Lo stile classico. Haydn, Mozart, Beethoven 8845927695, 9788845927690

Se c'è un'epoca nella storia della musica che nessuno ha mai esitato a definire aurea, certamente è quella del

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Lo stile classico. Haydn, Mozart, Beethoven
 8845927695, 9788845927690

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CHARLESROSEN

Los t i l ec l as s i c o Hay dn,Moz ar t ,Beet hov en

ADELPHI

Se c'è un'epoca nella storia della musica che si possa definire aurea, certamente è quella del «grande triumvirato»: i sei-sette decenni - dai primi exploit compositivi del giovane Haydn (mentre Mozart già stupiva l'Europa) alla morte di Beethoven nel 1827 - che videro nascere «un'arte nuova». Benché divisi da «caratteri diversissimi e concezioni espressive spesso diametralmente opposte», Haydn, Mozart e Beethoven forgiarono uno stile unitario, duttile ma inconfondibile, in grado di sublimare le «possibilità artistiche dell'epoca», ma anche di consumare come un fuoco i «residui ormai insignificanti delle tradizioni precedenti». Uno stile la cui perfezione ha reclamato, appunto, la definizione di classico. Che cosa ha reso possibile questa prodigiosa sintesi, e che cosa si cela dietro l'incanto che secoli dopo ancora ci pervade all'ascolto? Sistematico nella sua disamina ma elegante e lieve nell'esporla, tecnico ma restio ai tecnicismi, Rosen spezza il circolo vizioso dei modelli analitici astratti, e restituisce con sapienza «il senso della libertà e della vitalità» di questo stile, tra formularità e arguzia, sperimentalismo e convenzione. Così, la sua interpretazione della «forma sonata» ci fa comprendere come nelle mani di Haydn, Mozart e Beethoven la musica divenga finalmente capace di una drammaturgia senza parole: un teatro di suoni in cui il contrasto fra tensione e stabilità, regolato da stringenti logiche interne, attinge un'inedita potenza emozionale. A chi lo segue in questo viaggio di scoperta e ascolto, Rosen promette «quel piccolo incremento di genuino piacere musicale che si accompagna alla comprensione». Pianista e musicologo, Charles Rosen (New York, 1927-2012) ha realizzato fondamentali registrazioni di Beethoven, Schumann, Debussy, Stravinskij, Boulez, Carter. Di lui Adelphi ha pubblicato nel 1997 La generazione romantica. Questa traduzione dello Stile classico si basa sull'edizione ampliata del 1997, che rispetto alla prima (1971) comprende fra l'altro un'ampia nuova Prefazione e un capitolo sugli ultimi anni di Beethoven.

«La creazione dello stile classico non fu tanto il raggiungimento di un ideale quanto la conciliazione in un punto di equilibrio ottimale di ideali in conflitto. L'espressione drammatica intesa come semplice resa di un sentimento o di un cruciale momento di crisi in un'azione teatrale - in altre parole, come movimento di danza molto caratterizzato - aveva già trovato forma musicale nel tardo barocco. Ma il secondo Settecento esigeva altro: la pura traduzione del sentimento non bastava più, bisognava ora mostrare Oreste che impazzisce senza rendersene conto, Fiordiligi che desidera cedere mentre tenta di resistere, Cherubino innamorarsi ignaro di ciò che prova; e, qualche anno dopo, la disperazione di Florestan che si piega al delirio e alla visione apparentemente senza speranza di Leonore per poi fondersi con essi. Il sentimento drammatico fu sostituito dall'azione drammatica».

In copertina: Friedrich von Amerling, Fanciulla (1834). Collezione privata. © MONDADORI PORTFOLIO/ AKG IMAGES

DELLO STESSO AUTORE:

La generazione romantica

CHARLES ROSEN

Lo stile classico Haydn, Mozart, Beethoven EDIZIONE AMPLIATA

ADELPHI EDIZIONI

TITOLO ORIGINALE:

The Classica[ Style

Haydn, Mozart, Beethoven

Traduzione di Riccardo Bianchini e Gaia Varon Cura editoriale di Gaia Varon

©

1997, 1972, 1971 CHARLES ROSEN 1997

FIRST PUBLISHED BY NORTON

Ali rights reserved

©

2013 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO WWW.ADELPHI.IT

ISBN 978-88-459-2769-0

INDICE

Prefazione alla prima edizione

13

Una nuova prefazione

15

Ringraziamenti

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Nota bibliografica

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Nota sugli esempi musicali

35

LO STILE CLASSICO PARTE PRIMA. INTRODUZIONE

l. Il linguaggio musicale del tardo Settecento 2. Teorie della forma 3. Le origini dello stile PARTE SECONDA. LO STILE CLASSICO

l. La coerenza del linguaggio musicale 2. Struttura e ornamentazione PARTE TERZA. HAYDN DAL

l. Il quartetto per archi 2. La sinfonia

1770

ALLA MORTE DI MOZART

39 41 55 69 83 85 1 33 1 45 1 47 1 85

PARTE

QUARTA.

PARTE

QUINTA.

L'OPERA SERIA

MOZART

l. Il concerto 2. Il quintetto per archi 3. L'opera buffa PARTE SESTA. HAYDN DOPO LA MORTE DI MOZART

l. Lo stile popolare 2. Il trio con pianoforte 3. La musica sacra PARTE SETTIMA. BEETHOVEN

l. Beethoven 2. Gli ultimi anni di Beethoven e le convenzioni della sua infanzia

209 235 237 327 355 397 399 423 441 453 455 533

EPILOGO

599

Indice dei nomi e delle opere

613

A Helen eElliott Carter

ZANGLER:

Was hat Er denn immer mit dem dummen Wort "klassisch " ? MELCHIOR: Ah, das Wort is nit dumm, es wird nur oft dumm angewend 't. NESTROY, Einenjux will er si eh machen

[ zANGLER: Perché Lei ripete sempre quella stupida paro­ la, « classico » ?

MELCHIOR: Ah, la parola non è stupida. Soltanto, viene spesso usata stupidamente].

PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Non ho cercato, in questo libro, di offrire una rassegna della musica del periodo classico, ma di descriverne il linguaggio. In musica, come in pittura e in architettura, i princìpi dell'arte « classica >> non furono co­ dificati (o, se si vuole, > ) che dopo la scomparsa degli im­ pulsi che l'avevano generata: ho tentato di restituire il senso della libertà e della vitalità dello stile. Mi sono limitato alle tre figure principali dell'e­ poca perché, per quanto sia ormai fuori moda, insisto nel credere che siano i traguardi da loro raggiunti a fornire i termini entro i quali anche il vernacolo musicale può essere compreso al meglio. Se è possibile di­ stinguere fra l' inglese corrente intorno al 1 770 e lo stile letterario, po­ niamo, di SamuelJohnson, è molto più difficile tracciare una netta linea di demarcazione fra il linguaggio musicale del tardo Settecento e lo stile di Haydn- e non è neppure certo che valga la pena di accollarsi lo sforzo necessario. Si ritiene spesso, ma io non concordo, che i massimi artisti si rivelino tali solo se guardati sullo sfondo della mediocrità che li circonda: in altre parole , che le qualità drammatiche di Haydn, Mozart e Beethoven di­ pendano dal loro aver violato gli schemi ai quali i loro contemporanei avevano abituato il pubblico. Se ciò fosse vero, l'effetto delle sorprese drammatiche di Haydn dovrebbe progressivamente diminuire man ma­ no che esse ci diventano familiari. A ogni amante della musica accade esattamente l'opposto. Le facezie di Haydn suonano più argute a ogni nuova esecuzione. Si può senz'altro arrivare a conoscere un'opera così bene da non paterne più sopportare l' ascolto. E tuttavia, per non pren­ dere che i due esempi più banali, il primo movimento dell'Eroica suone­ rà sempre immenso e il richiamo della tromba della Leonore n. 3 sempre sconvolgente a chiunque riascolti l'uno o l'altro. La nostra aspettativa non proviene infatti dall'esterno, bensì dal brano stesso : ogni opera mu13

sicale stabilisce condizioni proprie. Come lo faccia, in che modo ogni singola opera crei il contesto entro il quale si svolgerà il dramma, è ciò di cui principalmente tratta questo libro. Mi interessano dunque non solo il significato e la portata della musica (che è sempre così diffi c ile tradur­ re in parole) , ma anche come essa possa fare proprio e trasmettere quel significato. Per dare un'idea dell'ampiezza e della varietà dell 'epoca, ho seguito per ogni compositore lo sviluppo di generi diversi. Era scontato sceglie­ re il concerto, il quintetto d'archi e l'opera comica per Mozart, la sinfo­ nia e il quartetto per Haydn . Una disamina dei trii con pianoforte di Haydn illustra la peculiarità della musica da camera con pianoforte dell'epoca. Per l'opera seria una trattazione separata era necessaria; gli oratori e le messe di Haydn hanno fornito l'occasione per affrontare in termini generali la questione della musica sacra. Il rapporto di Beetho­ ven con Mozart e Haydn avrebbe senz'altro richiesto un 'indagine più ampia, ma la maggior parte degli esempi necessari si potevano trarre agevolmente dalle sonate per pianoforte. Grazie a questo sotterlugio spero di avere toccato tutti gli aspetti importanti dello stile classico. New York, 1 970

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UNA NUOVA PREFAZIONE

Venticinque anni dopo la sua prima pubblicazione, questo libro mi sembra l'opera di qualcuno che conosco appena e delle cui azioni non porto alcuna responsabilità. La gentilezza dell'editore, che ne propone una nuova edizione, mi costringe però ad affrontare, sia pur brevemen­ te, alcune delle critiche più interessanti che il libro ha suscitato e forse anche a verificare e chiarire qualche malinteso. Se mi accingessi oggi a scrivere questo libro, lo farei in maniera così diversa che ogni ipotesi di una revisione sostanziale mi è parsa impraticabile. Ho aggiunto però un capitolo su Beethoven per definire con maggior precisione il rapporto che lo lega ai due celebri compositori che l'hanno preceduto. In una recensione molto generosa, Alan Tyson ha disapprovato che avessi cominciato la mia disamina dei quartetti di Haydn dall'op. 33 an­ ziché dalle opere 1 7 e 20, che a suo giudizio avrebbero meritato di essere maggiormente approfondite. Gli ho chiesto se la mia descrizione di ciò che chiamiamo stile classico gli sembrasse troppo restrittiva e ritenesse opportuno modificarla in maniera tale da potervi includere le opere 1 7 e 2 0 d i Haydn; o se invece, secondo lui, sbagliassi nel ritenere che i primi quartetti non rispondano ancora a quei requisiti che nella mia defini­ zione di stile classico sono essenziali. Mi ha risposto di non saper indica­ re con certezza quale sia, in quest'alternativa, la risposta più appropria­ ta, ma di essere da sempre convinto che sia necessario studiare le opere precedenti per comprendere le successive. Ovviamente, seguendo que­ sto principio si regredirebbe all 'infinito, ma questo è un problema insito in ogni studio storico. (Che le opere 1 7 e 20 siano troppo belle per non meritare un'analisi più estesa è forse, per chi ama la musica di Haydn, un,argomento più convincente) . E tuttavia l'op. 33 che segna la comparsa nella produzione quartettisti­ ca di Haydn di ciò che Guido Adler, nel suo articolo sul classicismo vien15

nese nello Handbuch der Musikgeschichte ( 1924) , definisce « accompagna­ mento obbligato » - una fattura musicale in cui le voci di accompagna­ mento, pur subordinate a quella principale, sono create a partire dagli stessi motivi su cui sono costruiti i temi più importanti. E una tecnica es­ senziale per il metodo dello sviluppo tematico in Haydn, come anche in Mozart, in Beethoven e in quasi tutta la musica successiva dell'Europa occidentale. L'espressione « accompagnamento obbligato » è ignota al New Grove ( 1 980) , ma era quantomeno nota a Beethoven, che disse una volta di essere venuto al mondo con un accompagnamento obbligato e di non conoscerne altro. La tecnica di trarre l' accompagnamento dai motivi della voce princi­ pale era stata in effetti elaborata da Haydn nelle sinfonie composte subi­ to prima dei quartetti dell'op. 33.1 La sua dichiarazione che l ' op. 33 era stata composta secondo princìpi interamente nuovi è stata spesso liqui­ data come una trovata pubblicitaria, ma io credo che vada invece presa alla lettera: è in queste composizioni che Haydn applicò per la prima volta alla produzione quartettistica le sue sperimentazioni sinfoniche; qui inoltre sviluppò un originale senso ritmico, in parte ispirato all' ope­ ra buffa. In ogni caso, ciò che a me stava a cuore dello stile classico non erano tanto le origini (per quanto concordi sul fatto che conoscerle sia di aiuto per la comprensione generale) quanto la sua costituzione. Vole­ vo capire cosa l'avesse reso così efficace. La fattura musicale classica ha senz'altro molte e diverse fonti. Nel 1984, Eric Weimer, rimproverandomi di aver ignorato il ruolo dell'ope­ ra seria, ha messo in evidenza come numerosi tratti dello stile strumen­ tale di Haydn fossero stati sviluppati nelle opere dijommelli eJ.C. Bach nel decennio che precedette l'op. 33.2 In quest'ultima Weimer ricono­ sce come realmente nuovo solo « il modo in cui Haydn prende ordinari frammenti di accompagnamento (si potrebbe anche chiamarli canonici motivi ritmici dell' accompagnamento) e conferisce loro un' identità me­ lodica per poi usarli, con discernimento e in modo sistematico, tanto nella melodia quanto nell' accompagnamento >> . Io non pretendevo, mi pare, nulla di diverso, ma è proprio quest' innovazione che continua ad apparirmi come la pietra di paragone del contrappunto classico. La ri­ nascita del contrappunto nel tardo Settecento è stata messa in luce nel 1801 da Triest (conosciuto solo con il cognome) in una brillante serie di articoli, pubblicati sulla « Allgemeine Musikalische Zeitung••, sullo svi­ luppo della musica strumentale tedesca: sotto il potente influsso dell'o­ pera, il declino dello stile contrappuntistico aveva condotto a una prel. Ho trattato di questo sviluppo nel mio Sonata Forms, edizione riveduta, Norton, New York , 1988, pp.177-87 [trad. it. Leforme sonata, EDT, Torino, 2011, pp. 187-99]. 2. Eric Weimer,

opera seria and the Evolution of Classical Style 1755-1772, UMI Research

Press, Ann Arbor, 1984, pp. 46-94.

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do minanza di banali figure di accompagna mento anche nelle opere strumentali; dopo la metà del secolo, diversi musicisti, deplorando que­ sta prassi, fecero uno sforzo concertato mirato a recuperare la ricchezza dell' an tico s tile contrappuntis tico. Si può osseiVare che un' ambizione di questo genere si manifesta già nelle fughe dei quartetti delle opere 17 e 20 di Haydn come in quelli coevi di Florian Leopold Gassman; ma entro certi li miti qui non si tratta che della reviviscenza di una tradizione del passato. Solo con le sinfonie degli anni Settanta e con i quartetti dell'op. 33 Hay dn riusc ì a conciliare la moderna gerarchia fra melodia e acco m­ pagna mento - che garantiva tanta chiarezza alle sue fatture musicali ­ con il complesso dettaglio contrappuntistico - che conferiva alla sua opera una potenza inedita. Anche James Webster farebbe co minciare lo stile classico, nella misu­ ra in cui il termine conseiVa per lui una qualche utilità, una decina d'an­ ni pri ma della co mposizione dell' op. 33. In uno studio a mmirevole, Haydn 's «Farewell" Symphony and the Idea of Classica[ Style (Cambridge, 1991) , mi accusa, col massi mo garbo, di un pregiudizio nei confronti della prima produ zione di Haydn. Poiché il suo saggio è la migliore trattazio­ ne di quel pri mo periodo che sia mai stata scritta, sono disposto a dargli ragione. Gli devo senz'altro una co mprensione più profonda delle ope­ re composte prima del 1780, alle quali avrei dovuto render migliore giu­ s tizia; le poche pagine che ho dedicato a esaminarne alcune tradiscono già un certo senso di colpa per non aver fatto di meglio. Webster lascia però l'i mpressione c �e nulla di essenziale sia cambiato nella musica di Haydn dopo il 1 780. E vero, e io stesso l'ho scritto in questo libro, che le opere tarde esibiscono rara mente la passione straordinaria che si incon­ tra nelle migliori co mposizioni degli anni Set tanta, ma esse danno prova in co mpenso di una padronanza finissi ma dei collegamenti fra ritmo della frase e movimenti armonici su larga scala nonché di una duttilità che nella tecnica compositiva di Haydn è del tutto inedita.1 Le sinfonie londinesi, per esempio, non dispiegano forse maggior potenza delle opere migliori degli anni Settanta, ma sono certamente più efficaci. Haydn sarebbe ritenuto un grande compositore anche se non avesse scritto più nulla dopo la Sinfonia degli Addii, ma la storia della musica sarebbe stata molto diversa. Il dibattito su quando abbia avuto inizio lo stile classico è inscindibile dal rimprovero che mi è stato rivolto, per certi aspetti pienamente giustificato, di aver tralasciato tutti i compositori minori. In storia si danl. Webster ritiene che io rimproveri allo stile giovanile di Haydn una certa« a-periodici­ tà » . Poiché esamino diffusamente la natura periodica dell'organizzazione delle frasi nelle prime opere, credo che su questo punto Webster sia in errore. Nelle opere tarde, Haydn tratta il periodo in modo tale da fame una notevole fonte di energia musicale; durante gli anni Settanta, quando la sua tecnica è meno flessibile, per ottenere qualcosa di simile a quella spinta ha bisogno di materiali che abbiano in sé un carattere energico.

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no due prospettive , in parte, ma non del tutto, inconciliabili fra loro. Per alcuni studiosi, la storia è ciò che si ricorda: essi desiderano fissare sulla carta solo ciò che tradizionalmente è stato ritenuto memorabile. Altri desiderano restituire il caos originario che vigeva in una data epoca, prima che singoli individui ed eventi che vi appartengono fossero giudi­ cati meritevoli di essere ricordati, e sottrarre infine all 'oblio compositori ingiustamente dimenticati e le loro opere immeritatamente sepolte. I primi sono personaggi noiosi, che si limitano a riprodurre, con varianti minori, il lavoro degli studiosi che li hanno preceduti; a questi è impos­ sibile non preferire storici più stimolanti, capaci di trasformare la nostra visione dei fatti. Quelli del secondo tipo, tuttavia, non possono effettiva­ mente riprodurre nella loro interezza gli eventi del passato e sono dun­ que costretti a elaborare un proprio sistema di selezione, che rischia di essere ancora più arbitrario e disorientante di quello tradizionale. Un'interpretazione o un giudizio fondati sulla tradizione hanno dalla loro almeno questo: sono un fatto storico assodato quanto qualsiasi al­ tro. Noi possiamo esagerare la confusione di quell'epoca, ma un dato è certo : attorno alla fine degli anni Ottanta del Settecento la supremazia di Haydn e Mozart era indiscussa. Ogni pretesa di rivalità, anche di per­ sonaggi celebri quali Paisiello o Piccinni, non fu mai presa seriamente in considerazione se non da qualche giornalista. L'idea di decine o addirit­ tura centinaia di compositori, tutti altrettanto degni di attenzione, fra i quali solo la posterità avrebbe infine operato una scelta è del tutto fanta­ siosa. Negli anni Ottanta del Settecento, l'imperatore Giuseppe II invitò Dittersdorf a leggere un breve saggio di sua composizione sui meriti ri­ spettivi di Haydn e Mozart: non scrisse niente di simile su Wagenseil e Monn. Ora del 1 805, Beethoven era riconosciuto in tutt'Europa come il principale compositore di musica strumentale persino da coloro che per le sue opere nutrivano solo avversione e ritenevano che dopo la morte di Mozart la musica fosse deplorabilmente volta in peggio.1 Osservare, co­ me taluni hanno fatto, che Haydn, Mozart e Beethoven cominciarono a essere qualificati come classici solo nell'Ottocento avanzato è cercare il pelo nell'uovo. Almeno dal 1 805, i tre erano già visti come un gruppo coerente, e furono loro, e non altri, a definire lo stile classico viennese. E quale che sia stata, l'influenza di quello stile sulla successiva storia del­ la musica è passata esclusivamente attraverso le loro opere. Webster ha reso un grande servigio agli amanti della musica perorando la causa del­ le opere giovanili di Haydn; io stesso ho cercato di fare qualcosa di utile accreditando i trii di Haydn come capolavori non riconosciuti. Ma sono state le sinfonie e i quartetti scritti negli ultimi decenni della sua vita a incarnare, allora e per almeno due secoli a venire, il prestigio dello stile l. Vedi il mio TheFrontiersoJMeaning, Hill and Wang, NewYork, 1 994, capitolo 2 [trad. it. musica, Garzanti, Milano, 1995].

Il pensiero della

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classico. Leggendo gli articoli di Triest dell801 si può constatare come gli intenditori dell'epoca concordassero non solo nell 'accantonare le opere e la musica sacra di Haydn, ma anche nel considerare la sua pro­ duzione pianistica meno significativa di quella di Clementi o persino del giovane Beethoven (purché questi temperasse la sua propensione all' ec­ centricità) . Robbins Landon mi ha amabilmente rimproverato per il capitolo sul­ la musica sacra di Haydn: «I fantasmi dei nostri antenati vittoriani abita­ no ancora fra noi, persino con Charles Rose n ».1 Ma la delusione suscita­ ta dalla musica sacra di Haydn non risale ai tempi della regina Vittoria; è il giudizio espresso dai contemporanei di Haydn, da E.T.A. Hoffmann, da Triest, da Ludwig Tieck- e dallo stesso Haydn, che riteneva le proprie composizioni sacre inferiori a quelle del fratello Michael, compositore tristemente mediocre. Ci sono ovviamente singole pagine splendide, in­ tere sezioni magnifiche e le ultime due messe sono superbe dall' inizio alla fine. Ma fingere che nell'ultimo quarto del Settecento mettere in musica testi religiosi non ponesse cruciali problemi stilistici, e anche ide­ ologici, sarebbe antistorico. E impedirebbe di valutare appieno la riusci­ ta della Harmoniemesse di Haydn o della Missa solemnis di Beethoven. Era quanto mai arduo trovare per i testi liturgici una forma moderna e Rob­ bins Landon si tradisce quando descrive le messe di Haydn come « am­ mirevolmente rappresentative del barocco settecentesco nella Germa­ nia meridionale e in Austria>> : quando Haydn scrisse gran parte delle sue messe, quello stile era morto e sepolto. Non c'è nulla di male nello scrivere in uno stile consunto, se non quando ciò provoca disagio in chi lo usa e nei suoi contemporanei. Ho provato a mettere in luce- troppo succintamente , ne convengo- che cosa ostacolasse la creazione di un moderno stile sacro fra ill780 e ill820: i successi emersero eroicamente contro ogni probabilità. Per ragioni analoghe, il capitolo sull'opera seria avrebbe tratto van­ taggio dall'affrontare non solo le cause stilistiche, ma anche quelle ideo­ logiche del declino del genere- ossia d eli' opera seria italiana, poiché in quella francese le innovazioni conobbero un notevole successo (il Fide­ Zio, per esempio, deve assai poco all 'opera seria italiana e molto invece alle forme operistiche francesi che Beethoven piegò ai propri scopi gra­ zie allo studio del teatro mozartiano, soprattutto del Coszjan tutte). Negli ultimi decenni del Settecento, l' opera seria aveva perso buona parte dell'importanza che aveva avuto in precedenza. Quando il giovane Mo­ zart ascoltò le opere dell 'ultimo vero maestro del genere, Niccolò Jom­ melli, le giudicò di qualità, m a obsolete. Dopo Idomeneo, Mozart non si diede più pena di trovare commissioni di opere serie: quando capitò l. H. C. Robbins Landon, Haydn: Chronicle and Works. IV: The Years of" The Creation "• 1800, Indiana University Press, Bloomington, 1980, p. 1 65.

1796-

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l'occasione della Clemenza di Tito, dovette scriverla a gran velocità e non ricorse quasi alla ricca inventiva che abbonda nelle sue altre opere. L'o­ pera seria italiana fu poi trasformata da Rossini, ma è una storia che non appartiene a questo libro - né, del resto, ad alcun libro che io possa scri­ vere. Devo forse scusarmi per aver usato un linguaggio fuorviante, se è po­ tuto accadere che Joseph Kerman abbia scritto : Rosen si compiace di dare l' impressione che lo stile classico dipenda perfet­ tamente dalla peifetta integrazione di melodia, armonia, ritmo e fattura so­ nora, una perfezione che difficilmente i compositori minori potevano rag­ giungere ... Non credo però che si possa seriamente mettere in dubbio il fat­ to che nel comporre la sua serenata [K 388] Mozart si sia appoggiato, per dirla con Ratner, > è un termine che tende a sviare il pensiero. Applicato all'arte, non è che una metafora necessaria; preso come moneta corrente, offre sostegno e conforto a chi si interessa più alla personalità di un artista che alla sua opera. E tuttavia, il concetto di espressione, anche a intender­ lo nella sua forma più inge�ua, è indispensabile per la comprensione dell'arte tardosettecentesca. E chiaro che le qualità formali del più minu­ to dettaglio di una composizione sono sempre inscindibili dal significato, affettivo e sentimentale nonché intellettuale, che esso riveste nel contesto dell'opera e dunque, più in generale, del linguaggio stilistico; e insisterò costantemen te sul significato dei singoli elementi che compongono la sin­ � tesi classica. E però un errore, frequente quanto grossolano, definire uno stile a partire da alcune specifiche caratteristiche espressive - per esem­ pio, identificare la pittura « elegante » del Cinquecento col manierismo, designare come apollineo lo stile classico e come appassionato o morboso quello romantico. Uno stile, proprio perché non è altro che un modo l. Per quanto Mozart conoscesse compositori successivi che cercavano di proseguire la tradizione contrappuntistica, nelle sue composizioni si produsse un'evoluzione notevo­ le quando venne in contatto con la musica dijohann Se bastian Bach.

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particolare di usare un linguaggio, musicale, pittorico o letterario che sia, può esprimere l'intera gamma dei sentimenti e un'opera di Mozart può, nei propri termini, esser� morbosa, elegante o turbolenta quanto quelle di Chopin o di Wagner. E chiaro che i mezzi espressivi influenzano l'og­ getto dell'espressione e che l'agio, o la tensione, nell'uso del linguaggio - la grazia espressiva - è un fattore cruciale in arte. Se questo prende però il sopravvento, lo stile smette semplicemente di costituire un sistema di espressione o di comunicazione. La storia di un > , al vernacolo musicale potremmo dire , 44

del tardo Settecento, lo stile classico produce non solo una sintesi delle possibilità artistiche dell 'epoca, ma anche una depurazione dai residui ormai insignificanti delle tradizioni precedenti. Solo nelle opere di Haydn, Mozart e Beethoven tutti gli elementi - ritmici, armonici e melo­ dici - dello stile musicale del tempo si fondono in un insieme coerente e gli ideali dell 'epoca si realizzano con un alto grado di elaborazione. La musica del maggiore degli Stamitz, per esempio, unisce una fraseologia già acerbamente classica a progressioni armoniche ancora pienamente barocche; il risultato è che ciascun elemento, anziché rafforzare l'altro, ne stempera l'efficacia. Una generazione più tardi, la musica di Ditters­ dorf, in particolar modo quella operistica, dispiega un innegabile fasci­ no melodico e un discreto umorismo, ma al di sotto non vi è nulla di più che un semplice rapporto tonica-dominante. Non è lo sfondo del tempo che permette di comprendere l' importanza e l' influenza storiche di Haydn e Mozart, e soprattutto l'incidenza delle loro opere nello svilup­ po musicale settecentesco. Al contrario, saranno piuttosto i minori che andranno considerati nel quadro dei princìpi operanti nelle musiche haydniane e mozartiane - oppure , in qualche caso, in quanto estranei, in modo interessante e originale, a quei princìpi. Clementi, per esem­ pio, fa caso a sé, tanto per la sintesi che realizza fra tradizioni italiana e francese , quanto per lo sviluppo di virtuosistici passi d' agilità che diver­ ranno essenziali nello stile postclassico di Hummel e di Weber. Non è un caso che questo genere di passi, che Chopin e Liszt eleveranno al rango di arte, sia recisamente rifiutato da Beethoven nella maggior parte della sua musica per pianoforte : le sue annotazioni su diteggiatura e posizio­ ne della mano contrastano con uno stile esecutivo adatto a quel genere di virtuosismo. Egli raccomandava, sì, la musica di Clementi agli studen­ ti di pianoforte, ma odiava la tecnica del tocco « perlato » e criticava an­ che il pianismo di Mozart, definendolo '' frammentario ». Il legame fra Haydn, Mozart e Beethoven non risiede nei rapporti personali né nelle reciproche influenze e interazioni (gli uni e le altre copiosi) , ma nella comune comprensione del linguaggio musicale che tanto contribuirono a formulare e modificare. Questi tre compositori, con caratteri diversissimi e concezioni espressive spesso diametralmente opposte, giunsero a soluzioni analoghe nella maggior parte delle loro opere. L'unità stilistica è dunque sì una finzione, ma i compositori han­ no contribuito a crearla. Si può ossetvare un mutamento considerevole nella musica sia di Haydn sia di Mozart intorno al 1 775 : è la data del Concerto per pianoforte in mi bemolle maggiore K 271 , forse la prima composizione di ampio respiro che mostri da cima a fondo il pieno do­ minio dello stile maturo in Mozart; all'incirca nello stesso periodo, Haydn approfondì la conoscenza dell'opera comica italiana, alla quale lo stile classico deve moltissimo. La data non è arbitraria: era possibile, e con buone ragioni, sceglieme una di cinque o dieci anni precedente, 45

ma ritengo che qui le discontinuità siano più significative che non le continuità. Solo da questo momento diventa pienamente coerente la nuova sensibilità ritmica che sostituisce quella tardobarocca. E prendo evidentemente molto sul serio l'affermazione di Haydn secondo cui i Quartetti op. 33 del 1 78 1 , detti Russi o Gli scherzi, furono scritti in base a princìpi completamente nuovi. Il linguaggio musicale che ha reso possibile lo stile classico è quello della tonalità: non un sistema compatto e rigido, ma un linguaggio vivo, in graduale trasformazione fin dalle origini, giunto a un nuovo e signi­ ficativo punto di svolta appena prima che lo stile di Haydn e di Mozart prendesse forma. Tali e tante descrizioni, talora contrastanti, sono state date della tona­ lità che sarà opportuno ricapitolame le premesse, procedendo, per amore di brevità, per assiomi anziché in una prospettiva storica. La tona­ lità è una disposizione gerarchica delle triadi basata sugli armonici natu­ rali di una nota. Fra questi, i più potenti sono ottava, dodicesima, quin­ dicesima e diciassettesima; ottava e quindicesima possono essere omes­ se, poiché altro non sono che la stessa nota a un'altezza superiore (tralascio di discutere le cause, psicologiche o convenzionali, del fenomeno) ; do­ dicesima e diciassettesima diventano, trasportandole in prossimità della nota d'origine o tonica, la quinta e la terza, cioè dominante e mediante. In questa triade di tonica, mediante e dominante, la dominante è l'ar­ monico più potente e dunque la seconda nota, in ordine d'importanza, dopo la tonica. Questa può, d'altra parte, essere considerata dominante della nota che si trova una quinta sotto di essa, detta sottodominante. Costruendo in ciascuna direzione, ascendente e discendente, le serie di triadi successive si ottiene una struttura simmetrica e tuttavia sbilanciata: Triadi su do (l) (IV) fa sol (V) si� re (II) mi� la (VI) la� mi (III) re � si (VII) sol� fai do � do# fa� sol# si�� re# mi�� la# la�� mi# re�� sii

Sottodominante o bemolle

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Dominante o diesis

Il disequilibrio della struttura viene dal fatto che gli ann onici sono tutti generati da una sola nota e che la successione in direzione della domi­ nante (o dei diesis) , che a ogni gradino prende come tonica il secondo annonico della nota precedente, ha un peso maggiore di quella, discen­ dente , della sottodominante. La quale indebolisce la tonica trasforman­ dola in dominante (usandola, cioè, non più come generatrice della tria­ de centrale, bensì come armonico ) . Questo disequilibrio è essenziale per la comprensione di quasi tutta la musica tonale; è la fonte di quella possibilità di tensione e risoluzione sulla quale l'arte musicale ha poggia­ to per secoli. E lo si riconosce immediatamente nella formazione della scala diatonica maggiore (le note contrassegnate coi numeri romani nella figura sopra) , la quale trae dalla direzione della sottodominante la fondamentale di una sola triade, ma ben cinque da quella della domi­ nante o dei diesis. Con l' intonazione giusta o naturale, le due direzioni non riconduco­ no al punto di partenza: seguendo gli armonici naturali dei suoni, re �� non coincide con si#, e nessuna delle due note coincide con il do. Nessu­ na triade dalla parte della dominante può dunque essere identica a una dell'altra serie, ma ve ne sono di molto simili. Dalla nascita, o quasi, della tonalità (ma in realtà dai primordi della teoria musicale con i greci) , musicisti e teorici hanno tentato di identificare le triadi che hanno significativi rapporti di vicinanza, producendo così un sistema non solo simmetrico, ma anche circolare, detto circolo delle quinte :

(IV) fa = mi# si� = la# mi� = re# la� = sol# re � = do#

do (l)

sol (V) = la�� re (II) = mi�� la (VI) = si�� mi (III) = fa� si (VII) do� (soh = fa#) =

Questo sistema richiede necessariamente che venga stabilita una stessa distanza fra tutte le note disposte una dopo l' altra in ordine di altezza (il che genera la scala cromatica) , alterandone così la relazione con gli ar­ monici naturali: il sistema è detto temperamento equabile. La modula­ zione lungo il circolo delle quinte in una direzione o nell'altra ricondu­ ce ora al punto di partenza. Già nel Cinquecento vi erano stati diversi tentativi di stabilire un sistema temperato, che è essenziale per molta musica cromatica scritta all 'epoca; solo nel Settecento, però, il tempera­ mento equabile divenne il fondamento teorico della musica (per gli strumenti a tastiera, accordature di compromesso fra temperamento equabile e intonazione giusta o naturale continuarono tuttavia a essere usate fino all'Ottocento ) . 47

Il temperamento equabile ci esime da un ' estesa disquisizione sulla presunta « naturalezza » o > del linguaggio tonale. Che si basi sulle proprietà fisiche del suono è evidente, ma è altrettanto pale­ se che le deforma, e anzi « snatura >> , in nome della creazione di un lin­ guaggio regolare con possibilità espressive più ricche e complesse. L'o­ recchio o la mente avevano già imparato ad assimilare in parte le terze maggiori e quelle minori; se però in una triade la terza inferiore è mag­ giore e la superiore minore, si è più prossimi agli armonici naturali. L'ac­ cordo maggiore è dunque più stabile di quello minore : un altro elemen­ to, come la maggior debolezza della direzione della sottodominante ri­ spetto all'altra, essenziale per intendere pienamente la portata espressi­ va della musica tonale. La definizione dell 'universo tonale del tardo Settecento per mezzo del circolo delle quinte, benché possa apparire più complicata di quella basata sulle scale maggiori e minori, ha il vantaggio di rendere evidente l'asimmetria del rapporto dominante-sottodominante e, soprattutto, di mettere in risalto che il centro di una composizione tonale non è una nota, bensì una triade. All' epoca poi il circolo delle quinte era anche il metodo utilizzato per percorrere la scala cromatica, come mostrano le improvvisazioni giovanili per organo di Beethoven, e, più tardi, i preludi di Chopin. Di per sé, le scale implicherebbero un sistema « modale >> , più che tonale : un sistema con al centro una singola nota, nel quale ogni brano è confinato alle note del modo in cui è scritto e le cadenze conclu­ sive sono concepite come formule melodiche anziché armoniche. Le scale non persero però la loro importanza, giacché all' epoca le disso­ nanze venivano sempre risolte procedendo per gradi congiunti; il che genera una costante tensione, sempre presente all' interno della tonali­ tà, fra scala e triade, fra movimento per gradi e movimento armonico. E la scala seiVe anche alla distinzione, ovviamente fondamentale, fra mo­ do maggiore e minore. Il modo minore è in sé instabile, donde la tendenza a terminare in maggiore i brani scritti in una tonalità minore. Ed è essenzialmente una forma di sottodominante (il diagramma di p. 46 mostra come le note della scala di do minore assenti in quella maggiore provengano tutte dal lato dei bemolli o della sottodominante) . Perciò il modo minore è spes­ so usato in funzione cromatica, per « colorare » cioè il maggiore : senza definire un chiaro movimento verso un 'altra tonalità, rende meno stabi­ le e più espressiva quella d' origine. Di fatto, è spesso impossibile stabilire con certezza il modo di certi passaggi molto cromatici (si veda p. 3 1 6) . La base di ogni forma della musica occidentale, a partire dal canto gregoriano, è la cadenza, che implica forme « chiuse >> , ben inquadrate e isolate. (Solo con l'Ottocento si metterà in discussione la cadenza finale, mentre sul fronte degli inizi le introduzioni di carattere improvvisatorio cominciano a farsi strada già nel Cinquecento) . 48

Il cambiamento più cospicuo del sistema tonale settecentesco, dovuto in parte all' adozione del temperamento equabile, è una nuova premi­ nenza della polarità tonica-dominante, fino ad allora assai meno signi­ ficativa. Nel Seicento, le cadenze si basavano ancora indifferentemente su accordi di dominante o sottodominante, ma con la progressiva consa­ pevolezza dei considerevoli vantaggi che si potevano trarre dal disequili­ brio strutturale del sistema (il maggior peso della direzione dei diesis rispetto a quella dei bemolle) , la cadenza di sottodominante, o plagale, fu gradualmente abbandonata. Quella di dominante divenne l'unica, e si fece via via più potente con la crescente importanza dell' accordo di settima di dominante : formando le triadi a partire dalle sole note della scala diatonica, sul VII grado non si potranno costruire né una quinta giusta né un accordo stabile (bensì solo una quinta diminuita, o trito­ no) . Il VII grado, o sensibile, precede immediatamente la tonica; met­ tendo dunque sotto alla sua triade il V grado, si produce la settima di dominante (V') che è contemporaneamente accordo di dominante e dissonanza massimamente instabile che richiede una risoluzione imme­ diata sull'accordo di tonica. Man mano che l'uso sempre più disinvolto di tutte le dissonanze, ormai integrate e risolte entro un sistema com­ plesso, spazzava via l'avversione medioevale per le quinte diminuite, cre­ sceva l'importanza della settima di dominante. La polarità tonica-dominante si affennò per mezzo della modulazio­ ne, ovvero della temporanea trasformazione della dominante (o di altra triade) in tonica secondaria. 1 La modulazione settecentesca va intesa essenzialmente come una dissonanza portata su un piano più alto, quel­ lo della struttura complessiva. Nella musica tonale, un passaggio che ab­ bandona l'area della tonica è dissonante rispetto al brano nel suo com­ plesso ed è indispensabile risolverlo per garantire la chiusura della for­ ma e l'integrità della cadenza. Soltanto nel Settecento, con la piena af­ fermazione del temperamento equabile, si aprì completamente il cam­ po delle possibilità di modulazione e solo nella seconda metà del secolo se ne trassero tutte le conseguenze. l . Nel modo minore questa polarità mutò radicalmente fra il l 700 e il l830. Nella prima parte del Settecento, la tonalità secondaria di, per esempio, do minore poteva essere la dominante minore (sol minore) oppure il relativo maggiore (mi bemolle maggiore) . Ma la potenza di una triade di dominante minore non è paragonabile a quella di un ac­ cordo maggiore : ora della fine del secolo, questa fragile relazione era quasi completa­ mente scomparsa e solo il relativo maggiore era usato come sostituto della dominante nel modo minore. Anche questa situazione non poteva però durare a lungo. Al tempo di Schumann e di Chopin, minore e relativo maggiore sovente si identificavano, erano considerati come un 'unica tonalità, il che rendeva impossibile qualsiasi forma di polari­ tà (così, per esempio, nello Scherzo in si bemolle minor_e /re bemolle maggiore o nella Fantasia in fa minore/la bemolle maggiore di Chopin) . E chiaro che l'instabilità funzio­ nale della triade minore fu un fattore potente di evoluzione storica.

49

La modulazione cromatica del Cinquecento, per esempio, non distin­ gue chiaramente fra le direzioni dei diesis e dei bemolle e il cromatismo è, né più né meno, ciò che il termine stesso indica: una colorazione. E ancora all 'inizio del Settecento la modulazione è spesso più un impulso che l'affermazione vera e propria, ancorché temporanea, di una nuova tonica; in questo passaggio dell 'Arie dellafuga vi è un caleidoscopico sus­ seguirsi di tonalità diverse, nessuna delle quali però attecchisce : 1#

mi minore

re minore

do

minore

do maggiore

la minore

mi minore

Mozart e Haydn traggono invece tutte le conseguenze dell'assetto gerar­ chico delle triadi: le varie tonalità a disposizione possono essere messe in un contrasto articolato o anche drammatico con quella principale, aprendo così un ventaglio di significati molto più ampio. La gerarchia non si riduce alla disposizione delle triadi nel circolo delle quinte, ma dipende da parecchi fattori, che non necessariamente il compositore deve però chiamare in causa tutti allo stesso tempo. La tonalità del II grado, per fare un esempio, benché apparentemente vici­ na a quella principale, è in realtà una delle più lontane e una delle più contraddittorie nella relazione con la tonica; e ciò per la semplice ragio­ ne che sovrapponendo la nota generatrice, o fondamentale, della triade del I grado all'accordo maggiore costruito sul II (sopratonica) si ottiene un accordo di settima di dominante. Riassumendo, in estrema sintesi, l'uso classico : le tonalità sul III e sul VI grado (mediante e sopradomi­ nante) sono tonalità diesizzate vicine alla dominante, che comportano un aumento di tensione (o dissonanza a livello di struttura) e possono, entro certi limiti, sostituire la dominante; quelle del III e VI grado abbas­ sati, owero bemollizzati, appartengono principalmente alla direzione della sottodominante e, come questa, vengono impiegate per indeboli­ re la tonica e ridurre la tensione; le altre tonalità si definiscono solo en­ tro uno specifico contesto musicale, fermo restando che quelle a distan­ za di tritono (quinta diminuita) o di settima minore sono le più lontane o, in altre parole, le più dissonanti in termini di effetti strutturali.1 Tutta la musica di Haydn, Mozart e Beethoven, anche quella quartetl . Il considerevole effetto patetico del secondo grado abbassato (sesta napoletana) sarà analizzato oltre, a p. 1 2 1 .

50

tistica, è concepita secondo il temperamento equabile . Quando Bee tho­ ven, nel seguente passaggio del Quartetto op. 1 30:

*

scrive re� al primo violino e do# al secondo, non indica evidentemente due altezze diverse. Distingue invece la direzione in cui ciascuna nota si muove nel corso della modulazione; nelle misure iniziali dello stesso movimento : ,-'A el " •

l

poco ScMfltliiQO

�..... l

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p

-

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=-- P

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-� .,;

- ==-P

l'ambiguità fra si bemolle minore e re bemolle maggiore viene eviden­ ziata dal si��la�. Una volta mi capitò di ascoltare un quartetto suonare questo passaggio con l'intonazione naturale : il risultato era orribile. Non che i musicisti suonino o debbano suonare rigorosamente secondo il temperamento equabile : l'intonazione viene sempre leggermente al­ terata, ma per ragioni espressive che hanno poco a che vedere con l'in­ tonazione giusta. La maggior parte dei violinisti trovano in pratica più naturale correggere l'intonazione nel modo meno « naturale >>. Nell'e­ sempio riportato sopra, in termini strettamente fisici il si�� è più acuto del la�, ma quest'ultimo fa parte di una cadenza incompleta di si bemol­ le e suona dunque più espressivo e più logico se viene leggermente alza­ to, come più frequentemente accade per la sensibile. La teoria per cui, sugli strumenti ad arco, gli esecutori dovrebbero suonare secondo l'in­ tonazione naturale risale, probabilmente, al tardo Ottocento e soprat­ tutto all'amico di Brahms,Joachim; Bernard Shaw sosteneva brutalmen­ te però che, l ungi dal rispettare l'intonazione « giusta >> , Joachim era semplicemente stonato. Ecco i pericoli della teoria applicata all'esecu­ zione. 51

Beethoven dichiarava di saper distinguere fra una musica in re be­ molle e una in do diesis, affermazione che valeva però anche per il repertorio pianistico e nulla ha a che vedere con l ' intonazione o il temperamento . Beethoven si riferiva al « carattere » delle diverse to­ nalità, una questione che concerne più la psicologia del compositore che il linguaggio musicale in senso stretto. Donald Francis Tovey fa­ ceva risalire la nozione di caratteristiche proprie di ciascuna tonalità al rapporto fra queste e quella di do maggiore , inconsciamente per­ cepita come principale perché è la prima che i musicisti apprendo­ no. Il fa maggiore avrebbe dunque « per natura » un carattere sotto­ dominantico, più disteso rispe tto al do maggiore ; e le pastorali sono in effetti scritte in gran parte in fa. Anche la consuetudine nell'usare alcuni strumenti in determinate tonalità, i corni in mi bemolle per esempio, ne ha influenzato la connotazione. Il carattere dominanti­ co del do diesis e quello di sottodominante del re bemolle hanno toccato inevitabilmente la sensibilità di ogni compositore . In un bra­ no classico il carattere di una tonalità secondaria (ossia, non quella principale) dipende dal modo in cui vi si arriva, se dalla direzione di dominante o di sottodominante , ma ciò non interferisce con l' assolu­ ta supremazia teorica del temperamen to equabile. Nella pratica ese­ cutiva, ogni deviazione da quel sistema, dovuta che sia al vibrato o a vere e proprie distorsioni, ha funzione espressiva e non strutturale . La seconda metà del Settecento è una tappa cruciale del secolare pro­ cesso di distruzione dell'aspetto lineare della musica. La linearità non è, come in genere la si concepisce, soltanto orizzontale; la nozione di linea non si identifica esclusivamente con le voci indipendenti e ininterrotte della fattura contrappuntistica. C'è un aspetto verticale. Nell' epoca ba­ rocca, dal l 600 al l 750 e oltre, in cui la musica è strutturata come succes­ sione di accordi, il basso continuo traduce una concezione del flusso musicale come serie di linee verticali; la semplice notazione lo fa saltare agli occhi. (Anche nella musica solistica senza il continuo, nonostan te l'indipendenza delle parti, in genere non c'è alcun dubbio su dove un accordo finisca e inizi il successivo) . Per tutto il barocco, queste « linee » verticali furono sorrette da una solida linea orizzontale al basso e il nuo­ vo stile tardosettecentesco sferrò un brutale attacco a entrambe le cose. La portata del cambiamento risulta evidente nell' influenza via via più pervasiva, fin dal primo Settecento, delle molte formule di accompagna­ mento, fra cui la più nota è il basso albertino :

Questo accompagnamento appanna sia l' indipendenza delle tre voci contrappuntistiche che virtualmente contiene sia quella dell' armonia 52

accordale, o omofonica, che dovrebbe mettere in evidenza. Distrugge contemporaneamente l' autonomia delle singole parti e quella degli ac­ cordi, integrando quelle in un' unica linea e questi in un movimento continuo. La forma lineare consiste essenzialmente nel separare i diver­ si elementi musicali, e la storia della musica fino ai n ostri giorni può es­ sere vista come una graduale distruzione di tutti i diversi fattori di distin­ zione - indipendenza contrappuntistica delle parti , progressi one orno­ fonica, forme chiuse dai contorni ne tti, chiarezza diatonica. Paradossalmente, quella distruzione arrivò dall ' interno , dai fattori stessi di distinzione - così come in pittura l'Impressionismo superò De­ lacroix nell' intento di rinunciare a una delimitazione delle grandi for­ me, ma lo fece separando e uniformando per metodo le singole pennel­ late. ln musica lo stile classico attaccò l' indipendenza orizzontale delle parti e quella verticale del l ' armonia isolando la frase e articolando la

struttura. La frase, nella musica del tardo Settecento , è inconfondibil­ mente periodica e procede per gruppi ben definiti di tre, quattro o cin­ que (generalmente quattro) battute. Imponendo questo nuovo sistema periodico sul flusso musicale e diluendone la progressione interna me­ diante le nuove formule di accompagnamento , lo stile classico trasferì su un piano più alto la sensibilità lineare, concepita come continuità non più di singoli elementi, ma dell' opera nel suo complesso. Il veicolo del nuovo stile fu una struttura chiamata sonata.

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2 TEORIE DELLA FORMA

Era necessario che la sonata fosse morta perché si potesse definirne la forma. Quando, intorno al 1 840, Czerny rivendicò orgogliosamente di essere stato il primo a descriverla, essa faceva già parte della storia. In origine il termine « sonata ,, era inteso letteralmente, in contrapposizio­ ne a « cantata »; gradualmente acquistò un significato più specifico che rimase tuttavia sempre flessibile. Le definizioni correnti sono troppo ri­ strette, inadatte anche all'ultima parte del Settecento e applicabili sol­ tanto al periodo romantico. La sonata del resto non è una forma in sen­ so stretto, come il minuetto, l'aria col da capo o l'ouverture francese : a­ nalogamente alla fuga, è un modo di scrivere, un particolare senso delle pr?porzioni, della direzione, della fattura sonora; non è un modello. E spesso difficile distinguere i tratti costitutivi di una forma dai carat­ teri che essa acquisisce via via, se non altro perché questi ultimi vengono gradualmente incorporati coi primi. In altre parole, dobbiamo distin­ guere fra ciò che un compositore settecentesco avrebbe chiamato sona­ ta (fin dove avrebbe esteso il termine e a che punto avrebbe detto inve­ ce: > , come la si intendeva dopo il l 840, non si attaglia a mol­ te composizioni classiche, ma per un numero ben maggiore è perfetta­ mente calzante. Funziona benché innalzi l'aspetto squisitamente melo­ dico a un livello che certamente non gli competeva nel Settecento e solo nella misura in cui fra quest' aspetto e gli altri elementi determinanti della forma non c'è contrasto. I casi in cui è applicabile sono in effetti 56

ancor più fuoiVianti di quelli opposti, ma sbarazzarsi dello schema non è così semplice : nello sviluppo è permesso un tema nuovo, ed esso vi com­ pare sovente; i « ponti modulanti >> si presentano con notevole frequenza dove è previsto che siano e spesso suonano connettivi più che espositivi; lo sviluppo non di rado inizia, secondo la regola, con il primo tema alla dominante. Il punto dolente di questa concezione della forma sonata, purtroppo insegnata ancor oggi nella maggior parte delle scuole e dei corsi di in­ troduzione alla musica, non sta tanto nell'inesattezza, quanto nel fatto che si presenti come una ricetta (di un piatto che peraltro non è più possibile cucinare) . Ammette le eresie di un buon numero di sonate , ma le attribuisce a licenze prese dai compositori, sottintendendo che le so­ nate si debbano scrivere nel modo « ortodosso >> . In effetti, se si escludo­ no quelle di Chopin, la maggior parte delle sonate ottocentesche furono scritte così, perlopiù con pessimi risultati. Non solo la ricetta era rigida, ma non considerava che ora del 1 840 gli ingredienti necessari non si producevano più. La tonalità ottocentesca era troppo fluida per il siste­ ma costruito dai teorici che prevedeva modulazioni rigidamente de­ finite, ponti e dispositivi vari (l'armonia del secolo precedente, benché essa pure già troppo sottile e complessa, si accomoda più facilmente in quel letto di Procruste approntato a posteriori) . La descrizione della so­ nata in termini melodici non si attagliava alle più drammatiche strutture settecentesche e, viceversa, le melodie ottocentesche di ampio respiro erano inadatte alle forme dell'ultima parte del secolo precedente. Nel 1 840 la sonata era arcaica quanto la fuga barocca ai tempi di Haydn : purtroppo il prestigio di Beethoven, e in una certa misura anche di Mozart, era tale che fu impossibile appropriarsi liberamente della for­ ma adeguandola a scopi totalmente nuovi, com 'era invece avvenuto per la fuga nel periodo classico. Nessun compositore barocco gravava su Haydn quanto Beethoven su Schumann. L'aspetto più pericoloso della teoria tradizionale della « forma sona­ ta » è quello normativa. Di fatto, la descrizione è calzante soprattutto per le opere in cui Beethoven segue più da vicino la via tracciata da Mozart. Ciò che non si conforma al modello è visto perlopiù come un'anomalia, e altrettanto spesso si sottintende che le precedenti versioni settecente­ sche della forma non fossero altro che uno stadio inferiore dal quale si sarebbe poi sviluppato il tipo evoluto. Valutazioni analoghe sono implicite, sia pur in modo più specioso, anche in buona parte del pensiero musicale novecentesco. L'atteggiamento è qui più statistico che esortativo: il modello della « forma sonata» non è più idea­ le bensì ricavato dalla ordinaria prassi compositiva settecentesca, e il termi­ ne indica dunque semplicemente la forma usata dalla maggioranza degli autori in un certo periodo. Questo modo di procedere, che tiene conto dello sviluppo storico della « sonata », è senza dubbio preferibile all'altro e 57

consente di descrivere e classificare in termini più scientifici. Riconosce il primato della struttura tonale su quella tematica nonché l'importanza della frase periodica. Il suo limite è l'eccesso di democrazia: i compositori non si equivalgono agli occhi dei posteri e neppure a quelli dei contemporanei. (Tocchiamo qui la questione delicata del rapporto fra l'« anonimo » verna­ colo classico e lo stile di Haydn, Mozart e Beethoven) . A determinare lo stile di un'epoca non è solo ciò che in essa viene prodotto, bensì il prestigio e l'influenza di quella produzione, benché possa esserci a volte uno scarto considerevole nel favore di cui un compositore gode presso il pubblico e presso i colleghi. L'importanza di un'opera musicale dipende, almeno in parte, dal suo successo: la sua attrattiva nell'immediato per il pubblico con­ temporaneo e, in ultima istanza, la sua coerenza e la sua profondità. Ma per comprendere le ragioni del successo, a breve o a lungo termine, di una composizione non possiamo certamente appoggiarci a un� teoria stilistica costruita a partire dalle prassi più diffuse e convenzionali. E necessario co­ gliere proprio ciò che appare inafferrabile quando si tratta la musica come un linguaggio comune: non i procedimenti concretamente adottati, bensì i fini artistici a cui ci si aspettava, spesso invano, che quelli dovessero seiVire. Nelle opere tastieristiche di Cari Philipp Emanuel Bach, per esempio, pub­ blicate fin oltre il l 780, si trovano tutti i modelli di « sonata », con e senza sviluppo completo, con riprese parziali oppure complete, e via dicendo. Il punto sul quale è cruciale soffermarsi è il rapporto fra le diverse forme e il materiale armonico e tematico: giacché erano tutte contemporaneamente praticabili, perché in un certo caso il compositore ne ha preferita una piut­ tosto che un'altra? Una descrizione puramente tonale non falsa il modo in cui una sona­ ta classica si snoda, ma ne rende meno chiaro il significato, che invece deve essere considerato in ultima istanza inseparabile dalla forma stessa. Che ogni esposizione di sonata proceda dalla tonica alla dominante (o a un sostituto della dominante, e i soli possibili sono il relativo maggiore o la mediante e la sopradominante) è un fatto, ma mi rifiuto di credere che un ascoltatore dell'epoca stesse in attesa del passaggio alla dominan­ te e ne traesse un profondo senso di soddisfazione. La modulazione alla dominante apparteneva alla grammatica musicale, non era un tratto della forma. Praticamente tutta la musica settecentesca muove alla do­ minante : prima del l 750 non c'era ragione di sottolinearlo, dopo era semplicemente un elemento che il compositore poteva usare con pro­ fitto. In altre parole, che l' ascoltatore dell' epoca si aspettasse la modula­ zione significa semplicemente che sarebbe stato sconcertato dalla sua assenza; era una condizione necessaria di intelligibilità. Isolando la struttura armonica si produce dunque una definizione della « forma sonata » che rappresenta senz'altro un progresso rispetto a una puramente tematica, ma in generale resta comunque insoddisfa­ cente; il ritmo è in pratica ignorato e i temi vengono assurdamente con58

siderati fattori sussidiari, decorazioni aggiunte per mettere in rilievo, o perfino per nascondere, la struttura fondamentale. Soprattutto, non c'è alcun accenno al rapporto fra la struttura e il materiale : i termini delle descrizioni sono talora così rigidi che il materiale sembra esistere solo per riempire uno stampo preesistente, talaltra così vaghi che la forma dipenderebbe completamente, ma non si sa bene come , dal materiale stesso : come se i compositori scrivessero senza trarre ispirazione da ope­ re precedenti, proprie e altrui; come se il pubblico si aspettasse da ogni nuova opera un ordinamento del caos; come se al primo ascolto di una sinfonia le attese non fossero in una certa misura di ordine ritmico, me­ lodico e anche emozionale. Vanno brevemente menzionate, nel campo della descrizione formale, due teorie concorrenti e più sofisticate, che possono essere chiamate ri­ spettivamente lineare e motivica. L' analisi di una composizione in termi­ ni lineari si deve principalmente a Heinrich Schenker. Solo un ristretto gruppo di musicisti e musicologi conosce a fondo le sue idee, ma ciò può essere addebitato solo in parte alla complessità della sua teoria: si deve anche a uno stile letterario spesso sgradevole e a un tono arrogante che è facile prendere per fatuità. Per Schenker, ogni musica che non si pre­ stasse alla sua analisi non ne era semplicemente degna e l'ultimo com­ positore accettabile era Brahms. Le sue teorie, nella loro formulazione originaria, funzionano solo per la musica tonale e si adattano meglio a Bach, Handel, Chopin e Brahms che ai tre grandi classici. Ma per il pe­ riodo del quale ci stiamo occupando, il rilievo e l'importanza delle sue idee (spogliate dal misticismo che le rivestiva) sono indiscutibili. I compositori possono senza dubbio pensare in termini lineari in un senso che va ben oltre la minuziosa elaborazione della polifonia. Nulla caratterizza l'opera d' arte riuscita quanto la sensazione che la musica converga verso una nota che ne definisce e chiarisce il senso, e che quel­ l'approdo sia stato concepito (e come tale sia udibile) su una scala ben più vasta della semplice preparazione e risoluzione in quel punto. (La statura di un compositore è commisurata alla sua capacità di tenere sot­ to controllo il senso e la portata delle sue idee, anche in un contesto de­ liberatamente ristretto : ecco perché Chopin va annoverato fra i grandi nonostante le limitazioni di genere e di strumento che si autoimpose) . Fino al l 900, la preparazione e il movimento che ne consegue sono am­ bedue lineari, poiché quella lineare è la sola risoluzione accettabile nel­ la musica tonale; nel ventesimo secolo la ricerca di altre risoluzioni ha condotto a risultati innegabili, ma (finora) soltanto parziali. In altri termini, in una composizione tonale le note hanno un signi­ fic�to che va oltre il contesto immediato in cui si trovano e che risulta comprensibile solo in relazione allo schema complessivo dell'opera; ol­ tre al loro significato al « livello esterno », ce n'è uno al « livello profon­ do » , basato principalmente sulla triade di tonica che costituisce il cen59

tro armonico di qualsiasi opera tonale . Nella teoria di Schenker, la strut­ tura di ogni musica tonale è una discesa lineare verso la tonica e il brano nel suo insieme non è che la carne che riveste questo scheletro. Il che si potrebbe parafrasare dicendo che troviamo a fondamento di ogni pez­ zo, e rispecchiata a ogni livello della sua costruzione, una semplice for­ mula cadenzale. In una prospettiva strettamente storica (benché le idee di Schenker siano fondamentalmente antistoriche) , è una concezione sostenibile : la cadenza è l'elemento strutturale di base in tutta la musica occidentale dal dodicesimo secolo fino al primo quarto del ventesimo, determinante in tutti gli stili; dalla cadenza derivano i modi, la tonalità, la frase periodica e la progressione (che perlopiù consiste in una ripeti­ zione di schemi cadenzali) . Tutto ciò appare ovvio quando si pensa che, più di ogni altra, la musica occidentale ha saputo trarre profitto dallo scorrere del tempo e ben di rado ha cercato di superare o ignorare, co­ me avviene in altre culture, il senso di tensione verso la cadenza finale; analogamente, il senso della cornice domina la pittura occidentale dello stesso periodo. Le osservazioni di Schenker sono in gran parte di un ' accuratezza psi­ cologica inoppugnabile : alcune sue analisi riescono meglio di tutte le altre a spiegare il senso, che ritroviamo in così tante opere, di un: unità che trascende l' aspetto esteriore apparentemente segmentato. E vero anche che la nostra sensibilità di ascoltatori a molti di questi effetti a lungo termine è spesso acuta ben oltre la nostra consapevolezza e cresce a ogni nuovo ascolto di uno stesso pezzo . Un minuscolo ma impressio­ nante esempio di questa linearità a lungo termine , che sorpassa l'imme­ diata condotta delle voci e richiede una spiccata sensibilità per la distin­ zione dei registri, si trova in un passaggio del movimento lento della So­ nata Hammerklavier di Beethoven :

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60

- · · ·

.. .. . · .. .

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. .

.. .. .. .. . .. ·­

. . . ..

. .. .. .. .. - - - - -

. ... ... ...

J

La progressione scalare ascendente è interrotta, o per meglio dire è nel bel mezzo trasposta al grave, lasciando una nota (sol) sospesa nell'aria, non risolta e non collegata. Due misure dopo, la melodia cmva però verso l'alto con un movimento di una grazia squisita e risolve quella nota sul fa#: così facendo, si riallaccia a una parte del proprio passato e ne dà una risoluzione che si percepisce chiaramente anche al primo ascolto. Questa tecnica - o meglio questo senso della linea e del registro, di poco amplificato e trasferito al livello della struttura complessiva - fornisce quell'ossatura lineare tendente verso la cadenza che si coglie in tante composizioni. Non è possibile in questa sede addentrarsi a fondo in quella che si può chiamare analisi lineare. La maggior parte delle trattazioni sono violentemente partigiane. Due questioni non sono mai state risolte e neppure poste in modo soddisfacente. Una è se lo scheletro lineare estratto e indicato con note grandi da Schenker nei suoi diagrammi costituisca, anche in quei casi in cui è più evidente all 'ascolto, il princi­ pio unitario fondamentale; detto in altri termini, il rapporto fra « livel­ lo profondo » e « livello esterno » non risulta sempre felicemente defi­ nito. Oltre all 'orizzontalità su larga scala, ci sono altri princìpi struttu­ rali di unità che in certe opere risultano non solo più evidenti, ma più basilari. « Dove sono i miei passaggi preferiti? >> pare abbia esclamato Schoenberg vedendo il diagramma schenkeriano dell 'Eroica. > . I sostenitori dell' analisi lineare non si sognerebbero mai di pretendere che la linea fondamentale sia diretta­ mente riconoscibile nel livello esterno di cui siamo coscienti, ma è in­ quietante che un 'ana} isi, per quanto pertinente, minimizzi gli aspetti salienti di un 'opera. E venir meno alla dignità e alle prerogative della critica. Il risultato più clamoroso della frequente noncuranza di Schenker verso i fatti sonori è la quasi totale assenza di considerazione verso cer­ ti aspetti del ritmo. Nella sua analisi, che un pezzo sia lento o veloce non cambia nulla; né i suoi diagrammi distinguono in modo adeguato, sul piano formale, fra primi e ultimi movimenti, che, pure hanno orga­ nizzazioni ritmiche così palesemente contrastanti. E una lacuna diffi­ cile da colmare, a meno che non si voglia sostenere che le strutture 61

armoniche e lineari non siano toccate dallo sviluppo ritmico; e va sot­ tolineato che nel tardo Settecento armonia e ritmo sono sempre stret­ tamente interdipendenti. La terminologia ritmica di cui disponiamo, perlopiù rozza o ostica, non incoraggia certo l' analisi e con questo vo­ cabolario è difficile persino distinguere fra pulsazione e tempo, fra tasso di cambiamento armonico ed effettiva durata delle note; ma il rifiuto di affrontare questo genere di questioni conduce a una visione così parziale da essere totalmente fallace, anche dove fosse utile o sti­ molante. Il secondo problema riguardante l'analisi lineare è se questa si adatti a tutta la musica tonale. Fa riflettere che i metodi di analisi di Schenker non siano sensibilmente diversi per Bach, Mozart, Chopin o Reger. Ri­ chiedono senz'altro modifiche consistenti per poter funzionare per la musica non tonale o per compositori come Stravinskij nella fase pre­ seriale; ma anche entro l' ambito della musica puramente tonale è di primo acchito sospetta una tale uniformità di approccio. La tonalità come istituzione non è stata sull' arco di due secoli né congelata né im­ mutabile e non si può pensare che il divario fra Beethoven e Chopin sia solo di sensibilità e non di metodo. Naturalmente Schenker non consi­ dera lo sviluppo storico degli stili: in tutte le forme - fuga, Lied, sonata, rondò - dal 1 650 al 1 900 non vede che diversi adattamenti della struttu­ ra lineare su larga scala e c'è una sfumatura di arbitrarietà nella scelta da parte del compositore di una fra queste forme « apparenti » . L'anali­ si lineare è senz' altro appropriata ed efficace per la musica del tardo Settecento, ma trascura completamente sul piano teorico la velocità della progressione da un punto all 'altro della linea fondamentale e le proporzioni formali, in particolare l'estensione della parte finale alla tonica. Proporzioni e movimento drammatico sono però il cuore dello stile tardosettecentesco e non è possibile ignorarle senza produrre l' im­ pressione che sia stato tralasciato un aspetto cruciale della concezione complessiva. L'unità che percepiamo in un 'opera d'arte è solo un 'illusione? Una mera ipotesi critica? Se ammettiamo che sia reale, la descrizione non può limitarsi a denominare le singole parti della forma e deve invece spiegare perché questa ci appaia come un tutto. Far risalire un' opera musicale a un breve motivo basilare è un procedimento d' analisi che Schenker chiama tecnica di « diminuzione » ( assai meno invasivo nella sua teorizzazione che nelle applicazioni di molti suoi discepoli) , basato su una considerevole mole di riflessione analitica ottocentesca, soprat­ tutto quella di Hugo Riemann. L'unità del materiale tematico in Beethoven fu del resto rilevata già durante la sua vita. Nel 1 8 1 0 E.T.A. Hoffmann scrive una recensione della Sinfonia in do minore e nota: 62

« L'intima struttura delle frasi, la loro elaborazione e strumen tazione, il mo­ do in cui sono disposte, tutto converge ad un unico punto; ma soprattutto l ' intima affinità dei temi è ciò che produce quell' unità, la quale sola ha il potere di mantenere l' ascoltatore in un unico stato d ' animo ( Stimmung) . Spesso l ' ascoltatore scorge chiaramente questa affinità, quando l ' ode nel collegamento di due frasi o la scopre nel basso comune a due frasi diverse; ma un' affi n ità più profonda, che non si manifesta in questo modo, parla spesso da spirito a spirito, ed è appunto questa che domina tra i due Allegri e il Minuetto, mostrando splendidamente la riflessiva genialità del mae­ stro » . '

Hoffmann aggiunge altrove che questa unità motivica è già presente nella musica di Haydn e di Mozart. Chiunque abbia suonato le opere dei classici viennesi ha percepito ogni volta il peso di questi rapporti temati­ ci. Ciò che distingue la critica più recente da quelle di un tempo è l'insi­ stenza sullo sviluppo motivico quale principio strutturale fondamentale, prioritario rispetto alle forze armoniche e melodiche o a ogni altra più « esterna » . L o sviluppo motivico viene a volte presentato come u n procedimento misterioso che solo i massimi compositori sanno padroneggiare. Nulla è più lontano dalla verità. Un compositore incapace produrrà magari un'accozzaglia di materiali disparati senza porsi il problema della loro coesistenza nell'opera, ma è certo che ritroviamo sostanzialmente la stessa unità tematica in Mozart e in un compositore minore come Jo­ hann Christian Bach. Di più: manifestazioni evidenti di quell'unità sono non solo frequenti, ma addirittura tradizionali. La forma di suite baroc­ ca in cui ogni danza inizia con le stesse note è molto diffusa; se ne trova­ no svariati esempi in Handel. I primi romantici, profondamente interes­ sati alla forma ciclica, resuscitarono quella tecnica e le infusero una po­ tenza nuova; in molte opere, ogni sezione è costruita a partire da uno stesso motivo : Camaval di Schumann2 e la SymphonieFantastique di Ber­ lioz non sono che gli esempi più celebri. L'uso di un motivo centrale sembra meno evidente, meno parte delle intenzioni esplicite dell 'opera, fra il 1 750 e il 1 825 che prima e dopo quelle date, ma non perciò è meno significativo o addirittura assente. Entro certi limiti lavora sotterraneamente e spesso, soprattutto dal pri­ mo Beethoven in avanti, diviene esplicito; non riconoscere nel « secon­ do >> tema dell'Appassionata una variante di quello di apertura significa perdere una parte importante del discorso. Esempi meno espliciti di unità tematica hanno però sollevato le dispute più accese , alcune delle l. E. T.A. Hoffmann poeta e compositare. Scritti scelti sulla musica, a cura di Mariangela Donà, Discanto, Fiesole, 1985, p. 7 ( « La musica strumentale di Beethoven » ) [N.d. T.] . 2 . Camaval è in effetti costruito su due brevi motivi, ma questi sono armonicamente mol­ to simili e usati in modo da renderli ancora più affi n i.

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quali sorprendentemente aspre . Molta acrimonia deriva da equivoci. I musicisti si in dignano all 'idea che in un 'opera, per esempio di Beetho­ ven , vi siano rapporti tematici per loro inudibili. Tovey, con una man­ canza di perspicacia rara per lui, negò l ' importanza dei rapporti tema­ tici il cui meccanismo proprio non sia un effetto riconoscibile all ' ascol­ to; in altre parole, di quei casi in cui la derivazione di un tema da un al­ tro non sia resa udibile passo passo nell ' arco del pezzo . Ma non neces­ sariamente un compositore desidera che i suoi sviluppi, per quanto ac­ curatamente elaborati, assumano la forma di una dimostrazione logica; vuole che si colgano le intenzioni , non i calcoli. Può accadere che un tema non sia fatto per essere riconosciuto come logica conseguenza di ciò che precede , eppure lo si senta a ragione scaturire con naturalezza dal tessuto musicale, integrarsi profondamente e in un modo caratteri­ stico col resto del pezzo . La melodia finale del movimento lento della Sonata op. 3 1 , n. 2 di Beethoven, La tempesta, è proprio quel tipo di nuovo tema :

Tovey h a dichiarato vano ogni tentativo di farlo derivare d a checchessia dello stesso movimento. L'armonia però è chiaramente apparentata con quella delle misure 8 1 - 89, come anche il punto più toccante della cmva melodica :

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E ciò vale anche per gli accordi diminuiti così insistentemente presenti nell' intero movimento. Tovey ha senz' altro ragione ad attirare l' atten­ zione su ciò che questa melodia e il suo carattere portano di nuovo, ma trascura, ritenendola irriducibile all'analisi, la sensazione di quanto pie­ namente essa si integri con ciò che precede. La relazione organica che percepiamo fra la melodia e il resto non è però inspiegabile. Se un com­ positore desidera che due temi suonino come apparen tati è naturale che li costruisca su rapporti musicali simili : sostenere che gli effetti che ne discendono sono di scarsa rilevanza se quei rapporti non possono essere identificati all 'ascolto o definiti in parole è come dire che un ora­ tore non può commuoverci o convincerci se non siamo in condizione di riconoscere le figure retoriche della sineddoche, del chiasmo e dell' apo­ strofe grazie alle quali agisce sui nostri sentimenti. Non solo i temi, ma anche molti dettagli dell 'accompagnamento e perfino la struttura complessiva derivano spesso da un 'unica idea cen­ trale. La coerenza nell 'opera d' arte non è del resto un ideale moderno, anacronistico per il tardo Settecento, bensì il più antico luogo comune dell'estetica che ci viene da Aristotele attraverso Tommaso d'Aquino. Fin dal Quattrocento nella musica occidentale la relazione motivica è stata fra i principali mezzi di integrazione; la forma più comune è l'imi­ tazione contrappuntistica diretta, ma nel periodo classico lo sviluppo motivico (o la tecnica della diminuzione) assume una maggiore impor­ tanza, pur avendo già una lunga storia alle spalle. Un breve motivo può non soltanto, entro certi limiti, generare la melodia, ma anche determi­ nare il carattere di questa e il corso di ciò che segue. Troviamo un esem­ pio di questo genere di espressione, su una scala suffi c ientemente ridot­ ta perché si possa riportarlo per intero, all' inizio del finale della Sonata op. 22 in si bemolle maggiore di Beethoven :

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delle prime due battute è ri­ Qui la cellula di quattro note petuta due volte in eco al basso (battute 3-6) , con una modificazione ritmica e uno spostamento d'accento. Un breve motivo che si ripete, tanto più se cromatico e ascendente, guadagna sempre in intensità ed è questo procedimento che qui genera gli echi accelerati nell'aggraziata onda melodica: viene trasposto prima alla dominante, diventan-

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do ; a battuta 7 passa poi sulla dominante della dominante . Ambedue le trasposizioni erano state suggerite e preparate dalle misure 2 e 4; le percepiamo dunque non come eco tematica, ma come corri­ spondenza armonica: un effetto meno rivolto all'intelletto e che invece tocca più direttamente la nostra sensibilità. Il motivo evoca così un mo­ vimento armonico verso il do (dominante della dominante) , la nota ver­ so cui sale la prima parte della frase come pure tutte le imitazioni croma­ tiche. Con l'arrivo a battuta 1 2 del la�, sovrapposto armonicamente al si�, ognuna delle dodici note della scala cromatica è entrata in risposta al motivo : è per questa ragione che la scala cromatica finale alle battute 1 6 66

e 1 7 non appare semplicemente decorativa, ma logica in modo convin­ cente, quasi tematica. Il breve motivo è servito ad accrescere la velocità e intensificare il colore; agisce di fatto come il principale fattore di tensio­ ne e trasformazione e cambia significato a ogni entrata. Spesso si trascura questo mutare di senso. Mettere in rilievo la ricor­ renza di un motivo breve o anche soffermarsi sulla sua funzione nello sviluppo del pezzo, ma ignorarne le qualità dinamiche - il suo ruolo nell' azione musicale - significa dimenticarsi che la musica si svolge nel tempo. Troppi scritti sulla musica presentano un brano come un sistema di interrelazioni di cui sono secondari o irrilevanti l'ordine, l'intensità e, soprattutto , la direzione. Troppo spesso si potrebbe suonare la musica all' indietro senza che ciò incida significativamente sull 'analisi. Ciò equi­ vale a trattare la musica come un 'arte spaziale, ma il movimento dal pas­ sato verso il futuro è più importante in musica di quello da sinistra a de­ stra in un quadro. 1 Di qui nasce la difficoltà di collegare tante analisi della struttura motivica non solo a ciò che si sente, ma all' atto dell'ascol­ tare; c'è differenza fra ciò che si può sentire e come si ascolta. Da questo punto di vista, Schenker è assai superiore perché la sua teoria è salda­ mente fondata sulla direzionalità temporale - il movimento verso la to­ nica, la tendenza alla discesa nella risoluzione. Deve esserci un'intera­ zione coerente fra il singolo motivo e la direzione del pezzo - l'intensità e le proporzioni del suo progressivo dispiegamento. Si deve soprattutto evitare la nozione grottesca di un'arte segreta, l'i­ dea cioè che i compositori (e beninteso solo i più grandi) scrivessero la propria musica seguendo un procedimento esoterico come lo sviluppo motivico e poi la sistemassero in forme agevolmente comprensibili, co­ me la sonata e il rondò, in modo che un pubblico sprovveduto ci si potes­ se raccapezzare senza troppe diffi c oltà. La nozione, avanzata da Schen­ ker e da critici di minor peso come Réti, di una forma esterna e sostan­ zialmente banale imposta per amore di chiarezza a procedimenti più fondamentali non regge il più semplice esame di verifica: non corri­ sponde alla psicologia di alcun compositore, senz'altro non a quella di Haydn, che non ha nulla del cospiratore e la cui tecnica compositiva non è mai occulta, o a quella di Beethoven, il cui disinteresse per l'agio degli ascoltatori è manifesto in molte opere; e soprattutto non ha alcun rapporto con ciò che anche il più acuto fra i musicisti coglie all'ascolto. Non è vero che temi, modulazioni e cambiamenti di fattura sonora siano fenomeni di superficie, meno fondamentali della tecnica di diminuzio­ ne. Quest'assurdità può essere evitata solo mostrando una relazione inl. Non che il movimento da sinistra a destra sia irrilevante in pittura, come ha dimostrato Wolffl in in un celebre saggio. Si può però rovesciare la direzione di un'immagine (è il caso delle incisioni) lasciando in buona misura intatti molti dei principi formali signifi­ cativi.

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tima, e non solo matrimonio di convenienza, fra sviluppo motivico ed elementi formali su larga scala. Le priorità dell'ascolto vanno rispettate. Quando esistono rapporti fra temi (e nel periodo classico sono cruciali) è indispensabile avere chiaro se essi vengano resi espliciti tramite il tessuto connettivo, e siano dunque parte della logica discorsiva della musica, o se appartengano solo al pia­ no della fattura sonora, nel qual caso non necessariamente sono meno importanti, ma agiscono soprattutto come richiamo indiretto alla sensi­ bilità attraverso la sonorità complessiva del brano e come elemento uni­ ficatore. Ma ancora più importante è chiedersi: se in un brano vi sono relazioni fra dettagli e struttura su larga scala, con quali mezzi sono resi udibili? Non basta rintracciare sulla pagina una corrispondenza fra un particolare e il disegno complessivo : è necessario dimostrare che sia sempre stata udibile, forse senza mai essere stata espressa in parole, ma con un effetto sulla nostra esperienza del brano. Ciò che inquieta è soprattutto il rigido dogmatismo lineare di tanta teoria contemporanea: l'insistenza sul fatto che l'idea generatrice o cen­ trale di una composizione sia necessariamente concepita in termini line­ ari, addirittura come una semplice disposizione di altezze che prescinde da ritmo, intensità o tessuto sonoro. Il disagio che si prova mettendo a confronto una simile concezione della forma con la musica come suona realmente nasce in gran parte dal fatto che il nostro ascolto non è solo lineare - né sarebbe auspicabile che lo fosse. Pensare che la forma sia generata da una serie lineare è senza dubbio congeniale a un'epoca che ha visto lo sviluppo della musica dodecafonica, ma mal si adatta al Sette­ cento, soprattutto alla seconda metà. (E benché molta musica barocca sia basata sull'elaborazione di un breve motivo, quella concezione, linea­ re non è soddisfacente neppure per la prima parte del secolo) . E indi­ scutibile che in un'opera del tardo Settecento vi sia spesso un'idea cen­ trale, un'idea musicale, che funge da collante ed elemento unificatore, ma questa non può essere ridotta semplicemente a forma lineare - né all 'elaborazione di una breve successione orizzontale, né alla lunga li­ nea fondamentale di Schenker; ambedue visioni troppo limitate per ri­ sultare soddisfacenti. Né regge la descrizione, semplice ma sgraziata, di « forma sonata >> come intelaiatura superficiale di processi più fonda­ mentali; tanto la logica quanto l'evoluzione storica del Settecento im­ pongono di giungere a una concezione che dia conto della profonda sensibilità dell'epoca per le proporzioni e il movimento drammatico che lo stile seppe soddisfare.

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3 LE ORIGINI DELLO STILE

La creazione dello stile classico non fu tanto il raggiungimento di un ideale quanto la conciliazione in un punto di equilibrio ottimale di ide­ ali in conflitto. L'espressione drammatica intesa come semplice resa di un sentimento o di un cruciale momento di crisi in un'azione teatrale ­ in altre parole, come movimento di danza molto caratterizzato - aveva già trovato forma musicale nel tardo barocco. Ma il secondo Settecento esigeva altro : la pura traduzione del sentimento non bastava più, biso­ gnava ora mostrare Oreste che impazzisce senza rendersene conto, Fiordili­ gi che desidera cedere mentre tenta di resistere, Cherubino innamorar­ si ignaro di ciò che prova; e, qualche anno dopo, la disperazione di Flo­ restan che si piega al delirio e alla visione apparentemente senza speran­ za di Leonore per poi fondersi con essi. Il sentimento drammatico fu sostituito dall' azione drammatica. Handel era già in grado, nel famoso quartetto del jephtha, di rappresentare quattro emozioni diverse : il co­ raggio della figlia, la tragica inflessibilità del padre, la disperazione della madre e la ribellione dell 'amante. Ma nel finale del secondo atto della Entfi.lhrung aus dem Serail, gli amanti passano dalla gioia ai sospetti, quin­ di all 'indignazione, e infine si riconciliano : nulla mostra i legami fra stile di sonata e azione operistica nel periodo classico meglio di questa se­ quenza di quattro emozioni, e si è facilmente tentati di attribuire al loro succedersi una relazione analoga a quella di primo e secondo gruppo tematico, sviluppo e ripresa. L'esigenza di azione vale anche per la musica non operistica: per un minuetto, avere un proprio carattere non basta più; in tutta la produzio­ ne bachiana, non ce n ' è uno che somigli a un altro, mentre quelli di Haydn sono talvolta così simili da poterli confondere. I minuetti di Bach scorrono però senza scosse , con un flusso pressoché uniforme che in Haydn si trasforma invece in una serie di eventi articolati, talvolta anche 69

sorprendenti e inaspettatamente drammatici. I primi esempi significativi di questo nuovo stile drammatico non si trovano nel teatro musicale ita­ liano, ma nelle sonate per cembalo che Domenico Scarlatti scrisse in Spagna nel secondo quarto del Settecento. Della tecnica classica di tran­ sizione da un genere di ritmo a un altro nella produzione scarlattiana non si trova ancora quasi traccia, ma compaiono già il tentativo di pro­ durre autentici urti drammatici nei cambiamenti di tonalità e il senso della frase periodica, sia pure in scala ridotta. Soprattutto, nelle sue so­ nate sono i cambiamenti del tessuto musicale a costituire gli eventi drammatici, delimitati in modo netto e messi in risalto, un procedimen­ to che diventerà centrale per lo stile delle generazioni successive. Fu in effetti sotto il peso di quest' articolazione drammatica che crollò l' esteti­ ca tardobarocca. Ciò che la sostituì non aveva inizialmente coerenza alcuna e per que­ sta ragione, benché ogni periodo costituisca una transizione, gli anni fra il 1 755 e il 1 775 meritano propriamente questa etichetta. Per dirla in breve, e senz' altro semplificando molto, in quegli anni il compositore doveva scegliere fra sorpresa drammatica e perfezione formale, fra espressività ed eleganza: di rado poteva averle entrambe allo stesso tem­ po. Solo quando Haydn e Mozart, separatamente e di concerto, crearo­ no uno stile in cui l'effetto drammatico potesse apparire sorprendente e insieme logicamente motivato, in cui l'espressivo si sposasse con l 'ele­ gante, solo allora nacque lo stile classico. Prima di questa sintesi i figli di Bach si erano divisi le principali possi­ bilità stilistiche dell'Europa di allora : rococò (o style galant) , Empfind­ samkeit e barocco tardivo. La musica dijohann Christian era cerimonio­ sa, sensibile, affascinante, per nulla drammatica, e un po' vuota; quella di Carl Philipp Emanuel violenta, espressiva, brillante , sempre piena di sorprese, e spesso incoerente; Wìlhelm Friedemann proseguì la tradizio­ ne barocca in modo molto personale o addirittura eccentrico. La mag­ gior parte dei contemporanei fu in debito con loro in un modo o in un altro. Vi erano tuttavia anche altre, diverse e complesse influenze sulla musica del tempo : pur indebolito, il tardo barocco dominava ancora gran parte della musica sacra; nell' opera seria, le tradizioni italiana e francese non avevano perso vitalità; gli stili sinfonici viennese e napole­ tano erano in piena fase sperimentale, così come la forma relativamente nuova dell' opera buffa. Si attribuisce spesso un' importanza determinante all'invenzione del crescendo da parte dell'orchestra di Mannheim, ma se mai c'è stato uno sviluppo inevitabile è stato questo. La transizione dinamica è un corolla­ rio logico e addirittura necessario per uno stile che inizia con l' articola­ zione delle frasi e sviluppa metodi di transizione ritmica fra diversi tipi di tessuto sonoro. L'applicazione sempre più frequente della persiana ai clavicembali è un altro aspetto, meno fruttuoso, dello stesso movimento 70

stilistico. Il crescendo sarebbe stato inventato anche se Mannheim non fosse mai esistita, e la musica dei suoi sinfonisti è meno interessante e influente dell' ouverture buffa italiana. Il maggiore contributo dei primi sinfonisti viennesi fu l'aver ricono­ sciuto il bisogno di continuità, e più precisamente della sovrapposizione delle singole frasi, per mantenere viva l'attenzione del pubblico. La mu­ sica da camera della metà del Settecento è piena di buchi, di momenti in cui la tensione svanisce, in cui la musica si arresta e poi ripiglia senza al­ cuna necessità interna: accade con desolante frequenza anche nelle pri­ me opere di Haydn e di Mozart. I sinfonisti viennesi non avevano mezzi per rimediare all'inconveniente se non qualche occasionale iniezione di stile fugato barocco che produce l'impressione di un movimento conti­ nuo (effetti di imitazione sono impiegati, ad esempio, per occultare le cesure fra le frasi ) ; ma quantomeno essi riconobbero l'esistenza di un problema (o lo crearono, cosa senza dubbio storicamente meritevole ) che sarebbe poi stato risolto in tutt'altro modo. Con i primi sinfonisti viennesi compare un procedimento che diverrà una componente sistematica nell' evoluzione di Haydn e Mozart: il ritor­ no alla complessità barocca per recuperare parte della ricchezza perdu­ ta nella semplificazione e distruzione che accompagnano inizialmente ogni rivoluzione. L'articolato stile italiano era essenzialmente più scar­ no della dotta tecnica barocca e ogni progresso in quella direzione por­ tava con sé una perdita che fu poi necessario risarcire. La linea di demarcazione fra gli stili sinfonico e cameristico, fra musi­ ca cioè rivolta a un pubblico esteso e musica suonata in privato da dilet­ tanti, non fu mai definita in maniera inequivocabile e tuttavia è impor­ tante per comprendere la produzione degli anni Cinquanta e Sessanta del Settecento. Tranne che per l'uso dei contrasti dinamici, la distinzio­ ne era meno chiara nella prima metà del secolo; almeno due dei Concerti brandeburghesi sono concepiti a parti reali - il sesto, per esempio, è quasi sicuramente un sestetto -, mentre altri richiedono una piccola orchestra da camera con il contrasto fra solo e ripieno, ma gli stili musicali sono molto simili . Verso la metà del secolo, invece, c'è una notevole differen­ za fra sinfonie e ouverture scritte per l'esecuzione pubblica da un lato e musica per uno, due o tre strumenti destinata ai dilettanti dall'altro. La musica da camera è più rilassata, più distesa e più semplice , sia nel dise­ gno generale sia nei particolari; il finale è spesso un minuetto e il movi­ mento iniziale una serie di variazioni. Le opere destinate al grande pub­ blico invece iniziarono allora a farsi più formali. Il quartetto d'archi, ri­ volto agli intenditori, faceva da ponte fra i due stili: era più formale della musica per strumenti a tastiera, con o senza accompagnamento di archi, ma meno elaborato (fino a Haydn) della sinfonia. Questa distinzione opera ancora nell'ultima produzione haydniana: anche quando il quar­ tetto, la sonata e il trio con pianoforte ebbero tratto vantaggio dallo stile 71

sinfonico, le sinfonie mantennero un'organizzazione rigorosa, con mi­ nore libertà, finali più massicci e movimenti iniziali che molto di rado presentavano quei tempi moderati divenuti comuni nella musica da ca­ mera. Resta il fatto che, come Mozart innestò lo stile operistico e quello concertistico nelle sonate e nei quartetti, Haydn travasò nella sua produ­ zione cameristica tutta l'esperienza maturata in campo sinfonico. Nella musica dell 'uno come dell 'altro, la fusione fra i generi dopo il 1 780 è stupefacente : il finale della Sonata in do maggiore (Hob 48) di Haydn è un vero e proprio rondò da sinfonia e quello della Sonata in si bemolle maggiore K 333 di Mozart un movimento di concerto con tanto di ca­ denza. Accade anche l'inverso : l'ultimo movimento del Concerto in fa maggiore K 459 di Mozart è un finale sinfonico nello stile fugato al cui sviluppo tanto contribuì Haydn, e i movimenti lenti di molte fra le ulti­ me sinfonie di quest'ultimo possiedono il carattere intimo e improvvisa­ rivo della sua musica da camera. (Quale che ne sia stata la versione origi­ naria, sinfonia o trio con pianoforte, il movimento lento della 1 02 è più vicino al tradizionale stile tastieristico che a quello orchestrale - il che non significa che suoni meglio nella versione con pianoforte) . Quest'evoluzione si intreccia naturalmente con la storia dei concerti pubblici nel Settecento nonché con la crescente importanza della prati­ ca amatoriale. All'inizio del secolo, le esecuzioni pubbliche appartene­ vano quasi esclusivamente all'ambito sacro o a quello teatrale : un forte contrasto fra stile orchestrale e cameristico non aveva una vera ragion d' essere. Le contrapposizioni del tardo barocco sono altre : fra ambito sacro e profano - benché molta musica oscillasse fra i due (e ciò anche dando per acquisito che le cantate in lode di case reali e ducali vadano annoverate nel repertorio sacro) ; fra stile vocale e stile strumentale benché anche in questo caso solo gli estremi siano distinguibili con chia­ rezza e sia difficile tracciare una linea di demarcazione netta; fra scrittu­ re strettamente contrappuntistiche e stili più popolari basati sulla danza o sul concerto - benché esistano numerose gighe in stile fugato e Han­ del abbia composto fughe su melodie nello stile dello hornpipe inglese; e infine tra stile francese e stile italiano, il primo prevalentemente decora­ tivo e basato su antiche forme di danza, il secondo più moderno, più espressivo e basato sulle nuove sonorità della scrittura concertistica. Nei grandi maestri tedeschi, Bach e Handel, i contrasti sono trascurabili, gli stili si fondono : i due autori pescano e scelgono qua e là a piacimento ; è forse uno dei loro vantaggi su Rameau e Scarlatti. Via via che da un lato si facevano più frequenti le esecuzioni pubbli­ che e che dall'altro far musica diveniva parte delle buone maniere, la differenza fra musica pubblica e privata si acuiva. Il carattere amatoriale di tanta musica per tastiera del secondo Settecento si deve forse al fatto che il fortepiano fu territorio privilegiato delle musiciste? La maggior parte delle sonate e dei trii con pianoforte di Haydn, numerosi concerti 72

di Mozart e sonate di Beethoven furono composti appositamente per signore. Un editore di Mozart lamentò la difficoltà tecnica dei suoi quar­ tetti con pianoforte; va anche sottolineato che fino all 'Ottocento inol­ trato le sonate per violino e pianoforte nonché trii, quartetti e perfino quintetti con pianoforte furono considerati essenzialmente musica pia­ nistica: una certa semplicità stilistica e tecnica era necessaria per non scoraggiare i dilettanti. Non dobbiamo farci trarre in inganno dal fatto che Beethoven, nella sua suprema indifferenza, non facesse distinzione fra dilettanti e professionisti o che Haydn in tarda età abbia incontrato una vedova inglese tecnicamente all 'altezza della sua inventiva di com­ positore : sono eccezioni. Anche la tarda Sonata K 570 in si bemolle mag­ giore di Mozart è un deliberato tentativo di venire incontro a un pianista con capacità tecniche (e musicali) limitate; guardare alle sonate che Haydn scrisse prima del 1 780 come a esempi di uno stile immaturo significa fraintenderle : erano i pianisti che non possedevano mezzi tec­ nici sufficienti, come dimostrano le sinfonie di Haydn dello stesso perio­ do, ben più ricche e complesse. Uno stile appena forgiato è un'arma formidabile per la conquista di nuovi territori. La tentazione di rendere sinfonica (e persino operistica) la musica per tastiera e da camera doveva essere forte : pochi composito­ ri rinunciano ad applicare a un genere le idee elaborate fruttuosamente in un altro. Anche il moltiplicarsi di esecuzioni pubbliche o semipubbli­ che di musiche da camera ebbe certamente un peso; e le continue modi­ fiche (miglioramenti?) della meccanica pianistica erano allo stesso tem­ po una risposta e una sfida ai cambiamenti dello stile. Ma senza ombra di dubbio la spinta a una sempre maggiore serietà della produzione came­ ristica venne dallo stile stesso. L'ambito della musica sacra, dominato dal barocco ancora in Mozart e in Haydn, fu l'ultimo a essere conquistato. Le difese residue crollarono, anche qui, con le due messe di Beethoven : tardi e, ironia della sorte, proprio quando sbocciava nel pubblico e nei musicisti un nuovo interesse per il barocco. Ma uno stile con questa ca­ pacità di integrazione non compaiVe che con le opere di Haydn e di Mozart della fine degli anni Settanta. Prima di allora la scena era più ca­ otica, con molte forze rivali apparentemente equivalenti; ecco perché il periodo che va dalla morte di Han del ai Quartetti op. 33 di Haydn, detti Gli scherzi o Russi, è difficile da descrivere . Tutto ciò vale ovviamente col senno di poi : per un musicista degli anni Ottanta le forze rivali erano altrettanto numerose e le loro pretese non meno difficili da valutare. Resta il fatto che per apprezzare la musica scritta negli anni Sessanta seiVe tutta la nostra capacità di immedesimazione nel passato e occorre tener presenti le diffi c oltà che i compositori fronteggiavano, all'interno come all 'esterno. Dal l 780 in poi basta invece mettersi comodi e osseiVa­ re due amici e il loro allievo che attraggono nella propria orbita quasi ogni genere musicale, dalla bagatella alla messa, e che sul piano formale 73

padroneggiano, grazie a uno stile talmente formidabile da risultare so­ stanzialmente appropriato a ciascuno di essi, sonata, concerto, opera, sinfonia, quartetto, serenata, arrangiamenti di musica popolare. Non serve immedesimazione o senso storico per gustare l'opera di Mozart, di Beethoven e dell 'ultimo Haydn : la maggior parte dei musicisti ce le ha ancor oggi nel sangue. In ragione dell 'assenza di uno stile unitario e ugualmente efficace nei diversi ambiti si è tentati di chiamare « manierista » il periodo fra il l 755 e il l 775. Il termine è peraltro così abusato che lo propongo con esitazio­ ne. Per superare i problemi stilistici che si trovavano davanti, i composi­ tori si ridussero, in quegli anni, a coltivare maniere molto personali. Il neoclassicismo di Gluck col suo deliberato rifiuto di tante tecniche tradi­ zionali, le modulazioni arbitrariamente drammatiche e appassionate e i ritmi sincopati di Cari Philipp Emanuel Bach, la violenza di parecchie sinfonie di Haydn composte fra il 1 760 e il 1 770 : sono altrettanti > che tentano di colmare la mancanza di uno stile unitario. E lo stesso si può dire di johann Christian, il Bach « di Londra >> , e del suo stile il periodo fra la morte di Handel e la prima maturità di Mozart, spero di aver saputo evitare sia un tono di etica indi­ gnazione che l'uso modaiolo del termine. Un atteggiamento moralistico nel giudicare un intero periodo storico non può che portare a malintesi ridicoli e risulta giustificabile, forse, solo quando ci rapportiamo al no­ stro tempo: quando abbiamo, per così dire, una posta in gioco nella scel74

ta della prossima mossa, quando il nostro atteggiamento è speranza o timore, non un'autoindulgenza travestita da norma morale. E tuttavia, se ciascuna epoca può meritare la stessa considerazione, non perciò può ambire alla stessa importanza. Dalla morte di Handel al 1 775 nessun compositore padroneggiò tutti gli elementi musicali a sufficienza perché il suo stile potesse reggere il peso di un 'ampia serie di composizioni, facendone una vera e propria di un compositore si definiva quasi nel vuoto, o me­ glio sullo sfondo caotico di tradizione e artigianato barocchi e di aspira­ zioni classiche e galanti comprese solo in parte. Tanto l'imperturbabile facilità dei compositori barocchi e romantici quanto il dominio delle trasformazioni dinamiche caratteristico dei tre grandi compositori clas­ sici erano allora fuori portata. Perché una sperimentazione abbia suc­ cesso al di là della casualità bisogna essere in grado di prevedeme, fos­ s'anche in modo solo parzialmente consapevole, gli esiti e la portata. La debolezza più evide n te dell'epoca è forse la mancanza di coordina­ zione fra ritmo della frase, accento e ritmo armonico, dovuta in parte alla contraddizione fra la propulsione musicale barocca e quella classi­ ca. Il motore del nuovo stile è la frase periodica, quello del barocco la progressione armonica. Quando si combinano frase periodica forte­ mente articolata e progressione, soprattutto se questa è discendente (come allora accadeva nella maggior parte dei casi) ,l si ha non già un aumento bensì una perdita di energia. Tanto l' articolazione della frase che la potenza e la novità degli accenti esigevano un movimento armoni­ co corrispondente o quantomeno analogo : un cambiamento accentato che si avvicina alla modulazione. Sia gli accenti sia il profilo melodico, che proprio dallo stagliarsi con chiarezza traggono l'energia, sono inevi­ tabilmente indeboliti dalla continuità insita nella progressione, soprat­ tutto dal prediletto circolo delle quinte che nel bel mezzo di una compo­ sizione classica produce un'impressione di stallo. Philipp Emanuel Bach l . Tovey ha sottolineato l'originalità dei bassi ascendenti in Beethoven.

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se ne serve spesso infelicemente nelle esposizioni per creare un 'illusio­ ne di movimento, ma nelle grandi opere classiche è usato più frequente­ mente proprio per questa qualità di sospensione del moto : in diversi svi­ luppi di Beethoven (come nel primo movimento della Sonata Wald­ stein) , raggiunto un punto di tensione estrema interviene una progres­ sione, spesso di considerevole lunghezza, che mantiene la musica stati­ ca, immobile nonostante la violenza degli accenti dinamici. In Mozart gli esempi più stupefacenti di uso della progressione si trovano alla fine dello sviluppo : siamo consapevoli che la tonica è sul punto di tornare e , con l a sicurezza trasmessaci dal senso mozartiano delle proporzioni, sap­ piamo talvolta persino fra quante battute si ripresenterà; senonché vi siamo condotti attraverso una progressione elaborata sontuosamente con una tale felicità di dettagli che ci fa dimenticare in parte il carattere inevitabile dell'azione su larga scala - o meglio ce lo fa percepire come pulsazione interiore mentre siamo incantati da ciò che sembra semplice ornamento ed è invece un ' intensificazione della forma drammatica. In questo periodo intermedio e confuso che separa il tardo barocco dallo sviluppo dello stile classico maturo, si vanno delineando con chia­ rezza crescente alcune concezioni generali di struttura e proporzione. Lo schema ton al e della maggior parte delle sonate preclassiche va appe­ na oltre quello delle forme di danza del tardo barocco. La prima parte procede dalla tonica alla dominante, la seconda all'inverso. Di rado pe­ rò negli stili preclassici il ritorno alla tonica è marcato con una cadenza significativa: la cadenza forte sulla tonica è riservata alla conclusione del brano. La seconda parte comprende sia una certa quantità di ciò che si può ben definire sviluppo sia una vasta ripresa nella tonalità principale, ma l'assenza di un accordo di tonica che li separi chiaramente l'uno dal­ l'altra stempera la distinzione fra sviluppo e ripresa, distinzione che sarà sancita verso la fine del Settecento. Nel tardo barocco una cadenza di tonica troppo marcata introdotta con forte anticipo rispetto alla conclu­ sione comportava dei rischi: dato il ritmo fluido, continuo e autogene­ rantesi della musica barocca, l' unico modo per terminare un brano era una potente cadenza sulla tonica, un effetto che andava dunque usato con cautela prima delle ultime battute. Per rendere possibile una sezio­ ne lunga dopo una cadenza di tonica, il periodo classico dovette svilup­ pare un sistema di ritmo e articolazione della frase nuovo e potente. Il compositore di una sonata (o di un qualunque altro brano) si trova­ va a dover conciliare requisiti di espressione e proporzione. La simme­ tria dapprima negata e infine concessa è una delle soddisfazioni fonda­ mentali dell'arte settecentesca. Ora del terzo decennio del secolo l'e­ spressione drammatica iniziava a manifestarsi non soltanto sul piano dei dettagli (linea melodica, abbellimenti, singoli effetti armonici) e della 76

fattura armonica e ritmica, ma anche su quello della st.Iuttura comples­ siva dell' opera. Diventava possibile un' arte sintattica del movimento drammatico, che si lasciava alle spalle quella più statica del sentimento e della situazione drammatica.1 Era necessario abbandonare molte delle vecchie simmetrie barocche : in particolare, la forma ABA dell' aria col da capo era troppo statica per il nuovo stile che si andava sviluppando, benché non sia mai stata del tutto abbandonata e abbia esercitato un 'in­ fluenza su ciò che venne poi. Le simmetrie del periodo classico mirava­ no alla risoluzione della tensione drammatica cui si poteva giungere per vie diverse, nessuna delle quali prescritta o proscritta a priori; la scelta tuttavia non era arbitraria. La simmetria più ovvia fu in origine la più diffusa: la seconda parte ripete il materiale della prima, ma invece di andare dalla tonica alla dominante procede in senso inverso. Abbiamo dunque una doppia simmetria: melodica, A � B: A � B, e tonale, A � B: B� A. L'assenza di sviluppo non è una conseguenza necessaria: in Dome­ nico Scarlatti e perfino in johann Sebastian Bach e in Rameau troviamo sviluppi in abbondanza, ma essi si innestano senza cesure nella ripresa. Lo sviluppo, negli stili classico e preclassico, non è in buona sostanza nulla più che un'intensificazione. Il procedimento classico più antico, e mai abbandonato, per sviluppare un tema fu il farlo riascoltare con un 'armonizzazione più drammatica oppure in una tonalità lontana. Tal­ volta le sole armonie più drammatiche fungevano da sviluppo, senza melodia alcuna: sono numerose le sonate con « sviluppi » senza allusioni dirette ai temi dell ' « esposizione » . Il mezzo di intensificazione più caro al barocco, prolungare un tema evitando la cadenza, non scomparve mai e la sua efficacia fu solo accresciuta dall' aspettativa classica della cadenza periodica. In effetti l'elusione della periodicità (la rottura cioè dell' orga­ nizzazione simmetrica) è il principale mezzo classico di « sviluppo >> rit­ mico; la frammentazione del materiale melodico e il ricorso all'imitazio­ ne contrappuntistica costituiscono solo l' aspetto tematico dello >, che si combina con i corrispondenti aspetti ritmico e armonico. Nell ' > il movimento dalla tonica allà dominante conduce già a una crescita di intensità; nella seconda parte della forma sonata, lo « sviluppo » non serve che a rafforzare questo effetto a lungo termine, a rendere drammatica la composizione sia sul piano dei dettagli sia su quello della stnlttura tonale, prima della risoluzione conclusiva. C ' è una tendenza diffusa tra gli storici della musica a considerare « progressiva >> una sinfonia o una sonata preclassica quando presenti una sezione di sviluppo distinta ed estesa. Ciò significa ignorare quanto della cosiddetta > sia spesso in effetti dedicato a uno sviluppo, a un 'intensificazione dell'espressione e della direzione per mezzo di tutte l. Quanto siamo lontani dal significato che i temiini « classico ,, e " barocco » rivestono nelle arti visive!

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le tecniche possibili : frammentazione, imitazione contrappuntistica, uso di tonalità lontane, estensione delle melodie, cadenze evitate. E si­ gnifica anche mettere in ombra il fatto che esposizione, sviluppo e ripre­ sa non costituiscono compartimenti stagni. L'introduzione di uno o più temi nuovi nella seconda metà di una sonata significa che lo « sviluppo » ha assunto il ruolo di esposizione. Quando, e accade spesso, la seconda parte inizia facendo ascoltare l'intero primo soggetto alla dominante, lo « sviluppo » diventa in effetti una ripresa tematica, così come in altri casi la ripresa (e perfino l' esposizione) > . I n effetti, l' apparizione frequente nel tardo Settecento della melodia d'esordio all'inizio dello sviluppo non è storicamente che un'eredità della forma preclassica dei primi anni del secolo. Con l'evoluzione dello stile, una seconda parte perfettamente simmetrica divenne sempre me­ no desiderabile; la tendenza a un 'intensificazione espressiva e armonica dopo l'apparizione, all'inizio della seconda metà del brano, della prima melodia riesposta alla dominante c'era da tempo, ma si fece via via più sentita fino a determinare un mutamento radicale nel senso delle pro­ porzioni. L' aumento di tensione drammatica che divenne comune subi­ to dopo l'inizio della seconda parte di un « allegro di sonata >> disgregò la semplice simmetria melodica AB/AB della forma di danza barocca e ri­ chiese una risoluzione più decisiva. Un ritorno marcato ed enfatico alla tonica, situato in genere non oltre i tre quarti dell 'intero movimento, è fonda­ mentale nello stile tardosettecentesco. Il punto in cui ciò accade costitu­ isce quasi sempre un evento e non è mai dissimulato, come invece si ten­ deva a fare nella prima metà del secolo. Da questa drammatizzazione del ritorno alla tonica è nata una questione, owero se la sonata sia binaria o ternaria; ma è una discussione che tratta le proporzioni musicali come se si iscrivessero nello spazio anziché nel tempo. Tovey ha ossetvato che i concerti per pianoforte e orchestra di Mozart non sono propriamente in > non fossero affatto considerate �li. E non potrà spiegare l' evoluzione storica, ma solo prendeme atto. E ne­ cessario invece comprendere il significato di questi modelli sul piano dell ' immaginazione; solo così intenderemo perché una ripresa che ini­ zia con la dominante, consueta in Domenico Scarlatti e Johann Chri­ stian Bach, sia diventata gradualmente inaccettabile e perché si sia inve­ ce fatta strada la possibilità di aprire la ripresa (in un punto più avanzato del brano) con la sottodominante, come accade in Mozart e in Schubert. Tre esempi possono aiutarci a chiarire la natura del problema: la ripresa della Sonata in re maggiore K 3 1 1 di Mozart inizia con il « secondo grup­ po », ritorna al tema iniziale soltanto alla fine e quando ciò accade suona arguta, sorprendente e soddisfacente; la ripresa della Sonata in fa mag79

giore op. 10, n. 2 di Beethoven che inizia alla sopradominante suona arguta ma del tutto insoddisfacente, senonché ben presto Beethoven, tornandosene dritto alla tonica, chiarisce che si trattava solo di uno scherzo; la ripresa della Sonata in do maggiore K 545 di Mozart, che ini­ zia alla sottodominante, non suona arguta né sorprendente, ma soddi­ sfacente in modo convenzionale, benché al tempo in cui fu scritta si trattasse di una soluzione rara quanto le altre. L'idea di una Forma che lotta per definirsi, per incarnarsi in modi così diversi è seducente, ma anche come semplice metafora è inganne­ vole; induce a credere che alla fine del Settecento esistesse una qualche cosa chiamata « forma sonata » di cui i compositori avessero consapevo­ lezza, mentre tutto ciò che sappiamo fa supporre il contrario. Ogni for­ ma, persino il semplice minuetto, era sentita in modo ben più fluido. Ma se parlare di « licenze occasionati » risulta inappropriato, neppure parla­ re di « completa libertà » descrive bene la situazione. Che l' arte possa procedere senza vincoli è indubbiamente vero (o perlomeno è un'ipote­ si fruttuosa) sul lungo termine; artisti e società danno vita agli stili di cui hanno bisogno per esprimersi, o meglio per soddisfare i bisogni estetici che essi stessi si sono creati. E gli artisti, particolarmente a partire dal Rinascimento, non sono prigionieri del proprio tempo come a volte si immagina. Oltre alle straordinarie varietà e libertà che alcuni stili hanno offerto, ci fu sempre la possibilità del pastiche, del rifacimento in stile : Michelangelo e Houdon riprodussero statue antiche, Mozart compose una suite nello stile di Handel. Un artista è per molti aspetti libero di scegliersi riferimenti e modelli : Masaccio guardò indietro di un secolo, a Giotto, come Manet a Velizquez; l'uso che Beethoven fece del canto gregoriano nella Messa in re maggiore e nel Quartetto op. 1 32 danno la misura di quanto lo stile classico fosse in condizione di assorbire . Ciò non toglie che per un compositore la musica è fondamentalmente quel­ la scritta un anno, o addirittura un mese prima (e in genere la propria, una volta che ha maturato uno stile ) ; questa non determina in modo ri­ gido il suo procedere, ma senz'altro ne costituisce un riferimento neces­ sario, sia che egli vi si allinei, sia che vi si voglia contrapporre. Lo « stile anonimo » di un'epoca, i palazzi costruiti da architetti di poco conto, i libri interessanti per una sola stagione, la pittura che non va al di là della decorazione, tutto ciò si sedimenta poco alla volta e ci vuole almeno una generazione perché si produca un mutamento riconoscibile. Non che lo « stile anonimo » sia particolarmente tenace, ma ha un 'immensa inerzia. Se guardiamo invece allo > come a una forma integrata di espres­ sione, alla portata solo degli artisti migliori, c'è ancora un elemento che ne ostacola lo sviluppo : portare avanti uno . Per il tardo Settecento, una sonata era una serie organizzata di movimenti e le proporzioni della musica mutavano a seconda che si trat­ tasse del primo movimento, del secondo o del finale. Si usavano ancora, completamente trasformate, vecchie forme come la fuga o il tema con variazioni; altre, il concerto, l'ouverture, l'aria e il rondò, conservavano in sé vestigia di forme più antiche; e c'erano le danze, principalmente minuetti, Liindler e polacche . Tutto il resto è sonata: ossia musica. In queste condizioni, non basta descrivere una forma: serve innanzitutto sapere in che modo l'idea della musica in generale si distinguesse da quella dell'epoca precedente, ma soprattutto è necessario comprender­ lo in termini specificamente musicali. Le possibilità dell'arte sono infi­ nite, ma non senza confini. Anche una rivoluzione stilistica è delimitata dalla natura del linguaggio in cui ha luogo e che poi trasformerà.

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PARTE SECONDA LO STILE C LAS SICO

Des Menschen Wesen und Wìrken ist Ton, ist Sprache. Musik ist gleichfalls Spra­ che, allgemeine; die erste des Menschen. Die vorhandenen Sprachen sind lndi­ vidualisirungen der Musik; nicht individualisirte Musik, sondern, die zur Mu­ sik sich verhalten, wie die einzelnen Organe zum organisch Ganzen. 1 JOHANN WILHELM RITTER, Frag;mente aus dem Nachlasse einesjungen Physikers, 1 8 1 0

l . « L'essenza e l'agire dell' uomo sono suono, linguaggio. La musica è ugualmente lin­ guaggio, linguaggio universale; il primo linguaggio umano. Le lingue esistenti sono in­ dividualizzazioni della musica, non musica individualizzata, bensì tali da rapportarsi alla

musica come i singoli organi all ' intero organico » Q.W. Ritter, Frammenti dall 'opera postu­ ma di un giovanefisico, Edizioni Theoria, Roma-Napoli, 1988, p. 259) [N. d. T.] .

l lA COERENZA DEL LINGUAGGIO MUSICALE

Lo stile classico appare inevitabile solo a posteriori; oggi possiamo ve­ deme la genesi come un fatto naturale : non una semplice filiazione del­ lo stile precedente (rispetto al quale sembra anzi un salto, una rottura rivoluzionaria) , bensì una tappa di maturazione del linguaggio musicale quale era esistito e si era sviluppato a partire dal quindicesimo secolo. All'epoca nulla poteva però apparire meno prevedibile; il periodo dal 1 750 al l 775 è caratterizzato da ogni sorta di eccentricità ed esperimenti azzardati che produssero opere così bizzarre che risultano difficili da accettare ancor oggi. Ma ogni esperimento riuscito, ogni tratto stilistico che sarebbe divenuto parte integrante della musica per i successivi cin­ quant'anni e più si distingue per l'adattabilità a uno stile drammatico fondato sulla tonalità. Un' ipotesi che può rivelarsi utile consiste nel considerare come forza germinale di un nuovo stile un singolo elemento, comparso in un momento di crisi di uno stile precedente e capace di trasformare nel corso degli anni tutti gli altri, di armonizzarli esteticamente finché il nuovo stile non acquisti unità e compiutezza; la volta a costo­ loni per esempio sarebbe l' elemento creatore o catalizzatore per la formazione dello stile gotico. Lo sviluppo storico di uno stile sembra così dipanarsi secondo uno schema perfettamente logico, ma in pra­ tica le cose non sono quasi mai tanto semplici. Per la maggior parte , i tratti caratterizzanti dello stile classico non comparvero uno alla volta in bell' ordine, bensì sporadicamente, talora accostati ad altri e talora isolati, con un 'irregolarità disperante per chi prediliga profili netti; eppure il risultato finale è pienamente coerente, dal momento che anche le irregolarità di un linguaggio, quando le si esamina con at­ tenzione, si dimostrano congrue. Isolare i singoli elementi, studiare come conducano gli uni agli altri implicandosi e completandosi vi85

cendevolmente è dunque un procedimento antistorico, ma certa­ mente funzionale. Il singolo elemento più chiaramente identificabile nella formazione dello stile protoclassico (se vogliamo riservare l'aggettivo classico a Haydn, Mozart e Beethoven) è la frase breve , periodica e articolata che nell' ambito dello stile barocco, fondato perlopiù su una continuità per­ vasiva e generalizzata, apparve inizialmente come un elemento di rottu­ ra. Il paradigma è ovviamente la frase di quattro battute, che però sul piano storico non costituisce il modello : semplicemente si rivela essere a posteriori quella usata con maggior frequenza. Nella musica di Domeni­ co Scarlatti, il marchio di fabbrica sono le frasi di due battute, che rag­ gruppandosi per coppie vanno talvolta a formare frasi di quattro. Il Quartetto op. 20, n. 4 di Haydn inizia con sette frasi di sei battute ciascu­ na del tutto indipendenti l'una dall'altra, ed è solo un esempio fra mille. Frasi di tre e di cinque battute abbondavano già all'inizio del secolo; ora della fine, erano divenute perfettamente concepibili anche vere e pro­ prie frasi di sette battute (non solamente cioè quelle che sarebbero di otto, l'ultima delle quali però scompare sovrapponendosi alla prima del­ la frase seguente) . Solo dopo il l 820 la frase di quattro battute cominciò a dominare inesorabilmente l'organizzazione ritmica, ma fino ad allora era la più diffusa per motivi squisitamente pratici: non era troppo breve né troppo lunga e, contrariamente a quelle di tre o cinque battute, era facilmente divisibile in due metà equilibrate e simmetriche. Nulla di ma­ gico, in sostanza, nel numero quattro : il punto chiave è la periodicità che rompe il flusso continuo. Ovviamente la rottura poteva avvenire solo sostituendo alla preceden­ te una nuova forma di continuità. La frase periodica è legata alla danza, che esige un'organizzazione musicale corrispondente a passi e raggrup­ pamenti. Nella musica strumentale italiana del primo Settecento, la pro­ gressione armonica rafforza i raggruppamenti di frasi : è curioso che pro­ prio il mezzo fondamentale dell'organizzazione ritmica tardobarocca contribuisca a rendere efficace l'elemento che porterà infine alla disso­ luzione del barocco stesso. La progressione armonica certo non scompa­ re; al contrario, rimane un elemento importante della musica fino ai giorni nostri, ma con lo stile classico cessa di essere la principale forza motrice (tomerà a esserlo in parte nell' Ottocento) : una fuga barocca si muove soprattutto per mezzo della progressione armonica, ma la sona­ ta classica dispone di altri mezzi di locomozione. E qui spesso la pro­ gressione serve piuttosto ad allentare la tensione. Dopo una serie di modulazioni sorprendenti, permette di fermarsi e si trova sovente im­ piegata a questo scopo sopra un pedale, soprattutto alla fine dello svi­ luppo : ogni movimento su larga scala è sospeso e la progressione non è 86

altro che una sorta di pulsazione. In questo modo, l'elemento motore fondamentale del barocco viene usato nel sistema classico, ma a un li­ vello inferiore . L'organizzazione articolata e periodica della frase portò con sé due cambiamenti fondamentali nella natura della musica del Settecento : un ' accresciuta, e addirittura irresistibile, sensibilità per la simmetria e una fattura ritmica estremamente variegata, in cui ritmi diversi non si trovano sovrapposti o in contrasto, bensì conseguono in modo logico e con agio l'uno dall 'altro. Il predominio della simmetria fu innanzitutto il frutto della periodicità della frase classica, che imponeva una pulsazio­ ne più ampia e più lenta. Se per comprendere un ritmo e identificare il battere servono, nella maggioranza dei casi, almeno due battute simili, diventava ora necessaria un'analoga simmetria della struttura fraseolo­ gica per cogliere quella pulsazione su più ampia scala. Anche la propen­ sione ad articolare accrebbe l' esigenza estetica di simmetria. Quando l 'elemento chiave era il flusso ritmico, come nel tardo barocco, bilancia­ re una semifrase con un'altra restava una questione secondaria: assai più importante era che la conclusione di ogni frase conducesse inesorabil­ mente , anche se in modo impercettibile, a quella successiva. Con la cre­ scente indipendenza della frase musicale, la questione dell'equilibrio si pose con sempre maggiore evidenza. Le battute iniziali del Concerto per pianoforte e orchestra K 271 di Mozart, forse il primo capolavoro incontestabile di uno stile classico depurato da ogni traccia di manieri­ smo, mostrano come si giunse a quell'equilibrio e mettono contempora­ neamente in luce la varietà e la reciproca integrazione delle strutture ritmiche : .....

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Le battute 1-3 e 4-6 presentano la forma estrema di equilibrio: l'identità assoluta. Sarebbe però un errore ritenere che queste due metà identiche abbiano anche identico significato: la ripetizione rende la frase più pres­ sante e incisiva (ascoltata una terza volta diventerebbe stucchevole) , chia­ ramente definita come elemento del brano che stiamo per ascoltare. È un inizio stupefacente e delizioso, che sorprende non solo per l'ingresso pre­ coce del solista, ma per l'arguzia con cui questi entra in risposta alla fanfa­ ra orchestrale. E qui l'equilibrio squisito della frase è essenziale: l'orche­ stra scende di un'ottava e risale di una quinta, subito dopo il pianoforte sale di un'ottava e scende di una quinta nel medesimo lasso di tempo. Qui non ci si chiede di percepire questa risposta come un'inversione; se in una fuga ci si aspetta che l'ascoltatore riconosca l'inversione del soggetto, nel nuovo stile è proprio l'ultima cosa che deve accadere e avrebbe, anzi, un effetto distruttivo: la simmetria è dissimulata, lieve, incantevole. La dissimulazione e ancor più l'incanto sono frutto della varietà ritmi­ ca: di fatto, l' orchestra procede alla breve, con due tempi lunghi per bat­ tuta, il piano invece suona chiaramente in quattro ( cr e c) . La solennità si contrappone all'impertinenza in un bilanciamento perfetto. Il tardo ba­ rocco non era meno capace di simili contrasti, ma raramente ricercava questo genere di equilibrio. La portata delle conquiste dello stile classico si mostra però, più che nelle prime sei battute, nelle successive, dove i due diversi tipi di pulsazione si fondono in maniera molto convincente : la frase di battuta 8 è una sintesi perfetta che combina splendidamente 88

tempo tagliato e tempo ordinario, mentre la melodia dei primi violini alle battute 7-1 1 unisce i motivi con cui iniziano rispettivamente piano­ forte e orchestra. Ed è ciò che rende magistrale la transizione da battuta 6 a battuta 7: l'insistenza generata dalla ripetizione della frase giustifica l'introduzione di un più rapido movimento in ottavi nell'accompagna­ mento di battuta 7; contemporaneamente i primi violini, riprendendo i si� ripetuti della prima battuta, ma ora a velocità dimezzata, rendono flu­ ido il cambiamento e legano assieme le due frasi. Con questa settima battuta l'animazione inizia dunque a crescere, ma la transizione è imper­ cettibile, null'altro che la naturale evoluzione di ciò che precede. Questo genere di transizione ritmica è la pietra di paragone dello stile classico; mai prima d' ora, nella storia della musica, era stato possibile passare da un tipo di pulsazione a un altro con tale naturalezza e grazia. Il tardo barocco preferiva una musica dalla fattura ritmica omogenea e introduceva diversi tipi di movimento ritmico soltanto in determinate con­ dizioni. C'erano due modi per produrre contrasto: sovrapporre due ritmi diversi, e allora il più veloce si imponeva inevitabilmente come quello fon­ damentale del pezzo; oppure accostare diversi ampi blocchi ritmici (come nella piaga delle mosche di Israel in Egypt) , e in questo caso quei due o tre ritmi venivano poi sovrapposti verso la fine del pezzo, generalmente nel punto di massima tensione, il che riconduce al primo caso. In en trambi, i ritmi rimangono essenzialmente distinti, la transizione non è prevista né cercata. Un mutamento repentino e violento della fattura ritmica è usato talvolta da Bach e altri compositori per ragioni espressive, come nel Prelu­ dio al corale per organo O Lamm Gottes e nell'ultimo movimento del Q]i,arto concerto brandeburghese; l'eccentricità ritmica qui è intenzionale, mirata a produrre nell'animo dell'ascoltatore una scossa, sia pur breve, profonda­ mente emozionante nel primo brano, drammatica eppure amabile nel se­ condo. Ma si tratta di eccezioni:1 il barocco prediligeva indubbiamente una fattura ritmica semplice e uniforme; una volta stabilito, il ritmo viene man­ tenuto ininterrottamente fino alla fine, o almeno fino alla pausa che prece­ de la cadenza finale (dove l'eventuale cambiamento non dà l'impressione che stia accadendo qualcosa di straordinario) . Se, per esempio, il soggetto di una fuga inizia con note lunghe e termina con note di valore inferiore ( raramente l'inverso) , sono queste ultime a fornire il ritmo fondamentale del pezzo: le note lunghe sono invariabilmente accompagnate da un anda­ mento più rapido nelle altre voci. Una volta avviato il pezzo, si ha frequen­ temente l'impressione di un moto perpetuo. l . L'eccezione in senso stretto, il solo esempio che abbia incontrato nel tardo barocco in cui venga ricercata una transizione, e non il semplice contrasto, fra due ritmi diversi, si trova nel Confiteor deJJa Messa in si minore. In quest'opera profonda, tuttavia, i mezzi impiegati sono pressoché an ticlassici e l'obiettivo non è la fusione dei ritmi diversi, ben­ sì un graduale mutamento di tempo.

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Anche nelle composizioni classiche si trova occasionalmente un moto perpetuo ed è interessan te soffermarsi sul diverso modo di usarlo rispetto all 'epoca precedente . In quello classico, l ' interesse ritmico principale risiede nelle irregolarità: in altre parole, la varietà ritmica non è meno forte che in ogni altra opera. Nel finale del Quar­ tetto op. 64, n . 5, L 'allodola di Haydn, la continuità ritmica non impe­ disce che le frasi siano chiaramente articolate e mai sovrapposte ; i violenti accenti in sincope della sezione intermedia in minore garan­ tiscono ulteriore varietà. Ancor più sorprendenti sono gli accenti sin­ copati del finale della Sonata in fa maggiore op. 54 di Beethoven che cadono alternativamente sulla seconda e sulla terza nota delle quarti­ ne di sedicesimi :

Ciò fornisce due forze contraddittorie che sfidano il peso del battere . Lo sforzando sulla tonica nel basso rafforza il secondo sedicesimo , il più debole della battuta, ed è perciò massimamente distruttivo per la conti­ nuità del flusso. Il moto perpetuo per un compositore classico non è dunque altro che una sfida ulteriore al suo desiderio di spezzettare la costruzione ritmica, e la tensione risultante accresce la potenza dram­ matica; il procedimento è riseiVato però tipicamente ai finali, dove la maggior stabilità ritmica garantita da un movimento ripetitivo può util­ mente fungere da alternativa a una melodia dall'articolazione squadra­ ta. Il moto perpetuo dell' ultimo tempo (più stabile del primo) dell'Ap­ passionata ha la sua quota di violenza ritmica e si arresta infine, appena prima del ritorno alla tonica, in un accesso di passione seguito da un momento di completo esaurimento. Proprio questa violenza ritmica finisce spesso col far dimenticare il flusso incessante del pezzo . Il moto perpetuo barocco, al contrario, non è drammatico né genera tensione; è semplicemente il procedimento ordinario. Vi sono tali e tanti esempi da rendere superflua una citazione : vi si presta qualunque pezzo in cui 90

il materiale tematico scorra in modo uniforme (quasi tutte le alleman­ de, per esempio) . Nel barocco c'è un 'analogia perfetta fra dinamica e ritmo, forse per­ ché l'una è parte dell ' altro quan to dell ' espressione melodica: come, dunque, possiamo trovare un andamento ritmico che rimane costante per tutto il pezzo oppure ritmi diversi che sono sovrapposti verticalmen­ te o ancora giustapposti orizzontalmente senza mediazioni, così una composizione barocca può essere suonata interamente a uno stesso li­ vello sonoro oppure presentare la sovrapposizione o la giustapposizione di due livelli dinamici senza alcun impiego (perlomeno strutturale) di crescendo e diminuendo. 1 Si è molto discusso di l' altro; la contrapposizione è fumviante solo qua­ lora la si riferisca all'elemento espressivo, anziché ai procedimenti tecni­ ci dei due stili. Possiamo definire non drammatica una composizione barocca in quanto la tensione rimane relativamente costante fino alla cadenza finale e solo di rado supera il livello iniziale. Sul piano dell'e­ spressione, non c'è pagina più drammatica del coro iniziale in mi mino­ re della Passione secondo Matteo di Bach, a cui basta tuttavia, per ottenere quest'effetto, trascendere la forma squisitamente decorativa della varia­ zione (preludio al corale) e il concerto grosso (forma che, come il ron­ dò barocco, procede generalmente per alternanza senza condurre a un punto culminante) . Questo coro si muove, come una sonata, dalla tona­ lità minore al relativo maggiore, ma la cadenza sul sol maggiore in effet­ ti riduce la tensione drammatica, che risalirà al livello iniziale solo con l'ingresso del terzo coro che intona il corale. Con i ritmi palpitanti, le armonie tormentate e l'effetto cumulativo dei tre cori, questa musica agisce come un'immagine e non come un' azione drammatica. Vicever­ sa, in una sonata classica in tonalità minore, Haydn, Mozart e Beethoven badano bene a compensare l' apparente calo di tensione prodotto dal passaggio al relativo maggiore e a garantire che, in quel punto, la tensio­ ne aumenti e non diminuisca. Il secondo tema dell'Appassionata di Beet­ hoven è contemporaneamente più lirico e più neiVoso del primo; si muove più velocemente e vi è una decisa ascesa nel basso. Il secondo te­ ma non era, beninteso, soggetto a regole nel tardo Settecento, a volte mancava del tutto; se però in Haydn, Mozart e Beethoven se ne trova uno, è solitamente più intenso del primo. Il carattere drammatico della sonata esige il contrasto e quando il primo tema è vigoroso, i successivi hanno in genere un carattere più dolce; in questi casi il movimento ar­ monico tende però a essere più rapido (come nell'op. 53 e nell'op. 57 di Beethoven) , più agitato (Mozart, K 3 1 0 ; Beethoven, op. 3 1 , n. 2 ) o più cromatico e appassionato (Beethoven, op. 1 09) . Haydn preferisce temi di par::_i intensità e si affida al movimento armonico per l'effetto dramma­ tico. E vero che in Schumann e in Chopin i secondi temi sono, rispetto ai primi, generalmente più distesi sotto ogni aspetto, ma la sonata era ormai una forma arcaica, fondamentalmente inadatta allo stile del tem­ po, con l' iniziale sezione alla tonica talmente instabile sotto l' aspetto emozionale che il calo di tensione risultava inevitabile. La stabilità e la chiarezza delle pagine iniziali e conclusive di una sona­ ta classica sono essenziali per la forma stessa e rendono possibile l' au­ mento di tensione delle sezioni centrali. Fra il movimento barocco verso la dominante e la modulazione classica non c'è solo una differenza di 1 00

grado : lo stile classico drammatizza quel movimento, ne fa, in altre paro­ le, contemporaneamente un evento e una forza vettoriale. Il modo più semplice per marcare, ossia per articolare, questo evento è fermarsi sulla dominante della dominante prima di proseguire ; versioni elaborate di questo procedimento si trovano ancora nelle opere tarde di Beethoven. Vi sono due modi per articolare ulteriormente l'evento, owero per metterlo in rilievo : introdurre un nuovo tema (come è prassi per Mozart e la maggior parte dei suoi contemporanei) oppure ripetere il tema ini­ ziale, preferibilmente sottolineando il nuovo significato che esso assume nella tonalità della dominante (il procedimento preferito da Haydn ) . Beethoven e Haydn spesso combinano i due metodi : dapprima ripro­ pongono il tema principale, modificato e arricchito in maniera da ren­ dere manifesto come l' abbandono della tonica costituisca una nuova interpretazione, e successivamente introducono un nuovo tema. Che compaia o meno una nuova melodia è secondario rispetto al grado di drammatizzazione della nuova tonalità e al modo in cui è garantita una continuità per controbilanciare l'articolazione della struttura. Questo momento di drammatizzazione e la sua collocazione nel bra­ no segnano una differenza cruciale rispetto allo stile barocco. Una mo­ dulazione è presente in tutte le forme di danza del primo Settecento; nel tardo barocco però una pausa che segnala l' approdo alla dominante si incontra ben di rado a metà della prima parte e arriva in genere verso la fine; la musica scorre gradualmente verso la dominante e risolve alla fine della sezione. In una sonata, invece, un momento più o meno dram­ matico di consapevolezza della nuova tonalità non può farsi attendere, sia esso una pausa, una cadenza decisa, un' esplosione, un nuovo tema o qualsiasi altro mezzo scelga il compositore. La presenza di questo mo­ mento di drammatizzazione è ben più fondamentale di qualsivoglia pro­ cedimento compositivo. Lo stile classico aveva, dunque, bisogno di mezzi più potenti che non il barocco per mettere in risalto le nuove tonalità e a questo scopo fece uso di una quantità di « riempitivi >> senza uguali fino ad allora nella sto­ ria della musica, se non nei brani di carattere improvvisatorio. Intendo per « riempitivo » un materiale puramente convenzionale, senza legami evidenti con il contenuto del pezzo e che pare (e in certi casi è) intera­ mente trasferibile da un brano a un altro. Tutti gli stili musicali, è ovvio, poggiano su materiali convenzionali, soprattutto per le cadenze che quasi sempre seguono formule tradizionali. Lo stile classico intensificò ed estese però ulteriormente la cadenza per rafforzare la modulazione. Il riempitivo usato dal compositore barocco era soprattutto verticale (il basso continuo) , quello classico invece orizzontale : lunghe frasi di pas­ saggio puramente convenzionali. A parte le figure di accompagnamen­ to e le omamentazioni delle cadenze, i materiali convenzionali basilari erano scale e arpeggi : ne troviamo nelle opere classiche un 'abbondanza 101

che un compositore barocco si sarebbe permesso solo in una toccata o in una forma che mirasse a suonare improvvisata anziché interamente scritta. Dei mezzi impiegati nel primo Settecento per trasmettere un 'im­ pressione di libertà Mozart si serviva per organizzare la forma, impiegan­ do intere frasi di scale e arpeggi come Handel usava le progressioni, os­ sia per connettere una all'altra le diverse sezioni di un brano. Se nelle migliori opere barocche la progressione è generalmente in tessuta e rive­ stita di materiale tematico, in Haydn e Mozart invece, anche nei capola­ vori, il « riempitivo >> è lasciato nudo ed è chiaro che è stato in gran parte prefabbricato. L'uso di ampie frasi convenzionali dispiegate per blocchi era favorito anche dall' aumento del virtuosismo strumentale, sebbene resti dubbio se sia stato l' esecutore a ispirare il compositore o viceversa: probabil­ mente entrambe le cose. In ogni caso il passaggio seguente , tratto da una delle migliori opere di Mozart, la Sonata per pianoforte K 333, è as­ solutamente convenzionale:

Si potrebbe trasferirlo in qualsiasi altro brano in tempo ordinario che richieda una cadenza in fa maggiore. Il passaggio è brillante, tratto chia­ ramente dallo stile del concerto. Costituisce un punto culminante facen­ do risuonare il fa acuto, la nota estrema del pianoforte mozartiano. Ma non è questa la sua unica raison d 'etre; si trova lì perché Mozart ha biso­ gno di quattro battute di cadenza enfatica. Un materiale meno conven­ zionale, più tematico, sarebbe fuori luogo; l' interesse tematico distrar­ rebbe dall'essenziale, che è precisamente quel che sembra: quattro bat­ tute di cadenza. Siamo in uno stile nuovo in cui la questione delle pro­ porzioni è di interesse primario. Si comincia con brevi passaggi conven­ zionali, come questo della K 333, e si arriverà alla cadenza finale incredi­ bilmente estesa della Quinta sinfonia di Beethoven, dove sono necessa­ rie cinquantaquattro battute di puro do maggiore per ancorare l 'estre­ ma tensione di questa opera immensa. Ma già in Mozart la lunghezza di questo materiale convenzionale è a volte sorprendente . Va sottolineato che questo passaggio della Sonata mozartiana non è per nulla arbitrario e anzi consegue in maniera perfettamente logica dalla frase che precede. Ciò detto, l'uso per grandi blocchi di un mate­ riale puramente convenzionale va spesso ben oltre nel nuovo stile . Il primo movimento della Sinfonia in do maggiore K 338 di Mozart non 102

contiene alcun elemento melodico nelle prime quaranta battute . Non vi sono altro che fanfare in ritmo di marcia e un 'ossatura armonica che conduce infine alla dominante; solo a questo punto Mozart introduce finalmente una melodia. Eppure si tratta di una pagina mozartiana fra le più brillantemente concepite, che senz' altro definisce la tonalità come farebbe l'inizio di un brano barocco, ma al tempo stesso determina un 'a­ rea di grande stabilità : l'efficacia di questa introduzione deriva in gran parte proprio dalla rinuncia a ogni espressività tematica. (Ciò spiega anche perché gran parte del materiale usato in questa pagina d'apertura si presenti alla fine e non all'inizio della ripresa: è vero che lo stile classi­ co richiede una risoluzione a circa metà della seconda parte del movi­ mento, ma una risoluzione di quest'ampiezza determinerebbe un forte calo di intensità nel resto della ripresa) . Questo senso squisitamente classico (impossibile prima e ben presto perduto) di vaste aree di stabilità tonale sembra generare l'unica regola fissa della ripresa di sonata : il materiale originariamente esposto alla dominante deve ripresentarsi in tonica, sostanzialmente intero ancor­ ché ordinato in maniera diversa; solo il materiale esposto originaria­ mente alla tonica può essere omesso. Non si tratta, è ovvio, di una regola in senso stretto, quanto di una specifica sensibilità per le relazioni tonali. (Fa specie che Chopin sia stato censurato da alcuni critici accademici suoi contemporanei e giudicato eretico ancora nel Novecento per aver in gran parte omesso la ripresa del primo tema nelle sue sonate, un pro­ cedimento del tutto ovvio nel Settecento) . Il materiale tematico esposto al di fuori della tonica generava evidentemente, nel diciottesimo secolo, una sensazione di instabilità che era indispensabile risolvere. Al ripre­ sentarsi della tonica nella seconda parte del pezzo, il materiale origina­ riamente già esposto in quella tonalità poteva essere, e spesso era, drasti­ camente ridotto; ma il resto dell'esposizione non poteva non trovare una risoluzione alla tonica. Con l'instabilità tonale determinatasi dopo la morte di Beethoven la sensibilità armonica si è fatta più grossolana e per noi oggi è forse impossibile cogliere quanto acuta fosse in un ascol­ tatore dell'epoca. Val la pena di esaminare questo aspetto in dettaglio, sia pure breve­ mente. Cominciando con un'eccezione che conferma la regola: c'è un quartetto di Haydn, l'op. 64, n. 3 in si bemo!le, in cui uno dei temi del secondo gruppo non compare nella ripresa. E uno strano quartetto, con un inizio eccentrico e comico. La prima melodia che troviamo nella to­ nalità della dominante, fa maggiore, è an çhe la prima melodia del quar­ tetto a suonare regolare (battute 33-42) . E una frase di quattro battute, esposta prima in maggiore e immediatamente dopo ripetuta in minore, e il suo ruolo nell'esposizione è chiaramente di affermare la dominante. (Anche altri temi svolgono la stessa funzione : quello iniziale è riesposto nella nuova tonalità ed è poi introdotto ancora un altro tema, pure que103

sto in fa maggiore ) . La frase ripetuta di quattro battute non compare, come dicevo, nella ripresa; è presente però per intero e alla tonica nello sviluppo, dove risuona per due volte in minore. Con ciò, l'esigenza di riesposizione del tema è pienamente soddisfatta, tanto più che in parte la frase si era presentata già originariamente in minore; inoltre si evita di introdurre nello sviluppo la tonica maggiore. Si trovano dunque conci­ liate così tutte le diverse esigenze classiche di equilibrio e risoluzione tonaie. Una volta raggiunta la ripresa, l'introduzione della tonica minore comporta inevitabilmente una diminuzione di stabilità, il che spiega la riluttanza di Haydn a usarla. 1 In un altro quartetto, l' op. 50, n. 6 in re maggiore, nell'esposizione compaiono quattro battute ( 26-29) alla do­ minante minore; anche queste sono omesse nella ripresa, ma si ripre­ sentano alla tonica minore nello sviluppo. In questo modo Haydn riesce a schivare una situazione spinosa: la tonica minore può essere impiegata verso la fine di una ripresa in maggiore soltanto se il suo effetto è effi­ cacemente controbilanciato. Il primo movimento della Waldstein di Beet­ hoven, per esempio, contiene una frase che nell'esposizione è udita due volte in minore e che torna due volte anche nella ripresa, ma la seconda in maggiore (battute 235-43) . Il difetto della tonica maggiore nello sviluppo è evidente : indebolisce l'effetto drammatico del suo successivo ritorno. Salvo che sia breve e transitoria, richiede dunque anch' essa un contrappeso, che in genere consiste nel farle seguire la tonica minore. L'uso più comune della toni­ ca maggiore nello sviluppo è la cosiddetta falsa ripresa, giocata su un ef­ fetto di in congruenza che però funziona solo per poche battute; quando accade che duri più a lungo, Haydn le affida una parte del lavoro che spetterebbe altrimenti alla ripresa vera e propria. Nell' esposizione del Quartetto op. 77, n. l in sol maggiore, il soggetto iniziale è ripetuto alla dominante col tema affi dato al violoncello; torna nella stessa forma, ma in tonica, nella falsa ripresa e non dovrà perciò ripresentarsi oltre. Lo stesso brano offre un altro esempio di tema, in questo caso del « secondo gruppo » , assente nella ripresa e anche questo compare in tonica (mag­ giore) nello sviluppo, ma solo verso la fine perché serve per riaffe rmare la tonica e reintrodurre il tema principale. Sono questi i rari casi nei quartetti di Haydn di un materiale esposto alla dominante e omesso nella ripresa; abbiamo visto come in ciascuno di essi una forma o un' altra di riesposizione alla tonica sia comunque prevista. Non è una regola della forma, ma dell'estetica classica, parte della sensibilità dell'epoca, o di quella di Haydn. La quantità di materia­ le esposto alla tonica e omesso nella ripresa varia secondo le scelte del l. Anche nella Sinfonia n. 85 ( La Reine) , una sezione alla dominante minore dell'esposi­ zione è omessa nella ripresa, e si potrebbero citare altri esempi.

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compositore . In una forma precedente della sonata, abbastanza comu­ ne intorno al 1 750, la ripresa iniziava solitamente con il secondo tema (forse Chopin utilizzò questa forma perché essa si era conservata a Varsa­ via, più provinciale rispetto a Vienna e Parigi?) . Haydn, Mozart e Beet­ hoven tendevano ad accorciare nella ripresa il materiale della tonica oppure a sacrificarne una parte intensificando il resto. Va sottolineato che i quartetti di Haydn or ora citati sono pressoché i soli con riprese• sensibilmente più brevi dei rispettivi sviluppi. Nella maggior parte degli altri (e sono più di ottanta) , le due sezioni sono grosso modo equivalenti per estensione oppure la ripresa è più lunga, a volte considerevolmente, dello sviluppo. Negli esempi fin qui esaminati è chiaro invece che lo sviluppo si è assunto, anche sul piano tonate, parte dei compiti della ripresa. In altre parole, abbiamo a che fare qui con casi eccezionali in cui non solo un materiale tematico non trova una risolu­ zione successiva al ritorno definitivo della tonica, ma l'area finale di sta­ bilità è più breve rispetto all'area di tensione drammatica chiamata svi­ luppo con cui inizia la seconda parte di una sonata. Questa solida area di stabilità conclusiva è una componente essenziale dello stile classico, in­ dispensabile quanto la tensione drammatica precedente; e altrettanto cruciali sono le proporzioni, determinate dalla natura articolata della forma e necessarie per l' equilibrio e la simmetria da cui dipende l'e­ spressione. La potenza emozionale dello stile classico è chiaramente inscindibile da questo contrasto fra tensione e stabilità. Su questo aspetto si produsse un mutamento radicale attorno alla metà del Settecento. In un brano barocco, in genere, un livello di tensione relativamente basso è stabilito all'inizio e poi mantenuto, sia pure con qualche fluttuazione, per risol­ versi solo verso la fine : la musica funziona per accumulazione, di rado si trovano diffe renze marcate di tensione drammatica fra un momento e un altro. Tuttavia la sezione centrale di un'aria con da capo, a differenza della sezione centrale di un movimento di sonata, è in generale meno brillante e meno intensa (ancorché talora più espressiva) delle due parti estreme : spesso è in una tonalità più distesa (il relativo minore, per esempio) e strumentata per un organico più ristretto, a volte il solo con­ tinuo. Questo calo di tensione, questa perdita di peso verso il centro so­ no caratteristici delle opere tardobarocche composte di più sezioni, co­ me la Ciaccona di Bach per violino solo o la grande Fuga in la minore per organo in cui nella parte centrale scompare il pedale : quando poi questo si ripresenta alla tonica per accompagnare il ritorno del soggetto l . Intendo qui con « ripresa >> tutto ciò che segue il definitivo ritorno della tonica, inclu­ so, quando c'è, ciò che solitamente è chiamato « coda >>.

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principale non produce un senso di risoluzione come accade in un 'ope­ ra classica, bensì di una fresca iniezione di energia. Il culmine espressivo di un brano barocco coincide con l'intensificazione del movimento ver­ so la cadenza finale : lo stretto ne è un esempio caratteristico. In un pezzo classico il culmine espressivo è invece più vicino al centro, ed è per questo che le proporzioni dell'area di stabilità conclusiva sono così importanti. Nella dimensione del tempo le proporzioni sono ben diverse che nello spazio : non si può percorrere un' esecuzione avanti e indietro a piacimento e per operare confronti possiamo con tare solo sulla memoria, emotiva e sensoriale oltre che intellettuale. L'equilibrio in musica non ha a che fare con l' aritmetica, entrano in gioco fattori ben più ampi e complessi di un semplice conteggio delle battute. Come ab­ biamo visto, l' effetto di una frase musicale suonata due volte non è para­ gonabile a quello della ripetizione di un motivo architettonico su una facciata; ogni esecuzione di quella frase ha un peso differente. Inoltre, la risoluzione della tensione armonica e la simmetria del materiale (e della frase) non erano i soli fattori che incidessero sulle proporzioni classiche: la varietà degli elementi ritmici impiegati su larga scala entro uno sche­ ma drammatico rendeva necessaria anche la risoluzione della tensione ritmica, risoluzione che doveva però combinarsi con l'esigenza di man­ tenere il brano in movimento fino alla fine. Con tante forze che interagi­ scono, ciascuna composizione classica trova proporzioni proprie e ogni volta uno specifico equilibrio fra dramma e simmetria. C'era un solo re­ quisito irrinunciabile : una sezione finale alla tonica, lunga, decisa e ine­ quivocabilmente risolutiva, drammatica se necessario, ma che riducesse ch�aramente tutte le tensioni armoniche del pezzo. E spesso esasperante constatare quanto i termini tecnici più comuni siano inadeguati ai singoli casi, e « ripresa » , in questo senso, è esempla­ re. Se con esso intendiamo una ripetizione letterale dell'esposizione con il semplice spostamento alla tonica del secondo gruppo tematico, allora la nozione stessa di ripresa va rigettata come non classica: quel ti­ po di ripresa è l'eccezione, e non la regola, nelle opere della maturità di Haydn, Mozart e Beethoven. Dopo il ritorno alla tonica, l' esposizione è sempre reinterpretata. Anche Mozart, che presenta esposizioni polite­ matiche con lunghe melodie e che potrebbe perciò permettersi �na ri­ presa più letterale, reinterpreta spesso in maniera considerevole. E faci­ le trovare nelle sue opere, dopo il ritorno del primo tema, una breve se­ zione di sviluppo che non può essere liquidata semplicemente come so­ stitutiva della modulazione alla dominante dell'esposizione. In Haydn, il monotematismo e l'uso di temi più brevi conduce a reinterpretazioni più consistenti : l' intera esposizione è generalmente costruita come un unico, vasto movimento verso la dominante e ovviamente una ripetizio­ , ne letterale alla tonica non avrebbe senso. E comprensibile che Tovey, irritato dall'uso accademico del termine « ripresa » , abbia scritto che (( la 1 06

nozione stessa si sgretola completamente » nell' ultimo Haydn, il quale usava « non riprese, bensì code pienamen te sviluppate » , Il che significa peraltro semplicemente sostituire un termine inadeguato a un altro nel­ la speranza di correggere un abuso : se si vuole che corrisponda a un 'e­ sperienza d' ascolto, il termine « coda » non può essere assunto per indi­ care tutto ciò che in Haydn compare dopo il ritorno alla tonica. Benché la sua musica sia troppo drammatica per consentire una semplice ripeti­ zione letterale trasposta alla tonica, Haydn non trascura mai la funzione di « risoluzione » della « ripresa '' · Non mi riferisco solo a una decisa riaf­ fermazione e a una conclusiva riasserzione della tonica, un compito che effettivamente può svolgere una « coda ,, (accade, per esempio, nella Ballata in sol minore di Chopin ) ; intendo invece propriamente la > di Haydn un corrispettivo, magari riscritto , reinterpretato, riproposto in un diverso ordine. Haydn aveva compreso che vi sono forme di simmetria più complesse della semplice ripetizione. > ) e consistenti aggiunte negli sviluppi. Le melodie stesse si ripresentano meno modificate che nei quartetti, e non perché Haydn sia meno attento a ricercare la varietà o suscitare l'interesse in composizioni più pubbliche, il che sarebbe ben sorprendente. Il fatto è invece che le sinfonie, scritte per un pubblico più vasto, sono composte a tratti più grossi, mentre le esposizioni dei quartetti implicano un livello di com­ plessità delle tensioni armoniche che non può essere semplicemente tra­ sferito alla tonica al termine del movimento. I temi delle sinfonie, meno fluidi di quelli dei quartetti, non richiedono né possono sostenere tante modifiche; è piuttosto la struttura stessa delle riprese sinfoniche a differi­ re da quella delle esposizioni, e in tratti più spesso drammatici che orna­ mentali. Ma anche questi mutan:_t enti drammatici sono in genere implici­ ti nello sviluppo che precede. E la natura di questi mutamenti che ha permesso a Tovey di affermare che vedendo per la prima volta una pagina sconosciuta di una composizione di Haydn, Mozart o Beethoven si può dire se appartenga alla parte iniziale, centrale o finale di un movimento, cosa impossibile con un frammento di Bach o di Handel. Lo stile classico è uno stile che reinterpreta. Fra le sue glorie può van­ tare la capacità di conferire un significato del tutto nuovo a una frase semplicemente inserendola in un nuovo e diverso contesto. Non è ne­ cessario riscrivere, armonizzare diversamente o trasporre : la forma più semplice, arguta e superficiale di reinterpretazione consiste in una frase iniziale che diviene frase finale, come accade (un esempio fra moltissi­ mi) nel Quartetto op. 33, n. 5 di Haydn :

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Un caso più raffinato di reinterpretazione ce lo offre una frase della So­ nata per pianoforte K 283 di Mozart: 1 09

che nell' esposizione è una modulazione alla dominante e nella ripresa un ritorno alla tonica. Nell'esposizione, è preceduta da

dove la forte cadenza alla tonica fa sentire ciò che segue come un allon­ tanamento dalla tonica stessa. La seconda volta, nella ripresa, è precedu­ ta invece da 80

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e qui l'esitante cadenza femminile e la forte colorazione di sottodomi­ nante implicano un ritorno alla tonica. Con questa sensibilità per il colo­ re tonale, siamo giunti a toccare una delle più significative differenze fra lo stile dei tre grandi maestri classici e le generazioni precedenti. Mozart è il primo compositore a usare sistematicamente la sottodomi­ nante con piena consapevolezza del suo effetto di allentamento della ten­ sione armonica su larga scala; la introduce in genere come procedimen­ to regolare della ripresa subito dopo la riaffermazione della tonica. La 1 10

prassi di Haydn è simile, ma meno sistematica; la sensibilità di Mozart per le aree tonali su larga scala rimarrà ineguagliata fino a Beethoven.1 Né in Johann Christian Bach né in altri compositori a cui Mozart si ispira trovia­ mo traccia di questo senso dell'equilibrio nei rapporti fra tonalità princi­ pale e tonalità secondarie di un brano: nella maggior parte dei casi, non si va oltre una sensibilità per gli effetti della relazione tonica-dominante. C.P.E. Bach si muove certamente con un orizzonte armonico più ampio, ma nella pratica non bada alla coerenza: ciò che gli sta a cuore è l'effetto momentaneo, come Haydn si compiace di piccoli choc armonici. Haydn sapeva però saldare gli effetti nel tutto e nella sua musica le armonie più disparate sono non semplicemente riconciliate, bensì anche chiarite da ciò che segue e preparate da ciò precede. (Il primo compositore con un orecchio attento alle relazioni armoniche più complesse è probabilmen­ te Domenico Scarlatti, che si muove da un' area tonaie a un ' altra con logi­ ca impeccabile; tuttavia il suo stile non è ancora classico perché queste diverse aree si succedono senza fondersi o interagire) . La sensibilità classica per le tonalità secondarie e per le relazioni di queste con la tonica produce a volte effetti poetici strabilianti. Il tema iniziale dell'Eroica è essenzialmente un richiamo del corno, ma non è mai affidato allo strumento solo, fino alla ripresa: a quel punto, l' orche­ stra modula dalla tonica (mi bemolle) alla sopratonica (fa) e il corno entra dolce con il tema, che è poi ripreso dal flauto in re bemolle maggio­ re. Gran parte della dolcezza e delicatezza e l' atmosfera sospesa di que­ sto passaggio sono dovute alle nuove tonalità non meno che all ' orche­ strazione : il re bemolle maggiore, la tonalità della sensibile abbassata, ha l 'effetto di una sottodominante remota ed esotica che Beethoven, am­ pliando la prassi mozartiana, usa esattamente là dove Mozart usa la sot­ todominante. Più notevole è che anche il fa maggiore sia percepito co­ me sottodominante : non solo conduce poi al re bemolle maggiore, ma è a sua volta introdotto da un re�, un'inspiegabile dissonanza del primo tema presente fin dall'inizio del movimento. Cambia l' ordine di gran­ dezza, ma la prassi beethoveniana non è diversa nella sostanza da quella di Mozart, il quale era capace di effetti non meno complessi. La potenza emozionale deriva dal fatto che ascoltiamo quelle frasi appena dopo la riaffermazione della tonica al termine di una sezione di sviluppo di inu­ sitata lunghezza; in quanto sostitutive della sottodominante, la soprato­ nica e la sensibile abbassata trasmettono una sensazione di tranquillità, ma trattandosi pur sempre di tonalità lontane che compaiono in un punto così cruciale immettono tensione al cuore della sospensione. l . Beethoven introduce spesso la sottodominante all'inizio dello sviluppo (Sonata Wald­ stein, Quartetto op. 1 8 , n. l ) ; i suoi sviluppi infatti hanno dimensioni assai più considere­ voli di quelli di Haydn e Mozart e un momentaneo allentamento è necessario per poter poi costruire la progressione verso il punto di massima tensione.

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Un'emozione così complessa e quasi contraddittoria è un'altra con­ quista dello stile : non è la tipologia delle emozioni che cambia rispetto al primo Settecento (i sentimenti di Bach non erano certo meno com­ plessi di quelli di Beethoven ) , bensì il linguaggio espressivo. Il carattere affettivo di una composizione barocca è assai meno complesso; l' emo­ zione è a volte profondamente toccante e può espandersi come di rado accade nello stile classico, ma è generalmente più diretta e sempre più uniforme. Senza la complessità emotiva del linguaggio classico, opere come quelle di Mozart non sarebbero state create. Persino l 'ironia di­ venne possibile in musica, come E.T.A. Hoffmann fece notare a proposi­ to di Cosìjan tutte. Questa complessità dipende in larga misura dalle rela­ zioni armoniche classiche. I compositori protoclassici - rococò, manieri­ sti o preclassici - caricarono di tensione il rapporto fra tonica e domi­ nante, ma perlopiù gli effetti armonici su larga scala si limitavano a quel­ lo. Furono Haydn e Mozart che ereditarono questa tensione, ne com­ presero le implicazioni in rapporto all'intero spazio armonico, il circolo delle quinte, e crearono un nuovo linguaggio delle emozioni. La nuova complessità emotiva rendeva necessario l'uso di temi contra­ stanti nonché di temi che contenessero già un contrasto al proprio inter­ no. Al primo caso si è data spesso un 'enfasi eccessiva: in uno stile essen­ zialmente drammatico, in cui i contorni delle diverse sezioni di una com­ posizione sono marcati quanto seiVe perché ne siano percepibili le pro­ porzioni, è più che naturale incontrare melodie di diverso carattere; ma il contrasto fra i temi o quello fra le diverse sezioni di un movimento non sono obiettivi in sé. La fusione di effetto drammatico e acuta sensibilità per la simmetria e le proporzioni rende necessario un senso chiaro del grado di tensione e di stabilità di ciascuna parte della composizione e un' articolazione netta di quelle parti, ma ciò si può ottenere, come spes­ so accade, senza ricorrere ad alcun contrasto di carattere fra i temi o fra le diverse sezioni di un movimento. Il primo tempo della Sinfonia Milita­ re di Haydn presenta due temi di carattere molto simile, entrambi festosi ed entrambi piuttosto squadrati ritmicamente (il secondo, che chiude e completa la forma, ha solo uno stile più popolare) . Neppure le sezioni alla tonica e alla dominante dell'esposizione sono molto diverse come carattere, dato che la seconda comincia con il primo tema suonato esat­ tamente come all'inizio (il che çonsente a Haydn di omettere nella ripre­ sa l'intera sezione alla tonica) . E l' orchestrazione, e non il contrasto fra i temi, a definire l'articolazione delle diverse sezioni : ciascuna inizia infatti con i soli fiati, prosegue con i soli archi (quella alla dominante, con scam­ bi antifonali fra archi e fiati) , per lasciare infine spazio all'orchestra piena con i timpani - uno schema di notevole chiarezza. (Nella ripresa lo sche­ ma è riorganizzato per conseguire al tempo stesso un effetto di sorpresa 112

e un'accresciuta stabilità: dopo l' iniziale sezione ai legni, arriva immedia­ tamente il tema a piena orchestra e solo successivamente l'episodio anti­ fonale fra archi e fiati) . Il contrasto tematico può ovviamente contribuire ad articolare la struttura, ma l'elemento essenziale è la chiarezza del profilo, non il contrasto. Quanto all'effetto drammatico dei temi contra­ stanti, è indubbiamente eguagliato, se non superato, da quello prodotto da uno stesso tema suonato in modi diversi ; il compositore classico ci tocca ben più con la trasformazione dei temi che con il contrasto fra essi. Possiamo dunque liquidare come mera curiosità l'osservazione che pri­ mo e secondo tema in una sonata tendano a essere rispettivamente ma­ schile e femminile. Già le definizioni « primo » e > inizio non è privo di conseguenze e contribuisce forse anche a rendere più plausibile il movimento lento in sol minore; analogamen­ te , nella Sonata in mi bemolle maggiore, Haydn prepara il movimento lento in mi maggiore con l ' insistenza su quella tonalità lontana già durante il primo tempo. La sottigliezza di C.P.E. Bach è soprattutto in quell 'inizio che suggerisce il re maggiore, ma che cela nelle prime tre note la triade di si minore, la tonica effettiva. Prendendo Haydn o an­ che J.S. Bach come termini di paragone, questa Sonata non appare pie­ namente coerente, ma sarebbe un peccato non valutaria in base ai cri­ teri che essa stessa determina. Qualche riseiVa tuttavia rimane perché lo stile che corrisponde a quei criteri è un po' esile persino nei momenti più drammatici, e anche dove ottiene la massima brillantezza agisce su scala ridotta. In C.P.E. Bach manca respiro alla grandiosità e arguzia al­ la passione. Due anni dopo la pubblicazione di questa sonata, Haydn scrisse i Quartetti op. 33 e anche il primo di essi sembra iniziare in re maggiore per virare subitamente al si minore .1 La logica è però più rigorosa e la potenza drammatica assai più convincente :

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Il la�, l'unica nota del re maggiore che contrasti con il si minore, appare del tutto innocentemente a battuta 2 nella melodia; ma l'accompagna­ mento, che già aveva introdotto il la�, controbatte con un la# sul quarto tempo della stessa battuta. E su questo elemento Haydn fa perno per l'affermazione del si minore, con un' identità perfetta fra dettaglio espressivo e struttura armonica fondamentale : alle battute 3, 4, 7 e 8, la e la� suonano ripetutamente assieme, parallelamente a un crescendo e alla linea melodica ascendente del primo violino. Benché il si minore sia già chiaramente affermato, la risoluzione vera e propria è differita fino all'undicesima battuta, dove entra un tema nuovo, ancorché imparenta­ to col precedente. Rispetto a C.P.E. Bach, qui l'effetto è contemporane­ amente più ampio e più conciso, più logico e tuttavia non meno curioso; c'è un solo elemento che permette di affermare che il nuovo « classici­ smo ,, di Haydn addolcisca le stranezze e imbrigli l'eccentricità: il fatto che per le prime due battute sia evitata la forma fondamentale dell'ac­ cordo di re maggiore. Il passaggio al si minore non è dunque, come in Bach, una modulazione, bensì una reinterpretazione, una nuova chia­ rezza. In compenso, quando muove al relativo maggiore in funzione di dominante, Haydn non ha più bisogno di modulare, gli basta riarmoniz­ zare l'inizio, mettendo ora, per la prima volta, l'accordo di re maggiore allo stato fondamentale :

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e con ciò sono spazzate via tutte le transizioni non indispensabili. L'inizio che abbiamo or ora esaminato è un manifesto. La pretesa·di Haydn che i Quartetti op. 33 fossero scritti « in uno stile particolare e completamente nuovo >> è stata talvolta liquidata come trovata pubblici­ taria, ma la precedente serie di Quartetti op. 20, composta quasi dieci anni prima, aveva ampiamente circolato ed era ben nota: Haydn deve 1 53

aver pensato che la sua dichiarazione potesse ben suonare plausibile. Di fatto, questa pagina rappresenta una rivoluzione stilistica. Il rapporto fra la parte principale e quelle di accompagnamento si trasforma, letteral­ mente, sotto i nostri occhi. A battuta 3, la melodia è affi data al violoncel­ lo e gli altri strumenti si incaricano di una semplice figura di accompa­ gnamento. A battuta 4 questa è diventata la parte principale, conduce la melodia. Non si può indicare con precisione a che punto delle battute 3 e 4 il violino debba essere considerato parte principale né dove il violon­ cello slitti in posizione subordinata: il passaggio non può essere suddivi­ so. L'unico aspetto incontrovertibile è che il violino inizia a battuta 3 co l? e accompagnamento e termina a battuta 4 come melodia. E questa la vera invenzione del contrappunto classico. Nulla a che ve­ dere con un recupero della tecnica barocca, il cui ideale, ovviamente mai realizzato, era la perfetta uguaglianza e indipendenza delle parti. (Gli ammiratori diJ.S. Bach si gloriavano del fatto che egli potesse pub­ blicare in parti tura opere per tastiera, come il Ricercare a sei voci dell ' Of ferta musicale) . Il contrappunto classico non cerca neppure un'illusione di uguaglianza. L'inizio di questo quartetto per esempio rende ben chia­ ra la distinzione fra melodia e accompagnamento; poi li trasforma l'uno nell'altro. Ogni rivoluzione ha senza dubbio dei precedenti e non sarebbe stra­ no se se ne trovassero anche in questo caso. Io però, a tutt'oggi, non co­ nosco alcun esempio anteriore a questo di una figura di accompagna­ mento che si trasformi, impercettibilmente e senza discontinuità, nella parte melodica principale.1 E se pure se ne trovasse uno, i Quartetti dell'op. 33 rimarrebbero pur sempre il primo caso di un' applicazione così coerente e su scala così ampia di questo principio (l' accompagna­ mento concepito contemporaneamente come tema e come parte subor­ dinata) . Il tessuto musicale del quartetto ne risulta enormemente arric­ chito, senza che sia disturbata la relazione gerarchica tipicamente sette­ centesca fra melodia e accompagnamento. Ne discese naturalmente che gli elementi tematici di Haydn divennero spesso molto brevi, dovendo servire anche come accompagnamento, ma in compenso acquistarono una potenza considerevole; basta vedere quello che accade in questo stesso Quartetto in si minore quando le battute 5 e 6 si ripresentano nel­ la ripresa: l. Nel Quartetto in do maggiore op. 20, n. 2 di Haydn, una figura di accompagnamento

del violoncello delle battute 1 6 e 17 passa alla melodia a battuta 19, ma ciò è reso possibi­ le unicamente dal trasferimento della figura al violino. Vi sono, ovviamente, molti esem­ pi precedenti, generalmente ingegnosi, di figure di accompagnamento usate melodica­ mente, ma in questi casi non hanno mai, anche altrove, una vera funzione di accompa­ gnamento; e nella musica barocca spesso si trovano accompagnamenti derivati da temi, ma manca loro quella posizione subordinata caratteristica dello stile classico.

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dove il motivo del violoncello a battuta 4 funge solo da transizione e non è usato che in questo punto. Dieci anni dopo Haydn è più economico: la fine di ciascuna frase implica ciò che segue, lo genera. Temi nuovi (o nuove versioni dei vecchi) entrano senza transizioni: non hanno biso­ gno di essere introdotti, sono già impliciti. In parte, ciò è reso possibile da una più sistematica articolazione delle frasi. Per coloro che amano l'impetuosa irregolarità fraseologica del primo Haydn, questa è senz' al­ tro una perdita. Compensata però da un guadagno: il legame più stretto che a partire dall'op. 33 si instaura fra struttura complessiva e minuti dettagli accresce la portata della minima irregolarità, che produce ora conseguenze più importanti e meno localizzate. Gli elementi più trascu­ rabili assumono una potenza inaspettata, come accade per il significato espressivo attribuito alla distinzione fra staccato e legato a battuta 1 2 del già citato op. 33, n. l . Questa nuova potenza deriva in parte dalle relazio­ ni tematiche, ma l ' aspetto più importante e più originale è il senso di movimento che proviene dall' accresciuta concisione e regolarità delle frasi.

Da dove proveniva questa nuova sensibilità per il movimento? E co­ sa aveva fatto Haydn nei dieci anni trascorsi dalla precedente raccolta di quartetti? Il sottotitolo dell' op. 33, Gli scherzi, offre un indizio riguar­ do all ' origine di questa nuova energia. Fra il 1 772 , anno di pubblica­ zione dell' op. 20, Sonnen-Quartette, e il 1 781 Haydn scrisse perlopiù opere comiche per la corte di Esterhaza; anche buona parte delle sin­ fonie di quel periodo consistono in arrangiamenti di brani di quelle opere .1 I Quartetti op. 33 portano quel sottotitolo perché sostituiscono il tradizionale minuetto con uno scherzo ; la differenza è più nominale che sostanziale, dato che i minuetti di Haydn anche in precedenza ave­ vano spesso un carattere giocoso , ma il nuovo titolo è significativo : questi quartetti hanno dall 'inizio alla fine il passo dell ' opera comica. Ne hanno anche il carattere, ma ciò non costituisce una novità : l'op. 20 contiene momenti di puro divertimento all' altezza di tutto ciò che Haydn comporrà in seguito. Il tono generalmente comico degli Scherzi l. A partire dal 1 776, il numero delle produzioni operistiche a Esterhaza crebbe sensibil­ mente.

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è indubbio, ma è un tratto che a mio avviso è stato esagerato. Il finale fugato qui è assente : Haydn non sente in questo momento l' esigenza di puntellare la sua origin ali tà di pensiero con complessità tratte da uno stile passato. Ci sono però diversi movimenti seri quanto quelli della raccolta precedente. (Tovey vede solo un motto di spirito nell 'i­ nizio in tonalità sbagliata dell ' op. 33, n. l ; il procedimento, a suo giu­ dizio , verrà elevato al patetico da Brahms nel Quintetto per clarinetto; al contrario, ritengo che in Haydn , se il mezzo è arguto , l'intento è as­ solutamente serio , l ' effetto non meno patetico che in Brahms e più potente ancorché meno nostalgico) . Ma Gli schen:i hanno una tecnica ritmica che deriva dall 'esperienza maturata scrivendo opere comiche : la rapidità di azione richiedeva per essere intellegibile la regolarità del­ le frasi, la musica aveva bisogno di una ferrea continuità articolata in modo logico per mantenere il passo con quanto accadeva in scena. Ciò che Haydn aveva appreso in quei dieci anni, ciò che questi quartetti mostrano è soprattutto una chiarezza drammatica. Sino ad allora, l' in­ tensità espressiva ingolfava il ritmo e troppo spesso frasi ricche e intri­ cate sfociavano in cadenze allentate e deludenti. A partire dagli Schen:i, Haydn sa costruire una cornice nella quale l ' intensità e il significato del materiale possano espandersi e contrarsi liberamente senza mai perdere il sostegno della pulsazione fondamentale . Sono innanzitutto opere di grande lucidità. Haydn non fu un operista riuscito, né nel genere buffo né in quello serio; il suo pensiero musicale era su una scala troppo ridotta (o, se si vuoi dirlo in modo più amabile, troppo concentrato) . Dall'opera buffa apprese però non la libertà formale (su questo, non ebbe mai bisogno di insegnamenti) , ma la libertà al seiVizio del significato drammatico. Quando le parole di un libretto ostacolavano lo sviluppo e l'equilibrio necessari alle sue idee musicali, Haydn inventava nuove strade per arri­ varci. E nelle opere lo vediamo farsi sempre più consapevole della po­ tenza dinamica del materiale. L'intuizione che il movimento, lo sviluppo e il percorso drammatico di una composizione si trovino già tutti latenti nel materiale, che si possa far sì che esso liberi l' energia accumulata di modo che la musica non si limiti più a dipanarsi, come nel barocco, ma sia letteralmente spinta dall'intern o : quest'intuizione fu il maggiore contributo di Haydn alla storia della musica. Lo si può amare per molti altri aspetti, ma questa nuova concezione dell'arte musicale cambiò tutto ciò che venne in se­ guito. È per questa ragione che Haydn non rinunciò all' eccentricità e all'umorismo caustico, ma cominciò a usarli senza compiacimento e nel rispetto dell'integrità di ogni singola opera. Comprese le possibilità di conflitto che il materiale offriva entro il sistema tonale e come si potesse sfruttarlo per generare energia e drammaticità. Ciò spiega anche la stra157

ordinaria varietà delle forme haydniane: i suoi metodi cambiavano a se­ conda del materiale. Per « materiale » intendo principalmente i rapporti impliciti nell'ini­ zio di ogni brano; Haydn non era ancora giunto alla concezione beetho­ veniana dell'idea musicale che si manifesta gradualmente, men che me­ no alla più ampia nozione mozartiana delle masse tonali che per certi aspetti supera persino quella di Beethoven. In Haydn, le idee di fondo sono concise, esposte quasi subito e suscitano dal primo momento un 'impressione di energia latente che Mozart cercava ben di rado; espri­ mono un conflitto immediato, e il dispiegamento completo di quel con­ flitto, fino alla risoluzione, è la composizione stessa: ecco la concezione haydniana della « forma sonata >> . La libertà di questa forma non è più solo l'esercizio di un'immaginazione estrosa in uno schema dall'orga­ nizzazione labile, come in alcuni grandi lavori degli anni Sessanta, ma il libero gioco di una logica immaginativa. Le due principali fonti di energia musicale sono dissonanza e progres­ sione : l'una perché esige una risoluzione, l' altra perché implica un se­ guito. Lo stile classico accrebbe immensamente il potere della dissonan­ za, elevandola dal piano dell 'intervallo a quello dell'accordo e poi anco­ ra della tonalità in attesa di risoluzione. Il « falso >> inizio del Quartetto in si minore op. 33, n. l di Haydn, per esempio, è una tonalità dissonante e il movimento conduce alla sua risoluzione in due modi : prima trattan­ dola come una dominante o una tonalità secondaria ( trasformandola provvisoriamente in tonica, il che costituisce una mezza risoluzione ) , poi ampliando questo procedimento nello « sviluppo >> e risolvendo il tutto in una ripresa che, con l'eccezione delle prime due battute, insiste fortemente sulla tonica. Un lato importante del genio di Haydn è pro­ prio questo senso dell'energia latente nel materiale (owero, in altre pa­ role, l'invenzione di materiali che gli fornissero l 'energia necessaria) : così nel Quartetto in si minore fa da subito risuonare ripetutamente (sei volte fra le battute 3 e 8) la dolorosa dissonanza laq-la# (si veda sopra, p. 1 52) . Non si può rendere pienamente giustizia all' inventiva haydniana sen­ za esaminare la maggior parte della sua produzione, ma si può almeno dare un'idea della varietà e della logica con cui trattò lo stile sonatistico. Il primo movimento del Quartetto in si bemolle maggiore op. 50, n. l è costruito quasi sul nulla: una nota ripetuta del violoncello e una figura di sei note del violino . Nell'esposizione tutto si limita a questi due ele­ menti minimi :

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Ci sono due battute con un' unica nota ripetuta delicatamente dal vio­ loncello (motivo a) , un pedale di tonica. Un'amabile facezia: l'op. 50, n. l è il primo dei quartetti scritti per il re di Prussia che era violoncelli­ sta. La raccolta si apre dunque con il violoncello solo e un motivo che difficilmente poté mettere a dura prova il virtuosismo regio : un assolo su una sola nota. La figura di sei note, che chiameremo ( b) , è usata in progressione alle battute 3-8 , con un delizioso mutamento di ritmo e accenti a metà percorso. La progressione, ascendente per terze , è poi controbilanciata da una vigorosa discesa che inizia con ( b) a battuta 9 per proseguire con una scala e interrompersi a mezza via per mettere in risalto mi� e re, che non sono altro che le estremità di ( b) alla sua prima apparizione e che qui, sul punto culminante sforzando a battuta 10, sono armonizzate con un sol minore che prepara l 'abbandono della tonica. (Il fa# di battuta 9 è la prima alterazione cromatica del movimento che sarà poi messa in evidenza e infine usata a battuta 28 per introdurre la modulazione alla dominante ) . Nelle battute 1 2-27, ( b) è usato con un'armonizzazione alterata in funzione espressiva e forma una cadenza la cui figura conclusiva si ripete quattro volte (battute 20, 24, 25, 26) , mentre il pedale ( a) è gradualmente trasferito nel registro acuto con effetto umoristico : un calembour, poiché un ostinato con un tipico ca­ rattere da basso passa prima al contralto e poi al soprano. La progressiva intensificazione armonica risulta chiara nel confronto fra le battute 3-4, 9-1 O, 1 4-1 6 e 28. In quest'ultima, il fa# già messo in rilie­ vo prima è ulteriormente rafforzato dal fatto di apparire qui al basso in una triade aumentata e con ciò innesca una progressione discendente che si conclude con un accordo perfetto di do maggiore (la sopratonica, o dominante della dominante) . La figura ( b) a battuta 35 si presenta col solito profilo, ma genera un ritmo a terzine come a battuta 7 : ora le pro­ gressioni sono tutte discenden ti e il ritmo si è naturalmente fatto più animato. Alle battute 33-40 (e poi 45-46 e ancora 5 1 -53) , ( a) non è più un pedale di tonica, bensì di dominante (alla dominante) , il che appor­ ta ovviamente una maggiore energia. La prima cadenza alle battute 4750 richiama anch'essa le battute 9-1 O ed è una aumentazione di ( b) , che si ripresenta poi ancora in nuove varianti (battute 50-54) in cui il profilo è alterato, ma la derivazione dalla figura originaria è pur sempre ricono1 61

sci bile all'ascolto, fino a una seconda cadenza alle battute 55-56. Alla 56, ( a) torna a fungere da pedale di tonica ( alla dominante) e ( b) compare in una forma ancora inedita; la cadenza conclusiva in fa maggiore delle battute 59-60 non è altro che una versione più decisa della cadenza in si bemolle delle battute 1 1 e 1 2 . Si potrebbe ritenere che Haydn in questa esposizione tratti la figura di sei note ( b) come una serie, se non fosse che il suo modo di procedere non ha assolutamente nulla a che vedere con la tecnica seriale. La rico­ noscibilità della figura nonostante le trasformazioni mostra che Haydn lavora con un procedimento che potremmo definire topologico - l' idea centrale rimane cioè invariata anche quando se ne modifica il contor­ no -, laddove quello dei serialisti è geometrico. Più rilevante è però che l'elemento generatore del brano non sia il solo ( b) , bensì la tensione fra questo e il tranquillo ostinato su una sola nota ( a) . La sonorità fissa e immobile di quella ripetizione consente di contrappoiVi ( b) in una serie di progressioni donde proviene tutta l' animazione ritmica del brano. In effetti basta l 'ostinato ( a) a spiegare, in gran parte, l 'andamento del pez­ zo e soprattutto perché Haydn, anziché lasciare la tonica il più rapida­ mente possibile come di consueto, vi si soffermi senza allontanarsene per un tempo considerevole, riaffermandola addirittura con una caden­ za decisa a battuta 27. Singolarmente presi non bastano però né ( a) né ( b) : è dalla loro opposizione e dalle rispettive forme che Haydn trae la struttura complessiva del brano. Non ci sono melodie, le sorprese ritmi­ che sono poche, le armonie insolite ancora meno. Eppure è una musica affascinante e ricca di arguzia: determinato a stupire l 'ascoltatore con la sua tecnica, Haydn costruisce uno splendido edificio con poco o nulla. Le sorprese armoniche sono tenute in serbo per lo sviluppo, che ini­ zia con una reinterpretazione delle estremità di ( b) (milr-re) : 61 Il •

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e questa seconda discendente dà unità all' intero movimento, contrasse­ gnando (come già nell' esposizione) gli snodi strutturali.1 La ripresa ini­ zia senza preavviso a metà di una frase : l . Ricompare con insistenza per modellare ogni punto culminante della ripresa (bb. l l 41 1 5, 1 2 1 , 1 33-1 38, 1 45) , nonché all'inizio e alla fine di ogni sezione. L'intero sviluppo, dalla battuta 87 alla 102, è a sua volta un ampio movimento da mi� a re .

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cosicché l'istante esatto del ritorno alla tonica passa quasi inosservato. La ripresa riformula l'esposizione, muovendo verso la sottodominante che porta un senso di stabilità, ma con una maggiore animazione ritmi­ ca e un esuberante splendore. Un 'ultima invenzione arriva proprio sulla conclusione del movimento dove, contemporaneamente all'ultima ap­ parizione della seconda minore discendente (mirre) , il ritmo di ( a) si presenta in tranquille terzine : . . .

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Per capire come mai le due note mirre giochino un ruolo così impor­ tante, bisogna tornare alla loro prima apparizione, all' inizio del movi­ mento, quando sopra il misterioso ostinato su una sola nota del violon­ cello entra con dolcezza e intriso di magia il mi�: è la voce melodica del primo accordo, un 'armonia delicatamente dissonante e un esordio in­ dimenticabile. Il mi� è poi presente in ogni accordo dissonante delle prime quindici battute. Quell 'entrata con l'indicazione dolce e la succes­ siva ripetizione fanno dello schema non una relazione occulta, un ele­ mento compositivo recondito, bensì un 'esperienza uditiva immediata, assai più facile da cogliere all' ascolto che sulla pagina scritta. I rapporti musicali più importanti in Haydn non sono mai solo teorici : sono rap­ porti che colpiscono immediatamente un orecchio privo di pregiudizi, come fa l ' accordo splendidamente vellutato dell' inizio di questo quar­ tetto. La locuzione « orecchio privo di pregiudizi » può forse trarre in inganno : non solo è necessario dimenticare gli sviluppi otto e novecen­ teschi, ma anche ritrovare i pregiudizi settecenteschi. Questi elementi, il pedale ostinato introduttivo, l'accordo dolce e strano, la breve figura di sei note, grazie al loro significato nell'ambito del linguaggio tonale di allora forniscono a H aydn tutto ciò che gli serve : la sua intuizione 1 63

creativa dell'impulso dinamico che essi contengono modella una for­ ma che sembra generarsi dal materiale stesso. Questo movimento, con il suo ossessivo uso di una singola figura di sei note, può apparire atipico (ma casi simili sono numerosi e basati talvolta su materiali ancor più laconici) e tuttavia il modo di procedere di Haydn è il medesimo anche quando gli spunti iniziali sono più complessi : ne risulta ovviamente una forma tutta diversa proprio perché il cuore del metodo compositivo haydniano è il rapporto col materiale. Le tensioni implicite all'inizio di un brano ne determinano il corso. L'esposizione del Quartetto in re maggiore op. 50, n. 6 sembra un modo tanto diverso di scrivere una sonata rispetto all'op. 50, n. l solo perché tanto differen­ te è il materiale musicale : Allegro +

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nante, benché lo si comprenda solo dopo la sua scomparsa; ma è così sorprendente da risuonare nelle orecchie abbastanza a lungo perché ci si accorga di esser stati burlati. La linea melodica scende poi al mi un' ot­ tava sotto e risolve con la cadenza 11-V-1. Il diminuendo rappresenta il toc­ co più fine e l' accordo di tonica, quando finalmente arriva, suona senza pretese. L'umorismo di questo inizio è sconfinato. Per dirla semplicemente, c'è un mi al posto di un re (o almeno di un la o di un fa#: quasi tutti i brani dell'epoca iniziano con una nota dell' ac­ cordo di tonica e le rare eccezioni certamente non ci tengono in sospeso per un'intera battuta con una nota misteriosa e inesplicabile) . Con la logica inventiva che aveva escogitato e poi affinato con l' esperienza, Haydn sfrutta la contraddizione fra il re che avrebbe dovuto esserci e il mi che ne ha preso il posto. Fra le battute 5 e 15 fa risuonare continua­ mente il mi dissonante vicino al re, con insistenza crescente. Intanto il ritmo della battuta iniziale J �. che chiameremo (a), appare in varie forme. La cadenza sulla tonica a battuta 1 6 conclude questo primo pe­ riodo. Il mi dissonante è naturalmente la dominante della dominante e per sua stessa natura implica dunque, quasi per definizione, la tradizionale prima modulazione. A battuta 1 8 il mi è posto al punto culminante di uno stretto costruito su (a); successivamente, a battuta 23, dopo la com­ parsa di forme decorate di ( a) , passa al basso. Queste trasposizioni di ottava e la varietà dei livelli a cui il mi è messo in evidenza sono signi­ ficativi : la nota è ora così potente che non necessita più di una risoluzio­ ne, ma può essere essa stessa usata per risolvere. L'energia è fatta scatu­ rire dall'urto del mi con un fa� in uno sfonando sotto ( a) ripetuto quattro volte alle battute 26-29, faq che serve anche a preparare la splendida sor­ presa della cadenza sull'accordo di fa maggiore subito piano a battuta 38. Questo fa è ora prolungato per sei battute (dalla 39 alla 44) con tutta la potenza orchestrale che un quartetto di Haydn può dispiegare e usando nuovamente la frase iniziale ( a) : le battute da 38 a 47 costituiscono pre­ valentemente una espansione interna, un modo per trattenere la caden­ za di battuta 37. A battuta 48 compare infine un nuovo tema, squadrato e deciso, che completa la forma. Per apprezzare l' altissima maestria di questa esposizione bisogna suonarla con il ritornello, perché la frase iniziale ha un significato completamente diverso la seconda volta: è dive­ nuta una modulazione che dalla dominante riconduce alla tonica. La diffe renza fra le esposizioni di questi due quartetti non proviene da libertà o varietà nel senso più consueto, ma da una nuova concezione delle esigenze del materiale, l'idea prima. In quello in si bemolle, la lun­ ga sezione alla tonica, del tutto indipendente dal resto, proviene dal pedale delle battute d'esordio, mentre il flusso ininterrotto dell'esposi­ zione del Quartetto in re maggiore è una risposta alla tensi? ne dell'ini­ zio che spinge subito verso la dominante della dominante. E questo im1 67

pulso a far sì che la cadenza alla dominante non arrivi se non verso la fine dell 'esposizione : e di nuovo non si tratta di un 'evasione capricciosa dalla prassi consueta, ma di sensibilità verso le forze musicali in gioco. Perciò la sezione in fa maggiore (battute 38-45) è così strabiliante e in­ sieme così logica. (Non si tratta, owiamente di un vero fa maggiore : queste battute funzionano rispetto al mi come un 'appoggiatura su più vasta scala) . In queste due opere, come in quasi tutte quelle di Haydn dopo il 1 780, anche le idee musicali più eccentriche (ed en trambe le opere sono stupefacenti) sono depurate da ogni manierismo grazie alla comprensione e all'uso di tutte le loro implicazioni musicali. Niente fronzoli e arzigogoli in questo stile, diversamente da quanto accade nel­ le grandi composizioni degli anni Sessanta. Non ha senso parlare delle strutture haydniane senza fare riferimento al loro materiale. Ogni disquisizione riguardo a secondi temi, passaggi modulanti, temi conclusivi, estensioni delle modulazioni e rapporti fra i temi è assolutamente vana se non rimanda a uno specifico brano con quel certo carattere, quella particolare sonorità, quelle figurazioni me­ lodiche. Haydn è un compositore giocoso quant'altri mai, ma frivolezza ed eccentricità non conducono a vuote varianti strutturali. A partire cir­ ca dal l 770 le sue riprese sono « irregolari » soltanto quando è l'esposi­ zione a richiederlo, le modulazioni sorprendenti solo in conseguenza di ciò che le precede. In sintesi, Haydn è interessato all'energia direzionale del materiale che usa o, il che è quasi lo stesso, al suo potenziale drammatico. Trova il modo di farci udire l'energia dinamica insita in un 'idea musicale. L'ele­ mento direzionale principale è in genere una dissonanza, che, rafforza­ ta e adeguatamente sostenuta, conduce a una modulazione. Prima di Haydn la modulazione di una esposizione di sonata era quasi sempre imposta dall'esterno : struttura e materiale non erano certamente estra­ nei l'una all'altro e quest'ultimo poteva in effetti richiedere un certo tipo di struttura (un allontanamento dalla tonica) , ma di per sé non forniva tutto l'impulso necessario a generarla. Nelle composizioni di Haydn po­ steriori al 1 780, come in alcune precedenti, è difficile separare le idee principali dalla struttura complessiva in cui si dispiegano. Forze direzio­ nali secondarie insite nel materiale sono la capacità di generare progres­ sioni (un modo per fissare l'attenzione e rafforzare la continuità, in vista del quale già la tecnica compositiva tardobarocca creava il proprio mate­ riale) e il prestarsi a nuove interpretazioni (a essere sviluppato, frammen­ tato e soprattutto ad assumere nuovi significati in caso di trasposizione ) . Caratteristiche riconosciute e apprezzate anche prima di Haydn, ma in una misura non paragonabile al suo acume e alla sua larghezza di visione. Per quanto riguarda l' elemento principale, la dissonanza, Haydn svi1 68

luppò una straordinaria sensibilità verso le sue implicazioni più sottili, un' immaginazione acustica capace di coglierne il più minuto accento espressivo. Nel Quartetto in si bemolle maggiore op. 55, n. 3 gli effetti più potenti sono il fmtto dell'urto fra il mi e il mi� delle battute iniziali, un' opposizione valorizzata con rapidità e sicurezza : ..



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> (la progres­ sione e la reinterpretazione mediante trasposizione) assumono un'im­ portanza decisiva solo quando il materiale non fornisce una dissonanza sufficientemente dinamica per i fini di Haydn. L' inizio del finale del Quartetto appena citato, l'op. 64, n. l , suggerisce ovviamente la forma­ zione di progressioni basate sul suo ritmo nettamente definito : Prato

ma nulla in queste due battute preannuncia lo spettacolare crescendo di progressioni che costituisce lo sviluppo : 43

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po; l'espansione di questo passaggio, vero e proprio punto culminante del movimento, è preparata da ciò che precede.

1 74

Questo tour de force non sarebbe stato concepibile senza la riscoperta di Handel e J.S. Bach avvenuta intorno al 1 780, ma trasforma la tecnica barocca della progressione al punto da renderla irriconoscibile. Una graduale riappropriazione delle tecniche contrappuntistiche era neces­ saria, tuttavia l ' energia di questo passaggio è assolutamente classica e deriva dalla brillante articolazione della frase che rende tanto potenti i ripetuti inizi sul tempo debole e così avvincenti le frasi di una battuta e mezza del violino alle battute 49-52 . La reinterpretazione mediante trasposizione, intesa come forza di­ rezionale, esiste anche nel barocco, ma con il notevole incremento di energia e di chiarezza della modulazione nel tardo Settecento acqui­ sta una potenza inedita. Nella maggior parte dei casi (sia in Haydn sia in compositori precedenti ) essa consiste nella riesposizione del tema principale alla dominante, dove il mutamento di posizione e signifi­ cato conferiscono una fisionomia tematica al profilo armonico . Vi so­ no però procedimenti più sottili; il più interessante si ha forse quando il materiale è reinterpretato trasponendo l' armonia senza cambiare posizione alla melodia. All' inizio del Quartetto in fa diesis minore op. 50, n . 4, la linea melodica delle battute 5-8 risuona tre volte, cambian­ do solo registro e strumento; alla fine siamo in la maggiore :

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La medesima forma melodica (solo l'ultima nota ha dovuto essere modificata alla fine) acquista dunque un nuovo significato armonico. Haydn prediligeva questo genere di sottigliezze nei movimenti in mino­ re, trattando in sostanza il modo nel suo complesso come una dissonan­ za non risolta. Nella sonata la trasposizione implica generalmente una dissonanza su un piano più alto, o meglio, una tensione tra la frase tra­ sposta e la sua forma originaria o potenziale alla tonica. Gli esempi fin qui citati provengono, nella maggior parte dei casi, da un movimento iniziale, perché esso è in genere, fra i quattro, quello concepito in modo più dinamico - e questo dinamismo fu la conquista più originale di Haydn. Primi e ultimi movimenti erano palesemente per lui i più impegnativi: in vecchiaia ebbe energia sufficiente per con­ cludere solo i due tempi intermedi dell'ultimo quartetto. Ma la nuova concezione dell' energia musicale si manifesta per l' intera durata dei quartetti, trasformando in una sorta di sviluppo persino le tranquille se­ zioni mediane dei movimenti lenti in forma temaria; e qualcosa di simi­ le accade anche per molti trii dei minuetti. I finali sono audaci quanto i primi movimenti, con strutture più libere e tuttavia un uso più conciso di idee di per sé meno concentrate. All' inizio degli anni Settanta, con i dodici quartetti delle opere 1 7 e 20, Haydn aveva affermato la serietà e la ricchezza del quartetto d' archi 1 76

come genere. Con l'applicazione, nell 'op. 33, della trasformazione te­ matica all'intero tessuto musicale, compreso l' accompagnamento - così che la vitalità lineare, ora estesa a tutte le parti strumentali, non implica più il ritorno all'ideale barocco di una continuità senza rottura né artico­ lazione -, Haydn fece del quartetto d ' archi la forma suprema della musi­ ca da camera. Oggi il genere è quasi sinonimo di musica da camera, ma il suo presti­ gio proviene interamente dalla sua preminenza nel periodo classico, dal 1 770 fino alla morte di Schubert. Al di fuori di questi confini non è la forma di espressione consueta, e nemmeno del tutto naturale. Nella pri­ ma metà del Settecento l'uso del continuo per tutta la musica concertan­ te rende ridondante almeno uno dei quattro strumenti : la sonata a tre ( tre strumenti e cembalo) era una combinazione più efficace. Dopo Schubert la musica in generale tenta di evitare quel genere di definizione lineare caratteristica del quartetto d'archi, che diviene una forma arcai­ ca e accademica, dimostrazione di maestria o nostalgica evocazione dei grandi classici. Nacquero ancora ovviamente splendide composizioni quartettistiche, ma tutte recano il marchio dello sforzo oppure di un adattamento, specifico di volta in volta e via via più consistente, da parte dell'autore del proprio stile al mezzo (o del mezzo allo stile, come nell'u­ so inventivo di Bart6k di effetti percussivi sulle corde) . Il primato del quartetto non è tuttavia solo una conseguenza acciden­ tale di una manciata di capolavori, ma è direttamente legato alla natura della tonalità e in particolare al suo sviluppo nel corso del Settecento. Un secolo prima la musica non si era ancora scrollata di dosso le ultime tracce di dipendenza dall'intervallo : nonostante l'importanza centrale dell'accordo, e della triade in particolare, la dissonanza era ancora con­ cepita in termini di intervallo, e la sua risoluzione, anche nella musica del tardo Seicento, soddisfa quindi molto spesso l' estetica del contrap­ punto a due voci ignorando le implicazioni tonali. Dal Settecento invece la dissonanza si definisce sempre in rapporto a una triade enunciata o esplicita, anche se ci volle il suo tempo prima che la teoria riflettesse la prassi. Il tentativo goffo ed eroico di Rameau di riformulare la teoria dell' armonia va giudicato sullo sfondo di questa prassi in evoluzione e della nuova ma già assoluta supremazia armonica dell'accordo perfetto. Nella musica del tardo Settecento è raro che la forma triadica completa di ogni accordo, salvo quelli brevi di passaggio, non sia esplicitamente suonata, dalle tre voci o da una sola in movimento ( così come nella pri­ ma metà del secolo ogni nota mancante in una triade veniva suonata dal basso continuo) . Alle poche eccezioni corrisponde sempre un effetto particolare, come nel Trio in si bemolle maggiore Hob 20 di Haydn, in cui il piano suona una melodia per la sola mano sinistra (e le dissonanze sono, senza eccezione, risolte in rapporto a una triade implicita) , o nei casi 1 77

in cui una nota isolata potrebbe appartenere a più triadi, un ' ambiguità sempre potente se non è frutto di incompetenza. Il quartetto d'archi, la forma più chiara di polifonia a quattro parti non vocali, è la conseguenza naturale di un linguaggio musicale che trae tutta la sua forza espressiva dalla dissonanza in rapporto a una triade. Se le voci sono meno di quattro, una di quelle non dissonanti deve gioco­ forza suonare due note della triade, con corde doppie o muovendosi velocemente da una nota all 'altra; la ricchezza sonora del Divertimento per trio d'archi di Mozart, che usa prevalentemente il secondo metodo ed è assai parco di bicordi, risiede in un tour deforce la cui naturalezza e varietà hanno del miracoloso. (Alcune dissonanze risolvono ovviamente su accordi perfetti, per i quali dunque basta una scrittura a tre parti; ma altre, fondamentali per l'armonia tardo settecentesca, come la settima di dominante, ne esigono giocoforza quattro) . Un numero di voci supe­ riore a quattro genera diffi coltà di raddoppi e di distribuzione spaziale, il quartetto di fiati problemi di impasti timbri ci (e nel Settecento anche di intonazione) . Solo il quartetto d' archi e lo strumento a tastiera per­ mettevano dunque al compositore di esprimersi liberamente e con agio nel linguaggio della tonalità' classica, la tastiera avendo però lo svantag­ gio (e il vantaggio ! ) di una minor chiarezza lineare rispetto al quartetto d'archi. Dopo i Quartetti op. 33 del 1 78 1 , Haydn attese quasi cinque anni pri­ ma di volgersi nuovamente al genere, con l'eccezione dello splendido e isolato Quartetto op. 42, semplice fino all' austerità. Fra il 1 786 e il primo viaggio in Inghilterra nel 1 79 1 , Haydn compose non meno di diciotto quartetti, tutti posteriori ai sei che Mozart gli aveva dedicato. Molti stori­ ci ritrovano nelle opere di quel periodo un influsso mozartiano, al quale non è difficile credere, ma che è rischioso circoscrivere : la splendida Sonata per pianoforte in la bemolle maggiore Hob 46 è stata a un certo punto datata troppo tardi di quasi ve�t' anni sulla base di un ipotetico influsso mozartiano nel tempo lento. E forse più pratico supporre sem­ plicemente che negli anni intorno al 1 785 Mozart e Haydn seguissero strade parallele che occasionalmente convergevano. Quei « secondi te­ mi » dolci e graziosi, per esempio, generalmente ascritti all'influenza di Mozart, si trovano già nelle musiche giovanili di Haydn, e abbastanza spesso perché la loro incidenza di poco più consistente dopo il 1 782 si spieghi con la crescente complessità della sua tecnica compositiva che gli permetteva ora di comprendere in uno stesso movimento caratteri anche assai diversi fra loro, senza nulla sacrificare della muscolarità ner­ vosa del suo stile. D' altro canto Haydn fu senza dubbio profondamente influenzato dalla vastità dell' armonia mozartiana e dalla naturalezza delle sue frasi. 1 78

I sei Quartetti op. 50 del 1 786, scritti per il re di Prussia, sono più grandiosi di quelli dell 'op. 33. I passaggi solistici del violoncello, corte­ se omaggio al reale dilettante , ne rendono necessari di analoghi per gli altri strumenti, il più notevole dei quali è forse il lungo assolo del secon­ do violino all 'inizio del movimento lento dell 'op. 50, n. 2. Il Quartetto in fa diesis minore op. 50, n. 4 contiene il più bel finale fugato di Haydn, in cui l'esibizione di virtuosismo accademico pressoché immancabile in ogni fuga classica è eclissata da un pathos profondo. In quest' opera inol­ tre si rivela immensamente accresciuto il senso dell' unità interna del quartetto; il minuetto in fa diesis maggiore non è che un interludio : la tonalità è instabile e riconduce costantemente verso il modo minore del primo movimento. Il terzo quartetto della serie, in mi bemolle mag­ giore, inizia con una versione più sottile e logicamente rifinita del fa­ moso scherzo dell' ultimo movimento dell'op. 33, n. 2, che simula una conclusione prima del tempo; nell'op. 50, n. 3 la ripresa parte a metà del primo tema e prosegue a lungo, fino a una cadenza sulla tonica che manca giusto di quel tanto di fermezza che la renderebbe davvero con­ clusiva. Due battute di silenzio ed ecco che finalmente risuona la prima parte del tema iniziale che dà il via a una coda breve ma brillante. In tutti questi quartetti la scrittura solistica porta con sé un pervasivo di­ spiego di virtuosismo contrappuntistico, persino nei tempi lenti che assumono perciò un respiro lirico e una tranquilla gravità rari in Haydn fino a questo momento. Nella sua interezza, la serie costituisce un con­ solidamento e un' espansione degli spensierati procedimenti rivoluzio­ nari dell'op. 33. La maggior ricchezza contrappuntistica dell'op. 50 ha forse anche un senso più profondo. Il cambiamento di stile dell'op. 33 portò con sé una considerevole semplificazione e la musica è più scarna che nei grandi quartetti di dieci anni prima. Non è tanto la perdita connessa a ogni nuova conquista, quanto la necessità per Haydn di assottigliare il tessuto musicale per controllare un sistema nuovo e più complesso di articolazione delle frasi ( coordinando l' asimmetria entro un movi­ mento periodico su scala più vasta) e una mutata concezione dei rap­ porti tematici. Il ritorno parziale alla sontuosa e più « dotta » tecnica tardobarocca è quindi un tentativo di compensare questa nuova asciut­ tezza. Una semplificazione mirata a sperimentare una tecnica nuova seguita a rimbalzo dal ritorno a un contrappunto elaborato e a volte fuori moda fu una strategia comune a Haydn e Mozart in fasi diverse delle rispettive carriere . (Questo schema si era presentato nella vita di Haydn già prima del 1 780. I Quartetti op. 1 7 sono più sobri e quasi sotto ogni aspetto meno stravaganti di quelli dell ' op. 9 : era il prezzo della loro più avanzata tecnica compositiva, e per riconquistare poi la ricchezza perduta Haydn tornò al contrappunto rigoroso nei grandi Quartetti op. 20 del 1 772) . Una volta espugnato il presente, sia Haydn 1 79

sia Mozart, come più tardi anche Beethoven, tentavano di riconquista­ re il passato. I sei Quartetti op. 54 e op. 55, pubblicati nel l 789, sono più sperimen­ tali, particolarmente nei tempi lenti, e più drammatici di quanto Haydn non avesse mai osato prima. L'Allegretto dell'op. 54, n. l deve probabil­ mente l'andamento più rapido tanto al movimento lento del Concerto in fa maggiore K 459 di Mozart del l 784 (anch' esso un Allegretto) quan­ to a brani precedenti dello stesso Haydn in uno scorrevole 6/8 (per esempio l'op. 33, n. l ) . La continuità e la semplicità malinconica e appa­ rentemente spontanea, ma ancor più il movimento armonico sensual­ mente cromatico sono invece caratteristici di Mozart più che di Haydn. Ancora più inconsueto il secondo movimento dell'op. 54, n. 2, con un assolo di violino di carattere rapsodico e con un rubato interamente scritto che ritarda le note della melodia in modo da produrre incroci armonici dolorosi. Nel periodo classico, il rubato serviva a creare disso­ nanze penetranti, come testimoniano i passaggi in cui Mozart, Haydn e Beethoven lo hanno annotato per esteso : a differenza di quello roman­ tico (il più frequentemente adottato ai giorni nostri) , il rubato classico non si limitava a ritardare la melodia, ma produceva forzate sovrapposi­ zioni armoniche. Suppongo che in origine questa sorta di sospensione fosse connessa all'appoggiatura, il più espressivo degli abbellimenti e quasi sempre nota dissonante. (L'espressiva sezione intermedia del tem­ po lento dell'op. 54, n. 3 mostra anche un breve impiego dello stesso rubato in un passaggio stranamente violento, e l'intero brano possiede un'energia ritmica neiVosa, indubbiamente tipica di Haydn, ma qui di un'efficacia inusitata e sorprendente) . Anche più curiosa è la presenza nell'op. 54, n. 2 di un secondo movimento lento : il finale è un lungo Adagio, la cui sezione centrale, Presto, è in realtà una variazione dissi­ mulata, un esempio di forma enigmatica molto rara all' epoca. L' orec­ chio è stranamente soddisfatto, ma la mente afferra solo con difficoltà i rapporti durante l' esecuzione. Poco prima, nel Trio del Minuetto, le ar­ monie suonano ugualmente misteriose e tuttavia logiche anch'esse : de­ rivano infatti dagli strani effetti armonici del rubato del violino solo nel primo tempo lento. Il secondo movimento dell'op. 55, n . l è monotematico e in « forma sonata di movimento lento » (ossia senza una sezione centrale di svilup­ po) , ma il consueto sviluppo secondario dopo la ripresa è talmente no­ tevole che Tovey ha considerato questo pezzo uno dei rari esempi di forma di rondò in tempo lento. L'ultimo movimento è quasi un abbozzo del grandioso finale della Sinfonia L'orologio: inizia nello stile di un ron­ dò, gioioso e squadrato, ma la prima riesposizione del tema principale diviene un' ampia tripla fuga. Alla fine ritorna amabilmente il tema, con tutta la sua semplicità originaria, e ci si accorge che la tripla fuga è servita da sviluppo. L' op. 55, n. 2 in fa minore inizia con il tempo lento, una se1 80

rie di doppie variazioni di grande profondità, mentre il tempestoso Alle­ gro, in forma di primo movimento, è al secondo posto. Nei sei Quartetti op. 64, scritti un anno dopo, Haydn dispiega ener­ gia e varietà a un punto di maturazione che resta insuperato. Il Quartet­ to in si minore op. 64, n. 2 ricorda l'op. 33, n. l , non solo nell' ambiguo inizio in re maggiore , ma anche nella forma del materiale tematico del primo movimento. Il delicatissimo Adagio si basa su una lenta figura di quattro note in scala, che è trasposta alla dominante, invertita, ornata: per quanto onnipresente nella melodia, la figura non è usata come una serie, ma come un cantusfirmus sul quale è drappeggiata una decorazio­ ne sontuosa ed espressiva. L'op. 64, n. 3 in si bemolle maggiore è un capolavoro di comicità: chi riesce ad ascoltare l'ultimo movimento sen­ za scoppiare a ridere non capisce nulla di Haydn. Sia l'op. 64, n. 4 in sol maggiore sia il n . 5 in re ( L 'allodola) sono caratterizzati da una doppia ripresa del tema principale, ma per motivi completamente diversi : L'al­ lodola perché la sua melodia principale è un assolo di violino acuto sulla prima corda, che non può essere sviluppata ma solo ripetuta in tutto il suo splendore (ricompare intatta alla sottodominante nello sviluppo per poi essere abbandonata fino alla ripresa) ; il Quartetto in sol mag­ giore , in parte perché il tema principale riappare brevemente già nell'esposizione, ma soprattutto perché la prima ripresa va quasi imme­ diatamente alla tonica minore e sembra una falsa ripresa (ma non è così , tant'è vero che poi rimane alla tonica per riesporre un materiale essenziale tratto dal secondo gruppo che in origine si presentava perlo­ più alla dominante minore) . Una falsa falsa-ripresa è un guizzo ironico eccezionalmente sofisticato persino per Haydn; dopo un 'enfatica pau­ sa, un secondo inizio del tema principale alla tonica ristabilisce la sere­ nità. Uno degli aspetti più originali dell'Allodola è un'ampia spaziatura dei registri che consente un'apertura e una gamma di sonorità assoluta­ mente nuove. Ho esitato a menzionare quella che è forse la maggiore innovaz,ione di Haydn nella scrittura quartettistica : il tono di conversazione. E im­ barazzante analizzare le impressioni soggettive, ma questo tratto di Haydn è troppo importante per non tentare di metterlo a fuoco. La combinazione dell'indipendenza delle parti con la conservazione del­ la gerarchia fra melodia e accompagnamento cara al primo classici­ smo, la concezione della frase come membro articolato che sfocia su una cadenza o semicadenza ben marcata che le conferisce il tono di un enunciato lucido : tutto ciò è solo una spiegazione parziale . L'ini­ zio del Quartetto in mi maggiore op. 54, n. 3 ci aiuta forse a vedere più chiaro : 181

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\n Secondo violino e viola iniziano una melodia, ma sono subito letteral­ mente interrotti dal primo violino, che prende il sopravvento. Nuovo tentativo delle due parti intermedie alla quarta e quinta battuta, anche questo immediatamente troncato. L'affabile tono di commedia che per­ vade l'arte di Haydn diviene evidente alla fine dell'ottava battuta: rasse­ gnati, secondo violino e viola si arrendono, abbandonano la propria me­ lodia per accettare quella del primo violino, la intonano a loro volta e sono ancora interrotti, con un effetto decisamente comico. Il colmo dell' umorismo è che ora (battute 9-10) il primo violino replica con la fine, enfatica e trasposta alla nona superiore, della propria melodia ini­ ziale (battute 3-4) , accorciando così il movimento periodico originale . Le asimmetrie drammatiche si stemperano nella regolarità delle frasi e ciò che a un dato momento sembrava uno schema puramente musicale si rivela improvvisamente umorismo teatrale. Questo passaggio è un modello di dialogo da commedia, drammatico nel carattere senza mai perdere però il tono di conversazione, dove il significato delle parole è diventato irrilevante rispetto all' arguzia della forma (ma non sto dicendo che il significato armonico di questo inizio non contribuisca alla sua vitalità) . In tutta la musica da camera di Haydn, l'autonomia della frase classica e l'imitazione dei ritmi del parlato non 1 82

possono che rafforzare il tono conversativo . Nel Settecento la prosa in­ glese, tedesca e francese era divenuta molto più sin tattica che in epoche precedenti, ben più legata all 'equilibrio, alle proporzioni, alla forma e all' ordine delle parole di quanto non lo fosse la pesante tecnica cumula­ tiva del Rinascimento. Il Settecento ebbe una raffinata ossessione riguar­ do all ' arte della conversazione : i quartetti di Haydn sono da annoverare fra i suoi massimi trionfi.

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2 lA SINFONIA

La nostra epoca ha smantellato il confine tra forme d'arte pubbliche e private, ma per Haydn le sinfonie si rivolgono principalmente all'a­ scoltatore, i quartetti invece agli interpreti. La distinzione fra musica sinfonica e cameristica andò accentuandosi durante la vita di Haydn. Nelle prime sinfonie, molti passaggi solistici sembrano scritti tanto per il piacere dell 'interprete quanto per quello del pubblico : nel piccolo mondo musicale di Esterhaza, dove per tanti anni lavorò Haydn, poteva essere una buona politica soddisfare i musicisti importanti dando loro frequenti occasioni di sfoggiare il proprio virtuosismo. Negli anni intor­ no al 1 760, a Esterhaza come altrove la musica orchestrale era ancora concepita come un fatto privato, nonostante l'esistenza di parecchie or­ chestre famose; durante l'ultimo quarto del secolo i compositori svilup­ parono invece un interesse crescente per le possibilità offerte da organi­ ci più estesi e la loro musica riflette questa novità della vita concertistica. Nel 1 768 Haydn poteva ancora scrivere : « Preferisco un complesso con tre soli strumenti gravi - violoncello, fagotto e contrabbasso - a uno con sei contrabbassi e tre violoncelli, perché certi passaggi risaltano me­ glio » . 1 Ora del 1 780 la sua orchestrazione era progredita ben oltre que­ sto stadio ancora a metà strada fra stile cameristico e sinfonico. Dieci anni dopo, l'orchestra di Viotti, che Haydn usò per gli ultimi concerti a Londra, disponeva di un organico considerevole e a quest'epoca i diver­ si timbri tendono, più che a restare ben distinti e contrapposti, a fonder­ si e creare una sonorità di massa del tutto inedita. L'organico ideale di Mozart è sorprendentemente esteso ed egli indica con estrema chiarez­ za ciò che vuole : 40 violini, 1 0 viole, 6 violoncelli, 1 0 ( ! ) contrabbassi e l . Collected Correspondence & London Notebooks ofjoseph Haydn, a Landon, London, 1959, p. 9.

cura

di H.C. Robbins

1 85

tutti i fiati raddoppiati. 1 Anche tenendo conto del fatto che gli strumenti d eli ' epoca avevano un suono più esile di quelli odierni, si tratta pur sem­ pre di un organico quasi doppio rispetto a quello che un direttore ose­ rebbe impiegare ai giorni nostri per una sinfonia di Mozart. II quale ov­ viamente non aveva spesso a disposizione un 'orchestra di quelle dimen­ sioni, ma non vi è motivo di perpetuare oggi condizioni esecutive sette­ centesche determinate dalla mancanza del denaro sufficiente per fare le cose a dovere. II peso eccezionale assunto verso la fine del secolo dagli strumenti gravi è estremamente interessante : è evidente che con la scomparsa del­ lo stile contrappuntistico barocco, e con esso del basso continuo, la mas­ sa sonora dei bassi divenne importante quanto la chiarezza lineare. La lettera citata sopra dimostra anche che negli anni Sessanta quest' evolu­ zione procedeva troppo rapidamente per il gusto di Haydn : ci sarebbero voluti più di dieci anni perché la sua scrittura assimilasse completamen­ te la nuova sonorità. Le esecuzioni odierne delle ultime sinfonie di Haydn e Mozart soffrono invece di un insufficiente rinforzo del basso e della convinzione che le piccole orchestre tanto diffuse nel Settecento rappresentino la sonorità ideale dei due compositori anziché ciò che concretamente dovevano accettare in mancanza di meglio. Dopo il l 780 i compositori scrissero le sinfonie avendo in mente organici estesi con sonorità massicce; l'esecuzione a ranghi ridotti era soltanto un ripiego, come nel caso dei concerti per pianoforte di Mozart con un quintetto d'archi al posto dell'orchestra. La distinzione fra musica pubblica e privata comportava anche una diversità di stile esecutivo. II direttore d' orchestra virtuoso in senso mo­ derno non esisteva e compaiVe soltanto durante la vita di Beethoven; quando questi iniziò a spiegare ai singoli membri dell' orchestra come desiderava che venissero eseguiti determinati passaggi ed esigere lievi ed espressivi cambiamenti di tempo, si trattò di un'innovazione giudicata inizialmente null'altro che un' eccentricità. La musica solistica del tardo Settecento consentiva naturalmente una buona dose di libertà e di fles­ sibilità esecutive, ma un confronto anche rapido tra una sinfonia e una sonata di Haydn mostra come la prima eviti tutti gli effetti che richiedo­ no sfumature individuali o rubati raffinati, che invece la sonata esige immancabilmente. La musica orchestrale ha se m pre un' organizzazione più grossolana e una scrittura più rigida: la relativa flessibilità delle sona­ te degli anni Settanta, con cadenze ben marcate alle quali l'esecutore poteva dare un'impronta estremamente personale e con dettagli molto elaborati concepiti per essere interpretati e plasmati in senso espressivo, lascia il posto nelle sinfonie ad accavallamenti di frasi che assicurano la l . W.A. Mozart, Letters, a cura di Emily Anderson, London, 1966, vol. Il, p. 724 [ Tutte k kttere di Mozart, ci t., vol. Il, p. 1 1 53; lettera dell' I l aprile 1 78 1 ] .

1 86

continuità e agli effetti più sommari determinati dal maggior peso sono­ ro. Eseguire una sinfonia di Mozart o di Haydn come se fosse una sonata, modellando la secondo la personale lettura del direttore, significa tradir­ ne la natura, oscurare anziché illuminare. Non che in generale si debba lasciare che la musica parli da sé, principio irrealizzabile e doppiamente sbagliato se applicato a musica scritta per un solista. Semplicemente si deve eseguirla senza distorcerne il carattere : la libertà del direttore vir­ tuoso, l ungi dall'aggiungerne di nuova, offusca la grazia della musica di Mozart. Soprattutto l'organizzazione ritmica delle sue sinfonie, elabora­ ta ma decisa, necessita di un tempo regolare per emergere chiaramente. La musica dell 'Ottocento richiede invece l'inteiVento del direttore virtuoso, senza il quale Brahms, Cajkovskij o Str�uss non sono concepibi­ li. Per Beethoven ci vuole un po' di prudenza. E evidente che persino le ultime composizioni orchestrali, come la Nona sinfonia, presuppongo­ no un 'esecuzione con una minor quantità, rispetto a sonate e quartetti, di rifiniture individuali di coloriti, accenti e tempo : qui la musica non ha bisogno di artifici, che tali non sono invece nelle opere di carattere più intimo dove divengono necessità stilistiche. E dove infatti alcune varia­ zioni di tempo e sfumature sono essenziali : Beethoven stesso, inviando all'editore l'indicazione di metronomo per un Lied, precisò che valeva solo per le prime battute poiché al sentimento non si possono imporre restrizioni metronomiche. E nell'ultimo Beethoven espressivo significa senz 'altro ritenuto, come mostrano le indicazioni delle Sonate op. 1 09 ( un poco espressivo seguito da a tempo) e op. 1 1 1 (in cui ogni espressivo è accompagnato da ritenente) . Ma i cambiamenti di tempo vanno sempre intesi entro una concezione ritmica complessiva e vincolante. Non vo­ ' glio rimettere ulteriormente in questione la testimonianza di Schindler, amico di Beethoven che scrisse molti anni dopo la morte di questi, quan­ do le concezione estetiche erano molto cambiate, e che è già stato suffi­ cientemente attaccato per le sue reinterpretazioni in senso romantico; ma persino Schindler attesta chiaramente che Beethoven, quando di­ chiarò che nel Largo della Sonata in re maggiore op. 1 0, n. 3 il tempo doveva cambiare dieci volte, aggiunse « ma in modo tale che se ne accor­ ga soltanto l'orecchio più sensibile » . Beethoven desiderava dunque che un movimento, quali che fossero le variazioni di andamento dovute al­ l'espressione, suonasse tutto in un solo tempo, il che lo colloca pienamen­ te nella tradizione di Mozart e Haydn. La musica solistica del periodo immediatamente prima di Mozart, dal 1 750 al 1 770, non richiede affatto questo genere di unità ritmica; gran parte dell'opera di Gluck e Philipp Emanuel Bach implica semmai il contrario, benché nella musica di quest'ultimo la libertà rapsodica della musica solistica non si estenda mai a quella orchestrale. L'esigenza di un'interpretazione non solo rigorosa sul piano ritmico, ma anche semplice, addirittura letterale della musica sinfonica del tardo 1 87

Settecento si comprende con chiarezza leggendo una lettera di Haydn del 1 7 ottobre 1 789 a proposito delle Sinfonie nn. 90, 91 e 92, innovative e difficili : Ora vorrei umilmente chiedeiVi di dire al Kapellmeister del Principe che que­

ste tre sinfonie, a causa dei loro numerosi effetti particolari, andrebbero pro­

vate almeno una volta, attentamente e con una speciale concentrazione, pri­ ma dell' esecuzione . 1

È un chiaro esempio delle pessime tradizioni settecentesche, che non avrebbe senso assumere oggi come norma o modello. Illustra però an­ che l'esistenza di uno specifico stile sinfonico in cui anche il pensiero musicale più complesso implicava un ' esecuzione semplice e senza arti­ fici e per il quale l'immissione di un virtuosismo orchestrale frutto di epoche posteriori non può che essere svantaggioso. Ormai, però, una semplice esecuzione non è più una questione semplice, e ogni musicista che suona oggi le composizioni classiche, orchestrali o meno, si porta dietro abitudini radicate e fuori luogo ereditate da stili posteriori. L'evoluzione di Haydn in campo sinfonico solleva uno dei grandi falsi problemi della storia: la questione del progresso in arte. Le conquiste degli anni fra il 1 768 e il 1 77 2 sono cospicue, ma in uno stile che Haydn abbandonò quasi immediatamente. Compose in quel periodo una serie ragguardevole di sinfonie in tonalità minori, drammatiche, molto per­ sonali, manierate. Le più importanti, in un ordine sommariamente cro­ nologico, sono la n. 39 in sol minore, la n. 49 La passione, la n. 44 Trauer­ symphonie, la n . 52 in do minore e la n. 45 degli Addii. A queste sinfonie, più importanti di quasi tutte quelle in tonalità maggiori scritte negli stes­ si anni, va aggiunta la grande Sonata per pianoforte in do minore Hob 20 del 1 770.2 I Quartetti op. 1 7 e op. 20, scritti ne1 1 77 1 e ne1 1 77 2, sono tutti, sia quelli in maggiore sia quelli in minore, di un livello che nessun altro compositore dell'epoca avrebbe potuto eguagliare e neppure ra­ sentare; e nel valutare il livello raggiunto da Haydn bisogna tener conto anche del bellissimo movimento lento della Sonata per pianoforte in la bemolle maggiore Hob 46. Nessuna di queste composizioni indica con chiarezza la via che l' autore era in procinto di imboccare, e si può ben l. Haydn,

Collected Carrespondence, p.

89.

2. Anche la Sonata in sol minore Hob 44 potrebbe risalire a questo periodo, ma io riten­ go che ora la si dati troppo presto, così come a lungo la si è datata troppo tardi. La coor­ dinazione di armonia, accenti e cadenze regolari la pone piuttosto dopo i1 1 770, forse oltre il 1 774. Che sia stata pubblicata insieme a opere degli anni Sessanta non è una ra­ gione sufficiente per collocarla a quell ' altezza cronologica, se si considera che nello stesso gruppo era inclusa una sonata che, nonostante le asserzioni dell' editore, non è in realtà di Haydn . Un'infomata così eterogenea poteva essere tale sotto diversi aspetti.

1 88

supporre che la storia della musica avrebbe preso una piega diversa se solo egli avesse esplorato le strade aperte in alcune di queste opere . Che sembrerebbero presagire non uno spirito colto e lirico quale si troverà nelle ultime opere haydniane (e mozartiane) , bensì uno stile di un'a­ spra drammaticità, impetuosamente emozionante, senza traccia di sen­ timentalismo. Le opere degli ultimi anni Sessanta e dei primi anni Set­ tanta suscitano ammirazione quando sono valutate secondo criteri pro­ pri e appaiono carenti solo se paragonate alla produzione successiva. Ma perché si dovrebbero imporre quei parametri? Perché alla produzione giovanile del singolo artista neghiamo una tolleranza che riteniamo do­ verosa nei confronti dello stile di un 'epoca precedente? A nessuno ver­ rebbe mai in mente, tanto per fare un esempio, di rimproverare a Chau­ cer di non aver modellato i suoi versi secondo i drammatici ritmi discor­ sivi dei poeti elisabettiani, a Masaccio di mancare dell'unità di atmosfera caratteristica del tardo Rinascimento o, ancora, a Bach di non aver ricer­ cato la varietà ritmica dello stile classico. Queste analogie sono però meno rilevanti di quanto non desiderereb­ be chi, come noi, ama molte opere giovanili di Haydn. U no stile è un _ modo di sfruttare e dominare le risorse di un linguaggio. E difficile im­ maginare una padronanza più completa di quella che del linguaggio tonale del suo tempo avevaJ.S. Bach, ma nei venti anni che intercorrono fra la sua morte e le sinfonie Sturm undDrangche Haydn scrisse nei primi anni Settanta quel linguaggio si era considerevolmente trasformato : la sintassi era divenuta meno fluida, il rapporto fra tonica e dominante si era più fortemente polarizzato. Lo stile haydniano di quel tempo aveva preso atto di questo sviluppo, ma non era ancora in grado di trame tutte le conseguenze . Un'articolazione fraseologica più marcata e la più deci­ sa polarità armonica generavano problemi di continuità ardui da risol­ vere : profili e ritmi passano senza transizione alcuna dalla regolarità squadrata all 'assenza di sistematicità, e in questo caso fanno ricorso qua­ si esclusivamente alla ripetizione oppure alla progressione barocca per trasmettere un senso di moto. Questa dicotomia è particolarmente av­ vertibile in pagine come l'inizio della Sinfonia degli Addii, in cui tutte le frasi hanno la medesima forma, oltre che la stessa lunghezza, e la devia­ zione da quest'uniformità, dalla battuta 33 in poi, è basata quasi intera­ mente sulla progressione. L'idea classica di una variazione asimmetrica riequilibrata su larga scala si può solo lontanamente intravedere. Oggi giudichiamo in effetti le belle sinfonie del l 772 secondo criteri di coerenza che esse non implicano (e ai quali Haydn giunse solo molti an­ ni dopo) ; quei criteri non si trovano però solo nelle opere successive dello stesso autore, ma anche, sia pure a un diverso stadio di sviluppo del linguaggio tonale, in Bach e in Handel. Rigettare i criteri di eccellenza impliciti nelle opere dello Sturm und Drang tenendo invece per buoni quelli del primo Settecento non è dunque un paradosso. Fra Bach e le 1 89

ultime opere di Haydn non vi è > determina uno sforzo di autonegazio­ ne e di repressione che collima, alla fin fine, col « perverso » : le più gran­ di produzioni artistiche neoclassiche (le opere di Gluck, l' architettura di Ledoux, i quadri di David) ne traggono una potenza esplosiva che va ben oltre le aspirazioni dell'opera in sé. 1 l . H o usato il termine « neoclassico " nel senso ristretto di un ritorno alla semplicità della Natura mediante l 'imitazione degli antichi. Nel Settecento il corpo della dottrina era coerente, coeso e sovranazionale. Gluck sosteneva che l'accento della Natura avrebbe dissolto l'assurdità degli stili nazionali. L'estetica del neoclassicismo si può riassumere nell'opinione di Winckelmann che per riprodurre una forma bella in sé la linea doveva essere più sottile possibile.

219

Ciò significa, in fin dei conti, che la grandezza attinta da tanta pro­ duzione neoclassica nasce dall'incapacità della dottrina di reprimere interamente l' istinto (dove per istinto non si intende nulla di più misti­ co che la dottrina non formulata) ; ne consegue, ed è curioso, che in un certo senso la teoria neoclassica si materializza nelle opere stesse. Gli esempi di virtù classica che stanno a fondamento delle opere di Gluck, quali Alceste, Ifigenia o Orfeo, non sono solo espressi, ma letteralmen­ te manifestati dalla castità della musica stessa, col suo rifiuto del virtuo­ sismo vocale, l' assenza di abbellimenti, le arie che si concludono senza lasciar spazio agli applausi, la semplicità del tessuto musicale, con gli arricchimenti contrappuntistici ridotti al minimo indispensabile. L'au­ sterità non è solo stoicismo, ritrarsi dal piacere, ma è in sé una delle maggiori fonti di piacere. Non vi è alcun merito, ovviamente, nel resi­ stere quando non c'è tentazione : il fatto che Gluck fosse sempre meno disposto a inserire ornamentazioni virtuosistiche per i cantanti e che tentasse di evitare l' aria con da capo che forniva loro l' occasione di im­ provvisarne non ha più nulla di sensazionale sul piano artistico. Ben altra portata hanno i momenti di forzata semplicità in cui, con ogni evidenza, Gluck si nega qualcosa che desidera profondamente. Nelle sue opere migliori c'è una severità che richiama lo spazio rigidamente organizzato e i colori metallici di David o le forme puramente geome­ triche di Ledoux, tutti elementi dotati di una rilevanza sia etica sia estetica. La teoria dell'arte come imitazione della natura è un credo di lunga data, a cui il neoclassicismo infuse nuova forza attraverso una visione semplicistica, e persino primitivista, della natura. In musica generò tut­ tavia difficoltà considerevoli (in pittura la sua applicazione era così evi­ dente da rallentare l'estetica per secoli) , tanto che fu necessario rifor­ mularla completamente : la musica imitava, o meglio rappresentava ed esprimeva, i sentimenti più puri e più naturali; il suo successo o il suo fallimento dovevano dunque essere giudicati rispetto a quel compito. Come la dottrina neoclassica, anche l ' e tica psicologica settecentesca richiedeva che si riducesse notevolmente la sofisticazione affettiva: il virtuosismo vocale era senz' altro espressione di sentimenti, ma di un genere « innaturale » e inaccettabile. Ogni arte così strettamente legata alla propria teoria è soggetta inevitabilmente anche all' influsso del pensiero politico e pedagogico : sulla musica di Gluck, le idee di cui Rousseau fu il principale portavoce incisero quanto il rinnovato interes­ se per le virtù classiche. Questo tornare a porre l 'accento sul legame fra i sentimenti e la musica assoggettava quella operistica alla parola pro­ prio quando Mozart era sul punto di emanciparla, facendone non sem­ plice espressione del testo (seppure in parte anche questo) bensì un corrispettivo dell'azione drammatica. Era una conquista rivoluziona­ ria: per la prima volta, sulla scena operistica, la musica aveva modo di 220

seguire il corso drammatico e al tempo stesso produrre una forma che, almeno per gli aspetti essenziali, era giustificabile esclusivamente se­ condo criteri interni. Prima di Mozart (prima cioè di quell 'evoluzione dell ' opera buffa ita­ liana per la quale Mozart avrebbe creato una forma definitiva) , il dram­ ma in musica era sempre stato concepito in modo tale che all ' espressio­ ne dei sentimenti, in genere uno alla volta, corrispondesse nell' aria o nel duetto la musica più formalmente organizzata, mentre l ' azione era affidata interamente ai recitativi. La musica, dunque , salvo i casi in cui possedesse un valore proprio svincolato dal dramma, si limitava a illu­ strare ed esprimere il testo, combinandosi con l'azione solo in modi assai rudimentali e di scarso interesse. Questa supremazia del testo è chiara fin dagli inizi, persino in Monteverdi dove non sempre è netta la distinzione fra aria e recitativo, fra strutture più e meno formalmente organizzate. La conseguenza non è una posizione ancillare della musi­ ca, bensì l'istituzione di una gerarchia nella trasmissione del significato : la musica interpreta il testo e questo l'azione, con le parole poste quasi invariabilmente fra la musica e il dramma. Un'estetica per cui la musica fosse espressione del sentimento era ideale per l'opera barocca: si adat­ tava come un guanto all' aria col da capo, alla fattura ritmica uniforme, al principio della crescita per accumulazione di un motivo centrale, a una ripartizione relativamente omogenea della tensione (il contrasto forni­ to dalla sezione cen trale era anch'esso abbastanza statico da non gene­ rare contraddizione) . Anche smvolando, per il momento, sulla frattura fra musica e movimento scenico essenziale, resta un problema : nella misura in cui è un ' arte espressiva, la musica è pre-verbal,e, non post­ verbale. Agisce sul sistema neiVoso, non sui sentimenti. E per questa ragione che in una musica come l'aria col da capo barocca, mirata alla descrizione di un solo sentimento o affetto, le parole finiscono col suo­ nare come un commento sulla musica generico e impoverito. La linea musicale si rivolge direttamente all' ascoltatore e il cantante aggiunge un testo che funge al massimo da rassicurante didascalia. Un'estetica dell'espressione è indispensabile per l 'opera, ma so�tometteiVisi com­ pletamente distrugge ogni possibilità drammatica. E da quell'estetica essenzialmente priva di movimento che discendono l 'impaccio e le complicazioni dei moderni allestimenti di opere barocch e : che le ope­ re comiche di Mozart, che ruppero in parte con l ' estetica dell ' espressio­ ne, abbiano tenuto la scena ininterrottamente e con grande successo fin dalla loro creazione è emblematico. Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Die Zaubeiflote sono le prime opere che non hanno mai avuto bisogno di essere riportate in auge . Gluck accettò appare n teme n te di buon grado l'estetica dell' espressio­ ne e le infuse persino un nuovo vigore grazie a una cesellatura squisita della declamazione fin nei suoi più minuti dettagli, ineguagliata prima 22 1

come dopo di lui; e tuttavia nella sua produzione si trovano le tracce di un certo disagio verso la staticità che que l l'estetica portava con sé. Ci sono numerosi esperimenti di arie in cui il tempo cambia in continua­ zione e fra queste la più ragguardevole è quella di Alceste, « Non, ce n'est point un sacrifìce » . Ai diversi tempi corrispondono perlopiù bloc­ chi ben distinti; in tutta la musica di Gluck non si trova che qualche vaga velleità di transizione ritmica. L'aria dell' Alceste è fra le sue pagine più riuscite, ma, pur senza metteme in dubbio la bellezza e la grandezza, bisogna riconoscere che uno schema con tanti e diversi tempi che si sus­ seguono è una misura disperata. Il mutamento di ritmo all' interno di un singolo brano sembra sempre mettere Gluck in grave diffi c oltà. Nel se­ guente passaggio dalla Iphigénie en Tauride, il cambio produce l'effetto di una marcia ingranata male : 2S

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e passaggi del genere sono piuttosto frequenti. Giudicato secondo i parametri dello stile classico, il sistema ritmico di Gluck rivela una contraddizione importante . La frase ha già un' articola­ zione classica, mentre la pulsazione, quasi indifferenziata, ricorda piut­ tosto la continuità barocca. Nell' aria di Paride « Di te scordarmi '' • dal Paride ed Elena, la stessa frase compare in due forme : M

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La seconda versione, in minore, occupa mezza battuta. in meno e ne gua­ dagna senza dubbio in concentrazione ed energia. Dal confronto fra le due è però diffi cile comprendere se il compositore abbia o meno distinto fra la forza di un primo e di un terzo tempo della battuta.: la frase in mino­ re inizia con un accento più drammatico, ma poi l'impulso ritmico è biz­ zarra mente più fluido della frase. Simili sposta.menti d'accento nel 4/4 compaiono di frequente nella musica di Haydn e di Mozart, ma (almeno dopo il 1 775) è sempre chiarissimo cosa sia accaduto, le possibilità essen­ do due : o si ha una frase di lunghezza irregolare, così che il battere slitta. provvisoriamente sul terzo tempo (i compositori di epoche successive scrivono in questi casi una singola battuta. di 2/4 e spostano tutte le divi­ sioni di battuta.) ; oppure il battere mantiene la propria forza e l'articola­ zione della frase suona allora come un accento in sincope che contraddi­ ce il metro. Quale sia la scelta. di Gluck non è invece affatto chiaro e pas­ saggi altrettanto ambigui sono disseminati in tutte le sue opere. A causa di questa. debolezza ritmica, le pagine più riuscite di Gluck si risolvono in una serie di ta.bleau, alcuni dei quali concepiti magnifi­ camente. Su un punto importante c'è un progresso spetta.colare rispetto all'opera seria precedente, ossia l'idea di contenere una tensione e un contrasto psicologici all 'interno di un singolo movimento. L'esempio più celebre è il momento patetico in cui Oreste si illude di aver trovato pace mentre la musica rende manifesto come il suo travaglio interiore non sia affatto sopito. Non meno emozionante è nel Paride ed Elena l'an­ gosciata. esitazione della protagonista.: Moderato

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Qui sincopi, ritmi sovrapposti e una declamazione assai prossima al par­ lato si combinano con grande originalità.. Più originale ancora è il modo in cui Gluck concepisce l ' accentazione dinamica. La sua fattura ritmica conseiVa in effetti la quasi completa omogeneità. del tardo barocco, ma la dinamica vi immette un elemento del tutto nuovo. Gran parte dei passaggi migliori di Gluck poggiano, in un modo o nell' altro, su un ostinato ritmico a cui il compositore dà for­ ma mediante l ' accento e sovrapponendovi un' articolazione irregolare : la staticità. del tableau è disgregata da una pressione interna. La più vasta

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e più riuscita costruzione di questo genere do atto , scena

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Tauride, ma per fornire un' idea, anche

approssimativa, della sua potenza sarebbe necessaria una citazione mol­ to estesa. Un ostinato quasi altrettanto emozionan te si trova nel terzetto dell 'ultimo atto di

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La declamazione che scorre libera sopra l ' ostinato sincopato, la tensione impressa dagli

sjorzandi al tessuto ritmico :

di tutto ciò non ci sarà traccia

nello stile classico. Questi tratti riappariranno nell ' opera solo col roman­ ticismo italiano, soprattutto negli ostinati di Verdi (il monologo esausto di Otello nell ' atto terzo si avvicina all ' esempio appena riportato ) .

Il vero

erede di Gluck però , e non c ' è da stupirsene, è Berlioz. Nella sua musica, l' ostinato sincopato rinforzato dagli accenti è un tratto essenziale : senza Gluck, il « Lacrimosa >> del

Requiem non sarebbe mai esistito .

Mozart ha un importante debito artistico nei confronti di Gluck, so­ prattutto per la potenza drammatica dei recitativi accompagnati, e occa­ sionalmente fa persino qualche riferimento esplicito al suo stile persol. Gluck era soddisfatto di questo terzetto al punto di riutilizzarlo nell' Orphée.

224

nale , come accade nella Ciaccona dell ' Idomeneo. Ma è sorprendente quante delle più riuscite e suggestive innovazioni gluckiane sembrino non essere mai esistite per Mozart: egli non deve quasi nulla alla decla­ mazione gluckiana nelle arie o alla sua concezione degli accenti; non tentò mai la strada sperimentale dei molteplici e fluidi mutamenti di tempo entro il singolo brano; e solo verso la fine della sua vita, nella Zau­ beiflote, usò il coro con una maestosità paragonabile a quella di Gluck (ma anche allora senza mirare alla stessa potenza drammatica, salvo che nella frase pianissimo e dietro le quinte del coro al termine della scena di Tamino e del Sacerdote) . Quanto a Beethoven, che pure tentò di com­ porre una vera opera " seria » , il suo debito con Gluck è ancor più esi­ guo, benché la visione allucinatoria di Leonore da parte di Florestan all'inizio del secondo atto del Fidelio abbia la fluidità, insieme di ritmo e di frase, di Gluck e persino qualcosa della sua sonorità orchestrale nell'o­ boe che risuona acuto e solitario sopra il pulsare degli archi. Mozart distrusse il neoclassicismo nell'opera. Ciò fu ben chiaro ai con­ temporanei e spiega, almeno in parte, l'opposizione che incontrò il suo stile. Già nel 1 787, Goethe scriveva nel Viaggio in Italia: « Tutti i nostri sforzi per concludere nella semplicità e nella moderazione andarono in fumo quando appanre Mozart. n Ratto dal Serraglio annientò ogni cosa e in teatro non si è mai parlato della nostra commedia tanto faticosamen­ te elaborata » . 1 Gli ideali goethiani erano assai vicini a quelli di Wieland (uno dei pochi autori a godere della stima attestata di Mozart) , il quale nel proprio saggio sul Singspiel tedesco scriveva : > ( « Uccidi prima sua moglie » ) di Leo nore e la tromba fuori scena (ambe­ due simmetricamente centrati su un elettrizzante si bemolle in una for­ ma sonata in re maggiore) , offre un esempio di tensione armonica spin­ ta all 'estremo sia appena prima sia appena dopo l'inizio della ripresa; è un procedimento che si trova già in Haydn e in Mozart, ma che Beetho­ ven fece evolvere ben oltre la forma originaria. Quando scrisse ldomeneo, Mozart non era invece ancora in grado di padroneggiare all'interno del­ la forma sonata modulazioni di tale peso e potenza, né violente virate nella fattura ritmica; dovette dunque affidarsi esclusivamente al recitati­ va per rendere il movimento drammatico del testo . E questo passaggio è il più debole dell'intera partitura. Ciò che alla fine gli permise di sottrarsi alla scelta, intollerabile , fra azione e complessità musicale fu, molto semplicemente, il ritmo dell 'o­ pera buffa. Qualche purista ha trovato scandaloso che Leporello sia co­ stantemente presente nelle scene più serie del Don Giovanni. L'obiezio­ ne non regge, a mio giudizio, neppure sotto il profilo puramente teatra­ le, �a l'utilità musicale di Leporello in quei momenti è fuori discussio­ ne. E essenziale per il ritmo dell'azione. Quando Donna Anna cerca di trattenere l'uomo che ha appena tentato di sedurla (forse con succes­ so) , Leporello canta una tiritera che Sir Arthur Sullivan avrebbe ben potuto riprendere : LEP

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e nella scena in cui Don Giovanni sfida il Commendatore e precipita poi all'inferno, il servo ha di nuovo una linea simile : 229

Leporello fornisce un supporto ritmico sopra il quale possono svolgersi le azioni più serie. Quand'anche ci lasciassimo indurre da un senso del decoro teatrale già antiquato intorno al 1 780 a considerarla sconvenien­ te, la presenza di Leporello in quei frangenti sarebbe quindi, in ogni caso, il prezzo da pagare per far incontrare musica e dramma su un pia­ no di parità. Mozart trasformò l'opera seria trovando lo sbocco per mol­ te sue convenzioni e per tutta la sua forza nell' ambito dell' opera buffa. Rifiutando gli antichi modelli drammatici classici, di cui il genere serio non aveva mai potuto fare a meno, rese l'opera capace di rispondere alle esigenze del dramma. Non solo distrusse i propositi neoclassici nell 'am­ bito del Singspiel, ma innestando con successo gli aspetti più riusciti dell'opera seria nella tradizione viva di quella buffa, demolì anche l 'idea­ le di un genere drammatico-musicale puramente serio. L'introduzione di personaggi seri nell' opera comica era una prassi diffusa, iniziata già con l' opera buffa napoletana all'inizio del Settecen­ to, ma prima di Mozart nessuno aveva saputo integrarli con successo nell' azione comica. All'età di diciannove anni, con La finta giardiniera (la prima opera teatrale a dare la misura delle sue capacità) , Mozart ave­ va già conferito peso e dignità all'opera buffa, grazie allo stile musicale elaborato e allo splendore e alla ricchezza delle strutture musicali più formali proprie dei personaggi seri. Vale la pena di considerare come indipendenti l'uno dall' altro i due generi, serio e buffo, se non altro per vedere come fu quest'ultimo a fornire l' organizzazione su vasta scala entro la quale poterono essere incorporati i singoli elementi dell' opera seria. Il Settecento, del resto, malgrado il suo gusto per l'intensità emo­ tiva data dalla purezza dei singoli generi, non fu mai rigidamente dog­ matico (ciò è vero quantomeno per i compositori, se non per i critici) e le opere migliori della maturità di Mozart sono tutte in buona misura una fusione delle due tradizioni, seria e buffa. Restano a tratti distinte nelle ultime opere, a volte per esaltare un contrasto drammatico, altre volte per differenziare i personaggi aristocratici da quelli delle classi su­ balterne; ma gran parte della musica si muove in una sfera in cui la sinte­ si è completa. Il primo capolavoro di questa fusione sono Le nozze diFigaro.1 Da Ponte rivendicò che con quest' opera lui e Mozart avevano creato un genere di spettacolo completamente nuov? . E in effetti la sua gravità morale non ha precedenti nel genere buffo. E anche (e forse è un corollario) di una l. Nella Entjuhrnng aus dem Serai� le arie di Konstanze in stile serio si integrano meno bene col resto, soprattutto perché le prime due si susseguono senza null'altro che un dialogo parlato a separarle.

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lunghezza eccezionale per l'epoca, tanto che al suo debutto italiano fu necessario dividerla in due serate (e anche così gli ultimi due atti furono riscritti da un altro compositore, poiché quelli di Mozart venivano consi­ derati di una difficoltà insormontabile) . Per sostenere delle dimensioni e una serietà fino ad allora mai azzardati nel campo dell 'opera buffa, Mozart dovette letteralmente creare un senso del tutto nuovo di conti­ nuità drammatica. Per raggiungere quest'obiettivo, Mozart non recuperò i procedimenti di integrazione su scala ridotta che aveva sperimentato nell 'Idomeneo, bensì accolse, e anzi rafforzò, l'integrità e l'indipendenza di ciascun nu­ mero. Il recitativo secco è nelle Nozze meno espressivo che in ogni opera precedente, la simmetria dei pezzi chiusi più elaborata e complessa. Il ritmo drammatico dell 'opera nel suo insieme è definito nel modo più classico, ossia mediante i rapporti reciproci delle unità articolate e indi­ pendenti, le loro proporzioni e la loro disposizione simmetrica entro uno schema in cui l ' apice della tensione è posto al centro dell'opera. Una costante evoluzione ritmica per mezzo di tappe progressive attenta­ mente graduate è un elemento fondamentale dello stile classico e nelle Nozze di Figaro è applicato al ritmo sulla scala più ampia. La continuità drammatica è conseguita rispettando l' indipendenza delle singole for­ me chiuse. Grazie alla capacità di definire i personaggi con mezzi puramente mu­ sicali, di scrivere in modo diverso e caratteristico per ciascuno dei tre soprani (la Contessa, Susanna e Cherubino) , Mozart garantisce la varie­ tà indispensabile alla struttura complessiva. La chiave di volta del suo successo risiede in un'innovazione essenziale, ossia nell 'inedito svilup­ po, nella straordinaria espansione dei brani d'assieme. Nell 'Idomeneo, il numero prediletto del compositore era il quartetto, ma per il resto l'o­ pera non offre nulla di paragonabile alla ricchezza di scrittura degli as­ siemi delle Nozze di Figaro. Qui i primi sei numeri combinano, in modo davvero ingegnoso, tre duetti con tre arie di carattere molto diverso : la cavatina di Figaro « Se vuoi ballare » , l'aria di vendetta di Bartolo e l'e­ spressione del risveglio della sensualità dell'adolescente Cherubino. Se­ gue un drammatico terzetto in cui Cherubino è scoperto nascosto su una poltrona sotto un vestito : è il punto nodale dello sviluppo che con­ duce verso una complessità crescente della musica e dell 'azione. Il coro di contadini che segue e l'aria marziale di Figaro « Non più andrai >> for­ niscono una conclusione brillante. Questa concezione nuova di conti­ nuità musicale entro il dramma, realizzata mediante un progressivo in­ cremento di complessità delle singole unità indipendenti, raggiunge il culmine nel famoso finale del secondo atto, un tour de force che in una costruzione tonale magnificamente simmetrica muove da un duetto a un settimino, passando per un terzetto, un quartetto e un quintetto . Questa sintesi fra una complessità sempre più incalzante e una risolu231

zione perfettamente simmetrica è il cuore dello stile mozartiano e per­ mise a Mozart di creare l'equivalente musicale delle grandi opere teatra­ li che gli servirono da modelli. Le nozze di Figaro di Mozart stanno per qualità drammatica sullo stesso piano, se non al di sopra, della comme­ dia di Beaumarchais; per la prima volta nella storia dell'opera, la versio­ ne musicale non doveva temere il confronto, che era anzi il benvenuto, coi più riusciti testi teatrali. Posto a fianco delle versioni di Goldoni o di Molière, il Don Giovanni operistico non sfigura; Cosìfan tutte è una com­ media psicologica fra le più sottili e perfette della tradizione il cui massi­ mo rappresentante fu Marivaux; e la Zauberflote trasformò tanto lo Zau­ berspiel di tradizione viennese quanto la fiaba magica creata da Carlo Gozzi. Un tale sviluppo poteva avvenire solo entro le strutture e le tradi­ zioni dell'opera buffa, ma non sarebbç stato possibile senza la maestria di Mozart nel trattare tutti gli elementi dell 'opera seria. La solidità dei risultati mozartiani è tanto più stupefacente se si considerano la vuota nobiltà di quasi tutte le opere serie successive a Monteverdi, la leggerez­ za vacua dell' opera buffa settecentesca e la forzata ingenuità del Singspiel neoclassico; ma senza queste diverse tradizioni, le ultime ope­ re di Mozart non sarebbero state possibili. Il ritmo classico, come abbiamo visto, non poteva reggere un passo drammatico di lungo respiro in generi non comici; perciò, nel tentativo di rallentare il movimento fino a un andamento commisurato alla digni­ tà morale del soggetto, Beethoven componendo il Fidelio si ispirò princi­ palmente alla più libera tradizione operistica francese, nel segno di Che­ rubini e di Méhul. Questa scelta si vede più distintamente nella versione originale dell'opera, dove sono continuamente ripetuti in modo pres­ sante frasi brevi e frammenti di frase : nell' opera francese queste ripeti­ zioni, che Beethoven soppresse in seguito, conferivano chiarezza e una generica dignità, diluendone al tempo stesso la potenza drammatica. La revisione beethoveniana riflette la decisione di ritornare in sostanza alla ben più stringata organizzazione dell 'opera buffa; quest'intento risulta particolarmente evidente nella scelta di sostituire alle precedenti l 'ou­ verture Fidelio, che nonostante i romantici richiami di comi si muove in modo più leggero e più prossimo allo stile comico. A parte l'ispirata n­ scrittura dell'aria di Florestan, la revisione beethoveniana è spiegabile in gran parte come ritorno alla concisione classica (sebbene l' infelice modifica apportata alla linea melodica iniziale del duetto in sol maggio­ re con cui termina la scena del sotterraneo sia stata probabilmente dovu­ ta alle difficoltà che i cantanti incontrarono con la versione originale, musicalmente più spontanea) . 1 l . Le difficoltà di Beethoven con il Fidelio sono state esagerate : il fiasco della prima ver­ sione può essere in larga misura addebitato alla sfortuna del debutto in tempo di guerra. Beethoven però non era in generale propenso a riscrivere un pezzo solo perché non

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Quest'accostamento di tradizioni diverse emerge con nettezza soprat­ tutto nel primo atto , dove il duetto iniziale è in sostanza pura opera buffa e i modelli mozartiani traspaiono in modo fin troppo evidente sotto allo splendido canone « Mir ist so wunderbar '' (che richiama quel­ lo del Cosìfan tutte) e all'aria di Rocco (che si può mettere in parallelo con diverse arie di Mozart, soprattutto con >.1 Le cifrature del basso di mano di Leopold Mozart non dovettero servire che per le esecuzioni domestiche dei concerti che non richiedevano i fiati e in cui lo strumento a tastiera riempiva la sonorità degli archi. Mozart del resto non avrebbe avuto bi­ sogno dei numeri, e Leopold non dovette usarli che in casa. Contribuisce a rafforzare ulteriormente questa tesi anche la parte del continuo del K 246 di pugno di Mozart; qui il pianoforte nei due movi­ menti estremi accompagna l'orchestra solo nei passaggi contrassegnati dal forte, mentre nell'Andante, sorprendentemente, raddoppia la melo­ dia solo alle battute 9-1 2 , ossia, ed è significativo, nell'unico punto del­ l'intero concerto in cui la melodia è affidata ai soli fiati senza alcun so­ stegno degli archi. Si può quindi supporre che questa realizzazione sia servita per un'esecuzione senza i fiati, quasi certamente con il solo quin­ tetto d'archi. Questo documento, l'unico autografo mozartiano del ge­ nere, non ha dunque alcun valore per le esecuzioni pubbliche dei con­ certi. L' indicazione del continuo nei concerti di Mozart dovrebbe essere l. Lettera del 1 5 maggio 1784, in Mozart, Letters, cit., vol. Il, p. 877 [ Thtte le lettere di Moza1t, cit., vol. III, p. 1 363] .

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valutata assieme alla documentazione che rimane di parti per il piano­ forte nelle ultime sinfonie di Haydn . Fu l'autore stesso a dirigere alla ta­ stiera le prime esecuzioni delle sinfonie londinesi e abbiamo addirittura un breve assolo di pianoforte, undici battute, per la fine della n. 98. Ma nella mezza dozzina di edizioni pubblicate a stampa durante la vita di Haydn non c'è traccia di quest' assolo; non compare che in un ' edizione postuma e in diverse trascrizioni per quintetto o trio con pianoforte (in una delle quali si trova affidato al violino) . A fronte degli innumerevoli passi solistici per tutti gli altri strumenti d' orchestra, undici battute op­ zionali per il pianoforte non possono essere considerate altro che una dimostrazione dell 'umorismo di Haydn . Al debutto, l' onere di tenere insieme l'orchestra era ripartito fra il primo violino, Salomon, e il com­ positore seduto alla tastiera; dovette essere indubbiamente ameno, al termine di una sinfonia, sentire spuntare all'improvviso in veste di soli­ sta uno strumento che fino ad allora non aveva avuto funzione musicale più significativa di quella del suggeritore in un'opera. Il passaggio è in­ cantevole non per il fatto che il pianoforte intetvenga in una composi­ zione sinfonica, bensì perché esso è visibile ma non udibile per tutto il brano salvo che in quelle undici battute. (In un'esecuzione ai giorni nostri, è impossibile cogliere la facezia implicita in questo breve solo pianistico, ma il suo effetto sonoro è così delizioso che rinunciatvi è dav­ vero un peccato) . Ali' epoca, la tastiera aveva perso da tempo la funzione di riempitivo armonico1 e iniziava a non seiVire più neppure per garanti­ re la coesione dell'orchestra. Si potrebbe aggiungere che l'indicazione col basso dei manoscritti mo­ zartiani è un puro automatismo : i sostenitori della teoria che il continuo fosse concepito per essere sia visto che udito giudicano particolarmente significativo che Mozart abbia talvolta inserito delle pause nella parte pianistica in corrispondenza dei tutti, ma sono pause che non hanno al­ cun valore musicale, tant'è vero che compaiono quasi esclusivamente dove il violoncello non suona. Si tratta di un aiuto per il copista, non di un' indicazione esecutiva. La parte del violoncello (e non altro) veniva inserita in quella dello strumento a tastiera quando questo taceva; ciò aweniva in modo tanto automatico e tradizionale che nella parte organi­ stica della Missa solemnis di Beethoven la troviamo assieme all 'indicazio­ ne senza organo. Perché allora darsi la pena di stamparla? Semplicemente perché l' esecut,ore alla tastiera aveva avuto davanti a sé la parte del vio­ loncello per almeno un secolo e mezzo , e gli seiViva per orientarsi.2 l. Anche nelle sinfonie giovanili, il solo indizio stilistico della presenza del continuo è un tessuto sonoro snello tipico di Haydn e che egli continuò a favorire sino alla fine della sua vita, come dimostra anche una semplice occhiata agli ultimi quartetti.

2. È divertente vedere a quali estremi giungano, per difendere le loro teorie, quanti so­ stengono che il solista svolgesse anche la funzione del continuo. Alle battute 88-89 del

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Ciò detto, in tutta questa discussione c'è un ' assenza importante, co­ me la sedia vuota per l'ospite d'onore che non si è presentato; una que­ stione che mai, per quanto ne so, è stata affrontata dalla letteratura in argomento. Ci siamo domandati se il continuo venisse usato, se se ne possa fare a meno oppure no, ma non ci siamo mai posti il problema del suo effettivo valore musicale. Fra due esecuzioni di un qualsivoglia bra­ no, l'una con e l'altra senza uno strumento a tastiera che aggiunga l 'ar­ monia, dovrà pur esserci una differenza che sia specificamente musicale. Se il basso numerato era un ausilio pratico per l'esecuzione, un aiuto per la coesione dell'insieme, perché fu abbandonato? Spiegare la scomparsa del continuo con quella della sua funzione armonica non fa che riman­ dare la domanda. Perché per riempire l'armonia i compositori rinuncia­ rono a usare lo strumento a tastiera, che permetteva di farlo in maniera assai più semplice, senza doversi prendere la briga di distribuire le note altrove, e che, per di più, agevolava la coesione orchestrale? Perché, tan­ to per dire, in un quartetto di Brahms o in una sinfonia di è ajkovsk.ij l'aggiunta di una parte di continuo, per quanto discreta, ci apparirebbe grottesca? Il continuo (o qualsiasi forma di basso numerato) è un modo per de­ lineare e isolare il ritmo armonico. È per questa ragione che in genere lo si può indicare mediante numeri sotto la linea del basso piuttosto che scrivendone esattamente le note per esteso. Far risaltare il cambio di ar­ monia è la sola cosa importante, i raddoppi e la distribuzione spaziale delle note che la compongono sono questioni secondarie. Questo modo di isolare (di mettere in evidenza l'andamento dei cambi di armonia) è un tratto essenziale dello stile barocco, e particolarmente del cosiddetto tardo barocco del primo Settecento, di uno stile cioè che trae l'impulso motore e l'energia dalla progressione armonica e che su questa sola può contare per invigorire e animare un tessuto musicale altrimenti poco differenziato. La musica del tardo Settecento trae invece la propria energia non dalla progressione , bensì dall'articolazione della frase periodica e dalla modulazione (o da ciò che potremmo chiamare la dissonanza su larga ·

Concerto in re minore K 466, Mozart annotò alla mano sinistra quattro note gravi (che raddoppiano i timpani) e alcuni accordi due ottave ·sopra di quelle mentre la mano de­ stra è impegnata in passaggi virtuosistici; poiché ovviamente non c'è mano che possa coprire tre ottave, queste battute hanno dato luogo a spiegazioni assai fantasiose. Si è ipotizzato un secondo pianoforte che si facesse carico di un continuo su quelle note gravi, così come l'utilizzo di un pianoforte con pedaliera (sembra che Mozart ne abbia posseduto uno a un certo punto della sua vita) . La cosa che allo stato attuale appare più probabile è che Mozart abbia dapprincipio scritto quelle note e successivamente cambia­ to idea e inserito gli accordi, dimenticando di cancellare la prima versione . Questo passo mostra in ogni caso che quando Mozart desiderava affidare al solista una funzione di ri­ empitivo armonico, metteva per iscritto le note necessarie.

248

scala) . Un'enfasi sul ritmo armonico è dunque non solo superflua, ma anche fonte di distrazione. In una sinfonia di Haydn , il tintinnio di un cembalo o di un fortepiano è senz ' altro un suono suggestivo, ma irrile­ vante sul piano musicale e privo di valore al di là della piacevolezza sono­ ra. Che né Mozart né Haydn abbiano concepito un sistema più efficace per dirigere un ' orchestra mostra che in quanto interpreti erano sullo stes­ so piano dei contemporanei, la cui concezione esecutiva era in ritardo rispetto al radicale mutamento stilistico intervenuto dal l 770 in avanti e del quale gli stessi Haydn e Mozart erano principalmente responsabili. Il che solleva un nuovo quesito : sa il compositore come debba suonare ciò che egli scrive? Problema delicato, che sta al cuore di ciò che pensiamo sia la musica. Se questa non si riduce alla semplice notazione su carta, la sua realizza­ zione sonora è una questione cruciale. Siamo soliti ritenere che l'esecu­ zione ideale sia quella immaginata dall' autore mentre componeva e che il « vero >> brano sia quell'ideale esecuzione immaginaria, non le note scritte sul foglio o quelle sbagliate in un'esecuzione materiale. Ma è una supposizione fragile che non regge a una verifica. E un'opera musicale non può semplkemente coincidere con una delle varianti menzionate (l'esecuzione immaginaria, quella effettiva, la notazione su carta) . Mettiamola nel modo più semplice. Le testimonianze d'epoca ci inse­ gnano che, attorno al 1 790 , quando un direttore sedeva alla tastiera spesso smetteva di suonare per affidarsi al gesto; non sappiamo dove esattamente si interrompesse, ma siamo certi che non suonava dall'ini­ zio alla fine. Nell 'immaginare la sonorità delle sue sinfonie, Haydn do­ veva senz'altro aspettarsi una certa dose di intervento del clavicembalo o del fortepiano, ma non c'è nessun punto della sua musica in cui ciò sia indicato come necessario, o anche solo auspicabile, se non il breve pas­ saggio scherzoso della Sinfonia n. 98. Ciò significa che l'idea che un compositore ha della propria opera è a un tempo precisa e leggermente sfumata; e non può essere altrimenti. Nulla è definito con maggior esattezza di una sinfonia di Haydn, con i contorni netti, i dettagli chiari e sempre nitidi ali' ascolto. Là dove Haydn scrive però una certa nota per il clarinetto, l' indicazione non rimanda a un suono specifico - c ' è una moltitudine di strumenti ed esecutori e suonano tutti in modo diverso -, bensì a un ampio ventaglio di possibili­ tà entro un ambito ben definito. L' atto compositivo consiste nel fissare il perimetro entro il quale l'interprete è libero di muoversi. Una libertà che tuttavia è (o dovrebbe essere ) limitata anche in un altro senso . I confini fissati dal compositore rimandano a un sistema che, per molti aspetti, è simile a un linguaggio e che è dotato, infatti, di ordine, sintassi e significato suoi propri. L'interprete fa emergere quel significato, ne illumina la portata rendendola quasi palpabile. Nulla induce a credere che il compositore stesso o i suoi contemporanei sappiano sempre con 249

certezza quale sia la via migliore per rendere l'ascoltatore pienamente consapevole di quel significato. Le innovazioni compositive precedono nuovi modi di suonare e can­ tare e spesso ci vogliono dieci o vent'anni perché gli interpreti imparino a cambiare il proprio stile e riescano ad adattarsi. Ora del l 775, l'uso del continuo nel concerto per pianoforte era ormai un vestigio del passato che la musica stessa avrebbe completamente abolito, e tutto induce a ri­ tenere che il basso numerato fosse ormai solo una notazione convenzio­ nale utile per il solista o per il direttore come surrogato della partitura durante l'esecuzione, o tutt'al più come mezzo per tenere assieme l'or­ chestra, ma che non avesse più alcuna funzione musicale. Lo sdegno sporadicamente suscitato al giorno d' oggi dalla sua omissione, vuoi in sala da concerto, vuoi in un 'edizione, non ha fondamento storico ed è musicalmente insostenibile. Nel l 767 Rousseau lamentava che all' opera di Parigi il direttore, bat­ tendo un rotolo di carta da musica sul leggìo per tenere l' orchestra a tempo, facesse un tale rumore che il piacere dell'ascolto ne risultava completamente distrutto. L'uso di uno strumento a tastiera nel corso di una sinfonia o di un episodio orchestrale in un concerto scritto dopo il 1 775 è senza dubbio meno fastidioso all'ascolto, ma la sua autenticità e il suo valore musicale sono i medesimi. Il fatto più rilevante per la forma del concerto è che il pubblico aspet­ ta l'entrata del solista e poi, quando questi smette di suonare, che ri­ prenda. Se si può dire che il concerto abbia, a partire dal l 775 , una for­ ma, quest' attesa ne è il fondamento e spiega il legame così forte e stretto fra il concerto e l'aria d'opera; un'aria come « Martern aller Arten » dalla Entfuhrung aus dem Serail non è altro che un concerto per più strumenti solisti in cui il soprano riveste il ruolo principale in un gruppo concer­ tante. Alla fine del Settecento quel legame si fece più stretto che mai e l' apporto del periodo classico al genere del concerto fu in effetti di ren­ derlo drammatico e nel modo più letteralmente scenico: che il solista fosse diverso veniva reso visibile. Nel concerto barocco il solista (o i solisti) facevano parte dell'orche­ stra e con essa suonavano durante l'intero brano; il contrasto sonoro era dato dal tacere del ripieno (gli strumenti non solisti dell' orchestra) mentre i solisti continuavano. Nei concerti del primo Settecento non esistono in sostanza entrate dall' effetto drammatico salvo quelle dell'or­ chestra al completo; anche quando inizia la famosa cadenza del Quinto concerto brandeburghese l'impressione è che il solista prosegua senza solu­ zione di continuità col tessuto musicale precedente perché l'orchestra è andata via via rarefacendosi, fino alla scomparsa, attraverso una serie di gradazioni splendidamente calibrate in cui Bach riesce, per una volta, a 250

vincere la resistenza che lo stile del suo tempo oppone alla transizione dinamica. (La breve pausa con cui molti cembalisti indicano l' inizio del­ la cadenza è un anacronismo, l'intrusione di un 'idea moderna di teatra­ lità concertistica) . Nel concerto classico le cose stanno diversamente : in tutti quelli che Mozart scrisse dopo il l 776, l'entrata del solista è un awe­ nimento, paragonabile all'arrivo sulla scena di un nuovo personaggio, che viene contornato, messo in rilievo, colorato, con una strabiliante varietà di mezzi. La separazione del solista dal ripieno, va detto, non fu un 'invenzione di Mozart, bensì il frutto di un cambiamento progressivo legato alla generale evoluzione della forma articolata e alla crescente sensibilità verso la chiarezza drammatica; solo Mozart però, fra i compo­ sitori anteriori a Beethoven, intuì la portata di quel contrasto dinamico fra solista e orchestra e seppe trame tutte le conseguenze sul piano della forma e del colore. Lo stesso Haydn continuò a trattare perlopiù il soli­ sta come un componente temporaneamente separabile dell 'orchestra. Il concerto barocco è una libera alternanza di sezioni solistiche e di ripieno senza decise cadenze alla tonica, se non in conclusione del pri­ mo e dell'ultimo episodio orchestrale, e con soli che derivano dai tutti, quasi immancabilmente generati dai motivi iniziali. Tralascio in questa descrizione le sorgenti di energia proprie dello stile barocco, sorgenti che fanno dei grandi concerti di Bach e di Handel ben più che libere alternanze di contrasti e che si erano però inaridite molto prima dell 'e­ poca mozartiana. Lo sviluppo del concerto dopo il 1 750 è stato spesso descritto come una fusione tra la nuova forma sonata e il vecchio concer­ to; non è del tutto fuorviante, ma ha il limite di non spiegare perché mai qualcuno avrebbe dovuto voler arbitrariamente fondere due concezioni tanto contrastanti se non opposte. Perché non abbandonare semplice­ mente la vecchia forma e scriv�re un 'opera del tutto nuova come una sonata per solista e orchestra? E più proficuo allora esaminare la que­ stione da un'angolatura più semplice e meno banalmente meccanicisti­ ca. Considerando la sonata non come forma bensì come stile, ossia co­ me sensibilità verso un nuovo tipo di espressione drammatica e di con­ cezione delle proporzioni, si vede più distintamente come il concerto abbia adattato le proprie funzioni (il contrasto fra due tipi di sonorità, il dispiego del virtuosismo) al nuovo stile . Elencare nella loro varietà i pro­ cedimenti formali usati da Mozart nei concerti non è di grande utilità se non se ne comprendono i fini drammatici ed espressivi. Torniamo alla pagina orchestrale d'esordio, ossia al primo ritornello : una volta accettato che il solista debba rivestire un ruolo drammatico, il ritornello pone un problema per la semplice ragione che (come ho già detto) il pubblico attende l'entrata del solista. Ciò significa che entro certi limiti il tutti iniziale ha sempre un carattere introduttivo : sta per succedere qualcosa. Se è molto breve, come nella maggior parte delle arie, il problema non si pone; in un brano di ampie dimensioni, invece, 251

questo carattere introduttivo rende l' inizio insignificante e il materiale che qui viene ascoltato per la prima volta tende a perdere la sua impor­ tanza e necessità. Fame un ' introduzione in senso stretto, conferirgli cioè sul piano armonico un carattere di dominante anziché di tonica, e affi­ dare al solista, solo o accompagnato, l' esposizione del materiale principa­ le, significherebbe violare, tenendo conto del peso rispettivo delle due

sonorità, il senso classico di decoro (qualcosa di simile non fu possibile che oltre un secolo più tardi e a guisa di scherzo in un brano come le Va­

riazioni su una ninna-nanna di Dohminyi, benché le Variazioni Kakadu di Beethoven rappresentino già un tentativo in quella direzione) . Soppri­ mere semplicemente il ritornello iniziale e far esporre il materiale da so­ lista e orchestra su un piano di parità (come nei concerti di Schumann, Liszt, Grieg e C aj kovsk.ij ) significa rinunciare al piacere classico degli ef­ fetti su larga scala e trasformare il con trasto fra solista e orchestra in una serie di rapide alternanze perdendo il respiro delle sezioni estese. D ' altro canto rendere esageratamente drammatico il ritornello iniziale nel tenta­ tivo di accrescerne l' importanza e attrarre su di esso l' attenzione del pub­ blico vorrebbe dire sminuire l' effetto drammatico del ruolo solistico, di­ struggendo uno dei principali vantaggi della forma del concerto . All'età di vent'anni, in quello che fra tutti i generi può essere conside­ rato il suo primo capolavoro di ampie dimensioni, Mozart risolse il pro­ blema in modo semplice e brutale, come chi rompesse il collo di una bottiglia per aprirla. All ' inizio del Concerto in mi bemolle maggiore K 271 (si veda l' esempio alle pp. 87-88) il pianoforte partecipa ( da solista) alle prime sei battute e poi tace per il resto dell 'esposizione orchestrale; era una soluzione così singolare che Mozart non vi ricorse mai più (fu invece sviluppata da Bee thoven in due celebri esempi, e in seguito da Brahms che ampliò la concezione beethoveniana) . Con un colpo solo , la presentazione iniziale guadagna drammaticità e l ' esposizione d' or­ chestra il peso che altrimenti le sarebbe forse mancato. Tuttavia, per ot­ tenere questo risultato, l ' entrata di maggior effetto del solista (la prima) viene spesa già alla seconda battuta, prima che la sonorità orchestrale si sia udita abbastanza a lungo perché si possa cogliere fino in fondo il con­ trasto fra i due ; il che rende problematica la seconda entrata del solista, ma anche in questo caso la soluzione è audace e brillante. Il pianoforte entra prima che l' esposizione orchestrale abbia trovato il tempo di fini­ re , nel bel mezzo di quella che è eviden temente una lunga cadenza con­ clusiva;1 inserendosi con un trillo che fa, al tempo stesso e non senza ambiguità, da segnale di virtuosismo per il solista e da accompagnamen­ to coloristico alla frase orchestrale, il pianoforte prosegue bellamente indifferente , come se si trovasse nel bel mezzo di una propria frase du­ rante una conversazione in corso. l . Si vedano i temi 9 e lO nell'esempio a p. 257.

252

L'esposizione orchestrale del

K 27 1

non modula mai e rimane sempre

alla tonica, proprio come farebbe l ' introduzione orchestrale di un' aria d' opera. L' effetto drammatico della modulazione è lasciato al solista;

poiché il concerto richiede a rigore due esposizioni, necessariamente una di esse è passiva; proprio per non averlo compreso l'Ottocento do­ vette spesso rinunciare a quella orchestrale che diveniva tautologìca. Nel Concerto in mi bemolle invece le due esposizioni differiscono non solo nel percorso armonico, ma anche nella struttura tematica. Il ritornello definisce la natura del brano, ne fornisce le fondamenta tonali e motivi­ che; l' esposizione pianistica conferisce al concerto il movimento dram­ matico e, a questo scopo, elimina una parte del materiale tematico e ne aggiunge di nuovo. La somma di materiali così prodotta, con tutta la sua varietà e ricchezza,

è tenuta assieme da una logica immediatamente con­

vincente : essi derivano in gran parte , e risulta chiaramente all ' ascolto , dalla frase iniziale. Benché molto diverse fra loro , le due esposizioni sono legate da un rapporto che non ha nulla di arbitrario ; sorvolando, per il momento, sui

diversi aspetti della questione delle forme di sonata o di concerto, è inte­ ressante invece soffermarsi su come Mozart forgi il proprio materiale e

(l)

gli conferisca potenza drammatica. Il motto del brano si trova nelle pri­ me battute , un tema

dalle cui due parti con trastanti deriva in buona

parte il resto del movimento . Chiamo

(a)

la fanfara orchestrale e

( b)

la

simmetria dissimulata nell ' arguta risposta del pianoforte :

(l)

••1%

..

rEtU l ,



.----- b ------. ., Pianoforte

.-- a �

•·

AJ J l J

-J

J



Il tutto viene ripetuto ed è immediatamente seguito da un tema combina ingegnosamente ritmi e profili di danzante :

(a)

e

( b)

(2)

che

in un andamento

r

Ne nascono un più rapido ritmo di accompagnamento e una fanfara

(3)

chiaramente imparentata con ( a) , mentre gli oboi portano avanti i l dise­ gno di

(2) : 253

Seguono quattro battute di transizione, costruite con due elementi del tutto convenzionali, che chiamo (3A) e ( 3B) benché sia vano doman­ darsi se questa frase appartenga più a ciò che precede o a ciò che segue. La riporto non solo per la maestria con c.ui è condotta la transizione , ma anche per l'importanza che la frase verrà ad assumere nelle sezioni suc­ cessive, dove Mozart la usa come un perno affin ché l'ascoltatore dentro di sé associ sezioni costruite con materiali diversi ma con la medesima funzione :

Il blocco (3A-B) rallenta il movimento : la frase nel suo insieme funge da pedale di dominante e la musica rimane sospesa prima di ripartire con un andamento diverso. Segue poi una frase ( 4) di una grazia incompara­ bile, in apparenza del tutto nuova ma in effetti così strettamente impa­ rentata con (b) da integrarsi senza il minimo impaccio con tutto ciò che precede : non è altro infatti che l ' aumentazione del modulo tematico di base e porta un senso di respiro dilatando lo spazio del conciso motivo originale :

254

Segue immediatamente un nuovo tema (5) (lo designo come un tema a sé stante benché non compaia mai separato da ( 4) salvo che nella caden­ za: qualsiasi altro compositore, senza la ricchezza inventiva di Mozart, l'avrebbe usato come melodia indipendente) ; deriva da (4) tramite l' ag­ graziato movimento ascendente all'inizio di ogni battuta :

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Questa filiazione è concepita in modo che all' ascolto la si percepisca come un elemento della logica conversativa della musica, ma costitui­ sce al tempo stesso un 'intensificazione del ritmo e dell 'espressione : u n salto ascendente su due è reso doppiamente veloce, con uno sfor­ zando sul tempo debole, e anche l' accompagnamento si fa contrap­ puntisticamente più ricco e più cromatico. Quell' intensificazione rit­ mica ed espressiva accelera verso la fine e poi sfocia, senza transizio­ ne, in (6) :

il quale deriva direttamente da ( a) , riecheggia il trillo udito, pochi se­ condi prima, alla fine di (5) e giunge a un culmine espressivo per poi arrestarsi brutalmente. Fino a questo punto del brano si erano udite tutte le note della scala cromatica tranne una, il re �, che ora risuona, sincopato e fortissimo. Questo non solo è il primo fortissimo del movimento, ma in un certo senso anche l'unico, poiché tutti gli altri non saranno che sue ripetizioni testuali. Il re � è anche, per quanto concerne la melodia, la nota più lun­ ga sin qui ascoltata e ciò è vero anche del silenzio che segue l'immediata risoluzione del re � sull' accordo di fa minore. Studiando lo schema di costruzione delle frasi si scopre un aspetto ancor più interessante di que­ sto climax: fino a questo punto, il ritmo di tutte le frasi, a eccezione di una, è regolare e simmetrico. Ciò vale anche per l'inizio del brano, chia­ ramente costituito da una frase di quattro battute che risuona due volte e la cui prima esposizione è interrotta all'inizio della quarta battuta; la 255

leggera asimmetria è compensata dalla simmetria della ripetizione te­ stuale. Le altre frasi non solo sono perfettamente regolari, ma presenta­ no pure simmetrici effetti di eco : le battute 9-1 0 sono lo specchio delle battute 1 0-1 1 , le 1 8-2 1 ripetono esattamente le 1 4-17, come le 43-44 ri­ producono le 41-42. Prima del punto culminante a cui siamo giunti, quella regolarità cessa unicamente alle battute 1 2 e 1 3 , che interrompo­ no la processione di raggruppamenti di quattro battute e delimitano un accordo di sesta di fa minore :

che è lo stesso accordo su cui risolverà poi quello jortissirrw di settima di­ minuita su cui poggia il re� delle battute 45-46 (una risoluzione che do­ vrà poi a sua volta essere risolta) . Le battute 1 2-13 preparano dunque il successivo punto culminante, il quale pure determina un'interruzione dello schema di quattro battute, ma ben più violenta e drammatica. Per magnificamente che sia preparato, questo culmine è però, a sua volta, una preparazione e un annuncio di ciò che verrà. La frase che se­ gue insiste in effetti su quanto è appena accaduto. La costruzione ritmi­ ca su larga scala era articolata sin qui in due ondate : una prima inten­ sificazione fra ( l ) e (3) e una successiva, più consistente, fra (4) e (6) . Ora il movimento ritmico si arresta completamente e il culmine (6) nel­ le ultime due note si trasforma in un recitativo (7) che di nuovo disegna un accordo di fa minore :

(7)

Questo recitativo agisce come una corona (o in termini più generali co­ me una cadenza) : un'attesa espressiva prima della frase finale, una ri­ nuncia a risolvere la tensione. C'è qui un dominio sapiente del ritmo che Mozart attinge dall'opera e che nessun altro compositore possedet­ te mai con un tale agio. Segue una frase conclusiva, una sorta di fanfara (8) basata ancora su (a) :

256

Ben presto ci si accorge però, e l'effetto è faceto e brillante, che la frase non è affatto conclusiva e conduce invece a una seconda cadenza (9) , che non è altro che l'inversione di ( a) : S4

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e che poi viene interrotta dall'effetto drammatico dell'entrata del piano­ forte ( 1 0) .' Due frasi conclusive non sono un lusso : in seguito Mozart avrà bisogno di entrambe. Il ruolo del pianoforte è drammatizzare questo schema con una pol . I dettagli appesantiscono, perciò riservo questo a una nota: l'entrata del pianoforte ritorna a battuta 60 sull'accordo di sesta di fa minore; inoltre il trillo e l'intera frase che segue servono ancora una volta a risolvere il do acuto dell'accordo su un si�.

257

tenza sufficiente perché la sua risoluzione appaia necessaria e insieme abbastanza complessa da reggere il peso di quei moduli simmetrici con cui tanto si dilettava Mozart, persino nelle opere. Drammatizzazione , nei termini dello stile mozartiano, significa sviluppo (frammentazione ed estensione tematica) e modulazione (opposizione armonica o disso­ nanza su larga scala) : nella presentazione pianistica della forma già de­ lineata dall' orchestra li troviamo entrambi, e persino la strumentazione del medesimo materiale è qui più drammatica e colorata che nella pri­ ma. La doppia esposizione nel concerto ha ben poco a che vedere con l'esposizione ripetuta nella sonata: quella solistica amplia e trasforma quella orchestrale tanto nel ritmo che nell' armonia. Pensare che in questo concerto Mozart si limiti a riprodurre uno schema aggiungendo colore , drammaticità e varietà ai singoli elementi sarebbe un frainten­ dimento colossale : è lo schema stesso che Mozart drammatizza (il mate­ riale non è costituito dai singoli temi bensì dalla loro successione) e la seconda esposizione non è una ripetizione, bensì una trasformazione. Solo quando si fu esaurito l' impulso creativo della forma del concerto (e della sonata) , la doppia esposizione divenne simile alla ripetizione della prima parte di un allegro di sonata (come accade nei pur poeticis­ simi concerti di Chopin) . Ma chiunque ascolti un concerto di Mozart senza pregiudizi sulla forma sente, senza ombra di dubbio, che l'esposi­ zione del solista non è una ripetizione variata e con l'aggiunta di una modulazione delle idee fatte ascoltare prima dall'orchestra, bensì una presentazione radicalmente diversa e tale che il significato dello sche­ ma risulta completamente modificato da idee inedite e da un mutato approccio. La trasformazione si osserva fin da subito. Il tema di apertura ( l ) inter­ rompe 1a seconda entrata del pianoforte ( l O) ed è suonato due volte come all 'inizio. Non è però seguito, come accadeva prima, da ( 2 ) : ora invece il pianoforte, accompagnato da due oboi, inizia a sviluppare ( a) e vi affianca un trillo cadenzale - già usato in parecchi temi, soprattutto in (6) e ( l OB) : 69

Oboi

L'accompagnamento accelera, la musica passa immediatamente alla do258

minante , si bemolle maggiore, e la modulazione è rafforzata da un pas­ saggio brillante meccanico e convenzionale: Il

ete.

La brillantezza serve a mettere in rilievo la modulazione e un materiale meno convenzionale non sarebbe efficace : qui la natura inespressiva della musica, la sua banalità, fa da contraltare alla logica complessa di uno sviluppo che frammenta il tema iniziale e lo costringe in un'altra tonalità. Il virtuosismo rende stabile la nuova tonalità.1 Per ristabilire lo schema vengono ora reintrodotti i terni (4) e (5) , preceduti però da un episodio di transizione (3A-3B) che sembra scatu­ rire logicarnen te dalla fine di ( 1 2 ) :

VI.

Ve. + Cb. Sw

L'episodio è però ripartito, con effetto drammatico, fra i l pianoforte e l'orchestra e il ritmo della terza battuta è modificato e reso più vigoroso. L'uso di questa frase di transizione, e, in una certa misura, la logica che l . A proposito della tecnica di espansione della seconda esposizione, vale la pena di no­ tare che le battute 78-81 sono, sul piano armonico, la dilatazione delle battute 1 2 e 13.

259

inconsapevolmente facciamo nostra durante l ' ascolto, ci fanno com­ ( 1 1 ) e ( 1 2) abbiano una funzione analoga a ( 2) e ( 3) :

prendere come

più precisamente,

(2)

e

(11)

sono ambedue sviluppi di

( a) , (3)

e

( 1 2)

con cludono ciascuno una sezione rendendola più brillante e in ten­ sificandone il senso di movimento. Ma l ' accresciuta drammaticità nel ritmo e nell ' orchestrazione della nuova versione di

( 3A-B)

corrisponde

alla maggiore intensità dell 'esposizione pianistica. Anche le graziose melodie petute dal solista:

(5) è

(4)

e

(5)

non vengono semplicemente ri­

suonata due volte, la seconda delle quali dall'o­

boe, con un accompagnamento pianistico a velocità doppia rispe tto all 'originale e con il tema ulteriormente allungato da una frase profondamente espressiva, che a battuta

1 15

( 1 3) ,

crea una sorta di corona,

quasi si rifiutasse di cedere all'inevitabile discesa: 111

Qui si trattiene il fiato in attesa che termini la frase e a tenere sospesi cadenza a sorpresa che si trova a metà (battuta ta

1 1 7)

1 1 4) ; ma alla fine

è la

(battu­

ci ritroviamo, quanto all' armonia, esattamente allo stesso irrisol­

to punto di partenza. Senonché, ad allentare la tensione, giunge subito un esteso scoppio finale di virtuosismo

( 1 4) , suonato due volte :

Questo passaggio conclude e stabilizza definitivamente, ora di battuta

1 35, la modulazione iniziata a battuta 70; ancora una volta, la convenzio­

nalità del materiale è indispensabile per convogliare la sensazione di una cadenza solida. Questo punto

260

è inoltre quanto mai appropriato per

un'estesa esibizione del virtuosismo strumentale che è, in fin dei conti, l'essenza della forma concertistica. È naturale, oltre che tradizionale, ristabilire la simmetria facendo ri­ entrare l'orchestra e facendole terminare l'esposizione con le frasi con­ clusive del suo ritornello; (6) , (7) e (8) si succedono in effetti in bell'or­ dine e nella tonalità della dominante. Il recitativo (7) , dopo il culmine orchestrale, è però affidato ora al solista, un gesto operistico così natura­ le e al tempo stesso così efficace che è arduo sapere se a dettarlo siano stati estro o semplice logica. In Mozart le trovate più fantasiose sono sempre anche le più razionali. Il momento di massima tensione all'ini­ zio di ( 7) , ora trasposto alla dominante, è meno impressionante che alla sua prima apparizione perché è preceduto da un lungo dispiego di vir­ tuosismo del solista, che tocca ripetutamente la nota più acuta del pia­ noforte mozartiano. Il virtuosismo fa parte della drammatizzazione. L'e­ sposizione pianistica, come abbiamo visto, adatta liberamente il ritornel­ lo orchestrale che è concepito come una concisa presentazione intro­ duttiva; entrambe le esposizioni consistono tuttavia nello sviluppo e nell' espansione del breve motivo di base con cui inizia il brano, ed en­ trambe tendono verso un punto culminante, ancorché diverso per l'una e per l' altra. In quella pianistica, il climax orchestrale, che conduce dal re� acuto a un accordo tenuto di fa minore,1 è non solo trasposto, ma propriamente sostituito dalla maggiore potenza drammatica della mo­ dulazione alla dominante e dalla brillantezza della scrittura solistica. Ma è l'originario culmine orchestrale a rivestire il ruolo più importante nel­ la forma complessiva del brano. Solo due frasi dell 'esposizione orchestrale, quelle che ho chiamato (2) e (3) , mancano in quella pianistica e ambedue sono suonate dal so­ lista nella sezione successiva (che possiamo chiamare « sviluppo » e che costituisce un 'intensificazione della modulazione alla dominante dell'e­ sposizione e un'ulteriore drammatizzazione del suo materiale ) , dove non si presentano però l'una dopo l'altra in continuità, bensì assai di­ stanziate a incorniciare lo « sviluppo >> . Il pianoforte attacca con (2) , ora alla dominante, e tronca la frase cadenzale dell' orchestra prima che se ne sia pienamente manifestato l'effetto conclusivo, offuscando così la distinzione fra esposizione e sviluppo; certo, dal momento che fin qui non avevamo ancora sen tito (2) né al pianoforte né alla dominante, ci si può chiedere se non sia più legittimo attribuire questo passaggio al­ l ' > esposizione solistica ( tripla, in effetti, contando il pri­ mo ritornello) non è che una conseguenza naturale di ciò che prece­ de : la frammentazione della forma complessiva corrisponde alle divi­ sioni interne di ciò che è stato esposto all ' inizio. Non si tratta di una dottrina olistica o di una mistica corrispondenza fra la parte e il tutto. Quando un compositore classico voleva usare ( come Beethoven, per esempio, faceva molto spesso) un materiale frammentato sul piano melodico, un materiale in cui ogni singolo dettaglio mostra immediata­ mente di avere un significato che potrà essere compreso solo al di là della specifica frase in cui compare, lo combinava, alla sua prima espol.

Si vedano le pp. 152-55 e i relativi esempi.

307

sizione, con un'estrema regolarità delle frasi in modo da superare l'ef­ fetto di divisione : una sonata può esordire con un motto, ma non con un epigramma. Vale anche la pena di ricordare che la regolarità nell 'organizzazione delle frasi porta con sé una pulsazione più ampia e più lenta, che si sovrappone a quella di base, nonché la consapevolez­ za di una più vasta scala temporale. Ci sono molte pagine mozartiane con frasi di lunghezza irregolare che danno un 'impressione di vastità grazie all'ampiezza di esposizione e al bilanciamento simmetrico degli elementi irregolari , come accade nel tempo lento del Concerto K 467 (e quello del Quintetto in sol minore è un esempio ancor più signifi­ cativo). Ma nel Concerto in do minore Mozart ha a che fare con una linea melodica frammentaria che impone frasi irregolari. Ciò spiega perché si trovi, in questo movimento, una gran varietà di temi, chiara­ men te distinti benché correlati fra loro , ciascuno dei quali non fa però che ripetere insistentemente un proprio frammento, quasi che fossero tutti costruiti come un mosaico:

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Questi sono i principali temi secondari, con quell ' insistente ripetizione

308

delle unità minime insolita per Mozart, ma tipica di Haydn . A differenza del passaggio iniziale del K 467 , questi sono temi che non si possono espandere a piacere in lunghi paragrafi ; ma per estrarre dal materiale tutte le sue implicazioni tragiche, che erano già così chiaramente perce­ pibili al termine della prima frase, Mozart ha bisogno di proporzioni ben più ampie di quelle consentite dal materiale stesso; donde la pagina supplementare inserita nel tutti iniziale e donde, anche, la « doppia» esposizione solistica. Se in parte ci si aspetterebbe qui uno sviluppo, in parte quell' attesa è soddisfatta dalle modulazi Òni del tema principale fino al lontano mi bemolle minore che la seconda esposizione solistica contiene al proprio interno (da battuta 220 in avanti) . La frammentazio­ ne del movimento armonico dell'esposizione rispecchia quella della struttura (nonché quella, melodica e ritmica, del materiale ) . Un'instabi­ lità cromatica di questa portata è preannunciata e giustificata dalla serie di accordi diminuiti nella prima enunciazione del tema principale e l'esposizione-alias-sviluppo aggiunge un clima appassionato, quasi una sorta di terrore, che è un elemento centrale del brano. Mozart si serve sì, tecnicamente, di materiali concisi alla maniera di Haydn, ma non perciò rinuncia a imporre quel ben più vasto ventaglio di emozioni che si ritro­ va in tutta la sua opera. La ripresa deve ricapitolare le tre esposizioni. I due temi secondari (b) e (c) dell'esposizione pianisti ca vengono ora suonati in rapida successio­ ne e in ordine inverso, con (c) prima di (b), mentre (a), il passaggio aggiunto al tutti iniziale, si combina con una variante di ( d ) a formare un tema conclusivo :

. . . •

Il piano interrompe la coda con una simmetria splendida, una rielabora­ zione delle ultime battute dello sviluppo. Con la fine del movimento si ricongiungono tutte le disparità. 309

La raffinatezza e la frammentazione della struttura si riverberano sull 'orchestrazione : la scrittura delle parti interne è così dettagliata che le viole sono spesso divise e l' organico include sia oboi che clari­ netti . La sonorità orchestrale non è però sfavillante come nel K 482, bensì sontuosa e scura. Timpani e trombe sono usati, in piano, con un suono insolito e velato che richiama alcuni passi del K 466 e del Don Giovanni. Con tutta la sua potenza drammatica, questo concerto si av­ vicina più di ogni altro (ad eccezione dell 'ultimo ) alla tarda musica da camera di Mozart. Lo stile « cameristico » che si può trovare in tre con­ certi precedenti (K413, K414 e K449) è quello delle serenate, ma nel K49 1 c'è l'intimità del dettaglio dei quartetti per archi. La disperazio­ ne della musica, la sua stessa energia sono rivolte verso l'interno, lonta­ ne da ogni elemento di teatralità, anche da quelli più propriamente mozartiani. Meno originali nella concezione, gli altri movimenti non sono tuttavia meno belli. Il Larghetto somiglia alla Romanza del K466, ma senza l'agi­ tata sezione centrale . Il finale, Allegretto, è una serie di variazioni a rit­ mo di marcia. In genere lo si suona troppo velocemente nell' errata con­ vinzione che da un tempo rapido esso possa trarre una potenza compa­ rabile a quella del primo movimento. Mozart non è però un composito­ re che richieda l' apporto dell'interprete per rimediare ai difetti della propria musica: se avesse voluto quel tipo di potenza, l'avrebbe prevista in partitura. Egli profonde qui tutta la ricchezza di cui è capace nella scrittura delle parti, senza che mai essa oscuri però la nitidezza del tema che rimane, volutamente, sempre udibile : perfino le sue due trasforma­ zioni in maggiore, libere sulla carta, suonano rigorose all' ascolto. Anche quando è riconducibile alla forma sonata, il finale classico ha sempre , rispetto a un primo movimento, un assetto formale più allentato ed è, giocoforza, più facilmente afferrabile all'ascolto. Per sobrio che sia, que­ sto movimento contiene tuttavia abbastanza dell'appassionata dispera­ zione del primo tempo perché Beethoven ne richiamasse in parte la co­ da nel finale della sua Appassionata. Il Concerto in do maggiore K 503 non è mai stato fra i più amati dal pubblico. Completato alla fine del l 786, otto mesi dopo l'ultimo dei tre concerti pianistici con i clarinet� in organico, è un' opera magnifica e­ all'orecchio di molti - fredda. E invece il concerto che molti musicisti (storici della musica e pianisti) considerano con un affetto tutto partico­ lare. La sua scarsa attrattiva per il pubblico si deve al carattere quasi neu­ tro del materiale che, soprattutto nel primo movimento , non è abba­ stanza caratterizzato nemmeno per poter essere definito banale. La fra­ se d' apertura, una serie di blocchi basata su un arpeggio:

310

Allegro maestoso

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non è neppure un cliché. È convenzionale, senza ombra di dubbio, ma non in senso deteriore : non è altro che il materiale basilare della tona­ lità tardo-settecentesca, il fondamento dello stile. Anche un tema suc­ cessivo, più attraente e di carattere militaresco, è altrettanto convenzio­ nale nella stessa accezione del termine: come il pane, non è mai stuc­ chevole. Lo splendore dell' opera, la gioia che essa può ispirare risiedono tut­ ti nel trattamento del materiale. Vi sono altri concerti mozartiani in cui il materiale è quasi altrettanto convenzionale (il K 45 1 , per esem­ pio, di cui il compositore andava fierissimo, e il K 4 1 5 ) , ma nessuno mostra la potenza del K 503. Le diverse idee del primo movimento so­ no trattate come blocchi : le transizioni magistrali non attenuano la consapevolezza della giustapposizione di elementi ampi e, soprattutto, del loro peso. Dall 'inizio alla fine del concerto, ciò che in effetti ci vie­ ne fatto percepire è quanto peso possa reggere la forma in se stessa, anche facendo ricorso a idee quasi del tutto inespressive. Per valutare appieno questa prova di bravura, basta soffermarsi su uno snodo for­ male qualsiasi. Prendiamo la prima entrata del pianoforte, nulla più che una cadenza che alterna instancabilmente settima di dominante e tonica:

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Era necessario riportare un esempio così lungo perché è importante il senso di massa e, soprattutto, perché molto dipende dal puro e semplice fatto di ripetere, e di ripetere proprio l ' elemento armonico più conven­ zionale della musica del Settecento. L' accelerazione alle battute 83-89 è costnlita con la tecnica che Mozart usa nel modo più strepitoso nel K 466 e di cui padroneggiava però da diversi anni gli elementi essenziali. Il movimento armonico quadruplica la velocità a partire da battuta 88 per poi raddoppiarla ulteriormente negli ultimi due tempi di battuta 89. Tutto ciò è semplice routine per Mozart (e solo la sua disinvoltura nel maneggiarla è eccezionale per l' epoca classica) . L'elemento straordina­ rio è battuta 90, che è esattamente conclusiva quanto serve, senza essere però una fine decisiva: si arresta due accordi prima rispetto a una vera e propria cadenza finale. E infatti l 'ultima frase del movimento è lo stesso passaggio, ma con una battuta in più : è meraviglioso osservare come Mozart riesca qui a fermarsi proprio sul limite. La pausa, paradossal­ mente, fa da transizione e prolunga la tensione - una tensione generata ritmicamente da una cadenza di tonica! La padronanza beethoveniana della potenza ritmica esaltante della pura e semplice ripetizione parte da qui. Ma ancora non è finita con la cadenza settima di dominante-toni­ ca: l 'orchestra la riprende, più lentamente, quasi a risolvere l ' eccitazio­ ne di poco prima, e il solista fa il suo ingresso. La cadenza qui è ripetuta tre volte. Possiamo identificare il punto preciso in cui termina la sezione che abbiamo appena ascoltato : il battere della battuta 96, che suona co­ me la conclusione fin qui trattenuta. Nel frattempo il pianoforte aveva avviato una serie di frasi che ora continua, riproponendo come un'eco la stessa cadenza ancora per tre volte. Il battere di battuta 96 è dunque contemporaneamente il punto conclusivo di una sezione e quello cen­ trale di una frase pianistica; ciò che rende quella sovrapposizione possi­ bile è l'insistente ripetizione di un'unica e semplice cadenza. Mai prima 313

d'ora erano stati conciliati in modo così efficace continuità e articolazio­ ne, movimento e chiarezza formale. Questa economia di mezzi è uno dei primi indizi dell 'ultima evoluzio­ ne dello stile mozartiano. Ma questa tendenza si manifesta pienamente, estendendosi a tutti gli elementi della sua musica, solo nell' anno della sua morte. Una caratteristica significativa è già, nel Concerto in do mag­ giore K 503, la rinuncia al colore armonico : i chiaroscuri derivano quasi tutti da una semplice alternanza di maggiore e minore. Il che può, ovvia­ mente, condurre lontano: il do minore contrapposto al do maggiore chiama ben presto (battuta 1 48) in causa il mi bemolle maggiore e de­ termina poi, quando torna nella ripresa, anche la comparsa del mi be­ molle minore; la dominante , sol maggiore, è introdotta dal sol minore. Ma queste sono tutte relazioni fra maggiore e minore oppure fra mag­ giore e relativo minore : modulazioni che in realtà non si muovono, non modificano la tonalità. Non che il tardo stile mozartiano faccia a meno di modulazioni più dinamiche : quelle del finale della Sinfonia in sol minore o dell'ultimo concerto per pianoforte sono, anzi, le sue più brutali. Ma proprio quella brutalità dimostra che sono usate con economia e a fini drammatici : non hanno più nulla dell'esotismo armonico che aveva: il si minore nell'ultimo movimento del Concerto in si bemolle maggiore K 456. Né Mozart rinuncia al colore orchestrale o armonico, ma rende ogni singo­ lo effetto più espressivo e più penetrante. Die Zauberflote dispiega la più ampia varietà di colori orchestrali di tutto il Settecento, ma, paradossale­ mente, proprio quella profusione è economia di mezzi: ciascun colore è peculiare e ognuno di essi - lo zufolo di Papageno, le agilità della Regina della Notte, i campanelli, i tromboni di Sarastro, persino la scena di ad­ dio nel primo atto con i clarinetti e gli archi pizzicati1 - produce uno specifico effetto drammatico. Nel K 503, l'alternanza di tonica maggiore e minore è il colore domi­ nante e al tempo stesso un elemento chiave della struttura. La si incon­ tra dapprima, appena accennata, a battuta 6 (si veda l 'esempio a p . 31 1 ) e, più esplicitamente manifesta, poco oltre :

' l. Si veda l esempio a p. 39 1 .

314

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Quest'alternanza non è solo persistente, è quasi ossessiva. L'elemento ritmico fondamentale del brano viene introdotto inizialmente dai violi­ ni alle battute 18-19 (citate sopra) e si ritrova poi al basso a battuta 26: 26 Fl.

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viene riproposto alla tonica maggiore appena dopo quell'apparizione in minore. Un altro « secondo » tema è suonato in maggiore e seguito da una parziale ripetizione in minore1 che costituisce la sua seconda frase : l. Vale la pena di sottolineare che questa è anche una tonica maggiore/minore, poiché il sol maggiore è, a questo punto, saldamente affermato come la tonalità di questa parte dell'esposizione (l'uso del contrasto maggiore e minore in un accordo secondario pro­ durrebbe l'effetto, più squisitamente coloristico, di un'armonia cromatica) . A battuta 175, tutte le edizioni suggeriscono nella parte pianistica un la acuto ritenendo che Mo­ zart vi abbia rinunciato, optando per quello un'ottava sotto, solo perché la sua tastiera non andava oltre il fa; il punto corrispondente nella ripresa mostra che, potendo, egli

315

E dopo altre alternanze, giunge infine, più mozartiana e più classica di tutte, la cadenza che conclude l'esposizione in maggiore e minore al tempo stesso:

in una sorta di riassunto : un esempio di risoluzione classica come sintesi. Questo procedimento di opposizione e sintesi fra maggiore e minore, nodale e persistente in tutto il brano, è mirabile per la sua concezione su larga scala. Ciò significa che generalmente, a fronte delle continue ten­ sioni armoniche, il basso rimane assolutamente stabile, spesso immobile come un pedale. Poiché il contrasto maggiore-minore inteiViene subito, nel corso della frase che apre il movimento, il suo uso strutturale su scala più vasta ne consegue nel modo più naturale.1 Questa grandiosa ambiavrebbe mantenuto entrambe le volte il profilo ascendente della melodia come a battuta 170. Purtroppo bisogna allora andare oltre; il confronto col passaggio corrispondente della ripresa (battuta 345) mostra che se modifichiamo battuta 175, diventa necessario riscrivere anche la successiva in questo modo: .

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altrimenti il la acuto resterebbe isolato. Riscrivere anche un solo dettaglio di Mozart non è dunque preferibile in linea gene­ rale stampare (e suonare) esattamente quello che egli ha scritto. l. Per esempio, il ritornello iniziale muove direttamente alla dominante sol maggiore è semplice come pensano i curatori delle edizioni ed

316

guità fra stabilità e tensione - una sonorità peculiare, massiccia e insie­ me inquietante -, è la chiave della pacata potenza dell 'opera. A questo effetto di massa contribuiscono tutti i diversi elementi del pezzo. L'uso della ripetizione ostinata, come abbiamo visto, è marcato dall' inizio alla fine : alle nostre orecchie questo brano ricorda Beetho­ ven , ma è probabile che lui stesso l'avesse in mente mentre scriveva il Quarto concerto per pianoforte e orchestra. All'inizio dello sviluppo, il solista cambia repentinamente tonalità, appropriandosi dolcemente del ritmo dell'orchestra : 22S "





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e nel punto corrispondente del Concerto in sol maggiore Beethoven usa esattamente lo stesso ritmo con lo stesso contrasto dinamico; la frase as(bb. 30-50) , ma poi torna immediatamente alla tonica minore: l'esposizione solistica usa questa gravitazione attorno al do minore per rendere più espressivo il passaggio alla do­ minante a cui approda passando per mi bemolle maggiore (che si afferma ora con mag­ gior agio) e sol minore (bb. 140-65) . La musica trae qui la sua profonda espressività quasi interamente dalla struttura e non dal materiale. Sul piano armonico, il passo corri­ spondente nella ripresa (bb. 320-40) è più sorprendente benché altrettanto logicamen­ te inserito nel disegno (mi bemolle maggiore diventa mi bemolle minore e poi torna cromaticamente a do minore-maggiore) e ancor più profondamente espressivo.

317

solve persino la stessa funzione, ossia una modulazione a sorpresa. (Beet­ hoven rende però l' effetto ancor più potente ricorrendo a una modula­ zione più lontana e facendo interrompere l' orchestra dal pianoforte) .1 In ambedue i passaggi, il ritmo è tanto più in risalto per il fatto di ripete­ re una stessa nota, e in entrambi i casi si tratta di una ripetizione temati­ ca. La versione di Beethoven è più drammatica e stupefacente , ma è forse quella mozartiana a trasmettere un maggior senso d'imponenza e di agio. La massiccia potenza del K 503 giunge al culmine nella seconda parte dello sviluppo, una polifonia a sei parti reali ( oltre alle figurazioni pianistiche) con una scrittura imitativa tanto rigorosa da poter quasi es­ sere definita canonica: un tour de force di contrappunto classico parago­ nabile al finale della]upiter o alla scena del ballo nel Don Giovanni. In linea generale, in Mozart il lirismo risiede nei dettagli e la struttura è una forza organizzatrice; nel K 503 i dettagli sono in larga misura con­ venzionali e sono gli elementi formali su larga scala a generare la più straordinaria potenza espressiva, fino a permeare di malinconia e tene­ rezza uno stile massicciamente sinfonico. E perlopiù quella malinconia sembra addirittura sgorgare miracolosamente da un semplice passaggio dal maggiore al minore, spesso mantenendo un accordo di tonica in posizione fondamentale: l' impressione di pacata potenza e lirismo che ne discende non ha eguali nella storia della musica fino a Beethoven.2 L'atmosfera è meno toccap.te che in altri concerti, ma è a questa sintesi di ampiezza e sottigliezza che il K 503 deve il suo prestigio. Il movimento lento coniuga splendidamente semplicità e ornamenta­ zione lussureggiante (con ritmi molto variati e contrastati) e sarebbe un peccato sciuparlo aggiungendo abbellimenti alle frasi più sobrie. In al­ cune battute l'ho fatto anch 'io, suonando questo concerto, e oggi lo rimpiango. Come il primo movimento, il finale deve il suo peculiare co­ lore alla ripetuta alternanza maggiore-minore e vi si trova un procedi­ mento che Mozart predilige nei rondò, ossia la ripresa in ordine inverso (con il tema principale per ultimo) . Scritto nello stesso periodo della Praga e dei Quintetti per archi in do maggiore e sol minore, il K503 è un degno compagno per quei capolavori. In seguito, l'interesse di Mozart per il concerto cessò quasi completa­ mente. Dopo averne composti dodici fra il1784 e il1786, nei suoi ultimi cinque anni di vita ne scrisse solo tre, tutti casi a sé anche per carattere. l. Si veda l'esempio a p. 469. 2. Per ottenere quell'ampio effetto di potenza e tenerezza al tempo stesso, Beethoven nel primo movimento del Concerto per violino usa abbondantemente un' analoga insi­ stenza sulla fondamentale della triade di tonica e una serie di scambi fra maggiore e mi­ nore.

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Il più strano è forse il cosiddetto Concerto dell1n coronazione in re mag­ giore K537, sulguale sia musicisti che musicologi hanno espresso giudi­ zi molto severi. E stato però il più popolare fra i concerti mozartiani per tutto l'Ottocento e per buona parte del Novecento e la sua musica meri­ ta maggiore rispetto : è la composizione storicamente più « progressista >> di Mozart, la più vicina allo stile protoromantico di Hummel e di Weber e persino, per il suo stile virtuosistico , ai primi concerti di Beethoven. Basta confrontare : 146

col Primo concerto per pianoforte di Beethoven : 200

perché salti agli occhi uno dei tanti dettagli. Si potrebbe dire che questo è il concerto che Hummel avrebbe scritto se avesse avuto del genio e non solo un considerevole talento. Per un aspetto importante è persino un'opera rivoluzionaria, poiché sposta l ' equilibrio fra armonia e melodia in modo tale che la struttura dipende qui in gran parte dalle successioni melodiche. Lo si vede con chiarezza già nel ritornello iniziale, che presenta lunghi passaggi atema­ tici di transizione a separare l'una dall' altra le diverse sezioni: 31 ·

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o, in modo ancora più notevole, in questo passaggio :

dove alla penultima battuta dell' esempio (b. 59) l'esordio della melodia è in sé quasi un levare , e dunque continuazione della transizione e nuo­ vo inizio al tempo stesso. Queste frasi di transizione, usate di norma co­ me espansioni solo nell' esposizione solistica e qui invece presenti già nel ritornello iniziale, setVono ad allentare la struttura. L' elemento melodi­ co dei temi conta più di quello armonico o della loro collocazione nel decorso lineare. Si noti che nessuna di queste frasi di transizione è una risoluzione; si presentano sempre dopo una cadenza che risolve e sono dunque semplici sospensioni del movimento, silenzi riempiti. Non han­ no altro scopo che far aspettare in bellezza che cominci una melodia. Questo allentamento della struttura armonica e ritmica determina un calo di tensione che deve necessariamente essere compensato: donde un rigoglio di figurazioni virtuosistiche. Nei precedenti concerti di Mozart, l 'uso di questo genere di virtuosismi alla fine dell'esposizione setViva solo a intensificare una tensione già stabilita in precedenza; qui selVe invece proprio a crearla. Naturalmente aumentano brillantezza e complessità:

195

320

Non ci sono qui il peso o la magnificenza del K 467 o la drammaticità del K 466 (prima di questo, i due concerti col maggior virtuosismo strumen­ tale) , ma una ricchezza intricata e un po' più difficile da seguire all' a­ scolto : ha un interesse suo proprio, quasi senza legami con gli altri mate­ riali del brano. L'allentamento della struttura melodica e il ricorso a questo genere di figurazioni per creare tensione sono caratteristiche del primo stile ro­ mantico, quale si trova nei concerti di Hummel e di Chopin. Non fu Beethoven, ma Mozart a mostrare come si poteva distruggere lo stile classico . Per apprezzarne il valore, bisogna ascoltare il K537 senza nutri­ re le aspettative consone agli altri concerti mozartiani, bensì giudican­ dolo secondo criteri propri dell' epoca successiva: visto in quest'ottica, appare come il più grande concerto pianistico del primo romanticismo. Il brillante rondò ha lo stesso carattere del primo movimento, ma il Lar­ ghetto preannuncia l'ultimo Mozart: la sua sempli�ità è tale che se non fosse un capolavoro, sarebbe a malapena grazioso. E un esempio di quel­ la grazia popolare, sobria, quasi falsamente ingenua che è il pregio som­ mo della Zauberjlote. Nel suo ultimo anno di vita Mozart scrisse due concerti più prossimi al gioco delicato e intimo della musica da camera che a quello drammatico dello stile concertistico. Il Concerto per clarinetto e orchestra in la mag­ giore K 622 ricorda da vicino, per il lirismo e anche per il profilo e le implicazioni armoniche dei temi, i due concerti pianistici nella stessa tonalità, il K 4 1 4 e il K 488. Nell'ultimo Concerto per pianoforte (il K 595 in si bemolle maggiore) , composto sei mesi prima, si ritrova quel li­ risma libero, qui però progressivamente permeato di un cromatismo espressivo e perfino doloroso che ora dell'inizio dello sviluppo pervade ogni cosa. Ambedue i concerti danno l 'impressione di una linea melodi­ ca inesauribile e continua, ininterrotta eppure chiaramente articolata, ma la loro struttura non è né una successione slegata di melodie ( come nel K 537) né un flusso costante. In queste due opere tarde Mozart ricorre a un sistema di sovrapposi­ zione dei ritmi delle frasi, messo con la massima discrezione al servizio di un ' invenzione lirica che scaturisce in piena libertà senza tuttavia perde­ re mai tensione interna e intensità emotiva. Nel Concerto per clarinetto, per esempio :

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una frase nuova comincia da qualche parte fra le battute 102 e 1 05, ma dove esattamente all' ascolto non è chiaro. Col senno di poi (una volta giunti a battuta 1 06) ci si rende conto che quella frase era iniziata sul primo tempo di battuta l 04, ma sul momento in quel punto si sente solo un movimento continuo. Mozart ottiene così al tempo stesso un' artico­ lazione chiara e un flusso ininterrotto . Si potrebbe chiamarla articola­ zione della continuità: si può vedere il processo complementare - l'inte­ grazione di un movimento interrotto - poche pagine prima:

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Le battute 76-77 sono al tempo stesso la fine della cadenza di battuta 75 e l'inizio di una frase nuova; le battute 78-79 riprendono, volgendola in minore, l' armonia delle due battute precedenti e l'esatto parallelismo dell' accompagnamento orchestrale fa di esse tanto una risposta alle bat­ tute 76-77 quanto la conclusione di una frase di quattro battute; al tem­ po stesso, però, battuta 78 è l'inizio di una nuova frase del clarinetto che si estende fino a battuta 80 e anche oltre. Si potrebbero moltiplicare esempi analoghi ali 'infinito . Mozart aveva già fatto uso di articolazioni a incastro e di frasi bifronti con un duplice significato (fine e inizio al tem­ po stesso) , ma non credo che le avesse mai sviluppate con la sottigliezza e l' inventiva costante che dispiega nei suoi ultimi due concerti. Quest' e­ quilibrio fra chiarezza formale e continuità rende il primo movimento del Concerto per clarinetto simile a un canto senza fine : non il prolun­ garsi di una sola idea, ma una serie di melodie che fluiscono una nell 'al­ tra senza interruzione. L'Allegro che apre l' ultimo Concerto per pianoforte, il K 595, è più complesso, ma trasmette la medesima impressione di melodia incessan­ te . Per ottenere quel lirismo continuo Mozart usa qui mezzi ancor più sottili. La tentazione di citare uno dei passaggi più squisiti del concerto è irresistibile :

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L'urgenza finissima della frase che inizia a battuta 29 viene dal fatto che per una frazione di secondo si resta in attesa della conclusione della li­ nea di viole e secondi violini che proviene da battuta 28: l'armonia sì in­ crocia al di sopra della pausa di ottavo, creando un legame ulteriore fra due frasi già legate una all'altra tramite la linea melodica del primo vio­ lino delle battute 28-29. La frase è poi ripetuta a battuta 33 e l'unità con ciò che precede è qui ancora più netta grazie alla magnifica linea del basso (violoncelli e contrabbassi) che inizia a battuta 32 e procede inin­ terrotta fino alla 35. Nello stesso passaggio la dolcezza della dissonanza in Mozart tocca il suo apice : lo scontro, a battuta 33, fra un re� ai primi violini e un re�. tre e quattro ottave sotto, affidato a violoncelli e contrabbassi, è uno dei più cocentemente dolorosi di tutta la musica tonale. La brutalità dell'urto è schivata nel più breve tempo possibile, e in sostituzione sopraggiunge una dissonanza più accettabile, ma tutta la potenza espressiva è garantita dall'orecchio e dalla memoria, soprattutto perché i primi violini salgono così repentinamente al re� (e raddoppiando dunque il re del basso un 324

attimo prima che si trasformi in re�) . In questo modo sul terzo tempo della battuta c'è, insieme a una settima maggiore (do-re�) . tutta l'asprez­ za di una nona minore (re-re�) non eseguita ma che risuona nell 'imma­ ginazione, donde l'effetto della più espressiva e dissonante delle armo­ nie senza la durezza del suo suono effettivo. Costantemente, nel brano, le dissonanze più dolorose sono suggerite e tuttavia mitigate. Questo passaggio è un momento importante del concerto, la prima apparizione del modo minore e del cromatismo che avrà un ruolo così cruciale, il primo manifestarsi della sconfinata malinconia dell'opera. Lo sviluppo, che modula quasi ogni due battute , porta la tonalità classica al limite estremo; il cromatismo si fa iridescente, l' orchestrazione e la distribuzio­ ne delle voci trasparenti: l' emozione, così intrisa di angoscia, non distur­ ba mai la grazia della linea melodica. L'ultimo concerto per pianoforte e il Concerto per clarinetto sono ambedue espressioni private : la forma non è mai usata per effetti esterio­ ri, il tono resta sempre intimo. I movimenti lenti ambiscono e peiVengo­ no a una condizione di semplicità assoluta: la minima irregolarità nella struttura fraseologica dei temi sarebbe apparsa un 'intrusione . Le melo­ die si assoggettano a una simmetria quasi impeccabile superandone tut­ te le insidie . C'è una coerenza fondamentale nel fatto che proprio Mo­ zart, che creandola aveva reso perfetta la forma del concerto classico, se ne sia infine seiVito in un modo così eminentemente personale.

325

2 IL QUINTETIO PER ARCHI

Per giudizio unanime, la musica da camera di Mozart giunge al suo apice con il gruppo dei quintetti per archi con due viole . La viola era lo strumento ad arco preferito del compositore , quello che abitualmente sceglieva quando partecipava all'esecuzione di un quartetto; nella Sinfo­ nia concertante K 364 suonò probabilmente la viola anziché il violino. Una predilezione che può essere dovuta non solo alla sonorità dello strumento, ma anche all'amore di Mozart per le voci mediane: nella sua opera si ritrovano una pienezza di suono e una complessità nella scrittu­ ra delle parti interne che con la morte di Bach erano sparite dalla musi­ ca. « Troppe note '' è il rimprovero che toccò a Mozart come prima a Bach: questo genere di sonorità era passato di moda intorno al 1 730 e la seconda metà del secolo preferiva un tessuto più asciutto e snello. Tutta­ via il quintetto d ' archi era già, quando Mozart cominciò a coltivarlo, un genere in voga, come dimostra la copiosa produzione di quintetti, insi­ pidi ma piacevoli, di Boccherini. Prima di Mozart si evitava però la sono­ rità più piena trattando il quintetto come un duo di solisti (primo violi­ no e prima viola) con accompagnamento. Questo elemento concertan­ te non è del tutto assente in Mozart, soprattutto nel suo primo e ancora immaturo tentativo, il K 1 74 in si bemolle maggiore, ma è un approccio che converte la forma in una sorta di divertimento, privandola di ogni possibile serietà: non può ricorrere al contrasto drammatico fra una estesa compagine e un solista né alla complessa intimità della musica da camera. Solo gli ultimi trii di Haydn, con il loro stile eccentrico e rapso­ dico, avrebbero realizzato una sorta di musica da camera concertante autenticamente profonda, e solo grazie a tutte le risorse offerte dalla ta­ stiera. Il quintetto per archi concertante non è che una pigra estensione dell' abitudine a trattare superficialmente il quartetto come un solo vio327

linistico accompagnato : un quintetto del genere offre sì maggior varie­ tà, ma non è sostanzialmente più interessante. Mozart si dedicò al quintetto per archi a tre riprese, ogni volta subito dopo aver terminato una serie di quartetti, quasi che l'esperienza di comporre per quattro strumenti l'avesse invogliato a cimentarsi con un organico più ricco. Scrisse il primo a soli diciassette anni. Nel 1 772, poco dopo aver preso conoscenza dei Quartetti op. 20 di Haydn e ispi­ rato dalla nuova concezione della musica da camera che vi si trova, compose sei quartetti in cui lo sforzo di assimilare il linguaggio haydniano si traduce in una continua alternanza di goffaggine e di una grazia più naturale, tutta mozartiana. Un anno dopo arrivò il Quintet­ to K 1 74, un 'opera meno angusta e più convenzionalmente ambiziosa, dove si trovano, naturalmente, anche parecchie cose notevoli, perlo­ più di derivazione haydniana: un gioco arguto su una figura di due note nel minuetto degno quasi del più anziano maestro; nel finale, una falsa ripresa; nei movimenti estremi, un uso insolitamente dram­ matico del silenzio. Più propriamente mozartiano è invece il tratta­ mento della specifica sonorità dell' organico : effetti di eco nel trio del minuetto, un uso costante di raddoppi (all'ottava e alla terza) e di scambi antifonali fra strumenti acuti e gravi. Il momento più originale è forse l'inizio del movimento lento dove compare una figura di ac­ compagnamento, suonata all'unisono e con sordina, con una qualità espressiva propriamente melodica:

La faceta ambiguità di un passaggio come questo ( di fatto, un calem­ bour grammaticale) è così parte dello stile che non ne scalfisce l'intensi­ tà; al contrario, non è altro che un indizio di buone maniere nell' espres­ sione dei sentimenti. Ciò che più colpisce in quest' opera giovanile è l' ampiezza di conce­ zione, che supera di molto tutti i quartetti scritti poco prima. Il senso classico dell'equilibrio esigeva che la sonorità più piena e corposa del quintetto si iscrivesse in un quadro più vasto (nel contesto dello stile mozartiano di quel periodo) rispetto al quartetto. L' elemento concer­ tante avrebbe potuto essere funzionale a creare quel maggior respiro, ma in effetti questa nuova grandiosità si manifesta nel K 1 74 soprattutto là dove lo stile concertante manca del tutto. Il finale mostra una com328

plessità contrappuntistica che Mozart non avrebbe eguagliato per molti anni a venire, ben più intricata che nei fugati dei quartetti precedenti; il movimento iniziale, oltre ai passaggi solistici e agli effetti antifonali, presenta momenti di un 'espansiva drammaticità fino ad allora mai ten­ tata da Mozart nel genere quartettistico . Il modello diretto di quest'o­ pera non è Michael Haydn, come si è ipotizzato, e men che meno Boc­ cherini, ma la serie dei Sonnen-Quartette diJoseph Haydn . Il tentativo di adattare la tecnica haydniana alla sonorità più ricca e all ' andamento più rilassato richiesto dal quintetto d'archi è però riuscito solo in parte; i cambiamenti nel tessuto musicale stupiscono, ma non convincono. Ma non si può non essere ammirati dall' istinto con cui il diciassettenne Mozart comprese la differenza di fondo fra quartetto e quintetto. Alla medesima conclusione giunse anche Beethoven nella sua prima e uni­ ca composizione del genere, il Quintetto op. 29, che egli scrisse nello stesso anno (il 1 80 1 ) in cui completò la serie dei Quartetti op. 1 8 : l'am­ piezza e la pacata espressività di questa pagina non hanno equivalenti nell'op. 1 8 . Ma Beethoven aveva i grandi quintetti mozartiani a mo­ strargli la via. Passarono quattordici anni prima che Mozart rimettesse mano a un quintetto d ' archi. Dopo il 1 773, abbandonò anche il quartetto per quasi un decennio e lo stimolo a tornare alla musica da camera venne di nuo­ vo da Haydn, con l' apparizione dei rivoluzionari Quartetti op. 33, detti Gli scherzi. I sei quartetti mozartiani degli anni 1 782-1 785 furono compo­ sti, ancora una volta, in emulazione del più anziano maestro e in suo omaggio , ma Mozart qui dà prova di una completa padronanza e di una propria originalità; un anno dopo averli completati, scrisse ancora il magnifico e personalissimo Quartetto Hoffmeister. Quindi, nel 1 787, si volse nuovamente al quintetto d'archi con due opere dalla concezione più vasta di quanto Haydn avesse mai immaginato sino ad allora, anche in ambito orchestrale. Ma nelle orecchie di Mozart risuonavano ancora gli echi dei Quartetti op. 33 di Haydn. L'inizio del Quintetto in do mag­ giore K 5 1 5 : .. oiJ

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ha una propria maestosa simmetria: il primo tema inizia con un chiaro pedale di sol (l'attuale tonica) che sostiene una fra­ se espressivamente sinuosa: 86 VI. l

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ed è ripetuto con un controsoggetto. Nel secondo tema il primo violino ha un ritmo sincopato che gli altri strumenti ripropongono diminuito : "'fp

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ni che attingono un' intensità espressiva paragonabile a quella di questo quintetto . ' Rimanda, il che per lui è molto raro, l'uso del secondo , del sesto e del quarto grado : per quattordici battute non definisce altro che tonica e dominante, anticipando anche in questo Beethoven, le cui ope­ re maggiori esordiscono perlopiù disegnando il solo accordo di tonica. Le aree tonali delle esposizioni mozartiane possiedono in genere una fermezza tranquilla che manca nelle forme più nervose e più apertamen­ te dinamiche di Haydn : quando Mozart combinò, come qui accade , quella fermezza con la tecnica motivica di Haydn di esposizione e di espansione, integrando la con la propria sottile e marcata sensibilità per la struttura periodica su larga scala, divennero possibili le proporzioni maestose di questo movimento senza che con ciò fosse sacrificata l'in­ tensità lirica che permea l'intera opera. Nell'espandere quella struttura simmetrica, piccola ma resistente, de­ rivata dalla danza, che fu più tardi definita > , il problema era sempre come e dove accrescerne il peso senza intaccame le propor­ zioni e distruggerne l'unità. La soluzione più semplice era aggiungere una lunga introduzione lenta, come nella Praga, nella Sinfonia in mi bemolle o nella magnifica Sonata per pianoforte e violino in sol maggio­ re K 379 : ma questo rimase un procedimento esteriore , un'idea additiva e non sintetica, almeno fino al Quintetto in re maggiore di Mozart e alle sinfonie di Haydn degli anni Novanta in cui si osservano rapporti di tipo nuovo fra le introduzioni e i successivi allegri. Haydn espandeva la forma ampliandone in genere la seconda parte : non solo dilatando lo « svilup­ po >> , ma spesso prolungandolo fin dentro la ripresa. Allungare la prima metà è difficile e non privo di rischi, giacché l'esposizione di una sonata consiste in una singola azione, affermare una polarità: ritardame troppo l' arrivo determina una dispersione di energia e il rischio del caos; una volta che è arrivata, però, tutto ciò che resta della prima parte tende ad avere una funzione puramente cadenzale. N el concerto, differire questa cadenza è il procedimento più semplice e insieme il più giustificato, l'oc­ casione per il solista di esibirsi in un passaggio brillante : il virtuosismo in un momento cadenzale è del resto ciò che genera la cadenza > vi sono tre melodie completamente nuove, una quarta che deriva chiara­ mente da una delle tre e ancora una quinta generata dal tema iniziale, quest'ultima fra tutte forse la più sorprendente, se non la più graziosa: J36

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Il finale del Quintetto in sol minore pone in tutta la sua complessità, reale o immaginaria, il problema del finale classico. Lo si trova spesso deludente e del resto lo si suona quasi sempre senza averlo compreso quanto i movimenti precedenti, ma ciò non può che spingerei a cercare _ di spiegare come mai susciti tante esecuzioni prive di anima. E necessa­ rio scindere il ruolo che un finale rivestiva nel tardo Settecento da quel­ lo, legato alla concezione di epoche successive, di conclusione di grande effetto. Il Quintetto in sol minore è una grande opera tragica, ma non è colpa di Mozart se, proprio per questa ragione, tanti ascoltatori oggi preferirebbero, dichiaratamente o in segreto, una chiusa con il pathos schietto della Patetica di C ajkovskij. Le cose cambiano ben poco per Beethoven : la coda del finale del Quartetto op. 95 è parsa spesso irrile­ vante, se non frivola, e il biasimo nei confronti del finale della Nona sinfonia è così diffuso da non sorprendere più, nemmeno quando pro­ viene da fonti che si supporrebbero più assennate. Il problema del finale è, naturalmente, se abbia o meno peso, serietà e dignità sufficienti per bilanciare il primo movimento, ma la questione non si porrebbe affatto se non fosse per la concezione classica del finale come risoluzione dell' intera opera. Nulla, dopotutto, se non la sua sen­ sibilità, impedì a Mozart di scrivere ultimi movimenti complessi e den­ si quanto i primi, come per esempio il finale della Terza sinfonia di Brahms. Beethoven era capace di comporre un brano corale dall' orga­ nizzazione serrata come il Gloria della Messa in re , ma evidentemente per il finale con il coro della Nona ritenne necessaria, in quella posizio­ ne, una struttura più allentata. Il movimento conclusivo esige una forma più sobria e meno complessa di quello iniziale : ecco perché si tratta in genere di un rondò o di un tema con variazioni (come nel Concerto in sol maggiore di Mozart o nell'Eroica e nella Nona di Beethoven) . Quan­ do un finale è in forma sonata, ne presenta necessariamente una versio­ ne più squadrata e più semplice; qualche volta, come nella Quinta di Beethoven, la struttura è allentata mediante un cambiamento di tempo nel corso dello sviluppo (il ritorno dello Scherzo) o mediante l'introdu­ zione, nello stesso punto, di un nuovo tema alla sottodominante, come nella Sonata in fa maggiore K 332 di Mozart. Ma in un finale, in ogni ca­ so, il materiale tematico è sempre più squadrato ritmicamente rispetto a quello di un primo movimento/ le cadenze sono sottolineate con decil. L'unica eccezione è il finale contrappuntistico, quale si incontra in molti quartetti di Haydn, nel Quartetto in sol maggiore K 387 di Mozart, nellajupiter e nelle non meno celebri prove beethoveniane. Questi fanno caso a sé, in primo luogo perché sono, entro certi limiti, tentativi di resuscitare uno stile più antico - i compositori stessi percepivano quelle pagine come anacronismi o, perlomeno, come modernizzazioni del passato. Se­ condariamente, perché rappresentano in parte delle prodezze tecniche - stavano al compositore settecentesco come il finale virtuosistico al solista. La complessità emotiva è dunque sempre minore che nei movimenti precedenti: persino la GrosseFuge di Beet-

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sione, le frasi ben definite e il primo tema completamente concluso pri­ ma che possa intervenire un qualsiasi cambiamento armonico. (Nel finale dell'Ottava sinfonia di Beethoven, per esempio, le cadenze sono brutalmente martellate e c'è perfino una breve pausa dopo la fine del tema, ossia alla cadenza di tonica a battuta 28, laddove il tema iniziale del primo movimento, con la sua apparente semplicità, prosegue diret­ tamente nell' episodio successivo) . Per i finali in tempo lento, una forma complessa (come nella Nona sinfonia di Mahler) era fuori questione : le sole possibilità formali, in questo caso, erano il tema con variazionP o il minuetto lento . È con la Sinfonia i n sol minore d i Mozart c h e s i tocca il limite della complessità drammatica per un finale classico : è un brano disperato e appassionato, ma anche uno dei più semplici e squadrati sul piano ritmi­ co fra quelli mozartiani. Il tema principale è del tutto regolare, ripartito in due metà uguali, ciascuna ben delimitata da una cadenza di tonica e suonata due volte. Con la sola eccezione di un elettrizzante momento all' inizio dello sviluppo (inscritto peraltro all 'interno di due frasi di quattro battute, seguite da una regolare transizione di due ) , il ritmo è sempre gloriosamente impellente, ma senza mai sorprendere . L'auda­ cia armonica è tutta concentrata nello sviluppo, mentre l'esposizione, malgrado alcuni passaggi cromatici, non offre nulla di paragonabile al­ l'ambiguità armonica che si incontra in quella del primo movimento, per esempio alle battute 58-62. Le frasi sono inoltre articolate nel modo più diretto : delle sovrapposizioni, sincopi e sospensioni del primo movi­ mento qui non c'è più traccia. Ciò non significa che il finale sia privo di tensioni drammatiche, ma la sua funzione è essenzialmente di risolvere , ancorare e stabilizzare. Non è forse altro che una velata tautologia, u n modo per dire che u n finale conclude e completa, m a i l compositore classico prendeva alla lettera l' idea di ' finale ' , senza alcun sentore degli effetti di forma 'aperta' , dei tentativi di rompere la percezione del qua­ dro che sarebbero comparsi solo con la prima generazione romantica. Un finale in maggiore in un' opera in minore non era ovviamente al­ tro che una terza piccarda su più larga scala; nella tonalità settecentesca l'accordo maggiore, rispetto a quello minore, era meno carico di tensio­ ne e garantiva una maggior soddisfazione nel risolvere . La rinuncia alle conclusioni in minore nelle tarde opere di Haydn non è il segno di un'e­ splosione di allegria nella mezza età, ma dello sviluppo del gusto classico per la risoluzione. Negli ultimi trii, dove poteva usare per il finale la forhoven, per quanto di fattura complessa, è strutturalmente più allentata e più semplice rispetto all 'inizio dell'op. 1 30. l . L'Adagio conclusivo del Quartetto op. 54, n. 2 di Haydn, un'opera strana sotto tutti i punti di vista, sembra una forma temaria piuttosto allentata, ma è in realtà una serie di variazioni libere.

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ma del minuetto , Haydn si concede il minore per il commoventissimo ultimo movimento del Trio in fa diesis minore. Il passaggio al maggiore per la conclusione non era affatto una concessione al pubblico: rispetto alla prima produzione praghese del Don Giovanni, la seconda versione, scritta per Vìenna, soggiace ben di più alle pressioni esterne ed è però quella in cui viene eliminata buona parte dell' originaria conclusione in re maggiore . Nei rari casi in cui Mozart sceglie di concludere in minore, dunque con un residuo di tensione armonica che continua a echeggiare nella mente dopo la fine della musica, compensa vuoi con una maggiore semplicità nell ' articolazione e nella costruzione delle frasi, come nella Sonata per pianoforte e violino in mi minore K 304 e nelle sonate per pianoforte in la minore e in do minore K 3 1 0 e K 457, vuoi ricorrendo alla forma del tema e variazioni, come nel Quartetto in re minore K 42 1 e nel Concerto per pianoforte K 49 1 . E nessuna di queste pagine succe­ de a una musica tanto complessa e angosciata quanto i primi tre movi­ menti e l'introduzione al finale del Quintetto in sol minore. Ciò non significa che il peso del finale non costituisse un problema per Mozart: lo dimostra il manoscritto della Sonata in la maggiore per pianoforte e violino K 526. Come quelli dei Quintetti in do maggiore e in sol minore, l' ultimo movimento comincia con la successione di due distinte melodie alla tonica. In un primo tempo Mozart non riusciva a decidere se completare il secondo tema alla tonica prima di modulare, come nel Quintetto in sol minore, oppure usarlo, prima che suonasse concluso, come trampolino verso la dominante , come nel Quintetto in do maggiore. Il problema qui era fino a che punto si potesse allentare la forma e quanto dovesse essere squadrato il ritmo periodico. Mozart optò infine per la forma meno rigidamente strutturata in sezioni e compose un « rondò-sonata >> in cui lo sviluppo combina in funzione di risoluzio­ ne due forze armoniche : un tema nuovo al relativo minore e una ripresa che inizia alla sottodominante. La struttura allentata del finale consenti­ va la stessa varietà di climi espressivi e di tecniche accessibile al movi­ mento iniziale con la sua concezione più « organica >> . (Bisogna ricono­ scere che queste forme morbide potevano talvolta produrre finali che suonano inadeguati anche secondo parametri classici, come accade per esempio nella Sonata Kreutzer di Beethoven o in quella per pianoforte e violino in sol maggiore K 379 di Mozart, in cui le variazioni, con tutto il loro charme, sostituiscono all' impetuosa potenza precedente un'esibi­ zione di eleganza puramente decorativa) . Il Quintetto in sol minore dimostra che le dimensioni così estese di quello in do maggiore non rappresentano, nell' evoluzione mozartiana, un esperimento eccentrico e isolato, ma restano parte integrante della sua concezione del genere. Il maggior spazio richiesto dalla sonorità porta con sé un aumento non tanto della durata quanto della massa tonale. Il primo movimento del Quintetto in sol minore, come quello del Quintetto 341

in do maggiore, si sofferma sulla tonica ben più di quanto Mozart si sia mai concesso in un quartetto. Donde una pagina iniziale cromaticamente aspra e insistente al punto che ancora oggi colpisce profondamente per la nuda potenza dell'angoscia che la peiVade. Non c'è nell 'ultimo quarto del Settecento un inizio che stia alla pari di questo nel presentare immediata­ mente un tormento tanto acuto, toccando già alla ventesima battuta un grado di tensione che in qualsiasi altra opera arriva ben più tardi. Ciò nonostante, padronanza e controllo sono sereni come sempre : un nuovo tema alla tonica funge da ponte verso il relativo maggiore ed è poi ripetuto con un 'intensità molto accentuata. Le due forme sono :

Ciò consente da un lato di evitare, grazie alla maggiore complessità e inquietudine della seconda forma del nuovo tema, ogni possibile effetto di rilassamento e calo di tensione dopo la tempesta iniziale, dall' altro di ampliare il « primo gruppo » in modo che, come nel Quintetto in do maggiore, le dimensioni corrispondano all' intensità. La tragedia può espandersi liberamente ed è ciò che rende possibile , qui come nella Sin­ fonia in sol minore, una potenza emozionale tanto oggettiva quanto pe­ culiare. (Più tardi i compositori dovettero usare procedimenti quasi dia­ metralmente opposti : Chopin, Liszt e Schumann comprimono gli ele­ menti espressivi in modo da poterli far scomparire nel momento di mas­ sima intensità, una tecnica che Wagner tentò di dilatare su una scala temporale più vasta e che Brahms cercò di conciliare con le forme classi­ che; questa costrizione è particolarmente evidente in compositori neo­ romantici come Mahler e Berg) . L' essenza del « classicismo » mozartia­ no è un equilibrio fra l'intensità dell' espressione e la stabilità tonale che determina le dimensioni della singola opera. Ecco perché le più vaste implicazioni portate con sé dalla sonorità dei cinque strumenti consen­ tono di attingere - ciò che sarebbe stato impossibile in un quartetto 342

tanto l'imponente e tranquilla grandiosità del Quintetto in do maggiore quanto l'angoscia sconfinata di quello in sol minore. C'è la libertà di ri­ solvere le dissonanze nel senso più ampio : non solo l'urto nell' immedia­ to, ma le tensioni a lungo termine. La forma è sempre chiusa e si rimane alla fine con l'impressione di un conflitto ricomposto , e non solo con le sue contraddizioni. Anche gli altri movimenti si spingono fino a quei limiti espressivi. È difficile andare oltre ciò che accade all'inizio del minuetto senza distrug­ gere il linguaggio musicale del tempo : \1. 1

I contrasti sincopati di tessuto sonoro e di accenti delle battute 4 e 6 so­ no indubbiamente estremi per l'epoca. Nella sua progressiva evoluzione il quintetto procede come un tutt'uno entro la cornice - in termini di intensità e costruzione delle frasi - dell 'estetica sonatistica, come se l'o­ pera non fosse complessivamente che un solo movimento di sonata. Il minuetto che si trova in seconda posizione, subito dopo il movimento iniziale, possiede, malgrado la sua veemenza, la semplicità decisiva e la concisione proprie del tema conclusivo di un'esposizione. Il movimento lento/ dove si tocca, come in genere accade nello sviluppo, il massimo della complessità ritmica, scompone il suo materiale in un modo ben più stupefacente degli altri movimenti. Sin da battuta 5 compare una frammentazione tipica di uno sviluppo : 5

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l. È interessante notare che nelle opere in minore di Mozart, quando i movimenti lenti sono di una particolare complessità espressiva, sono spesso al sesto grado maggiore (So­ nata per pianoforte in la minore K 310, Sinfonia in sol minore, Concerto in re minore K 466) , mentre quelli più semplici sono al meno remoto relativo maggiore (Concerto in do minore K 491 , Quartetto in re minore K 421 , Sonata in do minore K 457) .

343

Il motivo di quattro note sviluppato lì si ritrova poche battute più tardi nell' ambito di una ragguardevole disgregazione di ritmo e frase : Vl. l .,p

14

In una versione più estesa, il motivo è già suggerito dal primo violino a battuta 14, ma alle battute 16 e 17 viene semplicemente invertito con uno stupefacente spostamento di accento. Il continuo cambiamento nella lunghezza delle frasi (qui di una battuta e mezza) è il segno di una pulsazione costantemente variata che passa dall'iniziale alla breve del pri­ mo frammento citato al tempo ordinario del secondo per arrivare più tardi a otto tempi per battuta. E l'armonia non è meno intricata. Il finale funge da ripresa; l'Adagio introduttivo gli conferisce il peso necessario perché stia su un piede di parità coi movimenti precedenti e separa il compito di rievocare da quello di risolvere. Quest'introduzione supera addirittura gli altri movimenti nel ricorso evidente a un esplicito simbolismo espressivo : ritmo singhiozzante nelle parti interne, appog­ giature che paiono veri e propri sospiri, aspre dissonanze espressive, un'aria che è al tempo stesso legata dall'inizio alla fine e continuamente interrotta, insistenti parlando su una sola nota, un incessante movimento cromatico. Nulla di così prossimo all'assoluta disperazione era mai stato concepito fino ad allora: per tonalità e clima espressivo quest'Adagio ricorda il primo movimento, ma con un tumulto emotivo assai più pro344

fondo. Farlo sfociare in un Allegro di una qualsivoglia complessità dram­ matica sarebbe stato un oltraggio: l 'Allegro finale è, oltre che una risolu­ zione, una riconciliazione necessaria. La separazione fra le diverse sezio­ ni dei temi principali alla loro ultima apparizione nella coda, un proce­ dimento che ben presto sarebbe diventato così consueto con Beethoven e Schubert e che era già stato impiegato, di solito per effetti comici, da Haydn, porta qui un 'aria di tristezza e rassegnazione. Come per l'ultimo movimento del Concerto in si bemolle maggiore K 595, un 'esecuzione brillante banalizza questo finale. A far emergere la sua portata sono le dimensioni e l'ampio respiro della struttura nonché l' alternanza di epi­ sodi di grande semplicità e altri più ricchi nel contrappunto e più aper­ tamente espressivi. Mettere il minuetto al secondo invece che al terzo posto nell' ordine dei movimenti spinge il baricentro espressivo di un quartetto o di un quintetto verso la seconda metà. Haydn usò spesso questa disposizione nei quartetti scritti fino al l 785 e poi la abbandonò quasi completamen­ te1 (fanno eccezione i Quartetti op. 64, nn. l e 4, e l'op. 77, n. 2) . Mozart nella musica da camera ricorre a quest' ordine o a quello tradizionale all 'incirca con la stessa frequenza. Quando, come accade nel Quintetto in sol minore, il tempo lento al terzo posto è seguito da un lungo Adagio che introduce il finale, lo spostamento del centro di gravità dell'opera è ancora più evidente. Non che la posizione del minuetto fosse rigorosa­ mente definita : il divertimento spesso ne includeva due, uno prima e uno dopo il tempo lento. Ma è chiaro che sia Mozart sia Haydn, che an­ davano in cerca di una concezione più unitaria della composizione nella sua interezza, sperimentavano le possibilità di spostamento delle pro­ porzioni e dell' ordine dei movimenti. Per Mozart il motivo principale per mettere il minuetto al secondo posto fu probabilmente il desiderio di separare un tempo lento eccezionalmente complesso dal tradizional­ mente drammatico movimento di apertura. (Lo fa non solo nei due Quintetti K515 e K516, ma anche in tre dei Quartetti dedicati a Haydn e nello Ho.ffmeister, tutte opere con movimenti lenti di una serietà inusita­ ta oppure, per quanto riguarda le variazioni del Quartetto in la maggio­ re K464, di considerevole lunghezza) . Questa disposizione consente un miglior equilibrio fra prima e seconda parte dell' opera. Beethoven, che in genere seguiva l'ordine più tradizionale, negli ultimi anni riscoprì o reinventò le proporzioni mozartiane e mise lo scherzo prima del movi­ mento lento in due fra le sue opere più imponenti, la Hammerklaviere la Nona sinfonia;2 nell 'una e nell' altra lo scherzo è concepito in parte col . Ma in seguito diede un 'importanza considerevolmente maggiore allo scherzo. 2. Anche nei quartetti Beethoven scelse questa disposizione per il suo primo tentativo in un nuovo e più ampio stile, l'op. 59, n. l. Il Quartetto in la maggiore op. 18, n. 5 è un 'i­ mitazione, movimento per movimento, di quello in la maggiore di Mozart e anche qui si

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me parodia del primo movimento, ma l'ordine sexve in ogni caso a ripar­ tire con maggior equilibrio l'energia �spressiva. Le ultime opere di Beet­ hoven mostrano sotto molti aspetti un deciso ritorno agli ideali di Mo­ zart e Haydn in un contesto emozionale completamente diverso.

Nel 1 788, l'anno successivo al completamento dei due grandi quintet­ ti, Mozart non scrisse musica da camera per archi, salvo il Divertimento per trio d'archi K 563. Quest'opera, una prodezza di ricchezza contrap­ puntistica e armonica ammantata di un agio garbatissimo che ne rivela la genialità, è la quintessenza della tecnica e dell'esperienza mozartiane. Qui si trovano concentrate entro i limiti del trio d'archi sia la padronan­ za, acquisita con i sette quartetti degli anni fra il 1 782 e il 1 786, della tecnica normativa di scrittura a quattro parti sia l'immenso ampliamen­ to del raggio d' azione realizzato nei due quintetti del 1 787. Nessun altro compositore del Sette e dell'Ottocento comprese quanto Mozart le esi­ genze della scrittura a tre parti, se non il Bach delle sei sonate a tre per due tastiere e pedale. Nell'ambito del trio d'archi, il K 563 è un'opera unica, ben superiore a ogni altra per lo stesso organico. Anticipa anche, in modo molto interessante, gli ultimi quartetti di Beethoven : Mozart trasporta la forma del divertimento, con due movimenti di danza e due movimenti lenti (uno dei quali un tema con variazioni) , nel regno della musica da camera seria, rendendo puramente intimo ciò che era pubbli­ co e trasfigurando, come farà Beethoven in molti dei brevi movimenti intermedi delle sue ultime composizioni cameristiche, l' elemento « po­ polare » senza perderne di vista la provenienza. In questo Divertimento si fondono senza ambiguità né sforzo apparente un'esibita sapienza nel­ la scrittura a tre parti e un genere popolare. Nel 1 789 Mozart cominciò una serie di tre quartetti che si sarebbero rivelati gli ultimi; furono composti per il re di Prussia che perpetuava la tradizione familiare come violoncellista dilettante. In genere si attribui­ sce il notevole incrementodella scrittura solistica, in questi quartetti, al desiderio di Mozart di compiacere il sovrano; i soli degli altri strumenti bilancerebbero quelli del violoncello garantendo l' integrità stilistica. L' assunto, in altre parole, è che il virtuosismo in quanto tale fosse offen­ sivo per la mentalità classica. In realtà tutti i grandi compositori hanno avuto a cuore il puro virtuosismo e Mozart gli attribuiva un alto valore. È un modo per dare maggiore enfasi senza ispessire la massa sonora o per trova quest' ordine, con il movimento lento in forma di variazioni al �erzo posto. Le varia­ zioni lente dell'op. 1 35 sono analogamente poste dopo lo scherzo. E impossibile descri­

vere per sommi capi la disposizione dei movimenti degli ultimi quartetti, ma è chiaro

che quello in si bemolle maggiore op. 1 30 si iscrive, a questo riguardo, nella stessa cate­

goria della Hammerklavier e della Nona sinfonia.

346

allargare il quadro quando la concentrazione stilistica è talmente inten­ sa (come accade, in Mozart, nei quartetti dedicati a Haydn e nei due successivi grandi quintetti) che uno sviluppo ulteriore pregiudichereb­ be l' equilibrio fra tensione e risoluzione. Lungo tutta la carriera di Mo­ zart l'oscillazione fra elementi solistici e tecnica dell' insieme procede in una spirale ascendente : lo stile solistico stimola una più ricca forma d' in­ sieme, poi la nuova sintesi così raggiunta nello stile cameristico o sinfo­ nico viene ulteriormente ampliata dal virtuosismo. Pochi mesi dopo avere terminato i Quartetti Prussiani, Mozart scrisse altri due quintetti per archi, nel primo dei quali, il K 593, sono evidenti le recenti esperienze di scrittura solistica maturate nell' ambito della mu­ sica da camera. Gli strumenti sono trattati individualmente con una bril­ lantezza molto più considerevole che nei quintetti precedenti e ognuno di essi è spesso contrapposto agli altri quattro; duetti e passaggi antifona­ li sono meno numerosi (salvo che nell'alternanza fra solista e insieme) . Alcuni passaggi richiedono un suono virtuosistico eccezionalmente bril­ lante : nel trio del minuetto, il primo e il secondo violino (nonché il vio­ loncello) sono investiti del ruolo solistico nel modo più stupefacente. La ben nota modifica apportata al tema principale del finale non è affatto di Mozart, ma probabilmente di uno strumentista per il quale la forma originale, più caratteristicamente cromatica, risultava troppo difficile . Questa recente scoperta (la correzione che si trova nel manoscritto non è di mano di Mozart) è tanto più soddisfacente perché ci sono diversi passaggi - soprattutto quello a venticinque battute dalla fine - che suo­ nano problematici nella versione « corretta » mentre nel dettato origina­ le risultano direttamente e strettamente collegati al tema principale. Nel primo movimento si trova un ragguardevole tentativo di integrare introduzione e Allegro in un modo che anticipa la Sinfonia Rullo di tim­ pani di Haydn, e la Patetica e il Trio con pianoforte op. 70, n. 2 di Beetho­ ven . I due temi del Larghetto introduttivo e dell'Allegro :

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ve anche a risolvere la sua prima e più dinamica presentazione: è una vera ripresa in stile sonatistico, non una variante della forma col da capo. Riscrivere un'iniziale sezione lenta in modo tale che possa alla fine fungere da risoluzione (sostituendo cioè l'originale cadenza conclusiva alla dominante con una di tonica e facendo assumere a tutto ciò che precede una forma diversa) non è in sé un' idea nuova. Se ne trovano esempi fin dall'ouverture barocca: quella francese in si minore di Bach è solo un esempio fra molti. Ma abbiamo a che fare con due diversi tipi di cadenza alla dominante : nell'iniziale sezione lenta dell 'Ouverture francese si trova la cadenza delle forme regolari di danza, e dunque dell'esposizione di sonata - un movimento verso la dominante entro una schema che comporta una risoluzione simmetrica. La cadenza del Larghetto introduttivo del Quintetto in re maggiore è invece sulla domi­ nante, ma non abbandona mai la tonica: è un 'introduzione in senso stretto, non porta a termine azioni, si limita ad adombrare, prefigurare, suggerire ciò che verrà poi. Ecco perché il Larghetto vira immediata­ mente alla tonica minore, turbando la tonalità con un colore più scuro senza con ciò indebolirla (un'introduzione funziona come un esteso accordo di dominante all' interno di un ' area di tonica - e in qualche ca­ so quest'ultima, come nel Quartetto in do maggiore K 465 ma non nel Quintetto, viene definendosi solo gradualmente e si chiarisce poco a poco) . Ciò che è del tutto nuovo, e per l'epoca radicale, è trattare quel movimento armonico come qualcosa che va ben oltre un evento localiz­ zato, come una tensione che necessita di essere risolta non semplice­ mente dall'Allegro che segue, ma molto più tardi, alla fine del movimen­ to, quasi facesse propriamente parte dell'esposizione. Il concetto stesso di esposizione è ampliato e siamo spinti a percepire le tensioni in una prospettiva temporale ben più vasta di quella abituale. Più radicale ancora è il rapporto che lega la coda e l'Allegro : non mi riferisco alla somiglianza tematica, che è un procedimento comunissi­ mo (è un mezzo per garantire l'unità di pezzi separati che risale almeno alla messa su chanson tardomedioevale) , ma all'interazione fra tessuto sonoro e armonia. L'ultima parte dell'Allegro assume in modo via via crescente la colorazione minore dell 'introduzione mentre il tessuto si assottiglia a tal punto che la tranquilla sonorità del violoncello solo, la stessa dell'inizio del movimento, suona troppo naturale e inevitabile per sorprendere.1 In questo modo l'Allegro si fonde con il ritorno dell'intro­ duzione e il contrasto fra i tempi non è soltanto ritmico, ma appartiene anche allo sviluppo armonico. Il tocco più magistrale è il ritorno della l. Le ultime battute della ripresa riproducono esattamente quelle che concludono l'e­ sposizione, giacché anche la seconda parte dell'Allegro dovrebbe essere ripetuta; hanno in comune il tessuto assottigliato, ma nella sezione conclusiva della ripresa la colorazio­ ne minore via via crescente è in gran parte nuova.

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prima frase dell 'Allegro alla fine, ritorno che non solo produce un ' argu­ ta simmetria, ma serba alla coda lenta il suo carattere essenzialmente introduttivo e lega fra loro i due tempi in un 'unità ancor più intricata. Il Quintetto in re maggiore sfrutta dall 'inizio alla fine una combina­ zione di terze discendenti. Lo schema armonico del tema principale del primo movimento è : D

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Il minuetto qui non fa altro che esporre e semplificare ciò che era laten­ te e complesso nei movimenti precedenti. L'uso più strepitoso della progressione discendente si trova nel m ovi-

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mento lento, dal punto culminante dello sviluppo fino al ritorno alla tonica: 44

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Nella progressione all 'inizio di questo passaggio, ogni nuova frase si appropria delle terze discendenti là dove la precedente le aveva abban­ donate, persino quando in mezzo vi è una pausa semicadenzale. Il pun­ to culminante è un vuoto improvviso : giunti a battuta 5 2, la cadenza potente, costruita con tutta la fiera energia che una discesa cumulativa può produrre, non risuona - non è rimandata, manca del tutto. Invece della cadenza, si arresta ogni movimento e in un piano repentino resta soltanto un dolce pulsare delle due viole. Quando gli altri strumenti entrano con una nuova progressione che condurrà direttamente al te­ ma principale, quattro ritmi completamente diversi si sovrappongono in un tessuto contrappuntistico tanto complesso quando profonda­ mente toccante. L'ultima finezza è, a battuta 56, lo scambio fra le linee melodiche di primo e secondo violino che prepara il ritorno, dopo un crescendo, del tema principale. La progressione e la sovrapposizione di fatture ritmiche diverse portano, dopo la vigorosa discesa di terze, una condizione di calma profonda : tutto si risolve tranquillamente e come se non potesse essere altrimenti, tutto rimane sospeso, immobile, quasi senza fiato, dopo l ' interruzione di ogni impulso motorio prodotto dal­ l ' audace non-cadenza. Il Quintetto in mi bemolle maggiore K 6 1 4 è un omaggio a Haydn e l 'ultima composizione cameristica di Mozart. Come il precedente in re maggiore , fu scritto, a quanto pare, per Johann Tost e forse l ' imitazione da parte di Mozart dello stile di Haydn si spiega in parte con l' amicizia che legava quest' ultimo a Tost (per lui Haydn aveva composto poco tem­ po prima dodici quartetti) . Fu grazie alla mediazione di Haydn che Mo­ zart ottenne la commissione? Il suo debito musicale nei confronti del più anziano maestro è in ogni caso considerevole in questo quanto nel primo Quintetto K 1 7 4. Il finale del K 6 1 4, scritto nel 1 79 1 , deriva dal finale di uno dei quartetti (op. 64, n. 6) che un anno prima Haydn aveva dedicato a Tost:

352

Il movimento lento ricorda da vicino quello della Sinfonia n. 85 di Haydn , La Reine, scritta nel 1 786; mentre il rustico bordone del trio del minuetto è senza dubbio influenzato dall'episodio corrispondente e si­ mile della Sinfonia n. 88, sempre di Haydn, del l 787. L'imitazione tecni­ ca è più significativa dei semplici riferimenti melodici. Il finale è haydniano da cima a fondo, con persino un 'inversione comica del tema alla fine. Questo quintetto, che (nei movimenti estremi) fonde un trat­ tamento dettagliato alla maniera di Haydn degli elementi dinamici dei motivi più minuscoli con una scrittura delle parti interne di una sonorità e una complessità tipicamente mozartiane, mette a disagio qualche mu­ sicista, forse perché manca della libertà espansiva degli altri quintetti e sembra tenere strette le proprie ricchezze. Nel primo movimento la ge­ nerosità caratteristica di Mozart si manifesta solo nell' agevole dipanarsi dell 'inizio del « secondo gruppo '' · Nel finale la complessità contrappun­ tistica sembra cozzare con un 'esibita giovialità. Ma questi possono essere considerati difetti solo se ci si aspetta non magari qualcosa di più, ma qualcosa di diverso da ciò che quest' opera splendidamente concepita può offrire . In fondo non c'è nulla di più appropriato per Mozart che tornare , per la sua ultima opera da camera, a sottomettersi alle istruzioni di Haydn. Era stato Haydn a creare quello stile cameristico, a renderlo vitale e dotarlo della potenza necessaria a sostenere peso drammatico ed espressivo senza andare in pezzi. Nei quintetti Mozart ne ampliò la por­ tata ben oltre il raggio d'azione di Haydn e attinse un 'imponenza che neppure Beethoven superò mai. Ma l'intuizione fondamentale della musica da camera come azione drammatica era di Haydn e la sua conce­ zione e le sue innovazioni rimasero una presenza vitale in tutte le com­ posizioni cameristiche di Mozart.

353

3 L' OPERA BUFFA

Il 1 2 novembre 1 778, in una lettera al padre da Mannheim, Mozart racconta di un nuovo genere di dramma con musica che vi veniva rap­ presentato e dell'invito, ricevuto dall' impresario, a comporne uno : « ho sempre desiderato scrivere un dramma di questo genere . - Non so se vi ho parlato di questo tipo di opera teatrale quando sono stato qui per la prima volta. - Allora ho assistito ad un tale dramma per 2 volte con il più grande piacere ! - In effetti - niente mi ha mai sorpreso tanto ! - Mi ero sempre immaginato, infatti, che una cosa simile non avrebbe fatto alcun effetto ! - Sapete che non si canta, ma si declama - e che la musica è co­ me un recitativo obbligato - talvolta si parla anche sulla musica, per cui si produce un effetto meraviglioso . . . Sapete quale sarebbe la mia opinio­ ne? - Si dovrebbe trattare in questo modo la maggior parte dei recitativi dell'opera - e solo di tanto in tanto, quando le parole possono essere espres­ se bene in musica, cantare i recitativi » . 1 In questa lettera bisogna forse leggere fra le righ e : fallito miseramente il tentativo di conquistare il mondo musicale parigino, Mozart aveva davanti a sé ciò che più odiava e temeva, il ritorno a Salisburgo, di nuovo al servizio dell' arcivescovo. Quanto c'è allora di genuino entusiasmo e quanto invece del tentativo di convincere il padre, che lo aspettava impaziente a Salisburgo, dell' op­ portunità di rimandare quel rientro poiché vi erano altri progetti in vi­ sta? Comunque sia, l' atteggiamento di Mozart e la sua inclinazione spe­ rimentale sono rivelatori. E incantato dalle possibilità offerte da ciò che si suole chiamare « melologo » (dialogo parlato accompagnato dalla mu­ sica) e la sua concezione dell'effetto teatrale non si limita affatto alla musica vocale. Al contrario, distingue con nettezza fra musica come equivalente dell' azione drammatica e musica che esprime alla petfeziol.

Il corsivo è di Mozart; Mozart, Letters, cit. [ Tutte le lettfffe di Mozart, ci t., vol. II, p. l O 1 2 ] .

355

ne il testo.1 La priorità spetta alla prima e in nome di una maggior effi­ cacia drammatica Mozart è pronto ad abbandonare il canto per la sem­ plice recitazione. Nella Zaiaevi sono alcuni passi di melologo di grande effetto che pre­ annunciano il secondo atto del Fide/io, ma ogni altra cosa scritta da Mo­ zart in questa forma che per un certo periodo l 'aveva tanto interessato è andata perduta, a meno di non volervi includere le interruzioni di dialo­ go parlato nella serenata di Pedrillo e n eli ' aria di Osmin della Entfohrung aus dem Serail, o quel momento della Zauberflote in cui Papageno conta fino a tre prima di tentare il suicidio. Mozart non perse mai però la vo­ glia di sperimentare, né la convinzione che nell'opera la musica intesa come azione drammatica abbia la precedenza sulla musica come espres­ sione. Ciò non significa negare l ' abilità mozartiana nella scrittura per la voce o la sua passione per la coloratura vocale elaborata. Ma Mozart non fu sempre tenero con la vanità dei cantanti desiderosi di sfoggiare la bellezza della propria voce. Soprattutto nei pezzi d'assieme, come il grande quartetto dell' ldomeneo, insisteva perché il testo fosse più parlato che cantato.2 L'interesse passeggero per il melologo mostrato da Mozart nel periodo trascorso a Mannheim riflette l'entusiasmo di un giovane compositore di fronte alla scoperta che in teatro la musica non deve li­ mitarsi a soddisfare le richieste dei cantanti o esprimere un sentimento : può divenire un tutt'uno con la trama e con l ' azione. Era un'idea che Mozart aveva compreso solo in parte quando aveva scritto la splendida e poco conosciuta Finta giardiniera. Lo stile del primo Settecento era all ' altezza di qualsiasi esigenza po­ sta dalle sole parole. La musica operistica di Handel e Rameau poteva in ogni momento trasfigurare il sentimento e la situazione, ma non aveva effetti sq.ll' azione o sul movimento - in altre parole , su tutto ciò che non fosse statico. Dire che lo stile sonatistico abbia fornito un qua­ dro ideale per tradurre in musica le parti più dinamiche del teatro è una semplificazione solo nella misura in cui ciò non tiene conto del ruolo importante che l' opera stessa ha avuto nello sviluppo dello stile sonatistico. L' influenza maggiore venne dall'opera buffa, e lo stile clas­ sico si muove col massimo agio proprio nel dipingere intrecci e gesti comici. I tre tratti che resero il nuovo stile così adatto all' azione drammatica sono: primo, l' articolazione della frase e della forma che trasformano un l. In una lettera dell ' 8 novembre 1 780, Mozart si pronuncia decisamente contro l ' even­ tualità di un a parte in un'aria: '' In un dialogo sono cose del tutto naturali - si le parole - fa un brutto effetto; - e se anche non fosse cos� vorrei avere un 'aria in quel punto >> (corsivo mio) ; Mozart, Letters, cit. , p. 659 [ Tutte le lettere di Mozart, ci t., vol. Il, p. 1 054] .

2. Lettera del 27

vol. II, p. 1 1 1 7 ] .

356

dicembre 1 780; Mozart, Letters, cit. , p. 699 [ Tutte le lettere di Mozarl,

cit. ,

brano in una serie di eventi distinti; secondo, il rafforzamento della po­ larità tonica-dominante che permette di produrre un aumento di tensio­ ne molto più netto al centro del brano (e di definire con maggior preci­ sione il valore delle altre relazioni armoniche che possono dunque rive­ stire anch ' esse un significato drammatico) ; terzo, ma non ultimo per importanza, l'uso della transizione ritmica che consente di trasformare il tessuto sonoro parallelamente all' azione sulla scena senza in alcun modo mettere a repentaglio l' unità puramente musicale. Questi tratti appartengono tutti allo stile « anonimo , deli' epoca; ora del l 775 erano moneta corrente in musica. Mozart fu però, senz'ombra di dubbio, il primo a comprenderne in modo sistematico tutte le possibili implicazio­ ni in campo operistico. In un certo senso Gluck fu un compositore più originale di Mozart, forgiò il suo stile individualmente, con un caparbio atto di volontà, più che facendo proprie le tradizioni del suo tempo. Ma fu quella stessa originalità a precludergli l'agio e la facilità con cui Mo­ zart dominò il rapporto fra musica e dramma. Quanto lo stile sonatistico si adatti all'opera si può vedere, nella sua forma meno complicata e più perfetta, in quello che era il numero pre­ ferito di Mozart nelle Nozze di Figaro, il grande sestetto di agnizione del terzo atto , che ha la forma di movimento lento di sonata (cioè senza svi­ luppo e con la ripresa che inizia alla tonica - il > e « Batti, batti, bel Masetto >> . Nelle opere dell 'ultimo quarto del Settecento si trovano spesso arie in tempo moderato con una sezione finale più veloce : non si tratta di una coda o di un movimento a sé, come la seconda parte della « Casta diva >> di Belli­ ni, ma della risoluzione armonica delle tensioni precedenti. In quasi tutte queste arie, la parte lenta si presenta come una forma ABA che non ha nulla a che vedere con l'aria col da capo o con la normale forma terna­ ria: B va sempre alla dominante e somiglia a un « secondo gruppo » di sonata (seguito talvolta da uno sviluppo) . La sezione conclusiva più rapi­ da, che viene dopo il ritorno del tema iniziale, sostituisce armonicamen­ te la ripresa di B, ossia del « secondo gruppo >> : come l' ultima parte del sestetto del Don Giovanni, questa sezione non abbandona mai la tonica, salvo che per rapide escursioni alla sottodominante, persino quando è lunga come l A llegro moderato conclusivo del « Per pietà ben mio » in Così fan tutte. 1 L' aria della Con tessa « Dove sono >> nelle Nozze di Figaro rende esplicita la forma incompleta della prima sezione lenta interrompendo nel bel mezzo di una frase il ritorno della melodia iniziale : il successivo Allegro risolve al tempo stesso la frase e l'intero pezzo. Questa forma di aria, Andante ( tonica-dominante-tonica) -Allegro ( tonica) , rispetta l'idea­ le armonico della sonata muovendo inizialmente alla dominante e con'

l. Questa sensibilità per le proporzioni tonali, come quella per l'unità tonale entro un ' o­ pera, è un tratto di maturazione dello stile mozartiano sviluppato a partire dalla Entfùhrung. Non la si trova, per esempio, nel terzetto in mi maggiore O selige Wonne » della Zai'de nel quale a un'esposizione di sonata non risolta segue una forma sonata com­ pleta. ,,

374

sacrando almeno tutto l' ultimo quarto della sua complessiva lunghezza a una decisa risoluzione alla tonica; il culmine armonico è situato al cen­ tro e la risoluzione, come nel concerto, è rafforzata dal virtuosismo.1 Col crescere della sua esperienza in campo operistico, però, anche la concezione mozartiana dell' aria si fece più fantasiosa. Nelle sue prime opere (La finta giardiniera, Zaide, Idomeneo) , le arie hanno in gran parte modelli di sonata relativamente semplici e diretti, con simmetrie melo­ diche chiare e letterali. Molte di esse potrebbero essere prese come esempi da manuale per le definizioni più rigide e ristrette di allegro di sonata. Anche le arie che contengono le innovazioni più sorprendenti sono relativamente lineari. Nell' Idomeneo Mozart tenta a più riprese di combinare fra loro le forme sonata e col da capo (nn. 19, 27, 31) . Ciascu­ na di queste arie comincia con una regolare esposizione di sonata che muove dalla tonica alla dominante e presenta una ripresa che risolve il « secondo gruppo >> alla tonica (il n. 27, « No, la morte >> , mostra addirit­ tura la più vecchia forma di ripresa, dalla dominante alla tonica) . La se­ zione centrale è in un tempo diverso e contrastante, che talvolta inizia nell 'atmosfera distesa di un trio di minuetto per poi far emergere il ca­ rattere drammatico di uno « sviluppo >> che riconduce direttamente all'i­ nizio. Nella carriera di Mozart, questi esempi rappresentano altrettanti esperimenti, nessuno dei quali andrebbe considerato in astratto, senza tener conto della sua funzione drammatica, del testo e della posizione che occupa all'in temo dell' opera. Basterà qui un solo esempio di forma inconsueta, l ' aria di Elettra « Tutto nel cor >> (n. 4 dell' Idomeneo) , in cui a un'esposizione in re minore corrisponde una ripresa le cui prime dodici battute sono in do minore, la tonalità della sensibile bemollizzata - la più lontana che si possa immaginare da una risoluzione. Uno scosta­ mento che Mozart giustifica in termini sia drammatici che formali come equivalente della violenza e della collera del personaggio di Elettra; la stessa instabilità armonica si ritrova anche nelle altre sue arie. Ma non meno notevole è che quest'aria in re minore sia seguita senza interruzio­ ne da un tempestoso coro in do minore che descrive il naufragio : l'ano­ malo inizio in do minore della ripresa dell'aria lo prepara senza attutir­ ne l 'effetto drammatico. E la ripresa è a sua volta preparata dall'esposi­ zione, che dal re minore va tanto al fa minore quanto al fa maggiore : poiché sembra scaturire dal fa minore, il do minore suona naturale; ci si l. Il duetto « Là ci darem la mano , dal Don Giovanni comincia con una chiara forma so­ nata di movimento lento (senza sviluppo) con ripresa completa; la successiva sezione più rapida (in 6/8) è un'estesa cadenza e rimane stabilmente alla tonica. Può essere considerata una vera e propria coda perché pur insistendo sulla tonica non ha nulla dell 'urgenza che si trova nelle sezioni conclusive delle arie già citate. In assenza della necessità formale di risolvere, un simile lussuoso indulgere nella più consonante delle armonie, sviluppato col dondolante ritmo di danza di una siciliana, riflette il gioioso ar­ rendersi di Zerlina.

375

sorprende solo quando ci si rende conto che si tratta dell'inizio di una vera e propria ripresa, e non di uno sviluppo. Ciò che sbalordisce è para­ dossalmente il ritorno della tonica, un effetto di caratteristiche concisio­ ne e potenza. Alcuni lettori troveranno queste considerazioni inutilmente pignole, altri riterranno semplicistici significati tonali su così larga scala. Ma sen­ za ombra di dubbio Mozart ragionava esattamente in questi termini, co­ me si vede nella ben nota lettera al padre a proposito della Entfohrung aus dem Serail dove spiega la scelta del la minore per concludere un 'aria di Osmin che comincia in fa maggiore. Va detto che qui Mozart si sta in parte giustificando, poiché spiega, e quasi difende, un effetto armonico fra i più sorprendenti che abbia mai scritto : « poiché la musica, anche nella situazione più raccapricciante, non deve mai offendere l 'orecchio, ma deve sempre procurare piacere, per cui la musica deve sempre rima­ nere tale, non ho utilizzato alcuna tonalità estranea al fa (la tonalità dell'aria) , ma una tonalità imparentata, ma non quella più vicina, re mi­ nore, bensì quella più lontana, la minore » . 1 Questa è con ogni evidenza l'espressione di un gusto profondamente classico, un gusto che ha ripu­ diato il manierismo della generazione precedente; ma è anche un tenta­ tivo di rassicurare il padre, sempre preoccupato che il figlio scrivesse musica ricercata, d'avanguardia, incomprensibile al pubblico, e non ri­ uscisse dunque a guadagnare - che è, effettivamente, più o meno ciò che accadde. Il cambiamento di tonalità in quest'aria di Osmin (Die Entfiihrung aus dem Serai� n. 3) 2 non contraddice in alcun modo il valore che Mozart attribuiva all'unità tonale, poiché le varie sezioni sono chia­ ramente, ancorché brevemente, separate le une dalle altre da dialoghi recitati : procedimento forse ingenuo, ma le strutture tonali della Entfiihrung non sono ancora raffi nate come quelle delle opere successi­ ve. In ogni caso, la lettera al padre, nella sua interezza, mostra chiara­ mente che a un cambiamento di tonalità andava attribuito un preciso significato simbolico. Nelle opere successive le arie sono molto più sottili e infinitamente più diversificate . Le più comuni simmetrie della forma sonata, in tutta la loro gamma, non sono più usate in modo così diretto e semplice, ben­ ché continuino a fungere da princìpi ordinatori : le fonti di energia ar­ monica e ritmica dello stile sonatistico si combinano con le situazioni drammatiche in modi sempre più inventivi. Al primo ascolto, il « Deh vieni, non tardar » di Susanna sembra null' altro che un puro canto, libe­ ro dalle pastoie di rigide concezioni formali. Ma in effetti è un esempio l . Lettera del 26 settembre 1 78 1 ; Tutte 1.8 kttere di Mozart, ci t., vol. Il, p. 1 2 1 1 [N.d. T.] . 2. È una relazione che in modo simmetrico si ripresenta (sempre per illustrare la collera di Osmin) nel vaudeville alla fine dell'opera, dove però viene risolta in un quadro più vasto.

376

di ciò che ho chiamato la forma del minuetto di sonata, in cui dopo la prima doppia barra comincia alla dominante una sezione più animata in cui si combinano « secondo gruppo » e > che sarebbe altrimenti stato necessario. Nel brillante Quartetto in re maggiore op. 7 1 , n. 2 di Haydn, il tema principale è una ricca e complessa elaborazione contrappuntistica di un salto di ottava: Allegro

mentre la melodia che conclude l'esposizione ha il profilo squadrato ti­ picamente popolare dei temi finali delle sinfonie :

406

e si potrebbero trovare facilmente altri esempi di questo contrasto. Biso­ gna notare che quando il tema d'apertura è marcatamente regolare , quello conclusivo è di uno stile ancor più decisamente popolare . Il pri­ mo tema del Quartetto in sol maggiore op. 76, n. l appare quanto mai gaio e squadrato :

(partitura compl('ta)

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ma la fine dell'esposizione lo è ben di più :

e qui ricompaiono il basso stabile e la figura dell'accompagnamento in­ troduttivo. Il tema principale della Sinfonia Rullo di timpani ha un carat­ tere danzante :

ma è nulla a confronto del ritmo di Landler e dell' accompagnamento da schietta danza popolare del tema successivo :

Ricapitolando, la melodia popolare poté essere in tegrata nell' arte colta come mezzo per rendere più chiara la forma (non c'è quasi bisogno di 407

aggiungere che questo fu solo il metodo, e non la ragione, di quell'inte­ grazione) . I temi iniziali dei finali hanno quasi sempre la simmetrica regolarità ritmica caratteristica dello stile popolare. Può sembrare un circolo vizio­ so : l'identificazione della musica > con regolarità e assetto ritmico squadrato non è ovvia né, soprattutto, vera. Ma la gran parte delle persone da una melodia si aspetta proprio quella regolarità di frasi con una lunghezza sempre divisibile per quattro e con un profilo par­ zialmente simmetrico che il compositore classico trasse dalla danza e dalla musica popolare : egli era interessato alle loro simmetrie ricorrenti e condizionò quindi, per più di un secolo, gli ascoltatori ad aspettarsele. Negare a Beethoven e Stravinskij il titolo di grandi melodisti significa non che gli schemi lineari della loro musica non siano belli, posizione fin troppo ridicola, ma che quegli schemi non rientrano spesso nelle forme simmetriche e nei moduli di, per esempio, Schubert o Prokofev. C'è una gran quantità di musica popolare fortemente asimmetrica e rit­ micamente irregolare che Haydn in parte conosceva, ma non era quella che gli interessava. Sapeva provvedere da sé all 'irregolarità ritmica di cui aveva bisogno (e tuttavia, nella letteratura che lo riguarda, non si è mai sottolineato abbastanza come, dal l 780 in avanti, i suoi effetti ritmici ir­ regolari e inattesi siano sempre rigorosamente inscritti in un sistema di simmetrie su larga scala, in cui lo schema dominante è la frase di otto battute e quelle di lunghezze dispari, per garantire l' equilibrio, si pre­ sentano sempre in coppia) . Per Haydn, lo stile folklorico non è che un singolo elemento all'interno di uno stile popolare, inteso in senso più ampio, che nella sua musica è usato principalmente, come abbiamo vi­ sto, per i suoi effetti stabilizzanti. Perciò appare tanto spesso sotto forma di bordone, come, per esempio, nei finali delle Sinfonie n. 82 (L'orso) e n . 1 04 e nel Quartetto in re maggiore op. 76, n. 5. La forma chiara e ben definita, ossia sostanzialmente distaccabile, dei temi dei finali sta alla base di uno degli effetti preferiti e più drammatici di Haydn : il ritorno a sorpresa. Haydn profonde una gran dose di inge­ gnosità, e quasi sempre un allegro gioco umoristico, nel ritorno del te­ ma: l' astuzia sta nel suggerirlo ripetutamente, rimandandolo però fino al momento in cui l'ascoltatore non sa ormai più quando debba aspet­ tarselo (se tuttavia questi riesce a non perdere il senso della simmetria su larga scala, non sbaglierà di molto la sua previsione) . I temi in levare so­ no estremamente utili perché il levare può essere ripetuto più e più vol­ te, come nel finale della Sorpresa:

408

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Ed è per questa ragione che i finali delle ultime sinfonie di Haydn co­ minciano perlopiù in levare. Se le note in levare sono due, il tema fun­ ziona ancora meglio; nella Sinfonia n . 88 il risultato è incomparabilmen­ te buffo :

Ve. + Cb. Bva

409

ma nella Sinfonia n. 93 lo stesso effe tto umoristico è portato a un livello di comica magnificenza : 16l

con un potente effetto di contrasto fra l ' orchestra intera, comprensiva di timpani, e un singolo, solitario violoncello. I ritorni più sottili si trova­ no però nei rari finali il cui tema non è in levare e l ' umorismo haydnia­ no deve pescare in altre fonti di ispirazion e . Nel finale dell' Orologio il ri­ torno è un fugato in pianissimo; quello dell' ultimo movimento della Sin­ fonia n . 1 04 è un effetto di delicatezza tale che ci vorrebbe una citazione molto estesa per fame apprezzare la poesia radiosa e la sagacia.

Haydn ebbe bisogno di tre levare per scrivere il suo finale più eccentri­ co quanto a effetti ritmici, quello del Quartetto in mi bemolle maggiore op. 76, n. 6, che nell' ingannare l'ascoltatore sulla vera posizione del bat­ tere supera persino l' ambiguità del minuetto della Oxford. L' inizio suo­ na in effetti come se i levare fossero non tre, ma �" ..

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e lo sviluppo frantuma, distribuendo gli accenti in modo apparen te­ mente casuale, quel poco di equilibrio ritmico che l ' ascoltatore era riu­ scito a conservare :

410

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l ' intero sviluppo (battute 66-1 1 8 ) è tuttavia inquadrato entro un sistema perfettamente razionale di frasi di quattro battute, reso ancor più stabile dalla regolarità del movimento armonico. L' inizio della ripresa è conce­ pito in modo da confondere persino gli esecutori : 1 10

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Lo sforzando a battuta 1 1 8 è una caritatevole concessione di Haydn, senza la quale non riconosceremmo mai la prima nota del tema. Il bre­ ve doppio canone delle battute da 1 1 1 a 1 1 4 non fu difficile da scrivere (chiunque può costruire un canone su una scala discendente ) , ma la sua comica complessità ritmica è un vero dispiego di virtuosismo in­ ventivo.

41 1

Le melodie di carattere marcatamente popolare nei trii dei minuetti (e a volte nei minuetti stessi, che si fecero via via più impetuosi man ma­ no che Haydn ipvecchiava) sono gli esempi più ragguardevoli del suo stile pastorale. E soprattutto lì che una forma tradizionalmente aristo­ cratica è resa democratica - o almeno accessibile al nuovo pubblico. Quei minuetti non hanno remo re nel solleticare il gusto popolare ( an­ che se, va ricordato, a Londra furono i movimenti lenti delle sinfonie haydniane a essere più spesso bissati) , ma non hanno un atteggiamento patemalista, come quello del Devin du village di Rousseau o della Beggar's opera di Gay, nei confronti dello stile popolare e neppure lo esibiscono come un elemento esotico: lo trasfigurano e lo integrano nel contesto complessivo dell'opera. Senza ombra di dubbio, la presenza ostentata di ritmi e giri di frase tratti dalle forme popolari di danza arriva all' orec­ chio come un esplicito rimando extramusicale : l 'irruzione degli ideali delle classi non aristocratiche nel mondo dell'arte colta. Lo stile elabo­ rato da Haydn aveva raggiunto, però, ora del l 790, una tale potenza che poteva accogliere nel proprio alveo quegli ideali senza che la sua integri­ tà ne fosse minimamente intaccata. La tecnica haydniana di sviluppo tematico poteva adottare, e assorbire, quasi ogni materiale : la più sem­ plice frase di Jodel è tt:asfigurata dalla strumentazione e può reggere , grazie a una sottile alterazione ritmica, il peso di una modulazione , co­ me nel minuetto della Sinfonia Rullo di timpani:

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L'elemento trasformato talvolta è ancora più semplice, nulla più che un frammento ritmico. La ragione per cui il materiale popolare conserva il proprio carattere è esattamente che la tecnica di Haydn isola ciò intende sviluppare. Pri-

412

ma di poter essere immesso nell' estesa continuità dell ' opera, ogni ele­ mento deve essere identificato con chiarezza. Ciò permette a Haydn di sfruttare il lato più tipicamente popolare del suo materiale usandolo al tempo stesso come base per edificare le strutture più sofisticate, purché si tratti di un materiale con un chiaro orientamento tonale. (Lo Jodel è così ossessivamente triadico che, se non fosse già esistito, avrebbe potuto tranquillamente essere inventato dallo stile classico, e sarebbe difficile, d ' al tro canto, prendere sul serio l ' idea di un ' influenza sulla formazione dello stile esercitata da qualcosa di così inevitabile e logico sul piano strutturale) . La tendenza dello stile classico a isolare preservò dunque l ' integrità tanto dello stile stesso che del materiale. L'orchestrazione dei minuetti di Haydn è spesso incantevole : Mozart fu di rado altrettanto ingegnoso . I passaggi più memorabili sono quelli in cui la combinazione dei diversi colori orchestrali rimane deliberata­ mente eterogenea, completamente diversa dalle sonorità di Beethoven e di Mozart, più compatte anche quando contrappongono archi e fiati. Il passaggio seguente del minuetto della Sinfonia n. 9 7 : 101

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fa capire perché Rimskij-Korsakov considerasse Haydn il massimo mae­ stro in materia di orchestrazione. Lo « zum-pa-pa >> dell' orchestrina da ballo tedesca è reso qui con una raffinatezza estrema, affidato in modo del tutto inaspettato a timpani e trombe in pianissimo, e il rustico glissan­ do (quasi un colpo di glottide sul battere) diventa di un 'eleganza ricerca­ ta grazie alle appoggiature dei corni e al raddoppio all'ottava della melo­ dia da parte del violino. Questi dettagli non devono fondersi fra loro, ma stagliarsi con chiarezza: sono individualmente squisiti. Questo minuetto, con tutti i ritornelli notati per esteso onde consenti­ re varianti dinamiche e di strumentazione, è senz' altro straordinario, ma la raffinatezza dell' orchestrazione non è certamente eccezionale in Haydn. L'uso esteso degli archi sul ponticello nel tempo lento della stessa sinfonia è solo un altro esempio. In questo passaggio, che si trova vicino all'inizio dell'esposizione del primo movimento della Sinfonia n. 93, il colore strumentale serve a rafforzare la tensione ritmica:

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Le battute da 40 a 42 sono un' espansione creata dalla ripetizione, con un effetto tenuto , come una corona che fosse posta non sulla nota ma sull'intera battuta precedente : il cambiamento dello strumento che rad­ doppia (flauto, poi fagotto e infine oboe) non deve fondersi coi violini bensì restare distintamente separato. ( Queste battute mostrano magnifi­ camente sia come lo stile classico sappia isolare un motivo, sia come possa, usando quasi esclusivamente il ritmo, caricare di tensione l' accor­ do di tonica) . La concezione orchestrale di Haydn si avvicina spesso, più di quelle di Beethoven o Mozart, agli ideali coloristici di molta musica del ventesimo secolo; l'uso di strumenti solistici isolati dalla massa or­ chestrale e l'impiego, in molti movimenti lenti, di trombe e timpani per puri effetti timbrici evocano l' orchestrazione di Mahler più di qualsiasi altra cosa nella musica sette e ottocentesca.

È indispensabile guardare con chiarezza a ciò che un tempo si sareb­ be chiamata l'elevata serietà di questo stile deliberatamente popolare : la personalità artistica di « papà Haydn » creata dal compositore ( in rispo­ sta, senza dubbio, a esigenze proprie quanto a quelle del pubblico) an415

dava ben oltre il suo lato scherzoso e gioviale . I momenti sentitamente poetici sono ben più frequenti degli esibiti effetti umoristici, benché gli uni siano sempre sagacemente temperati quanto gli altri, e la cura per la linea drammatica è costante . Il maggior peso guadagnato dallo stile haydniano si manifesta nella trasformazione che egli compie di due strutture formali, l'introduzione e la tradizionale forma ternaria ABA. Per quest' ultima, la metamorfosi si iscrive nello sviluppo logico dello stile classico : la sezione centrale da allentamento della tensione diventa movimento verso un punto culminante e il ritorno della prima parte è dunque un'autentica risoluzione armonica. Il primo movimento del Quartetto in re maggiore op. 76, n. 5, per esempio, inizia con una lunga melodia simmetrica che risolve fermamente alla tonica; la seconda se­ zione si apre, come molti trii, nel modo minore, ma si awentura ben presto nelle modulazioni progressive e nella frammentazione melodica caratteristici di uno sviluppo. La prima parte ritorna abbellita come nell'aria col da capo e poi una lunga coda prowede uno stupefacente se­ condo sviluppo. L' allentamento della tradizionale forma ternaria o col da capo non poteva soddisfare le nuove esigenze di Haydn, il quale sem­ pre più spesso trasforma, per quanto è possibile, la sezione centrale in un vero e proprio sviluppo classico. Gli esiti più significativi di questo nuovo modo di procedere sono i finali drammatici in forme di danza (minuetti e danze popolari tedesche) degli ultimi trii con pianoforte. Haydn trasformò l'introduzione in un gesto drammatico. Prima delle sue ultime opere, l'aveva usata in larga misura per instaurare un'atmo­ sfera solenne mentre definiva la tonalità: fondamentalmente, non servi­ va che a portare con sé una maggior importanza.1 Un 'introduzione im­ plica un senso di attesa: in linguaggio più tecnico, è ritmicamente l ' e­ spansione di un levare e, se si protrae oltre una certa lunghezza, deve concludersi come un accordo di dominante non risolto, senza aver mo­ dulato. Se ne trovano esempi, all' inizio del secolo, nei recitativi accom­ pagnati che precedono le arie, come accade nelle cantate di Bach e an­ che in un certo numero di preludi, ma i mezzi impiegati sono immanca­ bilmente più diluiti che nel periodo classico, che seppe concentrare il senso armonico e rendere più definita la pulsazione ritmica. (L'iniziale sezione lenta di una composizione barocca come l'ouverture francese non è affatto introduttiva: modula alla dominante ed è un vero e pro­ prio inizio) . Il nuovo ruolo drammatico dell'introduzione si manifesta nel modo più conciso nell' apertura del Quartetto op. 7 1 , n. 3 di Haydn :

l . Sulla differenza fra l'introduzione classica e la sezione di apertura di una composizio­ ne barocca come l'ouverture francese si veda sopra, p. 348.

416

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Qui l'introduzione si riduce a un unico, brusco accordo, che genera co­ me di consueto un ' aspettativa (a cui prowede il silenzio prolungato e non misurato della seconda battuta) , accresce l'importanza del successi­ vo tema leggero e comico e, infine, definisce la tonalità di mi bemolle maggiore con un 'inusitata economia di mezzi. Ma ha anche in sé un in­ teresse drammatico nuovo : dopo la pausa della seconda battuta, ci si rende conto che quel primo accordo non era il vero inizio del discorso. Era solo un gesto, nel senso letterale di un movimento fisico che comu­ nica un significato. Può darsi che Beethoven quando scrisse l'Eroica, che comincia con un accordo di mi bemolle isolato allo stesso modo e ripetuto due volte, si ricordasse proprio di questo Quartetto, ma va detto che soluzioni simili sono abbastanza frequenti in Haydn perché sia stato il modo di procede­ re, più che un singolo esempio, a esercitare un influenza. Tutti e sei i Quartetti op. 7 1 e op. 74 giocano con quest'idea, andando da uno o due accordi (sono tre nell ' op. 76, n. l ) a una vera e propria fanfara (op. 74, n. 2 ) per giungere infine, nell 'op. 74, n. 3, a un primo tema concepito in modo da suonare come un 'introduzione : "

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La pausa di due battute conferisce alla frase iniziale, che non si ripresen­ terà poi nella ripresa, l'aria di un motto introduttivo; essa è tuttavia parte integrante dell 'esposizione, tant'è vero che è compresa nel ritornello, ed è una presenza dominante nello sviluppo ; da essa è inoltre derivato direttamente il secondo tema. Haydn non fu un grande compositore d'o­ pera, ma aveva un senso finissimo del gesto musicale drammatico stret­ tamente connesso all' azione complessiva. Le introduzioni lente delle sinfonie londinesi ( undici su dodici ne hanno una) 1 sono più elaborate, ma restano pur sempre solo pedane di partenza per movimenti di carattere più pronunciato. Questi adagi sin­ fonici d'apertura hanno, nell'evoluzione compositiva di Haydn, una sto­ ria più lunga dei suoi esperimenti con le brevi introduzioni ai quartetti del 1 793. Nelle sue opere orchestrali, le introduzioni lente compaiono molto presto; prima del 1 787, gli esempi migliori sono tutti in re mag­ giore : la Sinfonia n. 57 del 1 774, la n. 73 (La Chasse) e la n. 75 del 1 78 1 , l a n . 86 del 1 786. Alcuni tratti del carattere drammatico delle opere più tarde compaiono già nel 1 774. Nel 1 786 Mozart scrisse la Sinfonia Praga (anch'essa in re maggiore, tonalità che ispirava brillantezza, probabilmente, perché garantiva una piena sonorità tanto degli archi che degli ottoni) in cui si trova l'intro­ duzione più sontuosa e complessa mai scritta prima di quella della Setti­ ma sinfonia di Beethoven. Haydn non raggiunse mai l 'ampiezza di mo­ vimento di questa pagina e solo di rado si misurò con una simile profu­ sione di dettagli contrappuntistici e cromatici. Nella Praga Mozart non fa però alcun tentativo di emulare il sistema haydniano di transizione tematica fra introduzione e allegro ( l ' uso che ne fece più tardi, nella Sinfonia in mi bemolle K 543 del 1 788, per quanto sottile e aggraziato, sembra mancare della convinzione quasi sempre presente in Haydn ) .2 Quelle relazioni tematiche rispettano sempre in Haydn il carattere dell'introduzione e poggiano su una comprensione profonda della psi­ cologia della sua natura. Quando nell'Allegro si ascolta il tema correla­ to, se ne riconosce immediatamente (e, in genere, con vero piacere per la finezza della sua presentazione) la parentela con l'introduzione; là, però, al suo primo apparire, non sembrava affatto un tema. Il carattere essenziale di un' introduzione (in Mozart come in Haydn) è l'indetermi­ natezza; se non è abbastanza nebulosa, rischia di sembrare il vero inizio l . L'eccezione è la Sinfonia n. 95, che è anche l'unica in modo minore; col che è garantita anche senza il peso aggiuntivo di un 'introduzione.

la serietà

2. A queste due introduzioni mozartiane andrebbero aggiunti gli inizi della Sinfonia Linz., della magnifica Sonata per pianoforte (uno solo! ) a quattro mani in fa maggiore K 497, il cui stile è pienamente sinfonico, e soprattutto del Quartetto in do maggiore K

465.

418

della composizione.1 È per questa ragione che relazioni tematiche stret­ te come queste non sono prive di pericoli. L' abilità di Haydn nel gestire il problema è uno dei suoi supremi successi. Il tema che dovrà poi ripre­ sentarsi nell 'Allegro fa il suo primo ingresso nell'introduzione nel mo­ do più discreto, a volte come parte dell' accompagnamento (nella Chas­ se) , a volte senza quasi farsi notare all 'intemo di una convenzionale for­ mula cadenzale. Quando il suo profilo non può essere mascherato in questo modo, è enunciato così lentamente da suonare non come una melodia, bensì come il progressivo e maestoso disegno di un' armonia, come nella Sinfonia n. 98. La Sinfonia Militare inizia con un tema: Adagio

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Anche la Sinfonia n. 1 02 ricorre al medesimo effetto, con una melodia che prende forma a partire da un materiale definito solo in parte nell'in­ troduzione. Sotto questo aspetto le sinfonie più ragguardevoli sono forse la n. 97 e la n. l 03. Nella prima, l 'introduzione si apre e si chiude con una cadenza semplice ed espressiva che tornerà poi, alla fine d eli' esposizione dell'Al­ legro, riscritta con valori di note più lunghi, così che il tempo coincida, approssimativamente, con quello dell 'Adagio iniziale : un modo di ri­ chiamare l'introduzione tanto vivido da ispirare Beethoven, che lo usò nel Trio per pianoforte e archi op. 70, n. 2. Nella Sinfonia n. 1 03, detta Rullo di timpani, la frase iniziale ha un ritmo assolutamente uniforme : Adagio

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e il tempo molto lento la fa sembrare priva di qualsiasi definizione ritmi­ ca. Il tema che apre il Vivace ( citato sopra, p. 407) è evidentemente cleril.

L'introduzione della Sinfonia n. 1 04 è una delle più chiare, ma le cellule melodiche (che qui sono molto piccole) restano frammenti.

419

vato (come accadeva nella Sinfonia Militare) , in modo molto libero da questa prima frase, che si ripresenta poi con l'identica sequenza di altez­ ze e un ritmo nuovo dalla spiccata caratterizzazione: Violino l

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e farà infine un 'ultima stupefacente ricomparsa, col tempo lento origi­ nale, verso la conclusione del movimento. Quando questo tema lento e ritmicamente quasi informe emerge dal lungo rullo di timpani iniziale (e se la nuova edizione è senz'altro impru­ dente nell'accogliere il fortissimo suggerito per l'attacco dalla trascrizio­ ne per quintetto con pianoforte del l 797, è indubbio però che il rullo qui debba essere prolungato e d'effetto) , si ha l'impressione di una ma­ teria inerte che gradualmente si modella fino a prendere forma. Fu la tecnica maturata da Haydn in queste introduzioni lente a rendere possi­ bile la celebre rappresentazione del caos nella Creazione. Sul piano armonico, in queste introduzioni la forza direzionale è mi­ nima. Lo schema più frequente è semplice : definizione della tonica maggiore, poi un passaggio alla tonica minore così che il maggiore pos­ sa ritornare con l'Allegro. In qualcuna di esse, per esempio nel Quartet­ to in do maggiore K 465 di Mozart, si inizia subito in minore. In quasi tutte si osserva un cromatismo abbondante che assolve la stessa funzione del modo minore : disturbare il senso di stabilità armonica, anche se solo a un livello superficiale. Queste introduzioni sono, ovviamente , azioni dilatorie. Il significato di ogni composizione tardosettecen tesca dipende dall' af­ fermazione della tonica: rimandare questo process? equivale ad amplia­ re le proporzioni e l' ambito dell'azione possibile. E un'espansione che non riguarda semplicemente la scala temporale, ma la portata dramma­ tica ed espressiva del brano, come già mostravano le brusche introduzio­ ni dei quartetti del 1 793. L'introduzione classica estese anche, in due modi fra loro comple­ mentari, le possibilità tematiche dello stile. In primo luogo, permise al compositore di usare come tema principale dell'Allegro successivo una melodia in sé troppo leggera per fungere da apertura dell'intera opera. Nella Sinfonia Rullo di timpani, fra i maggiori successi di Haydn, l' inizio del Vivace sarebbe troppo lieve per dare l'avvio a una composizione di una tale imponenza, ma trae il peso necessario dal contrasto con l ' intro­ duzione lenta e dalla sua riconoscibile derivazione da essa. Analogamen­ te, la massiccia introduzione della Settima sinfonia di Beethoven libera il tema danzante con cui il Vivace si apre dalla responsabilità di stabilire le dimensioni complessive del movimento. L'introduzione rese accessi420

bile un'intera nuova gamma di temi che altrimenti avrebbero potuto essere usati solo entro comici ben più modeste. Il secondo , e forse più interessante, ampliamento delle possibilità te­ matiche garantito dall'introduzione è un radicale cambiamento del significato del primo tema dell'Allegro, che diventa una risposta alle tensioni create nell'introduzione . Nella Sinfonia in mi bemolle maggio­ re K 543 di Mozart, la melodia dell'Allegro estende letteralmente la ca­ denza incompleta dell'Adagio: Fl

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i violini riprendono di fatto la linea melodica lasciata sospesa dal flau­ to. La frase d' apertura è dunque una conclusione e insieme un inizio. Haydn usò spesso quest' effetto, di cui non sottovalutò mai l'importan­ za, ma l' esempio più sottile si trova probabilmente in Beethoven. I due accordi bruschi con cui comincia l'Eroica cambiano il senso ritmico del tema successivo : se lo si suona da solo, il tema comincia su una battuta che porta l'accento forte della pulsazione. Le due battute concisamen­ te introduttive fanno slittare l'accento dalla prima nota del tema a due battute più avanti, aggiungendo così un impulso ritmico dotato di un ' energia propulsiva che il tema da solo non avrebbe mai potuto pro­ durre. Una volta di più, fu Beethoven a portare quelle possibilità al limite estremo oltre il quale si sarebbe dovuto modificare il linguaggio stesso. Quanto poco la pura e semplice durata, effettivamente misurabile, ab­ bia a che fare con la portata espressiva si può vedere nel magnifico inizio della Sonata in fa diesis maggiore op. 78 : 42 1

Adagio

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Un passo in più e si aniva all'introduzione romantica, con una melo­ dia così conchiusa e completa in se stessa che solo con difficoltà può es­ sere collegata al movimento successivo (come accade nella Sonata in fa diesis minore di Sch}lmann o nella celebre apertura del Concerto in si bemolle minore di Cajkovskij) . Beethoven si ferma giusto in tempo : la sua melodia resta solo un frammento. L'immutabile fa# al basso definisce la tonica con chiarezza haydniana e impedisce un reale movimento ar­ monico della linea melodica; la corona alla quarta battuta crea lo stesso sentimento di attesa delle introduzioni delle sinfonie londinesi. Al fra­ seggio esitante e al movimento accuratamente indefinito delle introdu­ zioni sinfoniche di Haydn, ai bruschi e drammatici accordi di apertura dei suoi quartetti, Beethoven sostituisce una semplice frase che termina sulla tonica, ma sembra non finire. Il carattere frammentario è indispen­ sabile : l'introduzione classica è un effetto « aperto •• in un sistema che richiedeva una forma chiusa e che imponeva un prezzo per ogni espan­ sione del linguaggio.

422

2 IL TRIO CON PIANOFORTE

I trii con pianoforte di Haydn costituiscono una terza grande serie di opere degna di essere affi ancata alle sinfonie e ai quartetti; fra le tre è, però, la meno conosciuta per ragioni che nulla hanno a che vedere con il suo valore musicale. Non si tratta di musica da camera nel significato usuale del termine, ma di brani per pianoforte solo, violino solo e ac­ compagnamento di violoncello. Per la maggior parte del tempo, il vio­ loncello serve solo a raddoppiare il basso del pianoforte, benché in qual­ che raro caso benefici di un 'effimera indipendenza. Sotto l'influsso di Haydn il quartetto d' archi si era trasformato da composizione per violi­ no solista accompagnato dagli altri tre in composizione in cui i quattro strumenti hanno ciascuno una propria importanza e autonomia (sebbe­ ne il primo violino sia rimasto predominante fino al Novecento e man­ tenga ancor oggi gran parte del suo prestigio) . Che nei trii col pianofor­ te Haydn non sia riuscito a conferire al violoncello un' analoga indipen­ denza né a trovare un equilibrio fra i ruoli degli altri due strumenti è generalmente considerato un elemento a loro sfavore. Sono magari opere magnifiche, ma non guardano al futuro, sono stilisticamente arre­ trate, avrebbero dovuto essere scritte in modo diverso. Persino Tovey, che le ammirava, ne riscrisse uno per conferire un 'importanza maggio­ re al violoncello. Parte del pregiudizio di cui i trii sono vittime deriva da una snobistica preferenza di molti musicisti (soprattutto dilettanti) per la musica da camera rispetto ad altri generi (l'opera, per esempio, è tal­ volta considerata una forma d'arte particolarmente degradante) . Que­ sto snobismo è, almeno in una certa misura, una reazione , in sé legittima e giustificata, contro il grande pubblico per il suo disinteresse nei con­ fronti della musica da camera. ( Ma, a rigor di logica, perché mai il pub­ blico dovrebbe interessarsi a un genere che per definizione non è pub­ blico? Non è musica fatta per avere successo, come disse Monteux di 423

Pelléas et Mélisande di Debussy) . I trii sono poi trascurati anche per un'al­ tra ragione, squisitamente pratica: se sono essenzialmente opere per pianoforte solo con l'aggiunta di qualche episodio violinistico, la loro sede naturale dovrebbero essere i recital pianistici, dove però l'ingaggio di altri due musicisti non è economicamente conveniente. Che nel comporre questi trii Haydn andasse storicamente controcor­ rente è indubbio, ma ciò non giustifica una valutazione negativa. Egli li scrisse quasi tutti in tarda età, quando sapeva più che bene ciò che face­ va. A quell'epoca Mozart aveva già composto diversi trii con pianoforte in cui al violoncello era accordata una maggiore indipendenza e Haydn certamente li conosceva; tuttavia, con l' eccezione dei due grandi trii in mi maggiore e in si bemolle maggiore, tutti quelli di Mozart sono stilisti­ camente più scarni e meno interessanti dei dodici o sedici migliori di Haydn. La cui scrittura pianistica giunge qui a una brillantezza stupefa­ cente per chi conosca solo le sue sonate; ci sono persino faticosissimi passaggi di ottava (quelli del Trio in do maggiore Hob 27 furono senza dubbio concepiti come glissandi) . Sono a tutti gli effetti, insieme con i concerti per pianoforte di Mozart, le pagine pianistiche più brillanti pri­ ma di Beethoven. E virtuosismo non significa minore profondità: non nuoce ai trii più che ai concerti di Mozart o alle sonate di Beethoven. Un quartetto per archi con una parte del primo violino soverchiante perde, sì, valore musicale, ma ciò dipende dalla natura stessa del mezzo, che determina, in questo caso, una corrispondente diminuzione della ric­ chezza contrappuntistica e dell'importanza tematica delle altre tre parti. La predominanza del pianoforte, che dopo tutto è il solo strumento ca­ pace al tempo stesso di polifonia complessa e inflessioni dinamiche, non implica invece una perdita analoga. Dall'essere concepiti essenzialmente come composizioni solistiche, questi trii ricavano invece la loro migliore qualità, un clima di improvvi­ sazione quasi unico nella produzione di Haydn e raro, in effetti, in tutti e tre i grandi autori classici. Per comporre Haydn aveva bisogno del pia­ noforte e in questi trii si ha l'impressione di vederlo al lavoro. C ' è in essi una spontaneità che egli cerca di rado in altre opere; la loro ispirazione sembra distesa, mai sforzata, a tratti disorganizzata, quasi, rispetto ai quartetti e alle sinfonie. Le forme stesse sono più libere : molti trii hanno come finali delle danze - minuetti e danze contadine tedesche - e le doppie variazioni di alcuni primi movimenti possono essere annoverate fra le migliori di Haydn . Nel Settecento i trii con pianoforte erano destinati ai dilettanti più abili, benché lo scarto fra questi e i professionisti sembri essere stato all'epoca molto contenuto. Non sono, come i quartetti, brani seri conce­ piti essenzialmente per gli intenditori , e un dispiego di virtuosismo com­ positivo sarebbe stato fuori luogo : una fuga, per esempio, era possibile in un quartetto d'archi, ma impensabile in un trio con pianoforte. Il 424

virtuosismo solistico, viceversa, trova qui una sede ottimale. Sarebbe un errore svilire l'ispirazione che il virtuosismo garantisce al comporre set­ tecentesco : senza di esso non avremmo le opere e i concerti di Mozart né il finale del Quartetto L 'allodola di Haydn. Nella musica pianistica di Beethovèn il virtuosismo è ormai così integrato nello stile che è impossi­ bile nell 'analisi separarlo dal resto : è dato per scontato in ognuna delle grandi sonate. I trii di Haydn richiedono però un virtuosismo di natura particolare : se non sono musica da camera nel senso di composizioni per diversi strumenti con un 'importanza più o meno equivalente, lo so­ no però nel significato più letterale del termine, ossia musica non pub­ blica. Nella misura in cui implicano un 'esibizione, è un 'esibizione da farsi in privato. Il violino vi prende parte e non si limita ai raddoppi, a differenza del violoncello che tuttavia è sempre necessario, in questi bra­ ni, anche quando li si esegua con un moderno pianoforte da concerto e nonostante il fatto che gran parte delle note che gli sono affidate sono suonate anche dal pianoforte . Ho sperimentato come molti violoncelli­ sti, quando si lasciano persuadere a suonare uno di questi trii, scoprano con stupore il fascino della loro parte, più interessante in effetti di quel­ le dei trii di Mozart in cui una relativa autonomia è acquistata a prezzo di vaste zone di silenzio. Se i trii avessero bisogno di una qualsivoglia giustificazione, la si po­ trebbe trovare nel pianoforte dell' epoca di Haydn : i bassi erano esili e poco potenti e tenere il suono era pressoché impossibile. Con il violon­ cello in rinforzo del basso e il violino che si incarica delle melodie in cui la potenza del canto è più necessaria, il trio con pianoforte rappresenta­ va la soluzione di tutte le difficoltà meccaniche. La fantasia di Haydn poteva dunque correre liberamente e anche l' esecutore aveva modo di concedersi effetti virtuosistici impossibili per il pianoforte solo; violino e violoncello furono per Haydn ciò che l' orchestra fu per Mozart nei suoi concerti. Il pianoforte dell' epoca non consentiva da solo di realizzare i potenti effetti richiesti dalle composizioni più inventive di Haydn e Mozart. Con l'inizio dell'Ottocento, si cominciarono a costruire strumenti più adatti alle esigenze dei compositori. Per molte opere, in effetti, gli strumenti più appropriati non sono quelli disponibili all'epoca in cui esse furono scritte, ma quelli costruiti una ventina d'anni più tardi per rispondere alle esigenze poste dalla musica stessa. Alla fine del Settecento il piano­ forte era ancora a uno stadio sperimentale e fu la musica dell' epoca, che richiedeva un più vasto ventaglio di inflessioni dinamiche, ad accelerar­ ne l'evoluzione. Sia Haydn sia Mozart cercavano strumenti più potenti e più duttili; salvo alcune splendide eccezioni, le loro composizioni per pianoforte solo sono in genere più trattenute e meno ricche di quelle in cui alla tastiera si affiancano altri strumenti. Il ricorso a uno o più archi permetteva loro di sbrigliare la fantasia grazie alla somma delle risorse 425

contrappuntistiche del pianoforte con quelle di uno strumento capace di tenere il suono e di cantare . L' evoluzione degli strumenti dal Settecento in poi ha reso problema­ tico l'equilibrio sonoro non solo nei trii con pianoforte di Haydn, ma in tutta la musica da camera con pianoforte. I manici dei violini ( compresi ovviamente quelli di tutti gli Stradivari e i Guarneri) sono stati allungati, il che ha determinato una maggiore tensione delle corde; lo stesso vale per i crini degli archetti oggi in uso. La sonorità è dunque molto più brillante, più piena e più penetrante e il contrasto è reso ancor più deci­ so da un uso meno selettivo del vibrato. Il suono del pianoforte, d' altro canto, si è fatto più potente, più ricco, quasi sdolcinato, ma soprattutto meno affilato e metallico. Questi cambiamenti rendono insensati tutti i passaggi della musica settecentesca in cui i due strumenti suonano alla terza la stessa melodia con il violino sotto il pianoforte . Entrambi gli stru­ menti sono oggi più potenti, ma ora il pianoforte è meno penetrante e il violino lo è di più. Per permettere una morbida cantabilità della parte pianistica, i violinisti sono costretti a sacrificarsi, il che mette alla prova la virtù quanto la musicalità. Ai tempi di Haydn, il suono esile del violino si amalgamava più facilmente con la sonorità metallica del pianoforte e i due strumenti potevano dunque agevolmente accompagnarsi a vicenda. Ciò vale non solo per i trii, ma anche per le sonate per violino e piano­ forte. C'è chi sostiene che Mozart e Beethoven non abbiano compreso a fondo il problema dell'equilibrio sonoro fra pianoforte e violino e che ci si debb� rallegrare dei successivi miglioramenti nella composizione mu­ sicale. E vero che non arrivarono a intuire quanto sarebbe stato sperabi­ le la natura degli strumenti del futuro, ma compresero più che adegua­ tamente quelli del loro tempo. Bisogna aggiungere che al cambiamento della sonorità corrisponde l'esigenza di un diverso fraseggio e che sugli strumenti moderni è impossibile ottenere il tipo di inflessioni e di dina­ mica richieste da questi brani. ( Ciò non significa però che suonarli su strumenti moderni non sia tutto sommato preferibile al trasformare l'e­ secuzione in una ricostruzione storica) . L'uso del violoncello per raddoppiare il basso pianistico è stato visto come il residuo di uno stile precedente; deriva, in sostanza, dal basso continuo e in questo senso lo stile dei trii di Haydn si può definire anti­ quato. Per quanto storicamente ineccepibile, l' argomentazione è futile : che il raddoppio al violoncello del basso della tastiera risalga a un' epoca precedente è indubbio, ma sarebbe stilisticamente reazionario solo se non rispondesse a un'esigenza. Nessuno che abbia udito la sonorità pro­ dotta dal raddoppio violoncellistico nel movimento lento del grande Trio in mi bemolle maggiore, l' ultimo che Haydn scrisse, può nutrire alcun dubbio sulla sua necessità; quella splendida linea melodica (citata sotto, p. 438-39) che in sole due battute tocca un'estensione di quasi due ottave attinge la sua piena potenza espressiva solo con il violoncello. Il 426

solo pianoforte sarebbe inadeguato - e così il violoncello solo, poiché il pianoforte è necessario per garantire alla musica la concatenazione e una trama sonora unitaria. Come i quartetti di Haydn, questa è musica che di rado contrappone i singoli strumenti : o meglio, coltiva le qualità individuali di ciascuno senza avere l' aria di sfruttarle fino in fondo. Il pianoforte suona ciò che più gli si addice e lascia invece al violino ciò che non saprebbe rendere nel modo più efficace, ossia le lunghe melo­ di � legate . Per gran parte del tempo i due strumenti si raddoppiano. E strano dover difendere musiche fra le più belle mai scritte. In ogni caso, la sorte dei trii di Haydn è segnata : saranno sempre i pianisti a vo­ lerli eseguire e nei moderni recital pianistici non troveranno posto. Le pagine che seguono offrono una breve guida scritta per il diletto degli appassionati che vogliano leggersi i trii al pianoforte immaginando le parti di violino e violoncello.

In questi trii la fantasia di Haydn è particolarmente esuberante. Non dovendosi preoccupare di garantire effetti per il pubblico, come nelle sinfonie, o un'impressionante raffinatezza stilistica, come nei quartetti, li scrisse per il puro piacere degli strumen tisti solisti. Sono i n tutto venti­ sei; dei trentuno solitamente pubblicati col suo nome, due si devono ad altri compositori (uno è di Michael Haydn , majoseph era evidentemen­ te convinto di averlo scritto lui stesso, tant'è vero che lo incluse in un catalogo delle proprie opere) e tre, opere garbate ma insapori, sono per flauto, pianoforte e violoncello . 1 (Anche uno di questi è probabilmente del fratello Michael) . Due furono scritti molto presto ( prima del l 769) , uno non oltre il l 780, nove fra il l 784 e il l 790 e quattordici, veri capola­ vori, fra il 1 793 e il 1 796 (sei subito dopo la prima serie delle sinfonie londinesi e gli altri otto dopo la seconda) . Sostenere, con Tovey, che i trii '' coprono l'intera carriera di Haydn » significa ignorare il loro concen­ trarsi alla fine della sua vita: dei ventisei, ventitré furono scritti quando Haydn aveva più di cinquant'anni, quattordici addirittura dopo i sessan­ ta. È più opportuno considerarli come produzione del suo stile più tar­ do e maturo. Il primo Trio in sol minore Hob l è peraltro già un brano pregevole, con un primo movimento quasi completamente nello stile del barocco francese per armonia, melodia, abbellimenti e ritmo : tutto, in sostanza, eccetto una più completa articolazione delle frasi. Dei nove scritti negli anni Ottan ta, tre andrebbero annoverati fra i maggiori successi di Haydn. Il Trio in do minore Hob 1 3 ha un primo movimento in forma di doppie variazioni in cui il tema principale in minore si trasforma in magl . Sono trentuno secondo la catalogazione di Hoboken, quarantacinque secondo quella di Robbins Landon [N. d. T.] .

427

giore come secondo tema: l' effetto è così splendido che Har..dn quasi non modifica la terza apparizione della versione in maggiore . E uno de­ gli esempi più riusciti della capacità di Haydn di creare un tipo di emo­ zione assolutamente personale e che nessun altro compositore, nemme­ no Mozart, poteva riprodurre : un sentimento estatico del tutto privo di sensualità, amabile quasi. Non c ' è una ricetta che garantisca quest' effet­ to, che dipende, però, in parte da una preferenza per melodie il cui punto culminante (che non necessariamente coincide con la nota più acuta) giunge sull 'ottava superiore della tonica, come nell 'inno nazio­ nale austriaco, anziché sulla sesta, sulla nona o sulla quarta, come spesso accade in quelle mozartiane, e ancor più dall 'uso di accordi in posizione fondamentale sotto melodie molto espressive nonché da una scrittura delle parti non troppo complessa. Come venga usato quest' effetto armo­ nico si può vedere nell' apertura del movimento lento di un altro Trio, Hob 1 4, scritto verso la fine degli anni Ottanta: ... · ·-

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battute viene dal fatto che tutti gli accordi sono in posizione fondamen­ tale, mentre le parti interne sono le più semplici possibili. Nel finale di questo trio, la ripresa è introdotta da questo straordina­ rio passaggio :

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in cui Haydn distrugge ogni senso tonale - solo per scherzo, owiamen­ te - in parte con spostamenti di ottava e in parte con alterazioni croma­ tiche . Per un attimo il si � suona assurdo e se ne comprende il senso solo quando comincia la melodia. L'ultimo trio degli anni Ottanta che esige una particolare attenzione è il grande Trio in mi minore Hob 1 2, il cui primo movimento, uno dei più drammatici di Haydn, rimane in mino­ re fino alla fine anziché passare al maggiore, come il compositore all'e­ poca era solito fare. Il movimento lento è in uno stile di sonata già pie­ namente sviluppato e il finale è un brillante rondò sinfonico ricco di sorprese. I trii del decennio successivo comprendono quattro serie di tre (cia­ scuna dedicata a una diversa dama) e infine due composizioni isolate. Le due raccolte del 1 793 sono dedicate alle principesse Esterhazy. Dei trii potenti e fantasiosi (Hob 21-23) destinati alla consorte del principe Nikolaus Esterhazy (per la quale Haydn aveva già scritto tre sonate) , quello in re minore presenta il finale più brillante con una considerevo­ le inventiva ritmica (fra cui un momento nella ripresa in cui Haydn pas­ sa in 4/4 senza modificare l'indicazione di tempo di 3/ 4) e quello in mi bemolle il più imponente primo movimento. Qui le battute iniziali sono immediatamente trasformate con un procedimento che merita di essere riportato non solo per se stesso, ma anche perché illustra ciò che nel trio con pianoforte Haydn poteva realizzare più agevolmente che in ogni al­ tra forma. Le prime quattro misure :

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Un simile senso di un 'espansione spaziosa, distesa, quasi improvvisata non si trova quasi mai nelle sinfonie e solo di rado nei quartetti. È per questa ragione che nei trii l' indicazione che si trova nella maggior parte dei primi movimenti in forma sonata è Allegro moderato (quasi due volte più spesso di Allegro) . Rispetto ai quartetti, non solo l'organizzazione è più allentata, ma gli effetti sono più ampi, con una brillantezza e una solidità che nelle sonate per pianoforte non sono mai eguagliate e alle quali solo si avvicinano quella in do minore Hob 20, che risale al 1 770, e le due in mi bemolle maggiore dell'ultimo periodo. Le tre composizioni scritte per la consorte del più anziano principe Anton Esterhazy sono ancora più interessanti di quelle dedicate alla nuora. Nel Trio in si bemolle maggiore Hob 20, a un primo movimento dal brillante stile virtuosistico succede una serie di variazioni sopra un tema, esposto dal pianoforte e concepito come un assolo per la mano sinistra, che offre un esempio dello spoglio contrappunto a due parti molto amato da Haydn. Dell'inconsueto primo movimento del Trio in sol minore Hob 1 9 si è detto sopra (pp. 1 1 5-19) . Nel finale del Trio in la maggiore Hob 18 si trova un rondò fra i più originali di Haydn : è un movimento danzante che comincia con un tema in due parti, ambedue ripetute, col tono leggero che in genere implica la desueta forma ABA; ciò che segue è però alla dominante e corrisponde a un secondo gruppo di sonata che usa ( come perlopiù accade in Haydn) un materiale deriva­ to dal tema iniziale . Giunge poi non uno sviluppo, bensì una ripresa alla tonica dell'inizio e sembra dunque che, dopotutto, si tratti proprio di una forma ABA: senonché a questo passaggio segue ancora il secondo gruppo, ripreso alla tonica e interpolato da vaste sezioni di sviluppo. Sa­ rebbe del tutto improprio definire quest'ultima parte come coda: all'a­ scolto non suona così, ma piuttosto come una combinazione di ripresa e sviluppo che soddisfa insieme tutti i nostri aneliti di avventura e di riso­ luzione. Nulla illustra meglio la fluidità delle forme in quest' epoca: que431

sta è affi ne al rondò-sonata e se ne con? scessimo anche pochi altri esem­ pi avremmo un termine per definirla. E un brano comico, audace, pieno di sincopi. Quasi tre anni più tardi, dopo il suo secondo e ultimo viaggio a Lon­ dra, Haydn scrisse altre due serie di tre trii. Ne dedicò una a Theresa Jansen, moglie dell'incisore Bartolozzi, per la quale compose anche, all'incirca nello stesso periodo, le sue ultime tre sonate per pianoforte. Questi Trii, Hob 27-29, sono i più difficili che Haydn abbia scritto e costi­ tuiscono una formidabile impresa tanto musicale quanto intellettuale. La signora Bartolozzi doveva senza dubbio essere una pianista ben al di sopra del comune : il Trio in do maggiore, in particolare, è un omaggio alle sue capacità tecniche. Nel primo movimento, brillante e comodo al tempo stesso, c'è una profusione di motivi insolita per Haydn e una do­ vizia di contrasti ritmici che avrebbe ridotto in frantumi qualsiasi com­ posizione haydniana degli anni Settanta. I ritmi più veloci sono introdot­ ti gradualmente, uno per uno, con l'agio dell' improvvisazione simulata (quella vera è ben più scabra) e il movimento ha un flusso continuo che non si interrompe mai, salvo che per un silenzio drammatico nel pieno di uno sviluppo contrappuntistico. In tutti e tre i trii i movimenti lenti sonò stupefacenti : qui, dopo una sezione di apertura dall' atmosfera liri­ ca, semplice e intricata al tempo stesso, una nuova sezione in minore comincia bruscamente con unfone nel bel mezzo di una battuta e prose­ gue con una potenza drammatica quasi brutale. Il finale, Presto, è un rondò sinfonico, forse il pezzo più umoristico che Haydn abbia scritto. Tutto in questo movimento è inaspettato: il primo tema è un incantevo­ le scherzo con un'armonia che cambia in modo tale da far cadere gli accenti sui tempi deboli, una melodia angolosa che talvolta si presenta nel registro sbagliato e un ritmo scherzoso che consente alla melodia di cominciare quando uno meno se lo aspetta. La scrittura pianistica in questo movimento preannuncia talvolta quella beethoveniana dell' op. 3 1 , n. l . Ancor più straordinario, il Trio in mi maggiore è per certi aspetti l'o­ pera più strana dell'ultimo Haydn. Molte delle eccentricità delle com­ posizioni di questo periodo possono essere considerate, almeno in par­ te, come un ritorno a uno stile precedente ed è soprattutto negli ultimi trii che si possono rintracciare manierismi affini a quelli degli anni fra il 1 750 e il 1 775. Li si potrebbe perciò definire opere reazionarie se non fosse che qui il manierismo è profondamente trasformato. La padronan­ za dello stile classico è ovunque manifesta: il movimento ritmico com­ plessivo non si incrina mai né lascia alcun varco alla neiVosa indecisione che fino al 1 775 si incontra almeno una volta in ogni singola composizio­ ne di Haydn. Certamente egli cerca raramente di produrre l'impressio­ ne di perfetta regolarità che Mozart prediligeva: la sua è un'irregolarità più scoperta; silenzi drammatici e corone giocano nella sua musica un 432

ruolo assai più rilevante che in quella di Mozart, comprese le opere. Ma nelle ultime composizioni di Haydn il silenzio prepara immancabilmen­ te un evento cruciale. Il Trio in mi maggiore, per esempio, ha una stretta affinità con una precedente sonata per pianoforte nella stessa tonalità, Hob 3 1 , scritta probabilmente ne1 1 776; tutti i loro movimenti si somi­ gliano, ma i due secondi in modo particolare. Nel primo tempo della sonata compare un 'intera battuta di pausa nel bel mezzo dello sviluppo: è come se l'energia si fosse esaurita e quando la musica si rimette in mo­ to riprende esattamente col passo di prima. Nello sviluppo del trio c'è un momento analogo in cui la musica si spegne, ma ciò che segue è elet­ trizzante : il tema principale, suonato forte per la prima e unica volta nel brano, nella remota tonalità di la bemolle maggiore, con un' armonizza­ zione piena e ricca, con l 'arco anziché pizzicato come tutte le altre volte. È in effetti il punto culminante del movimento : tutto ciò che precede vi conduce, tutto ciò che segue lo risolve . Questo trio è una delle opere più inventive di Haydn per quanto concerne l'aspetto pianistico : la scrittura del tema iniziale è tale che anche senza l' accompagnamento pizzicato dei due archi, il pianoforte stesso sembra suonare sempre pizzicato, salvo che per le note tenute della melodia. . Il .

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La sonorità del secondo movimento, un Allegretto in mi minore, scrit­ to perlopiù in uno spoglio e aspro contrappunto a due parti, le quali spesso distano fra loro tre o quattro ottave, è tipico di Haydn. I rapporti dello stile classico con il barocco che l'aveva preceduto e con il romanti­ cismo che sarebbe venuto poi sono posti nel modo più chiaro in questo brano che è una qelle più stupefacenti creazioni di Haydn, una passaca­ glia senza eguali. E barocco nel carattere della forma, nel ritmo immuta­ bile e incessante del basso mantenuto fino alla cadenza finale, nella dina­ mica « a terrazze » , nella sovrapposizione di ritmi ciascuno dei quali rima­ ne sempre assolutamente distinto dagli altri e nell'uso di un modello di 433

progressione armonica come forza generatrice all'interno del tema stes­ so e non solo nel suo sviluppo; è classico invece nel movimento deciso, articolato mediante l'introduzione di nuovo materiale melodico, verso il relativo maggiore e nell 'abbondanza di accenti dinamici che diversifi­ cano la pulsazione; è romantico infine nella tensione, che è mantenuta a un livello stabilmente più elevato di quello che la maggior parte delle composizioni settecentesche avrebbe potuto reggere, nella dinamica, che dà l' impressione non solo della salita un gradino dopo l'altro, ma anche di un crescendo continuo, e soprattutto nel fatto che, dopo una corona, la cadenza finale serve non a risolvere la tensione, come fanno in genere le chiuse barocche, bensì ad accrescerla ulteriormente attraverso una serie di fioriture, brusche ma elaborate, che trovano una risoluzione solo nel violento accordo conclusivo. Nella misura in cui lo stile romanti­ co significò il recupero di procedimenti e tipi di scrittura barocchi tra­ sformati dal senso classico di un culmine espressivo, questo movimento , può già definirsi romantico. E un brano che mette in guardia da una vi­ sione eccessivamente compatta e dogmatica dello stile e ricorda come singoli elementi possano restare silenti per lungo tempo, pronti a ricom­ parire in qualunque momento quando un compositore in cerca di qual­ cosa di nuovo e progressista guardi indietro fino all 'altro ieri. Il primo movimento del terzo e ultimo trio per Theresa jansen (mi bemolle maggiore) mostra fino a che punto Haydn , alla fine della sua vita, abbia saputo volgere in modo personale la semplice forma ABA. B è uno sviluppo drami_llatico in minore del materiale tematico di A; il ritor­ no di A diventa una variazione e un 'ampia coda drammatizza ulterior­ mente il materiale. La forma decorativa della variazione si iscrive così in una cornice drammatica più in linea con le tendenze generali dello stile haydniano. Il movimento lento ( innocentemente) non è altro•che una mo­ dulazione che procede lentamente da si maggiore a mi bemolle maggio­ re per mezzo di una semplice melodia in due parti, un altro modo per drammatizzare una forma in sé relativamente poco complessa: dalla combinazione di semplicità melodica e forma drammatica scaturisce qui una dolcezza rara in Haydn (e in effetti nella musica in generale) . L'ultimo movimento, Presto assai, è un' allemanda in stile rustico che evoca in modo scopertamente comico un' orchestrina di paese; è al tem­ po stesso un brano dal virtuosismo pianistico impegnativo e una forma di commedia farsesca per la quale il trio, più intimo della sinfonia e me­ no ampolloso del quartetto d'archi, è particolarmente adatto. I tre trii composti per Re becca Schroeter sono di una qualità musicale altrettanto alta, ma meno difficili sul piano tecnico. La dedicataria era una giovane vedova londinese che faceva da copista per Haydn e le cui lettere lasciano trasparire un affetto apparentemente ricambiato dal compositore, ormai sessantenne. Il Trio in sol maggiore Hob 25 finisce col celebre Rondò all'Ongarese, una pagina squisita per il pianista: bril-

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lante , entusiasmante e meno difficile da eseguire di quanto non suoni all' ascolto. I trii in re maggiore Hob 24 e in fa diesis minore Hob 26 sono ambe­ due di carattere lirico. Il più eccezionale è il secondo e non solo per il tono cupo che mantiene dall 'inizio alla fine. Uno dei temi conclusivi dell'esposizione non si sente (o meglio, non è esposto) per intero se non nella ripresa, dove si presenta inoltre molto vicino al materiale iniziale. Lo sviluppo è breve, ma di un 'ampiezza armonica insolitamente ampia. Gli altri movimenti intensificano la serietà del primo. Il tempo lento deriva da quello della Sinfonia n. 1 02 (a meno che non sia il contrario ) . Senza la variegata sonorità orchestrale di Haydn, la melodia sembra più personale e si dipana come un 'improvvisazione : Adagio cantablle

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di sentimenti di questo. Haydn è riuscito qui a rendere drammatico il minuetto (a renderlo cioè più simile a una sonata) senza togliergli nulla della sua eleganza ritmica. Come la sonata pianistica, il trio era per Haydn un genere abbastanza leggero da ammettere un finale in forma di danza, cosa impossibile nella sinfonia e molto rara nel quartetto : con il finale del Trio in fa diesis minore , il genere è trasformato grazie a una malinconia così intensa che nulla più la distingue dal tragico. Dopo queste quattro grandi serie di tre, Haydn scrisse soltanto altri due trii isolati. Quello in mi bemolle minore , Hob 3 1 , è l'unica composi­ zione che io conosca di Haydn in questa tonalità. Il primo movimento è una serie di variazioni in forma di rondò, lenta e oltremodo espressiva; il secondo tema, in maggiore, comincia come un 'inversione del primo e sorprendentemente se ne aggiunge poi un terzo, una lunga melodia del violino che si libra nel registro acuto, uno dei più bei soli di Haydn. Il finale, Allegro ben moderato, è una danza tedesca in uno stile elaborato e ricercato, con un accom pagnamento così importante da divenire esso stesso un controtema. Nel suo complesso, il movimento dà l'impressio­ ne di essere costituito solo di frammenti, senza quasi melodie di alcun genere, eppure la continuità e l' andamento caratteristico della danza non mancano mai. Solo alla fine di una lunga carriera si può scrivere un brano come questo. Il ritorno della sezione principale è variato in un modo superlativo; la forma originale di queste cinque battute : VI.

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e prosegue in un modo che preannuncia certi passaggi del Tristano:

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Il ritorno della melodia iniziale, ora in una forma ornata, si combina con lo schema ritmico di una sezione di mezzo, una sorta di trio che funge al tempo stesso da parte centrale di una estesa forma ternaria (il B di una forma ABA) e da espansione della sezione d'apertura. Haydn trasforma poi quel ritorno in una ripresa di sonata risolvendo alla tonica un tema della sezione centrale che si era presentato alla dominante. Per quanto grandiosa e in sé completa appaia la sua forma, questo movimento non approda a una vera e propria conclusione, bensì modula in modo un po' misterioso, dopo una cadenza a sorpresa, per preparare l'ultimo mo­ vimento. Si tratta ancora di una danza tedesca, Presto, beethoveniana 439

nell'umorismo sfrenato e nello sviluppo drammatico che fa da ponte fra la sezione di mezzo in minore e il ritorno dell 'inizio. La coda è brillan­ te e difficile. Quest'ultima opera riassume il successo conquistato da Haydn nel campo del trio con pianoforte : accettando il virtuosismo di un genere leggero e informale, e senza alterarne la natura in modo significativo, egli ne fece il veicolo di alcune sue concezioni fra le più fantasiose e ispirate.

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3 LA MUSICA SACRA

Lo stile classico incontra i maggiori problemi con la musica sacra, un genere che era allora gravato da difficoltà che non toccavano l' ambito profano. Ogni compositore fu sfortunato in modo diverso. Le due mag­ giori composizioni sacre di Mozart, la Messa in do minore K 427 del 1 783 e il Requ iem a cui stava lavorando quando morì, rimasero incompiu­ te. Joseph Haydn fu criticato già in vita per la scarsa appropriatezza delle sue messe ed egli stesso considerava la musica sacra del fratello Michael migliore della propria. La prima Messa di Beethoven, quella in do mag­ giore , gli valse il suo più umiliante fallimento pubblico, l' accoglienza sprezzante che le riservò il principe Esterhazy per il quale era stata com­ posta. La Missa solemnis in re maggiore può semb �are ancora oggi un 'o­ pera difficile. Quanto all 'oratorio , Christus am Olberge, si distingue da tutta la produzione beethoveniana per la sua totale mancanza di interes­ se : assai di rado si eleva oltre il livello di una media competenza, o scen­ de al di sotto. Una delle cause di difficoltà fu, durante tutto il Settecento, l' ostilità della Chiesa cattolica nei confronti della musica strumentale. Negli anni Ottanta, un periodo di grande fervore creativo per Haydn e Mozart, l'u­ so degli strumenti nella liturgia fu addirittura ristretto per ordine del governo austriaco. La Chiesa fu sempre, o quasi, ben lontana dall'inco­ raggiare le innovazioni stilistiche : awersò la musica sontuosamente cro­ matica di molti compositori del Rinascimento così come osteggiò le chiese a pianta centrale preferite dalla gran parte degli architetti dell 'e­ poca. Per i criteri dell'ortodossia stilistico-musicale persino molte opere di Palestrina risulterebbero inaccettabili. Un gusto conservatore non è illogico per un 'istituzione che poggia così strutturalmente sulla continu­ ità della tradizione. L' awersione per la musica strumen tale aveva però motivazioni più profonde : la musica vocale era sempre stata considerata 441

più adatta al servizio religioso e l'aura di purezza che accompagna il can­ to a cappella ha un valore simbolico. In una musica esclusivamente voca­ le, se non altro, le parole della liturgia si possono percepire. Lo stile classico era però essenzialmente strumentale . A tutto ciò si aggiungeva un profondo conflitto di ideologia musicale. La musica doveva glorificare la messa o illustrarne le parole? La funzione della musica era espressiva o celebrativa? L'arte ha anche altre finalità, ma nel Settecento non erano ancora formulate in modo chiaro. Dal Rina­ scimento in poi la musica era stata concepita soprattutto come un 'arte espressiva e proprio questa fu la fonte principale di disagio. In un conte­ sto cattolico i problemi, ovviamente, erano maggiori: la concezione pro­ testante della religione come espressione personale, e addirittura indivi­ duale, si accordava più felicemente con l'estetica settecentesca. La difficoltà nel rapporto fra arte e religione non riguarda solo il di­ ciottesimo secolo. Per quanto concerne la musica, la contraddizione emerge nel modo più flagrante nella prima e nell'ultima parte della messa: se la musica è essenzialmente celebrativa, bisogna che quelle se­ zioni siano brillanti e imponenti; se l'obiettivo è esprimere, dovranno invece avere un carattere pacato e implorante. La tradizione celebrativa è la più antica, tuttavia ora del Settecento restava, sì, potente nella prati­ ca, ma aveva da gran tempo smesso di influenzare le teorie estetiche; il diciottesimo secolo è costellato di recriminazioni per i Kyrie e gli Agnus Dei tradotti in musica con un'innaturale brillantezza e un'allegria fuori luogo. Se la musica deve esprimere il senso delle parole Kyrie eleison ( « Si­ gnore, abbi pietà » ) , la maggior parte delle messe del Settecento non può essere ritenuta altro che inadeguata. I compositori rifiutavano per­ lopiù con ostinazione di aderire all'estetica espressiva; Bach fu unico nel produrre un Kyrie grandioso e supplichevole al tempo stesso. L'affermazione a partire dal 1 770 di uno stile ben radicato nelle tecni­ che ritmiche dell'opera buffa italiana non migliorò le cose. Si ebbero messe la cui veste musicale appare singolarmente slegata dal testo - non solo a noi oggi, ma anche ai contemporanei e addirittura, a quanto pare, ai compositori stessi. Alcuni passaggi di coloratura nelle messe di Mozart sono intrinsecamente assurdi quanto gli adattamenti ottocenteschi di arie di Donizetti a testi latini - anche se l'assurdità risulta tale solo se si richiede che la musica si rapporti al testo, una richiesta che a sua volta diventa assurda se la musica serve solo a glorificare e abbellire. La natura stessa del tessuto sonoro e del ritmo classici resero tuttavia ancor più difficile, rispetto all' inizio del secolo, produrre un movimento iniziale che fosse imponente, ampio e al tempo stesso emozionalmente neutro - che sfuggisse cioè alla doppia trappola dell'amabile gaiezza o, più rara­ mente, della drammatica ferocia dell 'allegro classico. Solo con la Crea­ zione di Haydn il ritmo classico raggiunse un peso suffi c iente per soste­ nere un lungo primo movimento lento che ambisse ad andare oltre la 442

semplice introduzione. Quel peso si trova in parte nello stile del tardo barocco, con la sua son tuosa fattura con trappuntistica e le sue frasi estensibili virtualmente all 'infinito . Una strada che si apriva davanti al compositore classico di musica sacra era dunque l' arcaismo. Imitare il tardo barocco, uno stile che negli anni Ottanta del Settecento era certa­ mente moribondo ma non ancora sepolto, offriva inoltre il vantaggio che in campo religioso offre ogni rimando al passato : usare lo stile con­ trappuntistico equivaleva a continuare a servirsi di parole arcaiche e por­ tava con sé una soddisfazione che nessuno stile più moderno avrebbe potuto garantire. Mozart era un parodista inarrivabile. Le sue opere in stile barocco non sono, è vero, proprio impeccabili : come Lowinsky ha fatto notare, il profilo squadrato e la chiarezza delle frasi nelle sue fughe sono decisa­ mente anti-barocchi nello spirito. Ed è difficile immaginare che Bach potesse concordare con l'opinione di Mozart che le fughe debbano esse­ re suonate lentamente in modo che le entrate dei soggetti risultino sem­ pre distintamente udibili: nelle fughe di Bach molte entrate sono dissi­ mulate con cura, legate alle note precedenti, e solo gradualmente e in ritardo l' ascoltatore ha modo di riconoscere il soggetto. Ma la padro­ nanza mozartiana dell 'antico stile barocco è indiscutibile. Serve un orec­ chio acutissimo e una notevole dose di intuizione per distinguere sul piano stilistico la grande doppia fuga del Requiem da quelle di Han del; ci si trovano cromatismi poco handeliani, ma certo non oltre le possibilità di Bach. Di ambedue i compositori, come pure di Hasse, Mozart aveva una conoscenza circoscritta ma profonda: aveva senz'altro ben presenti lsrael in Egypt e il Messiah, aveva studiato l'Arte della fuga e il Clavicembalo ben temperato. Il