Lo stile classico. Haydn, Mozart, Beethoven 8845927695, 9788845927690

Se c'è un'epoca nella storia della musica che nessuno ha mai esitato a definire aurea, certamente è quella del

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Italian Pages 626 [640] Year 2013

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Lo stile classico. Haydn, Mozart, Beethoven
 8845927695, 9788845927690

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Se c’è un’epoca nella storia della musica che si possa definire aurea, certamente è quella del «grande triumvirato»: i sei-sette decenni — dai primi exploit compositivi del giovane Haydn (mentre Mozart già stupiva l'Europa) alla morte di Beethoven nel 1827-che videro nascere «un’arte nuova». Benché divisi da «caratteri diversissimi e concezioni espressive spesso diametralmente opposte», Haydn, Mozart e Beethoven forgiarono uno stile unitario, duttile ma inconfondibile, in grado di sublimare le «pos-

sibilità artistiche dell’epoca», ma anche di consumare come un fuoco i «residui ormai insignificanti delle tradizioni precedenti». Uno stile la cui perfezione ha reclamato,

appunto, la definizione di classico. Che cosa ha reso possibile questa prodigiosa sintesi, e che cosa si cela dietro l’incanto che secoli dopo ancora ci pervade all’ascolto? . Sistematico nella sua disamina ma elegante e lieve nell’esporla, tecnico ma restio ai tecnicismi, Rosen spezza il circolo vizioso dei modelli analitici astratti, e. restituisce

con sapienza «il senso della libertà e della | vitalità» di questo stile, tra formularità e arguzia, sperimentalismo e convenzione. Così, la sua interpretazione della «forma sonata» ci fa comprendere come nelle mani . di Haydn, Mozart e Beethoven la musica divenga finalmente capace di una drammaturgia senza parole: un teatro di suoni in cui il contrasto fra tensione e stabilità, regolato da stringenti logiche interne, attinge

un’inedita potenza emozionale. A chi lo segue in questo viaggio di scoperta e ascolto, Rosen promette «quel piccolo incremento di genuino piacere musicale che si accompagna alla comprensione». Pianista e musicologo, Charles Rosen (New York, 1927-2012) ha realizzato fondamentali registrazioni di Beethoven, Schumann, Debussy, Stravinskij, Boulez, Carter. Di lui Adel-

phi ha pubblicato nel 1997 La generazione romantica. Questa traduzione dello Stile classico

si basa sull’edizione ampliata del 1997, che rispetto alla prima (1971) comprende fra l’altro un'ampia nuova Prefazione e un capitolo sugli ultimi anni di Beethoven.

Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/lostileclassicon0000rose

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DELLO STESSO AUTORE: La generazione romantica

CHARLES ROSEN

Lo stile classico Haydn, Mozart, Beethoven EDIZIONE

AMPLIATA

ADELPHI EDIZIONI

TITOLO ORIGINALE: The Classical Style Haydn, Mozart, Beethoven

Traduzione di Riccardo Bianchini e Gaia Varon

Cura editoriale di Gaia Varon

© 1997, 1972, 1971 CHARLES ROSEN FIRST PUBLISHED BY NORTON 1997

All rights reserved © 2013 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO WWW.ADELPHI.IT

ISBN 978-88-459-2769-0

INDICE

Prefazione alla prima edizione

13

Una nuova prefazione

15

Ringraziamenti

DI

Nota bibliografica

33

Nota sugli esempi musicali

39 LO STILE CLASSICO

PARTE

PRIMA.

39 41 DO 69

INTRODUZIONE

1. Il linguaggio musicale del tardo Settecento 2. Teorie della forma 3. Le origini dello stile

PARTE

SECONDA.

LO STILE

83 85 133

CLASSICO

1. La coerenza del linguaggio musicale 2. Struttura e ornamentazione

PARTE

TERZA.

HAYDN

DAL

1. Il quartetto per archi 2. La sinfonia

1’7/70 ALLA

MORTE

DI MOZART

145 147 185

PARTE

QUARTA.

L’OPERA

PARTE

QUINTA.

MOZART

209

SERIA

290 234 327 355

1. Il concerto

2. Il quintetto per archi 3. L’opera buffa

PARTE

SESTA.

HAYDN

DOPO

LA MORTE

DI MOZART

1. Lo stile popolare

2. Il trio con pianoforte 3. La musica sacra

397 399 423 441

1. Beethoven

453 455

2. Gli ultimi anni di Beethoven e le convenzioni della sua infanzia

533

PARTE SETTIMA.

BEETHOVEN

EPILOGO

DOA

Indice dei nomi e delle opere

613

A Helen e Elliott Carter

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ZANGLER: Was hat Er denn immer mit dem dummen Wort « klassisch » ? MELCHIOR: Ah, das Wort is nit dumm, es wird nur oft dumm angewend tt. NESTROY, Einen fux will ersich machen

[ZANGLER: Perché Lei ripete sempre quella stupida parola, «classico »? MELCHIOR: Ah, la parola non è stupida. Soltanto, viene

spesso usata stupidamente].

PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Non ho cercato, in questo libro, di offrire una rassegna della musica del periodo classico, ma di descriverne il linguaggio. In musica, come in pittura e in architettura, i princìpi dell’arte « classica » non furono codificati (0, se si vuole, « classicizzati ») che dopo la scomparsa degli impulsi che l'avevano generata: ho tentato di restituire il senso della libertà e della vitalità dello stile. Mi sono limitato alle tre figure principali dell’epoca perché, per quanto sia ormai fuori moda, insisto nel credere che

siano i traguardi da loro raggiunti a fornire i termini entro i quali anche il vernacolo musicale può essere compreso al meglio. Se è possibile distinguere fra l’inglese corrente intorno al 1770 e lo stile letterario, poniamo, di Samuel Johnson, è molto più difficile tracciare una netta linea di demarcazione fra il linguaggio musicale del tardo Settecento e lo stile di Haydn - e non è neppure certo che valga la pena di accollarsi lo sforzo necessario. Si ritiene spesso, ma io non concordo, che i massimi artisti si rivelino

tali solo se guardati sullo sfondo della mediocrità che li circonda: in altre parole, che le qualità drammatiche

di Haydn, Mozart e Beethoven di-

pendano dal loro aver violato gli schemi ai quali i loro contemporanei avevano abituato il pubblico. Se ciò fosse vero, l’effetto delle sorprese

drammatiche di Haydn dovrebbe progressivamente diminuire man mano che esse ci diventano familiari. A ogni amante della musica accade esattamente l’opposto. Le facezie di Haydn suonano più argute a ogni nuova esecuzione. Si può senz'altro arrivare a conoscere un’opera così bene da non poterne più sopportare l’ascolto. E tuttavia, per non prendere che i due esempi più banali, il primo movimento dell’ Eroica suone-

rà sempre immenso e il richiamo della tromba della Leonore n. 3 sempre sconvolgente a chiunque riascolti l’uno o l’altro. La nostra aspettativa non proviene infatti dall’esterno, bensì dal brano stesso: ogni opera mu-

PS

sicale stabilisce condizioni proprie. Come lo faccia, in che modo ogni singola opera crei il contesto entro il quale si svolgerà il dramma, è ciò di cui principalmente tratta questo libro. Mi interessano dunque non solo il significato e la portata della musica (che è sempre così difficile tradurre in parole), ma anche come essa possa fare proprio e trasmettere quel significato. Per dare un’idea dell’ampiezza e della varietà dell’epoca, ho seguito per ogni compositore lo sviluppo di generi diversi. Era scontato scegliere il concerto, il quintetto d’archi e l’opera comica per Mozart, la sinfo-

nia e il quartetto per Haydn. Una disamina dei trii con pianoforte di Haydn illustra la peculiarità della musica da camera con pianoforte dell’epoca. Per l’opera seria una trattazione separata era necessaria; gli oratori e le messe di Haydn hanno fornito l’occasione per affrontare in termini generali la questione della musica sacra. Il rapporto di Beethoven con Mozart e Haydn avrebbe senz'altro richiesto un’indagine più ampia, ma la maggior parte degli esempi necessari si potevano trarre agevolmente dalle sonate per pianoforte. Grazie a questo sotterfugio spero di avere toccato tutti gli aspetti importanti dello stile classico. New York, 1970

14

UNA NUOVA PREFAZIONE

Venticinque anni dopo la sua prima pubblicazione, questo libro mi sembra l’opera di qualcuno che conosco appena e delle cui azioni non porto alcuna responsabilità. La gentilezza dell'editore, che ne propone una nuova edizione, mi costringe però ad affrontare, sia pur brevemente, alcune delle critiche più interessanti che il libro ha suscitato e forse

anche a verificare e chiarire qualche malinteso. Se mi accingessi oggi a scrivere questo libro, lo farei in maniera così diversa che ogni ipotesi di una revisione sostanziale mi è parsa impraticabile. Ho aggiunto però un capitolo su Beethoven per definire con maggior precisione il rapporto che lo lega ai due celebri compositori che l’hanno preceduto. In una recensione molto generosa, Alan Tyson ha disapprovato che avessi cominciato la mia disamina dei quartetti di Haydn dall’op. 33 anziché dalle opere 17 e 20, che a suo giudizio avrebbero meritato di essere maggiormente approfondite. Gli ho chiesto se la mia descrizione di ciò che chiamiamo stile classico gli sembrasse troppo restrittiva e ritenesse opportuno modificarla in maniera tale da potervi includere le opere 17 e 20 di Haydn; o se invece, secondo lui, sbagliassi nel ritenere che i primi quartetti non rispondano ancora a quei requisiti che nella mia defini zione di stile classico sono essenziali. Mi ha risposto di non saper indicare con certezza quale sia, in quest’alternativa, la risposta più appropriata, ma di essere da sempre convinto che sia necessario studiare le opere

precedenti per comprendere le successive. Ovviamente, seguendo questo principio si regredirebbe all’infinito, ma questo è un problema insito in ogni studio storico. (Che le opere 17 e 20 siano troppo belle per non meritare un’analisi più estesa è forse, per chi ama la musica di Haydn, un argomento più convincente). È tuttavia l’op. 33 che segna la comparsa nella produzione quartettisti-

ca di Haydn di ciò che Guido Adler, nel suo articolo sul classicismo vien-

be)

nese nello Handbuch der Musikgeschichte (1924), definisce « accompagnamento obbligato » — una fattura musicale in cui le voci di accompagnamento, pur subordinate a quella principale, sono create a partire dagli stessi motivi su cui sono costruiti i temi più importanti. E una tecnica essenziale per il metodo dello sviluppo tematico in Haydn, come anche in Mozart, in Beethoven e in quasi tutta la musica successiva dell'Europa

occidentale. L'espressione

«accompagnamento obbligato » è ignota al

New Grove (1980), ma era quantomeno nota a Beethoven, che disse una

volta di essere venuto al mondo con un accompagnamento obbligato e di non conoscerne altro. La tecnica di trarre l’accompagnamento dai motivi della voce princi-

pale era stata in effetti elaborata da Haydn nelle sinfonie composte subito prima dei quartetti dell’op. 33.' La sua dichiarazione che l’op. 33 era stata composta secondo princìpi interamente nuovi è stata spesso liquidata come una trovata pubblicitaria, ma io credo che vada invece presa alla lettera: è in queste composizioni che Haydn applicò per la prima volta alla produzione quartettistica le sue sperimentazioni sinfoniche; qui inoltre sviluppò un originale senso ritmico, in parte ispirato all’opera buffa. In ogni caso, ciò che a me stava a cuore dello stile classico non

erano tanto le origini (per quanto concordi sul fatto che conoscerle sia di aiuto per la comprensione generale) quanto la sua costituzione. Volevo capire cosa l’avesse reso così efficace. La fattura musicale classica ha senz'altro molte e diverse fonti. Nel 1984, Eric Weimer, rimproverandomi di aver ignorato il ruolo dell’opera seria, ha messo in evidenza come numerosi tratti dello stile strumen-

tale di Haydn fossero stati sviluppati nelle opere di Jommelli e J.C. Bach nel decennio che precedette l’op. 33. In quest’ultima Weimer riconosce come realmente nuovo solo «il modo in cui Haydn prende ordinari frammenti di accompagnamento (si potrebbe anche chiamarli canonici motivi ritmici dell’accompagnamento) e conferisce loro un’identità melodica per poi usarli, con discernimento e in modo sistematico, tanto

nella melodia quanto nell’accompagnamento ». Io non pretendevo, mi pare, nulla di diverso, ma è proprio quest’innovazione che continua ad apparirmi come la pietra di paragone del contrappunto classico. La rinascita del contrappunto nel tardo Settecento è stata messa in luce nel

1801 da Triest (conosciuto solo con il cognome) in una brillante serie di articoli, pubblicati sulla « Allgemeine Musikalische Zeitung», sullo sviluppo della musica strumentale tedesca: sotto il potente influsso dell’opera, il declino dello stile contrappuntistico aveva condotto a una pre1. Ho trattato di questo sviluppo nel mio Sonata Forms, edizione riveduta, Norton, New York, 1988, pp. 177-87 [trad. it. Le forme sonata, EDT, Torino, 2011, pp. 187-99].

2. Eric Weimer, Opera seria and the Evolution of Classical Style Press, Ann Arbor, 1984, pp. 46-94.

16

1755-1772, UMI Research

dominanza di banali figure di accompagnamento anche nelle opere strumentali; dopo la metà del secolo, diversi musicisti, deplorando questa prassi, fecero uno sforzo concertato mirato a recuperare la ricchezza dell’antico stile contrappuntistico. Si può osservare che un’ambizione di questo genere si manifesta già nelle fughe dei quartetti delle opere 17 e 20 di Haydn come in quelli coevi di Florian Leopold Gassman; ma entro certi limiti qui non si tratta che della reviviscenza di una tradizione del passato. Solo con le sinfonie degli anni Settanta e con iquartetti dell’op. 33 Haydn riuscì a conciliare la moderna gerarchia fra melodia e accompagnamento — che garantiva tanta chiarezza alle sue fatture musicali —

con il complesso dettaglio contrappuntistico — che conferiva alla sua Opera una potenza inedita. Anche James Webster farebbe cominciare lo stile classico, nella misu-

rain cui il termine conserva per lui una qualche utilità, una decina d’anni prima della composizione

dell’op. 33. In uno

studio ammirevole,

Haydn's «Farewell» Symphony and the Idea of Classical Style (Cambridge, 1991), mi accusa, col massimo garbo, di un pregiudizio nei confronti della prima produzione di Haydn. Poiché il suo saggio è la migliore trattazione di quel primo periodo che sia mai stata scritta, sono disposto a dargli ragione. Gli devo senz’altro una comprensione più profonda delle opere composte prima del 1780, alle quali avrei dovuto render migliore giustizia; le poche pagine che ho dedicato a esaminarne alcune tradiscono

già un certo senso di colpa per non aver fatto di meglio. Webster lascia però l'impressione che nulla di essenziale sia cambiato nella musica di Haydn dopo il 1780. E vero, e io stesso l’ho scritto in questo libro, che le

opere tarde esibiscono raramente la passione straordinaria che si incontra nelle migliori composizioni degli anni Settanta, ma esse danno prova in compenso di una padronanza finissima dei collegamenti fra ritmo della frase e movimenti armonici su larga scala nonché di una duttilità che nella tecnica compositiva di Haydn è del tutto inedita.' Le sinfonie londinesi, per esempio, non dispiegano forse maggior potenza delle opere migliori degli anni Settanta, ma sono certamente più efficaci. Haydn sarebbe ritenuto un grande compositore anche se non avesse

scritto più nulla dopo la Sinfonia degli Addti, ma la storia della musica sarebbe stata molto diversa. Il dibattito su quando abbia avuto inizio lo stile classico è inscindibile dal rimprovero che mi è stato rivolto, per certi aspetti pienamente giustificato, di aver tralasciato tutti i compositori minori. In storia si dan1. Webster ritiene che io rimproveri allo stile giovanile di Haydn una certa « a-periodicità». Poiché esamino diffusamente la natura periodica dell’organizzazione delle frasi nelle prime opere, credo che su questo punto Webster sia in errore. Nelle opere tarde, Haydn tratta il periodo in modo tale da farne una notevole fonte di energia musicale;

durante gli anni Settanta, quando la sua tecnica è meno flessibile, per ottenere qualcosa di simile a quella spinta ha bisogno di materiali che abbiano in sé un carattere energico.

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no due prospettive, in parte, ma non del tutto, inconciliabili fra loro. Per alcuni studiosi, la storia è ciò che si ricorda: essi desiderano fissare sulla

carta solo ciò che tradizionalmente è stato ritenuto memorabile. Altri desiderano restituire il caos originario che vigeva in una data epoca, prima che singoli individui ed eventi che vi appartengono fossero giudicati meritevoli di essere ricordati, e sottrarre infine all’oblio compositori ingiustamente dimenticati e le loro opere immeritatamente sepolte. I primi sono personaggi noiosi, che si limitano a riprodurre, con varianti minori, il lavoro degli studiosi che li hanno preceduti; a questi è impossibile non preferire storici più stimolanti, capaci di trasformare la nostra visione dei fatti. Quelli del secondo tipo, tuttavia, non possono effettivamente riprodurre nella loro interezza gli eventi del passato e sono dunque costretti a elaborare un proprio sistema di selezione, che rischia di essere ancora più arbitrario e disorientante di quello tradizionale. Un’interpretazione o un giudizio fondati sulla tradizione hanno dalla loro almeno questo: sono un fatto storico assodato quanto qualsiasi altro. Noi possiamo esagerare la confusione di quell’epoca, ma un dato è certo: attorno alla fine degli anni Ottanta del Settecento la supremazia di Haydn e Mozart era indiscussa. Ogni pretesa di rivalità, anche di personaggi celebri quali Paisiello o Piccinni, non fu mai presa seriamente in considerazione se non da qualche giornalista. L'idea di decine o addirittura centinaia di compositori, tutti altrettanto degni di attenzione, fra i quali solo la posterità avrebbe infine operato una scelta è del tutto fantasiosa. Negli anni Ottanta del Settecento, l’imperatore Giuseppe II invitò Dittersdorf a leggere un breve saggio di sua composizione sui meriti rispettivi di Haydn e Mozart: non scrisse niente di simile su Wagenseil e Monn. Ora del 1805, Beethoven era riconosciuto in tutt Europa come il principale compositore di musica strumentale persino da coloro che per le sue opere nutrivano solo avversione e ritenevano che dopo la morte di Mozart la musica fosse deplorabilmente volta in peggio.' Osservare, come taluni hanno fatto, che Haydn, Mozart e Beethoven cominciarono a

essere qualificati come classici solo nell'Ottocento avanzato è cercare il pelo nell’uovo. Almeno dal 1805, i tre erano già visti come un gruppo coerente, e furono loro, e non altri, a definire lo stile classico viennese.

E quale che sia stata, l'influenza di quello stile sulla successiva storia della musica è passata esclusivamente attraverso le loro opere. Webster ha reso un grande servigio agli amanti della musica perorando la causa delle opere giovanili di Haydn; io stesso ho cercato di fare qualcosa di utile accreditando i trii di Haydn come capolavori non riconosciuti. Ma sono state le sinfonie e i quartetti scritti negli ultimi decenni della sua vita a incarnare, allora e per almeno due secoli a venire, il prestigio dello stile 1. Vedi il mio The Frontiers ofMeaning, Hill and Wang, New York, 1994, capitolo 2 [trad. it. Il pensiero della musica, Garzanti, Milano, 1995].

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classico. Leggendo gli articoli di Triest del 1801 si può constatare come gli intenditori dell’epoca concordassero non solo nell’accantonare le opere e la musica sacra di Haydn, ma anche nel considerare la sua produzione pianistica meno significativa di quella di Clementi o persino del giovane Beethoven (purché questi temperasse la sua propensione all’eccentricità).

Robbins Landon mi ha amabilmente rimproverato per il capitolo sulla musica sacra di Haydn: «I fantasmi dei nostri antenati vittoriani abitano ancora fra noi, persino con Charles Rosen ».! Ma la delusione suscitata dalla musica sacra di Haydn non risale ai tempi della regina Vittoria; è il giudizio espresso dai contemporanei di Haydn, da E.T.A. Hoffmann, da Triest, da Ludwig Tieck- e dallo stesso Haydn, che riteneva le proprie composizioni sacre inferiori a quelle del fratello Michael, compositore tristemente mediocre. Ci sono ovviamente singole pagine splendide, intere sezioni magnifiche e le ultime due messe sono superbe dall’inizio alla fine. Ma fingere che nell’ultimo quarto del Settecento mettere in musica testi religiosi non ponesse cruciali problemi stilistici, e anche ideologici, sarebbe antistorico. E impedirebbe di valutare appieno la riuscita della Harmoniemesse di Haydn o della Missa solemnis di Beethoven. Era quanto mai arduo trovare per i testi liturgici una forma moderna e Robbins Landon si tradisce quando descrive le messe di Haydn come « ammirevolmente rappresentative del barocco settecentesco nella Germania meridionale e in Austria»: quando Haydn scrisse gran parte delle sue messe, quello stile era morto e sepolto. Non c’è nulla di male nello scrivere in uno stile consunto, se non quando ciò provoca disagio in chi lo usa e nei suoi contemporanei. Ho provato a mettere in luce — troppo succintamente, ne convengo — che cosa ostacolasse la creazione di un

moderno stile sacro fra il 1780 e il 1820: i successi emersero eroicamente contro ogni probabilità. Per ragioni analoghe, il capitolo sull’opera seria avrebbe tratto vantaggio dall’affrontare non solo le cause stilistiche, ma anche quelle ideologiche del declino del genere — ossia dell’opera seria italiana, poiché in quella francese le innovazioni conobbero un notevole successo (il Fide-

lio, per esempio, deve assai poco all’opera seria italiana e molto invece alle forme operistiche francesi che Beethoven piegò ai propri scopi grazie allo studio del teatro mozartiano, soprattutto del Così fan tutte). Negli ultimi decenni del Settecento, l’opera seria aveva perso buona parte dell’importanza che aveva avuto in precedenza. Quando il giovane Mozart ascoltò le opere dell'ultimo vero maestro del genere, Niccolò Jommelli, le giudicò di qualità, ma obsolete. Dopo /domeneo, Mozart non si

diede più pena di trovare commissioni di opere serie: quando capitò 1. H.C. Robbins Landon, Haydn: Chronicle and Works. IV: The Years of « The Creation », 17961800, Indiana University Press, Bloomington, 1980, p. 165.

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l'occasione della Clemenza di Tito, dovette scriverla a gran velocità e non

ricorse quasi alla ricca inventiva che abbonda nelle sue altre opere. L'opera seria italiana fu poi trasformata da Rossini, ma è una storia che non appartiene a questo libro - né, del resto, ad alcun libro che io possa scrivere. Devo forse scusarmi per aver usato un linguaggio fuorviante, se è potuto accadere che Joseph Kerman abbia scritto: Rosen si compiace di dare l’impressione che lo stile classico dipenda perfettamente dalla perfetta integrazione di melodia, armonia, ritmo e fattura sonora, una perfezione che difficilmente i compositori minori potevano rag-

giungere ... Non credo però che si possa seriamente mettere in dubbio il fatto che nel comporre la sua serenata [K 388] Mozart si sia appoggiato, per dirla con Ratner, «su formule conosciute e universalmente

accettate per

l’organizzazione del brano e per la gestione dei dettagli » ... Quando Beethoven, trent'anni più tardi, cominciò a deviare radicalmente dalle norme accettate, perse in effetti il suo pubblico.!

Non intendo affatto mettere seriamente in dubbio che Mozart sì appoggiasse su stereotipi, e ho anche aggiunto, in quest'edizione, svariate pagine su Beethoven proprio per mostrare come anch'egli vi facesse affidamento assai più di quanto comunemente si pensi. Sono convinto però che alcuni critici (non Kerman) abbiano frainteso l’uso e l'efficacia

di quelle formule. Un principio basilare dell’estetica tardosettecentesca è che la poesia possa superare la natura arbitraria del linguaggio facendolo apparire naturale, ossia ogni volta reinventato sul momento secondo le esigenze di ciò che si vuole esprimere. Un principio analogo si applica a un buon uso dello stereotipo, dove il trucco sta nel farlo suonare come se lo si fosse appena inventato. In altre parole, nel dare l'illusione che la formula sia stata creata per l’occasione. Neppure a Mozart il trucco riesce sempre, ma senz'altro abbastanza spesso. Perché funzioni ci vuole un coordinamento eccezionale di frase, ritmo armonico, contenuto tematico e linea della struttura complessiva. L'eccellenza di Mozart non sta solo, e nemmeno prioritariamente, nella capacità di violare le aspettative suscitate dalle formule convenzionali del suo tempo, ma nella sua abilità nel far suonare lo stereotipo aggraziato e generato da una necessità interna di quel particolare pezzo. Prendiamo un esempio fra i tanti: il ritorno della tonica assieme al tema principale è un procedimento abituale in tutte le diverse forme-sonata. Un compositore può applicarlo in maniera puramente meccanica oppure fare in modo che si percepisca come la tonica si vada avvicinan1. Joseph Kerman,

p. 69.

20

Write AU These Down, University of California Press, Berkeley, 1994,

do e il tema principale stia per essere suonato di nuovo. Ci sono ovviamente mezzi stereotipati per arrivarci, ma i compositori potevano inventare nuovi percorsi che creassero un effetto di necessità. L'esempio più celebre è forse il primo movimento della Sinfonia in sol minore di Mozart: io immagino che anche un ascoltatore che ignorasse tutto della forma sinfonica percepirebbe l’approssimarsi del ritorno del tema completo nella tonalità originaria già molte battute prima dell’inizio della ripresa. Quel che è certo è che la potenza di questa transizione dipende poco o nulla dal rispetto o dalla violazione di una norma condivisa. E chiaro però che qualcosa non va nel mio modo di esprimermi, poiché anche Mark Evan Bonds, in un interessante ed eccellente libro sulla

struttura retorica, mi accusa di trascurare gli stereotipi.' Sceglie però infelicemente un esempio che, anziché confutarla, sembra avvalorare la mia posizione. Bonds cita il primo movimento del Quartetto in fa maggiore op. 59, n. 1, in cui lo sviluppo inizia con la ripetizione delle prime battute del movimento, creando così nell’ascoltatore l’impressione (errata) che, conformemente allo stereotipo del genere, stia cominciando la ripetizione dell’esposizione. Ma in quale ascoltatore? Evidentemente solo in uno che oda il brano per la prima volta. Al secondo ascolto chiunque saprà certamente che l’esposizione in effetti non si ripete. Alle successive esecuzioni il brano risulterà allora meno efficace? Questo è l’inconveniente di ogni analisi che assuma come criterio il rispetto o la violazione delle norme: non distingue fra le aspettative che il simgolo brano genera potentemente dal proprio interno a ogni esecuzione e quelle che provengono dall’esterno. Non che queste ultime non siano importanti: è da esse che un pezzo trae il proprio carattere e la propria identità. L’anomalo inizio dello sviluppo rende l’op. 59, n. 1 diversa dalle altre composizioni dell’epoca — bisogna tuttavia ricordare che appena uno o due anni prima Beethoven aveva scritto due sonate, op. 31, nn. 1 e 2, dove pure lo sviluppo comincia con le battute d’apertura alla tonica, ma dove l'esposizione è invece regolarmente ripetuta. Beethoven prescrive il ritornello in entrambi i casi ed è evidente che sulla questione delle ripetizioni rifletté a lungo durante tutto il corso della sua vita. Sappiamo anche però che esecutori senza troppi scrupoli non rispettavano tutte le ripetizioni prescritte. E possibile allora che quelle Sonate siano state talvolta eseguite senza i ritornelli e che in quei casi si creasse un effetto artistico paragonabile a quello dell’op. 59, n. 1? In ogni caso, per come agisce sull’ascoltatore preparato, la deviazione dalla norma all’inizio dello sviluppo dell’op. 59, n. 1 è insignificante rispetto al trillo sospeso del movimento lento dell’op. 111 o alla modulazione al 1. Mark Evan Bonds, Wordless Rhetoric: Musical Form and the Metaphor of Oration, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1991, pp. 15-16.

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re maggiore nel sestetto del Don Giovanni (si veda alle pagine 530 e 364), passaggi che producono un effetto fisico a ogni ascolto. La deviazione da una forma riconosciuta può avere conseguenze significative o irrilevanti a seconda di come è preparata. Alla fine del Settecento, una ripresa che inizi alla sottodominante è inconsueta e tuttavia, nelle rare volte in cui è sperimentata, suona del tutto nella norma,

semplicemente perché poggia su un aspetto importante del sistema tonale com'era concepito all’epoca. E insolito anche che un brano inizi in una tonalità maggiore e risulti poi essere nel relativo minore, ma anche questo è un procedimento che funziona in modo assai convincente (p. 152). AI contrario, un inizio in do maggiore che poi sveli un fa maggiore produce ancora un effetto bizzarro ed eccentrico, ancorché spettacolare (p. 149). Da un analogo inizio nella tonalità sbagliata il movimento lento dello Scherzo musicale di Mozart trae un carattere graziosamente sciocco, inetto e tuttavia incantevole. Rispettare o trasgredire una norma non ha valore in sé; essa acquista senso solo se è compresa e usata in tutta la sua portata, e il modo classico di rendere la norma intelligibile è far sì che la musica ne richieda l’esistenza, ne sottenda la necessità. Gli

stereotipi non sono applicati in modo meccanico oppure evitati al solo scopo di produrre una sorpresa: esigono di essere giustificati a ogni nuovo uso. E ciò che accade nei casi più riusciti. E per questo motivo che la relazione di una nuova opera con la forma preesistente è così problematica. In che misura un’opera innovativa dipende dalla nostra aspettativa di una forma convenzionale? Fino a che punto quelle attese possono essere considerate fastidiosi residui di cui è necessario sbarazzarsi perché la nuova forma possa essere compresa per ciò che è? Nessuno ha insistito quanto H.C. Robbins Landon sulla necessità di ricontestualizzare Haydn e Mozart nella prospettiva dei compositori che li hanno preceduti, e tuttavia, a proposito del Concerto in mi

bemolle maggiore K 271, egli scrive: In questo concerto Mozart, come Haydn nelle Sinfonie nn. 42, 45 o 47, fa

quietamente esplodere la forma che gli era stata tramandata dai predecessori: il K 271 è decisamente lontano dalla forma e dal contenuto del concerto preclassico.

Lo studio del concerto preclassico è dunque rilevante per la nostra comprensione del K 271? Senza dubbio sì, ma forse non quanto sì com-

piacciono di pretendere gli specialisti. Walter Benjamin osservava, a pro1. Si vedano i brillanti commenti di Webster sul trattamento haydniano dell’inizio del-

l’op. 33, n. 1 e della ripresa in Haydn's «Farewell » Symphony, cit., pp. 127-30. 2. H.C. Robbins Landon, The Concerto, in The Mozart Companion, a cura di H.C. Robbins Landon e Donald Mitchell, Faber and Faber, London, 1956, p-.249.

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posito dello studio dei generi, che le opere eccezionali creano un genere oppure lo distruggono e che le eccezionali fra le eccezionali fanno entrambe le cose.

Molte questioni minori toccate nel testo meriterebbero una revisione. Sull’aggiunta di ornamentazione nei concerti per pianoforte di Mozart, sono dell'opinione, come gia sua sorella Nannerl, che i movimenti lenti

non composti a beneficio di altri interpreti abbiano imperativamente bisogno di essere riempiti in alcuni punti — per esempio, il ritorno del tema principale nel movimento lento del K 488. Gli ampi salti di registro non vanno però toccati perché imitano quelli vocali che Mozart scriveva nelle opere per i suoi soprani più dotati. I modelli di ornamentazione offerti all’epoca sono spesso insulsi, in particolare quello riprodotto nelle note critiche relative al K 488 della Neue Mozart-Ausgabe. I soli modelli affidabili sono quelli forniti dal compositore stesso. Ciò che ho chiamato forma sonata di movimento lento potrebbe esser meglio definita come forma « cavatina ». E la forma ordinaria delle parti estreme dell’aria col da capo: un'esposizione e una ripresa, senza ripetizioni dell’una o dell’altra né inserimento di uno sviluppo. Nel Settecento, un'aria senza una sezione centrale e successiva ripresa da capo era chiamata « cavatina ». Era questa la forma prediletta di Federico il Grande di Prussia, stufo, pare, come del resto molti altri all’epoca, della for-

ma col da capo; compositori come Graun scrissero per lui opere in cui le

arie erano quasi tutte cavatine. Che Mozart e altri abbiano usato spesso questa forma per i movimenti lenti mostra lo stretto legame esistente all’epoca fra la musica strumentale e l’opera. Chiamarla forma di « sonatina» sarebbe assurdo: non conosco alcun movimento di sonatina con questa forma e neppure si tratta di una forma abbreviata dell’ « allegro di sonata», bensì di una forma a sé, stilisticamente imparentata con altre forme-sonata. È anche fondamentale per l’ouverture e la si ritrova nella maggior parte di quelle di Mozart, Rossini e Berlioz. Sull’opportunità di suonare il basso continuo nei concerti di Mozart,

posso solo riconfermare la mia opinione: è perfettamente legittimo purché rimanga inudibile. Ho del resto ascoltato di recente alcune esecuzioni su copie di strumenti d’epoca e posso garantire in piena tranquillità che, quando l’orchestra suona forte, la parte del continuo non è udibile anche se il pianista picchia sui tasti col massimo vigore. L'unico autografo mozartiano che possediamo con il basso continuo scritto per esteso (K 246) indica semplicemente che il pianista completa l’armonia 1. Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, in Gesammelte Schriften, Vols. Suhrkamp, Frankfurt, 1974, «Erkenntniskritische Vorrede », p. 225 [trad. it. Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino, 1971, « Premessa gnoseologica », p. 230

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quando l’orchestra suona forte: quando invece le dinamiche sono più delicate, il solista non suona affatto o si limita a raddoppiare la linea del basso (si veda p. 246). L'ipotesi che questa parte sia stata scritta per un’esecuzione senza i fiati è rafforzata dalla partitura del Concerto in re maggiore K 537 detto dell’Incoronazione, predisposta, secondo un catalogo dello stesso Mozart, per un’esecuzione alternativa con i soli archi. In quest'opera, l’unico punto in cui i fiati hanno un ruolo solistico esecutivamente indispensabile si trova nell’ultimo movimento (bb. 137-38 e 141-42, poi le battute parallele a partire dalla 288) e qui il pianista suona un semplice basso albertino con la mano sinistra mentre la destra è lasciata libera di interpolare i brevi inserti dei fiati — esattamente come nel K 246 il basso continuo raddoppia la melodia esclusivamente nell’unico punto in cui i fiati non sono raddoppiati dagli archi. Con ogni evidenza, Mozart nei suoi concerti ricercava un contrasto drammatico fra solista e orchestra modellato sull’aria d'opera e questo fu un elemento importante nella trasformazione che egli apportò al ge-

nere. Christoph Wolff mi ha segnalato che il manoscritto del K 271, tornato alla luce quando la sua edizione del Concerto per la Neue MozartAusgabe era ormai in stampa, mostra che in un passaggio di decisq contrasto fra pianoforte e orchestra Mozart inserì alla mano sinistra alcune pause per evitare che il solista intervenisse in quel punto, fosse anche tasto solo. Non sono l’unico a deplorare l’intrusione del basso continuo dove non é richiesto. Robbins Landon riporta una recensione di una sinfonia di Haydn eseguita a Londra poco prima che vi arrivasse il compositore: Le Sinfonie di Haydn, che furono presentate per la prima volta a Vauxhall martedì sera, smetteranno di avere il loro consueto effetto se Mr Barthele-

mon non semplificherà la sua maniera di eseguirle e se l’organista non limiterà l’opera delle sue dita a quei potenti forte che soli necessitano di tale contributo.! Anche dopo l’esaurirsi della sua necessità estetica, il basso numerato

continuò a essere usato per svariati decenni, principalmente perché offriva utili punti di riferimento per direttore e solista. Quando però, nelle edizioni ottocentesche dei concerti pianistici, le indicazioni del basso continuo furono eliminate, i curatori commisero alcuni errori di rilievo

e cancellarono anche frammenti delle parti solistiche. Le lacune più disastrose si trovano nel Concerto n. 4 in sol maggiore di Beethoven, dove sono state espunte alcune note del basso che dovrebbero essere tenute col pedale dal pianista; si trovano due passaggi del genere nel finale, 1. H.C. Robbins Landon, Haydn: Chronicle and Works. II: Haydn at Esterhaza, 1766-1790, Indiana University Press, Bloomington, 1978, p. 596.

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mentre nel primo movimento, all’inizio della ripresa, il piano dovrebbe

entrare sul battere con una potente ottava al basso (meglio ancora sarebbe che il pianista suonasse anche nelle due precedenti battute forte perché qui la musica esige un’autentica continuità fra tutti e solo). In un'offensiva in piena regola condotta di recente da Carolyn Abbate, Roger Parker e James Webster contro la nozione di unità tonale nelle opere di Mozart, sono menzionato assieme a Joseph Kerman come uno dei principali propagatori di tale perversa ortodossia. Spendo dunque qualche parola in proposito, in aggiunta a quelle che già scrissi molti anni fa per questo libro. E ben vero che su quest'argomento, come su qualsiasi altro, sono state prodotte anche tante sciocchezze. Contrariamente a quanto sembrano pensare questi autori, a esercitare un’influenza decisiva sulla faccenda non fu l’opera del teorico wagneriano Alfred Lorenz, bensì quella del massimo studioso mozartiano, Hermann Abert.

Lungi dall'essere asservito al wagnerismo, Abert è stato soprattutto uno studioso di opera settecentesca — particolarmente di Jommelli e Gluck — ed era già morto quando Lorenz pubblicò le sue stravaganti improvvisazioni su temi mozartiani. Ancora oggi, gran parte degli studiosi angloamericani si colloca in una posizione svantaggiosa trascurando il lavoro di Abert, che è senz'altro superato per quanto concerne i dettagli della

biografia mozartiana, ma quasi mai mette un piede in fallo su questioni musicali. La sua trattazione fondamentale sulle relazioni tonali nelle opere non va ricercata tanto nella sua celebre biografia mozartiana quanto nell’introduzione alla partitura Eulenburg delle Nozze di Figaro, dove troviamo una disamina elaborata e sistematica della struttura tonale dell’opera e di come questa si connetta con l’azione drammatica. Il meraviglioso buon senso di Abert si misura da una sua osservazione sull’inizio del quarto atto (con le arie di Barbarina, Marcellina e Don Basilio) : qui, spiega, manca un'effettiva struttura tonale perché il libretto non forniva a Mozart alcuna azione che egli potesse tradurre in musica. Il valore delle relazioni tonali nell'opera dipende, ovviamente, dal progredire dell’azione nel libretto. L’aver messo in rilievo, come alcuni di noi, incluso Kerman, hanno fatto, le svariate analogie fra i procedi-

menti operistici di Mozart e la tecnica sonatistica non significa credere che un’opera si fondi su un’organizzazione rigorosa quale quella di un movimento sinfonico o anche solo che i diversi numeri siano stretta1. Carolyn Abbate e Roger Parker, Dismembering Mozart, « Cambridge

Opera Journal», 2,

2, 1990, pp. 187-95; e James Webster, Mozart's Operas and the Myth ofMusical Unity, « Cambridge Opera Journal », 2, 2, 1990, pp. 197-218. Webster deplora (p. 200) che Opera as Dramadi Kerman sia stato ripubblicato inalterato, cosa che « non fa che accentuare il suo

essere datato ». Forse però non è necessario aggiornarlo, dato che il « clima critico attuale », così cruciale per Webster, sarà ben presto datato a sua volta.

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mente legati fra loro quanto i movimenti in una sinfonia. Confutare simili assurdità

è come sfondare un portone non semplicemente aperto,

ma che nessuno si è mai sognato di chiudere. Resta il fatto che le diverse forze che strutturano le forme dei brani puramente strumentali entrano in gioco anche nel genere operistico. E possiamo affermare senza esitazioni che nell’opera settecentesca quelle forze agiscono in piena potenza ed efficacia solo con Mozart. I princìpi stilistici su cui egli si regola sono gli stessi per l’opera e per la musica strumentale, per diverse che siano le esigenze specifiche di ciascun genere. L’idea che le opere di Mozart debbano molto allo stile sonatistico non è del resto una recente perversione di analisti moderni. L’avevano notato già Ernest Newman e George Bernard Shaw, che non vi vedevano certo un pregio, ma, al contrario, da wagneriani lo deploravano (benché Shaw avesse il buon senso di riconoscere come la realizzazione di forme-sonata abbia di rado nuociuto alle opere di Mozart).

Oggi serpeggia però nel dibattito una curiosa animosità. L'esempio sempre usato come banco di prova è il finale del secondo atto delle Nozze di Figaro, la più lunga sezione dell’opera che non sia interrotta da recitativi, unanimemente ammirato per l’emozionante progredire dal duetto e terzetto al settetto mentre l’azione drammatica si fa via via sempre più intricata. La struttura tonale si apre con un ortodosso contrasto fra toni ca e dominante, prosegue con una teatrale rottura sulla mediante e riconduce infine, attraverso una logica serie di dominanti, alla tonica ini-

ziale. Abbate e Parker ascrivono l’ammirazione per i finali mozartiani all’influenza di Wagner, benché il librettista delle Nozze, Lorenzo

Da

Ponte, abbia scritto esplicitamente che la struttura di un finale è la parte più importante di un’opera poiché è lì che compositore, librettista e cantanti possono dispiegare al meglio i propri mezzi.' (E anche vero che Mozart, in una celebre lettera al padre riguardo all’ /domeneo, sostiene

fermamente che i pezzi d’assieme richiedono uno stile di canto diverso dalle arie: a queste sì addice lo stile lirico 0 spianato, a quelli il parlando). Abbate e Parker definiscono il secondo atto delle Nozze «un juggernaut armonico »,° una metafora che ritengono tanto adeguata da ripeterla pochi paragrafi più tardi. Un juggermautèun carro mostruoso sotto le cui ruote erano schiacciati e sacrificati i devoti dell’auriga divino. È difficile

capire perché Abbate e Parker si sentano schiacciati dalla mostruosa progressione del finale mozartiano. E non è ragionevole recriminare, come essi e Webster fanno, che gli analisti scelgano perlopiù i pezzi d’assieme per dimostrare la logica tonale delle opere, trascurando il fatto 1. «In questo [il finale] principalmente deve brillare il genio del maestro di cappella, la forza de’ cantanti, il più grande effetto del dramma» (Memorie, Rizzoli, Milano, 1960, p.96).

2. Art. cit., p. 194. 26

che proprio di questi Mozart stesso andava particolarmente fiero. Nessuno ha contribuito quanto Mozart a spostare il centro di gravità di un’o-

pera dall’aria al pezzo d’assieme. Capisco che un simile cambiamento possa dispiacere agli appassionati della vocalità barocca, ma che lo studioso si concentri di norma sugli assiemi è ineccepibile. È per mezzo di

essi che Mozart delinea alcuni dei personaggi principali delle sue opere, basti pensare a Don Giovanni e Don Alfonso. E senz'altro un peccato che alle arie non si sia prestata maggiore attenzione, ma le innovazioni mozartiane più stupefacenti — se non le più sottili — nel campo della tecnica operistica riguardano i pezzi d’assieme e sono soprattutto questi che distinguono la sua produzione dalle altre opere dell’epoca.

Ho il sospetto che buona parte di questo risentimento provenga da un preciso nodo (vexata quaestio è il cliché appropriato): come e fino a che punto queste relazioni tonali possano o debbano essere percepite e quanto importanti siano. E chiaro che si può gustare, e dunque in buona misura comprendere, un’opera di Mozart senza riconoscerne consapevolmente la costruzione tonale. E tuttavia che Mozart, almeno a partire dalla Entfiihrung aus dem Serail, abbia scelto di cominciare e concludere ogni opera nella medesima tonalità non può non aver influito sulla costruzione interna dell’opera stessa. Una rapida disamina del finale dell’ultimo atto delle Nozze di Figaro può contribuire a fare chiarezza. La brevità della sezione in re maggiore del finale ha generato svariati commenti. Al contrario di Abbate e Parker, Webster ne difende la stabilità tonale, sottolineando come essa sia

preparata da un potente passaggio alla dominante; aggiunge poi fra parentesi, quasi a scagionarsi dall’essere ricaduto nella vecchia ortodossia: «Naturalmente, questa risoluzione non ha nulla a che vedere con la forma sonata ». Ce l’ha, invece, a meno che non si intenda la forma sonata in senso ristretto e letterale, come fa Webster. In questo finale dell’ul-

timo atto, la conclusione è preceduta da una lunga sezione alla sottodominante sol maggiore. In una sonata, la sottodominante si trova normal mente subito dopo l’inizio della ripresa; Haydn l’introduceva spesso appena prima della ripresa e Beethoven la spostava frequentemente nella coda. Si può anche cominciare la ripresa alla sottodominante. In ogni caso, la sua importanza in questa parte della forma era chiara a tutti o quasi i compositori di musica strumentale dell’epoca. Nel finale di sonate e sinfonie, lo spazio accordato alla sottodominante è in genere

maggiore che negli altri movimenti. Non solo i rondò hanno perlopiù una sezione centrale alla sottodominante, ma persino un finale in forma

di primo movimento (come quello della Sonata per pianoforte in fa maggiore K 332 di Mozart) può avere un tema indipendente alla sottodominante nel mezzo dello sviluppo. L’enfasi sulla sottodominante nel finale del quarto atto delle Nozzeèinequivocabile. Abert sottolinea la sua disposizione simmetrica: 27

re— sol- mi bemolle — si bemolle — sol — re

Nel suo complesso, la struttura tonale del finale è direttamente connessa all’azione drammatica: il cambiamento più stupefacente è il passaggio al mi bemolle maggiore quando Figaro si convince che il Conte stia amoreggiando con Susanna. Il colpo di genio di Mozart è di farne un momento magico e poetico, quasi una celebrazione dell’amore — qui Da Ponte gli fornisce un testo elevato, con riferimenti classici, in cui Figaro si paragona dolorosamente a Vulcano tradito da Venere. Mi bemolle è la tonalità più lontana del finale e la fattura sonora è qui la più squisita. Mozart è stato splendidamente originale nel trattare questo apice di tensione drammatica e armonica come un Larghetto espressivo, racchiuso fra il più veloce sol maggiore che precede e l’Allegro molto che segue. È un momento di stasi in cui si trattiene il respiro. I corni hanno qui una doppia funzione: instaurano un’atmosfera pastorale e alludono alla tradizionale associazione fra corna e tradimento. Porre al centro dell’opera la tensione armonica è però parte integrante dell’estetica della sonata. Altri felici esempi di analoghi momenti di quiete distesa si trovano in uno sviluppo del Concerto in si bemolle maggiore K 595 di Mozart e nel Quartetto in si bemolle maggiore op. 130 di Beethoven (e ambedue i passaggi sono associati a una tonalità lontana). Anche la penultima sezione del finale, in sol maggiore, è regolata secondo i principi della sonata. Dopo lo sviluppo armonico e tematico che accompagna le minacce di punizione da parte del Conte e il rimorso simulato di Susanna e di Figaro, quando la Contessa entra e si unisce alle suppliche degli altri l'armonia risolve tornando alla tonica per poi essere spinta nella direzione dei bemolle (in questo caso la tonica minore) dalla successiva agitazione pianissimo, movimento anch'esso tradizionale in questo punto della forma sonata. Si potrebbe dire che Mozart abbia adattato le proprie concezioni strumentali alle esigenze drammatiche, ma mi pare preferibile mettere in rilievo come quelle concezioni gli servano per realizzare musicalmente il libretto. Il ruolo del mi bemolle maggiore nel punto di massima tensione richiama ovviamente il finale del secondo atto che comincia e finisce appunto in mi bemolle maggiore. In Mozart, la tonalità principale del finale centrale dell’opera è sempre armonicamente distante dalla tonalità in cui l’opera si apre e si chiude. Ci sono altri due casi importanti in cui il finale ultimo richiama, in un punto di grande tensione, la tonalità del finale centrale. In Così fan tutte, il re maggiore del finale centrale ritorna nel mezzo del finale ultimo (basato su do maggiore) quando gli uomini fingono di tornare dalla guerra e si presentano dunque senza i travestimenti da albanesi, facendo precipitare la situazione. Nella Zauberflòte, il mi bemolle maggiore che incornicia il finale secondo conduce a un apice drammatico in do maggiore, la tonalità del finale primo, al 28

momento delle prove dell’acqua e del fuoco (la polarità fra do maggiore e mi bemolle maggiore è peraltro istituita fin dall’inizio dell’opera e nel finale ultimo trova il suo compimento).

Fino a che punto Mozart si aspettava che queste relazioni venissero percepite? Ovviamente non lo sappiamo, ma allenarsi a riconoscerle non è difficile per chi, come molti musicisti e come indubbiamente lo stesso Mozart, abbia l'orecchio assoluto. (Queste relazioni erano tuttavia più importanti per i contemporanei di Mozart di quanto non lo siano per noi oggi). E vero anche che il re maggiore delle Nozze non è stabilito fermamente quanto il re minore del Don Giovanni, benché l’aria di Bartolo (n. 5) reinstauri chiaramente la brillantezza dell’ouverture e la se-

quenza iniziale di re maggiore, sol maggiore, si bemolle maggiore, fa maggiore, re maggiore soddisfi tonalmente quanti preferiscono trovare le tonalità dissonanti al centro e la risoluzione alla fine; il successivo

duetto in la maggiore prolunga l’area di re maggiore. Ciò che deve però essere rilevato è il ruolo che il mi bemolle maggiore riveste nell’interezza delle Nozze. Compare inizialmente quando Cherubino descrive la sua adolescenziale inquietudine erotica, e l’ingresso di questa tonalità, dopo il la maggiore del duetto precedente, è stupefacente. Gioca poi un ruolo chiave nel terzetto in si bemolle maggiore in cui Cherubino è sorpreso camuffato sotto un abito della Contessa. Torna quindi nella prima aria della Contessa, un’invocazione all'amore. Domina il finale del secondo atto con il suo straordinario imbroglio. Nell’ultimo atto riveste l’aria di Figaro tradito e chiaramente Mozart ha bisogno di questa tonalità per il gioco di parole fra «corna » e corni (tradizionalmente associati al mi bemolle maggiore). Tutte queste ricorrenze nel corso dell’opera conferiscono alla tonalità uno spessore che si manifesta pienamente nel finale ultimo. Non è mia intenzione accodarmi alle tante assurdità già espresse sul significato delle tonalità e presentare il mi bemolle maggiore come un simbolo di erotismo. Resta il fatto che dall’inizio alla fine dell’opera questa tonalità interviene per esprimere angoscia e inquietudine emotiva, il che rafforza l’idea che Mozart abbia concepito, come una sorta di tonalità fondamentale dell’opera, il re maggiore nella sua polarità dissonante col mi bemolle maggiore. Non so se Mozart volesse che queste relazioni fossero percepite dal pubblico, ma sì può certamente affermare che una parte degli ascoltatori ne è toccata, sia pure senza esserne consapevole.

Ciò che rende più sottile la questione dell’ascolto è che una struttura del genere non tiene conto di quanto accade durante i recitativi. Che i

recitativi non abbiano un ruolo significativo nella struttura tonale è del resto un elemento centrale della concezione mozartiana delle relazioni tonali nell’opera. Il principio fondamentale è che ogni numero non interrotto da un recitativo o da un parlato debba cominciare e finire nella stessa tonalità. E chiaro che per Mozart il recitativo era quasi una sorta di 29

non-musica, come il dialogo parlato. Un’opinione che si riflette in quella di Da Ponte che nelle Memorie definisce il finale come il numero in cui «si canta » senza interruzione. Ciò significa che per cogliere le relazioni fra le tonalità in un’opera si devono ignorare le modulazioni, talvolta interessanti, dei recitativi (che, come le arie, non sono mai stati studiati davvero a fondo, se non forse da Abert). E inoltre evidente che le versio-

ni originali delle opere, prima che Mozart ne facesse delle revisioni, riflettono al meglio le sue concezioni tonali.' Nella produzione originale di Praga del Don Giovanni, il salto di tritono, nel secondo atto, fra l’aria

in si bemolle maggiore di Don Ottavio e la scena del cimitero produce un possente effetto drammatico che fu certamente sciupato nella versione viennese. Dobbiamo ancora concordare con Abert sul fatto che alcune sequenze delle opere mozartiane sono strutturate più rigorosamente di altre. L’inizio di Così fan tutte è una splendida forma chiusa (ouverture in do maggiore, poi sol maggiore, mi maggiore, do maggiore), quasi fin troppo prossima all’estetica sonatistica con la sua successione di tonica-dominante-tonalità lontana-risoluzione alla tonica. In altre sezioni la costruzione è più flessibile, ma contestare che Mozart intendesse stabilire all’inizio di ciascuna opera la tonalità d’esordio come fondamentale sarebbe un puro capriccio. Altrettanto assurdo mi sembrerebbe negare che Mozart abbia sfruttato, ogni volta che era possibile, la struttura del libretto per organizzare le sequenze secondo gli stessi princìpi tonali a cui accordava tanta importanza negli altri generi compositivi. E non meno assurdo sarebbe costringere le opere in uno schema esoterico e dogmatico che si dimostra limitato non appena si cerca di applicarlo. In ogni caso, l’intelaiatura tonale, estremamente flessibile, che Mozart ela-

borò per le sue opere appaga l’intelletto e possiede una propria bellezza. L'orecchio, certo, non coglie facilmente tutte le sfaccettature degli schemi mozartiani, ma si può imparare a riconoscerne almeno una parte all’ascolto, e trarne se non altro quel piccolo incremento di genuino piacere musicale che si accompagna alla comprensione. New York, 1997

1. Le revisioni della versione di Praga di Don Giovanni in vista delle rappresentazioni viennesi cercano in generale di conservare, almeno in parte, le relazioni tonali. Da «Or

sai chi l'onore » all’Aria dello champagne c’è un salto di mediante, da re a si bemolle; interpolarvi « Dalla sua pace » in sol preserva sostanzialmente la mediante di base dell’area del re maggiore nel passaggio al si bemolle. Perché Mozart non ha collocato questa nuova aria del tenore là dove aveva eliminato «Il mio tesoro » nel secondo atto? Senz'altro perché voleva in quel punto un pezzo brillante e virtuosistico e lì, dunque, in luogo

dello sfoggio tenorile, ha inserito la nuova versione del « Mi tradì » che era stato costretto

a scrivere per l’Elvira di Vienna.

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RINGRAZIAMENTI

E impossibile esprimere la mia gratitudine per i singoli contributi di idee che ho ricevuto nel corso delle numerosissime conversazioni con amici, ciascuno a turno capace di trovare un esempio utile per illustrare l’osservazione di un altro. Nell'ambito del pensiero musicale, molte del-

le idee che compaiono in questo libro non sono che moneta corrente, il frutto dell'esperienza accumulata da tutti i musicisti che hanno suonato e ascoltato le musiche in questione. Nella maggior parte dei casi, non saprei più, quand’anche volessi, distinguere le mie idee da quelle lette, apprese dai miei insegnanti o semplicemente ascoltate nel corso di una

conversazione. Ben più facile è invece rendere conto dell’aiuto inestimabile di cui ho beneficiato durante la stesura di questo libro. Sono profondamente indebitato con la cortesia e l’ammirevole pazienza di Sir William Glock, che ha letto l’intero manoscritto, migliorandone coi suoi innumerevoli consigli sia lo stile sia il contenuto. Henri Zerner, della Brown University, ha contribuito a ogni tappa del lavoro e apportato correzioni e miglioramenti considerevoli; senza i suoi tagli, inoltre, il libro sarebbe un po’ più lungo e assai meno chiaro. Sono grato anche a Kenneth Levy, dell’Università di Princeton, che ha letto la prima metà del manoscritto e l’ha perfezionato in molti punti. (Degli errori che restano sono ovviamente il solo responsabile). Vorrei ringraziare ancora Charles Mackerras, David Hamilton, Marvin Tartak, Sidney Charles della Università di California, a Davis, e Lewis Lockwood dell’Università di Princeton, che mi hanno fornito materiali di cui non disponevo o non ero a conoscenza, e

Mischa Donat, che ha preparato l’indice dei nomi e delle opere.

La mia gratitudine va anche a Donald Mitchell, di Faber Music, per

avermi incoraggiato quando due soli capitoli del libro erano stati scritti e per l’aiuto incalcolabile che mi ha dato in seguito; a PiersHembry, che

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ha curato la riduzione degli esempi musicali; e a Paul Courtenay, che li ha così ammirevolmente copiati. Devo più di quanto non possa esprimere al sostegno incessante e al lavoro editoriale di Aaron Asher, sia quando era alla Viking Press sia dopo che l’ebbe lasciata, e all’intelligenza e al tatto di Elisabeth Sifton, che

mi ha aiutato nelle revisioni finali e ha reso le ultime tappe produttive del libro ben più piacevoli di quanto un autore non abbia diritto di aspettarsi. (dalla Prefazione alla Prima edizione, 1970)

Sono grato a David Hamilton e a Claire Brook, della W.W. Norton & Company, che mi hanno permesso di correggere alcuni errori contenuti nella prima edizione di questo libro. Rettificarli è stato per me un piacere quanto per i miei amici scovarli. Sono in debito con molte persone per il loro aiuto, ma devo citare innanzitutto una lettera di Paul Badura-

Skoda in cui egli, con grandi generosità e gentilezza, discute in modo minuzioso molti punti del mio libro e che mi ha permesso di apportare numerose correzioni. Ho ricevuto comunicazioni anche da John Rothgeb, Alan Tyson e uno studente dell’Università di Toronto di cui conservo l’anonimato solo perché non sono mai riuscito a sapere il suo nome.

Esclusivamente mia è, naturalmente, la responsabilità dell’uso

che ho fatto di tutte queste osservazioni. Di recente, leggendo il saggio di Arnold Schoenberg su Brahms mi sono reso conto che l’analisi che vi si trova dei due temi della Quinta sinfonia di Beethoven coincide quasi esattamente con la mia. Benché non lo ricordi, è molto probabile che io abbia letto anni fa il saggio di Schoenberg. Riporto quest'esempio di plagio inconsapevole solo per mettere in evidenza come gran parte di questo libro sia necessariamente un bene comune e non una proprietà individuale. Su una materia così centrale nella nostra esperienza musicale, il solo merito che un libro possa avere è di illuminare — con una luce in qualche modo nuova — aspetti della musica già rilevati e, almeno in parte, compresi.

(dalla Prefazione all'edizione Norton Library, 1972)

Nel preparare il materiale per la nuova edizione, desidero ringraziare

per il loro aiuto generoso Lewis Lockwood, Scott Burnham, Kristina Muxfeldt e David Gable. New York, 1997

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Sulla musica del tardo Settecento e del primo Ottocento non c’è un libro davvero soddisfacente; con tutti i suoi limiti è invece un’opera magnifica Music în the Baroque Era (1947) di Manfred Bukofzer, e sono consapevole di quanto i concetti generali che vi sono sviluppati mi siano serviti per capire quel periodo. Ineguagliato finora per l'esame dello stile mozartiano è poi WA. Mozart (1923) di Hermann

Abert. Fra i numerosi articoli di Tovey su Mo-

zart, il migliore è il saggio sul Concerto in do maggiore K 503. L'analisi della Sinfonia in sol minore condotta da Heinrich Schenker è forse il suo studio più stimolante sullo stile classico. RAythmic Gesture in Mozart di Wye Jamison Allanbrook è stato fonte di nuove intuizioni e Autonomie und Gnadedi Ivan Nagel fornisce un'interessante e inedita interpretazione delle opere di Mozart. Su Haydn, tutti dobbiamo gratitudine per i loro lavori a Jens Peter Larsen e H.C. Robbins Landon, in particolare a quest’ultimo per l’edizione completa delle sinfonie. La traduzione di Emily Anderson della corrispondenza di Mozart e di Beethoven, l’edizione curata da Robbins

Landon delle lettere e dei diari di Haydn, le biografie documentarie di Mozart e di Schubert a opera di O.E. Deutsch hanno reso disponibile in inglese buona parte delle fonti. I cinque volumi di Robbins Landon sulla vita di Haydn sono oramai imprescindibili. La migliore disamina del lavoro di Haydn antecedente al 1780 è Haydn's «Farewell» Symphony and the Idea of Classical Style di James Webster. Troppo copiosa è la letteratura su Beethoven perché sia possibile non ripetere ciò che già altri hanno scritto, ma ho cercato almeno di rendere

conto di ogni pubblicazione che mi abbia fornito informazioni di cui non ero a conoscenza o suggerito qualcosa di rilevante per la mia tratta-

zione. Su una materia così ampiamente discussa, la precedenza in termi33

ni di pubblicazione non è particolarmente significativa: per esempio, in «Beethoven Forum » (vol. 1, 1992, p. 123) Kinderman menziona le quar-

te parallele nel tema della fuga del Trio dello Scherzo e fa riferimento a un saggio di Alfred Brendel del 1990, ma io ne avevo già discusso nelle note di copertina di un’incisione degli anni Sessanta. Nei centosettant’anni trascorsi da quando l’opera è stata scritta, devono essere stati parecchi i pianisti che hanno notato quella relazione. Dove non si pongono questioni critiche i riferimenti bibliografici non sono granché interessanti; ho cercato di riportare solo le controversie che mi parevano importanti. La biografia di Thayer resta fondamentale per ogni studio su Beethoven; l'edizione migliore è quella curata da Elliot Forbes (1964), che nel libro cito semplicemente come Thayer. L’incompiuto Beethoven di Tovey è oggi sottovalutato. Testi attualmente di riferimento sono la biografia di Maynard Solomon e il volume di Joseph Kerman sui quartetti. La miglior trattazione della recezione beethoveniana è Beethoven Hero di Scott Burnham. Ogni studioso è in debito con Robert Winter e Douglas Johnson per le loro ricerche sugli schizzi beethoveniani. Fra i più interessanti studi stilistici recenti su Beethoven vanno annoverati quelli di Robert Hatten, William Kinderman e Lewis Lockwood; di quest’ultimo, i lavori

sull’op. 69 e sull’Eroica sono fondamentali.

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NOTA SUGLI ESEMPI MUSICALI

Sono grato agli editori per aver generosamente acconsentito a che ogni argomento importante trattato nel libro fosse corredato di esempi, talvolta anche molto estesi. Abbiamo cercato di fare in modo che il volume possa essere letto anche senza disporre delle partiture. Non avevo il preciso intento di citare i miei passi preferiti, ma senz’altro me ne sono lasciato scappare parecchi. Ho tentato, in ogni caso, di garantire un certo equilibrio fra opere più e meno note. Nel ridurre le partiture cameristiche e orchestrali, raggruppando strumenti diversi su un unico pentagramma, ho cercato di combinare la facilità di lettura con la possibilità di avere sott'occhio tutti i dettagli della partitura completa. Nella quasi totalità dei casi dovrebbe essere possibile ricostruire la partitura originale: gli esempi in cui non tutto è indicato sono contrassegnati da un asterisco (*). Gli estratti orchestrali o quartettistici riportati su un doppio pentagramma non sono dunque in alcun caso trascrizioni pianistiche, ma semplici traslitterazioni degli originali — benché leggerli al pianoforte sia ovviamente un’ottima idea che io stesso ho sovente messo in pratica, simulando ciò che rimaneva fuori dalla portata delle dita. Ho usato i migliori testi a disposizione senza tentare di uniformarli, anche se talvolta ho tralasciato indicazioni dinamiche che si ripetevano identiche per entrate successive di diversi strumenti. Solo un’abbreviazione, il segno più (+), richiede di essere spiegata: designa il raddoppio (all’unisono, salvo indicazione contraria). In altre parole, «FI. » significa che in quel punto della linea melodica il flauto subentra, «+ FI. » che lo strumento indicato in precedenza continua a suonare, ora raddoppiato

dal flauto. Ho privilegiato la facilità di lettura rispetto all’uniformità: spero che le incongruenze non confondano e non scandalizzino nessuno. 35

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PARTE QUARTA L'OPERA SERIA

Vous avez écrit votre pièce d’après les principes de la tragédie. Vous ne savez donc pas que le drame en musique est un ouvrage imparfait, soumis a des régles et a des usages qui n’ont pas le sens commun, ilest vrai, mais qu'il faut suivre a la lettre. CARLO GOLDONI, Mémoires, 17787, capitolo XXVIII

1. «Mi pare che abbiate scritto l’opera vostra secondo i canoni della tragedia. Non sapete dunque che il dramma in musica è un’opera imperfetta, sottoposta a regole e usanze che

sono prive, è vero, di senso comune, ma che devono essere applicate alla lettera » (Carlo Goldoni, Memorie, Einaudi, Torino, 1967, p.128) [N.d.T].

L'OPERA SERIA

Affrontando il problema della tragedia settecentesca (del suo fallimento o, in altre parole, della sua inesistenza) è indispensabile tenere conto

dei limiti del linguaggio artistico. In musica come in letteratura, la tragedia profana rimase un ideale irrealizzabile. Ai giorni nostri, l’opera seria in scena non è che una curiosità; alle più riuscite è concessa una sorta di esistenza crepuscolare, non in quanto opere d’arte dotate di unità e compiutezza, ma solo in virtù della bellezza delle singole parti che le compongono. Se circoscriviamo, e forse non è saggio, la nozione di «forma » a un modo per integrare i particolari entro una concezione più ampia, l’opera seria non può essere una forma, ma solo un metodo di costruzione. La forma complessiva non prese mai vita, ma sono talvolta di una vitalità esuberante le singole componenti: le arie delle opere di Cavalli, di Alessandro Scarlatti e di Handel, i brani d’insieme di Rameau, quasi ogni pa-

gina dell’ /domeneo di Mozart. Il compositore più prossimo a una vera riuscita fu Gluck nel periodo sperimentale in cui lo stile classico non si era ancora propriamente affermato e il tardo barocco non sembrava più in grado di sostenere l’ispirazione. Almeno tre opere di Gluck toccarono vertici drammatici sconosciuti nella musica profana dei cent'anni precedenti, ossia da Monteverdi in poi (il dramma religioso poneva problemi completamente diversi). Ma anche qui si trovano pagine di una tale incoerenza sul piano armonico e ancor più su quello ritmico che solo con riserva si può accordare a Gluck una supremazia musicale. Il fallimento più sorprendente è quello di Mozart. La coerenza armonica e ritmica, che Gluck ottenne solo a prezzo di sforzi che lasciarono segni ben percettibili, riuscì a Mozart con un agio precluso a qualsiasi altro compositore. Eppure nell’/domeneo quella padronanza del movi mento ritmico su larga scala sembra talvolta averlo inspiegabilmente abbandonato; l’azione non è convincente benché l’ispirazione sia sempre 24

di livello elevato. Ancora più sconcertante, seppure in modo molto diverso, è La clemenza di Tito, l’ultima opera di Mozart: scritta (in fretta e

furia, è vero) nel periodo in cui nascevano alcune sue composizioni

somme, è un’opera di grazia squisita e di un tedio quasi senza remissione. Mi è capitato solo di ascoltarla

e non di vederla in scena, ma non rie-

sco a credere che un allestimento, sia pure eccellente, la possa riscattare. La clemenza di Tito possiede tutta la finezza delle migliori opere mozartia-

ne (la sua musica è sempre bella), ma è una partitura straordinariamen-

te dimenticabile. Mozart fu senza dubbio capace di esprimere il tragico, ma lo fece nel genere comico, ossia nell'opera buffa e nel Singspiel. Che persino un compositore di tale levatura non sia stato capace di infondere vita all'opera seria è stato imputato alle restrittive convenzioni proprie del genere. C'è indubbiamente qualcosa di comico in una convenzione che, per garantire al protagonista la possibilità di tornare e inchinarsi per gli applausi, lo costringe ad abbandonare la scena quando dovrebbe attendere il responso alla proposta di matrimonio che ha appena formulato in guisa di aria. Ma anche Mozart fronteggiò nel genere comico situazioni altrettanto distruttive per la verosimiglianza. Nella Entfuihrung aus dem Serail, informata dal Pascià delle torture che l’attendono se non si piegherà ai suoi voleri, Konstanze deve starsene ferma e aspettare due buoni minuti di introduzione in stile concertante prima di poter replicare: la sua aria, con tutto il virtuosismo vocale che comporta, con la cadenza scritta per esteso e accompagnata dai soli fiati, non è meno ostica per il regista di una produzione teatrale odierna che per il soprano. Un coscienzioso realismo registico distrae inevitabilmente l’attenzione dello spettatore dal ritornello: come spiegare la lunga attesa prima della risposta? Konstanze sta riflettendo? E muta di rabbia? Tremante di paura prima di raccogliere il coraggio di urlare che le torture saranno vane? Deve camminare su e giù? Sedersi? Assumere un atteggiamento e mantenerlo imperturbabilmente per due minuti? Al tempo di Mozart, ovviamente, non si poneva un problema del genere, né simili questioni di psicologia del personaggio. Mozart si rendeva conto della considerevole lunghezza di quest’aria e si giustificò semplicemente dicendo che non aveva potuto fermarsi prima, ma nel Singspiel il problema di tenere desta l’attenzione del pubblico si sovrapponeva solo in parte alla questione del mantenimento dell'illusione naturalistica. Il soprano aspettava semplicemente perché un’aria concertante di quelle dimensioni e di quell’importanza drammatica richiedeva un ritornello lungo. Si potrebbe obiettare che l’aria concertante è una convenzione dell’opera seria, non del Singspiel, e che qui il ridicolo è dunque il riflesso di un genere di per sé infelice. Quando però il regista affronta la situazione

senza troppi patemi, non c’è nulla di ridicolo: l’aria è necessaria sul piano drammatico ed è un brano splendido. Se diventa un impiccio è in

parte perché i registi continuano a lavorare entro una tradizione di psi Sia

cologia naturalistica totalmente estranea all’opera settecentesca; e in parte perché ritengono inconcepibile che la musica proceda a sipario aperto e non ci si inventi alcunché che riempia uno spazio percepito come vuoto. Oggi come oggi, persino la rinuncia a ogni azione scenica

di Konstanze in quel ritornello sarebbe avvertita come un effetto incongruo. Ma anche nel più infelice degli allestimenti, si impongono con assoluta evidenza la bellezza drammatica e la potenza di quest’aria e della sua posizione all’interno dell’opera, che garantisce al primo atto il peso necessario e recupera la brillantezza dell’ouverture (nonché la sua tonalità, che è poi quella dell’opera intera). Spostate nel contesto dell’opera comica, le convenzioni dell’opera seria sembrano funzionare. Chi non voglia sospendere l’incredulità troverà del resto ridicole anche le convenzioni dell’opera buffa. All’inizio delle Nozze di Figaro, il protagonista deve misurare il pavimento una seconda volta solo perché la sua musica possa combinarsi con quella di Susanna. Se Wagner poté sbarazzarsi dell’obbligo di ripetere tutto quattro o cinque volte fu soprattutto perché ai suoi tempi le forme che lo prescrivevano erano ormai obsolete, anche se egli addusse ovviamente motivazioni assai più filosofiche. Le sue convenzioni sono però altrettanto formali e poco realistiche, seppure in modi diversi: in un’aria mozartiana i passaggi sono effettivamente ripetuti quattro volte, ma in genere con un andamento comparabile grosso modo a quello del linguaggio parlato; in Wagner tutto è cantato una sola volta, ma quattro volte più lentamente. Del resto l’opera buffa implica convenzioni artificiose quanto quelle di qualsiasi altra forma d’arte: bisogna accettare l’idea che fuori sia abbastanza buio perché un servitore sia scambiato per il padrone solo perché ne indossa il mantello; che basta che un giovanotto metta dei baffi finti perché la sua fidanzata non lo riconosca più; e che uno schiaffo, anziché colpire colui al quale era destinato, piova quasi inevitabilmente sulla testa di un malcapitato vicino. Quanto al Singspiel, le sue assurdità superano di gran lunga quelle dell’opera seria. Il fallimento settecentesco nella creazione di opere eroiche e tragiche durature, tali da sembrarci artisticamente significative ancora oggi, non dipese dalle convenzioni. Handel e Mozart, per citare solo loro, raggiunsero il successo in ogni altro genere e lo mancarono di poco nell’opera seria. E spesso chiamato in causa, per spiegare la debolezza dell’opera seria, il generale fallimento settecentesco della tragedia: il suo ideale poetico fuin campo letterario altrettanto importante che in musica, e il suo scacco tanto ancora più disastroso. Alcune arie delle opere di Handel non hanno perso nulla del loro effetto, singole riprese dell’/domeneo fanno scoprire intere sezioni di grande bellezza, Gluck è arrivato molto vicino alla creazione di uno stile efficace per la tragedia in musica; al contrario, solo un interesse storico induce oggi a leggere le tragedie di Voltaire e di Crébillon, Metastasio è intollerabile se non a piccolissime dosi e anche

2019

gli entusiastici estimatori di Addison e di Johnson non leggono più di un atto alla volta di Cato o di Yrene. Il profondo rispetto per la nobile arte della tragedia e l’incapacità di produrne esempi men che mediocri sono senza dubbio ambedue tratti caratteristici dell’epoca, la cui inettitudine in campo tragico è smisurata: perché aspettarsi dai musicisti più che dai poeti? " Le diverse arti spesso evolvono lungo percorsi pressappoco paralleli (talvolta senza comprendersi a vicenda), ma non bisogna supporre che il successo di una si rifletta su un’intera cultura. La musica elisabettiana non ha nulla della potenza drammatica di ampio respiro che pervade il teatro; la pittura francese del Cinquecento non ha prodotto niente di comparabile a Rabelais; le opere di Verdi non hanno equivalenti nel teatro italiano del tempo. Anche entro i confini di una sola arte, due generi presentano a volte stupefacenti disparità: la poesia francese del Settecento è povera cosa rispetto alla magnifica prosa coeva. Solo una tassonomia sommaria potrebbe però ridurre il secolo dei lumi e della ragione a un'epoca di sola prosa. Tale fu, ci si dice, anche il Settecento

inglese, che tuttavia annovera Pope, Johnson e Smart; in Francia bisogna accontentarsi di Parny e Jean-Baptiste Rousseau: invocare lo spirito del razionalismo non è che una magra consolazione. E un errore attribu-

ire un crimine allo Zeztgeistsenza indagare il modus operandi. Il Settecento non ha prodotto tragedie di rilievo, ma non per mancanza di aspirazioni, di gusto o di favore popolare. Né il talento né l’applicazione riuscirono a creare una forma tragica duratura, mentre la pastorale, genere altrettanto vecchio e sclerotizzato, poté essere riportata in vita.

Rinchiusi nei nostri ideali, siamo forse sordi a quelli di un’altra epoca. Le opere eroiche di Rameau e di Handel, le tragedie di Voltaire e di Addison ebbero al tempo loro ammiratori e persino fanatici. La questione in gioco non è però il successo della tragedia settecentesca entro i propri termini, ma la sua capacità di trascenderli e oltrepassare dunque i suoi confini storici. L'esercizio del gusto è spesso un preciso atto di volontà: Rimski}-Korsakov consigliò a Stravinskij di non ascoltare Debussy perché avrebbe potuto finire con amarne la musica. Uno sforzo di apprezzamento verso l’opera seria è stato fatto. Le opere di HAndel sono state sottratte all'oblio ed è innegabile che contengano pagine splendide; l’inventiva e l’immaginazione del Giulio Cesareeguagliano quelle di /srael in Egypt, ma con risultati assai meno soddisfacenti. Ognuna delle più belle opere di Gluck contiene debolezze che nulla può riscattare e, per quanto sia triste pensarlo, portarle in scena non è altro che un gesto di pietà archeologica. Per resuscitare le opere di Rameau si è tentato di tutto, persino di spargere profumi in sala e usare un’orchestra wagneriana. Quanto all’/domeneo, se fosse stato possibile sarebbe ormai entrato a far parte del repertorio. Gli impresari del Ventesimo secolo, deliziati dalla scoperta che le produzioni di Così fan tutte e Die Entfùhrung aus dem Se214

railriscuotevano un successo quasi pari a quello tributato alle più celebri Don Giovanni, Le nozze di Figaro e Die Zauberflòte, sarebbero stati più che felici di arricchire la pentalogia di una grande opera tragica; e le produzioni di /domeneo non sono certo rare. Ma fra tagli e ritocchi frutto di disperazione si ha ogni volta l'impressione di un repéchage. Né lo stile tardobarocco di Bach, Handel e Rameau né quello classico di Haydn e Mozart si prestavano a dare forma musicale alla tragedia, neppure a opere contemporanee come quelle di Voltaire. Nel primo, le scarse possibilità di transizione del ritmo lo rendevano ingestibile in ambito drammatico; e la pesantezza era accresciuta dal costante ricorso, nel

procedere armonico, a progressioni discendenti. Il movimento drammatico era impossibile: due fasi di una medesima azione non potevano essere rappresentate

che in modo

statico, con una chiara cesura nel

mezzo. Un sentimento non poteva mutare con gradualità: doveva necessariamente cessare a un certo momento per cedere il posto a un altro. Ciò ridusse l’opera eroica barocca a una successione di scene statiche, che hanno tutta la rigida nobiltà di Racine ma ben poco della straordinaria scioltezza del suo movimento interno. La monotonia dell’opera barocca è stata imputata all'uso massiccio dell’aria con da capo, ma questa è la forma che meglio corrisponde alla concezione ritmica di quello stile e che garantisce il massimo di varietà e freschezza grazie alla sezione centrale contrastante. Handel e Rameau, compiendo a tratti veri e propri miracoli, hanno indubbiamente saputo trascendere lo stile, ma questo restava essenzialmente inadatto all’azione drammatica. Ho parlato di tragedia « profana » per evitare ambiguità riguardo alle Passioni di Bach e agli oratori di Handel, ma la questione merita che ci si soffermi. Sull’intensità drammatica di queste composizioni non può esserci alcun dubbio ed è interessante osservare come gli autori l’abbiano ottenuta. Le parti drammatiche delle Passioni bachiane sono concentrate interamente nei recitativi e in alcuni dei cori, inseriti in un quadro complessivo di meditazioni individuali (sotto forma di arie) e collettive (sotto forma di inni). La Passione secondo Matteo è incorniciata da due

grandi tableau: il primo, intensamente visivo, è il cammino verso il Cal vario; il coro finale è la sepoltura di Cristo. La staticità barocca è dunque insieme assunta e superata. Come Mozart toccò il culmine dell’eroico e del tragico solo nell’ambito dell’opera buffa, così Bach realizzò gli effet ti drammatici in un contesto che non si può definire che elegiaco. Persino i recitativi non appartengono al dramma bensì costituiscono una sorta di epica narrativa; e il recitativo non è una forma musicale che possa

da sé reggere a lungo l’interesse. La potenza drammatica delle composizioni bachiane dipende dalla giustapposizione fra recitativi e arie elegiache, corali e cori descrittivi. Al tragico si giunge solo con mezzi che restano prevalentemente narrativi o pittorici. La giustapposizione sostituisce dunque uno sviluppo drammatico im215

possibile entro lo stile barocco ed è questa la soluzione adottata anche da Handel negli oratori. Qui, come in Bach, il contrasto fra coro e voce

sola rende possibile sviluppare una logica drammatica. Nessun oratorio di Handel mostra un’organizzazione intensa come quella delle due grandi Passioni bachiane, in cui ogni frammento è legato strettamente a quelli contigui e il passaggio dal recitativo al commento mediante il corale o l’aria assume una portata considerevole. Ma all’interno dei cori, Hàndel è capace spesso di una potenza drammatica, se non emozionale,

raramente tentata da Bach: sul piano della fattura ritmica, mentre i cori bachiani mantengono un medesimo tessuto omogeneo, Handel impiega due o più blocchi diversi fra loro; senza il minimo tentativo di transizione dall’uno all’altro, li affianca col massimo contrasto e poi li sovrappone, sempre con un'energia motoria la cui potenza emotiva è rimasta insuperata.' Il tessuto musicale è assai più snello che in Bach e la minore intensità è compensata da una maggiore chiarezza. A differenza delle Passioni di Bach, gli oratori di Handel sono opere propriamente pubbliche, fatte per essere eseguite in forma di concerto o con un allestimento minimo, e sono quasi fuori posto in chiesa. Finito due volte in bancarotta come impresario d’opera, Handel realizzò guadagni considerevoli con gli oratori; il pubblico settecentesco accoglieva forse i soggetti hàndeliani con un entusiasmo simile a quello che il pubblico odierno riserva ai film di argomento biblico, ma il suo giudizio ha resistito nel tempo. Al Settecento non mancavano dunque l’istinto drammatico o quello tragico, e neppure la capacità o il talento per soddisfarli, bensì uno stile in grado di sostenere uno sforzo drammatico di ampio respiro con i soli mezzi del recitativo, dell’aria e dei pezzi d’assieme. Questi ultimi in particolare sono rari nelle opere hindeliane e di grande interesse invece nei suoi oratori: non si trova nulla nella produzione teatrale che eguagli la potenza e la caratterizzazione drammatica dei pezzi d’assieme di Jephtha o di Susanna. La concentrazione sull’aria, in uno stile che rendeva

pressoché impossibile uno sviluppo drammatico interno, ridusse l’opera barocca a un'’infilata di occasioni di esibizione per i cantanti; per scuotere o vivificare la staticità di quei numeri individuali, l’opera non disponeva di nulla che fosse efficace quanto l’uso, nelle Passioni e negli oratori, della forma narrativa combinata con cori per le parti descrittive e arie per i commenti e le meditazioni religiose. Rameau evita sia la forma narrativa, così naturale per il recitativo, sia

quella elegiaca, tanto confacente alle strutture musicali del tardo barocco, e ciò può forse spiegare in parte il suo insuccesso nel creare un’opera

di ampio respiro davvero soddisfacente. Usò splendidamente il coro, i 1. La superiorità dei cori hAndeliani fu riconosciuta durante tutto il Settecent o: nel preferirli (come anche quelli di Lully) alle arie, Wieland dichiarava di esprimere null’altro che il giudizio comune.

216

pezzi d’assieme sono spesso finemente sviluppati, ma la rigidità ritmica dello stile dell’epoca e un’attrazione magnetica per la tonica, più tipica della contemporanea musica francese che della scuola tedesca, fanno sì che le singole scene delle sue opere si staglino isolate, quasi bassorilievi marmorei, nobili, ricchi di grazia e di un’immobilità opprimente. Perché nascesse la tragedia eroica nella musica francese, serviva un coro che fornisse lo sfondo e il commento filosofico; era inoltre necessario trovare il modo di tradurre, all’interno di un’unica forma musicale, un con-

flitto in progressivo sviluppo anziché doversi limitare a mostrare contrapposizioni nette. In altre parole, l’opera barocca francese doveva, pena il ricominciare da capo su basi interamente nuove, avvicinarsi alla tragedia greca. E precisamente ciò che Gluck tentò di realizzare, con un dogmatismo neoclassico e un’originalità ardita tipici del tempo. Benché riuscito solo in parte, il suo fu un tentativo eroico. Gluck è in genere descritto come un compositore geniale con una tecnica sorprendentemente lacunosa. Il suo genio è fuori questione e anche, malgrado i molti fraintendimenti, le «imperfezioni » che si trovano in tutte le sue opere. Varrebbe però la pena di chiedersi se quei « difetti» siano davvero dovuti a lacune tecniche di Gluck e non piuttosto alla natura stessa del suo tentativo in quel contesto storico. La storia della musica è ingombra di teorie semidemolite sulle carenze dei grandi compositori: l’impaccio di Beethoven nella scrittura contrappuntistica, le difficoltà di Chopin con le grandi forme, le goffaggini di Brahms nell’orchestrazione. Sono fantasmi che periodicamente riappaiono e che di tanto in tanto bisogna scacciare di nuovo. Ma nelle opere di Gluck i difetti sono troppo cospicui perché si possa negarli o volgerli in pregi semplicemente mutando prospettiva storica o estetica; e tuttavia quei difetti derivano, in larga misura, dalla natura dello stile dell’epoca applicato ai compiti che Gluck gli assegnava. Affermare che lo stile degli anni fra il 1760 e il 1780 era inadatto a risolvere i problemi posti dalla creazione di opere tragiche per la scena può sembrare solo un modo più generico per dire che Gluck fu incapace di piegare la sua arte alle esigenze della tragedia, ma quella formulazione ha dei vantaggi: attira la nostra attenzione sulla natura dello stile e sulle istanze che gli poneva l’opera seria, nonché sul rinnovato interesse per la tragedia greca. Ci aiuta dunque a formarci un’idea dei problemi fronteggiati da Gluck, degli scopi a cui miravano molte sue innovazioni e delle ragioni di alcuni suoi insuccessi; chiamare in causai limiti tecnici chiarisce invece ben poco e spesso non è che una scusa per liquidare ciò che della sua musica non piace. Non voglio dire che la critica sia in sé priva di fondamento, se non falsa, e del resto essa è sancita dalla tradizione. Fu Handel ad affermare: «Gluck conosce il contrappunto quanto il mio cuoco ». È se è vero che, come ha fatto notare Tovey, il cuoco in questione era anche un cantante della compagnia operistica di Handel e possedeva dunque, con ogni probabiVA,

lità, buone conoscenze contrappuntistiche, appare senz'altro frutto di cocciutaggine in Gluck la rinuncia a colmare lacune che non avrebbero richiesto più di un anno di studio. È più ragionevole però assumere che Gluck non avesse più bisogno del contrappunto handeliano. Deplorando la sua mancanza di perizia in quel campo, bisognerebbe sempre ricordare che egli aveva rotto con lo stile di Handel e con quel genere di maestria per creare qualcosa che, se non attingeva ancora l’agio mozartiano o l’ampiezza di Beethoven, si muoveva però in quella direzione. Simili giudizi basati sul senno di poi valgono quel che valgono: certamente Gluck non perseguiva, consapevolmente o meno, gli obiettivi di Mozart e Beethoven. Tuttavia un pizzico di teleologia può essere d’aiuto per comprendere una figura storica così irritante e così ammirevole come Gluck. Le motivazioni dell’agire artistico sono perlopiù composite e le più variegate sono quelle inconsapevoli e inconfessate che ci costringono a formulare congetture, a interrogare il passato per spiegarne il corso storico. Fra le innovazioni portate da Gluck nell’opera, la più evidente è una drastica semplificazione: dell’azione, della forma, del tessuto musi-

cale. Quali furono le ragioni di questa riforma? La risposta ufficiale, che

è anche quella di Gluck, è: la ricerca di una maggiore naturalezza del dramma. Il ritorno alla natura è chiamato in causa per spiegare l’ispirazione di ogni riforma drammatica, e per giunta ogni volta con ragione; ma non è facile stabilire, soprattutto per ciò che concerne la tragedia settecentesca, che cosa fosse naturale e cosa artificiale: in parte, si tratta-

va di affrancarsi dalle paralizzanti convenzioni delle generazioni precedenti. La questione più interessante, ovvero perché quelle convenzioni apparissero tutt’a un tratto d’intralcio, è resa intricata da un altro aspetto: il crescente interesse per l’arte greca e lo sviluppo del neoclassicismo. Il Rinascimento, perlopiù romano nel Quattro e nel Cinquecento (salvo che in Francia), divenne nel diciottesimo secolo prevalentemente greco, ma il crescente entusiasmo per quella cultura era colorato da un curioso primitivismo. La fede settecentesca nel progresso era controbilanciata dalla nostalgia per un passato utopico; in essa si esprimeva l’antica credenza secondo la quale il mondo, lungi dal progredire, andrebbe costantemente degenerando. In quest'ottica, i Greci avevano prodotto una civiltà ideale perché erano meno complicati e sofisticati dei moderni. Il Settecento non cercò tanto di imitare la grecità, quanto di perfezionarla per mezzo di una semplicità spinta all’estremo, che ben poco aveva a che vedere con l’originale. Scrittori e architetti si rifecero non tanto all'arte greca, bensì a ciò che essi consideravano la sua fonte teorica, OV-

vero la natura stessa. L'architettura greca non è così ostentatamente «naturale » come seppe divenire il neoclassicismo settecentesco prefiggendosi di evocare o ricostruire le origini prime degli elementi architettonici. L'idea che le colonne fossero la trasformazione di tronchi d’albero, un'idea così evidente per il pensiero razionalista, portava con sé 218

quella che l’uso di basi fosse una sofisticazione eccessiva, innaturale: in molti edifici neoclassici le colonne sorgono direttamente dal suolo. La pittura neoclassica si definisce non tanto per la scelta di soggetti classici, di cui c'era dovizia già dal Rinascimento e anche da prima, quanto perla serietà morale nel trattarli; e la mitologia cedette il passo a soggetti tratti dalla storia che illustrassero virtù civili. Soprattutto, la pittura neoclassi-

ca non aspira alla complessità emotiva con cui Poussin o Raffaello trattavano i soggetti classici: parla direttamente alle emozioni semplici e fondamentali, o questo era quantomeno ciò che professava. Il neoclassicismo è aggressivamente dottrinario: è arte a tesi. Ciò rende particolarmente delicato e sottile il rapporto fra la pratica e la teoria. Normalmente, nella gran parte degli stili, il rapporto è lasco e piuttosto nebuloso: le teorie artistiche, quelle cioè ritenute tali dagli artisti stessi, sono talvolta nulla più che pie intenzioni, che sono legittimate dalla tradizione o semplicemente suonano plausibili ed efficaci; talvolta si tratta invece di razionalizzazioni, di tentativi che a posteriori mirano a giusti ficare opere già compiute mediante princìpi che poco o nulla avevano avuto a che fare con la loro creazione (ma che forse prefigurano la direzione nella quale l’artista spera di muoversi); infine, le teorie possono

riflettere in modo obliquo, o talora anche diretto, l’effettiva prassi dell’artista. Questi diversi aspetti sono spesso confusi fra loro (tant'è che gli artisti sono biasimati o elogiati per non aver messo in praticaipropri princìpi); che siano effettivamente difficili da districare è la scusa, deboluccia, che accampano gli storici. In uno stile come il neoclassicismo, la

questione è resa ancora più ingarbugliata dallo sforzo consapevole dell’artista di far corrispondere la pratica alla teoria, anche quando la teoria dichiarata e resa esplicita si scontra frontalmente con abitudini artistiche consolidate e con princìpi, meno manifesti, che solo la prassi stessa può gradualmente portare alla luce. Una considerevole tensione scaturisce, nella gran parte delle opere neoclassiche, da quel conflitto, da

un’aspirazione alla coerenza teorica che conduce, paradossalmente, a

momenti di incoerenza nel linguaggio artistico, perché lo forza a entrare in contraddizione con se stesso per conformarsi a qualcosa di esterno. Il culto deliberato del «naturale » determina uno sforzo di autonegazione e di repressione che collima, alla fin fine, col « perverso »: le più grandi produzioni artistiche neoclassiche (le opere di Gluck, l’architettura di Ledoux, i quadri di David) ne traggono una potenza esplosiva che va ben oltre le aspirazioni dell’opera in sé.'

1. Ho usato il termine «neoclassico » nel senso ristretto di un ritorno alla semplicità della

Natura mediante l’imitazione degli antichi. Nel Settecento il corpo della dottrina era

coerente, coeso e sovranazionale. Gluck sosteneva che l’accento della Natura avrebbe dissolto l'assurdità degli stili nazionali. L'estetica del neoclassicismo si può riassumere

nell’opinione di Winckelmann che per riprodurre una forma bella in sé la linea doveva

essere più sottile possibile.

219

Ciò significa, in fin dei conti, che la grandezza attinta da tanta produzione neoclassica nasce dall’incapacità della dottrina di reprimere interamente l’istinto (dove per istinto non si intende nulla di più mistico che la dottrina non formulata); ne consegue, ed è curioso, che in un

certo senso la teoria neoclassica si materializza nelle opere stesse. Gli esempi di virtù classica che stanno a fondamento delle opere di Gluck, quali Alceste, Ifigenia o Orfeo, non sono solo espressi, ma letteralmente manifestati dalla castità della musica stessa, col suo rifiuto del virtuosismo vocale, l’assenza di abbellimenti, le arie che si concludono senza

lasciar spazio agli applausi, la semplicità del tessuto musicale, con gli arricchimenti contrappuntistici ridotti al minimo indispensabile. L’austerità non è solo stoicismo, ritrarsi dal piacere, ma è in sé una delle maggiori fonti di piacere. Non vi è alcun merito, ovviamente, nel resistere quando non c’è tentazione: il fatto che Gluck fosse sempre meno disposto a inserire ornamentazioni virtuosistiche per i cantanti e che tentasse di evitare l’aria con da capo che forniva loro l’occasione di improvvisarne non ha più nulla di sensazionale sul piano artistico. Ben altra portata hanno i momenti di forzata semplicità in cui, con ogni evidenza, Gluck si nega qualcosa che desidera profondamente. Nelle sue opere migliori c'è una severità che richiama lo spazio rigidamente organizzato e i colori metallici di David o le forme puramente geometriche di Ledoux,

tutti elementi dotati di una rilevanza sia etica sia

estetica. La teoria dell’arte come imitazione della natura è un credo di lunga data, a cui il neoclassicismo infuse nuova forza attraverso una visione

semplicistica, e persino primitivista, della natura. In musica generò tuttavia difficoltà considerevoli (in pittura la sua applicazione era così evi-

dente da rallentare l’estetica per secoli), tanto che fu necessario rifor-

mularla completamente: la musica imitava, o meglio rappresentava ed esprimeva, i sentimenti più puri e più naturali; il suo successo o il suo fallimento dovevano dunque essere giudicati rispetto a quel compito. Come

la dottrina neoclassica, anche l’etica psicologica settecentesca

richiedeva che si riducesse notevolmente la sofisticazione affettiva: il virtuosismo vocale era senz’altro espressione di sentimenti, ma di un genere «innaturale » e inaccettabile. Ogni arte così strettamente legata alla propria teoria è soggetta inevitabilmente anche all’influsso del pensiero politico e pedagogico: sulla musica di Gluck, le idee di cui Rousseau fu il principale portavoce incisero quanto il rinnovato interesse per le virtù classiche. Questo tornare a porre l’accento sul legame fra i sentimenti e la musica assoggettava quella operistica alla parola proprio quando Mozart era sul punto di emanciparla, facendone non semplice espressione del testo (seppure in parte anche questo) bensì un corrispettivo dell’azione drammatica. Era una conquista rivoluzionaria: per la prima volta, sulla scena operistica, la musica aveva modo di 220

seguire il corso drammatico e al tempo stesso produrre una forma che, almeno per gli aspetti essenziali, era giustificabile esclusivamente secondo criteri interni. Prima di Mozart (prima cioè di quell’evoluzione dell’opera buffa italiana per la quale Mozart avrebbe creato una forma definitiva), il dramma in musica era sempre stato concepito in modo tale che all’espressione dei sentimenti, in genere uno alla volta, corrispondesse nell’aria o

nel duetto la musica più formalmente organizzata, mentre l’azione era affidata interamente ai recitativi. La musica, dunque, salvo i casi in cui

possedesse un valore proprio svincolato dal dramma, si limitava a illustrare ed esprimere il testo, combinandosi con l’azione solo in modi assai rudimentali e di scarso interesse. Questa supremazia del testo è chiara fin dagli inizi, persino in Monteverdi dove non sempre è netta la distinzione fra aria e recitativo, fra strutture più e meno

formalmente

organizzate. La conseguenza non è una posizione ancillare della musi-

ca, bensi l'istituzione di una gerarchia nella trasmissione del significato: la musica interpreta il testo e questo l’azione, con le parole poste quasi invariabilmente fra la musica e il dramma. Un’estetica per cui la musica fosse espressione del sentimento era ideale per l’opera barocca: si adattava come un guanto all’aria col da capo, alla fattura ritmica uniforme, al principio della crescita per accumulazione di un motivo centrale, a una ripartizione relativamente omogenea della tensione (il contrasto fornito dalla sezione centrale era anch’esso abbastanza statico da non generare contraddizione). Anche sorvolando, per il momento, sulla frattura

fra musica e movimento scenico essenziale, resta un problema: nella misura in cui è un’arte espressiva, la musica è pre-verbale, non postverbale. Agisce sul sistema nervoso, non sui sentimenti. E per questa ragione che in una musica come l’aria col da capo barocca, mirata alla descrizione di un solo sentimento o affetto, le parole finiscono col suonare come un commento sulla musica generico e impoverito. La linea musicale si rivolge direttamente all'ascoltatore e il cantante aggiunge un testo che funge al massimo da rassicurante didascalia. Un’estetica dell’espressione è indispensabile per l’opera, ma sottomettervisi completamente distrugge ogni possibilità drammatica. È da quell’estetica essenzialmente priva di movimento che discendono l’impaccio e le complicazioni dei moderni allestimenti di opere barocche: che le opere comiche di Mozart, che ruppero in parte con l'estetica dell’espressione, abbiano tenuto la scena ininterrottamente e con grande successo fin dalla loro creazione è emblematico. Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Die Zauberflòte sono le prime opere che non hanno mai avuto bisogno di

essere riportate in auge. Gluck accettò apparentemente di buon grado l'estetica dell’espressione e le infuse persino un nuovo vigore grazie a una cesellatura squisita della declamazione fin nei suoi più minuti dettagli, ineguagliata prima 221

come dopo di lui; e tuttavia nella sua produzione si trovano le tracce di

un certo disagio verso la staticità che quell’estetica portava con sé. Ci sono numerosi esperimenti di arie in cui il tempo cambia in continuazione e fra queste la più ragguardevole è quella di Alceste, «Non, ce n’est point un sacrifice ». Ai diversi tempi corrispondono perlopiù blocchi ben distinti; in tutta la musica di Gluck non si trova che qualche vaga velleità di transizione ritmica. L’aria dell’ A/ceste è fra le sue pagine più riuscite, ma, pur senza metterne in dubbio la bellezza e la grandezza, bisogna riconoscere che uno schema con tanti e diversi tempi che si susseguono è una misura disperata. Il mutamento di ritmo all’interno di un singolo brano sembra sempre mettere Gluck in grave difficoltà. Nel seguente passaggio dalla /phigénie en Tauride, il cambio produce l’effetto di una marcia ingranata male:

« Allegro moderato (sans presser) N. VI, Va.

VI.

Vc. + Cb. 8va

Ve.

e passaggi del genere sono piuttosto frequenti. Giudicato secondo i parametri dello stile classico, il sistema ritmico di Gluck rivela una contraddizione importante. La frase ha già un’articolazione classica, mentre la pulsazione, quasi indifferenziata, ricorda piuttosto la continuità barocca. Nell’aria di Paride «Di te scordarmi », dal

Paride ed Elena, la stessa frase compare in due forme: (a) 15 pù ei

mesa mi

1 D]

Te: _' te,

iltuo

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e pene esa

La seconda versione, in minore, occupa mezza battuta in meno e ne guadagna senza dubbio in concentrazione ed energia. Dal confronto fra le due è però difficile comprendere se il compositore abbia o meno distinto fra la forza di un primo e di un terzo tempo della battuta: la frase in minore inizia con un accento più drammatico, ma poi l’impulso ritmico è biz-

zarramente più fluido della frase. Simili spostamenti d’accento nel 4/4 compaiono di frequente nella musica di Haydn e di Mozart, ma (almeno dopo il 1775) è sempre chiarissimo cosa sia accaduto, le possibilità essendo due: o si ha una frase di lunghezza irregolare, così che il battere slitta provvisoriamente sul terzo tempo (i compositori di epoche successive scrivono in questi casi una singola battuta di 2/4 e spostano tutte le divisioni di battuta); oppure il battere mantiene la propria forza e l’articolazione della frase suona allora come un accento in sincope che contraddice il metro. Quale sia la scelta di Gluck non è invece affatto chiaro e pas-

saggi altrettanto ambigui sono disseminati in tutte le sue opere. A causa di questa debolezza ritmica, le pagine più riuscite di Gluck si risolvono in una serie di tableau, alcuni dei quali concepiti magnificamente. Su un punto importante c’è un progresso spettacolare rispetto all’opera seria precedente, ossia l’idea di contenere una tensione e un contrasto psicologici all’interno di un singolo movimento. L'esempio più celebre è il momento patetico in cui Oreste si illude di aver trovato pace mentre la musica rende manifesto come il suo travaglio interiore non sia affatto sopito. Non meno emozionante è nel Paride ed Elenal’angosciata esitazione della protagonista: Moderato

ELENA

Qui sincopi, ritmi sovrapposti e una declamazione assai prossima al parlato si combinano con grande originalità. Più originale ancora è il modo in cui Gluck concepisce l’accentazione dinamica. La sua fattura ritmica conserva in effetti la quasi completa omogeneità del tardo barocco, ma la dinamica vi immette un elemento del tutto nuovo. Gran parte dei passaggi migliori di Gluck poggiano, in un modo o nell’altro, su un ostinato ritmico a cui il compositore dà forma mediante l’accento e sovrapponendovi un’articolazione irregolare: la staticità del tableau è disgregata da una pressione interna. La più vasta e più riuscita costruzione di questo genere è l’aria di Ifigenia nel secondo atto, scena 6, dell’Iphigénie en Tauride, ma per fornire un’idea, anche approssimativa, della sua potenza sarebbe necessaria una citazione molto estesa. Un ostinato quasi altrettanto emozionante si trova nel terzetto dell’ultimo atto di Paride ed Elena: Andante

ELENA

lo veg -

go,

ad

ingan-nar

-

mi

La declamazione che scorre libera sopra l’ostinato sincopato, la tensione impressa dagli sforzandi al tessuto ritmico: di tutto ciò non ci sarà traccia nello stile classico. Questi tratti riappariranno nell'opera solo col romanticismo italiano, soprattutto negli ostinati di Verdi (il monologo esausto di Otello nell’atto terzo si avvicina all'esempio appena riportato). Il vero erede di Gluck però, e non c’è da stupirsene, è Berlioz. Nella sua musica,

l’ostinato sincopato rinforzato dagli accenti è un tratto essenziale: senza Gluck, il «Lacrimosa » del Requiem non sarebbe mai esistito. Mozart ha un importante debito artistico nei confronti di Gluck, soprattutto per la potenza drammatica dei recitativi accompagnati, e occasionalmente fa persino qualche riferimento esplicito al suo stile perso1. Gluck era soddisfatto di questo terzetto al punto di riutilizzarlo nell’ Orphée.

224

nale, come

accade

nella Ciaccona

dell’Idomeneo.

Ma è sorprendente

quante delle più riuscite e suggestive innovazioni gluckiane sembrino non essere mai esistite per Mozart: egli non deve quasi nulla alla declamazione gluckiana nelle arie o alla sua concezione degli accenti; non tentò mai la strada sperimentale dei molteplici e fluidi mutamenti di tempo entro il singolo brano; e solo verso la fine della sua vita, nella Zauberflòte, usò il coro con una maestosità paragonabile a quella di Gluck (ma anche allora senza mirare alla stessa potenza drammatica, salvo che nella frase pianissimo e dietro le quinte del coro al termine della scena di Tamino e del Sacerdote). Quanto a Beethoven, che pure tentò di com-

porre una vera opera «seria », il suo debito con Gluck è ancor più esiguo, benché la visione allucinatoria di Leonore da parte di Florestan all’inizio del secondo atto del Fidelio abbia la fluidità, insieme di ritmo e

di frase, di Gluck e persino qualcosa della sua sonorità orchestrale nell’oboe che risuona acuto e solitario sopra il pulsare degli archi. Mozart distrusse il neoclassicismo nell’opera. Ciò fu ben chiaro ai contemporanei e spiega, almeno in parte, l'opposizione che incontrò il suo stile. Già nel 1787, Goethe scriveva nel Viaggio in Italia: «Tutti i nostri sforzi per concludere nella semplicità e nella moderazione andarono in fumo quando apparve Mozart. /l Ratto dal Serraglio annientò ogni cosa e in teatro non si è mai parlato della nostra commedia tanto faticosamente elaborata ».' Gli ideali goethiani erano assai vicini a quelli di Wieland (uno dei pochi autori a godere della stima attestata di Mozart), il quale

nel proprio saggio sul Singspiel tedesco scriveva: «la massima semplicità possibile nella concezione si addice ed è necessaria al Singspiel. L’azione non sì può cantare ». E esattamente ciò che Mozart avrebbe trionfalmente smentito. Non fu però nell’opera seria che Mozart riuscì a mettere l’azione in musica. Nell’ /domeneo, che scrisse all’età di venticinque anni, Mozart era già

pienamente consapevole del problema del ritmo drammatico. Fra tutte quelle mozartiane, /domeneo è un’opera unica per l’attenzione dedicata a uno specifico elemento della continuità drammatica, ossia l’integra-

zione dell’inizio e della fine di un’aria con il recitativo che precede e che segue. L'inizio della prima aria dà la misura della sottigliezza prodigata nel trattare questo aspetto: 1. Citato da Abert e da Deutsch, Mozart, Black, London, 1965 [trad. it. in J.W. Goethe, Scritti sulla musica, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1992, p. 128].

2. La pratica mozartiana è meno distante da altre opinioni di Wieland sul Singspiel. Questi aveva lamentato la mancanza di legami delle ouverture con le opere e nessuno, neppure Gluck, ne creò di tanto stretti e intimi nelle proprie. Mozart non dovette essere granché impressionato dal biasimo di Wieland per i ritornelli troppo lunghi; quanto alla condanna dello scrittore verso le arie destinate all’esibizione virtuosistica, i da capo

artificiosi e i recitativi buttati giù alla meno peggio, nel 1770 l'avrebbe condivisa qualun-

que musicista di gusto.

220

Andante con moto

La prima battuta dell’Andante con moto ha due funzioni: conclude il recitativo con una cadenza e apre formalmente l’aria. Ma ambedue sono assolte in modo ambiguo. La cadenza non è conclusiva a tutti gli effetti: è una cadenza d’inganno, sul sesto grado anziché sulla tonica; e le prime

battute non segnano l’inizio del ritmo che seguirà, bensì vi si avvicinano per gradi in un’accelerazione progressiva. Nelle prime due battute si procede per quarti, alla fine della terza compaiono gli ottavi, il ritmo di sedicesimi sincopati interviene solo a battuta 5 col vero e proprio inizio dell’aria. Il brano termina poi con una frase concepita in modo da evitare l’applauso e proseguire immediatamente col recitativo: ata

- cor

*&

nie -

non

Recit.

so.

ssss=sste Ec-co, I- da -man-

te,

o

ahi - mè

E un procedimento raro in Mozart; l’aria di Tamino «Wie stark ist nicht

dein Zauberton » dalla Zauberflòteèuna fra le poche eccezioni, ed è concepita come parte del finale del primo atto. Quasi sempre, le arie di Mozart iniziano dopo una conclusione chiara e ferma del recitativo che precede; e terminano poi in modo inequivocabile. Ma nell’ Idomeneo, la-

ria di Elettra « Tutte nel cor vi sento » (n. 4) si apre, procedendo dal recitativo, con una tonalità sbagliata e alla fine trapassa senza interruzione

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nel coro che segue; questo a sua volta non termina ma si trasforma in un recitativo accompagnato, che poi diventa, senza alcun preavviso, un recitativo secco. L'aria di Idomeneo

« Vedrommi

intorno»

(n. 6) inizia,

come già l’altra, con un ponte orchestrale e precipita anch'essa senza esitazioni nel recitativo seguente. L'aria di Elettra «Idol mio » è interrotta da una marcia. E una simile cura si ritrova in tutta l’opera. Fin dalle sue origini nel XVI secolo, il problema fondamentale dell’o-

pera fu la relazione tra la sua forma più organizzata (l’aria) e quella che lo è meno (il recitativo) : qui si incarna nel modo più manifesto la tensione fra musica e parole. I termini della questione si posero quando nella continuità del recitativo Monteverdi introdusse forme chiuse, e la storia

dell’opera potrebbe essere considerata come una lotta fra strutture musicali formalmente organizzate e il recitativo. Il problema fu poi esacerbato dai compositori italiani della prima metà del Settecento che abbandonarono l’arioso, una forma a mezza via fra recitativo e aria. Ne discese una polarizzazione delle strutture musicali fra schemi altamente formalizzati da un lato e più liberi ritmi del parlato dall’altro. (Come forma intermedia rimase solo il recitativo accompagnato, usato occasionalmente come introduzione a un'aria o all’interno di una scena). Il movi-

mento drammatico si polarizzò di conseguenza: l’azione fu riservata ai recitativi e le rigide strutture formali delle arie le resero adatte solo a funzioni eminentemente statiche, ossia all'espressione dei sentimenti e allo sfoggio virtuosistico (spesso indistinguibili fra loro). Più che offrire una specifica risposta al problema di come rappresentare un dramma in musica, quella polarizzazione evitava di risolverlo. Con un’evoluzione di questo genere, l’opera seria dovette rinunciare a tutte le alate pretese (e alla sincera speranza) di rivaleggiare con la tragedia classica, ed è ben comprensibile che, allora come oggi, osservatori critici non vi vedano altro che una forma degenerata di arte drammatica. Il presidente de Brosses asserì una volta di amare l’opera perché poteva giocare a scacchi durante i recitativi, ma in compensole arie lo distraevano dal tedio di un gioco senza interruzioni. Il paradosso non è che nell’ambito dell’opera seria del primo Settecento sia stata scritta tanta grande musica, bensì che questa debba essere compresa e accettata in termini non solamente musicali, ma anche drammatici; termini che tuttavia non furono mai definiti con sufficiente

coerenza perché fosse possibile produrre altro che una serie brillante di scene e pezzi staccati, una successione di quadri drammatici. Con il crollo delle sue aspirazioni a emulare la tragedia classica, l’opera seria rinunciò anche al semplice tentativo di creare un equivalente musicale e drammatico del teatro barocco. Dietro molte opere settecentesche (non solo il Mitridatedi Mozart) stanno mute le tragedie di Racine, ma in quel1. Si vedano i numeri 15, 17, 18, 19 e gli inizi dei numeri 20, 21, 22, 24 e 29.

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la presenza c’è soprattutto un biasimo. L’ostacolo insormontabile era la mancanza di uno stile musicale che potesse generare sia il senso di continuità su larga scala richiesto dalle tragedie barocche francesi e tedesche, sia una struttura formale sufficientemente ricca e complessa per garantire al fatto puramente musicale un’autentica portata drammatica. Il tentativo compiuto da Mozart nell’/domeneo di sviluppare una tale continuità, di unire il recitativo e le forme più riccamente

elaborate,

portava in effetti a un vicolo cieco. Quel procedimento rispondeva in modo localizzato e su scala ridotta al problema più generale della concezione ritmica complessiva di un’opera di vaste dimensioni. E fu infatti solo per specifici effetti in luoghi precisi che Mozart vi ritornò: nell’aria di Guglielmo del Così fan tutte, che non può terminare perché le due giovani si ritirano indignate e gli uomini ridono a crepapelle; o nell’arioso in cui, nella stessa opera, si lancia Don Alfonso quando porta la notizia sconvolgente della chiamata alle armi dei due giovanotti; o ancora, nel Don Giovanni, nel terzetto in cui il Commendatore

giace morente,

che si spegne con un tonfo sinistro in un recitativo a bassa voce. Il tentativo di Gluck di far rivivere l’arioso, la sua ricerca di una scrittura a mezza

strada fra recitativo e aria non potevano convenire a Mozart che in così gran parte della sua produzione artistica poggia proprio sulla ricchezza degli schemi formali. Nel contesto della riforma gluckiana, /domeneo è un’opera profondamente reazionaria. E anche un capolavoro, che Mozart avrebbe eguagliato, ma mai superato sul piano musicale. Già però durante la vita dell’autore divenne accettabile solo in forma di concerto e ci sarebbe voluto un secolo e mezzo perché la sua grandezza fosse riconosciuta. Lo stile che Mozart ereditò e accrebbe si applicava solo con difficoltà al teatro tragico; lo sforzo inevitabilmente si sente. Lo stile classico era senz'altro adatto a trattare gli eventi in modo chiaro e le sue forme non erano certamente statiche, ma aveva un passo troppo rapido per l’opera seria. Tovey ha fatto notare che Beethoven era non troppo poco, bensì troppo drammatico per il teatro: la sua musica concentra in dieci minuti la complessità di un’opera in tre atti. Nello stile tardosettecentesco, la modulazione principale è concepita indubbiamente come un evento, ma il solo modo per sottrarvisi per un tempo apprezzabile è ricorrere all'effetto ritardante di un copioso cromatismo; e il linguaggio mozartiano era essenzialmente diatonico, almeno sulla lunga gittata. Egli era in

grado quanto Wagner (benché ovviamente in termini diversi) di scrive-

re un duetto d’amore appassionato, ma la prospettiva di farlo durare più di un'ora, o anche solo più di pochi minuti, gli sarebbe sembrata assurda. Nelle sue mani, come del resto in quelle di qualsiasi compositore del 1.Il terzetto è nondimeno parte di una vasta ed equilibratissima costruzione simmetrica (si veda alle pp. 370-71).

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tempo, il passo lento e dignitoso di un’opera seria si frantuma in mille pezzi: nella sua splendida concezione, /domeneo resta un mosaico, e se i

suoi limiti sono quelli del linguaggio del tempo è perché non ogni linguaggio si adatta ugualmente a ogni forma. L'andamento dello stile classico funzionava d’altro canto a meraviglia per il teatro comico, con i suoi rapidi cambiamenti di situazione e le sue innumerevoli possibilità di accelerare l’azione. I dénouements di Idomeneo e Fidelio sono curiosamente simili: in ambedue, all'ultimo momento l’eroina si fa avanti per salvare l’eroe e si dichiara pronta a morire con lui. Leonore ha indubbiamente un carattere più mascolino di Ilia e la pistola che brandisce è senz'altro un argomento persuasivo. Ma c’è un’altra differenza: in Mozart, questa drammatica scena si svolge interamente in recitativo accompagnato, in Beethoven prende la forma di un elaborato quartetto. Il senso di eccitazione quasi intollerabile prodotto dal quartetto, « Er sterbe », è del tutto inedito nel teatro musicale ed è reso possibile dall’espansione beethoveniana della forma sonata: il doppio punto culminante, il « Todte erst sein Weib! » (« Uccidi prima sua moglie ») di Leonore e la tromba fuori scena (ambe-

due simmetricamente centrati su un elettrizzante si bemolle in una forma sonata in re maggiore), offre un esempio di tensione armonica spinta all'estremo sia appena prima sia appena dopo l’inizio della ripresa; è un procedimento che si trova già in Haydn e in Mozart, ma che Beethoven fece evolvere ben oltre la forma originaria. Quando scrisse /domeneo, Mozart non era invece ancora in grado di padroneggiare all’interno della forma sonata modulazioni di tale peso e potenza, né violente virate nella fattura ritmica; dovette dunque affidarsi esclusivamente al recitativo per rendere il movimento drammatico del testo. E questo passaggio è il più debole dell’intera partitura. Ciò che alla fine gli permise di sottrarsi alla scelta, intollerabile, fra azione e complessità musicale fu, molto semplicemente, il ritmo dell’o-

pera buffa. Qualche purista ha trovato scandaloso che Leporello sia costantemente presente nelle scene più serie del Don Giovanni. L’obiezione non regge, a mio giudizio, neppure sotto il profilo puramente teatrale, ma l’utilità musicale di Leporello in quei momenti è fuori discussione. È essenziale per il ritmo dell’azione. Quando Donna Anna cerca di

trattenere l’uomo che ha appena tentato di sedurla (forse con successo), Leporello canta una tiritera che Sir Arthur Sullivan avrebbe ben potuto riprendere:

«Se Stàa ve -der- che.il li- ber - u-no

mi

fa- rà pre-ci-pi

- tar, stàa ve-der- cheilli-ber

Pgisgl - ti-no mi fa-rà

pre-ci-pi

- tar

e nella scena in cui Don Giovanni sfida il Commendatore e precipita poi all’inferno, il servo ha di nuovo una linea simile:

220

«STIA La ter-za-na

d'a-ve-re mi

sem-bra

e

le mem-bra fer-mar più non

sò;

Flea

la ter-za-na d'a-ve-re mi

sem-bra,

Leporello fornisce un supporto ritmico sopra il quale possono svolgersi le azioni più serie. Quand’anche ci lasciassimo indurre da un senso del decoro teatrale già antiquato intorno al 1780 a considerarla sconveniente, la presenza di Leporello in quei frangenti sarebbe quindi, in ogni caso, il prezzo da pagare per far incontrare musica e dramma su un piano di parità. Mozart trasformò l’opera seria trovando lo sbocco per mol te sue convenzioni e per tutta la sua forza nell’ambito dell’opera buffa. Rifiutando gli antichi modelli drammatici classici, di cui il genere serio non aveva mai potuto fare a meno, rese l’opera capace di rispondere alle esigenze del dramma. Non solo distrusse i propositi neoclassici nell’ambito del Singspiel, ma innestando con successo gli aspetti più riusciti dell’opera seria nella tradizione viva di quella buffa, demolì anche l’ideale di un genere drammatico-musicale puramente serio. L'introduzione di personaggi seri nell'opera comica era una prassi diffusa, iniziata già con l’opera buffa napoletana all’inizio del Settecento, ma prima di Mozart nessuno aveva saputo integrarli con successo nell’azione comica. All’età di diciannove anni, con La finta giardiniera (la prima opera teatrale a dare la misura delle sue capacità), Mozart aveva già conferito peso e dignità all’opera buffa, grazie allo stile musicale elaborato e allo splendore e alla ricchezza delle strutture musicali più formali proprie dei personaggi seri. Vale la pena di considerare come indipendenti l’uno dall’altro i due generi, serio e buffo, se non altro per vedere come fu quest’ultimo a fornire l’organizzazione su vasta scala entro la quale poterono essere incorporati i singoli elementi dell’opera seria. Il Settecento, del resto, malgrado il suo gusto per l’intensità emo-

tiva data dalla purezza dei singoli generi, non fu mai rigidamente dogmatico (ciò è vero quantomeno per i compositori, se non per i critici) e le opere migliori della maturità di Mozart sono tutte in buona misura una fusione delle due tradizioni, seria e buffa. Restano a tratti distinte

nelle ultime opere, a volte per esaltare un contrasto drammatico, altre volte per differenziare i personaggi aristocratici da quelli delle classi subalterne; ma gran parte della musica si muove in una sfera in cui la sintesi è completa. Il primo capolavoro di questa fusione sono Le nozze di Figaro. Da Ponte rivendicò che con quest'opera lui e Mozart avevano creato un genere di spettacolo completamente nuovo. E in effetti la sua gravità morale non ha precedenti nel genere buffo. E anche (e forse è un corollario) di una 1. Nella Entfiihrung aus dem Serail, le arie di Konstanze in stile serio si integrano meno bene col resto, soprattutto perché le prime due si susseguono senza null’altro che un dialogo parlato a separarle.

230

lunghezza eccezionale per l'epoca, tanto che al suo debutto italiano fu necessario dividerla in due serate (e anche così gli ultimi due atti furono riscritti da un altro compositore, poiché quelli di Mozart venivano considerati di una difficoltà insormontabile). Per sostenere delle dimensioni

e una serietà fino ad allora mai azzardati nel campo dell’opera buffa, Mozart dovette letteralmente creare un senso del tutto nuovo di continuità drammatica. Per raggiungere quest’obiettivo, Mozart non recuperò i procedimenti di integrazione su scala ridotta che aveva sperimentato nell’ /domeneo, bensì accolse, e anzi rafforzò, l'integrità e l’indipendenza di ciascun nu-

mero. Il recitativo secco è nelle Nozze meno espressivo che in ogni opera precedente, la simmetria dei pezzi chiusi più elaborata e complessa. Il ritmo drammatico dell’opera nel suo insieme è definito nel modo più classico, ossia mediante i rapporti reciproci delle unità articolate e indipendenti, le loro proporzioni e la loro disposizione simmetrica entro uno schema in cui l’apice della tensione è posto al centro dell’opera. Una costante evoluzione ritmica per mezzo di tappe progressive attentamente graduate è un elemento fondamentale dello stile classico e nelle Nozze dì Figaro è applicato al ritmo sulla scala più ampia. La continuità drammatica è conseguita rispettando l’indipendenza delle singole forme chiuse. Grazie alla capacità di definire i personaggi con mezzi puramente musicali, di scrivere in modo diverso e caratteristico per ciascuno dei tre soprani (la Contessa, Susanna e Cherubino), Mozart garantisce la varie-

tà indispensabile alla struttura complessiva. La chiave di volta del suo successo risiede in un'innovazione essenziale, ossia nell’inedito svilup-

po, nella straordinaria espansione dei brani d’assieme. Nell’/domeneo, il numero prediletto del compositore era il quartetto, ma per il resto l’opera non offre nulla di paragonabile alla ricchezza di scrittura degli assiemi delle Nozze di Figaro. Qui i primi sei numeri combinano, in modo davvero ingegnoso, tre duetti con tre arie di carattere molto diverso: la cavatina di Figaro «Se vuol ballare », l’aria di vendetta di Bartolo e l’espressione del risveglio della sensualità dell’adolescente Cherubino. Segue un drammatico terzetto in cui Cherubino è scoperto nascosto su una poltrona sotto un vestito: è il punto nodale dello sviluppo che conduce verso una complessità crescente della musica e dell’azione. Il coro

di contadini che segue e l’aria marziale di Figaro « Non più andrai » forniscono una conclusione brillante. Questa concezione nuova di conti-

nuità musicale entro il dramma, realizzata mediante un progressivo incremento di complessità delle singole unità indipendenti, raggiunge il culmine nel famoso finale del secondo atto, un tour de force che in una costruzione tonale magnificamente simmetrica muove da un duetto a un settimino, passando per un terzetto, un quartetto e un quintetto. Questa sintesi fra una complessità sempre più incalzante e una risolu231

zione perfettamente simmetrica è il cuore dello stile mozartiano e permise a Mozart di creare l'equivalente musicale delle grandi opere teatrali che gli servirono da modelli. Le nozze di Figaro di Mozart stanno per qualità drammatica sullo stesso piano, se non al di sopra, della commedia di Beaumarchais; per la prima volta nella storia dell’opera, la versione musicale non doveva temere il confronto, che era anzi il benvenuto,

coi più riusciti testi teatrali. Posto a fianco delle versioni di Goldoni o di Molière, il Don Giovanni operistico non sfigura; Così fan tutte èuna commedia psicologica fra le più sottili e perfette della tradizione il cui massimo rappresentante fu Marivaux; e la Zauberflòte trasformò tanto lo Zauberspiel di tradizione viennese quanto la fiaba magica creata da Carlo Gozzi. Un tale sviluppo poteva avvenire solo entro le strutture e le tradizioni dell’opera buffa, ma non sarebbe stato possibile senza la maestria di Mozart nel trattare tutti gli elementi dell’opera seria. La solidità dei risultati mozartiani è tanto più stupefacente se si considerano la vuota nobiltà di quasi tutte le opere serie successive a Monteverdì, la leggerezza vacua dell’opera buffa settecentesca e la forzata ingenuità del Singspiel neoclassico; ma senza queste diverse tradizioni, le ultime opere di Mozart non sarebbero state possibili. Il ritmo classico, come abbiamo visto, non poteva reggere un passo drammatico di lungo respiro in generi non comici; perciò, nel tentativo di rallentare il movimento fino a un andamento commisurato alla dignità morale del soggetto, Beethoven componendo il Fidelio sì ispirò principalmente alla più libera tradizione operistica francese, nel segno di Cherubini e di Méhul. Questa scelta si vede più distintamente nella versione originale dell’opera, dove sono continuamente ripetuti in modo pressante frasi brevi e frammenti di frase: nell’opera francese queste ripetizioni, che Beethoven soppresse in seguito, conferivano chiarezza e una generica dignità, diluendone al tempo stesso la potenza drammatica. La revisione beethoveniana riflette la decisione di ritornare in sostanza alla ben più stringata organizzazione dell’opera buffa; quest’intento risulta particolarmente evidente nella scelta di sostituire alle precedenti l’ouverture Fidelio, che nonostante i romantici richiami di corni si muove in

modo più leggero e più prossimo allo stile comico. A parte l’ispirata riscrittura dell’aria di Florestan, la revisione beethoveniana è spiegabile in

gran parte come ritorno alla concisione classica (sebbene l’infelice modifica apportata alla linea melodica iniziale del duetto in sol maggiore con cui termina la scena del sotterraneo sia stata probabilmente dovuta alle difficoltà che i cantanti incontrarono con la versione originale, musicalmente più spontanea).

1. Le difficoltà di Beethoven con il Fidelio sono state esagerate: il fiasco della prima versione puo essere in larga misura addebitato alla sfortuna del debutto in tempo di guerra. Beethoven però non era in generale propenso a riscrivere un pezzo solo perché non

40

Quest'accostamento di tradizioni diverse emerge con nettezza soprattutto nel primo atto, dove il duetto iniziale è in sostanza pura opera buffa e i modelli mozartiani traspaiono in modo fin troppo evidente sotto allo splendido canone « Mir ist so wunderbar» (che richiama quello del Così fan tutte) e all'aria di Rocco (che si può mettere in parallelo con diverse arie di Mozart, soprattutto con «Batti, batti, bel Masetto »). Le scene melodrammatiche successive sono più eterogenee, salvo l’aria

di Leonore, in cui pure l’influsso mozartiano è considerevole, e il coro dei prigionieri. L'aria di Pizarro, benché di grande effetto, è musicalmente più appariscenza che sostanza. La scena del sotterraneo è invece il Beethoven più puro, ed è il peso del suo stile sinfonico che rende così emozionante lo scavo della fossa e l'episodio della crosta di pane. Paragonato alla disinvoltura stilistica delle opere buffe di Mozart, Fidelio è, al di là della sua grandezza, un trionfo di volontà personale. E un’o-

pera in cui sì percepisce lo sforzo. Analogamente a una lingua, uno stile dispone di possibilità espressive illimitate, ma l’agio nell’esprimersi (che in arte incide ben più che nella comunicazione e che, per l’artista come

per il pubblico, può talvolta rivelarsi persino più importante del contenuto) è strettamente connesso alla struttura dello stile. Le possibilità stesse di innovare all’interno di uno stile sono vincolate alle sue regole e solo imutamenti che si inseriscono agevolmente nel sistema già istituito sono sul lungo termine assimilati. Fidelio non è l’inizio, bensì la fine di una tradizione, come

gran parte delle composizioni di Beethoven;

e

quest'opera costituisce, entro quella tradizione, un caso quasi del tutto isolato.

aveva incontrato il favore del pubblico: le successive revisioni dell’opera (consistenti perlopiù nel rinserrarne la struttura ritmica) dimostrano che era consapevole di un problema. Benché non completamente soddisfacente, la versione definitiva è all’altezza dei

capolavori mozartiani.

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PARTE QUINTA MOZART

En musique, le plaisir de la sensation dépend d'une disposition particulière non seulement de l’oreille, mais de tout le systéme des nerfs ... Au reste, la musique a plus besoin de trouver en nous ces favorables dispositions d'organes, que ni la peinture, ni la poésie. Son hieroglyphe est si léger et si fugitif, il est si facile de le perdre ou de le mésinterpréter, que le plus beau morceau de symphomie ne feroît pas un grand effet, si le plaisir infallible et subit de la sensation pure et simple n 'étort infiniment au-dessus de celui d’une expression souvent équivoque ... Comment se faitil donc que des trois arts imitateurs de la Nature, celui dont l’expression est la plus arbitraire © la moins précise parle le plus fortement à l’àme? Denis Diderot, Lettre daMademoiselle ... Appendix a la Lettre sur les sourds et muets, 1751.

1.

«In musica, il piacere della sensazione dipende da una disposizione particolare non

soltanto dell'orecchio, ma dell’intero sistema nervoso ... Inoltre la musica ha più bisogno di trovare in noi queste disposizioni favorevoli degli organi che non la pittura o la poesia. Il suo geroglifico è così leggero è fuggevole, è così facile non afferrarlo o fraintenderlo, che la più bella sinfonia farebbe un ben povero effetto se il piacere infallibile e immediato della sensazione pura e semplice non stesse infinitamente al di sopra di quello di un’espressione spesso equivoca ... Come avviene dunque che delle tre arti che imitano la natura, quella in cui l’espressione è più arbitraria e meno precisa parla più fortemente all’anima? » [N.d. 7].

1 IL CONCERTO

Mozart trionfò soprattutto dove Haydn aveva fallito: nei generi drammatici dell’opera e del concerto in cui la voce singola compete con la sonorità della massa. Di primo acchito le disparità di risultati possono sembrare inspiegabili. La superficie della musica di Haydn è più drammatica di quella di Mozart, non meno; fra i due, è lui il più portato per il coup de théatre, la modulazione a sorpresa, la repentina trasformazione della solennità in farsa, l'accento dinamico scandalosamente eccessivo.

E si può anche sostenere che le melodie mozartiane sono non solo più convenzionali, ma anche meno «caratteristiche » di quelle di Haydn, meno immediatamente evocative di un’azione o di un sentimento specifico. Di rado la musica mozartiana si fa illustrativa con un grado di

dettaglio nel dipingere immagini e sentimenti paragonabile a quello dispiegato da Haydn nei due grandi oratori. Imomenti «caratteristici », che abbondano nelle sinfonie haydniane, si distinguono dalla pittura sonora delle Stagioni per l'assenza di un rimando esplicito, ma non sono meno netti né meno individualizzati. I personaggi delle opere mozartiane prendono vita con una presenza fisica introvabile in quelli di Haydn, ma la loro musica non è più drammatica né più « espressiva ». E se la capacità di penetrazione psicologica di Mozart sembra spiegare in modo soddisfacente il suo successo in campo operistico, non può dare conto invece di quello nel genere contiguo del concerto. Il giovane Haydn non ebbe l’esperienza maturata dall'altro nella sua precoce carriera di brillante concertista internazionale né quella conoscenza di prima mano della vita operistica nelle capitali europee; nel campo dell’opera aveva tuttavia una competenza che non deve essere sottovalutata e s’interessava più di Mozart al virtuosismo strumentale spettacolare, del quale aveva il gusto e che sapeva usare con perizia; la sua relativa goffaggine nella forma del concerto ha radici diverse. Basta 234

confrontare la timidezza del suo ultimo concerto pianistico, brano garbato ma insapore, con lo stravagante virtuosismo dei trii con pianoforte e delle ultime sonate, oppure con le complicate e sorprendenti prodezze che richiedeva agli strumentisti nei passi solistici delle sue sinfonie di ogni periodo: è evidente che queste e la musica da camera offrivano terreni più fertili alla sua curiosità nei confronti del virtuosismo. Le ragioni della superiorità mozartiana nell’opera e nel concerto non si ridu-

cono alla maggiore esperienza maturata o a un gusto per il virtuosismo e l’espressione drammatica, ma sono specificamente musicali e si rintracciano nella sua capacità di governare il movimento su larga scala e nell’impatto fisico diretto della sua musica. Paradossalmente, una delle ragioni della grandezza di Mozartin campo drammatico fu un’ineguagliata padronanza della stabilità dei rapporti tonali che gli rese possibile trattare una tonalità come una massa, come una vasta area di energia capace di includere e risolvere le più contraddittorie forze in opposizione, e gli permise di rallentare il puro andamento armonico della sua musica così che non procedesse più speditamente dell’azione sulla scena. Il quadro di riferimento definito dalla stabilità tonale consentiva al suo interno un ampio ventaglio di possibilità drammatiche e la saldezza del quadro è palese anche nei più arditi esperimenti armonici di Mozart. Se si interrompe la famosa introduzione cromatica del Quartetto per archi in do maggiore K 465 in un punto qualsiasi e si suona l’accordo di do maggiore, ci si accorge che le complesse progressioni misteriosamente inquietanti hanno stabilito fin dall’inizio la tonalità, pur senza aver mai fatto risuonare l'accordo di tonica, e che per di più non l’abbandonano mai: l'accordo di do maggiore appare sempre come il punto di stabilità attorno al quale ruotano tutti gli altri. L'inizio di un brano di Mozart ha sempre basi molto solide, per quanto ambiguo o inquietante possa esserne il significato espressivo, mentre le aperture apparentemente più innocenti di un quartetto di Haydn sono di gran lunga più instabili e cariche di un’energia che spinge da subito ad abbandonare la tonica. Solo un equilibrio quanto mai delicato nei rapporti armonici consente di ottenere una tale stabilità, ma l’agio con cui Mozart sa trattare anche il materiale più dissonante è già in sé il segno più visibile di quell’equilibrio. L'inizio del Quartetto in mi bemolle maggiore K 428 mostra su quale ampiezza di territorio Mozart sappia muoversi senza perdere il senso dell’armonia su vasta scala:

La prima battuta è un esempio sublime dell'economia mozartiana. Stabilisce la tonalità con un semplice salto di ottava (il più tonale di tutti gli intervalli) che incornicia le tre battute cromatiche che seguono: i due mi) sono le note rispettivamente più acuta e più grave dell’intero passag-

gio e, per il fatto stesso di fissare quei confini, implicano la risoluzione nell’ambito del mi bemolle di tutte le dissonanze successive. Delimitano, dunque, lo spazio tonale:

e le risoluzioni tracciano l’accordo perfetto fondamentale di tonica, mi bemolle maggiore. Benché non abbia accompagnamento, la linea melodica è armonizzata: quell’ottava in apertura le conferisce pieno significato armonico. A rendere percepibile con tanta evidenza come tutte quelle alterazioni cromatiche risolvano in un contesto perfettamente diatonico è la risonanza della battuta iniziale: il salto di ottava non è meno importante di ciò che segue. La prima battuta risolve e armonizza la progressione cromatica «non armonizzata » e questa, a sua volta, implica le armonie successive:

L’urto dell’accordo sul secondo grado contro la tonica a battuta 5 è già prefigurato nella linea melodica. L'effetto drammatico del dispiego dell’armonia completa dopo un passaggio all'unisono non è in nulla sminuito dalla logica impeccabile del procedimento.! Questa straordinaria padronanza consente a Mozart di usare già nelle esposizioni un ampio ventaglio di modulazioni sussidiarie e di tonalità lontane che Haydn doveva di norma riservare agli sviluppi. La concezione haydniana dell’energia insita nel materiale comporta inoltre una ripresa molto diversa dall’esposizione: perché il medesimo materiale possa, al termine del brano, ricondurre alla stabilità, bisogna che la nervosa

1. La simmetria è sempre espressiva. Il secondo violino alle battute 5-8 risolve il proprio

motivo PES

suonandolo a ritroso $°

239

energia iniziale sia ridisegnata da cima a fondo. Il trattamento mozartiano delle zone tonali dell'esposizione come masse sfocia invece spesso in riprese corrispondenti e simmetriche, in cui il discorso musicale che funge da risoluzione è una trasposizione pressoché letterale dello schema che inizialmente stabiliva la tensione. La simmetria dell’insieme si specchia in quella, spesso molto ricca, dei dettagli; nonostante la violenza espressiva che tanto spesso caratterizza l’opera di Mozart, la musica pare dunque librarsi in costante equilibrio. La grazia si fonda su quella simmetria. La complessità dell’equilibrio mozartiano è stata talvolta contrapposta alla scialba e meccanica simmetria della musica dei suoi contemporanei, specialmente Johann Christian Bach e Dittersdorf, in cui i dettagli riecheggiano blandi e monotoni. Se Mozart elude la ripetizione testuale non è però in cerca di varietà: la simmetria è cosa ben diversa dalla riproduzione letterale, soprattutto in musica, dove la potenza cumulativa della ripetizione si oppone diametralmente al senso dell’equilibrio. La musica è per definizione asimmetrica in rapporto al tempo, il quale procede in un’unica direzione: uno stile che si fonda sulle proporzioni deve venire a capo di questo squilibrio. La « sonata » è di per sé una forma basata su una parziale compensazione dello scorrere unidirezionale del tempo: alla fine del brano, infatti, l'esposizione non è ri-

petuta testualmente, bensì riscritta in maniera tale da rendere percepibile la conclusione che si approssima. In Mozart, la simmetria interna alla frase si fa carico della direzione temporale e ciò che sembra varietà è invece un sottile aggiustamento dell’equilibrio, una più perfetta simmetria. Di questa combinazione di potenza e piacere che Mozart ottiene adattando il senso della simmetria a un irreversibile movimento in avanti è difficile fornire esempi solo perché si vorrebbe citare tutto, ma ci accontenteremo di una frase di otto battute tratta dal finale del Quartetto La caccia:

240

Le ultime quattro battute sono una ripetizione mascherata delle prime quattro (come si verifica agevolmente sovrapponendo la parte del primo violino della prima metà della frase a quella della seconda e prestando attenzione alle ottave parallele che si creano). C'è poi una sim-

metria a specchio nella discesa della seconda parte della frase che corrisponde quasi perfettamente alla salita della prima e ciò spiega come mai l’una suoni come la risoluzione dell’altra, benché abbiano struttu-

re pressoché parallele. Accanto alle simmetrie, c'è però anche un’altra forza in gioco, che si manifesta nel modo più esplicito nei valori più brevi della seconda parte della frase; questo senso di movimento in avanti compare già nella prima metà, dove il motivo iniziale raddoppia il tempo quando è trasportato all’acuto e contemporaneamente suona, a questa stessa velocità, anche al basso: il motivo genera dunque al

tempo stesso la melodia e il movimento armonico. Anche gli elementi che riflettono lo scorrere del tempo si dispongono entro la cornice della simmetria: l'animazione crescente e la ripetizione cumulativa del motivo si rafforzano a vicenda. La simmetria controllata e l'urgenza del movimento sono ambedue essenziali per il genio drammatico di Mozart. La prima opera stilisticamente matura, segnata dalla comprensione profonda del legame fra questi due elementi, è La finta giardiniera, che Mozart scrisse a diciannove anni e che è pervasa da cima a fondo da questa nuova potenza drammatica, particolarmente evidente nel grido disperato e sensuale di Sandrina che apre il finale del primo atto:

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Per quanto mascherata, la simmetria di questa frase di sette battute È impeccabile: non solo le ultime tre riequilibrano le prime tre attorno al perno costituito dalla quarta battuta, ma delineano anche essenzialmente lo stesso profilo melodico che, ripetuto e decorato, acquista maggior foga ritmica e un’accresciuta tensione armonica. L'equilibrio simmetrico è assorbito dal movimento drammatico, ma gli conferisce una stabilità che consente al dramma di dispiegarsi come se fosse spinto dall'interno. Il senso del dramma era andato guadagnando importanza per l’epoca nel suo complesso. Un dettaglio dell’evoluzione del concerto per tastiera nel periodo che precede la maturità creativa di Mozart offre un esempio

eloquente. Fra il 17750 e il 17775, l’accompagnamento di un basso numerato, 0 basso continuo, al cembalo era ancora necessario sul piano armonico nelle sezioni puramente orchestrali, o ritornelli. Già allora si percepiva però che quando era il solista stesso a realizzare l’accompagnamento, l’effetto drammatico delle sue entrate ne risultava sminuito; per potenziare allora il contrasto fra gli episodi solistici e quelli orchestrali, si tendeva a sospendere il continuo nelle battute immediatamente precedenti le entrate del cembalista. L'esempio che segue, tratto da un concerto di Johann Christian Bach, illustra la prassi consueta dell’epoca:

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Qui l’uso dell’unisono consente di far sparire il basso continuo in modo che non sia sciupato il solo che inizier a di lì a poco; il procedimento deriva palesemente d a una forma particolare (che prevedeva appunto il ritornello tutto all’unisono) dell ‘aria e del concerto del periodo barocco, ma ora della met à del secolo è impiegato unicamente alla fine del tutti iniziale: quest'esempio rappresenta la norma più che l’ecce>

zione.

Mozart non si diede invece mai pena di introdurre in questo modo i 243

soli dei suoi concerti. Se dovessimo credere davvero, come alcuni vorrebbero, che nei suoi tutti egli continuasse a impiegare il solista, do-

vremmo dunque concluderne che i compositori minori del periodo precedente fossero più interessati di lui all’effetto drammatico del solo, il che è evidentemente inammissibile. Sotto ogni aspetto, e più di quanto non fosse mai accaduto prima, Mozart rese il solista dei suoi concerti si-

mile a un personaggio d’opera e mise in risalto i tratti drammatici del genere stesso. Ben più che un fatto storico, la filiazione del concerto dall’aria fu per Mozart un legame vivo e influente. Le prove materiali a favore dell’intervento del solista nella realizza zione del continuo dei concerti mozartiani anche dopo il 1775 sono peraltro seducenti. Gli elementi sono: 1) i manoscritti dei concerti mostrano chiaramente come quasi sempre Mozart scrivesse col basso nella parte del pianoforte (0 vi copiasse semplicemente la parte del basso) dovunque questo non suoni da solo; 2) tutte le edizioni dei concerti pubblicate nel Settecento, in gran parte dopo la morte del compositore, indicano un basso numerato per il pianoforte durante i tutti; 3) esiste una realizzazione autografa di Mozart del basso continuo del Con-

certo in do maggiore K 246 del 1776; alcuni manoscritti di concerti giovanili, dall’orchestrazione leggera, contengono inoltre numerazioni del basso scritte da Leopold Mozart; 4) nell’edizione Artaria del K 415, una delle poche stampate prima della morte di Mozart, si trova nel tutti un basso continuo particolarmente ricco di indicazioni e dove sono inoltre distinti con cura i passaggi in cui è richiesto un semplice raddoppio del basso da quelli che esigono invece un accompagnamento realizzato interamente con accordi: tanta solerzia ha indotto a ipotizzare che il basso continuo, in genere aggiunto dagli editori, fosse in questo caso opera dello stesso Mozart.' L'ultimo argomento può essere confutato in men che non si dica: per ricco e dettagliato che sia, il basso continuo dell’edizione del Concerto

K 415 non può essere d’autore perché è disseminato di errori che mai Mozart avrebbe commesso e che non possono essere liquidati come refusi. E senz'altro opera di uno scribacchino al servizio dell’editore.? 1. H.F. Redlich, introduzione all’edizione Eulenburg della partitura, 1954. 2. Per esempio, a battuta 51, il fa nel basso è numerato con $ ma in quello stesso punto l’intera orchestra (trombe, timpani, comi, oboi, fagotti e archi) suona forte le sole note

fa, la e do: se Mozart avesse voluto il re implicito nell’indicazione del basso, non l’avrebbe certamente affidato al solo pianoforte a fronte di tanta potenza. Quella numerazione dà luogo del resto a una cadenza che risulta in quel punto perfettamente sensata in rapporto alla semplice linea del basso, e lo scribacchino sembra prediligere quel modo di armonizzare; quando la medesima cadenza si presenta a piena orchestra, a battuta 156,

al termine di una frase assai diversa, egli armonizza di nuovo una nota con un 6 mentre tutti gli altri strumenti suonano un accordo perfetto in posizione fondamentale. Analogamente, alle battute 56, 57 e 58, mette 7 in un accordo che accompagna una triade

244

E utile rammentare come avvenivano le esecuzioni pubbliche nel tardo Settecento: nessuno suonava a memoria e una partitura sul leggio dello strumento a tastiera sarebbe stata troppo ingombrante; all’epoca neppure il direttore aveva sempre davanti a sé una partitura, ma spesso la parte dei primi violini. Come punto di riferimento per gli attacchi il pianista usava la parte del violoncello, tradizione che risaliva al tempo in cui egli suonava effettivamente il continuo. Persino i concerti di Chopin furono pubblicati con la parte del continuo; la sopravvivenza di questa notazione oramai desueta ha inevitabilmente generato problemi testuali: nei concerti di Beethoven e di Chopin si trovano talvolta, a inizio e

fine di frase, note di cui è difficile discernere se debbano essere attribuite alla parte solistica, e dunque essere eseguite, oppure a quella del continuo, nel qual caso fungono solo da guida e vanno omesse. Nei concerti di Mozart non c’è un solo punto in cui si debba aggiungere una nota per completare l'armonia o dove il tessuto musicale richieda il tipo di continuità che viene dall'uso del basso numerato. Nella musica profana la pratica del continuo scomparve con la metà del Settecento, sia pur gradualmente, e in Haydn e in Mozart tutto dimostra come

ora del 1775

essa fosse estinta musicalmente, se non nei fatti. Un esempio analogo alla notazione del basso continuo in funzione di supporto mnemonico per l’esecutore si trova nella partitura del Concerto per clarinetto di Mozart: prendendo il testo alla lettera, dovremmo credere che, quando non è impegnato come solista, il clarinetto raddoppi incessantemente la parte del violino, il che sarebbe in flagrante contraddizione con tutto ciò che

sappiamo della finezza e della cura che Mozart metteva nel far raddoppiare ai fiati le parti degli archi; è evidente che qui si tratta solo di un riferimento.! Nel Settecento l’esecuzione era una faccenda assai meno formale di quanto non accada oggi e il rapporto col testo decisamente più spregiudicato. (La lettera di Haydn a proposito delle sinfonie parigine, in cui semplice: una settima di dominante avrebbe senso in questo punto, senonché Mozart non l’ha prevista e non la si sentirebbe (un pensiero consolante) neppure se fosse suonata su un gran coda da concerto. La partitura Eulenburg dello stesso K 415 contiene molti più errori di numerazione del basso continuo. Nel secondo movimento, le battute 15 e 16 non hanno alcun senso e nelle battute 5 e 6 manca il bequadro; nel terzo movimento, il secondo 6 a battuta 21 dovrebbe essere un 93 11 6 di battuta 46 dovrebbe essere de c’è

qualcosa che non quadra alle battute 138-139 (dove invece di 5 o dovrebbe leggersi 7 DE

Non mi do pena di scoprire quanti di questi errori siano refusi e da dove (se da Artaria o da Eulenburg) essi abbiano origine: non mi importa come vengano stampate cose che Mozart non ha scritto. 1. Nella Missa in tempore belli di Haydn, quando l’organo tace (e il compositore scrive « Senza 07g.»), nella sua parte continuano a comparire i numeri e la linea del basso. I numeri non servono se non come punti di riferimento per lo strumentista 0, se la composizione era diretta usando una parte di basso anziché la partitura completa, per il direttore.

245

osserva come almeno una prova sia raccomandabile prima di un’esecuzione, può dare l’idea di come andassero allora le cose). Possiamo ipotizzare che il pianista eseguisse, se non l’intero basso continuo, almeno

una parte di esso? Quando egli dirigeva dalla tastiera suonava in effetti degli accordi per tenere insieme l’orchestra e forse anche per contribu-

ire alla sonorità nei forte. Unirsi all’orchestra negli accordi finali è per i solisti una tradizione di lunga data, ma non so se risalga all’epoca di Mozart. Una tradizione può essere erronea quanto un'innovazione, ma è senza dubbio preferibile non vedere un pianista incrociare le braccia parecchie battute prima degli altri. La sonorità del pianoforte settecentesco era molto esile: quand’anche il pianista l'avesse suonato, il continuo sarebbe stato udibile, perlopiù, solo dai membri dell'orchestra,

salvo che egli si sforzasse di suonare molto forte; ma non vi è ragione,

né musicale né musicologica, per supporre che qualcuno abbia mai eseguito una parte di continuo altrimenti che con discrezione. Con l'aumentare dell’organico orchestrale il continuo si fece non solo superfluo, ma addirittura assurdo. Nella prospettiva esecutiva attuale, un pianista potrebbe suonare il basso continuo a condizione di restare inudibile. C'era però, almeno per i concerti dall’orchestrazione più leggera, anche l’uso di eseguirli in privato con un quintetto d'archi. Mozart stesso si scusò per non avere inviato al padre le partiture di alcuni nuovi concerti, ma, scriveva, «ho pensato, e penso ancora, che li potrete utilizzare poco, dal momento che ... sono con strumenti a fiato obbligati, e voi suonate

raramente questo tipo di musica ».' Le cifrature del basso di mano di Leopold Mozart non dovettero servire che per le esecuzioni domestiche dei concerti che non richiedevano i fiati e in cui lo strumento a tastiera riempiva la sonorità degli archi. Mozart del resto non avrebbe avuto bisogno dei numeri, e Leopold non dovette usarli che in casa. Contribuisce a rafforzare ulteriormente questa tesi anche la parte del continuo del K 246 di pugno di Mozart; qui il pianoforte nei due movimenti estremi accompagna l’orchestra solo nei passaggi contrassegnati dal forte, mentre nell’Andante, sorprendentemente, raddoppia la melodia solo alle battute 9-12, ossia, ed è significativo, nell’unico punto dell’intero concerto in cui la melodia è affidata ai soli fiati senza alcun sostegno degli archi. Si può quindi supporre che questa realizzazione sia servita per un'esecuzione senza i fiati, quasi certamente con il solo quintetto d'archi. Questo documento, l’unico autografo mozartiano del ge-

nere, non ha dunque alcun valore per le esecuzioni pubbliche dei concerti. L'indicazione del continuo nei concerti di Mozart dovrebbe essere

1. Lettera del 15 maggio 1784, in Mozart, Letters, cit., vol. II, p.877 [Tutte lelettere di Mozart,

cit., vol. III, p. 1363].

246

valutata assieme alla documentazione che rimane di parti per il pianoforte nelle ultime sinfonie di Haydn. Fu l’autore stesso a dirigere alla tastiera le prime esecuzioni delle sinfonie londinesi e abbiamo addirittura un breve assolo di pianoforte, undici battute, per la fine della n. 98. Ma

nella mezza dozzina di edizioni pubblicate a stampa durante la vita di Haydn non c'è traccia di quest’assolo; non compare che in un’edizione postuma e in diverse trascrizioni per quintetto o trio con pianoforte (in una delle quali si trova affidato al violino). A fronte degli innumerevoli passi solistici per tutti gli altri strumenti d’orchestra, undici battute opzionali per il pianoforte non possono essere considerate altro che una dimostrazione dell'umorismo di Haydn. Al debutto, l’onere di tenere insieme l’orchestra era ripartito fra il primo violino, Salomon, e il compositore seduto alla tastiera; dovette essere indubbiamente

ameno,

al

termine di una sinfonia, sentire spuntare all’improvviso in veste di solista uno strumento che fino ad allora non aveva avuto funzione musicale più significativa di quella del suggeritore in un’opera. Il passaggio è incantevole non per il fatto che il pianoforte intervenga in una composizione sinfonica, bensì perché esso è visibile ma non udibile per tutto il

brano salvo che in quelle undici battute. (In un’esecuzione ai giorni nostri, è impossibile cogliere la facezia implicita in questo breve solo pianistico, ma il suo effetto sonoro è così delizioso che rinunciarvi è dav-

vero un peccato). All’epoca, la tastiera aveva perso da tempo la funzione di riempitivo armonico! e iniziava a non servire più neppure per garantire la coesione dell’orchestra.

Si potrebbe aggiungere che l’indicazione col basso dei manoscritti mozartiani è un puro automatismo: i sostenitori della teoria che il continuo fosse concepito per essere sia visto che udito giudicano particolarmente significativo che Mozart abbia talvolta inserito delle pause nella parte pianistica in corrispondenza dei tutti, ma sono pause che non hanno alcun valore musicale, tant'è vero che compaiono quasi esclusivamente dove il violoncello non suona. Si tratta di un aiuto per il copista, non di un’indicazione esecutiva. La parte del violoncello (e non altro) veniva inserita in quella dello strumento a tastiera quando questo taceva; ciò avveniva in modo tanto automatico e tradizionale che nella parte organistica della Missa solemnis di Beethoven la troviamo assieme all’indicazione senza organo. Perché allora darsi la pena di stamparla? Semplicemente perché l’esecutore alla tastiera aveva avuto davanti a sé la parte del violoncello per almeno un secolo e mezzo, e gli serviva per orientarsi.” 1. Anche nelle sinfonie giovanili, il solo indizio stilistico della presenza del continuo è un tessuto sonoro snello tipico di Haydn e che egli continuò a favorire sino alla fine della sua vita, come dimostra anche una semplice occhiata agli ultimi quartetti. 2. È divertente vedere a quali estremi giungano, per difendere le loro teorie, quanti sostengono che il solista svolgesse anche la funzione del continuo. Alle battute 88-89 del

247

Ciò detto, in tutta questa discussione c'è un’assenza importante, Come la sedia vuota per l’ospite d'onore che non si è presentato; una questione che mai, per quanto ne so, è stata affrontata dalla letteratura in argomento. Ci siamo domandati se il continuo venisse usato, se se ne possa fare a meno oppure no, ma non ci siamo mai posti il problema del suo effettivo valore musicale. Fra due esecuzioni di un qualsivoglia brano, l’una con e l’altra senza uno strumento a tastiera che aggiunga l’armonia, dovrà pur esserci una differenza che sia specificamente musicale. Se il basso numerato era un ausilio pratico per l'esecuzione, un aiuto per la coesione dell’insieme, perché fu abbandonato? Spiegare la scomparsa del continuo con quella della sua funzione armonica non fa che rimandare la domanda. Perché per riempire l’armonia i compositori rinunciarono a usare lo strumento a tastiera, che permetteva di farlo in maniera assai più semplice, senza doversi prendere la briga di distribuire le note altrove, e che, per di più, agevolava la coesione orchestrale? Perché, tanto per dire, in un quartetto di Brahms o in una sinfonia di Cajkovski] l’aggiunta di una parte di continuo, per quanto discreta, ci apparirebbe grottesca? Il continuo (o qualsiasi forma di basso numerato) è un modo per de-

lineare e isolare il ritmo armonico. È per questa ragione che in genere lo si può indicare mediante numeri sotto la linea del basso piuttosto che scrivendone esattamente le note per esteso. Far risaltare il cambio di armonia è la sola cosa importante, i raddoppi e la distribuzione spaziale delle note che la compongono sono questioni secondarie. Questo modo di isolare (di mettere in evidenza l'andamento dei cambi di armonia) è

un tratto essenziale dello stile barocco, e particolarmente del cosiddetto tardo barocco del primo Settecento, di uno stile cioè che trae l'impulso motore e l'energia dalla progressione armonica e che su questa sola può contare per invigorire e animare un tessuto musicale altrimenti poco differenziato. La musica del tardo Settecento trae invece la propria energia non dalla progressione, bensì dall’articolazione della frase periodica e dalla modulazione (o da ciò che potremmo chiamare la dissonanza su larga Concerto in re minore K 466, Mozart annotò alla mano sinistra quattro note gravi (che raddoppiano i timpani) e alcuni accordi due ottave sopra di quelle mentre la mano destra è impegnata in passaggi virtuosistici; poiché ovviamente non c’è mano che possa coprire tre ottave, queste battute hanno dato luogo a spiegazioni assai fantasiose. Si è ipotizzato un secondo pianoforte che si facesse carico di un continuo su quelle note gravi, così come l’utilizzo di un pianoforte con pedaliera (sembra che Mozart ne abbia posseduto uno a un certo punto della sua vita). La cosa che allo stato attuale appare più probabile è che Mozart abbia dapprincipio scritto quelle note e successivamente cambiato idea e inserito gli accordi, dimenticando di cancellare la prima versione. Questo passo mostra in ogni caso che quando Mozart desiderava affidare al solista una funzione di ri-

empitivo armonico, metteva per iscritto le note necessarie.

248

scala). Un’enfasi sul ritmo armonico è dunque non solo superflua, ma

anche fonte di distrazione. In una sinfonia di Haydn, il tintinnio di un cembalo o di un fortepiano è senz’altro un suono suggestivo, ma irrilevante sul piano musicale e privo di valore al di là della piacevolezza sonora. Che né Mozart né Haydn abbiano concepito un sistema più efficace per dirigere un'orchestra mostra che in quanto interpreti erano sullo stesso piano dei contemporanei, la cui concezione esecutiva era in ritardo rispetto al radicale mutamento stilistico intervenuto dal 17770 in avanti e

del quale gli stessi Haydn e Mozart erano principalmente responsabili. Il che solleva un nuovo quesito: sa il compositore come debba suonare ciò che egli scrive? Problema delicato, che sta al cuore di ciò che pensiamo sia la musica.

Se questa non si riduce alla semplice notazione su carta, la sua realizzazione sonora è una questione cruciale. Siamo soliti ritenere che l’esecuzione ideale sia quella immaginata dall'autore mentre componeva e che il «vero» brano sia quell’ideale esecuzione immaginaria, non le note scritte sul foglio o quelle sbagliate in un'esecuzione materiale. Ma è una supposizione fragile che non regge a una verifica. E un’opera musicale non può semplicemente coincidere con una delle varianti menzionate (l'esecuzione immaginaria, quella effettiva, la notazione su carta).

Mettiamola nel modo più semplice. Le testimonianze d’epoca ci insegnano che, attorno al 1790, quando un direttore sedeva alla tastiera spesso smetteva di suonare per affidarsi al gesto; non sappiamo dove esattamente si interrompesse, ma siamo certi che non suonava dall’inizio alla fine. Nell’immaginare la sonorità delle sue sinfonie, Haydn doveva senz'altro aspettarsi una certa dose di intervento del clavicembalo o del fortepiano, ma non c’è nessun punto della sua musica in cui ciò sia indicato come necessario, o anche solo auspicabile, se non il breve passaggio scherzoso della Sinfonia n. 98. Ciò significa che l’idea che un compositore ha della propria opera è a un tempo precisa e leggermente sfumata; e non può essere altrimenti. Nulla è definito con maggior esattezza di una sinfonia di Haydn, con i contorni netti, i dettagli chiari e sempre nitidi all’ascolto. Là dove Haydn scrive però una certa nota per il clarinetto, l'indicazione non rimanda a un suono specifico — c'è una moltitudine di strumenti ed esecutori e suonano tutti in modo diverso —, bensì a un ampio ventaglio di possibilità entro un ambito ben definito. L'atto compositivo consiste nel fissare il perimetro entro il quale l'interprete è libero di muoversi. Una libertà che tuttavia è (o dovrebbe essere) limitata anche in un altro senso. I

confini fissati dal compositore rimandano a un sistema che, per molti

aspetti, è simile a un linguaggio e che è dotato, infatti, di ordine, sintassi

e significato suoi propri. L'interprete fa emergere quel significato, ne illumina la portata rendendola quasi palpabile. Nulla induce a credere che il compositore stesso o i suoi contemporanei sappiano sempre con 249

certezza quale sia la via migliore per rendere l’ascoltatore pienamente consapevole di quel significato. I, Le innovazioni compositive precedono nuovi modi di suonare e cantare e spesso ci vogliono dieci o vent'anni perché gli interpreti imparino a cambiare il proprio stile e riescano ad adattarsi. Ora del 1775, l’uso del

continuo nel concerto per pianoforte era ormai un vestigio del passato

che la musica stessa avrebbe completamente abolito, e tutto induce a ri-

tenere che il basso numerato fosse ormai solo una notazione convenzionale utile per il solista o per il direttore come surrogato della partitura durante l’esecuzione, o tutt'al più come mezzo per tenere assieme l’orchestra, ma che non avesse più alcuna funzione musicale. Lo sdegno sporadicamente suscitato al giorno d’oggi dalla sua omissione, vuoi in

sala da concerto, vuoi in un’edizione, non ha fondamento storico ed è

musicalmente insostenibile. Nel 1767 Rousseau lamentava che all’opera di Parigi il direttore, battendo un rotolo di carta da musica sul leggîo per tenere l'orchestra a tempo, facesse un tale rumore che il piacere dell’ascolto ne risultava completamente distrutto. L’uso di uno strumento a tastiera nel corso di una sinfonia o di un episodio orchestrale in un concerto scritto dopo il 1775 è senza dubbio meno fastidioso all’ascolto, ma la sua autenticità e

il suo valore musicale sono i medesimi.

Il fatto più rilevante per la forma del concerto è che il pubblico aspetta l’entrata del solista e poi, quando questi smette di suonare, che ri-

prenda. Se si può dire che il concerto abbia, a partire dal 17775, una forma, quest’attesa ne è il fondamento e spiega il legame così forte e stretto fra il concerto e l’aria d'opera; un’aria come « Martern aller Arten » dalla Entfuhrung aus dem Serail non è altro che un concerto per più strumenti solisti in cui il soprano riveste il ruolo principale in un gruppo concertante. Alla fine del Settecento quel legame si fece più stretto che mai e l'apporto del periodo classico al genere del concerto fu in effetti di renderlo drammatico e nel modo più letteralmente scenico: che il solista fosse diverso veniva reso visibile. Nel concerto barocco il solista (0 i solisti) facevano parte dell’orchestra e con essa suonavano durante l’intero brano; il contrasto sonoro era

dato dal tacere del ripieno (gli strumenti non solisti dell’orchestra)

mentre i solisti continuavano. Nei concerti del primo Settecento non esistono in sostanza entrate dall’effetto drammatico salvo quelle dell’orchestra al completo; anche quando inizia la famosa cadenza del Quinto concerto brandeburghese l'impressione è che il solista prosegua senza soluzione di continuità col tessuto musicale precedente perché l’orchestra è andata via via rarefacendosi, fino alla scomparsa, attraverso una serie di

gradazioni splendidamente calibrate in cui Bach riesce, per una volta, a 250

vincere la resistenza che lo stile del suo tempo oppone alla transizione dinamica. (La breve pausa con cui molti cembalisti indicano l’inizio del-

la cadenza è un anacronismo, l'intrusione di un’idea moderna di teatralità concertistica). Nel concerto classico le cose stanno diversamente: in tutti quelli che Mozart scrisse dopo il 1776, l’entrata del solista è un avvenimento, paragonabile all'arrivo sulla scena di un nuovo personaggio, che viene contornato, messo in rilievo, colorato, con una strabiliante varietà di mezzi. La separazione del solista dal ripieno, va detto, non fu

un'invenzione di Mozart, bensì il frutto di un cambiamento progressivo

legato alla generale evoluzione della forma articolata e alla crescente sensibilità verso la chiarezza drammatica; solo Mozart però, fra i compo-

sitori anteriori a Beethoven, intuì la portata di quel contrasto dinamico fra solista e orchestra e seppe trarne tutte le conseguenze sul piano della forma e del colore. Lo stesso Haydn continuò a trattare perlopiù il solista come un componente temporaneamente separabile dell’orchestra. Il concerto barocco è una libera alternanza di sezioni solistiche e di ripieno senza decise cadenze alla tonica, se non in conclusione del primo e dell’ultimo episodio orchestrale, e con soli che derivano dai tutti, quasi immancabilmente generati dai motivi iniziali. Tralascio in questa descrizione le sorgenti di energia proprie dello stile barocco, sorgenti che fanno dei grandi concerti di Bach e di Handel ben più che libere alternanze di contrasti e che si erano però inaridite molto prima dell’epoca mozartiana. Lo sviluppo del concerto dopo il 1750 è stato spesso descritto come una fusione tra la nuova forma sonata e il vecchio concerto; non è del tutto fuorviante, ma ha il limite di non spiegare perché mai qualcuno avrebbe dovuto voler arbitrariamente fondere due concezioni tanto contrastanti se non opposte. Perché non abbandonare semplicemente la vecchia forma e scrivere un’opera del tutto nuova come una sonata per solista e orchestra? E più proficuo allora esaminare la questione da un’angolatura più semplice e meno banalmente meccanicistica. Considerando la sonata non come forma bensì come stile, ossia co-

me sensibilità verso un nuovo tipo di espressione drammatica e di concezione delle proporzioni, si vede più distintamente come il concerto abbia adattato le proprie funzioni (il contrasto fra due tipi di sonorità, il

dispiego del virtuosismo) al nuovo stile. Elencare nella loro varietà i procedimenti formali usati da Mozart nei concerti non è di grande utilità se

non se ne comprendono i fini drammatici ed espressivi. Tomiamo alla pagina orchestrale d’esordio, ossia al primo ritornello: una volta accettato che il solista debba rivestire un ruolo drammatico, il ritornello pone un problema per la semplice ragione che (come ho già detto) il pubblico attende l’entrata del solista. Ciò significa che entro

certi limiti il tutti iniziale ha sempre un carattere introduttivo: sta per succedere qualcosa. Se è molto breve, come nella maggior parte delle

arie, il problema non si pone; in un brano di ampie dimensioni, invece,

201

questo carattere introduttivo rende l’inizio insignificante e il materiale che qui viene ascoltato per la prima volta tende a perdere la sua importanza e necessità. Farne un’introduzione in senso stretto, conferirgli cioè

sul piano armonico un carattere di dominante anziché di tonica, e affidare al solista, solo o accompagnato, l'esposizione del materiale principale, significherebbe violare, tenendo conto del peso rispettivo delle due

sonorità, il senso classico di decoro (qualcosa di simile non fu possibile che oltre un secolo più tardi e a guisa di scherzo in un brano come le Variazioni su una ninna-nanna di Dohnanyi, benché le Vanazioni Kakadu di Beethoven rappresentino già un tentativo in quella direzione). Sopprimere semplicemente il ritornello iniziale e far esporre il materiale da solista e orchestra su un piano di parità (come nei concerti di Schumann, Liszt, Grieg e Cajkovskij) significa rinunciare al piacere classico degli ef fetti su larga scala e trasformare il contrasto fra solista e orchestra in una serie di rapide alternanze perdendo il respiro delle sezioni estese. D'altro canto rendere esageratamente drammatico il ritornello iniziale nel tentativo di accrescerne l’importanza e attrarre su di esso l’attenzione del pubblico vorrebbe dire sminuire l’effetto drammatico del ruolo solistico, di-

struggendo uno dei principali vantaggi della forma del concerto. All’età di vent'anni, in quello che fra tutti i generi può essere considerato il suo primo capolavoro di ampie dimensioni, Mozart risolse il problema in modo semplice e brutale, come chi rompesse il collo di una bottiglia per aprirla. All’inizio del Concerto in mi bemolle maggiore K 271 (si veda l’esempio alle pp. 87-88) il pianoforte partecipa (da solista) alle prime sei battute e poi tace per il resto dell’esposizione orchestrale; era una soluzione così singolare che Mozart non vi ricorse mai più (fu invece sviluppata da Beethoven in due celebri esempi, e in seguito da Brahms che ampliò la concezione beethoveniana). Con un colpo solo, la presentazione iniziale guadagna drammaticità e l’esposizione d’orchestra il peso che altrimenti le sarebbe forse mancato. Tuttavia, per ottenere questo risultato, l’entrata di maggior effetto del solista (la prima) viene spesa già alla seconda battuta, prima che la sonorità orchestrale si sia udita abbastanza a lungo perché si possa cogliere fino in fondo il contrasto fra i due; il che rende problematica la seconda entrata del solista,

ma anche in questo caso la soluzione è audace e brillante. Il pianoforte entra prima che l'esposizione orchestrale abbia trovato il tempo di finire, nel bel mezzo di quella che è evidentemente una lunga cadenza con-

clusiva;' inserendosi con un trillo che fa, al tempo stesso e non senza

ambiguità, da segnale di virtuosismo per il solista e da accompagnamento coloristico alla frase orchestrale, il pianoforte prosegue bellamente indifferente, come se si trovasse nel bel mezzo di una propria frase durante una conversazione in corso. 1. Sivedano itemi9e 10 nell'esempio a TRO

2Oz

L'esposizione orchestrale del K 271 non modula mai e rimane sempre alla tonica, proprio come farebbe l’introduzione orchestrale di un’aria d'opera. L'effetto drammatico

della modulazione

è lasciato al solista:

poiché il concerto richiede a rigore due esposizioni, necessariamente una di esse è passiva; proprio per non averlo compreso l’Ottocento dovette spesso rinunciare a quella orchestrale che diveniva tautologica. Nel Concerto in mi bemolle invece le due esposizioni differiscono non solo nel percorso armonico, ma anche nella struttura tematica. Il ritornello definisce la natura del brano, ne fornisce le fondamenta tonali e motivi

che; l'esposizione pianistica conferisce al concerto il movimento drammatico e, a questo scopo, elimina una parte del materiale tematico e ne

aggiunge di nuovo. La somma di materiali così prodotta, con tutta la sua varietà e ricchezza, è tenuta assieme da una logica immediatamente convincente: essi derivano in gran parte, e risulta chiaramente all’ascolto, dalla frase iniziale. Benché molto diverse fra loro, le due esposizioni sono legate da un rapporto che non ha nulla di arbitrario; sorvolando, per il momento, sui diversi aspetti della questione delle forme di sonata o di concerto, è interessante invece soffermarsi su come Mozart forgi il proprio materiale e gli conferisca potenza drammatica. Il motto del brano si trova nelle prime battute, un tema (1) dalle cui due parti contrastanti deriva in buona parte il resto del movimento. Chiamo (a) la fanfara orchestrale e (b) la

simmetria dissimulata nell’arguta risposta del pianoforte: Pianoforte

b_n [2

Il tutto viene ripetuto ed è immediatamente seguito da un tema (2) che combina ingegnosamente ritmi e profili di (a) e (2) in un andamento danzante: |

Ne nascono un più rapido ritmo di accompagnamento e una fanfara (3) chiaramente imparentata con (a), mentre gli oboi portano avanti il disegno di (2):

253

Seguono quattro battute di transizione, costruite con due elementi del tutto convenzionali, che chiamo

(3A) e (3B) benché sia vano doman-

darsi se questa frase appartenga più a ciò che precede o a ciò che segue. La riporto non solo per la maestria con cui è condotta la transizione, ma anche per l’importanza che la frase verrà ad assumere nelle sezioni successive, dove Mozart la usa come un perno affinché l’ascoltatore dentro di sé associ sezioni costruite con materiali diversi ma con la medesima funzione:

Il blocco (3A-B) rallenta il movimento: la frase nel suo insieme funge da pedale di dominante e la musica rimane sospesa prima di ripartire con un andamento diverso. Segue poi una frase (4) di una grazia incomparabile, in apparenza del tutto nuova ma in effetti così strettamente imparentata con (0) da integrarsi senza il minimo impaccio con tutto ciò che precede: non è altro infatti che l’aumentazione del modulo tematico di base e porta un senso di respiro dilatando lo spazio del conciso motivo originale:

Segue immediatamente un nuovo tema (5) (lo designo come un tema a sé stante benché non compaia mai separato da (4) salvo che nella cadenza: qualsiasi altro compositore, senza la ricchezza inventiva di Mozart, l'avrebbe usato come melodia indipendente); deriva da (4) tramite l’ag-

graziato movimento ascendente all’inizio di ogni battuta:

Questa filiazione è concepita in modo che all’ascolto la si percepisca come un elemento della logica conversativa della musica, ma costituisce al tempo stesso un’intensificazione del ritmo e dell’espressione: un salto ascendente su due è reso doppiamente veloce, con uno sforzando sul tempo debole, e anche l’accompagnamento si fa contrappuntisticamente più ricco e più cromatico. Quell’intensificazione ritmica ed espressiva accelera verso la fine e poi sfocia, senza transizione: Brt0)

il quale deriva direttamente da (a), riecheggia il trillo udito, pochi secondi prima, alla fine di (5) e giunge a un culmine espressivo per poi arrestarsi brutalmente. Fino a questo punto del brano sì erano udite tutte le note della scala cromatica tranne una, il re), che ora risuona,

sincopato e fortissimo. Questo non solo è il primo fortissimo del movimento, ma in un certo senso anche l’unico, poiché tutti gli altri non saranno che sue ripetizioni testuali. Il re) è anche, per quanto concerne la melodia, la nota più lun-

ga sin qui ascoltata e ciò è vero anche del silenzio che segue l'immediata risoluzione del re) sull’accordo di fa minore. Studiando lo schema di costruzione delle frasi si scopre un aspetto ancor più interessante di questo climax: fino a questo punto, il ritmo di tutte le frasi, a eccezione di una, è regolare e simmetrico. Ciò vale anche per l’inizio del brano, chia-

ramente costituito da una frase di quattro battute che risuona due volte e la cui prima esposizione è interrotta all’inizio della quarta battuta; la 290

leggera asimmetria è compensata dalla simmetria della ripetizione testuale. Le altre frasi non solo sono perfettamente regolari, ma presentano pure simmetrici effetti di eco: le battute 9-10 sono lo specchio delle battute 10-11, le 18-21 ripetono esattamente le 14-17, come le 43-44 riproducono le 41-42. Prima del punto culminante a cui siamo giunti, quella regolarità cessa unicamente alle battute 12 e 13, che interrompono la processione di raggruppamenti di quattro battute e delimitano un accordo di sesta di fa minore:

che è lo stesso accordo su cui risolverà poi quello fortissimo di settima diminuita su cui poggia il re) delle battute 45-46 (una risoluzione che dovrà poi a sua volta essere risolta). Le battute 12-13 preparano dunque il successivo punto culminante, il quale pure determina un’interruzione dello schema di quattro battute, ma ben più violenta e drammatica. Per magnificamente che sia preparato, questo culmine è però, a sua volta, una preparazione e un annuncio di ciò che verrà. La frase che segue insiste in effetti su quanto è appena accaduto. La costruzione ritmica su larga scala era articolata sin qui in due ondate: una prima intensificazione fra (1) e (3) e una successiva, più consistente, fra (4) e (6).

Ora il movimento ritmico si arresta completamente e il culmine (6) nelle ultime due note si trasforma in un recitativo (7) che di nuovo disegna

un accordo di fa minore:

(7)

Questo recitativo agisce come una corona (o in termini più generali come una cadenza): un’attesa espressiva prima della frase finale, una rinuncia a risolvere la tensione. C’è qui un dominio sapiente del ritmo che Mozart attinge dall’opera e che nessun altro compositore possedette mai con un tale agio. Segue una frase conclusiva, una sorta di fanfara (8) basata ancora su (a):

256

Ben presto ci s accorge però, e l’effetto è faceto e brillante, che la frase non è affatto conclusiva e conduce invece a una seconda cadenza (9), che non è altro che l’inversione di (a): Pianoforte

l'a

SITA

E

e che poi viene interrotta dall’effetto drammatico dell’entrata del pianoforte (10). Due frasi conclusive non sono un lusso: in seguito Mozart

avrà bisogno di entrambe. Il ruolo del pianoforte è drammatizzare questo schema con una po1.I dettagli appesantiscono, perciò riservo questo a una nota: l’entrata del pianoforte ritorna a battuta 60 sull’accordo di sesta di fa minore; inoltre il trillo e l’intera frase che segue servono ancora una volta a risolvere il do acuto dell’accordo su un si).

204

tenza sufficiente perché la sua risoluzione appaia necessaria e insieme abbastanza complessa da reggere il peso di quei moduli simmetrici con cui tanto si dilettava Mozart, persino nelle opere. Drammatizzazione, nei termini dello stile mozartiano, significa sviluppo (frammentazione ed estensione tematica) e modulazione (opposizione armonica o dissonanza su larga scala) : nella presentazione pianistica della forma già delineata dall’orchestra li troviamo entrambi, e persino la strumentazione del medesimo materiale è qui più drammatica e colorata che nella prima. La doppia esposizione nel concerto ha ben poco a che vedere con l’esposizione ripetuta nella sonata: quella solistica amplia e trasforma quella orchestrale tanto nel ritmo che nell’armonia. Pensare che in questo concerto Mozart si limiti a riprodurre uno schema aggiungendo colore, drammaticità e varietà ai singoli elementi sarebbe un fraintendimento colossale: è lo schema stesso che Mozart drammatizza (il mate-

riale non è costituito dai singoli temi bensì dalla loro successione) e la seconda esposizione non è una ripetizione, bensì una trasformazione. Solo quando si fu esaurito l’impulso creativo della forma del concerto (e della sonata), la doppia esposizione divenne simile alla ripetizione della prima parte di un allegro di sonata (come accade nei pur poeticissimi concerti di Chopin). Ma chiunque ascolti un concerto di Mozart senza pregiudizi sulla forma sente, senza ombra di dubbio, che l’esposizione del solista non è una ripetizione variata e con l’aggiunta di una modulazione delle idee fatte ascoltare prima dall’orchestra, bensì una presentazione radicalmente diversa e tale che il significato dello schema risulta completamente modificato da idee inedite e da un mutato approccio. La trasformazione si osserva fin da subito. Il tema di apertura (1) inter-

rompe la seconda entrata del pianoforte come all’inizio. Non è però seguito, come invece il pianoforte, accompagnato da due vi affianca un trillo cadenzale — già usato in (6) e (10B):

(10) ed è suonato due volte accadeva prima, da (2): ora oboi, inizia a sviluppare (a) e parecchi temi, soprattutto in

69 Oboi

L'accompagnamento accelera, la musica passa immediatamente alla do258

minante, si bemolle maggiore, e la modulazione è rafforzata da un passaggio brillante meccanico e convenzionale: Phi

+ Orchestra

(12)

etc.

La brillantezza serve a mettere in rilievo la modulazione e un materiale meno convenzionale non sarebbe efficace: qui la natura inespressiva della musica, la sua banalità, fa da contraltare alla logica complessa di uno sviluppo che frammenta il tema iniziale e lo costringe in un’altra tonalità. Il virtuosismo rende stabile la nuova tonalità. Per ristabilire lo schema vengono ora reintrodotti i temi (4) e (5),

preceduti però da un episodio di transizione (3A-3B) che sembra scaturire logicamente dalla fine di (12):

L’episodio è però ripartito, con effetto drammatico, fra il pianoforte e l’orchestra e il ritmo della terza battuta è modificato e reso più vigoroso. L'uso di questa frase di transizione, e, in una certa misura, la logica che 1. A proposito della tecnica di espansione della seconda esposizione, vale la pena di notare che le battute 78-81 sono, sul piano armonico, la dilatazione delle battute 12 e 13.

259

inconsapevolmente facciamo nostra durante l’ascolto, ci fanno com-

prendere come (11) e (12) abbiano una funzione analoga a (2) e (3): più precisamente, (2) e (11) sono ambedue sviluppi di (a), (3) e (12)

concludono ciascuno una sezione rendendola più brillante e inten-

sificandone il senso di movimento. Ma l’accresciuta drammaticità nel ritmo e nell’orchestrazione della nuova versione di (3A-B) corrisponde

alla maggiore intensità dell’esposizione pianistica.

Anche le graziose melodie (4) e (5) non vengono semplicemente ripetute dal solista: (5) è suonata due volte, la seconda delle quali dall’o-

boe, con un accompagnamento pianistico a velocità doppia rispetto all’originale e con il tema ulteriormente allungato da una frase 905

profondamente espressiva, che a battuta 115 crea una sorta di corona, quasi si rifiutasse di cedere all’inevitabile discesa:

(13) *

Qui si trattiene il fiato in attesa che termini la frase e a tenere sospesi è la cadenza a sorpresa che si trova a metà (battuta 114); ma alla fine (battu-

ta 117) ci ritroviamo, quanto all’armonia, esattamente allo stesso irrisolto punto di partenza. Senonché, ad allentare la tensione, giunge subito un esteso scoppio finale di virtuosismo (14), suonato due volte:

(14) etc.

Questo passaggio conclude e stabilizza definitivamente, ora di battuta 135, la modulazione iniziata a battuta 70; ancora una volta, la convenzio-

nalità del materiale è indispensabile per convogliare la sensazione di una cadenza solida. Questo punto è inoltre quanto mai appropriato per 260

un'estesa esibizione del virtuosismo strumentale che è, in fin dei conti,

l'essenza della forma concertistica. E naturale, oltre che tradizionale, ristabilire la simmetria facendo rientrare l'orchestra e facendole terminare l'esposizione con le frasi conclusive del suo ritornello; (6), (7) e (8) si succedono in effetti in bell’ordine e nella tonalità della dominante. Il recitativo (7), dopo il culmine

orchestrale, è però affidato ora al solista, un gesto operistico così naturale e al tempo stesso così efficace che è arduo sapere se a dettarlo siano stati estro o semplice logica. In Mozart le trovate più fantasiose sono sempre anche le più razionali. Il momento di massima tensione all’inizio di (7), ora trasposto alla dominante, è meno impressionante che alla

sua prima apparizione perché è preceduto da un lungo dispiego di virtuosismo del solista, che tocca ripetutamente la nota più acuta del pianoforte mozartiano. Il virtuosismo fa parte della drammatizzazione. L’esposizione pianistica, come abbiamo visto, adatta liberamente il ritornello orchestrale che è concepito come una concisa presentazione introduttiva; entrambe le esposizioni consistono tuttavia nello sviluppo e nell’espansione del breve motivo di base con cui inizia il brano, ed entrambe tendono verso un punto culminante, ancorché diverso per l’una e per l’altra. In quella pianistica, il climax orchestrale, che conduce dal re) acuto a un accordo tenuto di fa minore,' è non solo trasposto, ma propriamente sostituito dalla maggiore potenza drammatica della modulazione alla dominante e dalla brillantezza della scrittura solistica. Ma è l'originario culmine orchestrale a rivestire il ruolo più importante nella forma complessiva del brano. Solo due frasi dell’esposizione orchestrale, quelle che ho chiamato (2) e (3), mancano in quella pianistica e ambedue sono suonate dal solista nella sezione successiva (che possiamo chiamare «sviluppo » e che costituisce un’intensificazione della modulazione alla dominante dell’esposizione e un'ulteriore drammatizzazione del suo materiale), dove

non sì presentano però l’una dopo l’altra in continuità, bensì assai distanziate a incorniciare lo « sviluppo ». Il pianoforte attacca con (2), ora alla dominante, e tronca la frase cadenzale dell’orchestra prima che se ne sia pienamente manifestato l’effetto conclusivo, offuscando così la

distinzione fra esposizione e sviluppo; certo, dal momento che fin qui non avevamo ancora sentito (2) né al pianoforte né alla dominante, ci si può chiedere se non sia più legittimo attribuire questo passaggio all’«esposizione » che allo « sviluppo », un dubbio rafforzato dal nuovo e grazioso motivo a forma di arco con cui il pianoforte completa la frase e che conduce direttamente alla fanfara iniziale (1). Il tema fondamenta-

le (1), presentato ora per intero e con la ripetizione, suona più che mai 1. Tenuto dalla frase che segue, che insiste sulle note della triade di fa minore anche quando al di sotto cambia l'armonia.

261

come un inizio, come se desse nuovamente l’avvio allo schema già ascoltato per due volte. Questa sezione ripercorre in effetti l'itinerario già descritto, ma con una maggiore intensità. Come già nell'esposizione pianistica, a (se: gue (11), uno sviluppo di (1), e, quasi a sottolineare il parallelismo fra i due passaggi, la strumentazione è la medesima: il pianoforte accompagnato solo dai due oboi. Lo sviluppo è tuttavia più ampio e modula subito a fa minore, la tonalità che rivestiva nell’esposizione il ruolo impor-

tante che sappiamo; la abbandona per spostarsi brevemente e senza conseguenze sulla tonica, poi ci ritorna con l’episodio drammatico che

segue, in cui il culmine orchestrale (6) del ritornello (con il re) che, co-

me prima, risolve su un accordo di sesta di fa minore) si ripete per quat tro volte:!

Questo martellamento sul re) è il punto di tensione estremo, il cuore della composizione. Questo passaggio è un punto culminante, ma anche una sintesi, la fusione degli obiettivi delle due esposizioni. Facendo ricorso al materia1.Dopo essere stato suonato solo undici battute prima, il che amplifica ulteriormente l’effetto della ripetizione.

262

le di sviluppo introdotto nella seconda e traendo, sempre da quella, la modulazione alla dominante da cui ora prende le mosse, Mozart approda al culmine dissonante della prima esposizione, reso qui più stringente ed espressivo, assai più carico di energia ritmica. Qui la simmetria non ha nulla a che vedere con quella meccanica insegnata dai manuali; al contrario, determina un nuovo livello drammatico. E questa comprensione della simmetria come forza drammatica, una comprensione che si spinge fino al più insignificante dei dettagli, che diede a Mozart la supremazia nelle forme dell’opera e del concerto. Anche la risoluzione del culmine or ora citato ha un proprio parallelo nel ritorno di (3), prima

all’orchestra e poi, finalmente, al pianoforte. Alla sua prima apparizione, (3) era preceduto, esattamente come accade ora, da un accordo di sesta di fa minore e il passaggio era messo in evidenza dall’irregolarità della lunghezza della frase. In altri termini, la piccola frase convenzionale (3) — la merce più ordinaria per un compositore dell’epoca — risolve sia il momento di tensione iniziale che il culmine centrale del movimento, mettendoli così in relazione fra loro. Dopo la breve frase (3A) e un passaggio di transizione! che sostituisce (3B), ecco ricominciare ancora lo schema originale («ripresa») con (1)

suonato, come sempre, due volte (0 quasi). Ora però la strumentazione presenta una simmetria a specchio: è il pianoforte a cominciare invece dell’orchestra, che ora risponde, e il nuovo ordine viene poi a sua volta invertito. Alla seconda enunciazione di (1) il pianoforte risponde con una variante, accompagna cioè la melodia con il ritmo dello sviluppo e 1. Per coloro che sono infastiditi dalla perfezione, devo aggiungere che la concezione di questa breve frase di transizione mi pare maldestra. Niente da ridire sulla sua logica tematica: sia per ritmo che per armonia deriva da (3A) ascoltato appena prima. Ma è armonicamente goffa nella misura in cui il suo profilo rafforza la tonica mentre la sua funzione è di sostenere la dominante; l'alternanza di pe finoltre non mi sembra motivata in modo convincente. Ma azzardo queste osservazioni con un certo scrupolo, poiché la frase non manca di efficacia né altera la potenza drammatica di ciò che segue. Tutte le transizioni che conducono alla ripresa nei concerti mozartiani prima del K 450 mostrano a mio parere minori disinvoltura e potenza rispetto a quelle che egli seppe conseguire sistematicamente nei concerti successivi. Il K 414 in la maggiore risulta più convincente al prezzo di un taglio netto di questo nodo gordiano: il decorso drammatico è spiccio e non c’è alcuna transizione. Il K 413 in fa maggiore si limita a ripetere immutata la precedente entrata del solista alla dominante e il K 415 in do maggiore tenta di cavarsela in questo punto con un po’ di belletto fornito da una breve cadenza Adagio. Il K 449 in mi bemolle maggiore prevede una progressione così debole che per il pianista è difficile suonarla — si tenta invano di renderla più interessante con un crescendo: la frase non riesce a sostenerlo. Ma nel K 450 (si bemolle maggiore) la transizione alla ripresa è incantevole, logica e perfettamente naturale. Nei concerti successivi il ritorno alla tonica è sempre condotto con grazia impeccabile e spesso è addirittura uno dei momenti più riusciti dell’intera forma. La frase che suona così debole nel K 449, per

esempio, si ritrova quasi tale e quale nel K 456, ma qui è preparata sul piano armonico e ha un tale sostegno orchestrale che ogni goffaggine scompare.

263

in effetti è ora lui a dare il via a un nuovo sviluppo. Un secondo sviluppo è indubbiamente uno dei tratti più caratteristici dello stile sonatistico classico, dai Quartetti Russi di Haydn alla Hammerklavier di Beethoven;

quasi sempre rimanda armonicamente a quello principale, come se l’energia di quest’ultimo non si fosse ancora esaurita e si riversasse su ciÒ che segue. Il primo concerto della maturità mozartiana non fa eccezione e il passaggio si apre con un inconfondibile ritorno al punto culminante dello sviluppo precedente:

(15)

che poi, dopo quattro battute di modulazione, viene risolto con un ritorno alla tonica. Riporto il passaggio per mostrare come perfino la strumentazione, con l’entrata dell’oboe, metta in risalto la risoluzione del-

l’accordo di fa minore che è stato così importante: 207

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Si potrebbe anche dire che sia stata differita sin qui la risoluzione definitiva del punto culminante di battuta 176. Pur essendo un nuovo inizio, questo passaggio rispecchia in modo impeccabile quello corrispondente nell’esposizione pianistica: là (1) era seguito da (11), che era

uno sviluppo di (1a), e qui (1) è seguito da uno sviluppo di (15). Il rap-

porto fra i due passaggi è messo in evidenza dal fatto che entrambi, sia (11) che (15), conducono direttamente a (12).

264

La forma straordinaria della parte finale del movimento è non meno giustificata. Dopo che il pianoforte ha terminato con il trillo conclusivo di (14) e l'orchestra è tornata con (6) e (7) al culmine sul re, è il solista,

come in precedenza, che risolve quel culmine con la frase in stile di recitativo. Su questo irrompe in modo stupefacente l’orchestra con la fanfara di (1) (la suonerà due volte, ciascuna con la risposta del pianoforte);

un ulteriore culmine, in cui figura una volta di più il re, conduce alla pausa che tradizionalmente precede la cadenza. Anche questa, dunque, come già tutte le sezioni di sviluppo del movimento, è preceduta dalla frase iniziale suonata due volte. L'ultima sorpresa è che la tradizionale conclusione orchestrale è interrotta e accompagnata da inserti virtuosistici del pianoforte, realizzati peraltro con tale sagacia da renderne l’arguzia tanto più deliziosa. La cadenza è seguita dalle ultime frasi dell’esposizione orchestrale, (8) e (9), e il pianoforte inizia a suonare (10) nel bel mezzo di (9), esattamen-

te come prima: e qui non si tratta di licenza, ma di una ripresa rigorosa. Nulla di più logico in rapporto alla forma di questo movimento, nulla di più eccentrico rispetto alla cosiddetta forma tradizionale del concerto.! Come possiamo definire questa maniera di creare: libertà o sottomissione alle regole? Eccentricità o ritegno classico? Licenza o decoro? Con un senso delle proporzioni e della convenienza drammatica che 1. Il seguente diagramma, riferito a un solo aspetto della forma (la successione dei temi), può rendere questa logica più evidente (la numerazione è quella già usata fin qui): Esposizione orchestrale

Esposizione solistica

Sviluppo

Ripresa

Coda

1(4d)

1(&b)

1(ad)

1(a4-b)

(ab)

2 3

11 12a-b

ll 3

I6 126

Cadenza [8]

SA-B

3A-B

SA

3A-B

13

I)

14

14 14

6

6

6

7 8

Ù 8

M

8

9

9

10

10

Conclusione *[Ordine della cadenza scritta da Mozart]

L’equilibrio risulta ancora più chiaro se si tiene a mente neve in progressione e combina (1a) e (18), (11) è uno sviluppo in progressione di (1 db), (15) è uno sviluppo in

progressione di (1a) e la cadenza sviluppa quel che sceglie il solista.

265

nessun compositore superò mai, Mozart si vincolò solamente alle regole che egli stesso ristabiliva e riformulava a ogni nuova opera. I suoi concerti non sono ingegnose combinazioni della forma tradizionale del concerto con quella più moderna della sonata, bensì creazioni indipendenti, che si fondano sulle aspettative tradizionali del contrasto fra solista e orchestra, rimodellate in funzione delle possibilità drammatiche offerte dal genere del concerto e governate dalle proporzioni e dalle tensioni — non dai modelli — dello stile sonatistico. Prendere dall’esterno una griglia formale e imporla a un concerto mozartiano senza considerarne l’intenzione drammatica e la spinta direzionale del materiale conduce a malintesi la cui gravità dipende dalla singola opera. Soprattutto bisogna ricordare che il materiale di un brano non è costituito dai suoi temi (o motivi), bensì dalla loro disposizione e dalla relazione fra essi: lo « sviluppo » non concerne solo i temi, ma prende in considerazione e intensifica — ossia « sviluppa » — l’ordine e il significato di ciò che l’ha preceduto. Si sviluppa l’esposizione nel suo complesso, non i singoli temi. Quanto importante ciò sia per il K 271 lo dimostrano non solo la ricorrenza dei punti culminanti e delle loro risoluzioni, ma anche il modo in cui lo sviluppo prende le mosse già entro i confini dell’esposizione (battuta 69, esempio (11)), con un passaggio che si ripresenterà ampliato nello sviluppo propriamente detto (battuta 162), e il modo in cui la tensione dello sviluppo deborda nella ripresa, facendo partire, pochi secondi dopo l’inizio di quella, un nuovo sviluppo (15), armonicamente legato a quello centrale. Nelle opere di Haydn, Mozart e Beethoven, un se-

condo sviluppo di questo genere è più la regola che l'eccezione, ma può essere compreso soltanto se lo si riconduce a un intento drammatico, e

non alla semplice disposizione dei temi; quello sviluppo è generato da un senso profondo della dissonanza armonica su larga scala, dalla concezione non semplicemente di una nota dissonante entro un accordo, bensì di una lunga sezione dissonante entro una composizione risolta in termini tonali. Se li si ascolta con la mente altrettanto sgombra da preconcetti formali, gli altri movimenti del K 271 non pongono maggiori problemi di quello iniziale. Il tempo lento è costruito in modo molto simile al primo, ma con maggiore semplicità. Come espressione di dolore e di disperazione, non ha quasi eguali nella produzione mozartiana, salvo i movimenti lenti della Sinfonia concertante e del Concerto K 488; solo l'An-

dante con moto del Concerto in sol maggiore di Beethoven tornerà ad attingere una potenza tragica comparabile. La frase iniziale dell’orchestra costituisce l'esposizione introduttiva e comprende sedici battu-

te, divise però irregolarmente in sette più nove: splendido esempio mo-

zartiano di variante irregolare di una regolarità fondamentale. Il pianoforte entra ed espande questa frase, ornando le prime sette battute di

266

apertura e modulando poi al relativo maggiore per mezzo di un materiale nuovo ma connesso con ciò che precede. Amplia quindi le battute iniziali del segmento di nove fino a farne sedici (battute 32-48) e conclude infine con le residue sei, il tutto con una costante oscillazione fra mi bemolle maggiore e minore che conserva il colore del minore originale anche nella trasposizione, rafforzandolo tuttavia con l’urto dissonante fra i due modi. Sia nel primo che nel secondo movimento, l'esposizione solistica am-

plia sostanzialmente quella introduttiva, o primo ritornello, la quale però, per quanto riguarda il primo tempo, è già in sé l'espansione di un breve motivo iniziale. La frase che apre il movimento lento è al tempo stesso più complessa e più esaustiva, più autosufficiente (e soprattutto meno concisa) di quella con cui esordisce il primo; poiché tutto ciò che segue nel brano trae origine da questa frase, riporto la parte del primo violino con qualche frammento dell’accompagnamento: VI. I con sord.

Il legame fra questo tema e gli altri si impone con tale evidenza, anche al primo ascolto, che non sono necessari analisi o commenti:

1. Si può vedere come quell’unica frase orchestrale venga estesa fino a fame l’intera esposizione solistica mettendo in parallelo le battute: 1-7 7-10 11-16 24-31 31-34 35-47 in mi bemolle Modulazione e 17-23 48-53 estensione maggiore nuova forma del tema

267

«tema conclusivo »

e ciò vale anche per il rapporto con il primo movimento:' 26

d'

_

Tuttavia ciò che più colpisce della frase di apertura dell’Andantino è la sua architettura magistrale: gli accenti sul la) grave (ripetuti a canone dal secondo violino) preparano il culmine sul la) un’ottava sopra a battuta 4 e poi un secondo culmine, all’ottava ancora superiore, a battuta 6; questo livello viene poi mantenuto finché, a battuta 11, il la) esplode nuovamente e con disperazione (armonizzato con un accordo di re) che ne fa emergere tutta la potenza e rafforzato dai fiati che accompagnano gli archi con sordina) per sfociare infine (esattamente come accadeva nell’esposizione del primo movimento) in un recitativo (battute

12-15). Nel suo insieme la frase somiglia a un grande arco,? con una salita e una discesa propriamente classiche che racchiudono e contengono la campata del dolore tragico, dall’inizio in canone fino al culmine espressivo e da lì all’ultima parte, che si interrompe e pare quasi incepparsi. Il triplo culmine sul la) di questa frase domina la ripresa in uno schema che richiama le ripetizioni dei corrispondenti apici di tensione armonica nel primo movimento. Tutto muove verso quel punto e lo prepara, come già faceva l’incipit su scala minore; dopo la cadenza, il culmine sì ripresenta una volta di più, proprio alla fine, ed è l’unico momento del brano in cui gli archi tolgono la sordina: sul medesimo accordo culminante di battuta 11, si sente infine, forte, il suono pieno dell’orchestra.

Il gioco di rimandi fra espressione drammatica e forma astratta che collega il concerto all'opera è particolarmente evidente nel ritorno, prima della cadenza, del recitativo che concludeva il primo ritornello (battute 12-15), suonato ora da pianoforte e primo violino a canone (battute 111-114). Mozart riesce così sia a creare fra solista e orchestra un dialogo permeato di profonda tristezza, con un eloquio ritmico che evoca irresistibilmente la parola, sia a presentarci nella conclusione del ritornello

un canone che fa da pendant a quello delle battute iniziali: è raro che le

1. Il tema principale del finale è modellato dallo stesso stampo. 2. Le battute 11-16 rispecchiano liberamente le battute 1-4, le 7-11 chiaramente le 4-7.

268

esigenze della simmetria e del dramma siano soddisfatte così pienamente e in modo così fedele alla natura del concerto. Come è caratteristico dello stile classico, l’ultimo movimento è il più disteso sul piano formale. Il tema principale, che parrebbe nulla più che un inizio di rondò, brillante e tuttavia squadrato, presenta in effetti

una struttura di frase molto sottile. Di norma, il finale di un concerto si apre col tema principale suonato prima dal solista (con o senza accompagnamento) e poi forte dall’orchestra; iniziano così i finali di tutti i concerti di Beethoven, salvo quello in sol maggiore, e della maggior parte di quelli di Mozart. Non si tratta tanto di tradizione quanto di una necessità stilistica (benché poi, all’epoca di Brahms, il rapporto di peso fra i due elementi si sia probabilmente rovesciato). Il finale è in sé la risoluzione dell’intero concerto ed esige un materiale che, lungi dall’implicare lo sviluppo, non vi si presti agevolmente (in altre parole, un tema che dia l'impressione di quadratura, regolarità e completezza): il trattamento antifonale consente di profilare quei tratti col massimo nitore e insieme di colorarli nel modo più efficace. Nei pochi finali di concerti in cui Mozart non usa quest'’effetto in apertura, i casi sono due: o lo fa intervenire in un punto successivo del movimento (come nel K 451 e nel K 503), oppure scrive una serie di variazioni (K 453 e K 491) e il pianoforte entra più appropriatamente decorando la prima di esse. Il finale del Concerto K 467 fa caso a sé: il tema principale, che comincia all’orchestra, termina con la ripetizione della frase iniziale, la quale completa la melodia e, in maniera del tutto inaspettata, è suonata dal pianoforte anziché dall’orchestra; in questo modo, il solista conclude ciò che l’orchestra aveva iniziato e, al tempo stesso, esordisce esatta-

mente come aveva fatto l'orchestra. E un calembour che poggia sulla natura stessa della forma del concerto: nulla potrebbe mettere meglio in luce il carattere bifronte di questa frase. E non ne è inficiato il princi pio dell’alternanza fra solista e orchestra nella presentazione di un tema ben squadrato. Il Presto finale del K 271 è colmo di brio e di un’energia motoria instancabile. Il tema nuovo alla sottodominante che Mozart ama introdurre negli sviluppi dei suoi rondò-sonata (e anche in tutti i finali in forma sonata) si trasforma qui in un minuetto intero, con una ricca e florida ornamentazione, orchestrato in modo incantevole; una coda cromatica,

che pare quasi improvvisata, sfocia in una cadenza che funge da transizione per il ritorno del Presto. Anche nel più tardo Concerto in mi bemolle maggiore K 482 compare a metà del finale un analogo minuetto alla sottodominante, stavolta forse meno sontuoso; per Mozart, evidentemente, si trattava di una soluzione più che soddisfacente. C'è ben poco, alla fin fine, della vecchia forma del concerto che Mo-

zart ritenesse indispensabile. Conservò sempre una qualche forma di esposizione orchestrale introduttiva, servendosi di parti di essa per deli269

mitare in modo chiaro e simmetrico, nel corso del brano, gli episodi affidati al solista; e non rinunciò mai all’uso della cadenza solistica co-

me mezzo per rafforzare il senso della successiva conclusione armonica e tonale. I passaggi virtuosistici alla fine di ciascun episodio solistico non sono un omaggio alla tradizione, ma una necessità del genere del concerto: nessun compositore vi rinunciò finché non divenne invisa allo snobismo novecentesco l’esibizione virtuosistica in quanto tale. Non fu Mozart il primo a fare dell’inizio del secondo solo (lo « sviluppo») un vasto episodio senza accompagnamento, né del resto se ne servì sempre. Il ricorso a modelli di forma sonata sviluppati in ambito cameristico o sinfonico non è mai fine a se stesso, ma sempre funzionale al supporto del contrasto drammatico fra solista e orchestra. Tutto ciò spiega la varietà delle forme dei concerti mozartiani e la resistenza che essi oppongono a ogni tentativo di codificazione. Ciascun concerto definisce i propri problemi e li risolve senza ricorrere a schemi precostituiti, sempre però con la sensibilità classica per le proporzioni e per il dramma.

Dovettero trascorrere una mezza dozzina di anni prima che Mozart tornasse a scrivere un concerto per pianoforte e orchestra. Quelli composti prima del K 271 avevano certamente dimostrato il suo genio melodico e il suo agio espressivo, ma senza rompere, se non per alcuni dettagli, con lo stile amabile dei suoi contemporanei. I concerti per violino, per incantevoli che siano, non hanno nulla della potenza drammatica del K 271 e dei concerti pianistici successivi. Al K 271 seguirono rapidamente il Concerto per due pianoforti K 365, un brano garbato, brillante e di scarsa importanza, e il Concerto per flauto e arpa K_ 299, un lavoro di

routine: certo, la routine mozartiana eguaglia la massima ispirazione di un compositore minore e senza dubbio la sua maestria è considerevole persino in quest'opera, ma discutere il K 299 qui, accanto ai suoi grandi concerti, significherebbe rendere a Mozart un cattivo servizio. I concerti per corno meritano un’attenzione maggiore: esili e spesso di circostanza, abbondano di dettagli splendidi e mancano solo di serietà (il che non significa che i brani seri siano privi di humour). Per un bel numero di anni, Mozart sembra essersi interessato poco o nulla alla forma del concerto, con una notevole eccezione, la Sinfonia concertante in mi be-

molle maggiore K 364 per violino e viola. Scritto due anni più tardi e nella stessa tonalità, questo capolavoro costituisce una sorta di pendant del K 271; i temi principali dei rispettivi movimenti lenti, in particolare, hanno profili simili e il medesimo carattere doloroso, quasi tragico. La sonorità della Sinfonia concertante, ispirata dalla parte della viola solista che probabilmente Mozart scrisse per se stesso, è però unica. Il primissimo accordo — viole divise che suonano

270

bicordi in un registro acuto da violino, oboi e violini primi nel registro grave, corni che raddoppiano violoncelli e oboi — ne definisce il suono chiave, quasi la sonorità della viola tradotta nel linguaggio dell’orchestra intera. Da solo, questo primo accordo è una pietra miliare nella

carriera di Mozart: egli crea qui, per la prima volta, una sonorità che è al tempo stesso totalmente a sé e logicamente collegata alla natura dell’opera. Il secondo e il terzo movimento della Sinfonia concertante sono formalmente meno ambiziosi di quelli corrispondenti del K 271, ma non meno belli. Come nel concerto per pianoforte, il movimento lento fa largo uso dell’imitazione canonica, ma solo per il tema conclusivo; fino ad allora, i due solisti suonano antifonalmente, in una successione di

frasi ciascuna delle quali sembra superare la precedente in profondità espressiva e che si fanno via via più brevi e più intense, pur formando un'unica lunga linea ininterrotta. La forma è quella della sonata arcaica, in cui la seconda parte riprende fedelmente il materiale della prima, modulando però dalla dominante (qui dal relativo maggiore) alla tonica: il senso di sviluppo scaturisce, come nelle sonate di Scarlatti, dall’intensità dei dettagli della modulazione. Il Presto finale ha una forma semplice e sorprendente al tempo stesso: si potrebbe definirla, benché ciò possa apparire paradossale, un rondò-sonata senza sviluppo. L'orchestra enuncia il tema principale, i solisti proseguono l’esposizione con una nuova serie di temi collegati che partono dalla tonica e approdano alla dominante; infine solisti e orchestra tornano alla tonica e al primo tema.

Se c’è uno sviluppo, non dura più di quattro battute: dopo un’inattesa modulazione arriva infatti, seconda sorpresa, una ripresa letterale alla sottodominante del tema iniziale dei solisti (un procedimento molto amato da Schubert, ma raro in Mozart). Tutto ciò che era stato esposto

alla dominante è ora accuratamente portato alla tonica e l’unica modifica è l’inserimento di una splendida melodia del corno derivata dal ritornello iniziale. Movimento inebriante e debordante d’inventiva, rie-

sce a essere di una simmetria pressoché perfetta e a stupire al tempo stesso. Il primo movimento è forse, dei tre, il più significativo. Il pathos eloquente dei semirecitativi che aprono lo sviluppo è solo il più evidente fra i suoi tratti singolari. Per sonorità, profilo melodico e ritmo, il materiale

ha una coerenza rigorosa quanto quello del K 271. La seguente successione di temi del tutti iniziale parla da sé: Allegro maestoso Violini I

271

Ln*

Md

L'ultimo dei passaggi citati è forse quello meno evidentemente derivato dal precedente, eppure lo si trova nella ripresa come sostituto dell’altro, a riprova di quanto stretto apparisse a Mozart il legame fra i due. La logica discorsiva di questo movimento rappresenta un considerevole passo in avanti sul piano tanto della maturità che della sottigliezza. Il suono della viola, strumento che Mozart amava profondamente,

gli

fornì l'occasione per indulgere, nella scrittura delle parti interne, a un'opulenza che si può solo definire voluttuosa; e la ricchezza del procedere del discorso non è da meno. Basta un solo esempio, l'ampio passaggio che prepara la prima entrata solistica:

(Via. sola)

VI.Ie II

Con le loro prime due note, i solisti suonano tutti i principali armonici all’ottava dei mi bemolle di corni e viole dell'orchestra: dapprima quasi 279

annegati nella loro sonorità, gli strumenti solisti dopo l'attacco iniziale vibrano intensamente (in parte perché raddoppiano gli armonici all’ottava dei bassi). Il loro ingresso prende corpo solo gradualmente mentre essi tengono le note iniziali: l’appoggiatura con cui fanno il loro ingres-

so, un salto d’ottava ascendente, attenua la percezione del battere, già

indebolita dalle sincopi delle battute precedenti. Le armonie delle due battute in cui violino e viola tengono i due mi) acuti sono dissonanti rispetto al basso che i due solisti raddoppiano e con il quale mantengono la consonanza fino a che le dissonanze non si dissolvono. Non meno straordinaria è l’urgenza creata dalle relazioni tematiche: il culmine orchestrale espressivo e quasi doloroso, con il repentino passaggio al piano, delle battute 62-63 è ripreso dai solisti. Per chi manchi di memoria uditiva, il legame fra le battute 62-63 e la battuta 74 è chiarito dalla ripetizione, da parte di oboi e violini per quattro volte di fila, dei motivi per gradi congiunti (a,) e (a,). Ciò che rende miracoloso lo stile mozartiano è che un evento ben marcato, un’azione precisa e chiaramente profilata come l’ingresso di un personaggio in un’opera o del solista in un concerto, sembri generato quasi organicamente dalla musica, parte costitutiva di un intero, senza perciò perdere anche solo una particella della propria specificità e persino della propria autonomia. Questa concezione di una continuità articolata fu una svolta radicale nella storia della musica.

All’inizio del.17783 Mozart aveva, pronti per poterli suonare lui stesso, tre nuovi concerti per pianoforte, tutti peraltro meno imponenti del K 271. Sono scritti per un’orchestra piccola, in maniera tale che si possano omettere le parti dei fiati ed eseguirli come quintetti con pianoforte: era un modo per renderli più appetibili per i dilettanti, tant'è vero che ne furono vendute, prima ancora della pubblicazione, diverse copie manoscritte a sottoscrittori dei concerti mozartiani. Il K 413 in fa maggiore e il K 415 in do maggiore restano piuttosto leggeri, in uno stile meno avanzato del K 271 (l’ultimo movimento del K 413 è addirittura un minuetto,

un finale più adatto alla musica da camera con pianoforte di quel periodo che allo stile concertistico); entrambi sono però di una concisione che prima di allora Mozart non avrebbe saputo ottenere con un tale agio. A dispetto della sua logica e della maestria con cui è costruito, l’ultimo movimento del K 415 è di una forma bizzarra e alquanto complicata: è un rondò-sonata con doppia esposizione, la prima interamente alla tonica (prassi consueta in Mozart per le esposizioni di sonata nei concerti) e l’altra con l’inversione dell’ordine fra primo e secondo tema (anche questo un evento non inconsueto nei rondò mozartiani), che viene

interrotto per due volte da un Adagio lamentoso, elaborato e semiumoristico alla tonica minore. La prima interruzione ha luogo fra le due

274

esposizioni (e giustifica dunque la trovata di una forma così libera della doppia esposizione), la seconda si inserisce con perfetta naturalezza nella ripresa, prima dell’ultima comparsa del tema iniziale. Anche in un brano leggero e in stile popolare, quasi un divertissement, il senso mozartiano dell'equilibrio simmetrico su larga scala è sempre immenso. Il Concerto in la maggiore K 414 è invece più lirico e concepito con un'ampiezza maggiore dei suoi due compagni (e ciò malgrado l’orchestrazione più brillante e il carattere militare del K 415). L'ampiezza del K.414 deriva dalla ricchezza del materiale melodico del primo movimento: senza considerare i motivi più brevi e il materiale di transizione, compaiono nel solo ritornello quattro lunghe melodie (una delle quali non si ripresenterà più) e un tema conclusivo; il pianoforte ne aggiunge poi ancora due. Anche lo sviluppo si basa interamente su materiali nuovi, senza alcun riferimento all’esposizione. Non è prodigalità: le melodie mozartiane sono insieme così complesse e così complete da non reggere

il peso di uno sviluppo. Sono di fatto delle piccole arie, e tutte si rivelano perfettamente regolari: in ciascuna di esse, compare intatta la scansione in otto battute e la seconda frase inizia esattamente come la prima. Eppure non si percepisce alcun senso di quadratura o monotonia né mancanza di continuità: le transizioni sono magistrali, il peso di ciascuna melodia e la sua posizione nella successione irreprensibili. Sono la ricchezza e la continuità espressiva di queste melodie che conferiscono al movimento la sua dignità e lo salvano da un'eccessiva leggerezza: in nessun altro primo movimento di concerto Mozart si priva fino a questo punto dei vantaggi della sorpresa drammatica e delle tensioni generate dalla risoluzione dell’irregolarità. E a suo modo un tour de force, ma più vicino ai concerti per violino che non agli altri concerti pianistici, la cui concezione è più drammatica. Un anno dopo queste tre composizioni, Mozart ritornò alla più grandiosa concezione del concerto di cui aveva già dato prova col K 271. Nel 1784 cominciò a sperimentare abbondantemente con la forma e scrisse non meno di sei concerti, tre dei quali destinati espressamente a essere suonati da lui ai concerti in sottoscrizione che dava allora a Vienna. La serie di sei sembra peraltro aprirsi un po’ timidamente con il Concerto in mi bemolle maggiore K 449, scritto per una sua allieva, Babette Ployer. Come i tre che lo precedono, il K 449 può essere eseguito senzai fiati, come un quintetto con pianoforte. Ma è una composizione assai più vivace di ciascuno dei tre precedenti, pur essendo, ed è Mozart stesso a dichiararlo, scritto per piccola orchestra. Il movimento lento in si bemolle tenta un esperimento interessante ripetendo l’intera esposizione solistica, con la sua modulazione

alla dominante, nella tonalità della

sensibile abbassata, la bemolle: la tonalità lontana porta con sé un carattere di sviluppo, ma la modulazione parallela conduce ragionevolmente a una comoda sottodominante, e a questo punto Mozart aggiunge una 275

modulazione rapida quanto imprevista al si minore prima di risolvere l’intero movimento con la ripresa. L’ultimo movimento del K 449 ricorda un precedente tentativo, nel K 175, di scrivere un finale contrappuntistico per un concerto, ma qui è

indiscutibilmente un successo, con una pagina di grande complessità e sottigliezza che appare spigliata e semplice. Il segreto della riuscita sta nella combinazione dello stile contrappuntistico con quello dell’opera buffa: essi si equilibrano vicendevolmente in modo così felice che il ricorso alla tecnica più dotta non fa che accrescere la levità e la brillantezza proprie del finale di un concerto. La forma del rondò-sonata è trattata con notevole sensibilità; una possibile influenza di Haydn (nell’uso di parte del secondo gruppo alla tonica come mezzo per effettuare il ritorno al tema principale dopo lo « sviluppo », di modo che la ripresa inizia, di fatto, già durante lo « sviluppo ») serve solo a mettere in risalto l’originalità del brano. Le entrate del tema principale sono tutte diverse, grazie allo stile e al ritmo dell’opera buffa che consentono a Mozart non tanto di decorarlo quanto di trasformarlo e di infondergli ogni volta nuova vita. La ripresa, in particolare, è di una sottigliezza meravigliosa: lì si trova la risoluzione di un nuovo tema in do minore introdotto nello sviluppo e poi, dopo una lunga ed elettrizzante modulazione al re bemolle minore (estensione di un accenno cromatico dell’esposizione), una corona che precede il ritorno, con un nuovo tempo e un nuovo ritmo, del primo tema. Possiamo tranquillamente chiamare coda tutto ciò

che segue, salvo che per il fatto che funge anche da ripresa di un tema del «secondo gruppo », comparso in precedenza solo alla dominante. Ogni singolo dettaglio di questo brano è stato elaborato con amorevole cura; al di là della sua apparenza modesta, il K 449 è un concerto audace, e persino rivoluzionario. Mozart scrisse per sé i due successivi concerti, K 450 e K 451, e riteneva il primo di essi, in si bemolle maggiore, il più tecnicamente difficile fra quelli da lui composti fino ad allora; lo è, in effetti, anche considerando quelli posteriori. E inoltre il primo in cui i legni sono usati con una piena consapevolezza di tutte le loro possibilità coloristiche e drammatiche. Ad essi soli è infatti affidata un’audace apertura del concerto, quasi ad annunciare fin dall’inizio il nuovo corso: Allegro Oboi

276

Il tema iniziale, che si può schematizzare con:

gara serve da modello per tutti i principali temi del movimento:

e anche per buona parte del materiale episodico. L'uso solistico dei legni consente a Mozart di risolvere il problema di come rendere un ritornello lungo e interamente alla tonica abbastanza interessante per poter riservare la modulazione al solista. Il K 449, in cui i legni si limitavano ad accompagnare, aveva tentato l’esperimento di un ritornello che passava alla dominante, col risultato però di indebolire l’interesse della seconda esposizione. Le due esposizioni del K 450 sono invece molto più differenziate: non solo il ritornello rimane alla tonica, ma uno dei temi, forse

il più sorprendente, ricompare solo nella ripresa. Tutti e tre imovimenti sono concepiti con la stessa maestria e, all’inizio dell’ultimo, l’orchestra allargata usata da Mozart si dispiega in uno stile autenticamente sinfonico. Le cadenze, che Mozart stesso scrisse per questo concerto, sono riccamente elaborate e sicuramente le più brillanti ed efficaci fra quelle che egli si sia dato la pena di mettere per esteso. Il Concerto in re maggiore K 451, scritto nello stesso periodo, è per molti ascoltatori oggi difficile da apprezzare. I suoi tre movimenti, e il primo in particolare, si basano su un materiale oltremodo convenzionale e

impersonale, che viene usato in forma di blocchi per costruire un’archi-

tettura imponente e persino brillante. Contano l’ordine, lo smalto e, soprattutto, le proporzioni: il significato e la risonanza della singola frase sono assai meno interessanti. Non è il Mozart che amiamo noi, ma lui an-

dava fiero di quest'opera. Per la quale dobbiamo in ogni caso essere grati: l’esperienza maturata trattando materiali armonici convenzionali come questi diede a Mozart la padronanza ritmica che egli avrebbe poi messo a IG

frutto in opere più espressive. Nel K 451, il rapporto tra frasi puramente diatoniche e altre pesantemente cromatiche (benché sempre in modo convenzionale) è perfettamente calibrato, così come la delimitazione di vaste aree sonore (la salita lungo due ottave dalla battuta 1 alla 10) e ritmi-

che (l’introduzione delle sincopi insieme alla prima frase cromatica a battuta 43). Il Concerto in si bemolle maggiore K 456, scritto poco più tardi, sempre nel 1‘784, possiede grosso modo le stesse qualità: è meno brillante e grandioso del K 451, con uno charme e una malinconia che pure appa-

iono impersonali. Ma il trattamento del cromatismo è più avanzato e in un esperimento di combinazione fra cromatismo e sincopi Mozart si spinge fin dove la sua audacia glielo consente, con un episodio nella tonalità lontana di si minore che porta con sé l’urto di un 2/4 contro un 6/8.

Scritto appena prima del K 456, il Concerto in sol maggiore K 453 (destinato come il K 449 a Babette Ployer) contiene innovazioni di ben altra portata. Nel primo movimento, forse il più grazioso e colorito di tutti gli allegri militari di Mozart, il ritornello rimane alla tonica, ma con un se-

condo tema così irrequieto e armonicamente instabile che la monotonia di un lungo passaggio interamente nella tonalità di impianto svanisce:

(Di questo espediente di un secondo tema modulante, Beethoven si ap-

propriò spudoratamente per il suo concerto nella stessa tonalità). Anche

la struttura armonica del K 453 è ragguardevole, con una repentina discesa al sesto grado abbassato che segna il punto culminante del ritornello: 48

Archi (fiati omessi)

+ Cb. 8va

l’inizio dello sviluppo (qui arrivandoci dalla dominante):

317

Dei tre passaggi, il primo prepara il ruolo che il modo minore avrà nel movimento,

gli altri lo giustificano.

(Con ogni evidenza, quest’effetto

colpì Brahms al punto che egli distrattamente lo inserì alla fine della cadenza che compose per questo concerto, dove è armonicamente insensato). Queste cadenze a sorpresa non sono, ovviamente, un intricato

sistema di rimandi reciproci, bensì un mezzo per mettere in risalto e rendere chiare le proporzioni interne del movimento. Ancora più audace è il tempo lento in do maggiore. In diverse sue composizioni in forma sonata, Haydn non introduce per il passaggio alla dominante una vera e propria modulazione, ma solo una pausa e un balzo repentino; nella sua musica, tuttavia, non accade mai che prima

del salto ci sia un materiale che duri solo pochi secondi: proprio ciò che 279

Mozart, invece, prevede qui. La prima esposizione (0 ritornello) alla to-

nica rende possibile la concisione drammatica della seconda senza danni per l’estetica tonale su cui poggia Mozart. Già solo nel ritornello, l’effetto dell’assenza della modulazione è commovente ed emozionante: una frase tranquilla ed espressiva degli archi di cinque battute, seguita da un silenzio; poi l’orchestra inizia ad accompagnare dolcemente un solo dell’oboe del tutto slegato da ciò che precede, come se la prima frase non fosse mai esistita. Il piano comincia con la frase di apertura,

ritenuto," seguita da una pausa ora più lunga, e poi si tuffa brutalmente nella dominante minore con una nuova e appassionata melodia. Nessun movimento lento di Mozart aveva mai osato un gesto drammatico di una simile portata; perfino il turbolento sviluppo del secondo tempo della Sonata in la minore K 310 è raggiunto con gradualità. Nel K 453, però, l’effetto funge anche da cornice e ha dunque un significato tanto formale quanto emozionale: lo sviluppo si apre con la stessa frase di cinque battute seguita da un silenzio, questa volta però alla dominante e con un’orchestrazione di soli fiati. Dopo la pausa, e di nuovo con un cambiamento repentino, il pianoforte dà inizio a una serie di modulazioni cromatiche che giungono in progressione fino a do diesis minore. Il ritorno alla tonica é il colpo più audace e, al tempo stesso, la conseguenza logica di tutto ciò che è accaduto prima. Quel ritorno e le prime sette battute della ripresa mostrano quanto movimento drammatico sia possibile comprimere in poche battute:

1. Il segno di corona può indicare non solo un ritenuto, ma anche una brevissima cadenza

espressiva: eseguirne una sulla corona posta sopra la pausa è inconcepibile (si vedano le bb. 93-94, a p. 281).

280

Di queste undici misure, le prime quattro passano, direttamente e con grande efficacia, da sol diesis maggiore e minore a do maggiore e, contemporaneamente, da ppa f; segue la splendida frase iniziale, suonata ora con l’aggiunta di un’ornamentazione limitata al minimo indispensabile.’ Ritorna poi, dopo il silenzio, un brusco attacco, che risolve sulla tonica

minore la dominante minore dell’analogo passaggio a battuta 35 dell’esposizione. Il tema conclusivo dell’esposizione non compare nella ripresa e viene conservato per una coda dopo la cadenza del solista; ma è precedu-

to da un nuovo ingresso, dall’effetto splendido, della frase iniziale, suonata dai legni subito dopo la cadenza. A ogni sua apparizione fino a questo

punto, la frase era stata sempre lasciata irrisolta sulla dominante, e non

solo irrisolta, ma isolata, quasi, con quel silenzio a separarla ogni volta da-

1. Qui la questione dell’ornamentazione in Mozart si pone nel modo più problematico: se si è aggiunto alcunché alla frase nelle sue precedenti apparizioni, bisogna ora aggiungerne di più. Laddove la musica esige, per produrre pienamente il suo effetto, una marcata semplicità.

281

gli episodi successivi. Questa volta invece, che è l’ultima, essa si amalgama con ciò che segue e trova la sua risoluzione in una frase fra le più espressive, ancorché fra le più convenzionali, che Mozart abbia mai scritto:

che si muove cromaticamente, passando per la sottodominante, fino al-

la cadenza armonica del pianoforte. Il fatto di trattenere la risoluzione del tema principale fino all’estremo limite del movimento, il silenzio che mette in risalto ciascuna sua apparizione tranne l’ultima non sono che i tratti più salienti di un’opera che marca una tappa importante nella trasformazione realizzata da Mozart nel genere del concerto, trasformazione con cui egli lo rese atto a reggere il massimo peso musicale. Anche l’ultimo movimento del K 453 è un punto di partenza nuovo: qui Mozart prova a usare, per la prima volta, il tema con variazioni come

finale di un concerto." La rilassata flessibilità di questa forma non è priva di svantaggi per il suo impiego in un finale. Essa fornisce senza dubbio una risoluzione per le forme più drammatiche e meno decorative dei movimenti precedenti, ma è difficile renderla coesa e organizzarne lo

schema ripetitivo in un’architettura chiaramente riconoscibile. Lo schema di variazioni più semplice e diffuso durante tutto il Settecento consisteva nel giungere a un apice per mezzo della progressiva diminuzione dei valori delle note (aumentando cioè la velocità) a ogni variazione successiva. Nell'ultima parte del secolo, si ricercava la brillantezza facendo delle due ultime variazioni rispettivamente un Adagio fiorito con ef-

fetti di coloratura e un Allegro brillante, una formula talvolta tanto lasca

1. Paul Badura-Skoda mi ha segnalato che Mozart aveva in precedenza sostituito il finale

del K 175 con un movimento in forma di variazioni (K 382).

282

e meccanica da risultare superficiale. Un altro schema ancora mirava a imporre un'unità formale mediante il ritorno, dopo l’accelerazione, al tempo iniziale: perché ciò producesse l’effetto voluto, era necessario però che quel tempo fosse fondamentalmente lento, il che è senz'altro concepibile per finali di opere cameristiche di carattere intimo, come le Sonate op. 109 e op. 111 di Beethoven, ma non per concludere un brano di carattere pubblico e mondano come un concerto classico. Scrivere un finale in forma di variazioni in un tempo rapido è assai più difficile: sì percepisce lo sforzo nell’ultimo movimento dell’ Eroica e perfino nelle più impressionanti variazioni corali della Nona sinfonia, dove la riuscita è resa possibile dall’ampliamento beethoveniano del quadro. La soluzione di Mozart è una coda (Presto) nello stile dell’opera buffa. Il tema delle variazioni è una fascinosa bourrée di carattere popolaresco. Nelle prime tre variazioni, il tempo rimane lo stesso mentre diminu-

iscono progressivamente, da ottavi a terzine e quindi a sedicesimi, i valori delle note delle figure di accompagnamento e delle ornamentazioni. La quarta variazione è in minore e così fittamente cromatica che produce l’effetto modulante di uno «sviluppo » (la concezione della forma di variazioni essendo governata, nelle mani di Mozart, dall’ideale dello sti-

le sonatistico); in questa variazione troviamo anche il più ragguardevole raddoppio di legni realizzato a questa data da Mozart in un concerto: li I

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1. Un tentativo di combinare il ritorno dell’inizio con un finale brillante si trova nella

Sonata per violino e pianoforte in sol maggiore K 379 di Mozart, in cui il tema originale si ripresenta alla fine, ma in un tempo più rapido.

283

Qui il primo violino è raddoppiato due ottave sotto, il secondo un'ottava sopra; poco oltre, nella stessa variazione, al pianoforte toccherà uno spettacolare accompagnamento con i raddoppi dei fiati distribuiti su tre ottave diverse. L'ultima variazione, per metà in stile militare e per metà cadenza pianistica (secondo una concezione davvero notevole), conduce alla coda in stile di opera buffa, in cui il tema principale, con una certa impertinenza, non si ripresenta che quasi alla metà del Presto. Ai giorni nostri, si suonano in genere queste variazioni troppo velocemente perché se ne possa apprezzare la progressiva e graduale accelerazione nel corso delle prime quattro nonché il contrasto col Presto conclusivo che Mozart aveva pianificato; gli allegretti di quel periodo erano concepiti per essere eseguiti più lentamente che non quelli scritti dopo il volgere del secolo. Il più considerevole finale di concerto di Mozart è quello del K 459 in fa maggiore. Già i primi due movimenti sono carichi di progressioni e imitazioni contrappuntistiche di sapore barocco, quasi a preparare il conclusivo Allegro assai, una complessa sintesi di fuga, finale in forma di rondò-sonata e stile da opera buffa. Le forme musicali più ponderose e quelle più leggere si fondono qui in un’opera di uno splendore e di una gaiezza incomparabili, che va ben oltre il finale del K 449, con tutta l’ingegnosità contrappuntistica che vi era profusa. Il leggiadro tema da rondò è esposto dal pianoforte, senza accompagnamento, e ciascuna delle sue due frasi è ripresa dai legni soli. Subito dopo, l’orchestra al gran completo e forteattacca, su un tema completamente nuovo, una fuga che conduce a un lungo sviluppo sinfonico e a una cadenza nello stile di un’ouverture operistica. Il solista inizia poi la propria esposizione, che modula rapidamente con una variante del tema principale, un nuovo secondo tema e il tema della fuga d’orchestra per una cadenza alla dominante. Dopo un ritorno del primo tema per intero, segue senza alcuna interruzione un secondo tutti in re minore: si tratta ora di una doppia fuga che combina il tema originale della fuga con quello di rondò dell’inizio. Il piano non ricompare che dopo più di trenta battute di sviluppo sinfonico fugato e anche la sua scrittura, quando infine rientra, rimane in larga misura contrappuntistica. La ripresa è a specchio, col primo tema tenuto per ultimo, sospeso di fatto fino a dopo la cadenza. Il movimento si chiude con un esilarante scoppio di giochi di eco tipicamente da opera buffa. La sonorità di questo movimento, con i suoi lunghi tutti contrappuntistici, è la più sinfonica tra i finali mozartiani: se anche si ri-

costruissero le parti, andate perdute, di trombe e timpani, l’effetto non

potrebbe essere maggiore.' La forma di questo movimento, concisa ed espansiva al tempo stesso, costituisce la sintesi dell’esperienza mozartia1. A meno che Mozart non sia stato tradito dalla sua memoria mentre redigeva il proprio

catalogo e quelle parti non siano mai esistite. .

284

.

.

.

.

=

na e dei suoi ideali formali. Ogni cosa qui ha la sua funzione: lo stile d'opera, il virtuosismo pianistico, l’accresciuta conoscenza mozartiana del contrappunto barocco e di quello bachiano in particolare, l’equilibrio simmetrico e le tensioni drammatiche dello stile sonatistico. Il primo movimento, militare eppure pieno di tranquillità grazie alle sue pacate progressioni, e quello lento, l'Allegretto lirico e inquieto, sono parimenti espressivi. Nel suo complesso, questo concerto è uno dei più originali composti da Mozart.

Nel 1776, Mozart aveva tracciato col K 271 le linee principali del concerto classico per pianoforte e orchestra; non esplorò tuttavia a fondo le possibilità tecniche della forma che con i sei grandi concerti del 1784. Dopo di essi, non ci furono su questo piano ulteriori progressi; in tutte le composizioni successive, Mozart in un certo senso non fece che espandere ciò che aveva scoperto con quei sei concerti. Restava però ancora da vagliare quale potesse essere la portata emozionale del genere. Mozart non aveva ancora scritto concerti in modo minore né aveva sperimentato la grandezza sinfonica in senso pieno: la brillantezza del K 451, come già avveniva nel K 415, è quella dell’ouverture operistica arricchita dal virtuosismo. Un anno più tardi, nel 17785, con due opere scritte a un mese di distanza l’una dall’altra, i concerti K 466 e K 467, Mozart ampliò

ulteriormente la propria gamma e la propria profondità. Con il Concerto in re minore K 466, in particolare, si oltrepassa la storia del concerto in quanto forma specifica. Non si tratta di una superiori-

tà rispetto a quelli precedenti: il loro livello è tale da rendere arbitraria ogni graduatoria di questo genere, benché vada rilevata la maggiore influenza storicamente esercitata da questo brano. Semplicemente il K 466 non può essere considerato solo un concerto, foss’anche l'esempio supremo di questa forma. Con questo e con il K 467, Mozart creò due composizioni che appartengono tanto alla storia del concerto che a quella della sinfonia e perfino dell’opera, così come con Le nozze di Figaro entriamo in un mondo dove opera e musica da camera si congiungono. Il Concerto

in re minore è, si potrebbe dire, tanto un’opera d’arte

quanto un mito: come accade ascoltando la Quinta sinfonia di Beetho-

ven, talvolta è difficile sapere se stiamo sentendo l’opera o la sua reputazione, l’immagine che collettivamente ne abbiamo. Non è probabilmente il più eseguito fra i concerti mozartiani, ma anche quando la fama

dell’autore declinò, quando la sua potenza era oscurata dalla sua grazia, il brano continuò a godere di un’alta stima. Non ha generato un gran

numero di discussioni (non suscita controversie) o di imitazioni, né si

trova spesso in cima alle preferenze dei musicisti, esattamente come fra i quadri di Leonardo nessuno predilige la Gioconda. Come la Sinfonia in

285

sol minore e Don Giovanni, il Concerto in re minore trascende, potremmo dire, la propria eccellenza. L'importanza storica del K 466 viene dal suo appartenere al gruppo di opere che fecero di Mozart, nei dieci anni che seguirono la sua morte, il

compositore supremo per la maggior parte dei musicisti. Rappresenta il Mozart che fu inteso come il più eminente fra i compositori «romantici » e fu proprio il carattere che si trova in questo e in pochi altri brani a relegare Haydn in secondo piano per più di un secolo. E questo il concerto che Beethoven suonava e per il quale scrisse le cadenze. E fra le opere in cui più pienamente si incarna quel tratto mozartiano che l’Ottocento qualificò, molto opportunamente, come « demoniaco » e che tanto, e tanto a lungo, ostacolò una valutazione equilibrata del resto della sua opera.

Non c’è spazio qui che per una trattazione rapida; per penetrare più profondamente verso il cuore dell’opera è meglio dunque avvicinarcisi obliquamente. Nel K 466, come osservavo sopra, non ci sono progressi nella tecnica concertistica in senso stretto, ma c'è invece un deciso passo avanti in un'abilità squisitamente musicale: l’arte di produrre una crescita controllata del movimento ritmico, ossia di creare eccitazione. Nel-

lo stile classico vi si può giungere soltanto per gradi distinti, ma ve ne sono di svariati tipi e l’arte di controllare i rapporti fra essi — ossia di governare la continuità e l’intensificazione fino a un punto culminante — è estremamente complessa. Soffermiamoci sul primo apice che coinvolge sia il solista sia l’orchestra: 9

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L'accelerazione progressiva di questo passaggio è ottenuta con una cospicua varietà di mezzi: 1. A battuta 93 la melodia, finora solo una pulsazione sulla medesima nota, comincia a Muoversi.

2. Il pianoforte, che aveva taciuto fino alla battuta 95, aggiunge un movimento di sedicesimi ai quarti sincopati dell’orchestra. La figurazione della mano destra si ripete a ogni minima. 3. Battuta 97: la figurazione della mano destra ora ricomincia a ogni semiminima. 4. Battuta 98: l’entrata del corno a metà battuta ne raddoppia l’accentuazione di base.' 5. Battuta 99: l'armonia, che sin qui era cambiata a ogni battuta, co-

mincia ora a cambiare tre volte ogni due battute. Aumenta un ritmo melodico secondario dal momento che i sedicesimi del pianoforte assumono ciascuno un significato melodico, e non più solamente armonico.

Il ritmo sincopato di semiminime dei violini si trasforma progressivamente in crome ogni due tempi di battuta. 6. Battuta 100: la voce melodica superiore del pianoforte si muove a ogni quarto e non più ogni due. 7. Battuta 102: la seconda entrata dei fiati (fagotto, battuta 101) era

intervenuta due battute e mezzo dopo la prima; la terza, qui all’oboe, sopraggiunge solo una battuta e mezzo dopo la seconda. 8. Battuta 104: l'armonia cambia quattro volte, anziché due, a ogni battuta. 1. Queste battute sono una ripetizione dell’inizio del ritornello; nel passaggio del ritornello corrispondente a questo, il corno entra sul primo tempo della battuta, mentre qui l’accento va a cadere sul tempo debole.

289

9. Battuta 106: raddoppia il movimento di violini e viole.

10. Battuta 107: la voce melodica superiore del pianoforte procede quattro volte più veloce: alla fine della battuta ha chiaramente assunto il movimento per sedicesimi. 11. Battuta 108: il basso raddoppia la velocità della linea melodica e quadruplica il moto ritmico. 12. Battuta 110: l’ingresso dei fiati aumenta il movimento delle voci di accompagnamento. 13. Battuta 112: la velocità della figurazione melodica raddoppia e l'armonia cambia due volte per battuta anziché una. (Anche la figura dei fiati in ritmo puntato compare ora ogni mezza battuta). La novità di un’accelerazione costante e progressiva di questa portata spiega in parte quella che potremmo chiamare l'eccitazione «romantica» suscitata da questo concerto.’ Il gioco di destrezza con gli elementi ritmici — durate delle note in senso stretto, movimento armonico, figu-

razioni melodiche — è condotto con una tale padronanza che quando uno di essi scompare o rallenta, un altro raddoppia o quadruplica in velocità e l'interesse è sempre portato sulla parte che accelera. Persino l’introduzione di un ritmo più spedito, che Mozart effettua di norma con la stessa perizia e che qui, come tanto spesso altrove, affida a una voce di accompagnamento, è resa interessante dall'essere l’entrata del solista. Tutto concorre a questa spinta verso il punto culminante: il disegno complessivo del passaggio è un’ascesa graduale e appassionata (perfino il basso sale insieme alle voci superiori nella prima parte) che sfocia in un crescendo orchestrale. Si manifesta qui con particolare chiarezza un tratto dell’estetica classica: la manipolazione drammatica di elementi distinti e ben definiti al fine di ottenere un’impressione di continuità per mezzo di transizioni finemente graduate. Si tocca inoltre uno dei confini estremi dello stile classico: le prime quattro battute dell’esempio sopra citato (una perfetta ripetizione dell’inizio del concerto) si spingono nella direzione dell’instabilità ritmica fin dove lo stile lo permette.? C'è una figura simile all’inizio della Sinfonia Praga, ma lì le sincopi scompaiono non appena la voce si fa melodica: nel K 466 le sincopi continuano e sorreggono il peso del tema iniziale. Combinate col minaccioso motivo del basso, suscitano un sentimento

di profonda inquietudine. Quando queste battute si ripresentano forte, devono essere radicalmente trasformate fino a diventare qualcosa che evoca il duello fra Don Giovanni e il Commendatore

(da battuta 16 in

1. Quest’eccitazione si riflette anche sul piano del colore orchestrale. C'è un passaggio

stupefacente, a battuta 88, in cui i timpani soli (senza violoncelli) raddoppiano sommes-

samente la linea del basso due ottave sotto il resto dell’orchestra e il pianoforte.

2. Confini che non valgono ovviamente per i recitativi o gli episodi in stile improvvisatorio cadenzale dove non ci si aspetta un ritmo definito.

290

avanti) : il concerto inizia infatti (come il K 459, il K 467 e il K 491 e come

tante sonate di quel periodo) con un tema suonato due volte, la prima pianoe la seconda forte, ma rompe i confini di quella simmetria. La musica ha una tale energia che è difficile tenerla alla tonica per tutto il ritornello iniziale: è un problema formale ricorrente che qui viene risolto brillantemente con un compromesso. La modulazione al relativo maggiore una volta partita va troppo lontano: così lontano, in effetti, che ritorna alla tonica seguendo lo stesso percorso che si ritroverà nella ripresa. È una soluzione che consente di riservare al solista l’azione più significativa (l’affermazione della tonalità secondaria), assegnando però anche una parte del peso drammatico al tutti iniziale; inoltre fa sì che la parte corrispondente della ripresa rifletta fedelmente la prima esposizione e al tempo stesso risolva la seconda. Nessun concerto prima del K 466 aveva sfruttato così a fondo il patetismo latente nella forma, ossia il divario e il conflitto fra la voce singola e le altre. Le frasi più caratteristiche del solista e dell’orchestra non sono mai scambiate fra l’uno e l’altra senza essere riscritte e rimodellate: il pianoforte non suona mai il minaccioso inizio nella forma sincopata, bensì lo trasforma in qualcosa di ritmicamente più definito e più agitato; all’orchestra non spetta mai la frase dal carattere di recitativo che il pianoforte espone al suo primo ingresso e ripete poi lungo tutto lo sviluppo. L'omogeneità del materiale è peraltro considerevole, poiché esso è in massima parte legato, con effetto dirompente, alla frase di apertura del pianoforte e sempre accompagnato dalle stesse terze parallele: inizio del primo solo

inizio del «secondo gruppo » Pianoforte

204

tema del «secondo gruppo»

Pianoforte

Sono relazioni quasi troppo evidenti; assieme alla frase cromatica riprodotta nell’esempio a p. 287 (battute 99-102) e a tutte le sue derivazioni, Il motivo su cui esse si basano e le terze parallele che tornano costantemente dominano la sonorità del concerto. E la prima volta che il movimento iniziale e quello conclusivo di un concerto sono legati l’uno all’altro in modo così impressionante e palese, benché nella Sinfonia concertante K 364 vi fosse già un passo in questa direzione. Questa nuova evidenza delle relazioni tematiche, un tale sfoggio dell’unità, scaturisce da una necessità drammatica interna, ossia il mantenimento

di un

tono unitario, secondo le regole dello stile tragico. Questa tragicità è di tale potenza da dilagare persino nel movimento lento (Romanza):

se lo

isolassimo dagli altri, la sua drammatica sezione centrale risulterebbe

inspiegabile. Una simile esplosione di violenza si trova già nel tempo lento della grande Sonata in la minore K 310, il primo esperimento mo-

zartiano nella vena tragica. E anche lì, per quanto l’esposizione abbia già un carattere decisamente drammatico, l'energia dello sviluppo rimane quasi ingiustificabile se non viene messa in relazione con il primo movimento. Il contrasto ancora più marcato che si trova nel Concerto in re 1. La frase si presenta per la prima volta alle battute 9-12 e da essa si generano i temi delle battute 44-47 e 58-60; non meno riconoscibile è anche il legame con le battute 2830 e con tutte le successive apparizioni dei passaggi in questione. I rapporti fra primo movimento e finale sono inoltre più vasti e profondi di quanto io non descriva qui.

292

minore è segno della sempre più disinvolta capacità di controllo di Mozart, che si manifesta in modo ancor più notevole nella flessibile struttura fraseologica del primo movimento e nelle trasformazioni espressive della sua ripresa. Nonostante la sua struttura più libera e la sua coda che risolve in mag-

giore, il finale è permeato dalla stessa atmosfera tragica, tanto che il relativo maggiore diventa minore (sensazionale il tema in fa minore di battuta 93) e la ripresa di uno dei temi secondari prende la forma di un’o-

scillazione fra maggiore e minore che preannuncia il pathos di Schubert. Le modulazioni sono quasi tutte brusche fino alla brutalità e il primo tutti è carico di una violenza vistosa a cui Mozart in precedenza non aveva mai fatto ricorso neppure nelle sinfonie, men che meno in un concerto. Ci sono somiglianze, non solo tematiche, fra questo movimento e il finale della Sinfonia in sol minore K 550, dove però Mozart poté

essere ancor più intransigente. Una considerazione, quest’ultima, che non vorrei però fosse interpretata come segno della disapprovazione diffusa, che io non condivido, nei confronti della brillantezza e della gaiezza della coda del K 466. Sinfonicamente maestoso, il Concerto in do maggiore K 467 fa da pendant a quello in re minore e gli succede come la Sinfonia Jupiter K 551 segue a quella in sol minore. La /upiter presenta però in superficie una parvenza convenzionale di fatto ingannevole: non asseconda un materiale troppo palesemente suggestivo. Nessuna pretesa analoga, invece, nel Concerto in do maggiore, sebbene il suo tema principale anticipi l’inizio della fupiter. Col K 467 Mozart per la prima volta si misura fino in fondo con la grandiosità orchestrale. Le sinfonie precedenti, inclusa la Linz (K 425), miravano,

più che all’imponenza,

alla brillantezza, un

obiettivo più agevolmente perseguibile data la struttura ritmica dello stile classico. L'ampiezza tranquilla del K 467 apre la strada che condurrà alla Praga e alla Jupiter. Più che in ogni opera precedente, la capacità mozartiana di lavorare con grandi masse, di pensare cioè in termini di blocchi e aree sonore, appare qui in piena evidenza. Nel tutti iniziale, i fiati sono riuniti in un gruppo contrapposto agli archi, senza alcun trattamento solistico, salvo che per un breve passag-

gio a battuta 28. L'ampiezza ritmica è particolarmente degna di nota: mentre nel ritornello d’apertura del K 466 il senso di eccitazione portava con sé un gran numero di frasi brevi e pause drammatiche, l’inizio del K 467 è continuo e massiccio, la tonica dispiegata come un vasto e solido sostegno. Le frasi sono tutte della regolare lunghezza di quattro battute (con una sovrapposizione a battuta 12) e poi, verso la fine del tutti, si estendono in frasi di cinque (alle battute 48, 60 e 64; quest’ultima si sovrappone per preservare un ritmo di quattro battute e agisce infine come un ritenuto che ritarda il battere conclusivo). Solo poco

295,

prima dell’ingresso del pianoforte, e quasi a prepararlo, il ritmo diviene frammentario. La parte solistica è particolarmente ricca e inventiva in materia di figurazioni pianistiche, alcune delle quali di una densità ragguardevole. Un altro tratto impressionante di questo movimento è la sensibilità su larga scala per le aree tonali e per la loro stabilità. L'effetto della modulazione alla dominante è considerevolmente rafforzato da un repentino passaggio alla dominante minore;' lo riporto perché avrà in seguito ripercussioni straordinarie: 110

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In effetti, il passaggio in quanto tale non riappare più se non alle battute 121-23; ciò che invece troviamo nella ripresa è una nuova comparsa alla sottodominante del tema iniziale (un mezzo di risoluzione che Mozart

usa spesso), che diventa:

1. Una dominante minore in questo punto di un’esposizione destabilizza e consolida al tempo stesso: rafforza la dominante maggiore, ma proprio perciò accresce la tensione in rapporto alla tonica.

294

Pianoforte

Ciò che si trova nella ripresa non è il materiale melodico delle battute 11020, ma la struttura armonica, che risolve, come mostra l’identica conclu-

sione dei due frammenti citati, col passaggio alla sottodominante minore. Qui si manifesta con la massima chiarezza il primato, nella ripresa intesa come luogo della risoluzione, dell’armonia sulla melodia: per lo

stile classico, la risoluzione armonica è più importante della simmetria melodica. Anche la sezione di sviluppo mostra un’analoga grandiosità di stile: 299

basata interamente su materiale sussidiario," non è concepita in modo

da richiamare esplicitamente l’esposizione, dove peraltro il tema princi pale era già stato abbondantemente sviluppato. La pacata presentazione di un materiale apparentemente nuovo non fa che dare maggior respiro

al brano; il punto culminante, profondamente appassionato, è alla tonica minore, di modo che il ritorno del tema principale in maggiore porta con sé luminosità e chiarezza con la massima economia di movimento. Il tutti che segue e apre la ripresa è due volte più lungo della sezione orchestrale corrispondente di qualsiasi altro concerto mozartiano; per di più, diciannove delle sue ventidue battute non fanno che ripetere te-

stualmente l’inizio. Gesto espansivo, di ordine squisitamente sinfonico: il concerto richiede in generale molti più ricami, ma la concezione di fondo di Mozart è tanto ampia e libera che egli si può permettere di fare a meno della varietà. Altrettanta semplicità regna nell’Andante, un’aria con archi con sordina e basso pizzicato. Su un accompagnamento pulsante che non si interrompe mai, se non per un breve attimo in cui si trattiene il fiato, il solista disegna una serie di cantilene di lungo respiro e intensamente toccanti; le sole tracce di virtuosismo richiamano la vocalità, in un’imita-

zione degli ampi, espressivi salti di registro tipici della cavatina d’opera. Sembra complicato descrivere la forma di questo brano solo perché è così originale che mancano i termini per ricondurla a categorie conosciute. Ma vale la pena di tentare: non c’è pagina in cui siano più in evidenza la libertà mozartiana e la sua capacità di cogliere la potenza emozionale di una struttura. Le prime ventidue battute orchestrali suonano come un’unica melodia ininterrotta, ma Mozart le suddivide in tre parti per il resto del movimento: possiamo chiamarle A (battute 2-7), B (8-11) e C (12-22). Dopo il ritornello, il pianoforte suona A e Balla tonica; dieci battute più tardi, è la volta di Be Calla dominante (battute 45-55). Dato che alle battute

55-61 e 65-72 compare chiaramente un materiale di sviluppo e dato che troviamo una ripresa da battuta 75 alla fine, potremmo logicamente definire questa forma come sonata: ma non è così che suona all’ascolto. Perché dopo una modulazione e preceduta da una energica cadenza sulla tonica e da un lungo trillo del pianoforte, compare a battuta 38 una nuova melodia al relativo minore. La cadenza sulla tonica seguita dal

relativo minore, una relazione armonica distesa, e la struttura rigidamente sezionale delle frasi appartengono all’aria con da capo o al rondò, come la Romanza del Concerto in re minore. Nel pieno dello sviluppo, poi, e preceduta anche questa volta da un trillo cadenzale del piano-

forte, compare ancora (battuta 62) una nuova melodia, questa volta alla 1. Soprattutto quello esposto alle battute 170, 28 e 160. 2. Si veda il prossimo esempio.

296

sottodominante, tonalità ancora più distesa e anch'essa caratteristica del

rondò. Ancora più tipica della forma di rondò (in particolare di quelli di C.P.E. Bach) è la ripresa che inizia sul terzo grado abbassato, la bemolle maggiore, dopo una modulazione isolata dal resto (quasi a sottolinearne il carattere straordinario) in quanto unico momento dell’intero brano in cui si interrompe l’accompagnamento di terzine: la lenta melodia

dei soli legni (battuta 71-72) risuona dunque sola. Questa modulazione,

il solo istante di silenzio, ha qualcosa di magico, come accade a volte in Schubert, e giunge tanto più inaspettata perché il passaggio immediatamente precedente sembrava preparare un prevedibile ritorno alla tonica. In poche parole, ci si aspetta di sentire la melodia ancora una volta, per intero e alla tonica. Mozart non manca mai di soddisfare, almeno in

parte, un desiderio che egli stesso ha suscitato: dopo A alla mediante bemollizzata, entra Bmolto decorato e alla tonica minore che fa da transizione verso C nella sua originale posizione alla tonica; a mo’ di coda,

entra ancora una volta Balla tonica maggiore e il brano si chiude con un nuovo tema di sole quattro battute. Se una descrizione deve corrispondere a ciò che effettivamente si ode, qui non si tratta affatto di un movimento di sonata, per quanto lo si possa agevolmente far rientrare in quella categoria. Ciò che si ode è quasi un’improvvisazione, una successione di melodie liberamente distese, che galleggiano dolcemente su un accompagnamento pulsante. Come un flusso di canto ininterrotto, sembra la forma in assoluto più semplice e più ingenua: una semplicità messa in rilievo dal fatto che a ogni melodia corrisponde un chiaro cambiamento di tonalità, come se non vi fosse una struttura tonale prestabilita e la continuità fosse garantita solo dal ritmo pulsante che passa dagli archi ai fiati al pianoforte e sostiene, saldamente ma con tranquillità, lo scorrere melodico. Tutto è

invece finemente guidato — influenzato più che modellato — dagli ideali dello stile sonatistico; nulla è arbitrario e solo quando tutto si è concluso si comprende con quale delicato equilibrio ogni cosa sia stata dosata. La struttura delle frasi pare anch’essa irregolare come se fosse improvvisata: invece il suo disegno complessivo è di una regolarità a cui si stenta a credere. La melodia principale, il ritornello d'apertura, ha questo pibfilo:S'-+13,2 221% 1+1+1+1) 05,3+3;il culmine cade nel bel

mezzo, all’inizio della frase di cinque battute, e la simmetria fra i 3 + 3 in testa e in coda è realizzata senza che le ultime frasi riproducano in

alcun modo le prime:

20%

Violino ITTT 2 con sord.

TT 4

mn

eee” een CLES

re :

L’accelerazione dello schema ritmico su larga scala viene dal passaggio da frasi di tre battute a frasi di due: quella di cinque è suddivisa in unità di una battuta ciascuna, il che costituisce un passo ulteriore nell’aumento di animazione, che viene tuttavia controbilanciato dalla maggiore lunghezza della frase, con una sospensione che funge da transizione verso la risolutiva simmetria finale. E l'apparenza di irregolarità a trasmettere (come fa anche il movimento nel suo assieme) quell’impressione profondamente commovente di canto improvvisato e disegno formale. Questi due concerti (K 466 e K 467), scritti nel 1785, non possono in alcun modo essere ritenuti « migliori » di molti altri composti da Mozart prima e dopo. Ma rappresentano un affrancamento per il genere in sé,

la dimostrazione che il concerto poteva porsi con uguale dignità a fianco di ogni altra forma musicale, che era capace di dare espressione a sentimenti altrettanto profondi e di elaborare le idee musicali più complesse. Sembrava che dopo di essi potesse venire solo un ulteriore perfezionamento, invece dovevano nascere ancora grandi opere che contengono nuove sorprese.

Nell'inverno 1785-1786, mentre lavorava alle Nozze di Figaro, Mozart scrisse per le proprie serate in sottoscrizione tre concerti per pianoforte, i primi a includere in orchestra i clarinetti, gli strumenti a fiato ch'egli amava di più. (Alla fine di questo periodo, scrisse anche il gran-

de Trio con clarinetto K 498). Nel primo dei tre concerti, K 482 in mi

bemolle maggiore, i clarinetti sono predominanti e i legni in generale hanno un ruolo assai più significativo che nei concerti precedenti; persino il fagotto riceve una quota consistente di melodie solistiche. È probabilmente per questo motivo che il concerto si fonda soprattutto sull’elemento timbrico ed è, su questo piano, affascinante quasi in ogni momento. Un esempio incantevole della sua sonorità compare poco dopo l’inizio:

298

(Partitura completa)

Poche battute prima, lo stesso passaggio era orchestrato, un’ottava sotto, per corni e fagotti, mentre qui è il suono inconsueto dei violini a fungere da basso sotto i due clarinetti soli. La semplicità della progressione fa sì che tutto l’interesse si concentri sul timbro e lo stesso accade anche con l'episodio successivo (una serie di soli dei legni). Mozart profonde in effetti, dall’inizio alla fine del concerto, una varietà nell’orchestrazione ben maggiore di quanta ne avesse mai dovuto o voluto impiegare in precedenza e che si addice a meraviglia alla brillantezza, al fascino e alla grazia un po’ superficiale del primo e dell’ultimo movimento. Il tempo lento in do minore è ben più profondo, con un pathos che rimane tuttavia sempre elegante, teatrale addirittura e, soprattutto, accessibile, e che

non si allontana da questo nuovo interesse per il colore in sé. La forma, una serie di variazioni in rondò, si avvicina allo schema prediletto di Haydn delle doppie variazioni; alla tavolozza orchestrale concorrono archi con sordina, lunghe sezioni per soli legni, un duetto per flauto e fagotto, trilli minacciosi di archi all'unisono: alla prima esecuzione il movimento ebbe un immenso successo, tanto che fu bissato. Il rondò finale

del K 482, come già quello del K 271, anch'esso in mi bemolle maggiore, è interrotto da un minuetto in la bemolle maggiore e qui pure si ritrova un uso estremamente suggestivo, ancorché meno sontuoso rispetto all’altro, del pizzicato. Se questo minuetto impressiona meno del precedente è, in parte, perché la briosa giovialità di questo finale genera spesso una brillantezza puramente meccanica; nel complesso il movimento ri-

calca l’ultimo tempo del K 450 senza averne l'inventiva né la freschezza. La semplicità del minuetto è forse un passo avanti rispetto allo stile ancora pesantemente fiorito del K 271, dove l’espressività scaturiva ancora dalla profusione dei dettagli. Questa nuova sobrietà non dipende da una negligenza di Mozart nel riempire l’ornamentazione, benché nel concerto vi siano passaggi non interamente scritti per esteso (del resto Mozart lo compose solo a proprio uso). La melodia è altrettanto disadorna nelle parti d'orchestra che raddoppiano il pianoforte: se la parte solistica può richiedere l’aggiunta di abbellimenti, la semplicità delle altre non può

essere attribuita a una qualche forma di trascuratezza, ma principalmente allo sviluppo dello stile mozartiano. Il Concerto in la maggiore K 488 illustra a meraviglia la flessibilità del 299

concerto (una libertà che nessun’altra forma condivide) su un punto:

dove collocare la fine dell’esposizione, o meglio — per evitare una descrizione che suoni troppo come un'etichetta — l’ultima decisa cadenza alla

dominante. C'è sempre, naturalmente, un tutti (0 ritornello) che segue

l'esposizione solistica; l’ultima cadenza alla dominante può quindi trovarsi in tre punti: nell’ultima frase solistica prima del tutti, e in questo caso è l’orchestra ad avviare la serie di modulazioni chiamata sviluppo (come accade nel K 459 e nel K 467); alla fine del tutti, e allora il solista

ricomincia alla dominante innescando un nuovo senso di movimento (come nel K 456, nel K 466 e altri ancora); o, infine, a metà del tutti (co-

me per esempio nel K 451 e nel K 482). Con questa libertà Mozart giocava già nel primo concerto della fase matura, il K 271, facendo interrom-

pere il tutti dal pianoforte e mettendo dunque l’ambiguità in evidenza. Quale che sia la scelta, l’inizio del tutti è sempre un'affermazione della dominante — in altre parole, una dichiarazione del punto in cui ci si tro-

va e un rafforzamento della polarità dell’esposizione. Il K 488 trova un modo nuovo di sfruttare la situazione: dopo il trillo conclusivo del pianista sulla dominante, il ritornello inizia col proprio tema cadenzale che però si interrompe bruscamente e in modo del tutto inatteso dopo sole sei battute. A questo punto ci si aspetterebbe che a risolvere intervenisse, come sarebbe naturale, una decisa cadenza alla dominante; invece arriva tutt'altro, un tema completamente nuovo (battute 143-148):

300

ped

Ve. + Cb. 8va

4 Pianoforte

301

Esso ha sì un gusto cadenzale, ma relativamente esile. Lo sviluppo che segue si basa interamente su questo tema (e su un altro, anch'esso nuo-

vo, molto più breve e introdotto dal pianoforte). Cominciare lo sviluppo con materiale nuovo non è insolito; Mozart lo fa spesso nelle sonate e un compositore minore come Schroeter, che Mozart apprezzava, anche nei concerti. Ma questo splendido tema è al tempo stesso, e questo sì che è eccezionale e sorprendente, una fine e un principio, ossia la cadenza conclusiva per il tutti e l’inizio dello sviluppo: una sorta di calembour entro la struttura complessiva. Basta, a confermare la sua doppia natura, il fatto che Mozartlo ritenga evidentemente anche parte della funzione espositiva del brano, tant'è vero che lo reintroduce alla tonica a metà della ripresa. Non è un gesto formale dettato dalla ricerca di originalità o una sorpresa fine a se stessa. In questo brano Mozart ritorna al lirismo malinconico del precedente Concerto in la maggiore K 414; portando a termine l’esposizione solo a sviluppo iniziato e facendo di questo tema conclusivo sia la risoluzione del ritornello di transizione sia l’apertura di una sezione nuova, Mozart ritrova il flusso melodico

ininterrotto

dell’opera precedente, ma senza quell’allentamento della struttura. Il periodo classico lavorava quasi esclusivamente con unità singole e ben distinte le une dalle altre: la vera maestria di Haydn e di Mozart sta nell’aver soggiogato la tendenza dello stile a iperarticolare e sezionare. Paradossalmente, come abbiamo appena visto, è proprio la chiarezza funzionale delle unità stilistiche a rendere possibili quegli effetti di ambiguità: se il passaggio citato non fosse così nettamente al tempo stesso risoluzione cadenzale (e dunque la conclusione di una sezione) e tema nuovo, Mozart non sarebbe potuto scivolare con tale agio e lirismo sopra a ciò che ordinariamente sarebbe stata un’interruzione della continuità. L’Adagio che segue, e in particolare la sua melodia d’apertura, offre un esempio prodigioso dell’abilità mozartiana nell’ottenere la massima

intensità espressiva con i mezzi più semplici. L’ossatura del tema non è altro che una semplice scala discendente a cui si sovrappone un più lungo movimento parallelo. Come in tante melodie di Bach, una singola voce traccia in realtà due linee polifoniche. In forma schematica, si tratta di questo:

reso però in maniera tale che ogni singolo dettaglio è messo in risalto col massimo pathos:

302

La sospensione armonica all’inizio della seconda battuta fa emergere in tutta la sua potenza l'espressività del salto discendente di settima della melodia: la sua tardiva risoluzione sul mi$ del basso non fa che trasfor-

mare il secondo si della mano destra in una dissonanza espressiva. La melodia è sì strutturalmente riconducibile alle due linee regolari e parallele, ma la sua bellezza, la sua malinconia ricca di passione risiedono

in un’irregolarità ritmica e in una varietà di fraseggio che rendono manifesta ogni possibile sfaccettatura d'espressione delle due semplici linee discendenti. Un esempio della ricchezza inventiva di Mozart è il diverso profilo che l’intervallo di sesta assume in ciascuna delle prime tre battute. L'elemento più straordinario è forse la sospensione fino a battuta 6 della risoluzione del re che compare nella terza battuta della melodia; l'elemento più espressivo, che si trova a battuta 7, è un ripercorrere

quasi tragicamente la linea melodica. Devo fermarmi qui, ma questo tema splendido ripagherebbe di uno studio ben più approfondito, soprattutto per quanto concerne la disposizione delle parti. Per evitare fraintendimenti, mi affretto ad aggiungere che non ritengo che Mozart sia partito da un’ossatura simile a quella che ho fornito e l’abbia poi rivestita. Cercare di leggere nella mente di un compositore, di ripercorrere le tappe del suo lavoro non è un metodo critico utile neppure con un autore vivente al quale si possa esplicitamente chiedere come abbia fatto: in genere, non lo sa. Né sono di grande aiuto, a diffe-

renza di quanto a volte si creda, gli schizzi dei compositori; Beethoven, prolifico di abbozzi quant’altri mai, dichiarò espressamente che si trattava solo di una sorta di stenografia che egli usava come promemoria delle idee ben più complete che aveva in testa. Non sapremo mai come Mozart abbia composto l’inizio del tempo lento del K 488: se sia partito dall'inizio o dalla metà, o se l’idea sia scaturita completa dalla sua mente

come una Gestalt. Anche Mozart stendeva numerosi abbozzi (e sempre

più col passare degli anni), ma aveva senz'altro nella mente altrettante o più idee di ogni altro compositore nella storia della musica. 303

L’ossatura

melodica

che ho indicato non

è dunque,

lo ribadisco,

l’«idea musicale ». Non è neppure ciò che rende questo tema così bello (benché in ciò abbia un peso): quando ammiriamo la struttura ossea di

un bel viso non è l’osteologia che ci interessa. Ma la tendenza fondamentale a pensare in termini di progressioni per gradi congiunti sulla scala diatonica, soprattutto nell’uso di dissonanze espressive con risoluzioni discendenti, era condivisa da tutti icompositori del tardo Settecento. Mozart comprese però, e in ciò risiede la sua genialità, come si potessero sfruttare a fondo le risorse espressive di una progressione così semplice e come essa potesse conferire unità alla singola frase, e al movi mento da una frase all’altra, senza che mai nella linea che disegnava e abbelliva la progressione venissero meno la varietà ritmica e di fraseggio richiesta dal carattere della musica. Un altro fattore di unità (in questo caso su scala più ampia, fra le diverse sezioni del brano) viene alla luce mettendo a confronto la frase di

apertura del pianoforte con l’inizio del primo tutti e con quello della successiva sezione solistica:

Nel terzo esempio il pianoforte riprende la propria melodia, ma combinandola col profilo della frase orchestrale in modo che le due si fondono propriamente in una. Questa sintesi di elementi musicali si estende poi al secondo tema in la maggiore e permette a Mozart di conferirgli sia il carattere di secondo soggetto che quello di sezione centrale di una

forma ABA,' usando alcuni elementi dello stile sonatistico per rendere

drammatica una struttura in sé più allentata.

L'ultimo dei tre concerti, il K 491 in do minore, è il più grande. Ha

una vena tragica, come il K 466, ma più intima e priva della teatralità dell’altro. Richiama meno l’opera e più la musica da camera. Guadagna in raffinatezza ciò che perde in grandiosità e attinge con mezzi molto diversi un’ampiezza equivalente. Questo concerto diede a Mozart filo da 1. Il movimento dal primo al secondo tema è diretto e proprio di un’esposizione, ma il secondo non compare nella ripresa: i temi sono peraltro strettamente collegati e come sostituto è usata una riesposizione del secondo ritornello.

304

torcere, non solo nei dettagli ma nelle proporzioni complessive. Nel manoscritto vi sono molte correzioni e anche (fatto insolito per Mozart, che

di rado apportava cambiamenti di questa portata) l’inserimento di una lunga nuova sezione nel ritornello iniziale. Il motivo di questa cospicua revisione si trova nell'esposizione solistica. Un buon centinaio di battute dopo l’entrata del pianoforte, si ha:

Ma sessanta battute più tardi si trova, più estesa, la stessa cadenza al relativo maggiore:

Besssss=s2s

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In altre parole, l'esposizione formalmente si conclude due volte: il passaggio che precede la prima cadenza ha infatti buona parte dei tratti della fine di un’esposizione, con tutto il suo virtuosismo e tutto (0 quasi) il carattere conclusivo. Se il ritornello iniziale avesse conservato la brevità prevista da Mozart in origine, le proporzioni rispettive dell'esposizione solistica e del ritornello sarebbero state già perfette alla prima cadenza, l'esposizione solistica essendo la più estesa delle due in tutti i concerti. La prima cadenza sfocia però non in un tutti cadenzale, bensì in un nuovo tema secondario e in un nuovo tema conclusivo, ambedue esposti

con ampiezza. Fra i due si trova un passaggio a prima vista ancor più straordinario: viene ripetuto il primo tema, che inizia al relativo maggiore (una prassi consueta per Haydn nella seconda metà dell'esposizione e non insolita per Mozart), ma subito modula, nel giro di una battuta, a

mi bemolle minore e attraversa poi una serie di modulazioni prima di 305

ritornare al mi bemolle maggiore. Tutto ciò ha, sul piano armonico, un indubbio carattere di sviluppo, e la sua collocazione in questo punto del brano gli conferisce una potenza e una passione indimenticabili. È questo un nuovo esperimento, ancora più audace, sulla collocazio-

ne della cadenza alla dominante che conclude l’esposizione. In un certo senso, una doppia esposizione solistica succede a quella orchestrale, la quale doveva dunque, perché fossero rispettate le accresciute proporzioni, essere ampliata a sua volta. Tutto ciò non è sperimentazione fine a se stessa, ricerca di originalità o gusto per la sorpresa, bensì una diretta conseguenza del carattere della musica e del materiale. Il tema principale ha una concisione e una concentrazione rare per Mozart e assai più tipiche di Haydn. Il primo movimento del Concerto in do minore è in effetti strettamente imparentato alla Sinfonia n. 78 di Haydn, composta quattro anni prima e nella stessa tonalità. L'esordio di Haydn: Ob., Fl., 2 Fg. e archi

Archi soli

è riconoscibilmente simile all’inizio del concerto, benché la concezione

mozartiana della frase e del periodo sia più vasta e meno impacciata:

(Ve., Fg. + Cb. 8va)

Al loro ingresso, a battuta 8, gli oboi non offrono altro che un accompagnamento armonico, ma ora di battuta 11 si sono impercettibilmente trasformati in voce melodica. La scorrevolezza con cui Mozart realizza il passaggio da parte di sostegno a parte principale supera anche quella adoperata da Haydn nell’analogo procedimento dell’op. 33, n. 1.' Gi vuole tutta la sottigliezza mozartiana per attingere il tono alto e serio della tragedia con un materiale essenzialmente così angoloso e dal respiro così corto (rispetto a quello del K 466 e del K 467). E l’irregolarità della struttura fraseologica a mettere in rilievo i dettagli. Più che in ogni altro concerto mozartiano, qui le battute iniziali si impongono all’attenzione soprattutto per il loro aspetto lineare, che solo in parte si spiega con la scrittura all’unisono. La natura stessa della melodia, il cromatismo spigoloso, l’organizzazione delle frasi, le progressioni con le seste ascendenti che si susseguono staccato, sono tutti elementi che conferiscono un'importanza inusitata ai rapporti intervallari. (Nella prima pagina del Concerto K 466, per esempio, siamo molto più consapevoli del tessuto musicale, con il rombo minaccioso dei bassi,

le pulsazioni sincopate). L'inizio del K 491 rimane per un certo numero di battute di una neutralità quasi incomprensibile finché non se ne manifestano tutte le implicazioni; quest'opera è pervasa da una riservatezza, un ritegno, del tutto assenti nel K 466. Lì si raggiunge con agio un ampio respiro grazie alla regolarità del paragrafo d’apertura, costruito interamente con gruppi di quattro e di due battute: si sale morbidamente e senza scosse fino al primo punto culminante. Nel Concerto in do minore sembra quasi che il materiale si sia ristretto: nella frase iniziale tutto si gioca su una serie di seste ascendenti e seconde discendenti. Non che la prima pagina del K 466 sia costruita con molto di più, ma lì la regolarità delle frasi e della salita iniziale danno all’ascoltatore la sensazione di un paragrafo compiuto, non di brevi frasi staccate; l'irregolarità dell’inizio del K 491 porta invece in primo piano più i dettagli che il movimento su larga scala ed è quindi dei singoli elementi che, inevitabilmente, siamo più consapevoli. La «doppia» esposizione solistica (tripla, in effetti, contando il primo ritornello) non è che una conseguenza naturale di ciò che precede: la frammentazione della forma complessiva corrisponde alle divisioni interne di ciò che è stato esposto all’inizio. Non si tratta di una dottrina olistica o di una mistica corrispondenza fra la parte e il tutto. Quando un compositore classico voleva usare (come Beethoven, per esempio, faceva molto spesso) un materiale frammentato sul piano melodico, un materiale in cui ogni singolo dettaglio mostra immediatamente di avere un significato che potrà essere compreso solo al di là della specifica frase in cui compare, lo combinava, alla sua prima espo1. Si vedano le pp. 152-55 ei relativi esempi.

307

sizione, con un’estrema regolarità delle frasi in modo da superare l’ef-

fetto di divisione: una sonata può esordire con un motto, ma non con un epigramma. Vale anche la pena di ricordare che la regolarità nell’organizzazione delle frasi porta con sé una pulsazione più ampia e più lenta, che si sovrappone a quella di base, nonché la consapevolezza di una più vasta scala temporale. Ci sono molte pagine mozartiane con frasi di lunghezza irregolare che danno un’impressione di vastità grazie all’ampiezza di esposizione e al bilanciamento simmetrico degli elementi irregolari, come accade nel tempo lento del Concerto K 467 (e quello del Quintetto in sol minore è un esempio ancor più significativo). Ma nel Concerto in do minore Mozart ha a che fare con una

linea melodica frammentaria che impone frasi irregolari. Ciò spiega perché si trovi, in questo movimento, una gran varietà di temi, chiaramente distinti benché correlati fra loro, ciascuno dei quali non fa però

che ripetere insistentemente un proprio frammento, quasi che fossero tutti costruiti come un mosaico:

quali

. Pianoforte

n si

3

3

Questi sono i principali temi secondari, con quell’insistente ripetizione 308

delle unità minime insolita per Mozart, ma tipica di Haydn. A differenza del passaggio iniziale del K 467, questi sono temi che non si possono espandere a piacere in lunghi paragrafi; ma per estrarre dal materiale tutte le sue implicazioni tragiche, che erano già così chiaramente percepibili al termine della prima frase, Mozart ha bisogno di proporzioni ben più ampie di quelle consentite dal materiale stesso; donde la pagina supplementare inserita nel tutti iniziale e donde, anche, la « doppia » esposizione solistica. Se in parte ci si aspetterebbe qui uno sviluppo, in parte quell’attesa è soddisfatta dalle modulazioni del tema principale fino al lontano mi bemolle minore che la seconda esposizione solistica contiene al proprio interno (da battuta 220 in avanti). La frammentazione del movimento armonico dell’esposizione rispecchia quella della struttura (nonché quella, melodica e ritmica, del materiale). Un’instabi-

lità cromatica di questa portata è preannunciata e giustificata dalla serie di accordi diminuiti nella prima enunciazione del tema principale e l’esposizione-alias-sviluppo aggiunge un clima appassionato, quasi una sorta di terrore, che è un elemento centrale del brano. Mozart si serve sì,

tecnicamente, di materiali concisi alla maniera di Haydn, ma non perciò rinuncia a imporre quel ben più vasto ventaglio di emozioni che si ritrova in tutta la sua opera. La ripresa deve ricapitolare le tre esposizioni. I due temi secondari () e (c) dell’esposizione pianistica vengono ora suonati in rapida successione e in ordine inverso, con (c) prima di (d), mentre

(a), il passaggio

aggiunto al tutti iniziale, si combina con una variante di (d) a formare un tema conclusivo:

Il piano interrompe la coda con una simmetria splendida, una rielaborazione delle ultime battute dello sviluppo. Con la fine del movimento si ricongiungono tutte le disparità. 309

La raffinatezza e la frammentazione della struttura si riverberano sull’orchestrazione: la scrittura delle parti interne è così dettagliata che le viole sono spesso divise e l’organico include sia oboi che clarinetti. La sonorità orchestrale non è però sfavillante come nel K 482, bensì sontuosa e scura. Timpani e trombe sono usati, in fiano, con un

suono insolito e velato che richiama alcuni passi del K 466 e del Don Giovanni. Con tutta la sua potenza drammatica, questo concerto si av-

vicina più di ogni altro (ad eccezione dell’ultimo) alla tarda musica da camera di Mozart. Lo stile « cameristico » che si può trovare in tre concerti precedenti (K 413, K 414 e K 449) è quello delle serenate, ma nel

K 491 c’è l’intimità del dettaglio dei quartetti per archi. La disperazione della musica, la sua stessa energia sono rivolte verso l'interno, lonta-

ne da ogni elemento di teatralità, anche da quelli più propriamente mozartiani. Meno originali nella concezione, gli altri movimenti non sono tuttavia meno belli. Il Larghetto somiglia alla Romanza del K 466, ma senza l’agitata sezione centrale. Il finale, Allegretto, è una serie di variazioni a rit-

mo di marcia. In genere lo si suona troppo velocemente nell’errata convinzione che da un tempo rapido esso possa trarre una potenza comparabile a quella del primo movimento. Mozart non è però un compositore che richieda l’apporto dell’interprete per rimediare ai difetti della propria musica: se avesse voluto quel tipo di potenza, l'avrebbe prevista in partitura. Egli profonde qui tutta la ricchezza di cui è capace nella scrittura delle parti, senza che mai essa oscuri però la nitidezza del tema che rimane, volutamente, sempre udibile: perfino le sue due trasformazioni in maggiore, libere sulla carta, suonano rigorose all'ascolto. Anche quando è riconducibile alla forma sonata, il finale classico ha sempre, rispetto a un primo movimento, un assetto formale più allentato ed è,

giocoforza, più facilmente afferrabile all’ascolto. Per sobrio che sia, questo movimento contiene tuttavia abbastanza dell’appassionata disperazione del primo tempo perché Beethoven ne richiamasse in parte la coda nel finale della sua Appassionata. Il Concerto in do maggiore K 503 non è mai stato fra i più amati dal pubblico. Completato alla fine del 1786, otto mesi dopo l’ultimo dei tre concerti pianistici con i clarinetti in organico, è un’opera magnifica e — all'orecchio di molti — fredda. È invece il concerto che molti musicisti (storici della musica e pianisti) considerano con un affetto tutto particolare. La sua scarsa attrattiva per il pubblico si deve al carattere quasi neutro del materiale che, soprattutto nel primo movimento, non è abbastanza caratterizzato nemmeno per poter essere definito banale. La fra-

se d’apertura, una serie di blocchi basata su un arpeggio:

310

Allegro maestoso

“900

J

J

non è neppure un cliché. È convenzionale, senza ombra di dubbio, ma

non in senso deteriore: non è altro che il materiale basilare della tonalità tardo-settecentesca, il fondamento dello stile. Anche un tema successivo, più attraente e di carattere militaresco, è altrettanto convenzionale nella stessa accezione del termine: come il pane, non è mai stucchevole. Lo splendore dell’opera, la gioia che essa può ispirare risiedono tutti nel trattamento del materiale. Vi sono altri concerti mozartiani in cui il materiale è quasi altrettanto convenzionale (il K 451, per esempio, di cui il compositore andava fierissimo, e il K 415), ma nessuno

mostra la potenza del K 503. Le diverse idee del primo movimento so-

no trattate come blocchi: le transizioni magistrali non attenuano la consapevolezza della giustapposizione di elementi ampi e, soprattutto, del loro peso. Dall'inizio alla fine del concerto, ciò che in effetti ci viene fatto percepire è quanto peso possa reggere la forma in se stessa, anche facendo ricorso a idee quasi del tutto inespressive. Per valutare appieno questa prova di bravura, basta soffermarsi su uno snodo formale qualsiasi. Prendiamo la prima entrata del pianoforte, nulla più che una cadenza che alterna instancabilmente settima di dominante e tonica:

311

2 Cor Sva sotto

Era necessario riportare un esempio così lungo perché è importante il

senso di massa e, soprattutto, perché molto dipende dal puro e semplice fatto di ripetere, e di ripetere proprio l'elemento armonico più convenzionale della musica del Settecento. L’accelerazione alle battute 83-89 è costruita con la tecnica che Mozart usa nel modo più strepitoso nel K 466 e di cui padroneggiava però da diversi anni gli elementi essenziali. Il movimento armonico quadruplica la velocità a partire da battuta 88 per poi raddoppiarla ulteriormente negli ultimi due tempi di battuta 89. Tutto ciò è semplice routine per Mozart (e solo la sua disinvoltura nel maneggiarla è eccezionale per l’epoca classica). L'elemento straordinario è battuta 90, che è esattamente conclusiva quanto serve, senza essere però una fine decisiva: si arresta due accordi prima rispetto a una vera e propria cadenza finale. E infatti l’ultima frase del movimento è lo stesso passaggio, ma con una battuta in più: è meraviglioso osservare come Mozart riesca qui a fermarsi proprio sul limite. La pausa, paradossalmente, fa da transizione e prolunga la tensione — una tensione generata ritmicamente da una cadenza di tonica! La padronanza beethoveniana della potenza ritmica esaltante della pura e semplice ripetizione parte da qui. Ma ancora non è finita con la cadenza settima di dominante-tonica: l'orchestra la riprende, più lentamente, quasi a risolvere l’eccitazio-

ne di poco prima, e il solista fa il suo ingresso. La cadenza qui è ripetuta tre volte. Possiamo identificare il punto preciso in cui termina la sezione che abbiamo appena ascoltato: il battere della battuta 96, che suona come la conclusione fin qui trattenuta. Nel frattempo il pianoforte aveva

avviato una serie di frasi che ora continua, riproponendo come un’eco

la stessa cadenza ancora per tre volte. Il battere di battuta 96 è dunque contemporaneamente il punto conclusivo di una sezione e quello centrale di una frase pianistica; ciò che rende quella sovrapposizione possi-

bile è l’insistente ripetizione di un’unica e semplice cadenza. Mai prima 915

d’ora erano stati conciliati in modo così efficace continuità e articolazione, movimento e chiarezza formale.

Questa economia di mezzi è uno dei primi indizi dell’ultima evoluzione dello stile mozartiano. Ma questa tendenza si manifesta pienamente, estendendosi a tutti gli elementi della sua musica, solo nell’anno della sua morte. Una caratteristica significativa è già, nel Concerto in do maggiore K 503, la rinuncia al colore armonico: i chiaroscuri derivano quasi tutti da una semplice alternanza di maggiore e minore. Il che può, ovviamente, condurre lontano: il do minore contrapposto al do maggiore chiama ben presto (battuta 148) in causa il mi bemolle maggiore e determina poi, quando torna nella ripresa, anche la comparsa del mi bemolle minore; la dominante, sol maggiore, è introdotta dal sol minore. Ma queste sono tutte relazioni fra maggiore e minore oppure fra maggiore e relativo minore: modulazioni che in realtà non si muovono, non modificano la tonalità. Non che il tardo stile mozartiano faccia a meno di modulazioni più dinamiche: quelle del finale della Sinfonia in sol minore o dell’ultimo concerto per pianoforte sono, anzi, le sue più brutali. Ma proprio quella brutalità dimostra che sono usate con economia e a fini drammatici: non hanno più nulla dell’esotismo armonico che aveva il si minore nell’ultimo movimento del Concerto in si bemolle maggiore K 456. Né Mozart rinuncia al colore orchestrale o armonico, ma rende ogni singolo effetto più espressivo e più penetrante. Die Zauberflòte dispiega la più ampia varietà di colori orchestrali di tutto il Settecento, ma, paradossalemente, proprio quella profusione è economia di mezzi: ciascun colore è peculiare e ognuno di essi — lo zufolo di Papageno, le agilità della Regina della Notte, i campanelli, i tromboni di Sarastro, persino la scena di addio nel primo atto con i clarinetti e gli archi pizzicati' — produce uno specifico effetto drammatico. Nel K 503, l’alternanza di tonica maggiore e minore è il colore dominante e al tempo stesso un elemento chiave della struttura. La si incontra dapprima, appena accennata, a battuta 6 (si veda l’esempio a p.311) e, più esplicitamente manifesta, poco oltre:

1. Si veda l’esempio a p. 391.

314

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i ra 85 —

17

x 18

AE D

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4 Ci

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+Cb 8va

Quest'alternanza non è solo persistente, è quasi ossessiva. L'elemento ritmico fondamentale del brano viene introdotto inizialmente dai violi-

ni alle battute 18-19 (citate sopra) e si ritrova poi al basso a battuta 26:

viene riproposto alla tonica maggiore appena dopo quell’apparizione in minore. Un altro «secondo » tema è suonato in maggiore e seguito da una parziale ripetizione in minore! che costituisce la sua seconda frase: 1. Vale la pena di sottolineare che questa è anche una tonica maggiore/minore, poiché il sol maggiore è, a questo punto, saldamente affermato come la tonalità di questa parte dell’esposizione (l’uso del contrasto maggiore e minore in un accordo secondario produrrebbe l’effetto, più squisitamente coloristico, di un'armonia cromatica). A battuta 175, tutte le edizioni suggeriscono nella parte pianistica un la acuto ritenendo che Mo-

zart vi abbia rinunciato, optando per quello un’ottava sotto, solo perché la sua tastiera

non andava oltre il fa; il punto corrispondente nella ripresa mostra che, potendo, egli

515

E dopo altre alternanze, giunge infine, più mozartiana e più classica di tutte, la cadenza che conclude l’esposizione în maggiore e minore al tempo stesso:

in una sorta di riassunto: un esempio di risoluzione classica come sintesi. Questo procedimento di opposizione e sintesi fra maggiore e minore, nodale e persistente in tutto il brano, è mirabile per la sua concezione su larga scala. Ciò significa che generalmente, a fronte delle continue tensioni armoniche, il basso rimane assolutamente stabile, spesso immobile

come un pedale. Poiché il contrasto maggiore-minore interviene subito,

nel corso della frase che apre il movimento, il suo uso strutturale su scala

più vasta ne consegue nel modo più naturale.' Questa grandiosa ambi-

avrebbe mantenuto entrambe le volte il profilo ascendente della melodia come a battuta 170. Purtroppo bisogna allora andare oltre; il confronto col passaggio corrispondente

della ripresa (battuta 345) mostra che se modifichiamo battuta 175, diventa necessario

riscrivere anche la successiva in questo modo:

altrimenti il la acuto resterebbe isolato. Riscrivere anche un solo dettaglio di Mozart non è semplice come pensano i curatori delle edizioni ed è dunque preferibile in linea generale stampare (e suonare) esattamente quello che egli ha scritto. 1. Per esempio, il ritornello iniziale muove direttamente alla dominant e sol maggiore

316

guità fra stabilità e tensione — una sonorità peculiare, massiccia e insie-

me inquietante —, è la chiave della pacata potenza dell’opera. A questo effetto di massa contribuiscono tutti i diversi elementi del pezzo. L'uso della ripetizione ostinata, come abbiamo visto, è marcato dall'inizio alla fine: alle nostre orecchie questo brano ricorda Beethoven, ma è probabile che lui stesso l'avesse in mente mentre scriveva il Quarto concerto per pianoforte e orchestra. All’inizio dello sviluppo, il solista cambia repentinamente tonalità, appropriandosi dolcemente del ritmo dell'orchestra: 225

Tutti

$

e nel punto corrispondente del Concerto in sol maggiore Beethoven usa esattamente lo stesso ritmo con lo stesso contrasto dinamico; la frase as-

(bb. 30-50), ma poi torna immediatamente alla tonica minore: l'esposizione solistica usa questa gravitazione attorno al do minore per rendere più espressivo il passaggio alla dominante a cui approda passando per mi bemolle maggiore (che si afferma ora con maggior agio) e sol minore

(bb. 140-65). La musica trae qui la sua profonda espressività

quasi interamente dalla struttura e non dal materiale. Sul piano armonico, il passo corri-

spondente nella ripresa (bb. 320-40) è più sorprendente benché altrettanto logicamente inserito nel disegno (mi bemolle maggiore diventa mi bemolle minore e poi torna cromaticamente a do minore-maggiore) e ancor più profondamente espressivo.

KA)

solve persino la stessa funzione, ossia una modulazione a sorpresa. (Beethoven rende però l’effetto ancor più potente ricorrendo a una modulazione più lontana e facendo interrompere l’orchestra dal pianoforte)’ In ambedue i passaggi, il ritmo è tanto più in risalto per il fatto di ripetere una stessa nota, e in entrambi i casi si tratta di una ripetizione tematica. La versione di Beethoven è più drammatica e stupefacente, ma è forse quella mozartiana a trasmettere un maggior senso d’imponenza e di agio. La massiccia potenza del K 503 giunge al culmine nella seconda parte dello sviluppo, una polifonia a sei parti reali (oltre alle figurazioni pianistiche) con una scrittura imitativa tanto rigorosa da poter quasi essere definita canonica: un tour de force di contrappunto classico paragonabile al finale della /Jupitero alla scena del ballo nel Don Giovanni. In linea generale, in Mozart il lirismo risiede nei dettagli e la struttura è una forza organizzatrice; nel K 503 i dettagli sono in larga misura convenzionali e sono gli elementi formali su larga scala a generare la più straordinaria potenza espressiva, fino a permeare di malinconia e tenerezza uno stile massicciamente sinfonico. E perlopiù quella malinconia sembra addirittura sgorgare miracolosamente da un semplice passaggio dal maggiore al minore, spesso mantenendo un accordo di tonica in posizione fondamentale: l’impressione di pacata potenza e lirismo che ne discende non ha eguali nella storia della musica fino a Beethoven.? L'atmosfera è meno toccante che in altri concerti, ma è a questa sintesi di ampiezza e sottigliezza che il K 503 deve il suo prestigio. Il movimento lento coniuga splendidamente semplicità e ornamentazione lussureggiante (con ritmi molto variati e contrastati) e sarebbe un peccato sciuparlo aggiungendo abbellimenti alle frasi più sobrie. In alcune battute l’ho fatto anch'io, suonando questo concerto, e oggi lo rimpiango. Come il primo movimento, il finale deve il suo peculiare colore alla ripetuta alternanza maggiore-minore e vi si trova un procedimento che Mozart predilige nei rondò, ossia la ripresa in ordine inverso (con il tema principale per ultimo). Scritto nello stesso periodo della Praga e dei Quintetti per archi in do maggiore e sol minore, il K 503 è un degno compagno per quei capolavori.

In seguito, l’interesse di Mozart per il concerto cessò quasi completamente. Dopo averne composti dodici fra il 1784 e il 1786, nei suoi ultimi

cinque anni di vita ne scrisse solo tre, tutti casi a sé anche per carattere.

1. Si veda l'esempio a p. 469. 2. Per ottenere quell’ampio effetto di potenza e tenerezza al tempo stesso, Beethoven nel primo movimento del Concerto per violino usa abbondantemente un'analoga insistenza sulla fondamentale della triade di tonica e una serie di scambi fra maggiore e minore.

318

Il più strano è forse il cosiddetto Concerto dell’Incoronazione in re maggiore K.537, sul quale sia musicisti che musicologi hanno espresso giudizi molto severi. E stato però il più popolare fra i concerti mozartiani per tutto l’Ottocento e per buona parte del Novecento e la sua musica merita maggiore rispetto: è la composizione storicamente più « progressista »

di Mozart, la più vicina allo stile protoromantico di Hummel e di Weber e persino, per il suo stile virtuosistico, ai primi concerti di Beethoven. Basta confrontare: 146

perché salti agli occhi uno dei tanti dettagli. Si potrebbe dire che questo è il concerto che Hummel avrebbe scritto se avesse avuto del genio e non solo un considerevole talento. Per un aspetto importante è persino un’opera rivoluzionaria, poiché sposta l’equilibrio fra armonia e melodia in modo tale che la struttura dipende qui in gran parte dalle successioni melodiche. Lo si vede con chiarezza già nel ritornello iniziale, che presenta lunghi passaggi atematici di transizione a separare l’una dall’altra le diverse sezioni:

319

dove alla penultima battuta dell’esempio (b. 59) l'esordio della melodia è in sé quasi un levare, e dunque continuazione della transizione e nuovo inizio al tempo stesso. Queste frasi di transizione, usate di norma come espansioni solo nell'esposizione solistica e qui invece presenti già nel ritornello iniziale, servono ad allentare la struttura. L'elemento melodi-

co dei temi conta più di quello armonico o della loro collocazione nel decorso lineare. Si noti che nessuna di queste frasi di transizione è una risoluzione; si presentano sempre dopo una cadenza che risolve e sono dunque semplici sospensioni del movimento, silenzi riempiti. Non hanno altro scopo che far aspettare in bellezza che cominci una melodia. Questo allentamento della struttura armonica e ritmica determina un calo di tensione che deve necessariamente essere compensato: donde un rigoglio di figurazioni virtuosistiche. Nei precedenti concerti di Mozart, l’uso di questo genere di virtuosismi alla fine dell’esposizione serviva solo a intensificare una tensione già stabilita in precedenza; qui serve invece proprio a crearla. Naturalmente aumentano brillantezza e complessità:

Pianoforte

Non ci sono qui il peso o la magnificenza del K 467 o la drammaticità del K 466 (prima di questo, i due concerti col maggior virtuosismo strumentale), ma una ricchezza intricata e un po’ più difficile da seguire all’ascolto: ha un interesse suo proprio, quasi senza legami con gli altri materiali del brano. L'allentamento della struttura melodica e il ricorso a questo genere di figurazioni per creare tensione sono caratteristiche del primo stile romantico, quale si trova nei concerti di Hummel e di Chopin. Non fu Beethoven, ma Mozart a mostrare come si poteva distruggere lo stile classico. Per apprezzarne il valore, bisogna ascoltare il K 537 senza nutrire le aspettative consone agli altri concerti mozartiani, bensì giudicandolo secondo criteri propri dell’epoca successiva: visto in quest'ottica, appare come il più grande concerto pianistico del primo romanticismo. Il brillante rondò ha lo stesso carattere del primo movimento, ma il Larghetto preannuncia l’ultimo Mozart: la sua semplicità è tale che se non fosse un capolavoro, sarebbe a malapena grazioso. E un esempio di quella grazia popolare, sobria, quasi falsamente ingenua che è il pregio sommo della Zauberflote. Nel suo ultimo anno di vita Mozart scrisse due concerti più prossimi al gioco delicato e intimo della musica da camera che a quello drammatico dello stile concertistico. Il Concerto per clarinetto e orchestra in la maggiore K 622 ricorda da vicino, per il lirismo e anche per il profilo e le implicazioni armoniche dei temi, i due concerti pianistici nella stessa tonalità, il K 414 e il K 488. Nell'ultimo Concerto per pianoforte (il K 595 in si bemolle maggiore), composto sei mesi prima, si ritrova quel lirismo libero, qui però progressivamente permeato di un cromatismo espressivo e perfino doloroso che ora dell’inizio dello sviluppo pervade ogni cosa. Ambedue i concerti danno l’impressione di una linea melodica inesauribile e continua, ininterrotta eppure chiaramente articolata, ma la loro struttura non è né una successione slegata di melodie (come nel K 537) né un flusso costante.

In queste due opere tarde Mozart ricorre a un sistema di sovrapposizione dei ritmi delle frasi, messo con la massima discrezione al servizio di

un'invenzione lirica che scaturisce in piena libertà senza tuttavia perdere mai tensione interna e intensità emotiva. Nel Concerto per clarinetto, per esempio:

921

101

100 CI, solo

una frase nuova comincia da qualche parte fra le battute 102 e 105, ma dove esattamente all’ ascolto non oe hiaro. Col senno di poi (una volta giunti a battuta 106) ci si rende conto che quella frase era iniziata sul primo tempo di battuta 104, ma sul momento in quel punto si sente solo un movimento continuo. Mozart ottiene cos Ì al tempo stesso un articolazione chiara e un flusso ininterrotto. Si pot rebbe chiamarla articolazione della continuit a: si può ve dere il processo com plementa re—l’integrazione di un movimento interrotto — poche p gine prima: .,

[N

c

322

CI. solo

Le battute 76-77 sono al tempo stesso la fine della cadenza di battuta 75 e l’inizio di una frase nuova; le battute 78-79 riprendono, volgendola in

minore, l'armonia delle due battute precedenti e l'esatto parallelismo

dell’accompagnamento orchestrale fa di esse tanto una risposta alle battute 76-77 quanto la conclusione di una frase di quattro battute; al tempo stesso, però, battuta 78 è l’inizio di una nuova frase del clarinetto che si estende fino a battuta 80 e anche oltre. Si potrebbero moltiplicare esempi analoghi all’infinito. Mozart aveva già fatto uso di articolazioni a incastro e di frasi bifronti con un duplice significato (fine e inizio al tempo stesso), ma non credo che le avesse mai sviluppate con la sottigliezza e l’inventiva costante che dispiega nei suoi ultimi due concerti. Quest’equilibrio fra chiarezza formale e continuità rende il primo movimento del Concerto per clarinetto simile a un canto senza fine: non il prolungarsi di una sola idea, ma una serie di melodie che fluiscono una nell’al-

tra senza interruzione. L’Allegro che apre l’ultimo Concerto per pianoforte, il K 595, è più complesso, ma trasmette la medesima impressione di melodia incessan-

te. Per ottenere quel lirismo continuo Mozart usa qui mezzi ancor più sottili. La tentazione di citare uno dei passaggi più squisiti del concerto è irresistibile:

920

29

(VII)

SETE:

pi n]

(VIII)

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L'urgenza finissima della frase che inizia a battuta 29 viene dal fatto che per una frazione di secondo si resta in attesa della conclusione della linea di viole e secondi violini che proviene da battuta 28: l'armonia si incrocia al di sopra della pausa di ottavo, creando un legame ulteriore fra

due frasi già legate una all’altra tramite la linea melodica del primo violino delle battute 28-29. La frase è poi ripetuta a battuta 33 e l’unità con ciò che precede è qui ancora più netta grazie alla magnifica linea del

basso (violoncelli e contrabbassi) che inizia a battuta 32 e procede inin-

terrotta fino alla 35. Nello stesso passaggio la dolcezza della dissonanza in Mozart tocca il suo apice: lo scontro, a battuta 33, fra un ret ai primi violini e un re), tre

e quattro ottave sotto, affidato a violoncelli e contrabbassi, è uno dei più

cocentemente dolorosi di tutta la musica tonale. La brutalità dell’urto è schivata nel più breve tempo possibile, e in sostituzione sopraggiunge una dissonanza più accettabile, ma tutta la potenza espressiva è garantita dall'orecchio e dalla memoria, soprattutto perché i primi violini salgono così repentinamente al reg (e raddoppiando dunque il re del basso un 324

attimo prima che si trasformi in re)). In questo della battuta c’è, insieme a una settima maggiore za di una nona minore (re-re)) non eseguita ma ginazione, donde l’effetto della più espressiva e

modo sul terzo tempo (do-re)), tutta l’asprezche risuona nell’immadissonante delle armo-

nie senza la durezza del suo suono effettivo. Costantemente, nel brano,

le dissonanze più dolorose sono suggerite e tuttavia mitigate. Questo passaggio è un momento importante del concerto, la prima apparizione

del modo minore e del cromatismo che avrà un ruolo così cruciale, il

primo manifestarsi della sconfinata malinconia dell’opera. Lo sviluppo, che modula quasi ogni due battute, porta la tonalità classica al limite

estremo; il cromatismo si fa iridescente, l’orchestrazione e la distribuzione delle voci trasparenti: l'emozione, così intrisa di angoscia, non distur-

ba mai la grazia della linea melodica. L'ultimo concerto per pianoforte e il Concerto per clarinetto sono ambedue espressioni private: la forma non è mai usata per effetti esteriori, il tono resta sempre intimo. I movimenti lenti ambiscono e pervengono a una condizione di semplicità assoluta: la minima irregolarità nella struttura fraseologica dei temi sarebbe apparsa un’intrusione. Le melodie sì assoggettano a una simmetria quasi impeccabile superandone tutte le insidie. C'è una coerenza fondamentale nel fatto che proprio Mozart, che creandola aveva reso perfetta la forma del concerto classico, se ne sia infine servito in un modo così eminentemente personale.

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