizione e del resto il vero e proprio ossimoro di James Buchanan, secondo cui il liberalismo economico non è altro che un’«anarchia ordinata», è lì a testimoniare con forza questa sensazione, tenendo anche conto del fatto che lo stesso autore precisa come «ogni equilibrio raggiungibile sotto l’anarchia si rivela, nella migliore delle soluzioni, fragile» (Passet, 2000: 183; Buchanan, 1975: 8-9). Proprio qui emerge a nostro avviso una questione nodale: una società siffatta risponde effettivamente alle esigenze dell’uomo? La garanzia della massima libertà all’interno dell’agone economico, supportata dal ruolo minimo riservato alla sfera politica, viene effettivamente incontro ai bisogni degli esseri umani, esaurisce ed esaudisce le 58

aspirazioni in base alle quali gli uomini, ormai da alcuni secoli, hanno abbandonato lo stato di natura per darsi un’«abitazione» istituzionale? All’interno di una società siffatta, sono effettivamente tutti gli individui, o anche solo una maggioranza, a trovare un ambito in cui si sentono soddisfatti rispetto ai propri disegni o, almeno, a una realistica possibilità di soddisfare le proprie esigenze materiali ed esistenziali? Il dubbio più forte risiede nel fatto che i meccanismi impersonali della società autoregolata immaginata dai liberisti, nonché l’ordine naturale che secondo loro presiede al corretto funzionamento del tutto, siano poco confacenti a venire incontro alle molteplici istanze di quell’essere fornito di ragione e sentimento che è l’uomo, le cui caratteristiche sono ben più complesse ed evolute rispetto a quelle degli animali, per i quali è sufficiente, e anzi istintivo, naturale, adeguarsi alle disposizioni e alle possibilità offerte appunto dalla natura. Viene alla mente, a proposito dell’uomo a cui converrebbe conformarsi quanto più possibile ai dettami della natura, quella vera e propria metafora del consorzio umano, almeno nelle intenzioni dell’autore, che è la Favola delle api di Mandeville, in cui si narrano le vicende di un alveare felice e prolifico finché ogni ape è libera di seguire le proprie pulsioni naturali e perseguire il proprio interesse egoistico senza freno alcuno, dando spazio anche ai vizi più ripugnanti alla morale comune, in vista comunque di un bene generale garantito dalla naturale provvidenzialità del meccanismo nel suo insieme: «Così ogni parte era piena di vizio, malgrado il tutto fosse un paradiso» (Mandeville, 1705-1729: 24, v. I). Con questa favola del Settecento Mandeville, riconoscendo l’inevitabilità e anzi la prolificità del vizio e delle pulsioni umane più naturali anche se ripugnanti (l’egoismo sopra a tutte!), elaborava di fatto una metafora che anticipava quella, senza dubbio più edulcorata, della «mano 59

invisibile» di Smith, ossia di un contesto, quello della società umana, in cui al governo e alla ragione politica in genere deve essere lasciato il minor spazio possibile, a fronte di una libertà quanto più ampia per l’homo oeconomicus e la sua volontà di soddisfare i bisogni materiali. A vegliare sul buon risultato finale, e sul progresso dell’intera società, vi è quella «provvidenza» che regola virtuosamente il meccanismo della natura in maniera pressoché spontanea e indipendente dall’intervento umano: ciò valeva tanto per Adam Smith, che abbiamo visto parlava della società umana come di un’immensa macchina dai movimenti armoniosi e regolari, quanto per Mandeville, per il quale una volta che fosse stato svolto il limitato intervento da parte della ragione umana (si intenda: del governo e della politica), l’«intera macchina» sociale avrebbe funzionato da sé, richiedendo giusto quella piccola capacità che occorre possedere per «caricare un orologio», che poi evidentemente funziona da solo (ivi: 323, v. 2). Meno l’uomo interviene, con la sua ragione come con le istituzioni governative da esso stesso fondate, più quella macchina naturale e perfetta che è la società funziona e garantisce il progresso della ricchezza collettiva. Gli individui, con il loro agire economico di singoli, in qualità di agenti del meccanismo naturale perfetto contribuiscono al progresso dell’intero sistema in maniera inconsapevole, limitandosi semplicemente a perseguire i propri interessi egoistici all’interno di un ambito caratterizzato da poche regole. Ciò che emerge con chiarezza, è che a partire dalla Favola di Mandeville, la teoria liberista delinea un ordine sociale naturale che comporta a tutti gli effetti un’«antropologia naturalista», in cui l’uomo è anzitutto homo oeconomicus: ossia da una parte caratterizzato da quella naturale propensione al commercio e al soddisfacimento dei bisogni materiali di cui parlava Smith, dall’altra «incastrato» in un ruolo che lo vede alla stregua di semplice pedina di forze spontanee e spesso contrastanti che esulano dalla sua volontà. 60

Quindi l’uomo ridotto al ruolo dell’ape? È interessante il fatto che prima di Mandeville altri importanti filosofi della politica avessero utilizzato proprio l’esempio delle api per giungere a conclusioni assai diverse, a nostro avviso più rispondenti alla natura ricca e complessa dell’uomo. È il caso di Aristotele, che nella Politica si richiamava sì alla natura, ma per sottolineare che essa stabilisce che l’uomo «deve vivere in una città», perché questi è un animale assai più «socievole (zóon politikón)» di qualsiasi ape o altro animale che «viva in greggi (zóon aghelaíon)», ma anche più complesso e irriducibile a un ingranaggio della natura poiché a differenza di tutte le altre creature è l’unico in possesso della nozione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto (Aristotele, 1253a: 5-15). In termini ancora più espliciti e articolati si esprimeva Thomas Hobbes, autore per molti versi vicino al cinismo di Mandeville, ma disposto comunque a riconoscere un’identità più variegata all’uomo: è vero, scriveva nel Leviatano, che esistono creature viventi come «le formiche e le api», capaci di socievolezza reciproca, ma queste non sono guidate che dai loro «particolari giudizi e appetiti», incapaci di un linguaggio per mezzo del quale accordarsi in vista del bene comune. Queste creature, a differenza dell’uomo, non entrano continuamente in competizione per sentimenti come l’«onore» e la «dignità», causa di odio e guerra fra gli uomini. Inoltre, presso tali creature «il bene comune non differisce da quello privato», cosicché sebbene inclini per natura al beneficio privato procurano con ciò anche quello comune. Infine, questo il punto centrale del ragionamento di Hobbes: L’accordo che c’è fra queste creature è naturale, mentre quello che sussiste fra gli uomini deriva soltanto da un patto, in quanto tale artificiale. Quindi non c’è da meravigliarsi se per rende61

re il loro accordo costante e duraturo si rivela necessario qualcosa di ulteriore rispetto al patto stesso: un potere comune che li tenga in soggezione e che diriga le loro azioni verso il bene comune (Hobbes, 1651: 86-87).

Ma questo potere comune è quanto la teoria liberista tende a vedere come fumo negli occhi, preferendogli una società che, alla stregua dell’alveare felice di Mandeville, lasci i singoli completamente liberi di agire in seguito ai propri istinti e bisogni: il problema sorge qualora si consideri, come abbiamo visto facevano Aristotele e Hobbes, che gli istinti e i bisogni dell’uomo non possono essere riducibili a quelli di un animale, che nell’uomo il bene individuale e quello collettivo non coincidono e, quindi, che una società virtuosa e libera composta da uomini non può tenere a proprio modello la «società» delle api. Mandeville, infatti, con la sua favola cattiva imperniata sui vizi privati che finiscono col produrre pubbliche virtù, fondava la propria teoria sul presupposto per cui «il cemento della società civile risiede nel fatto che ciascuno è obbligato a bere e mangiare» (Mandeville, 1705-1729: 350, v. 2), ma appare evidente, soprattutto con lo sviluppo delle società evolute e complesse cui siamo pervenuti, che questa visione naturalistica risulta ormai del tutto inadeguata a spiegare, per esempio, quel fenomeno per cui l’uomo del XX secolo ha finito col trovare nella «solidarietà collettiva», frutto dell’emergere delle politiche statali a favore del welfare, quel motivo di «sicurezza» che l’uomo del XIX secolo cercava esclusivamente nella proprietà individuale e nel patrimonio familiare (Piettre, 1966: 504). La realtà umana è qualcosa di decisamente più complesso rispetto al mondo naturale di cui pure fa parte, e pretendere di comprenderla e spiegarla attraverso la categoria dell’innocenza del divenire appare un’operazione assai dubbia che possiamo imputare a una certa colpevolezza dell’essere. 62

La razionalità del mercato devasta le coscienze, aliena l’uomo e sottrae alla moltitudine un destino liberamente deciso e democraticamente scelto. La logica della merce soffoca la libertà irriducibile, imprevedibile e sempre enigmatica dell’individuo. L’essere umano è ridotto alla sua pura funzionalità di merce. Jean Ziegler, 2002: 133

L’umanità che tratta il mondo come un «mondo da buttar via», tratta anche se stessa come una «umanità da buttar via». Günther Anders, 1980: 35

Il lavoro e il tempo del povero, nei paesi civilizzati, sono sacrificati al mantenimento del ricco nell’agio e nel lusso. Adam Smith, 1982: 340

La competizione economica globale è un gioco fra giocatori ineguali.

Ha-Joon Chang, 2008: 219

L’assurdità di una vita di cui l’economia è insieme il mezzo e il fine si smaschera, e con ciò si smaschera il vuoto fondamentale della vita. Tanto vale suicidarsi e farla finita subito. È quello che fa un numero sempre maggiore di giovani destinati a essere vincenti. Ultimo e risibile omaggio all’eros perduto, tentano, in un ultimo soprassalto, di rompere navigando su Internet la solitudine di un mondo disincantato e decomposto. Il vuoto ontologico della nostra presenza sulla terra si sostiene soltanto con l’illusione del senso. Serge Latouche, 2010: 222

L’illusione fondamentale del nostro tempo, a mio avviso, consiste nell’enfasi eccessiva che si pone sugli aspetti economici della vita, e io non mi aspetto che la lotta fra capitalismo e comunismo in quanto filosofie possa cessare finché non verrà riconosciuto che entrambe sono inadeguate, in quanto falliscono nel riconoscere i bisogni biologici. Bertrand Russell, 1928: 199

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Capitolo secondo

La logica del dominio

La logica che sottende all’ideale dei liberisti garantirebbe, quindi, tanto la massima libertà e il pieno sviluppo delle facoltà dell’individuo, quanto la perfetta armonia degli interessi di questo con quelli della società nel suo complesso, società che in tal modo beneficerebbe anch’essa al massimo grado dell’applicazione di pratiche ispirate quanto più possibile al libero mercato. Siamo di fronte alla raffigurazione di un meccanismo tanto armonico e universale da coinvolgere, per estensione rispetto all’individuo e alla società, anche il rapporto fra gli stati nazionali, costituendo un fattore imprescindibile di garanzia rispetto alla pace mondiale. Si tratta di un’idea, quella della connessione stretta fra libero mercato e pace internazionale, che aveva visto nell’Ottocento il secolo di massima popolarità e nell’uomo d’affari e parlamentare inglese Richard Cobden il massimo apologeta (Mandelbaum, 2002: 302).

L’armonia ambigua: pace, commercio e spirito cristiano

Una volta appurato che il divenire è innocente e che il mercato rappresenta quella dimensione sociale che più si 65

avvicina alla natura e ai suoi meccanismi spontanei e impersonali, oltre che provvidenziali, i teorici del liberismo ne deducono che ogni tentativo umano, quindi razionale e in quanto tale artificiale, di intervenire su tali meccanismi costituisce un attacco alla libertà e all’armonia universale di cui beneficiano quegli individui, e quelle società, che invece vengono lasciati operare in un contesto di perfetta concorrenza. È sufficiente ricorrere ancora una volta al padre nobile di questa visione, Adam Smith, per il quale:

Lo sforzo naturale (natural effort) di ciascun individuo in vista del miglioramento della propria condizione, qualora lo si lasci esercitare con libertà e sicurezza, è un principio così potente che basta da solo, e senza alcun aiuto, non soltanto a portare la società alla ricchezza e alla prosperità, ma a superare le centinaia di inopinati impedimenti con i quali la follia delle leggi umane troppo spesso intralcia la sua azione (Smith, 1776: 40, v. 2).

Bersaglio polemico dei liberisti è indubbiamente lo Stato e, in generale, quella dimensione politica rispetto alla quale la società civile, vista come nettamente separata, costituisce sempre e comunque una «benedizione», per ricorrere all’espressione del contemporaneo di Smith, Thomas Paine, mentre lo Stato si rivela tutt’al più come un «male inevitabile», il «sigillo della perduta innocenza» (Paine, 1776: 69). Ma non si tratta soltanto di individuare un bersaglio polemico, peraltro ormai chiaro, di denunciare insomma la logica negativa che sottostà alle intenzioni degli statalisti. Infatti i teorici del liberismo erano, e sono sempre stati, convinti di aver individuato nel meccanismo spontaneo delle leggi economiche una logica positiva in grado di garantire, per quanto possibile nel mondo umano, la libertà e persino la felicità degli individui, la democrazia e il progresso per tutti ma anche, lo abbiamo visto, l’armonia e la pace fra le nazioni. È sufficiente a tal proposito aprire le pagine di un altro grande teorico del liberismo, stavolta del XIX secolo, 66

Frédéric Bastiat, per vedere come questi identificava la concorrenza con la libertà, fino al punto di definirla «la legge democratica per eccellenza», la «più progressista ed egualitaria», persino la più «comunitaria» di tutte quelle a cui la Provvidenza ha affidato il progresso delle società umane. Non soltanto Bastiat era convinto che la concorrenza economica non produceva ineguaglianza, ma nell’avanzare una spiegazione rispetto alla differente condizione economica tra paesi occidentali e orientali sosteneva, sulla base di una tradizione risalente agli albori del liberalismo, che se l’«abisso» economico è più profondo «tra il grande Lama e un paria piuttosto che tra il Presidente e un artigiano degli Stati Uniti», ciò è dovuto al fatto che la concorrenza (e la libertà), repressa in Asia, non lo è invece in America. Insomma, la concorrenza è libertà e distruggerla equivale ad annientare ogni facoltà di scegliere e giudicare: «significa uccidere l’intelligenza, il pensiero, insomma uccidere l’uomo»1. Né tali benefici possono essere relegati nella sola sfera individuale, poiché il principio di concorrenza, sempre secondo Bastiat, coincide o dovrebbe farlo nientemeno che con il «bene dell’umanità», al punto che, qui il salto di livello, tende a «cancellare le gelosie internazionali», a distruggere le «idee di invasione e conquista», a unire i popoli lasciando a ognuno di questi «tutta la sua autorità intellettuale e morale» (Bastiat, 1846-1848: 177). A condividere queste idee, seppure con toni meno enfatici, è un altro grande liberale dell’Ottocento, quel Benjamin Constant che, pur riconoscendo che la guerra favorisce lo sviluppo delle facoltà più grandi e più belle, come la grandezza dell’animo, il sangue freddo, il coraggio e il 1 F. BASTIAT, Harmonie Économique, 1850: 350-352; A. SMITH, Lectures on Jurisprudence, 1982: 339; M. PERELMAN, The Invention of Capitalism, 2000: 209.

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disprezzo della morte, ammette però che essa è del tutto contraria agli interessi di nazioni ormai avvezze al commercio e all’industria. E tuttavia è proprio in alcune sfumature presenti in Constant che si possono cogliere elementi che fanno riflettere. Per esempio laddove si trova l’affermazione secondo cui «la guerra e il commercio non sono che due modi differenti di arrivare al medesimo fine, quello di possedere ciò che si desidera». Tale riflessione, unita a quella per cui il liberale francese riconosceva il «grossolano e funesto anacronismo» da parte di un governo che volesse condurre una guerra in quell’epoca di commerci, specificando però che l’errore clamoroso avveniva soltanto nel fare la guerra con un «paese europeo», ci conduce immediatamente fuori dai toni enfatici e al tempo stesso irenici impiegati da Bastiat (Constant, 1814: 991, 1023, 993, 995). La pace prodotta dal libero commercio valeva soltanto per i paesi europei, mentre gli ammonimenti dei liberisti rispetto all’inopportunità della guerra non erano validi se questa veniva condotta contro paesi «barbari» ed extraeuropei in genere. Questa stessa logica «esclusiva» che permeava l’ideale economico dei liberali classici, se stiamo alla comparazione appena vista in Constant tra guerra e commercio, potrebbe sembrare che il liberalismo l’avesse tratta dalla tradizione dei pensatori cristiani, le cui pagine edificanti sull’amore e sulla pace si riempivano di inquietanti distinguo in riferimento ai non cristiani. Sant’Agostino, infatti, riconosceva e si riconosceva in quell’«unico e vero Dio» (cristiano) che stabilisce l’inizio, lo sviluppo e la fine delle guerre, quando ritiene che il genere umano deve essere purificato e punito. Un Dio da cui dipendono quindi la vittoria o la sconfitta di ciascuno in guerra e chi ne risulterà vincitore o sottomesso! Fornendo così il fondamento, secoli dopo, a Tommaso d’Aquino per teorizzare quella «guerra giusta» (iustum bellum) che è tale quando viene dichiarata dalla legittima autorità (auc68

toritas principis), ma soprattutto per una «giusta causa» (iusta causa) e con la «retta intenzione» (recta intentio) di perseguire il bene a discapito del male, cioè quando essa viene condotta contro gli infedeli e in vista del «premio celeste» che Dio conferirà a coloro che hanno combattuto «per la difesa dei cristiani»2. Paradossalmente l’ambiguità si svela del tutto nella Querela pacis di Erasmo da Rotterdam, celebre umanista del Cinquecento che nel suo accorato trattatello a favore della pace e apparentemente contro ogni guerra, mostrava in realtà chiaramente come i musulmani dovevano essere esclusi dalla sua nobile visione. Il grande umanista, infatti, dopo aver ricordato il fatto che persino gli animali non si attaccano se appartengono alla stessa specie («vipera non morde vipera», mentre «i cristiani assalgono altri cristiani con meccanismi infernali»), biasimava quei cristiani che avevano risposto prontamente e in massa all’appello bellicoso di Giulio II (1511) per costituire una «Lega Santa» contro la Francia (per una guerra interna al cristianesimo, quindi), mentre aderivano in pochi alla pace che il Papa Leone X aveva concluso con i francesi, col proposito (questo sì ritenuto degno da Erasmo) di unire la cristianità in una crociata contro i turchi. Insomma, accorato e letterariamente pregevole era l’appello del grande umanista contro le guerre, ma «parlo naturalmente delle guerre combattute un po’ ovunque da cristiani contro cristiani», si affrettava a precisare, perché se proprio bisogna prendere atto del fatto che la guerra è un «male fatale dell’animo umano» (fatalis humani ingenii morbus), allora è assai meglio rivolgere questa iattura contro i turchi (Erasmo da Rotterdam, 1517-1529: 47, 59, 65-67). 2 SANT’AGOSTINO, De civitate Dei, 1877: VII, 30; XVIII, 2,1; TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologica, 1266-1273: II-II, q. 40, a1; II-II, q. 40, a2, arg. 4.

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Ma torniamo agli autori liberali e alla loro ambiguità. Basta leggere un pensatore come John Stuart Mill, fra i più oscillanti del liberalismo, che se nei Princìpi di economia politica magnificava le virtù intellettuali e morali del commercio internazionale, capace di portare la civiltà presso i barbari e di assurgere al ruolo di «principale garanzia della pace nel mondo», nel suo trattato Sulla libertà scriveva senza remore che «il dispotismo è una forma legittima di governo quando si ha a che fare con i barbari», dai quali è lecito esigere un’«obbedienza assoluta» persino attraverso una fase transitoria di schiavitù». Peraltro il filosofo inglese assumeva toni duri anche nei Princìpi, chiarendo maggiormente che il dominio economico e militare sui popoli più arretrati si giustifica con le ragioni del progresso economico: ci sono «tribù selvagge così poco avvezze allo svolgimento di una regolare attività produttiva, che risulta quasi impossibile introdurre tale attività presso di loro senza conquistarle e ridurle in schiavitù», poiché del resto la schiavitù è incompatibile solo con «un alto tenore di vita» e con «un sistema produttivo altamente efficiente», specificazione che a quei tempi escludeva evidentemente larghissima parte della popolazione mondiale (Stuart Mill, 1848: 594, v. 3, III-17 § 5, 247, v. 2, II-5 § 2; Id., 1972: 73, 198). L’ambiguità degli ideali di pace promossi dai fautori del libero mercato risaltava anche a una sommaria analisi del contesto storico. Questi intorno alla metà dell’Ottocento, infatti, erano gli anni in cui l’Europa industrializzata e gli Stati Uniti dispiegavano il loro dominio imperiale e violento sui paesi più deboli in nome di proclami quali l’esportazione della civiltà e del progresso e, naturalmente, in nome di valori commerciali. Erano gli anni in cui la Gran Bretagna, seguita poi da altri paesi europei, si era impegnata nelle sciagurate guerre per costringere la Cina a importare l’oppio e in cui reprimeva con «barbarie» (come riconosceva il liberale Tocqueville) la rivolta dei 70

sepoys in India, ma erano anche gli anni in cui gli Usa conducevano una guerra micidiale contro il Messico (18461848), sempre col pretesto dei valori economici e di progresso, ma di fatto per conquistare, in nome del «destino manifesto» di cui il governo americano si sentiva investito, territori liberi in cui reintrodurre il fardello della schiavitù e la dominazione bianca (Remini, 2008: 123-126; Beard, 1960: 278-279). In riferimento a un contesto storico del genere, John Stuart Mill vedeva nella guerra assai cruenta contro la Cina un’operazione a favore della libertà di commercio (poiché il divieto di importare dell’oppio da parte del governo cinese violava la libertà del popolo di acquistarlo, prima ancora di quello dell’Inghilterra a venderlo, secondo la bizzarra opinione del filosofo), operazione in nome della quale risultavano ridicoli gli appelli all’«umanità» e allo «spirito cristiano» in favore dei «furfanti» cinesi, mentre dall’altra parte Tocqueville non nascondeva che in India, in seguito alla rivolta dei sepoys contro la dominazione inglese, i «massacri dei barbari» erano accompagnati dalla «barbarie dei civilizzati», ma a differenza del grande liberale inglese non sentiva il bisogno di ammantare di ideali economici le conquiste occidentali, celebrando con toni epocali quel «grande avvenimento» che vedeva «la razza europea» trionfare «al di fuori dei suoi confini»3. C’è molto di che riflettere sulla logica di pace e armonia universali che sottenderebbe all’idea liberista. L’ideale del libero mercato e della concorrenza economica liberata dalle maglie strette della politica, similmente a quanto accaduto con la celebrazione dello spirito cristiano, ben lungi J.S. MILL, Utilitarianism, Liberty, Representative, Government, 1972: 151; ID., Principles of Political Economy, 1963-1991: 528, v. 15; A: DE TOCQUEVILLE, Oeuvres Complétes, 1951 sgg.: 496, v. 8, tomo 3; p. 58, v. 6, tomo 1. Si veda anche P. ERCOLANI, Il liberalismo degli antichi e dei moderni, 2008²: 15-22, 36. 3

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dal presupporre e dal produrre lo sviluppo armonico e pacifico dei popoli mondiali, si è piuttosto rivelato alla stregua di uno strumento di dominio dei popoli più forti nei confronti dei più deboli. Una vera e propria favola da cui, in assenza di pregiudizi, è assai arduo ricavare la morale idilliaca e a-conflittuale che tanto piace ai liberali, mentre è assai più realistico richiamarsi alla morale della favola mandevilleana, da cui evincere che «non si può giudicare l’economia con gli occhi della morale» e secondo la quale «soltanto i folli si impegnano per rendere onesto un grande alveare», poiché pensare di «godere le comodità del mondo, essere famosi in guerra e vivere nell’agio eliminando i grandi vizi» si rivela alla stregua di «una vana Utopia che alberga nel nostro cervello» (Mandeville, 1705: 36, v. 1; Simonazzi, 2008: 222). Una favola cattiva, certamente, ma assai più utile se si vogliono comprendere i meccanismi dell’evoluzione umana e i conflitti radicali che la caratterizzano.

Il peccato originale

La logica sottesa all’ideale che promuove l’assoluta libertà economica, all’interno di un sistema quanto più possibile concorrenziale e finalizzato al profitto, non presuppone né tantomeno garantisce quelle dinamiche armoniche e pacifiche che abbiamo visto essere decantate dai teorici liberisti. Certamente sarebbe sciocco, per non dire scientificamente errato, ritenere che ad oggi si sia trovato un sistema di produzione della ricchezza alternativo a quello capitalistico, capace di garantire tanto il benessere di un certo numero di individui all’interno di una società, quanto la pace fra stati diversi, per non parlare delle derive liberticide e drammatiche in cui sono piombati quei regimi che si sono ispirati all’ideale comunista. 72

Ma non per questo si possono accettare pacificamente le visioni auliche proposte dagli apologeti del liberismo, soprattutto nella nostra epoca di economia capitalistica globalizzata, in cui l’economia stessa, appunto, ha invaso tutte le sfere di esistenza dell’essere umano e, per di più, ci sta mettendo di fronte a scenari assai mutati, in cui i vecchi equilibri di dominazione e potere stanno saltando di fronte all’emergere di paesi nuovi sulla scena economica mondiale. A un’analisi più obiettiva, infatti, appare evidente come all’interno dei paesi occidentali lo sviluppo del sistema capitalistico ha visto un graduale spostamento dei conflitti sociali dall’interno all’esterno. Il lento ma graduale superamento dei meccanismi di sfruttamento da parte della classe proprietaria nei confronti dei lavoratori salariati, infatti, si è convertito in una pratica imperialistica che ha visto gli stessi stati occidentali compensare la perdita di ricchezza, dovuta al processo di democratizzazione sociale e politico al proprio interno, con la conquista e lo sfruttamento dei paesi più deboli e poveri, spesso e volentieri proprio in nome di quegli ideali di libero mercato abbandonati dagli stati occidentali per primi ma imposti in maniera iniqua alle nazioni sottosviluppate o in via di sviluppo. Varrebbe anche la pena, ma non è questa la sede e quindi lo diciamo solo per inciso, riflettere su quanto queste stesse potenze emergenti stiano riproducendo la logica di sviluppo capitalistico già sperimentata dagli stati occidentali: pensiamo al caso della Cina e dei paesi dell’Est in genere, da più parti accusati di aver abbracciato l’economia di mercato operando una politica financo schiavistica nei confronti dei lavoratori al proprio interno, con soprattutto le donne e i bambini ancora una volta nel ruolo delle vittime designate4. A quando il passaggio alla fase ulteriore, verrebbe da chiedersi, cioè a 4 A. ROSS, Low Pay, High Profile, 2004: 124; C.K. LEE, Gender and the South China Miracle, 1998; C. CARTIER, Globalizing South Cina, 2001, in particolare il capitolo VI. Si veda anche D. HARVEY, A Brief History of Neoliberalism, 2005: 169-170.

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quella che una volta veniva chiamata «esternalizzazione del conflitto» sociale, che alle condizioni di oggi potrebbe tradursi in una nuova guerra mondiale? Ma abbandoniamo le congetture apocalittiche e concentriamoci sull’analisi di una realtà, quella dell’economia di mercato, che se certamente ha prodotto il grande sviluppo e benessere di una parte ridotta della popolazione umana (prima soltanto all’interno degli stati occidentali, oggi in ambito globale), lo ha sempre e comunque fatto non soltanto al prezzo dello sfruttamento e dell’impoverimento di tutta una grande massa di individui ma anzi grazie alla presenza di essa. Che le vittime del libero mercato, libero anzitutto dai freni della politica e della legge, fossero le grandi masse interne agli stati liberali (soprattutto fino alla fine dell’Ottocento), o che fossero le popolazioni degli stati più deboli e poveri, da questa dinamica non si è mai sfuggiti, malgrado le raffigurazioni agiografiche di molti autori liberali, fin dagli albori del sistema di produzione capitalistico. Ciò è stato vero già a partire da quell’operazione che consistette nel «brutale processo» di separazione delle persone dai propri mezzi di sussistenza e che Marx aveva battezzato col nome di «accumulazione primitiva», ritenendo che giocasse in economia politica lo stesso ruolo del «peccato originale» nella teologia, all’origine di enormi disagi per la maggior parte della gente comune in quell’Inghilterra da cui stava prendendo corpo la rivoluzione industriale. L’espropriazione di terre da parte dei nobili prima e dell’alta borghesia poi, infatti – espropriazione che fu resa possibile dalla struttura legale creata dagli stati nazionali per eliminare i diritti tradizionali dei contadini sulle rispettive terre, pur se avvenuta quindi in un ambito di piena legalità formale – gettò di fatto uno straordinario numero di persone nell’indigenza più totale, costringendole ad accettare le condizioni spesso disumane che caratterizzavano il lavoro salariato che veniva loro offerto dalle nuove classi proprietarie. 74

Dapprima minando la capacità delle persone di provvedere a se stesse, privandole di quelle terre che avevano rappresentato l’unica fonte di sostentamento, quindi impedendo loro di trovare forme di sussistenza al di fuori del sistema del lavoro salariato, attraverso durissime misure di legge che punivano violentemente il vagabondaggio o il ricorso dei poveri a qualsivoglia forma di sostentamento pubblico. Esemplificativo il caso dello Statuto inglese del 1572 sotto i Tudor, che prevedeva la frusta e la marchiatura con ferro rovente dell’orecchio sinistro per i mendicanti sopra i quattordici anni, a meno che qualcuno non fosse stato disposto a prenderli a servizio per almeno due anni, prevedendo di arrivare fino alla pena capitale per i recidivi (Perelman, 2000: 13-14; Tigar-Levy, 1977). L’atto costitutivo della società di mercato, insomma, al di là dei giudizi di valore, avveniva attraverso delle modalità di dominio da parte dei pochi proprietari nei confronti della moltitudine di contadini e persone escluse dalla proprietà, con l’appoggio sostanziale degli stati sovrani e del sistema legislativo. Ben lungi dal potersi limitare a magnificare l’alba di un nuovo mondo ispirato alla massima libertà degli individui e della società nel suo insieme, come dichiarato dai liberali, è necessario invece prendere atto di un sistema capitalistico che fin dal suo sorgere si muoveva secondo una logica oltremodo conflittuale, di dominio dei pochi più forti sui molti più deboli, anche attraverso la costituzione di una morale comune che imponeva la disciplina e la subordinazione dei lavoratori salariati. Questa nuova morale che la borghesia ormai dominante voleva imporre con la forza, doveva essere funzionale al nuovo sistema di produzione che la vedeva protagonista. Se il nesso morale/economia può sembrare paradossale o addirittura azzardato, basta aprire le pagine del celebre moralista inglese Francis Hutcheson, maestro di Adam Smith e che su di lui ebbe una notevole influenza, per leggere come questi si augurasse «almeno la riduzione in uno 75

stato di servitù temporanea» per quelle persone che non fossero disposte ad acquisire «un’abitudine all’industriosità», dimostrando così di cedere alla «pigrizia» (sloth) (Hutcheson, 1755: 318-319, v. 2). Naturalmente, questa imposizione di una morale funzionale all’economia poteva avvenire soltanto grazie a quella strettissima «connessione fra ricchezza e potere» di cui aveva parlato il liberale Jeremy Bentham, apologeta del liberismo economico ben più di Smith e convinto assertore del fatto che «la proprietà costituisse un fine in quanto tale», precisando che l’una (ricchezza) costituiva il sistema di produzione dell’altro (potere) in un rapporto di perfetta reciprocità (Bentham, 1952: 117, v. I; 1830: 48). Forse non per caso Bentham è stato anche il filosofo in grado di descrivere con grande efficacia il sistema di potere onnipervasivo rappresentato dal panopticon, ossia di un meccanismo di governo che aveva l’ambizione di controllare gli individui in tutte le loro azioni e in ogni momento della giornata. Questo tipo di potere occhiuto, onnipresente e capace di imporre una disciplina comportamentale rigorosa e funzionale al sistema economico è stato descritto con estrema efficacia da Michel Foucault, laddove spiegava il processo attraverso il quale la borghesia era divenuta classe dominante, soprattutto nel XIX secolo, all’interno di un quadro giuridico esplicito e formalmente paritario, con un regime di tipo parlamentare e rappresentativo, ma che sottintendeva delle dinamiche sottili, capaci di condizionare la realtà quotidiana e fisica delle persone attraverso quei meccanismi di «micro-potere» essenzialmente inegualitari e asimmetrici che caratterizzano la sfera della disciplina (Foucault, 1975: 223). Si trattava, in buona sostanza, di quanto messo in atto dalla borghesia capitalistica fin dagli albori del suo dominio, quando per esempio ricorreva alla reclusione in ospedali/prigioni di tutte quelle persone che, sotto l’etichetta di 76

«folli», rappresentavano in realtà con la propria condotta di vita un esempio di opposizione rispetto ai due grandi pilastri etico-morali della società industriale e borghese: la famiglia e il lavoro. Di qui, osservava sempre Foucault ma stavolta nella sua Storia della follia, la reclusione coatta e violenta che nei secoli XVII e XVIII è stata perpetrata in nome della «condanna etica dell’ozio» e di qualunque condotta individuale ispirata all’«inutilità sociale» (secondo i parametri del potere dominante), ma anche di ogni condotta esistenziale e sessuale che non portava l’individuo a costituire per forza di cose una famiglia5. Impegnando gli individui, anima e corpo potremmo dire, nell’organizzazione della propria esistenza finalizzata esclusivamente al lavoro e alla produzione di profitto funzionali al nuovo sistema economico borghese, si otteneva così che gli stessi venissero sradicati dai legami umani tradizionali e gettati in una dimensione esistenziale dominata da un «senso di de-umanizzazione» riscontrabile nei vari ambiti della propria vita (Kuczynski, 1967: 70). Un sistema di potere, quello della società di mercato, alleato e funzionale alla ricchezza ma anche per questo bisognoso della povertà, di quella grande porzione di povertà che non soltanto si rivela necessaria per l’impossibilità di sopprimerla, ma anche perché «rende possibile la ricchezza», forma il substrato e la gloria delle nazioni, per le quali l’utilizzazione dei poveri, vagabondi, esiliati ed emigrati di ogni sorta costituisce «uno dei segreti» nella concorrenza con le altre nazioni (Foucault, 1972: 428, 430). Non si trattava soltanto di intuizioni riferibili al marxista Foucault, perché in realtà possono essere rintracciate nelle affermazioni di importanti personalità di quel tempo, 5 M. FOUCAULT, Histoire de la folie à l’âge classique, 1972: 85, 105106. Anche M. Ignatieff (A Just Measure of Pain, 1978: 61 sgg.), ricordava come a partire dalla fine del 1700 «gli ospedali venivano considerati uno strumento atto a instillare la disciplina».

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come l’economista Charles Hall, che a proposito della grande massa di lavoratori coartati dal sistema capitalistico affermava che «se loro non fossero poveri, non potrebbero sottomettersi agli impieghi salariati»; oppure il magistrato politico londinese Patrick Colquhoun, che riteneva la povertà «il più necessario e indispensabile ingrediente in una società, senza il quale le nazioni e le comunità non potrebbero esistere in uno stato di civilizzazione»6. Emerge ancora una volta e con chiarezza la contraddizione che sta alla base del liberalismo economico, oscillante fra una visione irenica e aulica delle virtù intrinseche al libero mercato, e il riconoscimento dei conflitti sociali e della povertà prodotti dallo stesso. È sempre Adam Smith l’autore che meglio evidenzia tale oscillazione, ossia quel padre del liberalismo economico che in quanto «poeta dell’armonia economica non fu secondo a nessuno», stando alla felice sintesi di Perelman, per esempio laddove da una parte spiegava ai suoi studenti di giurisprudenza che «qualora il commercio veniva introdotto in ogni paese, sempre esso era accompagnato da probità e puntualità», virtù pressoché sconosciute nei paesi rozzi e barbari, mentre poi, sempre nelle stesse Lezioni di giurisprudenza, riconosceva che è proprio nei paesi civilizzati che il tempo e il lavoro del povero sono sacrificati in vista del mantenimento dell’agio e del lusso per il ricco (Smith, 1982: 538, 340; Perelman, 2000: 197). Né si tratta di questioni meramente teoriche, perché proprio negli anni in cui scriveva Adam Smith, per esempio, sappiamo che i salari reali calavano fortemente o, bene che andasse, si mantenevano stagnanti a livelli di mera sopravvivenza, mentre dall’altra parte i datori di lavoro impiegavano sovente delle misure di coercizione nei confronti dei pro6 C. HALL, The Effects of Civilization on the People in European States, 1805: 144; P. COLQUHOUN, Treatise on the Wealth, 1815: 110. Si veda anche M. PERELMAN, The Invention of Capitalism, 2000: 23, 15.

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pri dipendenti, con l’appoggio del governo inglese che, ancora nel 1815, proibiva l’emigrazione ai lavoratori salariati, con buona pace del libero mercato e della libera concorrenza, che evidentemente valevano soltanto in favore dei più forti. Un esempio ulteriore di tradimento della libertà lo troviamo nel caso dell’illustre ceramista Josiah Wedgewood, famoso in tutto il mondo per le sue innovazioni sulle modalità di produzione e per la particolare attenzione riservata al design, ma che per esempio autorizzava l’apertura della posta dei suoi dipendenti ritenuti «persone sospette», senza che nessuno degli apologeti della libertà individuale avesse alcunché da ridire (Perelman 2000: 196). Questo meccanismo contraddittorio e fondato sul metodo dei due pesi e due misure è valso ancora di più, se possibile, nel caso della politica estera attuata dagli stati occidentali.

Il grande bluff del libero mercato

Che lo sviluppo dell’Occidente liberale, pur con i suoi valori di libera concorrenza e prosperità per tutti i popoli dell’umanità, sia avvenuto anche a spese di tutta una serie di nazioni ed etnie, sterminati, schiavizzati e sfruttati, è quanto hanno ormai dimostrato svariati saggi, individuando quel vero e proprio «parto gemellare» tra sviluppo della civiltà liberale e schiavitù dei popoli esclusi dalla comunità dei liberi che sovente si è voluto rimuovere7. In particolare la tesi di Domenico Losurdo, cui si deve l’analisi del «parto gemellare», è che l’Occidente liberale, almeno fino allo scoppio della Prima guerra mondiale, ha portato avanti la sua logica (e pratica) di dominio fondandola su pale7 D. LOSURDO, Controstoria del liberalismo, 2005, passim e in particolare i capitoli II, VII e IX. Si veda anche S. BESSIS, L’Occident et les autres, 2001; H.J. CHANG, Bad Samaritans, 2008.

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si «clausole di esclusione», che hanno appunto escluso tutta una serie di categorie sociali e di popoli dal godimento di quelle libertà e quei diritti assicurati nell’ambito della comunità dei proprietari e dei liberi. In questo modo il capitalismo ha potuto affermarsi anche grazie alle espropriazioni e all’oppressione messe in atto nelle metropoli e nelle colonie, cosicché i paesi e le classi liberali hanno potuto godere dell’autogoverno e della libera proprietà (anche di schiavi e servi), il tutto beffardamente all’insegna del «governo della legge». Afferma quindi Losurdo:

Possiamo allora dire che quella liberale è la tradizione di pensiero che con più rigore ha circoscritto un ristretto spazio sacro nell’ambito del quale vigono le regole della limitazione del potere; è una tradizione di pensiero caratterizzata, più che dalla celebrazione della libertà o dell’individuo, dalla celebrazione di quella comunità di individui liberi che definisce lo spazio sacro (Losurdo, 2005: 305).

Il citato «abisso» di cui parlava Bastiat, più profondo tra il grande Lama e un paria piuttosto che tra il presidente e un artigiano degli Stati Uniti, ben lungi dall’essere dovuto al fatto che in Oriente fosse repressa la libera concorrenza, diviene per Losurdo l’abisso che separa lo «spazio sacro» dallo «spazio profano», il regno del governo della legge e della libertà che fonda la propria prosperità sullo sfruttamento delle altre etnie e popolazioni, capziosamente escluse da quella libertà e quei diritti, lo abbiamo visto con Bastiat e Stuart Mill, in molti casi teorizzati per tutti e validi, solo in teoria, universalmente. Se il liberalismo classico del XVIII e XIX secolo ha fondato il proprio dominio sulla teorizzazione di diritti da cui venivano escluse tutta una serie di categorie sociali e popoli, con l’inizio del Novecento assistiamo a un primo cambiamento di rotta: il pensiero liberale continua ad affermare i suoi valori fondanti in sede teorica (libero scambio, intervento dello stato limitato al massimo, governo della 80

legge uguale per tutti, ecc.), salvo però che i paesi liberali, de facto, abbandonino i suddetti valori8, a fronte di politiche protezionistiche e fortemente incentrate sull’intervento dei rispettivi stati al fine di garantire il dominio sulle altre economie concorrenti. Una terza e ultima fase dell’evoluzione liberale è sotto gli occhi di tutti ai giorni nostri: i valori e le pratiche del liberalismo economico vengono dai paesi benestanti imposti a quelli poveri o in via di sviluppo, molto spesso strozzando le economie e le possibilità di crescita di quegli stessi paesi. Anche stavolta ci sono gli esclusi, ma in questo caso a essere esclusi dal rispetto delle regole del libero scambio sono proprio i paesi ricchi e liberali che, sulla base di questa ulteriore esclusione, fondano il nuovo tipo di dominio sui paesi poveri. Se la prima fase passa sotto il nome di «liberalismo classico», la seconda come l’epoca dell’«imperialismo», la terza e ultima, tipica dell’economia globalizzata, è la fase del «fondamentalismo del mercato», per usare l’espressione di Joseph Stiglitz, autorevole premio Nobel per l’economia dei giorni nostri. A ricostruire la vicenda della seconda fase del liberalismo è stato Hobson, nel suo celebre studio sull’imperialismo del 1902. Egli, da buon liberale, non negava affatto e anzi esaltava lo spirito dell’inizio del XIX secolo, quando il vecchio nazionalismo non impediva alle diverse nazionalità di crescere e prosperare l’una a fianco dell’altra, e aveva più di un senso il sogno dei liberali di vedere prosperare, all’insegna del libero scambio, un «efficace, informale internazionalismo», fondato su un «pacifico e produttivo interscambio di merci e idee» tra le nazioni che riconoscevano una «giusta armonia di interessi fra i popoli liberi» (Hobson, 1902: 10). Ma mentre più nazionalità coesistenti fra loro sono in grado di fornirsi aiuto reciproco, poiché non è automatico Per una ricostruzione storico-sociale più puntuale di tali questioni, siano consentiti i rimandi a Ercolani (2004, 2008, 2011). 8

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l’antagonismo di interessi, il fiorire dell’idea imperiale comporta la compresenza di più imperi, ognuno votato all’allargamento dei confini e al potenziamento industriale e quindi destinati a entrare in conflitto. Al di là dell’opinabilità della ricostruzione di Hobson – l’Inghilterra era di fatto un impero da almeno due secoli e la sua idea sembra quella di uno che rimpiange i tempi in cui un solo paese, il suo, poteva arricchirsi sulla base dello sfruttamento dei paesi colonizzati – è importante notare come l’emergere di conflitti fra più nazioni economicamente forti (tali nazioni, all’inizio del XX secolo, erano la Germania, la Francia, la Russia e il Giappone, stante il fatto che gli Stati Uniti si erano riservati più o meno tutto l’altro emisfero), e votate all’imperialismo, ha comportato l’aver «ripudiato il libero scambio», a favore di un’economia fondata su una «base protezionista». È perfettamente «logico e coerente», secondo l’analisi di Hobson, che un imperialista diventi un «protezionista aperto e confesso» (ivi: 72): l’imperialismo infatti si sforza di legare alla madrepatria i mercati di ogni acquisizione territoriale, convinto così di recuperare gli ingenti investimenti nazionali richiesti dalla politica imperialista; il libero scambio, invece, «affida l’incremento dei nostri scambi esteri all’attività interessata delle altre nazioni che scambiano con noi». Così, era l’esempio dell’autore inglese, il libero commercio della gomma da parte della Francia nell’Africa orientale (che era sotto il dominio inglese), contribuisce ad aumentare l’offerta di gomma e tenere bassi i prezzi anche per consumatori inglesi (ivi: 73). Il problema che ha reso appetibile l’imperialismo, e con esso l’adozione di politiche statalistiche e protezionistiche, per i grandi paesi industrializzati, è da ricercare proprio nei meccanismi che regolano il funzionamento dell’economia di mercato. Facendo marxianamente riferimento alla «legge dei rendimenti decrescenti» (ivi: 74), Hobson prima ricostruiva la vicenda inglese, affermando espressamente 82

che «finché l’Inghilterra ha avuto un monopolio virtuale dei mercati mondiali rispetto a determinate e importanti classi di merci manufatte, l’imperialismo non era stato necessario». Col 1870 e l’indebolimento del monopolio commerciale a favore di altre nazioni (in specie gli Stati Uniti, la Germania e il Belgio), l’imperialismo si era reso necessario all’Inghilterra per trovare nuovi mercati su cui vendere l’eccesso di prodotti del sistema produttivo inglese, dovendo quindi avvalersi di rigide tariffe protettive che limitavano l’efficacia della concorrenza delle altre nazioni, e in generale di una bellicosa politica statalista mirante ad assicurarsi annessioni territoriali e protettorati (ivi: 77). Ma Hobson analizzava anche il caso americano, ritenuto ancora più significativo per comprendere il passaggio dall’economia di mercato a quella statalista o protezionista. Il fatto che con la fine dell’Ottocento gli Stati Uniti iniziavano una politica espansionista e imperialista, apparentemente fondata sulla «missione civilizzatrice», non deve far perdere di vista il vero fattore propulsivo, ancora una volta economico: la più grande economia del mondo si sviluppò anche e soprattutto grazie a «rigide tariffe protettive» e alla costituzione di «cartelli industriali» (ivi: 79). La storia di ogni cartello, ricordava Hobson, dimostra in modo preciso e completo che nella fase di libera concorrenza delle manifatture l’economia americana era gravata da una cronica condizione di «sovrapproduzione», cui si riuscì a far fronte eliminando «lo spreco della concorrenza». La capacità produttiva di un paese come gli Stati Uniti, notava Hobson, può svilupparsi così in fretta da eccedere la capacità di domanda del suo mercato interno, ed è precisamente ciò che accadde alle sue industrie più sviluppate con la fine dell’Ottocento (ivi: 80-81). L’avventuroso entusiasmo del Presidente Roosevelt e il suo partito del «destino manifesto» e della «missione civilizzatrice» non devono trarci in inganno secondo Hobson, poiché furono i Rockefeller, i Morgan e i loro associati ad 83

aver avuto bisogno dell’imperialismo e ad averlo gravato sulle spalle degli Stati Uniti (ivi: 82-83). Stessa cosa accadde per i maggiori paesi europei e la conclusione di Hobson non poteva essere più eloquente:

Ogni miglioramento dei metodi di produzione, ogni concentrazione di proprietà e di controllo sembra accentuare questa tendenza. Via via che ogni nazione entra nell’economia delle macchine e adotta metodi industriali avanzati, diventa più difficile per i suoi produttori, mercanti e finanzieri disporre con profitto delle loro risorse economiche, così da essere tentati ogni volta di più di utilizzare i propri governi in modo da assicurare al loro uso particolare, per mezzo di annessioni e protettorati, qualche lontano paese arretrato (ivi: 86).

Autorevoli studiosi di storia economica dei giorni nostri sono ben lungi dallo smentire la ricostruzione hobsoniana. È il caso di David Landes, il quale riconosce che sussidi e aiuti diretti costituiscono solo una parte della storia dello sviluppo del capitalismo inglese ai suoi esordi. Non di «mano invisibile» si trattava, bensì di una onnipresente e pesante «mano dello stato (state’s hand)» che si estendeva ovunque, anche laddove non appariva manifesta immediatamente. In Gran Bretagna il governo sostenne e protesse il commercio d’oltreoceano, non solo facendo pagare al paese i costi delle imprese e delle avventure private in mari distanti da parte dei grandi commercianti e finanzieri, ma anche attraverso misure protezionistiche finalizzate alla difesa contro la competizione straniera. La conclusione di Landes è quantomai significativa: «I massimi fautori del libero commercio – la Gran Bretagna vittoriana e gli Stati Uniti post Seconda guerra mondiale – erano stati fortemente protezionisti durante la propria fase di sviluppo» (Landes, 1998: 265-266). Non c’è da meravigliarsi, anche se effettivamente ci troviamo di fronte a una parte di storia e a una trazione, quella del protezionismo economico americano, sovente 84

rimossa dagli storici e dagli studiosi delle idee. E dire che fin dagli esordi il governo statunitense si era mosso attuando una strategia fondata sull’assistenza governativa all’industria manifatturiera locale, attraverso obblighi di protezione, premi, sussidi, ecc., suscitando la convinta opposizione nientemeno che di Adam Smith. Tutto ciò, con l’avallo ideologico di uno dei padri della patria, quell’Alexander Hamilton che, amico e confidente di George Washington, nel 1791 aveva redatto un Rapporto sulle manifatture poi consegnato al parlamento in cui sconsigliava vivamente l’importazione di manifatture dai paesi esteri e anzi suggeriva tariffe protettive, premi e investimenti governativi, considerati elementi essenziali del programma pianificato di assistenza a un’industria che andava promossa dallo stato, almeno nel momento in cui muoveva i primi passi (industries in their infancy). L’influente politico non si limitava al caso dell’industria manifatturiera, ma coinvolgeva nella sua visione protezionistica anche il settore fondamentale dell’agricoltura, seguito a ruota da altri giuristi ed economisti autorevoli, come Daniel Raymond e Willard Phillips, che si schierarono sulle stesse posizioni rispetto ad altri comparti fondamentali dell’economia americana9. Ciò è confermato anche da un altro studioso americano dei giorni nostri, che proprio in un’opera dedicata allo sviluppo della ricchezza in America, constata come sin dal 1790 efficaci regimi nazionali negli Stati Uniti hanno quasi sempre impiegato, piuttosto che disimpegnare, il potere federale per favorire l’economia (Phillips, 2002: 93). Sin dai primi dieci anni di vita il governo federale americano aveva giocato un ruolo assai rilevante nell’incoraggiamento dell’industria, attraverso passaggi quali il Navigation act del 1817 che, di fatto, chiuse completamente le coste ame9 A. HAMILTON, Report on Manufactures, 1971: 197-198, 228-229; L. GOMES, The Economic and Ideology of Free Trade, 2003: 68-71; H.J. CHANG, Bad Samaritans, 2008: 49-51, 232-233.

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ricane al commercio con i paesi esteri. Ma persino dopo il 1865, con l’inizio della cosiddetta Età d’Oro, fu un grande errore parlare di «epoca del laissez-faire» (l’autore usa significativamente l’espressione «mito») e di credere che in quegli anni il governo federale avesse ridotto il suo ruolo negli affari della nazione (ivi: 93, 232, 235-236). Il «più adatto», cioè colui la cui capacità imprenditoriale lo faceva trionfare nell’agone economico, non avrebbe assolutamente potuto sopravvivere senza usare il governo, e in una dimensione che andava ben oltre il binario statale protetto delle commissioni o la corruzione dei consiglieri comunali10. Il fondamentale intervento dello stato nelle questioni economiche, caratteristica precipua del capitalismo occidentale fin dai suoi esordi, si fece ancora più pregnante con la fine del 1800. A tal proposito uno storico dell’Inghilterra a cavallo tra Ottocento e Novecento registrava il fatto che, in Germania, Bismarck aveva mostrato come una via per resuscitare il pensiero conservatore fosse quella di adottare un’azione di riforme sociali finanziate attraverso la politica fiscale. Altri paesi europei seguirono l’esempio del Cancelliere tedesco, per contrastare il dominio inglese in materia di esportazione di prodotti ma anche per dare forza alle grandi industrie che stavano nascendo nei singoli stati. In forza di queste politiche governative di protezione si svilupparono le grandi industrie europee, ma anche gli Stati Uniti, nel 1890, adottarono un rigoroso sistema protezionistico (MacKinley Tariff). La tendenza era ormai generalizzata, nell’Inghilterra liberale riforme quali l’Old Age Pension Act del 1908 e il National Insurance Act del 1911 erano lì a testimoniare 10 Ivi: 236. È appena il caso di ricordare che, in chiave antistatale e di magnificazione della piena e libera concorrenza in ambito sociale, parlava di sopravvivenza degli adatti o degli inadatti il socialdarwinista H. SPENCER, Social Statics, 1892: 358.

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l’importanza della legislazione sociale in materia economica, tanto che nel 1892 il leader conservatore inglese Lord Salisbury arrivava a giustificare il metodo delle tariffe doganali e, più in generale, si era verificata una modifica non di poco conto dello slogan dei conservatori: non più «free trade», ma «fair trade», sebbene ufficialmente si continuasse a proclamare il mercato libero come un ideale ancora attuale (Thomson, 1950: 194). Rispetto a tale tendenza non faceva eccezione la Francia, sfuggita alla crisi economica mondiale del 1873, che aveva colpito paesi come l’America e l’Inghilterra, grazie alle barriere doganali con le quali l’aveva astutamente cinta il governo Thiers (Miquel, 1976: 426)11. Di questa situazione diffusa, con analisi e prospettive diverse, si accorsero sia i liberali più votati al liberismo, sia quelli che propendevano per una maggiore eguaglianza delle opportunità garantita dall’intervento statale. Fra i primi si può citare Bruce Smith, autore alla fine dell’Ottocento di un’opera monumentale su Libertà e liberalismo, che portava il significativo sottotitolo di «protesta contro la tendenza montante verso un’indebita interferenza dello stato nella libertà individuale, nell’impresa privata e nel diritto alla proprietà». Questo studioso, dopo aver attentamente analizzato la realtà del proprio tempo, parlava del «sistema di protezione delle industrie locali», come di una realtà che di fatto impone una punizione ad ogni cittadino che vuole esercitare il diritto di «comperare ogni cosa di cui avesse bisogno», e che così facendo interferisce, attraverso la mediazione dello stato, con quel particolare diritto. Il protezionismo, conclude Smith, si rivela come un’«inqualificabile trasgressione di uno dei primi principi del governo (liberale), nonché come un’«interferenza dello stato nella nostra libertà civile» (Smith, 1887: 540-541). Per una visione d’insieme rimandiamo a P. ERCOLANI, 1902-2002: la logica del dominio, 2007². 11

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Il protezionismo, insomma, era colpevole secondo Smith di ledere la libertà individuale, per di più con la complicità dello stato, a favore di imprese protette che potevano gestire a proprio piacimento le merci e soprattutto i prezzi, senza dover sottostare alle regole della libera concorrenza e del mercato. Dall’altra parte abbiamo Hobhouse, un liberale che nei primissimi anni del Novecento, proprio perché partiva da una premessa spesso contrastante con i pensatori a lui affini («la libertà implica l’uguaglianza» [Hobhouse, 1911: 17]), criticava l’assunto classico del liberalismo secondo cui «la possibilità dell’individuo di agire senza restrizioni è il principio cardine di ogni progresso» e biasimava come spirito poco profondo quello della sua epoca, in cui si rimproverava al liberalismo un’incoerenza coi propri valori nel promuovere al tempo stesso un protezionismo economico per le imprese e una legislazione protettiva per i lavoratori: le due azioni non hanno nulla in comune fra loro secondo Hobhouse, e certamente contrastano con i valori del liberalismo classico, ma di certo operano nell’interesse della collettività, sulla base del principio per cui la «buona libertà» non è quella di uno che guadagna alle spese degli altri, ma quella che può essere goduta da tutti coloro che vivono insieme (ivi: 44, 51). Fino a qui potrebbe sembrare che anche Hobhouse, pur andando ben oltre gli assunti individualisti del liberalismo classico, si fermasse però alla dimensione nazionale, o magari a quella occidentale, laddove parlava di «libertà goduta da tutti coloro che vivono insieme». In realtà l’autore inglese andava ben oltre, ed è significativo che lo facesse all’interno del capitolo sul laissez-faire. Per completare la libertà personale occorre una libertà nazionale, scriveva Hobhouse, ma anche una libertà delle colonie dallo sfruttamento della madrepatria, perché «libertà personale, coloniale e internazionale sono parti di un intero», che evidentemente è dato dalla Libertà, priva di senso se non coniugata al plurale ed estesa universalmente a tutti gli individui (ivi: 45). 88

Ma i liberali, o coloro che ancora si dichiaravano tali, avevano pronta una spiegazione per il colonialismo e per lo sfruttamento dei paesi poveri. Questa spiegazione consisteva nel fatto che la libertà è un qualcosa che si guadagna, che si ottiene lentamente e nell’ambito di un contesto culturale e sociale favorevole. Con ciò si spiega il concetto di «missione» educativa e di civiltà nei confronti delle colonie, al fine di esportare la cultura dell’«autogoverno rappresentativo» e della «democrazia». Ma ancora una volta ci pensava il pur liberale Hobson a smentire questa visione mitologica, laddove constatava con nettezza che: Asserire che la nostra regola fissa di azione è stata quella di educare i nostri possedimenti a questa teoria e pratica, costituisce la più enorme falsità rispetto alla reale politica coloniale e imperiale. Alla stragrande maggioranza dei popoli del nostro impero non abbiamo concesso alcun reale potere di autogoverno, né abbiamo mai avuto alcuna seria intenzione di farlo o di pensare che fosse nelle nostre reali possibilità12.

E infatti la realtà fu ben diversa, come hanno documentato personalità di opinioni e periodi assai lontani. Il capitalismo occidentale fiorì e si sviluppò anche e soprattutto grazie alla schiavizzazione e sfruttamento di intere razze e popoli. Ce lo ricorda Eric Williams, che nel 1944 scrisse un’opera dal titolo eloquente (Capitalism and Slavery) in cui si documentava come i «profitti del commercio di schiavi» e lo «sfruttamento del lavoro schiavistico» avessero «innaffiato il giardino del nascente capita-

J. HOBSON, Imperialism, 1902: 120. Poco più avanti lo stesso autore definisce come un vero e proprio «luogo comune (commonplace)» del pensiero liberale quello di ritenere che la missione imperiale dell’Inghilterra fosse finalizzata a diffondere le arti del libero governo (to spread the arts of free government); ivi: 124. 12

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lismo» e «fertilizzato l’intero sistema produttivo del paese». Ma già Adam Smith, del resto, aveva parlato di un «sistema atlantico basato sulla schiavitù», che aveva reso possibile per l’Inghilterra la divisione del lavoro e la trasformazione delle strutture economiche e sociali» (Landes, 1998: 119). L’autore contemporaneo da cui abbiamo tratto queste citazioni, non si esime dal cercare di dimostrare che, di fatto, sul piano strettamente economico l’apporto fornito dal colonialismo e dalla schiavitù non fu poi così ingente, ma è poi costretto ad ammettere che «senza la schiavitù, tuttavia, l’industria si sarebbe sviluppata molto più lentamente» (ivi: 121). Sempre lo stesso studioso, David Landes, riferendosi poco più avanti all’esempio delle piantagioni di zucchero create dalla dominazione spagnola, riferisce in maniera cruda e particolareggiata delle «brutalità» commesse, in cui padroni e negrieri costringevano i maschi adulti a lavorare fino a venti ore al giorno, senza che molto spesso gli venisse dato da mangiare. Gli schiavi venivano trattati come «macchine inanimate» e peggio degli animali, verso i quali i padroni mostravano maggiore cura. Inutile ribadire che tali pratiche di sfruttamento brutale del lavoro umano proseguirono nei secoli ben oltre la dominazione spagnola13. La realtà a cavallo tra Ottocento e Novecento, sotto gli occhi di tutti coloro che volevano vederla, era quella di un liberalismo classico alle corde, abbandonato da quegli stessi capitani di industria e governanti che trovavano assai più redditizio sposare la causa dell’imperialismo per incre13 Ivi: 123. L’autore citato si limita alla dominazione spagnola, ma per vedere come questa tradizione di sfruttamento e de-umanizzazione degli schiavi a fini di profitto fosse proseguita, nella teoria come nella pratica, con le dominazioni francese, inglese, americana e dei paesi ricchi occidentali in genere, almeno fino ai primi decenni del Novecento, si può consultare D. LOSURDO, Controstoria del liberalismo, 2005.

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mentare i propri profitti. I liberali, costretti a evidenti ripensamenti o contraddizioni rispetto ai valori fondanti della loro idea, con la fine dell’Ottocento si erano trovati di fronte a «sconfitte schiaccianti», tanto che lo stesso liberalismo poteva essere definito un «fossile che occupava, più che altro, una goffa posizione tra due macine che si muovevano in maniera più attiva ed energica»: l’imperialismo plutocratico, soprattutto, ma anche la socialdemocrazia (Hobhouse, 1911: 110). Tra i ranghi liberali molti degli uomini più potenti erano passati sotto l’influenza dell’imperialismo, tanto che Hobson parlava di vero e proprio «crollo del partito liberale» sul continente e anche in Gran Bretagna: tale cedimento all’imperialismo si spiegava, secondo l’autore inglese, col fatto che alla causa del liberalismo i liberali hanno preferito gli interessi economici delle classi possidenti e speculatrici, cui molti di loro appartenevano, finendo con lo svendere la causa delle riforme liberali, che costituiva la loro principale eredità, a un imperialismo che ha fatto appello ai loro interessi economici e ai loro privilegi sociali (ivi: 113; Hobson, 1902: 150-152). Insomma, lo sviluppo della democrazia all’interno dei paesi occidentali (col guadagno, da parte delle classi popolari, di riforme quali il suffragio universale maschile e la legislazione sociale in favore dei lavoratori), aveva messo i liberali conservatori (a quel tempo la maggioranza) di fronte al bivio se continuare sulla scia delle riforme sociali oppure allearsi con gli elementi dell’imperialismo plutocratico, per continuare a conseguire enormi profitti (e commerciare i propri prodotti, spesso in eccesso) sulle spalle dei popoli e delle nazioni colonizzati. La stragrande maggioranza dei liberali optò evidentemente per la seconda ipotesi, portando l’imperialismo al suo apogeo e provocando alla teoria liberale una sconfitta sonora da cui sarebbe uscita solo al prezzo di forti cambiamenti dei propri valori di fondo. 91

La fine delle illusioni

Risultano oltremodo evidenti i capisaldi che il liberalismo ha dovuto abbandonare sull’onda di rivolgimenti storici ed economico-sociali di enorme portata. Le due guerre mondiali, intervallate dalla grande crisi economica del 1929, con la disoccupazione di massa e la fine del mercato autoregolantesi, segnavano anzitutto la crisi del modello liberale classico, che sarebbe uscito da quel periodo così trasformato da essere quasi irriconoscibile. È importante rilevare come non si trattava soltanto di una trasformazione dovuta a cause esogene (le guerre, l’estensione del suffragio con la relativa influenza dei partiti socialisti, la legislazione sociale e lo sviluppo dei diritti di cittadinanza), ma anche endogene al dogma liberale stesso. Il sempre più compiuto dominio dell’industria da parte di un ristretto numero di società per azioni, che ha mutato il carattere della sfera economica fino a produrre processi di accentramento e di concentrazione e l’iniziale mediazione istituzionale del potere politico nella società capitalistica, che poi è sfociato in una vera e propria «programmazione» del mercato da parte dello stato, hanno spinto più autori a parlare di «post-capitalismo» e a chiedersi addirittura se quella uscita dalla grande crisi potesse essere ancora definita una società capitalistica14. Il mondo stava cambiando con una velocità impressionante, mentre la portata stessa dei rivolgimenti rendeva anacronistiche le istanze del liberalismo classico. La recessione economica cominciata in America col crollo di Wall Street verso la fine del 1929 – con il conseguente dirottamento dei fondi dal prestito estero alla speculazione interna – unita alla richiesta da parte delle banche statunitensi del rimborso dei crediti europei, incrementarono oltremoCi limitiamo a citare il caso di A. GIDDENS, The Class Structure, 1973: IX-1, ma la lista potrebbe essere agevolmente ampliata. 14

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do la crisi dei paesi europei, già flagellati dalla disoccupazione di massa e dalle sempre più frequenti proteste sociali. Di conseguenza «un paese dopo l’altro fu costretto a proteggere la propria moneta mediante il ricorso alla svalutazione o al controllo valutario. La sospensione della convertibilità in oro della sterlina inglese nel settembre del 1931 portò alla definitiva distruzione dell’unica rete di transazioni commerciali e finanziarie mondiali su cui erano basate le fortune della City di Londra». Il protezionismo imperversò, mentre il capitalismo si chiuse negli iglù delle sue economie di stati-nazione. Si trattò di una vera e propria rivoluzione mondiale, le cui caratteristiche principali erano la scomparsa della haute finance dalla politica mondiale, il crollo della Società delle Nazioni a vantaggio degli imperi autarchici (e degli stati-nazione), l’ascesa del nazismo in Germania, i piani quinquennali in Unione Sovietica e il lancio del New Deal statunitense (Arrighi, 1994: 358-359). Che non si era di fronte a cambiamenti di poco conto è confermato anche da quanto dichiarava nel 1946 ai suoi concittadini un autorevole statista americano di rigorosa fede capitalista: «Nel nostro paese la gente non teme più parole come “pianificazione” [...] la gente ha accettato il fatto che il governo debba pianificare così come in questo paese ogni cittadino pianifica il proprio futuro» (Maier, 1987: 129). Né si trattava di cambiamenti cui di fatto ci si potesse opporre, poiché gli esiti della storia erano chiari e vano sarebbe stato tentare di evaderli. È lo stesso Keynes a scrivere nella sua opera principale, agli inizi degli anni ’30, che «la teoria classica» (quella dell’individualismo sfrenato, del laissez-faire, del non intervento dello stato nelle questioni economiche) rappresentava «il modo nel quale vorremmo che la nostra economia si comportasse, ma supporre che di fatto essa si comporti così, significa ritenere inesistenti le grandi difficoltà cui ci troviamo di fronte» (Keynes, 1936: 34). L’autorevole esponente del New Deal, 93

che elaborava le sue teorie sull’onda della grande depressione degli anni ’30, arrivava così a concludere che «l’intervento dello stato per promuovere e finanziare nuovi investimenti» costituiva l’unica «via d’uscita da una depressione prolungata e forse interminabile»15. Proprio gli esiti della storia hanno condotto un grande studioso della materia a concludere che, dopo il 1945, pressoché tutti i paesi dell’Occidente respinsero nelle intenzioni e nei fatti l’economia di mercato, aderendo ai princìpi della direzione pubblica e della pianificazione statale e nella ferma convinzione che solo l’intervento dello stato nell’economia potesse impedire un ritorno alle catastrofi economiche avvenute tra le due guerre mondiali (che avevano condotto le masse esasperate ad aderire ai progetti palingenetici del nazismo e del fascismo) (Hobsbawm, 1994: 176): «Il capitalismo post-bellico era innegabilmente [...] una sorta di matrimonio fra il liberalismo economico e la democrazia sociale [...] con aspetti non secondari presi a prestito dalla politica economica dell’Urss, che per prima aveva praticato la pianificazione economica». Ciò malgrado le fervida opposizione da parte dei teologi del libero mercato (su tutti lo Hayek di The Road to Serfdom, del 1944), i quali ritenevano che questa grande trasformazione dell’economia (e della politica) dell’Occidente avrebbe condotto direttamente a una nuova servitù della gleba. Ricorda Hobsbawm: 15 J.M. KEYNES, The Collected Writings of J. M.K., 1971-1989: 5960, vol. XXI. Al contrario di quanto certi autori hanno affermato, l’adesione di Keynes ad alcune pratiche vagamente socialistiche non era ideologica, bensì era dettata dalla constatazione scientifica della realtà socio-economica che il grande economista si trovava ad analizzare. Lui stesso ricorda come per molti anni avesse convintamente sostenuto le teorie del liberismo classico e come le avesse dovute abbandonare sulla scorta della necessità imposta dagli eventi (J.M. KEYNES, The General Theory, 1936: VI).

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Essi si erano schierati per l’intoccabile purezza del mercato anche durante la Grande Crisi. Continuarono poi a condannare le politiche che fecero aurea l’Età dell’oro, quando il mondo divenne più ricco e il capitalismo (insieme col liberalismo politico) rifiorirono grazie alla mescolanza di mercato e di stato nell’economia. Ma fra gli anni ’40 e gli anni ’70 nessuno prestò orecchio a questi vecchi credenti (ivi: 270-271).

La ricostruzione di Hobsbawm, storico dichiaratamente di sinistra, può non soddisfare appieno il nostro tentativo di obiettività. Ma le considerazioni non divergono molto se ci spostiamo dalle parti di un grande sociologo come Schumpeter, non certo rubricabile tra le file del pensiero di sinistra. Questi, infatti, nel capitolo finale del suo capolavoro, dapprima parlava di quello capitalistico come di un ordine che «tende a distruggere se stesso» e di cui il centralismo socialista sembra essere un erede verosimile, quindi fornisce un elenco preciso di misure che caratterizzano il moderno «processo di disintegrazione della società capitalistica» e che vengono date per assodate e accettate dalla totalità (qui l’autore esagerava) degli economisti che si dichiarano ostili al socialismo, ma che indubbiamente sono collocabili sotto la pratica dell’«ingegneria economica»:

1) le varie politiche di stabilizzazione volte a prevenire recessioni o almeno depressioni (che significa una buona fetta di amministrazione pubblica rispetto agli affari economici); 2) la desiderabilità di una maggiore eguaglianza rispetto ai redditi cui è connesso il principio della tassazione redistributiva; 3) un ricco assortimento di misure regolative per ciò che concerne i prezzi; 4) controllo pubblico sul mercato del lavoro e del denaro; 5) l’indefinita estensione della sfera dei bisogni che l’intrapresa pubblica ha il compito di soddisfare e, in ultimo, naturalmente, ogni tipo di legislazione assistenziale. Queste analisi portavano Schumpeter a concludere che: 95

Abbiamo percorso un bel po’ di strada, a dire il vero, dai princìpi del capitalismo del laissez-faire e che, questo il fatto ulteriore, è oggi possibile sviluppare e regolare le istituzioni capitalistiche al fine di condizionare il lavoro dell’impresa privata in una maniera che differisce solo di poco da una genuina pianificazione socialista (Schumpeter, 1943: 423-425).

Ciò fu vero al punto che un ritorno alle pratiche precedenti la Prima guerra mondiale si rivelò impossibile anche laddove fu tentato, come nel caso dell’Inghilterra con l’insuccesso della sua politica aurea. La crisi del ’29 e la Seconda guerra mondiale costituirono degli ulteriori «acceleratori», al punto che la politica di forte intervento statale venne fatta propria anche dagli Stati Uniti e persino la stessa classe economica e commerciale «accettò dei congegni regolamentativi che prevenissero il ripresentarsi di esperienze simili a quelle del 1929-1932 e, in seguito, altri ancora che potessero prevenire una crisi post-bellica come quella del 1921». Così come la stessa classe economica accettò di buon grado nuovi oneri fiscali, una mera frazione dei quali sarebbe stata insopportabile anche solo cinquant’anni prima, come del resto apparve a tutti i maggiori economisti dell’epoca (ivi: 425). Insomma, siamo di fronte a un dato di fatto incontrovertibile: dalla grande crisi economica del 1929, dalla disoccupazione di massa, dalle proteste sociali sfociate nel fascismo e nel nazismo, il liberalismo non uscì certo facendo appello ai propri capisaldi classici, bensì attraverso il fordismo da una parte (che consisteva nel ridistribuire i progressi della produzione industriale sotto forma di un aumento dei salari, dato che il miglioramento del potere d’acquisto stimolava la produzione), e il keynesismo dall’altra (basato sull’intervento dello stato e sul deficit di bilancio come strumenti privilegiati della politica economica). In due parole, lo straordinario progresso successivo alla Seconda guerra mondiale si fondò sul Welfare State e 96

durò fino alla fine degli anni ’70, quando questo modello entrò in crisi e ripresero forza le teorie liberiste (ispirate da Hayek e Friedman e realizzate da Reagan e dalla Thatcher). Le teorie (e pratiche) liberiste, fondate sul disimpegno dello stato e sul ripristino dei profitti delle imprese (grazie anzitutto alle politiche di abbassamento del costo del lavoro), però, passando attraverso politiche di austerità che riducono i consumi (perché investire, infatti, se le capacità di produzione superano di molto la domanda solvibile?), non tardarono a mostrare i loro limiti e a produrre una nuova recessione, a partire dal 1990, rispetto a cui ancora oggi non si scorge una credibile uscita (Gauthier, 1995: 103-105). Gli stessi Stati Uniti, che i liberisti portavano a modello di un mercato autoregolantesi che non aveva bisogno della protezione statale, si adeguarono all’interventismo europeo (la protezione del suolo e dei lavoratori, la sicurezza sociale per i lavoratori per mezzo del sindacalismo e della legislazione, la banca centrale), non appena si esaurì quel grande bacino di ricchezza che era costituito dalla frontiera aperta verso l’Ovest, che assicurò terra, lavoro e moneta in abbondanza e preservò gli Stati Uniti dalla necessità del Welfare State fino al 192916. Non è casuale che, ancora nel 1980, il liberista americano Friedman lamentasse il fatto che persino gli Stati Uniti, malgrado lì non si fosse adottata una politica economica centralizzata, si fossero diretti «negli ultimi cinquant’anni» verso un’espansione del ruolo del governo nell’economia, con limitazioni della libertà economica che minacciavano di porre fine al progresso economico degli ultimi due secoli (Friedman, 1980: 64). K. POLANYI, The Great Transformation, 1944: 210-211. Un premio Nobel per l’economia dei giorni nostri si spinge addirittura oltre, affermando che anche nell’America dell’Ottocento «il governo svolse un ruolo fondamentale per forgiare l’evoluzione dell’economia»; J. STIGLITZ, Globalization Work, 2002: 18. 16

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L’ultima illusione: il mercato nell’epoca della Rete

Gli esiti della storia, e l’onestà intellettuale, avrebbero dovuto condurre gli eredi di Adam Smith ad abbandonare le visioni idilliache e assai ottimistiche rispetto agli effetti meravigliosamente positivi di un mercato economico lasciato il più possibile libero di funzionare dagli «intralci» della politica. Ma l’utopia, lo sappiamo bene, è una componente essenziale e ineliminabile dell’uomo, cui esso aderisce sostanzialmente per due grandi ordini di motivi: il primo è dato dal bisogno intrinseco di raffigurarsi scenari confortanti e ottimistici (è il caso delle religioni, per esempio); il secondo concerne invece l’istinto pienamente umano di dominare gli altri, di esercitare quella «sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole» e che, come ben sapeva Nietzsche, costituisce una conseguenza «di quella caratteristica volontà di potenza che è appunto la volontà di vita» (Nietzsche, 1886: § 259), ma che nell’uomo è quasi sempre mascherato dalla capacità di elaborare ideali irenici e persino salvifici. Utopie, appunto, a cui i più forti chiedono ai più deboli di aderire in nome di un futuro che vedrà, male che vada, possibile per tutti uno scenario di libertà e di auspicabile raggiungimento delle proprie legittime aspirazioni. Questo secondo tipo di utopia è capace di nascondersi bene nei periodi in cui gli eventi storici ne rendono manifesta l’improponibilità e la deriva irrealistica, ma anche di ripresentarsi alla prima occasione utile sotto una veste rinnovata. È proprio quanto è accaduto con l’utopia liberista, capace di nascondersi in seguito ai fallimenti storici che abbiamo visto, ma anche di tornare in auge di fronte a scenari e dinamiche sociali rinnovati, quale quello del sistema economico mondializzato e della comparsa della cosiddetta «nuova economia», in seguito all’esaurirsi di quelle poli98

tiche keynesiane che avevano caratterizzato gli stati occidentali per buona parte del Novecento. Questa nuova economia, come dice il termine stesso, si presentava con delle caratteristiche indubbiamente inaudite, che però si stagliavano su fondamenti ideologici, e su una prassi concreta, fortemente legati ai tratti del liberalismo economico dei secoli precedenti, con tanto di riproduzione di alcune contraddizioni che abbiamo avuto modo di vedere e che cercheremo di comprendere nel loro rinnovato modo di riaffacciarsi. Innanzitutto gli aspetti nuovi, riassunti efficacemente da Manuel Castells laddove parlava di economia «informazionale» (basata sulla produzione ed elaborazione di informazioni e sulla gestione della conoscenza), «globale» (perché le attività di produzione, circolazione e consumo sono organizzate su scala globale), e infine «in rete», poiché funzionante nell’ambito di una rete di collegamento fra agenti economici sparsi in tutto il mondo17. Però, esattamente come è avvenuto con la «vecchia economia», si trattava di una realtà non certo prodotta spontaneamente dalle libere forze del mercato e della concorrenza individuale, contrariamente a quanto affermato dalla mitologia liberista, sempre alla ricerca di felici parti naturali provocati dallo spirito santo o da una mano invisibile. È ancora Castells a insegnarcelo con estrema chiarezza, quando riassumeva i propri studi su Galassia Internet scrivendo che «tutti gli sviluppi tecnologici chiave che hanno portato a Internet sono stati costruiti intorno alle istituzioni governative (il Ministero della Difesa americano), alle grandi Università e ai centri di ricerca», non certo per iniziativa o su stimolo del mondo degli affari, che pro17 K. Kelly (New Rules for the New Economy, 1998: 2), descriveva la «nuova economia» come «globale», caratterizzata dalla produzione di «cose intangibili» (idee, informazioni, relazioni) e «fortemente interconnessa».

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prio perché orientato al profitto si era ben guardato dall’investire sulle nuove tecnologie, spaventato dagli alti costi e dai notevoli rischi (alla faccia della mitologia imprenditoriale!). Solo successivamente, con lo sviluppo e la diffusione sociale di queste nuove tecnologie che inizialmente venivano usate da una ristretta élite di persone, si è pervenuti al nuovo tipo di economia che comunque, ben lungi dall’essere stato il frutto di uno sviluppo interno alla logica del mercato, si è rivelato piuttosto come il frutto dell’«interazione fra mercati, governi e istituzioni della finanza internazionale, che hanno agito in nome del mercato o della loro nozione di come un mercato dovrebbe essere», il tutto con l’ausilio indispensabile delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, a quel punto in grado di consentire un numero incredibile di transazioni ad alta velocità e di collegare in tempo reale i centri finanziari di tutto il pianeta (Castells, 2001: 22; 2000: 77, 135-137). Il contesto ideologico era quello degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, in cui venivano messe in discussione le politiche di intervento statale a favore del welfare e in cui tornava in auge l’ideale liberista (negli Stati Uniti si parlava di pensiero neo-conservatore) che, sulla scia della rivalutazione di Adam Smith, si imponeva come «nuova egemonia ideologica», capace di affermare l’idea che soltanto i liberi mercati, sgravati finalmente dalla regolamentazione e dall’interferenza dei governi, avrebbero compiuto «miracoli economici e istituzionali», in particolar modo qualora si fossero collegati alle nuove meraviglie tecnologiche promesse dai futurologi (Castells, 2000: 143-144). In questo senso basta aprire uno dei testi fondamentali della net-revolution – stiamo parlando del bestseller del 1995 di Nicholas Negroponte, direttore del Media Lab presso il MIT – per ritrovare persino la stessa terminologia che abbiamo visto utilizzare dai visionari della galassia liberista, per esempio laddove definiva la tecnologia 100

digitale come una «forza spontanea» in grado di produrre una «maggiore armonia su scala globale». Né sussistono molti dubbi sul fatto che fosse la rinascita dell’ideale liberista a costituire il presupposto ideologico alla base della rivoluzione informatica, come si evince per esempio dai due economisti che hanno analizzato il sorgere della nuova economia di fine Novecento. Dale Davidson e Rees-Mogg (questi i loro nomi), scrivevano nel 1997 che l’allora imminente trasformazione provocata dalla «rivoluzione dell’informazione» avrebbe liberato le energie individuali come mai era accaduto prima, innanzitutto dalla «mediazione coercitiva» dei governi, rendendo finalmente possibile quella piena «sovranità dell’individuo» che si può ottenere soltanto nel «cyber-spazio», dove modelli multicentrici di sicurezza e capacità distribuite sostituiscono i sistemi di comando e controllo governativo centrale tipici degli stati del Novecento (Negroponte, 1996: 230; Dale-Davidson, Rees-Mogg, 1997: 14-15, 207, 175). Non solo, ma quello che abbiamo visto accadere per i cantori dell’armonia liberista all’interno della vecchia economia, valeva anche per gli epigoni di Adam Smith all’interno della nuova economia. Questi ultimi, infatti, sostenevano che questo nuovo luogo che era il cyberspazio nella società in Rete (sostituto del libero mercato della società industriale), fosse in grado di liberare finalmente le capacità degli individui più dotati e di annullare le interferenze statali, i vantaggi territoriali e familiari. Grazie al meccanismo di «competizione collaborativa» possibile all’interno della Rete, il cyberspazio non avrebbe più rappresentato terreno fertile per il trionfo degli interessi egoistici dei più forti, ma avrebbe reso finalmente possibile quell’«uguaglianza di opportunità» che pone gli individui sullo stesso piano. Insomma, grazie alla comparsa di questa «nuova economia in rete» – in cui le condizioni materiali di produzione sono rivoluzionate poiché le informazioni e le conoscenze 101

che vi sono prodotte sono il frutto di relazioni sociali non proprietarie e non commerciali, cioè di una «produzione orizzontale cooperativa», come la chiamava Benkler, epigono «digitale» di Smith fin dal titolo del suo libro (La ricchezza della Rete) – si realizzerebbe quell’uguaglianza delle opportunità a prescindere dall’ineguale dotazione originaria» che è centrale in tutte le teorie liberali della giustizia (Dale-Davidson, Rees-Mogg, 1997: 358-359, 219220; Benkler, 2006: 91-92, 308). Questo perché, secondo il guru dell’èra telematica, Kevin Kelly, le relazioni individuali all’interno di una dimensione interconnessa erano caratterizzate da meccanismi di potere e di opportunità paritetici, al contrario di quanto avveniva per i membri della vecchia società industriale, i cui rapporti erano caratterizzati da una marcata «gerarchia». Ciò era talmente vero, secondo Kelly, che si poteva ritenere superata persino la distinzione fra produttori e consumatori, al punto di poter parlare di «prosumers» (una crasi di produttori e consumatori, riprendendo la terminologia che Alvin Toffler aveva impiegato nel suo libro visionario del 1970, Future Shock) [Kelly, 1998: 119, 121]. Ancora più espliciti due degli analisti per antonomasia dell’«economia digitale», ossia Don Tapscott e Anthony D. Williams, gli autori di Wikinomics, testo innovativo che annunciava il sorgere di quella «nuova èra» rivoluzionaria che vedeva il trionfo della produzione bottom-up (dal basso verso l’alto), nell’ambito di un’economia partecipata in cui la gente poteva autonomamente e spontaneamente contribuire come mai prima alle dinamiche della produzione grazie proprio alla Rete. Cioè a quella dimensione in cui è possibile una peer production (produzione fra pari) poiché a differenza del sistema di produzione della società industriale, in cui i costi di produzione erano proibitivi per la maggior parte delle persone, «oggi, miliardi di persone connesse in tutto il mondo possono cooperare per produrre ogni cosa che richieda creatività, un computer e una 102

connessione a Internet» (Tapscott-Williams, 2006: 10-11, 67-68). E qui arriviamo al punto. Se, come abbiamo, visto le visioni idilliache degli entusiasti del libero commercio nella società industriale sono state in vari modi smentite dalla storia, dobbiamo oggi chiederci quanto di vero c’è stato nei quadretti entusiastici disegnati dagli apostoli del liberismo nella società in Rete. Quanto, insomma, con lo sviluppo di Internet e della relativa tecnologia si sia effettivamente realizzato quel «mercato perfetto», quella «società senza politica» in grado di mettere tutti gli individui sullo stesso piano e di garantire, quindi, la piena e libera concorrenza dei produttori all’interno di un’economia rinnovata, in cui, per usare la sintesi felice di Carlo Formenti, «la sommatoria degli egoismi individuali sarebbe paradossalmente in grado di garantire condizioni migliori per tutti» (Formenti, 2000: 190-193). O quanto, invece, si sia riprodotta in forme rinnovate e più sofisticate quella logica del dominio che ha imperato nelle fasi precedenti del capitalismo. Ecco allora che, da un’analisi attenta e priva di pregiudizi ideologici, emerge con chiarezza la necessità di smentire le favole idilliache dei neo-liberisti, tanto sul piano più strettamente legato alle dinamiche delle nuove tecnologie dell’informazione quanto su quello più generale della «società in Rete». Per quanto riguarda le prime, sono sufficienti due esempi. Il primo riguarda la storia degli Hacker, ossia del movimento di geni dell’informatica che aveva coltivato l’utopia di estendere a tutte le persone indistintamente la nuova tecnologia informatica, all’inizio usata dalla ristretta tecnoélite di scienziati incaricati dal Ministero della Difesa americano di escogitare una nuova tecnologia che proteggesse i segreti di stato dai servizi segreti sovietici. Ebbene, già all’interno di questo nobile e discusso movimento bisogna registrare la sconfitta di coloro che, come Linus Torvald, avevano portato avanti l’ideale di una nuova tecnologia a 103

disposizione di tutti, in cui la libera cooperazione fra gli individui e il software «open source» fossero in grado di superare la logica del potere, tanto di quello economico quanto di quello governativo (la cultura dei fautori di Internet, almeno all’inizio, era tanto anti-capitalista quanto anti-comunista). Alla sconfitta di questa ala egualitaria, corrispose la vittoria di quegli hacker che, il caso più famoso è quello di Bill Gates, riuscirono a trasformare questa scoperta rivoluzionaria in uno straordinario business capace di arricchire i pochi che sapevano padroneggiarla e che ne possedevano il copyright, in perfetta continuità con quella logica capitalistica in cui, per usare le parole di Pekka Himanen, «è assai difficile essere completamente libero per un individuo che non disponga di un sufficiente capitale personale» (Himanen, 2001: 54). Ma questo dato da solo non basta, ed ecco che facciamo entrare in gioco il secondo esempio, che porta un nome ormai conosciuto a livello planetario: digital divide o divario tecnologico. Ricorriamo ancora una volta a Manuel Castells, studioso moderato e obiettivo nella sua ottima analisi dell’information technology, e apprendiamo che tanto la tecnologia di Internet è diventata centrale in molte sfere del consorzio umano (economiche, sociali, culturali, politiche), quanto parallelamente è emerso l’enorme problema dei molti che per le ragioni più svariate (geografiche, di povertà, di gap cognitivo o conoscitivo) rimangono marginalizzati rispetto alla possibilità effettiva di usufruirne, al punto da spingere lo studioso spagnolo a parlare di vero e proprio «gap» tra la promessa dell’età dell’informazione e la sua «realtà desolata per molte persone nel mondo». Senza contare quel vero e proprio «parto gemellare» fra la rivoluzione tecnologica, la comparsa di Internet e della nuova economia e un mondo che, proprio in quegli anni topici tra il 1995 e il 2000, vedeva un sostanziale incremento delle disuguaglianze di reddito, della povertà e dell’esclusione sociale e della sempre più mar104

cata polarizzazione fra i pochi ricchissimi e i molti costretti a campare con pochi dollari al giorno (Castells, 2001: 274, 264). Con questo secondo riferimento siamo già usciti dall’analisi specificamente concentrata sulle nuove tecnologie, per entrare in quella che descrive una società occidentale in cui, è per esempio il caso dell’America, se dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1980 la percentuale di reddito complessivo attribuito al 10% più ricco delle famiglie statunitensi si era mantenuto stabile al 32%, dal 1980 e dal riemergere dell’ideologia liberista e di governi che ad essa si ispiravano, questa percentuale è significativamente salita fino al 43% del 2004, senza contare il dato ancora più rilevante riguardo alla crescente concentrazione del reddito nelle tasche dei più ricchi in assoluto. In tal senso, il ruolo giocato dall’informatizzazione è centrale, se è vero che essa è alla base di quel processo per cui, con le nuove tecnologie, cresce il numero di persone non specializzate che sono in grado di svolgere i lavori che una volta erano appannaggio dei lavoratori qualificati, provocando quello che di fatto è un ristagno dei salari medi da almeno venticinque anni a questa parte, come rilevato dal critico delle nuove tecnologie Nicholas Carr ma come anche ammesso da un pur moderato nell’analisi della globalizzazione quale è Jagdish Bhagwati (Carr, 2008: 140142). Si tratta evidentemente di una dinamica che consente un potere maggiore da parte dei grandi proprietari nei confronti dei lavoratori dipendenti e che, come abbiamo visto, si inquadra all’interno di una nuova società, quella «in Rete» appunto, in cui si riproducono le logiche di dominio che abbiamo già visto nei secoli passati, rispetto alle quali l’illusione dei neo-liberisti si rivela alla stregua di una ulteriore favola priva di riscontri nella vita reale. Ancora una volta, seppure in assenza di un’alternativa realisticamente praticabile, la logica capitalistica si pre105

senta con il volto duro e cinico di una divinità che richiede una fede assoluta e incondizionata da parte degli uomini, pochissimi dei quali troveranno un compenso corrispondente, e spesso si tratta proprio di quelli che la fede l’hanno abbandonata da quel dì, a danno dei molti il cui ruolo subordinato di accettazione del dogma si rivela necessario alla perpetuazione del meccanismo stesso e della grande illusione fideistica. Il grande meccanismo della concorrenza, la ricerca del profitto e la difesa degli interessi individuali, insomma, non possono essere separati dal cumulo di ingiustizie, soprusi, ipocrisie e logiche di dominio che portano inevitabilmente con sé e che non dovrebbero consentire raffigurazioni idilliache che parlano di un ordine spontaneo e di una mano invisibile provvidenziali, come troppo spesso hanno fatto gli amanti del mercato.

La teologia dei «cattivi samaritani»

Eppure, incuranti della storia, di aver abbandonato le pratiche liberistiche molto tempo fa e, anzi, di non averle mai applicate in piena coerenza con gli assunti teorici così enfaticamente pronunciati, gli stati occidentali che ancora oggi dominano il mondo in epoca di economia globalizzata, grazie alla «diabolica trinità» delle grandi istituzioni internazionali come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione per il commercio mondiale, si ostinano a esercitare il loro dominio sui paesi poveri o in via di sviluppo proprio attraverso l’imposizione del dogma liberista. I «cattivi samaritani», questo il nome con cui l’economista di Cambridge, Ha-Joon Chang, ha efficacemente ribattezzato gli stati occidentali, controllando le grandi istituzioni del credito internazionale, vincolano i prestiti e gli aiuti ai paesi poveri o in via di sviluppo imponendo loro 106

quelle politiche ultra liberiste che li vedono inevitabilmente soccombere alle economie più forti, le quali invece proteggono le proprie imprese commerciali con incentivi statali e balzelli di ogni tipo colpendo i settori dove sono più deboli (per esempio il tessile e l’agricoltura). Non è un caso, infatti, che proprio i paesi come il Giappone, la Corea e la Cina sono quelli che hanno fatto registrare lo sviluppo più significativo, rifiutando il dogma liberista e applicando una «pragmatica commistione di incentivi di mercato e direzione statale», andando in questo modo contro le indicazioni dei paesi liberali per eccellenza, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che ai tempi del loro sviluppo avevano costruito delle economie ricchissime grazie al fatto di essere stati fin dall’inizio della rivoluzione industriale i «paesi più protezionisti del mondo», persino con l’appoggio di grandi autori come Francis Hutcheson e Josiah Tucker nel Settecento o John Stuart Mill nell’Ottocento, in virtù dell’argomento teorico secondo cui andavano protette e sovvenzionate dallo Stato le industrie giovani (infant industry argument)18. Ma l’ipocrisia arrogante dei paesi ricchi non conosce vergogna, al punto di continuare a spingersi in un paradosso messo in evidenza da molti autori, come lo scrittore americano Gore Vidal, che descriveva quello del proprio paese come un sistema economico fondato sulla «libera impresa per il povero e socialismo per il ricco» e che il già citato Chang ritiene esemplare per inquadrare l’attuale politica macroeconomica su scala globale, improntata al «keynesismo per i paesi ricchi e al monetarismo per i poveri»: insomma, «fate quello che vi diciamo, non quello che noi H.J. CHANG, Bad Samaritans, 2008: 13-15, 17. Si veda anche L. GOMES, The Economics and Technology of Free Trade, 2003: 315; F. HUTCHESON, Introduction to Moral Philosophy, 1753: 308; J. TUCKER, Instructions for Travelers, 1758: 50-51; e, per una visione d’insieme si veda D.A. IRWIN, Against the Tide, 1996: 116 sgg. 18

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stessi facciamo»! È questa la regola che sembra riassumere il gioco della competizione economica globale, un gioco che viene praticato da giocatori che non possono stare sullo stesso piano e che quindi si rivela falsato: da una parte gli stati ricchi, i cui governi intervengono con ingenti finanziamenti per i propri comparti più deboli, con tasse sui prodotti da importare dai paesi poveri, insomma con tutte quelle forme di interventismo statale che si sono rivelate storicamente fondamentali per creare delle economie ricche e fiorenti, proprio mentre dall’altra parte vi sono i paesi poveri, cui vengono imposte con la forza delle politiche ultraliberistiche e senza la possibilità di alcun sovvenzionamento statale, finendo col ridurli in una povertà ancora più carica di ingiustizie e foriera di violenze. Alla faccia, si potrebbe aggiungere polemicamente, dell’assunto del padre di tutti i liberisti, quell’Adam Smith che scriveva che «se un paese straniero può rifornirci di una merce a un prezzo inferiore rispetto a quello cui noi stessi potremmo produrla, è meglio che acquistiamo la merce suddetta da quel paese»19. Qui risiede il fulcro della mondializzazione dell’economia o globalizzazione che dir si voglia che, proprio su una scala nuova e più alta (globale, appunto), ci pone di fronte a situazioni simili rispetto a quelle viste nel passato. Da una parte, infatti, assistiamo al ripetersi dello sfruttamento del lavoro umano, stavolta però all’interno degli stati in via di sviluppo, anche se molto spesso ad opera di multinazionali occidentali che godono di un’alleanza, reciprocamente vantaggiosa, con i governi di quei paesi. Basti pensare alla situazione dei lavoratori in Asia, per esempio, in balia delle multinazionali che ne sfruttano l’opera in una condizione di totale assenza di legislazione in materia, 19 H.J. CHANG, Bad Samaritans, 2008: 158, 218-219; L. GOMES, The Economics and Technology, 2003: 324; A. SMITH, An Inquiry, 1776: 457, v. 2.

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come testimoniato dal famoso libro di Naomi Klein, No Logo:

Indipendentemente dal luogo in cui sono ubicate le zone industriali di esportazione, per i lavoratori la storia non cambia. Si tratta perlopiù di giovani donne assunte da appaltatori o subappaltatori di Corea, Taiwan o Hong Kong e costrette a sostenere turni di lavoro interminabili (14 ore in Sri Lanka, 12 in Indonesia, 16 in Cina meridionale, 12 nelle Filippine). Gli appaltatori producono in genere merci commissionate da società statunitensi, inglesi, giapponesi, tedesche o canadesi. La direzione è di tipo militare, i supervisori sono spesso arroganti, i salari inferiori ai livelli di sussistenza e il lavoro monotono e poco specializzato (Klein, 2000: 184).

Dall’altra parte, il sistema globale dell’economia ci pone di fronte, ancora una volta, a un Occidente che, in grado di dominare economicamente e, salvo rare eccezioni, militarmente il mondo, grazie all’ausilio di istituzioni internazionali sotto il suo esclusivo controllo, sfrutta e impoverisce paesi poveri o in via di sviluppo grazie all’imposizione di valori (quali il libero scambio e il non intervento dello stato) che, lo abbiamo visto, sono stati rifiutati e superati dai medesimi paesi occidentali al proprio interno. Esattamente cento anni dopo la lucida analisi di Hobson, è stavolta un altro liberale, recente premio Nobel per l’economia, a mettere in luce questa realtà. Cominciando subito da una premessa che al tempo stesso è una conclusione davvero eloquente. Partendo dall’analisi dei danni e delle ingiustizie della cosiddetta globalizzazione, l’autore giunge a biasimare il fatto che al giorno d’oggi: Non abbiamo un governo mondiale, responsabile davanti ai cittadini di ogni paese, che possa sovrintendere al processo di globalizzazione in maniera paragonabile a quanto fecero i governi degli Stati Uniti e di altri paesi nel guidare il processo di nazionalizzazione [dell’economia] (Stiglitz, 2002: 21). 109

La concezione oggi imperante nel rapporto degli stati ricchi con i paesi poveri, lamenta Stiglitz, è fondata su politiche «neoliberiste», su un «fondamentalismo del mercato» che altro non è se non un ritorno all’economia del laissezfaire propugnata nell’Ottocento:

Dopo la grande depressione e il riconoscimento di altri fallimenti del sistema di mercato, dalle profonde disuguaglianze alle città rese invivibili dall’inquinamento e dal degrado, i paesi industriali più avanzati hanno rifiutato queste politiche liberiste, sebbene rimanga sempre aperto il dibattito su quale sia il giusto equilibrio tra regolamentazione e libero mercato (ivi: 74).

Ma l’economia mondiale, oggi, come abbiamo detto è dominata da poche istituzioni controllate dai paesi ricchi (Fmi, Wto, Banca mondiale) e da pochi protagonisti (finanza, commercio, ministeri del commercio), strettamente collegati a interessi finanziari e commerciali ben delineati, mentre coloro che ne subiscono le decisioni non hanno praticamente voce in capitolo. Questo fa sì che gli stessi paesi ricchi, proprio perché nel corso della storia, e sulla propria pelle, si sono accorti del fatto che la «liberalizzazione del commercio» spesso non mantiene le sue promesse ma semplicemente conduce a un aumento della disoccupazione, hanno spinto la liberalizzazione del commercio per quanto concerne l’esportazione dei propri prodotti, salvo, allo stesso tempo, continuare a proteggere quei settori nei quali la concorrenza dei paesi in via di sviluppo poteva minacciare le loro economie. Ciò avveniva e avviene nei famosi incontri dei G8, ricorda Stiglitz, e la contestazione iniziata a Seattle nel 2001 è cominciata proprio nell’ambito di uno di questi incontri in cui i paesi ricchi allacciavano accordi e gestivano le leggi del mercato sulla base del proprio esclusivo interesse, a spese dei paesi in via di sviluppo cui non veniva permesso di esportare i propri prodotti liberamente (ivi: 60-61). 110

Inutile dire che ci troviamo ancora una volta di fronte a una costante del mondo liberale: quella dei due pesi e due misure. I princìpi liberisti vengono propugnati (e imposti) ai paesi poveri o in via di sviluppo (che ne pagano conseguenze pesantissime, senza peraltro goderne gli eventuali benefìci), mentre le economie dei paesi ricchi continuano a beneficiare delle sovvenzioni, e della forte protezione, dei rispettivi governi e stati (quando non delle suddette istituzioni economiche transnazionali)20. E dire che lo stesso Stiglitz riconosce che si tratta di «una lunga storia di ipocrisie e ingiustizie», ricordando come già nel XIX secolo le potenze occidentali, cresciute loro stesse proteggendo le proprie economie, non si esimevano dallo stipulare trattati commerciali assai sleali. Il più «oltraggioso», fu quello seguito alla «guerra dell’oppio», in cui Regno Unito, Francia, Russia e Stati Uniti si unirono contro la Cina (nel 1858) non soltanto per costringerla a concessioni territoriali e commerciali, con la garanzia di esportare a basso prezzo le merci prodotte in Occidente, ma anche per vincolarla ad aprire i propri mercati all’oppio, condannando così milioni di cinesi all’assuefazione (ivi: 61-62; Chang, 2008: 24-25). 20 Emblematico è il caso della Russia dopo il crollo del muro di Berlino. Questo paese, storicamente grande produttore di alluminio, dopo la fine della Guerra Fredda, era diventato potenzialmente un grande esportatore, vista anche la domanda interna notevolmente diminuita (gli aerei da combattimento non si producevano più in maniera massiccia). Poiché anche la domanda internazionale per la produzione di lattine per le bevande andava diminuendo, Paul O’Neill, presidente di Alcoa (un’azienda leader americana del settore), propose e ottenne la formazione di un cartello mondiale per fare fronte al crollo dei prezzi. Naturalmente la proposta fu accolta, i prezzi risalirono, la Russia non poté ottenere i benefìci che le sarebbero spettati in un mercato veramente libero e i consumatori pagarono l’alluminio a un prezzo più alto di quello che, sempre un mercato libero, avrebbe potuto garantire: «Pur propagandando le virtù dei mercati competitivi, gli Stati Uniti non ci pensarono due volte ad auspicare la creazione di cartelli mondiali nei settori dell’acciaio e dell’alluminio in cui le loro industrie nazionali sembravano minacciate dalle importazioni»; Stiglitz, 2002: 173 sgg.

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La protesta contro la globalizzazione dei cattivi samaritani iniziò a Seattle proprio per combattere questo tipo di iniquità ripetute, quando per l’ennesima volta i paesi industrializzati si stavano accordando per imporre ai paesi in via di sviluppo le proprie merci e chiudere le proprie frontiere ai prodotti agricoli e tessili del Terzo mondo. Contemporaneamente, sulla base dell’ideologia del fondamentalismo del mercato, gli stessi paesi industrializzati da una parte imponevano a quelli poveri di non sovvenzionare le loro industrie con aiuti governativi, salvo dall’altra elargire sovvenzioni per miliardi ai propri agricoltori, distruggendo di fatto ogni possibilità di concorrenza giusta (Stiglitz, 2002: 244). Anche questo è stato ed è a tutt’oggi il capitalismo occidentale, un sistema che, in maniera travagliata e conflittuale, ha reso benestante la grande maggioranza dei cittadini occidentali, ma che si è esteso al resto del mondo facendo sì che questa estensione assumesse la forma di una «sottomissione del mondo all’Occidente» (Latouche, 1989: 43). Ecco perché può tornare utile, per capire il mondo globalizzato in cui viviamo oggigiorno, la riflessione che Braudel fece ormai trent’anni addietro. Questi, constatando che il mondo si sviluppava sotto il segno dell’ineguaglianza, alla definizione di «economia mondiale», per comprendere le dinamiche dell’ineguaglianza medesima, preferiva quella di «economia-mondo», caratterizzata non dall’economia del mondo presa nel suo intero, bensì da tre caratteristiche precipue: uno «spazio geografico dato» (e quindi limitato), da un «polo» o centro rappresentativo costituito da una città dominante (già allora parlava di New York) e soprattutto da una divisione in zone successive, la cui ultima, più lontana dal centro nevralgico e più estesa di tutte le altre, si trova a recitare un ruolo subordinato e dipendente più che partecipante (Braudel, 1976: 83-86). Al di là che poi questo centro del mondo smetterà di essere dato dagli Stati Uniti e dalle economie occidentali in genere – visto che sempre più analisti economici riten112

gono che alcuni paesi emergenti sono destinati a sostituire il predominio americano entro pochi anni (in particolar modo Cina e India, ma va tenuto d’occhio anche il Brasile) – ciò che emerge con chiarezza è l’impossibilità di raffigurare la pratica del capitalismo come un meccanismo pacifico, equo e armonico, in grado di produrre benessere e pace per tutti i soggetti che acconsentano ad adeguarsi alla sua logica di piena concorrenza. Ciò non è mai stato vero nella storia e ancora meno lo è ai giorni nostri, in un’epoca in cui l’economia ha pervasivamente conquistato tutte le dimensioni dell’essere umano, imponendosi con il suo «fondamentalismo» e con i suoi dogmi cui bisogna adeguarsi pena la marginalizzazione sociale e culturale, forma moderna di punizione di quella «follia» delirante per la quale si veniva reclusi nei secoli scorsi, come descritto da Foucault. In questo senso sono pesanti come macigni le parole dello psicologo americano James Hillman, per il quale «oggi la nostra teologia è l’economia», perché il suo potere, come accadeva una volta con le religioni, è stato interiorizzato al punto che lì va ricercato il nostro inconscio sofferente, non più nella dimensione più profonda del nostro essere personale. Un inconscio sofferente perché è lì che i poteri forti dell’economia sono riusciti, con la collaborazione fattiva dei mass media che mai come oggi sono in grado di esercitare un’influenza «totalitaria» sugli individui, a depositare un «ordine di idee», per usare il termine di Umberto Galimberti, che nulla ha a che fare con gli ideali più umani (bellezza, verità, giustizia, pace) perché molto ha a che fare con gli ideali di un meccanismo impersonale e post-umano (commercio, proprietà, prodotto, scambio, valore, profitto, denaro), che riesce a governare l’inconscio di sempre più soggetti sparsi nel pianeta21. J. HILLMAN, Forme del potere, 1995: 11-12; U. GALIMBERTI, Psiche e techne, 2009: 119-120; P. ERCOLANI, System Error, 2007: 53. 21

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Né c’è da meravigliarsi, se soltanto si è in grado di liberarsi di un equivoco basilare che è all’origine dei frequenti fraintendimenti. Le contraddizioni insite nella teoria come nella pratica del capitalismo si spiegano tenendo presente anzitutto che esso non è un’ideologia (nel senso di una visione del mondo) o un «piano per la società», finalizzato all’affermazione di una verità ritenuta tale, ma si tratta della «risultante di pratiche economiche e sociali concrete» regolate da una classe sociale, quella capitalista, che cerca di mascherare e giustificare la propria dominazione appellandosi a un’ideologia, ma che in realtà «non obbedisce ad alcuna altra regola che non sia quella del proprio interesse» (Rosanvallon, 1989: 211). L’agone economico, insomma, non può essere compreso facendo appello a teorie filosofiche fondate sull’ordine spontaneo o su una morale provvidenziale e superiore, perché in realtà esso è il regno del conflitto fra interessi diversi e per forza di cose configgenti, in nome dei quali nessuno si fa scrupolo alcuno di infrangere le regole dell’etica, della giustizia e persino dell’umanità. In nome di una torta, quella della ricchezza prodotta, che si sarebbe utopisti o peggio bugiardi considerare come un piatto pacificamente a disposizione di tutte le bocche da sfamare. Per capire la logica del capitalismo, che è anzitutto una logica del dominio, bisogna rifarsi ai fatti concreti e alle dinamiche materialmente operanti nella storia umana. Proviamo a farlo con l’ausilio di due grandi eventi della nostra storia più recente.

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Lo storico riesce a vedere più comodamente i come rispetto ai perché, e meglio le conseguenze che le origini dei grandi problemi. Ragione di più, ben inteso, perché egli si appassioni maggiormente per la scoperta di quelle origini che, così regolarmente, gli sfuggono e lo scherniscono. Fernand Braudel, 1976: 84

Quando Cristo asseriva che il «regno di Dio» non è né «qui» né «là», ma dentro di noi, egli condannava in anticipo le costruzioni utopistiche per le quali ogni «regno» è necessariamente esterno, senza rapporto alcuno con il nostro io profondo o con la nostra salvezza individuale […] Che la storia si svolga e niente più, indipendentemente da una direzione determinata, da uno scopo, nessuno lo vuole ammettere. Emil Cioran, 1960: 1042-1043

Questa è un’epoca che preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere […]. Ciò che per essa è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. Anzi, il sacro si ingigantisce ai suoi occhi via via che diminuisce la verità e l’illusione aumenta, cosicché il colmo dell’illusione è anche per essa il colmo del sacro.

Ludwig Feuerbach, citato come epigrafe al I capitolo di Guy Debord, 1967 Verità e menzogna hanno volti conformi, nonché portamento, gusto e andatura simili; noi le guardiamo col medesimo occhio. Trovo che non solo siamo pusillanimi nel difenderci dall’inganno, ma che cerchiamo di fare di tutto per abboccare come pesci. Amiamo confonderci nella vanità, conformemente alla nostra natura. Michel de Montaigne, 1580-1588, III: 238-239

Or che la specie umana costantemente e regolarmente perisca per le sue proprie mani, e ne perisca in questo modo così gran parte e così ordinatamente come avviene per la guerra, è cosa da un lato tanto contraria e ripugnante alla natura […] dall’altro lato priva affatto di esempio e di analogia in qualsivoglia altra specie conosciuta, sia inanimata o animata, sia d’animali insocievoli o dÈ più socievoli dopo l’uomo. Giacomo Leopardi, 1817-1832: 993

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Capitolo terzo

Due 11 settembre, quattro torri gemelle

Il tragico evento newyorchese dell’11 settembre 2001, rappresentato iconograficamente dal crollo delle Twin Towers, ha costituito uno di quei momenti che conducono opinionisti e storiografi all’enfasi epocale: diverso era il mondo prima del trauma, nulla sarà più come prima. In realtà, una lettura degli eventi svolta con queste modalità, se da una parte favorisce l’iperbole giornalistica stuzzicando la curiosità e la vena mistica del grande pubblico, dall’altra non consente una comprensione degli inevitabili nessi che legano il «prima» il «poi» e il «durante» di ogni episodio della storia. Non che eventi come quello dell’11 settembre capitino ogni giorno, per fortuna di tutti noi, la qual cosa ne fa certamente un momento speciale che assurge tristemente alle luci della ribalta giornalistica, ma sarebbe ingenuo, oltre che sterile, considerare episodi del genere alla stregua di terribili «pause della storia» scollegate dal normale fluire della realtà, senza che contraddizioni, similitudini e interazioni con fatti precedenti abbiano condotto in qualche modo a quel punto. Sarebbe un errore, insomma, ritenere un qualunque evento, per quanto traumatico ed eccezionale, immune rispetto a quella legge della storia per cui il presente è tanto un prodotto del passato quanto quest’ultimo contribuisce alla realizzazione di un determinato oggi. 117

La realtà storica è un fluire di eventi non tutti certamente della stessa portata, ma spesso e volentieri connessi da complicati legami causali che si possono cogliere soltanto a patto di non smarrire una visione prospettica e dinamica delle cose. Questo difficile compito è reso ancor più complesso dalla pervasività con cui i mass media e i new media in particolare si sono impossessati della nostra esistenza, fino a diventare filtro inevitabile con cui percepiamo il mondo esterno ed esperiamo la realtà. Essi, infatti, stanno operando uno stravolgimento sottile e capzioso delle nostre originarie «categorie» mentali, con le quali, come ci ha insegnato Kant, eravamo abituati a percepire i fenomeni esterni catalogandoli secondo una «successione temporale» e nell’ambito di una «estensione spaziale». La «rappresentazione del mondo» offerta dai media finisce col crearci un «nuovo mondo» in cui la successione temporale è contratta nell’«istantaneità» di un eterno presente, leggibile in maniera scollegata rispetto a tutti gli altri accadimenti precedenti o contemporanei, mentre l’estensione spaziale viene ridotta alla «puntualità» del punto di osservazione che, solitamente, è rappresentato dal video di un televisore o di un pc1. Ora, andare a stravolgere la dimensione temporale, connaturata all’uomo ed essenziale al corretto funzionamento degli schemi mentali con cui esso percepisce e comprende la realtà circostante, vuol dire minare «la condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generale», superiore anche alla dimensione spaziale nella misura in cui quest’ultima è la forma pura delle «intuizioni esterne», condizione prioritaria per la comprensione e lo svolgimento dei soli fenomeni esterni. Poiché, invece, tutte le rappresentazioni umane – che abbiano o meno corrispondenza con oggetti esterni – in quanto modificazioni dello spirito appartengono allo «stato Per un’analisi più dettagliata di tali questioni, si veda U. GALIMBERTI, Psiche e techne, 1999: 630; P. ERCOLANI, System Error, 2007: 39-47. 1

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interno» o intuizione interna, di cui il tempo è condizione immediata, si capisce allora che il tempo è condizione a priori di tutti i fenomeni percepiti dall’uomo (Kant, 17811787: 63). Una corretta percezione degli eventi, presupposto fondamentale alla comprensione degli stessi, può avvenire soltanto a patto che l’uomo faccia uso delle sue facoltà precipue e non sia disposto a sostituirle con quelle dei tramiti mediatici. I fatti accadono secondo una successione temporale e all’interno di un contesto spaziale, per cui difficilmente uno o più di essi risultano proficuamente comprensibili se li si analizza separatamente, magari illudendosi che non esistano nessi causali e spiegazioni da ricercare nel «prima» (temporalmente, storicamente) o nel «lontano» (geograficamente). McLuhan, nel 1964, parlava di un Occidente in via di «implosione» proprio perché dopo un secolo di tecnologie elettriche, si era arrivati al punto in cui l’uomo aveva concesso a questi strumenti di farsi «estensione del nostro sistema nervoso» in un abbraccio globale che «abolisce tanto il tempo quanto lo spazio» (McLuhan, 1964: 2). Noi dobbiamo liberarci da questo tipo di abbraccio mortale con i mass media e tornare a pensare ed esperire la nostra esistenza con le facoltà che ci sono precipue. La fissità, l’«eterno presente»2, la visione per cui esiste e si verifica un evento eccezionale e per questo scollegato dal corso della storia e dagli altri eventi, quasi fosse sospeso in una «realtà virtuale», costituiscono modalità di rappresentazione della realtà proprie dei mass media, ma sono foriere di errori e falsità e non aiutano la comprensione umana. Non a caso G. DEBORD, in Commentaires sur la société du spectacle, 1988: § 5, riassumeva le «cinque caratteristiche» della società dello spettacolo in questi termini: 1) continuo rinnovamento tecnologico; 2) fusione economico-statale; 3) segreto generalizzato; 4) falso indiscutibile; 5) eterno presente. 2

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La «compressione spazio-temporale» che è caratteristica specifica della società in Rete, produce il silenzio e l’incapacità di ragionare proprio perché toglie all’essere umano le sue basi categoriali di comprensione del mondo (lo spazio e il tempo, appunto), immergendolo in una dimensione asettica caratterizzata dall’«opprimente sensazione di quanto tutto sia vasto, intrattabile al di là di ogni controllo individuale o persino collettivo»: è il regno dell’indistinto e dell’eterno presente di ogni cosa, in cui nulla viene escluso perché si sono smarrite le dimensioni del «non ancora» e del «non più», ma è anche il luogo in cui proprio la compresenza di ogni cosa rende impossibile la comprensione dei singoli dati separati, perché è assente il senso della prospettiva e dei nessi causali. Tutto è presente e appiattito, tutto è «cliccabile» e raggiungibile in un contesto di «opulenza informativa» che ci rende potenzialmente informati di ogni cosa ma proprio per questo non ci fa conoscere nulla, poiché «un’eccessiva informazione è uno dei migliori stimoli a dimenticare», come scriveva efficacemente David Harvey. Anche perché grazie alla Rete la mole di informazioni di cui disponiamo va ben oltre le nostre umane capacità di recepirla, elaborarla, immagazzinarla. O perché, per risalire all’insegnamento di Platone, poiché «i disturbi agli occhi sono di due tipi e hanno due cause: il passaggio dalla luce all’ombra e quello dall’ombra alla luce», l’eccessiva luce acceca tanto quanto il buio, producendo il medesimo effetto di un uomo orbo di fronte al proprio mondo3. Miti e credenze sono stati e sono prodotti costanti della storia, ogni epoca li costruisce e trasforma per rendere più abitabile il presente. La nostra epoca, l’ambivalenza, l’ambiguità e l’incertezza che la caratterizzano, ha modificato le antiche modalità di credenza proprio grazie all’«irresi3 D. HARVEY, The Condition of Postmodernity, 1990: 350; PLATONE, Repubblica, VII: 518a; T. MALDONADO, Critica della ragione informatica, 1998: 89-90.

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stibile avanzata della realtà virtuale» (Rist, 2001: 372), che come sostiene il filosofo dei nuovi media Philippe Quéau, non rappresenta il contrario della realtà reale, ma semplicemente sta a fianco del reale, cosicché si finisce con l’assistere a uno sdoppiamento della realtà di cui gli eventi dell’11 settembre 2001 costituiscono un esempio valido e tragico allo stesso tempo. Non avviene più come una volta, quando il problema centrale consisteva nel distinguere il vero dal falso, poiché nell’èra dei media i grandi eventi (ma anche quelli minori) si presentano in una doppia veste: quella reale, appannaggio di pochissimi privilegiati depositari degli arcana imperii 4, e quella che è frutto della rappresentazione mediatica e che, per questo, appare come sospesa in un limbo in cui proprio perché è stata eliminata la dimensione spazio-temporale risulta assai più ardua la ricostruzione dei nessi causali e delle motivazioni storiche. Significativamente Manuel Castells parlava della «società in Rete» come di quella dimensione in cui si rappresenta una temporalità divenuta «sincronica su un orizzonte piatto, senza un inizio, senza una fine e senza una sequenza». Proprio questa simultaneità atemporale, rifletteva il sociologo, caratterizza la nuova èra della comunicazione in cui la Storia può essere direttamente raccontata nella misura e nei modi che raccolgono l’interesse dei controllori dell’informazione (Castells, 2000: 491-492). Privare l’uomo della sua facoltà naturale di percepire gli eventi all’interno di una sequenza temporale con un prima e con un poi, significa togliergli la possibilità di indiviScriveva Bobbio, in una delle sue ultime considerazioni: «Il sapere tecnico sempre più specializzato diventa sempre più un sapere di élites, inaccessibile alla massa. Anche la tecnologia ha i suoi arcana, è per la massa anch’essa una forma di sapere esoterico, che è incompatibile con la sovranità popolare per gli stessi motivi per cui in regime autocratico si ritiene il volgo incompetente e incapace di capire le questioni di stato»; N. BOBBIO, Teoria generale della politica, 1999: 364. 4

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duare quei nessi casuali che gli consentono di fornire una spiegazione autonoma ai grandi fatti della storia, senza che questa spiegazione gli venga fornita dal potente di turno e con delle modalità che sono funzionali soltanto al presente del potente stesso.

L’eterna favola della lotta fra il Bene e il Male Sul fatto che l’attacco contro gli Stati Uniti dell’11 settembre abbia rappresentato qualcosa di inaudito difficilmente si può dissentire. Mai prima di quel momento, infatti, se si esclude il non certo paragonabile attacco a Pearl Harbor (1941) da parte delle forze aeronavali giapponesi, il territorio americano aveva costituito zona di guerra da parte di potenze straniere. Dopo la mondializzazione dell’economia e dei meccanismi produttivi e commerciali, dopo che lo stesso processo stava avvenendo con la comunicazione, grazie all’espansione capillare della world wide web, l’attacco dell’11 settembre presentava il primo e clamoroso esempio di guerra globale sul suolo statunitense, capace di richiamare alla mente la profezia di Carl Schmitt sulla «guerra civile globale» che si sarebbe verificata in un’epoca in cui le sfere della politica e del diritto fossero state separate da un riferimento territoriale definito. Questa epoca, che si manifestava simbolicamente ai nostri occhi proprio con il tragico evento di New York e Washington, era stata concettualizzata dal filosofo tedesco Jurgen Habermas attraverso la locuzione di «costellazione post-nazionale», che andava a sostituire la forma di organizzazione nazionale emersa dalle rivoluzioni francese e americana per poi estendersi in tutto il mondo5.

5 Habermas, individuava i quattro presupposti che avevano caratterizzato la dimensione della forma stato-nazione in questi termini: 1) l’emergere di uno stato nella sua veste moderna di stato amministrativo

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Questa guerra globale di nuovo tipo veniva vista come un attacco messo in opera dalle forze dell’Islam radicale e fondamentalista per colpire l’Occidente cristiano e liberale. L’impressionante sequenza degli aerei che si abbattevano sulle Twin Towers e sul Pentagono sembrava a tutti gli effetti il prodotto dello «scontro di civiltà» teorizzato da Huntington. Una resa dei conti culturale, insomma, il ritorno dell’antico conflitto tra le forze del Bene e del Male, quest’ultimo non più incarnato dai paesi comunisti ma dai fondamentalisti islamici ormai convinti nel dichiarare guerra all’Occidente cristiano e democratico, emblema di una modernità e dei suoi annessi rifiutata con tutte le forze dai seguaci più estremi di Maometto. Circa vent’anni dopo che Ronald Reagan aveva individuato nell’URSS l’«impero del male» (sovvenzionando e armando personaggi come Bin Laden, decisivi nella resistenza contro l’Armata Rossa), il mondo sembrava pronto per un nuovo scontro fra due forze antitetiche e frontalmente contrapposte, tanto che anche gli schieramenti non potevano che essere netti e monolitici, come evidenziato dal massimo stratega di George W. Bush in un discorso del 2005:

La destra ha assistito alla ferocia degli attacchi dell’11 settembre e si è preparata per la guerra; i liberal hanno assistito alla ferocia degli attacchi dell’11 settembre e volevano preparare incriminazioni e fornire terapia e comprensione ai nostri aggressori6. supportato attraverso la tassazione; 2) l’esercizio della sovranità su un territorio geograficamente determinato; 3) la forma specifica dello statonazione; 4) il tutto democraticamente costituito all’interno di un sistema di stato legale e sociale; J. HABERMAS, The Postnational Constellation, 1998: 62. 6 L’uomo dello staff di George W. Bush era Karl Rove, riportato in un articolo del «The New York Times» del 23 giugno 2005, Rove Criticizes Liberals on 9/11, in P. KRUGMAN, La coscienza di un liberal, 2007: 178.

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La destra neoconservatrice, del resto, nuovamente al potere negli anni del terribile attentato, non faceva altro che rimettere in pratica quello che Hofstadter aveva chiamato «lo stile paranoide della politica americana», per cui la nazione viene raffigurata «assediata e minacciata tanto da nemici interni quanto da nemici esterni», ben rappresentato anche da buona parte della filmografia thrilling holliwoodiana, in cui le case dei buoni sono così facilmente penetrabili dal cattivo di turno da far vivere lo spettatore nella costante incertezza sul fatto che la minaccia sia effettivamente posta all’interno o all’esterno delle pareti domestiche. Con la fine della Guerra fredda ci si poneva seriamente il problema di dove individuare il nuovo fattore di pericolo, ed è indubbio che la minaccia dell’islam radicale, già presente negli anni ’90, era definitivamente assurta a questo ruolo con gli eventi dell’11 settembre, tanto da fornire ampie motivazioni al governo per dichiarare una «guerra permanente contro il terrore» e richiedere a tal proposito la militarizzazione sia in patria che all’estero in nome della «sicurezza nazionale» (Harvey, 2005: 82-83). Per due torri crollate sotto l’attacco violento del radicalismo islamico, venivano prontamente erette altre due torri che hanno sempre costituito un pilastro della retorica democratica occidentale: la torre del Bene e quella del Male, vicine e frontali come quelle newyorkesi ma fieramente contrapposte, la prima abitata immancabilmente dallo schieramento cristiano e liberale, la seconda, dopo la dipartita del comunismo sovietico, incarnata dagli eredi più fondamentalisti di Maometto. Ma anche a voler credere alla favola consolidata di una lotta tra le forze del bene e del male, in cui l’America e l’Occidente finiscono col venire sempre rubricate fra le prime, un’analisi più attenta della situazione faceva emergere ben altre problematiche e spiegazioni dietro a quelle elargite al grande pubblico. 124

Era infatti sufficiente anche solo una lettura di alcuni dei documenti ufficiali per comprendere che ci si trovava di fronte a immancabili questioni economiche, che stridevano non poco con la facciata ideologica e da crociata presente nei discorsi e sui giornali. Se il presidente americano George W. Bush nei discorsi pubblici si dichiarava accoratamente «dispiaciuto per l’incomprensione del nostro paese presso i popoli che ci odiano», perché lui, come del resto molti americani, sa bene «quanto siamo buoni» (Lieven, 2004: 53), in un contesto molto più tecnico come quello del Documento sulla strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, elaborato in seguito alle vicende dell’11 settembre e quando era in pieno corso la «guerra infinita» contro il terrorismo mondiale, proprio nella parte volta a chiarire il presupposto ideologico e strategico di tutta l’operazione bellica, faceva scrivere che si trattava di riaffermare l’unico modello uscito dai conflitti novecenteschi tra libertà e totalitarismo, ossia quello fondato su «libertà, democrazia e libera impresa»:

Le lezioni della storia sono chiare – proseguiva il documento – le economie di mercato e non quelle comandate e controllate dalla mano pesante dello stato costituiscono la maniera migliore di promuovere la prosperità e ridurre la povertà (Usa Administration, 2002: 17, Prefazione).

Ci troviamo di fronte a riferimenti espliciti alla questione economica di cui si fa molta fatica a comprendere il nesso con uno scontro fra civiltà e culture, fra il Bene e il Male, culminato nel tragico giorno del settembre 2001. Riferimenti che, poco prima della pubblicazione del Documento, erano stati se possibile ancora più evidenti, rimarcando la centralità della questione economica in un’ottica di stretta connessione con la «missione» e l’«interesse» dell’America. Infatti, malgrado il presidente Bush avesse dichiarato in un discorso a West Point che «l’America non ha un impe125

ro da estendere o un’utopia da instaurare», esattamente un anno dopo la drammatica vicenda di Ground Zero, nel corso di una commemorazione dell’11 settembre pubblicata dal «New York Times», affermava che «l’11 settembre ha chiarito il ruolo dell’America nel mondo e aperto la strada a grosse opportunità». Si trattava di costruire attraverso il combattimento di una guerra lunga e difficile, forse «infinita», «un mondo di pace e libertà crescenti» che servisse «l’interesse a lungo termine dell’America» e in cui «repressione, risentimento e povertà fossero sostituiti dalla speranza nella democrazia, dallo sviluppo, da liberi mercati e dal libero commercio». Eloquente la conclusione: «Gli Stati Uniti accolgono con gioia la propria responsabilità di essere la guida in questa grande missione» (Bush, 2002: A33; Harvey, 2003: 4-5). L’auto-conferimento di una «grande missione» non è certo una novità nella storia della retorica americana, ma in questo caso colpisce la confusione argomentativa, segnale importante di interessi e motivazioni da non esplicitare del tutto al grande pubblico. Curiosa è la sequenza dei fatti e delle interpretazioni degli stessi: l’11 settembre del 2001, una terribile operazione di guerra o terrorismo globale provocava la morte e il ferimento di migliaia di persone innocenti; seguiva una rivendicazione da parte del fondamentalismo islamico prontamente interpretata come l’atto traumatico iniziale di un grande scontro tra civiltà assai diverse per cultura e religione. Nei documenti e nei discorsi ufficiali che si frappongono tra questo evento traumatico e la «guerra infinita» che ne consegue, il presidente americano e i suoi più stretti collaboratori facevano riferimento a generiche questioni economiche, tirando in ballo il libero mercato e condannando la mano pesante dello stato, vedendo addirittura in quello che sarebbe seguito (un’operazione di guerra su scala internazionale) una «grande opportunità» per l’Occidente libero ma soprattutto per «gli interessi degli 126

Stati Uniti». Il Consigliere alla Sicurezza nazionale Condoleeza Rice si spingeva a dire che gli attacchi dell’11 settembre avevano «chiarito» il ruolo dell’America, mentre autorevoli commentatori inneggiavano sui principali quotidiani al ritorno del «nostro grande impero americano», obbligato a combattere contro il terrorismo allo stesso modo in cui Roosevelt e Churchill erano stati costretti a combattere Hitler per salvare la civiltà occidentale7. Forte è il dubbio di trovarsi in presenza di più di qualche elemento che induce a scorgere ben altre motivazioni dietro la favola di una nuova guerra tra le forze del Bene e quelle del Male.

La guerra come continuazione dell’economia con altri mezzi

Il modo migliore per uscire dalla rappresentazione mediatica dell’11 settembre, quella cioè di un evento caratterizzato dalla fissità e simultaneità dello schermo, inserito all’interno di un eterno presente che esclude la possibilità di un «prima» e di un «poi», è contestualizzarlo e coglierlo come parte integrante di un fluire storico in cui nessun episodio può essere scollegato da tutti gli altri nonché dalla situazione di insieme. Certamente si è trattato di un fatto traumatico, in cui migliaia di civili innocenti hanno perso la vita in maniera terrificante e ingiusta, ma accontentarsi di individuare un nemico colpevole e pensare che esso incarni il Male asso7 Condoleeza Rice è citata in R. SEYMOUR, The Liberal Defence of Murder, 2008: 4, mentre il riferimento al «nostro grande impero americano» era dell’allora direttore del «The New York Times», J. ATLAS, in The World, 2001. Argomentazioni simili sono rintracciabili anche in tempi più vicini, per esempio in C. HITCHENS, Facing the Islam Menace, 2007 e S. HARRIS, Head-in-the-Sand Liberals, 2006.

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luto che attacca il regno del Bene non vuol dire rendere un grande servizio alla comprensione. Non soltanto perché la storia insegna che, nell’eterna divisione tra il Bene e il Male, i contendenti imputano tranquillamente all’avversario di vestire i panni maligni, e alla fine chi vince la guerra è l’inevitabile portatore dei valori benigni, ma anche perché mai come in questo caso è assai arduo convincersi che esista un nemico perfettamente identificabile. Chi dovrebbe incarnarlo, l’islam nel suo complesso, come se si trattasse di una realtà monolitica e militarmente organizzata? O forse Osama Bin Laden, esponente di una famiglia legata da uno stretto giro di affari con i Bush, attraverso la compartecipazione al gruppo Carlyle, fra le altre cose grosso beneficiario della guerra in Iraq e fra i più importanti sostenitori della campagna presidenziale di George W. Bush8? Oppure la famiglia Bin Laden nel suo complesso, su cui erano state interrotte le indagini, subito prima dell’11 settembre, in seguito a misteriosi ma determinati ordini dall’alto, tanto che alcuni funzionari dell’FBI e dei servizi militari, criticati per la loro incapacità di prevedere gli attacchi dell’11 settembre, si lamentarono di aver avuto le «mani legate», secondo quanto riferito dall’autorevole «The Guardian» di Londra (Palast - Pallister, 2001). Oppure ancora i famigerati talebani, finanziati, addestrati e addirittura incoraggiati nel loro fondamentalismo, che si traduceva nel gettare acido in faccia alle donne che rifiutavano di indossare il velo, definiti da Reagan 8 L’autorevole «The New Yorker», in J.K. COOLEY, Unholy Wars, 1999: 117-118, si spingeva addirittura a parlare anche di «rapporti cordiali e rilevanti tra membri della famiglia Bin Laden ed esponenti di primo piano dell’establishment della politica estera americana e inglese». M. RUPPERT, in Crossing the Rubicon, 2004: 123, parlava di una «profonda connessione e alleanza tra i Bin Laden e gli interessi politico-economici dell’Occidente», aspetto che i media americani nel loro insieme hanno evitato di discutere nel dettaglio.

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«combattenti della libertà» quando facevano comodo agli americani per difendere i loro interessi nella zona ai tempi dell’invasione sovietica, e dopo l’11 settembre assurti improvvisamente agli onori della cronaca per la violenza e il disprezzo dei diritti umani? (Hiro, 1995; Suri, 2001, Silverstein, 2001). La società sempre più veloce e votata alla semplificazione cui ci stiamo dirigendo in maniera incontrollata, costituisce indubbiamente un habitat ideale perché gli individui che la abitano, concentrati sulle molte incombenze della quotidianità, si lascino serenamente convincere dalle versioni preconfezionate e interessate proposte dai rispettivi governanti. Ma un’analisi ponderata della situazione può inquadrare l’11 settembre in un contesto più problematico e critico, che renda anche un minimo di giustizia quantomeno alla memoria storica delle tante vittime civili che vi hanno perso la vita. Ecco allora che il primo dato che salta agli occhi detiene una forza tale da assumere quasi un valore «iniziale». La grande «democrazia» che era stata colpita al cuore dall’attacco dell’11 settembre e che, di lì a breve, si sarebbe auto-conferita la missione destinale, fra le altre cose, di esportare la democrazia stessa in paesi che evidentemente non la conoscevano, era in quel momento governata da un’amministrazione e da un Presidente che avevano perso le elezioni democratiche. È storia nota, infatti, ma dimenticata in fretta nel turbinio degli eventi che sono seguiti, che George W. Bush fosse stato messo sulla poltrona di Presidente da un verdetto della Corte Suprema degli Stati Uniti, la quale impedendo il conteggio dei voti in Florida (da cui sarebbe risultato che Bush non era il presidente democraticamente eletto dal popolo americano), elesse di fatto lei stessa, andando contro il pronunciamento popolare, il presidente della più grande democrazia del mondo. Era del resto un autore inglese, assai conosciuto e studiato nei corsi delle università americane, a parlare di 129

«natura fraudolenta dell’elezione di George W. Bush alla presidenza», realizzata grazie alla soppressione dei voti dei cittadini neri della Florida, tanto da convincere milioni di persone negli Stati Uniti e nel mondo dell’«illegittimità» dell’amministrazione di questo presidente (Ahmed, 2002: 236). Lo stesso Al Gore, il candidato sconfitto, pronunciò l’espressione «colpo di stato» durante uno dei momenti più concitati della vicenda, ed è certo che ci si trovava di fronte a un «inedito nella storia degli Usa», incredibilmente sminuito dagli organi d’informazione europei, solitamente così pronti a condannare con enfasi retorica episodi del genere, come fortemente denunciato dallo storico italiano Luciano Canfora (Canfora, 2002: 21-23). Né il pur ingombrante problema dell’illegittimità costituiva l’unico motivo di grossa crisi che il nuovo presidente americano si trovava a fronteggiare appena eletto. Le analisi sull’economia degli Stati Uniti, infatti, facevano rilevare dei tassi di recessione e disoccupazione estremamente alti e preoccupanti, iniziati già con l’ingresso del nuovo millennio e fortemente intenzionati a cronicizzarsi. I più autorevoli giornali americani parlavano di un «raro caso di tracollo simultaneo»9 delle più grandi economie mondiali, mentre nello specifico del caso americano, ci si riferiva a una «condizione interna» nel corso del 2002 per molti versi tra le «più rischiose» da molti anni a quella parte, non senza riportare alla mente la lunga storia di governi in grave crisi domestica che hanno cercato di risolvere i propri problemi attraverso avventure all’estero o attraverso la costruzione di minacce esterne volte a consolidare la solidarietà all’interno (Harvey, 2003: 12-13).

«The New York Times», 20 agosto 2001, in N.M. AHMED, The War on Freedom, 2002: 237. 9

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Aveva un bel da fare il presidente Bush, eletto con procedure contrarie alla democrazia e invischiato in una crisi economica che gli Stati Uniti non vivevano da tempo immemore, a dichiarare, durante la proclamazione dell’11 settembre come giornata patriottica della nazione, che l’America si dedicava al «trionfo della libertà e della democrazia sul male e sulla tirannia» (Gentile, 2008: 173), come se la «nuova storia» americana (in realtà fondata su dinamiche e modi di agire già visti) cominciasse un minuto dopo l’11 settembre e l’attacco alle torri gemelle e al Pentagono. In realtà il «trionfo della libertà e della democrazia sul male e sulla tirannia» equivaleva a una guerra, iniziata già nell’ottobre del 2001, finalizzata alla conquista militare dell’Afghanistan e volta a scovare e debellare la rete del terrorismo internazionale, che in quelle terre sembrava avere la sua sede principale grazie alla presenza di Al Qaeda e di Osama Bin Laden. Sennonché, questa guerra apparentemente di reazione, è stato dimostrato «oltre ogni ragionevole dubbio» che era stata programmata «indipendentemente dagli attacchi dell’11 settembre», in seguito a un interesse strategico americano per l’Asia centrale che si può far risalire almeno al 1989, quando gli ufficiali americani avevano riconosciuto nell’Afghanistan la «strada di accesso» alla stessa Asia centrale e al Mar Caspio, e di conseguenza al «primato globale»10. 10 N.M. AHMED, The War on Freedom, 2002: 68-69. Lo stesso autore cita l’ex funzionario del dipartimento della Difesa americana, Elie Krakowski, il quale aveva studiato a lungo durante gli anni ’80 del secolo scorso la questione afghana ed era stato pronto ad affermare che «con il crollo dell’Unione Sovietica, l’Afghanistan aveva assunto il ruolo potenziale di importante sbocco sul mare per i nuovi stati dell’Asia centrale che ne erano privi. La presenza di grandi depositi di petrolio e di gas in quell’area aveva attratto paesi e corporazioni multinazionali […]. Poiché l’Afghanistan costituisce un grande perno strategico, ciò che accade lì interessa il resto del mondo»; E. KRAKOWSKI, The Afghan Vortex, 2000.

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Dopo circa un decennio, quindi alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, l’interesse della politica americana per quelle regioni si faceva ancora più esplicito, con riferimenti diretti alle abbondanti riserve petrolifere, all’importanza di evitare che altre potenze, ostili o comunque non alleate dell’America e dell’Occidente (la Russia su tutti), vi esercitassero un ruolo egemonico e di controllo, fino ad arrivare al Silk Road Strategy Act del 1999, con cui il Congresso americano instaurava forti politiche di finanziamento a sostegno dell’indipendenza economica e politica del Caucaso meridionale e dell’Asia centrale, dichiarando espressamente che quelle terre «potrebbero produrre petrolio e gas in quantità sufficienti a ridurre la dipendenza degli Stati Uniti per l’energia dall’instabile regione del Golfo Persico» (Blank, 1999; Ahmed, 2002: 69-70). Su queste basi era continuata la tensione fra Stati Uniti e Russia anche dopo la Guerra Fredda, in merito a una porzione di terra del pianeta che si rivelava sempre più strategica per gli equilibri (o squilibri) geopolitici ed economici del futuro prossimo, come del resto aveva messo in evidenza Zbigniew Brzezinski, esperto di geopolitica e consulente a vario titolo delle amministrazioni di Carter, Reagan e Bush senior. Questi, infatti, in un noto studio del 1997 nell’ambito del Council on Foreign Relations (CFR) imperniato sul «primato mondiale dell’America» e sugli «imperativi geo-strategici» che dovevano caratterizzare la sua azione, individuava nell’Eurasia «la scacchiera sulla quale si continuava a giocare la battaglia per il primato globale», il luogo che bisognava evitare che cadesse sotto il controllo egemonico della Russia e in cui l’America doveva impegnarsi con tutte le forze per difendere anzitutto «il proprio crescente interesse economico», poiché le «grandi ricchezze potenziali», composte da gasdotti, oleodotti e reti aeree e ferroviarie, facevano sì che «chiunque controlla o domina l’accesso alla regione sarà uno dei più 132

probabili vincitori del premio geopolitico ed economico in palio»11. Questa difesa a tutti i costi dell’interesse economico dell’America legato alle terre dell’Eurasia, richiedeva per Brzezinski un impegno politico da grande potenza, possibile soltanto grazie all’appoggio della maggioranza dell’opinione pubblica americana. Ma da questo punto di vista i tempi si stringevano fortemente, poiché gli Stati Uniti stavano diventando sempre più una società multiculturale, per sua natura meno compatta nell’appoggiare una politica estera imperiale, come invece era accaduto durante la Seconda guerra mondiale e persino durante la Guerra Fredda, in nome della difesa di valori democratici profondamente condivisi. Eloquente la conclusione di Brzezinski:

In assenza di una minaccia esterna comparabile [al pericolo comunista], sarà molto più difficile per la società americana raggiungere un accordo su politiche estere che possano non essere direttamente collegate ai suoi valori centrali e alle simpatie etnico-culturali più diffusamente condivise, e che altresì richiedano un impegno imperiale prolungato e sovente costoso (ivi: 212).

Ora, senza voler entrare nell’insidiosa querelle rispetto alla veridicità o meno della versione ufficiale in merito ai fatti dell’11 settembre, su chi vi fosse dietro e su chi può aver agevolato il compito degli attentatori, non v’è dubbio che l’attacco ad opera del terrorismo internazionale ha potuto incarnare, agli occhi del popolo americano, il ruolo di «minaccia esterna comparabile» a quelle nazista e sovietica, che in tempi passati avevano svolto il ruolo di collante degli animi di tutti i cittadini americani nel fornire consenso quasi acritico alle politiche del governo. Così come ci sono Z. BRZEZINSKI, The Grand Chessboard, 1997: 139-140, XIV. «L’obiettivo più impellente – ne deduceva il geostratega – è quello di assicurarsi che nessuno stato o combinazione di stati acquisisca la capacità di espellere gli Stati Uniti dall’Eurasia o anche di diminuire in maniera significativa il loro ruolo decisivo di arbitro» (ivi: 198). 11

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pochi dubbi che, esattamente come per i propositi di lungo termine descritti da Brzezinski, ossia costituire una confederazione di stati che promuovessero il benessere dell’umanità, con lo scopo di far trionfare le forze del Bene e della democrazia, si stava in realtà iniziando una guerra motivata da molteplici interessi, economici e di potere. Una guerra, a dirla tutta, che per molti versi rappresentava anzi la continuazione con altri mezzi dell’economia e delle strategie geopolitiche internazionali, guerra che persino molti familiari delle vittime del 11 settembre, come ricorda Emilio Gentile, provarono a sventare costituendo un’organizzazione per cercare alternative e per porre fine al ciclo della violenza (Gentile, 2008: 170). Ma ormai era tardi, perché la macchina da guerra aveva cominciato a muovere i suoi passi ben prima degli attacchi dell’11 settembre. E a prescindere da essi. Fondamentalismo religioso

e fondamentalismo del mercato

È opportuno sgombrare il campo da possibili equivoci e premettere subito che il rifiuto, da parte di chi scrive, della facile dicotomia Bene/Male nell’interpretazione del conflitto tra Occidente e islamismo radicale vale in entrambe le direzioni. Ovverosia, se appare priva di un confronto serio con la storia la visione di un Occidente buono e democratico improvvisamente attaccato da terroristi imbevuti di fondamentalismo islamico, altrettanto irrealistica ci sembra l’interpretazione di un mondo arabo che non è entrato nella modernità esclusivamente a causa del prolungato dominio da parte delle potenze occidentali, di volta in volta tradottosi in politiche colonialistiche o imperialistiche, cui andrebbe aggiunta l’imposizione dello stato di Israele come potente e ingombrante baluardo dell’Occidente in terre appartenenti agli arabi. 134

Senza incorrere nell’errore diffuso di comprendere in un giudizio complessivo nientemeno che tutto l’islam, come se si trattasse di una realtà monolitica e indifferenziata, oltre che facilmente circoscrivibile, siamo certamente d’accordo con quegli esperti del mondo arabo, spesso di origini arabe loro stessi, che lamentano le «condizioni deplorevoli» in cui questo versa, con l’umanità che avanza implacabilmente mentre esso rimane «disperatamente uguale a se stesso», bloccato nell’unica alternativa fra regimi militari e monarchie anacronistiche da una parte, con dall’altra, come unica opposizione, i movimenti di ispirazione islamista, il tutto senza che nella società si riesca a intravvedere il barlume di qualche movimento organizzato di critica e contestazione che possa anche solo fornire la speranza di un lento cammino verso libertà e democrazia (Nassib, 2003). Quei giovani arabi che aspirano al cambiamento, fondano questa aspirazione su credenze religiose molto radicali, come nel caso dei «salafisti», che si ispirano agli «antenati», cioè alla prima generazione dei discepoli di Maometto. Come è accaduto e accade, mutatis mutandis, anche per il cristianesimo, questa corrente salafista invoca un ritorno alle origini per combattere la degenerazione, la corruzione e le politiche dispotiche dei governi arabi, trovando appoggio soprattutto tra i giovani musulmani trasferitisi in Occidente, spaventati dall’idea di perdere il contatto con le radici. Quanti hanno aderito alle reti di al Qaeda provengono il più delle volte da questa sfera d’influenza salafista, alla cui guida si trovano uomini che hanno combattuto a fianco dei mujaheddin contro i sovietici. Ed è evidente che, per chiudere in qualche modo il tragico cerchio, questi uomini sono mossi contro l’Occidente per la compiacenza e l’appoggio che esso ha mostrato e mostra verso regimi dispotici e violenti, di cui a fare le spese sono le popolazioni arabe (Kristianasen, 2002). Il caso dell’Iraq è al tempo stesso emblematico e paradossale. Per giustificare l’intervento americano in questo 135

paese, il consigliere per la sicurezza nazionale Condoleeza Rice ricordava l’«uso di armi chimiche contro il suo popolo» da parte di Saddam Hussein, nonché l’invasione dei paesi vicini e il trattamento spesso disumano perpetrato dal dittatore nei confronti dei suoi cittadini. Il problema è che si trattava di quello stesso Saddam Hussein che nel 1980 aveva aggredito l’Iran, iniziando uno dei conflitti più drammatici del secondo Novecento, che aveva fatto ampio uso di armi chimiche durante il conflitto e che nel 1988, ad Halabja, aveva usato i gas tossici contro cinquemila curdi iracheni, il tutto mentre l’amministrazione Reagan, i cui ufficiali collaboravano con l’esercito iracheno e quindi sapevano, promuoveva l’Iraq al rango di avamposto contro la «rivoluzione islamica» incarnata dall’Iran degli ayatollah. Ancora nel 1989 George Bush senior firmava il documento con cui si ripristinavano normali relazioni fra Stati Uniti e Iraq perché quest’ultimo poteva «servire gli interessi a lungo termine» dell’America e accrescere la sua influenza in tutto il medioriente. Senza contare che in quel periodo, secondo un Rapporto del senato Usa, varie società americane vi esportavano, con la compiacenza del Dipartimento di stato, prodotti finalizzati alla fabbricazione di armi batteriologiche (Gresh, 2002). È evidente che un tale comportamento, agli occhi degli islamici, forniva il ritratto di un Occidente che, al tempo stesso e a seconda della convenienza, appoggiava un regime, quello di Saddam Hussein, dispotico e violento nei confronti dei cittadini, al fine di curare in realtà i propri interessi e senza escludere una guerra, come di fatto è accaduto, contro questo stesso regime, qualora si fosse rivelato dannoso per gli interessi dell’Occidente, con conseguenze drammatiche sempre per i civili innocenti. Non c’è molto da stupirsi, stante i fatti, che l’opposizione ai governi arabi si ammanti di risentimento anti-occidentale e possa confluire tra le fila dei fondamentalisti religiosi, di fatto l’unica alternativa credibile. 136

Senza considerare che, a un’analisi attenta e imparziale, anche la questione del fondamentalismo religioso non costituisce una prerogativa esclusivamente islamica e, certamente, non è l’Occidente che può ritenersi estraneo rispetto a questo fenomeno. Sempre pronti a rimarcare gli aspetti indubbiamente anacronistici e intrisi di fanatismo che emergono dall’islam più radicale, siamo però disposti a sorvolare con evidente leggerezza sulle affermazioni dell’ex Presidente americano George W. Bush, laddove questi dichiarava che «è stato Dio a chiedermi di candidarmi», oppure ancora quando affermava che «Dio non è neutrale davanti al bene e al male. Dio è con l’America» (ma in realtà tutti i presidenti americani hanno sempre concluso i loro proclami con l’affermazione «Dio benedica l’America!»), ispirandosi a quel mito della «nazione eletta» che gli Stati Uniti hanno ereditato direttamente dall’ebraismo (Losurdo, 2007: 44, 86). Né risulta convincente la tesi secondo cui il fondamentalismo religioso degli islamici sarebbe la diretta conseguenza delle affermazioni violente e intolleranti contenute nel Corano, visto che chiunque abbia un minimo di dimestichezza con i testi sacri delle tre religioni monoteiste sa benissimo che essi contengono tutto e il contrario, tanto che risulta agile rintracciare citazioni in un senso o in un altro. Un esegeta parziale, per esempio, in vena di comparazioni a senso unico in favore dell’islam, potrebbe facilmente riportare gli incitamenti agli «stermini» presenti nel Deuteronomio, laddove per esempio si dice che qualora il cristiano individuasse una città in cui si venerano «altri dei», lì si dovranno «passare a fil di spada» gli abitanti, sterminando anche gli animali e tutto quanto vi è contenuto, in nome del «sacrificio per il Signore tuo Dio»; oppure dove si dice che dovrà essere messo a morte quell’uomo che non obbedisca al sacerdote «che sta là per servire il Signore tuo Dio». Né ci si dovrebbe limitare al solo Vecchio Testamento, poiché anche nel nuovo troviamo più volte 137

Gesù esprimersi con toni assai inquietanti: «Chi non è con me è contro di me!». In questo modo sarebbe assai agevole affermare l’intolleranza e la violenza contenute fin dalle origini nella religione cristiana, magari contrapponendogli la pacifica tolleranza promossa dal Corano con la citazione della Sura II, quella della Vacca, che al versetto 256 dice espressamente: «non vi sia costrizione nella fede»12. Ad essere onesti bisogna riconoscere che le religioni in quanto tali, proprio perché vedono il proprio fondamento in un’entità trascendente e assoluta (la fede in qualcosa di ab-soluto, sciolto da qualsiasi vincolo terreno, implica per forza di cose il ritenere irrilevante o corrotto quanto è prodotto nel mondo umano, quindi anche le altre fedi), contengono nel proprio seno il germe del fondamentalismo e dell’intolleranza per altre forme di credenza (due assoluti non possono convivere, riconoscendosi reciproca legittimità), al punto che se l’Occidente cristiano può ritenersi oggi più evoluto, ciò è dovuto al fatto che all’interno di esso si è compiuta la separazione tra sfera religiosa e politica, con quest’ultima che, attraverso codici, leggi e istituzioni laiche, è riuscita a costruire uno spazio civile per il cittadino a prescindere dalla sue credenze religiose, il tutto con la strenua opposizione delle autorità clericali che hanno tentato di resistere alla modernità fino a quando gli è stato possibile. Ancora ai giorni nostri, infatti, potevamo ascoltare il Pontefice Giovanni Paolo II, affermare che l’autorità politica e civile «è postulata dall’ordine morale e deriva da Dio»; quindi qualora le sue leggi o autorizzazioni siano in 12 La Bibbia, Deuteronomio XIII: 13-18; XVII: 12-13; per il Nuovo Testamento, Matteo XII, 30; Luca XI, 23; Il Corano, 2005. Si veda S. HARRIS, The End of Faith, 2004: 82-83 il quale prende atto che «il problema con le scritture è che molte delle possibili interpretazioni che se ne possono fornire, comprese quelle letterali, possono essere usate per giustificare atrocità in nome della fede».

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contrasto con quell’ordine e di conseguenza «in contrasto con la volontà di Dio, esse non hanno forza di obbligare la coscienza» e «l’autorità cessa di essere tale e degenera in sopruso»; senza di fatto riscontrare differenze con le affermazioni del pachistano Abu Mawdudi, tra i più autorevoli rappresentanti dell’islam radicale, il quale dichiarava che:

Il punto essenziale e chiaro per tutti è che chi abbandona la legge di Dio per un’altra, che egli stesso o altri uomini hanno creato, commette un atto di idolatria e di tirannia, allontanandosi così dalla verità, tanto che chi governa in base a una simile legge è un usurpatore (Losurdo, 2007: 47).

Appurata la problematicità della questione fondamentalismo, che dovrebbe sconsigliare dal pronunciare verdetti semplicistici e a senso unico, resta però da considerare la pretestuosità con cui tale categoria è stata brandita per rinforzare la favola della contrapposizione tra il Bene e il Male, volendo spiegare gli attacchi dell’11 settembre a New York come il colpo assestato da una civiltà fondamentalista e per questo intrisa di odio anti-occidentale, contro la quale, quindi, non vi poteva essere che una guerra di reazione. Ora, abbiamo già visto come la prima delle operazioni belliche seguite all’11 settembre, quella cioè in Afghanistan, presentasse molteplici aspetti di ambiguità, lasciando emergere forti interessi economici e di strategia geopolitica che in realtà costituivano una priorità dichiarata ben prima che gli attacchi di New York potessero fornire un valido pretesto. Ma è con il secondo conflitto in Iraq che la favola di una guerra di reazione al terrorismo internazionale era destinata ad essere smascherata del tutto, per lasciare il posto alla realtà di interessi economici e di potenza in un territorio, quello dell’Iraq, non solo ricco di bacini petroliferi ma in cui anche altre nazioni (su tutte la Francia e la 139

Russia) avevano compiuto notevoli investimenti, investimenti che gli Stati Uniti avevano prontamente minacciato di confiscare, a guerra vinta, come rappresaglia per l’opposizione al conflitto che alcuni paesi avevano avanzato (Ruppert, 2004: 101). Palese, quindi, il forte interesse economico in nome del quale il governo americano, oltre a centinaia di migliaia di civili iracheni (già gravati da un decennio di embargo seguito al primo conflitto), era stato disposto a sacrificare le vite di migliaia dei propri soldati. Un’affermazione forte, non c’è dubbio, che però è suffragata da autorevoli studiosi americani i quali parlano dei metodi adottati dall’amministrazione Bush per «vendere» all’America la guerra contro l’Iraq, ossia metodi basati su «informazioni di intelligence scelte ad hoc», con continui discorsi in cui l’Iraq e il regime di Saddam Hussein venivano collegati ad al Qaeda e all’11 settembre, in aggiunta alle mai trovate armi di distruzione di massa di cui sarebbe stato in possesso il regime iracheno (Krugman, 2007: 199). Senza contare le testimonianze e i rapporti della Commissione d’inchiesta sull’11 settembre e il Rapporto sull’Intelligence del senato americano che, a fianco delle inchieste Hutton e Butler in Gran Bretagna, hanno contribuito a delineare uno scenario da cui emergeva che, per giustificare la decisione di scatenare la guerra, erano state usate e manipolate informazioni quantomeno dubbie, parziali e mai verificate. Il tutto, ancora una volta, con la compiacenza acritica e la scarsa voglia di approfondire le ragioni per cui si scatenava una guerra, di cui parte dell’informazione statunitense più autorevole si sarebbe scusata soltanto in seguito, quando ormai il terribile conflitto era scoppiato con tutti i suoi strascichi di sangue e morti, e confermando per certi versi l’analisi impietosa di Chomsky ed Herman secondo cui i media americani svolgono spesso e volentieri il ruolo di un’ «agenzia di manipolazione, indot140

trinamento e controllo al servizio dei potenti e dei privilegiati»13. Ma allora cosa c’era dietro un conflitto, quello contro l’Iraq e il regime di Saddam Hussein, pretestuosamente e pervicacemente inserito all’interno della «guerra infinita» iniziata in Afghanistan e dai confini, spaziali e temporali, almeno al momento imprevedibili? Quale la vera motivazione per un’azione bellica comunque terribile per la quale, in assenza di appigli poco più plausibili come avveniva per l’Afghanistan, erano state costruite ad arte delle bugie e dei falsi facilmente smentiti dalla cronaca successiva? Alla luce dei fatti i motivi sembrano due, uno più afferente alla situazione generale, l’altro più specifico. Il primo concerne il fatto che il regime di Saddam Hussein era più fragile e traballante, tanto da garantire quella «vittoria lampo» che avrebbe scatenato immediati entusiasmi e giustificato l’ipotesi di un’indefinita e generica «guerra infinita» al terrorismo. Non a caso il Sottosegretario alla Difesa Paul Wolfowitz suggeriva al Presidente Bush di attaccare l’Iraq fin dal 15 settembre 2001, argomentando che mentre una vittoria contro l’Afghanistan sarebbe stata più incerta, il «fragile e tirannico regime iracheno» si sarebbe schiantato rapidamente (Wade, 2003). Il secondo motivo costituisce la vera essenza delle intenzioni dell’amministrazione americana, ed era quello che più si voleva nascondere con la favola, ben più pomposa ed edificante, della lotta per «liberare il mondo dal male», costruita sulla «sacralizzazione degli eventi dell’11 settembre e della nuova missione che il popolo americano si assumeva davanti a Dio attraverso il suo presidente»14: era in N. CHOMSKY, E.S. HERMAN, La Washington Connection, 1988: 207. Fra le più rilevanti dichiarazioni di mea culpa da parte degli organi di informazione americani, segnaliamo D. RIEFF, Blueprint for a Mess, 2003; M. IGNATIEFF, Why Are We in Iraq, 2003; C. MOONEY, The Editorial Pages, 2004. 14 E. GENTILE, La democrazia di Dio, 2008: 115. Vi sono stati immancabili casi di fanatismo religioso, come nel caso dei tele-evan13

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realtà giunta l’ora di scaricare il regime di Saddam Hussein, in altri tempi appoggiato e finanziato, di distruggerlo con violenza poiché non garantiva più il controllo su terre ricche di petrolio e geopoliticamente strategiche in quanto circondate da nemici ben più temibili quali la Siria e l’Iran. Assai prima dell’11 settembre, infatti, George W. Bush aveva pubblicamente esposto, in un importante discorso a «The Citadel», prestigiosa accademia militare in Sud Carolina, il proprio piano di «trasformazione» dell’apparato militare americano, volto alla «costruzione dell’esercito del XXI secolo», nell’ottica di una politica statunitense nuovamente imperniata sulla potenza militare, sulla distruzione di regimi ostili e sul controllo di territori fondamentali per la gestione delle materie prime energetiche. Allo stesso modo non erano ancora state colpite le torri gemelle quando in un Rapporto del National Energy Policy Development Group (17 maggio 2001), il vicepresidente americano Richard Cheney esplicitava la seconda grande priorità del governo americano: l’acquisizione di nuove riserve di petrolio da parte di un paese, gli Stati Uniti, il cui fabbisogno di greggio importato sarebbe passato dal 52% del 2001 al 66% del 2020, ossia da 10,4 milioni di barili al giorno a circa 16,7. Ma il problema è che le regioni ricche di petrolio segnalate dal Rapporto erano tutte caratterizzate da forte instabilità e marcato risentimento anti-americano, tanto da far rischiare agli Stati Uniti di scontrarsi con varie forme di resistenza degenerabili in atti di violenza o terroristici (Klare, 2002). gelisti Pat Robertson e Jerry Falwell, i quali attribuivano gli attacchi dell’11 settembre a una punizione divina per aver permesso che l’omosessualità e l’aborto avessero preso piede nella società americana; si veda R. SEYMOUR, The Liberal Defence of Murder, 2008: 3, ma è evidente che si trattava di un tentativo di «sacralizzazione» ben diverso rispetto a quello portato avanti dal governo americano.

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Ecco allora che emergeva con tutta la sua forza, ben prima degli attacchi dell’11 settembre, il «binomio strategia militare-politica energetica» del governo Bush, capace di spingerlo, dopo Ground Zero, all’elaborazione di una teoria aggressiva e pericolosa quale quella della «guerra preventiva», che nel giro di poco tempo avrebbe condotto al secondo conflitto iracheno il cui bilancio è quantomeno sconfortante: un numero di morti fra i civili e i militari iracheni, oltre ai soldati occidentali, ormai ben superiore a quello delle vittime dell’11 settembre; un aumento del fanatismo religioso e dell’odio anti-occidentale presso la popolazione e gli islamici in genere, nonché una notevole radicalizzazione delle tensioni in tutto il Medioriente, con sbocchi ad oggi imprevedibili ma che non lasciano presagire nulla di buono. Se a questo aggiungiamo il paradosso di un regime, quello di Saddam Hussein, certamente sanguinario e anti-democratico, ma almeno laico, sostituito da una lenta e inesorabile presa del potere da parte di personalità legate al fondamentalismo religioso con appoggi in Iran, possiamo formarci un’idea molto chiara dei risultati prodotti dall’amministrazione Bush. Un’amministrazione che dietro al manto della guerra contro le forze del male e del terrorismo internazionale, specie nel caso iracheno nascondeva il dichiarato intento di pervenire alla «totale privatizzazione delle imprese pubbliche al pieno diritto di proprietà degli affari economici iracheni da parte delle aziende straniere nonché al completo ritorno in patria dei profitti da queste ottenuti» all’«apertura delle banche dell’Iraq al controllo straniero»; alla «parità di trattamento delle imprese straniere con quelle locali» e all’«eliminazione di quasi tutte le barriere commerciali», come dichiarato dalle ordinanze promulgate il 19 settembre 2003 da Paul Bremer, a capo dell’Autorità provvisoria della coalizione (Harvey, 2005: 6). Al di là del fatto, comunque rilevante, che tali propositi potessero o meno violare le Convenzioni di Ginevra e de 143

L’Aia, che imporrebbero alla potenza occupante di salvaguardare le attività del paese occupato e non di svenderle, ci si trovava di fronte al tentativo di costruire quello che il londinese «The Economist» aveva definito un «regime da sogno capitalista», sulla base di quel «fondamentalismo del mercato» che, come significativamente denunciato da un membro della stessa Autorità provvisoria presieduta da Bremer e istituita dagli americani, si rivelava figlio di una «logica difettosa che ignora la storia» (Crampton 2003: C5; Harvey, 2005: 6-7). Ecco allora che la favola della lotta fra il Bene e il Male, favola in cui il primo è incarnato da quelli nettamente più forti, economicamente e militarmente, alla luce dei fatti che abbiamo riportato potrebbe essere sostituita dalla visione di un conflitto tra fondamentalismi, espressioni di due civiltà in linea di massima caratterizzate da un diverso stadio di sviluppo, in cui a un mondo islamico fortemente permeato dalla religione si contrappone un Occidente in cui l’economia gioca un ruolo centrale nella società. Ma è bene non dimenticare che tanto il fondamentalismo religioso si è rivelato e si rivela aggressivo nella ricerca e spesso nella cooptazione di nuovi fedeli, quanto il fondamentalismo del mercato si è mostrato propenso a impiegare la forza, militare ed economica, allo scopo di acquisire beni primari, risorse energetiche e conquistare in genere nuovi mercati, anche per mezzo di guerre condotte contro paesi che alla fine si vedevano imposte regole rigide di liberismo che gli stati occupanti avevano abbandonato essi per primi da molto tempo. In questo modo è potuto accadere che un proposito dichiarato, «ripulire il Medioriente dai terroristi e creare un’enorme zona di libero scambio», semplificato dalle parole di George W. Bush per cui si trattava di «diffondere la libertà in una regione tormentata», si trasformasse in un altro tipo di obiettivo: «la libertà per le multinazionali occidentali di fagocitare le ricchezze degli stati appena pri144

vatizzati» (Klein, 2007: 327-328), come del resto era accaduto con la Russia degli anni ’90 e con il Cile degli anni ’70. In quest’ultimo caso, per una delle tante ironie della storia, si aveva a che fare con un altro 11 settembre, poiché invece del 2001 correva l’anno 1973.

I due 11 settembre e la «carovana della morte»

Se l’attuazione del «fondamentalismo del mercato» in seguito alle vicende dell’11 settembre 2001 veniva condotta in maniera larvata, per lo più nascondendosi dietro alla favola buona della lotta delle forze del Bene contro quelle del Male, volta alla distruzione del terrorismo internazionale e all’esportazione di libertà e democrazie in regioni che ne erano sprovviste, un altro 11 settembre, quello del 1973, aveva rappresentato una sorta di grande banco di prova di questo fondamentalismo, per di più senza nessuna favola buona a indorare la pillola amara, ma in compenso con notevoli punti di contatto rispetto alle vicende odierne che inducono a più di una riflessione. L’11 settembre del 1973, a Santiago del Cile, un uomo fino a quel momento conosciuto per la sua mitezza e deferenza verso i funzionari civili, metteva in atto il colpo di stato per rovesciare il governo democraticamente eletto di Salvator Allende. Malgrado lo spiegamento di forze assolutamente sproporzionato – Pinochet controllava esercito, marina e polizia, mentre nel palazzo presidenziale Allende era difeso da 36 sostenitori – i fautori del colpo di stato lanciavano 24 missili in aggiunta ai carri armati e ai jet da combattimento che bersagliavano la resistenza presidenziale. In un giorno solo, un paese che proveniva da 160 anni di pace e democrazia, di cui gli ultimi 41 ininterrotti, si ritrovava piombato in uno scenario da inferno, col palazzo presidenziale in fiamme, il presidente Allende portato 145

fuori esanime su una barella e avvolto in un sudario e i ministri sdraiati a faccia in giù coi fucili puntati sul capo. L’appoggio fattivo degli addestratori americani era stato determinante. Molti di questi lavoravano per la Cia e avevano compiuto anche un’operazione di indottrinamento capillare e continuo, nella «frenesia anticomunista» di convincere i militari che i socialisti dovevano essere per forza di cose spie sovietiche. Si è calcolato che oltre 200 000 militari latinoamericani sono stati addestrati in territorio statunitense, e dal 1949 più di 35 000 ufficiali hanno seguito i corsi della «School for the Americas», con amara ironia ribattezzata in America Latina «Scuola dei colpi di Stato» (Chomsky, Herman, 1979: 74, v. I). Un rapporto desecretato della Cia informava che nei giorni successivi al colpo di stato 13.500 civili venivano arrestati e caricati su camion, incarcerati e sottoposti a torture tanto scientificamente condotte quanto disumane. Le persone, molte delle quali non sopravvivevano ai trattamenti violenti, venivano «fustigate», «ripetutamente colpite con pugni e calci o con i fucili», tanto che lungo il fiume Mapocho cominciavano a comparire cadaveri galleggianti il cui corpo sfigurato non permetteva neppure l’identificazione. Tristemente noto il caso del più famoso cantante cileno, Victor Jara, che dopo essere stato rinchiuso insieme ad altre migliaia di persone nell’Estadio Chile, era stato torturato a sangue al punto che il corpo, orrendamente mutilato, veniva ritrovato con le ossa rotte e le mani spezzate (ivi: 37). Giorni terribili, in cui l’esercito e i fautori del colpo di stato si rendevano protagonisti di efferatezze di ogni genere, lungo una scia di sangue che aveva fatto parlare di «carovana della morte» (Klein, 2007: 77). Il nemico ufficiale in nome del quale si compieva questo scempio era il comunismo, ma il governo di Allende era in realtà socialista e aveva accettato le regole della democrazia, tanto da essere stato democraticamente eletto. Inoltre, induceva alla riflessione un rapporto sulla tortura 146

stilato da Amnesty International proprio in quegli anni, nel quale si faceva notare il paradosso di una pratica che, nella sua versione stalinista, cioè con l’approvazione del governo, non esisteva più in Unione Sovietica, mentre si stava significativamente estendendo in America Latina, là dove maggiore era l’influenza statunitense. Evidentemente tanto le nefandezze dell’«Impero del male» sovietico venivano eguagliate e persino superate dalle azioni di chi, in nome del Bene e della libertà, combatteva le storture del comunismo realizzato, quanto ai giorni nostri gli eserciti occidentali (nel caso delle torture ad Abu Grahib, per esempio) e persino i governi (si pensi a Guantanamo) non si fanno scrupoli a negare il rispetto dei più elementari diritti dell’uomo a coloro che si combattono in nome di quei diritti stessi. Ma torniamo all’11 settembre del 1973, per notare come anche in quel caso, così come abbiamo avuto modo di osservare per i tragici avvenimenti dei giorni a noi più vicini, si presentavano elementi importanti che solo apparentemente esulavano da quello che poteva apparire uno dei tanti colpi di stato militari. Infatti, quel giorno così drammatico per il popolo cileno costituiva anche il momento in cui determinate persone vedevano una seria possibilità di riscatto per i propri ideali fino a quel momento delusi dal corso della storia. Si trattava dei Chicago boys, ossia gli allievi fanatici e fondamentalisti di Milton Friedman, di cui il governo americano aveva finanziato gli studi presso l’Università di Chicago fin dagli anni ’50, nel contesto di un’operazione culturale volta a contrastare le sinistre in America Latina, e cultori di un liberismo assoluto che ora avevano modo di realizzare in patria (Harvey, 2005: 8). Capitanati da Sergio De Castro, infatti, i giovani laureati presso la Scuola di Chicago venivano immediatamente nominati da Pinochet come consulenti economici del nuovo governo, rispondendo alla pacifica rivoluzione socialista di 147

Allende con quella che lo stesso «The Economist» (ivi: 78; Harvey, 1980) definiva una «controrivoluzione» volta a realizzare per la prima volta un governo che scardinasse il modello di stato sociale e di economia controllata realizzato in nome del keynesismo. Sennonché i risultati dovevano rivelarsi fin da subito disastrosi, poiché la privatizzazione di banche e imprese, in aggiunta ai forti tagli delle spese governative e all’eliminazione di ogni forma di controllo sui prezzi, conduceva il paese, già nel 1974, a un’inflazione del 375 per cento, cioè la più alta del mondo e quasi il doppio di quella che il Cile aveva fatto registrare nei momenti peggiori del governo Allende. Nel frattempo le imprese straniere si appropriavano delle ricchezze cilene e il popolo si vedeva in larghissima parte ridotto alla fame. La débâcle era tale che lo stesso Milton Friedman, sponsor entusiasta dell’operazione cilena, doveva accorrere in Cile per appoggiare i propri pupilli. Egli, naturalmente, esortava un pur titubante Pinochet a liberalizzare e deregolamentare maggiormente l’economia, secondo il vecchio assunto liberista per cui i risultati negativi vanno addebitati allo scarso coraggio di chi non applica il liberismo stesso fino in fondo. Pinochet finiva col dargli retta, nominando De Castro ministro dell’economia e iniziando con lui un lavoro di distruzione del welfare state ancora più categorico: spesa pubblica tagliata del 30 per cento, scuola e sanità lasciate completamente allo sbaraglio (venivano adottati i buoni scuola e introdotta la sanità a pagamento, eliminando i centri sanitari di comunità nei quartieri più poveri, ispirandosi a quanto proposto da Friedman in Capitalismo e libertà), imprese e banche statali drasticamente privatizzate e barriere doganali completamente abolite (a discapito delle imprese locali), conducevano in pochi anni alla perdita di 180 000 posti di lavoro e a un impoverimento del popolo cileno pressoché inaudito fino a quel momento. 148

Ancora nel 1982 – scrive ai giorni nostri Naomi Klein, autrice del libro Shock Economy, il cui titolo riprende la famosa espressione usata da Milton Friedman per descrivere il tipo di politica secondo lui necessaria in Cile e attuata da Pinochet – «malgrado la stretta aderenza alle dottrina di Chicago», l’economia cilena faceva registrare dati disastrosi, con il debito che esplodeva e il paese che si trovava ancora una volta a fare i conti con iperinflazione e disoccupazione al 30 per cento (Klein, 2007: 85). Negli stessi anni Milton Friedman, nel frattempo insignito del premio Nobel per l’economia, conduceva negli Stati Uniti una trasmissione televisiva di successo, da cui veniva tratto un libro in cui il famoso economista descriveva l’inflazione come una «malattia», una malattia «pericolosa e spesso fatale» che si era manifestata nel mondo svariate volte ma, nella fattispecie, con particolare forza in Cile, contribuendo alla caduta del governo Allende (M. & R. Friedman, 1980: 253). Alla luce di quanto abbiamo visto, sorprende non poco che un così celebre e celebrato autore metta tranquillamente sotto silenzio il suo neanche tanto indiretto appoggio al regime di Pinochet, così come lascia basiti il suo riferimento alla forte inflazione che avrebbe rovesciato il governo Allende (quando in realtà abbiamo visto essersi trattato di un violentissimo colpo di stato), tacendo del tutto sui ben più alti valori inflazionistici prodotti dal governo che si ispirava alle sue teorie. Lascia ancora di stucco, infine, il fatto che uno studioso di tal fama arrivava a omettere che il governo di Pinochet, al culmine di una crisi ormai irrecuperabile cui si era pervenuti seguendo le teorie della Scuola di Chicago, era stato costretto a ritornare alle politiche attuate da Allende: nazionalizzare molte delle aziende e delle banche cilene, ripristinare la spesa pubblica e l’intervento statale non senza aver rimosso dai rispettivi ruoli i Chicago Boys, De Castro compreso, tutto questo senza contare che neppure nel periodo di massima adesio149

ne alle politiche liberiste Pinochet aveva privatizzato l’industria del rame, che rappresentava la più grande ricchezza della nazione e che probabilmente aveva contribuito a evitare il tracollo totale della nazione cilena. E dire che, a un anno di distanza dall’assegnazione a Friedman del Nobel per l’economia nel 1976, e dopo che questi aveva dichiarato che «la cosa veramente importante della vicenda cilena era che i liberi mercati avevano potuto costituire una società libera», nel 1977 il premio Nobel per la pace veniva assegnato ad Amnesty International, in larga misura per il coraggio mostrato nel denunciare le torture e le violazioni dei diritti umani compiute in Cile e Argentina (Klein, 2007: 117-118). Per quello che si è potuto ricostruire, poiché è risaputo che i regimi militari e dispotici tendono a nascondere le proprie malefatte, il bilancio del colpo di stato cileno, pesantemente ispirato e per buona parte condotto dai fanatici del liberismo, è stato di 3200 persone scomparse o uccise, 80 000 imprigionate e torturate, 200 000 fuggite per ragioni politiche. Il Cile rappresentava soltanto un anello significativo di una catena di sangue che aveva caratterizzato l’America Latina, dove regimi militari si erano insediati per sostituirsi a governi democratici in nome del liberismo più assoluto, impossibile da realizzarsi all’interno delle democratiche potenze occidentali e quindi imposto là dove gli Stati Uniti riuscivano a insediare un governo «amico». Questo aspetto per cui le politiche fortemente liberistiche si sono rivelate attuabili soltanto all’interno di governi illiberali e dispotici avrebbe dovuto far riflettere i corifei fanatici del laissez-faire, come il Nobel per l’economia Friedrich von Hayek, che più volte si era recato in quegli anni a far visita al Cile di Pinochet senza far notare in alcun modo le enormi ingiustizie e forme di violenza che lì si verificavano (scegliendo anzi il Cile, e proprio la città costiera di Viña del Mar, base dei golpisti, come sede per 150

una conferenza della Mont Pelerin Society). Quel Cile che ancora nel 1988 vedeva il 45 per cento della popolazione al di sotto della soglia di povertà, a fronte del 10 per cento che aveva visto crescere il proprio reddito dell’83 per cento: un paese che ancora nel 2007 risultava tra i più ineguali al modo, secondo un rapporto delle Nazioni Unite (ivi: 86). Così come avrebbe dovuto far riflettere, nell’ambito del secondo 11 settembre, quello dei giorni nostri, il fatto che l’amministrazione Bush avesse approfittato degli attacchi terroristici per imporre al proprio interno, per di più quando l’economia era già in forte recessione, quelle politiche a favore di poche grandi imprese legate al mercato della guerra e di una ristretta minoranza di ricchi che non era riuscito a far passare prima di Ground Zero, ponendo di fatto le basi per l’impoverimento della grande maggioranza del popolo americano (a fronte del rapido ed enorme arricchimento di pochi privilegiati) e per una crisi globale che oggi è sotto gli occhi di tutti: non erano trascorse neppure quarantotto ore dagli attacchi di New York e Washington, quando l’amministrazione Bush provava a far approvare un drastico taglio alle tasse sui redditi da capitale (capital gain), mentre un mese dopo passava alla Camera un provvedimento che, per ammissione dello stesso «The Wall Street Journal» faceva gli interessi esclusivamente delle grandi società15. Tre mesi dopo l’11 settembre la società Enron dichiarava bancarotta, cosicché da una parte migliaia di dipendenti vedevano sfumare i propri risparmi per la pensione e, dall’altra, pochissimi manager si arricchivano grazie alle «informazioni private» di cui disponevano, fatto che con15 P. KRUGMAN, La coscienza di un liberal, 2007. Significativamente c’è stato chi, come Ahmed nel descrivere le politiche elitarie e sconsiderate dell’amministrazione Bush, parlava di «imperialismo domestico»; N.M. AHMED, The War on Freedom, 2002: 275-276.

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traddiceva quel caposaldo del liberalismo economico che Mises e Hayek chiamavano «divisione della conoscenza», per cui si riteneva che proprio perché la vera conoscenza dei fatti sociali era sparsa tra tutti gli individui, liberi di utilizzarla per i propri obiettivi del momento, nessuna autorità centrale poteva arrogarsi il diritto di operare come se essa fosse depositaria della conoscenza generale, tenendo all’oscuro dei propri intendimenti, e del proprio operato, la maggior parte dei cittadini e instaurando in questo modo un regime totalitario16. Basti un solo ultimo esempio, ancora una volta paradossale e intriso di quell’ironia di cui l’«instabile ruota della storia»17 fa ampio uso senza che gli uomini se ne accorgano né sappiano trarne insegnamento, per cogliere l’abbraccio fatale che spesso si è verificato tra liberismo sfrenato e morte, e che lega in maniera ideale ma significativa i due undici settembre: il primo successo riconosciuto delle politiche ispirate da Friedman in terra statunitense, nell’ottica dello smantellamento delle pratiche derivanti dal keynesismo, aveva riguardato la massiccia operazione di deregolamentazione attuata da Ronald Reagan nei confronti del comparto aeroportuale, operazione che aveva finito, attraverso il forte ridimensionamento dei sindacati dei controllori di volo e delle linee aeree in genere, per impoverire fortemente la sicurezza degli aeroporti, lasciata in mano a lavoratori sottopagati, male addestrati e non iscritti al sindacato. Si veda N. KLEIN, The Shock Doctrine, 2007: 296, per il fallimento della Enron e l’arricchimento di pochi manager che disponevano di informazioni sconosciute ai più; Hayek (Economics and Knowledge, 1937: 50, 54), per la teoria della «divisione della conoscenza» e dell’equilibrio economico garantito dal fatto che ogni individuo è in possesso di informazioni che lo rendono atto a perseguire i propri interessi all’interno dell’agone economico. 17 L’espressione è di L. CANFORA, Critica della retorica democratica, 2002: 102, che già aveva individuato il nesso curioso e fatale al tempo stesso fra l’11 settembre cileno e quello americano. 16

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La triste e crudele ironia della storia voleva che, esattamente venti anni dopo, il più terribile attacco che gli Stati Uniti subivano sul proprio territorio riuscisse anche grazie a questa situazione che aveva portato a lesinare sulle spese per la sicurezza sugli aerei e sugli aeroporti, come testimoniato dall’ispettore generale del dipartimento dei trasporti alla Commissione d’inchiesta sull’11 settembre istituita da George W. Bush. Un altro funzionario, che lavorava da tempo per l’Agenzia federale dell’aeronautica, dichiarava davanti alla medesima Commissione che l’approccio delle compagnie aeree rispetto alla sicurezza e a eventuali indizi di attentati consisteva nello «screditare, negare e temporeggiare» (Klein, 2007: 296). Purtroppo i risultati sono ormai noti. Alla luce di tutto questo, cioè di due esempi della storia recente e meno recente ma anche di quanto analizzato nel capitolo precedente, ci pare opportuno richiamare l’esigenza di un controcanto critico rispetto al quasi unanime consenso, e alla totale assenza di sistemi alternativi, di cui gode il liberalismo economico. Un sistema che, se indubbiamente ha contribuito a buona parte dello sviluppo sociale dell’Occidente agli albori della rivoluzione industriale, da altri punti di vista ha prodotto anche ingiustizie e soprusi che sono stati in larga parte superati grazie all’abbandono, da parte degli stessi paesi occidentali lungo gli ultimi due secoli (Stiglitz, 2006: 276), di quelle medesime pratiche economiche che oggigiorno le grandi imprese multinazionali tendono a voler reintrodurre a livello globale. L’assenza di un’analisi critica e di proposte alternative a questo sistema di liberismo economico incontrollato, oltre a produrre la drammatica crisi economica e finanziaria sotto gli occhi di tutti, rischia di rimettere in moto la carovana della morte per quello che potrebbe rivelarsi un altro viaggio intriso di sangue. 153

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Noi preferiamo ancora l’illusione virtuale, quella in cui nulla è vero e nulla è falso, quella di un’indistinzione del reale e del riferito, quella di una ricostruzione artificiale del mondo in cui, al prezzo di un disincanto totale, godiamo di un’immunità totale. [...] La triste conseguenza di tutto questo, è che non si sa più che farsene del mondo reale. Non si vede più per nulla la necessità di questo residuo, divenuto ingombrante. Jean Baudrillard, 1995: 67-69

Un tempo esistevano immagini nel mondo, oggi esiste «il mondo nell’immagine», o meglio: il mondo come immagine, come una parete d’immagini che senza sosta cattura il nostro sguardo, senza sosta lo possiede, senza sosta copre il mondo. Günther Anders, 1956: 231

Non è sorprendente che fin dall’infanzia gli scolari, facilmente e con entusiasmo, cominciano dal Sapere Assoluto dell’informatica, mentre ignorano sempre più la lettura, che richiede un giudizio veritiero ad ogni riga e che è la sola a poter fornire l’accesso alla vasta esperienza umana pre-spettacolare. Perché la conversazione è quasi morta, e presto lo saranno molti di coloro che sapevano parlare Guy Debord, 1988: § 10

Gli uomini sono sempre più automi, producono macchine che agiscono come uomini e uomini che agiscono come macchine. La loro ragione si deteriora mentre l’intelligenza, creando in questo modo la pericolosa situazione in cui l’uomo è fornito del più grande potere materiale senza la saggezza per saperlo usare […] Nel XIX secolo il problema è stato che «Dio è morto», nel XX il problema è che «l’uomo è morto». Erich Fromm, 1963: 101

Bisogna infine che la morte trionfi, poiché siamo divenuti sua preda per il solo fatto di essere nati. La morte si permette un momento di giocare con la sua preda, ma non aspetta che l’ora di divorarla. Rimaniamo nondimeno affezionati alla vita, e spendiamo ogni cura per prolungarla quanto possiamo; proprio come chi si sforza di gonfiare quanto più e quanto più a lungo una bolla di sapone, pur sapendola destinata a scoppiare. Arthur Schopenhauer, 1819: 352-353, Libro IV, § 57

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Sarebbe davvero molto bello che ci fossero un Dio – come creatore dell’Universo e benigna Provvidenza –, un ordine morale universale e una vita ultraterrena; tuttavia è almeno molto strano che tutto ciò sia davvero così come non possiamo fare a meno di desiderare che sia. E sarebbe più strano ancora che i nostri poveri, ignoranti, oppressi antenati fossero riusciti a risolvere tutti questi difficili enigmi dell’universo. Sigmund Freud, 1927: 463

O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?. Giacomo Leopardi, A Silvia, 1828: vv. 36-39

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Capitolo quarto

L’ultimo Dio

Due divinità governano il mondo umano nella nostra epoca, quasi incontrastate, in una strettissima alleanza che in molti casi rende assai complicato distinguere dove prevalga l’una e dove l’altra, a chi spetti il ruolo di attore principale e a chi quello di special guest star. Queste due potentissime entità sono l’economia e la tecnica. Della prima abbiamo detto e ci torneremo su soltanto per tracciare un bilancio complessivo. Mentre vale la pena dedicare uno spazio specifico di analisi e riflessione alla seconda, poiché si tratta di una comparsa più recente ma capace di conquistare gli spazi della dimensione umana con una velocità e una pervasività quanto mai notevoli. La storia della tecnica e delle trasformazioni tecnologiche operate dall’uomo è antica quanto il mondo umano, ma pochi dubitano sul fatto che ai giorni nostri, in particolar modo con la comparsa della tecnologia informatica (di cui Internet costituisce l’aspetto più rilevante e rivoluzionario), ci si trovi di fronte a uno stadio nuovo ed epocale, in grado di produrre delle mutazioni di paradigma, tanto profonde e radicali quanto imprevedibili negli sviluppi e negli esiti, nell’ambito della natura, della cultura e della società umana. In questo senso si è parlato del passaggio dalla «società di massa», intesa come una formazione sociale che posa su un’infrastruttura di «gruppi», 157

«organizzazioni» e «comunità», all’interno dei quali vengono organizzati gli individui, a una «società di reti», in cui il perno infrastrutturale è costituito dalle «reti sociali dei media», all’interno delle quali possono recitare un ruolo attivo e autonomo sia gli individui in quanto tali sia le formazioni collettive (gruppi, organizzazioni, ecc.) [Van Dijk, 2006: 20]. Insomma, una vera e propria rivoluzione, in grado di marcare una fase ulteriore rispetto alle prime due grandi trasformazioni tecnologiche (vapore ed elettricità) che hanno segnato il percorso della rivoluzione industriale all’interno della modernità occidentale. Una «rivoluzione dell’informazione», per usare la celebre espressione di Daniel Bell, che ha trasformato la società industriale produttrice di beni materiali in una società «post-industriale» produttrice e veicolatrice innanzitutto di informazioni e beni immateriali, in cui il ruolo di attori principali non spetta più all’«energia», alle «materie prime» e alla «tecnologia meccanica», ma viene interpretato dalla «conoscenza», dall’«informazione» e dalla «tecnologia informatica» (Bell, 1987: 11; 1973: 467; 1980; Ercolani, 20083). Significativamente lo studioso americano di tendenze, John Naisbitt, agli albori di questa ultima rivoluzione aveva scritto che «la tecnologia dei computer» rappresenta per l’èra dell’informazione quello che la «meccanizzazione» ha rappresentato per la rivoluzione industriale (Naisbitt, 1984: 22).

Il digitale: rivoluzione umana o post-umana?

Ai suoi albori la rivoluzione industriale suscitò tutta una serie di consensi fra gli economisti e i grandi intellettuali. Quasi unanime era l’idea che si fosse entrati in un meccanismo capace di sviluppare come mai prima le potenzialità umane, producendo uno sviluppo graduale ma costante della società nel suo insieme. 158

Per assistere a una critica sistematica e scientifica di questa visione idilliaca, toccò aspettare un paio di secoli rispetto all’esplosione della rivoluzione industriale in Inghilterra, quando Marx ed Engels si impegnarono, con i loro scritti, a mettere in evidenza il lato oscuro del capitalismo, le terribili e disumane contraddizioni che esso contemplava per una larga parte degli individui che componevano la società del tempo (Ercolani, 20112: capitolo VIII). Nella nostra epoca, invece, in cui tutto accade con maggiore velocità, tanto i fenomeni sociali quanto la critica di essi emergono spesso contemporaneamente. Ecco allora che, soltanto per fare alcuni esempi, ai giorni nostri troviamo da una parte un autore come Serge Latouche, impegnato a criticare severamente l’epoca della «ragione tecno-scientifica», quella in cui le stesse macchine, i mezzi tecnologici di comunicazione (ma non solo) sembrano sovente assurgere al ruolo di soggetti unici e «autonomi», pronti a plasmare e dominare il mondo umano (tanto lo menti quanto i corpi) in maniera meccanica e in prima «persona». La società umana ha smesso di essere dell’uomo, da esso regolata e governata per il raggiungimento di scopi anzitutto umani, per lasciarsi andare invece a un dominio pervasivo e totalizzante da parte della «mega-macchina», vera e unica divinità cui votare ogni pensiero e ogni azione: «Diventando lavoratore, consumatore e utente – scrive Latouche con un debito evidente nei confronti di Debord – il cittadino si sottomette anima e corpo alla macchina». In questo modo, in fabbrica come in ufficio, al mercato o nella vita quotidiana, magari connesso tramite un pc alla Rete mondiale, il cittadino viene ridotto di volta in volta e a seconda delle circostanze specifiche ad «agente di produzione», «consumatore passivo», «elettore manipolato», «utente dei servizi pubblici», insomma viene ridotto a mero «ingranaggio della grande macchina tecno-burocratica», e 159

come tale destinato a svolgere un ruolo passivo e strumentale nei confronti del potere tecnico ed economico detenuto dai pochi (Latouche, 1995: 56-57, 41-42). Sulla stessa scia di Latouche, ma più specificamente rivolto alla tecnologia informatica, il filosofo e urbanista Paul Virilio, pronto a denunciare la «bomba informatica» come l’erede contemporanea della «bomba atomica», e che insieme alla «bomba demografica» sarà in grado di produrre una deflagrazione tale da provocare la fine del mondo umano, che sarà sostituito da un «nuovo modello di umanità», il «transumano», che è quello in cui saranno sopravvissuti soltanto quegli esseri, transgenici o comunque ibridi, in grado di adeguarsi al nuovo ambiente informatico e tecnologico1. Per un Latouche e un Virilio che l’Umberto Eco degli anni ’60 del secolo scorso avrebbe inserito fra gli «apocalittici», cioè tra coloro che si esprimevano in maniera radicalmente critica e preoccupata rispetto alle innovazioni tecnologiche, troviamo però un «integrato» come Kevin Kelly, pioniere della rivoluzione digitale e disposto a vedere nella tecnologia un «dono» che dobbiamo prepararci ad accogliere, consapevoli che il nostro «destino tecnologico» porterà con sé grandi migliorie per il genere umano e, inevitabilmente, anche qualche problema che però potremo superare con il popperiano metodo della «prova ed errore», cioè con la «sperimentazione» concreta dei nuovi congegni, capace di evidenziarne limiti e rischi permettendoci così di correggerli (Kelly, 2010: 180, 261, 263).

1 P. VIRILIO, La bomba informatica, 1998: 127-128. Poco prima (p. 124), lo stesso autore parlava di «eugenismo cibernetico», quello che, frutto dell’accoppiamento delle scienze della vita e di quelle dell’informazione», deve assolutamente tutto a una «tecno-scienza economica in cui il mercato unico esige la commercializzazione dell’insieme del vivente, la privatizzazione del patrimonio genetico dell’umanità».

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Ma anche, per entrare nello specifico della rivoluzione digitale, un Nicholas Negroponte, convinto che i nuovi media permettano addirittura un superamento delle barriere economiche, razziali e sociali, poiché ormai la vera distinzione è fra giovani e vecchi, tra coloro che sanno padroneggiare i nuovi mezzi e coloro che non lo sanno fare, e tutti quanti comunque incantati da quella «rivoluzione digitale» il cui fascino è universale come quello della musica rock; oppure un Pierre Levy, talmente entusiasta del mondo «virtuale» prodotto dalle nuove tecnologie da pensare che sia esso la vera casa dell’uomo, che esso non rappresenti quell’entità disumana e alienante denunciata da tanti intellettuali, bensì la dimensione umana per eccellenza da cui nascono tanto il vero quanto il falso (Negroponte, 1996: 204; Levy, 1995: 139-140). Si tratta soltanto di alcuni dei tantissimi filosofi e studiosi della materia che si sono espressi in maniera diametralmente antipodica rispetto alla nuova epoca digitale, concordi soltanto sul fatto che si tratta di una rivoluzione. Una rivoluzione inquietante e dai contorni ambigui fin dall’analisi delle parole chiave che la caratterizzano, c’è da dire senza la pretesa di schierarsi né con gli apocalittici né con gli integrati. Prendiamo il termine «macchina», per esempio, che dovrebbe indicare uno strumento perfettamente nelle mani dell’uomo, atto a soddisfare i suoi desideri e a rendergli più agevole l’ottenimento di determinati scopi. Eppure, stando alla derivazione dal greco antico mechané, vediamo che la saggezza dei nostri avi era portata a indicare con questo termine sia la macchina, e in generale il mezzo, i significati lineari e pacifici che gli attribuiamo ai nostri tempi, sia però anche il significato di astuzia, macchinazione, «raggiro». Un risultato che fa riflettere, come peraltro avviene anche col termine «media» (nel senso di mass media), per cui scopriamo una derivazione dal latino «medius» (nella forma aggettivale) o «medium» (in quella sostantivale), 161

che vuol dire certamente «mezzo», ma non nel significato chiaro di «strumento» (instrumentum), cioè di un qualcosa di passivamente utilizzabile da un soggetto agente (l’uomo, evidentemente), bensì in quello più capzioso di «intermedio», di tramite che può sì svolgere una funzione «neutrale», ma che non è per niente alieno (anzi!) dalla possibilità di mettere in atto un’azione «equivoca», «ambigua», «indeterminata». Raggiri, equivoci, ambiguità, non ci troviamo certamente nel campo semantico della trasparenza, tenendo conto che anche questo termine così inequivocabile nel gergo comune, «trasparenza» appunto, in informatica assume un significato completamente diverso, indicando apparati hardware o software invisibili all’utente, che perciò li utilizza senza rendersene conto e con tutti i pericoli del caso. Possiamo concludere questo piccolo, ma significativo, esercizio di etimologia ricordando che anche il termine «tecnica» deriva dal greco techne e per i sapienti antichi stava a significare tanto l’arte intesa come capacità umana di produrre e di creare con la propria maestria, quanto la facoltà dell’uomo di «essere padrone e disporre della propria mente», secondo la definizione di Platone, in un contesto semantico assai distante da quello dei giorni nostri, in cui la tecnica ha finito con l’assumere il ruolo inquietante di grande potenza non sempre controllabile dall’uomo (se non dai pochi che se ne fanno forti nei confronti dei tanti più deboli), quando non addirittura di creazione umana che può sostituirsi all’uomo, rivolgersi contro di lui o persino distruggerne l’intero habitat (Platone, Cratilo: 414 b-c; Ercolani, 2007: 21, 93). Ma certamente l’esercizio etimologico, per quanto interessante e significativo, non è sufficiente di per sé a dimostrare l’eventuale umanità, dis-umanità o post-umanità di questa nuova rivoluzione in cui ci troviamo immersi. Se essa rappresenti oppure no un’ulteriore tappa nello svilup162

po incessante di quella creatura narcisista e volubile che è l’uomo. Occorrerà addentrarsi nello specifico del nuovo media per eccellenza, il computer, e della sua applicazione più densa di implicazioni rispetto ai tanti ambiti del mondo umano: Internet. Tenendo però presenti sin da ora alcuni paradossi assai significativi che hanno caratterizzato la nascita e lo sviluppo di questa grandiosa rivoluzione digitale. Innanzitutto la genesi bizzarra della tecnologia che ha condotto a Internet: il mezzo che per antonomasia viene oggi indicato come il creatore, elaboratore e diffusore di notizie, in realtà era nato, su impulso del Ministero della Difesa americano, per nascondere le notizie, nella fattispecie quelle che potevano cadere nelle mani dei servizi segreti sovietici ai tempi della Guerra Fredda. Quella che era stata presentata come una tecnologia anarchica e libertaria, insomma, figlia anche dei grandi moti del ’68 e dell’anelito anti-sistema che li caratterizzava, era nata in realtà grazie allo stimolo, ai finanziamenti e allo studio del potere governativo e di una «tecno-élite» da esso incaricata di escogitare un sistema i cui scopi erano anzitutto governativi e istituzionali. Certamente innegabile è stato l’impulso fornito dalla cultura hacker, idealmente interessata a diffondere questa nuova scoperta gratuitamente e a tutte le persone, a liberarla dall’uso limitato ed elitario che ne facevano i pochi eletti, in linea con lo spirito egualitario, cooperativo e meritocratico che la caratterizzava. Ma proprio all’interno della cultura hacker è avvenuto lo strappo fondamentale, destinato a segnare il percorso futuro di Internet, fra quelli che, come Linus Torvald (l’inventore di Linux), pensavano a una tecnologia open source e quindi gratuita per tutti, e quelli che, come Bill Gates, vedevano in essa una grande opportunità di raccogliere un profitto immenso, visto che i computer erano destinati ad entrare nelle case di milioni di persone (Castells, 2001: capitolo 1; Carlini, 1996: capitolo II). 163

Ovviamente ha trionfato la seconda opzione, destinata a superare ed eliminare quasi del tutto i valori e la prassi con cui gli hacker avevano pensato la nuova tecnologia per tutti: non è stata certo la «libertà di espressione» in grado di formare individui pubblicamente attivi a trionfare, né meno ancora la «privacy che garantisce l’attività individuale», non certo la «passione» o l’etica hacker basata su valori guida come l’«attività», la «responsabilità» e la «creatività» (Himanen 2001: 106, 139-140; 2004). Malgrado tutti questi valori guida siano comunque presenti in quel magma indistinto e onnicomprensivo che è la Rete, certamente sono notevolmente minoritari rispetto ai contro-valori capitalistici, come il profitto, la commercializzazione, il non rispetto della privacy per fini commerciali, l’omologazione, la passivizzazione mentale e pratica della stragrande maggioranza degli utenti. La sconfitta dell’etica hacker, significativa fin dall’equivoco diffuso per cui essi vengono scambiati per i vandali e i disturbatori della Rete (che in realtà sono i «cracker»), è sotto gli occhi di tutti ed è resa ancor più marcata dall’ultimo e ironico paradosso. Tale paradosso risiede nel fatto che la tecnologia Apple – figlia della controcultura di menti ispirate dalla libertà tecnologica per tutti (pensiamo a Steve Wozniaz o a Ted Nelson), con il motto «il potere del computer al popolo!» e contro la «cyberfuffa» (cybercroud, «fottere la gente per mezzo dei computer») – avrebbe perso la guerra commerciale, prima con la Ibm e quindi con la Microsoft di Bill Gates (acerrima nemica degli hacker), appunto perché in seguito alla sua trasformazione in corporation aveva finito con l’elaborare una tecnologia chiusa, incompatibile con molte altre applicazioni digitali e, di fatto, complicatissima per la stragrande maggioranza degli utenti non esperti (Himanen, 2001: 217). Al di là di tutto, molti sono gli elementi che fanno pensare a una rivoluzione epocale, quella della Rete e della tec164

nologia digitale, che certamente non vede fra i suoi valori guida preponderanti quelli ispirati alla centralità dell’uomo, dei suoi bisogni, dei suoi scopi, delle sue caratteristiche precipue, come la creatività, la libertà, la passione, la ragione critica, l’azione pubblica consapevole e informata. A trionfare, piuttosto, sono ancora una volta i valori e gli scopi economici, a cui si sono aggiunti quelli di una tecnologia sempre più potente e sempre più in grado di entrare, e di far entrare i «poteri forti» (politici ed economici, ma anche tecnocratici), nelle case e nelle menti delle persone, secondo una logica «totalitaria» che era già stata denunciata da McLuhan, laddove scriveva che mentre «la minaccia di Hitler e di Stalin era una minaccia esterna», la tecnologia elettrica «entra dentro le nostre case e noi assistiamo intorpiditi, sordi, ciechi e muti al suo incontro con la tecnologia di Gutenberg». Un meccanismo descritto anche da Kurt Vonnegut nel suo romanzo del 1952, Player Piano, in cui scriveva che la prima rivoluzione aveva svalutato il «lavoro muscolare» (quello degli agricoltori), la seconda il «lavoro ordinario» (quello degli artigiani), mentre la terza rivoluzione stava rendendo superfluo il pensiero umano, cioè il «vero lavoro intellettuale» (McLuhan, 1964: 16-17; Vonnegut, 1952: 19-20). Il dubbio inquietante, su cui vale la pena riflettere, è se ci troviamo di fronte a un’epoca, quella della rivoluzione digitale, in cui non è più sufficiente parlare di meccanismi disumani o genericamente «contro» l’uomo, che abbiamo visto applicare nel secolo tragico che ci siamo lasciati alle spalle da un decennio. Nell’epoca di Internet, infatti, l’uomo è apparentemente coinvolto nel meccanismo, ci sta dentro, utente attivo di questa nuova tecnologia, in grado di interagire con altri uomini e altre macchine, con l’illusione di recitare un ruolo primario nel grande ingranaggio della società in Rete, quindi avvolto in un ambito ancora più insidioso perché coinvolgente e suadente. Il rischio vero ci sembra quello di una rivoluzione in grado di partorire, alla fine, un mondo e una società in cui 165

l’uomo e le sue caratteristiche precipue non recitino più un ruolo centrale. Del resto, se la «sfida» per il futuro deve essere quella immaginata dal guru della rivoluzione digitale Negroponte, cioè quella di fornire alle persone «computer che li conoscano», che «apprendano le loro necessità» e «capiscano i loro messaggi verbali e non verbali» (Negroponte, 1996: 92), ci sembra più che lecita la preoccupazione rispetto alla fine che farà l’uomo in un contesto del genere. Un uomo che pensa e agisce per costruire un mondo e una società post-umani!

Medium e messaggio. L’uomo come «organo sessuale» della tecnica

Il rapporto fra l’uomo e la tecnica, questa sua facoltà di plasmare gli elementi naturali al fine di escogitare prodotti artificiali utili ai propri scopi, si può far risalire alla notte dei tempi, ma mai come oggi, nell’epoca delle tecnologie mediatiche e digitali, comprenderne gli snodi e le problematiche si può rivelare determinante per le sorti del genere umano. A tale scopo può venirci in aiuto quel grande visionario che è stato McLuhan, in particolare laddove ha avuto modo di sfatare un falso luogo comune che ancora oggi riesce a impedire una comprensione più approfondita della questione. Il luogo comune in questione è quello secondo cui per riuscire a elaborare un giudizio su qualunque tecnologia comunicativa (o mezzo di comunicazione che dir si voglia), e per farsi un’idea chiara sugli effetti dello stesso mezzo per l’individuo o gli individui che ne usufruiscono, bisogna concentrarsi sull’uso che questi soggetti ne fanno. Insomma, sembrerebbe evidente che il giudizio sul mezzo è deducibile dal messaggio che quel mezzo veicola, oppure, detto in altri termini, se una persona usa la connessio166

ne a Internet per svolgere una ricerca con finalità serie, dovrebbero risultare chiaramente gli effetti positivi del mezzo stesso, contrariamente al caso di una persona che lo usa per scopi sciocchi e improduttivi. Questo modo di procedere al giudizio sul mezzo di comunicazione sottende un’illusione tanto pericolosa quanto raramente messa in discussione: quella per cui l’uomo è soggetto unico e padrone, mentre il mezzo è destinato a recitare il ruolo passivo di strumento totalmente nelle mani e nella disponibilità dell’uomo stesso. Illusione che viene riprodotta ai giorni nostri sia dagli entusiasti che dai critici di Internet, dimentichi dell’insegnamento di McLuhan secondo cui «la nostra reazione convenzionale rispetto a tutti i media, cioè che è il modo in cui essi vengono usati che conta, rappresenta la posizione instupidita dell’idiota tecnologico»2. Qui risiede il significato principale della celebre espressione dello studioso canadese, «il medium è il messaggio», volta a mettere in evidenza come il vero messaggio consiste nel mezzo, che occorre focalizzare l’attenzione critica e l’analisi sugli effetti per l’uomo proprio sull’oggetto tecnico, poiché esso, in quanto «estensione o auto-amputazione» del nostro sistema nervoso e del nostro corpo, produce un effetto di ritorno sull’essere umano in grado di modificarlo nella sua essenza percettiva e cognitiva. Si tratta di un rapporto di reciproca influenza, in seguito al quale l’uomo «sul piano fisiologico è costantemente modificato nel suo uso normale della tecnologia (o delle 2 M. MCLUHAN, Understanding Media, 1964: 17. Lo stesso autore, in un’occasione successiva, aveva avuto modo di precisare che «le società sono sempre state plasmate più dalla natura dei media con i quali gli uomini comunicano che dal contenuto stesso della comunicazione»; ID. 1967: 8. La lezione di McLuhan è stata fatta propria e sviluppata, ai giorni nostri, da N. CARR, Internet ci rende stupidi?, 2010: 17-18. Per un’analisi complessiva delle teorie di McLuhan si veda N. STEVENSON, Understanding Media Cultures, 2002: 118-147.

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varie estensioni del proprio corpo)», accettando di trasformarsi nell’«organo sessuale del mondo della macchina», con un atto estremo di amore che la macchina ricambia soddisfacendo le sue volontà e i suoi desideri, procurandogli nella fattispecie la «ricchezza», alla stregua di quello che farebbe una divinità minore con i propri fedeli. Da qui nasce, secondo McLuhan, la serenità con cui i padroni dei media si sforzano di dare al pubblico ciò che esso vuole, poiché hanno il chiaro sentore che il loro potere risiede nel medium stesso e non nel messaggio o nel programma (McLuhan, 1964: 44-45, 215). Insomma, che l’uomo ne sia consapevole o meno, il suo rapporto con la tecnica è basato inevitabilmente sulla reciprocità. Persino un oggetto banale come il martello, ci ricorda un estimatore di McLuhan come Nicholas Carr, va ben oltre la sua funzione di mero strumento nelle mani dell’uomo, poiché anche esso produce un feedback nella misura in cui trasforma il braccio dell’uomo in uno strumento, a sua volta, che finché impugna il martello può soltanto martellare. Ogni strumento di cui facciamo uso apre un campo di possibilità nello stesso momento in cui ne chiude un altro, ci offre un’estensione e un’amplificazione delle nostre facoltà nella stessa misura in cui ci impone di adeguarci alle sue forme e alle sue funzioni, «intorpidisce» qualsiasi parte del nostro corpo «amplifichi», al punto che «il prezzo che paghiamo per acquisire il potere della tecnologia è l’alienazione», ossia l’inevitabile trasposizione della nostra identità nella tecnologia stessa3. 3 N. CARR, Internet, 2010: 246-249. Un altro che ha ripreso la lezione di McLuhan è Galimberti, autore di questa illuminante considerazione: «Nell’entusiasmo che sempre accompagna il potenziamento dei mezzi di comunicazione e nella letteratura che lo anticipa, quasi sempre si evita di considerare come l’uomo è costretto a trasformarsi per effetto di questo potenziamento. Ciò dipende da quel luogo comune, per non dire da quell’idea arretrata, secondo cui l’uomo può usare la tecnica come qualcosa di neutrale rispetto alla sua natura, senza neppure il

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Ora, viene da sé che se tutto questo è vero per quanto riguarda il rapporto dell’uomo con mezzi meno evoluti (che comportano un utilizzo fisico), ancora più denso di implicazioni e problematiche è l’interazione che l’essere umano mette in atto con mezzi che coinvolgono la sfera emotiva e cognitiva, in particolar modo con quei nuovi media digitali che, per definizione, vedono nell’«interattività» la loro ragione di essere più forte e cogente (fra le macchine, grazie al linguaggio digitale che è unico; fra l’uomo e la macchina, grazie alla possibilità che i new media offrono all’uomo di modificare i contenuti e personalizzare l’uso del mezzo stesso; fra gli uomini, grazie alla Rete e alle molteplici applicazioni che consentono l’incontro potenziale fra tutti gli utenti, seppure su un piano virtuale). Se con i vecchi media avevamo «esteso o tradotto il nostro sistema nervoso centrale nella tecnologia elettromagnetica», con le nuove e potentissime macchine comunicative abbiamo compiuto quel «passo ulteriore» già paventato da McLuhan, con cui «abbiamo trasferito anche la nostra coscienza nel mondo del computer». Questo passo ulteriore, e forse fatale, di cui parlava lo studioso canadese è la Rete, in quanto interazione di tutte le intelligenze singole che si fondono in un’«intelligenza collettiva», secondo la celebre espressione coniata da Pierre Lévy, la quale, proprio perché è di tutti ma non è il frutto della mera somma delle singole menti che la compongono (poiché si tratta di una dimensione in cui «nessuno sa tutto, ognuno sa qualcosa, la totalità del sapere risiede nell’umanità»), rischia di non essere più di nessuno in particolare, perché sospetto che la natura umana si modifica in base alla modalità con cui si declina tecnicamente. L’uomo, infatti, non è qualcosa che prescinde dal modo in cui manipola il mondo, e trascurare questa relazione significa non rendersi conto che […] a trasformarsi non sono solo i mezzi di comunicazione, ma l’uomo stesso, e ciò indipendentemente dall’uso che egli fa di questi mezzi e degli scopi che si propone quando li impiega»; U. GALIMBERTI, Psiche e techne, 1999: 636-637.

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sempre più spesso secondo la felice sintesi di Lev Manovich:

Ciò che prima era un processo mentale, condizione precipua dell’individuo, ora è divenuto parte della sfera pubblica […] ciò che era privato è divenuto pubblico, ciò che era unico è divenuto di massa. Ciò che era nascosto nella mente dell’individuo è divenuto «condiviso»4.

Salta agli occhi la forte somiglianza tra la Rete così intesa e la «grande società», descritta da Hayek come quella dimensione, dominata dal mercato, in cui bisogna limitare al massimo il ruolo del governo e della politica in genere, in nome del fatto che nessun potere centrale può mai aspirare a quella vera conoscenza che è dispersa fra gli individui e che si manifesta attraverso le regole imperscrutabili di un ordine spontaneo che equilibra felicemente i saperi e le azioni degli individui stessi e che, come tale, non deve vedere l’interferenza di alcuna istituzione (Ercolani, 2006: capitolo I; 20112: capitolo II). Ma al di là di questo inciso, alla luce di quello che abbiamo visto risulta ormai anacronistica e inadeguata la ricostruzione classica rispetto agli effetti dei mass media sull’uomo, quella secondo cui negli anni tra le due guerre mondiali (segnati dai grandi movimenti di massa e dai regimi totalitari) gli studiosi propendevano per l’«enorme potere», o addirittura l’«onnipotenza» riconosciuti ai mezzi di comunicazione, mentre con la fine del secondo conflitto sarebbe stata in voga la teoria degli «effetti minimali», 4 M. MCLUHAN, Understanding Media, 1964: 59; P. LEVY, Collective Intelligence, 1997: 20; 1998; L. MANOVICH, The Language of New Media, 2001: 60-61. Quest’ultimo ha intuito in maniera perspicua come il moderno desiderio di riprodurre i processi mentali risponde alla «domanda di standardizzazione» che caratterizza la moderna società di massa, poiché il privato e l’individuale, che siano processi mentali, percettivi, emotivi o di altra natura, trasferiti nell’arena pubblica diventano più facilmente manipolabili e regolamentabili.

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volta a ridimensionare oltremodo la capacità di influenza riconosciuta ai media. L’avvento della televisione, negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, strumento assai più sofisticato e suadente rispetto a quelli che l’avevano preceduto, unito all’esplosione dei movimenti studenteschi e operai della sinistra, avrebbe poi riportato molti studiosi a concentrarsi sull’idea dei «media potenti», capaci di influenzare notevolmente pensieri, azioni e comportamenti degli individui. In tempi più recenti si è pervenuti a una teoria mediana che parla sostanzialmente di una «continua negoziazione» che si staglia in mezzo all’ indiscutibile potere dei media e alla capacità di un pubblico, ormai avvezzo all’uso dei media, di saper discernere e salvaguardare una buona parte della propria autonomia di giudizio e di comportamento5. Questa ricostruzione canonica e diffusa degli effetti che i mass media esercitano sugli individui secondo gli studiosi, lo abbiamo detto, risulta anacronistica e inadeguata ai fini della comprensione del problema, soprattutto alla luce dell’intuizione di McLuhan che abbiamo analizzato. Se a prescindere dall’uso che si fa dei suddetti media, e dei messaggi che essi veicolano, è l’evoluzione tecnologica dei mezzi stessi a modificare forme e contenuti degli effetti sull’uomo che ne fa uso (e quindi a modificare l’uomo stesso e il mondo umano nella sua interezza), allora è Per una ricostruzione generale si può consultare E.E. DENNIS, J.C. MERRIL, Media Debates, 1991: 82 sgg.; D. MCQUAIL, Mass Communication Theory, 1987: 251-256; L. PACCAGNELLA, Sociologia della comunicazione, 2004: 153-155; M. WOLF, Gli effetti sociali dei media, 1992, parte prima; J.T. Klapper (The Effects of Mass Communication, 1960) è colui che espose in maniera sistematica la teoria dell’influenza minima dei media, mentre la studiosa tedesca Noelle-Neumann (Return to the Concept of Powerful Mass Media, 1973), è fra gli autori più significativi a riportare in auge la teoria dei «powerful media». Per l’approccio della «negoziazione continua» si possono leggere con profitto i testi di W. GAMSON, A. MODIGLIANI, Media Discourse and Public Opinion, 1989 e E.M. PERSE, Media Effects and Society, 2001. 5

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più utile accontentarsi della premessa che sta alla base di tutti gli studi sulla comunicazione di massa, ossia che «i media producono effetti importanti» (McQuail, 1987: 251), e da questa partire per capire su quali ambiti fondamentali dell’umano pensare e agire essi esercitano la propria influenza ed eventualmente con quali conseguenze. Ecco che allora, volendo analizzare il problema da questa prospettiva, emerge una data in tutta la sua importanza: il 1981, ossia l’anno in cui, significativamente nella «Annual Review of Psychology», due massmediologi americani, Donald Roberts e Christine Bachen, in un saggio dai toni e dai contenuti moderati e analitici, lanciavano un messaggio altamente significativo per i professionisti e gli studiosi della comunicazione e non solo, volto a testimoniare «la straordinaria influenza e il potere esercitati dai media sul modo di percepire, pensare e agire delle persone all’interno del proprio mondo» (Roberts, Bachen, 1981: 307-308). Percezione, pensiero e azione costituiscono le tre fondamentali facoltà attraverso cui l’individuo fa esperienza del mondo in cui vive, al punto che ritenere di aver individuato un’entità capace di esercitare una «straordinaria influenza e potere» su di esse equivale ad essersi imbattuti in qualcosa da analizzare con profonda attenzione e capacità critica. Senza contare che se già l’uomo era spinto, consciamente o meno che fosse, ad alienarsi e a lasciarsi trasformare in una sorta di «organo sessuale» della tecnologia con i vecchi media, non possiamo immaginare fino a che punto questo impulso si possa rivelare più forte con i nuovi media, ancora più suadenti perché capaci di concedere all’uomo un ruolo attivo e inter-attivo, fino al punto di trasformare quell’impulso in un vero e proprio desiderio, che può essere il desiderio di perdersi nella realtà virtuale, all’interno della quale ci si può illudere di trovare quell’identità e quel senso globale dell’esistenza di cui magari siamo insoddisfatti o che addirittura ci sfugge nella vita reale. 172

In fondo si tratta di un meccanismo descritto mirabilmente da Sigmund Freud, laddove scriveva che una «fantasia di desiderio» è sempre da mettere in relazione con una «frustrazione», con una privazione imposta dalla vita reale (Freud, 1990: 383). Da qui, si potrebbe evincere nell’ambito del nostro discorso, il desiderio inconscio dell’uomo di auto-evirarsi per trasformarsi nell’organo sessuale della tecnologia. Cioè di superare, in maniera illusoria, la frustrazione delle nostre pulsioni vitali accettando di divenire tramiti di una realtà tecnologica e virtuale cui votarci in cambio di un esistere maggiormente sensato e protetto.

Percezione, pensiero, azione. Metamorfosi dell’essere umano

Immaginiamo una mattinata in cui dobbiamo raggiungere un luogo pubblico per discutere con altre persone di alcune questioni che riguardano la comunità in cui viviamo, in seguito a una proposta governativa che ha suscitato più di una perplessità all’interno della medesima comunità. Appuntamento a un’ora stabilita, diciamo le 17.00, in un luogo determinato, facciamo la sala del consiglio comunale. Questa situazione immaginaria esemplifica, seppure in maniera sintetica, le tre dimensioni fondamentali dell’umano esistere, che è caratterizzato da un fare esperienza del proprio mondo attraverso la percezione dei tempi e degli spazi che lo riguardano, attraverso una critica autonoma ma dialogante delle sue dinamiche e che, possibilmente, non escluda l’intervento attivo degli individui per modificare alcune storture o presunte ingiustizie senza lasciare il campo esclusivamente libero a coloro che sono delegati al governo. Quest’ultima, a pensarci bene, è l’essenza della «politica» nel senso etimologico del termine, quella in cui tutti i cittadini sono consapevoli di fare parte di una polis e coltivano un ragionevole interesse di pren173

dere parte alle vicende della stessa senza per forza impegnarsi in un’attività di partito. Una persona che voglia «vivere» pienamente questo appuntamento immaginario deve risultare in possesso di tre facoltà fondamentali: una corretta percezione dello spazio e del tempo che, per esempio, le faccia decifrare in maniera corretta le informazioni con cui raggiungere il luogo esatto all’orario giusto; un’autonomia di pensiero e una capacità critica che le permettano di partecipare all’incontro con idee proprie e, infine, una volontà di impegnarsi nei modi possibili e consentiti affinché le proprie idee, che abbiano visto un largo consenso nella condivisione e discussione con gli altri, trovino una realizzazione concreta nell’ ambito politico e sociale. Partiamo dalla prima facoltà, quella della corretta percezione dello spazio e del tempo, non a caso rubricate da Kant fra le categorie a priori coessenziali all’uomo, che egli possiede prima ancora di raggiungere l’età della piena coscienza e che gli consentono un’esperienza veritiera del mondo circostante6. Il dato che salta immediatamente agli occhi è che lo spazio e il tempo per l’essere umano «funzionano» in maniera completamente diversa rispetto a quanto accade per i mezzi di comunicazione. Infatti l’uomo percepisce i fenomeni della realtà catalogandoli secondo una «succes«Lo spazio non è un concetto empirico ricavato da esperienze esterne» scriveva il filosofo tedesco, cosicché «affinché certe sensazioni vengano riferite a qualcosa fuori di me (cioè a qualcosa in un luogo dello spazio diverso da quello in cui mi trovo io), e affinché io possa rappresentarmele come esterne e accanto le une alle altre, quindi non solo differenti ma anche in luoghi differenti, deve esserci già a fondamento la rappresentazione dello spazio», dentro di me. Allo stesso modo scriveva per il tempo: «Solo se presupponiamo il tempo è possibile rappresentarsi qualcosa che sia nello stesso tempo (simultaneamente) o in tempi diversi (successivamente). Entrambi, insomma, non appartengono agli oggetti stessi «ma semplicemente al soggetto che li intuisce»; I. KANT, Critica della ragion pura, 1781-1787: 56, 61, 63, 65. 6

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sione» temporale e nell’ambito di un’«estensione» spaziale, mentre con la «rappresentazione del mondo» offerta dai media esso si trova a subire un nuovo mondo in cui la successione temporale è contratta nell’«istantaneità» e l’estensione spaziale nella «puntualità» del punto di osservazione (Galimberti, 1999: 630). Per il mondo che ci è offerto dallo schermo di un televisore o di un computer, il tempo che conta è solo quello del momento preciso in cui noi vediamo il filmato, mentre lo spazio è quello compresso all’interno del punto di osservazione dello schermo stesso, che rappresenta una dimensione piatta (mentre la percezione spaziale umana è tridimensionale: lunghezza, larghezza e profondità) e astratta dallo spazio del mondo reale. Insomma, vedere attraverso un filmato su you tube due aerei che si schiantano contro due grattacieli costituisce una rappresentazione dei fatti estremamente limitata per l’uomo: quel filmato è innanzitutto decontestualizzato cronologicamente (dove ci troviamo? C’è stato un prima? Ci sarà un dopo? Come si è arrivati a quell’evento?), ma anche spazialmente, impedisce al soggetto che lo guarda di ricostruire i fatti secondo una visione spaziale contestualizzata e temporale sequenziale e prospettica, la sola che consente la ricostruzione, seppure soggettiva, dei nessi casuali che possono aver condotto a quell’evento. Ma possiamo ricorrere anche a un esempio più semplice: alla luce dell’insegnamento di McLuhan, insomma, possiamo ritenere che non produca alcun effetto sulla nostra percezione la visione delle soap opera, in cui i tempi sono così dilatati che un dialogo che nel tempo della fiction occupa cinque minuti possa impiegare anche tre giorni del tempo reale? Non dimentichiamo che soap opera deriva il nome dalla capacità che hanno queste fiction di far scivolare l’attenzione dello spettatore in qualsiasi momento, anche perché lo svolgimento della trama, oltre che semplificato, vede i suoi tempi dilatati e rallentati ben oltre 175

la realtà dei tempi umani. Quali effetti sullo spettatore che si abitua a percepire ed elaborare delle «situazioni» oltremodo semplificate e rallentate, che quindi rallentano anche il processo mentale con cui egli si forma una visione d’insieme e quindi una comprensione di ciò che sta guardando? A tutto ciò aggiungiamo pure che per l’essere umano una corretta percezione dello spazio (inteso come estensione tridimensionale e contestualizzazione geografica) e del tempo (inteso secondo il succedersi di eventi) è fondamentale per passare alla fase successiva, quella della cognizione. Da questo punto di vista è stato l’allievo di McLuhan, De Kerckhove, a mostrare come i nuovi media audiovisivi hanno contribuito a produrre nell’uomo due ulteriori brainframe rispetto a quello che si era formato con l’utilizzo di testi scritti («brainframe alfabetico», fondato su una struttura mentale analitica che elabora le percezioni delle lettere e delle parole secondo i criteri della temporalità e della successione lineare): si tratta dei «brainframe televisivo e cibernetico», caratterizzati il primo da una comprensione di tipo intuitivo di informazioni, e immagini che scorrono sullo schermo con grande velocità e contemporaneamente, riducendo ai minimi termini la possibilità di riflettere e rielaborare le singole parti del contenuto; il secondo da una sorta di «esternalizzazione» o socializzazione della coscienza, poiché le informazioni, e quindi la conoscenza, trovano realizzazione soltanto all’interno del grande meccanismo della Rete, che dà vita a una sorta di «intelligenza connettiva» che è il frutto della condivisione fra più individui delle informazioni, dei pensieri e dei progetti di cui ogni singolo è in possesso (De Kerckhove, 1991; 2003). Le conseguenze sono state efficacemente riassunte dallo psicologo della comunicazione Giuseppe Riva:

1) da una parte l’emergere di questi due nuovi brainframe favorisce l’accelerazione e la frammentazione della temporalità (lo zapping, ma anche gli spot pubblicitari o i 176

filmati su you tube, fra le altre cose, dimostrano questa tendenza verso durate temporali sempre più brevi, frammentate e decontestualizzate); 2) «dall’altra spostano il fuoco dell’attenzione sul presente lasciando sullo sfondo passato e futuro. In particolare i nuovi brainframe riducono i processi di analisi dell’esperienza spostandosi sulle dimensioni di tipo subliminale e infracosciente» (Riva, 2004: 181).

Il punto fondamentale è che viviamo in un’epoca in cui sempre di più l’esperienza diretta che l’uomo faceva del proprio mondo è stata sostituita da una percezione mediata, sorretta o influenzata dalle nuove tecnologie della comunicazione a cui ci affidiamo per ricevere informazioni, elaborarle e immagazzinarle, per conoscere dati o persone, per comunicare in maniera mediata ma fortemente potenziata con gli altri (grazie al superamento delle barriere spazio-temporali realizzato dalle nuove tecnologie). Ma, come ci ha insegnato McLuhan, l’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate e invasive, cui ormai deleghiamo l’intermediazione di buona parte della nostra vita, finisce col provocare svariati effetti di ritorno che stravolgono il nostro modo di fare conoscenza e modificano il nostro cervello, perché se è vero per esempio che «l’esperienza umana diretta ha sempre costituito un punto di osservazione della realtà in grado di coinvolgere tutti i sensi contemporaneamente», i nuovi media presentano svariati elementi di «restrizione della comunicazione mediata», che inevitabilmente sono destinati a provocare tutta una serie di effetti (Van Dijk, 2006: 211). Pensiamo per esempio alle recenti teorie sulla «plasticità» del nostro cervello che, se da una parte testimoniano la flessibilità mentale e la capacità adattativa dello stesso, dall’altra ci dicono che «plastico» non equivale a «elastico», nel senso che una volta che esso ha subìto un’alterazione non riesce a ritornare allo stato precedente, perché facilmente si lascia andare all’«abitudine», soprattutto di 177

fronte a meccanismi o automatismi che gli semplificano la vita. Un fatto che era stato già intuito dal filosofo Blaise Pascal quando invitava a riconoscere che «noi siamo tanto automatismo quanto spirito», perché quella che ci è fornita dall’«abitudine» si rivela come:

Una credenza più facile, che senza violenza, senza arte, senza argomenti, ci spinge a credere alle cose e inclina tutte le nostre facoltà a questa credenza, in modo tale che la nostra anima ci cade naturalmente7.

Smettere di utilizzare certe nostre facoltà mentali, afferma lo psichiatra Norman Doidge, non comporta il solo dimenticarle, perché la parte di mappa cerebrale per quelle funzioni viene occupata dalle altre che ci troviamo a svolgere. Se a questo dato aggiungiamo le riflessioni del neuroscienziato americano Michael Merzenich, secondo cui il potere di Internet di incidere in maniera fondamentale sulla nostra struttura mentale è tale da fargli parlare di cervello che viene «enormemente riconfigurato», arriviamo facilmente a fare nostra l’affermazione di un altro psichiatra, Gary Small, che studiando gli effetti fisiologici e neuronali prodotti dai nuovi media concludeva che «l’attuale esplosione delle tecnologie digitali non sta modificando soltanto il modo in cui viviamo e comunichiamo, ma sta anche alterando i nostri cervelli in maniera rapida e profonda»8.

N. CARR, Internet ci rende stupidi?, 2010: 52-53; B. PASCAL, Pensée de M. Pascal, 1670: § 470. Il filosofo empirista David Hume, di un secolo posteriore, si esprimeva in maniera ancora più chiara laddove scriveva che «la ripetizione di ogni particolare atto o operazione produce una propensione a riprodurre quello stesso atto o operazione senza essere spinto da alcun ragionamento o processo di comprensione, e questa propensione è l’effetto dell’abitudine» (custom or habit); D. HUME, An Inquiry Concerning Human Understanding, 1748: 52. Corsivi nostri. 8 Si veda N. CARR, Internet, 2010: 147-149, 231, dove a parlare di «alterazione del sistema nervoso centrale» è Norman Doidge. Anche un 7

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Le modalità di alterazione o di disturbo delle nostre fisiologiche capacità e funzionalità neuronali sono molteplici e in questa sede possiamo solo fare accenno a quelle che ci sembrano più urgenti. Come per esempio l’incredibile mole di informazioni di ogni tipo con cui ci investe la Rete. In quantità spropositata e con filtri qualitativi pressoché assenti, con una velocità e un continuo rinnovamento e, in più, con una frammentazione strutturale che superano di gran lunga le umane capacità di cogliere, elaborare e immagazzinare tutte queste informazioni, senza contare la quasi impossibilità, da parte dell’utente, di pervenire a una qualunque visione di insieme che fornisca rigore logico e cronologico a questa marea di bit, tenuti insieme da link pre-programmati in base a criteri che sfuggono irrimediabilmente all’utente stesso. Del resto, abbiamo visto che già il filosofo antico Platone ci aveva insegnato che le malattie degli occhi, per cui essi finiscono col non riuscire più a vedere, sono di due tipi e hanno due cause: «il passaggio dalla luce all’ombra e dall’ombra alla luce». L’eccesso di luce, allo stesso modo della sua totale assenza, produce un essere umano incapace di pervenire alla conoscenza, condannandolo tutt’al più alla pallida percezione di ombre scambiate per oggetti reali. In questo senso Maldonado si riferiva al «cambiamento radicale» oggi in atto nelle modalità di attuazione del disegno coercitivo del potere: «nel passato, anche quello più recente, tale disegno faceva ricorso all’indigenza informativa, ora invece è l’opulenza informativa che viene privilegiata». Non usciamo per nulla dal discorso già intuito da Platone, poiché il risultato è comunque lo stesso ed ha a che fare con la nostra ignoranza sostanziale rispetto alle questioni più pioniere degli studi sul rapporto uomo/computer parlava di quest’ultimo come di «un organo stesso del pensiero che lo utilizza»; G. BOSS, Les machines à penser, 1987: 12.

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importanti che concernono il mondo umano. Si tratta di quel «metodo odierno» del potere già intuito da Gunther Anders nel 1980, che impedisce la comprensione non più fornendo poche notizie ai cittadini, ma troppe, che ci mette in una condizione per cui «veniamo sopraffatti da una tale abbondanza di alberi perché ci venga impedito di vedere la foresta», privandoci di quella possibilità di conseguire una «visione d’insieme» che anche per Hegel rappresentava una dote necessaria nel cammino della coscienza. Finisce così che di fronte all’esorbitante mole di informazioni che lo raggiungono, non sempre verificabili o affidabili (anzi), il cittadino è destinato a reagire con disinteresse crescente e perfino insofferenza nei confronti dell’informazione. In questo modo al potere rimane campo completamente libero per realizzarsi in una delle sue forme più insidiose, come scrive Manuel Castells, quella della «modellazione della mente umana» che, paradossalmente, avviene ormai attraverso quel potere della comunicazione che è diventato altra cosa rispetto al potere rappresentativo e che, proprio per questo, spinge lo studioso della società in Rete a parlare di una «crisi della democrazia», seppure di tipo più latente: si tratta di un tipo nuovo di potere, che viene esercitato principalmente attraverso la «costruzione di significati» per l’utente della comunicazione, di «frame interpretativi» (come quello della «guerra al terrore» nel caso dell’Iraq) capaci di «inquadrare» (framing) le menti degli individui e delle collettività per spingerle a sostenere e appoggiare le politiche dei governi9.

PLATONE, Repubblica, VII: 518a; T. MALDONADO, Critica della ragione informatica, 1998: 89-91; G. ANDERS, L’uomo è antiquato, 1980: 234; M. CASTELLS, Communication Power, 2009: 298, 416. Il mind framing di cui parla Castells non è poi molto lontano dal brain framing di cui parlava De Kerckhove. 9

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Un altro effetto importante ha a che fare con la radicale forza di distrazione di cui è capace la Rete, di cui il motore di ricerca Google costituisce un esempio lampante poiché, con le sue dinamiche di funzionamento, favorisce tutto tranne che «la lettura fatta con calma o il pensiero lento e concentrato». E infatti di vero e proprio «business della distrazione» parla Nicholas Carr, aggiungendo che «l’influsso dei molteplici e contrastanti messaggi che arrivano dalla Rete non soltanto sovraccarica la nostra memoria di lavoro, ma rende anche molto più difficile per i lobi frontali concentrare l’attenzione su un unico oggetto». Insomma, più usiamo il web e più alleniamo il nostro cervello alla distrazione, a un continuo flusso di informazioni che non vengono elaborate per intero e in maniera profonda, favorendo in questo modo la quasi immediata dimenticanza dei dati raccolti e, soprattutto, la sempre più diffusa inclinazione a una scarsa concentrazione anche quando siamo lontani dal computer. Ma dobbiamo sapere, per contro, che il web non si distrae per nulla da noi, anche e soprattutto quando siamo off line o lontano dal nostro computer, come insegna il fenomeno dei cosiddetti clickstream, ossia i residui delle nostre esistenze nel cyberspazio, per cui manifestano grandissimo interesse tutti i motori di ricerca che vogliono presentare link commerciali secondo l’interesse del pubblico, ma anche i governi, come nel caso dell’Usa Patriot Act approvato dal congresso americano dopo l’11 settembre 2001 senza alcun contraddittorio, e che è perfettamente in grado di imporre a Google di svelare, su richiesta degli agenti governativi, tutte le informazioni segrete contenute nel «database delle intenzioni» degli utenti che hanno utilizzato il motore di ricerca per gli scopi più vari. Un web molto attento, insomma, a monitorare, studiare, elaborare ed eventualmente diffondere le nostre intenzioni più profonde o superficiali, mentre noi siamo spesso persi all’interno di una distrazione compulsiva che, come 181

ci ricorda ancora una volta il filosofo Pascal, forse cerchiamo neanche tanto inconsciamente, perché ci consente di non concentrarci sulla nostra condizione di esseri umani limitati ed esposti inesorabilmente alle crudeltà del destino, ma che di fatto ci rende più ignoranti e manipolabili perché incapaci di conseguire una conoscenza approfondita e autonoma10. Senza contare l’aspetto per cui, di fatto, non incontriamo più direttamente la maggior parte delle persone e restiamo in buona sostanza richiusi all’interno delle quattro mura domestiche, davanti a uno schermo, per «chattare» con persone della cui identità veritiera, spesso, non possiamo essere certi, con le quali allacciamo «legami deboli» che quasi mai si traducono in incontri concreti, facendo uso di un linguaggio sempre più sgrammaticato, volgare e impoverito dal meccanismo del «riduzionismo stenografico», il quale, presentato come un nuovo espediente comunicativo (smiley faces, acronimi, abbreviazioni), si rivela in prevalenza al servizio di messaggi «di una trivialità e vuotaggine esasperanti» (Castells, 2001: 129-130; Maldonado, 1998: 80. In questo senso Internet si rivela come il mezzo più subdolo e nocivo per l’uomo, poiché da una parte ci illude di essere onnipotenti, di disporre in pochi secondi di miliardi di informazioni sui fatti più disparati, di poter conoscere e comunicare con tutte le persone che vogliamo in ogni parte del mondo, ma di fatto ci trattiene dentro alle pareti della nostra casa, in una sorta di «gabbia invisibile», 10 N. CARR, Internet, 2010:189, 231; J. BATTELLE, The Search, 2005: 9, 12, 14, 255; A. MATTELART, La Globalisation, 2008: 173 sgg.; B. PASCAL, Pensée de M. Pascal, 1670: § 213: «Gli uomini, non avendo potuto trovare una cura alla morte, alla miseria e all’ignoranza, hanno ben visto, per essere felici, di non pensarci» e § 217: «L’unica cosa che ci consola dalle nostre miserie è il divertimento, che tuttavia è la più grande delle nostre miserie, poiché è soprattutto esso che ci impedisce di pensare a noi stessi, e che ci conduce inesorabilmente allo smarrimento».

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per usare l’espressione di Rheingold11, priva di spazio e di tempo, immersa nell’eterno presente di un indefinito qui e ora, impoveriti nella nostra capacità di percepire e pensare, nella capacità espressiva del nostro linguaggio, in cui l’esperienza degli altri e del mondo circostante smette di farsi compartecipazione per trasformarsi in mera fruizione. È una specie di paradosso: nell’epoca in cui con più facilità possiamo accedere, con il semplice gesto di una mano sul mouse, a tutte le informazioni possibili e in tutti i luoghi del mondo, proprio questa epoca si rivela come quella che più ci tiene di fatto atomizzati in una sorta di «isolamento onnipotente». Inondati da una miriade indistinta di informazioni, per le quali possiamo dire di essere informati su tutto anche se spesso è nulla quello che conosciamo veramente. Si tratta dell’ultima evoluzione di quella «variante audiovisiva» (testi accompagnati da immagini e suoni, che spesso finiscono con l’assumere un valore preminente) che, con i nuovi media, sta acquisendo forza rispetto alle varianti orale e scritta, gettandoci mani e piedi in una dimensione in cui si rivela la «centralità dello schermo e la nascita di una cultura delle immagini». Il politologo italiano Giovanni Sartori aveva trattato in un pamphlet di qualche anno fa questa nuova cultura del «tele-vedere», fondata su un «prevalere del visibile sull’intelligibile che porta a un vedere senza capire». Egli si riferiva alla televisione ma è evidente che con Internet le sue considerazioni valgono all’ennesima potenza, soprattutto quando si riferisce a un vedere che prevale sul capire e sul parlare, a un essere umano per cui «le cose raffigurate in immagini contano e Rheingold, parlava di «gabbia invisibile ma ineludibile» a proposito della Rete per segnalare come essa possa rivelarsi, fra le altre cose anche positive, alla stregua di un luogo in cui gli utenti si trovano inconsapevolmente ingabbiati e in balia di poteri malevoli in grado di attentare in maniera più diretta alle loro libertà; RHEINGOLD, 2000: 308. 11

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pesano più delle cose dette in parole». Sartori parlava di vera e propria regressione dall’homo sapiens all’homo videns, regressione prodotta da un mezzo, la televisione, «che inverte il progredire dal sensibile all’intelligibile e lo rovescia nell’ictu oculi, in un ritorno al puro e semplice vedere» da cui risulta atrofizzata tutta la nostra capacità astraente, di elaborazione cognitiva di ciò che guardiamo e, con essa, «di tutta la nostra capacità di capire» (Van Dik, 2006: 213; Sartori, 1997: XI, 7-8, 22). Con Internet e i nuovi media, lo abbiamo detto, queste considerazioni risultano ancora più rinforzate, il prevalere delle immagini a fronte di una netta riduzione dei testi e degli approfondimenti ragionati è palese se solo confrontiamo l’edizione cartacea con quella on-line di un qualsiasi quotidiano di buon livello. L’ipertrofia delle foto, in genere piccanti, e dei link che mirano a destare l’attenzione superficiale del lettore è evidente in maniera imbarazzante. Non è un dato generalizzabile né assolutizzabile, ma si può star certi che da un semplice confronto fra l’edizione cartacea e quella in Rete emerge con nettezza il dislivello qualitativo e di approfondimenti. È piuttosto alto il prezzo che l’uomo paga per vivere buona parte della sua vita attraverso questi mezzi di comunicazione, mezzi che per di più, nella loro nuova versione digitale, risultano ancora più capziosi perché in grado di illudere rispetto al grado di azione e inter-azione che essi sembrano lasciare all’utente. Ma attivi, ormai lo sappiamo, risultano più che altro i nostri occhi e le nostre dita sul mouse (infatti sono in aumento le patologie da affaticamento degli occhi e al tunnel carpale), tanto che, come scriveva Maldonado nel suo Critica della ragione informatica:

Vi è il rischio che dal passivismo poltrone di fronte al televisore si passi a un attivismo, paradossalmente altrettanto poltrone […]. Ossia: il nostro febbrile nomadismo esplorativo attraverso la Rete non viene, come si vuole far credere, a indebolire la 184

nostra inerzia contemplativa, il nostro sedentarismo di fronte allo schermo, bensì a rendere questo fenomeno ancora più acuto e allarmante12.

Questo tipo di passività è il più pericoloso di tutti, poiché si tratta di una passività non consapevolizzata dal soggetto, che invece si illude di essere pienamente attivo, navigante e padrone del mondo reale attraverso le strepitose potenzialità che gli vengono messe a disposizione da quello virtuale. Con ciò arriviamo all’ultima sfera dell’umano su cui i media esercitano una straordinaria capacità di influenza. È la sfera dell’agire, non inteso come il semplice fare, produrre o muoversi, tipico della razionalità strumentale della tecnica, ma in un senso più ampio, che vede come stella polare quel regno dei fini che è tipico della razionalità politica dell’essere umano. Inteso in questo senso, l’agire fa parte della dimensione umana in maniera altrettanto fondamentale che per quanto concerne la percezione e il pensiero e, anzi, potremmo dire che ne costituisce la naturale proiezione nel campo sociale e della convivenza tra gli individui.

12 T. MALDONADO, Critica della ragione informatica, cit.: 16. Illuminanti a tal proposito anche le considerazioni di Umberto Galimberti, secondo il quale «povero di istinti, l’uomo, per essere al mondo, doveva un tempo percorrerlo, esplorarlo, farne conoscenza. Ora, tramite i mezzi di comunicazione, il mondo ci è fornito a casa, come l’acqua, il gas, la luce, e ciò modifica radicalmente il modo di fare esperienza: non più l’uomo che esplora il mondo, ma il mondo che in immagine si offre all’uomo, proprio perché egli non lo percorre e tanto meno lo abita». Se poi, aggiunge lo psicologo e filosofo italiano, per potere conoscere il mondo ed entrarci in contatto bisogna anche pagare, «allora anche gli accadimenti del mondo diventano merci, e il mondo stesso si defila sotto la categoria di consumo; U. GALIMBERTI, Psiche e techne, 1999: 637.

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Dalla democrazia alla mediacrazia

Se è vero che «tutte le attività umane sono condizionate dal fatto che gli uomini vivono insieme», scriveva la filosofa Hannah Arendt, è ancora più vero che «soltanto l’azione non può essere neppure immaginata al di fuori della società degli uomini». Essa sola costituisce una «prerogativa esclusiva degli uomini», di cui né una bestia né un Dio possono essere capaci (Arendt, 1958: 22-23). È nell’agire, quindi, un agire cosciente e razionale proprio perché preceduto da una corretta percezione e da un libero pensiero, che la natura dell’uomo si rivela «sociale», imprescindibile dalla presenza di altri individui e dalla cooperazione con essi al fine di costruire una società libera e capace di mettere al centro l’uomo e i suoi scopi e bisogni. Ma per «agire» in questo senso sociale e politico occorre che gli individui siano interessati alle faccende della res publica, «impegnati» a valutare con la propria testa e in maniera critica i limiti e le incongruenze della società in cui vivono. Insomma, ci stiamo richiamando alla natura di «animale sociale e politico» di cui erano consapevoli tanto il filosofo pagano Aristotele quanto il cristiano Tommaso d’Aquino, il primo impegnato a precisare che lo scopo dell’agire politico è esclusivamente umano, perché ha come obiettivo la felicità (eudaimonía), il secondo a marcare la differenza sostanziale fra l’arte politica che appartiene all’ordine dell’agire (prudentia vera est recta ratio agibilium) e l’arte tecnica che si limita alla dimensione del fare (ars est recta ratio factibilium)13. Si veda ARISTOTELE, Politica, I, 1253a: 3-4 per l’uomo animale politico e ID., Etica a Nicomaco, X, 1176b: 30-31 per l’agire politico in vista della «vita buona» e della «felicità»; TOMMASO D’AQUINO 12661273, Summa theologiae, I, q. 96, a.4; 1265, De regimine principum, I, 1, c.1 e 1258-1264, Summa contra gentiles, III, 128, per l’«homo naturaliter animal sociale»; Tommaso d’Aquino 1266-1273, I, II, q. 57, a.4 per la distinzione fra il regno della politica e quello della tecnica. 13

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In fondo, come sapeva bene Cicerone, lo Stato (res publica) è cosa del popolo, e questo è l’unione di un certo numero di individui che condividono interessi comuni. L’idea dei cittadini che si interessano alla cosa pubblica, informandosi e partecipando alle vicende della propria comunità, unisce pressoché tutta l’antichità, anche se il pensiero cristiano riteneva che non potessero aspirare alla giustizia, e quindi a costituirsi come Stato e ritenersi tale, quei cittadini che non si sottomettevano a Dio, come scriveva Sant’Agostino per dimostrare che lo Stato romano non poteva aspirare a definirsi un vero Stato. Pensiero cristiano che per certi versi è sempre rimasto ancorato al monito del suo ideologo per eccellenza, quel san Paolo che con il suo «noli altum sapere, sed time», conservava un’idea del potere che mantenesse i sudditi nell’ignoranza, in contrapposizione frontale con lo spirito illuministico che avrebbe pervaso, per esempio l’ideale di Kant: sapere aude!, abbi il coraggio di servirti della tua conoscenza14. Ma al di là delle pur importanti distinzioni, non v’è dubbio che l’idea dei cittadini informati e interessati rispetto alle questioni sociali, nonché disposti a darsi da fare attivamente per contribuire alla vita della polis, costituisce un aspetto fondamentale e generalmente riconosciuto dell’«agire» degli individui all’interno del consorzio umano, ancor di più se si vuole aspirare a quell’ideale di demoCICERONE, De re publica, I, 25, 39 e sant’Agostino, De Civitate Dei, XIX, 21, 32-33. Per San Paolo si veda LA BIBBIA, Lettera ai romani, XI, 20; I. KANT, Risposta alla domanda, 1784²: 48 e N. BOBBIO, Teoria generale della politica, 1999: 341. Una descrizione classica della democrazia partecipata è quella riferita da TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, II, 37 e 40, per bocca di Pericle: «anche se ci dedichiamo ad altre attività, pure non manca in noi la conoscenza degli affari pubblici. Siamo i soli, infatti, a considerare non già ozioso, ma inutile chi non se ne interessa, e noi Ateniesi o giudichiamo e, almeno, ponderiamo convenientemente le varie questioni, senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire, ma che lo sia piuttosto il non essere informati dalle discussioni prima di entrare in azione». 14

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crazia, espresso per esempio da Bobbio, che richiede dei cittadini sufficientemente informati e forniti di autonomia di giudizio per poter controllare l’operato dei governi. Leggiamo la riflessione quanto mai profetica che il filosofo italiano fermò su carta nel 1984:

Inutile dire che il controllo pubblico del potere è tanto più necessario in un’età come la nostra in cui gli strumenti tecnici di cui può disporre chi detiene il potere per conoscere capillarmente tutto quello che fanno i cittadini è enormemente aumentato, e praticamente illimitato. Se ho manifestato qualche dubbio che la computer-crazia possa giovare alla democrazia governata, non ho alcun dubbio sul servizio che può rendere alla democrazia governante. L’ideale del potente è sempre stato quello di vedere ogni gesto e di ascoltare ogni parola dei suoi soggetti (possibilmente senza essere né visto né ascoltato): questo ideale oggi è raggiungibile. Nessun despota dell’antichità, nessun monarca assoluto dell’età moderna, pur circondato da mille spie, è mai riuscito ad avere sui suoi sudditi tutte quelle informazioni che il più democratico dei governi può attingere dall’uso di cervelli elettronici (Bobbio, 1994: 19).

A questo punto occorre porsi la domanda fatidica: quanto Internet ha contribuito ad affermare l’ideale della democrazia intesa come consorzio di cittadini informati, impegnati e pronti a darsi da fare per intervenire nelle faccende della comunità in cui vivono? È bene premettere subito che dal punto di vista dell’informazione intesa in senso stretto, cioè la diffusione di notizie di interesse sociale, Internet non è riuscita a uscire dal trinomio vizioso in cui già erano piombati i vecchi media, per cui il giornalismo era finito in larga parte con l’essere governato da principi cardine come la «commercializzazione», il «sensazionalismo» e la «trivialità», provocando con ciò due risultati che sono sotto gli occhi di tutti: 1) un generale ammutolimento della cittadinanza, non più in grado di intervenire su questioni trattate in maniera

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tanto enfatica e iperbolica quanto poco attenta ai contenuti effettivamente informativi; 2) cinismo, disattenzione e, alla fine, disinteresse da parte dei cittadini nei confronti del sistema politico, parimenti ad un senso diffuso di impotenza nel poter intervenire su questioni che si percepiscono come lontane15.

L’informazione su Internet, rispetto ai nobili intenti iniziali, che per larga parte sono rimasti solo tali, ha rapidamente deviato anch’essa verso questo tipo di «commercializzazione» (e banalizzazione a uso e consumo di masse disimpegnate) che già caratterizzava il percorso discendente dei media tradizionali (Taylor, Harris, 2008: 177198). In Rete, poi, il confine tra informazione e «pubblicità» è ancora più labile, proprio mentre grazie alla presunta interazione che essa consente agli utenti, si rafforza in maniera esponenziale l’idea di un sistema globale dell’informazione in grado di conquistare (e controllare) anche «l’ultimo santuario», ossia la mente umana nei suoi processi più intimi, rivelandosi come quella vera e propria «realtà totalitaria» fondata su un «sistema unicentrico di produzione dell’opinione» di cui parlava Sartori a proposito dei media tradizionali, anche se nell’epoca odierna dei nuovi media digitali si tratta di un’opinione pubblica ancora più confusa e impotente rispetto alle azioni del potere16.

15 P DAHLGREN, Reconfiguring Civic Culture, 2003: 151-152. Considerazioni di questo tipo si possono riscontrare anche in B. FRANKLIN, Newzak and News Media, 1997 e J. STREET, Mass Media, 2001. Per il singolarissimo caso italiano, in cui una buona parte dei media è incorsa nell’aggravante di rivelarsi palesemente asservita al governo di Silvio Berlusconi, anche proprietario di molti organi di informazione, si può leggere con notevole profitto E. MARZO, Le voci del padrone, 2006. 16 K. PATEKIS, The Political Economy, 2000; M. McLuhan (Understanding Media, 1964: 226) aveva già colto per i vecchi media quell’avanzatissimo principio insito nella pubblicità (advertising) per cui «anche la più piccola parte di un motivo o di uno schema, se ripetuta in modo rumoroso e ridondante, finirà gradualmente per imporsi». «Per

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Senza contare l’emergere di un dato alquanto paradossale, che spinge alla riflessione anche un entusiasta della «cultura convergente» come Henry Jenkins che, se da una parte vede con favore questa nuova dimensione di condivisione dei saperi e delle notizie e di interazione delle menti e dei linguaggi quale è la Rete, in cui l’informazione grassroot (popolare) è vista come più libera e liberata dagli schemi rigidi e proprietari dei media tradizionali, dall’altra non può non rilevare come alla presunta liberalizzazione dell’informazione che avviene nel cyberspazio corrisponde una grande concentrazione di potere all’interno dei vecchi media senza precedenti nella storia (Jenkins, 2006: 211). Si tratta di una reazione difensiva (e disperata) rispetto alla forza popolare ed emancipatrice della Rete, o forse è che il potere ha elargito al popolo un luogo di libertà assoluta ma fittizia, e culturalmente povera (non solo di contenuti), proprio per potersi concentrare come mai prima là dove veramente sente che (ancora) è fondamentale il proprio oligopolio? La risposta la troveremo col tempo, per il momento è già importante porsi le domande giuste. Fatto sta che, insomma, è più che lecito nutrire dubbi fondati rispetto a quanto si sia effettivamente realizzato l’ideale dei pionieri visionari di questa tecnologia rivoluzionaria, convinti che Internet sarebbe diventato lo strumento ideale, e ugualitario, per favorire la democrazia, in grado di coinvolgere tutti i cittadini nelle informazioni governative, permettendo così al popolo di «controllare il governo» e di divenire finalmente padrone della situazione. Come non ricordare a tal proposito le parole del celebre informatico americano Licklider, uno dei padri nobili della tecnologia digitadirla brutalmente – concludeva il ragionamento lo studioso canadese – l’industria pubblicitaria è un rozzo tentativo di estendere i princìpi dell’automazione a ogni aspetto della società». Si veda G. SARTORI, The Theory of Democracy Revisited, 1987: 99 per il sistema dell’informazione come «realtà totalitaria».

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le, assertore del fatto che il potere dei computer dato al popolo «è essenziale alla realizzazione di un futuro in cui la maggior parte dei cittadini sia informata circa, interessati a e coinvolti nei processi governativi». Le cose non sono andate per nulla in questo modo, come ammette lo stesso Manuel Castells affermando che, con l’eccezione delle democrazie scandinave, la maggior parte degli studi e delle inchieste su tale argomento presenta un «quadro lugubre» (bleak picture) (Winner, 1986: 588; Castells, 2001: 155). Se da una parte, quindi, è assai agevole documentare le rivoluzioni che le nuove tecnologie informatiche e comunicative hanno operato rispetto a tutte le sfere della nostra vita, tanto che c’è chi è arrivato a qualificarle come «costitutive» della modernità stessa, dall’altra rimangono non poche perplessità rispetto alla loro capacità effettiva di potenziare la democrazia. Con particolare riferimento a Internet, per esempio, si possono riscontrare elementi decisivi che spingono in una direzione contraria:

1) l’uso che si fa di Internet per scopi civili e politici è infinitamente minore rispetto a quello che concerne l’intrattenimento e lo shopping; 2) per quanto riguarda il reperimento di informazioni, prevale di gran lunga la ricerca di «non-notizie», afferenti a tematiche come la salute, la finanza o le questioni concernenti il consumo, che superano abbondantemente la ricerca di informazioni sugli affari correnti o sulle cronache giornalistiche; 3) dalle odierne società dell’informazione non sono usciti cittadini politicamente impegnati né politicamente attivi. Dato che si riscontrava anche prima dell’avvento di Internet, ma rispetto al quale la Rete ha finito con l’avere un ruolo ancora più disimpegnante: infatti se è vero che lo spettro ideologico delle discussioni fra individui su Internet è più ampio rispetto a tutti gli altri media, è anche vero che 191

queste discussioni si mantengono su un piano «virtuale», che tende a escludere quasi sempre una traduzione nelle pratiche delle suddette discussioni teoriche; 4) una visione molto diffusa era stata quella per cui Internet avrebbe potuto fornire poteri maggiori ai meno forti: tale visione è stata smentita dai fatti poiché si è rilevato che i gruppi marginalizzati non hanno assolutamente visto incrementarsi il proprio impatto rispetto alle relazioni di potere all’interno delle società. Basti pensare al fenomeno del «digitale divide», una sorta di disuguaglianza a monte perché riguarda le differenze nella possibilità di accesso a Internet. Reddito, istruzione, etnia, persino razza, genere ed età costituiscono dei fattori molto importanti nel marcare le discriminazioni. Né la scuola riesce a porre freni significativi a questo gap, perché oltre alla mancanza di computer si deve registrare una notevole scarsità di insegnanti adeguatamente preparati a fornire una formazione in tecnologia dell’istruzione. Senza contare la vera e propria assenza di una pedagogia rispetto a questo straordinario mondo della Rete, con cui le nuove generazioni hanno a che fare fin dalla tenerissima età e che li mette in grado di infilare le mani in una marmellata immensa di dati e informazioni per i quali non sono stati minimamente formati. A questo aggiungiamo le forti disuguaglianze nel contesto internazionale, dove il divario fra paesi poveri e in via di sviluppo e paesi ricchi è ancora fortissimo, nonché il parto gemellare fra rivoluzione digitale e new economy, che si è caratterizzato per un’impennata notevole rispetto alle disuguaglianze di reddito e di condizione sociale, e abbiamo di fronte agli occhi in tutta la sua nitidezza il «quadro lugubre» di cui parla Castells17. Abbiamo ricavato questa tabella sintetica dalla lettura dei seguenti studi: P. DAHLGREN, Reconfiguring, 2003:160-161; B.N. HAGUE, B.D. LOADER, Digital Democracy, 1999; K.A. HILL, J.E. HUGES, Ciberpolitics, 1998; M. MARGOLIS, D. RESNICK, Politics as Usual, 2000; D. BOLT, R. CRAWFORD, Digital Divide, 2000; R. LASERNA, R. MORALES, 17

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Questo quadro è piuttosto eloquente e quantomeno dovrebbe spingere a mettere in seria discussione i grandi discorsi sulle potenzialità che la Rete può vantare al fine di incrementare il grado di informazione e di partecipazione dei popoli e, in una parola, la democrazia. Non v’è dubbio che esso costituisce una visione parziale, ovviamente, che se vogliamo è frutto di una ricostruzione che aveva come scopo iniziale quello di far risaltare gli elementi critici e problematici, anche se a nostro avviso è largamente maggioritaria e quindi fedele rispetto allo stato dei fatti. Fra coloro che si oppongono a questa ricostruzione che abbiamo operato avvalendoci di tutta una serie di studi, figura il celebre e celebrato Don Tapscott, che significativamente ha deciso di fornire una visione apologetica delle potenzialità democratiche, civili e persino pedagogiche di Internet in un libro dedicato alla net-generation, quella che comprende i giovani nati a partire dal 1995 (l’anno della comparsa di Windows 95 e della conseguente diffusione capillare della tecnologia digitale in tutte le case dei paesi ricchi), in cui lo studioso canadese, rispondendo alle tante analisi in cui si parla di una generazione digitale mediamente più disimpegnata, ignorante, narcisista, a cui Internet sta rosicchiando la corteccia cerebrale e composta di monadi isolate nel chiuso del proprio computer, non solo conclude il suo lavoro descrivendoli come dei ragazzi «che stanno ottimamente», ma addirittura si spinge a dire che «sono pronti per trasformare in meglio ogni istituzione della società» (Tapscott, 2009: 289). Lo studio di Tapscott è articolato e, per certi versi, documentato, anche perché fa leva su testimonianze dirette che G. GOMEZ, Mundos Urbanos, 2000; UK DEPARTMENT OF TRADE AND INDUSTRY, Closing the Digital Divide, 2000; UNESCO, World Communication, 2000; M. CASTELLS, Internet Galaxy, 2001: capitolo 9 e J.P. ARCHAMBAULT, Internet en la escuela, 1998.

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riferiscono di giovani forniti di menti brillanti, incompresi dalle vecchie generazioni poiché inseriti all’interno di una rivoluzione mentale, comportamentale, di abitudini e di strumenti a disposizione che evidentemente sembra sfuggire a tutti coloro che non fanno parte della net-generation. Non è uno scopo fondante del nostro lavoro contrapporsi in maniera frontale allo studio di Tapscott, anche perché questo intento da solo richiederebbe lo spazio di un intero libro, e anche di vaste dimensioni. Tuttavia, per quello che è il nostro scopo ristretto, può essere sufficiente considerare uno degli argomenti principali, se non il principale, con cui Tapscott ha suffragato le proprie teorie. Sì, perché lo studioso canadese decide di avvalersi, come una delle prove alle sue teorie, della straordinaria vicenda che ha portato all’elezione a dir poco inaspettata di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti d’America. Questo giovane avvocato di Chicago che, alla stregua di un moderno Davide, si trovava a scontrarsi contro la potentissima lobby dei Clinton, in grado di esercitare una fortissima influenza sui media tradizionali e, quindi, di catalizzare la maggior parte dei consensi tra gli elettori democratici, avrebbe alla fine trionfato grazie al suo straordinario potere di rivolgersi alla gente comune, di raggiungerla fin dentro alle case e coinvolgerla in prima persona, nell’epica campagna elettorale, grazie soprattutto alla Rete di Internet, come avrebbe testimoniato il ventitreenne Chris Huges, il più giovane degli arruolati nello staff di Obama, compagno di stanza ad Harvard di Matt Zuckerberg (cofondatore di Facebook) e citato da Tapscott come modello della net-generation. I toni di Tapscott sono a dir poco epocali, ma persino uno studioso serio e ponderato come Castells, che evidentemente ha mutato il proprio parere nel corso del tempo, seppure con accenti meno enfatici, si è spinto a parlare dello «straordinario potenziale politico di Internet», rife194

rendosi al ruolo giocato nell’ elezione di Obama, definito quale «medium atto a stimolare la partecipazione politica». Ma l’enfasi di Tapscott è sorprendente, tanto da averlo spinto a parlare di un risultato strabiliante frutto di un «nuovo modello», quello della versione del networking appartenente alla net generation, tale per cui «la politica non sarebbe mai più stata la stessa». La stessa net-generation, secondo lo studioso canadese, si stava trasformando in una «forza inarrestabile» destinata a dominare la politica americana del XXI secolo, dimostrando un nuovo tipo di forte interesse per la politica non più basata sul modello convenzionale del «tu voti, noi governiamo» (Castells, 2009: 392-393; Tapscott, 2009: 243-244). Ora, con il senno di poi e a distanza di tre anni da quella indimenticabile elezione del primo presidente nero nella storia degli Stati Uniti, sappiamo che le cose non sono andate per nulla così. Obama non è riuscito a realizzare quasi nessuno dei propositi per cui tanta gente si era mobilitata dal basso, segnando anzi una continuità con le amministrazioni che lo hanno preceduto e conducendolo oggi (alla fine del 2011) a un livello bassissimo di gradimento popolare e a una sconfitta sonora alle elezioni di medio termine. La storia delle elezioni presidenziali americane è quella di un’operazione dai costi immensi, per cui occorrono decine se non centinaia di milioni di dollari che vengono fuori dalle grandi lobby del potere economico, poi in grado di influenzare la politica del presidente in base al proprio tornaconto. Spacciare l’elezione di Obama, un uomo già potente di suo e con altrettanto potenti finanziatori alle spalle, per quanto straordinaria e resa possibile anche dalle nuove potenzialità della Rete e del popolo degli internauti, come una sorta di miracolo della democrazia diretta, in grado di rivoluzionare per sempre il modo di fare politica della più grande potenza economica e militare del mondo è stata un’operazione a dir poco ingenua e demagogica, figlia evidentemente di una visione prosaica e limitata della 195

politica, da cui è stato espunto il momento fondamentale di una corretta informazione, conoscenza critica ed elaborazione cognitiva da parte dei cittadini. Una visione della politica molto pragmatistica nel senso deleterio del termine, per cui è sembrato contare soltanto il risultato materiale dell’aver condotto Obama sullo scranno più alto, senza considerare che questo fatto pur straordinario non consentiva assolutamente il dare per certa l’utopia del superamento della logica «tu voti, noi governiamo». Un’utopia impregnata di demagogia assai simile a quella di chi attribuisce alla Rete i grandi rivolgimenti che stanno accadendo nel mondo arabo, in Iran o in Cina. La Rete può costituire certamente un mezzo eccezionale di comunicazione diretta fra coloro che coltivano idee e propositi di miglioramento della propria società, ma sono evidentemente questi ultimi a contare davvero, e bisogna sapere che vengono ben prima della Rete in ordine cronologico, e che da essa non sono aiutati per forza di cose, anzi spesso è vero il contrario. Ma concludiamo con un aneddoto significativo inerente al caso Obama. Ad oggi è impossibile prevedere come finirà la vicenda, ma certo un altro dato, come se gli altri non bastassero, si erge imperioso e quasi definitivo su questo episodio della vita politica contemporanea: a giugno del 2011 si è dimesso dal suo incarico Vivek Kundra, il responsabile del progetto di utilizzo a vari livelli, e con diverse risorse e siti, della Rete Internet da parte dello staff obamiano. Un epilogo piuttosto triste ed emblematico per un’operazione che, sicuramente con un certo grado di ingenuità e di fretta, era stato definito come quello destinato a rivoluzionare il modo di fare politica degli Stati Uniti e del mondo intero. La democrazia è indubbiamente qualcosa di complesso e sfuggente, più un ideale regolativo che non un’entità definibile e chiara. Ogni volta che l’uomo ritiene di averla conseguita, e magari circoscritta all’interno di un siste196

ma organizzato, non soltanto commette un errore di valutazione e di presunzione al tempo stesso, ma soprattutto si espone a un pericolo ancora più serio perché inavvertito, quello di non mantenere più viva l’attenzione e la critica nei confronti del mondo circostante, con il rischio che da una presunta democrazia si degeneri presto nella tirannide, come ben sapeva Platone, per il quale democrazia e tirannide erano pericolosamente confinanti. Ai giorni nostri, nell’epoca delle società complesse e formalmente democratiche, il rischio è quello della «dittatura invisibile» di cui parlava Kenneth Boulding, perfettamente in grado di affermarsi e dominare proprio in un mondo in cui siano state mantenute le forme esteriori della democrazia. E quella dittatura invisibile, grazie al potere pervasivo e insidioso che sempre più ha raggiunto i mezzi di comunicazione, può costituire il marchio di una democrazia degenerata in mediacrazia18.

L’ultimo Dio

Sigmund Freud riferisce un aneddoto assai gustoso ed emblematico. Il poeta tedesco Heinrich Heine, che giaceva morente sul proprio letto, avvicinato dal prete che lo voleva riconciliare con Dio facendogli balenare la possibilità di trovare il perdono a tutti i suo peccati, avrebbe risposto in questo modo, declinando l’invito: «Ma certamente che mi perdonerà! È il suo mestiere!». PLATONE, Repubblica, VIII, 562b; Kenneth Boulding è significativamente citato da V. PACKARD, The Hidden Persuaders, 1957: 109, nel suo studio sui «persuasori occulti» e sulle tecniche pubblicitarie e comunicative di annullamento della coscienza individuale e collettiva, finalizzate alla costruzione di consumatori acritici e passivi. Sulle problematiche della democrazia nell’èra elettronica si veda R. STAGLIANO, ¿Hacia una democracia electrónica?, 1998. 18

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L’inventore della psicoanalisi utilizzava questo «motto di spirito» per esprimere un concetto assai significativo, quello per cui dietro alla banalizzazione della divinità, ridotta alla stregua di un professionista asservito ai desideri dell’uomo (come un avvocato o un medico), si nasconde in realtà un bisogno dell’uomo stesso, forse il bisogno estremo, quello di crearsi un’entità onnipotente in grado di confortarlo e soccorrerlo di fronte a quello che san Paolo chiamava «l’ultimo nemico» (la morte), cosicché «poco prima di essere annientata, la presunta creatura si rivela come il creatore»19. La paura di quest’ultimo nemico così inevitabile e inesorabile è uno dei sentimenti fondanti dell’essere umano dal momento in cui questi acquisisce coscienza della propria condizione di essere finito, imperfetto, debole e in quanto tale esposto a tutte le disgrazie del caso, angosciosamente in balia di qualunque evento irrazionale e perciò imponderabile, inimmaginabile. Il sentimento religioso è in questo senso connaturato a tale paura originaria, l’uno è impensabile senza l’altra, sono consustanziali, poiché è la paura così radicale e disperata che produce immediatamente nell’uomo quell’anima così «sconvolta e commossa» da ricercare affannosamente qualunque «presa», un oggetto fermo su cui dirigersi e agire, come scriveva magistralmente Montaigne. Potremmo spingerci anche più in là fino ad essere d’accordo con Bertrand Russell, quando affermava che «la religione trova il proprio fondamento primario e principale sulla paura», che è anzitutto paura dell’ignoto e di una condizione umana oggettivamente debole e incerta. Ma la religione è anche lo strumento attraverso il quale l’uomo può trovare la sua soluzione a questa angoscia, poiché a fondamento di ogni religione vi è la credenza in un Dio che volentieri indiS. FREUD, Il motto di spirito, 1905: 102-103; LA BIBBIA, I Lettera ai Corinzi, 15, 26. 19

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viduiamo come un «fratello maggiore», sempre pronto a starci accanto in tutti i nostri guai e le nostre dispute. A tal proposito è l’uomo a creare Dio non solo e non tanto a propria immagine e somiglianza, ma soprattutto fornendolo di tutte quelle caratteristiche che mancano all’uomo stesso (eternità, onnipotenza, onniscienza etc.) e che invece sono ritenute indispensabili in un’entità che possa tranquillizzare l’essere umano, appagarlo e farlo sentire protetto. Potremmo dire che Dio costituisce l’atto di estremo narcisismo da parte dell’uomo, perché, per usare le parole di Feuerbach:

L’uomo in Dio e attraverso Dio persegue come fine se stesso. L’uomo si propone come fine Dio, ma Dio non mira ad altro che alla salvezza morale ed eterna dell’uomo, quindi l’uomo si propone come fine solo se stesso. L’azione divina non si distingue da quella umana20.

Ecco perché il poeta Heine rifiutava con tanta sicumera i servigi del sacerdote, poiché sapeva benissimo che essendo Dio una creazione umana, «costruito» con tutte quelle caratteristiche che l’uomo aveva bisogno di attribuire a un’entità trascendente, egli sta lì per noi senza bisogno che compiamo chissà quali atti di contrizione, è uno strumento per la nostra consolazione rispetto ai mali dell’esistenza, una tele-visione (visione lontana) che trasmette ciò che vogliamo vedere e in cui abbiamo bisogno di credere per poter sostenere il peso della vita. Una vita che, «così come ci è imposta, è troppo dura per noi; reca troppi dolori, disinganni, compiti impossibili da risolvere», e quindi, secondo Freud, ci rende indispensabile la ricerca di qualche «palliativo» che possiamo individuare grazie a 20 M. DE MONTAIGNE, Essais, 1580-1588, I: 55; B. RUSSELL, Why I’m not a Christian, 1927: 577; S. HARRIS, The End of Faith, 2004: 39; L. FEUERBACH, L’essenza del cristianesimo, 1841: 48.

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quella straordinaria facoltà sostitutiva che è la «fantasia», perfettamente in grado, attraverso l’ausilio della religione, di rispondere alla nostra spasmodica domanda di senso e di risposte confortanti (Freud, 1929: 567-568). La fantasia è la grande e potentissima facoltà umana che, spesso e volentieri, genera illusioni o proiezioni di cui finiamo per convincerci noi per primi, che ci attraggono enormemente perché rappresentano lo specchio della nostra anima più profonda, dei nostri desideri di riscatto rispetto a un’esistenza in cui recitiamo un ruolo così passeggero e ininfluente da sentircene umiliati. Se poi a questa fantasia, che già di per sé ci spinge ad amare i frutti del suo parto, si accompagna il terribile e angoscioso sentimento del bisogno, il bisogno estremo di «sapere» che il parto della nostra fantasia esiste veramente e che è in grado di rispondere alle più radicali domande della nostra esistenza (da dove veniamo, perché siamo qui, dove andremo?), ecco che allora il nostro sentimento prevalente diventa l’entusiasmo (parola che deriva dall’antico verbo greco enthousiazein, che voleva dire non a caso «avere Dio dentro»). Sì, il nostro entusiasmo rispetto alla religione è proprio questo, l’avere riportato dentro di noi quell’entità che è stata inizialmente il parto della nostra fantasia, che avevamo prodotto proiettando fuori di noi, in un’entità trascendente appunto, proprio quelle caratteristiche che a noi mancano e che invece ci sarebbero così indispensabili, assegnandole per giunta, e non a caso, degli scopi che vedono l’uomo unico e principale beneficiario: ci ha creato per amore, ci protegge con il suo amore durante questa vita (dovendo noi tutt’al più pagare l’obolo della preghiera o del sacrificio), ci riaccoglierà con quello stesso amore nel regno dei cieli. Quando sant’Agostino, nelle Confessioni, si chiede e chiede a Dio «Cosa sei tu per me? Cosa io per te?», non per caso conclude implorando la divinità di rispondere con queste parole: «Io sono la tua salvezza (Dic animae meae: salus tua ego sum)» [Agostino, 401, Confessiones, I, 5, 5]. 200

Questo entusiasmo, questo Dio che abbiamo ormai riportato dentro di noi, è il frutto di quel sentimento di «dipendenza» che è dentro ogni uomo, dipendenza dalla «natura», comunque da altro che non sia noi stessi, che non possiamo essere noi perché siamo consapevoli di tutta la nostra limitatezza, e per questo non ci bastiamo nell’operazione di escogitare un senso tranquillizzante e protettivo per questa vita che ne è così parca. Questo sentimento di «dipendenza», come ben sapeva Feuerbach (Feuerbach, 1845: §§ 28, 29), è quello da cui nasce ogni empito religioso, e che non per caso ci spinge a vedere nel protagonista di quel sentimento un «Padre». Qui ci torna nuovamente utile un altro padre, quello della psicoanalisi, poiché è stato Freud, probabilmente rielaborando le riflessioni di Feuerbach, a descrivere con maestria quel meccanismo che trasforma il sentimento di dipendenza dell’essere umano nella ricerca costante di un tutore altolocato, di un oggetto di amore capace di soddisfare la libido narcisistica insita in ogni individuo. Nell’evoluzione dell’individuo, infatti, il padre della psicoanalisi ritiene che il primo oggetto d’amore sia la madre, da cui il bambino si sente dipendente se vuole vedere soddisfatti i bisogni primari (la fame, innanzitutto), e da cui riceve una prima protezione rispetto ai tanti pericoli indeterminati di cui è piena la nostra vita. La figura materna è presto sostituita da quella paterna, che viene vista e vissuta come «più forte» e quindi capace di proteggere l’individuo da pericoli che egli ha ormai imparato a individuare con maggiore chiarezza. Freud ci spiega che il rapporto col padre è caratterizzato da ambivalenza e conflittualità fin dall’inizio, «forse a causa del suo precedente rapporto con la madre». È una figura tanto ammirata quanto temuta, generatrice naturale di sentimenti conflittuali di amore-odio, inevitabilmente destinati a procedere verso il conflitto aperto. Lasciamo alle parole dello stesso Freud la descrizione del terzo e ultimo stadio: 201

Ora, quando l’individuo, crescendo, si accorge che è destinato a rimanere per sempre un bambino, che non potrà mai fare a meno di tutelarsi contro potenze superiori sconosciute, presta a queste i tratti della figura paterna, si crea gli dèi, che teme, che cerca di propiziarsi, e ai quali nondimeno si affida per essere protetto (Freud, 1927: 63).

Insomma l’essere umano, per via della sua costituzionale debolezza che lo atterrisce, è un costante minorenne bisognoso di qualche protezione e tutela e, rispetto a ciò, il massimo della libertà che egli riesce a sostenere è quella di cercarsi un tutore non presente nel suo mondo ma in un indeterminato aldilà. Una scoperta certamente sconvolgente, che colpisce alla radice le visioni tradizionali dell’uomo inteso come un soggetto innanzitutto razionale, perfettamente in grado di fare un uso autonomo della propria ragione critica e di crearsi uno spazio laico e civile, la città dell’uomo, indipendente da qualunque tutore che abiti in questo mondo o in un altro. Ma soprattutto, una visione dell’uomo che può fornire più di un valido argomento ai critici di quanto abbiamo affermato nel capitolo precedente. Sì, perché se la natura prevalente dell’individuo è quella che abbiamo appena ricostruito, affermare che i nuovi media e Internet nella fattispecie non hanno contribuito a creare dei cittadini maggiormente interessati culturalmente e impegnati nel sociale, significa procedere sulla base di una «mitologia del passato» che, cioè, esalti in maniera fin troppo eccessiva le virtù delle democrazie precedenti l’avvento dell’èra del virtuale. La domanda da porsi è piuttosto un’altra: ma l’uomo medio o, se vogliamo esprimerci con le parole del giornalista e saggista americano Walter Lippmann, l’«opinione pubblica» ama davvero la democrazia partecipativa? Ama davvero una situazione in cui deve compiere grandi sforzi per essere adeguatamente informato su tante cose, così da poter partecipare in prima persona al governo della propria 202

comunità, non soltanto con il proprio voto elettorale? Ama davvero, potremmo dire al limite, quell’idea di Illuminismo così efficacemente descritta da Kant come la condizione in cui l’uomo esce dal suo stato di minorità, per liberarsi da ogni forma di tutela che lo vuole mantenere deresponsabilizzato e minorenne? La risposta di Lippmann era netta e negativa, fino ad arrivare al punto di smontare, negli anni terribili e cruciali fra le due guerre mondiali, buona parte della retorica democratica. Sì, perché costituisce un errore centrale da parte del teorico della democrazia, secondo Lippmann, pensare che l’uomo possieda per istinto «l’arte di governare», che il principio di «autodeterminazione» abiti saldamente nell’animo umano. A fianco del desiderio di essere padrone del proprio destino, risiedono nell’uomo istinti ben più prosaici, come quello di una vita comoda in cui si venga sgravati dalla maggior parte dei problemi. Insomma, «nella misura in cui la democrazia spontanea non soddisfa i loro specifici interessi, essa appare quasi sempre come una cosa vuota alla maggior parte degli uomini», affermava Lippmann. In conseguenza di ciò, costituisce un’utopia fallace il voler attribuire ai mezzi di comunicazione il compito di fornire alla cittadinanza tutta, quella mole di informazioni di cui essa dovrebbe essere in possesso per poter partecipare in maniera adeguata e consapevole alla vita democratica. Pensare questo, secondo il ragionamento di Lippmann, vuol dire fondarsi sulla teoria del «cittadino onnicompetente», che è un ideale impossibile da raggiungere sia per ragioni tecniche (nessun individuo può aspirare a raggiungere un tale grado di sapienza) sia per ragioni umane (sono pochissimi gli individui che lo ritengono davvero un ideale da perseguire). Insomma, l’errore che sta a monte, secondo Lippmann, è quello di considerare la stampa alla stregua di «un organo di democrazia diretta», perfettamente in grado di trasfor203

mare l’opinione pubblica in un «tribunale aperto giorno e notte per dettare legge su ogni cosa», quando in realtà essa è, nella migliore delle ipotesi, «serva e custode delle istituzioni» e, nella peggiore, «un mezzo col quale i pochi sfruttano a proprio vantaggio la disorganizzazione sociale» (Lippmann, 1922: 300, 312, 363-364). La somma di questi due elementi, da una parte la natura umana affetta da un sentimento di dipendenza e di bisogno di affidarsi a un tutore ritenuto superiore, dall’altra l’utopia democratica rispetto al ruolo dei mezzi di comunicazione, assesta un colpo notevole a tutte quelle teorie che si sforzano di comprendere il mondo contemporaneo analizzando quanto i nuovi media e la Rete stanno facendo o hanno fatto per la creazione di un cittadino più attivo e informato. Sulla scia di Freud potremmo persino azzardare una sorta di parallelismo tra il percorso della psicologia individuale e quella collettiva: così come, nel percorso evolutivo dell’individuo, infatti, questi ricerca una figura capace di proteggerlo, sostentarlo e guidarlo prima nella madre, poi nel padre e infine in uno o più dèi, la psicologia collettiva o sociale dei paesi occidentali ha individuato prima nella natura, quindi nel mercato e, infine, oggi nella Rete quelle dimensioni in grado di fornirgli senso e potere. Insomma, la condizione esistenziale in cui l’essere umano è stato «gettato», in cui si trova a vivere senza poter disporre di appigli che gli forniscano un fondamento e una prospettiva solidi (da dove veniamo e dove andremo?), è alla base della costituzione individuale debole, «incapace di un’esistenza autonoma o anche soltanto di un giudizio indipendente», affetta da un affannoso sentimento di dipendenza, in cerca di padri tutoriali forti e di un’«autorità» cui votarsi integralmente, se vuole evitare la ricaduta in quella «nevrosi ossessiva universale», che secondo Freud ha dato e dà origine a ogni religione (Freud, 19102: 202; 1924: 133; 1907: 346-349). 204

Ma oggi, grazie a questa nuova «creazione» umana che è il virtuale, l’uomo non solo può soddisfare quel suo istinto originario che gli fa cercare (e creare) una figura paterna, ma anche quello narcisistico di vedersi al centro della creazione e dei meccanismi che la riguardano. Con il virtuale, o se si preferisce con la Rete, infatti, egli ha riportato in terra la dimora di quel Dio che lo deve proteggere e riempire di senso. «Un tempo ci si immolava per lo spirituale, oggi ci si immola per il virtuale. Sotto c’è il desiderio legittimo dell’uomo di oltrepassare i suoi limiti», notava qualche anno fa con la solita efficacia Umberto Galimberti (Galimberti, 2000: 208). Ed è proprio nella Rete che l’uomo può pensare di oltrepassare i suoi limiti fisiologici, in questo «luogo» che lo informa su tutto, gli fa «incontrare» persone da tutto il mondo, superando le barriere spazio-temporali che così radicalmente limitano l’essere umano nella vita reale. In questo luogo in cui l’individuo può essere persino creatore di un nuovo se stesso e di una vera e propria «seconda vita», in cui sceglie la propria identità, il proprio fisico, il proprio sesso, il lavoro, ecc. (pensiamo al fenomeno degli avatar). Il luogo in cui un ragazzo timido e insicuro come Steve, racconta la psicologa americana Patricia Wallace, che nella vita reale si ritrova piuttosto isolato ed emarginato, ha la possibilità di diventare un personaggio rispettato e di grande successo nei «giochi di ruolo on line» (MUD), giochi che il ragazzo stesso descrive significativamente in questo modo: «Sono come una religione per me, lì sono un dio!». A riprova, forse, di una tendenza già intuita da Mircea Eliade alla metà del secolo scorso, laddove osservava che il «cristianesimo delle società industriali» presentava degli individui ogni giorno più inclini a vivere quella religiosa come un’«esperienza sempre più strettamente privata», forse perché sempre più privata e isolata, aggiungiamo noi, è l’esperienza della propria vita che decidono di intra205

prendere gli esseri umani ingabbiati nella dimensione virtuale, in cui la vita stessa è offerta un tanto al bit e mai al di fuori della logica privatistica e commerciale (Wallace, 1999: 182; Eliade, 1957: 151). Se dapprima l’uomo aveva creato Dio per assicurarsi una vita ulteriore rispetto a quella terrena, oggi ha creato la Rete per divinizzare la sua vita terrena, per garantirsi quei poteri sovrannaturali che gli consentono di farsi dio già in questa vita, in attesa di sconfiggere definitivamente la morte grazie al Dio trascendente. Superando in questo modo tutti gli elementi della terribile sentenza pronunciata da Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone, quando scriveva che alle due verità a cui gli uomini non riescono mai a credere, cioè di non sapere nulla e di non essere nulla, va aggiunta la terza e più angosciante: «di non aver nulla a sperare dopo la morte» (Leopardi, 1817-1832: 1188). Alla base di tutto questo v’è la considerazione che l’uomo ha della morte, non solo in quanto evento terribile da esorcizzare in ogni modo, ma anche in quanto frutto del peccato compiuto dall’uomo stesso, sua creazione paradossale. Sì, perché questo evento tragico e finale non è stato voluto da Dio, che «ha creato l’uomo per l’immortalità», ma è entrato nel mondo «per invidia del Diavolo», come è scritto nel libro biblico della Sapienza, che san Paolo ha chiosato affermando che «come a causa di un solo uomo [Adamo] il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini perché tutti hanno peccato»21. La morte, o meglio la mortalità (e quindi la vita), è il prezzo che l’uomo ha dovuto pagare per aver voluto attingere alla conoscenza e aver pensato, con essa, di crearsi uno spazio proprio indipendente dalla divinità. Si tratta di una visione propria della tradizione giudaico-cristiana (che è LA BIBBIA, Sapienza 2,24; Lettera ai Romani 5,12. Si veda V. MANCUSO, L’anima e il suo destino, 2007: 188. 21

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assente in quella greca), che vede, quindi, nel dolore e nella morte «qualcosa di collegato a una colpa originaria», come ha scritto Galimberti (2005: 381), che è colpa precipua dell’uomo, di cui egli porta tutto il peso e, al tempo stesso, l’anelito angosciante a purificarsene e quindi liberarsene. L’incapacità tutta umana a vedere nella morte un momento della vita, quindi un qualcosa che da essa non è scollegato e, in fondo, non ne rappresenta la negazione ma semmai il necessario compimento, il tuffo inesorabile verso un ignoto che non può anche non incuriosire, se ci pensiamo bene, è alla base di quell’atteggiamento di disperata rimozione e rifiuto di ogni argomento che la riguardi che è così palese nella nostra cultura. Un atteggiamento che impedisce di accettarla come un evento certamente traumatico ma su cui meditare, e a cui prepararsi, con la massima serenità di cui siamo capaci, perché dal rifiuto di una parte così importante e fondamentale della nostra vita (la morte, appunto), non può derivare nulla di buono per un essere che è anzitutto mortale come l’uomo. E infatti le conseguenze negative sono almeno due: da una parte, se è vero quanto felicemente intuito dal filosofo rinascimentale Montaigne – cioè che «la meditazione della morte è meditazione della libertà», per cui «chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire» – ci spieghiamo questa indole che spinge l’essere umano a rifiutare il governo di sé, l’autonomia dalle costrizioni o anche solo dalle influenze esterne, per donarsi anima e corpo (servitù volontaria) alla tutela di qualche padre superiore che scelga per noi, pensi per noi, viva per noi, di cui il Dio trascendente rappresenta ovviamente la massima espressione. Dall’altra parte, per potersi abbandonare con maggiore tranquillità e minori sensi di colpa a una figura che sia provvidenziale per la sua sorte (e che quindi lo deresponsabilizzi dal prendersi carico della propria vita fino in fondo), l’uomo è naturalmente spinto a un graduale ma sistematico rifiuto della vita reale con tutti i suoi elementi 207

ostici e ostili, per aderire a delle «immagini» che nella migliore delle ipotesi rappresentano la trasfigurazione del reale, immagini che sostituiamo volentieri alle cose reali mettendo così in atto quell’essenza del sentimento religioso mirabilmente descritta da Feuerbach. Immagini illusorie quali l’ordine spontaneo, la provvidenza, la Rete di tutte le individualità interconnesse (Internet), che soprattutto trasfigurano a tal punto il reale da produrre una realtà fittizia o virtuale che è fatta su misura per le esigenze più radicali dell’uomo, in cui esso possa sentirsi al centro di un disegno cosmico o divino che lo protegge, gli fornisce senso dall’inizio alla fine e, soprattutto, gli garantisce la bontà e armonia dell’esito finale. Perché in fondo consiste proprio in questo la «tecnica della religione», come scriveva Freud nel suo saggio sul Disagio della civiltà, ossia nello «sminuire il valore della vita e nel deformare in maniera delirante l’immagine del mondo reale, cose queste che presuppongono l’avvilimento dell’intelligenza»22. Ben lungi dall’essere un eroico alfiere dell’autogoverno di sé, l’uomo risulta piuttosto un pavido produttore seriale di (auto) illusioni tutte più o meno accomunate dalla facoltà che esse hanno di far funzionare le cose in maniera spontanea, sollevandolo nella misura più grande possibile dal dover impiegare le proprie facoltà e i propri talenti. Illusioni a cui credere esso per primo, e sulle quali i Poteri più forti della storia (economico, politico, religioso) hanno fondato e fondano i propri strumenti di dominio M. DE MONTAIGNE, Essais, 1580-1588: 132, I. Il teologo italiano Vito Mancuso è quello che recentemente ha riportato in evidenza con maggiore forza la necessità di meditare più consapevolmente sulla morte, fino ad accettarla come elemento costitutivo della vita stessa; V. MANCUSO, L’anima e il suo destino, 2007: 197-198; L. FEUERBACH, L’essenza del cristianesimo, 1841: 196-198; S. FREUD, L’avvenire di un’illusione, 1927: 576. 22

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sulle grandi masse, cosa che in questo caso gli riesce ancora più agevole poiché «il vero campo e il vero oggetto dell’impostura sono le cose sconosciute», come scriveva con penna felice il filosofo Montaigne, e in questo senso si soddisfano molto di più le persone parlandogli della «natura degli dèi» che non trattando la natura degli uomini, infatti «l’ignoranza degli ascoltatori offre una strada bella e larga, nonché piena libertà di maneggiare una materia dissimulata» (Montaigne, 1580-1588: 265, v. I). Spirito religioso e mondo reale non vanno molto d’accordo, e l’homo religiosus è naturalmente spinto a spostare la sua prospettiva nella dimensione della trascendenza, vissuta come un qualcosa di direttamente contrapposto al mondo terreno, che è frutto del peccato originale dell’uomo e ricettacolo di ogni disordine e dolore perché caratterizzato dall’assenza di Dio. Del resto, «amare il mondo non vuol dire conoscere Dio (amare mundum non est cognoscere Deum)», sentenziava sant’Agostino, che quindi invitava palesemente a non amare il mondo né le cose che in esso sono contenute, perché «se uno ama il mondo, la Grazia del Padre non è in lui». O si ama Dio o si ama il mondo, l’aut-aut è netto e inequivocabile e costituisce il fondamento primario di quel sentimento che spinge l’uomo religioso a estraniarsi dal mondo terreno, ignorando l’accorato appello dello Zarathustra di Nietzsche, che implorava i suoi fratelli uomini di «restare fedeli alla terra» e non credere a coloro che parlano di «speranze sovra terrene»23. L’ordine spontaneo che regolerebbe in maniera virtuosa i rapporti economici e sociali fra gli individui, così come la divina provvidenza che non avrebbe avuto altro scopo che quello di crearci, assisterci e proteggerci nella vita terrena e 23 AGOSTINO 415, Discorso II, §§ 8-9. Lo stesso concetto è riscontrabile in ID. 413-426, De civitate Dei, XIV, 28. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, 1883-1885: 6, § 3, Prefazione.

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infine riaccoglierci nella beatitudine del regno dei cieli, sono tutte creazioni di quell’essere angosciato e in fuga costante dal proprio mondo che è l’uomo, inebriato da un «desiderio infinito» di trovare una dimensione (in questo mondo o in un aldilà, trascendentale o trascendente) in cui qualcuno o qualcos’altro garantisca con i suoi poteri di arrivare là dove le limitate forze dell’uomo non riescono. Da questo punto di vista possiamo dire che la Rete rappresenta l’ultima illusione, o ultimo Dio, che l’uomo si è dato per coltivare la speranza di essere onnipotente, onnisciente e, nell’interconnessione con tutti gli altri individui, partecipe di una forza cosmica fornita di senso e significato. Un ultimo Dio che, peraltro, conserva in un certo senso le divinità precedenti, a partire da un mercato in cui sia pressoché assente quel dio mortale che è il Leviatano (Wallace, 1999: 69), cioè lo Stato, per arrivare a quella forma di divinità meno personificata e quindi più capziosa, di cui ogni persona può sentirsi parte in quanto compartecipe della grande Rete di individui, intelligenze, relazioni. Rimane il dubbio, inevitabile e radicale, su quanto ci troviamo di fronte all’ennesimo episodio di delega, da parte dell’essere umano, di tutti i suoi poteri a un’entità ritenuta superiore che, nel momento stesso in cui lo dispensa dalle fatiche di un esperienza diretta e responsabile del proprio mondo, consente a una ristretta minoranza di individui di esercitare un potere tanto nascosto quanto totalitario.

Postilla: verso una società post-umana?

Malgrado il titolo del nostro lavoro, l’intenzione non era quella di indulgere all’apocalissi. E neppure era fra i nostri convincimenti quello di aver scoperto chissà quale verità inaudita alle epoche precedenti della storia. Che l’umanità, infatti, si sia più volte sottomessa passivamente a entità o poteri economici, politici e religiosi 210

cui assegnare il compito immane di portare il paradiso in terra o comunque di garantire un esito il più possibile felice e armonico alla vicenda umana, rappresenta un dato di fatto che nessuno potrebbe smentire. Che l’uomo si sottomettesse a questi poteri auto-dispensandosi dall’incombenza di assumersi la responsabilità del proprio agire privato e sociale, o che venisse da essi sottomesso dietro comunque la promessa di un’umanità migliore, di maggiore ricchezza ed eguaglianza, o di un regno dei cieli dopo la vita terrena, ha un’importanza relativamente minore. Quello che ci interessava in questa sede, e che dovrebbe interessarci nella nostra epoca, riguarda il fatto che ci troviamo indubbiamente di fronte a una delle grandi tappe rivoluzionarie dell’evoluzione umana, rappresentata dalla comparsa di nuove tecnologie della comunicazione e di un nuovo mondo, quello della Rete, capace di stravolgere molti aspetti del vivere umano e sociale. Ora e qui, insomma, noi ci troviamo ad avere a che fare con un mondo completamente trasformato dall’èra digitale e dai fenomeni connessi della globalizzazione economica e culturale. Un mondo nuovo in cui però restano pienamente funzionanti meccanismi assai antichi e che mai come oggi pensiamo di poter riassumere con una sola formula: sentimento religioso. Da intendersi ovviamente in un senso molto ampio, che non riguarda solo ed esclusivamente la religione in quanto fenomeno istituzionalizzato e rappresentato dalle varie chiese, ma che concerne piuttosto quell’attitudine antica dell’essere umano di annullare la propria personalità e individualità, per immolarsi alla causa di un ideale superiore in nome della cui realizzazione diventano perfettamente lecite molte azioni contro se stessi e contro gli altri uomini, soprattutto se appartenenti a civiltà diverse, culture diverse portatrici di altri interessi e valori economici e culturali. Non per caso, crediamo, a sottolineare che nel mondo moderno la religione è probabilmente «la forza centrale 211

capace di motivare e mobilitare le masse», è stato ai giorni nostri il politologo americano Huntington, in un libro volto a denunciare l’imminente e devastante «scontro delle civiltà» all’interno di una società globalizzata in cui le divisioni non sono più tanto geografiche quanto culturali. Ha prevalso, insomma, una forma di religiosità che il filosofo cristiano Maritain aveva qualificato come un tipo di «ateismo»: non tanto l’ateismo che dichiara la non esistenza di Dio e trasforma in un dio il proprio idolo di riferimento, quanto quel tipo di ateismo che è sì pronto a riconoscere che Dio esiste, ma per invocarlo come un «genio protettore» interessato alla gloria di un popolo o di uno stato contro tutti gli altri (Huntington, 1996: 66; Maritain, 1968: 285). Non si tratta, insomma, di quel tipo di religione di cui parlava nell’Ottocento Tocqueville che, pur ammettendo il proprio indubbio ateismo, riteneva che qualora la religione fosse stata distrutta, il dubbio e la disperazione di risolvere con le proprie forze soltanto i grandi problemi che il destino umano presenta, avrebbero ridotto l’umanità alla condizione vigliacca di chi non ci pensa più e quindi si prepara alla servitù nei confronti di un potere terreno Tocqueville, 2008: 254). La religione con cui abbiamo a che fare oggi, non solo nell’ambito giudaico-cristiano ma anche in quello islamico e negli altri, non sta lì a garantire, ammesso e non concesso che lo abbia mai fatto, la libertà dell’essere umano da un potere capace di ridurlo in schiavitù (mentale prima ancora che fisica), ma si rivela semmai come il potere per eccellenza in grado di subordinare gli individui e spingerli ad azioni che fanno l’interesse del potere stesso e non certo il loro. Nel mondo islamico, per esempio, questo fenomeno si rivela in maniera più semplice ed evidente, tanto da inserirsi all’interno della questione religiosa vera e propria (il potere governativo ed economico è pressoché inscindibile da quello religioso). Mentre nel nostro Occidente «evolu212

to», in cui la religione è stata ragionevolmente separata dalla sfera politica e sociale (con la fervida opposizione del potere ecclesiastico, detto per inciso), lo spirito religioso capace di subordinare gli individui in nome di interessi più alti ha assunto i connotati dell’economia, rivelatasi perfettamente in grado di orientare l’uomo alla passività e all’identificazione con i valori del mercato e del profitto, ma anche della tecnologia, pronta a strumentalizzare l’uomo in nome di quel fine superiore che è ritenuto il progresso scientifico. Economia, tecnica e religione sono oggi gli unici produttori di senso e di valore, tutti e tre gettano spesso e volentieri l’uomo in una condizione di «alienazione che lo rende un idolatra impotente e irrazionale», come scriveva Erich Fromm, un semplice ingranaggio di un meccanismo che lo circuisce sostituendogli il mondo reale con delle «immagini» (merci), immagini che assurgono al rango di esseri reali, di «motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico» che, per usare l’intuizione profonda di Debord, spinge l’individuo a vivere una vita sulla base di valori e desideri che non sono altro che i valori e i desideri del sistema produttivo (Fromm, 1963: 96, 101-102; Debord, 1967: § 18). Mai come oggi, forse, varrebbe la pena rimettere in discussione quei totem che vengono dati per scontati (il profitto, il progresso tecnologico, la religione), ma che non contribuiscono (più?) al benessere della maggior parte degli individui, e anzi riducono l’essere umano a un mezzo per fini che non sono i suoi, che non sono quelli di un’esistenza in cui al centro vi siano le peculiarità umane. Economia, tecnica e religione sono oggi i tre grandi golem che, per parafrasare Emerson, stanno in sella all’umanità e la cavalcano, fornendogli gli orizzonti di senso e gli scopi ultimi in nome dei quali vivere la propria esistenza. Un’umanità che in buona parte si lascia subordinare volentieri da queste tre potenze che, in compenso, sosten213

gono di garantirle esiti felici e armonici grazie a meccanismi impersonali e deresponsabilizzanti come l’ordine spontaneo (economia), l’eterogenesi dei fini (tecnica) e la provvidenza (religione). Ovunque vi sia la presenza di un’entità ritenuta superiore, a cui si riconosce il potere immenso di tutela nei confronti dell’uomo, gli individui perdono buona parte di quell’empito vitale che li spinge a pensare, conoscere e agire con la propria testa, e ciò è tanto vero che oggi forse vale la pena di integrare il famoso passo in cui Albert Camus scriveva che l’unico problema filosofico veramente serio è il «suicidio»: «giudicare che la vita valga o non valga la pena di essere vissuta significa rispondere alla questione fondamentale della filosofia», era la sua sentenza impressionante. Ma se soltanto ci chiediamo cosa è che ci consente di giudicare se la vita valga o meno la pena di essere vissuta, allora non possiamo non rispondere che la vita, ogni vita, acquista un valore assoluto nel momento in cui è capace di rendersi autonoma e libera da costrizioni esterne o da tutele superiori che la dispensano dall’impegnarsi nel proprio mondo. La vera libertà è prima di tutto libertà del pensiero, come ci ha insegnato il filosofo e pedagogista John Dewey, e una persona riesce a costituirsi mentalmente come «individuo» soltanto quando riesce a darsi da sola i propri scopi e problemi, tanto che «non pensare per proprio conto, significa non pensare affatto». E se si vuole raggiungere questo sommo grado di libertà non ci si può consentire un atteggiamento religioso che vada oltre «la sconfinata ammirazione per la struttura del mondo fino a dove la scienza ce la può disvelare», per usare le parole con cui il grande Albert Einstein prendeva le distanze da quella fede che gli era stata proditoriamente attribuita24. 24 A. CAMUS, Le mythe de Sisyphe, 1942: 17; J. DEWEY, Democracy and Education, 1916: 312; A. EINSTEIN, The Human Side, 1979: 43; la citazione è contenuta in C. HITCHENS, God is not Great, 2007²: 271.

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Abbiamo visto che un tale atteggiamento autonomo e libero non appartiene alla maggior parte degli individui, né è nostra intenzione prendercela col sentimento religioso delle tante persone che sentono di voler credere o di aver bisogno di farlo. L’importante è evitare l’ipocrisia e gli abbellimenti della realtà, illudendosi che le cose andranno comunque bene, a prescindere dal nostro darci da fare autonomamente e fattivamente perché ciò accada, grazie a un’entità superiore che non esiste così come vogliamo immaginarcela, ma che in compenso consente alle gerarchie ecclesiastiche, al potere economico, ed oggi anche a quello tecnologico, di farci inginocchiare rispettosamente e acriticamente di fronte ai loro idoli. Né possiamo pensare di risolvere la problematicità della vita reale rifugiandoci in quella virtuale, che sempre più si ritaglia il ruolo di mediatrice fra noi e la realtà circostante, sottraendo le nostre menti, i nostri sensi e i nostri corpi all’esperienza diretta della vita vera, di un tempo che è quello vero e che non possediamo in abbondanza tale da poterlo sprecare all’interno di una non vita. Pensare di farlo, di potersi rifugiare tra le maglie protettive del nuovo mondo digitale, vorrebbe dire coltivare un’illusione estrema, propria di un ultimo Dio in possesso di una caratteristica alquanto strana: quella di fagocitare i suoi figli e di togliere loro quella stessa vita che dicono ci abbia dato. Mai come oggi è giunta l’ora di un nuovo umanesimo, della riscoperta e rivalutazione delle facoltà precipue dell’uomo (l’intelligenza, la critica, la conoscenza, la sensibilità, l’autonomia della personalità), che metta in discussione ai più vari livelli i meccanismi di un’epoca sempre più post-umana. Mai come oggi, insomma, dobbiamo rimettere l’umanità in sella al suo cavallo. O almeno provarci con tutte le nostre, umane, forze. 215

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Indice dei nomi

Alighieri D., 19. Agostino (santo), 7, 18, 68-69n, 187, 200, 209. Ahmed N.M., 130-132, 151n. Allende S., 145-146, 148-149. Anders G., 10-11, 63, 155, 180. Arendt H., 186. Archambault J.P., 193n. Aristotele, 18 , 61-62, 186. Arrighi G., 93. Atlas J., 127n.

Bachen C., 172. Barthes R., 13. Bastiat F., 41-42n, 67-68, 80. Battelle J., 182n. Baudrillard J., 155. Bava Beccaris F., 27. Beard C.A., 71. Beard M.R., 71. Bell D., 47, 158. Benkler Y., 48-49, 51, 102. Bentham J., 25, 76. Bessis S., 79n. Bhagwati J., 105. Bin Laden O., 123, 128, 131. Bismarck von O., 86. Blank S.J., 132. Bobbio N., 18, 121n-187n, 188. Bolt D., 192n. Boss G., 179n. Boulding K., 197. Braudel F., 112, 115.

Bremer P., 143-144. Brzezinski Z., 132-134. Buchanan J., 58. Burke E., 43. Bush G., 132, 136. Bush G.W. 123, 125-126, 128-131, 137, 140-144, 151, 153. Butler R., 140.

Camus A., 214. Canetti E., 18. Canfora L., 28, 130, 152n. Carlini F., 163. Carlyle T., 28. Carr N., 105, 167n-168, 178n, 181182n. Carter J., 132. Cartier C., 73. Castells M., 47, 99-100, 104-105, 121, 163, 180 , 182, 191-195. Chang H.J., 63, 79, 85, 106-108, 111. Chardin de T., 50. Cheney R., 142. Chomsky N., 140-141n, 146. Churchill W., 127. Cicerone M.T., 187. Cioran E., 21-23, 115. Cobden R., 65. Colquhoun P., 78. Constant B., 67-68. Cooley J.K., 128n. Crampton T., 144. Crawford R., 192n.

233

Dahlgren P., 189n, 192n. Dale-Davidson J., 101-102. Dawkins R., 21. De Castro S., 147-149. Debord G., 17, 115, 119n, 155, 159, 213. De Kerckhove D., 176, 180n. Dennis E.E., 171n. Dewey J., 214. Diomede, 19. Doidge N., 178. Dworkin R., 51.

Eco U., 160. Einstein A., 214. Eliade M., 205-206. Emerson R.W., 213. Engels F., 159. Erasmo da Rotterdam, 69. Ercolani P., 8, 10-11, 38n, 55n, 71n, 81n, 87n, 113n, 118n, 158-159, 162, 170. Eschilo, 19-20.

Faguet E., 33. Falwell J., 142n. Ferguson A., 44n. Feuerbach L., 115, 199, 201, 208. Formenti C., 50, 52-53, 103. Foucault M., 76-77, 113. Franklin B., 189n. Freud S., 156, 173, 197-202, 204, 208. Friedman M., 38, 97, 147-150, 152. Friedman R., 38n, 149. Fromm E., 20, 155, 213.

Galimberti U., 7, 16, 113, 118n, 168n, 169n, 175, 185n, 205, 207, 233. Gamson W., 171n. Gates B., 104, 163-164. Gauthier A., 97. Gentile E., 131, 134, 141n. Gesù Cristo, 138.

234

Giddens A., 92n. Giovanni Paolo II (papa), 138. Giulio II (papa), 69. Gomes L., 85n, 107n, 108n. Gomez G., 193n. Gore A., 130. Gresh A., 136.

Habermas J., 122-123n. Hague B.N., 192n. Hall C., 78. Hamilton A., 85. Harris J., 189. Harris S., 127, 138, 199n. Harvey D., 73n, 120, 124, 126, 130, 143-144, 147. Harvey R., 148. Hayek F.A., 34, 38, 42, 44, 47-49, 55, 94, 97, 150, 152, 170. Hegel G.W.F., 180. Heine H., 197, 199. Herman E.S., 140-141n, 146. Hill K.A., 192n. Hillman J., 113. Himanen P., 104, 164. Hiro D., 129. Hitchens C., 127n, 214n. Hitler A., 127, 165. Hobbes T., 61-62. Hobhouse L.T., 88, 91. Hobsbawm E.J., 94-95. Hobson J., 81-84, 89, 91, 109. Hofstadter R., 124. Hopkins A.G., 28. Huges C., 194. Huges J.E., 192n. Hume D., 32, 178n. Huntington S.P., 123, 212. Hussein S., 136, 140-143. Hutcheson F., 75-76, 107. Hutton B., 140. Ignatieff M., 77n, 141n. Irwin D.A., 107n. Jara V., 146. Jenkins H., 190.

Kant I., 36, 118-119, 174, 187, 203. Kelly K., 49-50, 54-55, 99n, 102, 160. Keynes J.M., 93-94n. Kirzner I.M., 38n. Klapper J.T., 171n. Klare M.T., 142. Klein N., 109, 145-146, 149-150, 152n, 153. Krakowski E., 131n. Kristianasen W., 135. Krugman P., 123n, 140, 151n. Kuczynski J., 77. Kundra V., 196.

Landes D., 84, 90. Laserna R., 192. Latouche S., 63, 112, 159-160. Lavoie D., 37. Lee C.K., 73n. Leopardi G., 115, 156, 206. Lemieux P., 57-58. Leone X (papa), 69. Levy M.R., 75. Levy P., 161, 169-170n. Licklider J.C.R., 190. Lieven A., 125. Lippmann W., 202-204. Loader B.D., 192n. Locke J., 39-41. Lord Salisbury, alias Robert Gascoine-Cecil, 87. Losurdo D., 34, 43n, 45n, 79-80, 90n, 137, 139, 233. Maier C.S., 93. Maldonado T., 120n, 179-180n, 182, 184-185n. Mancuso V., 206n, 208n. Mandelbaum M., 65. Mandeville B., 25, 59-62, 72. Manovich L., 170. Maometto, 123-124, 135. Margolis M., 192n. Maritain J., 212. Marx K., 16, 74, 159.

Mattelart A., 182. Mawdudi A., 139. McLuhan M., 119, 165-171, 175177, 189n. McQuail D., 171n, 172. Merrill J.C., 171. Merzenich M., 178. Miquel P., 87. Mises von L., 38, 152. Modigliani A., 171n. Montaigne M. de, 25, 115, 198199n, 207-209. Mooney C., 141n, Morales A.R., 192n. Naisbitt J., 158. Nassib S., 135. Negroponte N., 50, 100-101, 161, 166. Nelson T., 164. Nietzsche F., 22, 43n, 45, 98, 209. Noelle-Neumann E., 171n. Obama B., 194-196. O’Neill P., 111n.

Paccagnella L., 171n. Packard V., 197n. Paine T., 66. Paolo (santo), 18, 187, 198, 206. Palast G., 128. Pallister D., 128. Pascal B., 178, 182. Passet R., 58. Patekis K., 189n. Perelman M., 67n, 75, 78-79. Pericle 187n. Perse E.M., 171n. Phillips K., 85. Phillips W., 85. Pickett K., 16. Piettre A., 39n, 62. Pinochet A., 145, 147-150. Platone, 120, 162, 179-180n, 197. Polanyi K., 4, 97n. Polanyi M., 38.

235

Popper K.R., 31. Prometeo, 19-21. Quéau P., 121.

Rand A., 33, 54-55. Rawls J., 51. Raymond D., 85. Reagan R., 85. Rees-Mogg W., 101-102. Reisman G., 33, 54-55n. Remini R.V., 71. Resnick R., 192n. Rheingold H., 183. Rice C., 127, 136. Rieff D., 141n. Rist G., 121. Riva G., 176-177. Roberts D., 172. Robertson P., 142n. Rockefeller J.D., 83. Roosevelt F.D., 127. Roosevelt T., 83. Rosanvallon P., 114. Ross A., 73n. Rothbard M.N., 54-55n. Rove K., 123n. Ruppert M., 128n, 140. Russell B., 17, 63, 198-199n.

Salin P., 42n. Sartori G., 183-184, 189-190n. Say J.B., 42n. Schmitt C., 122. Schopenhauer A., 155. Schumpeter J., 55, 95-96. Seymour R., 127n, 142n. Silverstein K., 129. Simonazzi M., 72. Small G., 178. Smith A., 25, 32, 35-37, 39n, 4041, 47-48, 52-53, 60, 63, 6667n, 75-76, 78, 90, 98, 100102, 108. Smith B., 87-88. Spencer H., 43, 86n. Spinoza B., 15.

236

Stagliano R., 197n. Stalin I.V., 165. Stevenson N., 167n. Stiglitz J., 81, 97n, 109-112, 153. Street J., 189n. Stuart Mill J., 70, 80, 107. Suri S., 129.

Tapscott D., 102-103, 193-195. Taylor P.A., 189. Thatcher M., 97. Terenzio Afro P., 13. Thiers A., 87. Thirion A., 57. Thomson D., 87. Tigar M.E., 75 Tocqueville de A., 43, 70-71, 212. Toffler A., 102. Tommaso d’Aquino, 68, 186n. Torvald L., 103, 163. Tucidide, 187n. Tucker J., 107. Ulisse, 19. Umberto I (re), 27.

Van Dijk J., 158, 177. Vaughn K., 37. Vernant P., 21. Vidal G., 107. Virgilio Marone P., 19. Virilio P., 160. Vonnegut K., 165.

Wallace P., 206, 210. Wedgewood J., 79. Wilkinson R., 16 Williams A.D., 102-103. Williams E., 89. Winner L., 191. Wolf M., 171n. Wolfowitz P., 141. Wozniaz S., 164. Zeus, 19. Ziegler J., 63. Zuckerberg M., 194.

Indice

Prefazione di Umberto Galimberti

7

Prologo

13

Capitolo primo L’innocenza del divenire

27

Capitolo secondo La logica del dominio

65

La favola cattiva: armonia umana, ironia della storia L’armonia prestabilita Boschi e semafori: metafore dell’«ordine spontaneo» Un mondo perfetto: la società in Rete La favola dell’homo œconomicus

L’armonia ambigua: pace, commercio e spirito cristiano Il peccato originale Il grande bluff del libero mercato La fine delle illusioni L’ultima illusione: il mercato nell’epoca della Rete La teologia dei «cattivi samaritani»

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Capitolo terzo Due 11 settembre, quattro torri gemelle

L’eterna favola della lotta fra il Bene e il Male La guerra come continuazione dell’economia con altri mezzi Fondamentalismo religioso e fondamentalismo del mercato I due 11 settembre e la «carovana della morte»

Capitolo quarto L’ultimo Dio

Il digitale: rivoluzione umana o post-umana? Medium e messaggio. L’uomo come «organo sessuale» della tecnica Percezione, pensiero, azione. Metamorfosi dell’essere umano Dalla democrazia alla mediacrazia L’ultimo Dio Postilla: verso una società post-umana?

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Bibliografia

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Indice dei nomi

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Volume di pagine 240 carta naturale con legno, spessorata, riciclabile, Lux cream, 70 gr/mq

Finito di stampare nel febbraio 2012 dalla Dedalo litostampa srl, Bari

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