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Italian Pages 904 Year 2022
GIORNALE ITALIANODI FILOLOGIA
BIBLIOTHECA 26
EDITOR IN CHIEF Carlo Santini (Perugia) EDITORIAL BOARD Giorgio Bonamente (Perugia) Paolo Fedeli (Bari) Giovanni Polara (Napoli) Aldo Setaioli (Perugia) INTERNATIONAL SCIENTIFIC COMMITTEE Maria Grazia Bonanno (Roma) Carmen Codoñer (Salamanca) Roberto Cristofoli (Perugia) Emanuele Dettori (Roma) Hans-Christian Günther (Freiburg i.B.) David Konstan (New York) Julián Méndez Dosuna (Salamanca) Aires Nascimento (Lisboa) Heinz-Günter Nesselrath (Heidelberg) François Paschoud (Genève) Carlo Pulsoni (Perugia) Johann Ramminger (München) Fabio Stok (Roma) SUBMISSIONS SHOULD BE SENT TO Carlo Santini [email protected] Dipartimento di Lettere Università degli Studi di Perugia Piazza Morlacchi, 11 I-06123 Perugia, Italy
Livius noster Tito Livio e la sua eredità
A cura di Gianluigi Baldo Luca Beltramini
© 2021, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium.
All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise without the prior permission of the publisher.
D/2021/0095/204 ISBN 978-2-503-59298-5 e-ISBN 978-2-503-59301-2 DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.122123 ISSN 2565-8204 e-ISSN 2565-9537 Printed in the EU on acid-free paper.
SOMMARIO
SOMMARIO
Maria Veronese Premessa. Livius noster: le celebrazioni del bimillenario liviano (17 d.C. – 2017) Gianluigi Baldo Introduzione. Livio e i ‘liviani’: un orizzonte per la ricerca degli anni futuri Introduction. Livy and His Heritage: A Horizon for Research in the Years to Come
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PARTE I
IL TESTO DI LIVIO TRA FILOLOGIA E CRITICA LETTERARIA John Briscoe Editing Livy, 1469-2016
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Marielle de Franchis Éditer la troisième décade de Tite-Live: bilan et perspectives 45 Marco Palma Antigrafo manoscritto / apografo a stampa. La princeps della q uarta decade fra Bussi, Sweynheym e Pannartz 81 Charles Guittard Livius apud Livium. À propos du carmen de 207 (Liv. 27,37,7) 97 Luca Beltramini Livio e Polibio sull’assedio di Nova Carthago 111 Vincenzo Casapulla L’assedio di Locri nel libro 29 di Livio 139
5
SOMMARIO
Tommaso Ricchieri Lucio Q uinzio Flaminino e Catone nella narrazione liviana fra tra dizione e censura (39,42 – 43)
159
Giovanna Todaro Id quidem cavendum semper Romanis ducibus erit. Il caso dei fratelli Scipioni
177
Bernard Mineo Structure dialectiq ue et structure architecturale dans l’Ab urbe condita de Tite-Live
197
Marine Miq uel Histoire et vérité chez Tite-Live. Manifestations auctoriales et nœuds narratifs dans l’Ab urbe condita
221
Virginia Fabrizi La guerra nel Foro. Analisi e implicazioni di un ricorrente tema liviano
249
Elisa Della Calce Le virtù dei nemici di Roma nelle ultime decadi liviane. L’esempio della clemenza
275
PARTE II
LIVIO COME FONTE STORICA E STORIOGRAFICA Francesca Cenerini Il ruolo delle donne nella narrazione liviana: alcuni esempi
303
Paolo Desideri Livio, Dionigi, e Machiavelli, sul conflitto patrizio-plebeo
315
Arnaldo Marcone A proposito della battaglia di Azio. Tradizione augustea e tradizione liviana
331
Luca Fezzi Gneo Pompeo ‘Magno’ nelle Periochae
347
Francesca Cavaggioni Storiografia e leges publicae. Il caso di Livio, AUC 21-30
369
Marco Rocco Attività legislativa e ritratti di re in AUC 1
415
Feđa Milivojević Livy and the Third Illyrian War – An Analytical Approach
445
Benoît Sans De Zama à Cynoscéphales. Étude comparée des stratégies rhétoriq ues de Tite-Live et Polybe
477
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SOMMARIO
PARTE III
LIVIO E L’ARCHEOLOGIA Paolo Carafa Una nuova pagina di Livio. L’archeologia della prima Roma
501
Monica Salvadori – Luca Scalco Elementi iconografici della disfatta: il modello della Canne liviana
521
Maria Stella Busana – Claudia Forin La villa nell’opera di Tito Livio. Tra fonte letteraria e dato archeologico
543
Guido Furlan Costruzione e manutenzione dei condotti fognari delle città romane. Il contributo dell’opera di Livio all’interpretazione dei dati archeo logici
567
PARTE IV
LETTORI DI LIVIO DAL TARDOANTICO ALL’ETÀ MODERNA Antonio Pistellato Additamenta storico-narrativi alla Periocha 49 di Livio
583
Mariella Tixi La ricezione dei prodigia liviani in Giulio Osseq uente, tra persistenze ideologiche e novità narrative
597
Concetta Longobardi Velut Hannibalis verba sunt. Letture antiche di Livio
609
Maria Nicole Iulietto Una persistenza liviana a Cartagine
629
Marco Di Branco Livio e Orosio in al-Andalus (Cordova, X secolo d.C.)
643
Ann Vasaly Livy’s Preface and Petrarch, Fam. 1,1: Method and Meaning in Pe trarchan imitatio
653
Giuliana Crevatin Nicola Trevet introduce alla lettura di Tito Livio. Proemio dell’expo sitio e expositio del proemio
673
Andrea Salvo Rossi Discorsi sopra la ‘terza’ decade. Machiavelli di fronte alla seconda guerra punica
693
Lucio Biasiori Discorsi mancati. Machiavelli e gli Homini illustri di Pietro Ragnoni
715
7
SOMMARIO
Paul van Heck I Discorsi su Livio da Niccolò Machiavelli a Pietro Giannone
735
Franco Biasutti Livio fra traduzioni e teoria della storia. Machiavelli, Patrizi, Speroni
763
PARTE V
LIVIO NELLE ARTI FIGURATIVE Giulia Simeoni I manoscritti medievali illustrati degli Ab urbe condita libri di Tito Livio. Il caso del codice Arch. Cap. S. Pietro C 132
781
Maria Federica Petraccia Il recupero di un mito liviano. ‘ Il Ratto delle Sabine’
809
INDICI
Indice dei nomi, dei luoghi e delle cose notevoli 847 Indice dei passi citati 863 Indice dei manoscritti 887 Abstracts 891
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PREMESSA
MARIA VERONESE
PREMESSA LIVIUS NOSTER: LE CELEBRAZIONI DEL BIMILLENARIO LIVIANO (17 d.C. – 2017)
In occasione del bimillenario della morte di Tito Livio il Centro interdipartimentale di ricerca ‘Studi liviani’ dell’Università degli Studi di Padova ha inteso promuovere una rassegna di eventi al duplice scopo di proiettare gli studi liviani in una dimensione internazionale e di valorizzare la figura e l’opera di questo grande storico presso un pubblico quanto più ampio possibile. Considerato il forte e ininterrotto legame di Tito Livio con la sua città natale, Padova, per celebrare degnamente questa ricorrenza si sono volute intitolare le celebrazioni Livius noster, come testimonianza della continuità di questo rapporto privilegiato nell’ambito della cultura e delle istituzioni cittadine. Dall’età antica, attraverso il preumanesimo e fino ai giorni nostri, i suoi concittadini hanno sempre ricordato con ammirazione l’illustre storico patavino che fu e continua a essere motivo di orgoglio e di identità culturale. Sulla scia di questa tradizione, che parte all’inizio dell’era cristiana con un altro patavino, Asconio Pediano, rinvigorita in età preumanistica e umanistica grazie a Sicco Polenton, l’obiettivo che ci ha animati nella celebrazione del bimillenario liviano è stato quello di riportare lo storico patavino e la sua opera tra la gente, tra i padovani, allo scopo di illustrare il ruolo fondamentale che l’opera liviana ha svolto per la cultura occidentale di ogni tempo: nella musica, nel teatro, nella letteratura, nel cinema, nelle arti figurative e in tutti gli ambiti nei quali la storia di Roma di Livio rappresenta una fonte inesauribile di suggestioni e di ispirazione. Il programma delle celebrazioni ha previsto una ricca rassegna di eventi culturali, che hanno spaziato dai reading ai concerti, dal cinema agli spettacoli teatrali, dalla cucina romana alle attività per le scuole con i laboratori didattici, con un libro illustrato di storie 9
M. VERONESE
dedicate ai lettori più piccoli e il geocaching, una moderna caccia al tesoro per la città sulle tracce di Tito Livio, dall’arte contem poranea fino alle iniziative archeologiche con la pubblicazione di una guida sull’antica Patavium città romana, con la ricostruzione virtuale di tre dei suoi principali monumenti: il porto fluviale, l’anfiteatro e il teatro, e con la riemersione dei resti del teatro conservati sul fondo della canaletta dell’isola Memmia in Prato della Valle. Attraverso questi eventi il grande pubblico ha potuto apprezzare la potente e rigogliosa vitalità dell’opera storica liviana, un’opera che non solo ha profondamente permeato la cultura occidentale ma che ha anche contribuito in maniera significativa a forgiare il nostro immaginario sulla romanità antica. Accanto all’opera di divulgazione delle conoscenze rivolta anche e soprattutto al territorio, le celebrazioni del bimillenario liviano sono state l’occasione per promuovere e sostenere gli studi e la ricerca scientifica sul testo di Tito Livio, proseguendo una ricca e feconda tradizione dell’Ateneo patavino. Nella primavera del 2016, in preparazione dell’anno delle celebrazioni liviane, ha preso avvio il ciclo delle Lecturae Livi, che mette al centro il testo liviano indagato nella sua ricchezza attraverso un approccio interdisciplinare fondato su diverse prospettive di indagine di carattere storico, filologico, letterario, archeologico e storico-artistico. Rivolti inizialmente a un pubblico universitario, questi seminari, che contano ormai una trentina di interventi tenuti da studiosi specialisti in vari settori, hanno visto crescere sempre di più anche la partecipazione di cittadini e appassionati di cultura classica. Come degno coronamento di questo intenso anno di celebrazioni liviane si è tenuto dal 6 al 10 novembre 2017 un importante Convegno Internazionale che ha radunato a Padova, nelle prestigiose sedi dell’Università presso Palazzo Bo e l’Orto Botanico, stu diosi da tutto il mondo per delineare un quadro completo degli studi e dei risultati più aggiornati della ricerca su Tito Livio. Il convegno ha inoltre offerto un’occasione di incontro tra specialisti di riconosciuto prestigio e giovani ricercatori individuati attraverso un’ampia call for papers, a testimonianza dell’interesse che l’opera liviana continua a suscitare. Il concorso di filologi, storici, archeo logi, storici dell’arte, storici del pensiero politico, giuristi ha consentito di approfondire la complessità di questo testo sotto molteplici prospettive, illuminandone la ricchezza e l’attualità. 10
PREMESSA
A distanza di qualche tempo possiamo tracciare un bilancio molto positivo delle celebrazioni liviane, che non si sono limitate a richiamare alla memoria e a onorare la figura e l’opera di Tito Livio, ma hanno contribuito ad aggiungere un capitolo importante nella storia degli studi, valorizzando un ricco patrimonio immateriale che nei secoli ha formato generazioni di studenti, sollecitato l’immaginazione dei lettori e stimolato la riflessione degli studiosi. Un sincero ringraziamento va a tutti coloro che hanno creduto e appoggiato il progetto del Centro interdipartimentale di ricerca ‘Studi liviani’ a partire dall’Università degli Studi di Padova nelle persone del rettore prof. Rosario Rizzuto e della prorettrice alle relazioni culturali, sociali e di genere prof.ssa Annalisa Oboe; la realizzazione di un programma così ricco e articolato non si sarebbe potuto realizzare senza il generoso contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, a cui si sono aggiunti i finanziamenti della Fondazione Antonveneta, della Regione Veneto, del Collegio Universitario Don Nicola Mazza e del Rotary Club Padova Nord.
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INTRODUZIONE
GIANLUIGI BALDO
INTRODUZIONE LIVIO E I ‘LIVIANI’: UN ORIZZONTE PER LA RICERCA DEGLI ANNI FUTURI
Si completa, con questo volume, un dittico che speriamo possa essere utile agli studiosi, agli studenti, ai lettori appassionati. La sua prima parte è costituita dal volume A primordio urbis. Un itinerario per gli studi liviani, uscito nel 2019 sempre a cura di chi scrive e di Luca Beltramini; all’uno e all’altro libro sono affidati i lavori dei due convegni organizzati dall’Università di Padova per il Bimillenario della morte di Tito Livio, rispettivamente a ottobre 2015 e novembre 2017. Il titolo Livius noster – un ‘furto’ all’antico commentatore di Cicerone, Asconio Pediano 1 – riflette in modo perfetto la coralità del progetto da cui queste pagine sono nate. Come ricorda anche Maria Veronese in premessa, le celebrazioni per il Bimillenario, fortemente volute dall’Ateneo di Padova e sostenute finanziariamente da varie istituzioni ed enti cittadini, fra cui spicca la Fondazione Cariparo, sono state un’occasione per far conoscere Livio e la tradizione che ne discende a un vasto pubblico di non specialisti con una serie di iniziative coordinate dal Centro Interdipartimentale di Ricerca ‘Studi liviani’. Al centro di questo fervore è stato costantemente posto, tuttavia, l’impegno a superare la mera occasionalità celebrativa a favore della progettualità scientifica. Come scrivevo introducendo il primo volume, il nostro intento era quello di tracciare una traiettoria, 1 Così viene citato ad Cic. Corn. 77. Noster accompagna poi spesso il nome di Livio nella tradizione successiva, soprattutto grazie all’uso frequente che ne fa Sicco Polenton nella sua Vita di Livio (Sicconis Polentonis Scriptorium illustrium Latinae linguae libri XVIII, ed. B. L. Ullman, Roma 1928, p. 178, 12 e 15; p. 179, 27-28; p. 180, 10; p. 183, 5 e 22).
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G. BALDO
di iniziare un percorso e delineare un metodo, porre domande e suggerire delle risposte, consapevoli della loro parzialità. Per questo, il volume che qui si presenta, così come il volume precedente, sono stati pensati non come mera verbalizzazione delle relazioni tenute ai convegni di cui sopra ma come veri e propri ‘libri’ di studi liviani. In questo caso, in modo particolare, l’ambizione è quella di rispondere, almeno in parte, ad alcuni quesiti posti in quel volume, e di completare per quanto possibile il quadro allora tracciato. Nella prima parte del volume, dedicata alla filologia e alla critica letteraria, i primi tre interventi sono dedicati alla storia del testo: J. Briscoe traccia un quadro imprescindibile delle edizioni a stampa liviane e delle loro ripercussioni di carattere ecdotico; la minuziosa ricostruzione della trasmissione manoscritta della terza decade presentata da M. de Franchis illustra il ruolo centrale che l’opera di Livio ha occupato nella cultura medievale e umanistica, e mostra la necessità di proseguire l’indagine di una storia che si conferma di inesauribile fecondità; M. Palma, infine, punta l’obiettivo su un aspetto poco studiato della trasmissione del testo, quello del pas saggio fra l’antigrafo (manoscritto) e l’apografo a stampa (a proposito della princeps della quarta decade). Gli altri nove interventi della prima parte sono invece dedicati a varie categorie testuali, sottoposte ad approcci critici diversi ma tutti rispondenti all’esigenza di interrogare il testo non come semplice fonte ma nella sua letterarietà; certo ritorna, come nel primo volume, il problema dei modelli cui Livio si rapporta per costruire le sue storie, e tuttavia le analisi puntano a delineare una prospettiva diacronica, seguendo l’evolversi dell’arte narrativa liviana. Al centro di vari contributi ricorre la tematica scipionica, campo prezioso di indagine per comprendere il problematico temperamento dei protagonisti, riflesso dell’ideologia liviana, sempre preoccupata di far emergere il valore didattico ed esemplare della storia, come ci spiega G. Todaro; quando è possibile la sinossi con il modello polibiano, come nel caso dell’episodio di Nova Carthago indagato da L. Beltramini (libro 26) o anche con altre fonti, come nell’episodio di Locri preso in esame da V. Casapulla (libro 29), risalta in modo impressionante la distanza dal modello, accuratamente perseguita per tratteggiare un profilo etico del personaggio assai meno lineare rispetto alle cosiddette fonti liviane. Il rapporto 14
INTRODUZIONE
tra ‘fonti’ e ideologia è lumeggiato anche nell’episodio del libro 39 analizzato da T. Ricchieri – un episodio in cui domina Lucio Q uinzio Flaminino. Se il problema delle fonti viene collegato coerentemente con la questione ideologica, risulta chiaro come Livio cerchi di dare forma narrativa alla sua visione politica non solo attraverso Polibio: lavorando su testi ideologicamente orientati, egli adatta al suo racconto i giudizi e le ricostruzioni di più autori precedenti, memorabili ed emblematici. Il testo liviano visto come monumentum che ora accoglie ora seleziona e talora rifiuta testi altrui aiuta a collocare lo storico nel tempo e nella storia letteraria: Ch. Guittard osserva come sia emblematica la rimozione di ogni possibile riecheggiamento di Livio Andronico, un nome che, pur essendo sicuramente familiare all’omonimo patavino, era legato a una poetica evidentemente incompatibile con il gusto liviano. La ‘posizione’ di Livio come autore è indagata, con diverso approccio, anche da M. Miquel: la studiosa individua dei luoghi cruciali dell’opera, dei ‘nodi’, in cui dei commenti autoriali, rallentando o sospendendo la narrazione, influiscono sul suo procedere, e pongono interrogativi cruciali sul rapporto tra verità storica e fatti narrati. Accanto al ‘modello’ e alla presenza dello storico, come personaggio o come voce autoriale, il volume indaga categorie critiche diverse: ‘struttura’, ‘tema’, ‘spazio’. B. Mineo sviluppa precedenti proprie indagini sulla struttura interna dell’opera liviana – una struttura che, riflettendo una concezione ciclica del tempo, riesce a intrecciare dialettica ideologica e architettura, e rende in questo modo esplicita una vera e propria filosofia della storia. V. Fabrizi arricchisce le molteplici prospettive delle indagini liviane puntando l’attenzione sullo spazio: in questo caso, lo strumento narrativo riesce a portare il lettore a percepire nello spazio urbano, e in particolare nel foro, di per sé luogo della attività politiche e civili, le dinamiche di un conflitto tradizionalmente rinvenibile al di fuori delle mura cittadine. L’approccio tematico non si configura mai, nella successione di queste pagine, come semplice inquadramento di contenuti e nemmeno come indagine su ‘forme di contenuti’, ossia su schemi che, ora originari ora contaminati, risulterebbero sempre dotati di una certa rigidità. I temi indagati sono, al contrario, intesi in senso ampio, temi dalle forme plurime, adottate da Livio come materiali e 15
G. BALDO
strumenti trasformati dalla sua arte narrativa: così E. Della Calce, indagando il tema della clementia – parola chiave dell’ideologia augustea – contribuisce a mettere in luce almeno tre non sovrapponibili accezioni della parola ideologia: l’ideologia romana, l’ideo logia augustea e, non ultima, l’ideologia liviana. Trasversali sono invece le tematiche connesse alla rappresentazione del ruolo femminile – un campo d’indagine ricchissimo ancorché lungamente trascurato e ora ripercorso da F. Cenerini: specchio dell’evoluzione etica della collettività romana, la rappresentazione delle donne è direttamente connessa alla formazione della legislazione augustea. Il tema della legislazione, poi, offre un punto di vista in sé originale per comprendere la pluridimensionalità del testo di Livio: i lavori di F. Cavaggioni sulle leges publicae o di M. Rocco sulle leges regiae dimostrano come l’impegno con cui Livio celebra la concordia non gli impedisca di far emergere aspetti contraddittori e inquietanti della politica romana; del resto, tecnica narrativa, retorica e documento storico si illuminano reciprocamente, sicché la ricchezza di dettagli o la sobrietà selettiva rispondono, di volta in volta, a esigenze legate alla coerenza narrativa o alla perlustrazione morale della personalità del legislatore. Come è noto, l’impiego del testo storiografico come fonte è una costante, ma il concetto di ‘fonte’, se applicato in modo indiscriminato e pervasivo, porta a trattare Livio come puro giacimento di informazioni, a scapito degli aspetti narrativi, retorici e, in una parola, ‘artistici’ della sua scrittura. Guidato dall’intento di correggere questa deformazione critica, B. Sans nel suo contributo mette in luce la capacità dello storico di trasfondere i mezzi della retorica nell’arte narrativa: la nuda esposizione dei fatti agisce come strumento argomentativo, al pari della narratio retorica, in questo offrendo ricche occasioni di confronto con la tecnica polibiana. Ovviamente, tutto questo non significa negare la preziosità di Livio come fonte: F. Milivojević legge in modo nuovo le ricche informazioni liviane sulla terza guerra illirica; A. Marcone dimostra come, attraverso la lettura sinottica dei testi di tradizione liviana (soprattutto le Periochae) e dei testi poetici, si possono porre domande nuove su una questione studiatissima come la battaglia di Azio, giungendo a confermare quella interessante divaricazione fra visione augustea e visione liviana, già citata sopra, in cui è lo storico a non risultare del tutto allineato con la versione ‘ufficiale’. 16
INTRODUZIONE
Determinante per la comprensione del profilo ideologico di Livio ‘repubblicano’ (suggellato dal celebre epiteto Pompeianus) è la rappresentazione della figura e della gesta di Pompeo, che L. Fezzi indaga percorrendo le Periochae, con importanti sviluppi dell’indagine svolta nel 1990 da L. Hayne: la visione positiva di Pompeo, resa possibile anche da reticenze e omissioni, lascia spazio, com’è prevedibile, all’attenzione progressivamente portata su Cesare. Ma se i lacerti del Livio perduto ci fanno rimpiangere più compiute testimonianze della sua feconda ambiguità politica, e della sua reale portata, è ancora una volta l’analisi contrastiva con altri autori – un Leitmotiv degli studi liviani – a corroborare l’idea che Livio abbia costruito nel tempo un autonomo atteggiamento politico: P. Desideri dimostra che la sovrapposizione tra lo storico patavino e Dionigi di Alicarnasso è, a ben guardare, solo superficiale, mentre un confronto serrato dimostra la diversità tra i due, anche sul piano squisitamente storiografico; il bilancio sinottico si spinge a ribadire la preponderante se non esclusiva influenza liviana anche nei Discorsi di Machiavelli, a fronte di recenti tentativi di dimostrare l’improbabile concomitante presenza di Dionigi. I contributi che gli archeologi hanno dato al volume nella sua parte III dimostrano efficacemente quanto un nuovo sguardo critico consenta di ottenere risultati insieme ricchi e vari: P. Carafa affronta un importante nodo critico, quello del rapporto tra fonte scritta e dato archeologico, e mette a fuoco sia la problematicità sia la necessità di entrambi gli oggetti, per costruire una stratigrafia comunque dotata di ampie e paradossali zone d’ombra e sorprendenti nuove prospettive. Su un altro piano, invece, il contributo di M. Salvadori e L. Scalco apre una prospettiva nuova sulla fecondità di Livio come fonte di modelli iconografici: la descrizione orrorosa del ‘dopo battaglia’ di Canne può essere visto, infatti, come giacimento di tessere figurative che ritroviamo nelle rappresentazioni delle Colonne Traiana e Aureliana e del Trionfo di Adamklisi. Il caso analizzato da G. Furlan, relativo ai processi costruttivi e manutentivi delle reti fognarie romane, è invece un esempio più lineare di integrazione tra fonte letteraria e dato archeologico: la testimonianza liviana offre infatti elementi chiave relativi alla cosiddetta ‘ermeneutica dello scavo’, utili in particolare per l’interpretazione delle infrastrutture urbane di età repubblicana e dei fenomeni connessi, che il documento materiale non è in grado di offrire. 17
G. BALDO
Una sfida che il testo liviano pone è quella degli anacronismi – lessicali e tematici – con cui la realtà coeva all’autore sembra sovrapporsi alla situazione storica trattata. Sintomatico è l’impiego del termine villa, oggetto dello studio di M. S. Busana e C. Fiorin: lo storico, anche quando è condizionato dal topos letterario, non prescinde in genere dalla realtà del territorio e dalle sue diacronie, e quindi offre indicazioni utili a interpretare l’insieme dei dati e le sue lacune, lasciando intuire l’esistenza reale di tipologie di insediamenti, pratiche abitative e forme di relazione con il territorio molto più ampie. Segno che il testo liviano, se ben interrogato, dischiude ipotesi di ricerca non solo per la filologia ma anche per l’archeologia, in una logica interdisciplinare utile a definire un aggiornato statuto di Roman Studies. La sezione dedicata alla fortuna di Livio (Parte IV) muove dalla ricezione tardoantica, e specificatamente dalle Periochae, un testo che già in precedenza abbiamo visto oggetto d’indagine, e che A. Pistellato giustamente sceglie di esaminare sul piano narrativo e del successivo Fortleben, limitando l’analisi a un episodio celebre, e illustrando la grande influenza che dal testo epitomato si dispiega a più livelli nella tradizione letteraria occidentale. Anche M. Tixi si occupa di ricezione prossima, quale è rispecchiata nel Liber prodigiorum di Giulio Ossequente e, come Pistellato, ne dimostra l’impronta liviana, ma soprattutto lumeggia il contributo che Ossequente dà al fecondo filone del sermo prodigialis; la selezione epitomatoria è posta a servizio della specifica espressività propria di questo genere letterario così amato dai lettori tardoantichi. La storia della fortuna tardo-antica di Livio è peraltro polimorfa: nel caso di Giulio Ossequente il testo liviano appare quasi un testo da scolpire, ‘levando il soverchio’ per ottenere un testo altro, in qualche misura autenticato dall’autorità del testo. Se tentiamo invece di misurare la fortuna liviana sulla base delle citazioni e delle modalità citazionali, scopriamo, grazie al capitolo firmato da C. Longobardi, scarse tracce di Livio nelle opere letterarie, e una più consistente presenza nella scoliastica: una fortuna come autore di scuola che ovviamente non è di secondaria importanza, ma che ne configura un impiego manualistico, in forma epitomale, tale da escludere l’apprezzamento del suo magistero stilistico e narrativo. Q uesto ovviamente non significa che Livio non fosse nutrimento di letterati: M. N. Iulietto riesce a rinvenire tracce probanti di let18
INTRODUZIONE
ture liviane nella produzione letteraria della Cartagine vandalica del VI secolo depositata nell’Anthologia Salmasiana. Una prospettiva spaziale e temporale per certi versi inaspettata e fin qui poco studiata acquista la ricezione di Livio nel lavoro di M. Di Branco: anche il mondo arabo ne è parte grazie alla traduzione, risalente al X sec., delle Historiae adversus paganos di Orosio – un’opera della quale è nota la fondamentale impronta liviana, sul piano narrativo e ideologico. Fertile terreno per nuove indagini risulta anche la ricezione presente nelle pagine di una delle ‘tre corone’ del Trecento italiano, Francesco Petrarca. A. Vasaly studia gli echi della Praefatio liviana nella epistola dedicatoria delle Familiares, rilevando come, al di là delle differenze di contesto e di registro, la voce antica conferisca al discorso petrarchesco quello statuto elevato che l’humilitas prefatoria tende a smentire. La Praefatio ebbe del resto, già nella tarda Scolastica, un ampio impatto anche normativo, ben documentato nel lavoro di G. Crevatin: vi si dà l’edizione critica di una breve porzione dell’expositio del testo liviano – la parte relativa appunto alla Praefatio, preceduta da un breve accessus – redatta da Nicola Trevet tra il 1317 e il 1319; il saggio premesso all’edizione illustra quanto autorevole fosse il magistero retorico di Tito Livio, posto in piena luce dal l’analitica esegesi compiuta da Trevet. Nell’ultimo gruppo di interventi relativi alla fortuna campeggia la figura imponente di Machiavelli, i cui Discorsi sulla prima deca costituiscono il più impressionante episodio di commento creativo, una sorta di esegesi digressiva in cui, a partire dalla riflessione sul testo liviano, si dipana l’analisi politica del Segretario. Un esempio probante del rapporto genialmente istituito da Machiavelli fra il presente da lui scrutato e il passato raccontato da Tito Livio è proposto nel contributo di A. Salvo Rossi: commentando il racconto degli eventi che portarono al coinvolgimento di Siracusa nella seconda guerra punica nel 214 a.C. (libro 24), Machiavelli fa in modo che nella città siciliana si rispecchi la Firenze coinvolta nello scontro tra il ducato di Milano e il regno di Francia. Q uale che sia la genesi dell’opera machiavelliana, essa propone un esperimento di riscrittura di Livio che ne testimonia la fecondità, per non dire la necessità rispetto al lavoro dello scienziato politico: lo statuto dei Discorsi è davvero indefinibile, né riconducibile ad alcuno schema noto. Lo studio di L. Biasiori indica oggi un nuovo possibile ‘modello’ nell’opera del senese Pietro Ragnoni – gli Homini 19
G. BALDO
illustri – che consiste in una traduzione commentata del De viris illustribus (IV secolo). Q uesta ipotesi dimostra quanto l’opera di Machiavelli sia il frutto più maturo di un’intensa e diffusa meditazione sui libri Ab urbe condita e di un continuo lavoro di commento su di essi – un lavoro che prosegue ovviamente anche dopo: P. van Heck perlustra un gruppo di ‘discorsi’ (di Vincenzo Dini, Aldo Manuzio il Giovane, Antonio Ciccarelli e Pietro Giannone), dispiegati tra metà Cinquecento e Settecento e non sempre esplicitamente collegati al modello machiavelliano, talora in disaccordo con esso, ma spesso tesi a cogliere nel testo dell’auctor latino le domande ‘attuali’: tutti costoro accostano Livio senza interessi filologici, ma spinti dalla necessità di attingere ad una storiografia enciclopedica in modo selettivo, per nutrire con gli exempla dell’antica Roma la propria meditazione politica, i propri interessi eruditi, o la prospettiva storico-religiosa. Va però detto che un approccio erudito o meramente letterario a Livio è decisamente minoritario in età moderna: il contributo di F. Biasutti, volto a indagare con sguardo sinottico le opere ‘liviane’ di Niccolò Machiavelli, Francesco Patrizi e Sperone Speroni, dimostra quanto questo impegno esegetico fosse frequentemente connesso al fervore delle riflessione teorica sullo Stato e sulla funzione civile e politica della storia: le pagine dei grandi storici antichi sono considerate come una fonte cui l’uomo di Stato, con l’opportuna mediazione degli intellettuali, possa attingere per orientare la propria azione di governo. L’ultima parte del volume raccoglie due lavori dedicati a due forme, diverse e temporalmente distanti, della ricezione figurativa, rispettivamente di G. Simeoni e di M. F. Petraccia. La prima studiosa indaga il caso del manoscritto Arch. Cap. S. Pietro C 132, rilevante documento del culto di Livio in ambito padovano (vivo già nel preumanesimo della seconda metà del Duecento). Il secondo richiama la nostra attenzione sull’affresco (sito a Villa Cattaneo Imperiale, a Genova) del pittore genovese Luca Cambiaso, raffigurante il Ratto delle Sabine. Il contributo ripropone il problema delle fonti letterarie della pittura cinquecentesca e della ricezione di Livio, che si impone quale fonte accanto a Ovidio; nel contempo lascia intuire la coesistenza di più voci antiche fuse insieme e tradotte in immagine, sicché si comprende bene come lo studio del complesso Fortleben liviano significhi anche farsi carico della complessità dello stesso testo originario. 20
INTRODUZIONE
Giunti al termine di questo itinerario, che a noi appare davvero ricco e al tempo stesso gravido di interrogativi e di nuovi nodi da sciogliere, si può solo spingere lo sguardo verso nuovi orizzonti di ricerca: Livio appartiene al novero di quegli auctores inesauribili, perché inesauribili sono le domande che pongono. L’unica risposta degna è l’impegno dell’esegesi ininterrotta, che non può che essere connotata da interdisciplinarità e plurivocità.
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INTRODUCTION
GIANLUIGI BALDO
INTRODUCTION LIVY AND HIS HERITAGE: A HORIZON FOR RESEARCH IN THE YEARS TO COME
This volume completes a diptych which we trust will prove helpful to scholars, students, and readers with a keen interest in Livy. The first volume is A primordio urbis. Un itinerario per gli studi liviani, published in 2019 by the present writer and Luca Beltramini; the two books bring together the proceedings of the two conferences organised by Padua University for the bimillenary of Livy’s death, respectively in October 2015 and November 2017. The title Livius noster – ‘cribbed’ from the ancient Cicero commentator Asconius Pedianus 1 – perfectly reflects the collective nature of the project from which these pages have sprung. As Maria Veronese also recalls in her foreword, the celebrations for the bimillenary – strongly promoted by Padua University and funded by various local institutions, most prominently Fondazione Cariparo – have provided an opportunity to introduce a vast, nonspecialist public to Livy and the tradition he gave rise to through a series of events coordinated by the Centro interdipartimentale di ricerca ‘Studi Liviani’. This enthusiasm, however, has mostly been directed at moving beyond the merely occasional nature of the celebration to develop a scholarly project. As I wrote in my introduction to the first volume, our aim was to trace a trajectory, to begin a journey, and to outline 1 This is how he is referred to in ad Cic. Corn. 77. Noster often accompanies Livy’s name in the later tradition, particularly thanks to the frequent use made of the possessive by Sicco Polenton in his Vita of Livy (Sicconis Polentonis Scriptorium illustrium Latinae linguae libri XVIII, ed. B. L. Ullman, Rome 1928, p. 178, 12 and 15; p. 179, 27-28; p. 180, 10; p. 183, 5 and 22).
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a method; to raise some questions and suggest some answers, even in the awareness that they are only partial ones. Therefore, the volume we are presenting here, like the previous one, has been envisaged not as a mere transcription of the papers delivered at these conferences, but rather as genuine ‘book’ on Livy studies. Particularly in this case, our ambition is to answer – if only partially – some of the questions raised in the previous volume, and to complete, as far as possible, the picture outlined there. In the first part of the volume, devoted to philology and literary criticism, the first three essays explore the history of the text: J. Briscoe provides a crucial overview of printed editions of Livy and their repercussions on textual criticism; M. de Franchis’ detailed reconstruction of the third decade’s manuscript tradition illustrates the central role that Livy’s work had in medieval and Renaissance culture, while also showing the need to continue investigating what is consistently proving to be an inexhaustibly fruitful history; finally, M. Palma focuses on a rather under-studied aspect in the transmission of the text, namely the transition from manuscript antigraphs to printed apographs (in relation to the princeps of the fourth decade). The other nine essays in the first part of the book are instead devoted to various textual categories which are subjected to different critical approaches, all of which meet the need to investigate the text not as a mere source, but in its literary quality. Certainly, as in the first volume, the problem of the models with which Livy engaged in order to construct his history crops up; however, the analyses proposed tend to outline a diachronic perspective by following the development of Livy’s narrative. At the centre of several contributions is the Scipionic theme, a valuable field of enquiry to understand how Livy shapes his narrative and character representation for the purpose of enlightening the educational and exemplary value of history, as G. Todaro explains. When a synopsis based on Polybius’ model is possible, as in the Nova Carthago episode investigated by L. Beltramini (book 26), or even on other sources, as in the Locris episode examined by V. Casapulla (book 29), what strikingly emerges is Livy’s conscious reworking of his sources. This distancing from the models is carefully pursued in order to trace an ethical profile of each character that is far less linear than what we find in his predecessors. 24
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The relationship between these ‘sources’ and Livy’s ideology is also elucidated by the episode from book 39 analysed by T. Ricchieri – an episode centred on Lucius Q uinctius Flaminius. Once the problem of the sources is consistently connected to the ideological question, it becomes clear that Livy did not turn to Polybius alone in seeking to lend narrative form to his political vision: by working on ideologically-oriented texts, he also adapted the opinions and reconstructions of memorable and emblematic previous authors to his account. The view of Livy’s text as a monumentum that alternately incorporates, selects, and rejects other authors’ texts helps define his place in his own time and in literary history: Ch. Guittard notes just how revealing the conscious omission of any possible echo of Livius Andronicus is – a name that, while certainly familiar to the Paduan Livy, was connected to a kind of poetics that was evidently incompatible with his own taste. Livy’s ‘position’ as an author is also investigated, through a different approach, by M. Miquel: this scholar identifies some crucial passages in the historian’s work, some ‘critical points’, in which the author’s comments, by slowing down or suspending the narration, influence its unfolding, raising key questions concerning the relationship between historical truth and the events recounted. Alongside the issues of ‘models’ and of the historians’ own presence as a character and authorial voice, the volume explores different critical categories: ‘structure’, ‘theme’, and ‘space’. B. Mineo develops his previous investigations into the internal structure of Livy’s work – a structure which reflects a cyclical conception of time, and thus intertwines ideological dialectic with the architecture of the text so as to reveal a genuine philosophy of history. V. Fabrizi enriches the varied perspectives of Livian studies by drawing attention to space: in this case, the narrative allows the author to detect within urban space and particularly the forum – in itself a setting for political and civil activities – the dynamics of a conflict traditionally found outside the city walls. As the book unfolds, the thematic approach never takes the form of a mere framing of contents, or even of an investigation of ‘content forms’, which is to say of schemes that, while sometimes more original and at other times reflecting certain influences, always display a degree of rigidity. On the contrary, the themes explored 25
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are understood in a broad sense: they take a number of different forms which are adopted by Livy as material and tools that are transformed by his narrative craft. Thus, in investigating the theme of clementia – a key word for Augustan ideology – E. Della Calce contributes to highlighting at least three separate aspects of the word ‘ideology’: Roman ideology, Augustan ideology, and last but not least, Livy’s ideology. What instead cuts across different fields are the themes connected to the representation of women’s role – a rich field of enquiry that has nonetheless long been neglected and is here newly explored by F. Cenerini: as a mirror of the ethical evolution of the Roman community, women’s representation is directly connected to the development of Augustean legislation. The topic of legislation also provides an original perspective to grasp the multifaceted nature of Livy’s text: F. Cavaggioni’s contribution on leges publicae and M. Rocco’s one on leges regiae show how Livy’s commitment to celebrate concordia does not prevent him from highlighting some contradictory and disturbing aspects of Roman politics. Besides, the narrative technique, rhetoric, and historical evidence enlighten one another in such a way that the choice of richness of detail or selective pithiness can in each case be seen as reflecting the need for narrative consistency or the moral investigation of the lawgiver’s personality. As is widely known, the use of historiographical texts as sources is a recurrent feature of Livy’s work. Yet, if indiscriminately and pervasively applied, the concept of ‘source’ may lead us to treat Livy as a mere repository of information, and hence to overlook the narrative, rhetorical, and – in a word – ‘artistic’ aspects of his writing. B. Sans, in his contribution, highlights the historian’s capacity to transpose rhetorical tools into the narrative art with the aim of correcting this critical distortion: there, stark exposition of facts serves as an argumentative instrument, much like rhetorical narratio, offering plenty of occasions for a comparison with Polybius’ technique. Obviously, this does not mean that we should deny the value of Livy as a source: F. Milivojević provides an innovative reading of Livy’s rich account of the third Illyrian war; A. Marcone shows how, through a synoptic reading of works from the Livian tradition (particularly the Periochae) and of poetic texts, new questions can be raised concerning a much-investigated topic such as the Battle of Actium, ultimately confirming the most interesting idea 26
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– already mentioned above – of a divergence between the Augustan and the Livian perspective whereby the historian appears not to be fully aligned with the ‘official’ version. What proves crucial to grasp the ideological profile of the ‘republican’ Livy (sealed by the famous epithet Pompeianus) is his representation of Pompey’s figure and deeds. L. Fezzi explores it through the Periochae by significantly developing the enquiry conducted by L. Hayne in 1990: as one would expect, the positive portrayal of Pompey, partly achieved through silences and omissions, leaves room for an increasing focus on Caesar. But while the fragments of Livy’s lost books make us regret the absence of more complete testimonies of his fruitful political ambiguity and of its actual impact, a comparative analysis of other authors – a Leitmotiv in Livy studies – once again corroborates the idea that, over time, the Roman historian adopted an indepen dent political stance: P. Desideri shows that, upon closer scrutiny, the juxtaposition between Livy and Dionysius of Halicarnassus is only superficial, as a detailed comparison brings out the divergences between them even on the strictly historiographical level. The synoptic balance drawn also confirms the prominent – albeit not exclusive – influence of Livy in Machiavelli’s Discourses, despite the recent attempt to prove Dionysius’ unlikely concomitant presence. The contributions provided by archaeologists in the third part of the volume compellingly show that a fresh critical appraisal can yield rich and varied outcomes. P. Carafa tackles an important critical issue; namely, the relationship between written sources and archaeological data. He brings into focus the problematic yet also necessary quality of both object of enquiry so as to reconstruct a stratigraphy marked both by broad, paradoxical murky areas and surprising new perspectives. On a different level, M. Salvadori and L. Scalco’s contribution opens up a fresh perspective on Livy’s richness as a source of iconographic models: the ghastly description of Cannae’s aftermath may be regarded as a repository of figurative elements that occur in the representations on Trajan’s and Marcus Aurelius’ Columns, and the Tropaeum Traiani. The case analysed by G. Furlan, the construction and maintenance of the Roman sewage system, is instead a more straightforward example of the integration of a literary source with archaeological data. Livy’s testimony offers key elements pertaining to the so-called 27
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‘hermeneutics of excavation’, elements which are particularly useful to interpret certain Republican urban infrastructures and related phenomena, which the material evidence alone cannot provide. One challenge posed by Livy’s text lies in the presence of lexical and thematic anachronisms whereby the reality of the author’s own day seems to overlap with the historical events he discusses. One revealing example is the use of the term villa, the focus of M. S. Busana and C. Forin’s study: even when influenced by literary topoi, the historian is generally mindful of the features of the local area he is describing and their transformation over time; therefore, he provides some useful evidence to interpret available gaps in the data, allowing us to infer the existence of certain types of settlement, habitation practices, and ways of engaging with the territory on a much broader scale. This suggests that, if duly investigated, Livy’s text can disclose research hypotheses in the field not only of philology but also of archaeology, according to a cross-disciplinary perspective that can help draw an up-to-date picture of Roman Studies. The section devoted to Livy’s reception (Part IV) sets out from Late Antiquity, and particularly the Periochae, a text already mentioned in relation to other studies. A. Pistellato quite rightly chooses to examine them on the narrative level and in relation to their Fortleben: limiting his analysis to one famous episode, he illustrates the considerable influence of this epitome on the Western literary tradition. M. Tixi also focuses on Livy’s earliest reception, as reflected in Julius Obsequens’ Liber prodigiorum; like Pistellato, she shows the Livian flavour of this work while – most importantly – throwing light on Obsequens’ contribution to the fruitful genre of the sermo prodigialis: the epitome’s selection of texts is put to the service of the specific expressive requirements of this genre, so dear to late-antique readers. The history of Livy’s late-antique reception is a polymorphous one: in Julius Obsequens’ case, the Livian text is almost approached as a block to be sculpted by ‘removing the superfluous’ so as to obtain a different text, to some degree deriving its authoritativeness from the original one. If we instead attempt to assess Livy’s popularity on the basis of quotes and of modes of quoting him, we find – as C. Longobardi shows in his chapter – few traces of Livy in literary works, and far more in scholia. Livy’s 28
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popularity as an author studied at school, while not being of secondary importance, points to the use of his text in handbooks in the form of epitomes, which necessarily limited the appreciation of his style and narrative. Clearly, this is not to say that Livy was not part of the literati’s intellectual diet: M. N. Iulietto identifies sure traces of the reading of Livy in the literary production from sixth-century Vandal-ruled Carthage transmitted by the Anthologia Salmasiana. M. Di Branco’s work lends Livy’s reception a somewhat unexpected and hitherto under-studied spatial and temporal dimension by extending it to the Arab world, based on the tenth-century translation of Orosius’ Historiae adversus paganos – a work that is widely known to bear Livy’s crucial imprint on the narrative and ideological level. Another fruitful field for new enquiries is Livy’s reception in the works of one of the ‘three crowning glories’ of fourteenth-century Italian literature, namely Petrarch. A. Vasaly studies the echoes of Livy’s Praefatio in the Familiares’ dedicatory epistle, noting how – difference in context and register notwithstanding – the ancient author’s voice lends Petrarch’s discourse the kind of lofty status that prefatory humilitas would tend to deny. Besides, the Praefatio already had an extensive – even normative – impact in late Scholasticism, as is clearly documented by G. Crevatin. This scholar provides a critical edition of a section of Nicholas Trevet’s expositio – the part pertaining to Livy’s Praefatio, which follows a short accessus – composed between 1317 and 1319. The Expositio illustrates just how authoritative Livy was held to be as a master of rhetoric, as highlighted by Trevet’s analytical exegesis. The last series of contributions about Livy’s reception is dominated by the towering figure of Machiavelli, whose Discorsi sopra la prima deca constitute the most striking example of a creative commentary – a sort of digressive exegesis in which the Secretary’s political analysis unfolds starting from a reflection on Livy’s text. One compelling example of the relationship that Machiavelli brilliantly establishes between the present he is investigating and the past recounted by Livy is provided in A. Salvo Rossi’s contribution: when commenting on Livy’s account of the events that led to Syracuse’s involvement in the Second Punic War in 214 bc (book 24), Machiavelli presents the Sicilian city as reflecting Florence’s involvement in the clash between the Duchy of Milan and the 29
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Kingdom of France. Whatever the genesis of Machiavelli’s work may have been, it represents an attempt to rewrite Livy that bears witness to the historian’s value, if not cruciality, for the political scientist’s task: the Discourses are truly impossible to define, as they cannot be traced back to any known scheme. L. Biasiori has now identified a new possible ‘model’ in the work of the Sienese Pietro Ragnoni – Homini illustri – which consists of an annotated translation of the De viris illustribus (fourth cent.). This hypothesis shows that Machiavelli’s work is the final result of a meditation on the Ab urbe condita libri and of the ongoing task of commenting on them – a task which was obviously continued even later: P. van Heck examines a set of ‘discourses’ (by Vincenzo Dini, Aldo Manuzio the Younger, Antonio Ciccarelli, and Pietro Giannone) written between the mid-sixteenth and eighteenth century. While not always explicitly connected to the Machiavellian model, and sometimes even conflicting with it, these works often aim to identify questions of ‘contemporary relevance’ in the text by the Latin auctor: all these writers approach Livy not out of philological interest, but driven by the need to draw upon an encyclopaedic historiography in a selective way, in order to nourish their own political reflections, erudite pursuits, or historical-religious perspectives through exempla from ancient Rome. However, it must be said that erudite or merely literary approaches to Livy were rare in the modern age: F. Biasutti’s contribution, which aims to explore the ‘Livian’ works of Niccolò Machiavelli, Francesco Patrizi, and Sperone Speroni from a synoptical perspective, shows that this exegetical commitment was rather often connected to an eagerness to reflect on the State and on the civil and political value of history. The writings of the great ancient historians were regarded as a source from which statesmen could draw – with the suitable intermediation of intellectuals – to orient their own policies. The last part of the volume features two contributions – by G. Simeoni and M. F. Petraccia – devoted to two different and chronologically distant expressions of Livy’s figurative reception. The first scholar investigates the case of manuscript Arch. Cap. S. Pietro C 132, which bears significant witness to the veneration of Livy in the Padua area (already in the pre-Humanist period in the second half of the thirteenth century). The second contribution draws our attention to the fresco by the Genoese painter 30
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Luca Cambiaso depicting the Rape of the Sabine Women (in Villa Cattaneo Imperiale, Genoa). The essay newly addresses the question of the sixteenth-century painting’s literary sources in relation to Livy’s reception, who emerges as a source alongside Ovid; at the same time, it suggests the coexistence of several ancient voices which were merged and translated into images. It thus become clear that studying Livy’s complex Fortleben also means engaging with the complexity of the original text itself. Having reached the end of this intellectual journey, which strikes us as rich yet at the same time loaded with questions and new problems to be solved, we can only turn our gaze towards new research horizons: Livy falls among those auctores who can never truly be exhausted, as the questions they raise are inexhaustible. The only worthwhile answer lies in constant exegesis, which is bound to be marked by interdisciplinarity and multivocality.
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PARTE I
IL TESTO DI LIVIO TRA FILOLOGIA E CRITICA LETTERARIA
JOHN BRISCOE
EDITING LIVY, 1469-2016 *
Until the advent of the compressed and highly abbreviated Gothic script, no more than ten books of Livy could normally be fitted into a single parchment codex; for that reason, the story of the transmission of each of the surviving parts of his history (books 1-10, 21-30, 31-40, 41-45) is different. When the editio princeps was published at Rome in 1469 or 1470, only books 1 to 10, 21 to 32 and 34 to 40,37,3 were known. Book 33 came to light in two stages, from 17,6 onwards in the Mainz edition of 1519, which also contained the final part of book 40, the first third of the book in an edition published in Rome in 1616. Books 41-45 were first published in the Basle edition of 1531. The editio princeps was followed by at least twelve other incunables 1. Many errors in the text, some transmitted from late antiquity, if not earlier, some of recent origin, were eliminated in one or other incunable, but the first third of the sixteenth century witnessed far greater improvement, as well as the discovery of previously unknown parts of Livy’s text. The credit for many indubitably correct and universally accepted readings belongs to editions published in Paris (the Ascensian of 1510 and, particularly, 1513), Venice (the Aldine (1518-1520)), Mainz (1519), and Basle (1531, 1535). * This is a much abbreviated version of the first chapter of Briscoe 2018, a companion volume to my edition of books 21-25; I am grateful to Oxford University Press for allowing me to use it in this way. I have made only minor changes to the paper as delivered at Padua, adding a small amount of annotation. 1 Drakenborch (1738-1746, VII 328-331) lists eighteen incunables, but five of them, for all of which he cites Maittaire 1719-1741, are not in any known library and their authenticity must be regarded as dubious. Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 35-44 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125321
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The Mainz edition added the previously unknown parts of the fourth decade from a now lost manuscript, containing 33,17,6 to the end of the decade, discovered by Nicolaus Carbach in the Cathedral Library at Mainz (Latin Mogontiacum or Moguntia, hence the sigla Mg for the manuscript, Mog. for the edition); at the end of the edition Carbach added a list of passages where his manuscript differed from the reading of previous editions; his point of reference was the 1513 Ascensian edition. Some of Carbach’s misreadings of Mg were quickly corrected, by conjecture, in the Aldine edition. In the Basle edition of 1531 (from the Froben press, hence Fr. 1) Grynaeus published books 41-45, from an uncial manuscript, now in Vienna, which he had found at Lorsch four years earlier. Almost immediately texts of the new material appeared from the Ascensian, Juntine, and Aldine presses. The 1531 edition also contains many new, frequently correct, readings in the first, third, and fourth decades; those in the last correct some of the errors in Mg (or in Carbach’s reports of it), but all are due to conjecture: there is no reason to think that they derive from Mg itself, even though Mainz is less than 300 km north of Basle, as the Rhine flows. The second Frobenian edition (Fr. 2), published at Basle in 1535, added no further text, but significantly increased the evidence for what was already known. In the first decade Rhenanus (in books 1-6) and Gelenius (in books 7-10) cited readings from two manuscripts, both probably at Worms, one of which was closely related to the Medicean MS whose authority is equal to that of all the other Carolingian manuscripts put together. In books 26-40 (Rhenanus in books 26-30, Gelenius in books 31-32 and 34-40) they cited readings from a manuscript at Speyer (the codex Spi rensis) which was to give its name to the tradition rivalling that of the Puteaneus in books 26-30. Gelenius, moreover, corrected many of Carbach’s misreadings of Mg and added variants which the latter had missed. Drakenborch 2 lists twenty-four editions published between 1537 and 1572. By far the most important are the last three, the editions of Sigonius published at Venice in 1555, 1566, and 1572 respectively. Sigonius was able to use his historical knowledge, and
Drakenborch 1738-1746, VII 336-338.
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particularly his work on the Fasti, to correct many of the proper names, both personal and geographical, which had been corrupted in the course of transmission. He also used one or more manuscripts to correct the text, though it is not possible to identify it/them. I am aware of thirty-five 3 editions published between 1572 and those of J. F. Gronovius, including those published after his death (in 1671). The contribution made by Gronovius in the seventeenth century was as outstanding as that of Sigonius in the sixteenth, though Heinsius (ed. Leiden, 1634) deserves an honourable mention; Gruter’s Frankfurt edition of 1607-1608 was a landmark in introducing chapter divisions, the basis for a standardized reference system (the credit for section numbers belongs to Drakenborch). The nearly seventy years between the death of Gronovius and the appearance of the first volume of Drakenborch’s uariorum edition saw only ten new editions. Potential editors were, perhaps, deterred by the authority of Gronovius. The two most important were those of Hearne (1708, the first ever published in Oxford) and Crevier (1735-1742; a second edition was published in 17471748 and a school edition followed in 1768-1769). Hearne cited a number of Oxford manuscripts, one of which is a primary witness in the fourth decade. Crevier was a perceptive critic and many of his conjectures have found general acceptance in subsequent editions. Drakenborch’s edition was a major landmark and for a long time remained the basis of study. As far as books 1-32 and 3440,37,3 are concerned, even when the manuscripts possessing authority had been identified, editors’ reports of the deteriores / recentiores (including those which Drakenborch had taken from earlier editors) derived, without checking, entirely from Drakenborch; exceptions are the Budé editions of the third decade and mine of the fourth. And since Drakenborch’s notes repeat, ver batim and in most cases in full, what earlier scholars, from Valla to the younger Gronovius, had written, as well as making available previously unpublished notes by Gebhard, Duker, and others, it
3 Drakenborch omits those published at Frankfurt in 1612 and Amsterdam in 1635.
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did not seem necessary to consult the original publication. Drakenborch’s text, moreover, acquired such authority that for the next hundred years many editors, even Kreyssig, who made many improvements, described their editions as being ‘ex recensione A. Drakenborchii ’. Until Kreyssig, whose edition was published between 1823 and 1827, editors who consulted manuscripts used whichever came easily to hand, mainly, naturally, those written in the fourteenth and fifteenth centuries. Sometimes they did indeed light on manuscripts which in fact possessed authority and feature in modern stemmata. Kreyssig based his text of the fourth decade on the Bamberg manuscript (see below), and in books 41-45 was the first editor since Grynaeus himself to use a collation of the Vienna manuscript, though not his own, rather than the 1535 edition. The last two thirds of the nineteenth century were the great age of German editing, with increased understanding and use of the primary manuscripts; the pioneer was Alschefski, who published editions of the first and third decades between 1841 and 1846; Weissenborn’s first Teubner edition (1850-1851) used no new manuscript evidence, but Hertz added four further manuscripts for the first decade, one for the third (the Bamberg manuscript again, which begins only at 24,7,8). Hertz’ edition appeared between 1857 and 1864, overlapping with that of Madvig, whose first edition was published between 1861 and 1866 (there were further editions, as many as four for books 21-25, for all books except 36-45). His Emendationes Liuianae appeared in 1860, a second edition, incorporating many of the conjectures in the editions of the text, in 1877. Madvig, a Dane, was arguably the greatest Latinist of the nineteenth century but he was content with the manuscripts used by Hertz and Weissenborn, and initially misjudged the value of the codex Spirensis in books 26-30. In books 31-45 editors were in no better position than Kreyssig. For the fourth decade, their knowledge of Italian manuscripts was limited to those cited by Drakenborch and his predecessors. They regarded them, reasonably enough, as clearly inferior to the Bamberg MS (B) and Mg, and when a choice was possible between the Italian MSS and B or Mg, they were reluctant to give them preference. Traube’s discovery of the fragments of the uncial manuscript from which both B and the common ancestor of both 38
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the Italian manuscripts and the codex Spirensis were copied (F) 4 had no effect on an edition until McDonald’s OCT of books 31-35, published in 1965, and it was McDonald who first built on Billanovich’s epoch-making article of 1951 5 and established a stemma, eventually modified in my Teubner edition of 1991, on the basis of Reeve’s article of 1986 and his chapter in the Festschrift for Charles Brink 6. For books 41-45, with only the Vienna manuscript to be considered, the first editor to use his own collation (he was assisted by his son) was Zingerle, whose edition, part of a series begun in 1888 7, was published between 1899 and 1907; in the latter year Wessely published a full-scale facsimile, making further consultation of the original, except in a few cases of doubt, unnecessary. Immediately following his Teubner edition, Weissenborn turned his attention to producing the first edition of a commentary on the whole of Livy, with a substantial number of changes in the text. The first volume (book 1) was published in 1853, the series was completed (books 43-45) in 1866. By the time of Weissenborn’s death in 1878 there had been at least two new editions of everything except books 43-45 (six of books 1-2 and 21-23). After Weissenborn’s death large-scale revisions of both the Teubner edition and the commentary were undertaken by, respectively, M. and H. J. Müller (they were unrelated). The former was begun in 1881 (books 24-30) and the last volume to appear was books 1-6 in 1902; after Müller’s death, Heraeus produced new editions of books 39-45. The revision of the commentary began with books 43-45 (1880-1881); all the other volumes went through at least one further revision, with books 6-8 and 21 being further revised by Rossbach in 1924 and 1921 respectively. Both Frigell and Luchs appear to have planned complete editions but the former produced only books 21-23, the latter 21-30. There were also, particularly in Germany and Britain, editions, with notes, of individual books, designed for use in schools, often containing new conjectures. Traube 1904. Billanovich 1951. 6 Reeve 1986, 1989. 7 Apart from his collation of the Vienna manuscript, Zingerle seems to have relied on existing reports of manuscript readings. 4 5
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I come to the twentieth century and first to the Oxford Classical Text series. Livy was undertaken by R. S. Conway, Hulme Professor of Latin at Manchester, and C. F. Walters, Professor of Classics at King’s College, London. Books 1-5 were published in 1914, books 6-10 in 1919; Walters became ill in 1921 and died in 1927; books 21-25 were published under the names of Walters and Conway in 1929. My edition of books 21-25, published in 2016, is designed to replace it. These three volumes follow the same pattern and suffer from the same faults, largely resulting from the editors’ hostility to stemmatics. They did not produce a stemma nor use sigla to designate groups of manuscripts. They cluttered up their apparatus with unnecessary information, citing all manuscripts individually, including those that were eliminable. In addition they frequently added otiose value judgements on conjectures and facetious or even downright offensive comments. Moreover, their reports of the readings of manuscripts and editions were often inaccurate. After Walters’ death Conway co-opted S. K. Johnson, who had been his colleague at Manchester, going on to Chairs at Swansea and Newcastle, as co-editor of books 26-30. The work was completed in 1932 but Conway died the following year, with a third of the volume in proof. It was published in 1935. Methodologically, it is a considerable improvement. There is a stemma and sigla are used to denote the agreement of the Puteaneus (P) and its descendants. He could and should have gone further: if P and its descendants agree, only P needs to be cited, and if R and its descendants, differing from P, agree, only R needs to be cited. Johnson implies that Conway had approved the Preface, and he must, to some extent at least, have relented in his opposition to stemmatics. In 1879 Luchs published his editio maior of books 26-30, arguably the most important contribution to the study of L.’s text in the nineteenth century. Luchs identified most of the witnesses to the Spirensian tradition: Conway and Johnson, though unaware of their authorship, gave full reports of Petrarch’s corrections in A (BL Harley 2493), which Luchs had used only for the long supplements in book 26 and the end of book 30 8, but 8 For recently expressed doubts about Petrarch’s authorship cf. Fiorilla 2012, 108-109; de Franchis 2015, 11; Feraco 2017, 22; Petoletti 2019, 278-287.
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on the grounds that the apparatus was long enough already, reported V (Vat. Pal. Lat. 876) only in book 30 and there selectively. Johnson died in 1936 at the sage of 37 and Oxford University Press appointed the young Alex McDonald, a New Zealander, to carry on, and hopefully complete the series. It was not until 1965 that he produced books 31-35 and had made little progress with books 36-40 when he died in 1979. The latter was entrusted to Peter Walsh; before his death McDonald himself had passed books 41-45 and the Periochae to Michael Crawford, and the fragments to Robert Ogilvie. To cut a long story short, Ogilvie committed suicide in 1981, the publication of my Teubner edition of books 41-45 led the Press and Crawford to agree that an edition of those books was no longer necessary, and an edition with commentary of both the Periochae and the fragments is now being prepared by David Levene. In 1974 Ogilvie published a new edition of the first pentad, presenting a clear and economical apparatus, using Greek sigla when appropriate and omitting eliminable false readings. Ogilvie regarded the stemma of the extant manuscripts as bipartite, but Michael Reeve has argued that it is tripartite 9. The basis of study on all aspects of the transmission of the first decade is now Oakley’s detailed discussion in the introduction to his first volume of commentary on books 6-10 10. McDonald’s edition of books 31-35, building on the work of Traube and Billanovich 11, established the transmission of the fourth decade on a firm footing. His view, however, that the ancestor of all the Italian manuscripts was an old manuscript which Lan dolfo Colonna had borrowed from the Cathedral Library in Chartres in 1303 and that the group of manuscripts which he called α were all later than 1327 was challenged, in my view correctly, by Michael Reeve, and I set out the arguments in the Preface to my Teubner edition of the fourth decade 12. Walsh eventually published his OCT of books 36-40 in 1999. Unfortu nately, what he says about α in the Preface contradicts his stemma
Reeve 1996, 86-87. Oakley 1997-2005, I 152-327. 11 See Traube 1904; Billanovich 1951. 12 Q ualified disagreement with Reeve’s and my arguments has been expressed by Mineo 2003, xxxvii-xxxix, xli-xliii; see Briscoe 2018, 221-223. 9
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and, as far as I can see, his citations of α are derived from my apparatus 13. My edition of the fourth decade was published at Stuttgart. After the Second World War the original firm of Teubner split in two, one, under DDR state ownership, remaining at Leipzig, the other, in private hands, and both continued to produce critical editions, sometimes of the same text. The Leipzig branch commissioned Walsh and T. A. Dorey to produce a new edition of the third decade; Dorey’s text of books 21-22 appeared in 1972, of books 23-25 in 1976, Walsh’s of 26-27 in 1982, of 28-30 in 1986. Dorey’s stemma is basically correct, refining that of Johnson, though it has been further refined and corrected by Reeve and in the Preface to my OCT 14. The apparatus, however, is unsatisfactory, being highly selective in its citations of both manuscript readings and conjectures. Walsh wrongly decided to cite only Paris, BnF, lat. 5690 as a witness to the Spirensian tradition and committed a grave error by regarding 26,41,18 and 43,44,1 as authentic (corrected in a second edition, with a profuse apology) 15. I come lastly to the Budé series. The speakers at the conference Livius noster included three Budé Livy editors, Charles Guittard, co-editor of book 8, Marielle de Franchis, who is preparing book 30, and Bernard Mineo, editor of book 32, as well as Jean-Louis Ferrary, the current head of the Latin side of the series. I shall therefore be brief and factual, eschewing value judgements. The Budé editions of Livy began in 1947. The first seven books were edited by Jean Bayet, book 8 by Raymond Bloch and Charles Guittard; books 9 and 10 have not yet appeared. The third decade currently contains all except books 22 and 30; books 21, 23-24, and 26-28 are by Paul Jal, the former head of the Latin side of the series, book 25 by Fabienne Nicolet-Croizat, book 29 by Paul François. Only book 34 is missing from the fourth decade. The remaining nine books, published between 1977 and 2004, are by eight different editors, but nevertheless uniform in presentation. Paul Jal’s earliest contributions to the Livy series (he had earlier edited the Budé Florus) were the three volumes of his edition Cf. Briscoe 2008, 14 n. 38. Reeve 1987; Briscoe 2016, xi-xvii. 15 Reeve 1986, 146-148; Walsh 1989, xvi. 13 14
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of books 41-45 (just as my first critical edition was my Teubner of those books). The final volume also contains the fragments and a two volume edition of the Periochae followed. I end on a personal note. It is, I think, no secret that Jal, who died in 2012, and I said some harsh things about each other in reviews. It was, therefore, a great and pleasant surprise when he wrote a very favourable review of my commentary on books 38-40, and made flattering remarks about my work as a whole 16. I have no idea what caused this change of heart, but I responded in kind in the Preface to my commentary on books 41-45 17 and tried to express criticisms of Jal’s editions of those books as politely as I could. I take this opportunity to pay tribute to Paul Jal’s contri butions to the study of Livy.
Bibliography Billanovich 1951 = G. Billanovich, Petrarch and the Textual Tradition of Livy, JWI 14 (3-4), 1951, 137-208. Briscoe 2008 = J. Briscoe, A Commentary on Livy, Books 38-40, Oxford 2008. Briscoe 2012 = J. Briscoe, A Commentary on Livy, Books 41-45, Oxford 2012. Briscoe 2016 = J. Briscoe (ed.), Titi Livi Ab urbe condita libri, vol. III: Libri XXI-XXV (Oxford Classical Texts), Oxford 2016. Briscoe 2018 = J. Briscoe, Liviana: Studies on Livy, Oxford 2018. de Franchis 2015 = M. de Franchis, Livian Manuscript Tradition, in B. Mineo (ed.), A Companion to Livy, Chichester 2015, 3-23. Drakenborch 1738-1746 = A. Drakenborch, T. Livii Patavini historiarum Ab urbe condita libri, qui supersunt, omnes, Leiden – Amsterdam 17381746. Feraco 2017 = F. Feraco, Tito Livio, Ab urbe condita liber XXVII, Bari 2017. Fiorilla 2012 = M. Fiorilla, I classici nel Canonziere, Roma – Padova 2012. Jal 2008 = P. Jal, review of Briscoe 2008, REL 86, 2008, 401-403. Maittaire 1719-1741 = M. Maittaire, Annales Typographici ab artis inventae origine ad annum MD, Den Haag – Amsterdam – London 1719-1741. Mineo 2003 = B. Mineo, Tite-Live, Histoire romaine, tome XXII: Livre XXXII (Collection Budé), Paris 2002.
Jal 2008. Briscoe 2012, viii.
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J. BRISCOE
Oakley 1997-2005 = S. P. Oakley, A Commentary on Livy, Books VI-X, Oxford 1997-2005. Petoletti 2019 = M. Petoletti, Episodi per la fortuna di Livio nel Trecento, in G. Baldo – L. Beltramini (a cura di), A primordio urbis. Un itinerario per gli studi liviani (GIF – Bibliotheca, 19), Turnhout 2019, 269-294. Reeve 1986 = M. D. Reeve, The Transmission of Livy 26-40, RFIC 114, 1986, 129-172. Reeve 1987 = M. D. Reeve, The Third Decade of Livy in Italy. The Family of the Puteaneus, RFIC 115, 1987, 129-164. Reeve 1989 = M. D. Reeve, The ‘Vetus Carnotensis’ of Livy Unmasked, in J. Diggle – J. B. Hall – J. Diggle (edd.), Studies in Latin Literature and its Tradition, Cambridge 1989, 97-112. Reeve 1996 = M. D. Reeve, The Place of P in the Stemma of Livy 1-10, in C. A. Chavannes-Mazel – M. M. Smith (edd.), Medieval Manuscripts of the Latin Classics: Production and Use, Los Altos Hills, CA – London 1996, 74-90. Traube 1904 = L. Traube, Bamberger Fragmente der vierten Dekade des Livius, ABAW 1904, I. Walsh 1989 = P. G. Walsh, Titi Livi Ab urbe condita libri XXVI-XXVII (Teubner), Leipzig 19892.
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L’histoire de la transmission manuscrite de la troisième décade est d’une passionnante complexité. Après avoir bénéficié, depuis le milieu du xxe s., des contributions décisives de Giuseppe Billanovich, puis de celles de Michael Reeve 1, elle est actuellement stimulée par les progrès de la digitalisation qui simplifient désormais considérablement non seulement l’accès aux manuscrits mais aussi leur confrontation 2. Je souhaiterais dans ce colloque qui célèbre, sur les lieux mêmes où il a vécu, le bimillénaire de l’illustre Padouan, faire un bilan des travaux récents, pour compléter celui que j’ai dressé en 2015 pour le Companion to Livy, et également présenter quelques résultats concernant l’édition du livre 30, que je prépare pour la CUF. Ce livre constitue un excellent observatoire sur la transmission de l’ensemble de cette décade car il concentre, en raison de sa place, la plupart des difficultés auxquelles est confronté tout éditeur de cette partie de l’œuvre livienne.
Le stemma de la troisième décade Tout d’abord, un bref rappel des conditions de transmission de cette décade. La caractéristique essentielle en est l’absence d’uniformité. La transmission présente en effet une distinction entre 1 Cf. en dernier lieu, Reeve 2017, bilan des recherches des trente dernières années (1987-2017) sur la transmission de Tite-Live, centré sur la 3e décade. 2 Cf. la base Totus Livius du Centro Studi Liviani, destinée à accueillir tous les manuscrits digitalisés de Tite-Live accessibles en ligne (http://cirsl.unipd.it/ricerca/ totus-livius-manoscritti-liviani-digitalizzati/), ainsi que les ressources rassemblées sur le projet Biblissima (https://biblissima.fr).
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 45-80 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.127726
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les deux pentades, comme cela apparaît clairement sur le stemma (fig. 1). Les livres 21 à 25 ne nous sont connus que par une seule tradition. Tous les témoins remontent à un seul archétype tardo-antique conservé, le Puteaneus 3 (= P), du nom de son possesseur au xvie s., le juriste humaniste Claude Dupuy (1545-1594). Les livres 26 à 30, en revanche, nous sont parvenus à travers deux traditions, celle du Puteaneus et celle traditionnellement dite de Spire 4. Mais cette seconde tradition, dont l’archétype, perdu, devait regrouper les livres 26 à 40, ne nous est accessible que de manière fragmentaire et très incomplète. Elle n’intervient qu’à partir du dernier tiers du livre 26 (26,30,9) 5. Parfois, le seul accès possible à cette tradition est constitué par des manuscrits contaminés avec la tradition de P, comme les familles ε, Θ, et le manuscrit L. Cette décade, une des plus célèbres de Tite-Live, a connu une forte diffusion manuscrite, notamment aux xive-xve s., période pour laquelle nous avons conservé plus de 150 témoins, tandis que nous n’avons plus qu’une quinzaine de copies antérieures au xiiie s. 6. L’exploitation et la compréhension de ces témoins les plus anciens sont désormais grandement facilitées par la parution de deux nouveaux tomes de la monumentale synthèse de Birger Munk Olsen 7: le tome IV, 2 (2014) achève son enquête sur la réception de la littérature latine classique aux xie et xiie s.; le tome V (2020), qui recense les études et découvertes de 1987 à 2017, constitue une très utile mise à jour de tous les tomes précédents. À la liste que j’avais établie en 2000 de plus de 170 témoins 8, il faut désormais ajouter: – Un fragment du livre 21 (xve s., Italie du Nord), signalé par Emilio Giazzi 9 en 2006. Paris, BnF, lat. 5730. de Franchis 2015, 9 et 11-14. 5 de Franchis 2015, 9. 6 de Franchis 2000, 19. 7 Munk Olsen 1982-2020. Les tomes I (1982) à IV, 2 (2014) sont disponibles en ligne sur Persée. 8 de Franchis 2000, 34-40. 9 Cremona, Archivio di Stato, Notarile, filza 979, coperta (Liv. 21,4,2-6,2; 9,211,4; 17,5-19,5). 2 bifolios qui servaient de couverture à des actes notariés du xvie s. Cf. Giazzi 2006, 552-553. 3 4
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– Un manuscrit signalé par M. Reeve en 2013, actuellement conservé à Chicago, Newberry Case 163 (OCh dans mon stemma 10 = O dans Briscoe 2016). Il contient l’ensemble de la décade jusqu’en 30,36,2 (rostratis c.). Les collations de J. Briscoe confirment l’hypothèse de M. Reeve: il s’agit d’un descendant italien du Puteaneus (famille Λ), datable du xiie s. 11. – Un manuscrit du fonds italien de la BnF, Paris, BnF, ital. 5, unique en son genre. Il contient en effet les livres 21 à 25,7,4 en italien, et le reste de la décade en latin à partir, dans l’état actuel, de 25,13,12 (profecti sarcinis omnibus impedimentisque) jusqu’à la fin du livre 30 (claraque cognomina familie fecere). Il a été signalé en 2017 par M. Reeve 12, qui a trouvé trace de son existence dans une étude d’Emilio Lippi sur les traductions en italien de la 3e décade 13. D’après les informations que m’a aimablement communiquées M. Reeve, la partie latine daterait de 1380-1410; ce témoin transmet le supplément apocryphe en 26,41,18, contient la lacune caractéristique de la famille α (30,41,6 – 42,15) et, sur 30,42,15 – 44,6, comporte des traces de contamination avec la tradition spirensienne. Il présente en outre, au début du livre 25, des particularités textuelles qui inciteraient à le rajouter au groupe de 8 manuscrits florentins des xive-xve s. offrant des leçons de la tradition du Puteaneus étrangères à Λ 14. À l’exception du manuscrit de Chicago, ces nouveaux témoins ne sont pas à retenir pour l’établissement du texte. Voici à présent
J’adopte ce sigle pour éviter toute confusion avec un témoin de la tradition spirensienne Nancy, Archives départementales de Meurthe et Moselle, IF342 n.° 3, désigné par O depuis François 1994, c. 11 Briscoe 2016, xv-xvi; Reeve 2017, 9. Il était décrit comme d’origine française et daté xiie-xiiie s. dans la liste succincte de la Newberry Library, new acquisitions (https://www.newberry.org/manuscripts-european-manuscripts-pre-1500-newacquisitions). La notice du manuscrit indique désormais une origine française ou italienne, mais une datation au xiiie s. (1220-1229). Il ne figure donc pas dans la mise à jour de Munk Olsen 1982-2020, V 161-162. Sur les difficultés de datation des manuscrits de cette période, cf. Munk Olsen 1982-2020, IV 2-11. Cf. https:// i-share-nby.primo.exlibrisgroup.com/permalink/01CARLI_NBY/i5mcb2/alma 991380898805867. 12 Reeve 2017, 6. 13 Lippi 1977-1978, 28-29 pour la description du manuscrit. Sur les traductions italiennes de la 3e décade, cf. la récente enquête de Burgassi 2019. 14 Sur ces manuscrits, cf. Reeve 1987a, 153-155. 10
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une description succincte des témoins que je vais évoquer 15. Leurs relations sont représentées dans le stemma (fig. 1). Tradition du Puteaneus (P). Livres 21-30 P = Paris, BnF, lat. 5730. ve s. Italie. Nombreuses lacunes (notamment les 2/3 du livre 21 et le dernier tiers du livre 30, à partir de 30,30,14 cum 16). R = Città del Vaticano, BAV, Reginensis Latinus 762. Début ixe s., autour de 800. Tours 17. 22,6,5-30,5,7 (amplexus). M = Firenze, BML, Plut. 63, 20. Fin du ixe s. Corbie. Jusqu’en 30,26,10 (inau-). C = Paris, BnF, lat. 5731. Fin du xe s. Cluny. Complet. Γ 18 = ancêtre de B, Δ et Λ. B = Bamberg, Staatsbibliothek, Class. 35-II. Fin xe - début xie s., autour de 1000. France ou Belgique 19. 24,7,8 (litteris certiorem) – 30,42,21 (eos per quos). Δ = ancêtre de EPa 20 (Paris, BnF, lat. 5736 = δ de Jal), K (Paris, BnF, lat. 5732 = β de Jal) et D (Cambridge, Trinity College 637). Fin xiie s., France. Jusqu’en 30,41,3 in Etruria prorogatum imperium est (EPa), in Etruria pro (K), in Etruria (D). Λ = Ancêtre de nombreux manuscrits italiens allant jusqu’en 30,41,6 (classis ex duabus), notamment: Q = Napoli, Biblioteca Nazionale, Vindobonensis Lat. 33. Milieu du xiie s. Jusqu’en 30,41,6 + 30,42,15 raro simul – 44,6 Je complète ici sur certains points de Franchis 2015, 9-14. Un folio couvrant 30,37,3 neque – 38,2 carthagi – a été retrouvé au xviie s. à Corbie. Cf. von Büren 1996, 60. 17 Sur les liens avec le monde lombard révélés par le nom des copistes, cf. Villa 2019, 221-225. 18 J’ai adopté le sigle Γ utilisé par Briscoe 2016 (au lieu de x) pour désigner l’ancêtre perdu de B, Δ et Λ. Les sigles grecs, qui désignent par convention les manuscrits perdus, sont repris des éditeurs précédents. Ils sont en majuscules, sauf pour les familles α et ε, pour éviter toute confusion avec les sigles désignant des manuscrits (ici les manuscrits A et E). 19 Localisation du scriptorium difficile à déterminer. Cf. Reeve 1986, 154; Hoffmann 1995, 132; Stoppacci 2017, 272; Munk Olsen 1982-2020, V 2020, 161. 20 J’adopte ce sigle pour éviter toute confusion avec un témoin de la tradition spirensienne, Modena, Biblioteca Estense, Lat. 385, signalé par Reeve 1989, 107-108, et qu’il désigne par le sigle E. 15 16
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risum esse. De Q dérivent Val = Valencia, Catedral 173, fin xiiie s. et la prolifique famille α (xive-xve s.). A = London, BL, Harley 2493. Seconde moitié du xiie s. Jusqu’en 30,41,6. N = Firenze, BML, Plut., 63, 21. Seconde moitié du xiie s. Région de Rome. Jusqu’en 30,41,6. OCh = Chicago, Newberry Case 164 (= O de Briscoe 2016). Seconde moitié du xiie s. Conservé jusqu’en 30,36,2 (rostratis c). Z = Città del Vaticano, BAV, Reginensis Latinus 902. Fin xiiie début xive s. Italie ou France (Avignon 21?). Jusqu’en 30,41,6 22. Palimpseste de Turin (Ta). Fragments des livres 27 et 29. ve s. Unique témoin tardo-antique d’une 3e tradition? 23 Tradition dite de Spire (Σ). Livres 26-40 Je cite les témoins selon leur place dans le stemma, ce qui ne correspond pas toujours à l’ordre chronologique. S = Spirensis (München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 29224 (2) + Stuttgart, Württembergische Landesbibliothek, Cod. Donaueschingen A. II. 16). xie s. Italie. Fragments des livres 28 et 30 24. Sp et G = Leçons du Spirensis d’après l’éd. Froben 2, Bâle, 1535 par Beatus Rhenanus et Gelenius. s = Ajout de la fin du livre 30, à partir de 30,42,21 (ante ictum). B Début ou milieu du xie s.? à Bamberg? Cf. Reeve 1987b, 427-428. Le sigle Z lui a été assigné par Reeve 1987a, 140. Sur son appartenance très probable à la bibliothèque d’Alexandre Petau et sur les modalités de son entrée dans la collection de la reine Christine de Suède, voir Todaro 2016. 23 De ce palimpseste (cote a.II.2* cf. Ottino 1890, 2) provenant de l’abbaye de Bobbio et détruit dans l’incendie de la bibliothèque de Turin en 1904, nous ne possédons que les collations de W. Studemund. Cf. Chatelain 1904, 20-21; Seider 1980, 130; 151-152. L’hypothèse que le palimpseste de Turin soit la source de la tradition Σ est aujourd’hui abandonnée. Ce palimpseste ne peut qu’attester la circulation dans l’Antiquité d’autre(s) tradition(s) que celle du Puteaneus. Cf. Reeve 1986, 152153; 1987b, 406; de Franchis 2000, 18, n. 4; 20-21, de Franchis 2015, 12; Oakley 2016, 169. 24 Pour le détail des fragments, cf. Munk Olsen 1982-2020, V 2020, 162 (n° C.27) avec références aux volumes précédents. 21 22
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H = London, BL, Harley 2684. Milieu du xve s., Florence. Entre 29,3,15 nec coniungere se Hannibali et 30,21,11-12 25. Ns = Plusieurs corrections ou compléments, dont la fin du livre 30, à partir de 30,41,6. Fin xiie - début xiiie s. Région de Rome. O 26 = Nancy, Archives départementales de Meurthe et Moselle, I F 342 n.° 3. xie s. Italie. Fragments des livres 27, 29 et 30 27. ε = Ancêtre de deux manuscrits italiens contaminés du xve s., V (Città del Vaticano, BAV, Pal. Lat. 876) et E (Modena, Biblioteca Estense, Lat. 385). ε permet d’accéder à l’état le moins contaminé de O (O1). Ap? = Plusieurs corrections ou compléments attribués à Pétrarque, dont la fin du livre 30, à partir de 30,41,6. xive s. Permet d’accéder à O dans un état de contamination intermédiaire (O2). Θ = Famille 28 de 5 manuscrits italiens contaminés des xive-xve s. (famille R de Luchs 1879), représentée notamment par X (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Lat. Z 364) et J (London, BL, Burney 198). Θ permet d’accéder à O2. L = Paris, BnF, lat. 5690. Début du xive s. Italie. Manuscrit contaminé, qui donne accès à l’état le plus contaminé de O (O3). Deux points sont particulièrement importants pour l’édition du livre 30. Tout d’abord, P est perdu pour la fin de ce livre, ce qui représente environ un tiers de son texte. Or, comme je l’ai indiqué dans 25 Le passage à un modèle de source spirensienne coïncide avec le début d’un cahier en 29,3,15 nec coniungere (f. 181r). Cf. Luchs 1879, xxxiiii-xxxvi; Reeve 1989, 110. Le retour à la tradition du Puteaneus se fait à un endroit moins clair à déterminer, au milieu du f. 204v. La dernière leçon de H en accord avec la tradition spirensienne est 30,21,11 Puteolos. 26 Pour signaler que O ne nous est accessible que dans un état déjà contaminé, j’ai indiqué uniquement dans le stemma ses différentes strates de contamination avec la tradition de P, soit O1, O2, O3. 27 Pour le détail des fragments, cf. Munk Olsen 1982-2020, III 2 1989, 90 (n° C.27.5). 28 Famille indépendante d’un troisième manuscrit de Pétrarque, contrairement à ce que pensait G. Billanovich. Cf. Reeve 1987b, 409-413; Fenzi 2015, 16, n. 8.
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la liste ci-dessus, tous ses descendants sauf un, Paris, BnF, lat. 5731 (= C), s’arrêtent soit avant lui, soit plus loin que lui mais de tout façon avant la fin du livre. Cette situation est tout à fait différente de celle causée par la perte de P pour les 2/3 du livre 21, où les descendants permettent de reconstituer son texte. Pour le livre 30, il ne reste que le manuscrit C pour représenter la tradition du Puteaneus jusqu’à la fin du livre. Comment apprécier la fidélité de C à l’archétype P, sans point de comparaison dans la tradition de P? Fort heureusement, grâce à la découverte de Q , ce problème ne se pose désormais que pour l’extrême fin du livre, de 30,44,6 (qui tamen nequaquam) à 30,45,7 (cognomina familiarum fecerunt dans C). En effet, entre 30,41,4 (quod ad Hispanias) et 30,41,6 (ex duabus), nous pouvons confronter le témoignage de C avec celui de B et de Q ; entre 30,41,6 (classibus) et 30,42,15 (quas tunc peterent), avec celui de B; entre 30,42,15 (raro simul hominibus) et 30,42,21 (eos per quos) avec celui de B et de Q ; entre 30,42,21 (ante ictum) et 30,44,6 (risum esse) avec celui de Q . Q est donc un témoin essentiel pour la fin du livre. Ensuite, plusieurs témoins changent d’affiliation dans la seconde pentade. L’exemple le plus surprenant est H, manuscrit copié à Florence au milieu du xve s.: il est notre meilleur témoin de la tradition Σ, mais uniquement entre 29,3,15 et 30,21,11-12. Dans le reste de la décade, il appartient à la famille de P 29. Trois autres manuscrits changent ainsi d’obédience pour la fin du livre 30, à partir des chap. 41 ou 42: N et A sont complétés par d’autres mains, contemporaines ou postérieures, à partir de 30,41,6. B également, mais à partir de 30,42,21 (ante ictum), et par plusieurs mains difficiles à dater, entre le début et le milieu du xie s. 30. Or les recherches récentes invitent à reconsidérer non seulement l’attribution à Pétrarque des compléments spirensiens dans A 31, mais aussi la datation du complément spirensien de la fin du livre 30 dans B 32.
Il dérive alors probablement de Firenze, BML, Plut. 63,14. Cf. Reeve 1989, 110. Reeve 1987a, 150 distingue deux mains. Il les date du début du xie s., comme Chatelain, Traube et Bischoff (cf. Reeve 1986, 154 n. 1 pour les références). Hoffmann 1995, 132, en distingue trois, qu’il date du milieu, voire du troisième quart du xie s. 31 En dernier lieu Petoletti 2019b. 32 A la suite des résultats exposés par Stoppacci 2017. 29 30
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Avant de présenter ces recherches et leurs implications pour l’édition du texte, je voudrais souligner l’apport de l’édition – exemplaire – des livres 21 à 25 due à John Briscoe 33.
Les choix éditoriaux de John Briscoe pour Liv. 21-25 Cette édition se signale tout d’abord par l’utilisation de témoins récemment découverts, ou dont l’importance a été révélée par les recherches sur l’histoire du texte. J. Briscoe reconstitue en effet Δ, soit l’ancêtre du manuscrit D (utilisé depuis Gronovius, Leiden, 1644) grâce à deux autres manuscrits contemporains de D: E (= EPa dans mon stemma) et K. Ces deux manuscrits avaient déjà été retenus par les éditeurs de la CUF. P. Jal avait signalé leur proximité avec D 34, mais c’est M. Reeve qui a montré qu’ils dérivaient tous les trois d’un ancêtre commun 35. J. Briscoe donne aussi une image plus exacte de l’ancêtre Λ (= y de Dorey 1971) des descendants italiens de P. Outre N et A, déjà cités par ses prédécesseurs, il fait intervenir pour la première fois Q et Z, dont l’intérêt pour reconstituer Λ a été démontré par M. Reeve 36, et également un manuscrit récemment découvert, que M. Reeve lui a signalé fin 2013 37, O (= OCh dans mon stemma). Ce manuscrit de Chicago confirme l’existence dans l’ancêtre Λ de bonnes leçons (par conjecture), et parfois à une date plus 33 Briscoe 2016 et en dernier lieu 2019, lxxvi-lxxxxiv. Pour un compte rendu détaillé de cette édition, cf. de Franchis à paraître dans Exemplaria Classica. Elle est opportunément accompagnée d’un volume de Liviana, paru en 2018 (= Briscoe 2018) avec des compléments et corrections, portant aussi sur ses nombreux travaux sur les livres 31 à 45. L’auteur y justifie notamment plusieurs de ses choix textuels dans les livres 21 à 25 et apporte une aide bienvenue dans le maquis des éditions liviennes (1-20), depuis l’édition princeps. Il donne également les références des conjectures de Weissenborn, de Madvig et de H. J. Müller citées dans son apparat et souvent difficiles à retrouver dans leurs multiples publications. Je signale enfin son étude (153-166) des interventions d’un troisième correcteur (Az), qu’il distingue de Valla, dans le manuscrit A, avec une liste de ses interventions dans la 3e décade. Il avait identifié cet Az dans ses travaux préparatoires (Briscoe 1980, 312-316) à ses éditions de la 4e décade, mettant ainsi en cause la répartition des interventions sur A proposée par Billanovich 1951 entre uniquement deux prestigieux correcteurs, Pétrarque et Valla, et approfondie pour Valla par Regoliosi 1981a, 1981b, 1986 et 1995. 34 Jal 1988, 2001 et 2005; Nicolet-Croizat 1992. Jal 1988, lxxiii: «souvent proche de D». 35 Reeve 1987a, 136-138. 36 Reeve 1987 a, 140 (Q et Z); 1987b, 427-428 (Z). 37 Briscoe 2016, xv.
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ancienne que les autres descendants. Ainsi, en 21,10,3, partie où le Puteaneus est perdu, et où il faut faire appel à sa tradition 38, si J. Briscoe imprime per deos comme ses prédécesseurs, son apparat est beaucoup plus précis sur l’apparition de cette conjecture dans la tradition du Puteaneus, qui transmettait per eos. Conway-Walters 39 attribuaient la correction per deos à A2, identifié à Pétrarque depuis l’article fondateur de Billanovich 1951, et à N5, ‘humanistic hand’, selon Conway 40. Elle ne serait donc pas apparue avant le xive s. T. A. Dorey n’indique rien dans son apparat pour ce passage, ce qui laisse croire, à tort, au lecteur que per deos est la leçon de tous les manuscrits, et non une conjecture. L’apparat de P. Jal laisse supposer, là aussi à tort, que deos figure dans tous les manuscrits collationnés, à l’exception de ceux cités dans la deuxième partie de l’unité critique: deos: eos CDNδ reos M et deos Y (= Firenze, BML, Plut. 63,17. xve s.)
L’apparat de J. Briscoe donne: per deos O Q c Nc Ap Zc: per eos π: reos Mc (pe- erasum esse iud. Luchs)
Il met clairement en évidence que la conjecture deos a été intégrée au texte dans OCh, alors qu’elle figurait comme correction au texte transmis (eos π) chez les autres témoins de Λ. Je rappelle que tous les témoins de Λ, sauf Z, sont datés de la même période (seconde moitié du xiie s., ou tout début xiiie). La conjecture deos est donc entrée dans la tradition bien avant Pétrarque, si tant est que Pétrarque soit intervenu sur A. L’édition de J. Briscoe réunit ainsi magistralement deux objectifs: son apparat donne au lecteur tous les éléments lui permettant de comprendre non seulement l’origine du texte édité (d’où vient telle ou telle leçon), mais aussi l’histoire de sa transmission. Il munit en effet son texte d’un apparat efficace, alors que le lecteur avait souvent du mal à distinguer l’essentiel de l’accessoire dans celui de Conway-Johnson, qui ne pratiquaient pas l’eliminatio codicum. Dorey avait déjà travaillé dans ce sens dans son édition 38 Désignée par le sigle π qui indique l’accord d’au moins deux des trois groupes représentés par M, C et Γ. En 21,10,3, Γ se réduit à l’accord de Δ avec Λ, B ne commençant qu’en 24,7,8. Cf. Briscoe 2016, xx. 39 Conway-Walters 1929, ad loc.: deos A2N5: reos M: eos CDA?N. 40 Conway 1933, 188.
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pour Teubner, mais son apparat, s’il avait gagné en clarté, était malheureusement trop souvent beaucoup trop succinct pour permettre au lecteur d’apprécier le rapport entre le texte édité et le témoignage des manuscrits 41. J. Briscoe ne pratique toutefois pas l’eliminatio au sens strict. En toute logique, il ne devrait citer que le témoignage de P, quand celui-ci est conservé, et reconstituer son témoignage à partir de celui de ses descendants uniquement quand il est perdu. C’est ce qu’avait fait A. Luchs dans son édition de 1888 des livres 21 à 25: en l’absence de P, il se limitait à citer C et M, qui uetustissimi minimeque interpolati sunt 42 et il ne donnait que les bonnes leçons figurant dans les autres descendants de P. Mais il confondait sous un seul sigle (ϛ) ces bonnes leçons et les conjectures proposées par les philologues depuis la Renaissance, ce qui ne permettait pas au lecteur de dater les phases de constitution du texte. J. Briscoe considère, à juste titre, que les bonnes leçons ou corrections des descendants de P doivent être citées en tant que telles, mais seulement quand elles ont un intérêt en tant que conjectures. Il ne les cite donc que pour mettre en évidence à quel point du stemma la vérité, ou une leçon qui mettait sur sa voie, est entrée dans la tradition. Son apparat est ainsi très complet et très lisible. Il est en effet allégé, quand P est conservé, des errores singulares des descendants de P et ceux-ci sont organisés en familles, ce qui permet de voir très vite à quel moment une bonne leçon est rentrée dans la tradition. Le revers de la médaille: ce regroupement en familles sous un sigle unique ne permet pas au lecteur d’identifier facilement les manuscrits où la leçon se trouve, en raison du changement de signification des sigles imposé par le caractère lacunaire de certains témoins 43. Mais cet inconvénient est très atténué par la digitalisation croissante des manuscrits qui facilite leur consultation directe. Son apparat est enfin très complet car il comporte aussi un vaste choix de conjectures, et ce depuis l’édition princeps (fin 1469), jusqu’à nos jours. Les livres 21 à 25, qui ne reposent que sur la seule tradition du Puteaneus, posent de ce fait de nombreuses difficultés textuelles, que John Briscoe a préféré faire apparaître, en recourant Cf. Dorey 1971, xiii sur ses principes d’édition. Luchs 1888, v. Il écarte R, plus lacunaire que P. 43 Cf. par exemple la signification du sigle π en 21,10,13. 41 42
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aux cruces, bien plus que ses prédécesseurs, pour donner l’état le plus fidèle du texte transmis. À l’occasion d’une présentation de la protohistoire du texte livien, Stephen Oakley a rappelé que l’établissement d’un texte était beaucoup plus solide quand il reposait sur plusieurs traditions tardo-antiques. Si ce n’est pas le cas des livres 21 à 25 ni des livres 41 à 45, c’est celui des livres 26 à 30, des livres 3 à 6 et de la plupart des livres 31 à 40 44. L’existence de deux traditions dans les livres 26 à 30 a donc l’avantage non seulement de limiter le recours aux conjectures, mais aussi de repérer des corruptions insoupçonnables à première lecture. Stephen Oakley illustre cet aspect par un exemple très révélateur, en 29,6,3, à propos de la leçon milites iam transmise par deux témoins de la tradition dite spirensienne (Ns et Ap?) et retenue par tous les éditeurs du texte depuis Conway-Johnson, contre iam dans P et milites transmis par les autres témoins de la tradition spirensienne, H et εθL 45: Latrociniis magis quam iusto bello in Bruttiis gerebantur res, principio ab Numidis facto et Bruttiis, non societate magis Punica quam suopte ingenio, congruentibus in eum morem; postremo Romani quoque milites iam contagione quadam rapto gaudentes, quantum per duces licebat, excursiones in hostium agros facere. On faisait dans le Bruttium du brigandage plus qu’une guerre régulière, les Numides avaient commencé et les Bruttiens, autant par tendance naturelle que du fait de leur alliance avec les Puniques, les avaient rejoints dans cette pratique. À la fin, les soldats romains eux aussi, comme désormais contaminés, prirent goût au pillage et, à condition d’avoir l’autorisation de leurs chefs, lancèrent des raids en territoire ennemi 46.
En apparence, le texte donné par NsAp? semble combler une omission dans chacune des deux branches, milites dans P et iam dans la tradition spirensienne. Mais milites iam n’a pas d’autorité. Cet amalgame ne pourrait se défendre qu’en tant que conjecture, ce qui supposerait une corruption survenue au même endroit dans les deux branches de la tradition, hypothèse très peu probable, étant donné que les deux textes transmis (Romani quoque milites et Romani quoque iam) ont chacun un sens. Oakley 2016, 179. Oakley 2016, 181, n. 83. 46 Traduction François 1994 modifiée. 44 45
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S. Oakley montre ainsi que milites transmis par Σ, par déduction stemmatique, en raison de l’accord de H et des trois familles représentées par εθL, est la leçon à éditer. C’était le choix de Luchs en 1879. Le terme est en effet tout à fait cohérent avec duces: ils soulignent tous deux l’opposition de la guerre régulière (iustum bellum) avec le brigandage (latrociniis). Iam en revanche n’apporte rien: il ne sert qu’à faire redondance avec postremo et résulte probablement d’une corruption de milites en iam (après perte de -lites) dans P ou dans son modèle. Or, c’est la confrontation entre les deux traditions qui a permis à S. Oakley de déceler le problème. Comme il le souligne, voilà qui invite à s’interroger sur le nombre de corruptions insoupçonnées dans les livres 21 à 25, ainsi que dans une bonne partie du livre 26, où nous n’avons que la tradition du Puteaneus 47.
L’édition des livres 26 à 30: les chantiers en cours dans l’histoire de la transmission Je vais à présent dire quelques mots sur les dernières avancées dans l’histoire de la transmission, en me limitant à leur incidence sur l’édition des livres 26 à 30. Pétrarque et A Comme vous le savez, le rôle de Pétrarque dans la synthèse entre les deux traditions de cette pentade est de plus en plus mis en doute. L’hypothèse séduisante présentée par Giuseppe Billanovich en 1951 selon laquelle le manuscrit A aurait été annoté et complété par le jeune Pétrarque à Avignon dans les années 1326-1330 a été redimensionnée dès 1987 par Michael Reeve 48. Les doutes se sont intensifiés depuis que Maria Chiara Billanovich 49 a montré que la main que G. Billanovich identifiait comme celle du jeune Pétrarque dans un manuscrit d’Augustin, et sur laquelle il s’appuyait pour reconnaître celle de Pétrarque dans le manuscrit A, Oakley 2016, 184. Le lecteur novice commencera avec profit par Reeve 2017, 12-16, et 1989, 103-106, avant de se lancer dans Reeve 1987b, 424-436. 49 Billanovich M. C. 1994. 47 48
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n’était pas celle de Pétrarque, mais celle d’un évêque de Padoue du xive s. Comme le souligne M. Fiorilla 50, les interventions attribuées à Pétrarque dans A constitueraient le seul témoignage, en l’état actuel de notre documentation, de ses habitudes graphiques de jeunesse, ce qui incite à une extrême prudence. D’autant plus que les conclusions de M. Petoletti vont dans le même sens: lors du colloque qui s’est tenu ici même en 2015, après avoir donné un état très précis de la question 51 et insisté sur les difficultés de l’enquête paléographique à mener pour vérifier la compatibilité entre la main attribuée à Pétrarque dans A et les témoignages de son écriture dont nous disposons à partir de 1335, il a démontré, cette fois par une étude du contenu de plusieurs interventions attribuées au jeune Pétrarque dans A qu’elles étaient révélatrices d’un niveau de connaissances d’une faiblesse difficilement conciliable avec la stature intellectuelle qui sera la sienne 52. Affaire à suivre, donc, mais ces résultats me semblent déjà suffisants pour signaler par le sigle Ap? l’incertitude actuelle sur les interventions attribuées à Pétrarque dans A 53. Comme l’avait déjà établi M. Reeve 54, la synthèse qui a eu lieu en Italie entre les deux traditions pour les livres 26 à 30 est de toute façon antérieure à Pétrarque. La datation et la localisation de cette synthèse restent encore à déterminer. Or les recherches récentes de P. Stoppacci sur Gerbert de Reims invitent à se poser ces questions pour un autre manuscrit, notre Bamberg, Class. 35 (B), qui présente lui aussi cette synthèse, mais dans une moindre mesure, puisqu’elle ne concerne que la fin du livre 30. On savait qu’une synthèse avait eu lieu encore plus tôt, en Allemagne, à Bamberg, dans le courant du xie s. Ce sont justement cette localisation et cette datation qu’il faut peut-être revoir.
Fiorilla 2012, 106-122. Petoletti 2019b, 278-283. 52 Petoletti 2019b, 283-286. 53 Elles sont signalées comme Ap dans les éditions de Tite-Live, depuis celle de Dorey 1971 jusqu’à celle de Briscoe 2016. Mention de l’incertitude dans Briscoe 2018, 153, n. 1. 54 L’exemple le plus clair est sa démonstration que les corrections et compléments spirensiens dans N ne sauraient être postérieurs au premier quart du xiiie s. Cf. Reeve 1987b, 408-409. 50 51
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Gerbert et B L’étude menée par P. Stoppacci des annotations marginales dans le manuscrit B 55 contribue en effet à confirmer l’hypothèse d’une identification de cette main (dénommée α par H. Hoffmann 56) avec celle de Gerbert de Reims 57 (c. 950-1003), qui fut écolâtre de Reims, abbé de Bobbio (983-984), archevêque de Reims (991998) puis pape sous le nom de Sylvestre ii (999-1003). P. Stoppacci retrouve les caractéristiques de la main de Gerbert mises en lumière notamment par M. Passalacqua 58 dans les annotations qui apparaissent sur la partie de B contenant la troisième décade. Il convient ici de préciser que le manuscrit B, dans son état actuel, est le résultat d’une erreur de reliure au xviie s., qui a rassemblé dans le mauvais sens deux manuscrits au départ autonomes, l’un contenant la 4e décade (section I, f. 128-207) et l’autre la 3e à partir de 24,7,8 (section II, f. 1-127 59). La main identifiable avec celle de Gerbert n’apparaît que dans la section contenant la 3e décade. Les interventions de cette main sont de trois sortes: elle corrige ou complète le texte, en utilisant des signes de correction ou de renvoi qui se retrouvent dans d’autres manuscrits liés à Gerbert. Elle signale également certains passages, qu’elle résume notamment par des titres en marge 60. Je ne m’intéresserai ici qu’aux interventions que P. Stoppacci a relevées dans le complément dit spirensien de B soit après 30,42,21 (f. 126va ante ictum) parce que, si elles sont vraiment dues à Gerbert, elles permettraient d’éclaircir l’histoire de la transmission de la tradition spirensienne. 55 Accessible en ligne: https://zendsbb.digitale-sammlungen.de/db/0000/ sbb00000098/images/ 56 Hoffmann 1995, 132. L’identification de cette main α qui annote plusieurs manuscrits d’auteurs classiques vers la fin du xe s. n’est pas certaine. Cf. Munk Olsen 1982-2020, IV 2, 2014, 399-400; Stoppacci 2017, 273. 57 Sur Gerbert, cf. Jullien 2010; Stoppacci 2016, 3-54, étude très fouillée de l’intérêt que Gerbert portait aux auteurs classiques pour son enseignement du triuium; liste des autographes attribuables à Gerbert 142-146; Stoppacci 2017 porte spécifiquement sur l’hypothèse d’une intervention de Gerbert dans B. 58 Stoppacci 2017, 273 n. 29 pour les références bibliographiques. 59 La numération des folios date de l’époque moderne. Cf. Stoppacci 2017, 271272 pour la description codicologique de B. 60 Stoppacci 2017, 277-285, avec en 281-285 la transcription des annotations marginales qui résument le contenu d’épisodes importants. Il n’y en a que deux dans le livre 30, pour des passages transmis dans B par la tradition du Puteaneus, la mort de Magon (30,19,4, f. 117va) et le rappel d’Hannibal en Afrique (30,19,12, f. 117vb).
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Ces interventions sont au nombre de deux: un signe de nota au f. 126vb, en correspondance de 30,42,21 (per eosdem inquit Hasdrubal, réponse d’Hasdrubal Haedus concernant les dieux qui garantiront le traité de paix) et surtout une note en tachygraphie syllabique italienne 61 sur le f. 127rb, après le dernier mot de la décade (liquerunt). Ce type d’écriture est très rare à cette époque, mais son usage est bien attesté pour Gerbert 62. Je ne suis pas convaincue par l’attribution à Gerbert du signe de nota du f. 126 vb. Il ne ressemble pas, à mon avis, à l’autre et unique signe de nota relevé pour Gerbert par P. Stoppaci (f. 6va, 24,24,7, récit des massacres à Syracuse) qui, lui, est très similaire aux signes de nota qu’on lui attribue dans d’autres manuscrits 63. Dans le signe de nota du f. 126vb, en effet, le -o- n’est pas inscrit dans la haste montante finale du N, mais en-dessous, avec de surcroît l’ajout du -a- au-dessous du -o-, deux éléments qui n’apparaissent pas, à ma connaissance, dans les nombreux signes de nota attribuées à Gerbert dans d’autres manuscrits 64. Autre élément qui m’incite à douter: l’indication nota me portée dans l’intercolonne un peu plus bas sur le même folio, pour signaler l’incendie de la flotte carthaginoise (30,43,12). Je n’en ai pas trouvé d’équivalent pour Gerbert, et elle me semble de la même encre que le signe de nota que lui attribue P. Stoppacci dans ce folio. La note en tachygraphie syllabique italienne serait un élément déterminant, mais P. Stoppacci n’en donne malheureusement pas de transcription et, pour l’instant, ni elle ni moi n’avons réussi à trouver qui saurait la déchiffrer. Le seul point qui me semble certain est qu’il ne s’agit pas de la signature de Gerbert, bien connue grâce aux travaux de J. Havet 65. Stoppacci 2017, 280-281. Cf. l’extrait du folio reproduit dans la figure 2. Munk Olsen 1982-2020, IV 2, 2014, 399; Hoffmann 1995, 27-28; Havet 1887a et 1887b, auquel revient le mérite d’avoir percé le mystère de cette écriture, en partant de son emploi dans les manuscrits de la correspondance de Gerbert. 63 Stoppacci 2017, 280, n. 60. 64 J’ai vérifié sur les très nombreux signes de nota apparaissant dans Bamberg Class. 25 (commentaire de Marius Victorinus à Cicéron, de Inventione) et Class. 44 (Ps. Q uintilien, Declamationes maiores), ainsi que sur les planches jointes à Passalac qua 2003 (planche 6 London, BL, Royal 15.A.xxxxiii, f. 198v, Commentaire de Rémi d’Auxerre à Martianus Capella; planche 7 London, BL Harley 2736, Cicéron, De oratore f. 3r). 65 Havet 1887a, notamment planche I. Havet 1887b, 368-374 fournit un catalogue très utile des caractères déchiffrés dans les documents qu’il a étudiés (actes notariés du nord de l’Italie, lettres et bulles de Gerbert). J’ai également consulté les 61 62
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Si Gerbert est vraiment l’auteur de cette deuxième intervention, cela voudrait dire qu’il a eu accès à une version du livre 30 complété par la tradition spirensienne. Ce complément aurait alors été copié sur B à la fin du xe s., et non dans le courant du xie, comme on le pense habituellement. L’hypothèse se heurte toutefois à un obstacle: une des mains qui a copié la fin du manuscrit B est fort semblable à la main principale qui a copié la 4e décade 66. M. Reeve 67 avait aussi remarqué que la réglure du f. 127, qui a été rajouté pour copier la fin de la 3e décade, est la même (38 lignes) que celle du début de la 4e décade, alors que la réglure pour le reste de décade transmis par la tradition du Puteaneus est de 37 lignes (jusqu’au f. 110) puis de 35 (f. 111126). Il notait également que la disposition de l’explicit du livre 30 était plus proche de ceux des livres de la 4e décade que de ceux de la 3e. Ces derniers éléments ne sont peut-être pas déterminants, dans la mesure où le copiste de la 4e décade a pu se conformer à Bamberg aux critères adoptés pour le complément à la fin de la 3e, mais le problème de l’intervention d’un même copiste dans les deux décades demeure, même si selon B. Bischoff 68, la 3e décade a certainement été copiée une génération avant la 4e, ce qui ne simplifie pas les choses! Q uelle est l’incidence de cette hypothèse d’une intervention de Gerbert sur la fin du livre 30 pour l’histoire de la transmission? Il faut déjà souligner que, si le supplément dit spirensien de B remonte à la même source (Σ) que le manuscrit de Spire, il n’est pas du tout un descendant du manuscrit de Spire, comme le laisse penser l’adjectif traditionnel par lequel on le qualifie. Il est à mes yeux fort probable que la source dite spirensienne des livres 26 à 30 (Σ) soit l’un des deux manuscrits offerts à Othon III par Jean Philagathos à Plaisance autour de l’an 1000, c’est-à-dire le manuscrit dont L. Traube 69 a montré qu’il était justement le modèle sur lequel a été copiée la partie du manuscrit B contenant la 4e décade. S. Oakley relève en effet avec raison que le manuscrit en onciale répertoires de signes tachygraphiques syllabiques dans l’excellente synthèse de Chatelain 1900, 152-176, mais sans succès. Je n’ai pas pu avoir accès à G. Costamagna, Il sistema tachigrafico usato dai notai medioevali italiani (sec. 8-11), Genova 1953. 66 Reeve 1987a, 150; Hoffmann 1995, 132 (main F). 67 Reeve 1987a, ibid. 68 Cité par Reeve 1986, 154, n. 1. 69 Cf. de Franchis 2015, 14-15.
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du ve s. av. J.-C., dont des fragments des livres 33, 34, 35 et 39 sont réapparus à Bamberg au début du xxe s. et du xxie s. (= Fragmenta Placentina ou Bambergensia des éditeurs de la 4e décade 70), devait contenir aussi les livres 26 à 30. Sinon, nous n’avons pas de source antique pour la tradition dite spirensienne de la 3e décade 71. Q uelques précisions sur les livres offerts à Othon III par son ancien précepteur, Jean Philagathos 72. Nous savons, grâce à une note contenue dans un manuscrit aujourd’hui conservé à Bamberg, Staatsbibliothek Med 1, f. 42v, que parmi ces livres figurait Titi liuii non minimam partem. La litote non minimam partem a été barrée et l’on a rajouté dans l’interligne duos libros. On identifie en général 73 ces duos libros aux manuscrits de Bamberg de la 1ère décade (Class. 34) et de la 4e décade réduit en fragments (Class. 35a). La litote non minimam partem autorise, me semble-t-il, à considérer que le manuscrit contenant 31-40 contenait aussi 26-30. Othon III aurait été ainsi en possession de la quasi-totalité de l’œuvre de TiteLive circulant au Moyen âge 74. Il ne lui aurait manqué que le début de la 3e décade (21-25). L’hypothèse aurait donc une incidence sur la circulation de notre manuscrit de la 3e décade, entre Reims et Bamberg. Est-il arrivé à Bamberg depuis Reims, par l’intermédiaire de Meinhard, qui avait étudié à Reims, comme on le pense habituellement 75, ou bien a-t-il suivi un autre itinéraire? On peut penser à l’Italie, où il aurait été ajouté aux livres d’Othon III qui ont été ensuite légués à Henri II, lequel en a fait don à Bamberg. En effet, si le com-
70 Bamberg, Staatsbibliothek, Class. 35a. En ligne. Stoppacci 2017, 267-268 et n. 10 pour les références bibliographiques. 71 Oakley 2016, 170-171. 72 Hoffmann 1995, 6-12. Stoppacci 2017, 266-268. Sur le rôle joué par les milieux liés aux cours royales et impériales pour la circulation et la diffusion des décades liviennes aux ixe et xe s. dans le cadre de la renovatio imperii, cf. Villa 2019, en particulier 230-232 sur les livres d’Othon III. Sur l’importance de l’Italie du Nord dans la migration des classiques au cours du haut Moyen âge, cf. Petoletti 2019a. Sur la circulation en France et en Allemagne des intellectuels italiens et de leurs livres à la période post-carolingienne (900-1050) cf. Vocino 2020. 73 En dernier lieu Stoppacci 2017, 266-267; Petoletti 2019a, 557. 74 La 5e décade n’a été retrouvée qu’au xvie s. Cf. de Franchis 2015, 4 et 17. 75 Sur la présence de Tite-Live à Reims à l’époque de Gerbert, attestée notamment par la mention de libros Titii Libii ab urbe condita C decades qui clôt la liste de livres figurant au f. 61v du manuscrit München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 14436 (fin xe - début xie s.) cf. Hoffmann 1995, 23-24 et la synthèse de Stoppacci 2017, 269-271.
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plément dit spirensien a été lu et annoté par Gerbert, il n’a pas pu être ajouté à Bamberg, mais là où se trouvaient ensemble Othon et Gerbert, au tournant de l’an mille, pour ne pas entrer plus avant dans les difficultés posées par les incertitudes chronologiques. Il n’y a que deux espaces géographiques envisageables: la cour d’Othon III en Germanie, à Magdebourg, où Gerbert a séjourné au printemps 997 76, ou bien l’Italie, où se trouvaient Othon et Gerbert en 996, puis entre 998 et 1003 77. Impossible d’aller plus loin, tant que le mystère de la note en tachygraphie syllabique italienne de la fin du livre 30 n’est pas résolu. La mise en question du rôle de Pétrarque dans A, ainsi que les difficultés posées par la datation du complément Σ à la fin du livre 30 dans B ont, dans l’immédiat, un intérêt pour l’édition des livres 26 à 30: elles encouragent à approfondir l’enquête dans les manuscrits de la tradition du Puteaneus, dont sont issus les manuscrits A et B, pour l’essentiel de leur texte. Or, depuis la fin du xixe s., les éditeurs de ces livres ont été enclins à dévaloriser cette tradition, au profit de la tradition dite spirensienne, considérée comme supérieure 78. Cette valorisation – excessive – de la tradition Σ présente un danger: nous faire perdre de vue que nous ne la connaissons que de manière fragmentaire. Le plus souvent, notre seul accès à elle est justement la tradition du Puteaneus. La tradition spirensienne a en effet surtout servi à compléter et à corriger la tradition de P. C’est la tradition de P qui a toujours été la plus diffusée. Donc, pour espérer des progrès dans la connaissance de la tradition Σ, il faut continuer à explorer les très nombreux manuscrits italiens de la famille Λ 79, et même élargir l’investigation aux premières traductions en langue vulgaire, dans l’espoir de préciser ses modes de diffusion 80. N’oublions pas qu’A. Luchs avait eu le bonheur de trouver le manuscrit qui reste notre meilleur témoin de la tradition spirensienne dans H, un manuscrit florentin du xve s. Cf. Riché – Callu 2008, x-xi. Jullien 2010, 109. Othon meurt près de Rome en janvier 1002, Gerbert à Rome en mai 1003. 78 Cf. notamment Walsh 19892 (1982), xii-xiii; 1986, ix; Oakley 2011, 168 n. 1 réévalue le choix de François 1994 de pas imprimer plus de leçons spirensiennes dans son édition du livre 29; de Franchis 2015, 13 souligne les différences souvent minimes entre les deux branches; Oakley 2016, 182, n. 83 constate la tendance plus fréquente à la paraphrase dans la tradition Σ que dans la tradition de P. 79 Dans ce sens, Reeve 2017, 10-11. 80 Reeve 2017, 6-9; Burgassi 2019. 76 77
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qui, en dehors d’un long passage des livres 29 et 30 (29,3,15 – 30,21,11-12), appartenait à la tradition du Puteaneus. Dans cette perspective, je vais vous présenter pour finir les résultats auxquels je suis parvenue au cours de mon enquête dans les manuscrits italiens de la famille Λ, en vue de l’édition de la fin du livre 30.
La diffusion de la 3e décade en Italie aux xiie-xiiie s. J’ai vu beaucoup de manuscrits italiens pour essayer de démêler l’écheveau des filiations dans le texte qu’ils donnent pour la fin du livre 30 (30,41,6 ex duabus – 45,7): ce texte provient-il de la tradition de P ou de celle dite de Spire? Je pensais pouvoir ainsi éclaircir les modalités de diffusion de la tradition spirensienne en Italie, mais j’ai dû me limiter car c’est une très longue enquête, qui dépasse le cadre d’une édition d’un seul livre. Il restait de toute façon nécessaire de déterminer l’origine du texte à partir de 30,41,6 dans ces manuscrits, comme M. Reeve l’a fréquemment souligné, en raison de la diffusion importante du supplément α 81. J’appelle, pour simplifier, supplément α le texte que certains manuscrits italiens des xive-xve s. ajoutent après 30,41,6 (duabus), soit 30,42,15 (raro) – 44,6 (risum esse), précédé de l’intrusion avant raro, de exploratoribus ua-. J’ai vu notamment dans les manuscrits italiens 82: – Napoli, Biblioteca Nazionale, Vindobonensis lat. 33 (= Q ). xiie s. – Leiden, Bibliotheek der Rijksuniversiteit, Vossianus lat. fol. 21. (Drakenborch Vossianus primus). xiiie s. – Valencia, Archivo de la Catedral, 173 (= Val). xiii3/4 s. – Holkham Hall, Library of the Earl of Leicester 83 344 (Drakenborch Lovelianus primus). xiii4/4-xiv1/4 s. 345 (Drakenborch Lovelianus secundus). xv2/4 s. Reeve 1986, 155-161; Reeve 1987a, 141-149; Reeve 1987b, 428, n. 2. En consultation directe, complétée sur microfilm à l’IRHT pour Holkham Hall 345, 350, 351 et 352, Montpellier H115, ou sur photocopies pour Genève 177. En ligne ou sur reproduction digitale pour les manuscrits de Leiden, de Valence et de Besançon. 83 Voir désormais sur ces manuscrits les très riches notices de Reynolds 2015, 211-241. 81 82
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349 (Drakenborch Lovelianus tertius). xv2/4 s. 350 xve s. (1450-1460). 351 (Drakenborch Lovelianus quartus). xve s. (1470). 352 (Drakenborch Lovelianus quintus). xv3/4 s. – Montpellier, Bibliothèque de la Faculté de Médecine, H 115. Début xve s. – Genève, BPU 177. xve s. – Besançon, Bibliothèque municipale, 838. xve s. (1450). J’ai abouti à la conclusion que seulement deux manuscrits, Q et Val ont un rôle, un rôle modeste, certes, mais un rôle à jouer dans l’établissement du texte de la fin du livre 30. Cette longue enquête n’a toutefois pas été inutile. Elle m’a permis de comprendre une particularité de Q et donc d’éliminer la famille α des témoins nécessaires à l’édition de cette partie du livre. Q et la famille α Je vais d’abord retracer l’histoire de la découverte de Q et de son importance, de manière plus précise que je ne l’ai fait auparavant 84. La découverte de Q et de l’irruption de 30,42,15 – 44,6 dans la partie du manuscrit couvrant la première décade, après 5,39,3 exploratoribus (f. 41rb-41va) sont dues à G. Billanovich 85. Ce manuscrit du milieu du xiie s., qui contient la première décade (f. 1ra76rb) et la troisième (f. 77ra-156vb) a été identifié par M. Reeve comme le témoin le plus ancien de P copié en Italie actuellement connu 86. Q est particulièrement important pour la fin du livre 30 car, transmettant la tradition de P plus loin que les autres descendants de Λ, qui s’arrêtent tous en 30,41,6 87, il constitue notre seul point ce comparaison pour apprécier la valeur de C sur 30,42,21 – 44,6 88. Je précise que «una mano umanistica» 89 a ajouté ce supplément à la fin du livre 30, à partir de l’avant-dernière ligne du de Franchis 2000, 25-26; 2015, 11. Billanovich 1981, 227-229. 86 Reeve 1987a, 140 qui lui a assigné le sigle Q . 87 Cf. ma description des manuscrits. O Ch a perdu ses derniers feuillets après 30,36,2. 88 B a été complété par une source spirensienne à partir de 30,42,21. Cf. supra. 89 Billanovich 1986, 113. 84 85
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f. 156rb jusqu’au f. 156vb (exploratricibus yarato simul-risum esse). Il y a sur cette colonne de nombreux blancs, à partir de in etruria pro 90 (30,41,3), plus ou moins là où s’arrêtent les membres de la famille Δ, indice des dommages subis par Λ. Une autre main, d’une encre plutôt grise, a ensuite continué, de qui tamen à externis bellis (30,44,7), à partir d’un modèle contaminé 91. Ce dernier folio a perdu son coin supérieur droit, ce qui rend le texte du f. 156va très lacunaire entre 30,42,16 eo [inuictum] et 30,43,2 exer[citum] deportare. G. Billanovich avait reconnu dans ce ‘supplément’ du livre 30, incorporé par erreur 92 dans le livre 5 dans Q , un indice de la circulation de la ‘lezione padovana’, c’est-à-dire de la circulation dès le xiiie s. dans la région de Padoue des trois décades connues au Moyen Âge, sous l’égide de Lovato Lovati. Il avait identifié et regroupé plusieurs recentiores qui présentaient ce supplément: «Q uesta grege di nipoti del testo ricuperato da Lovato» 93. Or, quand McDonald, à la suite des hypothèses de G. Billanovich sur le rôle déterminant de Pétrarque dans la constitution du texte des trois décades liviennes alors connues, a mené une vaste enquête dans les manuscrits italiens des xive-xve s. (plus de 90) pour éditer les livres 31 à 35 94, sa répartition a été mise en cause par G. Billanovich 95, en particulier pour avoir inclus dans le groupe qu’il nomme α des manuscrits qui provenaient de ce texte circulant avant Pétrarque dans le Nord-Est de l’Italie 96. McDonald avait en effet rassemblé dans son groupe α des manuscrits de la 4e décade, mais dont certains des membres les plus anciens transmettaient aussi la 3e, selon la tradition du Puteaneus, avec ce supplément de 30,42,15 – 44,6, précédé de l’intrusion exploratoribus ua- 97. Selon McDonald, les manuscrits de la famille α descendaient tous de φ (un ancêtre perdu
La main d’époque humaniste a complété pro- en profectus est. Leçons spécifiques (30,44,6): omission de adeo; intempestive pour intempestiuus, comme Ap? et V; horrentes pour abhorrentes, comme Ns. 92 Certainement à cause de l’insertion d’un feuillet égaré dans le modèle de Q pour la 1ère décade. Cf. Oakley 1997-2005, I 233. 93 Billanovich 1981, 308-309, complété dans Billanovich 1986 51 et Reeve 1986, 156 n. 3. 94 McDonald 1965. 95 Billanovich 1986, 51. 96 Reeve 1986, 138. 97 Par exemple Holkham Hall 344 et Leipzig, Rep. I, fol. 1. Cf. Reeve 1987a, 141. 90 91
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M. DE FRANCHIS
permettant de remonter au Vetus Carnotensis 98) et des corrections de Landolfo Colonna et de Pétrarque dans Paris, BnF, lat. 5690 (= P dans la 4e décade, L dans la 3e), et de Pétrarque dans London, British Harley 2493 (A). Les difficultés apparues dans la reconstruction de Billanovich pour concilier le rôle déterminant attribué à Pétrarque et la circulation précoce des décades dans la région de Padoue, ont incité M. Reeve à revoir la transmission des livres 26 à 40 et à s’intéresser à cette famille α 99. C’est à cette occasion qu’il a découvert que Q était l’ancêtre d’une vaste famille de manuscrits des xivexve s. appartenant à ce groupe α mis en évidence par McDonald pour la 4e décade 100. Une de leurs caractéristiques dans la 3e décade (en dehors d’erreurs et d’omissions spécifiques 101): s’arrêter en 30,44,6, avec une lacune entre 30,41,6 et 30,42,15. Mais ce supplément se retrouve aussi dans des manuscrits italiens qui n’appartiennent pas au groupe α, en dehors de ce passage. C’est par exemple le cas de H, qui ne se rattache à la famille α que pour le supplément du livre 30 102. Mes premières collations de Q ayant été celles du folio final 103, je me suis retrouvée face au problème suivant: comment expliquer la présence dans α d’un terme absent du supplément copié sur le dernier folio de Q ? d’où vient heduus / hedinis (pour haedus en 30,44,5 cf. tableau ci-dessous) dans α, alors qu’il ne figure pas dans le dernier folio de Q 104? C’est cette difficulté qui m’a mise sur la voie d’une particularité de Q : le lecteur de l’époque humaniste qui a rajouté le supplément à la fin du livre 30 après 30, 41,6 ne l’a pas trouvé dans le livre 5 et recopié à la bonne place, comme on aurait pu s’y attendre 105. 98 Cf. de Franchis 2015, 14-17 pour une présentation des principaux aspects de la transmission de la 4e décade. 99 Reeve 1986, 138-143. 100 Reeve 1986, 156-157; 1987a, 141-149. L’indice est l’inclusion de exploratibus ua- avant raro (plus ou moins corrompu) dans le supplément α. Démonstration détaillée de ce processus et de la disparition qui tamen en 30,44,6 dans Reeve 1987a, 144 et Oakley 1997-2005, I 233-237. 101 Reeve 1987a, 144. 102 Reeve, 1987a, 148. Sur la difficulté de définition du groupe α dans la 3e décade, cf. Reeve, 1987a, 144-145. 103 Ce sont celles que je cite dans de Franchis 2000, 28. 104 de Franchis 2000, 28. 105 Sa manière de faire donne toutefois des indications intéressantes sur l’usage
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Son texte présente en effet plusieurs différences avec le passage inséré dans le livre 5 au f. 41, comme le montre le tableau ci-dessous 106. J’ai fait figurer dans ce tableau les différences entre le texte transmis par Q dans le passage inséré par erreur dans le livre 5 (f. 41) et celui qui figure à la bonne place (f. 156). À titre de comparaison, j’ai indiqué les leçons de deux témoins du supplément α: – Leiden, Bibliotheek der Rijksuniversiteit, Vossianus lat. fol. 21 (= Drakenborch Vossianus primus). M. Reeve a identifié en lui l’intermédiaire qui a donné naissance à notre famille α et a remonté sa datation au xiiie s. 107. – H parce qu’il est représentatif de l’expansion de ce supplément dans les recentiores.
Q f. 41 (Liv. 5)
Q f. 156 (Liv. 30)
∅
ex? eo c
eo interl. cum
eo
exploratoribus raro
exploratoribus yarato
exploratoribus uararo
exploratricibus yarato
42,16 populum Romanum
.p r.
-o -o
-um -um
-o -o
eo inuictum
eo inuinctum
eo lac.
eo inuictum
eo uictum
meminerit
-rint
lac.
-rint
-runt
mirandum fuisse
-dus fuisses
lac.
-dus fuisses
-dus fugisset
42,17 populo Romano
.p r.
lac.
-um -um
-o -o
insanire
-nire
lac.
-niare
-niare
42,18 orbem prope
orbem prope 108
lac.
prope orbem
prope orbem
42,19 cernere
cernere
lac.
cernere
tenere
43,3 rogas
rogas
rogassent
rogas
rogassent
43,4 ei uideretur
euideretur
ei uideretur
euideretur
ei uideretur
41,6 ex (duabus) 42,15 raro
ua
Voss. Lat. F21
H
(cont.)
d’un manuscrit regroupant plusieurs décades: Il n’était pas visiblement pas lu en continu. 106 c = correction; interl. = ajout dans l’interligne; lac. = lacune; om. = omission. add. post. = addition postérieure. J’ai mis en gras les différences entre Q f. 156 et Q f. 41. 107 Reeve, 1987a, 144-146; 1996. 108 Le copiste a rajouté orbem au-dessus de prope terrarum, mais avec un signe d’insertion pour le remettre entre modo et prope. Ce signe a dû échapper à α.
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M. DE FRANCHIS
Q f. 41 (Liv. 5)
Q f. 156 (Liv. 30)
43,5 conloqui
conloqui
loqui
loqui
loqui
43,6 haberent
haberent
habuerunt
haberent
habuerunt
43,9 priuos
prius
primos
prius
primo
sagmina
sagmina
sanguinea
sagmina
sanguinia
43,10 cum (in Africam)
cum
et
cum
cum
ante
ante
antea
ante
ante
43,12 tradunt
tradunt
tradiderunt
tradunt
tradiderunt
43,12 quam si
quam si tum
quasi tunc
quam si tum
quasi tunc
44,1 consulibus
cos̅
consul ?
cos̅
consule
44,2 ti.
t.
c.
t.
44,2 (sempronio) consulibus
cos̅
consul
consule -ibus
consulibus
44,2 (paeto) consulibus
consuli.
consulibus
consulis -ibusc
consulibus
44,3 cn.
c¯
gn.
cn.
gn.
44,5 haedus
heduus
om.
heduus
hedinis
44,6 amentis
amantis
amentis
amentis
amentis
44,6 malis
malis
magis
malis
magis
qui tamen
qui tamen
qui tamen … bellis add. post.
∅
∅
cat
Voss. Lat. F21
H
r. c
La comparaison entre le texte du dernier folio de Q et celui figurant dans le livre 5 révèle que celui du dernier folio est corrompu par rapport au passage intercalé dans le livre 5. Il est proche de celui de H, qui n’appartient pas à proprement parler à la famille α, mais qui a ‘récupéré’ ce supplément. Pour l’établissement du texte, c’est ici le moment ou jamais de pratiquer l’eliminatio codicum: le témoin à retenir pour cette portion du texte est Q f. 41 et non α. Je peux donc éliminer cette famille et tous ses problèmes. En revanche, étudier la diffusion de ce supplément α reste utile pour éclairer l’histoire de la transmission du texte de P en Italie. A-t-on des traces de la diffusion du supplément caractéristique de la famille α dans des manuscrits qui n’appartiennent pas à cette famille, non pas aux xive-xve s., mais au xiiie s.? C’est justement le cas du manuscrit de Valence. 68
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Le manuscrit de Valence Là encore, l’intérêt de ce manuscrit, qui contient la 1ère et la 3e décade 109, a été mis en lumière par G. Billanovich 110, qui y a notamment reconnu l’intervention de Valla dans la 3e décade. Il est donc particulièrement intéressant comme point de comparaison pour identifier et apprécier les interventions de Valla dans A, même si les doutes actuels sur le rôle de Pétrarque dans A rendent la question moins cruciale. Ses rapports avec N et A ont été étudiés par A. Borghi 111. Il a été examiné par M. Regoliosi pour les Emendationes de Valla, et elle a montré que plusieurs des conjectures de ses deux rivaux, Facius et Panormita provenaient certainement de ce manuscrit 112. M. Reeve 113 conclut à son rattachement à la famille Λ dans la 3e décade. La qualité de ses enluminures a suscité l’intérêt des historiens de l’art 114. M. Reeve s’est appuyé sur leurs études pour remonter sa datation autour de 1290 115. En 30,41,6 (f. 205va), il a un étrange comportement, du point de vue textuel, comme l’a relevé Billanovich 116: il s’interrompt au milieu d’une ligne, après classis ex duabus, comme Λ, en laissant un blanc de vingt lignes, soit un peu moins d’une demi-colonne de texte, et reprend sur la colonne b, environ au tiers de la ligne, et non au début, avec raro simul hominibus. Ce blanc, insuffisant pour contenir le texte manquant, entre 30,41,6 classibus et 42,15 pacis condiciones quas nunc peterent a été comblé sur une colonne de 42 lignes 117, par une autre main, contemporaine d’après Billanovich 118, à l’encre plus foncée, jusqu’à 30,42,4 postula-, de manière à compléter le texte entre (postula)-
109 Il est un témoin de la famille Λ pour la 1ère décade, cf. Oakley 1997-2005, I 159 et 191-215 (sigle Y). 110 Billanovich 1958. 111 Borghi 1974. 112 Regoliosi 1981a, 288-305; 2005, 36. 113 Reeve 1987a, 156-159; 2017, 5. 114 Sur sa place parmi les manuscrits enluminés de Tite-Live, cf. la contribution de Giulia Simeoni dans le présent volume. 115 Reeve 1996b, 107-113, au lieu du milieu du xive s. selon Billanovich 1958, 266, voire du xve s. selon Olmos y Canalda 1943, 129-130. 116 Billanovich 1958, 270 et 273; 1986, 87; Reeve, 1987a, 158. 117 Les colonnes des ff. 205v et 206ra sont de 50 lignes. 118 Billanovich 1958, 270.
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M. DE FRANCHIS
tum 119 et condiciones. On note au bas du f. 205va une indication de renvoi vers le f. 206v. Cette autre main a aussi rempli le début de la première ligne de la colonne b avec 30,42,15 quas nunc peterent, soit les trois mots précédant raro dans la continuité du texte. Ce passage à l’encre plus foncée suit la tradition spirensienne, comme les compléments qui se trouvent dans N et dans A après 30,41,6 120. En voici quelques exemples 121: 30,41,7 quas habuisset haberet CB: haberet quas habuisset NsAp?Val εΘL 30,41,7 praefuisset CBAx Θ: predefuisset NsAp?Val εL 30,41,9 urbanas legiones CB: legiones urbanas NsAp?Val εΘL 30,42,6 populatores transcenderent CB: transcenderent populatores Ns(-ced-) Ap?Val εΘL 30,42,8 quod (sociis) NsAp?Val εΘL: quo CB 30,42,14 ne NsAp?Val εΘL: om. CB Après 30,44,6, le premier copiste continue presque jusqu’à la fin du livre 30, cognomine (et non cognomina) familie. Il manque, comme dans N et A, le dernier mot (fecerunt C, liquerunt B). Cette dernière portion de texte suit aussi la tradition de Spire, comme le complément présent dans les manuscrits N et A après 30,41,6: 30,44,7 otio C: odio B NsAp?Val εΘL 30,44,8 diu C: om. B NsAp?Val εΘL 30,44,9 sed suis … onerantur B NsAp?Val εΘL: om. C 30,44,11 hannibal apud carthaginienses B NsAp?Val εΘL: apud carthagines hannibal C 30,44,13 legatos B NsAp?Val εΘL: -tis C 30,45,1 militum nauibus missa ipse per B NsAp? εΘL: om. C om. militum Val 30,45,4 haud ita CValcAx εΘL: audita B NsAp?Val 30,45,7 huius B NsAp?Val εΘL: hoc C Erreur de Val pour postulantium. Billanovich, 1958, 270. 121 J’indique par Ax les corrections portées sur A. 119 120
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ÉDITER LA TROISIÈME DÉCADE DE TITE-LIVE: BILAN ET PERSPECTIVES
À présent, d’où vient le texte entre 30,42,15 (raro simul) et 30,44,6 (risum esse), soit ce qui correspond au supplément α? La comparaison avec Q (f. 41) et avec le supplément α fait ressortir les éléments suivants: Tout d’abord l’absence de exploratoribus ua- avant raro. Au vu de la position de raro au tiers de la ligne 1 (f. 205vb), on serait tenté de supposer que exploratoribus ua- a été effacé 122 par le second copiste (à l’encre plus foncée) pour écrire quas nũc peterent. Les deux expressions occupent en effet le même espace (17 caractères, espaces comprises). Mais, si grattage il y a eu, il a été très bien fait et se discerne seulement au niveau du ra- de raro. La copie digitalisée ne permet pas, à mon sens, de lever le doute exprimé par M. Reeve à l’examen du microfilm 123. À la fin du passage, le copiste ne s’arrête pas à risum esse, comme la famille α, mais continue avec qui nequaquam adeo est … Tamen, omis, a été rajouté entre qui et nequaquam à l’encre plus foncée (le second copiste?). Je rappelle que Q donnait qui tamen, qui a disparu dans α. La présence de nequaquam nous indique toutefois que le copiste avait un modèle où le texte continuait sans rupture (sauf le tamen?) après risum esse, et suivait à partir de là, nous l’avons vu, la tradition spirensienne. Entre 30,42,15 et 30,44,6, en revanche, Val est très proche de Q , et de C 124. J’ai en effet relevé une trentaine d’erreurs communes avec C et Q , notamment: 30,42,17 obsoleta] ex ipsa laeta C Q Val 30,42,18 commemorantium] -ratio C Q Val 30,42,19 in ea] in ea moenia C Q Val 30,43,4 ex hac] in hac C Q Val; decem] xx C Q Val 30,43,5 et petierunt] petierunt C Q Valc om. Val
122 Si grattage il y a eu, il a été très bien fait. La copie digitalisée ne permet pas de conclure sur ce point. 123 Reeve, 1987a, 158. 124 Il est moins proche de B, qui suit la tradition du Puteaneus jusqu’en 30,42,21 (eos per quos): en 30,42,17 B donne ex opsoleta, et n’a pas l’omission de C et Q . En 30,42,18, il transmet lui aussi commemoratio; en 30,42,19 il n’a pas l’interpolation moenia et transmet bien quo. Je laisse de côté quelques erreurs propres de Val, communes le plus souvent avec H, celles que je relève ici: 42,18 prope orbem (provient de α); 42,19 tenere (pour cernere), 43,3 rogassent (pour rogas), loqui (pour conloqui, provient de α); 43,12 tradiderunt (pour tradunt).
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M. DE FRANCHIS
30,44,1 a. manlio] cum alio C Q Val 30,44,3 exitio] exitium C Q Val 30,44,5 haedus] heduus C Q Val Omissions 30,42,17 uictis quam uincendo] om. C Q Val 30,42,19 quo] om. C Q Val quoque ΘL 30,43,6 esse] om. C Q Val 30,44,2 est] om. C Q Val Ordre des mots 30,43,7 ex iis redimendi] redimendi ex his C Q Val 30,43,9 fetialibus dari] dari fetialibus C Q Val 30,43,12 in altum incendi] incendi in altum C 125 Q Val Le manuscrit de Valence est donc un témoin supplémentaire de la mise en relation des deux traditions en Italie, avant Pétrarque, mais cette mise en relation ne s’est pas faite de la même manière que dans les autres manuscrits italiens. J’insiste sur l’étrangeté du blanc qui interrompt le texte entre 30,41,6 et 30,42,15. Le copiste de la fin du xiiie s. a-t-il conscience de la lacune ou reproduit-il ce qu’il trouve dans son modèle? En tout cas, le comportement de Val est différent à la fois de celui des autres descendants de Q (famille α 126) et de celui des autres descendants de Λ, comme N et A, qui sont complétés par une source spirensienne à partir de 30,41,6. Le manuscrit de Valence est à mon avis inutile à retenir pour l’établissement du texte, mais il a un intérêt pour l’étude de la tradition. Je donne en annexe la liste des leçons propres de Val sur 41,6 – 45,7 avec l’indication de celles qui se retrouvent dans les recentiores que j’ai collationnés. En revanche, il n’est pas d’un grand secours pour identifier les interventions de Valla sur le manuscrit
125 Corrigé en in altum incendi par le copiste. Deux signes en forme de -c -retourné encadrent incendi, certainement pour signaler le déplacement (f. 133ra). Ils apparaissent aussi avec la même signification en 30,18,3 (f. 126va): hostium ac ne uertat timor C, hostium timor ac ne vertat Cc. 126 Confirmé par Reeve 2017, 5: Val descend de Q mais est indépendant de la famille α.
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A à partir de 30,41,6. Les corrections sont plus nombreuses sur la portion du texte correspondant au supplément α (30,42,15 – 44,6 = 56 lignes Teubner), ce qui confirme que le correcteur a eu recours à un manuscrit de la tradition du Puteaneus. J’ai relevé 31 corrections sur A, dont 19 en accord avec Val et 12 en désaccord. Mais la seule qui soit vraiment spécifique, et donc attribuable à Valla, est concessis en 30,43,7 au lieu de la bonne leçon conuentis (B NsAp?εΘL) contre coniectis (CQ ). Toutes les autres peuvent venir d’ailleurs que de Val. Sur les parties où Val suit la tradition de Spire, les corrections sont moins nombreuses: sur 30,41,6 – 42,15 (= 44 lignes Teubner) il n’y a que 15 corrections sur A dont 10 en accord avec Val et 5 en désaccord. Sur 30, 44, 6-fin (37,5 lignes Teubner), j’ai compté 19 corrections sur A dont 8 en accord avec Val et 11 en désaccord. Dans ces deux portions du texte, il n’y a aucun accord qui soit spécifique à Val et à Ax. J’espère avoir pu vous montrer la vitalité de la recherche dans ce secteur des études liviennes, et tout son intérêt. Pour mon objectif immédiat, l’établissement du texte de la fin du livre 30, je dois vous dire mon soulagement d’avoir pu éliminer la famille α, et de n’avoir pas à explorer plus avant la ‘selva folta dei deteriores’ pour l’édition 127. Un éditeur est content quand il parvient à éliminer des manuscrits comme descripti. Mais, pour finir, je ne peux pas, en ce lieu, ne pas avoir une pensée particulièrement émue pour Giuseppe Billanovich, sans lequel toutes les avancées que je vous ai exposées n’auraient jamais vu le jour. Son article de 1951 a donné un élan décisif aux études sur la transmission de Tite-Live, même s’il peut sembler aujourd’hui dépassé. Il a ouvert un immense champ de recherches, et il avait un talent de conteur qui suscitait des vocations. C’est finalement sa recherche qui continue, comme il en avait d’ailleurs lui-même tout à fait conscience quand il écrivait, dès 1958 128: «certamente resta molto da fare: per noi, per i figli, per i nipoti».
Billanovich 1958, 265. Billanovich 1958, ibid.
127 128
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Tite-Live Liv. 21-30
Ve
P
IXe
R
Σ
?
C
XIVe XVe
B
Λ
Δ Q
XIIe XIIIe
?
M
Γ
Xe XIe
Ta
Liv. 26-30
EPa K D
A
O1
BS
O2 N
OCh O3 Z
Val
Θ
ε X
α
V
E
Pointillés = contamination
Fig. 1 Stemma de la 3e décade.
Fig. 2 Bamberg, Class. 35 f. 127rb.
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J
NS
L Ap? H
S Sp G
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Annexe Leçons spécifiques de Val sur 30,41,6-45,7 41,6 uilli CB NsAp? ΘL: iuli Val uillio V iullio E 41,7 octauio CB NsAp?ΘεL: om. Val 42,2 partim CB NsAp?ΘεL: -em Val 42,2 ultro CB NsAp?Θε: -a Val L 42,2 substitisse et B NsAp?ΘεL: -sset (-se Luchs) C substulisse Val 42,4 postulantium CB NsAp?ΘεL: -latum Val 42,5 aurelio CB NsAp?ΘεL: amelio Val 42,6 sopatrum CB NsAp?ΘεL: et sopatrum Val 42,6 et (propinquis) CB NsAp?ΘεL: e Val 42,6 eum CB NsAp?ΘεL: et eum Val 42,11 dignitatibusque CB NsAp?ValcΘεL: -bus Val 42,16 inuictum CBcValc?NsAp?ΘVL: inuictam B inuinctum Q in conuinctum Val iniunctum E 43,4-5 carthaginiensi quibus legibus ei uideretur faceret. Gratias deinde patribus egere CB (carthagininiensium) Q NsAp?Valc ΘEV (gatias): om. Val 43,7 conuentis B NsAp?ΘεL: coniectis CQ concessis 129 ValAv 43,13 crucem CBQ NsAp?ΘεL: cruce 130 Val 44,7 flesse C BsNsεΘAxL: fles se Ap? flere 131 Val 44,10 cerneretis BNs ValcAxεΘL: -natis C -netis Ap?-nentis Val 44,11 propediem CBNsAp? ValcΘεL: propedicem Val 44,12 regno C BAp? ΘεL: regis Ns(regnis Luchs) regnis Val 44,13 cn2. CBε: consule NsAp? consuli Val c. AxΘ 45,2 militum … per BNsAp?ΘεL: om. C om. militum Val 45,2 ad habendos BNsAp?Θε: adhibendos C ad exhibendos 132 Val ad agendos L 45,2 etiam CBNsAp?εΘL: ea Val 45,3 quadringenos C VE (-dri-): quadra- BNsAp?Θ quatragenis Val 45,4 triumphantis CBNsAp?εΘL: -ium Val 45,4 mortuus CBNsAp?εΘL: morte Val
Également dans Besançon 838. Également dans Holkham 345 et dans Conventi Soppressi 263 (= ε de Luchs, membre de sa famille R). 131 Également dans Holkham 352 et Genève 177. 132 Également dans Holkham 352, Genève 177. Reeve 1987b, 415-416 la signale dans Krakow 522. 129 130
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45,4 quo C BAxXcJ: qui NsAp??(er.) quia Val equo X quam ε 45,4 quia C BAp?εΘL: quam Ns qua Val 45,4 elatus C BAp?εΘ: flatus Ns fletus 133 Val L 45,5 omnique CBNsAp?εΘL: eumque Val 45,6 africani CBNsAp?εΘL: om. Val 45,6 sullae C BAp?εΘL: ille Ns illius Val 45,6 magnique CBNsAp?εΘL: magni Val 45,6 pompeii CBNsAp?εΘL: pompegii Val 45,7 ab adsentatione C BcAxΘ: ab adsenat- BAp? ab se natione Ns ab se ratione Val assentatore ε adsentione L assentatione Lc 45,7 cognomina C NsAp?εΘL: nomina B cognomine Val
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133 Également dans Holkham 345 et Genève 177. Reeve 1987b, 415 considère que ces manuscrits sont plus intéressants que ceux qui ont elatus.
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M. DE FRANCHIS
Walsh 1982 = P. G. Walsh (ed.), Titus Livius, Ab urbe condita libri XXVIXVII, Leipzig 1982 (19892). Walsh 1986 = P. G. Walsh (ed.), Titus Livius. Ab urbe condita libri XXVIIIXXX, Leipzig 1986. Walters – Conway 1929 = C. S. Walters – R. S. Conway (edd.), Titi Livi Ab urbe condita, vol. III: Libri XXI-XXV, Oxford 1929.
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MARCO PALMA
ANTIGRAFO MANOSCRITTO / APOGRAFO A STAMPA LA PRINCEPS DELLA Q UARTA DECADE FRA BUSSI, SWEYNHEYM E PANNARTZ
Nell’intervento al convegno A primordio urbis del 2015, tenuto insieme a Nicoletta Giovè 1, un certo spazio fu riservato al Riccardiano 487, il codice utilizzato da Sweynheym e Pannartz per la composizione della quarta decade nella loro edizione liviana del 1469 2. Secondo quanto sostenuto in quell’occasione, la trascrizione del Riccardiano sarebbe stata portata a termine in una data anteriore a quella indicata nel colophon (Absolutus die 23 septembris Romae. Anno 1469), in quanto l’espressione dovrebbe riferirsi alla conclusione della revisione da parte del curatore, Giovanni Andrea Bussi 3 o forse anche alla conclusione del lavoro di composizione del testo. L’argomento principale a favore di questa tesi, che si distingue dall’opinione di Teresa De Robertis e Rosanna Miriello, curatrici del primo volume del catalogo dei datati della Biblioteca Riccardiana 4, è che la mano del colophon non è identificabile con quella di Bussi, che secondo le due studiose avrebbe vergato anche le prime venti carte del manoscritto e le note che costellano i margini del codice. In realtà la grafia delle carte iniziali e quella delle note non sembrano riconducibili alla stessa mano, mentre l’annotatore, che scrive una corsiva ricca di legamenti, è pienamente identificabile con il copista che trascrive alle cc. 208r-240v del Vallicelliano Giovè Marchioli – Palma 2019. ISTC il002360000. Il codice è compreso nella lista redatta da Lotte Hellinga (Hellinga 2014, 69 nr. 4). 3 Reeve 1986, 166. 4 De Robertis – Miriello 1997, 27 nr. 32, tav. LXIV. 1 2
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 81-96 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125322
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M. PALMA
B 61, la Historia Langobardorum di Paolo Diacono, il cui colophon, già citato in occasione del precedente convegno, è opportuno, per amor di chiarezza, qui riportare di nuovo: Finis VI et ultimi libri. Exemplar inveni in biblioteca aecclesiae Brixinensis, cuius episcopus est reverendissimus dominus meus dominus Nicolaus de Cusza, tituli Sancti Petri ad Vincula Sanctae Romanae Ecclesiae presbyteri cardinalis. Descripsi, ut vides, confuse in Bruneccha, oppido Norico eiusdem aecclesiae Brixinensis. Anno 1460, die VIII° aprilis absolvi. Deo gratias. Iohannes Andreas 5. L’amanuense, Giovanni Andrea Bussi, oltre a fornire tutti gli estremi topici e cronologici della trascrizione, informa di aver trovato l’exemplar, ovvero l’antigrafo, nella biblioteca della chiesa di Bressanone e di averlo copiato confuse, un avverbio che dà il senso della velocità e della conseguente non impeccabile accuratezza della trascrizione. Nove anni dopo Bussi affronta l’edizione di Livio nel quadro di una collaborazione con Sweynheym e Pannartz talmente stretta da fargli usare, per definire la sua situazione, nella dedica a Paolo II dell’edizione di Cipriano apparsa nel 1471, l’espressione quasi in custodia carceris chartarii reclusus 6. Nella sua qualità di curatore Bussi aveva la responsabilità finale del testo da imprimere, che doveva mettere a disposizione del compositore in tempi estremamente ridotti e partendo dal materiale disponibile. Le sue sole risorse erano la conoscenza della lingua latina e degli autori da pubblicare, nonché ovviamente di almeno un exemplar da cui partire per costituire il testo: una filologia ope ingenii che diventava ope codicum nel caso fosse noto e disponibile qualche esemplare da cui trarre ispirazione per lezioni più attendibili. Il suo modus operandi è ben illustrato dall’affermazione posta in calce all’edizione, sempre stampata da Sweynheym e Pannartz, delle opere filosofiche di Cicerone (Roma, 20 settembre 1471) 7: Hucusque in exemplaribus repperi, cetera interierunt. Si Deus voluerit ut compareant, apponentur huic loco suo tempore 8. * * *
Busonero et alii 2016, 83 nr. 100, tav. 44 (scheda di Patrizia Formica). Miglio 1978, 55. 7 ISTC ic00558000. 8 La nota è riprodotta in Catalano et alii 2015, 100 nr. 52, tav. XII. 5 6
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ANTIGRAFO MANOSCRITTO / APOGRAFO A STAMPA
Vediamo ora da vicino, in concreto, il modus operandi di Bussi nel Riccardiano 487. Gli interventi, in inchiostro rosso o nero, sono innumerevoli, tesi a preparare l’aspetto esterno del testo (segni di paragrafo, maiuscole, punteggiatura) e a modificare il testo stesso, verosimilmente con l’ausilio di almeno un altro testimone. Nei margini, quasi sempre in rosso, si trovano dei brevissimi interventi in forma di titoli riassuntivi dell’argomento trattato, che non figurano però nell’incunabolo. Le prime venti carte, in umanistica corsiva, abbondano di correzioni e indicazioni per la composizione, un argomento ulteriore per non considerare la mano che scrive quella di Bussi. Si riportano di seguito alcuni degli interventi che modificano, chiariscono o evidenziano l’aspetto testuale, accompagnati dal l’indicazione della forma dei segni che introducono o chiudono il testo corretto. Viene comunque verificata la corrispondenza della correzione nella copia monacense dell’incunabolo 9 (ex silentio si intende riportata la correzione nella stampa). La prima carta dà già un’idea precisa di come il curatore intervenisse con estrema cura nel verificare e modificare il testo che aveva sotto gli occhi. (c. 1r l. 2) ausim corretto in ausum con u scritta sulla i e anche in interlinea. (c. 1r l. 3) omnes corretto in omnis con i scritta sulla e. (c. 1r l. 7) litoris corretto in littoris con t inserita in interlinea e segnalato da due trattini verticali al di sotto della riga. (c. 1r l. 8) quicqui corretto in quicquid mediante inserimento della d in interlinea e segnalato da due trattini verticali sopra la riga. La parola corretta è riportata anche nel margine interno. (c. 1r l. 9) l’abbreviazione della prima sillaba di prima evidenziata mediante una piccola i in inchiostro nero molto scuro su un altro segno non riconoscibile. (c. 1r l. 9) videatur corretto in videbatur con inserimento della b in interlinea, segnalato da due trattini verticali al di sotto della parola.
9 Bayerische Staatsbibliothek, Ine. 2° s. a. 793m, reperibile in rete all’indirizzo http://daten.digitale- sammlungen.de/~db/0006/bsb00064125/images/.
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M. PALMA
(c. 1r l. 10) haud quicquam corretto in haudquaquam mediante un trattino orizzontale fra d e q, un trattino ondulato sopra la prima q e un trattino verticale per cassare la c. (c. 1r l. 13) cassata con un trattino obliquo una p fra prope e nobilius. (c. 1r l. 16) Aetholos corretto in Aetolos mediante l’apposizione di un trattino obliquo in rosso sulla h [l’incunabolo riporta Etolos]. (c. 1r l. 17) Hannibali corretto in Annibali mediante l’apposizione di un trattino obliquo in rosso sulla H. (c. 1r l. 18) Athalo corretto in Attalo mediante un trattino obliquo sulla h, una piccola t in interlinea e due trattini verticali sotto la parola [si noti che il successivo Rhodiis è reso con Rodiis nella stampa]. (c. 1r l. 19) solicitari corretto in sollicitari mediante l’inserimento di una l in interlinea e due trattini. (c. 1r l. 21) inserito in interlinea cum fra proelio e Boois [si noti che proelio è reso prelio nella stampa]. (c. 1r l. 22) Ptolomeum corretto in Ptolemaeum mediante la modifica della seconda o in e e l’apposizione della cauda sotto la e [si noti che Ptolemaeum è reso Ptolemeum nella stampa]. (c. 1r l. 23) Hannibalem è corretto in Annibalem mediante l’ap posizione di un trattino obliquo in rosso sulla H. (c. 1r l. 23) Dopo Lepidus una P maiuscola è cassata mediante l’apposizione di un trattino obliquo in rosso. (c. 1r l. 29) quatuor corretto in quattuor mediante l’inserimento di una t in interlinea, evidenziato da due trattini verticali al di sotto della parola. Gli interventi sul solo recto della prima carta sono ben diciassette. Se la prima rappresentasse la media delle 236 carte, tutte vergate sulle due facciate, Bussi avrebbe modificato il testo del Riccardiano oltre ottomila volte. A titolo puramente indicativo si riportano di seguito alcuni degli interventi più lunghi e significativi da lui vergati sui margini. (c. 4v l. 18) Frusione agnus cum suillo capite humano natus modificato con l’inserimento nel margine esterno, segnalato in interlinea e nel margine da un trattino obliquo e un punto, delle parole Sinuessae [Sinuesse nella stampa] porcus cum capite. 84
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(c. 7r l. 28) in futurum memores natione s [segue forse un’altra lettera cassata con un tratto obliquo come la stessa s] celeris spei esset corretto nel margine esterno con le parole ita ut parum in expugnatione che sostituiscono natione s, mentre con due tratti obliqui viene cassata la s di celeris. L’integrazione sul margine è preceduta in alto da un trattino che sovrasta un punto e conclusa da due tratti obliqui. Nella stampa il testo è riportato così: in futurum memores, ita ut parum in expugnatione celeri spei esset. (c. 19v, margine interno) manicula in rosso. (c. 22r, margine esterno) manicula in rosso. (c. 31r ll. 26-27) quod adversus sotietatem Philippi esset. Hic quoque dies corretto nel margine esterno mediante l’aggiunta delle parole aut referre magistratibus aut decernere concilio ius esset. L’integrazione è segnalata in margine mediante un trattino obliquo seguito da un punto all’inizio e due trattini obliqui alla fine. Gli stessi segni si trovano in alto e in basso sulla riga fra esset e Hic. Nella stampa il testo integrato si presenta così: quod adversus sotietatem Philippi esset aut referre magistratibus aut decernere concilio ius esset. (c. 39v l. 7) procul stantem diem differret corretto nel margine esterno con l’integrazione fra stantem e diem delle parole vox est perlata. Itaque a Q uinto petit ut rem in posterum, segnalata da un trattino seguito da un punto sopra due trattini nel testo e dagli stessi segni, uno all’inizio e uno alla fine del testo aggiunto, in margine. Nella stampa il testo completo si presenta così: procul stantem vox est perlata. Itaque a Q uinto petit ut rem in posterum diem differret. Si noti che nell’aggiunta e nella stampa le parole petit e ut sono separate dai due punti (:). (c. 43r, margine esterno) manicula in rosso. (c. 43v l. 16) sed etiam magistratuum [corretto verosimilmente da magistratum] sumptibus vitiis corretto nel margine esterno con l’integrazione fra sumptibus e vitiis delle parole audistis diversisque duobus, segnalata da un trattino seguito da un punto sopra due trattini nel testo e dagli stessi segni, uno all’inizio e uno alla fine del testo aggiunto, in margine. Q uesto nella stampa il testo completo: sed etiam magistratuum sumptibus audistis diversisque duobus vitiis. (c. 56r ll. 13-14) in tali tempore foret prohiberi corretto nel margine esterno con l’integrazione fra foret e prohiberi delle parole 85
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et ipsorum referre si quos suspectos [la s finale non si legge perché rifilata] status praesens rerum faceret, segnalata da un trattino seguito da un punto sopra due trattini nel testo e verosimilmente dagli stessi segni, uno all’inizio e uno alla fine del testo aggiunto, in margine [i due trattini tuttavia non sono visibili perché rifilati]. Nella stampa il testo completo si presenta così: in tali tempore foret et ipsorum referre si quos suspectos status praesens rerum faceret prohiberi. (c. 61v ll. 15-16) singuli carpebant aut ex bonis aliquid eorum possederant corretto nel margine esterno mediante l’integrazione fra carpebant e aut delle parole Q ui exsulum coniuges in matrimonio habebant, segnalata da un trattino seguito da un punto sopra due trattini nel testo e dagli stessi segni, uno all’inizio e uno alla fine del testo aggiunto, in margine. Nella stampa figura questo testo: singuli carpebant. Q ui exsulum coniuges in matrimonio habebant aut ex bonis aliquid eorum possederant. (c. 69v, margine interno) manicula in rosso. (c. 70v ll. 7-8) Et uti L. Cornelius consul in provintiam proficiscens in oppidis agrisque [segue proficiscens cassato con un tratto orizzontale] scriberet corretto nel margine esterno mediante l’integrazione fra agrisque e scriberet delle parole qua iturus esset, si quos ei videretur milites, segnalata da un trattino seguito da un punto sopra due trattini nel testo e dagli stessi segni, uno all’inizio e uno alla fine del testo aggiunto, in margine. Nella stampa il testo completo si presenta così: Et uti L. Cornelius consul in provintiam proficiscens in oppidis agrisque qua iturus esset, si quos ei videretur milites scriberet. (c. 82v, margine interno) manicula in rosso. (c. 93r, ll. 9-11) et qui venerant tres cum Alaxameno fecerant sibi amorem nendique eumque in rem essent [nt apparentemente aggiunto dal correttore e poi espunto mediante un doppio tratto obliquo] videbantur corretto nel margine esterno mediante la sostituzione di tres in interlinea con milites, segnalata da un tratto orizzontale sotto la parola da sostituire e l’integrazione dopo amorem delle parole Alaxamenus nunc cum tyranno inter paucos ordines circumeundi monendique segnalata da un trattino seguito da un punto sopra due trattini nel testo e dagli stessi segni, uno all’inizio e uno alla fine del testo aggiunto, in margine. In realtà i due trattini alla fine del testo da modificare si 86
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trovano dopo eumque, in cui la congiunzione, resa mediante q seguita da trattino abbreviativo, è sostituita in interlinea da quae reso con cauda sotto la e. Q uesto il testo stampato: et qui venerant milites cum Alaxameno fecerant sibi amorem. Alaxamenus nunc cum tyranno inter paucos ordines circumeundi monen dique eum que in rem esse videbantur. (c. 97r, margine esterno) lunga manicula in inchiostro rosso. (c. 105v, ll. 10-11) ipse rogando fatigasset invitum setus quia tum simul duas res successasset suscepisset bellum è integrato mediante due coppie di virgolette, una sopra l’altra, dopo invitum con le parole se graviori [la i finale a sua volta scritta sopra l’originale e espunta] fortunae conditioni [corretto a sua volta apparentemente da conditio mediante espunzione di una lettera finale e la sua sostituzione con la i al di sopra] illigantem, tandem impetrata re tanquam in media pace nuptias celebrat et belli tum hyemis oblitus, quasi tum non. Le parole setus quia tum sono quindi espunte con un trattino seguito da un punto al di sopra e un tratto orizzontale che taglia a metà le lettere. La parola successasset è espunta mediante una serie di puntini al di sotto delle lettere, una linea orizzontale sempre al di sotto delle lettere e un’altra orizzontale che le taglia a metà (non si può escludere che una delle espunzioni sia da attribuire al copista originale). Nella stampa il testo completo si presenta così: ipse rogando fatigasset invitum se graviori fortune conditioni illigantem, tandem impetrata re tanquam in media pace nuptias celebrat et belli tum hyemis oblitus, quasi tum non. (c. 106r l. 2) dopo le parole eam iuventutem [corretto in margine da iuventem nel testo] nactus trecentis Medione è inserito e ripetuto in margine un segno composto da un tratto curvo chiuso in alto e in basso da due piccoli cerchi e seguito nell’interlinea da un tratto orizzontale concluso da un cerchio che termina con una linea verticale. Nel margine il segno è preceduto dalle parole hic sequitur ad signum tale. Gli stessi segni [sia nel testo che in margine] e le stesse parole [in margine] sono inseriti a c. 108v dopo non interfuisset e precedono le parole ducentis Tyrrhaei in [corretto nel testo e in margine apparentemente da Tyrrem] praesidio positis. Nel testo a stampa si legge: eam iuventutem nactus trecentis Medione, ducentis Tyrrhei in presidio positis. 87
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(c. 108v l. 17) dopo le parole bello non interfuisset, con il segno già indicato, il testo continua a c. 111v, accompagnato dai segni già illustrati, con le parole congressus. Inde diversi. Nella stampa il testo si presenta così: bello non interfuisset congressus. Inde diversi. (c. 111v ll. 11-12) dopo le parole Ab hac contione [n corretta in interlinea da r] dimissi milites [tes aggiunto in fine linea 11 e espunto all’inizio della linea seguente con due tratti orizzontali], in margine una manicula in nero e due segni, uno simile a quello di c. 106r, un altro costituito dall’incrocio di due doppie linee verticali e orizzontali, cui corrispondono nel testo due lineette oblique, ciascuna accompagnata da tre puntini, segnalano la necessità di proseguire la composizione tornando a c. 106r l. 2 con le parole hic est revertendum retro ad signum. Nel testo a stampa il passo si legge così: Ab hac contione dimissi milites priusquam corpora curarent. (c. 123v ll. 8-14) il passo Pausistratus [s finale corretta su altre lettere] primum … Panhormum petit è cassato con quattro linee oblique e la parola vacat suddivisa tra margine esterno [va] e interno [cat]. L’eliminazione è dovuta alla ripetizione delle parole da Pausistratus ad armatos e da fauces a petit. (c. 126v l. 9) dopo le parole circa Thessaliam [la seconda s aggiunta in interlinea], preceduta e seguita nel testo e nel margine esterno rispettivamente da un punto e un trattino e da due trattini, va inserita l’integrazione in Italiam traiiceret. Aemilius postquam omissas in Cilicia res et Livium profectum. Nella stampa manca il dittongo iniziale di Aemilius, ma soprattutto traiiceret è stato letto dal compositore trauceret perché Bussi ha reso la doppia i allungando la seconda: ij. (c. 136v, margine interno) manicula in rosso. (c. 137r l. 1) dopo le parole arcis et Iliensibus, segnalata da due trattini obliqui nel testo e nel margine superiore, compare l’integrazione in omni rerum verborumque honore ab se oriundos Romanos praeferentibus, riportata esattamente nella stampa. (c. 143v l. 4) dopo le parole in senatum, preceduta da un trattino e un punto e seguita da due trattini sia nel testo che nel margine esterno, compare l’integrazione inter caetera hoc quoque interrogatos esse, unde audissent imperatores Romanos. L’integrazione [tranne cetera per caetera] è riportata esattamente nella stampa. 88
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(c. 148r, margine esterno) manicula in rosso. (c. 157r, l. 16) dopo hostes erant Romanis, preceduta e seguita da due trattini obliqui sia nel testo che nel margine esterno, si trova l’integrazione cum intra praesidia Romana Etoli [cassata una h dopo la t] essent, riportata esattamente nella stampa [dove prae è abbreviato]. (c. 158r, l. 26) dopo orta est, preceduta da due trattini obliqui nel margine esterno e seguita da altrettanti, si legge l’integrazione quod Romano tantum militi factum Antiochum, ut daretur frumentum Seleucus dicebat. Decussa, riportata regolarmente nella stampa. (c. 159r, l. 27) Audiens è cassato con sottolineatura e sostituito nell’interlinea con adveniens. La frase nella stampa risulta quindi: Adveniens obsidione Isiondenses exemit. (c. 161v, margine interno) grande manicula in rosso. (c. 162v, l. 3) dopo venerunt, preceduta da una linea obliqua con punto a destra e seguita da due tratti obliqui [cui corrispondono gli stessi segni, uno sopra l’altro, nel testo] si trova l’integrazione nuntiantes profectum eum ad Regulos Gallorum nihil aequi, riportata esattamente nel testo a stampa, tranne l’omissione del dittongo in aequi. (c. 165r, l. 16) dopo milia, indicata prima e dopo rispettivamente da una linea obliqua con punto a destra e da due tratti obliqui [cui corrispondono gli stessi segni, uno sopra l’altro, nel testo] si legge l’integrazione numerus captivorum haud dubie milia quadraginta. Nella stampa l’unica differenza è nel numero, scritto in cifre romane: XL. (c. 170r, penultima linea) dopo XVII, preceduta e seguita nel margine esterno da due linee oblique, che nel testo sono inserite le une sopra le altre, si trova l’integrazione quibus vincula per tumultum iniecta erant, interfecti sunt sexaginta tres, riportata esattamente nella stampa, salvo il numero, scritto in cifre romane: LXIII. (c. 178r, l. 13) nel testo figura non siverunt, in margine, preceduta da un tratto obliquo sopra un punto [che nel testo è posto sopra non], figura la correzione noluerunt. Nella stampa si legge noluerunt sinuerunt: la correzione evidentemente non è stata compresa come riferita alle due parole non siverunt, ma al solo non, e inoltre siverunt è stato modificato in sinuerunt. 89
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(c. 179r, l. 10) il testo triumphum decrevistis auctoritate vestra è modificato mediante cassazione [con una riga sulla parola] di decrevistis e l’aggiunta in margine, segnalata da un tratto obliquo seguito da un punto prima e da due tratti obliqui dopo [nel testo posti uno sopra l’altro], di deterruistis. La stampa riporta la correzione, con la lieve variante di autoritate in luogo di auctoritate. (c. 181r, ll. 6-7 dal basso) meminisse è corretto mediante sottoli neatura e trattino su un punto in eminere, segnalato anch’esso da trattino su un punto. (c. 193v, l. 15) fra triumviris e praeessent, segnalata nel testo da un trattino accompagnato sulla destra da un punto e da due tratti obliqui, è inserita l’integrazione in margine [introdotta e chiusa dagli stessi segni] quinqueviri, ut Cystiberim suae quisque regionis aedifitiis, riportata esattamente nella stampa. (c. 197r, l. 17) dopo Celtiberi nel testo è cassata con un tratto sulle due lettere la preposizione ad, segnalando nel margine interno l’inserzione, apposta sul margine esterno, delle parole, omesse per omoteleuto, castra ibi nocte proxima moverunt. Romanis et suos sepeliendi et spolia legendi ex hostibus potestas facta est. Paucos post dies, maiore coacto exercitu, Celtiberi ad. L’aggiunta è riportata nella stampa. (c. 200r, l. 6) il testo del codice riporta molestum pueros suos tot annos esse. La correzione riguarda pueros, corretto in pueris cassando con un tratto obliquo la o e scrivendo una i nell’interlinea, e suos, cassato mediante un tratto orizzontale e sostituito con se nell’interlinea. Su pueros inoltre un trattino obliquo su due punti rimanda a una correzione nel margine interno, segnalata dallo stesso trattino obliquo su due punti, che reca le parole pravos mores. Sempre su pueros un tratto obliquo su un punto, tracciato in inchiostro rosso, rinvia a quella che sembra un’integrazione sul margine esterno, sempre in rosso, introdotta dallo stesso segno: existentibus. La stampa riporta molestum pravos mores se tot annos esse. (c. 207v, penultima e ultima linea) le parole Publius Cornelius Cethegus inter civis peregrinos sono cassate mediante sottolineatura e un tratto orizzontale che taglia le lettere. Un trattino obliquo accompagnato da un punto sulla destra, sia all’interno del testo che sul margine esterno, segnala il testo corretto: P. Cornelius 90
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Cethegus inter cives et peregrinos sortiti sunt [il plurale è giusti ficato dal precedente nome dell’altro pretore C. Decius Flavius]. (c. 213r, l. 13) fra damnaverant e manerent, segnalata sia nel testo che in margine da un tratto obliquo accompagnato sulla destra da un punto e un altro tratto obliquo, si trova l’integrazione nec ne inique an iure occidissent quos occiderant. Vertebatur et utrum. L’aggiunta è riportata esattamente nella stampa. (c. 214v, margine interno) manicula in rosso. (c. 218v, ll. 11-12 dal basso) il testo originale recita: Theoxena et Archo nomina his mulieribus cuidam longe principi gentis nupsit. Un trattino obliquo con un punto sulla destra e due trattini obliqui subito sotto introducono l’aggiunta sul margine, non indicata da alcun segno, multis petentibus aspernata nuptias est. Archo Poridi cuidam longe p. Le parole da Archo a p sono cassate mediante sottolineatura e tratto orizzontale che taglia le lettere. La parola Poridi è inserita nell’interlinea fra Archo e nomina. Nella stampa si legge il testo seguente: Theoxena multis petentibus aspernata nuptias est. Archo Poridi cuidam longe principi gentis nupsit. (c. 218v, margine interno) manicula in rosso. (c. 222r, l. 14 dal basso) nel testo tanquam fraterno iussu. In margine, segnalata come nel testo da un trattino obliquo su un punto, si trova la correzione lusu per iussu, regolarmente riportata dalla stampa. (c. 227r, ll. 6-7) fra Carthaginensibus e dono, segnalata da un trattino obliquo accompagnato sulla destra da un punto e da due trattini obliqui, posti rispettivamente uno sopra l’altro all’interno del testo e uno all’inizio e uno alla fine del testo aggiunto nel margine esterno, si colloca l’inserzione pater Masanissae Galla [la prima l cassata da un tratto obliquo]. Galam Syphax inde expulerat, postea in gratiam soceri Hasdrubalis Cathaginensibus dono dederat [le ultime due parole cassate con un tratto che taglia le lettere perché si trovano già nel testo]. La stampa riporta pater Masanisse Gala. Galam Syphax inde expulerat, postea in gratiam soceri Hasdrubalis Cathaginensibus dono dederat. (c. 228v, margine interno) grande manicula in rosso. (c. 234r, l. 2) nel testo .d. passus: accanto alla .d. lo stesso Bussi sembra aver scritto in apice la desinenza del numerale: .dtos. 91
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In margine comunque c’è la parola scritta per intero, quingentos, che è riportata correttamente nella stampa. (c. 235r, ultima linea – c. 236r, l. 1) il testo originale recita: cum Corsis M. Marcellum eorum M. Pinarius praetor in acie occidit. Le parole M. Marcellum sono cassate con un tratto che taglia a metà le lettere e sostituite da duo milia nell’interlinea. La stampa riporta il testo corretto, eliminando solo il dittongo in praetor. (c. 236v, ll. 3-4 dal basso) il testo originale recita: dona et dare signa; fra dona e et, segnalata da un trattino obliquo seguito da un punto e, sotto, da due trattini obliqui, l’aggiunta vovere, preceduta e seguita nel margine esterno dagli stessi segni. L’inser zione è riportata correttamente nella stampa. * * * I manoscritti di tipografia finora noti sono decisamente pochi: nella lista pubblicata alcuni anni fa da Lotte Hellinga 10, detratte le edizioni utilizzate come modelli dai prototipografi, sono registrati 35 casi in cui uno o più manoscritti sono stati riconosciuti come antigrafi degli incunaboli, un numero appena superiore a un millesimo delle oltre trentamila edizioni a stampa del secolo XV. Viste le condizioni del Riccardiano 487, se ne può comprendere la ragione principale: questi codici esaurivano la loro funzione con la composizione del testo e non rivestivano più alcun interesse per potenziali lettori. Ammesso che sopravvivessero al trattamento loro riservato in tipografia, di cui, oltre alle innumerevoli correzioni testuali, le indicazioni per il compositore 11 e le macchie d’inchiostro rendono il Riccardiano un ottimo testimone, questi codici venivano ipso facto sostituiti dai libri a stampa che sul loro modello si producevano. Ed è difficile immaginare che i contemporanei avvertissero un gusto ante litteram per il ‘modernariato’ librario. Q uesti esemplari, in epoca moderna, hanno invece destato l’interesse dei bibliologi, in testa ovviamente gli incunabolisti, che Il saggio è citato alla n. 2. Il codice fiorentino reca in margine l’indicazione del numero della carta del fascicolo dell’incunabolo che si stava allestendo e, all’interno del testo, un segno che separava le parole destinate a occupare l’ultimo e il primo posto rispettivamente della carta che terminava e di quella che iniziava. 10 11
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grazie ad essi sono potuti entrare virtualmente nelle prototipografie e trarne preziose indicazioni sulle modalità di lavoro di queste officine che dovettero inventare, e rapidamente anche modificare, le loro prassi esecutive. Il confronto con i libri a stampa prodotti sul loro modello risultava inoltre infinitamente più facile di quanto non fosse per gli studiosi, a vario titolo, del libro manoscritto, data l’abbondanza di copie di incunaboli sopravvissute e ormai accessibili, grazie alla rete, anche a distanza. Su una cosa tuttavia incunabolisti, paleografi e codicologi si sono trovati d’accordo: lo scarso interesse per il testo dei modelli degli incunaboli. Il fatto non meraviglierà troppo, data la natura istituzionalmente ‘tecnica’ di queste discipline storiche, che da sempre si dedicano agli aspetti materiali (ivi compresa ovviamente la scrittura) della produzione libraria. Sarà dunque opportuno rivolgersi ai filologi di varia estrazione (classici, moderni, romanzi e via elencando), dai quali sarebbe logico attendersi una naturale attenzione per i rappresentanti del testo. Non è così, come testimoniano le parole di Giuseppe Billanovich a proposito del nostro Riccardiano, quando si propone di rimediare ‘agli sciupii degli editori, che per le decadi e più ancora per le Periochae si sono ritenuti obbligati a riportare le varianti del l’editio princeps’, rivelando che il Riccardiano 487 è il manoscritto di tipografia dell’edizione liviana del 1469 e che il Vat. lat. 6803 lo è per le Periochae, di mano dello stesso Bussi 12. Una tradizione come quella di Livio, più che millenaria già nell’età di Gutenberg, non può certo giovarsi direttamente delle lezioni offerte dal tormentatissimo esemplare usato per la princeps: il testo degli Ab urbe condita libri è stato stabilito sulla base di testimoni infinitamente più autorevoli, oggetto da secoli di studi approfonditi e che continuano a fiorire, come questo stesso convegno dimostra. La filologia però non si esaurisce nella costituzione del testo, ma lavora anche alla ricostruzione della sua trasmissione, che nella grandissima maggioranza dei casi è formata da testimoni le cui relazioni vengono stabilite sulla base di regole molto chiare, che escludono per principio i codices descripti. Essi, come sappiamo, recano gli stessi errori del modello più i propri; ergo gli antigrafi
Billanovich 1982, 342-343.
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sono più che sufficienti a rappresentare una fase della tradizione di un determinato testo. Purtroppo gli antigrafi e apografi riconosciuti come tali non sono in numero cospicuo e, in conseguenza della legge sopra citata, il loro rapporto non ha meritato studi approfonditi. Una generica contaminatio è stata spesso più che sufficiente a spiegare le deviazioni non tanto di un singolo esemplare, quanto di un ramo della tradizione. Eppure la possibilità di seguire il lavoro di un amanuense alle prese con un testo che vediamo nel suo aspetto materiale esattamente come appariva a lui ci consentirebbe di accertare il modo con cui si poneva di fronte a parole e frasi che poteva legittimamente non intendere e che poteva altrettanto legittimamente modificare. Certo, in linea di massima, il copista medievale doveva curare e rispettare il suo modello, da restituire alla persona o all’istituzione che lo deteneva stabilmente. Non è questo che ci si aspetta dal prototipografo o dal suo consulente, che fanno strame, in senso materiale, dell’esemplare che funge da modello per la composizione e che spesso veniva prodotto a questo esclusivo fine. Un esempio di questo processo lo offre il Vat. lat. 5991, trascritto fra il dicembre 1469 e l’aprile 1470, sul modello dell’Angelicano 1097, in vista della composizione dei libri 18-37 della Naturalis historia di Plinio il Vecchio, edita da Sweynheym e Pannartz per le cure di Giovanni Andrea Bussi 13. Nel caso della princeps di Livio Michael Reeve ha constatato la profonda contaminatio del testo delle prime venti carte del Ric cardiano 487, nonché la presenza nel resto del codice di errori comuni al Laurenziano Edili 183 14, segno evidente di derivazione da modelli diversi delle due parti del codice. Lo stesso Reeve afferma inoltre che le sue osservazioni si riferiscono allo stato del manoscritto prima delle correzioni di Bussi, aggiungendo che queste ultime sono passate in alcuni codici derivanti dalla stessa princeps. Dunque il nostro Riccardiano deriva da fonti diverse e poi viene letteralmente vivisezionato da Bussi che ne fa a sua volta un modello per altri e più tardi testimoni della tradizione. Siamo in grado di constatare tutto ciò perché esiste un oggetto fisico che contiene le migliaia di interventi del curatore, che a sua volta si sarà servito
Hellinga 2014, 71-72 nr. 7. Reeve 1986, 166-167.
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di altri modelli, attingendo forse alla biblioteca papale, come fa supporre un passo della dedica della princeps a Paolo II: Tua enim opera subsidioque ac liberalitate impressorum nostrorum ars iuvatur et crescit unde mirum in modum egenorum necessitatibus subvenitur, cum doctissimus ipse ac minime invidus libros excellentes omnis generis habens facultatum nobis volens et expositus bibliothecam tuam semper aperias 15. La meccanicità della filologia tradizionale rimane disarmata di fronte a un caso del genere: un antigrafo che attinge a fonti differenti e viene modificato in base a ulteriori fonti che non siamo tuttora in grado di riconoscere, un apografo che non mostra traccia alcuna dell’immane lavoro di revisione effettuato sul suo modello. E tutto ciò grazie al fatto che disponiamo di due anelli della catena di natura diversa, uno manoscritto e l’altro a stampa. È difficile pensare a un caso simile al tempo, appena precedente, del libro solo manoscritto, un cui esemplare non ci sarebbe mai arrivato nello stato del Riccardiano 487.
Bibliografia Billanovich 1982 = G. Billanovich, Maestri di retorica e fortuna di Livio, IMU 25, 1982, 325-344. Busonero et alii 2016 = P. Busonero – E. Caldelli – I. Ceccopieri – V. D’Urso – P. Formica – A. Mazzon – M. Palma – V. Sanzotta, I manoscritti datati delle Biblioteche Casanatense e Vallicelliana di Roma, con il contributo di Giuseppe Finocchiaro, (Manoscritti datati d’Italia 25), Firenze 2016. Catalano et alii 2015 = L. Catalano – R. C. Giordano – M. Palma – A. Scala – M. Scialabba – S. Terranova – R. Tripoli, Incunaboli a Siracusa, con la collaborazione di Giuseppe Greco e Anna Reale, (Scritture e libri del medioevo 14), Roma 2015. De Robertis – Miriello 1997 = T. De Robertis – R. Miriello, I manoscritti datati della Biblioteca Riccardiana di Firenze, vol: I: Mss. 1-1000, (Manoscritti datati d’Italia 2), Firenze 1997. Giovè Marchioli – Palma 2019 = N. Giovè Marchioli – M. Palma, Livio nel Q uattrocento fra manoscritti e stampa: Strutture materiali e grafiche, in G. Baldo – L. Beltramini (a cura di), A primordio urbis. Un itinerario per gli studi liviani, Turnhout 2019, 355-388.
Miglio 1978, 33.
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Hellinga 2014 = L. Hellinga, Texts in Transit. Manuscript to Proof and Print in the Fifteenth Century, Leiden – Boston 2014. Miglio 1978 = M. Miglio (a cura di), Giovanni Andrea Bussi, Prefazioni alle edizioni di Sweynheym e Pannartz prototipografi romani, (Documenti sulle arti del libro 12), Milano 1978. Reeve 1986 = M. D. Reeve, The Transmission of Livy 26-40, RFIC 114, 1986, 129-172.
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CHARLES GUITTARD
LIVIUS APUD LIVIUM
À PROPOS DU CARMEN DE 207 (LIV. 27,37,7)
Deux mille ans après sa mort, Tite-Live demeure en grande partie un inconnu, l’historien s’étant effacé derrière son œuvre 1. L’identité et la patavinitas de Tite-Live posent un problème et demeurent un sujet d’intérêt 2. L’historien a souvent mis en scène des membres de la gens Livia, des Livii. Evidemment, les Livii ne jouent pas le même rôle que les Valerii et les Claudii dans l’histoire de Rome, une place que l’on attribue, un peu rapidement, à Valérius Antias et Claudius Q uadrigarius. Les Livii constituent une gens plébéienne qui s’est illustrée tout au long de l’histoire de Rome: elle a donné huit consuls, deux censeurs, un dictateur, un maître de cavalerie. Un Marcus Livius Denter accède au consulat en 302 3. Les deux branches les plus représentatives sont les Drusii et les Salinatores. Marcus Livius Salinator s’est illustré à la bataille du Métaure, précisément en cette année 207 qui nous intéresse et l’on pourra se demander si un hymne, une sorte de péan n’a pas été composé en son honneur. C’est à cette gens qu’appartient Livius Andronicus, que la tradition présente comme un esclave venu à Rome après la chute de Tarente. Or, dans le récit de la crise religieuse de 207, Tite-Live mentionne un poète du nom de Livius: s’agit-il de Livius Andronicus? Cette mention pose un triple problème d’identité, de chronologie et de composition, car Tite-Live juge indigne de rap1 Tite-Live aurait eu deux fils Titus Livius Priscus et Titus Livius Longus et une fille qui aurait épousé un certain Magius (CIL V, 2865, 2975). Bornecque 1933, 3-10; Walsh 1970, 1-20. 2 Flobert 1981. 3 10,1,7.
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 97-109 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125323
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porter cet hymne à ses lecteurs. Un autre carmen sera composé en 200 par Publius Tegula. La problématique met en jeu trois dates: les Jeux Séculaires de 249, la crise de 207 et celle de 200. Ainsi se pose non seulement un problème d’identité mettant en cause Livius Andronicus, mais aussi un problème de chronologie et d’histoire littéraire touchant l’hymne primitif et le vers saturnien. * * *
1. La crise religieuse de 207 et le carmen L’année 207 marque une étape importante dans l’histoire de Rome et dans la construction même de l’histoire livienne 4. Le livre 27, qui couvre les années 210-207 (été 210-été 207), est le livre qui culmine dans la victoire du Métaure et dans le récit détaillé de la crise religieuse qui précède l’arrivée d’Hasdrubal en Italie, dernière grande crise religieuse de la deuxième guerre punique 5. L’approche des troupes d’Hasdrubal suscite une angoisse religieuse et une série de prodiges sont annoncés, crise qui touche à son paroxysme avec la naissance d’un enfant de sexe ambigu ou androgyne 6, à Frosinone, deuxième cas d’androgynie après celui de l’année 209 7. Les haruspices prescrivent la procuration rituelle: on enferme l’enfant monstrueux dans un coffre et on l’élimine dans les flots 8. C’est alors que les pontifes décident que trois groupes de neuf virgines parcourraient Rome en chantant un hymne 9. Pendant que les jeunes filles répètent l’hymne dans le temple de Jupiter Stator, au pied du Palatin, au début de la via Sacra, la foudre s’abat sur le temple de Junon Reine sur l’Aventin. Pour la procuration de ce nouveau prodige, vont intervenir les haruspices, les édiles curules et les décemvirs. Les haruspices suggèrent une offrande de la part Mineo 2006, 293-322. Levene 1993, 38-77; Levene 2010, 38, 189; Scheid 2015, 78-89. 6 27,11,5; cf. Guittard 1994a. 7 27,11,4-6; cf. Breglia Pulci Doria 1983. 8 27,37,6. 9 27,37,7 decreuere item pontifices ut uirgines ter nouenae per urbem euntes carmen canerent; id cum in Iouis Statoris aede discerent conditum a Liuio poeta carmen tacta de caelo aedis in Auentino Junonis Reginae. Ces groupements ternaires et novénaires à l’occasion d’un cas d’androgynie sont mentionnés à 6 reprises dans le Liber prodigiorum de Julius Obsequens (27a, 34, 36, 46, 48, 53). 4 5
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des matrones, les édiles curules ordonnent de prélever une somme sur la dot des matrones, un bassin d’or est porté sur l’Aventin et offert à la déesse 10. Les décemvirs ordonnent une nouvelle cérémonie, une procession partira du temple d’Apollon et gagnera le temple de Junon sur l’Aventin, en traversant le Forum. Derrière deux génisses blanches destinées à la déesse étaient portées deux statues en bois de cyprès de la déesse; puis s’avançaient les 27 jeunes filles, vêtues de longues robes blanches chantant l’hymne, suivies par les décemvirs couronnés de laurier et portant une toge prétexte. Les virgines chantèrent l’hymne sur le Forum, en tenant une corde et en rythmant leur chant du battement de leurs pieds. Tite-Live, qui décrit en détails la cérémonie, sur le plan rituel et topographique, avec un luxe de précisions, n’a pas pris soin de livrer le contenu de l’hymne, pour des raisons de goût littéraire: il se contente d’en dénoncer le caractère grossier, inadapté au goût de son temps 11. La présence de tels jugements littéraires est exceptionnelle chez Tite-Live, ce qui tend à montrer que l’historien a compris l’importance du carmen de 207 et que son intention était d’en livrer les éléments, si des scrupules strictement littéraires ne l’en avaient détourné au dernier moment. On peut, sans trop s’avancer, penser qu’il l’a eu sous les yeux dans sa source. Ce qui est surprenant, c’est qu’il donne le nom de l’auteur au passage, Livius. C’est à un certain Livius que les pontifes commandent le carmen et c’est pendant que les virgines répètent l’hymne dans le temple de Jupiter Stator que la foudre s’abat sur le temple de Junon sur l’Aventin. Sur ce carmen, les données liviennes sont confirmées par Festus 12, qui précise que cet hymne valut une haute récompense à son auteur, Livius Andronicus: on lui assigna le temple de Minerve sur le même Aventin, pour y établir le siège des histriones et des scribae, qui est à l’origine de ce qui sera le collegium poetarum. Festus Liv. 27,37,11-15. Liv. 27,37,13 tum septem et uiginti uirgines, longam indutae uestem carmen in Iunonem Reginam canentes ibant, illa tempestate forsitan laudabile rudibus ingeniis, nunc abhorrens et inconditum si referatur. 12 Fest. 446-448 L s.v. scribas: cum Liuius Andronicus bello Punico secundo scripsisset carmen quod a uirginibus est cantatum, quia prosperius res publica populi Romani geri coepta est, publice adtributa est ei in Auentino aedis Mineruae in qua liceret scribis histrionibusque consistere ac dona ponere, in honorem Liui quia is et scribebat fabulas et agebat. 10 11
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est formel sur ce point, il s’agit de Livius Andronicus, qui composait et jouait des pièces (fabulas). Confrontant les données de ces deux textes, O. Ribbeck avait supposé l’existence de deux hymnes ou carmina, une supplicatio proprement dite et un hymne chanté par un chœur de jeunes filles, un chant d’actions de grâces à l’occasion des premiers succès des Romains face à Hasdrubal 13. On peut aussi supposer qu’un hymne fut composé en l’honneur de Marcus Livius Salinator, après sa victoire sur Hasdrubal. Mais rien ne permet d’étayer solidement cette hypothèse 14. L’hymne de 207 s’inscrit dans un contexte de crise mettant en jeu plusieurs collèges. Les jeunes filles répètent dans le temple de Jupiter Stator, compte tenu des périls qui menacent la cité; la foudre qui frappe le temple de Junon Reine attire l’attention sur la grande divinité qu’un lointain passé rattache à Carthage 15. Les décemvirs, en accord avec les pontifes réorientent la cérémonie en direction de Junon. On peut souligner la cohérence et la précision du récit livien et l’harmonieuse collaboration des collèges sacerdotaux pour résoudre la crise religieuse de 207 16. Ce qui retient ici l’attention, ce sont les scrupules littéraires de l’historien devant cet hymne religieux. Tite-Live n’a pas toujours montré la même réserve.
2. Exemples de transcriptions de textes non littéraires En quelques occasions, Tite-Live, tout en prenant ses précautions, n’a pas hésité à transcrire des documents qui ne correspondaient pas aux critères littéraires de son temps. On peut évidemment citer la transcription du rituel des fétiaux 17, des formules de prières comme le rituel de la devotio 18, certains oracles, lors du prodige du Lac d’Albe ou au cours de la deuxième guerre punique 19. Mais on retiendra ici deux exemples particulièrement significatifs: la 15 16 17 18 19 13 14
Ribbeck 1891, 21. Warmington 1967, XI-XIII. Bloch 1976; Guittard 1976. Barwick 1933; Cousin 1943; Dumézil 1974, 479-481; Champeaux 1997. Liv. 1,24,7-8 et 1,32,6-10. Liv. 8,9,6-8. Cf. Guittard 1984; Guittard – Bloch 1987, LV-LXXXVIII. Guittard 1989; Guittard 2014.
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fable les membres et l’estomac et l’inscription d’Aemilius Regillus concernant sa victoire navale sur Antiochus en 191. Tite-Live reproduit, en l’adaptant, l’apologue de Ménénius Agrippa, à l’occasion de la première sécession de la plèbe 20. La fable ‘les Membres et l’estomac’ illustre le conflit entre patriciens et plébéiens et Ménénius Agrippa, qui appartient à une gens plébéienne, va ramener la concorde dans la cité par la simplicité de son éloquence 21. C’est un fragment d’éloquence dépourvu d’ornement, développant le thème de la concordia. Sur l’introduction de cette fable, présente dans la tradition grecque, dans la tradition romaine, il n’y a pas accord. On la met en relation avec la consécration du temple de la Concorde au milieu du ive siècle, avec Camille, ou avec l’annalistique tardive. Tite-Live porte un jugement littéraire avec l’expression prisco illo et horrido modo, qui est semblable à la remarque sur le carmen de 207. Par le recours au style indirect, la fable s’insère aisément dans le récit livien des luttes sociales. On relève une longue période oratoire qui développe une comparaison médicale avec le sang qui se répand dans le corps humain pour lui donner vie. On est dans le cadre de l’opus oratorium, illustrant la théorie cicéronienne En 40,52,5 22, Tite-Live prend soin de transcrire l’inscription rappelant l’éclatante victoire navale remportée 11 ans plus tôt, 20 2,32,8-12 placuit igitur oratorem ad plebem mitti Menenium Agrippam, facundum uirum et quod inde oriundus erat plebi carum. Is intromissus in castra prisco illo dicendi et horrido modo nihil aliud quam hoc narrasse fertur: tempore quo in homine non ut nunc omnia in unum consentiant, sed singulis membris suum cuique consilium, suus sermo fuerit, indignatas reliquas partes sua cura, suo labore ac ministerio uentri omnia quaeri, uentrem in medio quietum nihil aliud quam datis uoluptatibus frui; conspirasse inde ne manus ad os cibum ferrent, nec os acciperet datum, nec dentes quae acciperent conficerent. Hac ira, dum uentrem fame domare uellent, ipsa una membra totumque corpus ad extremam tabem uenisse. Inde apparuisse uentris quoque haud segne ministerium esse, nec magis ali quam alere eum, reddentem in omnes corporis partes hunc quo uiuimus uigemusque, diuisum pariter in uenas maturum confecto cibo sanguinem. Comparando hinc quam intestina corporis seditio similis esset irae plebis in patres, flexisse mentes hominum. Cf. Ogilvie 1965, 312-313; Guittard 1994b. 21 Guittard 1994. 22 Supra ualuas templi tabula cum titulo hoc fixa est: ‘duello magno dirimendo, regibus subigendis, † caput patrandae pacis haec pugna exeunti L. Aemilio M. Aemilii filio † auspicio imperio felicitate ductuque eius inter Ephesum Samu‹m› Ch‹i›umque, inspectante eopse Antiocho, exercitu omni, equitatu elephantisque, classis regis Antiochi antehac inuicta fusa contusa fugataque est, ibique eo die naues longae cum omnibus so-
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en 190, par Lucius Aemilius Regillus sur Antiochus, lors de la consécration du temple des Lares Permarins au Champ de Mars, en 179 (il s’agit du temple D du Largo Argentina, le plus au sud 23). Comme pour le rituel des fétiaux, la tradition manuscrite offre plusieurs difficultés occasionnées par les ruptures de style. Il s’agit d’une inscription triomphale classique, avec ses groupes binaires et ternaires allitérants et assonants, comme on en relève dans les elogia Scipionum 24. Il s’agit de célébrer une victoire navale importante, une étape importante de l’impérialisme romain.
3. La crise de 200: un doublet? Il faut rapprocher de la crise de 207, les prodiges survenus sept années plus tard et signalés par l’annalistique: avec l’apparition d’un nouvel hermaphrodite. Comme en 207, les décemvirs, après consultation des Livres sibyllins, prescrivirent l’exécution d’un cantique chanté par un chœur de trois fois neuf jeunes filles et l’offrande d’un présent à Junon Reine 25. Tite-Live donne encore une fois le nom de l’auteur du carmen, P. Licinius Tegula, inconnu par ailleurs 26, et fait référence à Livius comme auteur du précédent carmen, avec l’expression patrum memoria. On a tiré argument de cette notice pour mettre en cause l’authenticité du carmen de l’année 207, qui ne serait, par anticipation, qu’un doublet. Mais il n’y a aucune raison de retirer à Livius Andronicus le mérite d’avoir composé l’hymne de 207. La seule conclusion que l’on puisse tirer de cette notice, c’est qu’en 200 Livius Andronicus était mort ou trop âgé pour composer un hymne ciis captae quadraginta duae. ea pugna pugnata rex Antiochus regnumque ‹…›. eius rei ergo aedem Laribus permarinis uouit.’ eodem exemplo tabula in aede Iouis in Capitolio supra ualuas fixa est. Cf. Luiselli 1967, 323 (pour une analyse en vers saturniens); Walsh 1996, 110-111, 174. 23 Coarelli 1997, 275-293. 24 Guittard 2003b. 25 31,12,9-10 decemuiros adire libros de portento eo iusserunt. Dcemuiri ex libris res diuinas easdem quae proxime secundum id prodigium factae essent imperarunt. Carmen praeterea ab ter nouenis uirginibus cani per urbem iusserunt, donumque Iunoni Reginae ferri. Ea uti fierent, C. Aurelius consul ex decemuirorum responso curauit. Carmen, sicut patrum memoria Liuius, ita tum condidit P. Licinius Tegula. 26 Selon Münzer 1926, Publius Licinius Tegula devrait sa position au grand pontife P. Licinius Crassus. Il ne faut pas le confondre avec Licinius Imbrex cité par Aulu-Gelle (13,23,16), comme l’a proposé Fraenkel 1922, 31 n. 2.
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officiel. Ensuite, une réflexion s’impose sur l’expression livienne patrum memoria. Appliquée à la cérémonie de 207, elle soulève une difficulté; en effet, peu auparavant, l’historien a fait référence aux événements antérieurs en utilisant l’adverbe proxime avec une valeur temporelle, ce qui a fait peser une lourde présomption sur l’authenticité des cérémonies de l’année 207.
4. Les Jeux de 249 L’expression livienne, patrum memoria oriente-t-elle vers une cérémonie antérieure? Selon Verrius Flaccus, un carmen fut chanté lors des Ludi Tarentini de 249 27; les témoignages de Tite-Live 28, de Varron 29, de Valère Maxime 30, de saint Augustin 31 sur les Jeux Séculaires sont muets sur l’exécution d’un chorus Proserpinae: seul Varron semble y faire allusion avec l’expression in choro Proserpi27 Verrius Flaccus, ap. schol. Horat. Carm. saec. 8 Verrius Flaccus refert carmen saeculare et sacrificium inter annos centum et decem Diti et Proserpinae constitutum bello Punico primo ex responso decemuirorum cum iussi essent libros Sibyllinos inspicere ob prodigium quod eo bello accidit: nam pars murorum icta fulmine accidit. Atque ita responderunt: bellum aduersus Karthginienses prospere geri posse, si Diti et Proserpinae triduo, id est tribus diebus et tribus noctibus continuis ludi fuissent celebrati et carmen cantatum inter sacrificia. Hoc accidit consulibus P. Claudio Pulchro L. Junio Pullo. Cf. Gagé 1934; Brind’Amour 1978. 28 Cens. 17,11 de quartorum ludorum anno triplex opinio est. Antias enim et Varro et Liuius relatos esse prodiderunt L. Marco Censorino M’. Manilio consulibus post Romam conditam anno DCV. 29 Cens. 17,8 nam ita institutum esse ut centesimo quoque anno fierent, id cum Antias aliique historici auctores sunt, tum Varro de scaenicis originibus libro primo ita scriptum reliquit: cum multa portenta fierent et murus ac turris,quae sunt inter Portam Collinam et Esquilinam, de caelo tacta essent, et ideo libros Sibyllinos X(V) uiri adissent, renuntiarunt ut Diti Patri et Proserpinae ludi Tarentini in Campo Martio fierent tribus noctibus et hostiae furuae immolarentur utique ludi centesimo quoque anno fierent. 30 Val. Max. 2,4,5 et quia ceteri ludi ipsis appellationibus unde trahantur apparet, non absurdum uidetur saecularibus initium suum, cuius generis minus trita notitia est, reddere. Cum ingenti pestilentia urbs agrique uastarentur, Valesius uir locuples rusticae uitae duobus filiis et filia ad desperationem usque medicorum laborantibus aquam calidam iis a foco petens, genibus nixus lares familiares ut puerorum periculum in ipsius caput transferrent orauit. orta deinde uox est, habiturum eos saluos, si continuo flumine Tiberi deuectos Tarentum portasset ibique ex Ditis patris et Proserpinae ara petita aqua recreasset. 31 Aug., civ. 3,18 bellis Punicis…instaurati sunt ex auctoritate librorum Sibyllinorum ludi saeculares, quorum celebritas inter centum annos fuerat institua, felicioribusque temporibus memoria negligente perierat. Renuntiarunt etiam pontifices ludos sacros inferis et ipsos abolitos annis retrorsum melioribus.
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nae, à propos du mot inlicium et du verbe inlicere 32. En s’appuyant sur ces témoignages, le savant allemand C. Cichorius 33 a fondé une hypothèse, selon laquelle Livius Andronicus aurait été l’auteur du carmen des Jeux Séculaires de 249, hypothèse qui a recueilli l’assentiment de G. B. Pighi 34. Hypothèse fort plausible, comme le reconnaît aussi B. Mineo 35. Ces théories reposent en grande partie sur la chronologie traditionnelle de Livius Andronicus, venu à Rome après la chute de Tarente en 272, dans la gens Livia où il aurait été chargé de l’éducation des enfants de Livius, peut-être Livius Salinator, qui l’aurait affranchi. Cette chronologie, qui remonte à Varron, est reconnue par le Liber Annalis d’Atticus et Cicéron 36. Mais il existait une autre chronologie, fondée sur le témoignage du poète Accius, dont Cicéron nous a gardé le souvenir. Selon cette chronologie, Livius Andronicus aurait été fait prisonnier à Tarente par Q uintus Fabius Maximus en 209, et 11 ans plus tard, à l’occasion des jeux voués à la déesse Juventas par Marcus Livius Salinator, il aurait donné la première représentation d’un drame en latin 37. G. Marconi a consacré un long mémoire publié par l’Académie des Lincei à l’appui de ces données 38: selon le savant italien, Livius Andronicus aurait été capturé à Tarente en 209 et aurait composé le carmen de l’année 207; ensuite, aurait débuté au théâtre en 197, pour atteindre l’apogée de sa carrière entre 190 et 187. Selon cette reconstruction, celui qui passe pour le père de la poé-
32 Varro, ling. 6,94 non est dubium quin hoc inlicium sit cum circum muros itur ut populus inliciatur ad magistratus conspectum, qui uiros uocare potest in eum locum unde uox ad contionem uocantis exaudiri possit; quare una origine inlici et illici quod in choro Proserpinae. 33 Cichorius 1922, 1-7. 34 Pighi 1965, 198-199. 35 Mineo 2006, 214-220. 36 Cic., Brut. 72 atque hic Liuius primus fabulam C. Claudio Caeci filio et M. Tuditano consulibus docuit anno ipso antequam natus est Ennius post Romam conditam autem quartodecimo et quingentesimo, ut hic ait, quem nos sequimur. 37 Cic., Brut. 72 Accius autem a Q uinto Maximo quintum consule captum Tarento scripsit Liuium, annis triginta postquam eum fabulam docuisse et Atticus scribit et nos in antiquis commentariis inuenimus; docuisse autem fabulam annis post undecim C. Cornelio Q . Minucio consulibus, ludis Iuuentatis, quos Salinator Senensi proelio uouerat. 38 Marconi 1966, 125-213.
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sie épique et dramatique à Rome, serait un contemporain d’Ennius et le cadet de Naevius. Un rapprochement, en raison des similitudes du rituel avec les Jeux Séculaires, a amené à penser que les cérémonies de 207 ont pu servir de modèle aux Jeux Séculaires augustéens, qui ont modifié la structure du rituel et où l’on retrouvera Junon et Apollon 39. La remarque de Tite-Live se justifie si l’on a présent à l’esprit le Chant Séculaire d’Horace, chef d’œuvre officiel de poésie lyrique. Ce qui expliquerait la précision des détails topographiques.
5. Des fragments du carmen? Dans ce contexte poétique, et pour pallier le silence de Tite-Live, on a tenté de retrouver des échos de ce fameux carmen contesté de 207. Il serait bien intéressant d’en retrouver des éléments épars chez les poètes archaïques. Et plusieurs pistes s’offrent à nous. Le nom de Junon chez les poètes archaïques a donc retenu l’attention. Et les grammairiens ont retenu l’emploi de puer au féminin, à côté de la forme puera: Junon est puer Saturni et Proserpine puer Cereris. A la pompa des Ludi de 249, on a pu rattacher un vers du Bellum Punicum de Naevius: prima incedit Cereris Proserpina puer 40. Si ce vers, habituellement rattaché au chant II, s’insère dans le chant VI du Bellum Punicum, racontant les événements des années 250-246, on peut admettre que le poète évoque un cortège comportant une statue de Proserpine. Selon L. Havet, un vers de Livius Andronicus conservé par Priscien, rattaché habituellement au chant IV de l’Odyssée 41, pourrait l’être à l’hymne de 207: sancta puer Saturni / filia regina 42. Il célèbre en effet Junon Reine, fille de Saturne. Un autre vers rapporté par Priscien 43 a pu être attribué au carmen: puerarum manibus confectum pulcherrime. Si l’on admet Guittard 2003a. Priscian. GLK 2,232,6 (haec puer) Naeuius in II belli punici: prima incedit Cereris Proserpina puer. La correction repose sur une conjecture de P. Schrijver, 1620. 41 Hom., Od. 4,513. 42 Fr. 12 Blänsdorf (= fr. 16 Warmington). Cf. Priscian., GLK 2,232,3; Havet 1880, 376. 43 Priscian. GLK 2, 231,12; fr. 40 Ribbeck3 (= fr. 41 Warmington). 39 40
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l’hypothèse émise par A. Baehrens, les 27 jeunes filles auraient fait allusion au manteau offert à Junon, un peplum confectionné par elles et travaillé avec art (un tel vêtement étaient offert à Athéna Polias par les Athéniennes lors des grandes Panathénées 44). L. Muller 45 et G. Hermann 46 considèrent ce fragment comme la traduction des vers 234 et 235 du chant VII de l’Odyssée. L. Havet, analysant le fragment comme un sénaire iambique, pense qu’il se rattache au répertoire tragique du poète et non à l’hymne en question. Il est suivi par O. Ribbeck, E H. Warmington 47. Une glose de Servius 48 sur la tradition des triomphes en Afrique a suggéré une dernière hypothèse sur le carmen de 207 49. Livius Andronicus, dans un passage qui ne peut relever ni de la traduction de l’Odyssée ni d’une tragédie, aurait fait allusion à des victoires des peuples africains sur les Romains. La citation de Servius serait empruntée à un discours de Régulus devant le Sénat et Horace s’en serait inspiré dans une de ses Odes où il célèbre le héros pour son sacrifice 50. Des trois hypothèses, c’est le vers de Livius Andronicus qui est le plus plausible, avec sa formule stéréotypée sur la filiation de la déesse. On ne peut exclure qu’une telle invocation ait figuré sous la forme d’un saturnien (sancta puer Saturni filia regina) dans l’hymne qui fut chanté par les 27 virgines en 207. Sur la procession et son déroulement, on dispose d’une indication précise fournie par une tombe de Ruvo que l’on date de la fin du ve siècle: on peut y voir une fresque représentant deux chœurs de jeunes filles, divisés en deux groupes neuf et de dixhuit, chantant et dansant, les bras entrecroisés, sous la direction
Hom., Il. 6, 90-92, 269-310; Verg., Aen. 1,479-481. Müller 1885, 124-132. 46 Hermann 1816, III, 623. 47 Ribbeck 1871, 272; Warmington 1967, 18, frag. 41. 48 Serv., ad Aen. 4,37 et quidem dicunt Afros nunquam triumphasse. Plinius autem Secundus historiae naturalis et Pompeius Trogus dicunt pompam triumphi primos inuenisse, quam sibi Romani postea uindicauerunt. Liuius autem Andronicus refert eos de Romanis saepius triumphasse suasque porticus Romanis spoliis adornasse. Cf. Plin., nat. 7,191; 8,4; Iustin. 19,1,1. Fragmentum falsum selon Morel 1963, 17! 49 Lenchantin de Gubernatis 1937, 45-46. Cf. aussi Pighi 1965, 199-200. 50 Hor., carm. 3,5,18-21. Au discours prononcé par Régulus en la circonstance appartiendraient deux fragments cités par Festus au mot stirps (Fest. 412, 13 L), employé par les Anciens tantôt comme féminin, tantôt comme masculin. 44 45
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d’un coryphée et d’un cithariste 51. Il s’agit d’une cérémonie en l’honneur du défunt. Le chiffre 9 revêt une importance particulière dans la doctrine pythagoricienne. Les chœurs de jeunes filles interviennent lors des cérémonies de procuration des prodiges, en particulier dans les cas d’androgynie 52. * * * Tite-Live pouvait adapter la fable sur les membres et l’estomac, dans un contexte oratoire, au style indirect; il en va de même pour les carmina oraculaires, car les oracles sibyllins étaient en hexamètres dactyliques; en revanche, confronté au problème du vers saturnien primitif, il partage le goût d’Ennius et sa condamnation du vers italique, un vers grossier. Il lui est difficile de reproduire le carmen des Jeux Séculaires, ou les carmina de 207 et de 200. Il mentionne les noms de Livius et de Licinius Tegula tout en restant évasif; sans doute, ces références suffisaient-elles pour ses lecteurs et on peut admettre l’identification de Livius avec le père et fondateur de la littérature latine, en l’occurrence Livius Andronicus.
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C. GUITTARD
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LUCA BELTRAMINI
LIVIO E POLIBIO SULL’ASSEDIO DI NOVA CARTHAGO
L’assedio e la riconquista della città spagnola di Nova Carthago (odierna Cartagena), datati da Livio al 210 a.C. ma molto probabilmente risalenti al 209, rivestono un’importanza notevole nelle vicende della seconda guerra punica 1. La vittoria rappresentò la prima tappa dell’avanzata romana nella penisola iberica, un fronte che fin dallo scoppio del conflitto si era dimostrato, seppur periferico, essenziale per gli equilibri delle parti in campo, e che appena due anni prima era stato funestato dalla tragica morte, a distanza di poco più di un mese l’uno dall’altro, dei fratelli Publio e Gneo Scipione, comandanti degli eserciti lì di stanza. Soprattutto, la conquista della roccaforte costituì il primo grande successo militare di Publio Scipione, figlio del proconsole sconfitto e futuro Africano, che proprio grazie alla vantaggiosa posizione ottenuta in Spagna porterà la guerra in Africa e condurrà la repubblica alla vittoria finale. Della centralità di questo evento è ovviamente consapevole Livio, che ad esso dedica gli ultimi capitoli del libro 26 (41 – 51), del libro, cioè, che nell’architettura narrativa degli Ab urbe condita è concepito come un vero e proprio cardine attorno al quale ruotano le due metà della terza decade, dedicate rispettivamente alla fase delle sconfitte sofferte dai Romani e a quella della loro riscossa 2. Obiettivo di questo intervento è analizzare la consapevole costruzione narrativa del resoconto liviano della conquista di Nova Car Cf. ad es. Lazenby 19982, 139-140; Zimmermann 2011, 292; Hoyos 2015, 176. Sull’organizzazione narrativa della terza decade e sul ruolo cardine del libro 26 cf. ad es. Burck 1950, 11-56 (spec. 19-26); 1971; Luce 1977, 27-28; Levene 2010, 9-33 (spec. 25-26 sull’episodio come climax del libro); 78. 1 2
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 111-138 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125324
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thago e, in particolare, la rappresentazione del suo protagonista, Scipione, nella sua veste di leader militare e di figura in qualche misura ideologica; ragionare, cioè, su quali aspetti della leadership di Scipione Livio ha voluto mettere in luce e attraverso quali scelte narrative e stilistiche, nel tentativo di formulare qualche ipotesi sul significato dei comportamenti attribuiti al personaggio in occasione del suo primo grande exploit militare. La vicenda di Scipione è articolata in due sezioni non contigue del libro 26. Nella prima (18,1 – 20,6) Livio racconta la sua elezione a privatus cum imperio e il suo arrivo in Spagna. Si tratta di una sezione narrativa densa di pathos, che sancisce con solennità l’ufficiale investitura del futuro trionfatore della guerra 3. Il resoconto dell’elezione si focalizza sui sentimenti dei comitia, in preda allo sconforto a causa dell’assenza di un candidato che voglia sobbarcarsi il difficile compito di risollevare le sorti della repubblica in Spagna (18,1-6). La disperazione è improvvisamente fugata proprio da Scipione, che offre la propria candidatura e viene eletto a furor di popolo (18,7-9). All’iniziale scoppio di entusiasmo, però, segue un nuovo momento di preoccupazione, determinato questa volta dalla giovanissima età del neoeletto comandante, che, ad appena ventiquattro anni, si appresta ad assumere il comando di un fronte problematico, che per di più aveva visto soccombere già suo padre e suo zio; rendendosi conto delle inquietudini che serpeggiano nell’assemblea, Scipione tiene un altro discorso, non riportato da Livio, in cui rassicura la folla e ottiene definitivamente il suo supporto (18,10 – 19,2). A questo punto, Livio interviene nella narrazione per tratteggiare un ritratto della personalità di Scipione (19,3-9), concentrandosi sulle doti carismatiche che, a suo parere, gli hanno consentito di ottenere un incarico tanto importante a soli ventiquattro anni. Il ritratto, tra i più lunghi dei libri liviani superstiti, individua la chiave del successo comunicativo di Scipione nell’uso disinvolto dell’elemento soprannaturale, grazie al quale il giovane aveva più o meno volontariamente diffuso la credenza che le sue decisioni fossero ispirate dagli dèi tramite visioni e L’elezione di Scipione rappresenta il coronamento di una serie di brevi comparse del personaggio nei libri precedenti, in occasione delle quali Livio prefigura il suo ruolo di salvatore della repubblica (salvataggio del padre al Ticino: 21,46,7-10; intervento contro i disertori di Canne: 22,53,1-13; elezione a edile curule: 25,2,6-7). 3
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presagi 4. Al ritratto fa seguito una nuova sezione narrativa (19,10 – 20,6), che racconta la partenza del comandante, il suo arrivo a Tarragona e la situazione degli eserciti cartaginesi in Spagna. Q ui la vicenda di Scipione si interrompe, per essere ripresa a partire da 41,1 con il racconto delle operazioni in Spagna. Q uesta seconda sezione è incentrata, come accennato, sull’assedio di Cartagena, roccaforte dei Cartaginesi nella penisola iberica. All’inizio del resoconto, Scipione si appresta ad attraversare l’Ebro, a nord del quale i Romani si sono ritirati sotto le pressioni del nemico. L’attraversamento del fiume-confine, un atto dal forte valore simbolico che inaugura la nuova fase offensiva messa in moto dai Romani 5, è accompagnato da un lungo e assai solenne discorso, con cui il comandante esorta i soldati a non lasciarsi scoraggiare dalle disfatte subite e li rassicura sul futuro vittorioso che attende Roma (41,3-25). Soltanto a questo punto Livio informa il lettore dell’intenzione di Scipione di muovere l’attacco a Cartagena, ricordando l’importanza strategica della città, ricca di risorse e apparati bellici, e soprattutto la sua posizione ideale per la spedizione africana che il comandante già, evidentemente, progetta (42,1-5). Segue una breve descrizione topografica della città e della regione circostante (42,6-9): Cartagena si erge in posizione ben difesa, su una sottile lingua di terra tra il mare e la laguna retrostante. L’inizio dell’assedio vero e proprio è anticipato da un secondo discorso di Scipione, più breve del primo, con cui il personaggio ricorda ai soldati i motivi di importanza strategica già menzionati dalla voce narrante (43,3-8). Il resoconto dell’assedio (44,1 – 46,10) si concentra sullo stratagemma messo in atto per eludere le naturali difese della città: sfruttando la bassa marea che prosciuga temporaneamente la laguna retrostante la città, un contingente attacca il lato delle mura meno difeso, mentre il resto dell’esercito distrae il nemico sul lato più munito; la tattica si dimostra vincente, i Romani riescono a penetrare in città e seminano strage tra i nemici. L’episodio è concluso da una sorta di epilogo, che include il rendiconto dei prigionieri catturati e degli apparati depredati (47,1-10) il conferimento delle onorificenze militari ai soldati più meritevoli (48,1-14), una discus4 Sul complesso di credenze religiose nate attorno alla figura di Scipione cf. spec. Meyer 1924; Haywood 1933, 25; De Sanctis 1936; Walbank 1967; Scullard 1970, 18-23; Gabba 1975; Torregaray Pagola 1998, 52-92. 5 Cf. Beltramini 2020, 476-482.
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sione sui dati discordanti riportati dalle fonti a proposito del bottino (49,1-6) e il famoso aneddoto relativo alla continenza di Scipione, incentrato sul rispettoso trattamento riservato alle donne ispaniche tenute in ostaggio e, soprattutto, alla bellissima moglie di Allucio (49,7 – 50,13). Il libro si chiude, infine, con un breve rendiconto delle ultime disposizioni del generale sull’addestramento delle truppe e la preparazione delle fasi successive della campagna (50,14 – 51,14). Benché la vicenda di Scipione nel libro 26 non sia stata oggetto di una critica delle fonti agguerrita quanto altre sezioni dell’opera liviana, non sono mancate analisi in tal senso, collocate nella più generale indagine sull’uso di Polibio nella terza decade. La tesi in voga tra i Q uellenforscher otto-novecenteschi vorrebbe che nel libro 26, come in gran parte della decade, Livio non abbia usato direttamente Polibio, ma una fonte intermedia 6, o, in alternativa, che i due abbiano attinto a una fonte comune 7. Vistosa eccezione è rappresentata da De Sanctis 8, che sostiene l’uso diretto di Polibio nel resoconto di Cartagena, ma sembra escludere che le differenze rispetto alla fonte siano dovute alla rielaborazione di Livio 9. Negli ultimi decenni la critica ha progressivamente messo in luce la tendenza dello storico padovano a rimaneggiare le proprie fonti, grazie soprattutto a una più consapevole e rigorosa indagine del testo, che ha consentito di sgombrare il campo da molti preconcetti a proposito del suo metodo di lavoro e della sua visione storiografica 10. In questa prospettiva, le analisi che seguono tenteranno di dimostrare che: (a) esistono tra Livio e Polibio somiglianze talmente stringenti ed estese da rendere decisamente probabile l’ipotesi di un uso diretto dello storico greco; (b) nel resoconto liviano sono riportati dettagli non presenti in Polibio e certamente attinti da un’altra fonte, ma di entità tale da non permettere di postulare una fonte comune, bensì attribuibili a integrazioni fatte da Livio Cf. ad es. Walbank 1957-1979, II 193-194; Jal 1991, XI-XIII. Cf. spec. Klotz 1940, 178-179; 1952, 334-343. 8 De Sanctis 1917, 372-373 (cf. anche Kahrstedt 1913, III 289). I critici sono stati riluttanti ad ammettere l’uso diretto di Polibio specialmente nei libri 21-22, benché già nell’800 si possano individuare notevoli eccezioni (cf. Oakley 2019). 9 Ma cf. Walbank 1957-1979, II 195. 10 Una prospettiva critica aperta già da E. Pianezzola (1969 = 20182) e giunta in anni recenti a risultati di grande raffinatezza scientifica, cf. ad es. Levene 2010, 126163 e Oakley 2019. 6 7
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stesso; (c) soprattutto, gran parte delle differenze rispetto a Polibio appaiono riflesso di un’operazione di rielaborazione consapevole e coerente, che Livio stesso voleva che i lettori riconoscessero e certamente non attribuibile alla semplice confusione di tradizioni diverse. La vicenda di Scipione nel libro 26, benché articolata in due sezioni distinte, è in larga misura modellata su una sezione continua di Polibio (10,2,1 – 20,8) 11. Giunto a trattare la campagna scipionica in Spagna, Polibio articola un lungo preambolo dedicato ai tratti salienti della leadership del generale (2,1 – 5,10). Il ritratto è animato da un intento polemico: lo storico mira a confutare le posizioni in voga tra i suoi predecessori, che attribuivano i successi di Scipione alla sua buona sorte e alla sua natura semidivina. Agli occhi di Polibio, la diffusione di questa tesi ha messo in ombra le reali doti razionali e il genio strategico di Scipione, vere ragioni dei suoi successi militari. Il ritratto è concluso da una digressione che ricorda due episodi esemplari dei primi anni della sua carriera: il salvataggio del padre al Ticino (10,3,3-7) e, soprattutto, la sua elezione all’edilità curule, in occasione della quale fece scaltro uso proprio dell’elemento religioso per ottenere la carica assieme al fratello, convincendo il popolo che la nomina gli fosse stata preannunciata dagli dèi in sogno (10,4,1 – 5,8). A questo punto Polibio ritorna al resoconto delle operazioni a Cartagena riportando in oratio obliqua un discorso rivolto ai soldati prima dell’attraversamento dell’Ebro, nel quale Scipione spiega che le sconfitte romane in Spagna sono state causate da errori tattici e dal tradimento degli alleati Celtiberi e illustra la svantaggiosa situazione in cui versano gli eserciti nemici (10,6,1-6). Subito dopo, Polibio riferisce il lungo lavoro di intelligence, durato tutto l’anno precedente, grazie al quale il comandante ha ottenuto informazioni dettagliate riguardo lo stato delle truppe cartaginesi, l’importanza cruciale di Cartagena per i loro rifornimenti, e soprattutto il fenomeno naturale che interessa la laguna, e che darà la possibilità alle truppe romane di penetrare la cinta muraria dal lato meno difeso. Forte di queste informazioni Scipione decide di attaccare la città, ma non ne fa parola con nessuno all’infuori di Gaio Lelio 11 Sulla riorganizzazione del materiale polibiano nei libri 23-30 di Livio cf. Levene 2010, 147 n. 153.
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(10,6,7 – 9,3). Il racconto prosegue con le prime operazioni di schieramento delle forze navali e di terra (10,9,4-7), la descrizione topografica di Cartagena (10,9,8 – 10,13) e una nuova disamina della disposizione delle truppe (10,11,1-4). Segue un secondo discorso alle truppe, anche in questo caso riportato in oratio obliqua, nel quale il comandante incoraggia i soldati, promette ricompense ai più meritevoli e svela che il piano per attaccare la città gli è stato ispirato in sogno da Poseidone (10,11,5-8). Il resoconto dell’assedio, piuttosto ampio (10,12,1 – 15,11), riferisce da vicino le azioni del comandante e culmina, come quello di Livio, nel momento in cui la bassa marea gli consente di lanciare un’offensiva contro il lato settentrionale della città, normalmente difeso dal mare (10,14,1 – 15,11). L’epilogo dell’assedio è affidato alle ultime disposizioni riguardanti il bottino, i prigionieri di guerra e le navi nemiche catturate (10,16,1 – 17,16, con digressione sulla prassi seguita dai Romani nella ripartizione della preda), e all’esempio di mitezza dimostrato nei confronti degli ostaggi e alla continenza osservata con la bella prigioniera (10,18,1 – 19,7). Le operazioni attorno alla città sono concluse dalla descrizione dell’addestramento assegnato alle truppe (10,20,1-8). Già da questa breve panoramica appare evidente come il resoconto liviano dell’assedio, benché in generale più sintetico, segua da vicino Polibio tanto nella disposizione degli argomenti quanto in molti dettagli fattuali. I rispettivi resoconti dell’attraversamento dell’Ebro e dell’arrivo a Cartagena, ad esempio, sono in buona parte sovrapponibili (Liv. 26,42,1-6 e Polyb. 10,6,7 – 9,7): entrambi gli autori riferiscono che alla sua partenza Scipione lasciò un contingente sull’Ebro a capo di Silano, quantificato in 3000 fanti e 500 cavalieri da Polibio, in 3000 fanti e 300 cavalieri da Livio; la differenza non è particolarmente rilevante, data la facilità con cui dati di questo tipo subiscono corruttele testuali 12. L’entità delle truppe condotte con sé da Scipione, invece, è identica nei due autori (25000 fanti e 2500 cavalieri), benché Polibio la riporti poco più avanti (10,9,6). Entrambi gli autori, poi, ricordano che Scipione non rivelò i suoi piani a nessuno all’infuori di Lelio (Liv. 26,42,5; Polyb. 10,9,1) e descrivono le operazioni militari preliminari all’as-
12 Sulla base di Polibio Sigonius propone di correggere il trecentis di Livio in quingentis, ma non c’è modo di sapere se la corruttela debba essere attribuita ai manoscritti liviani o a quelli polibiani.
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sedio in modo pressoché identico: la divisione di truppe terrestri e flotta tra Scipione e Lelio, l’arrivo a Cartagena il settimo giorno di marcia, la posizione dell’accampamento a nord della città, la costruzione delle difese sul solo lato dell’accampamento che non era difeso dalla natura del luogo (Liv. 26,42,6; Polyb. 10,9,4-7). In entrambi gli autori è a questo punto introdotta la descrizione topografica di Cartagena, accomunata dal medesimo errore di orientamento 13 e da dettagli in gran parte identici. A questo proposito, tuttavia, si possono già intravedere alcune peculiarità nella selezione del materiale polibiano attuata da Livio: mentre Polibio offre al lettore una serie di dati topografici relativi alla città stessa, e in particolare il nome dei suoi colli principali e alcuni suoi monumenti, Livio si limita a riportare i dettagli essenziali alla comprensione della disposizione delle truppe romane e del successivo svolgimento delle operazioni (ad es. la posizione della laguna, le difese naturali della città, l’estensione dell’istmo). Al termine della descrizione topografica, entrambi gli autori ricordano nuovamente la decisione di Scipione di non fortificare il lato dell’accampamento che dava sulla città, fornendo le stesse motivazioni: la volontà di ostentare sicurezza e di assicurarsi un facile rientro all’accampamento dopo ogni sortita (Liv. 26,42,9; Polyb. 10,11,1-3). Allo stesso modo, il resoconto liviano dell’assedio vero e proprio mostra una sicura derivazione da Polibio. Entrambi gli autori scandiscono il racconto in tre fasi principali e in ciascuna di esse l’aderenza di Livio alla fonte è evidente. Magone, l’ufficiale a capo della guarnigione cartaginese, dispone 500 soldati a guardia della rocca e 500 sul colle più orientale della città; con altri 2000 compie una sortita attraverso la porta principale della città, quella che dà verso l’accampamento romano (Liv. 26,44,1-2; Polyb. 10,12,2-4). In un primo momento la battaglia sembra equilibrata, ma la fanteria romana, che Scipione ha opportunamente collocato in posizione arretrata vicino all’accampamento, riesce ad avere la meglio, respinge i Cartaginesi e avanza con impeto tale da arrivare quasi a penetrare in città, gettando nello scompiglio le truppe rimaste sulle mura, che abbandonano le posizioni (Liv. 26,44,3-4; Polyb. 10,12,5-11). A questo punto entrambi gli autori notano il ruolo
13 Polibio e Livio descrivono la baia e la città con orientamento nordest-sudovest anziché nord-sud, con un errore di circa 45° verso est. L’errore è stato notato per la prima volta da Droysen 1875.
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attivo di Scipione, che, posto in posizione elevata e protetto da tre soldati muniti di grandi scudi, con la sua sola presenza incita i soldati, testimone degli atti di coraggio come di quelli di codardia, e ordina di accostare le scale alle mura (Liv. 26,44,6-11; Polyb. 10,13,1-5). In questo passaggio liviano si trovano, in effetti, gli unici due elementi di una certa importanza assenti in Polibio: mentre quest’ultimo afferma che Scipione seguiva la battaglia da una generica posizione elevata (10,13,3 παρὰ τὰ πλάγια καὶ τοὺς ὑπερδεξίους τόπους ἐπιπαριὼν), Livio specifica che il comandante si trovava sull’altura che riparava l’accampamento romano sul lato verso la città, chiamata colle di Mercurio (26,44,6 egressus Scipio in tumulum quem Mercuri vocant) 14. Dal momento che nella descrizione di Cartagena Polibio non menziona il nome del colle, il dato deve provenire da un’altra fonte 15. Lo stesso vale forse per il ruolo rivestito dalla flotta, che secondo Livio partecipò con scarso successo all’assalto alle mura dal lato protetto dal mare (26,44,10-11), ma che Polibio menziona solo di sfuggita durante le operazioni di schieramento (10,12,1) 16. In ogni caso, il racconto dell’assedio nei due autori torna ad essere molto vicino fino all’arrivo della bassa marea. Entrambi notano che la maggior difficoltà non era tanto rappresentata dagli attacchi dei nemici posizionati sulle mura, quanto piuttosto dal l’altezza delle mura stesse, che faceva sì che le poche scale di altezza sufficiente crollassero sotto il peso eccessivo degli uomini o che l’altezza causasse negli assalitori vertigini tali da farli precipitare; a questo punto Scipione suona la ritirata, accendendo una speranza di salvezza negli assediati, ignari del fatto che egli sta soltanto attendendo il ritiro delle acque per sferrare l’ultimo attacco (Liv. 26,45,1-5; Polyb. 10,13,6 – 14,1) 17. I momenti chiave dei 14 Non è stato finora possibile identificare quale divinità punica fosse assimilata al Mercurio romano (cf. DCPP s.v. Mercure). 15 Walbank 1957-1979, II ad loc. pensa a Sileno. 16 Cf. Levene 2010, 307; nel passaggio liviano corrispondente Scipione visita la flotta e dà istruzioni precise (26,43,1-2). 17 Una velata critica all’operato di Scipione può forse essere individuata in alcune sottili modifiche del resoconto polibiano; in aggiunta a quanto riportato dalla fonte, infatti, Livio specifica che soltanto poche delle scale attrezzate per l’assedio erano di lunghezza sufficiente alla scalata delle mura (26,45,2 rarae enim scalae altitudini aequari poterant) e proprio questo fattore è causa dell’eccessivo assembramento di soldati e, quindi, del cedimento delle scale stesse (26,45,3); inoltre, mentre Polibio presenta il suono della ritirata come una scelta calcolata di Scipione (10,13,10-11), Livio sottolinea maggiormente la situazione di stallo, attribuendola proprio all’ina-
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fatti seguenti coincidono nei due autori: dopo aver verificato che le acque cominciano a ritirarsi, Scipione ordina di sferrare un massiccio assalto da terra, mentre un contingente avanza nella laguna prosciugata con altre scale e conquista le mura sul lato settentrionale (Liv. 26,45,6 – 46,5; Polyb. 10,14,1-15). Come Polibio (10,14,14), Livio (26,46,2) osserva che gli assalitori non incontrarono alcuna resistenza perché tutte le difese erano state spostate sul lato prospiciente l’accampamento romano, dal momento che il versante opposto era considerato naturalmente difeso dal mare. Poco più avanti Livio precisa che l’attacco fu ancora più efficace perché tutti gli occhi e le orecchie erano rivolte all’assalto proveniente da terra: 26,46,4-5 in quod adeo intenti omnium non animi solum fuere sed etiam oculi auresque pugnantium spectantiumque et adhortantium pugnantes ut nemo ante ab tergo senserit captam urbem quam tela in auersos inciderunt et utrimque ancipitem hostem habebant. L’osservazione traduce fedelmente Polibio, che descrive l’azione con gli stessi riferimenti sensoriali: 10,14,15 τὸ δὲ πλεῖστον, ὑπὸ τῆς ἀτάκτου κραυγῆς καὶ τῆς συμμίκτου πολυοχλίας οὐ δυναμένων οὔτ’ ἀκούειν οὔτε συνορᾶν τῶν δεόντων οὐδέν. Livio, tuttavia, drammatizza ulteriormente la scena, distinguendo la generica πολυοχλία di Polibio in pugnantes e spectantes ed evocando perciò, con procedimento tipico, una folla di spettatori che assistono alla scena preda dell’apprensione 18. Il resto dei dettagli coincide: i Romani prima si impadroniscono delle mura, poi cominciano a forzare la porta da dentro e da fuori la città; una volta penetrati, si dividono in due contingenti, uno diretto al colle orientale, l’altro, comandato dallo stesso Scipione, verso l’acropoli dove si è rifugiato Magone, che si consegna assieme al resto della guarnigione (Liv. 26,46,6-10; Polyb. 10,15,3-8). Entrambi gli autori riferiscono che all’ingresso in città i Romani compirono strage indiscriminata: Polibio vi si sofferma tra l’attacco dei Romani al colle orientale e l’avanzata di Scipione verso l’acropoli, Livio pospone la notizia dopo l’attacco all’acropoli ma deguatezza delle scale (26,45,4). Vd. anche V. Casapulla in questo volume (pp. 146 e 154-155). 18 Cf. spec. Borzsák 1973. Per altri casi di battaglie descritte nei termini di uno spettacolo cf. ad es. 1,25,1-5 (duello tra Orazi e Curiazi); 7,10,6 (duello tra T. Manlio Torquato e il Gallo) con Oakley 1997-2005, II ad loc.; 8,7,9 (duello tra T. Manlio Torquato iunior e Gemino Mecio); 23,47,3 (duello tra Claudio Asello e Vibellio Taurea); 26,5,9 (battaglia alle porte di Capua); 31,24,12-13 (assalto di Filippo V ad Atene); 37,20,14 (assedio di Pergamo); 43,10,5 (presa di Uscana).
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vi si riferisce come a un fatto già in corso (26,46,10 quoad dedita arx est, caedes tota urbe passim factae), di fatto preservando la stessa scansione temporale di Polibio. Q uest’ultimo correda la notizia di una breve digressione sull’abitudine romana di terrorizzare le città appena conquistate con l’esecuzione della popolazione civile, un’apologia necessaria a prevenire l’ostilità del pubblico greco ma superflua, e forse imbarazzante, per il pubblico di Livio, che non la riporta e sembra addirittura attenuare il ruolo di Scipione non esplicitando che la strage fu ordinata da lui 19. Rimane però chiara indicazione del segnale con cui si interrompe la fase del massacro e si dà il via al saccheggio: Liv. 26,46,10 tum signo dato caedibus finis factus; ad praedam victores versi, quae ingens omnis generis fuit; cf. Polyb. 10,15,4 (scil. ὁ Πόπλιος) παραγγείλας κτείνειν τὸν παρατυχόντα καὶ μηδενὸς φείδεσθαι, μηδὲ πρὸς τὰς ὠφελείας ὁρμᾶν, μέχρις ἂν ἀποδοθῇ τὸ σύνθημα. Il successivo resoconto liviano mostra generale aderenza a Polibio, ma si fanno più cospicue tanto le parti soppresse, quanto le inserzioni di dati ed episodi evidentemente desunti da altre fonti. La digressione sul modo in cui i Romani distribuiscono il bottino (Polyb. 10,16,2 – 17,5) era evidentemente superflua per il pubblico di Livio, così come le didascaliche riflessioni sull’importanza di una corretta gestione da parte dei comandanti del desiderio di saccheggio dei soldati 20. L’impianto fondamentalmente polibiano della sezione relativa al bottino e ai prigionieri è tuttavia suggerito da paralleli testuali notevoli, in primis la distinzione tra i cittadini di Nova Carthago, che sono lasciati liberi, e gli opifices, che, pur dichiarati schiavi del popolo romano, ricevono rassicurazioni sulla possibilità di essere liberati al termine della guerra qualora avessero dimostrato fedeltà e impegno nel lavoro (Liv. 26,47,1-2; Polyb. 10,17,6-9). Le cifre fornite dai due autori sono le stesse: 10000 cittadini prigionieri e 2000 artigiani, benché in Polibio la prima cifra rappresenti l’insieme della moltitudine, in Livio soltanto i maschi. Gli artigiani sono assegnati agli equipaggi della flotta, accresciuta grazie a diciotto navi cartaginesi catturate 21 (Liv. 26,47,3-4; Polyb. Cf. Pianezzola 20182, 68-70. Anche in precedenza Livio si dimostra in generale poco interessato agli aspetti più didascalici del resoconto polibiano, come i dati autoptici sull’altezza delle mura (10,11,4). 21 Il manoscritto P della terza decade (Paris, Bibliothèque Nationale de France, Lat. 5730) riporta il numerale VIII, ma si tratta probabilmente di un errore del co19 20
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10,17,11-13). A questi dati Livio ne aggiunge altri relativi a macchine da guerra, oggetti preziosi, navi da carico e altro materiale utile alla flotta (26,47,5-10). Q ueste informazioni non sono presenti in Polibio e possono essere state desunte da una o più delle fonti citate a 26,49,2-6, ma non è escluso che fossero presenti anche nello storico greco, il cui resoconto è interrotto a questo punto da una lacuna (dopo 10,17,16). Probabilmente da fonte annalistica è desunto il successivo resoconto dell’assegnazione dei praemia ai soldati e il susseguente diverbio tra fanteria e socii navales (26,48,3-14) 22. Una cospicua integrazione da fonte probabilmente annalistica interessa il famoso episodio della continenza dimostrata da Scipione prima nei confronti della moglie del re ispano Mandonio e delle altre nobildonne già tenute in ostaggio dai Cartaginesi, poi di una splendida prigioniera offertagli dai soldati come concubina (Liv. 26,50,1-13; Polyb. 10,18,7 – 19,7) Anche in questo caso l’impianto è apparentemente polibiano: Livio segue lo storico greco tanto nella scansione narrativa del racconto quanto nei dettagli, arrivando di fatto a tradurre la fonte in un passaggio specifico. Racconta infatti Polibio che la moglie di Mandonio si prostra ai piedi del comandante e tra le lacrime lo prega di trattare le donne meglio di come abbiano fatto i Cartaginesi: 10,18,7 ἐκ δὲ τῶν αἰχμαλωτίδων τῆς Μανδονίου γυναικός, ὃς ἦν ἀδελφὸς Ἀνδοβάλου τοῦ τῶν Ἰλεργητῶν βασιλέως, προσπεσούσης αὐτῷ καὶ δεομένης μετὰ δακρύων ἐπιστροφὴν ποιήσασθαι τῆς αὑτῶν εὐσχημοσύνης ἀμείνω Καρχηδονίων. In un primo momento Scipione crede che le sue lamentele riguardino le condizioni materiali della loro prigionia e domanda di cos’abbiano bisogno, ma la supplice rimane in silenzio; il comandante chiede perciò spiegazioni alle guardie assegnate alle matrone, ricevendo rassicurazioni in merito al loro trattamento. La donna allora chiarisce che i suoi timori riguardano la castità delle giovani prigioniere e non il semplice sostentamento; di fronte alla verità, Scipione è mosso a sua volta alle lacrime e promette di vigilare sulle fanciulle come su proprie figlie e sorelle. Lo scambio pista (cf. anche Walbank 1957-1979, II ad 10,17,13), corretto in XVIII sulla base di Polibio già da Sigonius. 22 L’origine non polibiana dell’episodio è confermata dalla discrepanza cronologica: secondo Livio la distribuzione del bottino avvenne lo stesso giorno della battaglia e l’assegnazione dei praemia il giorno seguente (26,48,3), mentre Polibio colloca anche la ripartizione del bottino il giorno successivo (10,16,1).
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di battute è giocato sul termine greco εὐσχημοσύνη, usato dalla moglie di Mandonio nel senso di ‘onore, rispettabilità’ ma che può essere interpretato anche come ‘eleganza, decoro’ 23. Lo stesso Polibio sottolinea il fraintendimento per bocca della donna: 10,18,12 οὐκ ὀρθῶς…στρατηγέ τοὺς ἡμετέρους ἐκδέχῃ λόγους. In Livio la richiesta della prigioniera è più generica e priva di riferimenti al trattamento ricevuto dai Cartaginesi, ma la sintassi della frase è evidentemente equivalente: 26,49,11 inter haec e media turba obsidum mulier magno natu, Mandonii uxor, qui frater Indibilis Ilergetum reguli erant, flens ad pedes imperatoris procubuit obtestarique coepit ut curam cultumque feminarum impensius custodibus commendaret. Soprattutto, il gioco lessicale è riprodotto fedelmente nella dittologia allitterante curam cultumque, i cui termini possono riferirsi, specialmente in presenza del genitivo feminarum, tanto alla sfera materiale e mondana, ‘cura, eleganza’ 24, quanto a quella etico-sessuale, ‘rispettabilità’. Tuttavia, nel secondo momento dell’episodio, quello relativo all’incontro tra Scipione e la bella prigioniera, Livio introduce il personaggio del fidanzato della giovane, Allucio, assente in Polibio e certamente desunto da altra fonte 25. Come nel caso delle aggiunte viste in precedenza, una sicura identificazione di questa fonte non è possibile 26. Grazie a un passo di Gellio (7,8,6 = FRHist 25F29) sappiamo che l’episodio era raccontato anche da Valerio Anziate e che l’annalista si distingueva dagli altri storici perché sosteneva che Scipione avesse effettivamente approfittato della ragazza. I magri dettagli forniti da Gellio, però, non permettono di ipotizzare che Anziate menzionasse Allucio. Anzi, semmai il contrario: a detta di Gellio, Anziate raccontava che Scipione si rifiutò di restituire la giovane al padre, e non al fidanzato: 7,8,6 Valerium Cf. LSJ s.v. Cf. spec. Ov., epist. 8,95 non cultus tibi cura mei; Cels. 6,5 sed eripi tamen feminis cura cultus sui non potest; si veda ThLL s.v. cultus 1328, 12 ss. La stessa sovrapposizione semantica è forse rintracciabile a 34,7,9 munditiae et ornatus et cultus, haec feminarum insignia sunt, his gaudent et gloriantur, hunc mundum muliebrem appellarunt maiores vestri (cf. anche Ov., fast. 4,107-108 [Venus] prima feros habitus homini detraxit: ab illa / venerunt cultus mundaque cura sui, con Bömer 1958 ad loc.). 25 Alla versione liviana si rifanno Val. Max. 4,3,1; Sil. 15,268-285; Dion. Cass. 16, fr. 57,43; Frontin. strat. 2,11,5. L’assenza del fidanzato Allucio fa invece supporre che altre fonti siano maggiormente influenzate dalla tradizione polibiana, cf. spec. Vir. ill. 49,8; Polyaen. 8,16,6. 26 Secondo Klotz 1940, 179 potrebbe trattarsi di Celio Antipatro (cf. anche J. W. Rich in FRHist III 344). 23 24
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Antiatem adversus ceteros omnis scriptores de Scipionis moribus sensisse et eam puellam captivam non redditam patri scripsisse contra quam nos supra diximus, sed retentam a Scipione atque in deliciis amoribusque ab eo usurpatam. L’ultima sezione del racconto torna ad essere sostanzialmente aderente a Polibio: terminate le disposizioni in merito ai prigionieri, Scipione invia Lelio a Roma, assieme a Magone e a una quindicina di senatori prigionieri (Liv. 26,51,2; Polyb. 10,19,8 che tuttavia non riporta il numero di senatori, evidentemente desunto da altra fonte); successivamente, Scipione organizza un sistema di addestramento per le truppe, organizzato in cicli di quattro giorni, che alterna sessioni di allenamento e riposo (Liv. 26,51,3-5; Polyb. 10,20,1-5); rispetto a Polibio, Livio inverte l’ordine del terzo e del quarto giorno, che secondo lo storico greco erano dedicati rispettivamente al riposo e al combattimento con le spade, ma dal momento che la modifica offre una scansione più sensata 27 non è improbabile che essa sia da attribuire all’iniziativa di Livio stesso piuttosto che all’utilizzo di un’altra fonte. In ogni caso, il generale impianto polibiano di quest’ultima sezione è dimostrato dalla ripresa della citazione di Senofonte (Hell. 3,4,17) con cui Polibio suggella la descrizione dei preparativi messi in atto a Cartagena (Polyb. 10,20,6-7; Liv. 26,51,7): Λοιπὸν τῶν μὲν πεζικῶν στρατοπέδων κατὰ τοὺς πρὸ τῆς πόλεως τόπους χρωμένων ταῖς μελέταις καὶ ταῖς γυμνασίαις, τῶν δὲ ναυτικῶν δυνάμεων κατὰ θάλατταν ταῖς ἀναπείραις καὶ ταῖς εἰρεσίαις, τῶν δὲ κατὰ τὴν πόλιν ἀκονώντων τε καὶ χαλκευόντων καὶ τεκταινομένων, καὶ συλλήβδην ἁπάντων σπουδαζόντων περὶ τὰς τῶν ὅπλων κατασκευάς, (7) οὐκ ἔσθ’ ὃς οὐκ ἂν εἶπε κατὰ τὸν Ξενοφῶντα τότε θεασάμενος ἐκείνην τὴν πόλιν ἐργαστήριον εἶναι πολέμου. Haec extra urbem terra marique corpora simul animosque ad bellum acuebant. Urbs ipsa strepebat apparatu belli, fabris omnium generum in publicam officinam inclusis.
Il passo liviano, benché più sintetico, riprende la distinzione tra i diversi contesti in cui fervono i preparativi (extra urbem terra marique…urbs ipsa; cf. πρὸ τῆς πόλεως τόπους… κατὰ θάλατταν… κατὰ τὴν πόλιν) e soprattutto ingloba, senza esplicitarla, la citazione di Senofonte, arricchendo il proprio resoconto di suggestioni provenienti dal racconto originale ma non recepite da Polibio, Cf. Walbank 1957-1979, II ad loc.
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e in particolare suggerendo un parallelo tra Scipione e Agesilao. Come osservato 28, infatti, l’espressione fabris omnium generum… inclusis allude all’idea del comandante che impiega qualunque artigiano abbia a propria disposizione (Xen., Hell. 3,4,17 οἵ τε χαλκοτύποι καὶ οἱ τέκτονες καὶ οἱ χαλκεῖς καὶ οἱ σκυτοτόμοι καὶ οἱ ζωγράφοι πάντες πολεμικὰ ὅπλα κατε-σκεύαζον). In Livio Scipione si addestra con i soldati (26,51,8), come Agesilao in Senofonte (Hell. 3,4,18), mentre in Polibio si limita a supervisionare i lavori. Infine, il riferimento ai corpi e agli animi dei soldati preparati alla guerra (corpora simul animosque ad bellum acuebant) trova un parallelo in Senofonte ma non in Polibio (cf. Hell. 3,4,20 ὅπως αὐτόθεν οὕτω τὰ σώματα καὶ τὴν γνώμην παρασκευάζοιντο ὡς ἀγωνιούμενοι). A questo proposito, comunque, si può osservare che mentre Senofonte usa il generico παρασκευάζειν, con il verbo acuere Livio fa una scelta decisamente più connotata sul piano stilistico, che anticipa l’imagery della forgia e della carpenteria evocata immediatamente dopo e sembra alludere al verbo ἀκονᾶν usato da Polibio in riferimento all’armamentario (10,20,6 ἀκονώντων τε καὶ χαλκευόντων καὶ τεκταινομένων). Rispetto a Polibio e Senofonte, inoltre, Livio arricchisce la scena di una potente dimensione sonora grazie al sintagma strepebat apparatu belli 29. Q uanto visto fino a questo punto dimostra la sostanziale aderenza di Livio a Polibio, impiegato come fonte non esclusiva ma certamente principale, e, allo stesso tempo, l’esistenza di dati e dettagli che devono necessariamente essere stati desunti da una o più fonti alternative. L’ultimo passo considerato, però, lascia intravedere il grado di consapevolezza autoriale con cui Livio tratta la propria fonte, che, pur seguita con precisione talvolta sorprendente, è spesso sottoposta a rielaborazioni retoriche di grande raffinatezza. Proprio indagando modi e forme di queste rielaborazioni è possibile illuminare i lati più impliciti della storiografia liviana, il suo punto di vista sui fatti raccontati e la complessità retorica del suo resoconto. C’è, in effetti, un aspetto della vicenda di Nova Carthago su cui Livio si distanzia visibilmente da Polibio, vale a dire la rappresentazione di Scipione, la sua costruzione in quanto personaggio. Cf. Levene 2010, 92-95. L’espressione sarà ripresa da Curt. 4,2,12 omnia belli apparatu strepunt: ferreae quoque manus – harpagonas vocant – quas operibus hostium inicerent, corvique et alia tuendis urbibus excogitata praeparabantur. 28 29
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Si è visto che in Polibio il resoconto dell’assedio di Cartagena è anticipato da un ritratto del comandante, nel quale lo storico prende polemicamente le distanze dai suoi predecessori che, credendo di elogiarlo, hanno attribuito i suoi successi militari a una sorta di sua ‘divinità’, una connessione con gli dèi che gli accordava una speciale buona sorte in ogni impresa 10,2,5-7): Οἱ μὲν οὖν ἄλλοι πάντες αὐτὸν ἐπιτυχῆ τινα καὶ τὸ πλεῖον αἰεὶ παραλόγως καὶ ταὐτομάτῳ κατορθοῦντα τὰς ἐπιβολὰς παρεισάγουσι, (6) νομίζοντες ὡς ἂν εἰ θειοτέρους εἶναι καὶ θαυμαστοτέρους τοὺς τοιούτους ἄνδρας τῶν κατὰ λόγον ἐν ἑκάστοις πραττόντων, ἀγνοοῦντες ὅτι τὸ μὲν ἐπαινετόν, τὸ δὲ μακαριστὸν εἶναι συμβαίνει τῶν προειρημένων, (7) καὶ τὸ μὲν κοινόν ἐστι καὶ τοῖς τυχοῦσι, τὸ δ’ἐπαινετὸν μόνον ἴδιον ὑπάρχει τῶν εὐλογίστων καὶ φρένας ἐχόντων ἀνδρῶν, οὓς καὶ θειοτάτους εἶναι καὶ προσφιλεστάτους τοῖς θεοῖς νομιστέον.
In realtà, sostiene Polibio, Scipione basava i propri successi militari sul calcolo razionale, su una ben ponderata strategia e su un attento ragionamento. La sua fama di ‘uomo divino’ non è altro che il risultato della sua strategia comunicativa, che ha sfruttato l’elemento religioso come uno strumento per infondere coraggio alle truppe, similmente a quanto fatto da Licurgo per rendere più gradita agli Spartani la nuova costituzione (10,2,8-12). Ἐμοὶ ‹δὲ› δοκεῖ Πόπλιος Λυκούργῳ τῷ τῶν Λακεδαιμονίων νομοθέτῃ παραπλησίαν ἐσχηκέναι φύσιν καὶ προαίρεσιν. (9) Οὔτε γὰρ Λυκοῦργον ἡγητέον δεισιδαιμονοῦντα καὶ πάντα προσέχοντα τῇ Πυθίᾳ συστήσασθαι τὸ Λακεδαιμονίων πολίτευμα, οὔτε Πόπλιον ἐξ ἐνυπνίων ὁρμώμενον καὶ κληδόνων τηλικαύτην περιποιῆσαι τῇ πατρίδι δυναστείαν· (10) ἀλλ’ ὁρῶντες ἑκάτεροι τοὺς πολλοὺς τῶν ἀνθρώπων οὔτε ‹τὰ› παράδοξα προσδεχομένους ῥᾳδίως οὔτε τοῖς δεινοῖς τολμῶντας παραβάλλεσθαι χωρὶς τῆς ἐκ τῶν θεῶν ἐλπίδος, (11) Λυκοῦργος μὲν αἰεὶ προσλαμβανόμενος ταῖς ἰδίαις ἐπιβολαῖς τὴν ἐκ τῆς Πυθίας φήμην εὐπαραδεκτοτέρας καὶ πιστοτέρας ἐποίει τὰς ἰδίας ἐπινοίας, (12) Πόπλιος δὲ παραπλησίως ἐνεργαζόμενος αἰεὶ δόξαν τοῖς πολλοῖς ὡς μετά τινος θείας ἐπιπνοίας ποιούμενος τὰς ἐπιβολάς, εὐθαρσεστέρους καὶ προθυμοτέρους κατεσκεύαζε τοὺς ὑποταττομένους πρὸς τὰ δεινὰ τῶν ἔργων.
A guidare il comandante, insomma, non erano davvero visioni inviate dagli dèi, ma la ragione. Egli, infatti, fu non soltanto, come tutti ricordano, magnanimo e munifico, ma anche ‘acuto, sobrio e con la mente tesa all’obiettivo’ (10,3,1): Ἐκεῖνος γὰρ ὅτι μὲν ἦν εὐεργετικὸς καὶ μεγαλόψυχος ὁμολογεῖται, διότι δ’ ἀγχίνους καὶ νήπτης καὶ τῇ διανοίᾳ περὶ τὸ προτεθὲν ἐντεταμένος, οὐθεὶς ἂν συγχωρήσειε πλὴν τῶν συμβεβιωκότων καὶ τεθεαμένων ὑπ’ αὐγὰς αὐτοῦ τὴν φύσιν.
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Dal punto di vista retorico, perciò, il ritratto polibiano serve un obiettivo specifico: sgombrare il campo dalle dicerie sulla natura divina di Scipione ed esaltare, per converso, la sua genialità di stratega e il suo saggio uso della ragione. Il ritratto, perciò si risolve in una disamina piuttosto dettagliata delle virtù razionali di Scipione, ribadite dopo la parentesi dedicata agli episodi della sua giovinezza: il salvataggio del padre al Ticino (10,3,3-6) e l’elezione a edile curule (10,4,1 – 5,8), quest’ultimo particolarmente rivelatore del suo scaltro uso del soprannaturale per ottenere il sostegno della cittadinanza. Viene ricordata la sua assennatezza (10,3,7 ὅπερ ἴδιόν ἐστιν οὐ τῇ τύχῃ πιστεύοντος, ἀλλὰ νοῦν ἔχοντος ἡγεμόνος), il suo raziocinio e la sua saggezza (10,5,8 ἐκ λογισμοῦ ‹καὶ› προνοίας), ma anche la sua prontezza e la sua intraprendenza, individuate come le sue virtù più nobili (10,5,9 τὰ σεμνότατα καὶ κάλλιστα τἀνδρός, λέγω δὲ τὴν ἐπιδεξιότητα καὶ φιλοπονίαν). Soprattutto, il suo supposto legame con gli dèi viene interamente ricondotto a questa attenta strategia comunicativa. Proprio su quest’ultimo tema si sofferma Livio nel suo ritratto del comandante, collocato, diversamente da Polibio, subito dopo la sua elezione a privatus cum imperio 30. La coincidenza tematica suggerisce che anche per il suo ritratto Livio si sia basato almeno in parte sullo storico greco, e che il ritratto sia perciò pensato per essere letto in relazione a quello proposto dalla sua fonte. Come ho già avuto modo di osservare 31, il ritratto liviano è sorprendentemente ambiguo: l’uso spregiudicato della religione a scopo propagandistico portato avanti da Scipione è connotato da termini problematici, come ars (26,19,3), che nella terza decade è specialmente associato alla perfidia cartaginese, e superstitio (26,19,4), regolarmente usato da Livio per indicare forme di culto deviate. La strategia di Scipione è paragonata al culto della personalità già nato attorno ad Alessandro Magno (26,19,7), agli occhi di Livio il prototipo del sovrano ellenistico dispotico e, benché valoroso, moralmente corrotto 32. Livio concorda con Polibio nell’individuare in quest’uso opportunistico della religione la chiave del successo di Scipione (26,19,9 quibus freta tunc civitas aetati 30 È bene sottolineare che il resoconto polibiano dell’elezione di Scipione è andato perduto e non è possibile operare alcun confronto diretto con Livio. 31 Cf. Beltramini – Rocco 2020. 32 Cf. la famosa digressione a 9,17,1 – 19,17.
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haudquaquam maturae tantam rerum molem tantumque imperium permisit), ma sopprime completamente l’analisi delle sue virtù, con il risultato di spostare il baricentro del ritratto sulle false dicerie da lui stesso diffuse. Se, perciò, Polibio propone ai lettori questo ritratto con l’intento dichiarato di esaltare le doti strategiche di Scipione, in polemica con chi non ha reso giustizia al suo acume, Livio sembra più che altro interessato a costruire un’immagine moralmente complessa di capo carismatico, che usa strategie comunicative audaci e non prive di lati problematici. Come si è visto, inoltre, Polibio antepone il ritratto al resoconto dell’assedio di Cartagena, con l’intento di offrire al lettore un quadro della sua personalità necessario a comprendere a fondo quanto accaduto in Spagna: 10,2,1 Ὅτι μέλλοντες ἱστορεῖν τὰ πραχθέντα Ποπλίῳ κατὰ τὴν Ἰβηρίαν, συλλήβδην δὲ πάσας τὰς κατὰ τὸν βίον ἐπιτελεσθείσας αὐτῷ πράξεις, ἀναγκαῖον ἡγούμεθα τὸ προεπιστῆσαι τοὺς ἀκούοντας ἐπὶ τὴν αἵρεσιν καὶ φύσιν τἀνδρός; 10,5,10 ἔτι δὲ μᾶλλον ἔσται τοῦτο συμφανὲς ἐπ’ αὐτῶν τῶν πράξεων. L’assedio di Cartagena, insomma, rappresenta per Polibio l’occasione in cui i tratti della personalità di Scipione, che nel ritratto sono individuati in modo per così dire teorico, trovano concreta e macroscopica dimostrazione. La stessa funzione retorico-argomentativa lega ritratto e resoconto dell’assedio in Livio, benché le due sezioni siano dislocate in punti diversi del libro: il racconto della conquista della città spagnola è costruito in modo da dare al lettore viva testimonianza dei lati della personalità di Scipione valorizzati nel ritratto. Proprio la diversa connotazione del ritratto del comandante nei due autori permette perciò di spiegare le più notevoli modifiche apportate da Livio alla propria fonte, modifiche che riguardano non soltanto il piano retorico-narrativo ma anche, e soprattutto, quello ideologico. Un caso emblematico è rappresentato dal primo discorso tenuto da Scipione di fronte ai soldati, collocato nel momento dell’attraversamento dell’Ebro. Polibio attribuisce al condottiero un discorso conciso e basato su argomenti tattico-militari: il personaggio esorta i soldati a non lasciarsi abbattere dalle sconfitte subite, causate, a suo dire, non da scarso valore ma piuttosto da specifici errori strategici e dal tradimento degli alleati Celtiberi; a dispetto delle avversità, la situazione dei Romani sta volgendo al meglio e i nemici sono pressati dagli stessi svantaggi tattici patiti dalla repubblica fino a quel momento: disgregazione delle forze, ostilità degli 127
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alleati e divisioni interne; li esorta perciò ad attraversare il fiume fiduciosi e senza timore (10,6,1-6). Οὐ μὴν ἀλλὰ τότε συνηθροισμένων τῶν δυνάμεων παρεκάλει μὴ καταπεπλῆχθαι τὴν προγεγενημένην περιπέτειαν· (2) οὐ γὰρ ταῖς ἀρεταῖς ἡττῆσθαι Ῥωμαίους ὑπὸ Καρχηδονίων οὐδέποτε, τῇ δὲ προδοσίᾳ τῇ Κελτιβήρων καὶ τῇ προπετείᾳ, διακλεισθέντων τῶν στρατηγῶν ἀπ’ ἀλλήλων διὰ τὸ πιστεῦσαι τῇ συμμαχίᾳ τῶν εἰρημένων. (3) ὧν ἑκάτερα νῦν ἔφη περὶ τοὺς πολεμίους ὑπάρχειν· χωρὶς γὰρ ἀπ’ ἀλλήλων πολὺ διεσπασμένους στρατοπεδεύειν, τοῖς τε συμμάχοις ὑβριστικῶς χρωμένους ἅπαντας ἀπηλλοτριωκέναι καὶ πολεμίους αὑτοῖς παρεσκευακέναι. (4) διὸ καὶ τοὺς μὲν ἤδη διαπέμπεσθαι πρὸς σφᾶς, τοὺς δὲ λοιπούς, ὡς ἂν τάχιστα θαρρήσωσι καὶ διαβάντας ἴδωσι τὸν ποταμόν, ἀσμένως ἥξειν, οὐχ οὕτως εὐνοοῦντας σφίσι, τὸ δὲ πλεῖον ἀμύνεσθαι σπουδάζοντας τὴν Καρχηδονίων εἰς αὐτοὺς ἀσέλγειαν, (5) τὸ δὲ μέγιστον, στασιάζοντας πρὸς ἀλλήλους τοὺς τῶν ὑπεναντίων ἡγεμόνας ἅθρους διαμάχεσθαι πρὸς αὐτοὺς οὐ θελήσειν, κατὰ μέρος δὲ κινδυνεύοντας εὐχειρώτους ὑπάρχειν. (6) διὸ βλέποντας εἰς ταῦτα παρεκάλει περαιοῦσθαι τὸν ποταμὸν εὐθαρσῶς· περὶ δὲ τῶν ἑξῆς ἀνεδέχετο μελήσειν αὑτῷ καὶ τοῖς ἄλλοις ἡγεμόσι.
Livio dà maggior rilievo alla dimensione oratoria ricorrendo all’ora tio recta, e, soprattutto, dilata enormemente il discorso, che arriva a una lunghezza più che quadrupla rispetto a quello riportato da Polibio 33. L’operazione può non stupire, considerando l’attitudine liviana all’elaborazione retorica e alla drammatizzazione. Ma è bene sottolineare che il discorso dello Scipione liviano non rappresenta soltanto un’amplificazione retorica della corrispettiva sezione polibiana 34, esso differisce soprattutto per contenuto e strategia argomentativa. In Livio, l’intero discorso di Scipione ruota attorno ad argomenti legati alla sfera dell’imponderabile, all’ispirazione divina, al ruolo di dèi e fortuna nella sorte di Roma 35. Il primo 33 Un’analisi comparata di questo discorso e di quello tenuto da Scipione contro Fabio (28,43,2 – 44,18) è offerta da Botha 1980. 34 Amplificazione retorica che, ovviamente, non manca; si veda ad es. come la semplice esortazione ad attraversare il fiume di Polibio (10,6,6 διὸ βλέποντας εἰς ταῦτα παρεκάλει περαιοῦσθαι τὸν ποταμὸν εὐθαρσῶς) sia volta da Livio in un’efficace apostrofe scandita dall’anafora degli imperativi e culminante nella potente immagine di Scipione come incarnazione del padre redivivo: 26,41,23-25 agite, veteres milites, novum exercitum novumque ducem traducite Hiberum, traducite in terras cum multis fortibus factis saepe a vobis peragratas. (24) Brevi faciam ut, quemadmodum nunc noscitatis in me patris patruique similitudinem oris vultusque et lineamenta corporis, (25) ita ingenii fidei virtutisque effigiem vobis reddam ut revixisse aut renatum sibi quisque Scipionem imperatorem dicat. 35 Sul ruolo della fortuna in questo discorso cf. Lazarus 1978 che evidenzia giustamente i rimandi al discorso del padre di Scipione a 21, 41; Botha 1980, 69-74 con
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riferimento alla fortuna si trova già nel secondo periodo dell’exordium, quando Scipione rivolge il proprio ringraziamento ai soldati per aver mantenuto salde le posizioni a dispetto delle disfatte subite; in questa prima occorrenza, il termine ha un significato vicino a ‘sorte, caso’ (26,41,4-5): Me vobis priusquam provinciam aut castra viderem obligavit fortuna, primum quod ea pietate erga patrem patruumque meum vivos mortuosque fuistis, (5) deinde quod amissam tanta clade provinciae possessionem integram et populo Romano et successori mihi virtute vestra obtinuistis.
Ma nei paragrafi successivi al termine è data via via una connotazione sempre più universale e provvidenziale. Per convincere i soldati che le sorti della guerra volgono ora a favore dei Romani, Scipione si appella alla fortuna publica di Roma, contrastandola con i propri lutti personali (26,41,9): Sed ut familiaris paene orbitas ac solitudo frangit animum, ita publica cum fortuna tum virtus desperare de summa rerum prohibet.
L’appello alla fortuna non di un singolo ma dell’intera collettività evoca l’idea di una sorta di nume tutelare che protegge il benessere dello Stato romano 36, al quale Scipione dà una dimensione ancor più universale, individuandolo come una guida che indica agli uomini la strada da percorrere (desperare de summa rerum prohibet) 37. Non è un caso che quest’idea ricorra nel libro 26, nel momento in cui i Romani si affacciano a una fase del tutto nuova della guerra annibalica, che culminerà con la loro vittoria finale. Proprio il ‘proemio al mezzo’ che nel libro 26 segnala la cesura tra le due metà della decade, suggerisce una simile concezione della fortuna, evocata come la forza che, responsabile degli equilibri della guerra, avvia Roma al dominio dell’Oriente 38. Nel dianalisi formale; sul tono profetico di questo discorso cf. anche Stübler 1941, 141-149; Levene 1993, 61. 36 Cf. Kajanto 1957, 70-71, che tuttavia limita a torto questa idea alla prima decade. 37 La locuzione publica fortuna ricorre in altri casi nell’opera liviana, ma sempre nel significato di ‘sorti (= benessere) dello Stato’ e così ricorre poco dopo nel discorso: 26,41,17 vos hic cum parentibus meis…sustinuisse labantem fortunam populi Romani (nella terza decade cf. anche 22,10,8; 28,42,21; 30,37,9). 38 Cf. 37, 5 (…) iam velut despondente fortuna Romanis imperium orientis; su questa concezione della fortuna in Livio, cf. Kajanto 1957, 88-89.
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scorso di Scipione questa concezione provvidenziale della fortuna, che nella sua opera Livio esplicita soltanto molto raramente 39, culmina subito dopo, quando il comandante svela che il fatum ha stabilito che Roma prevalga contro i propri nemici proprio nel momento in cui tutto sembra perduto (26,41,9): Ea fato quodam data nobis sors est ut magnis omnibus bellis victi vicerimus.
Per dimostrare la propria tesi, Scipione si appella a una serie di exempla storici, che dai tempi più remoti della storia di Roma (la guerra contro Porsenna, l’invasione dei Galli, le guerre sannitiche) giungono fino al presente, alla prima guerra punica e ai primi disastrosi anni della seconda (26,41,10-12): Vetera omitto, Porsennam Gallos Samnites: a Punicis bellis incipiam. Q uot classes, quot duces, quot exercitus priore bello amissi sunt? Iam quid hoc bello memorem? (11) Omnibus aut ipse adfui cladibus aut quibus afui, maxime unus omnium eas sensi. Trebia Trasumennus Cannae quid aliud sunt quam monumenta occisorum exercituum consulumque Romanorum? (12) Adde defectionem Italiae, Siciliae maioris partis, Sardiniae; adde ultimum terrorem ac pauorem, castra Punica inter Anienem ac moenia Romana posita et visum prope in portis victorem Hannibalem. In hac ruina rerum stetit una integra atque immobilis virtus populi Romani; haec omnia strata humi erexit ac sustulit.
L’idea che Roma risulti vincitrice proprio nel momento di massimo pericolo echeggia quanto detto dallo stesso Livio nel proemio della terza decade, dove la guerra annibalica è individuata come un evento particolarmente importante anche perché delle due forze in campo riuscì a prevalere proprio quella che era stata più vicina alla disfatta: 21,1,2 et adeo varia fortuna belli ancepsque Mars fuit ut propius periculum fuerint qui vicerunt. Il passaggio sembra presupporre una forte coincidenza tra il punto di vista del personaggio e quello del narratore 40. Rispetto a quanto osservato da Livio, tuttavia, l’affermazione di Scipione è, sul piano ideologico, ben più gravida di conseguenze. Mentre Livio nella sua prefazione nota a posteriori questa peculiarità della guerra annibalica e in essa individua un motivo di impor Cf. Kajanto l. c. Così ad es. Feldherr 1998, 71-72.
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tanza storico-narrativa, Scipione legge le vicende del passato e ne trae un principio metastorico, una chiave interpretativa che gli permette di prevedere a priori l’esito della guerra. Proprio la posa oracolare assunta qui da Scipione è l’aspetto più dirompente della costruzione liviana del personaggio. Nel discorso del comandante, l’individuazione della fortuna e del fatum come forze provvidenziali che orientano le vicende di Roma è finalizzata alla sua autoproclamazione a interprete di tali forze e, soprattutto, della volontà degli dèi 41. Q ui la continuità tra il ritratto offerto da Livio e il discorso del personaggio si fa particolarmente evidente. Il lettore assiste per così dire ‘in diretta’ all’arte affabulatoria di Scipione, che svela ai soldati che gli dèi, i guardiani del benessere della repubblica, hanno ispirato la sua elezione ai comizi 42 e gli hanno poi mostrato il futuro trionfale di Roma attraverso visioni notturne 43 (26,41,18): Nunc di immortales imperii Romani praesides qui centuriis omnibus ut mihi imperium iuberent dari fuere auctores, iidem auguriis auspiciisque et per nocturnos etiam uisus omnia laeta ac prospera portendunt.
Non a caso le parole di Scipione riecheggiano con una certa precisione quelle usate da Livio nel ritratto: 26,19,4 pleraque apud multitudinem aut per nocturnas visa species aut velut divinitus mente monita agens…exsequerentur. Scipione arriva a impiegare il lessico tecnico della profezia, facendosi vero e proprio vates, in grado di divinare di fronte ai suoi soldati l’imminente conquista della Spagna (26,41,19-20): Animus quoque meus, maximus mihi ad hoc tempus vates, praesagit nostram Hispaniam esse, brevi extorre hinc omne Punicum nomen maria terrasque foeda fuga impleturum. (20) Q uod mens sua sponte divinat, idem subicit ratio haud fallax.
Cf. Davies 2004, 109-110. Forse ispirato da questo passo del discorso di Scipione, Silio introduce questo tema già nel racconto dell’elezione a proconsole, durante la quale i senatori, disperati per l’assenza di candidati, pregano gli dèi di inviare a Roma un comandante: 15,7-9 anxia turba patrum quasso medicamina maesti / imperio circumspectant divosque precantur / qui laceris ausit ductor succedere castris. 43 Da notare che nel De divinatione Cicerone critica l’interpretazione di sogni notturne come una forma di superstitio: div. 2,148 explodatur ‹igitur› haec quoque somniorum divinatio pariter cum ceteris. Nam, ut vere loquamur, superstitio fusa per gentis oppressit omnium fere animos atque hominum imbecillitatem occupavit. 41 42
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Dal punto di vista morale, la carica problematica delle parole di Scipione è rivelata proprio dall’interazione del passo con il ritratto del personaggio offerto da Livio: il lettore sa che nulla di quanto affermato dal comandante è vero e che quelle visioni non sono altro che parte di una ben calcolata strategia comunicativa 44. Anche dando una lettura pragmatica di questa strategia e ammettendo che per il pubblico di Livio l’uso opportunistico dell’elemento religioso potesse risultare meno ambiguo di quanto appaia ai moderni, l’appropriazione di prerogative sacerdotali come l’interpretazione della volontà divina non può che essere, nella mentalità religiosa romana, fonte di sospetto 45. E tuttavia è lecito a questo punto domandarsi se davvero qui Livio stia rielaborando Polibio, o se invece l’intera rappresentazione di Scipione-vate non gli derivi da un’altra fonte. Rispondere con certezza non è ovviamente possibile, ma il discorso all’Ebro sembra costruito in modo tale da segnalare piuttosto chiaramente il debito con la fonte greca. Subito dopo la sua autoproclamazione a vate, infatti, Scipione propone ai soldati una serie di altri argomenti, basati questa volta su ragionamenti strategici e presentati esplicitamente come un’alternativa a quelli misticheggianti su cui si è dilungato fino a quel momento. Si tratta, in effetti, di una sintesi dell’intero discorso di Scipione in Polibio, che risulta così incastonato nella più ampia orazione liviana (26,41,20-22): Q uod mens sua sponte divinat, idem subicit ratio haud fallax. Vexati ab iis socii nostram fidem per legatos implorant. Tres duces discordantes prope ut defecerint alii ab aliis, trifariam exercitum in diversissimas regiones distraxere. (21) Eadem in illos ingruit fortuna quae nuper nos adflixit; nam et deseruntur ab sociis, ut prius ab Celtiberis nos, et diduxere exercitus quae patri patruoque meo causa exitii fuit; (22) nec discordia intestina coire eos in unum sinet neque singuli nobis resistere poterunt.
Q uesto raffinato gioco allusivo, nel quale l’ipotesto è inglobato nel testo e presentato come una sorta di versione alternativa, testimonia, credo, la volontà di Livio non soltanto di distanziarsi dalla 44 L’autoproclamazione di Scipione a vates crea un significativo contrasto con il passaggio in cui lo stesso termine viene attribuito dopo morto al suo grande avversario, Fabio Massimo, ma questa volta dalla voce narrante: 30,28,2 cuius tantae dimicationis vatem, qui nuper decessisset, Q . Fabium haud frustra canere solitum graviorem in sua terra futurum hostem Hannibalem, quam in aliena fuisset. 45 Su questo cf. spec. Davies 2004, 126-133.
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propria fonte, ma soprattutto di segnalare al lettore questo distanziamento. È interessante, tuttavia, che anche quando Livio attribui sce a Scipione argomentazioni strategiche non rinunci a volgere in chiave soprannaturale alcuni dei punti toccati nel discorso polibiano, introducendo ancora una volta il concetto di fortuna. Mentre infatti in Polibio Scipione afferma che i Cartaginesi soffrono gli stessi svantaggi tattici sofferti in precedenza dai Romani (10,6,3 ὧν ἑκάτερα νῦν – ἔφη – περὶ τοὺς πολεμίους ὑπάρχειν), in Livio si esprime nei termini di una cattiva fortuna: 26,41,21 eadem in illos ingruit fortuna quae nuper nos adflixit. Ma il discorso di Scipione all’Ebro non è l’unica sezione del resoconto liviano a mostrare una consapevole rielaborazione retorica della fonte. Un altro esempio istruttivo riguarda proprio il momento culminante dell’assedio, quello cioè in cui il mare comincia a ritirarsi dalla laguna che protegge il lato nord della città, dando ai Romani la possibilità di attaccare la parte di mura meno difesa 46. Come ricordato sopra, Polibio racconta che Scipione aveva scoperto il fenomeno naturale durante il lungo lavoro di intelligence dell’inverno precedente (10,8,6-7): Καὶ μὴν οὐδὲ τὴν θέσιν τῆς Καρχηδόνος οὐδὲ τὴν κατασκευὴν οὐδὲ τὴν τῆς περιεχούσης αὐτὴν λίμνης διάθεσιν ἠγνόει, (7) διὰ δέ τινων ἁλιέων τῶν ἐνειργασμένων τοῖς τόποις ἐξητάκει διότι καθόλου μέν ἐστι τεναγώδης ἡ λίμνη καὶ βατὴ κατὰ τὸ πλεῖστον, ὡς δ’ ἐπὶ τὸ πολὺ καὶ γίνεταί τις αὐτῆς ἀποχώρησις καθ’ ἡμέραν ἐπὶ δείλην ὀψίαν.
Oltre al fenomeno naturale e ad altre informazioni riguardanti le difese della città, Scipione aveva appreso che Cartagena rappresentava l’unico porto spagnolo adatto a sferrare un attacco contro l’Africa, che nella città erano custoditi tesori, apparati di guerra e molti ostaggi dei Cartaginesi, e che a dispetto della sua importanza vi era stata assegnata una guarnigione modesta (10,8,2-5): Ἀκούων δὲ πρῶτον μὲν ὅτι λιμένας ἔχει στόλῳ καὶ ναυτικαῖς δυνάμεσι μόνη σχεδὸν τῶν κατὰ τὴν Ἰβηρίαν, ἅμα δὲ καὶ διότι πρὸς τὸν ἀπὸ τῆς Λιβύης πλοῦν καὶ πελάγιον δίαρμα λίαν εὐφυῶς κεῖται τοῖς Καρχηδονίοις, (3) μετὰ δὲ ταῦτα διότι καὶ τὸ τῶν χρημάτων πλῆθος καὶ τὰς ἀποσκευὰς τῶν στρατοπέδων ἁπάσας ἐν ταύτῃ τῇ πόλει συνέβαινε τοῖς Καρχηδονίοις ὑπάρχειν, ἔτι δὲ τοὺς ὁμήρους τοὺς ἐξ ὅλης τῆς Ἰβηρίας, 46 Per una discussione sulla plausibilità storica di questo avvenimento cf. da ultimo Richardson 2018, con ampia discussione delle posizioni critiche precedenti.
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(4) τὸ δὲ μέγιστον, ὅτι μάχιμοι μὲν ἄνδρες εἴησαν εἰς χιλίους οἱ τὴν ἄκραντηροῦντες διὰ τὸ μηδένα μηδέποτ’ ἂν ὑπολαμβάνειν ὅτι κρατούντων Καρχηδονίων σχεδὸν ἁπάσης Ἰβηρίας ἐπινοήσει τις τὸ παράπαν πολιορκῆσαι ταύτην τὴν πόλιν, (5) τὸ δ’ ἄλλο πλῆθος ὅτι πολὺ μὲν εἴη διαφερόντως ἐν αὐτῇ, πᾶν δὲ δημιουργικὸν καὶ βάναυσον καὶ θαλαττουργὸν καὶ πλεῖστον ἀπέχον πολεμικῆς ἐμπειρίας, ὃ κατὰ τῆς πόλεως ὑπελάμβανεν εἶναι, παραδόξου γενομένης ἐπιφανείας.
Subito prima di dare il via all’assedio, Scipione tiene un secondo discorso, riportato ancora una volta in forma indiretta e ancor più breve del primo, in cui sostiene che Poseidone gli è apparso e gli ha svelato che avrebbe offerto ai Romani aiuto al momento opportuno (10,11,7): Τὸ δὲ τελευταῖον ἐξ ἀρχῆς ἔφη τὴν ἐπιβολὴν αὐτῷ ταύτην ὑποδεδειχέναι τὸν Ποσειδῶνα παραστάντα κατὰ τὸν ὕπνον, καὶ φάναι συνεργήσειν ἐπιφανῶς κατ’ αὐτὸν τὸν τῆς πράξεως καιρὸν οὕτως ὥστε παντὶ τῷ στρατοπέδῳ τὴν ἐξ αὐτοῦ χρείαν ἐναργῆ γενέσθαι.
Nel momento in cui la laguna si prosciuga, i soldati romani ricordano quanto affermato dal comandante e interpretano ciò che sta accadendo come la realizzazione della promessa di Poseidone (10,14,7-12): Κατὰ δὲ τὴν ἀκμὴν τοῦ διὰ τῶν κλιμάκων ἀγῶνος ἤρχετο τὰ κατὰ τὴν ἄμπωτιν (8) καὶ τὰ μὲν ἄκρα τῆς λίμνης ἀπέλειπε τὸ ὕδωρ κατὰ βραχύ (…) (12) ἐξ οὗ καὶ μνησθέντες τῶν κατὰ τὸν Ποσειδῶ καὶ τῆς τοῦ Ποπλίου κατὰ τὴν παράκλησιν ἐπαγγελίας, ἐπὶ τοσοῦτο ταῖς ψυχαῖς παρωρμήθησαν ὡς συμφράξαντες καὶ βιασάμενοι πρὸς τὴν πύλην ἔξωθεν ἐπεχείρουν διακόπτειν τοῖς πελέκεσι καὶ ταῖς ἀξίναις τὰς θύρας.
La diversa organizzazione narrativa del racconto liviano è particolarmente rilevante per la generale caratterizzazione di Scipione. Livio non accenna qui al lavoro di intelligence compiuto l’anno precedente: le informazioni che secondo Polibio il comandante avrebbe ottenuto durante l’inverno sono dislocate da Livio in diversi punti del resoconto. Innanzitutto, sono riferite dalla stessa voce narrante nel momento in cui il lettore viene informato dell’intenzione di Scipione di muovere contro Nova Carthago (26,42,3-4): Carthaginem Novam interim oppugnare statuit urbem cum ipsam opulentam suis opibus tum hostium omni bellico apparatu plenam – ibi arma, ibi pecunia, ibi totius Hispaniae obsides erant – (4) sitam praeterea cum opportune ad traiciendum in Africam tum super portum satis amplum quantaevis classi et nescio an unum in Hispaniae ora qua nostro adiacet mari.
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Anche in Livio Scipione tiene un secondo discorso prima di lanciare l’assedio a Cartagena (26,43,3-8), in cui ribadisce i motivi di importanza già segnalati al lettore dalla voce narrante. In questa fase, tuttavia, né la voce narrante né il personaggio, fanno alcun cenno alla bassa marea, a Poseidone o ad altre visioni divine 47. È soltanto nel bel mezzo dell’assedio, nel momento cioè in cui la laguna comincia effettivamente a prosciugarsi, che il lettore scopre che Scipione era stato messo al corrente del fenomeno da alcuni pescatori di Tarragona (26,45,7-8): Ipse ut ei nuntiatum est aestum decedere, quod per piscatores Tarraconenses, nunc levibus cumbis, nunc ubi eae siderent vadis pervagatos stagnum, compertum habebat facilem pedibus ad murum transitum dari, eo secum armatos quingentos duxit. (8) Medium ferme diei erat, et ad id, quod sua sponte cedente in mare aestu trahebatur aqua, acer etiam septentrio ortus inclinatum stagnum eodem quo aestus ferebat et adeo nudauerat vada ut alibi umbilico tenus aqua esset, alibi genua vix superaret.
E soltanto in questo momento Scipione, facendosi ancora una volta interprete dell’imponderabile, svela alle truppe che ciò che sta accadendo è il risultato di un intervento di Nettuno, che sta spianando loro la strada verso la vittoria (26,45,9) 48: Hoc cura ac ratione compertum in prodigium ac deos vertens Scipio qui ad transitum Romanis mare verterent et stagna auferrent viasque ante nunquam initas humano vestigio aperirent, Neptunum iubebat ducem itineris sequi ac medio stagno evadere ad moenia.
Q uesta diversa disposizione del materiale dà evidentemente vita a un resoconto più avvincente sul piano narrativo, ma serve soprattutto a caratterizzare in modo diverso il protagonista dell’episodio. Come nel caso della sua inaspettata comparsa ai comizi in occasione della sua elezione (26,18,7-8) 49, il comandante è ancora una volta regista di un ben orchestrato colpo di scena. Un colpo di scena che ha però l’effetto di mostrare al lettore il netto contrasto tra la vera origine delle informazioni ricevute da lui e l’interpreta47 La fine del discorso è andata perduta (a partire da 26,43,8 hinc omni Hispaniae imminet Africa), ma nel resoconto successivo nulla fa pensare che Poseidone sia stato menzionato in precedenza. 48 La differenza rispetto a Polibio è notata anche da Walbank 1957-1979, II 195. 49 Sugli aspetti teatrali dell’elezione di Scipione cf. Beltramini – Rocco 2020, 239-240.
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zione religiosa offerta alle truppe. Un contrasto che Livio sottolinea esplicitamente proprio nell’antitesi tra la cura e la ratio usate dal comandante per preparare l’attacco e il prodigium che egli inventa a bella posta di fronte ai soldati (hoc cura ac ratione compertum in prodigium ac deos vertens) 50.
Bibliografia Beltramini – Rocco 2020 = L. Beltramini – M. Rocco, Livy on Scipio Africanus. The Commander’s Portrait at 26.19.3-9, CQ 70 (1), 2020, 230-246. Beltramini 2020 = L. Beltramini, ‘Una piaga venuta da genti lontane’: geografia e ideologia del conflitto nella terza decade di Livio, Lexis 38 (2), 2020, 461-490. Bömer 1958 = F. Bömer, P. Ovidius Naso, Die Fasten, Heidelberg 1958. Borzsák 1973 = I. Borzsák, Spectaculum. Ein Motiv der ‘tragischen Geschichtreibung’ bei Livius und Tacitus, ACD 9, 1973, 57-67. Botha 1980 = A. D. Botha, Livy XXVI.41.3-25 and XXVIII.43.2-44.18, Aclass 23, 1980, 69-81. Burck 1950 = E. Burck, Einführung in die dritte Dekade des Livius, Heidelberg 1950. Burck 1971 = E. Burck, The Third Decade, in T. A. Dorey (ed.), Livy, London 1971, 21-46. Davies 2004 = J. P. Davies, Rome’s Religious History. Livy, Tacitus and Ammianus on their Gods, Cambridge 2004. DCPP = Dictionnaire de la civilisation phénicienne et punique (edd. Lipinski, E. – Baurain, C. et alii), Turnhout 1992. De Sanctis 1936 = G. De Sanctis, recensione: R. M. Haywood, Studies on Scipio Africanus, RFIC 14, 1936, 189-203. De Sanctis 1917 = G. De Sanctis, Storia dei Romani, vol. III.2: L’età delle guerre puniche, Torino 1917. Droysen 1875 = Zu Polybius (hierzu zwei Karten), RhM 30, 1875, 62-67. Feldherr 1998 = A. Feldherr, Spectacle and Society in Livy’s History, Berkeley – London 1998.
50 Livio è ancor più esplicito nel segnalare al lettore le falsificazioni di Scipione prima della battaglia di Zama, quando il comandante fa ritorno all’accampamento dopo la fallimentare trattativa con Annibale e, sfruttando la segretezza del loro incontro, inventa presagi divini mai avvenuti: 30,32,8-9 ad hoc conloquium Hannibalis in secreto habitum ac liberum fingenti qua vult flectit. Ominatur, quibus quondam auspiciis patres eorum ad Aegates pugnaverint insulas, ea illis exeuntibus in aciem portendisse deos.
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LIVIO E POLIBIO SULL’ASSEDIO DI NOVA CARTHAGO
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VINCENZO CASAPULLA
L’ASSEDIO DI LOCRI NEL LIBRO 29 DI LIVIO
1. Livio e le sue fonti 1.1. Premessa generale Confrontare l’opera di un autore con quella del suo diretto modello è senza dubbio la maniera più immediata di distinguere ciò che in essa è frutto di imitazione da ciò che è frutto, invece, di autonomia compositiva 1. Per l’opera superstite di Livio questo tipo di confronto è possibile solo in un numero limitato di casi. Degli annalisti da cui Livio ha tratto la sua materia si sono infatti conservati solo brevi frammenti e anche dell’opera storica di Polibio sono andate irrimediabilmente perdute ampie porzioni 2. Q uando i diretti modelli di Livio non sono conservati, non è detto però che non sia possibile esprimere alcuna valutazione sulle sue scelte narrative. La vasta perdita delle sue fonti risulta infatti compensata, entro una certa misura, dalle opere superstiti di altri storici, le cui narrazioni corrono per lunghi tratti parallele a quella liviana. Dal confronto tra Livio e questi storici emergono somiglianze nette, che riflettono – certamente in alcuni casi (Diodoro Siculo, Dionigi di Alicarnasso) e verisimilmente 1 I principali lavori sulla terza decade condotti secondo quest’impostazione metodologica sono quelli di Witte 1910, Pianezzola 20182 (in part. 1-16) e Levene 2010, 82-163. 2 L’ipotesi secondo cui Polibio non è stato tra le fonti dirette della terza decade, sostenuta da Tränkle 1977, 193-241, è stata convincentemente confutata da Levene 2010, 127-155, dopo che già altri studiosi avevano espresso scetticismo verso di essa (vedi Rich 1978). Per un recente riepilogo della discussione sul rapporto tra Polibio e la terza decade liviana si veda Oakley 2019, 27-31.
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 139-157 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125325
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in altri (Plutarco, Appiano, Dione Cassio) 3 – l’utilizzo delle sue stesse fonti. Cercare di identificare queste fonti rischia di rivelarsi un esercizio sterile. Gli studi condotti finora con quest’approccio sembrano avere infatti esaurito tutte le ipotesi percorribili, senza per altro pervenire a conclusioni condivise 4. Più promettente appare, invece, valutare se le discordanze tra il racconto liviano e quello di questi storici consentono di ricostruire un quadro più ricco delle possibilità narrative accolte o rigettate da Livio. Almeno per l’episodio cui è dedicato questo contributo, la risposta è da considerarsi, io credo, affermativa. 1.2. Breve quadro della tradizione antica sulla riconquista di Locri Per un caso sfortunato ma non raro, nessuno dei frammenti superstiti della storiografia preliviana riguarda l’episodio della riconquista di Locri nel 205 da parte di Scipione, narrato da Livio nel libro 29 (capp. 6 – 7). Del perduto racconto polibiano si sa solo che doveva trovarsi nel libro 12. Dai frammenti conservati dell’opera di Polibio si ricava, infatti, che gli eventi svoltisi in Italia nel 205 erano da lui raccontati in questo libro 5. A ciò si aggiunge che in uno dei frammenti del libro 12 Polibio ricorda di avere svolto incarichi diplomatici in favore dei Locresi (Polyb. 12,5,1-4), e fornisce una serie d’informazioni sulla loro Costituzione (Polyb. 12,5,5 – 6b,10). Pare dunque plausibile che queste notizie fossero inserite nel contesto dell’episodio della riconquista di Locri, che doveva essere dunque raccontato nel libro 12. Oltre che da Livio, questo episodio viene narrato molto sinteticamente anche da Appiano (Hann. 230), che si limita a riportarne la notizia, senza però raccontarne lo svolgimento 6. Da un confronto 3 Non si può escludere, a rigore, la possibilità che le somiglianze tra Livio e autori a lui posteriori riflettano l’uso da parte di questi di Livio come loro fonte (vedi Oakley 1997-2005, I 19-20). 4 Nonostante la Q uellenforschung sia stata un indirizzo di ricerca a lungo dominante, questa valutazione risulta oggi ampiamente condivisa negli studi liviani (cf. Chaplin – Kraus 2009, 2-5; Oakley 2009, 440; Levene 2010, 127). 5 In proposito si veda Walbank 1957-1979, II 317. 6 App., Hann. 230 ἔνθα στρατὸν ἀγείρας τε καὶ γυμνάσας ἐπέπλευσε Λοκροῖς ἄφνω τοῖς ἐν Ἰταλίᾳ, φρουρουμένοις ὑπὸ Ἀννίβου· καὶ τὴν φρουρὰν κατασφάξας τε καὶ παραδοὺς Πλημινίῳ τὴν πόλιν αὐτὸς ἐς Λιβύην διέπλευσεν. Il testo di Appiano è citato secondo
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tra la sua narrazione e quella di Livio non si ricavano perciò indicazioni utili sulle scelte narrative dei due storici. L’unica fonte che presenta un racconto piuttosto ampio della riconquista di Locri risulta essere l’Epitome storica di Zonara (9,11,8-9), la cui narrazione si basa su quella del perduto libro XVII della Storia romana di Dione Cassio 7. 1.3. Lo status quaestionis Negli studi precedenti prevale l’ipotesi secondo cui la narrazione liviana deriva quasi interamente dalla fonte su cui si è basato anche Dione Cassio 8. È questa infatti la spiegazione più plausibile delle l’edizione di E. Gabba, A. G. Roos e P. Viereck, Appiani historia Romana, vol. 1, Leipzig 1939. 7 Nessuno dei frammenti superstiti del libro 17 di Dione Cassio si sovrappone alla pericope di testo in cui Zonara racconta la riconquista di Locri (9,11,8-9). A rigore, non è quindi possibile verificare se Zonara non ha alterato in qualche punto il testo perduto di Dione Cassio. In concreto, però, questa eventualità appare piuttosto improbabile. I casi in cui l’Epitome di Zonara può essere confrontata col testo di Dione Cassio rivelano che Zonara si limita a ricavare e cucire estratti dalla sua fonte. Nel fare ciò, egli manca talvolta di riportare informazioni storiche fondamentali, ma non sembra inserire mai aggiunte o correzioni (cf. Ziegler 1972, 728). In altre parole, tutto quello che è in Zonara era già nel testo di Dione Cassio. Q uesto assunto è stato messo di recente in discussione da François 2016, 227, secondo cui il racconto di Zonara del ritorno di Scipione dalla Spagna (9,11,6) si accorderebbe con quello di Livio (28,38,6) contro quello di Dione Cassio (Dion. Cass. 17,fr.57,56). Secondo Dione Cassio, Scipione torna a Roma dalla Spagna nel 207 a.C., non in tempo per avanzare la sua candidatura al consolato per l’anno successivo, che viene quindi conferito a Lucio Veturio e Cecilio Metello (Dion. Cass. 17,fr.57,59; cf. Zecchini 2002, 99-101). Diversamente, Livio ritiene che Scipione ritorni a Roma nel 206, in tempo per le elezioni per l’anno seguente. Nel racconto di Zonara non compare, in effetti, alcun riferimento al consolato di Veturio e Metello. Tuttavia, sembra più economico pensare che Zonara ometta gli eventi del 206 per dovere di sintesi. È infatti lo stesso Dione Cassio a dire che quell’anno non avviene nulla di significativo (Dion. Cass. 17,fr.57,59). Zonara deve avere quindi ripreso a copiare il testo di Dione Cassio a partire dal racconto del 205, senza specificare di avere saltato un anno. Che Zonara non sia interessato a dare indicazioni cronologiche precise, lo dimostra il fatto che il passaggio da un anno all’altro viene da lui esplicitamente indicato solo in una minoranza di casi. Non è quindi opportuno, io credo, dubitare dell’aderenza di Zonara a Dione Cassio sulla base di questo solo passo. 8 L’inquadramento dei rapporti tra Dione Cassio e la terza decade di Livio si deve principalmente ai lavori di Schwartz 1899, 1694,47-1696,16, e di Klotz 1936, 68-116. Il loro contenuto può essere così sintetizzato: Livio e Dione Cassio hanno avuto almeno due fonti in comune, una delle quali è sicuramente l’opera di Celio Antipatro. Il confronto tra alcuni frammenti di Celio (FRHist 15F8, F13, F14b, F15) e la parallela narrazione di Zonara (8,22,9; 24,1; 25,7; 25,11) rivela infatti che Celio è stato tra le fonti di Dione Cassio (in part. Klotz 1936, 70-74). Celio non può essere stato, però, l’unica fonte di Dione Cassio, dato che le loro versioni risultano, in altri punti,
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somiglianze tra i racconti di Livio e Zonara 9. I pochi dettagli della narrazione liviana privi di riscontro in Zonara deriverebbero invece dal perduto racconto di Polibio 10. A rivelare l’influsso polibiano sarebbero innanzitutto alcune precisazioni di Livio sulla topografia locrese (29,6,14; 7,3). Come detto in precedenza, Polibio afferma di essere stato personalmente a Locri (Polyb. 12,5,1-4) ed è parso perciò plausibile che la sua narrazione fornisse un’accurata descrizione della città, da cui Livio potrebbe avere attinto 11. All’influsso di Polibio sarebbe poi da ricondurre la ricchezza di dettagli con cui Livio descrive l’attacco a sorpresa dei Romani ai danni dei Cartaginesi 12. Q uello di spiegare analiticamente lo svolgimento delle battaglie è infatti un dovere dello storico su cui Polibio insiste ripetutamente nella sua opera, e sembra quindi verisimile che la precisione tecnico-militare della narrazione liviana rifletta quella della perduta narrazione di Polibio 13. Il limite di un’ipotesi del genere è di fare della narrazione liviana, come si vede, una sorta di assemblaggio delle fonti precedenti. La possibilità che Livio abbia sensibilmente rielaborato le informazioni a sua disposizione appare invece esclusa, e a torto. Nel suo in evidente disaccordo (cf. FRHist 15F12 e Zon. 8,23,9; F25 e Zon. 9,6,2). Oltre che sull’opera di Celio Antipatro, la narrazione di Dione Cassio doveva dunque basarsi anche su quella di un altro storico, verisimilmente Valerio Anziate e non Polibio (vedi Schwartz 1899, 1694,63-1695,25). La lettura sinottica di Livio e Dione Cassio (spesso tramite Zonara) svolge quindi una funzione fondamentale nello studio delle fonti della terza decade: i passi in cui la narrazione di Livio concorda con quella dionea derivano verisimilmente da uno tra Celio Antipatro e Valerio Anziate (Klotz 1936, 74; 116). Né Schwartz, né Klotz ammettono la possibilità che queste somiglianze possano derivare dall’uso, da parte di Dione Cassio, di Livio come sua fonte. Q uesta possibilità non può essere invece esclusa a priori (vedi Oakley 1997, I 20; François 2016, 215). 9 In favore di questa ipotesi si sono espressi, in particolare, Soltau 1897, 211; Kahrstedt 1913, 329-333; Klotz 1941, 192; Grosso 1951, 126-127. Stando a questi studiosi, la fonte in comune tra Livio e Dione Cassio sarebbe Celio Antipatro (cf. n. 8). Un prospetto delle ipotesi avanzate sulle fonti liviane di quest’episodio si trova in François 1994, xxiv-xxv. 10 La presenza di tratti polibiani nella narrazione di Livio è stata rilevata per la prima volta da De Sanctis 1917, 646. L’ipotesi di De Sanctis è stata poi ripresa da Grosso 1951, 127-134, secondo cui Livio avrebbe contaminato il racconto di una prima fonte, verisimilmente Celio Antipatro (fonte anche di Dione Cassio), con il perduto racconto di Polibio. A esprimersi a sostegno dell’ipotesi di De Sanctis è stato, da ultimo, François 1994, xiv-xv, che ha posto l’accento sulla ricchezza di dettagli tattici, presumibilmente ispirata alla lezione storiografica polibiana, con cui Livio racconta la sortita notturna dei Romani. 11 In proposito si veda Casapulla 2018 con rimandi agli studi precedenti. 12 Cf. 29,6,10-14; 7,4-7. 13 Si veda François 1994, xiv.
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racconto ci sono infatti elementi, finora trascurati, che non paiono in alcun modo riconducibili alle sue presunte fonti. Ci si propone quindi di riconsiderare attentamente questi aspetti della narrazione liviana e di chiarire che tipo di scelte storiografiche essi riflettano. Al primo di questi propositi sono dedicati i §§ 2-3, che contengono una lettura preliminare della narrazione di Livio e un suo confronto con la narrazione di Zonara. Al secondo proposito è dedicato invece il § 4, in cui si ridiscute l’ipotesi del possibile influsso di Polibio sulla narrazione liviana.
2. La versione di Livio 2.1. L’antefatto Locri rientra tra le città dell’Italia meridionale che dopo la battaglia di Canne (216 a.C) defezionano in favore di Annibale (23,30,15; 24,1,1-13) 14. I successivi tentativi dei Romani di rioccuparla risultano del tutto inutili. Prima di Scipione tentano l’impresa, senza riuscirvi, Ap. Claudio Pulcro (23,41,10-12), T. Q uinzio Crispino (27,25,10-13) e L. Cincio (27,28,13-17), nella stessa circostanza in cui perde la vita M. Claudio Marcello. Precedenti come questi lasciano supporre che la riconquista di Locri sia un’impresa rischiosa. L’iniziativa di Scipione di recuperare la città nel 205 viene invece introdotta da Livio come ‘un impegno di secondaria importanza’, una minor cogitatio che distoglie Scipione dal suo reale obiettivo, portare cioè la guerra sul suolo africano (29,6,1) 15: Intervenit maiori minor cogitatio Locros urbem recipiendi, quae sub defectionem Italiae desciverat et ipsa ad Poenos.
Sforzandosi di minimizzare ulteriormente l’importanza dell’iniziativa, Livio dice che la speranza di Scipione di riconquistare Locri nasce da una res minima, ‘un evento del tutto insignificante’ (spes autem adfectandae eius rei ex minima re adfulsit, 29,6,2). Si tratta di un avvenimento verificatosi poco prima a Reggio. Il presidio romano qui stanziato cattura alcuni Locresi che si sono incautamente allontanati dalla città (29,6,4). Q uesti ostaggi si offrono, in cambio del loro immediato rilascio, di aiutare i Romani a ricon14 Sulla condotta diplomatica di Locri nel corso della guerra annibalica si veda il fondamentale studio di Fronda 2010, 159-171 e 333-336. 15 Il testo di Livio è citato secondo l’edizione di Luchs 1879.
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quistare Locri, introducendoli di notte nella rocca che ospita il presidio cartaginese. A Reggio, ad ascoltare la loro offerta, ci sono alcuni esuli locresi, scappati dalla città al tempo della sua resa ad Annone. Gli esuli insistono perché i Romani accolgano l’offerta degli ostaggi e, a questo scopo, inviano una delegazione a Siracusa per informare anche Scipione. Q uesti si lascia subito convincere e aderisce con ottimismo all’iniziativa, decidendo addirittura di non parteciparvi in prima persona. Le operazioni vengono infatti delegate ad alcuni ufficiali (29,6,8-9): Cum ordinem agendae rei composuissent signaque quae procul edita obseruarent, ipsi ad Scipionem Syracusas profecti, apud quem pars exulum erat, referentes ibi promissa captiuorum cum spem ab effectu haud abhorrentem consuli fecissent, (9) tribuni militum cum iis M. Sergius et Publius Matienus missi iussique ab Regio tria milia militum Locros ducere.
Il fatto che Livio faccia nuovamente riferimento alla spes di Scipione, già menzionata in precedenza (29,6,2, loc. cit.), conferisce circolarità alla narrazione di questo antefatto e pone l’accento sul problema centrale in questo episodio, cioè se i grandi generali siano sempre in grado di fare previsioni lucide 16. 2.2. Gli errori di Scipione Le aspettative di Scipione sembrano ben riposte. Il piano dei Locresi pare funzionare alla perfezione, come rivelano i vari aspetti tattici che Livio pone in risalto: le scale sono commisurate all’altezza delle mura, i complici rispettano l’ora e il luogo concordati con gli esuli locresi e si fanno trovare pronti, non appena ricevono il segnale stabilito, ad aiutare i Romani a introdursi nella arx di Locri (29,6,10-11): Profecti ab Regio, scalas ad editam altitudinem arcis fabricatas portantes, media ferme nocte ex eo loco unde conuenerat signum dedere proditoribus arcis; (11) qui parati intentique et ipsi scalas ad id ipsum factas cum demisissent pluribusque simul locis scandentes accepissent, priusquam clamor oreretur in uigiles Poenorum, ut in nullo tali metu sopitos, impetus est factus. 16 L’insistenza di Livio sulla parola spes accomuna l’episodio di Locri a quello della conquista di Taranto da parte di Annibale (25,11,2-18). Raccontando questo episodio, Livio usa la parola spes ben cinque volte, riferendosi alle speranze di successo del Cartaginese ripetutamente frustrata dai Romani asserragliati sulla rocca della città. Fondamentale su questo episodio è la discussione di Levene 2010, 302-303 (cf. infra n. 37).
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Entrati nella rocca, i Romani seminano il panico tra i Cartaginesi, i quali si fanno cogliere impreparati. Livio impiega qui uno stile carico di elementi patetici. A prevalere sono la paratassi e l’ellissi verbale, come è consuetudine nelle scene di assedi da lui raccontate 17 (29,6,12): Q uorum gemitus primo morientium exauditus, deinde subita costernatio ex somno et tumultus cum causa ignoraretur, postremo certior res aliis excitantibus alios.
Tutto sembra procedere secondo le aspettative di Scipione, quando la situazione subisce un improvviso ribaltamento. Livio dice infatti che i Cartaginesi sono in realtà in netta superiorità numerica e che è solo grazie a una circostanza fortunata se essi non hanno contrattaccato. Nel qual caso gli uomini mandati da Scipione sarebbero stati certamente massacrati (29,6,13): Oppressique forent Romani nequaquam numero pares, ni clamor ab iis qui extra arcem erant sublatus incertum unde accidisset omnia uana augente nocturno tumultu fecisset.
I Cartaginesi preferiscono rifugiarsi su una seconda arx, e organizzano di lì il loro contrattacco (29,6,14). Mandano a chiamare anche Annibale (29,6,17), che si trova nei pressi di Crotone (cf. 28,46,16). Per i Romani asserragliati sulla rocca di Locri la situazione si fa disperata (29,7,2). L’iniziale insistenza di Livio sulla scarsa importanza dell’iniziativa di Scipione si rivela del tutto proditoria. Livio fa credere che l’impresa sia destinata a un successo agevole, solo per poi tradire le aspettative del lettore, il quale finisce così per cadere negli stessi errori di valutazione commessi dal personaggio di Scipione 18. 2.3. Gli errori di Annibale L’ago della bilancia sembrerebbe pendere in favore dei Cartaginesi, ma Livio anticipa che, grazie alla collaborazione dei Locresi, saranno i Romani ad avere la meglio (29,6,17): Ipse postremo ueniebat Hannibal, nec sustinuissent Romani nisi Locrensium multitudo, exacerbata superbia atque auaritia Poenorum, ad Romanos inclinasset. Cf. Walsh 1970, 181-187. Così Levene 2010, 307-309.
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Q uando il lettore riceve quest’anticipazione, Annibale è ormai prossimo a Locri, mentre Scipione si trova ancora a Siracusa. Resta dunque da capire in che modo il Cartaginese finisce per vanificare un’intera giornata di vantaggio sul suo avversario. Secondo Livio, ciò avviene a causa di una serie di suoi errori tattici piuttosto grossolani. Decide innanzitutto di non entrare in città passando per la arx occupata dal resto dei Cartaginesi. Teme infatti che gli spazi siano troppo angusti e di risultare perciò di ingombro ai suoi, che sono impegnati negli scontri con i Romani. Si trova però sfornito di scale adatte a tentare l’assalto alle mura locresi (29,7,4): Ipse nec in arcem se includere, turba locum artum impediturus, uoluit, neque scalas quibus scanderet muros attulerat.
Intanto che i suoi uomini approntano le scale, Annibale va in ricognizione con la cavalleria, alla ricerca del punto più adatto ad attaccare le mura (29,7,5). Capita a questo punto un imprevisto: un Locrese colpisce dall’alto con una balestra (scorpio) il cavaliere che procede immediatamente accanto ad Annibale, il quale, terrorizzato dal pericolo corso, ordina ai suoi di indietreggiare e di accamparsi in un luogo sufficientemente distante dalle mura, oltre la gittata delle armi dei Locresi (29,7,6): Progressus (scil. Hannibal) ad murum, scorpione icto qui proximus eum forte steterat, territus inde tam periculoso casu receptui canere cum iussisset, castra procul ab ictu teli communit.
A rivelarsi fatale è proprio la distanza tra le mura di Locri e il campo cartaginese. Annibale non può di lì avvedersi dell’arrivo di Scipione, che viene fatto entrare in città dai Locresi prima del tramonto. L’indomani Annibale, munito di scale per l’assedio ma ignaro della presenza di Scipione, lancia l’assalto alle mura di Locri. Scipione fa allora spalancare di colpo le porte e attacca Annibale, che è costretto a una fuga indecorosa (29,7,9): Ad ducentos, improuidos cum inuasissent, occidunt (scil. Romani); ceteros Hannibal, ut consulem adesse sensit, in castra recipit, nuntioque misso ad eos qui in arce erant ut simibet ipsi consulerent, nocte motis castris abiit.
La riconquista di Locri è dunque raccontata da Livio in maniera tale da generare aspettative che vengono poi sistematicamente disattese. I piani strategici di Scipione e Annibale risultano entrambi fallimentari e, se alla fine il Romano ha la meglio, il merito della sua vittoria appartiene, ammette Livio, ai Locresi. 146
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Un resoconto del genere è tutto tranne che scontato. Nel resto della tradizione non si fa riferimento alla riconquista di Locri come a un episodio così rocambolesco, né tantomeno ai clamorosi errori strategici commessi da Scipione e Annibale in questa circostanza. Il confronto con gli altri storici della guerra annibalica, cui sono dedicate le prossime pagine, consentirà di fornire una spiegazione, almeno ipotetica, di scelte narrative tanto originali.
3. La versione di Zonara In questo paragrafo il resoconto liviano viene posto a confronto con quello di Zonara, il quale riporta, come si è detto, l’unica altra narrazione superstite dell’episodio locrese dotata di una certa ampiezza. 3.1. Le somiglianze tra Livio e Zonara Il modo in cui Livio e Zonara introducono l’episodio della riconquista di Locri risulta molto simile. È la primavera del 205 a.C. quando una delegazione di Locresi giunge da Scipione, presentandogli la possibilità di riconquistare Locri (ἀγγελία αὐτῷ ἐκ Ῥηγίου ἧκε τὴν πόλιν τῶν Λοκρῶν τινας προδώσειν, Zon. 9,11,8) 19. Scipione si trova allora in Sicilia, dove ha condotto a termine, nel corso dell’inverno, i preparativi per l’invasione dell’Africa (πάντα τὸν χειμῶνα ἐκεῖ διήγαγε, Zon. 9,11,8), presentata come imminente sia da Livio, sia da Zonara 20. Entrambi gli storici insistono inoltre sul fatto che Scipione ha appena condotto a termine l’arruolamento di alcuni volontari (uoluntarios milites ordinauit centuriauitque, 29,1,1; cf. Zon. 9,11,8: τοὺς σὺν αὐτῷ ἐξασκῶν καὶ ἄλλους προσκαταλέγων). I due racconti concordano anche sugli avvenimenti successivi. La proposta della delegazione locrese viene accolta positivamente da Scipione, il quale non partecipa direttamente all’impresa, ma si limita a inviare a Locri alcuni suoi uomini (δύναμιν οὖν πέμψας ἐκεῖ, Zon. 9,11,9) 21. Grazie all’aiuto dei loro complici i Romani riescono 19 Cf. 29,6,5-6 Hi (scil. captiui) cogniti ab Locrensium principibus (…) spem fecerunt, si redempti ac remissi forent, arcem se iis tradituros. 20 Zon. 9,11,8 Μέλλοντι (scil. Σκιπίωνι) δὲ περαιώσασθαι ἀγγελία αὐτῷ ἐκ Ῥηγίου ἧκε (…); cf. 29,6,1 Scipione stimulato (…) ad traiciendum quam primum, intervenit maiori minor cogitatio Locros urbem recipiendi, quae sub defectionem Italiae desciverat et ipsa ad Poenos. 21 Cf. 29,6,9 tribuni militum cum iis M. Sergius et Publius Matienus missi iussique ab Regio tria milia militum Locros ducere.
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a introdursi a Locri. I Cartaginesi, colti di sorpresa, trovano invece riparo nella rocca di Locri, dove attendono che Annibale venga in loro soccorso (τῶν δὲ Καρχηδονίων εἰς τὴν ἄκραν συνειληθέντων καὶ τὸν Ἀννίβαν μετακαλεσαμένων, Zon. 9,11,9; cf. 29,6,14). L’arrivo di Annibale viene neutralizzato da Scipione che, accorso a Locri dalla Sicilia, sferra ad Annibale un attacco a sorpresa e lo costringe alla ritirata (Zon. 9,11,9; cf. 29,7,8). Accanto alle analogie contenutistiche appena evidenziate, le narrazioni di Livio e di Zonara presentano anche un certo numero di somiglianze espressive. La frase con cui Livio indica la decisione dei Locresi di passare dalla parte dei Romani (ad Romanos inclinasset, 29,6,17) ricorre quasi identica nel racconto di Zonara (πρὸς τοὺς Ῥωμαίους ἀπέκλιναν, Zon. 9,11,8). Molto simile è anche il modo in cui i due storici descrivono l’attacco a sorpresa con cui Scipione costringe Annibale alla ritirata. Nel racconto di Zonara si legge (Zon. 9,11,9): κατὰ τάχος ἐξανήχθη καὶ ὁ Σκιπίων καὶ πλησιάσαντα (scil. τὸν Ἀννίβαν) τῇ πόλει αἰφνιδίῳ ἐπεκδρομῇ ἀπεώσατο.
La stessa scena è invece raccontata da Livio in questo modo (29,7,8): Hannibal iam scalis aliisque omnibus ad oppugnationem paratis subibat muros, cum repente in eum nihil minus quam tale quicquam timentem patefacta porta erumpunt Romani
Anche se non è possibile riscontrare qui corrispondenze testuali precise come nel caso precedente, le parole dei due storici presentano comunque una notevole analogia concettuale: all’espressione πλησιάζειν τῇ πόλει corrisponde il latino subire muros; all’aggettivo αἰφνίδιος l’avverbio repente; al sostantivo ἐπεκδρομή il verbo erumpo. Secondo l’ipotesi più accreditata, queste somiglianze rivelerebbero l’uso, da parte di Livio e Dione Cassio, di una fonte in comune 22. Per quanto questa appaia, in effetti, l’ipotesi più ragionevole, sembra comunque opportuno premettere alcune considerazioni generali sul problema del rapporto tra le opere di Livio e Dione Cassio. In un frammento della sua opera Dione Cassio mostra di essere al corrente dell’amicizia tra Livio e Augusto (cf. Dion. Cass.
Vedi supra, n. 8.
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57,12,4). Il che suggerisce che Dione Cassio conosca, di Livio, anche l’opera storica, tanto più che è lui stesso a dire di avere letto, nei dieci anni di studio preparatorio alla stesura della sua opera, tutto (o quasi) quello che è stato scritto sulla storia di Roma, dalle origini all’età severiana (cf. Dion. Cass. fr. 1,2 Boiss. e 72,23,5). Ovviamente, conoscere un’opera non equivale a impiegarla come fonte 23. Si può anzi affermare con certezza che nessuno dei libri superstiti di Livio è stato la fonte unica di Dione Cassio. Non c’è infatti episodio storico in cui i loro racconti superstiti non presentano, accanto a un certo numero di affinità contenutistiche ed espressive, differenze altrettanto palesi, che si spiegano solo ipotizzando l’uso da parte di Dione Cassio (anche) di altri modelli. Si tratta tanto di differenze quantitative (informazioni presenti in Dione Cassio o in Zonara ma assenti in Livio, che non può esserne quindi la fonte) 24, quanto di differenze qualitative (Livio e Dione Cassio collocano, cioè, alcuni eventi storici in luoghi o date differenti) 25. Gli scenari possibili sono dunque tre: (a) la narrazione liviana costituisce una delle varie fonti usate da Dione Cassio, che se ne discosta ora per seguire la ricostruzione di un altro storico, ora per proporre una sua ricostruzione originale; (b) Livio non è tra le fonti usate da Dione Cassio, ma i due hanno una o più fonti in comune; (c) Dione Cassio non attinge direttamente all’opera liviana, ma a quella di uno storico intermedio, responsabile delle discordanze tra il resoconto liviano e quello dello storico greco. A ben vedere, non si tratta di ipotesi alternative. Ciascuna di esse potrebbe essere vera in punti diversi delle loro opere. Ogni volta che i resoconti di Livio e Dione Cassio vengono posti a confronto, è perciò indispensabile valutarne le affinità e le discordanze, senza escludere a priori nessuna delle possibili spiegazioni del loro rapporto. L’episodio della riconquista di Locri non sfugge a questo inquadramento generale. Q ui di seguito si analizzeranno le principali discordanze tra il resoconto di Livio e quello di Zonara, così da provare a ricostruire quale rapporto ci sia tra la narrazione liviana e quella dionea dell’episodio locrese.
Cf. Millar 1964, 34. Q ueste differenze sono state raccolte e discusse da François 2016, 220-224. 25 Si veda ancora François 2016, 224-231. 23 24
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3.2. Le discordanze tra Livio e Zonara Nei racconti di Livio e Zonara gli eventi risultano concatenati in maniera diversa. Secondo Zonara, Scipione gode fin dall’inizio del sostegno degli abitanti di Locri. L’arrivo in Sicilia di una delegazione locrese viene infatti presentato come una conseguenza della loro insofferenza alla dominazione cartaginese, provocata dalla prepotenza del luogotenente di Annibale (Zon. 9,11,8): Μέλλοντι δὲ περαιώσασθαι ἀγγελία αὐτῷ ἐκ Ῥηγίου ἧκε τὴν πόλιν τῶν Λοκρῶν τινας προδώσειν. τοῦ γὰρ φρουράρχου καταβοήσαντες καὶ μηδεμιᾶς ἐκδικίας παρὰ τοῦ Ἀννίβου τυχόντες πρὸς τοὺς Ῥωμαίους ἀπέκλιναν.
Nel racconto di Livio, invece, l’arrivo della delegazione è legato alla cattura di alcuni prigionieri locresi, che si offrono di aprire ai Romani la arx di Locri in cambio del loro immediato rilascio (29,6,5-8). Il resto dei Locresi manifesta la volontà di consegnare la città ai Romani solo in un secondo momento (29,6,17). Ciò implica che il personaggio liviano di Scipione non ha alcuna garanzia del sostegno del resto dei Locresi quando aderisce al piano dei fuoriusciti 26. Un’altra serie di discordanze riguarda l’inquadramento topografico della vicenda. Nel racconto di Zonara i Romani occupano ‘di notte gran parte della città’ (πολλὰ τῆς πόλεως νυκτὸς, Zon. 9,11,9), poiché godono fin da subito, come visto, dell’appoggio degli abitanti di Locri. Ai Cartaginesi resta solo il controllo della rocca (εἰς τὴν ἄκραν, ibid.), da cui attendono l’arrivo di Annibale. Nel racconto di Livio, invece, gli unici complici dei Romani (almeno all’inizio) sono i prigionieri locresi da loro rilasciati. Q uesti li introducono di notte non nella città bassa (come secondo Zonara), ma nella rocca in cui alloggiano i Cartaginesi, i quali si rifugiano allora in un’altra rocca poco distante (29,6,14), di cui Zonara non sembra avere notizia 27. La città bassa resta in mano ai Locresi, che diventano così l’ago della bilancia di questa vicenda (29,6,15): Oppidani urbem habebant uictoribus praemium in medio positam; ex arcibus duabus proeliis cottidie leuibus certabatur. Q uesta discordanza viene rilevata già da Grosso 1951, 127 e da François 1994, xxii, che non la considerano però significativa dal punto di vista delle scelte narrative di Livio. 27 Sull’effettiva presenza a Locri di due alture fortificate si veda Oldfather 1927, 1296. 26
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I Romani accedono alla città bassa solo quando la cittadinanza locrese si decide a voltare le spalle ad Annibale (29,6,17 e 7,7). Nel racconto di Livio l’episodio presenta dunque premesse differenti da quello di Zonara, dalle quali dipende anche una diversa occupazione degli spazi urbani di Locri da parte di Romani, Cartaginesi e dei suoi stessi abitanti. 3.3. L’esito del confronto Bisogna innanzitutto sgomberare il campo da una possibile obiezione. In teoria, non si può escludere che le discordanze appena rilevate non fossero presenti nel racconto perduto di Dione Cassio e siano state inserite in seguito da Zonara. Il fatto che gli abitanti di Locri vengono da lui presentati come inclini a sostenere fin da subito il rientro dei Romani potrebbe, in effetti, dipendere dal fatto che Zonara, senza alterare la lettera del testo di Dione Cassio, abbia dato ai suoi estratti una disposizione diversa da quella originaria, così da ottenere un racconto più sintetico. Il discorso non vale, però, per le discordanze topografiche, per le quali bisogna invece ipotizzare un intervento di Zonara sul testo di Dione Cassio piuttosto invasivo e apparentemente immotivato (cosa che non trova riscontro nei casi in cui i loro racconti possono essere letti sinotticamente) 28. Inoltre, visto che le discordanze topografiche risultano strettamente connesse a quelle nell’ordine logico degli eventi, pare più ragionevole supporre che sia le une, sia le altre fossero già presenti nel perduto racconto di Dione Cassio. Resta da chiedersi se la versione trasmessa da Dione Cassio (tramite Zonara) sia frutto di una sua originale ricerca o derivi da uno storico precedente la cui opera poteva essere letta anche da Livio. La soluzione più persuasiva sembra la seconda. Lo suggerisce un dettaglio – minimo ma non trascurabile – del testo liviano. La presenza a Locri di una seconda arx, quella in cui si rifugiano i Cartaginesi, viene posta in rilievo per mezzo di una frase parentetica (29,6,14): Poeni omisso certamine in alteram arcem – duae sunt, haud multum inter se distantes – confugiunt. Livio risulta servirsi di questa struttura sintattica quando aggiunge informazioni assenti nella fonte da cui trae, per così dire, il corpo della sua nar Cf. supra n. 7.
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razione 29. Ciò emerge da alcuni passi per cui è possibile confrontare il suo testo con quello della sua fonte diretta, ovvero Polibio 30. È plausibile perciò che la principale fonte liviana sulla riconquista di Locri ignorasse l’esistenza di un’altera arx, come fa Zonara 31. Se si considera questa lacuna alla stregua di un ‘errore congiuntivo’, ne consegue che il racconto di Dione Cassio si basa su quello di uno storico perduto d’età repubblicana 32. A questo racconto sembra avere attinto anche Livio, che se ne discosta però in alcuni punti al fine di sottolineare la scarsa prudenza di Scipione, il quale aderisce al piano per liberare Locri dall’occupazione cartaginese senza valutare tutti i rischi dell’impresa. A ben vedere, non è questo l’unico caso in cui Livio sembra accentuare l’imprevedibilità degli eventi più di quanto facciano le sue fonti. Ciò emerge anche dal suo racconto di altri episodi della guerra annibalica confrontabili con la parallela narrazione polibiana, e sembra essere perciò un tratto distintivo della sua tecnica narrativa. Una conclusione del genere, come si cercherà di mostrare nel prossimo paragrafo, non esclude affatto l’ipotesi dell’in flusso, su questa sezione narrativa liviana, del perduto racconto di Polibio.
4. La riscrittura allusiva di Polibio In queste pagine si vuole mostrare come il resoconto liviano del l’episodio locrese presenti alcuni tratti tipici dei passi in cui Livio rivisita, per così dire, la narrazione polibiana – il che rappresenta, com’è ovvio, un ulteriore indizio a sostegno dell’ipotesi dell’influsso dello storico greco su questa sezione dell’opera liviana. 4.1. Il mestiere dello storico secondo Polibio L’opera storica di Polibio contiene, com’è noto, una serie di digressioni in cui l’autore delinea la sua concezione dell’attività storiografica. In una di esse egli si presenta come un’esponente della storiografia di tipo ‘pragmatico’, la quale s’incentra sulle Vedi Walsh 1970, 156-157; 189. In proposito si vedano Nissen 1863, 74-76, e Pianezzola 20182, 39. 31 Così già Grosso 1951, 128. 32 Cf. n. 8.
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vicende politiche, trascurando quelle leggendarie (Polyb. 9,2,1-4) 33. Q uesto tipo di storiografia, prosegue Polibio, si occupa di raccontare eventi recenti che non siano stati ancora oggetto di analisi storica, oppure di riesaminare le testimonianze del passato in base alle nuove conoscenze scientifiche 34, e particolarmente quelle legate all’ambito militare (Polyb. 9,2,5; cf. e.g. 3,59,1-9; 12,25e,5-7; 27,6-9). Uno storico privo di competenze belliche non è in grado, infatti, secondo Polibio, di fornire ricostruzioni affidabili di battaglie e d’imprese militari in genere, e la sua opera non può quindi rappresentare uno strumento formativo per i futuri condottieri (Polyb. 9,2,6; cf. e.g. 9,20,1-10; 11,18a,1-3; 12,25g,1-4). Q uest’impostazione trova riscontro in vari aspetti della narrazione di Polibio, e particolarmente nel suo atteggiamento polemico verso i precedenti storici della guerra annibalica, da lui criticati per il fatto che i personaggi di Annibale e Scipione vengono da loro presentati non come lucidi strateghi, ma come uomini intrepidi e fortunati, come se i loro successi fossero dipesi dal favore divino 35. Così facendo, secondo Polibio, questi storici commettono un duplice errore. Da un lato, fanno torto alle qualità razionali dei due generali 36. Dall’altro, rinunciando a spiegare le loro imprese da un punto di vista strategico, privano i lettori della possibilità di trarre dalla lettura della storia ogni possibile insegnamento di carattere militare. Livio sembra recepire la lezione di Polibio in maniera ambigua. Da un lato, egli attinge ai dettagliati resoconti polibiani delle principali scene di guerra. Dall’altro, discostandosene in vari punti, egli sembra velatamente criticare alcuni assunti del suo modello, quali l’idea che sia possibile prevedere tutti i fattori decisivi in una battaglia 37 o la sua tendenza a credere che generali come Annibale e Si vedano, tra i vari, Walbank 1957-1979, I 7-11, e Pédech 1964, 21-32. Sul rapporto tra Polibio e la scienza ellenistica si veda Pédech 1974, 42-45. 35 In proposito si veda Walbank 1985, 120-137. 36 La prudenza e l’ingegno militare di Annibale vengono esaltati da Polibio in vari punti della sua opera: cf. e.g. Polyb. 3,46,7 – 48,12 (passaggio delle Alpi); 81,12 (battaglia del Trasimeno); 10,33,1-7 (comparazione con Marcello); 11,19,1-7 (elogio di Annibale); 15,15,1 – 16,6 (battaglia di Zama). Le stesse qualità vengono attribuite a Scipione in Polyb. 10,2,5-13 (ritratto del personaggio); 9,1; 11,5-8 (presa di Cartagena); 14,5,15 (incendio del campo di Siface e Asdrubale); 15,16,6 (battaglia di Zama). In proposito si vedano, tra i vari, Pédech 1964, 216-222 e Scullard 1970, 39-67. 37 In proposito si veda Levene 2010, 261-274 sulle discordanze tra la narrazione liviana e quella di Polibio delle sconfitte romane presso Trebbia e Trasimeno. 33 34
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Scipione non commettano mai gesti avventati o errori di valutazione 38. In questo senso, parafrasando Levene, la narrazione polibiana sembra rappresentare per Livio non solo una fonte di notizie storiche, ma soprattutto un modello allusivo da imitare in maniera creativa 39. 4.2. Annibale e Scipione ‘cattivi discepoli’ di Polibio La tendenza di Livio a discostarsi dalla maniera polibiana di descrivere le battaglie sembra trovare riscontro anche nel suo racconto della riconquista di Locri. In mancanza della narrazione polibiana di quest’episodio, ciò è suggerito da un frammento del libro 9 dello storico greco contenente una digressione di argomento tecnicomilitare 40. Al suo interno vengono presentati da Polibio i fattori secondo lui decisivi per il successo di un’attacco a sorpresa: tempismo, scelta di un luogo adatto ad assalire il nemico, segretezza dell’iniziativa, uso di segnali predeterminati per comunicare con i complici, preparazione di scale adatte alle mura della città che si vuole attaccare (Polyb. 9,12,8 – 19,9, passim). Secondo lo storico greco, se ognuno di questi fattori viene correttamente predisposto, la vittoria è praticamente assicurata. Viceversa, se anche uno solo di essi viene trascurato, l’impresa è destinata all’insuccesso (Polyb. 9,12,9): φανερὸν ὡς ὁ μὲν ἑκάστου τούτων εὐστοχήσας οὐχ ἁμαρτήσεται τῆς ἐπιβολῆς, ὁ δ’ ἑνὸς ὀλιγωρήσας σφαλήσεται τῆς ὅλης προθέσεως.
Conseguentemente, per Polibio, il fallimento di un attacco a sorpresa dipende quasi sempre dalla negligenza del generale che l’ha pianificato. La narrazione liviana della riconquista di Locri si pone quasi in polemica con i concetti espressi in questo frammento polibiano. 38 Al personaggio di Annibale, Livio attribuisce errori di calcolo o azioni avventate prive di riscontro nella parallela narrazione polibiana nei seguenti episodi: passaggio delle Alpi (21,32,7); presa di Taranto (25,11,1-18; 15,4-5; cf. Polyb. 8,21,2 – 34,1). Lo stesso avviene con Scipione nel racconto della conquista di Cartagena (26,44,6 – 45,4; cf. Polyb. 10,12,10-11 e 13,6-8, su cui vd. L. Beltramini in questo volume, pp. 118 e n. 17) e nella sconfitta da lui subita a Utica (30,9,10 – 10,9; cf. Polyb. 14,9,7 – 15,12). In proposito si veda Levene 2010, 152-153, 300-303 e 307. 39 Levene 2010, 148. 40 Q uesto passo viene citato già da François 1994, xiv (n. 7) in quanto testimonianza dell’interesse di Polibio sulla pianificazione di attacchi a sorpresa e sortite notturne.
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Il piano eseguito dai Romani sembra predisposto secondo i criteri descritti da Polibio: le scale da loro preparate risultano commisurate alle mura della rocca locrese; l’attacco viene eseguito con un tempismo perfetto; i segnali per comunicare con i complici si rivelano efficaci (29,6,10; cf. Polyb. 9,14,6 – 15,15; 17,9; 19,5-9). Eppure, secondo Livio, è solo grazie a una circostanza fortuita se i Romani non finiscono allora massacrati dai Cartaginesi, i quali sono in netta superiorità numerica (29,6,13). Specularmente, Annibale, nel tentativo di recuperare Locri con un attacco a sorpresa (29,7,3), commette una serie di errori grossolani, inconciliabili con il suo ritratto polibiano di stratega esemplare (cf. supra n. 35). Sbaglia infatti il tempismo dell’attacco e si trova inoltre privo di scale con cui oltrepassare le mura della città, di cui ignora anche quale sia il luogo più adatto per tentarne la scalata (29,7,4). Le sue azioni sembrano modellate su quelle di altri personaggi storici – lo spartano Cleomene e Filippo V di Macedonia – ricordati da Polibio nel frammento del libro 9 come esempi di comandanti incapaci di pianificare correttamente un attacco a sorpresa (Polyb. 9,18,1-9). 4.3. Osservazioni conclusive Com’è ovvio, la perdita della narrazione polibiana della riconquista di Locri impone cautela. Tuttavia, il confronto di questi brani suggerisce che, in questo episodio, Polibio deve aver rappresentato per Livio non solo una fonte di notizie topografiche o tatticomilitari, come ipotizzato in passato (cf. supra n. 10), ma anche un modello letterario con cui competere. Dal resoconto liviano emergono infatti, coerentemente con quanto visto prima, spunti polemici verso alcuni principi della storiografia polibiana, quali la tendenza dello storico greco a considerare la tecnica militare come una scienza certa e a presentare i personaggi di Scipione e Annibale come generali capaci di agire in maniera lucida e calcolata in ogni circostanza. Anche in un episodio scarsamente attestato come quello della riconquista di Locri sembra dunque possibile rinvenire sufficienti prove dell’originalità con cui Livio rielabora le informazioni trasmesse dalle sue fonti.
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TOMMASO RICCHIERI
LUCIO Q UINZIO FLAMININO E CATONE NELLA NARRAZIONE LIVIANA FRA TRADIZIONE E CENSURA (39,42 – 43)
Nel libro 39 degli Ab urbe condita Tito Livio narra la celebre censura di Catone e Valerio Flacco del 184 a.C. Lo storico si sofferma su una serie di provvedimenti esemplari presi dalla severa coppia di censori, tra i quali spicca – e infatti è narrata per prima – l’espul sione dal senato di Lucio Q uinzio Flaminino, fratello di Tito, il vincitore di Cinocefale nel 197 a.C. e ‘liberatore’ della Grecia, in seguito a un grave fatto di sangue avvenuto durante un banchetto. Livio narra dettagliatamente l’episodio ai capitoli 42,5 – 43,5, proponendo un confronto tra due diverse versioni dell’accaduto, quella di Catone e quella di Valerio Anziate: (5) Censores M. Porcius et L. Valerius metu mixta exspectatione senatum legerunt; septem moverunt senatu, ex quibus unum insignem et nobilitate et honoribus, L. Q uinctium Flamininum consularem. (6) Patrum memoria institutum fertur ut censores motis senatu adscriberent notas. Catonis et aliae quidem acerbae orationes exstant in eos quos aut senatorio loco movit aut quibus equos ademit; (7) longe gravissima in L. Q uinctium oratio, qua si accusator ante notam, non censor post notam usus esset, retinere L. Q uinctium in senatu ne frater quidem T. Q uinctius, si tum censor esset, potuisset. (8) Inter cetera obiecit ei Philippum Poenum, carum ac nobile scortum, ab Roma in Galliam provinciam spe ingentium donorum perductum. (9) Eum puerum, per lasciviam cum cavillaretur, exprobrare consuli persaepe solitum, quod sub ipsum spectaculum gladiatorium abductus ab Roma esset, ut obsequium amatori venditaret. (10) Forte epulantibus iis, cum iam vino incaluissent, nuntiatum in convivio esse nobilem Boium cum liberis transfugam venisse; convenire consulem velle, ut ab eo fidem praesens acciperet. (11) Introductum in tabernaculum per interpretem adloqui consulem coepisse. Inter cuius sermonem Q uinctius scorto ‘vis tu’ inquit ‘quoniam gladiatorium spectaculum reliquisti, iam hunc Gallum morientem videre?’ (12) Et cum is vixdum serio adnuisset, ad nutum scorti consulem Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 159-176 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125326
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stricto gladio, qui super caput pendebat, loquenti Gallo caput primum percussisse, deinde, fugienti fidemque populi Romani atque eorum qui aderant imploranti latus transfodisse. (43,1) Valerius Antias, ut qui nec orationem Catonis legisset et fabulae tantum sine auctore editae credidisset, aliud argumentum, simile tamen et libidine et crudelitate peragit. (2) Placentiae famosam mulierem, cuius amore deperiret, in convivium accersitam scribit. Ibi iactantem sese scorto inter cetera rettulisse quam acriter quaestiones exercuisset, et quam multos capitis damnatos in vinculis haberet, quos securi percussurus esset. (3) Tum illam infra eum accubantem negasse unquam vidisse quemquam securi ferientem, et pervelle id videre. Hic indulgentem amatorem unum ex illis miseris attrahi iussum securi percussisse. (4) Facinus, sive eo modo, quo censor obiecit, sive, ut Valerius tradit, commissum est, saevum atque atrox: inter pocula atque epulas, ubi libare dis dapes, ubi bene precari mos esset, ad spectaculum scorti procacis, in sinu consulis recubantis, mactatam humanam victimam esse et cruore mensam respersam. (5) In extrema oratione Catonis condicio Q uinctio fertur, ut si id factum negaret ceteraque quae obiecisset, sponsione defenderet sese: sin fateretur, ignominia ne sua quemquam doliturum censeret, cum ipse vino et venere amens sanguine hominis in convivio lusisset?
Le due ricostruzioni dell’episodio, simili nell’impostazione generale, divergono per dei significativi dettagli, che sono stati messi in evidenza nel testo 1. Lo sfondo comune a entrambe le ricostruzioni è quello delle campagne militari di Lucio Flaminino contro le tribù galliche dell’Italia settentrionale degli anni 192-190 a.C. e di un banchetto al quale il console partecipa in compagnia di un amante. La versione di Catone, da Livio accolta come fededegna in quanto riportata nell’orazione che il censore tenne contro Flaminino dopo avergli inflitto la nota censoria, presenta Flaminino in compagnia di un giovane amasio, Filippo, originario di Cartagine, da lui convinto ad accompagnarlo in Gallia con la promessa di ricchi doni. Durante un banchetto, di fronte alle lamentele del giovane per essere stato condotto via da Roma proprio all’inizio di uno spettacolo di gladiatori al quale desiderava assistere, il console, in preda ai fumi del vino, approfittò dell’arrivo al suo cospetto di un nobile gallo della tribù dei Boi, che aveva disertato i suoi e chiedeva di passare dalla parte dei Romani, per offrire all’amasio lo spettacolo 1 Il passo di Livio ha suscitato, com’è ovvio, un notevole dibattito storiografico, dei cui principali episodi si darà conto nelle note infra. Le analisi più approfondite della vicenda e dei suoi testimoni si trovano negli studi di Carawan 1990 e di Suerbaum 1993, ai quali si farà riferimento in maniera più dettagliata nel seguito del discorso.
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della morte di un uomo che a Roma gli era stato negato: presa dunque una spada, prima colpì il Gallo alla testa e poi, mentre questi fuggiva terrorizzato implorando il rispetto della sua lealtà verso i Romani, lo trafisse a un fianco, uccidendolo. La versione di Anziate viene invece da subito screditata da Livio, che la considera priva di fondamento perché non suffragata da testimonianze certe, ma piuttosto basata su vaghe dicerie. In essa i fatti si svolgono in maniera differente: l’episodio è localizzato con maggiore precisione nella città gallica di Piacenza, e Lucio non è in compagnia di un amasio bensì di una donna di malaffare, la quale, durante un banchetto, esprime il desiderio di vedere morire un uomo, sollecitata dalle vanterie di Lucio sulla severità con la quale egli aveva amministrato la giustizia in Gallia e sul grande numero di condannati a morte che attendevano l’esecuzione. A questo punto Lucio fa dunque chiamare uno dei prigionieri condannati a morte per farlo decapitare in presenza della donna. Come si vede, le due versioni presentano delle divergenze significative, che riguardano il sesso dell’amante di Flaminino (maschile nella versione di Catone, femminile in quella di Anziate) e la con dizione della vittima (un uomo libero passato spontaneamente dalla parte dei Romani in Catone, un prigioniero condannato a morte in Anziate). L’episodio, per il suo valore paradigmatico, gode di particolare fortuna nell’antichità, specie nella letteratura moralistica, ed è riportato da altri autori latini, in versioni che in buona parte coincidono con quella di Anziate. Nel Cato Maior Cicerone fa rievocare la vicenda a Catone stesso, che parla genericamente di uno scortum, per compiacere il (o la) quale Flaminino avrebbe ucciso uno dei condannati a morte 2; la medesima versione (scortum e damnatus) si trova nel trattato anonimo De viris illustribus 3. Valerio Massimo e Seneca il Vecchio parlano invece esplicitamente di una donna per il cui desiderio Flaminino avrebbe ucciso un condannato a morte 4. 2 Cic. Cato 42 Invitus feci ut fortissimi viri T. Flaminini fratrem L. Flamininum e senatu eicerem septem annis post quam consul fuisset, sed notandam putavi libidinem. Ille enim cum esset consul in Gallia, exoratus in convivio a scorto est ut securi feriret aliquem eorum, qui in vinculis essent damnati rei capitalis. 3 Vir. ill. 47,4 Censor L. Flamininum consularem senatu movit, quod ille in Gallia ad cuiusdam scorti spectaculum eiectum quendam e carcere in convivio iugulari iussisset. 4 Val. Max. 2,9,3 Sicut Porcius Cato L. Flamininum, quem e numero senatorum sustulit, quia in provincia quendam damnatum securi percusserat tempore supplicii ad
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Per completare il quadro della ricezione dell’episodio va citato Plutarco, che a esso si rifà in due passi delle Vite (Cato Mai. 17,3-5 e Flamin. 18,3-10). La sua testimonianza è di particolare valore perché egli non si limita a narrare l’episodio attingendo a una sola versione dei fatti, ma passa in rassegna i vari autori che lo hanno trattato, con le rispettive ricostruzioni. Tra i due passi plutarchei, quello che offre la trattazione più articolata si trova nella Vita di Flaminino (18,5-10): (5) Lucio aveva un giovane amante, che egli portava con sé anche quando egli era al comando di un’armata, e sempre lo teneva presso di sé quando si trovò ad amministrare una provincia. (6) Durante un banchetto questo ragazzo, pieno di moine e con voce carezzevole, gli disse: ‘Io ti amo tanto che per raggiungerti ho rinunciato ad assistere a uno spettacolo di gladiatori, anche se non ho mai visto uccidere un uomo, ma ho ritenuto più importante far piacere a te che a me stesso’. (7) Lucio ne fu rapito e disse: ‘Non preoccuparti, soddisferò il tuo desiderio’. Fece condurre dalla prigione uno dei condannati, poi fece chiamare il littore e gli ordinò di mozzare il capo dell’uomo lì nella sala del banchetto. (8) Valerio Anziate dice che Lucio aveva voluto fare cosa grata a un’innamorata piuttosto che a un innamorato. (9) Livio cita un discorso dello stesso Catone secondo cui un disertore gallico era giunto alle porte della sala del banchetto con moglie e figli; Lucio lo aveva fatto entrare e poi lo aveva ucciso con le proprie mani per far piacere al suo amante. (10) È verosimile che Catone abbia detto questo per aggravare l’accusa. Che l’ucciso non fosse un disertore, ma piuttosto un prigioniero e di quelli già condannati a morte, sostengono molti autori, tra cui l’oratore Cicerone, che nel suo scritto Sulla vecchiaia pose la narrazione in bocca allo stesso Catone 5.
arbitrium et spectaculum mulierculae, cuius amore tenebatur, electo; Sen., contr. 9,2 Flamininus praetor inter cenam a meretrice rogatus, quae aiebat numquam se vidisse hominem decollari, unum ex damnatis occidit. Accusatur laesae maiestatis. 5 Si riporta il passo nella traduzione italiana di E. Melandri (Milano 1997). Il testo originale è il seguente: (5) τούτῳ συνῆν μειρακίσκος ἐρώμενος, ὃν καὶ στρατιᾶς ἄρχων ἐπήγετο, καὶ διέπων ἐπαρχίαν εἶχεν ἀεὶ περὶ αὑτόν. (6) ἐν οὖν πότῳ τινὶ θρυπτόμενος πρὸς τὸν Λεύκιον, οὕτως ἔφη σφόδρα φιλεῖν αὐτόν, ὥστε θέαν μονομάχων ἀπολιπεῖν, οὔπω γεγονὼς ἀνθρώπου φονευομένου θεατής, τὸ πρὸς ἐκεῖνον ἡδὺ τοῦ πρὸς αὑτὸν ἐν πλείονι λόγῳ θέμενος. (7) ὁ δὲ Λεύκιος ἡσθείς, ‘οὐδὲν’ ἔφη ‘δεινόν· ἰάσομαι γὰρ ἐγώ σου τὴν ἐπιθυμίαν’, καὶ κελεύσας ἕνα τῶν καταδίκων ἐκ τοῦ δεσμωτηρίου προαχθῆναι, καὶ τὸν ὑπηρέτην μεταπεμψάμενος, ἐν τῷ συμποσίῳ προσέταξεν ἀποκόψαι τοῦ ἀνθρώπου τὸν τράχηλον. (8) Οὐαλέριος δ’ Ἀντίας οὐκ ἐρωμένῳ φησίν, ἀλλ’ ἐρωμένῃ τοῦτο χαρίσασθαι τὸν Λεύκιον. (9) ὁ δὲ Λίβιος ἐν λόγῳ Κάτωνος αὐτοῦ γεγράφθαι φησίν, ὡς Γαλάτην αὐτόμολον ἐλθόντα μετὰ παίδων καὶ γυναικὸς ἐπὶ τὰς θύρας δεξάμενος εἰς τὸ συμπόσιον ὁ Λεύκιος ἀπέκτει-
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Plutarco, come si vede dai passi evidenziati, accoglie la versione catoniano-liviana per quanto riguarda il sesso dell’amante (maschile) e il motivo che scatena la ferocia di Flaminino, ossia le rimostranze del giovane amasio per non aver assistito a uno spettacolo gladiatorio. Per quanto riguarda, invece, l’identità della vittima, lo storico greco si allinea alla tradizione maggioritaria del condannato a morte, precisando inoltre che la sua decapitazione non fu eseguita da Flaminino stesso, bensì da un suo littore. Plutarco segnala quindi la versione alternativa ‘femminile’ di Valerio Anziate, soffermandosi poi sulla divergenza tra la sua versione e quella di Catone/Livio relativamente all’identità della vittima 6, per la quale offre un’interessante spiegazione: per Plutarco, il Censore avrebbe parlato di un disertore passato dalla parte dei Romani, anziché di un semplice prigioniero, εἰς δείνωσιν, per aggravare cioè l’accusa nei confronti di Flaminino; nella sua versione, il crimine di Flaminino diventa dunque più odioso ed esecrabile perché si rivolge contro un innocente e non, come nella versione di Valerio Anziate, contro un uomo sul quale già gravava una sentenza di morte. A questo punto si possono schematizzare i dati finora raccolti, relativamente ai testimoni della vicenda e alle rispettive versioni sull’identità dell’amante (1) e della vittima (2) di Flaminino: 1. L’amante Philippus Poenus
Meretrix Placentina
Scortum
Catone Livio Plutarco
Valerio Anziate Valerio Massimo Seneca il Vecchio
Cicerone De viris illustribus
νεν ἰδίᾳ χειρί, τῷ ἐρωμένῳ χαριζόμενος. (10) τοῦτο μὲν οὖν εἰκὸς εἰς δείνωσιν εἰρῆσθαι τῆς κατηγορίας ὑπὸ τοῦ Κάτωνος· ὅτι δ’ οὐκ αὐτόμολος ἦν, ἀλλὰ δεσμώτης ὁ ἀναιρεθεὶς καὶ ἐκ τῶν καταδίκων, ἄλλοι τε πολλοὶ καὶ Κικέρων ὁ ῥήτωρ ἐν τῷ περὶ γήρως, αὐτῷ Κάτωνι τὴν διήγησιν ἀναθείς, εἴρηκεν. 6 Nella Vita di Catone plutarchea (17,1-5) lo svolgimento dei fatti è il medesimo e i protagonisti sono sempre il giovane amasio e un condannato a morte; qui Plutarco menziona il Cato Maior di Cicerone e la versione di Catone/Livio relativamente alla diversa identità della vittima, mentre non si trova alcun riferimento, come invece nella Vita di Flaminino, a Valerio Anziate e alla sua versione ‘femminile’.
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2. La vittima Transfuga
Damnatus
Catone Livio
Valerio Anziate Cicerone Valerio Massimo Seneca il Vecchio Plutarco De viris illustribus
Come si vede, per quanto riguarda l’identità della vittima appare decisamente maggioritaria la versione del damnatus, mentre quella del transfuga si limita al solo Catone, da cui Livio dipende direttamente. Diversa si presenta la situazione relativamente all’amante di Flaminino: in questo caso alla versione maschile di Catone/Livio si allinea anche Plutarco, mentre quella femminile è rappresentata da Valerio Anziate, Valerio Massimo e Seneca il Vecchio. Cicerone e il De viris illustribus non precisano invece il sesso dell’amante: l’opzione per l’indefinito scortum può essere spiegata con il rifiuto di aderire a una versione piuttosto che a un’altra, ma considerazioni sull’uso del termine fanno propendere per una sua interpretazione in senso femminile 7, che dunque porrebbe anche questi testimoni nel solco della tradizione valeriana della meretrix. Un dato che colpisce è la divergenza di questi autori latini rispetto alla versione catoniana che Livio accredita come ‘ufficiale’ per la vicenda. È chiaro, infatti, che la maggioranza degli autori successivi segue la versione valeriana dell’episodio, quella che ha come protagonisti la meretrix e il damnatus. Si deve dunque ritenere che tutte queste fonti derivino direttamente da Valerio Anziate? Tra l’annalista e la tradizione successiva dell’episodio va considerato un anello intermedio, per noi perduto, che deve però aver contribuito in maniera rilevante all’uniformità della tradizione ‘valeriana’: la Vita di Catone di Cornelio Nepote, composta intorno al 35 a.C., che doveva offrire una ricostruzione dei fatti assai prossima a quella di Anziate e dalla quale dipendono in misura più o meno significativa tutte le fonti successive 8. Tra Anziate e Nepote 7 Solitamente, infatti, scortum in assenza di ulteriori specificazioni o indicazioni ricavabili dal contesto è da intendersi nel senso di meretrix: cf. OLD s.v. scortum, 2a. L’interpretazione femminile di scortum per il passo ciceroniano è sostenuta dalla maggioranza degli studiosi: cf. Suerbaum 1993, 98; Briscoe 2008, 358. 8 Cf. Fraccaro 1956, 420-435. Di Nepote rimane solo una biografia minor di Catone, nella quale lo storico rimanda a una sua opera maggiore sulla vita del Censore
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si colloca invece il Cato Maior ciceroniano, redatto nei primi mesi del 44 a.C.: pur conoscendo e avendo letto le moltissime orazioni di Catone 9, nel suo stringato resoconto della vicenda Cicerone, come si è visto, si allinea alla tradizione valeriana, senza fare alcun riferimento al discorso catoniano contro Flaminino, che è invece alla base della ricostruzione di Livio 10. Non si può, d’altra parte, escludere che nel suo cursorio accenno all’episodio Cicerone si rifaccia, più che ad Anziate, a un resoconto sommario della vicenda quale poteva trovarsi, ad esempio, nel Liber annalis di Attico, pubblicato nel 47 a.C., o nei Chronica dello stesso Nepote 11, opere nelle quali, data la loro natura compendiaria, l’amante di Flaminino poteva facilmente essere designato/a con il generico scortum. Un primo punto è dunque stabilito: tra gli autori latini a noi giunti che si riferiscono all’episodio, è solo Livio ad accogliere la versione di Catone, mentre gli altri si rifanno alla ricostruzione di Valerio Anziate/Cornelio Nepote. Più difficile da inquadrare risulta Plutarco, la cui versione dei fatti contamina la tradizione catoniana dell’amasio con quella valeriana del condannato a morte. È probabile che, qui come altrove nelle Vite, egli si rifaccia principalmente a Nepote, senza citarlo espressamente in quanto sua fonte primaria nelle biografie dei personaggi romani 12. Come rendere conto allora del suo allontanamento dalla fonte per quanto riguarda l’amante di Flaminino? Una spiegazione possibile è che fosse proprio Nepote – come già Cicerone – a utilizzare il termine scortum nella sua Vita di Catone 13, scritta su impulso di Attico, cf. Nep., Cato 3,5 Huius de vita et moribus plura in eo libro persecuti sumus, quem separatim de eo fecimus rogatu T. Pomponii Attici. Sulla cronologia di quest’opera cf. Baumgart 1905, 31. 9 Cf. Brut. 65. 10 Sul silenzio di Cicerone rispetto all’orazione catoniana Carawan 1990, 326 ipotizza che egli non ne parli per il sospetto che la ricostruzione dei fatti in essa contenuta non fosse veritiera: «because context or conflicting references led him to suppose that the text was not an accurate record of actual arguments». 11 Per la pubblicazione dei quali, come è noto, un termine ante quem (il 54 a.C.) si ricava da Catull. 1. 12 Sull’importanza di Nepote per le biografie di Plutarco cf. Geiger 1988. La dipendenza di Plutarco dalla biografia maior di Nepote per il suo resoconto della censura di Catone è sostenuta dalla maggioranza degli studiosi: cf. Baumgart 1905, 26-29; Fraccaro 1956, 435; Carawan 1990, 319-320; Suerbaum 1993, 95-96; Briscoe 2008, 358. 13 Come ipotizzato supra, Cicerone poteva ricavare il generico scortum da un resoconto sommario della vicenda quale poteva trovarsi nel Liber annalis di Attico o nei Chronica dello stesso Nepote. Non convince troppo l’ipotesi di Powell 1988, 188
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il che sarebbe all’origine della ‘diffrazione’ della versione valerianonepotiana, i cui esponenti – tutti accomunati dalla presenza del damnatus – si dividono tra quanti parlano espressamente di una meretrix sulla scia di Anziate (Valerio Massimo e Seneca il Vecchio) e chi invece mantiene indefinita l’identità dell’amante come l’autore del De viris illustribus, la cui dipendenza da Nepote è pressoché certa 14. Per quanto riguarda Plutarco, si può quindi ipotizzare che egli partisse dalla versione nepotiana dello scortum e del damnatus, contaminandola, relativamente all’amante di Flaminino, con quella catoniana, senza per questo tradire la sua fonte primaria, se Nepote stesso non specificava il sesso dell’amante 15. Torniamo ora a Livio e alle due versioni da lui riportate, rispetto alle quali si pone il problema a) di spiegare la genesi delle due diverse versioni e b) di decidere quale tra esse possa considerarsi la più attendibile: si tratta insomma di stabilire chi, tra Catone e Valerio Anziate, abbia ‘manipolato’ i fatti, offrendone una ricostruzione in qualche modo ‘falsata’. La maggioranza degli studiosi ha sottoscritto il parere di Livio sulla ricostruzione di Valerio Anziate – anche sulla scorta del pregiudizio che lo stesso Livio alimenta a più riprese nella sua opera sulla veridicità dei resoconti storici dell’annalista 16 – ritenendo la versione di Anziate un semplice frutto della sua fantasia 17. Solo di un Cicerone ‘imbarazzato’ dalla vicenda di Flaminino, che avrebbe celato l’identità maschile dell’amante per uno scrupolo moralistico («Probably Cicero’s reason for not following the version in Cato’s speech was a desire to retain decorum»). 14 Cf. in proposito Carawan 1990, 319-320; Suerbaum 1993, 91, n. 6. 15 Diversa la ricostruzione di Carawan 1990, 320 e n. 13, per il quale era Nepote a identificare «the young Philip as the paramour for whom Lucius committed his crime», versione alla quale si sarebbe rifatto Plutarco. Alla luce della dipendenza del De viris illustribus da Nepote, riesce tuttavia più facile ipotizzare che proprio lui costituisca la fonte per il riferimento allo scortum che si trova nell’anonimo trattato. La possibile dipendenza di Plutarco da Nepote per l’episodio di Flaminino è ignorata da Pelling 1997, 270, per il quale «Plutarco sembra derivare tutto il suo materiale da Livio e dal De senectute, e non c’è traccia di altre fonti». 16 Per una rassegna dei passi liviani cf. Rich 2005, 146, n. 40. 17 Q uesta la posizione ‘classica’ della critica sull’episodio: cf. Münzer 1905, 73-74; Fraccaro 1956, 428: «Chi fa la figura incomparabilmente più bella, qui come altrove in genere, è Livio, che si lascia guidare dalla sua onestà: e dopo di lui direi che viene l’Anziate, la cui partigiana falsificazione ben s’intende, e che almeno è tutto d’un pezzo; racconta come gli pare e gli serve, e nasconde ciò che gli può dar torto»; Wiseman 1979, 32-33; Oakley 1997-2005, I 91: «(Antias’) version (…) of the nefarious activities of L. Flamininus is a free and sensational composition»; Suer-
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in tempi più recenti si è assistito a qualche tentativo di riabilitazione di Anziate, specie alla luce della persistenza della sua versione negli autori successivi 18. Per cercare di risolvere il problema, bisogna in primo luogo valutare quali possano essere le ragioni di una deliberata manipolazione dei fatti da parte dell’uno o dell’altro dei due autori. Le possibilità che si offrono per spiegare la genesi di due versioni così differenti sono due: o ci troviamo di fronte a una censura moralistica operata sull’episodio da Valerio Anziate per occultare alcuni dettagli scabrosi (la relazione omosessuale, l’uccisione di un innocente) che avrebbero messo Flaminino in una luce ancor più negativa, oppure abbiamo a che fare con una enfatizzazione del crimine a opera di Catone, che amplifica alcuni dettagli dell’episodio per rendere il fatto, assieme al suo esecutore, ancora più odioso. Ora, sulla versione di Anziate grava il pesante giudizio di Livio, che la ritiene infondata e alla quale contrappone la versione ‘ufficiale’ consegnata da Catone a un documento pubblico quale è la sua orazione giudiziaria contro Lucio Flaminino, che Livio ha letto e sulla quale egli fonda il suo resoconto dell’episodio. Se così fosse, si dovrebbe allora ipotizzare un tentativo, da parte di Valerio Anziate, di ridimensionare le colpe di Flaminino mediante l’alterazione sia del sesso dell’amante (uomo > donna), per censurare il dettaglio della sua relazione omosessuale col giovane cartaginese, sia, soprattutto, dello status della vittima (transfuga > damnatus), per rendere il suo crimine meno efferato 19. Q uesta ipotesi presenta però delle difficoltà. In primo luogo, non si spiega la ragione che avrebbe indotto Anziate ad alterare così vistosamente la realtà, soprattutto perché le pur scarse informazioni ricavabili sulla sua figura non legittimano l’ipotesi che la sua opera fosse di orientamento filonobiliare, motivo che potrebbe giustificare la sua vo-
baum 1993, 92-93. Nel suo commento al passo, Briscoe 2008, 359 non ritiene invece precisabile quale fra le due versioni sia da considerarsi la più attendibile. Non prende posizione sulle due versioni nemmeno Astin 1978, 79-80. 18 La principale rivalutazione della versione valeriana si deve a Carawan 1990, in part. 322-329; cf. inoltre Rich 2005, 151 e FRHist I 301. 19 Cf. Carawan 1990, 322: «The Valerian version, therefore, would seem the more cogent response to the protest of the Q uinctii». Per Suerbaum 1993, 92-93, che sostiene la versione di Catone/Livio, la versione ‘attenuata’ di Anziate deriverebbe da una contro-ricostruzione dell’episodio messa in circolazione dai Q uinzii a discolpa di Lucio.
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lontà di riabilitare la figura dell’aristocratico Lucio Flaminino 20; inoltre, risulterebbe strano che una ricostruzione così deliberatamente ‘falsa’ – che tale si sarebbe dovuta rivelare al confronto con la ‘genuina’ versione catoniana – abbia goduto tra gli autori successivi di un seguito tale da imporsi come versione ‘canonica’ dell’accaduto. Vale a questo punto la pena di invertire il ragionamento sin qui fatto su Valerio, e di applicare queste riflessioni a Catone, a partire dal seguente interrogativo: quali ragioni potevano spingere il Censore ad alterare la realtà dei fatti sulla vicenda di Flaminino? Per rispondere è utile muovere dalle considerazioni di Plutarco. Il biografo inserisce l’episodio di Flaminino nel contesto dello scontro tra Catone e gli Scipioni 21, ossia tra un homo novus legato alle antiche tradizioni rurali del popolo romano e la nobilitas ellenizzante di cui i Q uinzii, come gli Scipioni, erano tra gli esponenti più rilevanti. Plutarco è inoltre l’unico, assieme a Livio, a fare esplicito riferimento a un’orazione tenuta da Catone dopo l’emissione della nota censoria. Di grande importanza, come si è potuto già constatare, è l’osservazione plutarchea sull’identità della vittima, rispetto alla quale lo storico si professa certo che Catone abbia deliberatamente alterato la realtà dei fatti per aggravare l’accusa: la vittima sarebbe stata infatti un prigioniero condannato a morte, come sostenuto da tutte le altre fonti, e non un disertore dei Galli che chiedeva a Lucio e al popolo romano una garanzia di fides. Q uesta osservazione di Plutarco si rivela di notevole interesse: Livio, infatti, preso dalla polemica contro Anziate, accoglie senza riserve la versione dei fatti per come egli li trova ricostruiti nell’orazione pronunciata da Catone post notam, mentre Plutarco mette in guardia dal fare completo affidamento su un documento composto principalmente per fini oratorî. Se si accetta questa ipotesi, è allora evidente che la versione di Catone è indubbiamente affetta da una amplificatio retorica degli avvenimenti – la δείνωσις di cui parla Plutarco – che risulta chiaramente alla luce della versione alternativa seguita dagli altri autori.
Q uale fosse l’orientamento della storiografia valeriana rimane impossibile da stabilire con certezza (Rich 2005, 155); la critica tende comunque ad attribuire ad Anziate un’estrazione non senatoria (cf. Rich 2005, 138-139), anche se non manca qualche parere contrario (Wiseman 1979, 135; Cornell 1986, 77). 21 Plut., Flamin. 18,3. 20
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Q uale sarebbe, allora, la ragione di questa alterazione da parte di Catone? Q uella di perseguire la sua battaglia contro il filellenismo di tanta nobilitas romana, presentandone in maniera drastica le conseguenze. La ricostruzione di Livio, che attinge apertamente all’orazione catoniana, presenta Lucio nelle vesti di un vero e proprio tyrannus orientale: molle, crudele e libidinoso, pronto, per la semplice cupido di un amante, a dare sfogo alla sua ferocia contro un innocente. È probabile che nella sua orazione Catone facesse ricorso proprio al topos della tirannide per rappresentare la degenerazione a cui il potere della classe dirigente romana sarebbe andato incontro per influsso del crescente ellenismo 22. Tale raffigurazione di Flaminino, presentato con tratti crudeli e tirannici, rientra infatti a pieno titolo nel più ampio contesto della denuncia portata avanti da Catone contro gli abusi dei magistrati romani verso i popoli alleati o sottomessi, di cui abbiamo varie testimonianze nei frammenti superstiti delle sue orazioni. Di Catone sono infatti noti vari discorsi contro magistrati romani resisi responsabili di spoliazioni o massacri ai danni degli alleati 23, e sarà anche su suo impulso che nel 149 a.C., l’anno stesso della sua morte, verrà istituita la quaestio perpetua per il crimen repetundarum 24. In particolare, può essere utile un confronto tra la raffigurazione catoniana di Flaminino che si ricava dalla testimonianza di Livio e i frammenti delle due orazioni pronunciate dal Censore contro Q uinto Minucio Termo nel 190 a.C. 25. Q uesti, già console nel 193 a.C., seguace dell’Africano e vera e propria ‘creatura degli Scipioni’, aveva condotto tra il 193 e il 191 operazioni militari in Liguria, e al suo ritorno a Roma Catone si era adoperato in senato perché gli fosse negato il trionfo, accusandolo di atti di inaudita crudeltà contro gli alleati. Delle orazioni contro Termo si conservano due frammenti che si prestano a un confronto con i ‘toni’ dell’orazione catoniana contro Flaminino ricavabili dalla sintesi liviana. Nel primo frammento, tratto dall’orazione De falsis pugnis, Catone rimprovera a Termo di aver fatto fustigare le più alte cariche (i decemviri) di un imprecisato municipium 22 Sul ricorso al topos della tirannide nell’oratoria romana si veda il classico studio di Dunkle 1967. 23 Cf. infra, nota 29. 24 Su tale provvedimento (lex Calpurnia), promosso dal tribuno della plebe L. Cal purnio Pisone Frugi, cf. MRR I 459. 25 Su queste orazioni cf. Sblendorio Cugusi 1982, 193-194.
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alleato per il solo motivo di essere rimasto poco soddisfatto del l’approvvigionamento alimentare da essi curato nei suoi confronti. Il Censore rivolge a Termo l’infamante accusa di aver compiuto un’azione indegna perfino di un tiranno (Nemo hoc rex ausus est facere) e di aver tradito la fides maiorum, lamentando che a fare le spese della sua crudeltà siano stati uomini onesti e di alto rango (eane fieri bonis, bono genere gnatis, boni consultis) 26: i temi, come si vede, sono gli stessi che ricorrono nel discorso contro Flaminino. Nel secondo frammento, tratto dall’orazione De decem hominibus 27, il Censore si scaglia nuovamente contro Termo per la sua crudeltà, in relazione all’uccisione di dieci uomini liberi e innocenti (anche per questa orazione ci sfuggono purtroppo i dettagli relativi al contesto), ridotti a ‘carne da macello’, secondo la forte immagine evocata dall’oratore (succidias humanas facis), senza che fosse prima celebrato alcun processo (indicta causa, iniudicatis, incondemnatis) 28. Colpisce l’affinità tra le situazioni evocate da Catone in queste due orazioni e il contesto in cui matura il facinus di Flaminino: in tutti i casi la vittima è un alleato innocente che viene ucciso in maniera crudele e ingiusta da un magistrato degenere, che agisce da vero e proprio tiranno. Come nel caso di Termo, vicino agli Scipioni, anche qui Catone sembra mirare a Flaminino per condurre un’aspra polemica contro l’imperialismo romano, denunciandone la deriva brutale e aggressiva che si manifesta nei sempre più frequenti abusi dei magistrati romani verso i popoli alleati o sottomessi 29. 26 Cato, De falsis pugnis fr. 42 Sblendorio Cugusi: Dixit a decemviris parum bene sibi cibaria curata esse. Iussit vestimenta detrahi atque flagro caedi. Decemviros Bruttiani verberavere, videre multi mortales. Q uis hanc contumeliam, quis hoc imperium, quis hanc servitutem ferre potest? Nemo hoc rex ausus est facere: eane fieri bonis, bono genere gnatis, boni consultis! Ubi societas? Ubi fides maiorum? 27 Sui cui caratteri generali cf. Sblendorio Cugusi 1982, 205-206. 28 Cato, De decem hominibus fr. 43 Sblendorio Cugusi: Tuum nefarium facinus peiore facinore operire postulas, succidias humanas facis, tantam trucidationem facis, decem funera facis, decem capita libera interficis, decem hominibus vitam eripis indicta causa, iniudicatis, incondemnatis. 29 Non sono, quelli di Termo e Flaminino, gli unici episodi in cui Catone prende le difese dei provinciali oppressi. Negli anni successivi Catone accusò Publio Furio Filo, già pretore in Spagna Citeriore nel 174, anch’egli legato agli Scipioni e di spiccati sentimenti filellenici (come denuncia lo stesso cognomen di Philus), per degli abusi compiuti sui provinciali, che lo misero sotto accusa nel 171; condannato, si recò in esilio a Preneste (sull’orazione cf. Sblendorio Cugusi 1982, 301-303). Nel 167 a.C. il Censore prese la parola in difesa dei Rodiesi nella celebre orazione Pro Rhodiensibus, per scongiurare l’adozione di misure punitive da parte del senato contro gli abitanti
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È chiaro allora che nell’episodio di Flaminino la trasformazione di un prigioniero condannato a morte in un disertore di alto rango disposto a mettersi al servizio dei Romani – così come fedeli alleati di Roma sono le vittime della crudeltà di Termo – rende l’azione di Lucio, già di per sé deprecabile, ancora più odiosa e tirannica, degna della nota e vituperata crudeltà dei monarchi orientali. Se si accetta questa spiegazione a fondamento dell’alterazione dell’identità della vittima di Flaminino da parte di Catone, allora anche la variazione del sesso dell’amante rispetto alla versione valeriana può trovare una sua giustificazione: la presenza di un amasio, in luogo di una più ‘prevedibile’ meretrix, contribuisce infatti alla suggestiva creazione, sullo sfondo dell’episodio, di un’atmosfera in tutto e per tutto ellenizzante, dai marcati tratti erotico-simposiali. Se Catone, per aggravare la sua accusa contro Flaminino, non esita ad alterare l’identità della sua vittima, come confermato da Plutarco, nulla vieta di ipotizzare che il Censore abbia potuto altresì modificare l’identità dell’amante del condottiero al fine di enfatizzare, mediante il dettaglio della sua relazione omosessuale con un giovane cartaginese, un ulteriore aspetto della degenerazione del potere romano per influsso del mondo greco-orientale. Anche in questo caso la conferma di un intento polemico che avrebbe animato il Censore ci viene da Catone stesso e dalle sue invettive contro le pratiche omoerotiche di importazione greca, di cui abbiamo testimonianza dalle fonti storiche. Particolarmente significativa a tal proposito è una notizia data da Polibio (31,25,5), che si sofferma sull’indignazione di Catone per l’affermarsi a Roma di usi, consumi e lussi di origine orientale che avevano distolto la gioventù romana dalle buone pratiche di un tempo: I giovani erano diventati preda, rispetto a tali cose, di un’intemperanza così grande che molti avevano comprato un amante per un talento, molti un vaso di pesce salato pontico per trecento dracme. Marco, sdegnato per questo, disse una volta, rivolto al popolo, che il progressivo peggioramento di uno stato si può riconoscere dell’isola per il fatto che questi, dopo la loro iniziale neutralità nel corso della terza guerra macedonica, si erano proposti nel 168 a.C, alla vigilia della vittoria romana di Pidna, come arbitri della contesa tra Roma e il re Perseo (cf. Astin 1978, 123-124; Calboli 1978, 99-149). Infine, prima di morire Catone pronunciò una veemente accusa contro Servio Sulpicio Galba, già pretore e propretore in Spagna Ulteriore negli anni 151-150 a.C., il quale, dopo aver sconfitto i Lusitani e averli convinti alla resa, li aveva in parte massacrati e in parte venduti come schiavi (cf. Sblendorio Cugusi 1982, 377-379).
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soprattutto in questo: quando si trova che si vendono i fanciulli di bell’aspetto a un prezzo più alto dei campi e i vasi di pesce salato a un prezzo più alto dei guidatori di aratri 30.
Per Catone, come si vede, la ricerca del godimento sensuale con amasii di bell’aspetto e il gusto per cibi raffinati provenienti dal l’oriente sono il segno inequivocabile di un abbandono da parte dei Romani delle sane occupazioni rurali di un tempo, e con esse della moralità antica 31. Alla luce di questa dura polemica condotta da Catone contro la sempre più forte ellenizzazione della società romana, dunque, l’inserimento nella sua ricostruzione dei fatti relativi a Flaminino di un amasio orientale servirebbe al Censore per acuire i toni della sua polemica contro l’aristocrazia romana ellenizzata, ormai completamente alienatasi dal sistema di valori della Roma arcaica. Va notato inoltre che il riferimento che si trova in Polibio all’alto prezzo degli amasii, che scandalizza il Censore, può fornire una chiave di lettura per l’espressione carum ac nobile scortum che si trova in Livio 39,42,8, nella quale l’aggettivo carum andrà interpretato nel senso di ‘costoso’ piuttosto che con una implicazione affettiva relativa al rapporto tra il condottiero e il suo giovane amante 32, in linea con l’attenzione catoniana per le ripercussioni, anche economiche, dell’ingresso a Roma dei lussi orientali 33. Va poi osservato che tanto in Catone quanto in Livio il crimine compiuto da Flaminino non diviene più grave per il solo motivo che a scatenarlo è un amante di sesso maschile 34: il sesso dell’amante Si riporta il passo nella traduzione italiana di M. Mari (Milano 2005). Il testo originale è il seguente: καὶ τηλικαύτη τις ἐνεπεπτώκει περὶ τὰ τοιαῦτα τῶν ἔργων ἀκρασία τοῖς νέοις ὥστε πολλοὺς μὲν ἐρώμενον ἠγορακέναι ταλάντου, πολλοὺς δὲ ταρίχου Ποντικοῦ κεράμιον τριακοσίων δραχμῶν. ἐφ’ οἷς καὶ Μάρκος ἀγανακτῶν εἶπέ ποτε πρὸς τὸν δῆμον ὅτι μάλιστ’ ἂν κατίδοιεν τὴν ἐπὶ τὸ χεῖρον προκοπὴν τῆς πολιτείας ἐκ τούτων, ὅταν πωλούμενοι πλεῖον εὑρίσκωσιν οἱ μὲν εὐπρεπεῖς παῖδες τῶν ἀγρῶν, τὰ δὲ κεράμια τοῦ ταρίχου τῶν ζευγηλατῶν. 31 Per una discussione sull’intransigenza di Catone rispetto alla «Greek permissiveness» che traspare dal passo polibiano, anche in relazione alla tematica sessuale, si veda l’analisi di Williams 2010, 71-72. 32 Q uesta è invece l’interpretazione prevalente per il termine: cf. la discussione di Briscoe 2008, 360, che interpreta comunque carum nel senso di ‘expensive’. 33 Sull’irriducibile sostegno di Catone alle varie leges sumptuariae contro il lusso privato cf. Astin 1978, 93-95. 34 Cf. a riguardo l’osservazione di Williams 2010, 46: «It is worth noting that Cato’s use of the incident as a reason for expelling Flamininus from the Senate has nothing to do with a homophobic intolerance of Flamininus’ sexual partner». È significativa a tal proposito la chiosa di Livio al termine della synkrisis tra le due versioni dell’episodio, nella quale lo storico sembra, seppur parzialmente, riabili30
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è però indicativo di una polemica di Catone contro qualsiasi forma di atteggiamento grecizzante, anche in ambito sessuale. I due vizi che inducono Flaminino al compimento del facinus – libido e crudelitas – assumono quindi nel discorso di Catone una specifica matrice ellenico-orientale, divengono dei vizi ‘d’importazione’ che hanno preso il sopravvento sull’ethos di un comandante ormai indegno di essere considerato un romano. È quindi probabile che Catone, da oratore esperto quale era, abbia consegnato al suo discorso contro Flaminino, pronunciato post notam, una versione dei fatti per alcuni aspetti diversa e rielaborata rispetto al loro reale svolgimento. Il Censore, come si ricava da Plutarco, pronunciò tale discorso in risposta alle rimostranze dei due Q uinzii per l’espulsione dal senato di Lucio 35, ed è quindi prevedibile che egli, parlando in difesa del suo operato, non abbia rinunciato a ingigantire la portata del facinus dell’avversario mediante opportuni ‘ritocchi’ alla realtà dei fatti 36. Ora, non è possibile precisare se i due dettagli caratterizzanti della versione catoniana – la presenza di un amasio e l’uccisione di un innocente – siano da ricondursi esclusivamente all’immaginazione del Censore o se egli li abbia ripresi, e opportunamente enfatizzati, da una versione della vicenda ostile a Flaminino che era già in circolazione al suo tempo. Sta di fatto che il resoconto dei fatti avanzato dal Censore dovette suscitare le obiezioni di Lucio, il quale, tuttavia, messo da Catone di fronte alla possibilità di una tare la versione di Anziate (39,43,3): Facinus, sive eo modo, quo censor obiecit, sive, ut Valerius tradit, commissum est, saevum atque atrox; è chiaro che per Livio il crimine di Flaminino è di inaudita gravità indipendentemente da come si è effettivamente svolto. 35 Delle rimostranze dei Q uinzii parla Plutarco in Flamin. 19,1-3 e in Cato Mai. 17,5-6. 36 La tesi del discorso di Catone come «post eventum revision» è sostenuta e discussa ampiamente da Carawan 1990, 324-329, che ipotizza una sua redazione tardiva, contestuale alla composizione delle Origines, alle quali esso dovette essere accluso (cf. in part. 327). Diversamente da Carawan, tuttavia, non ritengo che tale orazione sia il frutto di un adattamento di «notes and common topics from later speeches» fatto da Catone in tarda età, e che sia «unlikely that Cato spoke from a prepared text when he answered the challenge of the Q uinctii» (p. 327). Al contrario, è verosimile che Catone abbia parlato nel 184 a.C. contro Lucio Flaminino, in risposta alle proteste sue e del fratello Tito, con un discorso appositamente preparato a tale scopo – come testimoniano le affinità rilevate tra questa orazione e quella pronunciata appena sei anni prima contro Termo –, che doveva corrispondere in buona parte alla versione scritta letta da Livio (della stessa opinione Briscoe 2008, 359: «Nor is there any reason to think that the speech did not, in essence, report what Cato said at that time, but was a later version»).
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sponsio 37, la rifiutò, nella convinzione di perderla, ammettendo in tal modo la sua colpevolezza 38. Un ulteriore indizio rivelatore della fictio retorica entro la quale si collocano alcuni dei fatti contestati all’avversario si può ravvisare – come ha ben messo in luce Carawan – negli stessi dettagli ‘anagrafici’ del concubino di Flaminino, rivelatori di quella che sembra una vera e propria costruzione ‘letteraria’ di questo personaggio 39: il nome, Filippo, testimoniato da Livio e confermato da un frammento catoniano 40, reca con sé la memoria del sovrano macedone sconfitto a Cinocefale dal fratello di Lucio, Tito, mentre l’origine cartaginese del giovane non può non richiamare alla mente la proverbiale ostilità del Censore verso la città punica, con l’ovvia implicazione di una ulteriore nota di biasimo verso Flaminino per il suo così stretto rapporto con un amasio originario della città mortalmente nemica di Roma. Per contro, la versione valeriana della meretrix presenta un dettaglio che sembra ancorare tale figura a un contesto più definito. A differenza che in Catone, dove l’episodio non viene localizzato in maniera precisa, riportando la versione di Anziate Livio colloca da subito la vicenda nella città cisalpina di Placentia. La precisa37 La proposta di sponsio avanzata da Catone a Lucio Flaminino è menzionata sia da Livio 39,43,5 che da Plutarco, Flamin. 19,4 e Cato Mai. 17,6: la sponsio è una sorta di ‘scommessa’ tra le due parti in causa, nella quale veniva fissata una somma di denaro che lo sconfitto era tenuto a pagare al vincitore. 38 Q uesto dettaglio è riportato da Plutarco in Cato Mai. 17,6, dove è detto che Lucio prima tentò di negare la ricostruzione dei fatti avanzata da Catone nel suo discorso ma poi, messo di fronte alla possibilità di una sponsio, la rifiutò, ammettendo così la sua colpevolezza (εἰπόντος δὲ καὶ διηγησαμένου τὸ συμπόσιον, ἐπεχείρει μὲν ὁ Λεύκιος ἀρνεῖσθαι, προκαλουμένου δὲ τοῦ Κάτωνος εἰς ὁρισμὸν ἀνεδύετο). Meno precisa la ricostruzione dello storico in Flamin. 19,4-5, dove il rifiuto della sponsio da parte di Lucio è messo direttamente in relazione al fatto che egli non ebbe nulla da obiettare alla ricostruzione dei fatti proposta da Catone (διηγησάμενος εἰς ὁρισμὸν προεκαλεῖτο τὸν Λεύκιον, εἴ τί φησι τῶν εἰρημένων μὴ ἀληθὲς εἶναι. τοῦ δὲ Λευκίου σιωπήσαντος, ὁ μὲν δῆμος ἔγνω δικαίαν γεγονέναι τὴν ἀτιμίαν): ma ciò risulta poco credibile alla luce di quanto Plutarco stesso dice poco prima sull’alterazione dell’identità della vittima da parte di Catone (Flamin. 18,10: εἰς δείνωσιν), poiché ciò avrà senz’altro suscitato le obiezioni di Lucio. È quindi chiaro che Lucio dovette rinunciare alla sponsio non tanto perché, come afferma Plutarco in Flamin. 19,4-5, egli non ebbe nulla da ribattere al resoconto di Catone, ma piuttosto perché, come si ricava da Cato Mai. 17,6, nonché da Liv. 39,43,5, non avrebbe potuto negare di aver commesso il crimen che gli veniva contestato (quale che fosse il modo in cui si era svolto). 39 Carawan 1990, 321; al carattere fittizio di questo personaggio crede anche Briscoe 2008, 360. 40 Cato, In L. Q uinctium fr. 55 Sblendorio Cugusi: Aliud est, Philippe, amor, longe aliud est cupido. Accessit ilico alter, ubi alter recessit; alter bonus, alter malus.
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zione geografica data da Anziate lascia intravedere in questa colonia, fondata nel 218 a.C. sulla sponda meridionale del Po come avamposto militare contro i Galli, un’intensa attività di prostituzione legata alla forte presenza militare sul territorio (Livio parla infatti di una famosa mulier), e ciò risulta confermato dal fatto che la medesima città si ritrova collegata alla prostituzione e al gioco d’azzardo in un passo ciceroniano in cui si rievoca la presenza a Piacenza di Verre durante la sua questura militare 41. Si tratta di un dettaglio che, seppur esiguo, può ulteriormente orientare a favore dell’attendibilità della versione valeriana 42. Giunti a questo punto, possiamo trarre alcune conclusioni. Delle due versioni offerte da Livio per l’episodio di Flaminino, la più attendibile risulta essere quella di Valerio Anziate che, da sola o per il tramite di Nepote, passa a tutta la tradizione successiva. Se, come abbiamo ipotizzato, i protagonisti della versione di Nepote erano un imprecisato scortum e un damnatus – come già nel De senectute ciceroniano –, questo spiega come mai tra gli autori che unitariamente accolgono la versione del damnatus vi siano variazioni tra chi mantiene indefinita l’identità dell’amante (il De viris illustribus), chi, rifacendosi ad Anziate, parla di una meretrix (Valerio Massimo e Seneca il Vecchio) e chi infine, come Plutarco, contamina la versione nepotiano-valeriana con quella catoniano-liviana, combinando il damnatus con un amante di sesso maschile. Per quanto riguarda Livio, la sua opzione per la versione catoniana, a fronte di una tradizione valeriano-nepotiana dell’episodio che in età augustea doveva essersi ormai consolidata, risponde allora a un duplice intento ideologico dello storico patavino: contrapporsi, come di consueto, all’annalistica precedente e accogliere, assieme alla versione di Catone, una visione del mondo e del mos maiorum che egli doveva sentire come in tutto affine alla sua. 41 In un passo delle Verrine (2,5,33) Cicerone rievoca la questura militare ricoperta dal giovane Verre in Gallia Cisalpina, dedita al gioco d’azzardo presso un biscazziere di Piacenza e alla prostituzione, alla quale Verre dovette ricorrere per far fronte alle perdite subite al gioco: Renovabitur illa prima militia, cum iste e foro abduci, non, ut ipse praedicat, perduci solebat; aleatoris Placentini castra commemorabuntur, in quibus cum frequens fuisset, tamen aere dirutus est; multa eius in stipendiis damna proferentur quae ab isto aetatis fructu dissoluta et compensata sunt. 42 Ovviamente non possiamo sapere se Catone nella sua orazione parlasse o meno di Placentia come teatro dei fatti: tuttavia, poiché Livio associa tale città al solo resoconto di Anziate, è probabile che egli non trovasse questo dettaglio nel Censore, altrimenti non avrebbe avuto motivo di tacerlo.
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ID QUIDEM CAVENDUM SEMPER ROMANIS DUCIBUS ERIT IL CASO DEI FRATELLI SCIPIONI *
La prospettiva di una guerra d’oltremare è presente a Roma nel dibattito politico che precede il secondo conflitto romano-punico, ma è solo dopo la caduta di Sagunto che matura il progetto di portare la guerra nella penisola iberica 1. Nel 219 a.C. il Senato invia una commissione a Cartagine per chiedere conto della conquista annibalica di Sagunto, il principale alleato di Roma in Spagna; nel 218 a.C. la Spagna viene nominata provincia consularis 2 e assegnata a P. Cornelio Scipione, console per quell’anno insieme a Ti. Sempronio Longo 3. In marcia verso la Spagna per guidare l’offensiva anti-cartaginese, Publio viene trattenuto sul Po da una ribellione di popoli celtici e, sorpreso dalla notizia che Annibale aveva attraversato il Rodano e si dirigeva in Italia, è costretto a rientrare nei confini romani per arrestare l’avanzata cartaginese. È a questo punto che il console compie una scelta strategicamente importante, ma non priva di anomalie: decide di inviare comunque in Spagna una buona parte dell’esercito sotto la guida del fratello Gneo Calvo, console nel 222 4 e ora investito della carica di legatus sotto gli * Ringrazio Gianluigi Baldo e Stephen Oakley per l’attenta rilettura di questo contributo. 1 Per un inquadramento storico della campagna romana in Spagna si vedano, fra gli altri, Scullard 1970; CAH, 56-61; Lazenby 1978, 125-156; Richardson 1986, 31-61; Eckstein 1990, 187-232; Salinas de Frias 1995, 21-34; Hoyos 2003, 102-105; Hoyos 2011, 320-324. 2 Sulla nomina della Spagna come provincia consularis si vedano 21,17,1 e Polyb. 3,40,2; cf. anche Vervaet – Ñaco del Hoyo 2013, 22-23 (con bibliografia). 3 MRR I 237-238. 4 MRR I 232-233. Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 177-196 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125327
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auspicia consolari 5. Le gravi sconfitte subite nel 218 dagli eserciti romani non impediscono al Senato di ratificare la nomina di Publio come proconsole per il 217 6; questi, dopo aver raggiunto il fratello in Spagna, guida con lui le operazioni militari in perfetta sintonia e, a quanto sembra, su un piano paritario, fino alla morte avvenuta nel 212 (o più probabilmente nel 211) 7. 5 Per la carica di legatus, con cui Publio conferisce a Gneo il comando della campagna di Spagna, si veda in particolare 21,40,3 (Nunc quia ille exercitus, Hispaniae provinciae scriptus, ibi cum fratre Cn. Scipione meis auspiciis rem gerit); cf. anche App., Iber. 14 (πρεσβευτήν); App., Hann. 5; Zonar. 8,23. Trattandosi di una delega ricevuta dal fratello ed esercitata sotto i suoi auspicia, l’imperium militiae conferito a Gneo nel 218 è verosimilmente pro praetore (su questo aspetto cf., in particolare, Develin 1980, 355-356; Vervaet – Ñaco del Hoyo 2013, 22 n. 2). Maggiori incertezze sussistono invece sullo status di Gneo dopo l’arrivo in Spagna del fratello come proconsole (22,22,1). Le fonti non fanno riferimento al ruolo che Gneo ricopre dal 217 in poi, tuttavia Livio ne presenta le operazioni in Spagna come condotte in modo autonomo, indicandolo anzi come responsabile di un esercito distinto da quello del fratello (24,41). Inoltre, nella ripartizione delle province per l’anno 212, Livio registra la proroga dell’imperium spagnolo per entrambi i generali (25,3,6 Hispaniae P. et Cn. Corneliis): ciò ha fatto supporre che, dopo l’arrivo di Publio in Spagna, il Senato abbia ratificato la carica di Gneo come legato del fratello, elevandone al contempo l’imperium al grado di proconsole. Secondo Develin 1980, 356, questa sarebbe la più antica testimonianza di elevazione di un magistrato compiuta dal Senato (per lo status quaestionis aggiornato si veda Vervaet – Ñaco del Hoyo 2013, 23 n. 3 con opportuna bibliografia). 6 22,22,1-3. 7 Livio data la morte dei fratelli Scipioni al 212, incorrendo quasi certamente in un errore cronologico, ricavabile anche da quanto lui stesso afferma a proposito della morte di Gneo, avvenuta anno octavo postquam in Hispania venerat, quindi otto anni dopo il 218 (25,36,14; cf. anche 38,6 invictos per octo annos). L’ipotesi che Livio abbia commesso un errore cronologico trova conferma nel resoconto degli avvenimenti successivi alla morte degli Scipioni, secondo cui il Senato solo nel 211 assegna a Clau dio Nerone il comando delle truppe di Spagna (26,11,5; 17,1). Vista la gravità della situazione, risulta altamente improbabile che Roma attenda un intero anno prima di inviare un nuovo comandante in Spagna, lasciando i resti dell’esercito in balia degli eventi e soprattutto nelle mani di Lucio Marcio, magister equitum eletto dai soldati. La datazione del 211 è, inoltre, attestata concordemente da Sil. 13,382; 671; Eutr. 3,14 e Oros. 4,17,2. Varie motivazioni sono state date per questo errore cronologico. Secondo Klotz 1941, 154-170 esso si spiega con l’uso di Celio Antipatro, il quale, riferendo le vicende di Spagna separatamente da quelle d’Italia, avrebbe reso difficile ricostruire una cronologia unitaria. Contra Soltau 1894, 598-613 e De Sanctis 1917, 370, convinti che per le vicende spagnole Livio si sia rifatto a Polibio, mediato forse da Claudio Q uadrigario, sostengono che la datazione nascerebbe dall’erronea conversione fra la 142 Olimpiade (212-211) e l’anno consolare (un errore peraltro già presente nella datazione liviana della defectio di Taranto; cf. Nicolet-Croizat 1992, XLII-XLIII). Sugli errori della cronologia liviana nella campagna spagnola si veda anche la sintesi di Nicolet-Croizat 1992, XLVI-XLVIII. Per le possibili ragioni narrative (struttura monografica della terza decade) che avrebbero spinto Livio a commettere questi errori cronologici cf. infra n. 12.
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Q uando la rivolta di Siface 8 richiama in Africa buona parte delle forze cartaginesi, i due generali romani decidono di inaugurare una tattica aggressiva per chiudere definitivamente la partita spagnola e invadono la zona di influenza cartaginese a sud del fiume Baetis (odierno Guadalquivir). Ritenendo di avere forze sufficienti, essi decidono di dividere l’esercito in due parti per spostarsi più liberamente sul territorio 9, ma il loro calcolo è sbagliato per sovrastima: numericamente le loro truppe sono sufficienti per l’impresa progettata, ma la qualità militare è resa incerta dalla presenza di un grosso contingente di ausiliari Celtiberi, che costituisce il primo corpo di mercenari arruolato nell’esercito di Roma 10. Il ruolo dei Celtiberi è fondamentale nel progetto degli Scipioni, che si affidano a loro per imprimere una svolta decisiva alla campagna spagnola, sconfiggendo definitivamente gli eserciti cartaginesi. Q uesta fiducia rende il comportamento del popolo ispanico ancora più grave e, agli occhi di uno storico come Livio, moralmente intollerabile: alla vigilia della battaglia essi si ritirano, lasciando i Romani impotenti e condannati a fine sicura 11. Nella narrazione liviana questo fatto 24,48,1-49,8. 25,32,2 Ibi consilium advocatum, omniumque in unum congruerunt sententiae, quando ad id locorum id modo actum esset, ut Hasdrubalem tendentem in Italiam retinerent, tempus esse id iam agi, ut bellum in Hispania finiretur. Cf. anche Richardson 1986, 40-41. 10 24,49,8 Id modo eius anni in Hispania ad memoriam insigne est quod mercennarium militem in castris neminem antequam tum Celtiberos Romani habuerunt; 25,32,3 et satis ad id virium credebant accessisse viginti milia Celtiberorum ea hieme ad arma excita. Forse non si trattava dei primi mercenari arruolati nell’esercito romano, ma piuttosto dei primi ad essere ingaggiati direttamente dai generali e da loro stessi pagati (cf. Hamdoune 1999, 21; Cadiou 2008, 663). Se prima della conquista del Mediterraneo il ricorso al mercenariato non era ancora comune per i Romani, tuttavia García y Bellido 1963 riconduce lo sviluppo di questo istituito proprio al contatto dei Romani con popoli bellicosi come i Celtiberi. Q uesta interpretazione sull’origine del mercenariato in Spagna è contestata da studi recenti sulle società paleoispaniche: queste sarebbero state indotte a vivere delle loro armi, come mercenari e come briganti, principalmente dalle loro condizioni economiche e strutturali e non dalla loro indole violenta (cf. García-Gelabert Perez – Blázquez Martínez 1987-1988; Gómez Fraile 1999). Uno studio dettagliato sulle relazioni fra Romani e Celtiberi durante la seconda guerra punica in Knapp 1979; Olcoz Yanguaz – Medrano Marqués 2011, 74-78; una rassegna delle fonti letterarie relative all’attività di mercenariato praticata dai popoli ispanici in García-Gelabert Perez – Blásquez Martínez 1987-1988. 11 Una diversa versione della morte degli Scipioni è riportata da App., Iber. 16, secondo cui il destino degli eserciti romani non è segnato dal tradimento dei Celtiberi, ma da un’incauta sortita di Publio, che, alla notizia del ritorno di Asdrubale dall’Africa, giunge con il suo esercito troppo vicino all’accampamento nemico; 8 9
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d’armi assume un rilievo particolare e viene rivestito di un valore emblematico: segna, infatti, il punto culminante delle sconfitte subite da Roma nella prima fase della guerra punica e introduce un tema sensibile, su cui Livio tornerà ancora in riferimento ai due Scipioni, ossia l’utilizzo degli ausiliari stranieri. È l’architettura stessa degli Ab urbe condita a evidenziare il ruolo chiave dell’episodio della sconfitta dei due Scipioni, posto alla fine del libro 25, in chiusura della prima pentade 12. L’importanza narrativa della vicenda sta anche nella sua esemplarità, segnalata dall’autore stesso con un deciso quanto inconsueto intervento diretto 13 all’interno del capitolo 33: (1) Hasdrubal, postquam animadvertit exiguum Romanum exercitum in castris et spem omnem in Celtiberorum auxiliis esse, (2) peritus omnis barbaricae et praecipue omnium earum gentium in quibus per tot annos militabat perfidiae, (3) facili † linguae † 14, cum utraque successivamente Gneo viene bruciato vivo mentre tenta di recuperare i soldati del fratello. 12 Come da tempo ha notato la critica liviana, la terza decade è forse la sezione degli Ab urbe condita che mostra più chiaramente un impianto monografico, rafforzato da fitti richiami intratestuali e organizzato in due pentadi, opposte per contenuto e struttura narrativa: nei libri 21-25 è narrata la lunga sequenza di sconfitte romane, culminanti con la morte degli Scipioni, mentre nei libri 26-30 è descritta la lenta riscossa romana fino alla battaglia di Zama. Tuttavia, già nel passaggio dal libro 25 al libro 26, coincidente con lo snodo cronologico fra il 212 e il 211, viene anticipato il capovolgimento della situazione bellica in favore di Roma, descrivendo le imprese di Lucio Marcio, che riesce a riunire ciò che restava degli eserciti proconsolari, evitando la completa perdita dei domini spagnoli. Alla realizzazione di quest’architettura unitaria contribuiscono anche alcuni errori cronologici, in particolare l’anticipazione al 212 della morte degli Scipioni. Pertanto, si può verosimilmente ipotizzare che Livio, nella scelta fra diverse versioni cronologiche dei fatti, sia stato in parte influenzato da necessità compositive: per il caso caso dei fratelli Scipioni vi sarebbe stata l’esigenza di chiudere con una sconfitta emblematica la prima pentade, dedicata alla fase più buia della guerra. Sui principi compositivi della terza decade si vedano, in particolare, Burck 1950; Burck 1971, 24-25; Walsh 1982; Luce 1977, 27-28; Jal 1988, IX-XIII; Levene 2010, 9-33. 13 Come mostra Chaplin 2000, 50, negli Ab urbe condita l’enunciazione degli exempla è affidata essenzialmente a due voci, quella del narratore e quella dei personaggi, sia all’interno della narrazione sia nei discorsi. Tuttavia, gli interventi della voce narrante, che evidenzia la validità esemplare di una vicenda, sono numericamente inferiori e per questo particolarmente rilevanti (uno spoglio degli exempla rilevati dal narratore in Chaplin 2000, 50 n. 1; cf. anche Chaplin 2015 e Beltramini 2017). 14 Il senso del passo è chiaro: Asdrubale per convincere i Celtiberi si è servito della sua esperienza, fondata sulla comune estraneità al mondo romano, arricchita dal contatto quotidiano con le popolazioni ispaniche e dalla conoscenza della lingua locale. Il testo è tuttavia irrimediabilmente corrotto. I codici trasmettono facili linguae, ma il dativo è inaccettabile sul piano sintattico. Varie proposte emendatorie sono state avanzate. Valla propone di correggere in fallacieque, mentre i correttori del Colber-
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castra plena Hispanorum essent, per occulta conloquia paciscitur magna mercede cum Celtiberorum principibus ut copias inde abducant. (4) Nec atrox visum facinus – non enim ut in Romanos uerterent arma agebatur – et merces quanta vel pro bello satis esset dabatur ne bellum gererent, et cum quies ipsa, tum reditus domum fructusque videndi suos suaque grata volgo erant. (5) Itaque non ducibus facilius quam multitudini persuasum est. Simul ne metus quidem ab Romanis erat, quippe tam paucis, si vi retinerent. (6) Id quidem cavendum semper Romanis ducibus erit exemplaque haec vere pro documentis habenda, ne ita externis credant auxiliis ut non plus sui roboris suarumque proprie virium in castris habeant. (7) Signis repente sublatis Celtiberi abeunt, nihil aliud quaerentibus causam obtestantibusque ut manerent Romanis respondentes quam domestico se avocari bello. (8) Scipio, postquam socii nec precibus nec vi retineri poterant, nec se aut parem sine illis hosti esse aut fratri rursus coniungi vidit posse, nec ullum aliud salutare consilium in promptu esse, retro quantum posset cedere statuit, (9) in id omni cura intentus necubi hosti aequo se committeret loco, qui transgressus flumen prope vestigiis abeuntium insistebat 15.
Il capitolo, il cui impianto narrativo sembra pensato proprio per dare rilievo alle parole dello storico, ha una struttura tripartita. Nella prima parte (§§ 1-5) si descrive la mossa cartaginese, presentata come l’effetto combinato dell’abilità intuitiva di Asdrubale e della sua esperienza di comandante, maturata a contatto con le genti ispaniche. Egli infatti, ben conoscendo la scarsa affidabitino (Par. lat. 5731) e dell’Harleiano (Brit. Harl. 2493) emendano in facili lingua, una proposta che è stata accolta da Walters – Conway 1929. Tuttavia la soluzione che restituisce meglio il senso del passo è l’integrazione facili linguae ‹commercio› del l’editio princeps (Romae 1469), accolta da numerosi editori, antichi e moderni (per es. J. F. Gronovius [Amstelodami 1664]; A. Drakenborch [Amstelodami 1740-1741]; N. Madvig [Hauniae 1863]; Dorey 1976; Nicolet-Croizat 1992; Weissenborn – Müller 18955, pur accogliendo l’integrazione, ipotizzano che la lacuna abbia coinvolto più termini): l’espressione linguae commercium, attestata anche nella forma sermonum commercium (5,15,5), restituisce efficacemente il senso del passo, sottintendendo un’idea di comunicazione intesa come scambio linguistico (‘con la conoscenza e la pratica della lingua straniera’); la iunctura, inoltre, trova conferma nell’usus scribendi liviano ed è attestata anche in autori successivi a Livio: cf. 1,18,3 aut quo linguae commercio quemquam ad cupiditatem discendi excivisset?; 9,36,6 sed neque commercium linguae nec vestis armorumve habitus, con Oakley 1997-2005, III 472; Ov., trist. 3,11,9 nulla mihi cum gente fera commercia linguae; 5,10,35 exercent illi sociae commercia linguae; Curt. 5,5,19 mores, sacra, linguae commercium etiam a barbaris expeti; Lucan. 6,623 per quam manibus et mihi sunt tacitae commercia linguae; Stat., Theb. 2,512 et dirae commercia iungere linguae; Plin., nat. 6,88 nullo commercio linguae; Auson., Mos. 623 licet hic commercia linguae; cf. anche ThLL s.v. commercium 1876, 28-41; OLD s.v. commercium 4b). 15 Per le citazioni da Livio si adottano le edizioni di Walsh 1986 e di Briscoe 2016.
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lità delle popolazioni locali 16, punta proprio su questo elemento quando gli Scipioni decidono di dividere le loro forze, affidandosi quasi interamente alle truppe mercenarie 17. Asdrubale, forte della facilità comunicativa e della condivisa diffidenza verso il mondo romano 18, affronta la parte concreta ed economica dell’operazione, ottenendo con trattative segrete la defezione dei capi celtiberi. In §§ 4-5 la narrazione si pone dal punto di vista dei Celtiberi per ricostruire le motivazioni della loro diserzione: all’iniziale tentativo di attenuare la portata del tradimento 19 seguono due diverse argomentazioni, che rispecchiano gli interessi dei Celtiberi, osservati come due gruppi distinti 20: i capi, mossi dall’interesse economico 21, e i soldati, ispirati da comprensibili esigenze umane 22. Per entrambi 16 Il carattere infido delle popolazioni ispaniche è presentato anche da Sil. 13,678682 Pro barbara / numquam impolluta fides! Peterem cum uictor adesum / cladibus Hasdrubal, subito venale, cohortes Hispanae, vulgus, † Libyci quas fecerat auri † / Hasdrubal, abrupto liquerunt agmine signa. 17 25,33,1 exiguum Romanum exercitum in castris et spem omnem in Celtiberorum auxiliis; 25,32,7-8 ita inter se diviserunt ut P. Cornelius duas partes exercitus Romanorum sociorumque adversus Magonem duceret atque Hasdrubalem, Cn. Cornelius cum tertia parte veteris exercitus Celtiberis adiunctis cum Hasdrubale Barcino bellum gereret. Q uesta suddivisione dell’esercito in due terzi e un terzo, insieme al termine veteris, ha fatto ipotizzare a Knapp 1977, 87 che in Spagna fosse giunta una nuova legione, peraltro non attestata nell’assegnazione delle province presentata da Livio in 25,3,3-6. L’aggettivo veteris sarebbe piuttosto da riferire al nucleo di soldati venuto dall’Italia con Gneo e che possono essere considerati un esercito solo con l’aggregazione di ventimila Celtiberi (cf. Cadiou 2008, 90). 18 25,33,2 peritus omnis barbaricae et praecipue omnium earum gentium in quibus per tot annos militabat. 19 25,33,4 nec atrox uisum facinus – non enim ut in Romanos verterent arma agebatur. 20 Per questa componente della tecnica narrativa liviana si vedano, in particolare, Walsh 1961, 196 e Oakley 1997-2005, I 137. 21 25, 33,4 et merces quanta vel pro bello satis esset dabatur ne bellum gererent. 22 25,33,4 et cum quies ipsa, tum reditus domum fructusque videndi suos suaque grata volgo erant. Q ueste considerazioni riflettevano esigenze molto presenti fra le genti ispaniche e Annibale stesso vi fa ricorso all’inizio della guerra (21,21). Dopo la conquista di Sagunto, prima di passare in Italia, egli convoca a Cartagena le popolazioni ispaniche per ottenerne l’appoggio. Nell’allocuzione alle truppe, Annibale sottolinea l’eccezionalità del momento storico e cerca di ottenere l’appoggio dei popoli locali attraverso concessioni umanitarie: §§ 5-6 itaque cum longinqua ab domo instet militia incertumque sit quando domos vestras et quae cuique ibi cara sunt visuri sitis, si quis vestrum suos invisere volt, commeatum do. Q ueste parole giungono particolarmente gradite alle genti ispaniche e le conquistano alla causa di Annibale: §§ 7-8 omnibus fere visendi domos oblata ultro potestas grata erat, et iam desiderantibus suos et longius in futurum providentibus desiderium. Per totum tempus hiemis quies inter labores aut iam exhaustos aut mox exhauriendos renovauit corpora animosque ad omnia de integro patienda. Che Livio intenda stabilire una correlazione fra
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i gruppi vale comunque una considerazione comune: l’esiguità delle truppe romane garantiva ai mercenari che non sarebbero stati costretti a restare 23. Nella seconda parte (§§ 7-9) Livio si sofferma sulle ragioni addotte dai Celtiberi per giustificare il loro gesto – tenersi fuori da una guerra civile (domestico bello) – e sul vano tentativo compiuto da Gneo Scipione 24 per trattenere i mercenari ed evitare uno scontro impari con i nemici. Fra queste due sezioni, che Livio costruisce con una struttura parallela, rafforzata da una serie di richiami intratestuali 25, si collocano le parole dell’autore, che interviene direttamente nella narrazione per segnalare il valore esemplare dell’episodio (§ 6): Id quidem cavendum semper Romanis ducibus erit, exemplaque haec vere pro documentis habenda, ne ita externis credant auxiliis, ut non plus sui roboris suarumque proprie virium in castris habeant.
Servendosi di una movenza iniziale solenne e poco frequente nel l’opera 26, l’autore proietta in avanti il valore dell’episodio, conferendogli una validità assoluta attraverso il brusco passaggio al tempo futuro (persuasum est – cavendum erit) e l’impiego dell’avverbio semper. Nella vicenda dei fratelli Scipioni, tuttavia, Livio coglie anche un’esemplarità di segno diverso rispetto a quella etica e civile, di cui le vicende storiche sono spesso portatrici, conformemente alla vocazione moralistica della storia, che Livio enuncia in i due episodi è confermato dall’impiego degli stessi termini: 21,21,5-6 domos vestras et quae cuique ibi cara sunt visuri sitis, si quis vestrum suos invisere volt; § 7 visendi domos oblata ultro potestas grata erat; § 8 quies; 25,33,4 et cum quies ipsa, tum reditus domum fructusque videndi suos suaque grata. Il confronto fra i due episodi risaltare in modo drammatico la disparità del rapporto con i popoli ispanici dei Romani e dei Cartaginesi: questi ultimi, infatti potevano contare sulla profonda conoscenza del territorio, degli abitanti e della lingua, maturata con una lunga consuetudine e una presenza, anche militare, voluta dai Barcidi (cf. Roddaz 1998; Etcheto 2012). 23 25,33,5 simul ne metus quidem ab Romanis erat, quippe tam paucis, si vi retinerent. 24 Diversamente da Livio, in Silio Italico (13,381-384; 650-702) e Appiano (Iber. 16) è Publio Scipione a combattere contro Asdrubale. 25 Il contrasto fra Cartaginesi e Romani, reso attraverso l’opposizione fra i principali contendenti Asdrubale e Gneo, si riflette nella struttura del capitolo: le due sezioni (§§ 1-5 e 7-9) sono aperte dal nome del protagonista seguito dalla subordinata temporale (§ 1 Hasdrubal postquam; § 8 Scipio postquam. Sull’impiego del soggetto come ‘mot-titre’, cf. Chausserie-Laprèe 1969) e l’unità del capitolo è rafforzata dalla ripetizione di termini chiave (§ 5 ui retinerent; § 8 ui retineri; § 3 mercede; § 4 merces). 26 Weissenborn – Müller 18955, 195 ad loc.
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un famoso passaggio della praefatio 27. Q uella che Livio espone in questo contesto è una massima di condotta militare, una vera e propria lezione di strategia rivolta al suo pubblico: chi guida un esercito stia ben attento ad assoldare truppe ausiliarie straniere e a confidare più in esse che nelle proprie forze, conosciute e collaudate. Si noti come Livio, per evidenziare un messaggio di tipo tecnicomilitare piuttosto che civile, utilizzi proprio le parole della praefatio, in particolare la coppia exemplum-documentum 28, relativamente rara nei contesti di esemplarità presenti negli Ab urbe condita. Con lucidità e realismo Livio non propone di escludere del tutto gli ausiliari dall’esercito, ma sostiene piuttosto la necessità di una corretta gestione del loro potenziale: il numero degli stranieri arruolati non deve mai superare quello dei Romani e, fra queste componenti, diverse per addestramento, lingua e cultura, è fondamentale che si stabilisca un equilibrio numerico e funzionale. Per lo storico, la decisione presa dai due Scipioni di dividere l’esercito ha costituito un grave errore strategico, in cui i generali sono incorsi non per imperizia militare, ma, paradossalmente, per un atto di coerenza: dovevano fidarsi della parola dei Celtiberi appena arruolati come ausiliari. Su questa fiducia si è decisa la sorte dei due eserciti proconsolari, consegnati di fatto nelle mani delle truppe mercenarie: exiguum Romanum exercitum in castris et spem omnem in Celtiberorum auxiliis (25,33,1) 29. I limiti della strategia romana e la disparità fra le due anime dell’esercito sono resi stilisticamente con l’antitesi tra gli aggettivi exiguus e omnis, inseriti in una struttura binaria, la cui efficacia espressiva è amplificata da Praef. 10 hoc illud est praecipue in cognitione rerum salubre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intueri; inde tibi tuaeque rei publicae quod imitere capias, inde foedum inceptu foedum exitu quod vites. 28 Oltre a praef. 10 e 25,33,6, la coppia di termini ricorre in 24,8,20 tristia ad recordationem exempla, sed ad praecavenda‹s› similes ‹clades› utilia documento sunt; 28,42,1 Africa eadem ista et M. Atilius, insigne utriusque fortunae exemplum, nobis documento sint; 17 tam recenti exemplo quantum id intersit documento sunt?. Per un’analisi semantica dei termini exemplum e documentum in Livio, cf. Crosby 1980. 29 In questo contesto l’aggettivo exiguus denota non solo un esercito di dimensioni ridotte, ma «paucitate invalidus, infirmus» (cf. ThLL s.v. 1473, 18-50); per questa duplice accezione del termine, cf. per es. 5,16,3 exiguo eoque parum valido exercitu persecuturos (scil. Romanos); 6,12,5 vix seminario exiguo militum relicto; 23,27,8 non exigua pars populi, sed universus populus; Ov., epist. 14,115 de fratrum populo pars exiguissima restat; Cic., Q uinct. 2 exiguae amicorum copiae sunt; de orat. 1,16 tam exiguum oratorum numerum; Caes., Gall. 6,8,1 ut tantis copiis tam exiguam manum…adoriri non audeant; 7,17,2 civitas erat exigua et infima. 27
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una serie di figure retoriche (allitterazione: exiguum…exercitum; chiasmo exiguum exercitum / spem omnem; omeoteleuto: exiguum Romanum exercitum…Celtiberorum). Le parole di Livio lasciano intendere che il contrasto tra le due componenti dell’esercito era quantitativo, ma soprattutto qualitativo: gli Scipioni, riponendo la loro fiducia nei Celtiberi, avevano sottovalutato l’indole volubile e malvagia che, secondo la cultura romana, era propria dei popoli stranieri e che per le genti ispaniche sembrava un elemento quasi identitario, come Livio ricorda più volte 30: omnis barbaricae et praecipue omnium earum gentium…perfidiae (25,33,2). Proprio su quest’indole, infatti, fa leva Asdrubale, con intuito ed esperienza da uetus imperator, valendosi anche della comune estraneità al mondo romano, che induceva confidenza e facilità comunicativa con le genti ispaniche. Livio ammette l’abilità di Asdrubale nel cogliere sia le debolezze della tattica romana come anche i suoi punti di forza, volgendoli a proprio vantaggio. Conoscendo, infatti, la volubilità dei Celtiberi come popolo e la corruttibilità dei loro capi, Asdrubale ne compra la neutralità con una generosa ricompensa: per occulta conloquia paciscitur magna mercede cum Celtiberorum principibus ut copias inde abducant (25,33,3). Si tratta, peraltro, dello stesso metodo con cui gli Scipioni si erano guadagnati l’appoggio di questo popolo nel corso delle trattative precedenti l’ultima fase della guerra, riferite da Livio alla fine del libro 24, dove si dà appunto notizia del successo diplomatico riportato da Publio e Gneo Scipione con l’arruolamento dei mercenari celtiberi; questo è infatti l’unico avvenimento degno di nota nello stallo militare dell’anno 213, che precede il cambiamento di strategia (24,49,7): 30 In più luoghi Livio caratterizza le popolazioni ispaniche e, in particolare, i Celtiberi, considerati gli ‘Ispanici’ per eccellenza, come violente e bellicose: cf. per es. 23,49,12 provincia maxime omnium belli avida…et iuventute abundante; 24,42,6 sed gens (scil. Hispanorum) nata instaurandis reparandisque bellis; 28,12,11 Hispania non quam Italia modo, sed quam ulla pars terrarum bello reparando aptior erat locorum hominumque ingeniis. Nella caratterizzazione liviana delle genti ispaniche e, in generale, dei barbari, Dauge 1981, 175 nota una dimensione universale, «le Barbare en soi», sottesa ai vari popoli stranieri e ai tipi umani che li esemplificano. Q uesta dimensione emerge chiaramente da formule come quella utilizzata da Livio in 25,33,2 (omnis barbaricae et praecipue omnium earum gentium…perfidiae), dove la perfidia dei Celtiberi è fatta rientrare esplicitamente nell’immagine archetipica del barbaro; altre formule simili in 27,17,10 locutus haudquaquam ut barbarus stolide incauteve; 29,23,4 sunt ante omnes barbaros Numidae effusi in Venerem. Sulla caratterizzazione romana del barbarus si vedano anche Dutoit 1942 e Sigayret 1999.
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In Hispania nihil memorabile gestum praeterquam quod Celtiberum iuventutem eadem mercede, qua pacta cum Carthaginiensibus erat, imperatores Romani ad se perduxerunt (…).
Confrontando queste parole di Livio con il resoconto in 25,33,1-5, si può cogliere una nota di amara ironia 31: i Romani impostano per primi un rapporto di corruzione verso un popolo straniero, senza valutarne l’indole e la lontananza culturale, ossia proprio le caratteristiche attribuite al nemico cartaginese. Sono quindi i Romani stessi, suggerisce Livio, a fornire ad Asdrubale un precedente che si ritorcerà contro di loro, quasi in una beffarda forma di contrappasso. Il sarcasmo di Livio, però, investe anche i capi celtiberi, incapaci di rispettare la parola data ma coerenti nella loro inaffidabilità, in quanto sempre fedeli al principio dell’interesse economico. L’ironia di Livio si esprime attraverso la ripetizione di termini chiave nei due passi: 24,49,8 eadem mercede, qua pacta; 25,33,4 paciscitur magna mercede; 33,4 et merces quanta vel pro bello satis esset dabatur ne bellum gererent. Allo stesso effetto contribuisce anche il contrasto spaziale fra l’entrata e l’uscita, reso dai corradicali perduxerunt / abducant, impiegati per descrivere il comportamento dei Celtiberi, che prima accettano di entrare nel l’esercito romano (24,49,8 Celtiberorum iuventutem…imperatores Romani ad se perduxerunt) per uscirne alla vigilia del combattimento decisivo (25,33,4 paciscitur cum Celtiberorum principibus ut copias inde abducant). Non è dunque casuale che la notizia dell’arruolamento dei Celtiberi sia posta in chiusura del libro 24, dove funge da espediente narrativo 32, con il duplice effetto di sottolineare l’importanza della vicenda e, insieme, di creare un crescendo drammatico, culminante nel libro 25 con l’ammutinamento dei mercenari, la sconfitta dei Romani e la morte dei fratelli Scipioni. Fra i due libri finali della prima pentade si crea così una corrispondenza architettonica e tematica, che forma la cornice in cui si inquadra l’exemplum. Sulla vicenda degli Scipioni il racconto liviano torna altre volte nel corso della terza decade e sempre in momenti chiave e in pre-
Sull’ironia nella letteratura antica si vedano Haury 1955; Becker 2010 e, in generale, Almansi 1984 e Jankélévitch 1987. Sull’ironia in Livio, cf. Caioli 1932 e, con riferimento a questo passo, Levene 2010, 245. 32 Levene 2010, 244: «the very final words of Book 24: a closural device emphasizing it as a key thematic point». 31
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senza di svolte decisive della guerra 33. Lo storico affida l’exemplum a figure importanti ed emblematiche, che lo utilizzano in modi diversi, mostrando comunque, pur da differenti posizioni, di aver compreso il pensiero dello storico e anzi comportandosi quasi da lettori dell’opera 34, che veicolano e indirizzano l’interpretazione del pubblico dell’età di Livio. Verranno considerati due snodi della seconda guerra punica, entrambi presentati nel libro 28, in gran parte dedicato alle vicende spagnole 35: la battaglia di Ilipa del 206 (28,12,10-15; 11-12) 36 e lo scontro oratorio fra Q . Fabio Massimo e Scipione Africano, prima del trasferimento della guerra in Africa nel 204 a.C. (28,40-44) 37. In 28,13,1-4 Scipione Africano, alla vigilia della battaglia con cui porrà fine alla supremazia cartaginese in Spagna, riflette fra sé, combattuto fra la necessità di rinforzare l’esercito romano con l’arruolamento di ausiliari stranieri e il ricordo dell’esperienza del padre e dello zio (28,13,1-4) 38: Scipio, cum ad eum fama tanti comparati exercitus perlata esset, neque Romanis legionibus tantae se fore parem multitudini ratus ut non in speciem saltem opponerentur barbarorum auxilia, (2) neque in iis tamen tantum virium ponendum ut mutando fidem, quae cladis causa fuisset patri patruoque, magnum momentum facerent, (3) praemisso Silano ad Culcham, duodetriginta oppidis regnantem, ut equites peditesque ab eo quos se per hiemem conscripturum pollicitus erat acciperet, (4) ipse ab Tarracone profectus protinus ab sociis qui accolunt viam modica contrahendo auxilia Castulonem pervenit. 33 26,2,13; 41,8; 28,32,6-7; 41,14; 39,4;6; 38,58,4. Al di fuori degli Ab urbe condita cf. Cic., Balb. 40,13; Cato 29,6; 75; Balb. 40,13; nat. deor. 3,80,32; off. 1,61; 64; parad. 1,12,28; Tusc. 1,37,89; Vell. 2,38,4; Val. Max. 9,11,4; Flor. 1,58,1; 1,78,12; Oros. 4,16,1; 17,12; Eutr. 3,14,2. 34 Livio rivolge gli Ab urbe condita a due diverse tipologie di pubblico: il pubblico interno, costituito dai personaggi, e il pubblico esterno, rappresentato dai lettori contemporanei a Livio, che, influenzati dalla narrazione e dall’effetto cumulativo degli exempla, traggono da essi utili insegnamenti. Pertanto, in 25,33,6 con il passaggio al tempo futuro (persuasum est – cavendum erit) e con l’uso di semper Livio estende la valenza del caso degli Scipioni al di là del III secolo a.C., fino all’età a lui contemporanea e oltre. Sulla duplicità del pubblico degli exempla liviani, cf. Chaplin 2000, 4-5; 73-103. 35 Sulla struttura del libro 28 si veda Jal 1995, VII-IX. 36 Per un inquadramento storico sulla battaglia di Ilipa, cf. Scullard 1936; Develin 1977; Millán León 1986; Hoyos 2002. 37 La bibliografia relativa a questo scontro oratorio è ampia. Si vedano, per es., Girot 1979; Dangel 1982; Tedeschi 1998; Chaplin 2000, 92-97. 38 Sul recupero da parte di Scipione Africano della vicenda padre e dello zio in questo episodio, cf. Levene 2010, 245-246.
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Inizialmente Scipione sembra propenso a impiegare le truppe ausiliarie come semplici comparse (in speciem saltem), ma poi con la sua abilità strategica di giovane generale riuscirà a collocare opportunamente nell’esercito, controllando e insieme utilizzando, le truppe ausiliarie di cui ha bisogno, ma di cui non si fida né sul piano della perizia militare né su quello della fedeltà. La battaglia vera e propria è preceduta da ripetute simulazioni, in cui entrambi gli eserciti prendono posizione ma non attaccano 39: Scipione mette in campo il suo esercito con uno schieramento provvisorio e ha modo di studiare la consistenza e la dislocazione tattica dei contingenti cartaginesi, fra cui figurano forze di diversa provenienza ed etnia. Sul carattere composito ed eterogeneo degli eserciti cartaginesi Livio si era già soffermato nell’elogio di Annibale, introducendo alcune considerazioni sui mercenari proprio nel capitolo che precede le valutazioni di Scipione (28,12,2-5) 40. Lo stesso tema riappare nella descrizione della battaglia di Ilipa, presentata come un capolavoro di tattica militare e soprattutto di perizia nel valorizzare la specificità dei diversi contingenti (28,14,1 – 15,16). In quest’occasione l’Africano attacca di sorpresa, in modo che il nuovo schieramento del suo esercito non sia subito chiaro ai nemici: gli ausiliari ispanici occupano il centro, una posizione fondamentale in quanto posizione d’urto 41, ma non devono combattere bensì solo avanzare lentamente, creando un vuoto in cui il centro dell’esercito cartaginese con le forze maggiori e gli elefanti sia attirato e costretto a rimanere inerte sotto il sole, disorientato e senza un nemico da attaccare 42. Nell’innovazione tattica introdotta da Scipione il ruolo fondamentale è riservato alle ali, dove è posta la parte più importante dell’esercito romano: i due schieramenti nemici arriveranno così a scontrarsi da posizioni sbilanciate 28,14,1-2. 28,12,2-5 Ac nescio an mirabilior adversis quam secundis rebus fuerit, quippe qui, cum in hostium terra per annos tredecim, tam procul ab domo, varia fortuna bellum gereret, exercitu non suo civili sed mixto ex conluvione omnium gentium, quibus non lex, non mos, non lingua communis, alius habitus, alia vestis, alia arma, alii ritus, alia sacra, alii prope di essent, ita quodam uno vinculo copulaverit eos ut nulla nec inter ipsos nec adversus ducem seditio exstiterit, cum et pecunia saepe in stipendium et commeatus in hostium agro deessent, quorum inopia priore Punico bello multa infanda inter duces militesque commissa fuerant. Sull’elogio di Annibale e sulle diverse componenti etniche presenti nell’esercito cartaginese, cf. anche Levene 2010, 236-246 (con bibliografia). 41 28,14,13-14. 42 28,15,2-4. 39 40
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e i Cartaginesi, colti di sorpresa, non potranno reagire in modo efficace. Più oltre, la vicenda degli Scipioni viene riproposta fra gli exempla presentati da Q . Fabio Massimo come argomento nello scontro oratorio che lo vede contrapposto all’Africano sulla spedizione in Africa (28,40-44) 43. Per esprimere la sua contrarietà al progetto scipionico, infatti, l’oratore fa valere nella tractatio, insieme ad argomenti di ordine strategico 44, anche la scarsa affidabilità degli alleati stranieri, sostenendo questo giudizio proprio con l’exemplum delle esperienze vissute dai fratelli Scipioni (28,41,14-15): Q uid quod in Africa quoque Mars communis belli erit? domus tibi tua, pater patruusque intra triginta dies cum exercitibus caesi documento sint, (15) ubi per aliquot annos maximis rebus terra marique gerendis amplissimum nomen apud exteras gentes populi Romani vestraeque familiae fecerant.
Nelle parole dell’oratore, l’esperienza degli Scipioni diventa il prototipo di tutte le spedizioni d’oltremare, destinate al fallimento perché costrette a ricorrere all’aiuto militare di popoli stranieri, alleati infidi e potenziali traditori. A questo proposito Fabio Massimo si chiede anche come possa il giovane condottiero fare affidamento su Siface e Massinissa, riponendo sulla loro parola le speranze di poter conquistare l’Africa. Essi, infatti, pur odiando i Cartaginesi, non esiteranno a fare fronte comune contro il nemico romano e Scipione rischierà di incorrere nella stessa fine del padre e dello zio (28,42,7-8): An Syphaci Numidisque credis? Satis sit semel creditum; non semper temeritas est felix, et fraus fidem in parvis sibi praestruit ut, cum operae pretium sit, cum mercede magna fallat, (8) non hostes patrem patruumque tuum armis priusquam Celtiberi socii fraude circumvenerunt. 43 La bibliografia relativa a questo scontro oratorio è ampia. Si vedano, per es., Girot 1979; Dangel 1982; Tedeschi 1998; Chaplin 2000, 92-97. 44 Secondo le parole di Fabio Massimo (28,41,2-3), la permanenza di Annibale in Italia da ormai quattordici anni richiedeva, per la sicurezza e la salvezza dello Stato, l’intervento di Scipione: quamquam si aut bellum nullum in Italia aut is hostis esset ex quo victo nihil gloriae quaereretur, qui te in Italia retineret etsi id bono publico faceret simul cum bello materiam gloriae tuae isse ereptum videri posset. cum vero Hannibal hostis incolumi exercitu quartum decimum annum Italiam obsideat, paenitebit te, P. Corneli, gloriae tuae si hostem eum qui tot funerum, tot cladium nobis causa fuit tu consul Italia expuleris, et sicut penes C. Lutatium prioris Punici perpetrati belli titulus fuit, ita penes te huius fuerit?
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L’argomento di Fabio Massimo è introdotto da una considerazione di tipo morale sullo nesso che collega i concetti di fides e fraus 45, tanto nelle piccole cose quanto, a maggior ragione, nelle occasioni in cui è in gioco un grande profitto. Non è dunque casuale che Livio, quando sta per ricordare la vicenda degli Scipioni traditi dai Celtiberi, utilizzi proprio la stessa espressione (mercede magna), impiegata nei libri 24 e 25 per descrivere il modo in cui i Romani prima e Asdrubale poi si sono guadagnati l’alleanza del popolo ispanico. Il ricordo degli Scipioni ritorna anche più avanti, quasi come una profezia o una minaccia, nella parte culminante del l’orazione, quando il Cunctator accusa Scipione di anteporre la sua ambizione personale agli interessi di Roma 46. Simmetricamente, la vicenda dei fratelli Scipioni figura anche all’inizio della tractatio di Scipione Africano che, rifacendosi con ironia all’argomento della cura, centrale nell’orazione dell’avversario, ribalta il riferimento alla sua memoria familiare, trasformandolo in un exemplum in contrarium, da contrapporre al ragionamento di Fabio Massimo, logicamente viziato dall’intento di erigere un caso singolo a regola generale 47. Scipione reagisce al ricordo minaccioso e infausto della fine dei suoi familiari rivendicandone l’eredità militare e politica e sostenendo che, proprio grazie a quella sconfitta, egli ora detiene il comando delle legioni spagnole (28,43,9-12): Commemoravit quantum essem periculi aditurus si in Africam traicerem ut meam quoque, non solum rei publicae et exercitus vicem videretur sollicitus. (10) Vnde haec repente cura de me exorta? cum pater patruusque meus interfecti, cum duo exercitus eorum prope occidione occisi essent, cum amissae Hispaniae, cum quattuor exer45 Il latino dispone di una significativa varietà terminologica per indicare la rottura di un rapporto di fides; tuttavia, gli antonimi più frequenti di fides, come osserva Freyburger 1986, 84-95, sono perfidia e fraus. I due termini, pur essendo in molti casi intercambiabili, a rigore qualificano un diverso tipo di violazione della fides, che avviene per trasgressione manifesta (perfidia) e mediante inganno (fraus). Livio conferisce a fraus una connotazione culturale ed etnica, riferendo il termine esclusivamente alle azioni fraudolente compiute da stranieri (greci, italici, cartaginesi) e da individui di basso lignaggio; anche quando il tradimento della fides è compiuto da un Romano, ciò avviene sempre su istigazione di chi è estraneo ai valori di Roma (cf. Mahé-Simon 2006). Per la fides in Livio, cf. Moore 1989, 35-50. 46 28,42,19-20 Q uam compar consilium tuum parentis tui consilio sit reputa. Ille consul profectus in Hispaniam, ut Hannibali ab Alpibus descendenti occurreret, in Italiam ex provincia rediit; tu cum Hannibal in Italia sit relinquere Italiam paras, non quia rei publicae [id] utile sed quia tibi id amplum et gloriosum censes esse. 47 Tedeschi 1998, 58-59.
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citus Poenorum quattuorque duces omnia metu armisque tenerent, (11) cum quaesitus ad id bellum imperator nemo se ostenderet praeter me, nemo profiteri nomen ausus esset, cum mihi quattuor et viginti annos nato detulisset imperium populus Romanus, (12) quid ita tum nemo aetatem meam, vim hostium, difficultatem belli, patris patruique recentem cladem commemorabat? utrum maior aliqua nunc in Africa calamitas accepta est quam tunc in Hispania erat?
L’attenzione dimostrata da Livio per un argomento militare, quale l’impiego di contingenti stranieri nell’esercito romano, conferma la convinzione dello storico, secondo cui il passato può aiutare a comprendere il presente, come è sostenuto del resto anche in praef. 4, al di là della polemica con i lettori festinantibus ad haec nova 48. La questione del reclutamento di soldati stranieri è sollevata da Livio più volte e da prospettive diverse: è lui stesso ad aprire la discussione usando toni assertori che superano le emergenze militari della seconda punica per proiettarsi con sicurezza sulle guerre del futuro (25,33,6 Id quidem cavendum semper Romanis ducibus erit), quindi espone le scelte tattiche e ragionate di Scipione Africano per concludere con lo scetticismo conservatore di Q . Fabio Massimo, controbilanciato e attenuato dalla replica del giovane Scipione. Sarebbe certamente una forzatura leggere la riflessione liviana sull’episodio dei mercenari celtiberi del libro 25 come una presa di posizione dello storico sullo sterminato tema della trasformazione dell’esercito romano, un fenomeno già visibile nel III secolo a.C. e a cui la guerra annibalica imprime un’accelerazione decisiva 49. Nelle parole dello storico, tuttavia, non si può non cogliere la consapevolezza di un problema cruciale, cioè il contrasto profondo fra gli eserciti di Roma – nel 211 ancora milizie cittadine – e i contingenti stranieri arruolati come ausiliari e mercenari 50. Attraverso 48 Et legentium plerisque haud dubito quin primae origines proximaque originibus minus praebitura voluptatis sint festinantibus ad haec nova, quibus iam pridem praevalentis populi vires se ipsae conficiunt. 49 Sulle riforme apportate nel reclutamento e nell’assetto dell’esercito romano nel corso del III sec. a.C., cf. Nicolet 1980; Le Bohec 1989; Brizzi 2008, 79-91. 50 La posizione giuridica delle truppe reclutate da Roma non è definibile facilmente. Le fonti stesse sono poco concordi: a differenza di Livio, Polibio 10,6,2 presenta i mercenari Celtiberi addirittura come degli alleati. Il concetto di mercenario è comunque difficile da definire in modo rigido, perché spesso si sovrappone a quello di ausiliario (cf. Le Bohec 2015a, 645, il quale osserva che come i Romani non attingano le forze mercenarie in modo indifferenziato da tutte le popolazioni straniere, ma solo da quelle specializzate nel mestiere delle armi, come appunto i Celtiberi).
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il personaggio di Scipione Africano, Livio dice che il contrasto non è eludibile, ma va senz’altro affrontato: nel III secolo a.C. era certamente anacronistico pensare ad un modello di esercito professionale e permanente 51, ma le esigenze imposte da una guerra dilatata rendevano già allora indispensabile il ricorso a truppe di tipo nuovo, estranee al sistema militare romano, ancora basato sul reclutamento di cittadini e alleati. Q uesto è il messaggio, militare, politico e soprattutto di grande respiro storico che Livio consegna all’exemplum rappresentato dalla vicenda dei fratelli Publio e Gneo Scipione.
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BERNARD MINEO
STRUCTURE DIALECTIQ UE ET STRUCTURE ARCHITECTURALE DANS L’AB VRBE CONDITA DE TITE-LIVE
Il pourrait paraître aventureux de s’engager dans une réflexion portant sur les principes précis d’organisation d’une œuvre aussi gigantesque que l’Ab urbe condita de Tite-Live avec ses 142 livres. La gageure tient d’une part à la dimension de l’ouvrage, mais aussi et surtout à la perte de la plupart des livres qui le constituent. De l’Ab urbe condita de Tite-Live, nous n’avons en effet conservé que 35 livres, quelques fragments, la plupart des Periochae. Pour fragiles que soient ces vestiges, il est cependant encore possible de deviner, grâce aux résumés, les architectures d’ensemble et même de détail, que de nombreux chercheurs se sont employés à faire réapparaître. Ce que nous souhaiterions donc examiner ici, c’est la façon dont l’architecture de l’œuvre est susceptible de refléter le mouvement dialectique de l’histoire tel que celui-ci était conçu par le Padouan. La structure thématique de l’œuvre et la structure dialectique sont-elles interdépendantes ou au contraire restent-elles étrangères l’une à l’autre? Nous essaierons donc de montrer ici la virtuosité qui a permis à Tite-Live d’inscrire sa philosophie de l’histoire dans la matrice structurelle même de son ouvrage, un exercice qui ne manquera pas au demeurant de nous éclairer également sur la nature précise de la clôture de l’œuvre.
1. L’Ab urbe condita de Tite-Live: Structure de la répartition par livres et dialectique de l’Histoire 1.1. Principes de la répartition par livre de l’Ab urbe condita de Tite-Live La question de la structure de l’Ab urbe condita est des plus épineuses et l’on ne s’étonnera pas dès lors que les avis aient souvent Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 197-220 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125328
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été divergents. D’aucuns, notamment T. J. Luce, voudraient que la pentade soit l’unité constitutive essentielle de l’œuvre, sans doute à juste titre 1; d’autres se prononcent en faveur de la décade; plus récemment des travaux ont mis ont évidence l’importance d’une superstructure, celle de la pentékaidécade, dont l’idée, défendue naguère par G. Wille, a été reprise de façon convaincante par L. Bessone 2. Mais sans doute s’agit-il dans une certaine mesure de faux problèmes, car chacune des structures invoquées trouve en réalité sa raison d’être dans l’architecture de l’œuvre laquelle est construite à la façon des poupées gigognes, selon les principes d’emboîtements successifs, offrant une très grande souplesse de composition à l’auteur. La structure pentékaidécadique est suggérée par Tite-Live lui-même dans sa préface du Livre 31, à un moment exceptionnel où l’auteur, qui vient d’achever le récit de la deuxième guerre punique, livre au lecteur quelques confidences sur le travail accompli: Me quoque iuuat, uelut ipse in parte laboris ac periculi fuerim, ad finem belli Punici peruenisse. Nam etsi profiteri ausum perscripturum res omnis Romanas in partibus singulis tanti operis fatigari minime conueniat, tamen, cum in mentem uenit tris et sexaginta annos – tot enim sunt a primo Punico ad secundum bellum finitum – aeque multa uolumina occupasse mihi, quam occupauerint quadringenti octoginta septem anni a condita urbe ad Ap. Claudium consulem, qui primum bellum Carthaginiensibus intulit, iam prouideo animo; uelut qui proximis litori uadis inducti mare pedibus ingrediuntur, quidquid progredior, in uastiorem me altitudinem ac uelut profundum inuehi, et crescere paene opus, quod prima quaeque perficiendo minui uidebatur 3. Je suis heureux moi aussi d’en avoir fini avec la guerre contre Carthage, comme si j’avais pris ma part des dangers et des épreuves. Sans doute serait-il tout à fait déplacé, quand on a osé déclarer son intention d’écrire toute l’histoire de Rome, de manifester sa lassitude chaque fois qu’on arrive à une nouvelle étape au cours d’un ouvrage de si longue haleine; et pourtant aujourd’hui, quand je songe que les 63 années qui se sont écoulées entre le début de la première guerre punique et la fin de la deuxième ont rempli autant de volumes que les quatre-cent-vingt-sept années qui vont de la fondation de Rome au consulat d’Appius Claudius, le premier à avoir fait la guerre aux 1 Luce 1977, 3-32. Sur la structure de l’Ab urbe condita, cf. Stadter 2009, 91-107; Wille 1973, 105; Bessone 2015, 435; Vasaly 2015, 217-229. 2 Wille 1973, 105; Bessone 2015, 435. 3 31,1,1-5.
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Carthaginois, j’ai le sentiment de m’enfoncer à chaque pas que je fais et de me diriger vers l’abîme comme ceux qui, tentés par la faible profondeur de l’eau près du rivage, s’avancent à pied dans la mer: c’est tout juste si ma tâche, qui devrait diminuer quand une période est achevée, n’augmente pas. (Trad. A. Flobert).
Ce passage, remarquable à tous égards, nous éclaire sur un premier aspect de la composition de l’œuvre. Apparemment, celle-ci n’a pas été un processus parfaitement figé. En effet, l’auteur, à l’évidence, a été surpris, au fur et à mesure qu’il avançait, par la quantité croissante d’informations dont il disposait et par le nombre toujours plus important de livres qu’il lui fallait pour couvrir une même période: nul doute, par conséquent, que la structure finale ne résulte d’un assez grand nombre d’ajustements et que ce soit la masse de la documentation qui ait déterminé le choix entre une organisation en pentades en décades, ou pentekaidécades 4. Ce passage révèle précisément l’importance de cette dernière structure à ses yeux, puisqu’il atteste clairement l’existence, dans l’esprit de l’auteur, de deux blocs symétriques de 15 livres, l’un allant de la fondation de Rome à la fin de la conquête de l’Italie, et l’autre recoupant les deux premières guerres puniques. À l’intérieur de l’ensemble constitué des livres 16 à 30, il est en réalité clair que c’est la masse de la documentation qui aura déterminé l’organisation en pentade, pour la première guerre punique, ou en décade, pour la deuxième. L’utilisation par Tite-Live d’une structure décadique pour évoquer la Guerre d’Hannibal ne fait au reste ici aucun doute, dans la mesure où celle-ci paraît bien délimitée, à l’intérieur de l’ensemble pentekaidécadique, par la préface qui ouvre le livre 31, que nous venons de découvrir, et par celle qui lui correspond au tout début du livre 21: In parte operis mei licet mihi praefari, quod in principio summae totius professi plerique sunt rerum scriptores, bellum omnium memorabile quae umquam gesta sint me scripturum, quod Hannibale duce Carthaginienses cum populo Romano gessere 5. Il m’est permis de faire précéder cette partie de mon ouvrage de la déclaration que la plupart des historiens ont faite au début de l’ensemble de leur œuvre, à savoir que je vais relater la guerre de beaucoup 4 Luce 1977, 8-9 reste prudent sur la façon dont il convient d’accueillir cette déclaration de Tite-Live et tend à relativiser, sans doute à juste titre, la part d’improvisation dans la constitution de la structure. 5 Liv. 21,1,1.
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la plus mémorable de toutes celles qui ont été menées, celle que, sous le commandement d’Hannibal, les Carthaginois ont menée contre le peuple romain (Trad. P. Jal).
Sur l’ensemble de l’œuvre, la structuration, en poupées gigognes, est donc la suivante pour les livres qui nous ont été conservés: Livres 1-15: Des Origines à la fin de la conquête de l’Italie et de la Magna Graecia ⌊ Livres 1-10: Des Origines à Sentinum ⌊ Livres 1-5: Des origines à la Prise de Rome par les Gaulois ⌊ Livre 1: Les rois ⌊ Livres 2-5: La République ⌊ Livres 6-10: La conquête de l’Italie centrale jusqu’à Sentinum ⌊ Livres 11-15: La conquête de la Magna Graecia Livres 16 à 30: Les deux premières guerres puniques ⌊ Livres 16-20: La première guerre punique ⌊ Livres 21-30: La deuxième guerre punique ⌊ Livres 21-25: Rome en difficulté ⌊ Livres 26-30: Rome vers la victoire Livres 31-45: L’expansion vers l’Orient hellénistique (Philippe V, Antiochos, Persée, jusqu’à Pydna). ⌊ Livres 31 à 40: Lutte contre Philippe V ⌊ Livres 31-35: Seconde guerre de Macédoine et ses lendemains ⌊ Livres 36-40: Guerre contre Antiochos, les Étoliens, et mort de Philippe V ⌊ Livres 41-45: Lutte contre Persée Pour les livres suivants, G. Wille 6, et L. Bessone 7 suggèrent de façon convaincante une organisation pentékaidécadique qui serait centrée autour d’un personnage. Il convient cependant de rappeler ici le caractère hypothétique de ces regroupements qui ont laissé sceptique T. J. Luce, qui, à juste titre, était d’avis que pentades et déca Wille 1973, 105. Bessone 2015, 455.
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des devaient continuer de jouer leur rôle dans la partie de l’œuvre que nous avons perdue, soulignant l’importance pour Tite-Live du souci de placer des événements majeurs de l’Histoire à la jonction des pentades, décades, de façon à traduire fidèlement le continuum du mouvement historique 8. Cette vision des choses nous paraît parfaitement juste mais en réalité nullement contradictoire avec le schéma global pentékaidécadique suggéré par L. Bessone à l’intérieur duquel le principe d’organisation conçu par T. J. Luce devait pouvoir aisément s’inscrire. Pour notre propos, nous nous contenterons ici de suggérer la structure globale suivante, en étant bien conscients que celle-ci est certainement susceptible d’être subdivisée plus finement, comme le suggère T. J. Luce, en décades et pentades: Livres 46-60: Scipion Émilien Livres 61-75: Marius Livres 76-90: Sylla Livres 91-105: Pompée Livres 106-120: César Livres 121-135: Octave de ses débuts jusqu’à l’établissement du principat et de la pax Augusta Livres 135 et au-delà: Le règne d’Auguste Ces différents niveaux d’organisation, pentekaidécades, décades, pentades, simple livre, permettaient ainsi en réalité à Tite-Live de constituer, au sein de son ouvrage, l’équivalent de monographies d’étendue variée, dont le sujet assurait ou non à la structure qui leur correspondait une popularité destinée à traverser les siècles: c’est le cas du Livre 1, consacré à la monarchie; mais aussi de la première pentade, recouvrant l’histoire de Rome de sa fondation à sa supposée destruction par les Gaulois; on n’insistera pas non plus sur le succès de la troisième décade qui recouvrait très exactement la deuxième guerre punique, un épisode particulièrement dramatique de la cité. Cette structure modulaire permettait sans doute aussi de vendre des parties de l’œuvre à une clientèle qui n’avait peut-être pas toujours la curiosité de lire l’œuvre complète, ni les moyens de faire Luce 1977, 8.
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copier la totalité des uolumina. Dans ce contexte, la pentekaidécade avait certes moins de chances de s’imposer, trop volumineuse et recoupant en réalité des événements très divers. C’est cette structuration, largement déterminée par une logique monographique et sans doute par la perspective éditoriale, que nous nous proposons désormais de comparer à la structure propre à la dialectique livienne de l’Histoire, afin de déterminer comment l’architecture de l’Ab urbe condita de Tite-Live a été en mesure de prendre en compte le projet idéologique, la philosophie de l’histoire qui sous-tend l’œuvre du Padouan. 1.2. La structure dialectique de l’ouvrage L’Ab urbe condita, ainsi que l’explique Tite-Live dans sa préface, vise à offrir à ses lecteur le miroir des politiques et des comportements qui ont dans le passé déterminé le devenir historique de Rome. Il s’agit d’offrir, dans le cadre d’une conception cyclique de l’histoire, une représentation analogique du passé, de façon à permettre aux contemporains, dirigeants comme dirigés, de concevoir les remedia susceptibles de venir à bout des maux présent. La structuration dialectique du temps cyclique livien permet au demeurant de mettre en perspective le principat augustéen, susceptible dans ce cadre d’être perçu comme le début d’une nouvelle tendance ascendante de l’histoire romaine 9. La place historique que Tite-Live reconnaissait à l’instauration du principat autour de 27 av. J. C. constitue de fait un indice fort de cette posture encourageante adoptée par Tite-Live à l’égard du prince. La période historique autour de 27 pendant laquelle Auguste établit les premières assises du nouveau pouvoir est en effet le point de référence fondamental d’une représentation cyclique du temps dont j’ai essayé de montrer la mise en œuvre dans l’Ab 9 Sur la conception cyclique de l’histoire, on se réfèrera à ma thèse de doctorat (Mineo 1994) puis à ma monographique (Mineo 2006), la première étude ayant fait apparaître la conception cyclique de l’histoire livienne à l’échelle de l’ensemble de l’œuvre. On pourra également lire avec grand profit l’ouvrage de Miles 1995, qui avait réussi à dégager l’existence du premier cycle livien à l’échelle de la première pentade, sans cependant percevoir l’existence de pareille structuration à l’échelle de l’ensemble de l’œuvre. Sur la place d’Auguste dans l’œuvre livienne, et l’abondante bibliographie qui traite du sujet, cf. Mineo 2006, 109-133; 2016, 165-180.
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urbe condita de Tite-Live dans un récent ouvrage 10. Le schéma qui suit permettra de mieux s’en figurer les délimitations chronologiques.
Un premier cycle de 360/365 années va ainsi de la fondation de Rome à la prise de la Ville par les Gaulois et à sa refondation par Camille. Un même nombre d’années séparent ensuite l’incendie de la cité de sa nouvelle refondation sous les auspices augustéens. À l’intérieur de chaque cycle, le lecteur peut observer deux tendances historiques d’égale durée, l’une ascendante, l’autre descendante, selon que la concorde ou la discorde tendent organiquement à prévaloir. Un premier apogée est marqué par le règne de Servius Tullius, qui parvient à réaliser, grâce à ses réformes, un véritable consensus autour de lui. Après ce règne, la superbia des grands et la licentia de la plèbe s’exacerbent progressivement, entraînant la cité vers la catastrophe gauloise; une fois refondée par Camille, Rome peut ensuite s’engager dans un nouveau cycle de son histoire; les conflits entre les ordres se font alors de moins en moins fréquents, même s’ils continuent d’empoisonner la vie de la cité, l’exposant à la défaite militaire à Trasimène et à Cannes. Le deuxième apogée romain intervient quant à lui autour de la bataille du Métaure, en 207 11, rendue possible par l’union nationale qui a suivi le désastre de Cannes; cette victoire inaugure cependant une tendance au déclin, du fait de l’affaiblissement progressif du metus hostilis qui se fait dès lors sentir, et des conséquences morales de la conquête de l’Orient hellénistique qui s’amorce avec le débarquement des forces de Scipion en Afrique. 10 Pour une étude précise de la structuration de l’œuvre en fonction des cycles, cf. Mineo 2006, 137-336. 11 Mineo 2000, 159-175; 2006, 293-321.
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Le choix de l’année 207, véritable cardo temporel, pour indiquer le début discret de l’affaiblissement moral et politique de Rome se démarque de la tradition historiographique précédant notre auteur, si l’on songe que Polybe avait plutôt situé le début du déclin de Rome après la deuxième guerre punique, les lendemains de Pydna constituant une étape essentielle dans la progression de la luxuria au sein de la cité 12; Salluste, quant à lui, avait davantage mis l’accent sur le basculement dont la destruction de Carthage (146 av. J. C.) aurait été la cause 13. La raison de cette innovation livienne tient en réalité à la volonté de l’historien de créer des symétries, de permettre des analogies. Si l’on se réfère, en effet, à la chronologie courte de Tite-Live, telle qu’elle a été dégagée par J. Bayet 14, qui situe la prise de Rome par les Gaulois et sa refondation par Camille en l’an 360 ab urbe condita, dans la continuité du système de datation retenu sans doute par Fabius Pictor, ce dernier événement intervient dans le récit livien à mi-chemin de la fondation par Romulus et de la nouvelle naissance de la Ville que permet l’instauration du régime impérial 15. La bataille du Métaure se situe, d’autre part, exactement entre la prise de Rome par les Gaulois en 387 av. J. C. (selon la datation d’origine fabiusienne utilisée ici par Tite-Live) et 27 av. J. C., de même que le premier sommet politico-moral de la cité, signalé par le règne de Servius Tullius, s’était trouvé à équidistance de la fondation et de la tragédie gauloise 16. Le résultat le plus remarquable de cette construction consiste dans le parfait parallélisme des situations historiques entourant les deux nadirs cycliques: la première mort de Rome (la prise de la Ville par les Gaulois) apparaît comme le terme d’une évolution politique encourageant le développement de la discorde, qui avait débuté à partir du règne de Tarquin le Superbe. Conformément au schéma évolutif décrit dans la préface, après un début discret, ce déclin 12 Cf. Pédech 1964, 320-321; pour un tableau pittoresque des progrès de la luxuria à Rome après Pydna, cf. Polyb. 31, 25. 13 Sall., Cat. 10,1. 14 Bayet 1947, CXIV-CXXVI. Sur les problèmes de la chronologie cyclique chez Tite-Live, cf. Mineo 2006, 84-137. 15 Cf. Bayet 1947, CXXIII. 16 Pour une étude détaillée de la question et une présentation de l’hypothèse cyclique, cf. Mineo 2006; sur la place accordée à la bataille du Métaure dans la dialectique livienne de l’histoire, cf. Mineo 2000, 512-540.
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s’accélérait et aboutissait à une situation de crise aiguë évoquée aux livres 4 et 5; l’auteur y montrait notamment comment la multiplication des procès injustes contre les patriciens, la superbia croissante de ces derniers, l’affaiblissement de la discipline militaire, le danger grandissant des invasions étrangères (la discorde faisant négliger le metus hostilis), l’abandon des valeurs traditionnelles, notamment la pietas et la fides, avaient été à l’origine de l’affaiblissement de la cité: l’attaque gauloise est du reste présentée comme la conséquence d’un manque de fides des ambassadeurs romains, tandis que la défaite militaire s’explique par l’absence de Camille, le seul homme capable de faire front, parti en exil à la suite d’une injuste condamnation: la discorde a ainsi eu raison de Rome 17. De la même façon, après la bataille du Métaure, en 207 av. J. C., et à partir du débarquement de Scipion en Afrique qui inaugure une nouvelle phase de la conquête, la superbia des grands, bientôt oublieux des mores maiorum, se développe de nouveau, encouragée par les nouveaux progrès de la puissance romaine qui nourrissent l’auaritia et la luxuria des habitants de l’Vrbs; la plèbe, de son côté, se laisse aller à la licentia, provoquée par l’orgueil des dirigeants et se trouve parfois séduite par le charisme de grands imperatores, émules d’Alexandre le Grand; les guerres civiles viennent à la clé de cette évolution qui aboutit, 180 ans après le Métaure, à l’établis sement du principat 18. Autrement dit, Tite-Live a projeté dans son récit du premier cycle de Rome les mêmes mécanismes dialectiques que ceux ayant abouti aux guerres civiles de son époque et donc à la deuxième mort de Rome avec les guerres civiles qui avait mis un terme à l’existence de la respublica libera. Il n’est donc pas difficile de deviner derrière ces choix et la symétrie des situations historiques, le désir de l’auteur de mettre en perspective la signification des débuts du principat. La dialectique livienne de l’histoire indique assez l’espoir qu’entretenait l’auteur d’une nouvelle naissance de Rome sous les auspices d’Auguste, laquelle devait intervenir au terme d’un long processus de déclin marqué par la discorde civile, comme cela avait été le cas une première fois à l’époque de Camille 19. Mineo 2006, 210-242. Mineo 2006, 322-336. 19 Sur ce type d’approche de l’histoire, cf. Martin 1992, 49-74. 17 18
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1.3. Relation de la structure architecturale avec la structure dialectique Ce qui frappe lorsque l’on compare les structures architecturale et dialectique, c’est qu’elles se juxtaposent parfaitement pour le premier cycle de Rome (le cycle historico-légendaire), puisque les cinq livres de la première pentade, allant de la première fondation par Romulus à la refondation de la cité par Camille, correspondent exactement aux 365/360 ans de ce cycle. Pour ce qui est du premier apogée, en revanche, qui intervenait 180 ans après la fondation sous le règne de Servius Tullius, on remarquera que Tite-Live n’a pas été en mesure de le placer comme on aurait pu s’y attendre au cœur de la pentade: le déséquilibre entre le traitement de la période royale et celui de la libera respublica, du fait de la masse croissante de la documentation annalistique au fur et à mesure qu’il avançait dans le temps, est tel que, dès le départ, il a été impossible de faire coïncider dans le détail structure architecturale et structure dialectique. Le cœur de la pentade, le livre 3, est en revanche occupé par l’histoire du Décemvirat, un moment central pour l’histoire institutionnelle, indépendant de la logique cyclique mais se rattachant à la théorie de l’évolution des régimes, développée à Rome par Polybe, et dont le Padouan a aussi tenu compte dans son œuvre. Pour la dialectique historique globale, seuls les deux termes du cycle ont pu être mis en valeur grâce à la structure architecturale correspondant à la première pentade. C’est cette coïncidence globale entre les deux structures qui explique le caractère unique dans l’œuvre de la première pentade. Cette réalité ressort en particulier du soin que prendra l’auteur d’écrire une préface qui laisse bien apparaître l’unité dialectique des cinq premiers livres: Q uae ab condita urbe Roma ad captam eamdem Romani sub regibus primum, consulibus deinde ac dictatoribus decemuirisque ac tribunis consularibus gessere, foris bella, domi seditiones, quinque exposui), res tum uetustate nimia obscuras uelut quae magno ex interuallo loci uix cernuntur, tum quod rarae per eadem tempora litterae fuere, una custodia fidelis memoriae rerum gestarum, et quod, etiam si quae in commentariis pontificum aliisque publicis priuatisque erant monumentis, incensa urbe pleraeque interiere. Clariora deinceps certioraque ab secunda origine uelut ab stirpibus laetius feraciusque renatae urbis gesta domi militiaeque exponentur 20. Liv. 6,1,1-3.
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J’ai consacré cinq livres aux guerres extérieures et aux bouleversements internes qui ont marqué la politique romaine depuis la fondation de Rome jusqu’à la prise de la ville, sous les rois d’abord; puis sous l’autorité des consuls, des dictateurs, sous les décemvirs enfin et les tribuns militaires à pouvoir consulaire; le recul dans le temps rend les événements confus comme ces objets qu’on distingue mal à cause de la distance; mais ce qui nous manque surtout pour cette époque, ce sont des textes d’une certaine étendue, les seuls qui garantissent l’authenticité des faits. En outre, les documents qui figuraient dans les Commentaires des Pontifes comme dans les archives publiques ou privées ont presque tous disparu dans l’incendie de la Ville. Les événements civils et militaires que nous allons traiter maintenant sont plus nets et mieux connus; ils datent de la renaissance de Rome, repartie du tronc avec plus de sève et de vigueur si on peut dire. (Trad. A. Flobert)
Ce passage confirme bien en effet le caractère unitaire (quinque libris exposui) et la structuration interne de la première pentade aux yeux de Tite-Live: un ensemble allant de la fondation de Rome jusqu’à la prise de la ville, comprenant d’un côté (primum) la période royale (livre 1: fondation, apogée avec Servius Tullius, fin de la monarchie), bien séparée du reste (livres 2-5), et la période républicaine (deinde), elle-même subdivisée entre consul, dictateurs, décemvirs, tribunat militaire 21. Cette unité, on le voit, n’est pas simplement arithmétique mais également dialectique et même biologique: Tite-Live indique ici bien clairement qu’il a rapporté un premier cycle d’existence de Rome, de sa naissance à sa mort, pour évoquer ensuite une nouvelle naissance (ab secunda origine uelut ab stirpibus laetius feraciusque renatae urbis). En commençant l’histoire du deuxième cycle d’histoire de Rome, Tite-Live semble donc vouloir souligner la différence de nature entre les deux périodes, la première rapportant des faits bien obscurs (res obscuras), la seconde plus claire et mieux connue (clariora deinceps certioraque), ce qui correspond à ce que j’ai appelé ‘cycle historico-légendaire’ et ‘cycle historique’. Cette obscurité du premier cycle d’histoire, Tite-Live prétend en rendre compte en invoquant la rareté de l’écriture et la quasi disparition (pleraeque) des archives, pontificales et autres, publiques comme privées au moment de la tragédie gauloise. A. Vasaly souligne à juste titre le caractère artificiel de cette césure, en réalité beaucoup moins nette, le caractère obscur des événements se maintenant même après Vasaly 2015, 218-220.
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le livre 5, de 6 à 10, même s’il tend à s’atténuer progressivement: pour cette chercheuse 22 cette exagération toute rhétorique s’explique par la volonté d’accuser l’unité organique des cinq premiers livres, dont j’ai pu démontrer qu’ils correspondaient en effet à l’accomplissement du premier cycle historico-légendaire de Rome. Une mort suivie d’une refondation sous les auspices apollinien d’un Camille, deuxième fondateur de Rome (5,49,7 Romulus ac parens patriae conditorque alter urbis). On remarquera encore que la structuration de la première pentade que nous venons de décrire n’est pas sans rappeler certains principes d’organisation poétiques que l’on retrouvera chez un Ennius, chez Tibulle, Properce et dans les Géorgiques et l’Énéide de Virgile 23. Au demeurant, Tite-Live ne commence-t-il pas l’AVC par quatre dactyles, tandis qu’il finit la préface en recourant à la prière aux dieux par laquelle les poètes épiques ont coutume d’ouvrir leur poème? À cette particularité s’ajoutent le style et la diction poétique des cinq premiers livres, conférant un halo légendaire aux récits de ce premier cycle de l’histoire de Rome. Tous ces éléments laissent donc penser qu’il était initialement fondamental pour Tite-Live de faire correspondre structures architecturale et dialectique, de façon à bien mettre en évidence sa philosophie de l’histoire et à offrir à ses lecteurs, à travers le récit Vasaly 2015, 218. Unité structurelle de la pentade: livre 1: la royauté; livre 3: situation pivot du récit des décemvirs; livre 5: fin de Rome. Ce type de construction s’inspire probablement de modèles poétiques: Ennius avec ses proèmes au début de certains des livres des Annales, et son proème central au début du livre 7; on peut également relever des développements programmatiques au début de l’œuvre, des résumés à la fin, pour les Satires d’Horace, 1 et 2; de même pour le livre de 10 élégies de Tibulle, les 22 poèmes du livre 1 de Properce; les Géorgiques présentent pareillement une division des livres par thème, une introduction à l’ensemble de l’œuvre, le début et la fin de chacun des livres étant bien marqués, tandis que le centre de l’ouvrage est mis en valeur. Mais c’est avec l’Énéide que le rapprochement s’impose le plus aisément: de même que Tite-Live place les récits les plus importants aux livres 1/3/5 (fondation, Décemvirat, prise de Rome par les Gaulois), les livres intermédiaires permettant de reconstituer le contexte de ces événements, de même Virgile fait alterner les chants faisant avancer l’action, les chant pairs, avec les chants impairs permettant simplement d’établir un pont entre les événements principaux; de même que Tite-Live a placé au centre de la première pentade le récit du Décemvirat, de même Virgile place au centre de son épopée, à la fin du chant 6, l’évocation des figures de l’histoire, au cœur de son projet idéologique. Il est possible que la nature historico-légendaire de la première pentade ait encouragé Tite-Live à imiter cette structuration poétique. Sur l’ensemble de ces points, cf. Vasaly 2002, 275-290; 2015, 226. 22 23
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de l’histoire de la Rome historico-légendaire, un reflet analogique du cycle d’histoire qui venait de s’achever à Actium, avant de connaître un nouveau commencement sous les auspices d’Auguste. Ce deuxième cycle livien de l’histoire de Rome (387-27) n’avait guère de chance quant à lui de pouvoir trouver un écrin architectural aussi visible que l’est celui de la première pentade, et cela en raison de l’étendue même de ce récit qui couvrait sans doute autour de 130 livres: de là, la difficulté pour les Modernes de reconnaître le déroulement du cycle, surtout dans le paysage de ruines dans lequel se trouve l’œuvre livienne à partir du livre 45. Si son début est bien marqué par la préface du livre 6, il n’est guère aisé de retrouver par la suite, dans l’architecture de l’œuvre, d’autres repères de la dialectique historique livienne que seules les artifices de la rhétorique rendent sensible au lecteur. Les livres 6 à 15 décrivent ainsi un mouvement de reconquête, où s’affirment progressivement la concorde et la discipline qui permettent la conquête de l’Italie et de la Magna Graecia. Une unité thématique donc, mais ne coïncidant nullement avec les contours de la dialectique du temps livien. La première guerre punique (livres 16 à 20) ne présente aucune correspondance avec la délimitation dialectique. Ce n’est pas davantage le cas pour le récit de la deuxième guerre punique, que l’on envisage sa composition par décades (livres 21 à 30) ou par pentades (les deux phases de la guerre semblent correspondre aux livres 21-25 d’un côté, 26-30 de l’autre) alors même que le sommet dialectique du deuxième cycle historique intervient au livre 27; il en va de même pour le récit des guerres de Macédoine (livres 31 à 45). Si Tite-Live a donc pu faire coïncider ses cinq premiers livres avec le premier cycle de l’histoire de Rome, il ne lui a plus été possible, par la suite, de faire correspondre les articulations du schéma dialectique avec la division par pentékaidécades, décades ou pentades, sans doute en raison de la masse des événements qu’il lui restait à rapporter. L’étonnement qu’avoue du reste Tite-Live devant l’ampleur narrative des épisodes se rapportant à des événements plus proches de son époque rend tout à fait plausible cette interprétation 24. Liv. 31,1,1-5.
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Pour cet ensemble narratif correspondant au deuxième cycle de Rome, ce sont donc les thèmes qui ont imposé à l’œuvre sa structure apparente, tandis que l’historien recourt à de simples procédés rhétoriques pour éclairer le sens de l’évolution historique. Ainsi la signification dialectique de victoire du Métaure en 207, à partir de laquelle le metus hostilis va progressivement s’affaiblir, ouvrant la voie au retour progressif de la discorde civile, est-elle simplement révélée par des procédés de dramatisation. On relèvera cependant l’empressement que met Tite-Live à régler la disposition des livres à l’intérieur de grands ensembles architecturaux sur les principes d’inspiration poétique déjà évoqués 25, de façon à mettre en évidence les moments-clés de sa dialectique historique, à défaut de pouvoir les placer au point d’intersection des pentades, décades et pentédécades. Ainsi, c’est au livre 28, c’est à dire au centre même de la structure pentadique des livres 26 à 30, qu’il situera le long débat opposant Fabius Cunctator à Scipion sur l’opportunité d’un débarquement en Afrique (ch. 40 – 44) – désormais envisageable du fait de la victoire du Métaure – un morceau de bravoure inspiré du débat thucydidéen entre Nicias et Alcibiade à propos de l’expédition en Sicile, et destiné à signaler très puissamment la nouvelle orientation des destins de Rome sous les auspices du futur Africain 26. Pour ce qui est du terme du deuxième cycle de Rome, à savoir l’après Actium et l’émergence du principat, il est difficile de déterminer autrement que par des conjectures si Tite-Live aura voulu encore une fois faire coïncider structure architecturale et structure dialectique. L’aurait-il voulu que l’étendue même du récit couvrant cette période lui interdisait évidemment d’enfermer le deuxième cycle de l’histoire de Rome dans une structure aussi visible que l’est, de par son étroitesse, la première pentade. Il est cependant probable qu’il se soit employé à marquer ce terme de l’histoire de Rome en le faisant coïncider avec la fin théorique de son œuvre. On sait, en effet, grâce à une indiscrétion de Pline l’Ancien, que Tite-Live avait continué son œuvre au-delà du terme naturel de cette dernière, en raison, dixit Pline, du besoin d’activité intellectuelle de l’auteur qui n’aurait pu se résigner à poser la plume 27: Voir supra n. 23. Tedeschi 1998; Mineo 2006, 304-308. 27 Plin., nat. praef. 16. 25 26
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Satis jam sibi gloriae quaesitum, et potuisse se desidere, ni animus inquies pasceretur opere. Il avait gagné suffisamment de renommée pour lui-même et aurait pu s’arrêter, mais son esprit inquiet se nourrissait de travail.
On ne peut cependant exclure, et c’est l’hypothèse que je ferai ici, que Tite-Live ait voulu ici marquer la fin du deuxième cycle de l’histoire de Rome par une ponctuation forte, correspondant à une structure bien visible, celle de la pentékaidécade réunissant les livres 120-135 et couvrant la période correspondant au délitement définitif de la respublica libera, depuis l’établissement du triumvirat en 43 à l’établissement du principat en 27 et de la pax Augusta en Mauritanie, en Espagne et dans les Alpes en 25 28. À l’intérieur de cet ensemble, les livres 131 à 135, la dernière pentade, faisait en effet le récit de l’affrontement final entre Octave et Antoine, de l’affrontement fratricide d’Actium, qui marquait l’aboutissement du second cycle d’histoire de Rome, pour finir par la refondation augustéenne de Rome et l’établissement de la Pax Augusta. La répartition des livres 131 à 135 coïncide de fait parfaitement avec cette phase finale du cours dialectique de l’Histoire romaine. La pentade précédente s’était achevée en effet en 37 av. J. C., avec l’évocation de la campagne malheureuse d’Antoine contre les Parthes, et surtout ses amours avec Cléopâtre (Periocha 130). Or, le mariage d’Antoine avec cette dernière constituait un point de rupture définitif avec Octave. Le fait est que la période couverte par la pentade suivante (131 à 135), qui correspond aux événements décisifs survenus entre 36 et 25, peut apparaître comme la fin d’un cycle et le début du suivant. Cette période semble en effet ponctuée en trois temps: tout d’abord la préparation de l’affrontement final: Antoine attribue la couronne du roi d’Arménie au fils qu’il a eu avec Cléopâtre (livre 131); Antoine refuse toute conciliation avec Octave, se refuse à retourner à Rome, et se prépare à faire la guerre aux côtés de Cléopâtre avec laquelle il a eu deux fils (livre 132). Le second temps de cette pentade en occupe le cœur, 28 Stadter 2009, 106 estime quant à lui que la coupure intervient à la fin du livre 120 et fait de ce dernier livre, correspondant à l’établissement du 2e triumvirat en 43, le point d’aboutissement logique de l’œuvre, les livres suivants constituant une continuation.
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soit le livre 133, consacré à la bataille d’Actium, et marque la fin de la guerre civile: Antoine, vaincu sur mer près d’Actium, s’enfuit à Alexandrie. Assiégé par César, arrivé au dernier degré du désespoir, surtout après le faux bruit de la mort de Cléopâtre, il se perce de son épée. César se rend maître d’Alexandrie, Cléopâtre se donne volontairement la mort pour ne pas tomber au pouvoir du vainqueur. Revenu à Rome, César triomphe trois fois. La première d’Illyrie, la deuxième de la victoire d’Actium, la troisième de Cléopâtre. Il met ainsi un terme aux guerres civiles qui ont duré vingt-et-un ans. M. Lepidus, fils de celui qui fut triumvir, forme une conjuration et prend les armes contre César. Il est défait et tué 29.
Le troisième temps correspond quant à lui aux deux derniers livres lesquels indiquent le début du nouveau cycle de Rome sous les auspices d’Octave auquel est décerné le titre d’Auguste en janvier 27 (livre 134): Après avoir rétabli l’ordre et réglé l’administration des provinces, C. César se voit décerner le nom d’Auguste. Le mois de Sextilis, sera, de même, appelé de ce nom, en son honneur. Il préside l’assemblée de Narbonne et procède au recensement des trois Gaules conquises par César père. Il s’agit ensuite de la guerre menée par M. Crassus contre les Bastarnes, les Moesiens, et autres peuples.
Le livre 135 se clôt par l’évocation des succès d’Auguste en Mauritanie et en Espagne en 25: Y sont rapportés les faits de la guerre de M. Crassus contre les Thraces et celle de César contre les Espagnols. Les Salassiens, peuplade alpestre, sont soumis.
La structure pentadique recoupant les livres 131-135 aurait donc constitué la ponctuation finale à la fois de la pentékaidécade en cours et du dernier cycle d’histoire de Rome, aboutissant à la refondation augustéenne et à l’établissement de la paix augustéenne, de la même façon que la première pentade s’était achevée sur la discorde qui devait précipiter Rome vers la tragédie finale de la prise de la ville par les Gaulois, avant de finir sur la refondation de Rome sous les auspices apolliniens de Camille, figure analogique du princeps dans le récit livien. Cette hypothèse que nous croyons être bonne, n’est au reste pas nouvelle et a déjà été formulée fort Trad. P. Jal.
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à propos nous semble-t-il par le très sagace R. Syme qui voyait en l’instauration du principat le terme naturel de l’œuvre, et plus récemment par L. Bessone qui a bien vu comment le choix de ce terme pouvait aisément se concevoir dans le cadre d’une pentékaidécade finale 30. Les deux pentades encadrant l’œuvre (livre 1 à 5 et livres 131136) se faisaient donc écho, révélant une construction circulaire fermée très classique. Par ce procédé, Tite-Live parvenait au demeurant à faire correspondre la structure architecturale comprenant les 135 premiers livres à la structure dialectique globale de son œuvre, allant de la fondation de la ville à sa refondation par Auguste. Dans cette même perspective structurelle, l’explication que Pline apporte au choix de Tite-Live de continuer son œuvre pour alimenter un esprit toujours en quête de travail alors qu’il aurait gagné suffisamment de renommée pour mettre un terme à l’ouvrage pourrait sembler être un peu courte: n’était-il pas en effet nécessaire pour la clarté du projet de l’entreprise livienne, qui était, on le rappelle, de montrer la voie à suivre pour assurer le bon commencement d’un troisième cycle de Rome à la lumière des enseignements que l’on pouvait tirer du déroulement des cycles précédents, et de commencer à montrer les progrès de ce nouveau cours sous les auspices augustéens? La coïncidence entre la structure architecturale (fin de la pentékaidécade précédente, qui couvrait la période allant du début du 2e triumvirat en 43 jusqu’à l’établissement du principat; fin de la pentade consacrée à l’affrontement avec Antoine et à la refondation de Rome par Auguste) et la logique dialectique de l’œuvre a sans doute été recherchée de façon à dessiner dans les livres suivants la nouvelle orientation des destins d’une Rome engagée dans un nouveau cycle et une nouvelle tendance ascendante. C’est en tout cas ce qui ressort de la lecture des dernières Periochae. De fait, la Periocha du livre 133 établissait, ainsi qu’on l’a pu apprécier précédemment, une sorte de bilan, en indiquant que par son triple triomphe sur les Illyriens, sur Antoine à Actium et sur Cléopatre, Octavien avait mis un terme aux guerres civiles. La Periocha 134 qui traitait de l’époque où Octavien devenait Syme 1959, 27-87; Bessone 2015, 426.
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Auguste (Janvier 27) avait rompu quant à elle encore plus nettement avec la tonalité de la Periocha précédente, et commençait par souligner le rétablissement de l’ordre et la réglementation nouvelle des provinces (Caesar rebus compositis et omnibus provinciis in certam formam redactis Augustus quoque cognominatus est). Rome sortait ainsi définitivement de cette période qui, depuis le Métaure, l’avait vue progressivement faire usage de l’imperium avec toujours plus de démesure, en faisant fi du jus et du fas, tandis que la superbia n’avait eu de cesse de s’affirmer davantage. La Periocha 135 dessine en effet les débuts d’une nouvelle phase victorieuse pour Rome, avec la guerre de M. Crassus contre les Thraces, la campagne d’Auguste contre les Espagnols, et la soumission des Salassiens en 25. Une série de succès militaires donc, qu’Auguste célébra, ainsi qu’on le sait, par une nouvelle fermeture du temple de Janus, un événement sans doute bien fait pour signaler dans le récit livien la fin du cycle précédent et le début du suivant. Les livres de la pentade suivante accusent quant à eux de façon très sensible une nette évolution et une orientation devenue désormais franchement ascendante de l’Histoire. Les Periochae 138 à 141 (nous avons perdu les Periochae 136 et 137) font ainsi défiler un nombre impressionnant de campagnes militaires et de victoires, créant l’impression d’un empire offensif et globalement victorieux: Periocha 138: ‘ Tib. Néron et Drusus, beaux-fils de César, s’emparent de la Rhétie. Agrippa, gendre de César est mort. Le recensement est fait par Drusus’. Periocha 139: ‘ Drusus fait la guerre aux peuplades germaniques cisrhénanes et transrhénanes. Les troubles provoqués en Gaule par le recensement sont apaisés. Un autel est dédié à César au confluent de la Saône et du Rhône. Le Héduen C. Julius Vercondaridubnus en devient le pontife’. Periocha 140: ‘Les Thraces sont vaincus par L. Pison. De même, sont soumis par Drusus les Chérusques, les Tenctères, les Chauques et d’autre peuplades germaniques au-delà du Rhin. La sœur d’Auguste, Octavie, est morte. Elle avait perdu auparavant son fils Marcellus dont un théâtre et un portique conservent la mémoire et le nom’. Periocha 141: ‘ Il y est question des faits de la guerre de Drusus contre les peuplades transrhénanes. Chumstinctus et Avectius, 214
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tribuns nerviens, combattent au premier rang. Néron, frère de Drusus, soumet les Dalmates et les Panoniens. On fait la paix avec les Parthes. Leur roi rend les enseignes prises d’abord à Crassus, à Antoine ensuite’. Au livre 141, les enseignes prises à Crassus puis à Antoine par les Parthes sont restaurées; cette même mise en scène devait être placée, ainsi qu’on le sait, au centre de la représentation de la cuirasse d’Auguste sur la statue de Prima Porta, symbolisant le début d’une ère nouvelle, encadrée qu’elle était par la représentation de l’αἴων (le temps), de l’Italie et de la Cornucopia, caractéristique de l’Age d’Or de retour. Il est vrai que la Periocha 142, par laquelle s’achève l’AVC, se termine par l’évocation de la mort de Drusus, en 9 av. J. C., à laquelle l’ensemble du résumé est consacré: Il y est question des faits de guerre de Drusus contre les Germains des peuplades transrhénanes. En tombant de cheval Drusus a l’os fracturé. Il en meurt au bout de trente jours. Son frère Tibère, accouru aussitôt l’accident appris, transporte le corps à Rome, où il est déposé dans la sépulture des Iulii. Son éloge est prononcé par César Auguste. De suprêmes honneurs lui sont rendus en grand nombre.
L’interruption de l’œuvre au livre 142 est l’objet de nombreuses controverses. Plusieurs hypothèses se sont ici présentées au chercheur. La première que j’évoquerai ici me paraît la plus simple: en conduisant sa continuation jusqu’en 9 av. J. C., Tite-Live aurait jugé que son récit des débuts du nouveau cycle de l’histoire de Rome était suffisant pour suggérer narrativement l’orientation nouvelle des destins de l’Vrbs. Cette explication, toute simple me paraît plausible, mais elle n’est pas exclusive d’autres explications possibles. Certains ont ainsi voulu reconnaître dans le choix de l’année 9 av. J. C. qui avait vu la mort de Drusus une façon pour Tite-Live d’exprimer le pessimisme que lui inspirait le cours de l’Histoire 31. Il me semble que c’est aller vite en besogne et oublier que cette mort ne fut qu’un accident et non pas la conséquence d’une défaite militaire. Car la campagne de Drusus et de Tibère en Germanie fut en réalité un succès. Les victoires de Drusus en 11 lui
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avaient valu le vote d’un triomphe par le Sénat, finalement refusé par Auguste. Les deux frères furent cependant autorisés à célébrer une ouatio dans les rues de Rome. L’année 9, qui vit la mort de Drusus, constitua le point d’orgue de cette campagne qui permit de porter les aigles romaines jusque sur les bords de l’Elbe et les deux frères eurent le droit de se prévaloir du titre d’imperator 32. Tibère fut alors renvoyé en Germanie où il termina la campagne victorieuse de Drusus, ce qui lui valut une seconde salutatio imperatoria. Tite-Live a-t-il voulu néanmoins envoyer un message politique en arrêtant son récit l’année de la mort de Drusus, le père de Germanicus, celui qui semblait symboliser l’attachement à un fonctionnement républicain du régime, à savoir une dyarchie reposant sur le princeps et le Sénat dont l’auctoritas était respectée selon les principes affichés par Auguste à l’époque de la respublica restituta, au début du principat? C’est possible, et l’historien qui écrivait ces lignes à la fin du règne d’Auguste ou au début du règne de Tibère, a pu vouloir marquer là un attachement à des principes auquel l’héritier du trône, Tibère, prétendait être lui-même être fidèle, et dont les Res Gestae, récemment publiées quand Tite-Live achevait son grand œuvre 33, avaient rappelé qu’ils avaient été au cœur de la construction politique augustéenne. Si telle est la raison du choix de Tite-Live, celui-ci ne saurait donc pas apparaître comme le signe d’une réelle opposition. Certes l’évolution dynastique et autoritaire du principat avait pu décevoir les partisans du principat républicain et l’on ne peut exclure l’idée que l’éloge que l’historien avait dû faire de Drusus dans le passage où il devait évoquer sa mort ait servi à marquer une certaine distance par rapport à la forme qu’avait pu prendre le gouvernement de l’Empire, dans le même temps que l’historien confirmait sa fidélité aux principes politiques qui avaient inspiré sa mise en scène de l’histoire romaine, Suet., Tib. 9; Claud. 1; Dessau 147. Il est probable qu’Auguste ait rédigé les Res Gestae à la fin de sa vie, ainsi qu’il l’écrit lui-même dans ce même texte (35,2 cum scripsi haec, annum agebam septuagensumum sextum), soit à un moment que l’on pourrait situer entre septembre 13 ap. J. C., date de son anniversaire, et le 19 août 14 p. C., date de sa mort. Les avis sont partagés sur cette datation et certains suggèrent une rédaction en plusieurs étapes, s’étalant sur de nombreuses années. Mais la plupart des indices laissent plutôt penser à une composition à la toute fin de la vie du princeps. Cf. l’excellente mise au point sur le sujet de Cooley 2009, 42-43. 32 33
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ceux de la respublica restituta 34. Principes que Tibère prétendait vouloir suivre et auxquels il semble s’être conformé dans les premières années de son règne. Il est peu probable, dans ces conditions, qu’au moment où Tibère accédait au pouvoir Tite-Live ait désespéré de ce principat qu’il avait voulu républicain, c’est-à-dire, de son point de vue, respectueux de l’auctoritas du Sénat 35. Il est également envisageable, en effet, que l’historien ait trouvé en cette date un bon prétexte pour ne pas conduire son récit plus en avant, afin de n’avoir à évoquer ni les débuts politiques des Princes de la Jeunesse ni leur mort. Pour évoquer ce sujet délicat, surtout depuis la disparition des deux fils d’Auguste (2 et 4 ap. J. C.), il lui aurait été difficile d’éviter le panégyrique, ce que lui interdisait la nature même de son œuvre. Or, tout laisse penser que Tite-Live était hostile à la transmission héréditaire de l’imperium. La logique de sa dialectique historique conduit, dans son récit, les fils des grands, nés à l’ombre du pouvoir, à considérer ce dernier comme leur bien propre et à adopter, de ce fait, des comportement tyranniques (que l’on songe au comportement des fils d’Ancus, à celui de Tarquin le Superbe, aux fils de Brutus, aux jeunes patriciens, plus déterminés que leurs pères à en découdre avec les plébéiens). En mettant un point final à son œuvre en 9 av. J. C., l’historien se montrait peut-être à la fois élégant à l’égard du pouvoir qui l’avait sans doute favorisé et prudent. Il n’est pas au demeurant nécessaire d’accorder trop d’importance à l’évocation de la mort de Drusus dans ce livre ultime de l’AVC, dans la mesure où la responsabilité de sa mise en valeur dans la Periocha incombe peut-être avant tout à l’auteur de celle-ci. Il n’est pas impossible, aussi, que la dédicace de l’Ara Pacis Augustae la même année, événement dont il n’est nullement question dans la Periocha, ait fait l’objet en réalité, de la part de Tite-Live, d’un traitement qui pouvait en faire ressortir la signification symbolique: l’autel illustrait en effet les premiers fruits de l’œuvre de restauration augustéenne, le retour de l’abondance et des vertus premières de Rome. Si tel a vraiment été le cas, la volonté de l’historien de porter au crédit de l’empereur l’ouverture de temps Hurlet – Mineo 2009, 9-22; Hurlet 2009, 73-99; Mineo 2009, 295-308. La conception républicaine du principat par Tite-Live est illustrée par la mise en scène du rôle de Camille, reconnu comme refondateur et princeps par le récit livien (Mineo 2006, 220-241). 34 35
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nouveaux ressortirait avec plus de clarté. Le choix de cette date pour mettre un point final à son grand œuvre prendrait alors une dimension symbolique 36. L’historien, qui écrivait ses dernières lignes à un moment assurément proche de l’accession de Tibère au trône, aurait ainsi réaffirmé en cette circonstance sa foi dans la continuation des destins de Rome, sans manquer de rappeler, à travers l’éloge qu’il avait pu faire de Drusus, son attachement au principat républicain qui avait inspiré les débuts de son ouvrage. Autre hypothèse vraisemblable, celle qui voudrait que la maladie ou la mort ait simplement contraint l’auteur à mettre un terme à son opus magnum. Q uelle que soit au demeurant la raison de cette interruption de l’œuvre en 9 av. J. C., on relèvera surtout le choix qui fut celui de Tite-Live de continuer son Histoire romaine au-delà du terme qu’il s’était initialement fixé (livre 135), de façon à dessiner les premiers progrès du nouveau cycle d’histoire sous les auspices augustéens: à l’évidence, l’historien continuait d’articuler la structure architecturale de son œuvre avec sa structure dialectique, offrant là comme une signature idéologique par laquelle il laissait paraître l’espoir tout patriotique qu’il nourrissait d’un nouveau cycle d’histoire de Rome, en dépit des possibles inquiétudes que la réalité politique pouvaient lui inspirer. Je terminerai sur ce point en évoquant une dernière piste structurelle très séduisante, mais impossible à prouver, en l’état actuel des textes, suggérée par L. Bessone. Ce chercheur suggère en effet que Tite-Live aurait songé à donner à sa continuation la forme d’une pentékaidécade, ce qui ne serait guère étonnant, en effet, au vu de la structuration générale de l’œuvre. Cela laisse évidemment entendre que dans le plan initial de l’historien, l’Ab urbe condita aurait dû compter 150 livres, et que l’historien avait peutêtre pensé s’avancer plus avant dans le récit du règne d’Auguste 37. Ce cadre structurel, s’il était avéré, confirmerait en tout cas le
36 Cette hypothèse exclut l’idée selon laquelle Tite-Live aurait été contraint par la maladie ou la mort d’arrêter son récit en 9 av. J. C. En revanche, elle ne contredit en rien la théorie de R. Syme (1959, 27-87) pour qui Tite-Live aurait trouvé une cohérence structurelle intéressante en terminant par la narration de la période militaire d’Auguste. 37 Bessone 2015, 235.
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caractère brutal de l’interruption de l’œuvre, sans qu’on puisse pour autant préciser la cause de ce phénomène: maladie, mort, réticences. À moins que le Padouan ait tout simplement eu la volonté de souligner le caractère ouvert de l’histoire en cours en offrant le dessin d’une architecture inachevée.
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Vasaly 2002 = A. Vasaly, The Structure of Livy’s First Pentad and the Augustan Poetry Book, in D. S. Levene – D. P. Nelis (edd.), Clio and the Poets. Augustan Poetry and the Traditions of Ancient Historiography, Leiden – Boston – Köln 2002, 275-290. Vasaly 2015 = A. Vasaly, The Composition of the Ab Vrbe Condita, in Mineo 2015, 217-229. Wille 1973 = G. Wille, Der Aufbau des Livianischen Geschichtswerk, Amsterdam, 1973.
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MARINE MIQ UEL
HISTOIRE ET VÉRITÉ CHEZ TITE-LIVE MANIFESTATIONS AUCTORIALES ET NŒUDS NARRATIFS DANS L’AB VRBE CONDITA
S’el s’aunasse ancor tutta la gente che già, in su la fortunata terra di Puglia, fu del suo sangue dolente per li Troiani e per la lunga guerra che de l’anella fé sì alte spoglie, come Livio scrive, che non erra (Dante, Inferno 28, 7-12)
La réputation d’infaillibilité que Dante prête à Tite-Live n’a pas résisté aux critiques portées par l’hypercriticisme développé, en France, au xviiie siècle, à la suite des travaux de Louis de Beaufort 1. Or cette critique a souvent reposé sur le manque d’interventions auctoriales de la part de Tite-Live, qui apparaît peu dans son œuvre, à l’inverse notamment de Polybe: à travers ses Histoires, l’historien grec se crée en effet un éthos d’historien ‘crédible’, attaché à rechercher la vérité, par le biais de professions de foi 2 explicitant ses conceptions historiographiques, ou encore de polémiques 3: Polybe n’a ainsi de cesse de mettre en avant ce qui l’oppose à ses prédécesseurs ou à ses contemporains. Ces derniers se voient accusés de déformer les faits en vue de glorifier ou blâmer les acteurs de l’histoire 4, de rapporter des événements dont ils n’ont d’autre connaissance que livresque 5 ou encore de voiler l’histoire par l’usage d’un recours De Beaufort 1738. Polyb. 38,1,1 – 4,9. 3 Pédech 1964, 355-404; Marincola 1997, 222-236, sur l’autorité acquise par Polybe à travers la pratique de la polémique. 4 Polyb. 1,14,7-8, contre Fabius Pictor et Philinos. 5 Polyb. 12,10,1 – 12b,3 contre Callisthénès et Timée. 1 2
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 221-248 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125329
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au pathétique et au dramatique 6. Ce parti-pris lui confère, encore aujourd’hui, le sceau d’une ‘scientificité’ qui est souvent déniée à Tite-Live, le Padouan se montrant rarement disert sur ses prédécesseurs, ou moins passionné, en tout cas, au sujet de ses sources. Il ne procède, semble-t-il, que rarement à des remarques auctoriales, si l’on excepte quelques passages fameux comme la préface du livre 1 et l’excursus du livre 9 (qui font d’ailleurs l’objet d’épais dossiers 7) et pour lesquels l’historien semble s’excuser d’être aussi long 8. L’indifférence supposée de Tite-Live quant au bon usage de ses sources a ainsi en partie conduit à considérer que l’auteur n’effectuerait qu’un rapide collage des annalistes qui l’ont précédé. De ce fait, l’ouvrage a souvent été présenté comme étant dénué de toute originalité et dépourvu de la moindre vision ou réflexion conceptuelle. Pourtant, les études portant sur l’historiographie latine ont, depuis quelques décennies, conduit à une réévaluation de l’ouvrage livien, notamment à la suite des travaux inspirés par le linguistic turn. Des auteurs comme Woodman 9 se sont en effet attachés à montrer la dimension rhétorique de l’historiographie antique, invitant à reconsidérer les critères qui président à la méthode historique antique et à porter l’attention sur la structure, exaedificatio, des ouvrages historiques antiques 10. La recherche historiographique portant sur l’Ab urbe condita a ainsi pu mettre en évidence les choix de composition effectués par Tite-Live à partir des matériaux annalistique et polybien 11. Elle a également souligné l’usage presque alexandrin que le Padouan peut faire de l’intertextualité implicite, multipliant les allusions, les clins d’œil à des modèles littéraires, notamment épiques, mais aussi tragiques et rhétoriques, par lesquels il semble répondre à ses sources 12. Nous souhaitons nous intéresser ici à l’étude d’une intertextualité plus spécifique, celle qui renvoie à des manifestations auc6 Polyb. 2,56,1-16 contre Phylarque et Théopompe; voir Fromentin 2001, 80-81 et 86-88. 7 Ferrero, 1949; Walsh 1955; Mazza 1966; Moles 1994; Seita 1996; Vasaly 2015, 22-35. 8 Liv. praef. 12; 9,17,1-2. 9 Woodman, 1998. 10 À partir de l’étude de Cic., de orat. 1,62-64. 11 Levene 2010. 12 Levene 2010 et de Franchis 2014. Nous remercions Mme de Franchis de nous avoir indiqué l’importance de l’ouvrage de Levene pour analyser la ‘sophistication littéraire’ de Tite-Live.
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toriales. Une lecture approfondie du texte livien conduit en effet à constater la présence récurrente, bien que parcimonieuse, de remarques auctoriales, qu’elles fassent référence aux sources utilisées par l’historien ou à ses interrogations sur la fiabilité des faits rapportés. Comme le souligne Luce 13, de telles interventions sont rares et prennent souvent une forme stéréotypée. Il arrive cependant qu’elles se concentrent en des passages particuliers, qui constituent ce que nous appellerons un ‘nœud narratif ’ de l’œuvre et que nous entendons définir et analyser dans ces pages. Il s’agira de dépasser la lecture qui a été faite de ces insertions auctoriales et de cesser d’y voir seulement la marque d’une négligence manifeste 14, ou un aveu d’impuissance, au demeurant parfaitement compréhensible, du fait de la divergence des sources 15. Il semble en effet que nous pouvons aller plus loin, et considérer ces pierres d’achoppement de la démarche livienne comme des lieux de construction de l’image d’un historien au travail. Plus spécifiquement, nous montrerons comment Tite-Live s’inscrit, à travers de tels passages, dans le processus de construction de l’autorité historique, dont Marincola montre qu’elle repose sur le respect de la tradition antérieure et sur la capacité de chaque auteur à se distinguer 16. L’étude de la construction narrative des ‘nœuds narratifs’ et de la place qu’y occupe l’instance narrative, puis du rôle de ces passages nous permettra de comprendre la représentation dressée en creux par Tite-Live du travail de l’historien, mais également de sa lecture des événements historiques éclairant sa relation avec le public et avec sa propre écriture. Enfin, elle nous invitera à reconsidérer les rapports entre récit historique et vérité selon Tite-Live. Dans l’Ab urbe condita, les manifestations auctoriales apparaissent le plus souvent de façon ponctuelle. Elles peuvent être insérées dans le récit sous la forme d’une incise ou d’une parenthèse, sans que soit introduit un marqueur de première personne. C’est le cas, notamment, lorsque l’historien souhaite procéder à un jugement Luce 1977, 140-141. Walsh 1961, 143: «Il faut également censurer – l’inévitable résultat de cette méthode – sa tendance à résumer à la fin d’une description une vision complètement contradictoire, sans toujours chercher à donner une indication claire de son propre jugement». 15 Luce 1977, 142-143. 16 Marincola 1997. 13 14
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esthétique, par exemple quand il commente l’archaïsme du discours prononcé par Ménénius Agrippa devant la plèbe qui a fait sécession: prisco illo dicendi et horrido modo 17, ou de celui de l’hymne composé par Livius Andronicus à l’occasion des procurationes visant à solliciter l’aide des dieux, alors que l’adversaire punique menace Rome sur son propre sol: illa tempestate forsitan laudabile rudibus ingeniis, nunc abhorrens et inconditum si referatur 18. Avec la même parcimonie, il procède à des réflexions personnelles pour évoquer une évolution morale 19. Ses commentaires peuvent aussi avoir une dimension explicative, lorsqu’il rappelle, à la manière d’un antiquaire, le sens ou l’appellation d’une loi, d’une institution, une réalité ethnographique ou géographique 20, l’étiologie d’un lieu ou d’une coutume dont le sens est inconnu ou obscur pour ses contemporains: ainsi, quand le Padouan rappelle que les textes de lois recherchés par les Romains à la suite de l’incendie de 390 av. J.-C., lors de la prise de Rome par les Gaulois, sont les Douze Tables et certaines ‘lois royales’: foedera ac leges – erant autem eae duodecim tabulae et quaedam regiae leges – conquiri 21. L’historien effectue alors une exégèse de la tradition historique qu’il met à disposition du public du ier siècle av. J.-C., suivant un procédé qui n’est pas si éloigné de la pratique des grammairiens qui commenteront les textes classiques pour leurs élèves, dans la Rome impériale. Il semble en effet que Tite-Live s’adresse à un lectorat élargi, moins érudit que celui auxquels s’adressent les antiquaires, qui n’a pas forcément de rôle politique de premier plan 22 et qui regroupe des publics de niveau social divers 23, venant de différents territoires de l’empire. Il se doit donc d’annoter régulièrement son récit d’informations diverses. Toutefois, de tels commentaires peuvent également renvoyer à la méthode historique elle-même, à travers l’énoncé d’un jugement ou une indication sur ses sources, souvent, là encore, sans qu’appa 2,32,8. 27,37,13. 19 Tite-Live, comme la plupart des historiens du ier siècle av. J.-C., situe en effet son œuvre dans le cadre d’une pensée de la décadence. 20 26,19,11, par exemple: Emporiis urbe Graeca – oriundi et ipsi a Phocaea sunt, ‘à Ampurias, une ville grecque (les habitants sont eux aussi originaires de Phocée)’. 21 6,1,10. 22 Cic., fin., 5, 52. Voir sur ce point Wiseman 1987, 252-253. 23 Ledentu 2004, 199; de Franchis 2011. 17 18
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raisse une marque de première personne. Si Tite-Live mentionne rarement ses sources par leur nom, il lui arrive parfois de citer les noms des annalistes ou de Polybe et d’évaluer la fiabilité de leur œuvre: Fabius Pictor est qualifié, de la sorte, comme un auteur longe antiquissiumus 24; Polybe comme une référence à ne pas dédaigner, auctor haud quaquam spernendus 25; à l’inverse Valérius Antias se voit accusé d’amplifier les nombres, notamment lorsqu’est fait le décompte des morts ou des captifs, qui est énoncé à la fin des récits de batailles 26: in numero scriptori parum fidei 27. Dans ces mentions, le tour reste impersonnel; il l’est aussi pour les remarques qui renvoient aux caractéristiques des sources annalistiques. Ainsi, le début du livre 6 énonce un degré de fiabilité plus grand de la tradition annalistique après l’incendie de 390 av. J.-C. 28. Ce lieu commun de l’historiographie latine, qui est probablement emprunté à Claudius Q uadrigarius 29, est énoncé à travers les tournures passives cernuntur et exponentur. Un deuxième trait historiographique, la réécriture du passé par les gentes qui cherchent à s’attribuer de la gloire, est de même rappelé au livre 8, cette fois-ci avec le verbe reor, conjugué à la première personne du singulier: Nec facile est aut rem rei aut auctorem auctori praeferre. Vitia tam memoriam funeribus laudibus reor falsisque imaginum titulis, dum familiae ad se quaeque famam rerum gestarum honorumque fallente mendacio trahunt; inde certe et singulorum gesta et publica monumenta rerum confusa. Nec quisquam aequalis temporibus illis scriptor extat quo satis certo auctore stetur 30. Et il n’est pas facile de préférer un fait à un autre ou une source à une autre. À mon sens, les éloges funèbres et les fausses inscriptions des images des ancêtres ont altéré les souvenirs du passé, chaque famille cherchant par de fallacieux mensonges à s’attribuer la gloire des hauts faits et des magistratures; d’où naît assurément cette confusion dans les exploits des individus et dans les monuments publics des choses passées. Et il n’est pas écrivain ayant vécu à cette époque qui offre une garantie assez sûre pour qu’on s’y tienne. 2,40,10. 30,45,5. Voir également 33,10,10. 26 On retrouve le même jugement en 3,5,12 et 33,10,8. Voir Laroche 1977. 27 36,38,7. 28 6,1,2-3. 29 Voir Oakley 1997-2005, I 381-382. Cette mention d’une historiographie disparue dans les ruines de Rome lors de l’invasion des Gaulois est en effet également présente à trois reprises chez Plutarque, Num. 1; Cam. 22; Mor. 326a. 30 Liv. 8, 40, 4-5 mais l’idée est également énoncée dans Cic., Brut. 62. 24 25
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Il reste néanmoins que la plupart de ces mentions des annalistes, peu nombreuses, sont en général factuelles: Tite-Live se contente la plupart du temps simplement de les mentionner comme source, sans s’y attarder plus longtemps. L’historien recourt à des termes récurrents, qu’il convient d’analyser ici 31 afin de comprendre quelle image ils dressent, en creux, du travail de l’historien. Il s’agit majoritairement de verbes conjugués à la première personne du singulier, comme accipio et inuenio. Le terme accipio est peu courant; il apparaît d’abord dans le cas de l’énoncé d’une parole, qu’il s’agisse d’un discours ou d’une formule de deditio, alors accompagnés des adverbes ita ou ibi 32. Il est également employé lorsqu’il s’agit d’évoquer les oppositions entre plèbe et patriciat. Le terme inuenio est plus fréquent et accompagne un certain nombre de données politiques concernant les magistratures, l’obtention d’un triomphe, les réactions du sénat ou de la plèbe 33, ou des données accompagnant la conquête: nombre de morts et captifs après une bataille, attestation d’une bataille, vœu d’un temple lors d’une bataille, chiffres du butin, négociations, lettres envoyées à des préteurs 34. Il est également utilisé pour évoquer la tradition bâtie autour des ‘grands hommes’: c’est le cas dès le livre 1, autour de la légende des Horaces et des Curiaces, puis de celle de Coriolan, de Spurius Cassius, de Municius, etc. 35. L’emploi de la première personne renvoie ici à la présence de l’historien-narrateur, qui présente les résultats de son travail de recherche sur la tradition et justifie le choix qu’il opère parmi les différentes sources, en
31 Nous nous recourons ici des travaux de Duchêne 2014 sur la présence d’un auteur-narrateur dans le corpus historiographique de la période impériale et les stratégies diverses adoptées dans l’élaboration du récit. Voir également, dans le cas de Salluste, Evrard 1990. 32 Liv. 1,38,1-2; 3,67,1; 3, 70, 14-15 concerne l’historicité d’un triomphe; 4, 54,4 l’identification de trois tribuns de la plèbe; 6, 39, 4 la nomination d’un plébéien comme maître de cavalerie. 33 Liste des magistratures et réalités institutionnelles: Liv. 2,8,5; 18,5; 21,3; 54,3; 3, 47, 5; 4,23,1; 7,18,10; 42,1; 8,18,2; 23,17; 9,42,3; 46,2; 10,6,7; 26,5. 34 Liv. 3,8,10; 23,7; 8,11,2; 9,15,8; 23,5; 10,2, 3; 18,7; 46,7; 23,6,6; 26,49,2; 29,25,2; 30,16,12. 35 Liv. 1,24,1 sur l’identification des Horaces et des Curiaces; 2,40,10 sur la durée de la vie de Coriolan; 2,41,11 sur la condamnation de Spurius Cassius; 4,16,3, pour évoquer les origines sociales de Municius; 6,20,4 sur le procès de Manlius Capitolinus.
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fonction de divers critères. L’historien apparaît ainsi comme le dépositaire d’une tradition écrite, en particulier celle qu’ont rédigée les ueteres auctores, latins et grecs, qui sont parfois nommément cités, parfois seulement vaguement évoqués par le biais d’un pronom indéfini. Tite-Live se présente également comme le détenteur d’une con naissance historique, voire antiquaire, très vaste, qui lui permet de documenter telle ou telle réalité institutionnelle ou géographique évoquée dans son récit. Ces remarques, qui façonnent la persona d’un historien soucieux d’accomplir au mieux son travail et maîtrisant parfaitement la tradition, ne sauraient toutefois être que ponctuelles: à l’inverse de la méthode historique contemporaine, le détail et la présentation des sources sont en effet conçues comme une irruption du récit 36 assez mal venue. Il convient d’ailleurs de remarquer qu’elles se raréfient dans les troisième et quatrième décades, sans doute parce que le contenu de celles-ci, plus proche chronologiquement, semble rendre ces recherches moins nécessaires. Ces passages témoignent du travail de l’historien sur la tradition; sélectionnant les faits en fonction de critères précis, mettant en garde son public contre une version qui avantagerait une grande famille, ou exagérerait le nombre de morts lors d’une bataille, TiteLive semble dans ces cas toujours parvenir à une solution. Il est cependant des passages où le Padouan apparaît beaucoup plus hésitant, multipliant les différentes versions, sans véritablement opter pour l’une d’elles. Il s’agit de passages plus étoffés, qui constituent de véritables récits, et concentrent tout particulièrement les marques auctoriales. La mort du consul Gracchus, rapportée au livre 25, est un premier exemple de ces ‘nœuds narratifs’ où le récit superpose deux, voire trois versions différentes de la fin du général romain: Haec si uera fama est, Gracchus in Lucanis ad campos qui Veteres uocantur periit. Sunt qui in agro Beneuentano prope Calorem fluuium contendant a castris cum lictoribus ac tribus seruis lauandi causa progressum, cum forte inter salicta innata ripis laterent hostes, nudum atque inermem saxisque quae uoluit amnis propugnantem interfectum. Sunt qui haruspicum monitu quingentos passus a castris progressum, uti loco puro ea quae ante dicta prodigia sunt procuraret, ab insiden Luce 1977, 102.
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tibus forte locum duabus turmis Numidarum circumuentum scribant. Adeo nec locus nec ratio mortis in uiro tam claro et insigni constat! Funeris quoque Gracchi uaria est fama 37. Si cette tradition est véridique, Gracchus périt en Lucanie, près de l’endroit qu’on appelle ‘les Vieux Champs’. Mais il y a des gens pour affirmer qu’il trouva la mort sur le territoire de Bénévent, au bord du Calor: d’après eux, il s’était éloigné de son camp avec ses licteurs et trois esclaves pour se baigner; or des ennemis s’étaient justement cachés parmi les saules qui poussent sur ces rives: nu, sans armes, il fut tué alors qu’il se défendait avec les pierres que roule le fleuve. Il y en a aussi pour écrire que sur l’avis des haruspices, il s’avança à cinq cents pas du camp pour conjurer dans un endroit pur les prodiges qu’on a rapportés, et fut cerné par deux escadrons de Numides qui s’étaient justement embusqués là. Tant le lieu et les circonstances de sa mort sont mal établis, alors qu’il s’agit d’un homme si célèbre et si remarquable! Sur les funérailles de Gracchus aussi, il y a différentes traditions.
Dans la première version, qui situe la mort de Gracchus en Lucanie, Tite-Live fait mention de la fama. Il s’agit en effet, semble-t-il, de la tradition la plus connue, puisqu’elle est mentionnée par Cicéron 38 ou Appien 39. Pourtant, l’historien propose une deuxième, puis une troisième version, dont il est fait état dans ses sources, comme l’indique le syntagme sunt qui. Il place alors la mort de Gracchus à Bénévent, près d’un fleuve, le Calor, ou dans un ‘lieu pur’. C’est l’occasion pour lui, après cette mention, de souligner un paradoxe: la tradition est multiple, alors même que le protagoniste est fameux: Adeo nec locus nec ratio mortis in uiro tam claro et insigni constat. Comme pour conforter cette leçon, Tite-Live renvoie ensuite aux diverses traditions portant sur les funérailles de Gracchus, qui se sont déroulées, selon les auteurs de la version en Lucanie, soit dans le camp romain, soit, selon la version la plus répandue, dans celui d’Hannibal. Les autres enfin, qui situent la mort près de Bénévent, proposent une anecdote plus macabre, évoquant le démembrement du corps du général, et Tite-Live, recourant à la formule si… credere uelis, semble nous inciter à tenir également compte de cette version, sans toutefois trancher pour l’une ou l’autre. 25,16,25-17,4. Cic., Tusc. 1,89. 39 App., Hann. 35, 150-152. 37 38
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Le livre suivant offre un nouvel exemple éclairant, avec l’évocation du trajet parcouru par Hannibal, alors qu’il menace Rome, et en particulier le pillage du bois sacré de la déesse Feronia 40. Dans l’évocation de l’itinéraire en Italie d’Hannibal, Tite-Live insère le pillage du lucus Feroniae, qui est attesté par la plupart de ses sources: huius populatio templi haud dubia inter scriptores est, ‘qu’il y ait eu pillage de ce temple, les historiens en sont d’accord’. Puis il mentionne une seconde version, due à Coelius Antipater, qui modifie le trajet parcouru et situe le pillage du bois sacré à l’aller de l’itinéraire: Coelius Romam euntem ab Ereto deuertisse eo Hannibalem tradit, iterque eius ab Reate Cutiliisque et ab Amiterno orditur: ex Campania in Samnium, inde in Paelignos peruenisse, praeterque oppidum Sulmonem in Marrucinos transisse; inde Albensi agro in Marsos, hinc Amiternum Forulosque uicum uenisse. Mais, d’après Coelius, c’est en marchant sur Rome qu’Hannibal fit un détour à partir d’Eretum et c’est à Réate, Cutiliae et Amiternum que commence sa route: de Campanie, il était allé dans le Samnium, de là chez les Péligniens; longeant la place de Sulmone, il était passé chez les Marrucins; puis, par le territoire d’Albe, chez les Marses, d’où il vint à Amiternum et au bourg de Foruli.
Ici, la renommé du grand chef punique, comme celle de son armée, garantissent, pour l’historien, que la teneur de leur itinéraire soit restée dans les mémoires; reste une scorie, l’insertion du pillage du temple à l’aller ou au retour de l’itinéraire: Neque ibi error est quod tanti ‹ducis tanti›que exercitus uestigia intra tam breuis aeui memoriam potuerint confundi – isse enim ea constat –: tantum id interest ueneritne eo itinere ad urbem an ab urbe in Campaniam redierit. À vrai dire, ce n’est pas sur le trajet suivi, en un si bref espace de temps, par un si grand chef et une si grande armée, qu’on a pu commettre une erreur – qu’il soit passé par là, en effet, tout le monde en convient –; le seul point sur lequel il y a désaccord, c’est de savoir s’il a emprunté cet itinéraire à l’aller, vers Rome, ou au retour, de la Ville vers la Campanie.
Le point culminant du livre 38 est un autre ‘nœud narratif’, peutêtre le plus complexe de l’ouvrage: la question de l’identification de la sépulture de Scipion l’Africain. L’affirmation, en 38,53,8, qui situe la tombe de Scipion à Literne, est en effet rapidement contre 26,11,10-13.
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dite, quelques paragraphes plus tard par une autre version, qui la place à Rome: Silentium deinde de Africano fuit; uitam Literni egit sine desiderio Vrbis; morientem ruri eo ipso loco sepeliri se iussisse ferunt monumentumque ibi aedificari, ne funus sibi in ingrata patria fieret 41. On ne parla plus alors de l’Africain; il vécut à Literne sans regretter Rome; on dit que, mourant à la campagne, il voulut y être inhumé et y avoir son tombeau, de peur que ses funérailles ne se fissent dans une patrie ingrate. Ser. Sulpicio deinde referente, quem rogatione Petillia quaerere uellent, Q . Terentium Culleonem patres iusserunt. Ad hunc praetorem, adeo amicum Corneliae familiae ut qui Romae mortuum elatumque P. Scipionem (est enim ea quoque fama) tradunt pilleatum, sicut in triumpho ierat, in funere quoque ante lectum isse memoriae prodiderint, et ad Portam Capenam mulsum prosecutis funus dedisse, quod ab eo inter alios captiuos in Africa ex hostibus receptus esset, aut adeo inimicum eumdem, ut propter insignem simultatem ab ea factione quae aduersa Scipionibus erat delectus sit potissimum ad quaestionem exercendam, ceterum ad hunc nimis aequum aut iniquum praetorem reus extemplo factus L. Scipio 42. Lorsqu’ensuite Servius Sulpicius mit à l’ordre du jour la désignation du magistrat chargé de l’enquête au titre de la loi pétilienne, les sénateurs désignèrent Q uintus Térentius Culléo. Devant ce préteur, tellement ami de la famille Cornélia que, selon ceux qui racontent que Publius Scipion est mort et fut enterré à Rome – cette version existe aussi), il précéda le cortège coiffé d’un bonnet d’affranchi, comme il l’avait fait lors du triomphe, et distribua du vin miellé à la porte Capène à ceux qui avaient suivi le convoi, parce que Scipion, en Afrique, l’avait délivré ainsi que d’autres prisonniers, ou bien au contraire tellement hostile à cette famille qu’il avait eu la préférence, pour diriger l’enquête, du parti opposé aux Scipions en raison de sa haine trop connue, devant ce préteur donc, trop favorable ou trop défavorable, Lucius Scipion fut aussitôt déféré comme accusé.
Cette seconde version, que l’historien passe dans un premier temps sous silence, survient à la faveur de la mention du préteur chargé de l’enquête, Q uintus Térentius Culléo, dont l’apparition dans le cortège funèbre de Scipion confirmerait les relations d’amicitia avec la famille des Cornelii. Sitôt après avoir mentionné cette anecdote, l’historien évoque la possibilité contraire: peut-être Térentius 38,53,7-8. 38,55,1-4.
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Culléo était-il l’ennemi juré des Scipions. S’enchâsse alors, dans le nœud narratif, un nouveau questionnement, autour d’une question financière bien précise: le poids en argent des sommes que Lucius Scipion est accusé d’avoir détournées est-il inférieur ou supérieur à leur poids en or? Cette question est résolue par Tite-Live qui mobilise une autre source, l’opinion commune, fama, rapportant une anecdote de la vie de Publius Scipion, dans laquelle ce dernier déchire le livre de compte apporté par son frère, sous les yeux du Sénat 43. Tite-Live propose alors une première conclusion, dans laquelle il avoue son embarras: Multa alia in Scipionis exitu maxime uitae, dieque dicta, morte, funere, sepulcro, in diuersum trahunt, ut cui famae, quibus scriptis adsentiar non habeam, ‘On relate tant d’autres détails contradictoires, en particulier sur les derniers jours de Scipion, son assignation, son décès, son enterrement, son tombeau, que je ne sais quels récits, quels écrits approuver’ 44. Il grossit d’ailleurs le ‘nœud narratif’, en adjoignant une nouvelle interrogation, portant cette fois-ci sur le nom du ou des accusateurs des Scipions et ajoutant à la liste déjà citée des points d’incertitude: Non de accusatore conuenit: alii M. Naeuium, alii Petillios diem dixisse scribunt ; non de tempore quo dicta dies sit, non de anno, quo mortuus sit, non ubi mortuus aut elatus sit; alii Romae, alii Literni et mortuum et sepultum 45. Sur l’accusateur, point d’accord: les uns disent qu’il fut assigné par Marcus Naevius, les autres par les Pétulius; pas d’accord non plus sur la date de l’assignation, ni sur l’année de la mort, ni sur l’endroit où il mourut et fut enterré.
À nouveau, l’hésitation se porte sur le lieu de la mort et de la sépulture de Scipion: ici encore, les témoignages sont problématiques, puisque chaque version repose sur l’existence d’un monument et d’une, voire de plusieurs statues – les preuves matérielles ne sont guère plus fiables que les scriptores: Vtrobique monumenta ostenduntur et statuae; nam et Literni monumentum (monumentoque statua superimposita fuit, quam tempestate deiectam nuper uidimus ipsi), et Romae extra portam Capenam in Scipionum monumento tres statuae sunt, quarum duae P. et L. Scipionum dicuntur esse, tertia poetae Q . Ennii 46. 38,55,8-12. 38,56,1. 45 38,56,2-3. 46 38,56,3-4. 43 44
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Selon les uns, il est mort et a été enterré à Literne; en ces deux endroits on montre un tombeau et une statue: il existe, en effet, un tombeau à Literne (et il était surmonté d’une statue, que nous avons vue personnellement il y a peu, abattue par une tempête) et à Rome, au-delà de la porte Capène, le tombeau des Scipions porte trois statues, dont deux, dit-on, représentent Publius et Lucius Scipion, la troisième le poète Q uintus Ennius.
Tite-Live abandonne alors ce fil et revient alors à l’incertitude portant sur le nom de l’accusateur 47: le Padouan recourt à de nouveaux types de sources qui, à nouveau, se contredisent: les discours prononcés par Publius Scipion et Tibérius Gracchus, et probablement conservés par leurs gentes respectives; une histoire, fabula, qui appartient à la geste de Scipion l’Africain, et qui est corroborée par différents auteurs: l’Africain y apparaît courant au secours de son frère. Enfin, apparaît un ultime point d’achoppement: les détails du mariage de la fille de Scipion avec Gracchus 48, qui fait là encore l’objet de versions opposées. La conclusion d’ensemble pour laquelle opte Tite-Live acte ces multiples incertitudes, celles que soulèvent l’opinion commune ou les sources écrites, pour suggérer qu’elles s’effacent derrière la personne du grand homme: Haec de tanto uiro, quamquam et opinionibus et monumentis litterarum uariarent, proponenda erant 49. Voilà ce qu’il fallait signaler à propos d’un si grand homme, malgré les désaccords entre les opinions et les sources écrites.
Un dernier ‘nœud narratif’ concerne enfin l’annonce de la victoire de Pydna, qui voit la victoire de Paul-Émile sur le roi de Macédoine, Persée. La narration rattache d’abord l’annonce à une rumeur, suivie d’une explosion de joie de la foule romaine réunie au cirque: Cum in circo ludi fierent, murmur repente populi tota spectacula peruasit pugnatum in Macedonia et deuictum regem esse; dein fremitus increuit; postremo clamor, plausus, uelut certo nuntio uictoriae allato, est exortus 50. Comme […] les Jeux étaient célébrés au cirque, un murmure parcourut soudain d’un bout à l’autre la foule des spectateurs: on avait livré une bataille en Macédoine et le roi avait été complètement battu,
38,56,5-8. 38,57,2-8. 49 38,57,8. 50 45,1,2-3. 47 48
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puis la rumeur s’accrut, enfin, une clameur s’éleva et des applaudissements éclatèrent, comme si l’on avait apporté la nouvelle sûre de la victoire.
C’est alors seulement que les messagers officiels arrivent et confirment la nouvelle. Tite-Live propose alors une autre version, encore plus étonnante: un messager anonyme venu de Macédoine apporte la nouvelle de la victoire 51. Le consul la communique à la foule et la présente au sénat; les envoyés n’arrivent qu’après. Il s’agit là, certainement, d’une version rationalisante de l’intervention de Castor et Pollux, qui apparaissent traditionnellement comme des messagers de victoires dans l’historiographie romaine, ainsi que le souligne par exemple Cicéron dans les Tusculanes 52. Tite-Live, s’il ne mentionne pas nommément les deux frères divins, semble toutefois vouloir conserver la trace de ces récits légendaires, et ce alors même qu’il n’évoque plus les débuts mythiques de Rome, qu’il affirme dans la préface du livre 1 qu’ils sont trop lointains pour vouloir ‘ni les confirmer, ni les démentir’, nec adfirmare nec refellere. La légende, nous dit le grammairien Servius quelques siècles plus tard, ‘est un fait rapporté qui va à l’encontre de ce qui est naturel, qu’il soit fictif ou non’, est dicta res contra naturam, siue facta siue non facta 53. Si nul ne peut attester sa vérité, elle mérite néanmoins de figurer parmi les autres versions dans le récit historique. Ces ‘nœuds narratifs’ permettent ainsi de mettre en valeur la conception de l’histoire qui oriente l’écriture de Tite-Live: l’historien ne mobilise pas toujours uniquement une tradition écrite; il évoque parfois une tradition orale, largement propagée, qui renvoie à la mémoire culturelle 54, voire aux légendes. La tâche de l’historien semble donc être d’ajouter à la version appartenant à l’opinion commune, à la culture partagée, d’autres versions, qui relèvent de diverses sources: les annalistes, bien sûr, mais également les discours prononcés et conservés par les gentes, les traités 55 ou encore les monuments, comme les spolia de Marcellus exposés dans le temple de Jupiter Férétrien 56. Il n’oublie pas d’ajouter des commentaires 45,1,6-10. Cic., Tusc. 1,28; pour l’annonce de la bataille de Pydna, voir Cic., nat. deor. 2, 6 et Plin., nat. 7,86. 53 Liv., Praef., 6; Serv., ad Aen. 1,235. 54 Hölkeskamp 2006; Roller 2018. 55 4,7,10-12. 56 25,39,17. 51 52
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explicatifs pour son public qui ne connaît pas toujours les différents auteurs qu’il cite: Claudius, qui annales Acilianos ex Graeco in Latinum sermonem uertit, ‘Claudius, qui a traduit du grec en latin les annales d’Acilius’ 57. Les passages que nous avons formellement identifiés comme des ‘nœuds narratifs’ occupent une place non négligeable dans l’œuvre livienne. Il s’agit maintenant de mettre en évidence leurs différents rôles dans l’économie de l’ouvrage. Le premier qui vienne à l’esprit a trait à la composition de l’œuvre 58. Dans le cadre d’une histoire conçue comme ‘enseignant la vie’, magistra uitae, l’historien, soucieux de mettre au mieux en avant des leçons et de les inscrire dans la mémoire de son public, recourt à deux procédés narratifs qui lui permettent de signaler le peu d’intérêt ou l’importance qu’il faut conférer à un fait rapporté. Pour indiquer à son lecteur qu’un événement est négligeable, Tite-Live se refuse à le rapporter, se bornant à préciser que rien de mémorable ne s’est accompli à ce moment-là: nihil […] memorabile factum 59. À l’inverse, pour mettre en valeur les passages importants de l’histoire romaine, il choisit de déployer ces ‘nœuds narratifs’. Il n’est ainsi guère surprenant que ces ‘nœuds’ renvoient majoritairement à des exempla de premier ordre, comme les morts de grands généraux, souvent placées à la conclusion d’épisodes dans lesquels des pertes ou des défaites ont été évitées. Les morts des généraux, comme celle de Gracchus, rapportée au livre 25, sont en effet constitutives du récit de l’histoire romaine; elles mettent en avant le sacrifice exemplaire des grands hommes, summi uiri, pour le salut de cité, et constituent autant d’exemples de conduites héroïques à imiter. Des Tusculanes de Cicéron 60 aux statues ornées de tituli du forum d’Auguste 61, en passant par la liste proposée par Virgile 62 dans l’Énéide, les épisodes rattachés à ces destins exemplaires sont un élément structurant de la 25,39,12. Sur l’exigence de composition dans l’historiographie antique, voir Zangara
57 58
2007.
6,36,6. Cic., Tusc. 1,89. 61 Pour la mention du titulus de Scipion Émilien sur le forum d’Auguste, Plin., nat. 22,6,13. Voir Zanker 1970 et, sur les critères qui orientent le choix des summi uiri par Auguste, Galinsky 1996, 206. 62 Verg., Aen. 6,765-846. 59 60
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mémoire culturelle romaine et sont interprétés, depuis Polybe 63, comme un des fondements de la uirtus Romana. Les ‘nœuds narratifs’, marqueurs d’exempla, peuvent également mettre en évidence les grandes victoires de l’histoire romaine. C’est le cas, par exemple, du ‘nœud’ qui évoque l’annonce de la victoire romaine sur Persée, au début du livre 45. En revanche, si le récit doit plutôt évoquer une défaite, ou un moment dans lequel l’armée romaine se trouve en difficulté, le ‘nœud narratif’ aura pour rôle de déporter l’attention du lecteur sur un vice rattaché à l’ennemi, comme c’est le cas pour le ‘nœud’ tissé autour du parcours d’Hannibal, au livre 26, qui insiste sur l’impiété du chef punique: peu importe, finalement, à quel moment le bois sacré de Féronia a été pillé; l’essentiel est qu’il l’ait été, et que cela ait permis que Rome restât intacte; le châtiment d’une impiété pouvant être indifféremment antérieur ou postérieur à celle-ci 64. Il est possible de dégager une autre fonction de ce ‘nœud narratif’: celui-ci peut mettre en avant, comme c’est le cas pour le ‘nœud’ du livre 38 tissé autour du procès des Scipions, la grandeur, mais aussi la complexité d’un personnage. Jaeger souligne que l’insistance de Tite-Live à souligner, malgré l’abondance de sources et la permanence de traces matérielles, son ignorance de la localisation du tombeau de Scipion l’Africain ou des détails de son procès, permet de mettre en évidence l’aspect hors-norme du général romain, que l’écriture historique ne peut parvenir à cerner parfaitement. Dépassant le cadre de la cité pour se tourner vers l’empire, Scipion ne saurait être enfermé dans un seul tombeau, ni sa mémoire ancrée dans une seule terre 65. En rendant manifeste son impuissance à détacher une tradition cohérente du procès comme des funérailles du vainqueur d’Hannibal, Tite-Live dresse le portrait d’un homme d’État qui ne s’inscrit pas complètement dans la série des grands hommes et semble dépasser le cadre de la Rome républicaine. Il esquisse ainsi, en creux, une peinture de ces grands généraux dont les trajectoires personnelles vont déchirer la Rome de la fin de la République. Enfin, le nœud narratif peut ainsi également servir comme marqueur de conversation, modalisant le lien entre l’historien et le Polyb. 6,54,1 – 55,4. Levene 2010, 291. 65 Jaeger 1997, 107. 63 64
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public qui se forge au moment de la réception de l’œuvre. L’historien constitue d’abord un guide, qui oriente le public dans son cheminement. En témoignent les formules qui recourent à l’emploi de la deuxième personne du singulier, ou encore à l’usage de l’adjectif verbal avec des expressions telles que si illis… credere uelis ou illi auctores sequendi sunt. Il s’agit alors de guider l’historien à travers une tradition pléthorique, dans laquelle le public livien, qui n’est sans doute pas familier de tous les annalistes, se voit indiquer les meilleures sources par un historien soucieux de l’orienter au mieux. Cette relation entre l’historien et son lecteur est à rattacher aux transformations que connaît le monde de l’écriture à partir du ier siècle av. J.-C. à Rome, mises en lumière par Marie Ledentu dans son étude Studium scribendi. Recherches sur les statuts de l’écrivain et de l’écriture à Rome à la fin de la République 66, et dont témoigne une anecdote rapportée par Pline dans sa correspondance: Numquamne legisti, Gaditanum quendam Titi Liui nomine gloriaque commotum ad uisendum eum ab ultimo terrarum orbe uenisse, statimque ut uiderat abisse? Ἀφιλόκαλον illitteratum iners ac paene etiam turpe est, non putare tanti cognitionem qua nulla est iucundior, nulla pulchrior, nulla denique humanior 67. N’as-tu pas lu l’histoire de cet habitant de Gadès qui, impressionné par la renommée de Tite-Live et sa gloire, est venu du bout du monde pour le voir, et aussitôt après l’avoir vu est reparti? C’est une attitude indifférente à la beauté, illettrée, stupide, je dirais presque indigne, que de ne pas estimer à ce prix la rencontre la plus agréable, la plus belle, la plus humaine enfin qui soit.
Si un habitant des confins de l’orbis terrarum peut accomplir un long et pénible trajet dans le seul but de rencontrer Tite-Live et de l’écouter dans le cadre d’une recitatio 68, c’est que la figure de l’historien comme homme politique écrivant les hauts faits de Rome pendant son otium, ou au moment où il atteint sa retraite, cède désormais la place à celle de l’historien ne se consacrant qu’à son œuvre, et délaissant tout rôle politique majeur. L’histoire n’est plus l’apanage des sénateurs, qui peuvent désormais, suivant le même mouvement, se faire poètes; elle devient un domaine où briller par
Ledentu 2004. Plin., epist. 2,3,8. 68 Cadre suggéré par l’emploi du verbe uisere, qui renvoie à un spectacle, à une performance. Voir de Franchis 2012, 30. 66 67
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son éloquence et sa personnalité. Elle est en cela semblable à l’art oratoire 69, et Pline peut ainsi mêler le personnage de Tite-Live à celui d’un orateur attique comme Démosthène, ou encore à ceux de rhéteurs de la période impériale, comme le syrien Isée que Pline entend faire rencontrer au destinataire de la lettre citée plus haut, lorsqu’il est de passage à Rome 70. D’ailleurs, les nombreuses références que fait Sénèque l’Ancien à Tite-Live semblent indiquer que ce dernier était un familier des écoles de rhétorique 71. Plus encore, l’historien, comme le rhéteur, acquiert une célébrité qui lui permet de dépasser le cadre de communication traditionnel de la cité et de la prise de parole devant un auditoire choisi, pour développer un lien individuel, reposant sur une célébrité qui repose sur la diffusion du livre dans tout l’empire 72. Cette construction progressive d’une célébrité propre à l’historien et à son œuvre est dessinée dans l’Ab urbe condita: au fur et à mesure que l’œuvre s’élabore, la persona de l’historien-narrateur semble s’étoffer, jusqu’à prendre corps et s’autonomiser, comme s’il était laissé seul avec son œuvre, voire dans son œuvre elle-même. L’évolution est lisible à travers les préfaces qui introduisent les ensembles 21-30 et 31-45, ou encore celle qui ouvre une décade aujourd’hui perdue, et que mentionne Pline l’Ancien dans son Histoire naturelle. Alors que sont achevées les guerres italiennes et que commence le récit de la deuxième guerre punique puis des guerres de Macédoine, à un moment que Polybe identifie comme un tournant pour l’hégémonie romaine 73, l’instance narrative ne se contente plus de souligner son travail d’écriture et d’exposition des faits, voire d’en discuter le caractère certain 74, comme elle le faisait dans les préfaces précédentes, à travers un verbe conjugué à la première personne ou une tournure passive 75. Elle exprime désormais, au détour d’un développement qui l’entraîne dans les affaires des cités grecques, la fatigue
69 Sur la mise en avant d’un basculement dans l’art oratoire, du domaine politique à celui des écoles de rhétorique, voir Tac., dial. et Videau 2000. 70 de Franchis 2012, 27. 71 Sen., contr. 9,1,14; 2,26; 10 praef. 2; suas. 6,16-17; 21-22, cités par de Franchis 2012, 31. 72 Parker 2009, 186-229. 73 Polyb. 1,1,5-6. 74 Notamment en 6,1,1-3. 75 2,1,1 peragam; 6,1,1 exposui; 7,29,1 dicentur.
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et l’accablement devant la tâche gigantesque qui est à accomplir 76. La figure est un lieu commun oratoire 77; toutefois il ne s’agit pas là seulement d’une posture rhétorique destinée à rappeler la cohérence de son œuvre en justifiant le refus des excursus, ou à mettre en avant l’ampleur de l’ouvrage entrepris. Apparaît ici en effet un processus de déplacement, en même temps qu’un raccourci temporel qui nous projette de l’époque des conquêtes au temps de l’énonciation. Le poids de la gloire romaine et l’importance démesurée que prend la conquête semblent ici se transmettre, par l’entremise de l’œuvre, au corps de l’historien. Ce dernier parvient ainsi difficilement à suffire à l’écriture de l’ouvrage, de même que les forces romaines peinent désormais à soutenir le poids de l’empire constitué tout autour de la Méditerranée 78. C’est à la lueur de ce déplacement qu’il convient de comprendre l’image déployée par Tite-Live au début du livre 31. L’historien s’y représente en effet comme un homme qui avancerait dans la mer, en direction des bas-fonds: Iam prouideo animo, uelut qui proximis litori uadis inducti mare pedibus ingrediuntur, quidquid progredior, in uastiorem me altitudinem ac uelut profundum inuehi et crescere paene opus, quod prima quaeque perficiendo minui uidebatur 79. Je pressens déjà, comme les gens que les hauts-fonds voisins du rivage incitent à s’avancer à pied dans la mer, que chaque pas en avant me porte vers des profondeurs démesurées et comme vers des abîmes, tandis que s’accroît presque l’œuvre à accomplir, que l’achèvement des premières parties paraissait raccourcir à mesure.
Les commentateurs 80 y ont vu une variation sur la comparaison élaborée entre le travail d’écriture et un voyage en mer, commune chez les auteurs latins 81 et sans doute empruntée aux écoles de rhétorique 82. L’image est ainsi très souvent utilisée par Q uintilien dans l’Institution oratoire, par exemple dans l’avant-propos du livre 12: Marincola 1997, 148-158; Liv. 33,20,13 et 41,25,8. On la retrouve chez Q uint., inst. 12 prooem. 1 onus […] quanto me premi ferens sentio, ‘fardeau dont je me sens accablé’. 78 7,29,2, qui fait écho à la double image d’écroulement proposée par Liv., praef. 4. 79 31,1,5. 80 Briscoe 1973, 50-51. 81 De Saint-Denis 1935; Lieberg 1969, 209; Harrison 2007. 82 Sen., suas. 1,1 et 1,4. 76 77
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mox uelut aura sollicitante prouecti longius, dum tamen nota illa et plerisque artium scriptoribus tractata praecipimus, nec adhuc a litore procul uidebamur et multos circa uelut iisdem se uentis credere ausos habebamus: iam cum eloquendi rationem nouissime repertam paucissimisque temptatam ingressi sumus, rarus, qui tam procul a portu recessisset, reperiebatur; postquam uero nobis ille, quem instituebamus orator, a dicendi magistris dimissus, aut suo iam impetu fertur aut maiora sibi auxilia ex ipsis sapientiae penetralibus petit, quam in altum simus ablati, sentire coepimus. Nunc ‘caelum undique et undique pontus’ 83. Bientôt, sollicité, pour ainsi dire, par la brise, je me suis avancé plus au large, sans cesser toutefois d’exposer les préceptes bien connus et déjà traités par maints auteurs d’ouvrages techniques, et je ne me croyais pas encore loin du rivage, et je me voyais entouré d’un grand nombre de gens qui avaient osé, pour ainsi dire, se confier aux mêmes vents; puis, ayant abordé la théorie de l’art oratoire, découverte en dernier lieu et que très peu de personnes avaient explorée, on ne trouvait qu’un voyageur isolé, qui s’était aventuré si loin du port; mais pour moi, maintenant que l’orateur que je voulais former est renvoyé par ses maîtres d’éloquence ou bien est désormais porté par son propre élan ou bien va chercher une aide plus grande pour lui dans le sanctuaire même de la sagesse, je commence à sentir combien je me suis laissé emporter au loin en haute mer. Maintenant, ‘de tous côtés, c’est le ciel, et, de tous côtés, la mer’.
Toutefois Tite-Live ne représente pas ici un navigateur dont le navire s’est laissé entraîner en pleine mer, mais bien un homme à pied, s’enfonçant vers les abîmes. Il est moins, à notre avis, un navigateur emporté par les flots qu’un promeneur attiré par la profondeur infinie des bas-fonds qu’il peut discerner depuis le rivage. Davantage qu’un promeneur, il semble même l’égal d’un héros qui s’aventurerait dans un espace inconnu et grandiose. Le passage est en effet imprégné d’une tonalité épique construite par le contraste des lignes horizontale – avec l’avancée signifiée par le verbe progredior – et verticale – avec les termes altitudo et profundum. L’historien semble ici, au moment de l’achèvement de la troisième décade, célébrer sa propre victoire, et se représenter, dans son récit, à l’image d’un des chefs glorieux dont il rapporte les actions. L’affrontement épique avec la nature qui peut caractériser le geste d’un général comme Hannibal 84 a ici l’historien lui-même comme protagoniste. 83 Q uint., inst. 12, prooem. 1,2-4. La métaphore du navire est également mobilisée en 6,1,52; 10,7,23; 12,10,37 et 11,5. 84 26,45,9.
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La transposition est complète: les conquêtes pesantes de Rome ont chargé l’œuvre, alors que l’instance narrative devient l’héroïne d’une épopée, dans le cadre de ces paysages marins qui constituent, à partir du ier siècle av. J.-C., un cadre privilégié de la création littéraire 85. Le registre épique reflète également un changement de ton qui transparaît ailleurs. L’historien a abandonné la modestie rhétorique de la préface du livre 1 86 et laisse maintenant libre cours à une exaltation certaine, lorsqu’il se place par exemple, dans la préface du livre 21, comme supérieur aux plus grands historiens et, notamment, à Thucydide: In parte operis mei licet mihi praefari, quod in principio summae totius professi plerique sunt rerum scriptores, bellum maxime omnium memorabile quae unquam gesta sint me scripturum, quod Hannibale duce Carthaginienses cum populo Romano gessere 87. Il m’est permis de faire précéder cette partie de mon ouvrage de la déclaration que la plupart des historiens ont faite au début de l’ensemble de leur œuvre, à que je vais relater la guerre de beaucoup la plus mémorable de celles qui ont jamais été menées, celle que, sous le commandement d’Hannibal, les Carthaginois ont menée contre le peuple romain.
L’œuvre qu’il rapporte augmente, par son ampleur 88, une nouvelle fois, par un déplacement, sa propre renommée. L’historien a acquis à travers l’écriture une gloire telle qu’il peut désormais ne plus dialoguer qu’avec son œuvre, sans même se soucier de son public: Equidem … profiteor mirari me T. Liuium, auctorem celeberrimum, in historiarum suarum, quas repetit ab origine urbis, quodam uolumine sic orsum: iam sibi satis gloriae quaesitum, et potuisse se desidere, ni animus inquies pasceretur opere 89. Pour ma part, j’avoue m’étonner de ce que Tite-Live, un auteur si célèbre, commence un livre de son Histoire, qu’il fait remonter à la fondation de Rome, en disant qu’ ‘il avait acquis désormais une gloire suffisante et qu’il aurait pu s’arrêter, si son esprit, incapable de se reposer, ne se nourrissait de son propre travail’. 85 Voir Cic., ac. 1; de orat. 2,2; Foucher 1955, 37-40; De Giorgio 2017. Pour une étude du concept de ‘villa maritime’, Lafon 2001. 86 Praef. 2. 87 21,1,1. L’allusion renvoie de toute évidence à Thuc. 1,1. Voir Simon-Mahé 2010, 85. 88 Thème également topique dans l’historiographie. Voir Marincola 1997, 34-43. 89 Plin., nat. praef. 16.
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Dans ce cadre, le nœud narratif témoigne sans doute de la maîtrise de l’auteur, capable d’affronter la complexité d’une tradition multiple qui a dérouté plus d’un de ses prédécesseurs. Il s’agit alors pour l’historien, non pas seulement d’affirmer sa supériorité au sein du processus d’imitatio, comme le suggère Marincola 90, mais de montrer toutes les facettes de sa capacité à retranscrire une tradition complexe. Le nœud narratif se fait alors reflet de la virtuosité de l’écriture et de son auteur 91. Si elles nous permettent de préciser les modalités d’apparition de la figure de l’historien dans son récit, à la fin du ier siècle av. J.-C., les manifestations auctoriales et les nœuds narratifs nous renseignent aussi sur les liens qu’entretient l’écriture du récit historique avec la vérité. Dans ces passages, Tite-Live semble bien respecter les ‘lois de l’histoire’ telles qu’elles sont définies par Cicéron dans le De oratore: Nam quis nescit primam esse historiae legem, ne quid falsi dicere audeat? Deinde ne quid ueri non audeat? Ne quae suspicio gratiae sit in scribendo? Ne quae simultatis? Haec scilicet fundamenta nota sunt omnibus 92. Q ui ne sait que la première loi du genre est de ne rien oser dire de faux? la seconde, d’oser dire tout ce qui est vrai? d’éviter, en écrivant, jusqu’au moindre soupçon de faveur ou de haine? Oui, voilà les fondements de l’histoire, et il n’est personne qui les ignore.
Les manifestations auctoriales le montrent travaillant à ‘ne rien dire de faux’. Il ne se prive d’ailleurs pas, lui qui n’appartient pas au monde sénatorial, de s’élever contre la réécriture de l’histoire par les grandes familles, ou par les historiens eux-mêmes. Les nœuds narratifs, plus précisément, mettent en évidence son refus de privilégier un type de source en particulier, dans sa recherche de la vérité. Il lui arrive de compléter l’opinion commune, à l’aide des annalistes, par exemple, mais il peut aussi, lorsque ces derniers se contredisent, de recourir à la fama, aux archives des gentes ou aux Vies, s’intéressant tout particulièrement aux anecdotes qu’elles Marincola, ibid. Taine 1856, 47 affirme que «l’historien de Rome n’a pas d’histoire». Il semble toutefois qu’il en ait bien une, celle qu’il se forge lui-même, dans son œuvre. 92 Cic., de orat. 2,62-63. 90 91
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véhiculent sur la vie des grands hommes 93. À la lumière de ces passages, il faut peut-être lire les paragraphes sur le statut de tribun ou de consul qui était celui de Cossus lorsqu’il dépose les dépouilles du chef ennemi vaincu dans le temple de Jupiter Férétrien 94, au livre 4, moins comme une retouche prudente, voire un repentir visant à adapter son récit à la vulgate augustéenne, dans un contexte où Auguste cherche à monopoliser le prestige associé aux dépouilles opimes 95, que comme la reconnaissance et l’insertion dans son récit, dès la première édition du livre, d’un type de source particulier, le témoignage du princeps, que son statut autorise à se rendre dans ce temple et à y repérer l’inscription archaïque portant la mention A. COSSVS COS. À cette nécessité d’embrasser une large tradition qui dépasse l’annalistique s’ajoute celle d’écrire une histoire convaincante, c’est-à-dire relevant des critères de la rhétorique 96. Dans l’art oratoire, comme dans l’historiographie, comme le rappelle Cicéron dans le De oratore, il convient de présenter un temps et un lieu bien définis: Ipsa autem exaedificatio posita est in rebus et uerbis. Rerum ratio ordinem temporum desiderat, regionum descriptionem 97. S’agit-il ensuite d’élever l’édifice? Tout repose sur les faits et sur l’art de les exprimer. Les faits exigent qu’on suive l’ordre exact des temps, qu’on décrive les lieux.
C’est pourquoi, à notre avis, les nœuds narratifs semblent souvent se focaliser autour de l’identification du lieu ou de l’année d’une magistrature, qui fournisse une date certaine. Pour construire au mieux son discours, l’historien cherche à établir l’ ‘ordre exact des temps, les lieux’. Il y a d’autant plus intérêt que l’espace, dans l’Antiquité, est conçu comme le support idéal de l’apprentissage mémoriel, suivant un procédé dont Cicéron rattache l’invention à Simonide de Céos: Hac tum re admonitus inuenisse fertur ordinem esse maxime qui memoriae lumen adferret. Itaque iis, qui hanc partem ingeni exercerent, locos esse capiendos et ea, quae memoria tenere uellent, effingenda animo Alors que l’historien, en général, ne semble guère s’y intéresser. Voir Jal 1990. 4,20,5-11. 95 Tarpin 2003. 96 Cic., leg. 1,2,5; de orat. 2,62. 97 Cic., de orat. 2,63. 93 94
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atque in iis locis collocanda; sic fore, ut ordinem rerum locorum ordo conseruaret, res autem ipsas rerum effigies notaret atque ut locis pro cera, simulacris pro litteris uteremur 98. Instruit par cet événement, il s’aperçut que l’ordre est ce qui peut le mieux guider et éclairer la mémoire. Aussi, pour exercer cette faculté du cerveau, doit-on, selon le conseil de Simonide, choisir en pensée des emplacements distincts, se former les images des choses que l’on veut retenir, puis ranger ces images dans les divers emplacements. Alors l’ordre des lieux conserve l’ordre des choses; les images rappellent les choses elles-mêmes. Les lieux sont des tablettes de cire sur lesquelles on écrit; les images sont les lettres qu’on y trace.
L’histoire n’est pas seulement, toutefois, un travail d’orateur; Q uintilien souligne combien l’écriture historique est parfois proche de la poésie: Est enim [historia] proxima poetis, et quodam modo carmen solutum est, et scribitur ad narrandum, non ad probandum, totumque opus non ad actum rei pugnamque praesentem, sed ad memoriam posteritatis et ingenii famam componitur; ideoque et uerbis remotioribus et liberioribus figuris narrandi taedium euitat 99. En effet, très proche de la poésie, [l’histoire] est en une certaine mesure un poème libéré [des exigences métriques], et elle est écrite en vue de raconter, non de prouver, et, du commencement à la fin, elle n’est pas composée pour produire un effet réel ou livrer un combat immédiat, mais pour rappeler les faits à la mémoire de la postérité et conquérir la renommée pour l’écrivain; aussi, pour éviter l’ennui du récit, emploie-t-elle des mots un peu éloignés de l’usage et des figures plus libres.
La virtuosité livienne est-elle une des facettes de la lactea urbertas 100, dont le rhéteur fait reproche à Tite-Live? Ce dernier semble en effet parfois dialoguer avec le genre poétique 101. Son refus des ‘traditions embellies par des légendes poétiques’ côtoie la reprise d’un hexamètre d’Ennius, en ouverture de sa préface, ou, à sa clôture, une invocation à la Muse 102. De même, les nœuds narratifs semblent jouer, parfois, sur des inscriptions génériques différentes. Ainsi, le récit de la mort de Gracchus est l’occasion de proposer trois ver Cic., de orat. 2, 253-354. Q uint., inst. 10,1,31. 100 Q uint., inst. 10,1,32. 101 Sur la reprise de structures poétiques, voir Vasaly 2002. 102 Praef. 1 et 6; voir Salamon 2009. 98 99
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sions, mobilisant différents registres. La première version, qui choisit l’embuscade, dessine un espace tactique, où un vallon creux, fermé par des bois et des collines, constitue un piège pour le général. À l’inverse, dans la deuxième version, les saules, ainsi que les rochers roulés par le fleuve, dessinent un paysage agréable, cadre propre au repos, mais trompeur. Le cadre n’est pas sans évoquer la poésie bucolique, ou du moins le pittoresque romanesque qui joue avec les codes de cette dernière 103. La troisième version laisse libre cours à l’imagination du lecteur, ne proposant aucun élément descriptif qui permette de se représenter un espace. La seule mention d’un espace sacré, endroit pur, locus purus, dans lequel le général entend conjurer des prodiges, renvoie davantage au genre tragique. L’ironie tragique est bien présente, d’ailleurs, puisque c’est en voulant conjurer le malheur à venir que Gracchus trouve la mort dans un guet-apens. Le ‘nœud narratif’ constitué ici par Tite-Live est l’occasion pour l’historien de déployer sa palette stylistique et de faire résonner histoire et poésie. Au livre 29, la mention d’une version différente de la traversée de Scipion en Afrique, trouvée chez Coelius, est de même l’occasion d’évoquer des terreurs maritimes et célestes que la tradition rattache aux grandes expéditions: Prosperam nauigationem sine terrore ac tumultu fuisse permultis Graecis Latinisque auctoribus credidi. Coelius unus, praeterquam quod non mersas fluctibus naues ceteros omnes caelestes maritimosque terrores, postremo abreptam tempestate ab Africa classem ad insulam Aegimurum, inde aegre correctum cursum exponit et prope obrutis nauibus, iniussu imperatoris scaphis, haud secus quam naufragos, milites sine armis cum ingenti tumultu in terram euasisse 104. Sur la foi de très nombreux historiens latins et grecs, j’ai dit que la traversée s’était bien passée et qu’il n’y eut ni peur ni désordre. Coelius est le seul à prétendre que rien ne fut épargné à la flotte, si ce n’est qu’elle ne coula pas par le fond; d’après lui, elle connut toutes les terreurs du ciel et de la mer et la tempête finit par l’éloigner de la côte jusqu’à l’île d’Égimure; après avoir fait le point, la flotte reprit non sans mal la bonne direction mais, comme les navires faisaient eau, les soldats gagnèrent la terre en barques, sans attendre les consignes du général, et débarquèrent sans armes et en grand désordre comme s’ils avaient subi un naufrage ou presque.
Trinquier 1999. 29,27,13-14.
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La critique s’est interrogée sur cette allusion à une version de Coélius qui semble contredite par un fragment de cet auteur, qui a été conservé 105 et qui évoque une traversée tranquille 106. S’agit-il là d’une confusion du Padouan? Nous pouvons avancer une autre hypothèse: Tite-Live ajoute ici, après un récit classique de traversée, une autre version, qu’il ne partage pas mais qu’il choisit de nous faire entendre. Pourquoi fait-il ce choix? Il semble que l’historien padouan ait voulu intégrer dans son récit la mention de la tradition historiographique épique, dans le cadre d’une guerre qui, depuis Naevius, a été un objet de l’écriture poétique. Tite-Live affirme ainsi sa virtuosité, et sa capacité à déployer tous les registres pour mieux frapper – ou charmer son public – et inscrire son récit dans la mémoire collective. Pour peu qu’on porte son attention sur les manifestations auctoriales présentes dans l’Ab urbe condita et, en particulier, sur ces passages qui les concentrent et que nous avons appelés ‘nœuds narratifs’, on verra donc s’esquisser la figure d’un historien au travail, mentionnant ses recherches, justifiant le tri qu’il opère dans les sources par l’ajout de commentaires ou de leçons. Se dessine alors une présentation de la méthode de travail de Tite-Live, de ses choix, de sa personne elle-même, mais aussi de son regard sur les faits historiques et sur leur inscription dans la mémoire collective. Les ‘nœuds narratifs’ sont pour le Padouan un moyen de structurer son récit, de composer son recueil, mettant l’accent sur certains épisodes, et de mettre en œuvre les préceptes d’une histoire opus oratorium maxime. Ils sont également l’occasion de faire étalage d’une virtuosité narrative qui conduit l’historien à façonner l’événement suivant différents registres. Si l’aspect narratif est donc bien central dans l’histoire livienne, notre étude souligne en quoi cette dernière se différencie de la fiction. Même dans la Rome ancienne, l’histoire ne se pense pas comme littérature, mais plutôt comme un entre deux, à mi-chemin entre la rhétorique et la poésie, conciliant exigence de sincérité et de recherche des versions les plus fiables et nécessité, parfois, quand la grandeur du sujet l’exige, d’une confrontation à d’autres types de sources, voire de genres, afin de s’acquitter au mieux de sa tâche de magistra uitae. FRHist 15F38. François 1994, 138 note 6.
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M. MIQUEL
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VIRGINIA FABRIZI
LA GUERRA NEL FORO ANALISI E IMPLICAZIONI DI UN RICORRENTE TEMA LIVIANO
1. Introduzione La storia romana raccontata negli Ab urbe condita libri si sviluppa attorno a una distinzione fondamentale, che è allo stesso tempo geografica, narrativa e ideale: quella fra eventi domi e militiae, cioè tra avvenimenti (politici) all’interno della città e avvenimenti (militari) al suo esterno. Come recentemente sottolineato da Dennis Pausch 1, proprio la struttura annalistica dell’opera liviana, con la sua alternanza di eventi interni ed esterni e con il costante ritorno della narrazione a Roma all’inizio e alla fine di ogni anno consolare, fa di Roma il centro indiscusso del mondo, al quale gli spazi periferici della guerra sono gerarchicamente subordinati. Gli Ab urbe condita, dunque, sono allo stesso tempo un racconto di eventi storici e una rappresentazione del mondo, immaginato come uno spazio di conquista che si allarga a cerchi concentrici a partire da Roma. In questo contributo, voglio concentrarmi su uno dei due poli di questa mappa mentale del mondo, ovvero sullo spazio interno e cittadino di Roma, in particolare sul Foro Romano. È ben noto come quest’ultimo costituisca una delle ambientazioni più frequenti e più simbolicamente connotate negli Ab urbe condita. Nel Foro si tengono assemblee e discorsi al popolo, vengono discussi e dibattuti gli avvenimenti principali riguardanti la vita della città, si svolgono processi e si fa campagna elettorale. La Curia, che sul Foro si affaccia, è la sede della maggior parte dei dibattiti del Senato e, soprattutto nella Q uarta e nella Q uinta Decade, delle 1 Vd. Pausch 2011, 129-136. Sull’uso liviano della struttura annalistica cf. anche Rich 2011.
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 249-274 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125330
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ambascerie inviate da numerosi popoli e città stranieri. Il Foro è, insomma, lo spazio per eccellenza della comunicazione politica; in quanto tale, esso costituisce, insieme al Campidoglio, che di Roma è il cuore religioso e ideale, il vero e proprio ‘centro del centro’ del mondo narrato 2. Il mio obiettivo è quello di porre in luce un motivo ricorrente nella rappresentazione del Foro, che mette in discussione e problematizza proprio la fondamentale distinzione tra spazio della città e spazio esterno alla città: il motivo della guerra nel Foro. Come spero di dimostrare, il testo dipinge più volte il Foro come un vero e proprio campo di battaglia, a volte in senso letterale, a volte attraverso l’uso di metafore e lessico propri dell’ambito militare. La mia analisi si concentrerà in particolare sulla Prima Pentade, in cui l’immagine del Foro come luogo di conflitto armato è particolarmente ricorrente; essa sembra anzi, in un certo senso, scandire le fasi di quel primo ciclo della storia di Roma che, come studi recenti hanno mostrato, della Pentade costituisce l’oggetto 3. Il motivo, tuttavia, è rintracciabile anche nelle sezioni successive del l’opera liviana; la presente indagine, dunque, dev’essere intesa solo come un primo passo, o come uno stimolo per riflessioni più approfondite. Spero che essa contribuirà alla comprensione di alcune caratteristiche fondamentali della storia romana, così come rappresentata da Livio, e delle sue intime contraddizioni.
2. La nascita del Foro: la battaglia contro i Sabini Il Foro, com’è ben noto, compare per la prima volta negli Ab urbe condita non come luogo della comunicazione politica, bensì come campo di battaglia. È lì, infatti, che, in Liv. 1,12-13, ha luogo lo scontro armato tra i primi abitanti di Roma e i Sabini, giunti a vendicare il rapimento delle loro fanciulle. La storia, ambientata nei primi anni del regno di Romolo, è estremamente celebre e il trattamento operatone da Livio è stato oggetto di importanti indagini critiche, che hanno sottolineato il Per il complesso di Foro e Campidoglio come centro del mondo romano cf. Jaeger 1997, 10. 3 Per la ciclicità della storia liviana e la prima pentade come primo ciclo della storia di Roma (dalla sua nascita alla sua morte e rifondazione in seguito al sacco gallico del 389 a.C.) vd. soprattutto Miles 1995, 75-136; Mineo 2006. 2
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ruolo rivestito dalla topografia del Foro quale elemento strutturale del racconto. Anni orsono, Mary Jaeger rivolse l’attenzione sul modo in cui il testo usa lo spazio formato dai due colli Campidoglio e Palatino e dalla valle fra essi compresa (il futuro Foro romano) per rappresentare i due popoli in guerra come due metà di un organismo unico, e il loro scontro come una guerra civile 4. L’analisi di Jaeger privilegia una visione schematica dello spazio della battaglia, tutta basata sulla simmetria fra i due colli e due gruppi di combattenti, trascurando il diretto collegamento fra lo spazio raccontato e il Foro dell’epoca di Livio, su cui il testo sembra invece insistere 5. Proprio su questo aspetto hanno, invece, richiamato l’attenzione indagini più recenti. Diana Spencer ha sottolineato, per esempio, la varietà di risonanze che il racconto liviano poteva esercitare nel contesto della Roma della prima età augustea 6. Dennis Pausch ha definito la narrazione liviana della battaglia come una sorta di un ‘super-aition’, ovvero un racconto comprendente in un’unica serie di eventi gli aitia di diversi siti dal profondo valore simbolico; tale tecnica narrativa, che rifletterebbe un più generale interesse liviano nei confronti delle origini di elementi della storia culturale e politica di Roma, potrebbe essere stata ispirata, secondo Pausch, dalla storiografia greca, in particolare dagli scritti di alcuni Attidografi 7. Jaeger 1997, 30-56. Cf. per es. Jaeger 1997, 33: «Thus whether or not the reader knows the precise topographical details of the Roman Forum is not as important as that he or she knows that it is a low-lying area between two hills, and that there is a historical temple to Jupiter Stator and a Lacus Curtius. The reader who knows this much can follow Livy’s argument aptly». Se questo è vero per un lettore moderno, la percezione di un lettore romano antico, che del Foro avesse esperienza diretta e quotidiana, doveva essere molto diversa. Nella mente di tale lettore gli avvenimenti localizzati in una certa zona del Foro dovevano essere inscindibilmente associati all’aspetto che quella zona aveva nel presente, oltre che a tutta una serie di avvenimenti del più recente passato che nel Foro avevano avuto luogo. Sul Foro come aggregato di memorie del passato cf. ad es. Hölscher 2006 (sulla battaglia tra Romani e Sabini in particolare 103-105). 6 Spencer 2007, soprattutto 68-84. 7 Pausch 2018, 279: «The purpose of Livy’s specific way of narrating the events related to this ‘pre-historic’ battle is apparently to describe the alleged origins of as many monuments as possible within one and the same narration, thus creating a kind of super-aition that is able to assemble and to embrace half a dozen smaller foundation stories. The narrative structure, therefore, in a way closely corresponds to its content, since the Sabine-Roman synoecism likewise acts as a ‘super-explanation’ for a number of presumably separated cultural and historical phenomena». Più in generale sulla funzione dell’eziologia nel libro 1 degli Ab urbe condita, cf. Pausch 2008 (con un esame della battaglia tra Romani e Sabini, 52-58). 4 5
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L’analisi che segue sarà fortemente debitrice di tali osservazioni; essa non avrà l’obiettivo di sviluppare una nuova interpretazione del testo, bensì quello di mostrare come la caratterizzazione del Foro che emerge dal testo stesso si ponga quale punto di partenza di un tema che percorre, in modi e in forme diverse, tutta la prima pentade. Secondo il racconto di Livio, i Sabini, guidati dal loro re Tito Tazio, riuscirono a impadronirsi nottetempo del Campidoglio (1,11,6-9). La mattina seguente i Romani, il cui insediamento a quell’epoca era concentrato per la maggior parte sul Palatino, schierarono le loro forze ‘nella pianura che si estende tra i colli Palatino e Campidoglio’ (1,12,1 quod inter Palatinum Capitolinumque collem campi est) e si lanciarono immediatamente all’attacco; così iniziò la battaglia, la cui prima fase si sarebbe svolta sulle pendici del Campidoglio 8. Si noti come, nella prima menzione di quello che sarebbe poi divenuto il Foro Romano, il nome ‘Foro’ non sia affatto esplicitato: coerentemente con l’aspetto che l’area doveva avere al tempo degli eventi raccontati, si parla solo di una distesa di terreno pianeggiante compresa fra i due colli. Eppure, attraverso l’uso del tempo presente (est), il testo invita i lettori a riconoscere nella pianura di epoca romulea il Foro che essi potevano conoscere per esperienza diretta 9. Man mano che la narrazione va avanti, però, il Foro in quanto Foro diventa sempre più riconoscibile. Q uando l’eroe romano Ostio Ostilio cade combattendo, lo scompiglio si diffonde nell’eser cito romano, che viene inseguito dai Sabini fino ‘all’antica porta del Palatino’ (ad veterem portam Palati), ovvero fino alla Porta Mugonia sulla pendice settentrionale del colle (12,2-3) 10. Abbiamo qui la prima menzione esplicita di un punto di riferimento topografico ancora esistente all’epoca di Livio. Nel momento più cri8 Cf. iniquo loco, Liv. 1,12,2 (si intende il fatto che i Romani combattono da una posizione inferiore rispetto ai Sabini, che sono più in alto sulle pendici del colle); e Pausch 2018, 280. 9 Cf. Pausch 2018, 279-280: «[…] this way of narrating the story […] elicits a vivid picture in the mind of the reader by creating the impression that this ‘prehistoric’ action really takes place between the contemporary localities of the Forum and thus enables Livy to bring past history back to life by connecting the material and topographical memory with a moving description». 10 Sulla Porta Mugonia cf. Coarelli 1986, 26-33. I movimenti dei due schieramenti durante le varie fasi della battaglia sembrano avvenire lungo l’asse della Via Sacra (cf. Coarelli 1986, 26; Pausch 2018, 281).
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tico per il suo esercito, Romolo promette in voto la costruzione di un tempio a Giove Statore (Iuppiter Stator, cioè Giove ‘che fa rimanere saldi’, o ‘che arresta’ la fuga) 11, se il dio infonderà nuovo coraggio ai Romani 12; i soldati, rassicurati dall’idea della protezione divina, si volgono nuovamente contro i nemici (1,12,3-7). Con il tempio di Giove Statore entra in scena un ulteriore elemento topografico, localizzabile nelle vicinanze del Foro, che doveva essere ben noto ai lettori di Livio 13. Il voto di Romolo cambia nuovamente la direzione della battaglia; ora sono i Sabini a essere costretti alla ritirata. A questo punto è introdotto un nuovo aition, il primo riguardante un monumento appartenente al Foro vero e proprio, quello, cioè, del Lacus Curtius. Sotto questo nome era conosciuta, all’epoca di Livio, una struttura cultuale collocata nella parte centrale del Foro e comprendente una pavimentazione di travertino, un puteal (pozzo) e tre cippi. 11 Stator appare legato etimologicamente a sto, -are; Ernout – Meillet 19944 lo confrontano con altre epiclesi cultuali come Stata Mater, Stata Fortuna ecc., che avrebbero tutte il senso di ‘che sta immobile, fissato’. Nei testi antichi si trovano due diverse interpretazioni per questo epiteto: una lo collegava all’azione di Giove consistente nel far sì che la fuga di un esercito ‘si fermasse’ (stare: cf. Aug., civ. 3,13, p. 112,13 Dombart – Kalb); l’altra lo interpretava come analogo a stabilitor, ‘colui che stabilisce, rende saldo’ (cf. Sen., ben. 4,7,1; Aug., civ. 7,11, p. 288, 1-14). 12 In realtà, come Livio stesso spiega in 10,37,15, il tempio vero e proprio non sarebbe stato edificato da Romolo, il quale si sarebbe limitato a consacrare un fanum, cioè (a quanto sembra) un luogo stabilito per la futura costruzione del tempio stesso. L’edificio sarebbe stato eretto solo nel 294 a.C. ad opera del console M. Atilio Regolo, che avrebbe formulato un voto analogo a quello di Romolo durante una battaglia contro i Sanniti (su questa notizia vd. Oakley 1997-2005, IV 378 ad loc.). Sul tempio e la sua localizzazione vd. Coarelli 1986, 26-33; 1996; Freyberger 2009, 24-27. 13 Nel tempio si era tenuta, per esempio, la riunione del Senato in cui Cicerone, nel 63 a.C., aveva pronunciato la sua Prima Catilinaria (cf. Cic., Cat. 1,5,11; 1,13,33; 2,6,12; Plut., Cic. 16,3). Il testo dell’orazione fa più volte riferimento alla protezione accordata al popolo romano da Giove, il quale, nella sua funzione di Stator, conserva la res publica al riparo dai pericoli e ne assicura la stabilità (cf. Cic., Cat. 1,5,11; 1,13,33). Cicerone sembra qui giocare sulle due possibili interpretazioni dell’epiteto Stator (cf. sopra, n. 11), suggerendo, accanto al significato di ‘Colui che ferma’, quello di ‘Stabilizzatore’. Sull’uso, da parte di Cicerone, del tempio e della leggenda romulea come supporto alla sua strategia retorica nella Catilinarie, cf. Vasaly 1993, 41-59; Ver Eecke 2008, 247-256. Il tempio di Giove Statore svolge un ruolo anche nell’ambito delle cerimonie in onore di Giunone Regina decretate nel 207 a.C. nell’imminenza dell’arrivo di Asdrubale in Italia (Liv. 27,37,11-15). Come rilevato da Spencer 2007, 75-84, la menzione del tempo di Giove Statore nel racconto di Livio avrà rimandato automaticamente i lettori romani contemporanei non solo all’edificio presso la Porta Mugonia, ma anche all’altro tempio dedicato alla medesima divinità nel Campo Marzio nel II sec. a.C. Q uest’ultimo fu restaurato da Augusto qualche anno dopo la probabile pubblicazione della Prima Pentade, verso la metà degli anni 20 a.C.
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La denominazione di lacus e il racconto del libro 1 degli Ab urbe condita suggeriscono la presenza originaria di terreno paludoso, ma in epoca tardo-repubblicana e augustea l’area era asciutta 14. Ecco come Liv. 1,12,8-10 descrive l’origine del sito: Mettius Curtius ab Sabinis princeps ab arce decucurrerat et effusos egerat Romanos toto quantum foro spatium est. Nec procul iam a porta Palati erat, clamitans: ‘Vicimus perfidos hospites, imbelles hostes; iam sciunt longe aliud esse virgines rapere, aliud pugnare cum viris’. (9) In eum haec gloriantem cum globo ferocissimorum iuvenum Romulus impetum facit. Ex equo tum forte Mettius pugnabat; eo pelli facilius fuit. Pulsum Romani persequuntur; et alia Romana acies, audacia regis accensa, fundit Sabinos. (10) Mettius in paludem sese strepitu sequentium trepidante equo coniecit; averteratque ea res etiam Sabinos tanti periculo viri. Et ille quidem adnuentibus ac vocantibus suis favore multorum addito animo evadit: Romani Sabinique in media convalle duorum montium redintegrant proelium; sed res Romana erat superior. Mettio Curzio era corso giù, per primo dalla parte dei Sabini, dalla rocca e aveva inseguito i Romani, sparpagliati qua e là, per tutto lo spazio che è occupato dal Foro. E ormai non era lontano dalla Porta del Palatino e andava gridando: ‘Abbiamo sconfitto gli ospiti sleali, nemici imbelli; ormai sanno che una cosa è rapire delle fanciulle e ben altra è combattere contro degli uomini’. (9) Mentre così si vantava, Romolo lo aggredì con uno squadrone di valorosissimi giovani. Si dava il caso che Mettio combattesse da cavallo; tanto più facile fu ricacciarlo indietro. I Romani, dopo averlo respinto, lo inseguirono; anche l’altra schiera romana, incitata dall’audacia del re, volse in fuga i Sabini. (10) Mettio, poiché il suo cavallo era terrorizzato dallo strepito di coloro che lo inseguivano, si gettò in una palude; quel fatto, per via del pericolo corso da un così forte guerriero, aveva distolto anche l’attenzione dei Sabini. Q uello, dunque, mentre i suoi gli rivolgevano cenni e grida di incoraggiamento, prese coraggio grazie al favore di molti e riuscì a sfuggire; i Romani e i Sabini rinnovarono il combattimento nel mezzo dell’avvallamento tra i due colli; ma i Romani avevano la meglio 15.
Il sostantivo forum, che appare qui per la prima volta negli Ab urbe condita, è inserito in un commento teso ad ancorare gli avvenimenti del lontano passato allo spazio urbano del presente: Mettio 14 Sulla storia del Lacus Curtius e le testimonianze archeologiche ad esso relative vd. Platner Ashby 1929, 310-311; Giuliani 1996; Freyberger 2009, 18-22; Kames 2018. L’esame dei resti archeologici ha rivelato quattro fasi successive dello sviluppo del santuario. Al tempo della composizione della prima pentade degli Ab urbe condita, esso doveva essere nella sua seconda fase, risalente all’epoca sillana. Augusto avrebbe poi operato ulteriori modifiche tra il 12 e il 9 a.C. 15 La traduzione dei testi latini è mia.
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aveva inseguito i Romani, scrive Livio, ‘per tutto lo spazio che (ora) è occupato dal Foro’ (§ 8). Non appare un caso che il Foro sia identificato per la prima volta con il suo nome a questo punto della narrazione: è proprio con la fuga dei Romani, e con l’arrestarsi di tale fuga presso la Porta Mugonia e il tempio di Giove Statore, che lo spazio del Foro risulta chiaramente delimitato. In altre parole, è proprio grazie al combattimento tra le due forze contrapposte che il lettore vede, per così dire, la pianura tra i due colli trasformarsi nel Foro Romano. Tale trasformazione è sancita dall’aition del Lacus Curtius, che per il momento rimane implicito, ma sarà ricordato esplicitamente al termine del racconto, in Liv. 1,13,5: Monumentum eius pugnae, ubi primum ex profunda emersus palude equus Curtium in vado statuit, Curtium lacum appellarunt. In ricordo di quella battaglia chiamarono Lacus Curtius il luogo in cui il cavallo, emerso dal profondo della palude, portò Curzio in un punto dove l’acqua era bassa.
Con l’individuazione di questo monumentum, che costituisce la prima menzione esplicita, all’interno del racconto liviano, di un elemento topografico appartenente al Foro vero e proprio, inizia la storia del Foro come spazio umanizzato e politico. La fuga di Mettio Curzio è seguita dal vero e proprio culmine dell’intero episodio, ovvero dall’intervento delle Sabine, che si lanciano in mezzo alle schiere contrapposte dei rispettivi padri e mariti, scongiurandoli di mettere fine alla guerra (1,13,1-3). I combattenti, toccati dalle preghiere delle donne, decidono di porre termine alla lotta: la pace ritrovata è coronata da un patto, il quale sancisce che i due popoli si fondano in uno, che i Sabini si trasferiscano a Roma e che Romolo e Tito Tazio regnino insieme (1,13,4-5) 16. Il Foro emerge da tale complesso racconto come uno spazio caratterizzato da una sostanziale ambiguità. Da un lato, esso è un 16 Livio non specifica dove l’intervento delle Sabine e la conseguente riconciliazione fra i due sovrani avrebbe avuto luogo; buona parte dei lettori di Livio, però, sarà stata probabilmente a conoscenza di tradizioni che collocavano il patto tra Romolo e Tito Tazio nel Comizio (cf. Plut., Rom. 19,10; Dion. Cass. 1,5,5 Melber; Fest. p. 372 L parla della Via Sacra). Plin., nat. 5,119-120 ci tramanda anche una notizia secondo cui, dopo essersi combattuti e aver deposto le armi, Romani e Sabini si sarebbero purificati nel luogo in cui successivamente sarebbe sorto il sacello di Venere Cloa cina (su cui cf. Coarelli 1986, 83-89; Steinmann – Nawracala – Boss 2011, 80-81).
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campo di battaglia, uno spazio conteso tra i due schieramenti dei Romani e dei Sabini 17; e il fatto che il cuore di quello spazio cittadino che gli Ab urbe condita contrappongono costantemente allo spazio militare esterno si formi narrativamente attraverso una battaglia può apparire paradossale. Dall’altro lato, però, il Foro si caratterizza anche e soprattutto come uno spazio di incontro, nel quale elementi diversi arrivano alla fine a fondersi in un’unica comunità 18.
3. La guerra nel Foro e la lotta degli ordini Nella prima pentade e in parte della seconda, il Foro è lo scenario per eccellenza delle vicende riconducibili alle lotte tra patrizi e plebei, che costituiscono uno dei fili conduttori della storia romana dei secoli V e IV a.C. 19. Con la sua fondamentale bipartizione tra il Comizio, sede delle assemblee del popolo (o più in generale lo spazio aperto centrale, in cui la gente si incontra e discute), e la Curia, sede del Senato, il Foro di Livio si presenta spesso come incarnazione e specchio dei rapporti sociali esistenti all’interno della comunità dei cittadini 20. Allo stesso tempo, però, sul Foro e sugli eventi che vi hanno luogo sono proiettati, in più di un caso, caratteri diversi da quelli di un luogo di discussione politica. Q uando, per esempio, in Liv. 2,55, i plebei intervengono a difendere l’ex centurione Volerone Publilio, condannato a morte per essersi rifiutato di arruolarsi come soldato semplice, Livio racconta così il marasma che ne consegue (2,55,8-9): Concitati homines veluti ad proelium se expediunt, apparebatque omne discrimen adesse; nihil cuiquam sanctum, non publici fore, non privati iuris. (9) Huic tantae tempestati cum se consules obtulissent, facile experti sunt parum tutam maiestatem sine viribus esse. Violatis lictoribus, fascibus fractis, e foro in curiam compelluntur, incerti quatenus Volero exerceret victoriam. Cf. Jaeger 1997, 31. Cf. Jaeger 1997, 45. 19 Le lotte tra patrizi e plebei prendono l’avvio in 2,23,1-15 con le proteste plebee contro la schiavitù per debiti nel 495 a.C. e si protraggono almeno fino a 6,34,1 – 42,14, con le vicende che portano all’approvazione delle leggi Licinie-Sestie nel 367 a.C. 20 Per la contrapposizione Foro/Curia vd. per es. 3,17,4; 3,68,1-2 (per cui cf. sotto, 268); 3,38,8-10; 52,5-7; 5,7,6-10. 17 18
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Esasperate, le persone si prepararono come per una battaglia e sembrava che ogni pericolo fosse lì lì per avverarsi; nessun diritto né privato né pubblico sarebbe stato inviolabile per alcuno. (9) Dopo che i consoli si furono opposti a quella così violenta tempesta, si resero conto facilmente di come l’autorità priva di forza fosse ben poco sicura. Assaliti i littori, spezzati i fasci, furono ricacciati dal Foro nella Curia, senza sapere fino a che punto Volerone avrebbe spinto la sua vittoria.
Il testo sottolinea il pericolo che nel Foro scoppi una vera e propria battaglia (proelium), pericolo che sembra concretizzarsi quando i consoli si rifugiano nella Curia per sfuggire a una folla inferocita. Si noti che poco prima, in 2,54,9 il disperdersi dei plebei alla notizia dell’uccisione di un tribuno era stata descritta con le parole: Q uod ubi in totam contionem pertulit rumor, sicut acies funditur duce occiso, ita dilapsi passim alii alio (‘Q uando le voci diffusero questa notizia per tutta l’assemblea, come un esercito si disperde dopo l’uccisione del comandante, così essi si sparsero qua e là, chi da una parte chi dall’altra’). La plebe è dunque paragonata a un esercito, dapprima confuso per la mancanza di un generale, poi pronto ad attaccare i magistrati patrizi; l’erompere di una simile violenza nel Foro è presentato come il venir meno della normale vita civile basata sul rispetto delle leggi. È, però, nel libro 3, che della prima pentade costituisce il centro e uno dei culmini narrativi 21, che il motivo della guerra del Foro appare più estesamente sviluppato. La struttura narrativa del libro 22 ruota attorno al racconto del Decemvirato del 451-449 a.C., che ne occupa l’intera parte centrale (33-58) e lo suddivide in tre parti. La prima (capitoli 1-32) narra vari episodi di discordia civile legati, soprattutto, alla cosiddetta Lex Terentilia, una proposta di legge avanzata dal tribuno della plebe C. Terentilio Arsa per l’elezione di cinque uomini che avrebbero dovuto regolare il potere dei consoli tramite leggi scritte 23. Il crescendo di tensione prodotto da tali episodi culmina nell’elezione dei Decemviri, che sembra inizialmente rappresentare il coronamento delle lotte della Plebe. Tuttavia, com’è noto, il Decemvirato si trasforma ben presto in un’oligarchia patrizia guidata dal tiranno Appio Claudio, che viene rovesciata da una ribellione plebea sostenuta da una Cf. Burck 1934, 8; Vasaly 2002. Per un’analisi dettagliata della struttura del libro 3 vd. Burck 1934, 8-51. 23 Cf. 3,9. 21 22
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parte del patriziato. La parte conclusiva del libro (capitoli 59-72) racconta gli avvenimenti seguenti al Decemvirato fino al 446 a.C.: in particolare vittorie contro Equi, Volsci e Sabini e ulteriori tensioni fra patrizi e plebei, che, però, verso la fine, trovano una temporanea ricomposizione grazie all’azione pacificatrice del console T. Q uinzio Capitolino. Nel corso di queste complesse vicende, caratterizzate da una continua alternanza di esplosioni di discordie intestine e momenti di ritrovata concordia, il Foro si trasforma più volte in uno spazio di guerra. Il tema si presenta prepotentemente all’attenzione dei lettori già nella prima parte del libro, a cominciare dalla sequenza narrativa riguardante il processo del giovane patrizio Cesone Q uinzio (3,10,8-14,6). Q uest’ultimo si sarebbe guadagnato l’ostilità dei plebei per la sua opposizione alla Lex Terentilia e sarebbe stato posto sotto accusa per gli atti di violenza da lui compiuti nel corso di scontri tra sostenitori delle due fazioni. Il processo sarebbe poi risultato nell’esilio di Cesone e nel ritiro dalla vita politica di suo padre Cincinnato. Osserviamo più da vicino il resoconto liviano di questi eventi. In 3,10,8-14 lo storico racconta che, nel 461 a.C., giunse notizia a Roma di preparativi di guerra da parte degli Equi e dei Volsci e che, di conseguenza, il Senato decretò la leva di nuovi soldati. I tribuni della plebe, però, protestarono contro la leva, sostenendo che le voci riguardanti il pericolo imminente non fossero altro che un espediente teso a distogliere la plebe dalla votazione sulla Lex Terentilia. La scena delle proteste dei tribuni e della reazione dei patrizi è introdotta, al paragrafo 10, attraverso un’enfatica menzione del luogo in cui essa si svolge, ovvero il Foro (Tribuni coram in foro personare, fabulam compositam Volsci belli, Hernicos ad parte paratos); il testo concentra così l’attenzione del lettore sullo scenario in cui l’episodio drammatico si svolgerà, quasi a preparare la scena. Segue, in oratio obliqua, l’infuocata arringa dei tribuni (3,10,1114). I consoli, da parte loro, iniziano a svolgere la procedura di leva (3,11,1-2): At ex parte altera consules in conspectu eorum positis sellis dilectum habebant. Eo decurrunt tribuni contionemque secum trahunt. Citati pauci veluti rei experiundae causa, et statim vis coorta. (2) Q uemcumque lictor iussu consulis prendisset, tribunus mitti iubebat; neque suum cuique ius modum faciebat sed virium spe et manu obtinendum erat quod intenderes.
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Dall’altra parte i consoli, posti i seggi di fronte ai loro occhi, conducevano la leva. Lì si precipitano i tribuni e trascinano con sé l’assemblea popolare. Pochi furono chiamati dai consoli, come per fare una prova, e immediatamente eruppe la violenza. [2] Chiunque il littore avesse afferrato per ordine di un console, un tribuno ordinava di lasciarlo andare; e a nessuno il proprio diritto imponeva una misura, ma si doveva ottenere ciò che ci si proponeva con la violenza e con le mani.
Dobbiamo immaginare che i consoli abbiano posto i loro seggi nel Comizio, da cui tentano di svolgere la leva, e che i tribuni, che fino a questo momento hanno arringato la folla sulla piattaforma degli oratori, siano balzati giù nello spiazzo, portandosi dietro i loro ascoltatori 24. Proprio nello spazio circoscritto del Comizio, nel cuore, cioè, dello spazio politico del Foro, si verifica la sovversione della distinzione fra ius e vis (§ 2): ciò che è iniziato come contrapposizione lungo le linee del dibattito istituzionale diventa esplosione di violenza fisica, in cui ognuno cerca di ottenere con la forza ciò che desidera. Nei giorni successivi, la tensione aumenta. Così come i tribuni si oppongono all’arruolamento di nuovi soldati, i patrizi ostacolano la discussione della Lex Terentilia: rifiutandosi di spostarsi dal Foro, essi rendono impossibile delimitare gli spazi riservati ai membri di ciascuna tribù in vista della votazione dei comizi. Di qui si originano, ogni volta, vere e proprie risse, che oppongono i plebei alla gioventù patrizia (3,11,3-5). È a questo punto che è introdotto il personaggio di Cesone Q uinzio (3,11,6-8): Caeso erat Q uinctius, ferox iuvenis qua nobilitate gentis, qua corporis magnitudine et viribus. Ad ea munera data a dis et ipse addiderat multa belli decora facundiamque in foro ‹exhibuerat›, ut nemo, non lingua, non manu promptior in civitate haberetur. (7) Hic cum in medio patrum agmine constitisse, eminens inter alios, velut omnes dictaturas consulatusque gerens in voce ac viribus suis, unus impetus tribunicios popularesque procellas sustinebat. (8) Hoc duce saepe pulsi foro tribuni, fusa ac fugata plebes est; qui obvius fuerat, mulcatus nudatusque abibat, ut satis appareret, si sic agi liceret, victam legem esse. C’era un giovane di nome Cesone Q uinzio, fiero sia per la nobiltà della sua stirpe sia per la sua statura e la sua forza. A quei doni datigli dagli dei egli aveva aggiunto molte glorie di guerra e aveva dato prova di eloquenza nel Foro, così che nessuno era ritenuto più valente Cf. Weissenborn – Müller 1908, 26 (ad loc.).
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di lui né con la lingua né con la mano. (7) Costui, postosi nel mezzo della schiera dei patrizi, torreggiando sugli altri, come se portasse nella sua voce e nella sua forza tutte le dittature e i consolati, sosteneva da solo gli attacchi dei tribuni e le tempeste popolari. (8) Sotto il suo comando furono spesso scacciati dal Foro i tribuni, fu sbaragliata e messa in fuga la plebe; chi gli era andato incontro se ne andava via malmenato e denudato, così che era ben chiaro che, se fosse stato lecito risolvere le cose in quel modo, la legge era già bell’e sconfitta.
Q uesto passo rivela, a un’attenta analisi, la presenza di una complessa di rete di suggestioni. R. M. Ogilvie richiamò anni orsono l’attenzione sui rimandi, presenti in vari punti della storia liviana di Cesone Q uinzio, alla Pro Milone di Cicerone e, più in generale, alle vicende storiche legate alla morte di Clodio nel 52 a.C. 25. Tra i riferimenti intertestuali individuati da Ogilvie all’orazione ciceroniana, merita attenzione l’immagine del giovane patrizio che, nel passo sopra citato, unus impetus tribunicios popularesque procellas sustinebat (3,11,7). Q uesta si potrebbe confrontare con Cic. Mil. 5, dove pure si parla di procellae (Equidem ceteras tempestates et procellas in illis dumtaxat fluctibus contionum semper putavi Miloni esse subeundas, quia semper pro bonis contro improbos senserat […]). Indubbiamente, l’immagine di un personaggio prominente che si oppone alle tempeste della politica demagogica è simile nei due 25 Ogilvie 1970, 418-420. La dinamica della rissa presso Bovillae tra i sostenitori di Clodio e di Milone, così come raccontata da Ascon. Mil. argumentum 30C-32C Clark appare molto simile al racconto, riportato in 3,13,1-3, dell’ex tribuno della plebe M. Volscio Fittore, la cui testimonianza (falsa, come si sarebbe poi scoperto) sarebbe stata la ragione principale della condanna di Cesone all’esilio. A parte la generale analogia tra gli eventi del 52 a.C. e la versione dei fatti offerta da Volscio, Ogilvie ha individuato nel racconto di Livio una serie di riferimenti puntuali alla Pro Milone. Il modo, ad esempio, in cui Cesone, il giorno del suo processo, cede suo malgrado alla necessità di umiliarsi pregando i suoi concittadini per la sua assoluzione (3,12,1) può rimandare all’atteggiamento dignitoso attribuito da Cicerone a Milone (Mil. 92). Inoltre, l’affermazione dell’ex console L. Lucrezio che, perorando la causa di Cesone, invita i Romani preferire che un giovane dotato di così grandi qualità sia loro concittadino, piuttosto che concittadino di altri (3,12,6 suadere et monere iuvenem egregium […] suum quam alienum mallent civem esse) potrebbe essere confrontata con Cic. Mil. 104 (Hunc sua quisque sententia ex hac urbe expellet quem omnes urbes expulsum a vobis ad se vocabunt?). Meno convincente risulta l’osservazione di Ogilvie 1970, 419 ad loc. a proposito del participio mulcatus (‘percosso’) in 3,11,8. Il commentatore afferma che si tratterebbe di un termine raro, usato solo tre volte da Cicerone, di cui una in Mil. 37. Tuttavia, il verbo mulcari è già presente in Plauto e Terenzio e compare più volte anche negli Ab urbe condita, perciò l’analogia non appare stringente.
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testi, ma esiste una differenza fondamentale nella portata che tale immagine possiede nell’uno e nell’altro. Cicerone, seguendo una lunga tradizione letteraria, pensa alla lotta politica nei termini del travagliato viaggio di una nave esposta alla tempesta, come risulta chiaro dalla menzione, accanto alle tempestates e procellae, dei fluctus contionum (i ‘flutti delle assemblee’) 26. Livio, invece, usa l’espressione populares procellas isolatamente, senza sviluppare l’allegoria del mare in tempesta, ma inserendo a fianco di tale espressione la menzione degli impetus tribunicii (gli assalti dei tribuni), che rimanda, semmai, al campo semantico della battaglia di terra. Il sintagma servirà, dunque, non tanto come riferimento intertestuale a uno specifico passo della Pro Milone, quanto come una sorta di parola d’ordine, che richiama, pur nella sua brevità, le lotte politiche della tarda repubblica 27. Altrettanto significativo appare, all’interno del testo liviano, l’uso insistito di immagini e lessico che riportano al campo semantico della guerra. In alcuni punti, il tema bellico è declinato secondo accenti decisamente epici 28. Si osservi, per esempio, come il personaggio di Cesone viene introdotto in 3,11,6. La descrizione del ferox iuvenis qua nobilitate gentis, qua corpore magnitudine et viribus appare richiamare tutta una serie di ritratti di eroi dell’epica, spesso introdotti attraverso la menzione della stirpe e delle qualità guerriere (fra le quali possono figurare la grandezza e la forza del corpo) 29. 26 Q uint., inst. 8,6,48 cita questo passo come esempio di allegoria mista, in cui cioè l’uso di termini utilizzati in senso letterale (qui contionum) è alternato a quello di immagini allegoriche (qui quelle che si riferiscono alla tempesta marina). 27 Non a caso anche in 2,1,4 lo storico parla di tribuniciis procellis per indicare, in generale, le contese politiche tra patrizi e plebei. 28 Sui rapporti esistenti fra storiografia ed epica romane, cf. per es. Leigh 2007. 29 Già il catalogo delle navi omerico presenta diversi esempi dello schema per cui un eroe è introdotto con l’indicazione del nome, il riferimento alla discendenza e l’indicazione della qualità che lo distingue come guerriero. Lo stesso schema ritorna più volte in nell’Eneide, sia nel catalogo dei guerrieri italici nel libro 7 sia in varie scene di battaglia, nelle quali vengono introdotti nuovi personaggi. Si vedano per es. 7,706709 ecce Sabinorum prisco de sanguine magnum / agmen agens Clausus magnique ipse agminis instar, / claudia nunc a quo diffunditur et tribus et gens / per Latium, postquam in partem data Roma Sabinis; 7,761-762 ibat et Hippolyti proles pulcherrima bello, / Virbius, insignem quem mater Aricia misit; 9,176-178 Nisus erat portae custos, acerrimus armis, / Hyrtacides, comitem Aeneae quem miserat Ida / venatrix iaculo celerem levibusque sagittis; per l’anafora qua nobilitate gentium qua magnitudine corporis et viribus si può forse portare a titolo di confronto un verso come 11,640-641: Iollan / ingentemque animis, ingentem corpore et armis.
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Il procedere del racconto sembra confermare tale impressione. Si confronti, a puro titolo di esempio, l’immagine di Q uinzio, fermo in mezzo alla schiera (agmen) dei patrizi, che torreggia su tutti gli altri (§ 7) 30, con l’immagine di Aiace che torreggia sugli altri Achei in Iliade 3,226-227: Τίς τ’ ἄρ’ ὅδ’ ἄλλος Ἀχαιὸς ἀνὴρ ἠΰς τε μέγας τε, ἔξοχος Ἀργείων κεφαλὴν τε καὶ εὐρέας ὤμους;
O, ancora, con i seguenti passi dell’Eneide virgiliana: Ipse inter primos praestanti corpore Turnus vertitur arma tenens et toto vertice supra est. (Verg. Aen. 7.783-784) Procul Ornytus armis
ignotis et equo venator Iapyge fertur, (…) ipse catervis vertitur in mediis et toto vertice supra est. (Verg. Aen. 11, 677-683)
I moduli epici, che Livio probabilmente avrà derivato dalla tradizione dell’epica latina repubblicana, sono coniugati dallo storico con elementi tipici della cultura politica romana. Così, le virtù del giovane patrizio sono quelle tradizionali dello statista della res 30 È interessante notare come nel racconto, per altri versi molto simile a quello liviano, di Dionigi di Alicarnasso manchino proprio le connotazioni guerresche ed epiche presenti negli Ab urbe condita. Gli scontri nel Foro sono menzionati solo brevemente in A.R. 10,4,4 (ἤδη δέ τινας τῶν πάνυ ἀπόρων καὶ ἀπερριμένων, οἷς οὐθενὸς τῶν κοινῶν παρὰ τὰ ἴδια κέρδη φροντὶς ἦν, παίοντες ὥσπερ ἀνδράποδα ἀνεῖργον ἐκ τῆς ἀγορᾶς). Anche la presentazione di Cesone, per quanto contenga molti elementi analoghi a quelli presenti in Livio, appare diversamente connotata (Dion Hal. A.R. 10,5,1): Ὁ δὲ πλείστους τε περὶ αὐτὸν ἔχων ἑταίρους καὶ μέγιστον τῶν τότε νέων δυνάμενος Κοίσων Κοΐντιος ἦν, υἱὸς Λευκίου Κοιντίου τοῦ καλουμένου Κικιννάτου, ᾧ γένος τ᾽ ἦν ἐπιφανὲς καὶ βίος οὐθενὸς δεύτερος, ἀνῆρ ὀφθῆναί τε κάλλιστος νέων καὶ τὰ πολέμια πάντων λαμπρότατος φύσει τε περὶ λόγους κεχρημένος ἀγαθῇ […] (‘Colui, però, che aveva intorno a sé più compagni e che aveva più influenza fra i giovani di allora era Cesone Q uinzio, figlio di Lucio Q uinzio detto Cincinnato, che aveva una stirpe illustre e una vita non seconda a nessuno, il più bello tra i giovani a vedersi, il più glorioso di tutti nella guerra e dotato di buone doti d’eloquenza […]’; mia traduzione). ᾧ γένος τ᾽ ἦν ἐπιφανὲς καὶ βίος οὐθενὸς δεύτερος corrisponde grossomodo a qua nobilitate gentis, qua corporis magnitudine et viribus, ma, laddove il testo greco parla in termini generali di ‘vita’, quello latino menziona la grandezza e le forze del corpo, tratti tipici degli eroi epici. È presente, in termini molto simili a quelli liviani, la dicotomia tra azioni di guerra ed eloquenza, mentre manca completamente l’immagine di Cesone che si erge in mezzo alla schiera dei patrizi.
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publica: la prodezza in guerra (belli decora) da un lato, l’eloquenza nel Foro (facundiamque in foro) dall’altro (§ 6). Il coesistere, nella stessa persona, di queste due qualità è ribadito dall’espressione non lingua, non manu promptior (ibid.), secondo una dicotomia a più riprese rintracciabile nella storiografia latina 31. La voce e la forza di Cesone sono proprio le qualità che gli permettono di torreggiare sui suoi compagni: la sua statura non è dunque solamente fisica, ma si caratterizza per la particolare autorità che sembra accompagnarlo, ‘come se avesse portato nella sua voce e nella sua forza tutte le dittature e i consolati’ 32. Si noti, però, che il racconto, in un certo senso, mette in discussione proprio tale distinzione fra i due principali ambiti d’azione di un aristocratico romano, perché, nel passo che stiamo considerando, Cesone sembra acquisire belli decora proprio nel Foro. Al linguaggio militare fanno riferimento gli impetus dei tribuni (impetus sustinebat) 33, l’agmen dei patrizi (agmen può indicare, ovviamente, anche una folla di persone, ma il significato bellico di ‘schiera, esercito’ è ben presente in questo passo) e il sintagma fusa ac fugata al par. 8 34. La Lex Terentilia, quasi fosse un nemico da affrontare sul campo di battaglia, risulta così ‘sconfitta’ (3,11,8 victam) 35. Ciò che il testo rappresenta, insomma, è una vera e propria battaglia nel Foro: una battaglia fra due schieramenti contrapposti, che vede al centro un guerriero di statura epica. Non a caso, quando Cesone, come viene raccontato poco dopo, è posto sotto accusa dal tribuno della plebe A. Virginio, il suo animo fiero lo spinge a intensificare i suoi sforzi e a combattere i tribuni ‘come in una Cf. Ogilvie 1970, 419 ad loc. Si noti che gerere è il verbo normalmente usato per designare il ‘brandire’ o ‘indossare’ un’arma (cf. ThLL s.v. 1930-1931); metaforicamente, quindi, è come se le vere armi di Cesone, in questa battaglia contro i plebei, fossero proprio i consolati e le dittature, in altre parole l’autorità patrizia che egli sembra emanare. 33 Il sostantivo impetus, -us ha, naturalmente, un ampio spettro di significati e può indicare un movimento rapido e impetuoso in genere; tuttavia, esso conosce uno speciale campo di applicazione nella sfera militare, dove indica l’attacco o l’assalto di uno più combattenti contro il nemico (cf. ThLL s.v. 606-607). 34 Il sintagma ricorre nelle narrazioni di ambito militare, con una particolare frequenza proprio in Livio: cf. per es. Bell. Hisp. 31,8; Sall., Iug. 52,4; 79,4; 99,3; Liv. 2,6,11; 3,67,4; 29,36,9; 35,21,7; 37,52,3; 39,21,2; 40,48,6; 41,12,5; Vell. 1,4,9; Flor., epit. 2,11. Anche hoc duce e pulsi possono essere interpretati come appartenenti al lessico militare che pervade il passo. 35 Per la iunctura victam legem cf. Liv. 3,10,13. 31 32
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guerra giusta’ (3,11,9 tribunos velut iusto persequi bello). E più tardi, quando Cesone ha ormai lasciato Roma, il testo presenta la continuazione delle liti riguardanti la Lex Terentilia attraverso un’ancora più esplicita militarizzazione del Foro e degli avvenimenti che vi si svolgono (Liv. 3,14,2-4): Cum velut victores tribuni perculsis patribus Caesonis exsilio prope perlatam esse crederent legem, et quod ad seniores patrum pertineret cessissent possessionem rei publicae, (3) iuniores, id maxime quod Caesonis sodalium fuit, auxere iras in plebem, non minuerunt animos; sed ibi plurimum profectum est quod modo quodam temperavere impetus suos. (4) Cum primo post Caesonis exsilium lex coepta ferri est, instructi paratique cum ingenti clientium exercitu sic tribunos, ubi primum submoventes praebuere causam, adorti sunt ut nemo unus inde praecipuum quicquam gloriae domum invidiaeve ferret, mille pro uno Caesones exstitisse plebes quereretur. Poiché i tribuni, come dei vincitori, credevano che, sconfitti i patrizi, con l’esilio di Cesone la legge fosse già quasi approvata, e poiché i più anziani dei patrizi, per ciò che li riguardava, avevano rinunciato al dominio sullo Stato, (3) i giovani, e soprattutto i compagni di Cesone, accrebbero le loro ire nei confronti della plebe, mentre non diminuirono la loro energia; ma fu di grandissimo giovamento, a tal proposito, il fatto che moderarono in un certo modo i loro assalti. (4) Non appena, dopo l’esilio di Cesone, si cominciò a discutere la legge, allora, schierati e pronti con un grande esercito di clienti, essi aggredirono i tribuni non appena questi, facendo per allontanarli, ne offrirono il pretesto, così che nessuno ne riportava gloria o odio in modo particolare, ma la plebe si lamentava che fossero sorti mille Cesoni al posto di uno.
Non solo i tribuni si sentono già dei ‘vincitori’ (victores) dopo aver ‘sconfitto’ i patrizi (perculsis patribus), ma i giovani compagni di Cesone e i loro clienti costituiscono un vero e proprio esercito (exercitu), schierato (instructi paratique) nel Foro, e pronto ad assalire (adorti sunt) i suoi avversari. Livio sviluppa dunque, nel corso dell’intera sequenza narrativa che stiamo considerando, un coerente insieme di metafore, teso a riattivare l’immagine del Foro come campo di battaglia. È vero che, nella continuazione dell’ultimo passo citato, si racconta di come i giovani patrizi alternarono la prontezza a combattere con le lusinghe esercitate nei confronti nei plebei (3,14,5); il lettore, tuttavia, rimane consapevole del pericolo dell’erompere della guerra, annidato nel cuore dello spazio cittadino. Tale pericolo si concretizza nel modo più allarmante nella sequenza narrativa successiva (3,15,1 – 21,8). Q ui Livio racconta di 264
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come, nel 460 a.C., un esercito di schiavi ribelli ed esuli, capitanati da un Sabino di nome Appio Erdonio, riuscì a occupare notte tempo il Campidoglio. Si tratta, stavolta, di una guerra portata all’interno di Roma da un nemico esterno al corpo cittadino; tuttavia, gli Ab urbe condita legano strettamente questi avvenimenti al racconto della lotta tra fazioni, così che un inscindibile nesso appare esistere tra il protrarsi delle discordie interne e la penetrazione della guerra (esterna) nel luogo più sacro della città 36. Il vero centro dell’azione è, anche in questa parte del racconto, il Foro. Q ui gli scampati alla strage operata dai ribelli si precipitano a spargere l’allarme (3,15,6). Voci si rincorrono per tutta la notte e i consoli sono indecisi sul da farsi, finché l’arrivo del mattino non svela l’identità dei nemici (3,15,7-9). I consoli e i senatori, invasi dal timore che all’occupazione del Campidoglio possa aggiungersi un’invasione di nemici esterni o una più generalizzata rivolta servile, si riuniscono quindi nella Curia per valutare la situazione (3,16,1-4). La plebe, da parte sua, si rifiuta ancora una volta di prendere le armi, nella convinzione che l’invasione sia una messinscena dei patrizi e dei loro clienti (3,16,5-6). Venuto a conoscenza del comportamento dei plebei, il console P. Valerio Publicola si lancia fuori dalla Curia e, nel Comizio dove la plebe è riunita, pronuncia un infuocato discorso di rimprovero (3,17,1-8), portando l’attenzione dei suoi ascoltatori ai templi degli dèi occupati dai nemici proprio sotto i loro occhi e ricordando l’esempio di Romolo, che riconquistò la rocca ai Sabini. Se qualcuno gli impedirà l’arruolamento di un esercito, conclude il console, egli lo considererà alla stregua di un nemico, non importa se questi si trovi nel Foro o sul Campidoglio (ubicumque sit, in Capitolio, in foro, pro hoste habiturum, 3,17,7). Il discorso, tuttavia, non raggiunge il suo scopo e la notte cala su una città più spaccata di prima (3,17,9). Il pericolo è sventato, alla fine, grazie a un intervento dall’esterno, ovvero all’arrivo di truppe alleate da Tuscolo (3,18,1-4). Q ueste ‘sono accolte all’interno della città e scendono schierate nel Foro. Lì dunque P. Valerio, lasciato il suo collega presso i presidii delle porte, schierava l’esercito’ (3,18,4 […] accepti in urbem agmine in Forum descendunt. Ibi iam P. Valerius relicto ad portarum praesidia collega instruebat aciem). Ora i Romani, sotto la guida Cf. Burck 1934, 17-18.
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del console Valerio e a fianco dei Tuscolani, possono finalmente muovere all’attacco dei nemici lungo il pendio del Campidoglio (3,18,7 Hunc ducem secuti nequiquam reclamantibus tribunis in clivum Capitolinum erigunt aciem). I Romani scalano il colle e portano la battaglia fin nel tempio di Giove (3,18,8). Nonostante la morte di Valerio, i suoi concittadini fanno strage dei nemici e riconquistano il Campidoglio (3,18,9-10). Q uesta serie di eventi richiama, in un certo senso, la battaglia tra Romani e Sabini nel libro 1. Ancora una volta, il Campidoglio è occupato da nemici, fra l’altro guidati da un leader sabino; e, ancora una volta, i Romani si schierano nel Foro per muovere all’attacco degli invasori (anche se in questo caso la battaglia non si svolge nel Foro bensì sul Campidoglio stesso, dove i ribelli si arroccano invece di affrontare i Romani in campo aperto). Da un’altra prospettiva, però, l’episodio costituisce un rovesciamento della leggenda delle origini. I Romani, stavolta, a causa delle loro divisioni interne, non sono in grado di opporsi al nemico, ma hanno bisogno di un intervento esterno per ricompattarsi. Che l’ordine, sia spaziale sia politico, non sia ricostituito con la vittoria contro i ribelli risulta chiaro dal fatto che le discordie civili erompono di nuovo subito dopo la battaglia. Il console sopravvissuto, C. Claudio, e il suo nuovo collega Cincinnato si rifiutano di rispettare la promessa, formulata da Valerio prima del combattimento, di consentire la discussione della Lex Terentilia. Ci vorrà un’orazione dello stesso Cincinnato e la minaccia di ricorrere all’elezione di un dittatore perché la situazione si calmi di nuovo. Così Cincinnato rimprovera i patrizi per non essere stati in grado di opporsi efficacemente ai tribuni (3,19,7): Et vos – C. Claudi pace et P. Valeri mortui loquar – prius in clivum Capitolinum signa intulistis quam hos hostes de foro tolleretis? E voi (con buona pace di C. Claudio e di P. Valerio, che è morto) avete mosso all’assalto del pendio capitolino prima di eliminare questi nemici dal Foro?
Cincinnato sta qui evocando un altro tipo di guerra nel Foro, una guerra secondo lui giusta ma ciononostante dalle risonanze sinistre per i lettori: quella che avrebbe opposto come ‘nemici’ (hostes) i tribuni ai loro concittadini patrizi. Ann Vasaly ha proposto di leggere il discorso di Cincinnato in parallelo con quello di un altro Q uinzio, il console del 446 a.C. T. Q uinzio Capitolino, che in Liv. 3,67,1 – 68,13 convince la plebe 266
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a lasciare da parte le inimicizie nei confronti dei patrizi e a fare fronte comune contro un attacco degli Equi e dei Volsci. Secondo tale interpretazione, i due Q uinzii, grazie al ruolo da loro giocato nel preservare la coesione del corpo cittadino, agirebbero come exempla di leader patrizi severi ma giusti, interessati più al bene comune che agli interessi di parte 37. L’orazione di Capitolino, in effetti, appare dotata di particolare rilevanza all’interno della Prima Pentade liviana, non solo perché si tratta del primo discorso riportato nella sua interezza in oratio recta negli Ab urbe condita, ma anche perché ricapitola alcuni dei temi principali del libro 3 e li conduce a una (provvisoria) conclusione. Non stupisce, dunque, constatare come il tema della guerra nel Foro acquisisca, in questo discorso, un ruolo centrale. Secondo Capitolino, è la discordia ordinum (3,67,3) che ha reso i nemici così baldanzosi da avanzare fino alle mura della città. Dopo aver riassunto, nei paragrafi 7-9, i momenti precedenti delle lotte patrizio-plebee, il console conclude (3,67,10-11): Q ui finis erit discordiarum? Ecquando unam urbem habere, ecquando communem hanc esse patriam licebit? Victi nos aequiore animo quiescimus quam vos victores. (11) Satisne est nobis vos metuendos esse? Adversus nos Aventinum capitur, adversus nos Sacer occupatur mons; Esquiliasque videmus ab hoste prope captas et scandentem in aggerem Volscum hostem nemo submovit. In nos viri, in nos armati estis. Q uando avranno fine le discordie? Q uando mai potremo avere una sola città, quando potrà questa essere la nostra patria comune? Noi, da vinti, ce ne stiamo più facilmente in pace che voi da vincitori. (11) Vi basta che noi dobbiamo temervi? Contro di noi è preso l’Aventino, contro di noi è occupato il Monte Sacro; vediamo l’Esquilino quasi conquistato dal nemico e nessuno ha respinto il nemico volsco che stava scalando il muro. Contro di noi siete uomini, contro di noi siete armati.
Capitolino evoca qui il tema delle due città in una, che nella prima pentade ritorna frequentemente per rappresentare gli effetti della discordia civile sul corpo cittadino 38. E in effetti, nella rappresentazione della guerra civile che Capitolino offre ai paragrafi seguenti, è la città, nei suoi aspetti materiali, ad essere al centro dell’attenzione. All’Aventino occupato dai plebei nel corso della Seconda 37 Vasaly 1999; 2015, 77-95. La corrispondenza tra i due discorsi era già stata notata da Burck 1934, 49-50. 38 Per questo topos cf. Vasaly 2015, 77, 89, 170 n. 42.
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Secessione di pochi anni prima il console oppone l’Esquilino da cui nessuno si è dato cura di allontanare il vero nemico. Alla guerra contro i popoli esterni si sostituisce, dunque, quella contro i patrizi (in nos viri, in nos armati estis). A questo punto, Capitolino rivolge l’attenzione dei suoi ascoltatori su ciò che hanno intorno, ovvero sul Foro (3,68,1-2): Agitedum, ubi hic curiam circumsederitis et forum infestum feceritis et carcerem impleveritis principibus, (2) iisdem istis ferocibus animis egredimini extra portam Esquilinam, aut, si nec hoc quidem audetis, ex muris visite agros vestros ferro ignique vastatos, praedam abigi, fumare passim incensa tecta. Avanti, dunque, dopo che qui avrete assediato la Curia, reso ostile il Foro e riempito il carcere di cittadini prominenti, (2) con questi stessi animi feroci uscite dalla Porta Esquilina, oppure, se non osate neppure questo, osservate dalle mura i vostri campi messi a ferro e a fuoco, il bottino che viene portato via, le case incendiate che fumano qua e là.
Mediante l’avverbio hic, al paragrafo 1, l’oratore indica tre luoghi che si trovano nelle immediate vicinanze degli ascoltatori: la Curia, sede del Senato romano, il Foro stesso, luogo delle assemblee della plebe e dei discorsi rivolti dai magistrati al popolo, e il carcere 39. A tali luoghi è applicata una metafora militare: invece di combattere il nemico esterno, i plebei stanno assediando la Curia dal Foro, che assume così le sembianze di un accampamento o di un campo di battaglia. Tale immagine è richiamata al paragrafo 6, dove Capitolino delinea un’opposizione tra il Foro stesso e lo spazio naturale della guerra, quello spazio della conquista che, per definizione, dev’essere esterno alla città: At hercules, cum stipendia nobis consulibus, non tribunis ducibus, et in castris, non in foro faciebatis, et in acie vestrum clamorem hostes, non in contione patres Romani horrebant, praeda parta agro ex hoste capto pleni fortunarum gloriaeque simul privatate triumphantes domum ad penates redibatis: nunc oneratum vestris fortunis hostem abire sinitis. (7) Haerete fixi contionibus et in foro vivite: sequitur vos necessitas militandi quam fugitis. Grave erat in Aequos et Volscos proficisci: ante portas est bellum. Si inde non pellitur, iam intra moenia erit et arcem et Capitolium scandet et in domos vestras vos persequetur. 39 Sul carcere, fatto edificare secondo Liv. 1,33,8 dal re Anco Marzio, vd. Steinmann – Nawracala – Boss 2011, 128-130. Sull’effetto retorico prodotto dal riferimento ai luoghi presenti alla vista degli ascoltatori vd. Vasaly 1993, soprattutto 15-87.
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Ma, per Ercole, quando prestavate servizio militare sotto il comando di noi consoli, non dei tribuni, e nell’accampamento, non nel Foro, e quando i nemici schierati a battaglia, non i senatori nell’assemblea tremavano al vostro grido di battaglia, allora tornavate a casa dai vostri Penati dopo aver acquisito bottino, dopo aver conquistato territorio al nemico, e allo stesso tempo pieni di ricchezze e di gloria private; ora lasciate che il nemico se ne vada carico dei vostri beni. (7) Rimanete attaccati alle assemblee e vivete nel Foro: la necessità di far guerra, da cui fuggite, vi insegue. Era troppo gravoso marciare contro gli Equi e i Volsci: ora la guerra è alle porte. Se non ne viene scacciata, presto sarà all’interno delle mura, salirà sulla rocca e sul Campidoglio e vi inseguirà fin nelle vostre case.
Trasformando il Foro in uno spazio militare, dice Capitolino, cioè volgendo le energie distruttive della città verso l’interno, si permetterà alla guerra esterna di penetrare fin nei luoghi più sacri e più intimi della città. Si noti come, nella seconda parte del passo, siano brevemente richiamati tutti gli elementi principali che definiscono lo spazio cittadino: le mura e le porte, minacciate dai nemici; il Foro; il Campidoglio, luogo simbolo dell’identità romana per eccellenza, la cui conquista significherebbe la rovina della città; le case private. In altre parole, tutti gli aspetti dello spazio romano risultano qui sovvertiti. Nella parte finale del suo discorso, il console invita la plebe a distanziarsi dalla demagogia dei tribuni e promette, se questo avverrà, di allontanare la guerra dalle mura di Roma portandola nelle città dei nemici (3,68,9-13). In altre parole, egli auspica un movimento dall’interno verso l’esterno, che possa sostituire la frammentazione del Foro con la distinzione tradizionale tra ‘dentro’ e ‘fuori’. Le parole di Capitolino non rimangono senza effetto: nuove truppe sono arruolate in mezzo al consenso generale e sono condotte contro i nemici (3,69,1 – 70,15). L’accentuata insistenza, da parte di Capitolino, sulla realtà fisica del Foro come terreno di divisione e di conflitto richiama ancora una volta l’attenzione al ruolo rivestito da questo luogo, negli Ab urbe condita, come rappresentazione materiale dei rapporti tra le diverse componenti del corpo cittadino. Più precisamente, le parole di Capitolino elaborano in modo esplicito idee che il racconto del narratore primario presenta in forma implicita. Il discorso, dunque, oltre a offrire un’interpretazione della storia romana dei cinquant’anni precedenti, fornisce anche un’interpretazione del Foro come spazio di incontro fra elementi diversi, 269
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che si oppongono e cercano di volta in volta un equilibrio. Tale dinamica, però, rivela la sua fondamentale ambiguità nell’evocazione dello scontro armato, della guerra che penetra nel cuore politico della res publica e sovverte i fondamenti dello spazio romano.
4. Il Foro conquistato Il motivo della guerra nel Foro ritorna, in modo speculare rispetto al libro 1, anche nel 5, quello conclusivo della pentade. Com’è noto, la seconda parte di tale libro è dominata dagli eventi connessi al Sacco Gallico del 390 a.C. 40, presentato da Livio come la diretta conseguenza del venir meno dei valori morali e religiosi di Roma e dell’indebolimento provocato dalla discordia civile 41. In Liv. 5,41,4-6, l’ingresso dei Galli nella città semideserta (perché i giovani con le loro famiglie e i senatori si sono asserragliati sul Campidoglio e una parte della popolazione ha abbandonato Roma) è descritto nel modo seguente: Galli et quia interposita nocte a contentione pugnae remiserant animos et quod nec in acie ancipiti usquam certaverant proelio nec tum impetu aut vi capiebant urbem, sine ira, sine ardore animorum ingressi postero die urbem patente Collina porta in forum perveniunt, circumferentes oculos ad templa deum arcemque solam belli speciem tenentem. (5) Inde, modico relicto praesidio ne quis in dissipatos ex arce aut Capitolio impetus fieret, dilapsi ad praedam vacuis occursu hominum viis, pars in proxima quaeque tectorum agmine ruunt, pars ultima, velut ea demum intacta et referta praeda, petunt; (6) inde rursus ipsa solitudine absterriti, ne qua fraus hostilis vagos exciperet, in forum ac propinqua foro loca conglobati redibant; […]. I Galli, poiché, trascorsa la notte, si erano rilassati dalla tensione della battaglia e poiché né sul campo di battaglia il combattimento era stato in alcun punto incerto, né erano sul punto di conquistare la città con un assalto o con la forza, entrati in città il giorno seguente senza ira e senza ardore, attraverso la Porta Collina aperta giunsero nel Foro, volgendo lo sguardo tutto intorno ai templi degli dèi e alla rocca che, sola, conservava un’apparenza di guerra. (5) Di lì, lasciato un modesto presidio affinché dalla rocca o dal Campidoglio non fossero lanciati contro di loro attacchi mentre erano sparsi qua e là, sparpagliatisi per fare bottino nelle vie vuote, alcuni si precipitano in
40 Sulla battaglia nel Foro nel libro 1 come parallelo per la successiva conquista gallica cf. Pausch 2018, 288, 296. 41 Cf. Mineo 2006, 210-241.
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massa nelle case più vicine, altri si dirigono verso le ultime, pensando che fossero, almeno quelle, intatte e piene di bottino; (6) Q uindi, atterriti dallo stesso vuoto, temendo che un qualche assalto a tradimento dei nemici potesse sorprenderli mentre erano sparsi, tornavano in schiera serrata nel Foro e nei luoghi vicini al Foro; […].
La presentazione di Roma, nei suoi tratti essenziali, dal punto di vista degli invasori Galli ci offre un’immagine vivida e potente del rovesciamento dei principi essenziali dello spazio romano. In modo analogo a ciò che accadeva nel discorso di Capitolino, quasi tutti gli elementi fondamentali del modello mentale della città risultano qui capovolti: le mura perdono la loro funzione di assicurare la distinzione tra interno ed esterno, in quanto la Porta Collina è aperta; il Foro è abbandonato dai suoi abituali frequentatori e diventa il punto di partenza per le devastazioni dei Galli; le case private vengono violate dalle stragi dei conquistatori. L’unico elemento che resiste è il Campidoglio, vera e propria incarnazione dell’identità non solo religiosa ma anche cittadina romana. Si ha quindi, ancora una volta, la guerra nel Foro, ma la dinamica spaziale è esattamente invertita rispetto alla leggenda delle origini. Sono i Romani a essere ora sul Campidoglio, che nel libro 1 era la sede dei Sabini. Inoltre, il Foro non è più un campo di battaglia, bensì uno spazio conquistato. Invece che a una dinamica di incontro e scontro, il lettore assiste quasi all’annullamento dello spazio romano.
5. Conclusioni I diversi episodi analizzati hanno rivelato la presenza di una preoccupazione costante negli Ab urbe condita, riguardante la fondamentale instabilità del Foro, cuore politico dello spazio romano. Tale instabilità è, a ben vedere, rintracciabile all’origine stessa del Foro, il quale si forma (storicamente e narrativamente) attraverso lo scontro armato di due popoli. Proprio quello spazio che logicamente costituisce, durante la storia successiva della città, il polo contrapposto allo spazio esterno della conquista militare è dunque, alla sua nascita, esso stesso uno spazio di guerra. Tale carattere originario si ripropone a più riprese, in modo più o meno esplicito, nella narrazione delle lotte politiche interne alla città, attraverso una rappresentazione che proietta sul Foro, in modo paradossale, i caratteri di un accampamento o un campo di battaglia. Lo sfasa271
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mento dei confini tra spazio interno e spazio esterno, che la militarizzazione del Foro implica, è il presupposto per la pericolosa penetrazione dell’esterno all’interno della città, fino alla conquista gallica che impone sul Foro stesso lo sguardo del nemico. A ben vedere, la dialettica ciclica che Bernard Mineo ha riconosciuto nella storia di Livio 42 può essere letta anche come un problema di costante ridefinizione dell’equilibrio tra interno ed esterno. La storia romana, proprio come il Foro, mostra allora i caratteri di una inerente contraddittorietà. Come è ampiamente noto, nella Prima Pentade esiste un rapporto di reciproca dipendenza tra la conquista militare e il mantenimento della concordia civile: le guerre esterne consentono di ricomporre le fratture tra patrizi e plebei, che affliggono la vita politica della città; non appena il pericolo esterno viene meno, le divisioni interne erompono di nuovo. Esse, a loro volta, possono condurre a trascurare la lotta contro i nemici esterni, che in conseguenza di ciò possono, in alcuni casi, mettere in grave pericolo la sopravvivenza della città stessa. La soluzione è, solitamente, una ricostituzione della concordia cittadina, che consente di sconfiggere i nemici esterni e ristabilire tempora neamente l’equilibrio. È evidente, però, che tale tipo di equilibrio è, per sua natura, instabile. Se, infatti, la salute interna del corpo cittadino può essere mantenuta solo rivolgendo all’esterno quelle energie distruttive in esso irrimediabilmente presenti, una progressiva espansione sarà necessaria a mantenere l’equilibrio. Nel momento in cui, però, questa espansione dovesse realizzarsi, e il mondo intero giungere sotto il controllo di Roma, verrebbe paradossalmente a mancare proprio quella distinzione fra interno ed esterno su cui, in ultima analisi, la salute di Roma stessa si basa. Tutta la storia di Roma, dunque, così come raccontata da Livio, può essere interpretata come una ricerca di modi per incanalare le energie distruttive presenti all’interno del corpo sociale e politico. Il Foro Romano appare un simbolo molto potente di tale problema di fondo, che non sembra conoscere soluzioni definitive. Proprio perché il Foro era non solo uno spazio narrato, bensì anche uno spazio familiare ai lettori degli Ab urbe condita, ogni racconto di guerra nel Foro evocava probabilmente ricordi di analoghi episodi di violenza durante il periodo tardo-repubblicano. Guardando quei Cf. Mineo 2006.
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luoghi con occhi nuovi, attraverso la lente della consapevolezza storica, i lettori potevano quindi riflettere ancora una volta su come gestire le energie distruttive da cui il Foro stesso aveva avuto origine e collaborare alla nuova rifondazione augustea che stava avvenendo sotto i loro occhi.
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ELISA DELLA CALCE
LE VIRTÙ DEI NEMICI DI ROMA NELLE ULTIME DECADI LIVIANE L’ESEMPIO DELLA CLEMENZA *
Nelle Storie liviane le grandi personalità del ‘versante non romano’, se possiedono lo status di nemici, sono depositarie di qualità sostanzialmente negative; al contrario, gli alleati dei Romani tendono a condividere i pregi che lo storico attribuisce ai Romani stessi 1. Anche ai nemici, però, possono essere riconosciute notazioni di carattere positivo, secondo il noto modello di ‘ritratto paradossale’ delineato da Antonio La Penna 2. In tal senso, può risultare di un certo interesse considerare i passi in cui Livio attribuisce ai nemici di Roma alcune virtù in particolare 3. Mi riferisco a quel nucleo di caratteristiche positive che, per adottare una definizione di J. De Romilly, intendo indicare con un’espressione volutamente generica, cioè ‘douceur’ 4. Essa, benché in origine sia stata coniata * Desidero ringraziare Andrea Balbo, Ermanno Malaspina, Simone Mollea e Stephen Oakley per aver letto il contributo in una forma antecedente e non ancora definitiva. Ho il piacere anche di ringraziare gli organizzatori del convegno Livius Noster e tutti coloro che in fase di discussione hanno contribuito a indicarmi ulteriori spunti di approfondimento. Naturalmente, eventuali imprecisioni sono da imputarsi a me soltanto. Nella redazione finale di questo lavoro, viene circoscritta e rielaborata una pista di ricerca sondata nella mia tesi e nel mio iter di dottorato. 1 Bernard 2000, 284-303, Dauge 1981, 169-179. 2 La Penna 1976, 270-293. 3 Il discorso inverso è altrettanto valido: esiste una tradizione ben consolidata di studi (ad es. Levene 2010, 164-260, Bernard 2015, 39-51) che, pur ribadendo il discrimine fondamentale tra la categoria dei non-Romani e dei Romani in Livio, ne sostiene però una reciproca interazione, a livello di modelli di riferimento comuni e di influenze estese ai campi più svariati, dalla cultura alla strategia militare. Ciò è stato soprattutto rilevato a proposito di Scipione l’Africano e di Annibale, vd. Brizzi 1982, 78-110, Rossi 2004, 359-381, Hoyos 2015, 376. 4 Nella convinzione che uno stesso concetto possa essere veicolato da lessemi differenti, ma legati da una relazione per certi versi sinonimica, non ho seguito le tassoLivius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 275-300 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125331
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per il pensiero greco 5, può a mio avviso valere anche per il panorama culturale latino. Designando ‘un ammorbidimento’ della condotta personale, la ‘douceur’ implica sia un’attitudine cortese e benevola (comitas, benignitas, humanitas), un comportamento generoso (munificentia) o improntato alla moderazione (modestia, moderatio, temperantia) sia le forme di mitezza e di perdono, tradizionalmente riunite sotto la denominazione di ‘politica di clemenza’ (clementia, lenitas, indulgentia). Solo per citare qualche esempio, la benignitas ricorre prevalentemente o in associazione al tenore di un discorso o in relazione ad un contesto di accoglienza/ ospitalità, mentre la munificentia e la liberalitas, trattandosi di qualità distintive del sovrano ellenistico tout court, sono associate a Filippo V di Macedonia e Antioco III di Siria. In questa sede, non potrei passare sistematicamente in rassegna tutte le virtù che appartengono al campo semantico della ‘douceur’ (e che Livio attribuisce ai nemici di Roma) né tantomeno fare una ricognizione ad ampio raggio su tutti gli hostes citati nelle Storie. Innanzitutto, ho ristretto il campo di indagine a una delle virtù che Livio presenta spesso come distintive del mos Romanus, cioè la clemenza 6. Intendo però indagare l’incidenza del concetto in generale, non solo del sostantivo clementia e dei suoi corradicali. Lo storico non esita infatti ad adoperare forme alternative alla radice clem- per veicolare il medesimo significato (particolarmente usati sono i sostantivi indulgentia, lenitas, uenia, i verbi dimitto, remitto, parco e l’aggettivo mitis). Da un punto di vista teorico, la clemenza rappresenta una decisione che non ha un carattere vincolante per il soggetto che la esercita e presuppone un rapporto gerarchico tra chi ne fa mostra e chi nomie di virtù delineate da Moore 1989. Nel suo studio, le virtù che possono essere ricondotte a questa idea di ‘douceur’ sono indicizzate in due categorie distinte, cioè ‘forbearance and self-control’ e ‘humanity and kindness’. 5 De Romilly 20112, 1-2. 6 A tal proposito, vi sono svariati esempi disseminati nelle decadi liviane, come 1,28,11 primum ultimumque illud supplicium apud Romanos exempli parum memoris legum humanarum fuit: in aliis gloriari licet nulli gentium mitiores placuisse poenas; 25,16,12 ueteri delicto haud implacabiles fore Romanos; nullam unquam gentem magis exorabilem promptioremque ueniae dandae fuisse; 30,42,17 populo Romano usitata ac prope iam obsoleta ex uictoria gaudia esse ac plus paene parcendo uictis quam uincendo imperium auxisse; 33,12,7 et Romanos praeter uetustissimum morem uictis parcendi praecipuum clementiae documentum dedisse pace Hannibali et Carthaginiensibus data; 37,45,8 maximo semper animo uictis regibus populisque ignouistis; quanto id maiore et placatiore animo decet uos facere in hac uictoria, quae uos dominos orbis terrarum fecit?
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la riceve 7. Per Livio essa è un concetto cardine all’interno della sfera militare, un principio regolatore dei rapporti diplomatici non solo tra vincitore e vinto, ma anche tra chi si trova in una condizione di svantaggio sul campo di battaglia, e non è ancora stato sconfitto, e chi si distingue per la propria superiorità bellica. Per quanto riguarda i nemici, invece, ho scelto di concentrare l’attenzione su Annibale, Filippo V di Macedonia e Antioco III di Siria. Tuttavia, come avrò modo di chiarire in seguito, ho dedicato alla clemenza annibalica una presentazione iniziale, di carattere generale (§ 1), mentre ho riservato gran parte dell’analisi alle figure di Filippo e di Antioco (§ 2). Intendo infatti attribuire alla clemenza annibalica la funzione di ‘termine di confronto’, rispetto al quale valutare le caratteristiche peculiari della clemenza esercitata dagli altri due personaggi 8.
1. La clemenza di Annibale nella terza decade: caratteristiche e destinatari Una disamina profonda e completa di tutti i passi liviani relativi alla clemenza di Annibale porterebbe ad esulare dallo spazio qui concessomi. Per questa ragione, mi limito a tracciare un quadro complessivo e a ricordare qualche caso emblematico 9. Livio ricorre allo stereotipo del Punico crudele e infido per giustificare l’assenza di clemenza del generale cartaginese: egli non solo dà prova di inhumana superbia, libido e crudelitas (21,57,14) verso chi si arrende, ma non esita nemmeno a rendere prigionieri coloro che avevano dichiarato la resa e a cui era stato assicurato di potersi 7 Vd. Garbarino 1984, 821 per una generica definizione di clementia e per i contesti in cui è solitamente applicata: «l’atteggiamento di chi, da una posizione di superiorità, pone volontariamente un limite al proprio potere, dimostrando indulgenza verso i sottoposti, soprattutto nel punire». Cf. anche Winkler 1957, coll. 206-207 «clementia ist die Eigenschaft desjenigen, der der Ausübung seiner Macht über Leib, Leben oder Eigentum anderer aus eigenem Antrieb Schranken setzt» (col. 206). Per una trattazione più approfondita, che mira a delineare l’evoluzione semantica della virtù, rimando in particolare a Bux 1948, 201-230; Winkler 1957, coll. 206231; Hellegouarc’h 1972, 261-263; Borgo 1985, 25-73; Barden Dowling 2006; Malaspina 2009, 42-52; Flamerie de Lachapelle 2011. 8 Per i passi liviani citati, ho seguito, con tacite modifiche di interpunzione, le edizioni di Ogilvie 1974 (libri 1-5), di Briscoe 2016, (libri 21-25), di Walsh 1982 (libri 28-30), di Briscoe 1991 (libri 31-40) e 1986 (libri 41-45). 9 Sulla questione della ‘clemenza annibalica’ rimando più diffusamente a Della Calce 2019, 540-556.
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allontanare indenni (22,6,11-12). In generale, Livio non evita di riconoscere uirtutes ad Annibale, come il famoso ritratto di 21,4,3-9 dimostra 10, ma, tra queste, non figura la propensione a mostrarsi né clemente né benevolo. Tuttavia, durante la campagna in Italia, Annibale assume in diverse occasioni una condotta che può essere interpretata nel segno della clemenza 11. Nel dettato liviano, essa possiede due caratteristiche essenziali: non si configura mai come una virtù disinteressata, in particolare se rivolta agli Italici, e tradisce spesso un intento simulatore. In relazione a quest’ultimo aspetto, Livio, servendosi di una precisa terminologia, fornisce al lettore le chiavi di interpretazione dell’atteggiamento di Annibale, che è sì improntato alla clemenza, ma che non può essere disgiunto dalla propensione cartaginese alla simulazione e alla slealtà: in 21,48,10, Annibale evita di infierire sui prigionieri dopo essersi impossessato di Casteggio, non per dar prova di una clemenza genuina, bensì per ottenere la ‘reputazione’ di generale mite e indulgente (fama clementiae). In 23,15,4, la locuzione mitis uideri sottolinea che Annibale volesse solo dare l’impressione di essere clemente, non esserlo nella realtà concreta. Analogamente, il nesso simulata lenitas, che ricorre in 24,20,15, ove viene narrato il tentativo di prendere Taranto da parte del generale, allude ad una clemenza tutt’altro che disinteressata, ma finalizzata a soddisfare il proprio tornaconto 12. Inoltre, il Cartaginese sembra attenersi a delle precise costanti di comportamento nella misura in cui tende ad esercitare clemenza a beneficio dei non-Romani (ad es. i Galli in 21,45,3 e
10 Per le uirtutes, vd. 21,4,5-8 plurimum audaciae ad pericula capessenda, plurimum consilii inter ipsa pericula erat. Nullo labore aut corpus fatigari aut animus uinci poterat. Caloris ac frigoris patientia par; cibi potionisque desiderio naturali, non uoluptate modus finitus; uigiliarum somnique nec die nec nocte discriminata tempora; id quod gerendis rebus superesset quieti datum; ea neque molli strato neque silentio accersita; multi saepe militari sagulo opertum humi iacentem inter custodias stationesque militum conspexerunt. Vestitus nihil inter aequales excellens: arma atque equi conspiciebantur. Equitum peditumque idem longe primus erat; princeps in proelium ibat, ultimus conserto proelio excedebat. 11 I passi (per la cui analisi e commento vd. soprattutto supra, n. 9) si trovano tutti nella terza decade: 21,13,9; 21,45,3; 21,48,10; 22,7,5; 22,13,2; 22,58,2; 23,15,4; 23,42,4; 23,43,11; 24,13,1-2; 24,20,14-15; 24,30,13; 25,9,16-17. 12 Vd. 21,48,10 in captiuos ex tradito praesidio, ut fama clementiae in principio rerum colligeretur, nihil saeuitum est; 23,15,4 deinde ut qui a principio mitis omnibus Italicis praeter Romanos uideri uellet, praemia atque honores qui remanserint ac militare secum uoluissent proposuit; 24,20,15 tum quoque intacto agro Tarentino, quamquam simulata lenitas nihildum profuerat, tamen spe labefactandae fidei haud absistens.
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gli Italici in 22,13,2) e a negarla nei confronti dei Romani sconfitti (22,7,5). Il confronto con il testo corrispettivo di Polibio, laddove è possibile, dimostra la tendenza di Livio sia a conferire una maggiore centralità al concetto di clemenza sia ad attribuire alla narrazione una coloritura più ‘romanizzante’, che contrasta con la versione polibiana, talvolta più sintetica e obiettiva 13. Lo storico, però, per quanto rimarchi i risvolti moralmente deprecabili della clemenza annibalica, soprattutto quando essa è un’ulteriore conferma della perfidia Punica, ne riconosce l’importanza strategica, nonché un certo margine di successo: anche se non tutte defezionarono da Roma – pensiamo ad esempio ad Acerra e a Casilino che non a caso furono trattate duramente da Annibale in virtù della loro accanita resistenza 14 – diverse città della Campania e dell’Italia magnogreca si schierarono a fianco dei Cartaginesi. E nel loro tradimento – lascia intendere Livio – non svolsero un ruolo secondario sia la politica di clemenza del generale sia la memoria beneficiorum (24,13,2), rimedi complementari all’indispensabile dispiego della forza armata.
2. La clemenza di Filippo V di Macedonia e di Antioco III di Siria I parametri descrittivi che emergono da questa caratterizzazione di Annibale si possono riscontrare anche nell’operato di Filippo V e di Antioco III di Siria. Rispetto al Cartaginese, Livio attribuisce loro un numero inferiore di casi di clemenza: non si tratta, a mio parere, di una scelta casuale, anzi essa è presumibilmente dettata dal diverso carattere dei nemici e dalla loro rispettiva statura politica.
13 Ad esempio, se Livio in 21,48,10 attribuisce ad Annibale una ‘reputazione di clemenza’ anziché una ‘clemenza autentica’, Polibio, nel passo corrispondente (3,69,2-3), non suggerisce un’interpretazione ‘orientata’ della condotta del Cartaginese. Si limita infatti a riferire che Annibale rilasciò i prigionieri per dare una testimonianza concreta del suo modo di agire: γενόμενος δὲ κύριος τῆς φρουρᾶς καὶ τῆς τοῦ σίτου παραθέσεως τούτῳ μὲν πρὸς τὸ παρὸν ἐχρήσατο, τοὺς δὲ παραληφθέντας ἄνδρας ἀβλαβεῖς μεθ’ ἑαυτοῦ προῆγε, δεῖγμα βουλόμενος ἐκφέρειν τῆς σφετέρας προαιρέσεως πρὸς τὸ μὴ δεδιότας ἀπελπίζειν τὴν παρ’ αὐτοῦ σωτηρίαν τοὺς ὑπὸ τῶν καιρῶν καταλαμβανομένους. Sul raffronto Livio-Polibio rispetto alla clemenza, si veda anche Pianezzola 20182, 68-73. 14 Vd. rispettivamente 23,17, 4 e 18-19.
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2.1. Filippo V di Macedonia Il ritratto di Filippo V di Macedonia, quale emerge dalle pagine liviane, può essere a buon diritto incluso tra i cosiddetti ‘ritratti neri’ caratterizzati dalla compresenza di ira, simulazione, crudeltà e da reazioni prive di autocontrollo 15. Lo storico, inoltre, nella narrazione relativa agli ultimi anni di vita del sovrano (40,54,1 – 56,11), gli attribuisce pure i tratti di un eroe tragico, solitario e afflitto dai rimorsi per l’uccisione del figlio Demetrio 16. Gli aspetti positivi si trovano nettamente in secondo piano e, per citare qualche esempio, consistono nella capacità del re di mostrarsi coraggioso, prudente, volitivo ed energico nelle azioni 17. Accanto a queste qualità, Filippo pare anche assumere un atteggiamento moderato e clemente in determinate circostanze 18 che, pur non essendo numerose, trovo parimenti opportuno prendere in esame, al fine di delineare una caratterizzazione psicologica più complessa del sovrano macedone. Innanzitutto, si tratta di casi per lo più successivi alla sconfitta di Cinoscefale (197 a.C.). A partire da questo momento, Filippo non solo mostrò una certa remissività verso le autorità romane 19, ma promosse in prima persona una linea di condotta più indulgente. Entrambi questi aspetti affiorano dal racconto di 36,33,1-7, ambientato nel 191 a.C., quando il console Acilio Glabrione era ancora impegnato nella guerra contro gli Etoli ed Antioco III era stato appena sconfitto nella battaglia presso le Termopili (36,33,1-2 e 5): Vd. ad es. Hus 1977, CXVII-CXXVI e Bernard 2000, 266-268. Come osserva in modo pressoché uniforme la critica, in particolare dopo gli studi di Walbank 1938, 55-68. Cf. anche Gouillart 1986, C-CI: «comme le héros tragique, il est abandonné de tous […] comme Oedipe, Philippe va découvrir la vérité, mais trop tard» (p. C) e CIX: «le chapitre 54 nous présente un vieillard accablé de chagrin et de remords». 17 Vd. 31,16,1 Philippus magis regio animo est usus; qui cum Attalum Rhodiosque hostes non sustinuisset, ne Romano quidem quod imminebat bello territus; 28, 4 ad Rhodios quoque missi legati, ut capesserent partem belli. Nec Philippus segnius – iam enim in Macedoniam peruenerat – apparabat bellum; 32,5,8 bellum si quando unquam ante alias, tum magna cura apparauit. Su questi aspetti, cf. in particolare Hus 1977, CXIXCXXIV. 18 Assente nella sintesi che Bernard 2000, 441-443 dedica a Filippo V. 19 Osserva infatti Manuélian 20032, CXXI: «ce qui frappe le plus, chez lui, c’est sa docilité envers les autorités romaines, à tel point que, si on ne le connaissait que par le livre 36, on se ferait de sa personnalité une idée tout à fait fausse». Cf. anche 33,13,1-7 per l’atteggiamento pacato e bendisposto che assunse Filippo quando gli furono imposte le condizioni di pace dopo Cinoscefale. 15 16
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Per idem tempus Philippus rex, proficiscentem consulem ad Naupactum percunctatus si se interim quae defecissent ab societate Romana urbes recipere uellet, (2) permittente eo ad Demetriadem copias admouit, haud ignarus, quanta ibi tum turbatio esset. […] (5) Itaque praemissis a Philippo, quia spem impetrabilis ueniae ostendebant, responderunt patere portas regi.
Filippo, ottenuta dal console l’autorizzazione a riconquistare la città di Demetriade, che l’anno precedente aveva aperto le porte al re Antioco e agli Etoli 20, lasciò intravedere una speranza di perdono ai soldati che, indotti da questa prospettiva di salvezza, si arresero. Tuttavia, se la sua remissività fosse sincera o meno non può essere appurato con certezza 21. Dal canto suo, Filippo, pur ottemperando ai suoi doveri di alleato, non apprezzò di certo che Acilio gli avesse ordinato di recedere dall’assedio di Lamia (36,25,7-8) 22 e che i Romani fossero soliti prestare ascolto alle lagnanze dei suoi nemici, quali Eumene II di Pergamo, Tessali, Perrebi e Atamani 23. In questo quadro, perciò, hanno destato non pochi sospetti sia la malattia che impedì a Filippo di combattere a fianco dei Romani nello scontro alle Termopili (36,25,1) sia l’attacco che i Traci scagliarono contro l’esercito romano carico di bottino, poiché – insinua Livio – lo stesso re li avrebbe informati del transito delle truppe (38,40,8) 24. Anche il trattamento benevolo e clemente riservato al prigioniero etolo Nicandro rafforza il clima di diffidenza instau ratosi intorno alla sua figura (36,29,1-11) 25. Q uest’ultimo episodio, inoltre, consente di delineare le caratteristiche della clemenza del sovrano con maggior precisione rispetto Vd. 35,34,1-12. Esclude infatti che Filippo potesse essere realmente sincero Manuélian 20032, CXXIII-CXXV. 22 Se infatti ci atteniamo a 39,23,9 e 28,3, tale imposizione risultò sgradita a Filippo. Vd. Briscoe 1981, 258 e Ferrary 2017, 119-120. 23 In 39,28,1 Livio condensa le rimostranze di Filippo nei confronti dei Romani: ‘non cum Maronitis’ inquit ‘mihi aut cum Eumene disceptatio est, sed iam uobiscum, Romani, a quibus nihil aequi me impetrare iam diu animaduerto’. Cf. al riguardo Briscoe 2008, 315, 318-321 e Burton 2017, 44-47. Anche in 38,10,1-6, Livio allude al malcontento di Filippo che si vide strappare la Dolopia, l’Anfilochia e l’Atamania alla vigilia della pace tra Romani e Etoli (189 a.C.). 24 Vd. Thornton 2014, 128 e 132, Burton 2017, 43-44. 25 Manuélian 20032, CXXIV considera fittizia la malattia del sovrano, ritenendola «une maladie diplomatique». Più cauto, invece, Thornton 2014, 113, per cui il trattamento generoso riservato a Nicandro «legittima i dubbi sull’indisposizione che avrebbe impedito a Filippo di combattere alle Termopili». 20 21
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a 36,33,1-7. Nicandro 26, ritornando dall’Asia e dopo aver cercato di sollecitare l’aiuto di Antioco III nella guerra tra Romani ed Etoli, si imbatté in un presidio macedone e fu così condotto al cospetto di Filippo. Il re lo accolse alla stregua di un ospite, non come un nemico quale in effetti era. Anziché punirlo o consegnarlo ai Romani, lo lasciò andare, rimproverando gli Etoli per aver attirato in Grecia prima la presenza dei Romani, poi quella di Antioco III. Per parte sua, Filippo era pronto a dimenticare i rancori passati (36,29,9-10): Sed praeteritorum, quae magis reprehendi quam corrigi possint, oblitum se non facturum ut insultet aduersis rebus eorum; (10) Aetolos quoque finire tandem aduersus se odia debere, et Nicandrum priuatim eius diei, quo seruatus a se foret meminisse.
Conserviamo anche il testo corrispondente di Polibio (20,11), rispetto al quale, però, Livio diverge per qualche piccolo aspetto. In particolare, vorrei richiamare l’attenzione su due discrepanze: se in Livio Filippo afferma che avrebbe dimenticato i dissensi passati tra Macedoni ed Etoli, in Polibio, invece, si limita ad esortare gli Etoli a dimenticare gli avvenimenti precedenti. Inoltre, a differenza di Livio, lo storico greco sottolinea, alla fine della vicenda, che Nicandro fu sempre fedele alla casata macedone da quel momento in poi 27. Comune a entrambi gli storici, tuttavia, è la finalità politica del sovrano, deciso a procurarsi consensi presso gli avversari e a garantirsi una solida base di potere per riacquisire il prestigio che era necessariamente venuto meno dopo la vittoria romana di Cinoscefale 28. Come è stato rilevato da J. Thornton, a Polibio non doveva dispiacere «il messaggio politico di carattere panellenico» 29 del 26 Ipparco nel 194 a.C. e stratego per ben tre volte, l’ultima delle quali nel 177/176. Vd. Walbank 1957-1979, III 82. 27 Cf. Briscoe 1981, 266 che si limita solo a segnalare queste due differenze, rispettivamente in 20,11,7 (μετὰ δέ τινα χρόνον αὐτὸς ἐξαναστὰς συνέμιξε τῷ Νικάνδρῳ καὶ πολλὰ καταμεμψάμενος τὴν κοινὴν τῶν Αἰτωλῶν ἄγνοιαν, ἐξ ἀρχῆς μέν, ὅτι Ῥωμαίους ἐπαγάγοιεν τοῖς Ἕλλησι, μετὰ δὲ ταῦτα πάλιν Ἀντίοχον, ὅμως ἔτι καὶ νῦν παρεκάλειλήθην ποιησαμένους τῶν προγεγονότων ἀντέχεσθαι τῆς πρὸς αὑτὸν εὐνοίας καὶ μὴ θελῆσαι συνεπεμβαίνειν τοῖς κατ’ ἀλλήλων καιροῖς) e in 11,9 (ὁ δὲ Νίκανδρος, τελέως ἀνελπίστου καὶ παραδόξου φανείσης αὐτῷ τῆς ἀπαντήσεως, τότε μὲν ἀνεκομίσθη πρὸς τοὺς οἰκείους, κατὰ δὲ τὸν ἑξῆς χρόνον ἀπὸ ταύτης τῆς συστάσεως εὔνους ὢν διετέλει τῇ Μακεδόνων οἰκίᾳ). 28 Bene Walbank 1957-1979 , III 83: «Philip had already foreseen a rapprochement with a weakened Aetolia, hostile as he was to the new confederations of Thessaly». 29 Thornton 2013, 141.
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discorso di Filippo. La precisazione, assente in Livio, del legame duraturo tra Nicandro e i Macedoni si conforma peraltro a uno dei motivi basilari dell’ideologia polibiana, cioè la necessità, per una potenza egemone, di esercitare clemenza al fine di assicurarsi l’appoggio dei popoli o degli individui ad essa assoggettati. In questo senso, Filppo V rappresenta un anti-modello poiché, nel detenere il potere, ignorò i suggerimenti dei consiglieri che erano intenzionati a instillargli una maggiore moderazione 30. Se però osserviamo il comportamento del sovrano verso i Romani, al di là di questo background che il testo polibiano presuppone, è evidente, tanto in Polibio quanto in Livio, un’ambiguità tale da far dubitare della lealtà di Filippo come ‘alleato’. Anzi, in misura maggiore rispetto a Polibio, Livio concentra la tensione narrativa sul sovrano macedone: alla passività di Nicandro, che non reagì né alla notizia del rilascio né professò la sua fedeltà al sovrano 31, fa da contrappeso l’energia di Filippo, che non esitò a fare il primo passo nei confronti degli Etoli, convinto di dimenticare il passato e di dare un saggio effettivo della sua volontà di riconciliazione rilasciando il prigioniero. La clemenza dimostrata da Filippo ha un chiaro risvolto opportunistico, che non è condannabile in sé, ma nella misura in cui può indurre a dubitare della sua lealtà nei confronti dei Romani. Livio, infatti, insinua il dubbio che Filippo stia conducendo un ‘doppio gioco’ 32, veicolando l’immagine di un re disposto a inserirsi nel mosaico delle alleanze, pur di perseguire i propri obiettivi espansionistici. Un altro passo, sempre tratto dal libro 36, rappresenta un’ulteriore prova della clemenza interessata di Filippo. In 36,14, Livio descrive l’occupazione della regione dell’Atamania da parte del sovrano. Una volta che venne ristabilito il controllo romano sulla Tessaglia (191 a.C.), dopo la parentesi seleucide 33, Filippo riuscì a sottrarre l’Atamania al re Aminandro senza ricorrere alla violenza. Q uando gli fu consegnata una moltitudine composta da Atamani e da soldati del re Antioco, il sovrano trattò indulgenter soprattutto i prigionieri atamani (36,14,7-8): 30 Su questo tema rimando alle osservazioni di De Romilly 20112, 237-239 e soprattutto di Thornton 2013, 133-143. 31 A differenza di quanto leggiamo in Polyb. 20,11,9. 32 Netta è invece la posizione di Manuélian 20032, XXIII, secondo il quale in quest’episodio «l’attitude de Philippe n’est pas franche». 33 Vd. infra, 2.2.
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Philippus, Athamanum praecipue captiuis indulgenter habitis, ut per eos conciliaret gentem, nactus spem Athamaniae potiundae, exercitum eo duxit, praemissis in ciuitates captiuis. (8) Et illi magnam auctoritatem apud populares habuerunt, clementiam erga se regis munificentiamque commemorantes.
Clementia – unico caso in tutta la letteratura latina di età classica – costituisce un nesso con il termine munificentia. Tra i due sostantivi sono interposti sia il costrutto preposizionale erga se – che indica i destinatari – sia il genitivo di specificazione regis, che rappresenta il vero motore dell’azione. In particolare, Filippo rispecchia lo stereotipo del sovrano ellenistico, secondo il quale la clemenza e la generosità sono due virtù fondamentali 34. Tuttavia, il testo liviano dà adito a una discrasia tra punti di vista: Livio esplicita la posizione del re, che decise di agire indulgenter solo in ragione del suo spirito utilitaristico, essendo suo desiderio impadronirsi del l’intera Atamania 35; esprime, invece, il punto di vista dei prigionieri quando descrive Filippo come sovrano indulgente. La clementia e la munificentia del sovrano, che i beneficiari contribuiscono a diffondere, hanno, in realtà, un valore meramente propagandistico. Lo conferma, peraltro, la sorte successiva cui andò incontro la stessa regione dell’Atamania: indotti dalla superbia dei comandanti del presidio, gli Atamani non esitarono a rimpiangere il loro re precedente, Aminandro, e, con l’aiuto degli Etoli, respinsero la guarnigione macedone 36. Il re si vide così sfuggire il possesso di una regione poiché i suoi legati – lascia supporre il testo di Livio – diedero prova di un comportamento completamente antitetico rispetto a quello da lui adottato in occasione della conquista 37. La clemenza verso gli Atamani fu però un caso isolato e presto andò incontro all’oblìo: non se ne riscontra traccia nel resoconto liviano successivo, anzi quando nel libro 39 sono ricordate le azioni di Filippo in Tessaglia, in Perrebia e in Atamania – che Livio ha appunto narrato nel 36 – pure quest’ultima regione viene inclusa 34 Vd. su questo punto Squilloni 1990, 201-218, Malaspina 2009, 37-41 (in particolare 41, nn. 76-79), De Romilly 20112, Muccioli 2013, Virgilio 2013, 243-261. 35 Manuélian 20032, CXXI-CXXV considera Filippo «plein d’une indulgence calculée envers les prisonniers qu’il renvoie chez eux’, al fine di ampliare i suoi posse dimenti senza che i Romani ‘en prennent ombrage» (p. CXXIII). 36 38,1,2 Athamania ea tempestate, pulso Amynandro, sub praefectis Philippi regio tenebatur praesidio, qui superbo atque immodico imperio desiderium Amynandri fecerant. 37 Così Thornton 2013, 142.
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tra le località sottomesse. L’attendibilità storica di questa notizia può essere messa in discussione, visto che è riferita in oratio obliqua dai legati delle città che mal tolleravano la progressiva espansione di Filippo in Grecia (39,24,8-12); tuttavia, non escluderei possa rappresentare un ulteriore tassello a conferma del carattere strumentale e transitorio della clemenza del sovrano macedone. Filippo, inoltre, si pone in un rapporto più di rottura che di continuità rispetto ai suoi antenati antigonidi: lo stratego acheo Aristeno, fautore dell’alleanza della Lega achea con Roma, e il capo degli Etoli, Alessandro, sottolineano questo’aspetto in due discorsi che Livio attribuisce loro nel libro 32 38. Nel primo discorso, Aristeno cita come termine di paragone Antigono Dosone, definito mitissimus ac iustissimus rex (32,21,25); nel secondo, Alessandro rimarca il divario rispetto ai precedenti re macedoni (32,33,12-14): At non antiquos Macedonum reges ‹…› 39, sed acie bellare solitos, urbibus parcere quantum possent, quo opulentius haberent imperium. (13) Nam de quorum possessione dimicetur tollentem nihil sibi praeter bellum relinquere, quod consilium esse? (14) Plures priore anno sociorum urbes in Thessalia euastasse Philippum quam omnes qui unquam hostes Thessaliae fuerint.
Se costoro mostrarono di possedere clemenza, decidendo in particolare di urbibus parcere quantum possent, Filippo non sembrò distinguersi per l’esercizio di questa virtù. Dalle parole dell’etolo Alessandro, essa è tanto congenita all’indole degli avi quanto è estranea all’animo di Filippo. Un simile giudizio è senz’altro orientato a denigrare l’avversario, vista l’ostilità degli Etoli verso il sovrano macedone, ma, sfrondato dagli eccessi retorici e tendenziosi, non discorda nella sostanza da quello che possiamo evincere dalle altre pagine liviane. Anche in altri esempi – seppur non attinenti alla clemenza – è evidente come Filippo si comporti solo all’apparenza in modo benevolo: nel 200 a.C. cercò di guadagnarsi il favore degli Achei, promettendo loro che avrebbe impedito le devastazioni del territorio e che li avrebbe persino liberati dai soprusi del tiranno Nabide mandando un esercito in Laconia. Q uesta benigna Vd. su Aristeno e sulla sua posizione filoromana, Briscoe 1973, 200 e sulla figura di Alessandro e sulla sua capacità oratoria, Briscoe 1973, 233, che rimanda anche a Walbank 1957-1979, II 554. 39 Sull’integrazione del testo con ‹rem ita gessisse›, che si deve a M. Müller, vd. Briscoe 1973, 234. 38
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pollicitatio, lascia intendere Livio, che riporta il parere degli Achei, era tutt’altro che dettata dalla buona disposizione del re nei loro confronti 40; anzi, non appena si rese conto di non poter contare sul contingente di giovani achei per la guerra che egli avrebbe dovuto intraprendere contro Roma, Filippo non esitò a lasciarli in balia degli Spartani, venendo meno alle sue allettanti promesse (32,21,10-11). Anche in 37,7,1-16 – sebbene Livio non parli esplicitamente di simulazione – l’accoglienza e il supporto offerti ai Romani in transito per l’Asia erano innanzitutto un gesto di natura politica, per rassicurare i Romani, e soprattutto l’Africano, della sua buona fede 41. Torniamo però al giudizio sulla clemenza. La contrapposizione tra Filippo e gli altri sovrani macedoni si trova anche nella corrispettiva fonte polibiana: conserviamo infatti un frammento dello storico greco in cui viene riferita l’abitudine dei predecessori di Filippo a devastare raramente le città dopo la vittoria (18,3,4): Καίτοι γε τοὺς πρότερον Μακεδόνων βεβασιλευκότας οὐ ταύτην ἐσχηκέναι τὴν πρόθεσιν, ἀλλὰ τὴν ἐναντίαν· μάχεσθαι μὲν γὰρ πρὸς ἀλλήλους συνεχῶς ἐν τοῖς ὑπαίθροις, τὰς δὲ πόλεις σπανίως ἀναιρεῖν καὶ καταφθείρειν.
Già nel libro 5 Polibio ha evidenziato quest’antitesi, che appare tanto più marcata quanto più Filippo pretende di sottolineare il rapporto di continuità con la famiglia reale macedone: Filippo II aveva consolidato il prestigio della casa reale διὰ τῆς ἐπιεικείας καὶ φιλανθρωπίας τῶν τρόπων (5,10,1), Filippo V, invece, non si curò affatto di seguirne l’esempio (5,10,10-11). Ciononostante, la valutazione della personalità di Filippo V appare più ‘attenuata’ nel racconto polibiano. Insistendo a più riprese sul peggioramento del carattere del sovrano (4,77,1-4; 5,10,11; 7,11,1 – 14,6; 10,26,8) 42, Polibio ne sottintende parimenti una fase positiva e per certi versi più illuminata. In 4,27,9-10, ad esempio, la clemenza di Filippo non è affatto subordinata a un secondo fine e tantomeno a un intento simulatore, anzi, si configura come una qualità effettiva, prima della conversione in tiranno crudele: 31,25,8 non fefellit Achaeos quo spectasset tam benigna pollicitatio auxiliumque oblatum aduersus Lacedaemonios: id quaeri ut obsidem Achaeorum iuuentutem educeret ex Peloponneso ad inligandam Romano bello gentem. 41 Su questo passo, vd. Della Calce – Mollea c.d.s. 42 Cf. De Romilly 20112, 238-240. 40
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Ὁ δὲ βασιλεὺς Φίλιππος χρηματίσας τοῖς Ἀχαιοῖς ἀνέζευξε μετὰ τῆς δυνάμεως ἐπὶ Μακεδονίας, σπεύδων ἐπὶ τὴν παρασκευὴν τῶν πρὸς τὴν πόλεμον, (10) οὐ μόνον τοῖς συμμάχοις, ἀλλὰ πᾶσι τοῖς Ἕλλησι διὰ τοῦ προειρημένου ψηφίσματος καλὰς ἐλπίδας ὑποδεικνύων πρᾳότητος καὶ μεγαλοψυχίας βασιλικῆς.
E di questa irreversibile metabolé il sovrano macedone non è nemmeno l’unico responsabile. Polibio, infatti, se da un lato sottolinea l’influenza positiva che Arato il Vecchio esercitò su Filippo, poiché lo distolse dal prendere con la forza la rocca di Messene, come consigliava invece Demetrio di Faro (7,12,1-10) e lo indusse a comportarsi in modo benevolo verso i Cretesi (7,14,4) 43, dall’altro lato, pare far ricadere la colpa delle empietà che Filippo commise a Termo, contro gli Etoli, anche sugli amici del re e su Demetrio di Faro nella fattispecie (5,11,1 – 12,8; 7,14,3): in questo senso, Polibio scagiona talvolta il sovrano dalle responsabilità più atroci 44. Anche Plutarco, nella biografia dedicata ad Arato, testimonia questa metamorfosi di Filippo, rimarcando però come il sovrano avesse sempre avuto una crudeltà congenita 45. Ricapitolando, in Livio, la clemenza di Filippo, come quella di Annibale, è votata ad uno scopo politico preciso. Non è il carattere opportunistico in sé ad essere messo in discussione, bensì l’uso che ne fa il sovrano macedone nello specifico: si tratta di azioni che non sono perseguite con sistematicità, ma hanno un valore propagandistico, e non portano nemmeno buoni risultati a lungo termine, anzi, come nel caso dell’Atamania, si concludono con esito 43 Polibio, con qualche esagerazione (così Walbank 1957-1979, II 59), accenna all’episodio anche in 7,11,9: ἐκφανέστατον δὲ καὶ μέγιστον δεῖγμα περὶ τοῦ τί δύναται προαίρεσις καλοκἀγαθικὴ καὶ πίστις, τὸ πάντας Κρηταιεῖς συμφρονήσαντας καὶ τῆς αὐτῆς μετασχόντας συμμαχίας ἕνα προστάτην ἑλέσθαι τῆς νήσου Φίλιππον, καὶ ταῦτα συντελεσθῆναι χωρὶς ὅπλων καὶ κινδύνων, ὃ πρότερον οὐ ῥᾳδίως ἂν εὕροι τις γεγονός. 44 Non a caso, infatti, lo storico greco attribuisce uno dei propositi più abietti, cioè abituare le truppe a mangiare carne umana, non ad Annibale, ma ad uno dei suoi amici, un certo Annibale Monomaco, di cui – e qui mi affido alle osservazioni di Brizzi 1984, 7-32 – non si ha notizia altrove (9,24,5-6), ma che Polibio ritiene il principale responsabile degli atti di crudeltà di Annibale in Italia: τούτου δὲ τἀνδρὸς εἶναί φασιν ἔργα καὶ τὰ κατὰ τὴν Ἰταλίαν εἰς Ἀννίβαν ἀναφερόμενα περὶ τῆς ὠμότητος, οὐχ ἧττον δὲ καὶ τῶν περιστάσεων (9,24,8). Livio, invece, attribuisce al console Varrone, nel celebre discorso dopo la sconfitta di Canne, un’accusa di cannibalismo nei confronti del popolo cartaginese, descritto secondo il prototipo del barbaro selvaggio e irrazionale (23,5,12). 45 Arat. 49,1 ἐπεὶ δὲ τῆς τύχης εὐροούσης ἐπαιρόμενος τοῖς πράγμασι πολλὰς μὲν ἀνέφυε καὶ μεγάλας ἐπιθυμίας, ἡ δ’ ἔμφυτος κακία, τὸν παρὰ φύσιν σχηματισμὸν ἐκβιαζομένη καὶ ἀναδύουσα, κατὰ μικρὸν ἀπεγύμνου καὶ διέφαινεν αὐτοῦ τὸ ἦθος; vd. Muccioli 2020, 328-329, n. 195.
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fallimentare. Se Polibio insiste sull’importanza di adottare una condotta mite per guadagnarsi l’appoggio dei sottoposti, Livio conserva poche tracce della clemenza del sovrano né dà la possibilità di scoprire e di distinguere con nettezza un ‘prima’ e un ‘dopo’, evitando di soffermarsi sul cambiamento del re da una condizione morale positiva a una negativa 46. Senza considerare infine che, in caso di un paragone con i sovrani del passato, Filippo appare deci samente sconfitto quanto ad esercizio di clemenza. 2.2. Antioco III di Siria Prima di affrontare la disamina dei passi relativi alla clemenza di Antioco III, mi limito a qualche considerazione sul ritratto liviano del re, rifacendomi soprattutto agli studi antecedenti che ne hanno osservato, da un punto di vista generale, le principali caratteri stiche 47. Innanzitutto, Livio non inserisce Antioco nel novero dei re tirannici e collerici cui invece appartiene Filippo V. Emergono dalla caratterizzazione del personaggio elementi negativi, quali la uanitas, che si traduce spesso nell’abitudine di apprezzare la cortigianeria (36,8,4), e una certa instabilità d’animo, che indurrebbe Antioco ad elaborare una strategia militare non sempre coerente e perspi cua: ad esempio, quando è pronto a cedere buona parte dei suoi proventi ai Romani (37,34-37) e intende sottrarsi allo scontro diretto con Roma, temendo una disfatta fatale per il suo regno 48. A ciò si aggiungono altre notazioni poco lusinghiere, tese ad irridere le capacità tattico-strategiche del sovrano, talora descritto in Hus 1977, CXIX-CXX afferma che in Livio «le portrait est donc fidèle, mais incomplet, et l’on n’y discerne pas une évolution précise» a differenza di quanto è possibile leggere in Polibio. Cf. anche Bernard 2000, 260-266. 47 Ho fatto riferimento a Mendels 1978, 27-38 e soprattutto alle osservazioni di Engel 1983, XXXIX-XLIII; Bernard 2000, 235-240, 295 e 391-393; Manuélian 20032, XXXVI-LXVI e CXII-CXIV. Flamerie de Lachapelle 2012, 123-132 circo scrive l’indagine alle cosiddette «prises de parole d’Antiochus III» all’interno del l’opera liviana: dal suo punto di vista, nelle Storie prevarrebbe il prototipo di un re «velléitaire, souvent furbe et toujours incapable d’actions d’envergure» (p. 132). Per l’immagine di Antioco che sarebbe stata recepita da Polibio e, inoltre, per l’ana lisi di una presunta influenza della «storiografia partigiana della corte seleucide» sul racconto polibiano, vd. Primo 2009, 126-146. Sull’anabasi orientale di Antioco, datata tra il 212 e il 205 a.C., e sulla campagna successiva in Asia Minore intrapresa nel 204-203 a.C., si vedano in particolare Ma 1999, 63-73 e 2003, 243-259. 48 Engel 1983, XXXIX, Bernard 2000, 237-238 e 294-295, Manuélian 20032, CXII-CXIV. 46
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un modo non molto diverso dal tipo del miles gloriosus 49. Al contrario, per quanto riguarda gli aspetti positivi, Livio gli riconosce il contegno maestoso che si confà a un sovrano potente, quale Antioco del resto si riteneva, l’audacia nell’esporsi in prima linea sul campo di battaglia, la munificentia e la liberalitas e una certa capacità nel tener a freno l’ira in determinate occasioni (33,20,6: temperauit irae) 50. Tuttavia, al di là della testimonianza di Livio – che spesso non esita a screditare l’immagine del sovrano – è piuttosto plausibile credere che Antioco avesse preferito adottare una strategia più prudente e difensiva dopo la vittoria navale romana a Mionneso (190 a.C.): abbandonò infatti Lisimachia e l’Ellesponto, cercò di intavolare negoziati, avanzando anche offerte private allo stesso Scipione, così da preservare il più possibile la sua reputazione di re da ulteriori umiliazioni 51. Il comportamento di Antioco, in misura maggiore rispetto a Filippo, rispecchia i canoni del sovrano ellenistico tout court, in particolare quando Livio descrive il trattamento munifico che il re riservò al figlio di Scipione l’Africano tenuto in ostaggio (37,34,1-37,9) 52. Se però ci spostiamo sul versante della clemenza, la caratterizzazione del re seleucide sembra condividere gli stessi principi validi per Annibale e Filippo. Guardiamo da vicino alcuni passi tratti dai libri 33 e 36. Antioco aveva intenzione di ricostituire l’antico regno che era appartenuto al suo antenato Seleuco I e si impegnò – sottolinea Livio – a riportare omnes Asiae ciuitates in antiquam imperii formulam (33,38,1) 53. Perseguendo nella sua opera di riconquista Engel 1983, VIII, n. 5 e Bernard 2000, 391-393. Bernard 2000, 235-236, Manuélian 20032, XXXVI-XXXVIII. 51 Riprendo le argomentazioni esposte da Engel 1983, XLII. Su questo punto, vd. anche Flamerie de Lachapelle 2012, 123-124 (soprattutto nn. 1-3) e Thornton 2014, 118-120. 52 Vd. 37,34,7 illud satis constat si pax cum populo Romano maneret hospitiumque priuatim regi cum Scipionibus esset, neque liberalius neque benignius haberi colique adulescentem quam cultus est potuisse; 37,36,6 ego ex munificentia regia maximum donum filium habebo; aliis, deos precor, ne umquam fortuna egeat mea; animus certe non egebit. 53 Liv. 33,38 fa riferimento alle operazioni di Antioco nel 197-196 a.C. (la datazione è controversa, vd. infra, n. 54). L’intenzione di ripristinare la sfera di influenza dell’antico regno seleucide deve però considerarsi antecedente al 197 a.C. Secondo Thornton 2014, 95, il re sarebbe stato impegnato «in un grandioso tentativo di restaurazione del regno che dopo l’anabasi in Oriente (212-205) lo portò dalla Celesiria alla Tracia, passando per l’Asia Minore». Il sovrano ritornò in Asia Minore nel 197 a.C., dopo aver conseguito nel 200 a.C. la vittoria di Panion su Tolomeo V. 49 50
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dell’Asia Minore, cercò di indurre alla sottomissione anche Smirne e Lampsaco (196 a.C.) 54. Poiché le città non avevano affatto intenzione di cedere, Antioco temeva che gli altri centri dell’Eolide, della Ionia e dell’Ellesponto potessero reagire in modo analogo (33,38,3). Decise pertanto di attaccarle, attuando però una duplice strategia (33,38,5-7): Nec ui tantum terrebat, sed per legatos leniter adloquendo castigandoque temeritatem ac pertinaciam, spem conabatur facere breui quod peterent habituro, (6) sed cum satis et ipsis et omnibus aliis appareret ab rege impetratam eos libertatem, non per occasionem raptam habere. (7) Aduersus quae respondebatur nihil neque mirari neque suscensere Antiochum debere si spem libertatis differri non satis aequo animo paterentur.
Come si evince dalla contrapposizione tra l’ablativo strumentale ui e l’avverbio leniter, il re coniugò l’uso della forza con un atteggiamento pacato e benevolo. Significativa, a tal proposito, la scelta lessicale del verbo castigo, di solito adoperato nelle Storie per indicare un rimprovero più blando, che sfocia raramente in misure punitive concrete 55. Antioco, promettendo alle città ribelli che avrebbero visto finalmente esaudita la loro speranza di libertà, qualora si fossero sottomesse a lui, ne presupponeva al contempo un trattamento più benevolo. Dal testo liviano è ben evidente la dimensione opportunistica del comportamento e della presunta mitezza di Antioco, completamente giustificabile alla luce dei suoi progetti egemonici. D’altra parte, la libertà di cui le città avrebbero beneficiato sarebbe stata impetrata, cioè concessa dal sovrano, a riprova della sua volontà di dominio 56. Non accettarono però il giogo seleucide né Smirne È dello stesso parere Mastrocinque 1983, 69: «le operazioni del 197-196 ripercorsero le tracce e continuarono l’opera iniziata nel 204-203». Per una maggiore contestualizzazione della spedizione del re in Asia Minore nel 204 a.C. e per l’analisi delle testimonianze epigrafiche ad essa relative, in particolare ai ‘decreti di Teo’ e alle iscrizioni di Amyzon, vd. Mastrocinque 1983, 62-69 e Ma 1999, 65-73. 54 Secondo la cronologia liviana. Tuttavia, la datazione delle operazioni di An tioco in Asia Minore è discussa: alcuni ritengono che gli avvenimenti narrati da Livio in 33,38,1-7 dovessero far riferimento alla fine del 197 a.C. (così ad es. Schmitt 1964, 289-295, Walbank 1957-1979 , II 620 e Briscoe 1973, 320-321). Contra Mastrocinque 1983, 74-77 che sostiene la datazione del 196 a.C. 55 Nel dettato liviano il sostantivo castigatio e il verbo castigo sono prevalentemente adoperati per esprimere un rimprovero a parole (vd. ThLL s.v. castigatio 530, 53-85). 56 Lo slogan della restituzione della ἐλευθερία ai Greci, tanto diffuso nella politica ellenistica – e anche in quella romana, come tra l’altro esemplifica la dichiarazione di Flaminino ai giochi istmici del 196 a.C. – viene propagandato pure dal re seleucide.
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né Lampsaco, forse indotte a resistere dalla prospettiva che i Romani sarebbero intervenuti in loro supporto 57. In un altro passo, l’esercizio della clemenza da parte di Antioco diventa più esplicito. In 33,38, infatti, esso si può dedurre indirettamente, facendo Livio riferimento a una certa propensione del re – per quanto fosse interessata – a smorzare la violenza dell’assedio nei confronti delle città restie ad arrendersi. Ci troviamo questa volta all’inizio del libro 36, quando Antioco, nel 192 a.C., intraprese un’offensiva contro la Tessaglia. Le ostilità tra il sovrano e Roma si erano da poco aperte in Grecia: supportato dagli Etoli, che ne avevano sollecitato la presenza e l’intervento, Antioco si era già impossessato di Calcide e delle altre città del l’Eubea. Accampatosi ora presso la città tessala di Fere, fu raggiunto da alcuni delegati provenienti da Larissa che gli chiesero di ritirare l’esercito. In secondo luogo, cercarono di difendere Fere tramite l’invio di un drappello di uomini armati sotto la guida dello stratego Ippoloco (36,9,1-3). Q uesti, però, non riuscendo a entrare in città, furono costretti a raggiungere la città vicina di Scotussa 58. Il re, dal canto suo, dichiarò agli ambasciatori che le sue azioni erano rivolte a difendere la libertà dei Tessali, secondo uno slogan ben noto nella propaganda seleucide (36,9,4): Legatis Larisaeorum rex clementer respondit non belli faciendi, sed tuendae et stabiliendae libertatis Thessalorum causa se Thessaliam intrasse.
Innanzitutto, l’avverbio clementer 59 richiama l’avverbio leniter di 33,38,5; anzi, qui Livio lo riferisce direttamente ad Antioco che, Antioco, osserva Mastrocinque 1983, 63, quando ritornò in Asia Minore «si atteggiò a liberatore delle poleis» ancor più che nel 204-203 a.C. In questi termini viene infatti ricordato in un decreto di Iaso, probabilmente risalente al 196 a.C. (vd. Ma 1999, 329-335, n° 26). Ciononostante, il tema della ἐλευθερία assume sfumature peculiari nello specifico del sovrano seleucide, essendo subordinato alle sue aspirazioni egemoniche. Vd. Mastrocinque 1983, 87: «Antioco concedeva che le città, alcune città, fossero libere in forza di un atto suo giuridico […] non in forza di un diritto “naturale” o “spontaneo” delle poleis alla libertà, come pretendevano i Romani». Così pure Ma 1999, 100: «Antiochos did not present his conquests under the head ing of the “liberation of the cities”, but rather appealed to dynastic legitimacy and euergetic solicitude». Sul tema, cf. anche Flamerie de Lachapelle 2012, 130 (soprattutto n. 33). 57 Così ritiene Thornton 2014, 98. Sulla sorte di Smirne e di Lampsaco e sul loro rapporto con Roma, vd. Ferrary 1988, 133-141 (su Lampsaco) e Ma 1999, 95-99. 58 A poco meno di una ventina di kilometri da Fere, vd. Manuélian 20032, 97, n. 4. 59 Q ui l’avverbio non si riferisce a un esercizio concreto della clemenza, ma ha un significato più generale, esprimendo il garbo e la pacatezza nell’eloquio (vd. ThLL s.v. clemens 1333, 56-69).
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senza la mediazione di legati, dà prova di pacatezza e di moderazione nella risposta. Dinanzi ad analoghe argomentazioni da parte del sovrano, anche i Ferei ribadirono la propria vocazione a rimanere liberi dal dominio seleucide 60 e, al contempo, fedeli ai Romani. Vista la tenacia della città tessala, pronta a sostenere l’assedio, Antioco sconfessò la sua precedente moderazione: ottenne infatti la resa di Fere facendo uso della forza e incutendo terrore agli abitanti (36,9,12-15): Postremo uicti malis, cum timerent ne ui captis nulla apud uictorem uenia esset, dediderunt sese. (13) Nihil deinde moratus, rex quattuor milia armatorum, dum recens terror esset, Scotusam misit. Nec ibi mora deditionis est facta, cernentibus Pheraeorum recens exemplum, (14) qui quod pertinaciter primo abnuerant, malo domiti tandem fecissent; cum ipsa urbe Hippolochus Larisaeorumque deditum est praesidium. (15) Dimissi ab rege inuiolati omnes, quod eam rem magni momenti futuram rex ad conciliandos Larisaeorum animos credebat.
Dal punto di vista degli assediati, la resa rappresentava un importante spartiacque perché potessero ricevere clemenza da parte del vincitore 61. Le reazioni successive sono caratterizzate da fretta e da concitazione, come dimostra il testo liviano, in cui due periodi consecutivi iniziano non a caso con due formulazioni per certi versi simili: prima, Antioco, senza perdere tempo, mandò un contingente a Scotussa per assediarla, poi la stessa città non esitò a capitolare, memore com’era dello sventurato destino di Fere. Si consegnarono pure Ippoloco e il presidio di Larissa. Solo a questo punto, quando cioè si fu assicurato della resa dei Ferei, di Scotussa e di quanti si trovavano al suo interno, Antioco lasciò andare inuiolati i Larissesi e lo stratego. Livio, però, non tarda a precisare che questo gesto di clemenza fu tutt’altro che disinteressato, poiché era in realtà teso ad conciliandos Larisaeorum animos. Che si trattasse di una clemenza tanto utilitaristica quanto transitoria è ben evidente dal pro-
60 Livio paragona questa risposta a quella che i Calcidesi rivolsero ad Antioco e che viene riferita in 35,46,9-11: ad haec Micyt‹h›io, unus ex principibus, mirari se dixit ad quos liberandos Antiochus relicto regno suo in Europam traiecisset; nullam enim ciuitatem se in Graecia nosse quae aut praesidium habeat aut stipendium Romanis pendat aut foedere iniquo adligata quas nolit leges patiatur; itaque Chalcidenses neque uindice libertatis ullo egere, cum liberi sint, neque praesidio, cum pacem eiusdem populi Romani beneficio et libertatem habeant. 61 Come Livio spesso ricorda in riferimento ai Romani: tra i molteplici casi presenti nelle Storie, vd. ad es. 2,30,15; 27,15,2-3; 28,20,12; 37,32,12.
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sieguo della narrazione di 36,10, ove Livio ne chiarisce finalmente il valore strumentale (36,10,3-4): Tunc adgredi Larisam constituit, ratus uel terrore ceterarum expugnatarum uel beneficio praesidii dimissi uel exemplo tot ciuitatium dedentium sese non ultra in pertinacia mansuros. (4) Elephantis agi ante signa terroris causa iussis, quadrato agmine ad urbem incessit, ut incerti fluctuarentur animi magnae partis Larisaeorum inter metum praesentem hostium et uerecundiam absentium sociorum.
La clemenza con cui Antioco sperava di ‘conciliare gli animi dei Larissesi’ non consisteva nella promessa di risparmiare gli abitanti da un assedio, di lasciarli cioè inuiolati (anche perché esercito ed elefanti erano già pronti all’attacco), ma rappresentava un’arma diplomatica che avrebbe dovuto indurre la città ad arrendersi. Pertanto, se è vero che la capitolazione della guarnigione larissese rese possibile l’esercizio della clemenza in 36,9,15, è altrettanto vero il processo logicamente inverso, attestato in 36,10,3. In tal senso, la clemenza non ha una funzione diversa né dal terrore conseguente all’espugnazione delle altre città né dall’esempio degli abitanti che si arresero, bensì risulta ad essi concomitante. Ciononostante, il sovrano non riuscì nel suo intento, poiché si ritirò da Larissa non appena venne a sapere che i Romani si erano accampati non lontano dalla città. In realtà, Antioco cadde in un ‘tranello’: il comandante romano Appio Claudio 62, per dare al nemico l’impressione che lì si fosse stanziato l’esercito romano con il re Filippo, stabilì per l’accampamento dei confini più ampi del necessario e accese un maggior numero di fuochi 63. Il racconto liviano lascia così intendere che non solo il disegno verso Larissa si rivelò fallimentare, ma che si concluse pure con un’immagine non propriamente positiva del sovrano: pauroso ed esitante, Antioco si lasciò intimorire dal piano dei Romani 64. Vd. su Ap. Claudius Pulcher, MRR, I 355. 36,10,11-12 oppidum Gonni uiginti milia ab Larisa abest, in ipsis faucibus saltus quae Tempe appellantur situm. Ibi castra metatus latius quam pro copiis et plures quam quot satis in usum erant ignes cum accendisset, speciem quam quaesierat hosti fecit, omnem ibi Romanum exercitum cum rege Philippo esse. Antioco addusse come giustificazione davanti ai suoi l’incombere dell’inverno, cf. 36,10,13 itaque hiemem † stare† apud suos causatus, rex unum tantum moratus diem, ab Larisa recessit et Demetriadem rediit, Aetolique et Athamanes in suos receperunt se fines. Su instare in luogo di stare, vd. Briscoe 1981, 235. 64 Vd. Manuélian 20032, CXIII-CXIV. 62 63
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Sempre nel libro 36, in un passo di poco successivo, troviamo un altro episodio concernente la clemenza di Antioco. Livio riferisce del tentativo del re di far schierare al suo fianco l’Acarnania. A tal proposito, si era guadagnato il favore di Mnasiloco (princeps Acarnanum) e del pretore Clito (36,11,8). Q uest’ultimo, vedendo la difficoltà di trarre la capitale dalla propria parte, escogitò un astuto piano: ottenne dall’assemblea acarnana che fossero mandati gruppi di uomini armati sia a Medione sia a Tirreo 65, con il pretesto di difendere le due città dagli attacchi di Antioco e degli Etoli. Intanto, giunsero a Medione ambasciatori da parte del re. Data l’incertezza degli abitanti, che non sapevano se abbandonare o meno l’alleanza con Roma, Clito suggerì di mandare un’ambasceria ad Antioco per chiedere che la questione venisse affrontata nell’assemblea degli Acarnani (36,12,1-3). Facevano parte del l’ambasceria anche Mnasiloco e i suoi seguaci, i quali, temporeggiando, consentirono però ad Antioco di arrivare alle porte di Medione. Infine, sia Clito sia Mnasiloco lo fecero entrare in città (36,12,4-5). In balìa della confusione, i cittadini ebbero reazioni differenti (36,12,6-8): Et aliis sua uoluntate adfluentibus, metu coacti etiam qui dissentiebant ad regem conuenerunt. Q uos placida oratione territos cum permulsisset, ad spem uolgatae clementiae 66 aliquot populi Acarnaniae defecerunt. (7) Thyrreum a Medione profectus est, Mnasilocho eodem et legatis praemissis. Ceterum detecta Medione fraus cautiores non timidiores Thyrre‹e›nses fecit; (8) dato enim haud perplexo responso, nullam se nouam societatem nisi ex auctoritate imperatorum Romanorum accepturos, portis clausis armatos in muris disposuerunt.
Anche qui il re mostrò quell’attitudine pacata e benevola che già abbiamo visto caratterizzare la sua risposta ai Tessali in 36,9,4 e, ancor prima, l’intervento presso Lampsaco e Smirne (33,38,5). In seguito, continua Livio, la fama di clemenza che il sovrano si era procurato a Medione aveva indotto diversi Acarnani alla defezione. I Tirreesi, però, non si lasciarono persuadere e si comportarono in modo più diffidente, sbarrando le porte al re. 65 Sulla posizione geografica delle due città acarnane, non molto distanti l’una dall’altra, vd. Briscoe 1981, 237 e Manuélian 20032, 101, n. 13. 66 Contra l’emendazione di Madvig che preferisce uulgandae clementiae alla lezione tradita uulgatae clementiae. Come osserva Briscoe 1981, 238 «spem uulgatae clementiae means “the hope for the clemency which had been widely talked about” and the MSS. text should be retained».
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L’esercizio di clemenza del sovrano non è allora solo mascherato da finalità diplomatiche, tali da garantirgli l’appoggio di altre genti dell’Acarnania, ma presuppone a tutti gli effetti un inganno 67. Il termine fraus, con cui Livio fa sintetizzare ai Tirreesi gli avvenimenti di Medione, consente infatti di smascherarne il carattere artificioso e propagandistico.
3. Osservazioni finali Dalla rassegna dei passi presi in esame, la terminologia che veicola l’idea di clemenza viene inserita in un contesto in cui le finalità pratiche prevalgono sempre sull’esercizio disinteressato della virtù stessa. Anche la ‘simulazione’, pur non essendo esplicitata in ogni circostanza, rappresenta una componente costitutiva della condotta dei personaggi. In tal senso, la clemenza non si può equiparare a una caratteristica innata, bensì a un’attitudine frutto di una specifica strategia, legata ad occasioni e a destinatari particolari. La presenza di un secondo fine non deve però essere considerata una nota negativa per se. Piuttosto, è il modo in cui viene descritta la clemenza di questi tre grandi nemici, cioè attraverso le due costanti tematiche prima enunciate, che lascia pensare come lo storico non volesse disgiungere la percezione della virtù da una valutazione morale non propriamente positiva. D’altronde, nel momento in cui Livio riserva un excursus descrittivo alle personalità di questi tre nemici, le doti cui egli allude riguardano in prevalenza le capacità belliche, il coraggio e la fermezza in determinate situazioni. Sono queste, nella prospettiva liviana, le loro qualità realmente ‘autentiche’. Se è vero che esistono dei pattern narrativi comuni nel descrivere la clemenza del nemico, è altrettanto vero che il grado di incidenza del concetto nel caso di Annibale supera di gran lunga quello riscontrabile nel caso di Filippo e di Antioco, cosicché ad un’uniformità dei parametri descrittivi non corrisponde tout court un’uniformità dal punto di vista ideologico: i due sovrani, infatti, esercitano clemenza solo occasionalmente; Annibale, invece, la con67 Su quest’aspetto vd. anche le osservazioni di Flamerie de Lachapelle 2012, 131: «l’impression donnée est qu’Antiochus fait preuve d’une certaine duplicité, et les cités qui refusent sa feinte clementia pour rester fidèles à l’alliance romaine sont valorisées».
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sidera un rimedio piuttosto ricorrente nella sua strategia in Italia. Ne consegue una diversa percezione di queste tre figure da parte di Livio, che trascende dal giudizio morale che è a loro tipicamente attribuito. Dal testo la clemenza di Annibale è, da un lato, conforme allo stereotipo del Punico infido – e riceve pertanto una connotazione morale negativa da parte dello storico – mentre, dall’altro lato, è una componente importante a livello politico-strategico. Essa non fu certo l’unico ingrediente per indurre alla defezione le popolazioni, anzi il generale si lasciò spesso andare a violenze e a devastazioni, come dimostrano alcuni esempi di città (Nocera, Acerra, Casilino). Tuttavia, Livio non ne nasconde i riscontri favorevoli per la politica di Annibale, anche se presto si sarebbero infranti contro la riscossa romana. La ‘clemenza annibalica’ riflette allora una politica di più ampio respiro rispetto agli altri due protagonisti, i quali, nel caso specifico di Antioco, non esitarono talvolta a dar prova di scarsa lungimiranza tattica e politica 68. E anche il fatto che la clemenza annibalica fosse menzionata nel discorso che Livio attribuisce a terzi, Irpini e Sanniti nella fattispecie (23,42,4), rappresenta una differenza rispetto a quella di Filippo e di Antioco, mai sollecitata dall’esterno, e tradisce la diversa percezione dello storico. Con queste considerazioni, non intendo però creare un rigido spartiacque con la clemenza dei Romani e privarla, così, di esplicite finalità pragmatiche. In tal senso, Livio non ha un atteggiamento omogeneo: ora non evita di mettere in luce i risvolti interessati della clemenza romana 69, ora redige un resoconto più orientato, che preferisce celare i secondi fini, a favore di una presentazione il più possibile celebrativa della parte romana, che sceglie di essere clemente più per propensione caratteriale che per calcolo e che va persino incontro alle critiche dei nemici per un’indulgenza eccessiva 70. In più occasioni la clemenza viene definita una caratteristica 68 Livio, infatti, critica implicitamente Antioco, poiché si lasciò irretire dagli Etoli, che lo invitarono a recarsi in Grecia, non appena Demetriade cadde nelle loro mani, vd. 35,43,2 extemplo consilium mittendi Hannibalis, quod unum in principio belli utiliter cogitatum erat, abiectum est. Demetriadis maxime defectione ab Romanis ad Aetolos (sc. Antiochus) elatus, non ultra differre profectionem in Graeciam constituit. 69 Si vedano almento a titolo d’esempio 21,60,4 e 27,17,1. 70 Vd. su quest’ultimo punto, 39,55,1-3, ove Livio riporta le critiche che gli anziani dei Galli mossero ai Romani in fatto di clemenza: legatis Romanis Transalpini populi benigne responderunt. Seniores eorum nimiam lenitatem populi Romani castigarunt, quod eos homines, qui gentis iniussu profecti occupare agrum imperii Romani et in alieno
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romana tout court, un mos di cui i Romani e gli stessi avversari che ne fanno ricorso sono consapevoli 71, una virtù di cui viene talvolta ribadita la natura disinteressata, svincolata da ogni logica utilitaristica 72. Ma anche su questo versante occorre tenersi lontano da assolutizzazioni ideologiche: se lo storico cerca di tenere fermo il rapporto con un nucleo di tradizioni ancestrali, dall’altro lato non può trascendere dal personalismo che è destinato a diventare una marca distintiva della clemenza del singolo generale 73, mettendo progressivamente in ombra la prospettiva universalistica della clementia populi Romani.
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PARTE II
LIVIO COME FONTE STORICA E STORIOGRAFICA
FRANCESCA CENERINI
IL RUOLO DELLE DONNE NELLA NARRAZIONE LIVIANA: ALCUNI ESEMPI
Già da tempo la ricerca storica ha proposto di definire ‘modelli formatori’ 1 alcune narrazioni liviane edificanti relative ad alcune donne e alle loro virtù. Mutuando il lessico della filosofa nordamericana Judith Butler 2, potremmo addirittura parlare di ‘teoria della performatività’, vale a dire potremmo indagare le norme sociali e giuridiche che hanno formato il femminile nella società che qui ci interessa studiare, quella romana. In tal senso si sono mosse recenti ricerche (cito fra tutte quelle di Francesca Cavaggioni 3, di Francesca Rohr 4 e di Ida Gilda Mastrorosa 5) che hanno ben definito il quadro della complessa tradizione sulle donne romane in età repubblicana e in Livio in particolare. Il cosiddetto modello ideale, che vedeva nella castitas il valore primario, viene continuamente riproposto dalle fonti, letterarie e documentarie; ad es. nei cd. elogia epigrafici funebri: di Claudia 6, di Murdia 7, della cosiddetta Turia 8, databili tra la fine del II e I secolo a.C. Tale modello definisce le virtutes che una donna avrebbe dovuto avere in ossequio al mos maiorum e che Cf. Erne 1998, 63. Butler 1988. 3 Cavaggioni 2004. 4 Cenerini – Rohr Vio 2016; Rohr Vio 2019. 5 Cenerini – Mastrorosa 2016. 6 CIL I2, 1211 su cui cf. Cenerini 20092. Oggi si discute sull’autenticità della pietra (cf. EDR-132144, C. Martino), ma il valore comunicativo dell’iscrizione non muta. 7 CIL VI, 10230. 8 Cf. Ogswood 2014; Franco 2016 e ivi la bibliografia di riferimento; Fontana 2021; cf. anche Hemelrijk 2004, a proposito della connotazione positiva delle attività ‘pubbliche’ di Turia, in quanto operate nell’interesse del marito e della famiglia. 1 2
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 303-314 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125332
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l’avrebbero qualificata come matrona optima nel giudizio dei contemporanei e dei posteri: gli obiettivi primari del comportamento della matrona ideale erano il matrimonio e la procreazione e l’attenzione esclusiva per la casa e la famiglia, ovvero per la dimensione privata; tale dimensione si realizzava con la moderazione nell’uso della parola in pubblico e con la sobrietà nell’abbigliamento, nella capigliatura, nell’ostentazione dei gioielli e nel portamento; con la devozione nei confronti degli dei e dei propri parenti e con il rigore morale; con la filatura e la tessitura al telaio. La tradizione consegna quindi un’immagine delle matrone standardizzata e approva o delegittima il loro agire attraverso il filtro rappresentato da questo modello 9. Livio è senz’altro un esponente di questa tradizione, ma è evidente che non sarebbe possibile che lo scrittore non lasciasse filtrare nella sua opera la progressiva complessità e l’evolversi della condizione femminile nel corso dell’età repubblicana. Parimenti, tramite le narrazioni esemplari (exempla) Livio è in grado di recuperare il passato in chiave contemporanea, superando la terribile cesura dovuta alle guerre civili, istituendo una continuità tra passato, presente (la costituenda età augustea) e futuro 10. Non si può non partire da uno dei racconti più noti ed emblematici a questo proposito, vale a dire quello relativo alla vicenda di Lucrezia. Tale vicenda è molto nota e quindi non è necessario raccontarne la storia nei dettagli: Lucrezia, la virtuosa moglie di Collatino di Collazia, sorpresa nottetempo a tessere al telaio, a differenza delle gaudenti donne appartenenti alla corte di Tarquinio il Superbo, che, invece, stanno banchettando 11, suscita la mala libido 12 di Sesto, il figlio dello stesso Tarquinio. Sesto vuole stuprare Lucrezia, eccitato dalla sua bellezza e dalla sua spectata castitas 13, sempre secondo le parole liviane; con delle minacce riesce a vincere la sua ostinata pudicitia 14. Dopo la violenza, la donna manda a chiamare il padre e il marito, vale a dire i suoi uomini di riferimento, titolari della manus su di lei, e davanti a loro si uccide, pugnalandosi, perché, afferma,
Su tali tematiche cf. Cenerini 20092. Cf., in generale, Chaplin 2000. 11 1,57,9. 12 1,57,10. 13 Ibid. 14 1,58,5. 9
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nessun bene rimane alla donna, amissa pudicitia 15. La sua unica richiesta è quella di essere vendicata e, come sappiamo, da qui partirà la reazione che porterà alla caduta della monarchia e alla fon dazione della res publica. Q uesta narrazione liviana è fortemente paradigmatica e si presta a innumerevoli letture e interpretazioni 16. A me preme sottolineare due aspetti di questa vicenda: da un lato essa va contestualizzata in funzione del resoconto liviano sulla caduta della monarchia, causata dal comportamento tirannico del figlio del re, dall’altro cristallizza il modello della matrona ideale inviolabile, a dispetto della vita stessa: Lucrezia, in particolare, rappresenta il modello della castitas matronale che non deve essere violata a nessun costo. Livio lo fa dire alla stessa Lucrezia: nec ulla deinde impudica matrona Lucretiae exemplo vivet 17, perché nessuna matrona nel corso della storia romana possa vivere disonorata. Come è bene noto, la castitas matronale viene riproposta come valore primario dalla legislazione augustea per incentivare la procreazione di figli legittimi: le prime iniziative augustee in tal senso (già ideate negli anni 28/27 a.C.) non vengono approvate, ma nel 18/17 a.C. Augusto ha già il potere politico che gli permette di farle approvare (sono le famose leges Iuliae de maritandis ordinibus e de adulteriis corcendis) 18. Q uesto per quanto riguarda la legislazione; ma la questione del pudor affrontata dagli intellettuali di età augustea è senz’altro più complessa e articolata. Ad esempio, il pudor di Didone, la regina di Cartagine, narrata da Virgilio ‘lascia aperte non poche finestre di ambiguità interpretativa’ 19: Didone, che si è innamorata di Enea, non vuole violare il vincolo di fedeltà alla memoria del marito defunto Sicheo; pertanto, la tragedia della Didone di Virgilio non è una tragedia dell’ossessione amorosa, ma alla morte è spinta dalla sua culpa tragica: la violazione della fides e del pudor. Come ben sappiamo, c’è un’altra Didone, di cui parlano Timeo e Giustino che si lancia sulla pira per non dovere accettare 1,58,7. Cf. Koptev 2003. 17 Liv. 1,58,10. 18 Cf. R.Gest.div.Aug. 8: legibus novis / multa exempla maiorum. Cf. Spagnuolo Vigorita 20103; Spagnuolo Vigorita 2012; Coppola Bisazza 2016, con considerazioni non completamente condivisibili; Mentxaka 2016 specificatamente sul commentarius alla lex Iulia de maritandis ordinibus; Lamberti 2017. Sulle Res Gestae augustee cf. ora Arena 2014. 19 Ziosi 2013, 1. 15 16
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le nozze con il re indigeno Iarba e non per amore di Enea che la aveva abbandonata per seguire il suo fatale destino: già Macrobio 20 aveva accusato Virgilio di dulcedo fingentis. Anche Ovidio gioca con le molteplici sfumature del pudor femminile: un verso delle Heroides riconducibile a Didone 21 che termina con l’espressione plena pudoris, può essere allusivamente interpretato (e qui c’è tutta la maestria di Ovidio) come piena di vergogna causata dal rimorso di avere ceduto alla sensualità. Non è quindi possibile che un intellettuale come Livio non fosse consapevole dei molteplici piani di interpretazione della condizione femminile a lui coeva, al di là della elaborazione del mitico modello ideale delle origini, fortemente impersonato da Lucrezia e sicuramente sempre operativo nel contesto del valore da attribuire al mos maiorum: nel corso dell’età repubblicana la condizione femminile era stata oggetto di notevoli cambiamenti, di cui, a mio parere, lo storico patavino dà conto nella sua narrazione storica. Ad esempio, anche la cosiddetta cacciata dei decemviri, alla metà del V sec. a.C., è strettamente connessa alla salvaguardia della trasmissione dello stereotipo della inviolabilità sessuale femminile. Lo dice chiaramente Livio, raccontando la storia esemplare della vergine Virginia, fanciulla di rara bellezza, promessa in sposa all’ex tribuno Lucio Icilio, il promotore della lex Icilia de Aventino publicando, che rifiuta di piegarsi alla libido del decemviro Appio Clau dio. Costui, alienatus ad libidinem 22 (ancora una volta un uomo incapace di ragionare perché preso dalla libidine), ma forte del suo potere istituzionale, decide di ricorrere all’inganno, in questo caso architettando un imbroglio giuridico, per il tramite di una pretestuosa rivendicazione in schiavitù della fanciulla da parte di un suo cliente. È molto bella l’espressione utilizzata da Livio, a proposito della resistenza di Virginia: omnia pudore saepta 23, letteralmente ‘le barriere erette dal pudore’, con significativa metafora desunta dal lessico politico e civile, in quanto i saepta erano i recinti in cui si raccoglievano i cittadini per esercitare il diritto di voto. Se le donne erano del tutto escluse dalla frequentazione di questi saepta, è però evidente, a mio parere, che anche loro dovevano partecipare alla vita civica difendendo in primis il loro onore, che diventa non Macr., Sat. 5,17,6. Ov., epist. 7,98. 22 3,48,1. 23 3,44,4. 20 21
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più soltanto una questione personale, ma una questione che si relaziona anche con la vita della intera città. Il punto di approdo di tale linea di pensiero sarà la legislazione augustea e la istituzionalizzazione del crimen legato all’adulterio e la conseguente creazione di un’apposita quaestio. Durante l’età repubblicana, infatti, tutte le matrone (e non più soltanto specifici collegi sacerdotali, come le Vestali), per il tramite della liturgia matronale, circoscritta nel tempo e nello spazio dello specifico culto, avevano acquisito una valenza pro populo 24. Tornando al racconto sulla nostra Virginia, piuttosto che cedere alle ingiunzioni di Appio Claudio, che assume evidentemente una connotazione tirannica, il padre Virginio la accoltella a morte, pronunciando queste parole 25: hoc te uno quo possum modo, filia, in libertatem vindico (figlia mia, ti rendo la libertà nell’unico modo possibile). Non c’è bisogno di aggiungere che la gens Virginia era plebea secondo Livio e Dionigi di Alicarnasso (contra Diodoro) 26, e che in ogni caso il loro era populare nomen 27 e che l’uccisione di Virginia pone fine al Decemvirato: in questo caso la castitas muliebre deve salvaguardare il rispetto delle libertà costituzionali della res publica. Già è stato sottolineato dalla più accreditata critica liviana il carattere simbolico di questa narrazione dello storico patavino 28 e ne sono state notati gli anacronismi giuridici 29; lo stesso Dionigi di Alicarnasso 30 si riferiva alle vicende di Virginia con un certo scetticismo. Q uello che mi preme sottolineare in questa sede è che, in ogni caso, la violenza sulle matrone o sulle vergini è uno dei simboli dell’abuso tirannico. L’evoluzione della condizione femminile nella società romana della prima e media repubblica è storicamente definita dal discorso tenuto nel 195 a.C. dal tribuno della plebe Lucio Valerio 31. Nel 215 a.C., dopo le gravissime sconfitte patite a opera di Annibale, il tribuno Gaio Oppio aveva proposto con successo la limitazione dell’ostentazione del lusso femminile, nella fattispecie gioielli, abiti
Cf. Boëls-Janssen 1993. 3,48,5. 26 Cf. Ogilvie 1970, 477 che per altro sostiene che il nomen Virginia potrebbe derivare da virgo, intendendone un valore puramente simbolico. 27 3,44,7. 28 Cf. Ogilvie 1970, 477. 29 Cf. Scandola 2011, 388, nota 19. 30 Dion. Hal. A.R. 11,1,6. 31 Cf. Valentini 2012, 8-21 e ivi la bibliografia di riferimento. 24 25
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e mezzi di trasporto. Vinta la guerra, nella prospettiva di un ritorno alla normalità, si propone, e infine si ottiene, l’abrogazione della legge, per consentire alle matrone di esibire, nei tempi e nei luo ghi codificati dal sacro, ad esempio in occasione delle processioni cerimoniali, gioielli e vesti preziose, veri e propri indicatori del loro status sociale, così come gli uomini potevano mostrare dei simboli dell’ordo di appartenenza e le onorificenze militari. Nelle parole liviane, i tribuni Marco Fundanio e Lucio Valerio, fautori dell’abro gazione della legge, identificano con chiarezza la dicotomia tra il mondo maschile e quello femminile: i virilia officia portano gli uomini ad agire al di fuori della casa e a determinare la vita pubblica, politica e militare; diversamente, le muliebres virtutes confinano le matrone all’interno del perimetro domestico e ne identificano le sole competenze nella casa e nella famiglia, escludendole da ogni iniziativa politica 32. La donna, definita nella circostanza dal con sole Marco Porcio Catone indomitum animal, animale irrazionale, per natura era inadatta ad assumere responsabilità per la comunità: la sua ingerenza nella vita pubblica avrebbe determinato una disso luzione del sistema familiare e un ribaltamento dell’ordine politico e sociale vigente e si sarebbe tradotta, quindi, in un danno gravis simo per la res publica, come nella coeva questione dei Baccanali, prontamente repressi dal governo di Roma 33. Diverse sono le modalità con cui le matrone interferiscono indirettamente nella res publica. Tra il IV e il II secolo a.C., in con nessione con momenti di crisi, sono celebrati processi in cui le imputate sono donne accusate di avvelenamento 34. La loro azione aveva determinato la morte dei loro parenti di sesso maschile con pesanti ripercussioni anche sulla comunità che si vedeva privata di magistrati e ufficiali dell’esercito e che doveva affrontare la rea zione degli dèi alla condotta criminale delle donne, causa della rot tura della pax deorum e delle sofferenze patite da Roma o almeno preannunciate da nefasti prodigi. Così avviene nel 331 a.C. 35, nel 184 a.C. 36, nel 180 a.C. 37 e nel 154 a.C. 38. L’azione delle matrone, 34,7,8-9. Sulla complessa questione dei Baccanali cf. ora Rüpke 2018, 130-133. 34 Cf. Cavaggioni 2004. 35 Liv. 8,18,1-12; Val. Max. 2,5,3; Oros. 3,10. 36 Liv. 39,41,5-6. 37 Liv. 40,37,5-7. 38 Val. Max. 6,3,8 e Liv., perioch. 48,12-13. 32 33
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extra mores, anche al di là della loro volontà, viene a incidere pertanto nella politica del tempo e merita pubblica condanna. Anche per altre tipologie di comportamento non conforme al mos maiorum alcune donne sono accusate di interferire, seppure involontariamente, nella vita politica e militare tra il III e il II secolo a.C. Nel 295 a.C., ad esempio, nel contesto della terza guerra sannitica, numerose matrone sono accusate di adulterio: la loro azione è ritenuta responsabile del diffondersi di un’epidemia e del palesarsi di una serie di prodigi negativi 39. Nel 213 a.C. alcune donne sono esiliate per adulterio perché si riteneva che il loro comportamento avrebbe potuto compromettere la difesa della città da Annibale 40. La responsabilità della tragica sconfitta di Canne era del resto già stata imputata alla violazione della castitas da parte di due donne, Opimia e Floronia, sacerdotesse di Vesta 41. Nel corso della seconda guerra punica, inoltre, le matrone offrono doni sull’Aventino e compiono riti espiatori a Giunone Regina nel 218 a.C. 42, nel 217 a.C. 43 e nel 207 a.C. 44. L’obiettivo era concorrere alla causa di Roma ottenendo il favore degli dèi, anche del nemico. Come si evince da questo brevissimo e di per sé incompleto excursus, durante l’età repubblicana le matrone agiscono soprattutto in gruppo (sia lecito o meno parlare di ordo matronarum 45) e poche sono citate singolarmente: del tutto peculiare è il famoso caso del 204 a.C. riguardante la (supposta) vestale Claudia Q uinta 46 oppure il racconto risalente al 488 a.C. relativo alle due matrone, Veturia e Volumnia, rispettivamente madre e moglie di Coriolano; costui, come è noto, si trovava in esilio ad Anzio; viene raggiunto da Veturia e da Volumnia che, sollecitate da una schiera di donne (mulierum agmen) 47, ottengono che l’esercito dei Volsci al comando del loro congiunto rinunci all’assedio della citta di Roma 48;
Liv. 10,31,9. Liv. 25,2,9. 41 Liv. 22,57,2-3. 42 Liv. 21,62,6-11. 43 Liv. 22,1,17-20. 44 Liv. 27,37,8-10. 45 Cf., a questo proposito, Boëls-Janssen 1993, passim. 46 Sull’episodio cf. Cenerini 20092, 155 e ivi la documentazione pregressa. 47 Liv. 2,40,2; si noti il lessico militare che, in questo contesto, esalta la maternità e la sua azione (con)vincente: cf. Cid López 2017. 48 Liv. 2,33,1-11 e 40,1-14; Plut., Cor. 33-36. 39 40
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in questo caso il valore simbolico è evidente: va notato che le due donne agiscono per il tramite dei figli maschi: Veturia e Volumnia sono accompagnate al campo dei Volsci proprio dai figli del comandante romano 49. È quindi evidente che durante i primi secoli della repubblica romana la tradizione registra una certa tensione nelle relazioni tra uomini e donne nella società romana. Tale tensione può essere spiegata con il fatto che, indubitabilmente, alle donne fu concretamente possibile acquisire nel corso del tempo notevoli patrimoni 50. Se volessimo trovare un confronto a quello che pare potersi evincere da queste narrazioni liviane, possiamo leggere Polibio 51, a proposito del comportamento di Scipione Emiliano. La moglie di Scipione Africano, Emilia Terza, era nota per uno stile di vita di alto profilo e faceva volentieri sfoggio delle sue ricchezze in occasioni delle processioni matronali. Si vestiva e si ingioiellava con grande sfarzo, incedeva su un ricco cocchio (le stesse forme di ricchezza che erano state censurate dalla lex Oppia, abrogata nel 195 a.C., come già detto), era seguita da un gran numero di schiavi e di ancelle che trasportavano gli oggetti (in metallo prezioso) che erano necessari alla pratica cultuale. Il nipote adottivo Scipione Emiliano, cioè il figlio naturale di L. Emilio Paolo Macedonico adottato dal figlio omonimo di P. Cornelio Scipione Africano, dopo il funerale di Emilia Terza, dona tutte queste ricchezze alla propria madre naturale, Papiria, che da tempo era separata dal marito e che aveva mezzi inferiori di quelli che sarebbero stati conformi alla sua nobiltà e alla ostentazione della stessa. Emilia Terza era nonna adottiva di Scipione Emiliano, nonché sua zia naturale, in quando sorella di L. Emilio Paolo Macedonico, a riprova delle strette alleanze che le principali gentes repubblicane stringevano sulla base dei matrimoni e delle adozioni. Le argomentazioni, esaminate in precedenza, fatte pronunciare da Livio a M. Fundanio e a L. Valerio trovano, nelle azioni di Scipione Emiliano, una precisa applicazione: senza gioielli che ne sottolineino lo status aristocratico la donna nobile non può più apparire in pubblico ed esercitare le sue prerogative pubbliche nell’ambito dello spazio del culto. Scipione Emiliano, come pater familias, interviene anche nella delicata que Liv. 2,40,2. Cf. ora Cantarella 2016, 423 e ivi la bibliografia pregressa. 51 Polyb. 31,26. 49 50
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stione della dote delle sue zie adottive, tra cui la famosa Cornelia, madre dei Gracchi. Onora tutti i suoi impegni, ci dicono le fonti, anche con maggiore generosità del dovuto. Mi sembra che il racconto polibiano illustri molto bene la necessità, da parte delle élites repubblicane, di ostentare il proprio status attraverso l’esibizione delle ricchezze. Si tratta del fenomeno della tryphé, cioè dell’ostentazione funzionale dell’opulenza, ben noto in ambito etrusco 52. Nel caso delle donne romane il discorso è senz’altro più complesso, in quanto questa necessità deve sempre fare i conti con il modello della rappresentazione matronale ideale basato sulla moderazione in tutti i campi. Sono perciò consentiti l’uso e l’esibizione della ricchezza femminile negli spazi e nei tempi convenienti (come il caso delle processioni cultuali delle matrone), mentre l’esibizione fine a se stessa o l’eccesso sono sempre e comunque da condannare. Non può essere un caso che la stessa Cor nelia, figlia dell’Africano, dotata, come abbiamo appena visto, da Scipione Emiliano, diventi l’icona della madre senza gioielli, secondo il racconto di Valerio Massimo: alla vanitosa ospite campana che faceva sfoggio dei suoi monili preziosi, Cornelia contrappone i suoi due figli maschi come i suoi gioielli, aderendo in tutto e per tutto, nel racconto delle fonti, al modello matronale ideale, secondo i dettami del mos maiorum 53. Particolare importanza riveste, a mio parere, il racconto liviano a proposito delle due sorelle Fabiae, da ascriversi al 377 a.C. 54, che si può confrontare con un frammento dioneo riportato da Zonara 55 che, però, tende a banalizzare notevolmente il racconto decontestualizzandolo politicamente. L’episodio è noto: il patrizio M. Fabio Ambusto fa sposare la maggiore delle due figlie con il tribuno militare consulari potestate Servio Sulpicio, mentre la seconda figlia va in sposa al plebeo C. Licinio Stolone. Mentre le due sorelle stavano chiacchierando del più e del meno, come, chiosa Livio, è costume delle donne, Fabia Minor è colpita dallo sfarzo che accompagna il magistrato Sulpicio, addirittura si spaventa e viene derisa dalla sorella. Fabia Minor si avvilisce e si strugge al pensiero che la sorella avesse fatto un matrimonio molto migliore del suo: 54 55 52 53
Cf. Torelli 1997. Su queste rappresentazioni femminili cf. Cenerini 20092, 35-37. Liv. 6,34,5 – 35,1. Dion. Cass. 7,24,8-9.
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ma l’occhio attento del padre la esorta a non disperare perché in breve anche suo marito avrebbe goduto dei più grandi onori. È noto, infatti, che C. Licinio Stolone, dopo l’approvazione delle leggi Licinie Sestie, sarebbe stato uno dei primi consoli plebei nel 364 a.C. Di questa narrazione liviana sono state date diverse letture: in particolare, una, poco probabile, in favore di una rappresentazione dello speciale rapporto affettivo che legava i padri alle figlie femmine 56, e una sul valore del vicolo di parentela ottenuto per il tramite del matrimonio della figlia, vincolo che imponeva determinati codici comportamentali 57. Possiamo notare, a questo proposito, che Livio, in genere, annette grande importanza al matrimonio come istituto in grado di portare a Roma proficue alleanze, già al tempo del cosiddetto ‘ratto delle Sabine’, pur schierandosi a favore del mantenimento delle peculiari identità e rapporti gerarchici (uomo/donna; Romani/Sabini) 58. Con la narrazione della vicenda delle due sorelle Fabiae, ‘diversamente’ sposate, siamo di fronte a un altro cambiamento istituzionale, vale a dire la creazione della nobilitas patrizio-plebea, anche attraverso il connubium misto, già sancito dal plebiscito Canuleio risalente alla metà del V sec. a.C., i cui valori potevano essere fatti propri dalla neo-aristo crazia augustea che si ispirava alla concordia e alla pietas pacificatrice tra gli ordines 59. Q ual è il ruolo delle due donne in questa vicenda? Anche in questo caso la lettura è polivalente: innanzi tutto il ruolo della famiglia: le due sorelle sono ritratte mentre chiacchierano di futilità in un contesto domestico in totale armonia; irrompe un fatto inatteso (i littori simbolo dell’imperium maschile) che spaventano la più ingenua; l’invidia generata dal matrimonio sperequato ma, nel contempo, il pudor che questa invidia genera: Fabia Minor, infatti, si vergogna di questo suo sentimento negativo; l’intervento risolutore del padre che riporta la concordia all’interno della famiglia e della stessa res publica operando a favore dei plebei più brillanti. A mio parere, la società augustea che nasceva dalle ceneri di un tessuto lacerato da un secolo di guerre civili (come lo stesso Livio attesta) aveva la necessità di valorizzare la concordia come valore primario, a tutti i livelli: in particolare, la concordia in famiglia, con 58 59 56 57
Hallett 1984. Lanciotti 1995. Cf. Miles 1995, 179-219. Cf. Hurlet 2015.
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le donne consapevoli dei ruoli pubblici dei loro congiunti maschi e disposte a sostenerli e a farli propri e la del tutto conseguente concordia tra i cives, la cui salvezza costituisce ai tempi di Livio uno dei principali leit-motiv della propaganda augustea: ob cives servatos.
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LIVIO, DIONIGI, E MACHIAVELLI, SUL CONFLITTO PATRIZIO-PLEBEO *
1. Premessa Vorrei mostrare, attraverso la riconsiderazione di alcuni passaggichiave relativi alla sua fase iniziale, come le narrazioni del conflitto patrizio-plebeo sviluppate da Livio e Dionigi di Alicarnasso, pur essendo sostanzialmente simili, e pur avendo come vedremo per comune punto di riferimento teorico-politico l’interpretazione polibiana (e poi ciceroniana) della struttura politica repubblicana in termini di ‘costituzione mista’, si differenzino profondamente fra di loro dal punto di vista ideologico; e come anche il diverso assetto propriamente storiografico dei due testi sia in certa misura riconducibile a questa diversità di orientamento ideologico dei loro autori. Concluderò facendo riferimento a riflessioni che sullo stesso tema del conflitto patrizio-plebeo ha sviluppato poi nei capitoli iniziali dei suoi Discorsi Niccolò Machiavelli: riflessioni dichiaratamente basate sulla lettura della prima decade di Livio, ma alle quali uno studio recente ipotizza debba aver dato un contributo significativo l’opera storica di Dionigi, fino ad ora non presa in seria considerazione come possibile fonte d’ispirazione di Machiavelli 1. Rimane in ogni caso fuori da questo mio intervento l’attenzione per qualsiasi altro aspetto dei due racconti, da quello relativo alla possibilità
* Segnalo due volumi apparsi successivamente alla conclusione dei lavori del Convegno, di notevole interesse per il presente contributo, dei quali non è stato tuttavia possibile tener conto in questa sede: E. Santamato, Dionigi il Politologo. Ragionamenti politici e società augustea, Milano 2018, e A. Salvo Rossi, Il Livio di Machiavelli. L’uso politico delle fonti, Roma 2020. 1 Pedullà 2011. Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 315-330 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125333
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di recuperare attraverso di essi i Realien (persone, eventi, strutture) della storia di Roma arcaica, a quello dei modi della formazione della tradizione annalistica che sta loro a monte 2. Comincerò con l’analisi del racconto liviano, che secondo ogni verosimiglianza è cronologicamente anteriore a quello di Dionigi, e al quale si può sospettare che in qualche misura quest’ultimo intendesse giu stapporsi 3: seguo su questo come su altri punti il parere di Emilio Gabba, che per l’interpretazione storiografica e ideologica della dionigiana Ἀρχαιολογία Ῥωμαϊκὴ (o Storia di Roma arcaica) resta ancora oggi la guida più sicura 4.
2. I contenuti della lotta La costruzione da parte di Livio del racconto della lotta fra patrizi e plebei era un’operazione storiografica a forte valenza ideologica: con quel racconto lo storico nostalgico della repubblica, e dei suoi ormai tramontati valori etico-politici, mirava a dimostrare che il conflitto interno alla cittadinanza, che si avvicina al limite della guerra civile ma non lo oltrepassa, è un fenomeno che, in quanto finalizzato all’affermazione da parte dei ceti più disagiati di una società dei propri diritti civili e politici essenziali – alla sua ‘democratizzazione’, potremmo dire, con un neologismo solo apparente – non solo non è di per sé lesivo dei superiori interessi di uno Stato, ma può anzi contribuire a rafforzare la sua struttura, e a renderla 2 Su questi due punti vd. Gabba 2000, 251-257; ultimamente sui possibili Realien Forsythe 2015; Fronda 2015, 54-58; Mouritsen 2015, 149-150. 3 Gabba 1996, 89: «Si potrebbe persino supporre agevolmente che in molti casi nei quali Dionigi differisce da Livio… la differenza sia intenzionale, come risulta dal già accennato caso dell’asylum, e da quello dell’interpretazione del Decemvirato. Il motivo per cui non si giunge mai alla polemica esplicita può essere perché Dionigi conosceva l’animo, gli intenti e le prospettive che animavano gli scritti liviani, diversi dai suoi» (e vd. anche 186). Sul rapporto Livio-Dionigi (dal punto di vista del modo di trattare la documentazione dell’età arcaica) vd. von Ungern-Sternberg 2015, 170 sg.; Champion 2015, 198; 201 (qui l’A. ipotizza un’anteriorità di Dionigi rispetto a Livio); Cornell 2015, 247-254 (il problema generale del rapporto fra racconto annalistico e documentazione archeologica per l’età regia). 4 La ricerca più recente ha puntato ad evidenziare pressoché esclusivamente gli aspetti retorico-formali dell’opera storica di Dionigi: segnalo in particolare Delcourt 2005, la cui analisi della Storia si limita in ogni caso all’età monarchica, e Wiater 2011, che è soprattutto interessato a mettere a fuoco, attraverso la lettura dei passi di taglio più propriamente teorico, la dimensione classicistica dell’opera di Dionigi. Q uanto a de Jonge 2008, si tratta di un lavoro che prende in considerazione esclusivamente gli scritti retorici dello storico di Alicarnasso.
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più competitiva nei confronti del mondo esterno 5. L’elaborazione liviana di quest’idea, che offre una chiave di lettura essenziale della storia della res publica, e della res publica spiega insieme la progres siva crescita ‘imperiale’, presupponeva necessariamente un’adesione da parte di Livio alla teoria polibiana, fatta poi propria da Cicerone nel De re publica, del carattere ‘misto’ di quell’ordinamento politico: una teoria la quale prevedeva che anche il popolo avesse in esso una parte non secondaria, quella che Cicerone definiva con il termine libertas. Nel criticare la durezza e l’insipienza con la quale il senato aveva affrontato lo scoppio della prima ribellione plebea Cicerone aveva dichiarato infatti: ‘tenete ben fermo quanto dissi a principio, che se in una civitas non sussiste un giusto compensarsi di diritti, di doveri e di prerogative, in modo che vi sia sufficiente potestas nelle magistrature, auctoritas nelle direttive date dagli ottimati, e libertas nel popolo, non si possono conservare stabili condizioni della res publica’ (rep. 2,57). Forse già l’annalistica dell’ultimo periodo, e in particolare quella ‘democratica’ di Licinio Macro, aveva posto la cosa in questi termini; quello che è certo è che questi sono i termini in cui la poneva Sallustio nel famoso capitolo introduttivo delle Historiae preservato da Agostino (hist. fr. 11 M.) 6, nel quale lo storico cesariano tracciava una rapidissima sintesi della storia dei conflitti sociali a Roma. Sallustio era anzi ben più critico di Cicerone nei confronti della dirigenza patrizia, che accusava di avere dato inizio alle iniuriae attentando apertamente alla libertà dei plebei, trattati come schiavi e sudditi – servili imperio plebem exercere, de vita atque tergo regio more consulere – una volta venuto meno, con la morte del Superbo, il timore di un possibile sostegno popolare ai tentativi di ripristino del regnum da parte dei Tarquini. È la stessa linea di pensiero storico di Livio, il quale afferma (2,21,6) che ‘cominciarono allora – cioè alla morte del Superbo – le iniuriae dei potenti nei confronti della plebe’; e questa linea di pensiero si sviluppava e si articolava poi in una narrazione che spo5 Prendo da Pedullà 2011, 107 la seguente caratterizzazione, che condivido pienamente: «Il resoconto liviano della più antica repubblica romana è caratterizzato proprio dalla costante capacità dei patrizi e dei plebei di fermarsi immediatamente prima che la frattura superi il segno». 6 Ricordo che dei frammenti delle Historiae di Sallustio è ora disponibile il primo volume dell’edizione (con commento) curata da A. La Penna e R. Funari: C. Sallusti Crispi Historiae I: fragmenta 1.1-146. Texte und Kommentare, Berlin – Boston, 2015 (il fr. ricordato è qui il n. 15).
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sava apertamente, in occasione della prima ribellione, le ragioni dei plebei asserviti ai patrizi a causa dei debiti, anche se poi non ometteva neppure di denunziare occasionali forzature del movimento plebeo, per le tendenze demagogiche talvolta riconoscibili nell’a zione dei tribuni che da quella ribellione erano nati. Era tuttavia presente in Livio il senso che, se anche in qualche caso la plebe aveva commesso atti di violenza, la sua azione era stata in principio dettata dall’esigenza di ‘resistere’ alla prepotenza patrizia, e non da una volontà eversiva delle istituzioni repubblicane: tale esigenza si era manifestata prima di tutto come rifiuto di rispondere alla chiamata di leva, di seguito come abbandono della città, e alla fine come creazione di una struttura permanente di auto-protezione – appunto il tribunato – capace di assicurare ai plebei per il futuro il godimento dei propri diritti, civili prima e poi anche politici. Il rifiuto della coscrizione e la successiva ‘secessione’ costituivano una sorta di sfida pacifica, per quanto ricattatoria, al patriziato a risolvere i problemi militari dello Stato con le sue sole forze, chiaramente insufficienti in particolare a sostenere ambizioni espansionistiche, o comunque di primato ‘imperiale’: e anche qui si intravede sullo sfondo il pensiero politico polibiano, nella misura in cui Polibio aveva trovato nella costituzione mista romana un esempio, il migliore fino al tempo suo, di ordinamento di quel tipo finalizzato alla crescita di uno Stato, piuttosto che – come nel caso di Sparta – alla preservazione della sua autonomia politica e ter ritoriale (6,48,1 – 50,6). Era infatti evidente per Livio che solo concedendo al popolo una vera libertas, ovvero uno spazio adeguato all’interno delle strutture economiche, sociali e politiche dello Stato, era possibile assicurarsene un convinto sostegno sul piano militare, e che le decisioni di una classe dirigente, quale l’aristocrazia senatoria, non potevano essere dettate solo dall’interesse privato dei singoli 7. E quanto ai tribuni della plebe, non c’è bisogno di sottolineare la dimensione esclusivamente difensiva – almeno nei primi decenni della sua esistenza – di questa figura per così dire di ‘contropotere’, che Livio definisce una ‘magistratura privata della plebe’ 8; si trattava di uomini il cui compito era quello di difen Vd. ad es. 2,28,7 libertatem unicuique prius reddendam esse quam arma danda, ut pro patria civibusque, non pro dominis pugnent (argomento dei plebei che rifiutano la coscrizione); 2,30,2 factione respectuque rerum privatarum, quae semper offecere officientque publicis consiliis (riflessione di Livio). 8 2,33,1 ut plebi sui magistratus essent sacrosancti. 7
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dere i plebei, e la cui incolumità personale era per questo motivo a rischio: ragione per la quale la massa dei plebei li assicurava con un solenne giuramento collettivo contro qualsiasi atto di intimidazione, o di vera e propria violenza, da parte dei patrizi – la famosa lex sacrata (2,33,3). In questa fase appare dunque sostanzialmente corretta, nell’ottica liviana, la definizione dell’organizzazione plebea rispetto all’ordinamento politico generale in termini di ‘Stato nello Stato’. Solo nella sua fase finale, con il ripristino della normalità repubblicana dopo la drammatica esperienza ‘reazionaria’ del Decemvirato, il movimento plebeo aveva mirato senz’altro all’integrazione nelle strutture dello Stato patrizio. A fronte di questa valenza strategica che aveva in Livio il discorso sul conflitto patrizio-plebeo all’interno di una ricostruzione globale della storia repubblicana romana e dei suoi valori eticopolitici, quali sono i connotati che la trattazione del tema assume nella Storia di Roma arcaica di Dionigi? Ricordiamo che Dionigi era un maestro di retorica sbarcato a Roma dalla natia Alicarnasso a seguito della finale vittoria nelle guerre civili da parte di Ottaviano; un greco d’Asia affascinato dall’irresistibile ascesa politica del nipote di Cesare, ma sostanzialmente indifferente al fatto che grazie a questa vittoria la res publica si era trasformata, o si stava trasformando, in un regime di tipo autoritario. Certamente Dionigi non sentiva il problema della repubblica romana e del suo significato come struttura politica allo stesso modo in cui lo sentiva Livio. Anche lui, come vedremo, considerava quella romana, sempre sulla scorta di Polibio, una ‘costituzione mista’; ma non sapeva trovare un termine greco con cui rendere il latino res publica, né pensava anche solo semplicemente a traslitterarlo; per lui il sistema che aveva sostituito, e solo parzialmente, la monarchia era senz’altro un’ἀριστοκρατία (A.R. 5,1,2, etc.), e all’inserimento in essa di elementi di δημοκρατία – fenomeno quasi inevitabile – bisognava in tutti i modi cercare di opporsi 9. Anche se l’idea di libertà – in termini dionigiani ἐλευθερία – tornava più volte, non solo nei discorsi di Bruto, come elemento caratterizzante della struttura istituzionale romana dopo la cacciata dei re, mancava in Dionigi quell’idea di contrasto radicale fra regnum e libertas che soggiace alla caratterizzazione liviana del regime repubblicano come quello degli 9 In uno dei discorsi di Appio Claudio Dionigi parla della δημοκρατία come τῆς κακίστης τῶν ἐν ἀνθρώποις πολιτειῶν (6,60,1; e cf. 6,61,3).
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imperia legum potentiora quam hominum (2,1,1), nonché l’idea ciceroniana (e liviana) della libertas come peculiare attributo politico del popolo, condizione essenziale della sua partecipazione, anche militare, alla vita della comunità; per Dionigi l’ἐλευθερία era piuttosto un diritto degli ἄριστοι, i ‘migliori’ ai quali incombeva il dovere di governare. Ma i problemi veramente al centro del suo interesse erano quelli che derivavano dall’intento di promuovere la diffusione nel mondo greco di una disposizione favorevole ai Romani, presentati a questo scopo come un popolo originariamente ed autenticamente greco; nonché di evidenziare degli stessi Romani – al fine di spiegarne gli straordinari successi politico-militari – gli elementi di superiorità anche rispetto al mondo greco: come, prima di tutto, la liberalità nel concedere la loro cittadinanza ai popoli e alle città vinte, strumento essenziale per assicurarsene la lealtà e il consenso. Pur in un contesto di questo genere, di dominante interesse per il rapporto privilegiato da istituire fra Greci e Romani nel nuovo mondo imperiale, restava tuttavia forte l’attenzione di Dionigi per le vicende politico-sociali interne di Roma, e in particolare per la lotta patrizio-plebea, che costituiva del resto parte integrante e non eludibile di quella storia: ma naturalmente l’ottica nella quale era narrata era ben diversa da quella di Livio, e risentiva piuttosto del l’atmosfera di normalizzazione sociale e politica che l’imperator Augusto andava imponendo all’ecumene mediterranea. Vediamo così che, secondo Dionigi, già da Romolo – e dunque fin dai primordi regi della città – erano stati fissati i parametri essenziali della struttura istituzionale e sociopolitica romana: come, prima di tutto, la ripartizione delle competenze fra re, senato e popolo (2,15): una sorta di prefigurazione appunto di quella ‘costituzione mista’ che in termini tecnici – τὴν μικτὴν ἐξ ἁπασῶν τούτων κατάστασιν – sarà però formulata solo nel progetto istituzionale del filoplebeo Manio Valerio (7,55,2) 10, nel contesto del dibattito connesso alla vicenda di Coriolano. Ma forse ancora più importante, fra gli ordinamenti di Romolo, era per Dionigi l’istituto della clientela, finalizzato a realizzare un rapporto ideale di collaborazione fra la plebe, i δημοτικοί, e il patriziato (2,8-10): Romolo infatti avrebbe ripartito i plebei fra i patrizi in qualità di clienti (πελάται) – un’idea
Il fratello di Valerio Publicola (A.R. 6,57,2).
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che per la verità era stata già di Cicerone 11, ma non di Livio, che sempre distingue accuratamente fra plebei e clienti; Dionigi vedeva qui un’analogia con quanto era successo presso varie comunità greche, come in Tessaglia, sorvolando sul fatto che in quei casi, a differenza che a Roma, il ceto inferiore era costituito da non-liberi. Il problema dei successivi sviluppi politici della storia della città era dunque, per lui, che si riuscisse da una parte a contenere il processo di ‘democratizzazione’, forse inevitabile ma comunque deplorevole, e dall’altra a mettere al riparo l’istituto della clientela dalle scosse eversive della naturale conflittualità fra ricchi e poveri: scosse che naturalmente non erano mancate neppure nel l’età regia, ma si erano manifestate con particolare violenza a Roma dopo la fine di quell’età. Dionigi non vedeva in esse, come Livio, un modo per aumentare la quota, del tutto insufficiente per lo storico romano, di partecipazione del popolo alla vita politica della città, e non seguiva quindi con simpatia il movimento plebeo, come risulta da numerose osservazioni malevole che punteggiano il suo racconto degli eventi 12. Dallo storico greco – cito qui Gabba 13 – «la lotta politica che ebbe luogo nell’età repubblicana era invece vista come il tentativo dei plebei, guidati da demagoghi (i tribuni), di strappare il potere e la supremazia all’aristocrazia, cioè ai “migliori”»; e in effetti questo risulta essere il senso complessivo del racconto della vicenda di Coriolano – per lui parte integrante della prima grande ribellione: in questa circostanza – dichiara – ‘i patrizi rimisero il loro potere ai plebei, e fecero il popolo arbitro delle questioni più importanti, quando avrebbero potuto continuare a vivere in un regime aristocratico’ (7,66,2). L’ἀριστοκρατία si era degradata a δημοκρατία. Q uello che prevale comunque in Dionigi – momento chiave del suo pensiero storico e storiografico – è il riconoscimento della capacità romana, all’e (Romulus) habuit plebem in clientelas principum discriptam (rep. 2,16). A puro titolo di esempio, ricordo solo A.R. 6,46,3, un elenco di soggetti che approfittano della secessione della plebe: ‘non solo quelli che volevano sottrarsi ai debiti, alle condanne e alle punizioni che si attendevano, ma anche altri, che vivevano nell’ozio e nell’indolenza o sprovvisti dei mezzi sufficienti ad appagare i loro desideri o coloro che praticavano cattive abitudini o provavano invidia della prosperità degli altri o quanti per qualche altra motivazione o sorte avversavano l’attuale ordinamento politico’; ma vd. anche 6,47,2-3 e 48,2. In A.R. 7,33,1-2 c’è un giudizio assai negativo sul tribuno Sicinio, nemico dell’aristocrazia (del quale vd. gli interventi contro Coriolano che seguono). 13 Gabba 1996, 177. 11 12
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poca dell’antica repubblica, di risolvere i conflitti interni senza ricorrere alla violenza, di addivenire, in nome di un superiore interesse comune, ad un accordo di compromesso fra opposte esigenze (7,66,3): insomma la logica del συγχωρεῖν, che è stata brillantemente evidenziata in un recente studio di Emanuele Santamato 14 (ma già Gabba aveva sottolineato come per Dionigi la lotta politica in Roma antica fosse «un processo fondamentalmente pacifico, in cui gli interventi oratori dei personaggi importanti avevano sempre uno spazio privilegiato» 15). E si può anche ritenere che, come vedremo meglio più avanti, quello stesso straripare sul vero e proprio racconto dei fatti dei lunghi e articolati discorsi dei vari protagonisti – che è la cifra caratteristica del racconto storico dio nigiano – debba essere considerato prima di tutto come un modo per rendere storiograficamente quest’idea che la naturale conflittualità sociale nella Roma repubblicana era stata gestita e risolta con gli strumenti dell’oratoria e della persuasione. Non sorprende che, in una prospettiva del genere, vengano meno alcuni capisaldi del racconto liviano: primo fra tutti, quel l’istituzione di una connessione diretta – alla quale abbiamo fatto cenno – fra la morte del Superbo in esilio e l’inizio delle prepotenze (le iniuriae) dei patrizi nei confronti dei plebei: per Livio – come del resto per Cicerone – punto di partenza, per la miope irresponsabilità del patriziato, della stessa lotta patrizio-plebea. Per Dionigi anzi la prima agitazione plebea era stato il frutto dell’ini ziativa dello stesso re, che facendo leva sulla naturale alleanza fra plebe e monarchia tentava di procurarsi un appoggio interno alla città in vista del progettato rientro (A.R. 5,53), e i patrizi appaiono in questo modo le vittime potenziali, anziché i responsabili, dell’inizio del processo conflittuale. Di seguito anche il racconto della grande ribellione, che sfocia poi nella secessione, è sviluppato in spirito di coperta avversione nei confronti delle ragioni dei plebei, considerati comunque colpevoli del fatto di non aver potuto (o voluto) saldare i propri debiti (A.R. 5,63; 6,22); mentre la nascita del tribunato era presentato non tanto come il risultato di un’autonoma iniziativa della plebe, che il patriziato aveva dovuto subire a denti stretti, quanto come una concessione dello Stato patrizio, che l’aveva sanzionata addirittura con le procedure del Santamato 2015. Gabba 1996, 140.
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diritto feziale, che regolano i rapporti internazionali (A.R. 6,89). E abbiamo già detto dello spirito nel quale è presentata da Dionigi la vicenda di Coriolano, che in Livio si configura invece come un tentativo andato a vuoto dei patrizi di ritogliere ai plebei quei diritti che avevano faticosamente acquisito grazie alla secessione. È in conseguenza di ciò, in ogni caso, che i resoconti di Livio e Dionigi, pur essendo nei dati essenziali convergenti, rivelano ad un esame attento diversi elementi di varietà; cosa che aveva indotto Arnaldo Momigliano a dichiarare, ormai molti anni fa, che «per capire a fondo Livio bisogna leggere contemporaneamente Dionigi di Alicarnasso» 16, e a mettere poi efficacemente a confronto alcune delle più significative differenze fra i due storici nel modo di vedere, o non vedere, i problemi del loro tempo, e di interpretare di conseguenza quelli del passato. Ma forse la più importante differenza fra di loro non stava tanto nel fatto che in Livio prevaleva il moralismo, mentre in Dionigi era dominante l’interesse per le strutture istituzionali; ciò in cui i due autori più si differenziavano era da una parte la valutazione del processo di formazione della costituzione mista, e dall’altra il modo stesso di configurarsi i fatti storici: come ora rapidamente vedremo, infatti, il racconto di Dionigi era improntato ad una staticità per così dire conservativa, quello di Livio invece ad un dinamismo innovativo 17.
3. Le forme storiografiche: dinamismo di Livio e staticità di Dionigi Come abbiamo già sottolineato, a monte di entrambi i racconti sta l’idea politica polibiana, e poi ciceroniana, che la πολιτεία romana debba essere considerata una ‘costituzione mista’; e insieme, verosimilmente, l’altra idea sempre polibiana (ma anche catoniana, e poi ciceroniana) che, a differenza che nella costituzione spartana di Licurgo, questo carattere misto sia il risultato di un processo storico, e non il frutto del progetto ‘costituente’ di un legislatore (Polyb. 6,10,12). È evidente che mettere le cose in questi termini Momigliano 1992, 513. Sulla staticità delle A.R. vd. Gabba 1996, 135-140 (Gabba pensava che dipendesse in sostanza dal fatto che per Dionigi Roma era «una fondazione coloniale di tipo greco», il che implicava che «agli albori stessi della città tutto, o pressoché tutto, l’apparato istituzionale dello stato, compresi gli elementi strutturali del corpo civico, si presentasse come compiuto» (136). 16 17
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significava creare lo spazio per una ricostruzione della storia interna di Roma nei termini di un percorso che metteva capo alla realizzazione di quell’ordinamento del quale al tempo di Polibio era riconosciuta tanto l’efficienza quanto la misteriosa razionalità interna. Lo stesso Polibio aveva proposto – a quanto è dato ricostruire del sesto libro delle sue Storie – un profilo sintetico di questo sviluppo, che si era realizzato διὰ…δὲ πολλῶν ἀγώνων καὶ πραγμάτων, ‘attraverso molte lotte e vicissitudini’ (6,10,14, trad. Mari): espressione che, dato il contesto, è del tutto improbabile che faccia riferimento alle guerre esterne della città, piuttosto che ai conflitti interni 18. È lecito pensare per lo meno che lo storico greco considerasse punto di arrivo del processo – ovvero d’inizio della ‘costituzione mista’ – il riassetto politico-istituzionale che aveva fatto seguito a quel Decemvirato 19, a proposito del quale anche Livio parla di una seconda mutatio della forma civitatis (3,33,1); e questo comunque è quanto si vede nel De re publica di Cicerone, che nel secondo libro seguiva e integrava con l’appropriata ricostruzione storica il suo impianto concettuale 20. Naturalmente Polibio era interessato essenzialmente al concreto funzionamento di questo modello istituzionale a partire dal momento in cui aveva raggiunto la sua ἀκμή (6,9,12), e non al processo della sua formazione: per questo lo descrive, ai paragrafi 11-18 dello stesso sesto libro, come un sistema che prevede il necessario accordo di diversi organi costituzionali nell’assunzione delle decisioni politiche più importanti – il sistema oggi correntemente definito di ‘checks and balances’. Ma i soggetti politici ai quali sono intestati i poteri tra i quali la πολιτεία romana sa realizzare questa a prima vista improbabile convergenza sono appunto quelli che il racconto annalistico proponeva (o avrebbe poi proposto) come protagonisti dei grandi conflitti dei decenni iniziali della res publica: i consoli, ovvero il potere di agire originariamente detenuto dai re; il senato, quel ‘consesso di molti re’, come lo definiva Cinea (Plut., Pyrrh. 19,6), che rappresenta gli interessi e la continuità di governo dell’aristocrazia; il popolo, al quale spettano le leggi, cioè l’approvazione delle fondamentali linee Diversamente Pedullà 2011, 114; 455. 6,11,1 Ὅτι ἀπὸ τῆς Ξέρξου διαβάσεως εἰς τὴν Ἑλλάδα **** καὶ τριάκοντα ἔτεσιν ὕστερον ἀπὸ τούτων τῶν καιρῶν (possibile definizione cronologica della data d’inizio – 449 a.C. – del periodo migliore della storia di Roma, che porta direttamente alla guerra annibalica). 20 Gabba 1996, 181. 18 19
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regolative della vita della comunità. Naturalmente Polibio parla per grandissime linee, e non tiene conto delle ‘technicalities’ del sistema politico-istituzionale romano 21. È notevole il fatto che, come si è ricordato, Livio e Dionigi facciano riferimento grosso modo ad un medesimo articolato di eventi, che si deve dunque supporre preesistente allo schema politologico polibiano: ma è evidente che i due storici lo rileggono in maniera almeno in parte diversa, ed abbiamo già osservato ad esempio che Dionigi ignora il collegamento istituito da Livio fra la morte del Superbo e la prima manifestazione di protesta dei plebei. Ma la divergenza fra Livio e Dionigi non si limita alla simpatia che il primo ha, a differenza del secondo, nei confronti del movimento plebeo, e non si misura neppure, più in generale, in termini di contenuti di azione politica; come abbiamo già accennato, la divergenza consiste anche, e forse soprattutto, in un diverso modo che i due storici hanno di gestire il racconto per quanto riguarda l’assetto storiografico. Da quest’ultimo punto di vista, è di assoluta evidenza il fatto che nel racconto liviano è nettamente dominante sulla dimensione argomentativa quella narrativa – ovvero i discorsi dei protagonisti, pur presenti, non sovrastano l’impersonale narrazione dei fatti; mentre nel racconto dionigiano l’interesse dell’autore è rivolto in maniera soverchiante all’evidenziazione di quelle che sono le poste in gioco dell’azione politica, le disposizioni delle forze in campo, i pro e i contro delle possibili soluzioni, attraverso le dense (e spesso ripetitive) argomentazioni dei protagonisti: tanto che alla fine i veri e propri eventi quasi acquisiscono il ruolo di pacifiche appendici di quei dibattiti 22. Q uesta fondamentale differenza di presentazione storiografica del problema dell’antico conflitto interno alla città, che si traduce in quella netta sensazione di contrasto fra dinamismo (in Livio) e staticità (in Dionigi) al quale abbiamo già fatto cenno, deve a mio parere essere interpretata come derivante in realtà da una divergenza ideologica profonda 21 Per un giudizio severo su Polibio («a misleading and distorting picture of governmental balance and harmony at Rome») vd. Champion 2015, 197. 22 Su questo punto vd. Gabba 1996, 136-140 (137 «storia di Roma come un’evo luzione senza scosse»; 140 «lotta politica a Roma vista come un processo fondamentalmente pacifico, in cui gli interventi oratori dei personaggi importanti avevano sempre uno spazio privilegiato»). Pedullà 2011, 437 parla di valorizzazione (in Dionigi) degli «elementi di continuità rispetto a quelli di frattura», e di «trasformazioni del sistema politico avvenute all’interno di una cornice che nel complesso è rimasta invariata nel corso dei secoli».
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fra i due autori: mentre Livio vuole evidenziare, implicitamente, il valore alla fine costruttivo del contrasto politico-sociale all’interno della res publica, Dionigi, che vede in questo contrasto una minaccia alla stabilità, mira a depotenziarlo riducendolo a un dibattito oratorio, che si conclude con un risultato condiviso. È lo stesso Dionigi a darci questa chiave di lettura del suo testo nella già ricordata riflessione metodologica con la quale si conclude il lunghissimo racconto del processo di Coriolano, laddove dichiara (A.R. 7,66,3) il proprio apprezzamento per il fatto che la deplorevole, a suo parere, condanna del patrizio ad opera di un’assemblea della plebe è avvenuta ‘senza uso delle armi, e senza violenza reciproca, ma grazie alla persuasione che si ottiene con le parole’. Se si tiene conto del ruolo dominante che hanno i discorsi nel contesto del racconto dionigiano non appare improprio definire ‘retorica’ questa storiografia 23; quello che importa comunque è riconoscere che si tratta di un tipo di scrittura storica in cui l’ideologia tende a prevaricare sulla vera e propria narrazione ‘obiettiva’ e sensata di eventi umani. La capacità, che è propria del racconto liviano, di vedere in quegli eventi il dispiegarsi nel tempo di forze suscettibili di produrre cambiamenti e trasformazioni nelle strutture politiche viene infatti meno in Dionigi a fronte dell’attitudine a leggerli come espressione di una logica astratta, che opera nel senso di ricollocarli, con le opportune modificazioni, in schemi e modelli preesistenti, di fatto misconoscendo il continuo fluire del nuovo che è il carattere specifico della storia. Un passo famoso dell’Ars rhetorica attribuita allo stesso Dionigi (11,2) definisce la storia φιλοσοφία … ἐκ παραδειγμάτων, ‘filosofia basata sugli esempi’, e anche se questo testo non fosse di Dionigi sarebbe difficile definire meglio il carattere del suo racconto, che finisce appunto per negare la storia in quanto perpetuo mutamento. In Livio, al contrario, la dimensione ideologica non va a discapito dell’interesse per la storia, che per lui è un reale scontro di forze che producono eventi, all’interno dei quali lo storico deve orientarsi e trovare un senso: impresa nella quale l’ideologia aiuta, se non prevarica al punto di occupare tutto il campo.
Vd. su questo punto i ripensamenti di Gabba 1996, 72.
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4. I Discorsi di Machiavelli Per finire, un cenno ai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Nicolò Machiavelli, uno scritto nel quale l’autore, attraverso una postillatura sistematica del testo liviano, mira a individuare le leggi fondamentali degli eventi politici: solo un paio di osservazioni, del tutto estemporanee, connesse ai punti che abbiamo toccato del tema del conflitto patrizio-plebeo, che di per sé è peraltro di capitale importanza nell’economia dell’opera machiavelliana. Fin dall’inizio del primo libro troviamo, nel contesto dell’apertura ‘polibiana’ del secondo capitolo (1,2,7), il riferimento in puro stile liviano alla ‘disunione che era intra la plebe ed il senato’ come ragione ultima del progressivo strutturarsi di una costituzione mista dopo la fine della monarchia. E il passo che segue può senz’altro essere definito la più efficace sintesi del pensiero liviano in materia, come sopra l’abbiamo ricostruito: al centro del discorso si trova infatti l’idea che nel nuovo regime doveva necessariamente essere lasciato il giusto spazio al ‘governo popolare’, senza peraltro togliere autorità né al potere ‘regio’ dei consoli né all’autorità degli ‘ottimati’. Machiavelli condivide poi con Livio, nel terzo capitolo, l’idea del l’inizio del movimento plebeo e della creazione del tribunato come reazione alle prepotenze patrizie seguite alla morte del Superbo: ‘come prima ei furono morti i Tarquinii, e che ai nobili fu la paura fuggita, cominciarono a sputare contro alla plebe quel veleno che si avevano tenuto nel petto, ed in tutti i modi che potevano la offendevano… E però, dopo molte confusioni, romori e pericoli di scandoli, che nacquero intra la plebe e la nobilità, si venne, per sicurtà della plebe, alla creazione de’ tribuni’ (1,3). È solo l’inizio di una dettagliata analisi, che qui non è naturalmente possibile seguire, che talora arriva a conclusioni che trascendono Livio ma non lo tradiscono: come quando, nel famoso, scandaloso, capitolo quarto 24, Machiavelli sostiene che ‘coloro che dannono i tumulti intra i nobili e la plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma’, e che ‘se i tumulti furano cagione della creazione dei tribuni, meritano somma laude, perché, oltre al dare la parte sua all’amministrazione popolare, furano constituiti per guardia della libertà romana’ (1,4). Certamente Livio, con tutta la sua simpatia per il movimento plebeo, non avrebbe 24 Che la disunione della plebe e del senato romano fece libera e potente quella republica.
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sottoscritto una dichiarazione così esplicita di apprezzamento del suo valore politico come strumento essenziale di difesa della libertà; ma, come abbiamo visto, è certo che lo storico romano sarebbe invece d’accordo con Machiavelli quando questi afferma che ‘ogni città debbe avere i suoi modi con i quali il popolo possa sfogare l’ambizione sua, e massime quelle città che nelle cose importanti si vogliono valere del popolo’ (ibid.). In termini generali, comunque, si può dire che, anche a non voler tener conto della serie continua delle citazioni e parafrasi del testo liviano di cui i Discorsi sono contesti, c’è una profonda sintonia fra Livio e Machiavelli: il politico fiorentino sente in Livio la forza della passione repubblicana, che egli pienamente condivide, e vede in quella narrazione la rappresentazione emblematica delle forze che hanno concorso alla costruzione di un modello politico – la repubblica, appunto – che riscoperto dopo più di mille anni nei comuni italiani restava l’unico in grado di assicurare il rispetto del valore fondamentale della libertà dei cittadini 25. Sembrerebbe viceversa molto strano che Machiavelli possa essere stato attratto da un testo come quello di Dionigi, che come abbiamo cercato di mostrare non solo ha un ben diverso orientamento ideologico, ma anche da un punto di vista strettamente storiografico è ben poco congeniale a un pensatore che mirava ad ‘andare drieto alla verità effettuale della cosa (piuttosto) che alla imaginazione di essa’ (Princ. 15); benché non si possa naturalmente escludere che egli possa aver avuto tra le mani una copia della traduzione latina che Lampugnino Birago aveva fatto delle Antiquitates Romanae alla fine del Q uattrocento (1480), e abbia potuto trarne qualche suggestione. Mi pare però assai difficile sostenere, come ha fatto di recente Gabriele Pedullà 26, che Machiavelli possa aver ricavato da Dionigi tanto la riflessione generale sulla ‘costituzione mista’ quanto la specifica distinzione fra Stato acquisitivo (come Roma) e Stato conservativo (come Sparta), che abbiamo visto costituire parte integrante non solo del discorso polibiano sulle costituzioni nel sesto libro delle Storie, ma anche della narrazione liviana. I passi dionigiani addotti a prova 27 per motivi diversi non possono essere con-
Sulla forza ricorrente del modello repubblicano vd. Nadon 2009. Pedullà 2011, 425-436. 27 Per il primo punto la ‘costituzione di Romolo’ nei primi capitoli del secondo libro delle Antiquitates, e il discorso di Manio Valerio nel settimo; per il secondo punto 25 26
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LIVIO, DIONIGI, E MACHIAVELLI, SUL CONFLITTO PATRIZIO-PLEBEO
siderati un adeguato surrogato né della sistematica trattazione di Polibio né del senso generale del racconto di Livio che l’aveva incorporata, traducendola in termini narrativi. A mio parere è molto più semplice pensare, come di regola finora si è fatto, che Machiavelli abbia trovato nell’ambito dei suoi dotti amici fiorentini chi potesse fargli da guida nella lettura di Polibio; e per quanto riguarda in particolare l’osservazione relativa al carattere acquisitivo della repubblica romana, in ogni caso il testo liviano bastava e avanzava per stimolare Machiavelli alle appropriate riflessioni 28. Chiamare qui in causa Dionigi è dunque, a mio parere, decisamente superfluo – tanto più che lo stesso Pedullà dichiara apertamente che Machiavelli non può non aver conosciuto direttamente il sesto libro delle Storie (2011, 486). Allo stesso modo sono irrimediabilmente riluttante di fronte all’idea di un «completo accordo» fra Dionigi e Machiavelli sul punto che la storia dell’evoluzione politicocostituzionale romana da Romolo all’assetto descritto da Polibio sia configurabile in termini di «piccoli ritocchi, migliorie che non hanno stravolto i principi ispiratori» (Pedullà 2011, 439): cioè che anche per Machiavelli la storia sia, come per Dionigi, un processo – per così dire – senza storia. Ma su un punto come questo mi rimetterò volentieri al giudizio dei molti che hanno di Machiavelli una conoscenza ben superiore alla mia.
Bibliografia Champion 2015 = C. B. Champion, Livy and the Greek Historians from Herodotus to Dionysius, in Mineo 2015, 190-204. Cornell 2015 = T. Cornell, Livy’s Narrative of the Regal Period and Historical and Archaeological Facts, in Mineo 2015, 245-258. de Jonge 2008 = C. de Jonge, Between Grammar and Rhetoric: Dionysius of Halicarnassus on Language, Linguistics, and Literature, Leiden 2008. Delcourt 2005 = A. Delcourt, Lecture des Antiquités romaines de Denys d’Halicarnasse: un historien entre deux mondes, Bruxelles 2005. Forsythe 2015 = G. Forsythe, The Beginnings of the Republic from 509 to 390 b.c., in Mineo 2015, 314-326. il discorso del re Tullo Ostilio nel confronto con Mezio Fufezio signore di Alba nel libro terzo. 28 Pedullà 2011, 49 è in ogni caso convinto che Livio è «lo storico che meglio di ogni altro ha saputo illustrare attraverso quali “modi e ordini” i discendenti di Romolo hanno edificato il loro impero».
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P. DESIDERI
Fronda 2015 = M. P. Fronda, Why Roman Republicanism?, in Hammer 2015, 44-64. Gabba 1996 = E. Gabba, Dionigi e la storia di Roma arcaica, trad. ital., Bari 1996 (ed. orig. Berkeley – Los Angeles 1991). Gabba 2000 = E. Gabba, Roma arcaica. Storia e storiografia, Roma 2000. Hammer 2015 = D. Hammer (ed.), Greek Democracy and the Roman Republic, Chichester 2015. Mineo 2015 = B. Mineo (ed.), A Companion to Livy, Chichester 2015. Momigliano 1992 = A. Momigliano, The Crisis of the Roman State and the Roman Historians (from Sallust to Tacitus), in Id., Nono contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, a cura di R. Di Donato, Roma 1992, 503-519. Mouritsen 2015 = H. Mouritsen, The Incongruence of Power: Rome, in Hammer 2015, 146-163. Nadon 2009 = C. Nadon, Republicanism: Ancient, Medieval, and Beyond, in R. K. Balot (ed.), A Companion to Greek and Roman Political Thought, Oxford 2009, 529-541. Pedullà 2011 = G. Pedullà, Machiavelli in tumulto. Conquista, cittadinanza e conflitto nei ‘Discorsi Sopra la prima deca di Tito Livio’, Roma 2011. Santamato 2015 = E. Santamato, La teoria del συγχώρημα nella narrativa sulle lotte patrizio-plebee in Dionigi di Alicarnasso, Athenaeum 103, 2015, 525-564. von Ungern-Sternberg 2015 = J. von Ungern-Sternberg, Livy and the Annalistic Tradition, in Mineo 2015, 167-177. Wiater 2011 = N. Wiater, The Ideology of Classicism: Language, History, and Identity in Dionysius of Halicarnassus, Berlin – New York 2011.
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ARNALDO MARCONE
A PROPOSITO DELLA BATTAGLIA DI AZIO TRADIZIONE AUGUSTEA E TRADIZIONE LIVIANA Per Antonio La Penna
La tradizione sulla battaglia di Azio, nei limiti in cui può essere ricostruibile in un modo sufficientemente plausibile, presenta elementi di problematicità che appaiono significativi per l’identificazione delle caratteristiche nell’opera storiografica liviana rispetto al Principato e ai desiderata augustei. È necessaria una breve premessa perché la tradizione presenta delle dissonanze al suo interno che meritano di essere riconsiderate. La rilettura della battaglia di Azio successiva al suo svolgimento appare riconducibile alla rivisitazione complessiva del proprio operato che Augusto stava conducendo, a cominciare dal suo esordio nella vita politica e di cui proprio il famoso incipit di Res Gestae 1,1 ci dà testimonianza eloquente 1. Lo svolgimento della battaglia di Azio è stato ampiamente studiato, in primo luogo dagli studiosi di storia militare, dal Kromeyer per tutti, la cui interpretazione, a mio avviso, rimane, anche per la stretta aderenza alle fonti, la più plausibile 2. Premetto, semplificando alquanto la questione, una considerazione che potrebbe suonare paradossale. Azio di per sé fu teatro di una battaglia navale che possiamo considerare relativamente secondaria e che, a rigor di termini, non può considerarsi neppure una Cf. Marcone 2019. Kromayer 1899; Kromayer 1933. Una ricostruzione aggiornata della battaglia si può leggere ora in Morrison 1996. Per il problema rapprestato dalla tradizione poetica sulla battaglia, a cominciare dall’epodo 9 di Orazio e sulla presenza o meno del poeta sul luogo del combattimento, cfr., soprattutto, Paladini 1958 e Cairns 1983. Morrison 1996, in particolare, conclude, sulla base della sua ricostruzione dello scontro, che i versi 7-20 dell’epodo 9 oraziano furono scritti dopo che le notizie della battaglia avevano raggiunto Roma. 1 2
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 331-345 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125334
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vittoria di Ottaviano – il che non significa (non è un gioco di parole) – che sia stata una sua sconfitta. Vanno considerati alcuni aspetti di fondo 3. In buona sostanza, si trattò di una battaglia indubbiamente fondamentale per l’esito della guerra civile ma, da un punto di vista strettamente militare, meno significativa di quanto la sua celebrità può far pensare. In buona sostanza Antonio, la cui flotta era composta da navi assai più pesanti di quelle del suo avversario e che proprio per questo si appoggiava alle forze di terra ferma, aveva bisogno di rompere l’assedio in cui si era venuto a trovare nel golfo di Ambracia. E la stessa esigenza aveva Cleopatra anche se rimane incerto se i due amanti condividessero, oltre a esigenze di natura tattica che paiono sicure, anche un medesimo piano strategico. Vero è che, come ha scritto Kromayer 4, «die militärische Zwangslage des Antonius bestimmte von vornherein den Charakter des Gefechtes als eines Rückzugkampfes». Un primo tentativo da parte di Sosio, l’ammiraglio di Antonio, di forzare l’accerchiamento fallì. Alla fine, sia pure a costo di un certo numero di perdite, il tentativo di Antonio di aprirsi un varco ebbe successo e quindi poté prendere il largo al pari della regina egiziana (eviterei il termine ‘fuga’). Si tenga presente che lo stesso Casso Dione, nel discorso che mette in bocca a Ottaviano prima della battaglia, sembra avvalorare questa scelta di Antonio e Cleopatra 5. In buona sostanza il termine ‘fuga’ deve essere contestualizzato in quanto mossa strategicamente finalizzata, come risulta anche, indirettamente, dalla sintetica presentazione della scelta di Ottaviano: ‘alla fine decise di lasciar passare i nemici, in modo da assalirli alle spalle durante la “fuga”’ 6. Q ueste considerazioni – desidero chiarirlo preliminarmente – non implicano comunque piena condivisione degli argomenti svolti in modo brillante da R. A. Gurval, la cui tesi di fondo è il ridimensionamento dell’enfasi posta su Azio dalle fonti contemporanee: a suo giudizio la celebrazione in grande stile di Azio inizia in anni successivi e si deve fondamentalmente a Virgilio che avrebbe creato una sorta di ‘mito politico’ di Azio 7. Nel 31-30 la vittoria Cf. ora, in sintesi, Lespe 2007. Kromayer 1899, 48. 5 50,30,3-4. 6 50,31,1. 7 Gurval 1995. 3 4
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navale non avrebbe ancora assunto, a suo giudizio, quel significato di evento storico epocale che assumerà successivamente. Orazio riveste, sotto questo aspetto, un’importanza del tutto particolare. Gli echi della guerra aziaca in Orazio sono significativi perché, da una parte, e nell’epodo 9 e nell’ode 1,37, ove la tensione del primo sembra sciogliersi in un gioioso tripudio, il legame con l’evento bellico è particolarmente forte mentre, dall’altra, questo non è ancora mitizzato o, comunque, non lo è nei termini in cui lo farà la poesia successiva 8. Aveva osservato in proposito Giorgio Pasquali, in un’acuta discussione dell’epodo 9, che la fuga riuscita (cioè la rottura del blocco navale) senza grandi perdite conteneva per Ottaviano una confessione di sconfitta, perché portava in sé il germe di pericoli nuovi: la potenza di Antonio in Oriente era infatti ancora intatta 9. È da considerare che solo dopo la caduta di Alessandria Orazio può sciogliere davvero il proprio inno trionfale: nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus 10. In verità è incerto dove si trovasse Orazio al momento della battaglia. Ci sono elementi, valorizzati ad esempio da Nisbet, che possono suggerire che ne sia stato un testimone diretto senza per questo voler sopravvalutare quanto si può ricavare dai suoi versi 11. Secondo altri, (in particolare La Penna) 12, a Roma, dove Orazio si trovava, dovevano essere circolate notizie favorevoli riguardanti i preliminari della battaglia di Azio 13. Di qui l’epodo. Aggiungo che anche da quanto si acquisisce dal capitolo del già ricordato libro di Morrison, mi sembra preferibile quest’ultima ipotesi e, cioè che Orazio si trovasse a Roma. La notizia dell’esito finale dello scontro potrebbe non essere ancor giunta al momento della composizione dell’epodo. Q uello che si dice in particolare ai vv. 27-32 sembra una supposizione della fantasia esaltata del poeta. In uno studio del 1924 Aldo Ferrabino ritenne la versione oraziana come una versione autonoma; io non penserei tanto a una ‘versione’ con tutte le implicazioni che questo concetto implica quanto piuttosto a una libera presentazione dell’episodio da parte La Penna 1963, 51. Pasquali 1920, 44. 10 Carm. 1,37. 11 Nisbet 1984. 12 La Penna 1963. 13 Si consideri anche Vell. 2,84,1. 8 9
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di chi si trovava vicino ad Ottaviano e al circolo di letterati che faceva capo a Mecenate 14. Metterei dunque tra parentesi, in questo caso, lo stesso concetto di propaganda perché la resa poetica nel l’epodo 9 ha una coloritura troppo personale perché si possa attribuire ad esso una prevalente intenzione propagandistica. Vero è che Orazio riflette la sensibilità con cui a Roma si vivevano le fasi conclusive del conflitto e i grandi temi che rispetto ad esso erano presupposti dalla parte di Ottaviano. È da notare che, apparentemente, in Orazio non ci sia questione di viltà da parte di Cleopatra. Perfino uno storico che in genere sminuisce i nemici del princeps, Velleio Patercolo, sembra sulla stessa linea: la fuga di Cleopatra dal teatro della battaglia, se non fu ovviamente gloriosa, non venne però a determinare l’esito di una battaglia in realtà già persa in partenza, per la forza obiettiva e la determinazione degli avversari. La stessa morte di Cleopatra non ha niente di vile, anzi ne riscatta tutta l’esistenza. Anche il commento di Cassio Dione al discorso tenuto da Ottaviano prima della battaglia va apparentemente in questa direzione, l’attesa cioè di un tentativo di forzatura del blocco da parte di Antonio e Cleopatra: ‘alla fine decise di lasciar passare i nemici, in modo da assalirli alle spalle durante la fuga’ 15. Q uanto allo svolgimento vero e proprio della battaglia le nostre fonti principali, Cassio Dione e Plutarco, presentano una versione parzialmente divergente senza che però da essa scaturisca una significativa valutazione alternativa. Secondo Dione fu Ottaviano a dare il segnale dell’inizio del combattimento e fece avanzare le due ali della sua flotta in modo che il suo schieramento formasse una mezzaluna tesa ad accerchiare l’avversario. Antonio, vedendo il pericolo, fu costretto ad avanzare e ad attaccare e così ebbe inizio la battaglia 16. Secondo Plutarco diversa è la prima mossa dello scontro: è Antonio ad attaccare per primo facendo avanzare la sua ala destra. Ottaviano si ritirò per cercare di attrarre le navi nemiche fuori dal golfo così da poterle poi accerchiare con le sue navi molto più mobili e veloci 17. Q uindi per Dione Antonio diede vita a un fronte convesso ed Ottaviano a uno concavo, mentre per Plutarco Ferrabino 1924. 50,31,1. 16 Dion. Cass. 50,31,5-6. 17 Ant. 65. 14 15
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è esattamente l’opposto, La tattica adottata da Ottaviano sembra essere stata quella di utilizzare tre o quattro delle sue agili navi per attaccare una delle grosse di Antonio: così mentre gli Antoniani erano impegnati contro una delle piccole navi le altre potevano mirare a sfondare la sua fiancata e a farla affondare. La battaglia, almeno a posteriori, configurava l’esito finale del conflitto ed era un soggetto ideale per una versione ideologica, di tipo propagandistico anche a fronte del giuramento totius Italiae che l’aveva preceduto 18. Una ricontestualizzazione di queste vicende, ad assetto istituzionale del nuovo regime completato, era in qualche modo inevitabile. Per certi aspetti sembra più facile una valutazione della lettura che della battaglia di Azio è stata data in poesia. La mancanza di Livio pone ovviamente un serio problema che si può solo tentare di mettere a fuoco. Ultimamente ha avuto un certo successo la lettura di Cassio Dione in qualche modo come ‘anti-liviano’ (liviano era invece Cassio Dione per Ed. Schwartz) 19. Non è una questione sulla quale posso soffermarmi in questa sede. Certo una fonte importante di Livio doveva essere l’Autobiografia di Augusto menzionata esplicitamente nel cap. 68 della Vita di Antonio di Plutarco. Ovviamente è difficile stabilire i termini di questa utilizzazione (oltre a eventuali fonti parallele) ma è evidente che da questa si deve in qualche misura partire 20. Una prima questione da tener presente riguarda la Periocha 121 degli Annali liviani. Essa reca un’indicazione esplicita di cui è difficile non tener conto. Vi si segnala che il libro fu editus post excessum Augusti. Q uesta indicazione lascia indubitabilmente presupporre una pubblicazione posteriore al 14 d.C. e un simile presupposto è estensibile, con buona verisimiglianza, anche per i successivi libri 122-142 (o 144). È plausibile ricollegare il rinvio della pubblicazione degli ultimi venti e più libri di Livio alla accoglienza sfavorevole avuta dal suo libro 120, pericolosamente dedicato ad eventi (come le proscrizioni) la cui memoria doveva riuscire sgradita ad Augusto. Non a caso Velleio Patercolo lo scagionerà dalla responsabilità di averne deciso l’attuazione 21. Cf. Marcone 2017. Cf. Zecchini 1978, Manuwald 1979; Stouder 2015. Per gli argomenti di Schwartz cf. RE III (1899), 1684-1722. 20 Cf. Blumenthal 1913-1915. 21 2,66,1 repugnante Caesare sed frustra adversus duos. 18 19
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Ci sono elementi dai quali appare la delicatezza dei temi toccati da Livio in questi libri degli Annales. Dalla Periocha del libro 121 risulta che in esso si poneva, tra l’altro, il problema dei poteri di Cassio abrogati da Ottaviano che Livio doveva ricordare: C. Cassius, cui mandatum a senatu erat ut Dolabellam hostem iudicatum bello persequeretur, auctoritate rei publicae adiutus Syriam…in potestatem sua redegit. È in realtà la complessa situazione successiva alle Idi di marzo che Augusto liquiderà lapidariamente nel già ricordato esordio delle Res Gestae. Ma le questioni di storia politicoistituzionale erano certo secondarie rispetto a quelle poste dalle proscrizioni la cui odiosità doveva essere ancora viva a Roma. Dalla Periocha si evincono i dati delle stragi. Che Ottaviano successivamente volesse apparire estraneo ad esse è comprensibile anche se la testimonianza di Svetonio, secondo cui sarebbe stato più duro degli altri due colleghi dopo una riluttanza iniziale, lascia poco spazio a interpretazioni di comodo 22. A Livio, almeno a quel che si legge nella Periocha 130, doveva risalire (o quanto meno doveva essere stata da lui avvalorata) la versione secondo cui il declino di Antonio era già iniziato qualche anno prima di Azio a causa dei piaceri che lo tenevano avvinto a Cleopatra (M. Antonius dum cum Cleopatra luxuriatur, tarde Mediam ingressus bellum cum legionibus XVIII et XVI milia equitum Parthis intulit): ad Antonio, tra l’altro, vengono imputate anche le perdite subite nel corso della ritirata nella spedizione partica, che sarebbe stata temerariamente accelerata solo per il suo desiderio di tornare da Cleopatra anziché svernare in Armenia. Per quanto riguarda le fonti poetiche su Azio, e poi sulla fine di Cleopatra, è interessante notare che Orazio, nella già ricordata ode 1,3, pubblicata anni dopo, ma composta probabilmente nel 30 dopo l’entrata ad Alessandria di Ottaviano, ci presenta Cleopatra – senza peraltro mai chiamarla con il suo nome – come una regina che, pur sconfitta in una guerra cui l’aveva condotta l’ebbrezza per la prospera fortuna, non scelse di sua volontà la fuga da Azio, ed affrontò poi in Egitto una morte coraggiosa per suicidio (vv. 21-22 generosius perire quaerens; v. 29 deliberata morte ferocior; v. 32 non humilis mulier). In realtà nell’epodo 9 di Orazio, a prescindere dagli irrisolti problemi che pone, ai vv. 27-32 è presente l’immagine della ritirata Aug. 27.
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delle navi egizie, che non appare come un’iniziativa immotivata, ispirata a Cleopatra dalla codardia, ma viene addebitata alla pura necessità (v. 30 ventis iturus non suis). A ben guardare, dunque, la versione che imputa a Cleopatra una fuga dalla battaglia intrapresa per mera vigliaccheria non era presente in Orazio, che dello scontro di Azio rappresenta la reazione – direi – e non la tradizione cronologicamente più vicina ai fatti e che comunque si concentra sulla regina egiziana lasciando in un secondo piano Antonio: Cleopatra si porta fuori dalla battaglia con le sue navi, ma giocoforza e non per deliberata scelta, dopo una giornata di guerra che aveva tenuto col fiato sospeso i Romani. Il comportamento tenuto da Cleopatra, le sue scelte concrete avevano ovviamente implicazioni di non secondaria importanza. La versione dei fatti che risaliva verosimilmente ad Augusto (si può immaginare che sia elaborata dal princeps nel De vita sua) poneva verosimilmente in secondo piano l’elemento che invece improntò una parte delle ricostruzioni successive: la viltà di Cleopatra, che sarebbe fuggita dalla battaglia per codardia, e poi avrebbe cercato di scampare alla morte con ogni mezzo. Enfatizzare la viltà di Cleopatra, attribuire a questa un’importanza decisiva nell’andamento della battaglia, avrebbe avuto – esattamente come per l’involuzione di Antonio come generale da Filippi in poi – l’effetto di sminuire i meriti di Ottaviano e la portata della sua vittoria. È invero del tutto comprensibile che, a regime stabilizzato e consolidato, andasse posto in rilievo, più opportunamente, il fatto che contro una regina straniera, e contro una civiltà antitetica e ostile a quella romana, Ottaviano aveva combattuto con pieno successo un bellum iustum col favore di Apollo, sconfiggendo con una vittoria eroica un fronte nemico in cui non ci furono vili. Nella tradizione del tutto peculiare appare la Vita di Antonio di Plutarco. Il biografo greco, pur alimentando il mito negativo di un Antonio dissoluto ed impulsivo, recuperò, al contempo, molti aspetti positivi del triumviro, approfondendone la psicologia e facendo scaturire dalla sua complessa personalità le contraddizioni, l’umanità e le virtù politiche e soprattutto militari di un grande leader della fine della Repubblica. Come ha mostrato Giusto Traina, il biografo di Cheronea ha consegnato alla posterità un personaggio tragico, un eroe sconfitto dall’innegabile fascino 23. Traina 2003.
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Nella dettagliata narrazione di Plutarco Antonio entra ad Alessandria quando Cleopatra era già lì, intenta a meditare una impresa ‘audace e grande’: Cleopatra appare quindi perseguire una strategia che sembra prescindere da Antonio 24. Il progetto di Cleopatra sarebbe consistito, raggiunto l’Egitto, in un abbandono del Paese con un seguito militare e molte ricchezze, attraverso il golfo Arabico (mar Rosso): tale piano sarebbe presto naufragato a causa dell’azione degli Arabi Petrei, i quali incendiarono le prime navi 25. Va in ogni caso ribadito che, a dispetto delle discussioni moderne in merito, per la tradizione antica concordemente la battaglia di Azio fu la sconfitta di Antonio e la vittoria di Ottaviano. Se sul l’esito non si registrano dissonanze, sulla dinamica della battaglia le tradizioni poterono invece dividersi in interpretazioni divergenti. Colpisce, nella rilettura della storia recente promossa da Augusto e dai poeti a lui vicini, la rivalutazione, apparentemente sorprendente, di Antonio e Cleopatra. È difficile dire se questa sia stata promossa direttamente da Augusto o se si sia progressivamente affermata con il suo favore. Ad ogni modo i due risultavano in buona sostanza liberati da ogni sospetto di essere rispettivamente, all’epoca di Azio, un generale ormai al tramonto e ridotto all’ombra di se stesso, e una regina vigliacca, che sarebbe fuggita dallo scontro determinandone l’esito. Antonio compare sulla scena come vincitore dell’Oriente, nonostante l’insuccesso nella spedizione partica dovuto al grave errore di lasciare indietro, nella marcia attraverso l’Armenia e la parte nord-occidentale della Media (la Media Atropatene, l’odierno Azerbaigian), una consistente parte dell’esercito con Oppio Staziano, esponendola all’attacco dei Parti. Virgilio trovò comunque lo spunto per celebrare Antonio nella campagna ‘di rivincita’ che nel 34 vide il triumviro vendicarsi della defezione compiuta nel 36 dal re d’Armenia Artavasde, di cui invase il Paese, e che mise in catene. Alla luce del presupposto di una versione augustea che aveva interesse a mettere Cleopatra in cattiva luce sul piano etico, ma non perché vile, si spiegano molti particolari della tradizione, rappresentata in primo luogo da Virgilio, che si caratterizza per alcuni aspetti peculiari: la necessità dell’intervento di Apollo, che è un Cf. Cristofoli 2016. Plut., Ant. 69, 3-6.
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dio che patrocina spesso, fin da Omero, la civiltà contro la barbarie; la fuga di Cleopatra come imposta dalle circostanze dello scontro navale, e non come una precisa scelta imputabile a codardia o a tradimento; la morte coraggiosa della regina, una volta tornata in Egitto, vista la guerra irrimediabilmente perduta. Ma se da una parte della tradizione la fuga di Cleopatra venne ricondotta appunto alla constatazione che la battaglia era ormai perduta, in altra parte della tradizione stessa, che per noi sopravvive nelle narrazioni di Plutarco e in Cassio Dione, il rapporto causaeffetto è invece capovolto: risulta infatti essere il repentino allontanarsi delle navi egizie a determinare la sconfitta aziaca di Antonio, indotto da esso a ritirarsi a propria volta da uno scontro fino a quel momento descritto come incerto e niente affatto compromesso. Dunque, come si vede, la versione che imputa a Cleopatra una fuga scelta per codardia non era presente in Orazio, che dello scontro di Azio, come si è detto, rappresenta la reazione cronologicamente più vicina ai fatti: Cleopatra si porta fuori dalla battaglia con le sue navi, ma per necessità e non per una deliberata scelta, dopo una giornata di guerra che aveva tenuto col fiato sospeso i Romani. Che cosa si può dire in merito alla tradizione liviana? In primo luogo, va riconosciuto come Cassio Dione, la cui presunta dipendenza da Livio è stata dimostrata come infondata con solidi argomenti da Bernd Manuwald, nella ricostruzione della vicenda organizzi il suo discorso secondo una sua propria visione dello sviluppo degli eventi 26. Azio è da lui visto come l’evento conclusivo di una lotta per il potere di lungo periodo. Q uesto ovviamente non significa che non sia operante in lui una tradizione, che potremmo chiamare non-liviana, di cui c’è traccia anche in Plutarco 27 che valorizza le imputazioni che le due parti in conflitto si rivolgevano una contro l’altra 28. C’è un aspetto che mi pare rilevante. Va tenuto presente come in quella che possiamo considerare la tradizione liviana, a prescindere dallo scarno sunto fornitoci dalla Periocha (Floro, 2,21,8; Orosio 6,19,1 e forse anche Eutropio 7,7), l’allontanamento di Cleopatra e di Antonio dal luogo dello scontro è presentato come la fuga da una battaglia decisiva. Dione la Manuwald 1979. Ant. 55. 28 Manuwald 1979, 230-231. 26 27
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presenta invece in modo alquanto differente 29. La battaglia navale doveva essere solo una sorta di copertura del piano di guerra che doveva continuare in Egitto. La ‘fuga’ di Cleopatra appare in Dione semplicemente come quello che forse era, vale a dire uno stratagemma di emergenza per realizzare quel superamento del blocco navale che avrebbe consentito il proseguimento della guerra (non sembra in contraddizione con questo quanto si legge in Plut., Ant. 63,8). In realtà è soprattutto la successiva presentazione del comportamento spregiudicato tenuto da Ottaviano nei confronti di Cleopatra (51,6-11), che viola i patti da lui stipulati con la regina, che presuppone in Dione una tradizione autonoma (anche se qualche punto di contatto si ritrova in Plut., Ant. 73,1). L’enfatizzazione della viltà di Cleopatra, come fattore decisivo per l’esito della battaglia quando avrebbe cercato di aver risparmiata la vita con ogni mezzo, così come la condanna di Antonio a lei asservito, si possono dunque considerare una versione che doveva far capo ai libri 132-133 di Livio, ma che potrebbe implicare una qualche dipendenza anche rispetto a Q . Dellio, transfuga alla vigilia di Azio per l’insofferenza che nutriva proprio nei confronti di Cleopatra 30. Se Dellio non può essere considerato uno storico di opposizione (ed infatti Antonio e Cleopatra sono comunque condannati), non poteva però certo dirsi allineato alle direttive augustee, che tutto volevano meno che presentare quella di Azio come una battaglia irrisolta, – nonostante Agrippa fosse dalla parte di Ottaviano contro un Antonio che era alla sua prima battaglia navale – fino alla fuga codarda di una regina, la cui vigliaccheria ne avrebbe poi procrastinato vanamente la sopravvivenza 31. La svalutazione di Antonio e Cleopatra, ambiziosi di sovvertire l’ordinamento romano, si ritrova, tra l’altro, in Floro 2, 21,9 in cui si riecheggia verosimilmente la tradizione liviana. Rispetto a questa tradizione, Plutarco e Cassio Dione danno a loro volta un rilievo caratteristico all’allontanamento di Cleopatra rispetto alla sconfitta della flotta di Antonio: il biografo di Cheronea afferma chiaramente che le navi egizie si allontanarono nel bel mezzo di una battaglia ancora incerta, al punto che la cosa parve incredibile (Ant. 68,3 ἄπιστος ἦν ὁ λόγος) agli antoniani rimasti, che continua 50,15,3. Seneca padre lo aveva definito desultor bellorum civilium (suas. 1,7). 31 Cf. Tatum 2015. 29 30
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rono a resistere ancora molto tempo anche senza il loro comandante. La versione di Cassio Dione (50,33,1) è solo apparentemente simile: in realtà sembra suggerire che la scelta della regina sia stata l’esito di una situazione di emergenza rispetto al piano originario che prevedeva un tentativo di sfondamento 32. Si direbbe che Dione attribuisca l’interpretazione della scelta di Cleopatra come una ‘fuga’ a una lettura tendenziosa e di parte degli eventi bellici. Si potrebbe concluderne che la storiografia ha più difficoltà della poesia a inquadrare il significato della battaglia di Azio nella prospettiva ideologica che la realizzazione del programma del Principato augusteo implicava. L’interesse crescente di Augusto a patrocinare una tradizione opposta e che, per usare una felice formulazione di Giovannella Cresci, apre il contrasto ambiguo tra ciò che è rappresentato e ciò che è avvenuto 33, è riflesso nella maniera più chiara ed eloquente proprio nell’evoluzione del trattamento della battaglia di Azio che è accertabile nelle elegie dell’ultimo dei grandi poeti entrato nel circolo di Mecenate, Properzio. È plausibile ritenere che Properzio abbia infatti compiuto un percorso progressivamente sempre più allineato alla versione che la propaganda augustea cercava di affermare circa i fatti aziaci, e che sembra sviluppata in un’elegia particolarmente impegnativa, la 4,6 del 16 a.C. 34. Rispetto alle elegie dei libri precedenti, la 2,16, del 27-25 a.C. e la 3,11, del 23 a.C., il poeta sembra in effetti più libero nelle sue scelte e questo ha riscontro anche nei riferimenti ad Azio 35. Essi avevano tuttavia toccato alcuni aspetti che non si inserivano nella versione che stava prevalendo e che poneva in modo crescente l’accento sul fatto che la guerra condotta da Ottaviano era non già una guerra civile, ma una guerra ingaggiata contro uno Stato straniero, guidato da Cleopatra. L’idea che si voleva celebrare, era quella di una Cleopatra che perse sì una battaglia decisiva, ma non per la viltà o la volubilità che le avrebbero ispirato una fuga immotivata, bensì perché sopraffatta dalle armi della superiore civiltà
32 Manuwald, l. c., ha messo in evidenza come non ci sia contraddizione tra quello che si legge in Cassio Dione 50,15 e 50,33,1-3. 33 Cresci Marrone 1993, 11. 34 Cf. Cairns 1984. 35 In proposito sono condivisibili le osservazioni di Cristofoli 2005.
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romana patrocinata dagli dèi 36; una Cleopatra la quale comunque avrebbe poi dato prova di coraggio affrontando la morte per propria mano. Nell’elegia properziana 2,16 la battaglia di Azio sembra essere ancora vista solo come il risultato dell’infame passione di Antonio. Negli anni immediatamente successivi la più complessa elegia 3,11 poneva l’accento sul fatto che Antonio intendeva regalare Roma a Cleopatra in cambio del suo amore e presentava lo scontro di Azio come l’episodio conclusivo delle guerre civili: questo non era segnato in partenza a favore di Ottaviano, perché le divinità non erano ancora scese in campo in favore di Roma. È in ogni caso evidente che l’interesse del poeta non riguarda lo svolgimento in sé della battaglia quanto quello del significato dello scontro in una prospettiva di storia universale. Sotto questo profilo il ruolo attivo attribuito ad Apollo nell’elegia 4,6 appare decisivo per segnalare il significato profondo del conflitto: la fuga di Cleopatra è proiettata in un contesto che trascende la dinamica dell’evento bellico dal momento che ha una sanzione celeste (vv. 51 ss.). Tra l’elegia 3,11 e l’elegia 4,6 risultano essere intercorsi più di sette anni (dal 23 al 16). È un arco di tempo di eventi importanti a Roma tanto in ambito politico che culturale. Basterà ricordare la pubblicazione dell’ode oraziana 1,37 oltre, ovviamente, alla diffusione dell’Eneide mentre appare ridimensionata la posizione di Mecenate rispetto alle attività letterarie in relazione alle quali la presenza del Principe potrebbe essersi fatta più diretta 37. E così, nel 16 a.C., l’elegia properziana 4,6 presenta, rispetto alla 2,16 e, soprattutto, rispetto alla 3,11, un trattamento dei fatti aziaci la cui divergenza non può spiegarsi semplicemente chiamando in causa l’occasione pubblica di riferimento, vale a dire la celebrazione eziologica del tempio di Apollo sul Palatino, dedicato nel 28. In 4,6 scompare la deplorazione verso Antonio, protagonista negativo dell’elegia 11 del III libro dove (in particolare nei vv. 31-32) si alludeva a lui come a colui che aveva innescato il conflitto per regalare Roma a Cleopatra: anzi nell’elegia del 16 a.C. 38. Antonio non viene neanche nominato, perché la guerra doveva essere Cf. Cristofoli 2008, 202. Cf. Le Doze 2014. 38 Cf. Cairns 1984. 36 37
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presentata come condotta contro uno Stato straniero; è recepita l’immagine virgiliana di Apollo, che, ponendosi sulla nave di Ottaviano, diviene artefice della sua vittoria (vv. 29 ss.), e i cui dardi salvaguardano la civiltà di Roma istradando (vv. 55 ss.) la freccia del futuro princeps 39; forte della protezione di Apollo, la flotta di Ottaviano muove per prima all’attacco (v. 53), un particolare che prima dell’elegia 4,6 di Properzio nessuna delle testimonianze che ci sono giunte aveva affermato con decisione 40. Proprio come conseguenza dell’attacco di Ottaviano e della battaglia che si era rivelata impari, Cleopatra è costretta alla fuga (vv. 63 ss). Properzio, dunque, che in 3,11 sembrava poco consapevole del significato che l’ideologia augustea attribuiva alla battaglia di Azio, in 4,6 pare invece aver seguito da vicino la versione che dello scontro Augusto intendeva valorizzare. La battaglia di Azio, da una parte della tradizione, probabilmente, come si è visto, risalente a Livio (o che comunque Livio aveva fatto propria), era stata descritta come una battaglia combattuta contro una regina codarda che, con la sua fuga, mandò in fumo le possibilità di vittoria di Antonio. Essa, invece, viene presentata dall’ultimo Properzio in accordo con la più matura ideologia augustea 41, come uno scontro di civiltà, che per la protezione di Apollo vide, dopo una battaglia impari ma senza episodi di vigliaccheria, la ritirata di Cleopatra che fu costretta a soccombere di fronte a colui che era campione di una civiltà superiore 42. Properzio, in verità, andò anche oltre Virgilio nell’introdurre nella stessa elegia 4,6 Giulio Cesare, il quale, contemplando dall’alto le vittorie del suo erede, esclama (v. 60): Tu deus; est nostri sanguinis ista fides. Vi si può cogliere in tutte le sue implicazioni la considerazione sviluppata da Barbara Levick nella sua recente
39 È un elemento che si trova anche in Virgilio, cosa che induce a ritenere che Properzio, nell’introdurlo, non sia stato spinto solo dall’occasione compositiva. 40 Plutarco, verosimilmente sulla base della tradizione liviana, sosterrà il contrario: vd. Ant. 65,7. 41 Cristofoli 2008, 204, considera limitate le consonanze tra le elegie di Properzio dei libri 2 e 3 e l’ideologia augustea. 42 È plausibile che la tradizione probabilmente liviana, cui può ricollegarsi anche Cassio Dione, possa aver accentuato il profitto personale che Cleopatra potrebbe aver perseguito sacrificando Antonio. Non si deve peraltro supporre che la tradizione liviana abbia ‘inventato’ questo elemento che appare ben presente anche nella tradizione più articolata seguita da Plutarco, meno propensa a porre Cleopatra in cattiva luce (cf. Cristofoli, 2016, 170).
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monografia, secondo cui Augusto avrebbe utilizzato Cesare quale incarnazione di una funzione simbolica nello sviluppo della propria ideologia. La Levick parla di «enhanced assertiveness on the part of the Princeps after his political success in 19» 43. Vediamo se sia possibile individuare qualche elemento per una possibile conclusione. La battaglia di Azio sembra aver avuto un destino diverso nella storiografia rispetto alla poesia. Se vogliamo la questione si può focalizzare attorno alla presunta ‘fuga’ di Cleopatra. La lettura semplificata della battaglia può spiegare, se vogliamo, la presentazione in questi termini del comportamento della regina egiziana anche per giustificare il modo in cui Ottaviano agì successivamente nei suoi confronti. Se così fosse, Livio rappresenterebbe una tradizione in qualche misura di secondo livello, per dir così, rispetto a quella ufficiale. La poesia aveva invece bisogno di un evento drammaticamente decisivo al fine di dare evidenza ai temi fondativi del Principato augusteo che proprio nel conflitto contro la regina orientale trovava legittimazione. Si può dire che sia quest’ultima lettura della battaglia ad essere stata prevalente nella successiva storiografia.
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Il destino ha fatto sì che l’opera di Livio, fonte straordinaria e spesso unica per la storia più antica di Roma e per alcuni cruciali momenti della ‘media’ repubblica, sia irrimediabilmente perduta proprio nella sua parte più ricca e dettagliata. Si trattava di quella cronologicamente più vicina all’autore (il quale, nel momento del passaggio cesariano del Rubicone dalla ‘sua’ Cisalpina alla terra Italia, aveva all’incirca dieci anni) 1. In particolare, i libri 109-116, i cui contenuti ci sono noti principalmente attraverso le Periochae, si concentravano sulla guerra civile cesariana (e i libri 109-112 sulla sua prima parte, sino alla morte di Pompeo). Anche da essi fu possibile, ai contemporanei, attribuire allo storico riflessioni sul ruolo di Cesare e l’etichetta di Pompeianus, nonché criticarne – forse – la Patavinitas 2. L’aggettivo Pompeianus è riportato dalla principale tra le due testimonianze – in ogni caso più tarde e di non piana interpretazione – sulle quali in genere ci si basa per ricostruire l’atteggiamento dello storico nei confronti della guerra civile cesariana. Tacito narra che, durante il regno di Tiberio, lo storico Aulo Cremuzio Cordo fu portato a processo per i suoi scritti, nei quali elogiava Bruto e Cassio; l’imputato citò a propria difesa, tra le altre cose, un illustre precedente: Titus Livius, eloquentiae ac fidei praeclarus in primis, Cn. Pompeium tantis laudibus tulit ut Pom * Ringrazio Francesca Cavaggioni e Tommaso Gnoli per alcune preziose indicazioni. 1 Sui dati biografici relativi a Livio basti citare Levick 2015, 25. 2 Sul problema della Patavinitas liviana basti citare Baldo – Cavaggioni 2015. Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 347-368 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125335
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peianum eum Augustus appellaret 3. Per alcuni l’affermazione di Cordo, anche in relazione agli altri preminenti oppositori di Cesare citati nello stesso passo (Scipione, Afranio, Cassio, Bruto), implicherebbe che Livio offrisse un resoconto favorevole non solo a Pompeo ma all’intera causa repubblicana: alle origini stesse del conflitto lo storico avrebbe infatti posto l’aggressività cesariana 4. La figura di Pompeo era del resto utile anche all’ideologia augustea – indipendentemente dalla molto discussa posizione di Livio verso la stessa –, dal momento che Cesare costituiva un precedente non immune da problemi 5. Nota è anche la tolleranza augustea in relazione ai giudizi sugli eroi repubblicani 6. Ci troviamo quindi di fronte a due possibilità: un’interpretazione lata di Pompeianus implicherebbe, da parte di Livio, una sensibilità repubblicana applicata all’intero resoconto della guerra civile; l’aggettivo potrebbe altrimenti riferirsi, in maniera più mirata, alla trattazione specifica del personaggio di Pompeo 7. A favore dell’interpretazione lata si cita in genere la seconda testimonianza, che presenta tuttavia un serio problema testuale. Seneca nelle Naturales quaestiones, per descrivere l’effetto dei venti, ricorda una riflessione liviana: quod de Caesare maiore (Oltramare; maiori Gercke) vulgo dictatum est et a Tito Livio positum in incerto esse utrum illum magis nasci an non nasci reipublicae profuerit. La menzione, nella stessa, di Cesare, potrebbe essere infatti smentita da un ramo della tradizione manoscritta (che riporta un de G. Marior, emendato da Hine in de Caio Mario a partire dal duro giudizio liviano su Mario, anch’esso conservatoci dalle Periochae) 8. 3 Tac., ann. 4,34,3 Titus Livius, eloquentiae ac fidei praeclarus in primis, Cn. Pompeium tantis laudibus tulit, ut Pompeianum eum Augustus appellaret; neque id amicitiae eorum offecit. Scipionem, Afranium, hunc ipsum Cassium, hunc Brutum nusquam latrones et parricidas, quae nunc vocabula imponuntur, saepe ut insigni‹s› viros nominat. 4 Cf. Liv., perioch. 109,4 C. Caesar bello inimicos persecuturus cum exercitu in Italiam venit. Cf. Strasburger 1983; Donié 1996, 45-57. 5 Basti citare Hurlet 2006. Letture sulla posizione di Livio nei confronti di Augusto in Syme 1959; Petersen 1961; Walsh 1961; Badian 1993. 6 Cf. Macr., Sat. 2,4,18 Non est intermittendus sermo eius quem Catonis honori dedit. Venit forte in domum in qua Cato habitaverat. Dein Strabone in adulationem Caesaris male existimante de pervicacia Catonis ait: ‘Q uisquis praesentem statum civitatis commutari non volet et civis et vir bonus est’. Satis serio et Catonem laudavit et sibi, ne quis adfectaret res novare, consuluit. 7 Così Toher 2009, 231-233. 8 Sen., nat. 5,18,4 Q uid quod omnibus inter se populis commercium dedit et gentes dissipatas locis miscuit? Ingens naturae beneficium, si illud in iniuriam suam non vertat
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Ma anche ammettendo un riferimento a Cesare potremmo trovarci di fronte, più che a un giudizio politico, a una riflessione di filosofia della storia ispirata da un indiscutibilmente grande personaggio. Va anche ricordato che la simpatia ‘repubblicana’ di Livio non sembra estendersi al repubblicano Sesto, figlio di Pompeo, sul quale le Periochae riportano parole dure 9. Ciò è conforme alla versione dello stesso Augusto, che nelle Res gestae dipinge la guerra contro il personaggio – mai neppure nominato – come quella contro un volgare pirata, e a quella di autori ‘liviani’, quali Floro e Lucano, che ne sottolineano la differenza rispetto al padre (che aveva invece sconfitto i pirati) 10. La critica relativa al trattamento della guerra civile cesariana nelle Periochae si è, in ogni caso, concentrata su Cesare 11: importanti sono le riflessioni nate dal confronto con la versione offerta da quest’ultimo 12 e parimenti fruttuosa è stata l’identificazione di echi ‘liviani’ nelle raffigurazioni di Cesare a opera di autori successivi 13.
hominum furor! Nunc quod de C. Mario vulgo dictum est, et a Tito Livio positum, in incerto esse utrum illum magis nasci an non nasci ex re publica fuerit, dici etiam de ventis potest adeo quidquid ex illis utile et necessarium est, non potest his repensari quae in perniciem suam generis humani dementia excogitat. Varianti: de G. Marior Z; de caesare maiori RW; de caesare olim maiore B. Cf. Hine 1978; Liv., perioch. 80,9-10 … vir, cuius si examinentur cum virtutibus vitia, haud facile sit dictu utrum bello melior an pace perniciosior fuerit. Adeo quam rem p. armatus servauit, eam primo togatus omni genere fraudis, postremo armis hostiliter evertit. 9 123,1 Sex. Pompeius, Magni filius, collectis ex Epiro proscriptis ac fugitivis cum exercitu diu sine ulla loci cuiusquam possessione praedatus in mari Messanam, oppidum in Sicilia, primum, dein totam provinciam occupavit occisoque Pompeio Bithynico praetore, Q . Salvidenum, legatum Caesaris, navali proelio vicit; 127,5 Cum vicinus Italiae hostis, Sex. Pompeius, Siciliam teneret et commercium annonae impediret, expostulatam cum eo pacem Caesar et Antonius fecerunt ita ut Siciliam provinciam haberet; 128,1 Cum Sex. Pompeius rursus latrociniis mare infestum redderet nec pacem quam acceperat praestaret, Caesar necessario adversus eum bello suscepto duobus navalibus proeliis cum dubio eventu pugnavit. …; 131,1 Sex. Pompeius cum in fidem M. Antoni veniret, bellum adversus eum in Asia moliens oppressus a legatis eius occisus est. 10 R.Gest.div.Aug. 25,1-3; Lucan. 6,420-422 Magno proles indigna parente, / cui mox Scyllaeis exul grassatus in undis / polluit aequoreos Siculus pirata triumphos; Flor., epit. 4,8,1-2 o quam diversus a patre! Ille Cilicas exstincxerat, hic se piratica tuebatur; sull’influenza liviana nell’immagine lucanea del ‘Magno’ basti citare Mineo 2010. 11 Donié 1996. 12 Gärtner 1983. 13 Strasburger 1983.
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Particolarmente ricco di prospettive pare tuttavia, per la riflessione su Livio Pompeianus, l’approccio di Léonie Hayne, concentrato sull’immagine di Pompeo nelle Periochae, che si conclude con il seguente quadro: «…there are obvious problems in using the Peri ochae as an accurate reflection on how Livy described all the events of Pompey’s life. Nevertheless, it is clear that they give a reason ably consistent picture of Pompey. His activities in the first civil war are described neutrally, the extraordinary nature of his com mands in the 70s is emphasised, his involvement (direct or indirect) with violence in the 60s and 50s is minimised or avoided entirely. The only suggestion of criticism comes in connection with the Caesarian alliance in 60, and, perhaps, his departure from Italy in 49, actions which were looked on with disfavour at the time by the Pompeian supporter Cicero, among others. It is too much to sug gest that it is the epitomator himself who has chosen and organ ised his material to depict Pompey sympathetically. Livy, it seems, deserved his epithet Pompeian» 14. Ripercorriamo anche noi questa via, cercando di arricchirla di ulteriori informazioni, ferme restando le sopra citate considerazioni sulla ‘problematicità’ delle Periochae stesse 15. Pompeo fa la sua comparsa nella Periocha del libro 85 16, ad arruolare un esercito e giungere presso Silla. Pare interessante osservare che l’intera manovra – ben al di fuori della legalità – sembra riferita in maniera ‘neutra’, accanto all’azione di altri nobiles; parimenti non è menzionato il momento dell’accoglienza da parte del futuro dittatore, accoglienza che invece, come ricavabile soprattutto da Plutarco, dovette essere spettacolare 17. Hayne 1990, 442. Cf. Hayne 1990, 435-436. Sulle Periochae e la loro problematicità basti citare Bessone 2015. 16 Sulla quale Hayne 1990 non si sofferma. Liv., perioch. 85 Sylla in Italiam cum exercitu traiecit, missisque legatis, qui de pace agerent, et ab cos. C. Norbano violatis eumdem Norbanum proelio vicit. Et cum L. Scipionis, alterius cos., cum quo per omnia id egerat ut pacem iungeret nec potuerat, castra oppugnaturus esset, universus exercitus consulis, sollicitatus per emissos a Sylla milites, signa ad Syllam transtulit. Scipio cum occidi posset, dimissus est. Cn. Pompeius, Cn. Pompei eius qui Asculum ceperat filius, conscripto voluntariorum exercitu cum tribus legionibus ad Syllam venerat, ad quem se nobilitas omnis conferebat, ita ut deserta urbe ad castra veniretur. Praeterea expeditiones per totam Italiam utriusque partis ducum referuntur. 17 Narrazioni in Val. Max. 5,2,9; Plut., Pomp. 8,2-4 (cf. moralia 806E); App., civ. 1,367; Plut., Crass. 6,5-6 ritiene tale accoglienza l’origine della gelosia di Marco Licinio Crasso. 14 15
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Il libro 85 conteneva infine una serie di notizie sulle imprese dei duces nella penisola italica; parimenti, la parte finale del libro 87 18 parlava delle imprese di vari legati di Silla; forse in uno dei due o in entrambi era menzionato anche Pompeo. La Periocha del libro 89 ricorda – unica fonte a riguardo – il suicidio di Marco Giunio Bruto (pretore nell’88 a.C.) 19; ricorda anche l’uccisione del console Gneo Papirio Carbone, il quale flens muliebriter mortem tulit, a opera di Pompeo, inviato dal senato in Sicilia. La trattazione, come osserva Hayne, pare critica nei confronti della vittima di un omicidio definito con il non forte occidit 20 ma che aveva in realtà sollevato ampio dibattito. Vediamo di approfondire le tracce da esso lasciate nelle fonti. Plutarco osserva: l’uccisione, qualora necessaria, avrebbe potuto avvenire in maniera immediata; Pompeo avrebbe dovuto assumersene la responsabilità ed evitare alla vittima l’umiliazione del processo, ma fece condurre in catene il tre volte console di fronte a un tribunale da lui stesso presieduto, suscitando nei presenti sdegno e collera; quando Pompeo ordinò che lo portassero via e lo uccidessero, Carbone, alla vista della spada sguainata, chiese di appartarsi 18 Sylla C. Marium, exercitu eius fuso deletoque ad Sacriportum, in oppido Praeneste obsedit, urbem Romam ex inimicorum manibus recepit. Marium erumpere temptantem reppulit. Praeterea res a legatis eius eadem ubique fortuna partium gestas continet. 19 M. Brutus a Cn. Papirio Carbone Cossyra, *quam adpulerant, missus nave piscatoria Lilybaeum, ut exploraret an ibi iam Pompeius esset et circumventus navibus quas Pompeius miserat, in se mucrone verso ad transtrum navis obnixus corporis pondere incubuit. Cn. Pompeius in Siciliam cum imperio a senatu missus Cn. Carbonem, qui flens muliebriter mortem tulit, captum occidit. Sylla dictator factus, quod nemo umquam fecerat, cum fascibus XXIIII processit. Legibus novis rei pub. statum confirmavit, tribunorum pleb. potestatem minuit et omne ius legum ferendarum ademit, pontificum augurumque collegium ampliavit ut essent XV, senatum ex equestri ordine supplevit, proscriptorum liberis ius petendorum honorum eripuit et bona eorum vendidit, ex quibus plurima primo rapuit. Redactum est sestertium ter milies quingenties. Q . Lucretium Ofellam adversus voluntatem suam consulatum petere ausum iussit occidi in foro, et cum hoc indigne ferret populus R., contione advocata se iussisse dixit. Cn. Pompeius in Africa Cn. Domitium proscriptum et Hiertam, regem Numidiae, bellum molientes victos occidit et quattuor et XX annos natus, adhuc eques R., quod nulli contigerat, ex Africa triumphavit. C. Norbanus consularis proscriptus in urbe Rhodo cum comprehenderetur, ipse se occidit. Mutilus, unus ex proscriptis, clam capite adoperto ad posticias aedes Bastiae uxoris cum accessisset, admissus non est quia illum proscriptum diceret. Itaque ipse se transfodit et sanguine suo fores uxoris respersit. Sylla Nolam in Samnio recepit. XLVII legiones in agros captos deducit et eos his divisit. Volaterras, quod oppidum adhuc in armis erat, obsessum in deditionem accepit. Mitylenae quoque in Asia, quae sola urbs post victum Mithridaten arma retinebat, expugnatae dirutaeque sunt. Su Bruto cf. Broughton 1951-1960, II, 40. 20 Hayne 1990, 437.
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per liberare il ventre che lo affliggeva 21. La versione sembra pro venire dal cesariano Gaio Oppio, citato subito dopo 22. Appiano ricorda che Pompeo aveva ordinato di uccidere immediatamente i compagni di Carbone ma fece condurre il tre volte console, in catene, ai propri piedi; dopo una pubblica arringa lo uccise e mandò la testa a Silla 23. Valerio Massimo si sofferma invece sul l’imbarazzante comportamento della vittima: Carbone, motivo di vergogna per gli annali di Roma, condotto a morte per ordine di Pompeo, chiese dimessamente e in lacrime ai soldati di poter svuotare il ventre, per vivere qualche istante di più; indugiò tanto da essere decapitato in quel sordido luogo 24. Valerio Massimo tuttavia, in altro contesto, considera Pompeo ingrato verso colui che un tempo, quando egli era molto giovane, ne aveva difeso in tribunale il diritto all’eredità paterna 25; ricorda poi che Pompeo fu accusato in pubblico, da un certo Elio Mancia Formiano, per quello e per altri omicidi, ottenendo l’appellativo di adulescentulus carnifex 26. Anche Cesare, nel 49 a.C., andò dicendo di voler vendicare il sangue di Carbone versato per la crudeltà di Silla e la complicità di Pompeo 27. Cicerone, invece, in una lettera inviata in data incerta, sostenne che nessuno era stato peggiore (improbior) di Carbone, fatto uccidere da Pompeo (a Pompeio nostro) 28. Sempre nella Periocha del libro 89, Pompeo ricompare con l’impresa in Africa contro Gneo Domizio Enobarbo, proscriptus – del resto al pari di Carbone 29 –, e il re Hierta – ma Iarba secondo Plutarco e i moderni 30 –, rappresentati come nemici vinti e uccisi (bellum molientes victos occidit), e con la menzione del primo trionfo a soli 24 anni. Anche la vicenda di Enobarbo 31 aveva dato adito a diverse letture. Da Eutropio riusciamo a ricostruire solo che l’uomo era morto Plut., Pomp. 10,4-6. Plut., Pomp. 10,7-9. 23 App., civ. 1,449. 24 Val. Max. 9,13,2. 25 Val. Max. 5,3,5; sul processo cf. Cic., Brut. 230. 26 Val. Max. 6,2,8. 27 Cic., Att. 9,14,2 (da Formia, 24 o 25 marzo 49). 28 Cic., fam. 9,21,3 (a Lucio Papirio Peto). 29 Su Enobarbo, Bruto e Carbone vd. Hinard 1985, 350-351; 360; 387-390. 30 Hierta anche in Oros. 5,21,14; cf. Plut., Pomp. 12,6; Broughton 1951-1960, II, 77. 31 Sulla quale Hayne 1990 non si sofferma. 21 22
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a causa dell’azione di Pompeo; grazie a Plutarco potremmo col locarne l’uccisione subito dopo la conquista dell’accampamento; Orosio sostiene apertamente che egli morì nello scontro 32. Valerio Massimo riporta invece una versione più vicina a quella della Periocha: sempre Formiano avrebbe rinfacciato a Pompeo anche la morte di Enobarbo tuo iussu, con una serie di altre notazioni sul defunto: summo genere natus, integerrimae vitae, amantissimus patriae, in ipso iuventae flore … occisus 33. Incerta è anche l’età di Pompeo al momento del trionfo – avvenuto il 12 marzo –, che le fonti indicano tra i 23 e i 26 anni 34. Poiché egli nacque il 29 settembre 106 a.C., la data del trionfo è collocabile tra l’82 e il 79 a.C., con buona probabilità nell’81 35, ciò che andrebbe a confermare la versione liviana. La Periocha del libro 90 36 ricorda che l’ex tribuno e legato Marco Giunio Bruto era stato ucciso da Pompeo; anche questa volta, come osserva Hayne, la notazione è neutra (occisus est) 37. L’episodio in realtà era stato assai discusso e aveva prodotto l’al lontanamento del figlio omonimo – il futuro cesaricida – da Pompeo. Le versioni variano e, per meglio apprezzare l’osservazione di Hayne, vale la pena approfondire. Plutarco, nel Pompeo 38, afferma che il proconsole Marco Emilio Lepido, grazie alle milizie di Bruto, controllava la Cisalpina; Pompeo, incaricato di combatterlo, avanzò rapidamente, bloccato solo dalla resistenza di Modena, dove stette a lungo accampato; Lepido nel frattempo si mosse verso Roma Plut., Pomp. 12,5; Eutr. 5,9,1; Oros. 5,21,13. Val. Max. 6,2,8. 34 27 marzo: Gran. Lic. 36,2 C.; 23 anni: Plut., Pomp. 12,8; Eutr. 5,9,1; 24 anni: Liv., perioch. 89; 25 anni: Gran. Lic. 36,2 C.; 26 anni: Vir. ill. 77,2. 35 Vell. 2,53,4 (nascita nell’anno 106); Plin., nat. 37,13 (nascita il 29 settembre). Sulle possibili date del trionfo cf. Badian 1955; Badian 1961; Itgenshorst 2005, n° 246. 36 Sylla decessit honosque ei a senatu habitus est, ut in campo Martio sepeliretur. M. Lepidus cum acta Syllae temptaret rescindere, bellum excitavit. A Q . Catulo collega Italia pulsus et in Sardinia frustra bellum molitus periit. M. Brutus, qui cisalpinam Galliam obtinebat, a Cn. Pompeio occisus est. Q . Sertorius proscriptus in ulteriore Hispania ingens bellum excitavit. L. Manlius procos. et M. Domitius legatus ab Hirtuleio quaestore proelio victi sunt. Praeterea res a P. Servilio procos. adversus Cilicas gestas continet. 37 Hayne 1990, 437. Sul personaggio e la vicenda vd. Broughton 1951-1960, II, 90-91; Hinard 1985, 361-363. 38 Plut., Pomp. 16,3-7. 32 33
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con molti uomini, chiedendo il secondo consolato e gettando nel panico la città (essendosi accampato fuori dalle mura). A salvare la situazione fu una lettera nella quale Pompeo annunciava di avere concluso la guerra senza colpo ferire: Bruto, consegnato l’esercito di propria volontà o tradito da una defezione, si era messo nelle sue mani, ritirandosi con una scorta di cavalieri in una cittadina vicina al Po; il giorno seguente vi era però stato ucciso da Gemino, sicario di Pompeo (ragione per la quale quest’ultimo fu pesantemente incolpato: prima aveva scritto al senato che Bruto si era arreso spontaneamente, poi aveva inviato lettere nelle quali accusava il defunto). Sempre Plutarco, nel Bruto, ricorda che, prima della guerra civile cesariana, il protagonista della biografia non rivolgeva la parola a Pompeo in quanto assassino del padre 39. Per Valerio Massimo, sempre Formiano avrebbe rinfacciato a Pompeo un Bruto ferro laceratum, querentem id sibi prius perfidia, deinde etiam crudelitate tua accidisse 40. Orosio ricorda che Brutus in Cisalpinam Galliam fugiens persequente Pompeio apud Regium interfectus est 41. Cesare, nel 49 a.C., andò dicendo di voler vendicare anche questa uccisione 42. Le Periochae dei libri 91, 92, 93, 94 e 96 43 riportano notizie sulle guerre contro Q uinto Sertorio e Marco Perperna Veientone, Plut., Brut. 4,3. Val. Max. 6,2,8. 41 Oros. 5,22,17. 42 Cic., Att. 9,14,2. 43 Liv., perioch. 91 Cn. Pompeius cum adhuc eques R. esset, cum imperio proconsulari adversus Sertorium missus est. Sertorius aliquot urbes expugnavit plurimasque civitates in potestatem suam redegit. Appius Claudius procos. Thracas pluribus proeliis vicit. Q . Metellus procos. L. Hirtuleium, quaestorem Sertori, cum exercitu cecidit.; 92 Cn. Pompeius dubio eventu cum Sertorio pugnavit, ita ut singula ex utraque parte cornua vicerint. Q . Metellus Sertorium et Perpernam cum duobus exercitibus proelio fudit, cuius victoriae partem cupiens ferre Pompeius parum prospere pugnavit. Obsessus deinde Cluniae Sertorius adsiduis eruptionibus non leviora damna obsidentibus intulit. Praeterea res ab Curione procos. in Thracia gestas adversus Dardanos et Q . Sertori multa crudelia in suos facta continet; qui plurimos ex amicis et secum proscriptis crimine pro insimulatos occidit.; 93 P. Servilius procos. in Cilicia Isauros domuit et aliquot urbes piratarum expugnavit. Nicomedes, Bithyniae rex, populum R. fecit heredem regnumque eius in provinciae formam redactum est. Mithridates foedere cum Sertorio icto bellum populo R. intulit. Apparatus dein regiarum copiarum pedestrium navaliumque; et occupata Bithynia M. Aurelius Cotta cos. ad Calchedona proelio a rege victus; resque a Pompeio et Metello adversus Sertorium … omnibus belli militiaeque artibus par fuit, … et ab obsidione Calagurris oppidi depulsos coegerit diversas regiones petere, Metellum ulteriorem Hispaniam, Pompeium Galliam; 94 L. Licinius Lucullus cos. adversus Mithridaten equestribus proeliis feliciter pugnavit et aliquot expeditiones pros39 40
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e sulla definitiva vittoria di Pompeo. Come osserva Hayne 44, è esaltata la particolarità dell’incarico di Pompeo, semplice cavaliere; parimenti non sono sminuiti il valore e i successi iniziali di Sertorio – che secondo Appiano, va rilevato, presso Segontia sconfisse lo stesso Pompeo, evento reso in Periochae 92,2 con la formula Pompeius parum prospere pugnavit 45 –; non è inoltre menzionata la richiesta di denaro a Roma, presente nella nota lettera di Pompeo al senato riportata da Sallustio 46, tanto da spingere Hayne a domandarsi se il testo di Livio ricordasse davvero lo spiacevole incidente. La Periocha del libro 97 47 non menziona il ruolo di Pompeo nella repressione dei ribelli superstiti di Spartaco ma richiama molto brevemente il consolato del 70 a.C. (reso accessibile a Pompeo da un senatoconsulto e rivestito assieme a Crasso) e il contestuale reintegro della potestà tribunizia, misura forse attribuibile al solo Pompeo; manca parimenti ogni menzione delle tensioni con il collega Crasso 48.
peras fecit poscentesque pugnam milites a seditione inhibuit. Deiotarus, Gallograeciae tetrarches, praefectos Mithridatis bellum in Phrygia moventes cecidit. Praeterea res a Cn. Pompeio in Hispania contra Sertorium prospere gestas continet.; 96 Q . Arrius praetor Crixum, fugitivorum ducem, cum XX milia hominum cecidit. Cn. Lentulus cos. male adversus Spartacum pugnavit. Ab eodem L. Gellius cos. et Q . Arrius praetor acie victi sunt. Sertorius a M. Perperna et M. Antonio et aliis coniuratis in conviuio interfectus est octavo ducatus sui anno; magnus dux et adversus duos imperatores, Pompeium et Metellum, vel frequentius victor, ad ultimum et saevus et prodigus. Imperium partium ad Marcum Perpernam translatum, quem Cn. Pompeius victum captumque interfecit, ac recepit Hispanias decimo fere anno quam coeptum erat bellum. C. Cassius procos. et Cn. Manlius praetor male adversus Spartacum pugnaverunt idque bellum M. Crasso praetori mandatum est. 44 Hayne 1990, 437-438. 45 App., civ. 1,515. 46 Sall., hist. 2,98 M. (= epist. Pomp.). 47 Sulla quale Hayne 1990 non si sofferma. Liv., perioch. 97 M. Crassus praetor primum cum parte fugitivorum quae ex Gallis Germanisque constabat feliciter pugnavit, caesis hostium XXXV milia et ducibus eorum Casto et Gannico. Cum Spartaco dein debellavit, caesis cum ipso LX milibus. M. Antonius praetor bellum adversus Cretenses prospere susceptum morte sua finiit. M. Lucullus procos. Thracas subegit. L. Lucullus in Ponto adversus Mithridaten feliciter pugnavit, caesis hostium amplius quam LX milibus. M. Crassus et Cn. Pompeius coss. facti (S. C. Pompeius, antequam quaesturam gereret, ex equite Romano) tribuniciam potestatem restituerunt. Iudicia quoque per M. Aurelium Cottam praetorem ad equites Romanos translata sunt. Mithridates desperatione rerum suarum coactus ad Tigranen, Armeniae regem, confugit. 48 Sull’attribuzione della legge al solo Pompeo vd. McDermott 1977; sul consolato basti citare Dzino 2002.
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La Periocha del libro 99 49 è in gran parte dedicata alla spedi zione di Pompeo contro i pirati (67 a.C.). Si ricordano la lex publica che lo aveva incaricato (senza citarne però il proponente, il tribuno Aulo Gabinio), il danno inferto dai predoni all’approvvigionamento granario di Roma, l’espulsione toto mari degli stessi in soli 40 giorni, la successiva campagna in Cilicia, le assegnazioni di terre e città a coloro che si erano arresi, i difficili rapporti con Q uinto Cecilio Metello, proconsole attivo a Creta. Molti sembrano gli elementi d’interesse. Innanzitutto la mancata menzione della lex Gabinia, provvedimento osteggiato da gran parte dei senatori – con rare eccezioni, tra cui Cesare – e passato con la forza, scavalcando un veto tribunizio 50. Hayne ipotizza che Livio abbia preferito non enfatizzare questo momento e le connesse manovre, avvenute quando Pompeo era a Roma 51. Il quadro, a nostro avviso, potrebbe essere completato riflettendo anche sul dato temporale dell’impresa (intra quadragesimum diem toto mari eos expulit), confermato da Floro, da Ampelio e dal De viris inlustribus; altre fonti parlano invece di 40 giorni solo per la prima fase della campagna militare, svoltasi nel Mediterraneo occidentale, ma di una durata totale del conflitto di circa 3 mesi (essendosi concluse le operazioni nel Mediterraneo orientale – precedute da un breve soggiorno di Pompeo a Roma – in altri 49 giorni) 52. Interessante sembra anche il lungo passaggio che descrive lo scambio di lettere tra Pompeo e Metello, nelle quali il primo giu49 Q . Metellus procos. Cnoson et Lyctum et Cydoniam et alias plurimas urbes expugnavit. L. Roscius trib. pl. legem tulit ut equitibus Romanis in theatro XIIII gradus proximi adsignarentur. Cn. Pompeius lege ad populum lata persequi piratas iussus qui commercium annonae intercluserant intra quadragesimum diem toto mari eos expulit, belloque cum his in Cilicia confecto acceptis in deditionem piratis agros et urbes dedit. Praeterea res gestas a Q . Metello adversus Cretenses continet et epistulas Metelli et Cn. Pompei invicem missas. Q ueritur Q . Metellus gloriam sibi rerum a se gestarum a Pompeio praeripi, qui in Cretam miserit legatum suum ad accipiendas urbium deditiones. Pompeius rationem reddit hoc se facere debuisse. 50 Sulla vicenda basti citare Ward 1969; Jameson 1970. 51 Hayne 1990, 438. 52 Cic., imp. 34 (49 giorni per liberare il Mediterraneo orientale); Lucan., Phars. 2,576-579 (meno di 60 giorni); Plut., Pomp. 26,7; 28,3 (40 giorni per liberare il Mediterraneo occidentale e 3 mesi in tutto); Flor., epit. 1,41,15 (40 giorni); App., Mithr. 438 (40 giorni per liberare il Mediterraneo occidentale, poi a Roma, poi 40 giorni per il Mediterraneo orientale); Ampel. 18,19,1 (40 giorni); Eutr. 6,12,1 (pochi mesi); Vir. ill. 77,5 (40 giorni).
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stificava le proprie ingerenze in base alla necessità. Si trattò piuttosto di una complessa vicenda, che molte polemiche sollevò a Roma, anche negli anni successivi, sino a quando Metello riuscì a ottenere il trionfo 53. Che la Periocha menzioni le lettere di Pompeo pare quindi, come sottolinea Hayne, molto indicativo 54. In particolare, la storiografia antica è divisa. Floro e Cassio Dione sono entrambi critici sulle crudeli azioni di Metello a Creta; anche Appiano giustifica il comportamento di Pompeo; Plutarco ricorda invece che quest’ultimo fu criticato persino dagli amici per essersi fatto guidare, in tale occasione, dalla gelosia 55. La Periocha del libro 100 56 parla invece della lex Manilia e delle polemiche a essa legate (indignatio da parte della nobilitas); ricorda il successo della contio (di Manilio?) e le prime vittorie di Pompeo contro Mitridate. Come già ricordato, Hayne segnala, come possibile ragione del discrimine tra la trattazione della lex Gabinia e quella della lex Manilia, l’assenza di Pompeo da Roma in occasione della seconda 57; interessante è anche la mancanza di riferimenti all’orazione ciceroniana De imperio Pompei, che non ebbe piccola parte nella vicenda (a meno di non pensare, con Jal, a una lacuna nel testo, che spin gerebbe a individuare, in contio eius bona, un riferimento non a Manilio ma a Cicerone). Le Periochae dei due libri successivi, il 101 e il 102 58, continuano con le imprese di Pompeo contro Mitridate e a Gerusalemme, 53 Sulla vicenda e le polemiche vd. Broughton 1951-1960, II, 145-146; 154; sul trionfo nel 62 a.C. vd. Dion. Cass. 36,19,3. 54 Hayne 1990, 438. 55 Plut., Pomp. 29,1-7; Flor., epit. 1,42,4-6; App., Sic. fr. 6,2; Dion. Cass. 36,18,119,3. 56 C. Manilius tr. pl. magna indignatione nobilitatis legem tulit, ut Pompeio Mithridaticum bellum mandaretur. … Contio eius bona. Q . Metellus perdomitis Cretensibus liberae in id tempus insulae leges dedit. Cn. Pompeius ad gerendum bellum adversus Mithridaten profectus cum rege Parthorum, Phraate, amicitiam renovavit. Equestri proelio Mithridaten vicit. Praeterea bellum inter Phraaten, Parthorum regem, et Tigranen, Armeniorum, ac deinde inter filium Tigranen patremque gestum continet. 57 Hayne 1990, 438. 58 Liv., perioch. 101 Cn. Pompeius Mithridaten nocturno proelio victum coegit Bosporon profugere. Tigranen in deditionem accepit eique ademptis Syria, Phoenice, Cilicia, regnum Armeniae restituit. Coniuratio eorum qui in petitione consulatus ambitus damnati erant facta de interficiendis consulibus obpressa est. Cn. Pompeius cum Mithridaten persequeretur in ultimas ignotasque gentes penetravit. Hiberos Albanosque, qui transitum non dabant, proelio vicit. Praeterea fugam Mithridatis per Colchos Heniochosque et res ab eo in Bosporo gestas continet.; 102 Cn. Pompeius in provinciae
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il cui tempio è enfaticamente (ma erroneamente) descritto come inviolato sino a quel momento. La Periocha del libro 103 59 – che Hayne definisce «the most chronologically confusing and inaccurate book of all» 60 – copre gli anni dal 62 al 58 a.C.: Cesare compare per la prima volta in occasione della spedizione contro i Lusitani, Pompeo ricompare in riferimento al cosiddetto ‘primo triumvirato’ e viene richiamato solo in chiusura per ricordarne il terzo trionfo, durante il quale fu chiamato Magnus, a tota contione. Hayne osserva che il termine utilizzato per descrivere l’accordo ‘triumvirale’ è conspiratio, più forte del societas utilizzato da Svetonio 61; nota inoltre la mancanza di ogni menzione del matrimonio di Pompeo con Giulia, di collegamenti tra Pompeo e le tanto osteggiate leggi agrarie, di ogni accenno all’ostilità senatoria al suo ritorno dall’oriente; il legame tra la conspiratio e Cesare candidato e desideroso di potere suggerirebbe un accordo nell’interesse di lui solo, così come riportato anche da Floro e Cassio Dione 62. Del resto, si trattava di un patto malvisto da tutte le fonti, formam Pontum redegit. Pharnaces, filius Mithridatis, bellum patri intulit. Ab eo Mithridates obsessus in regia cum veneno sumpto parum profecisset ad mortem, a milite Gallo, nomine Bitoco, a quo ut adiuvaret se petierat, interfectus est. Cn. Pompeius Iudaeos subegit, fanum eorum Hierosolyma, inviolatum ante id tempus, cepit. L. Catilina bis repulsam in petitione consulatus passus cum Lentulo praetore et Cethego et compluribus aliis coniuravit de caede consulum et senatus, incendiis urbis et obprimenda re p., exercitu quoque in Etruria conparato. Ea coniuratio industria M. Tulli Ciceronis eruta est. Catilina urbe pulso, de reliquis coniuratis supplicium sumptum est. 59 Catilina a C. Antonio procos. cum exercitu caesus est. P. Clodius accusatus quod in habitu mulieris in sacrarium, [in] quo virum intrare nefas est, † cum intrasset et uxorem … Metelli pontificis stuprasset, absolutus est. C. Pontinus praetor Allobrogas qui rebellaverant ad Solonem domuit. P. Clodius ad plebem transiit. C. Caesar Lusitanos subegit. Eoque consulatus candidato et captante rem p. invadere conspiratio inter tres civitatis principes facta est, Cn. Pompeium, M. Crassum, C. Caesarem. Leges agrariae a Caesare cos. cum magna contentione invito senatu et altero cos. M. Bibulo latae sunt. C. Antonius procos. in Thracia parum prospere rem gessit. M. Cicero lege a P. Clodio tr. pl. lata quod indemnatos cives necavisset in exilium missus est. Caesar in provinciam Galliam profectus Helvetios, vagam gentem, domuit, quae sedem quaerens per provinciam Cae saris Narbon‹ens›em iter facere volebat. Praeterea situm Galliarum continet. Pompeius de … liberis Mithridatis ‹et› Tigrane, Tigranis filio, triumphavit Magnusque a tota contione consalutatus est. 60 Hayne 1990, 439. 61 Suet., Iul. 19,2. 62 Hayne 1990, 439. Cf. Flor., epit. 2,13,11; Dion. Cass. 37,55,1-58,1, con altro riferimento contraddittorio in 37,56,2. Sul ruolo di Cesare nella formazione del ‘triumvirato’, confermato da un suo invito nei confronti dello stesso Cicerone, basti citare Canfora 1999, 75.
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sulle cui finalità Canfora ritiene la Periocha molto attendibile 63. Hayne nota anche che essa indica l’adozione del cognomen di Magnus solo dopo il terzo trionfo, dato forse inserito per limitare l’importanza dell’imitatio Alexandri, in età augustea vista ormai negativamente (causa il modello di Marco Antonio) 64. Va tuttavia sottolineato che la Periocha non attribuisce esplicitamente l’origine del cognomen a questo momento, come fa invece – erroneamente – Appiano 65. Tra le apparenti imprecisioni cronologiche, pare significativa la collocazione del trionfo, celebratosi il 28 e 29 settembre 61 a.C., alla fine della Periocha del libro 103, il cui autore potrebbe avere voluto in questo modo sottolineare un momento particolarmente memorabile 66. La Periocha del libro 104 67 – molto focalizzata sull’azione di Cesare in Gallia – ricorda il richiamo di Cicerone dall’esilio, ottenuto ingenti gaudio senatus ac totius Italiae anche grazie all’impegno di Pompeo, e la cura annonae di quest’ultimo, ma senza indicazioni ulteriori. Nella Periocha del libro 105 68 l’attenzione è concentrata sugli scontri interni avvenuti tra il 56 e il 54 a.C., sulla ripartizione Canfora 1999, 74-75. Hayne 1990, 439. L’attribuzione del cognomen risale infatti all’81 o all’80, precedendo il primo trionfo (Plut., Pomp. 13,7-8; 23,2). 65 App., Mithr. 582-583; 599. 66 Plin., nat. 7,98 (28 settembre); 37,13 (29 settembre, giorno del compleanno); Plut., Pomp 45,1 (ripartito su due giorni); App., Mithr. 568 (ripartito su due giorni). Fonti e discussione sul trionfo in Seager 1979, 77-78; Itgenshorst 2005, n° 258. 67 Prima pars libri situm Germaniae moresque continet. C. Caesar cum adversus Germanos qui Ariovisto duce in Galliam transcenderant exercitum duceret, rogatus ab Aeduis et Sequanis, quorum ager possidebatur, trepidationem militum propter metum novorum hostium ortam adlocutione exercitus inhibuit et victos proelio Germanos Gallia expulit. M. Cicero Pompeio inter alios † exerente et T. Annio Milone tr. pl. ingenti gaudio senatus ac totius Italiae ab exilio reductus est. Cn. Pompeio per quinquennium annonae cura mandata est. Caesar Ambianos, Suessionas, Viruomanduos, Atrebates, Belgarum populos, quorum ingens multitudo erat, proelio victos in deditionem accepit, ac deinde contra Nervios, unam ex horum civitatibus, cum magno discrimine pugnavit eamque gentem delevit, quae bellum gessit donec ex LX milia armatorum D superessent, ex DC senatoribus tres tantum evaderent. Lege lata de redigenda in provinciae formam Cypro et publicanda pecunia regia M. Catoni administratio eius rei mandata est. Ptolemaeus, Aegypti rex, ob iniurias quas patiebatur a suis ‹relicto› regno Romam venit. C. Caesar Venetos, gentem Oceano iunctam, navali proelio vicit. Praeterea res a legatis eius eadem fortuna gestas continet. 68 Cum C. Catonis tribuni plebis intercessionibus comitia tollerentur, senatus vestem mutauit. M. Cato in petitione praeturae praelato Vatinio repulsam tulit. Idem cum legem impediret, qua provinciae consulibus in quinquennium, Pompeio Hispaniae, 63 64
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delle provinciae – in base alla lex Trebonia a favore di Pompeo e Crasso 69 –, su avvenimenti vari di politica estera e sull’impresa di Cesare in Gallia. Mancano riferimenti espliciti al consolato di Pompeo e Crasso, nonché alla precedente conferenza di Lucca, assente del resto – come osserva Hayne – anche dal resoconto di Cassio Dione, che descrive il consolato congiunto di Pompeo e Crasso in chiave anticesariana, senza far mancare una critica nei confronti della condotta preelettorale di Pompeo; il silenzio su quest’ultima da parte della Periocha è probabilmente derivato da Livio (per il quale non era semplice ‘discolpare’ un Pompeo osteggiato da Catone ma era possibile separarne le azioni da quelle di Cesare) 70. Nella Periocha del libro 106 71, in gran parte dedicata agli atti cesariani in Gallia e alla spedizione partica di Crasso, si ricorda la morte di Giulia. Manca ogni indicazione dei problemi sorti in relazione alle esequie, per le quali il marito Pompeo avrebbe preferito un carattere pubblico assai meno pronunziato 72. Nella Periocha del libro 107 73, che dedica ampio spazio alle imprese di Cesare in Gallia, si menzionano, in maniera neutra, Crasso Syria et Parthicum bellum, dabantur, a C. Trebonio tr. pl., legis auctore, in vincula ductus est. A. Gabinius procos. Ptolemaeum reduxit in regnum Aegypti, eiecto Archelao, quem sibi regem adsciverant. Victis Germanis in Gallia Caesar Rhenum transcendit et proximam partem Germaniae domuit, ac deinde Oceano in Britanniam primo parum prospere tempestatibus adversis traiecit, iterum [parum] felicius, magnaque multitudine hostium caesa aliquam partem insulae in potestatem redegit. 69 Cf. Rotondi 1912, 408. 70 Hayne 1990, 440; cf. Dion. Cass. 39,25,1-30,4. Sul convegno di Lucca vd. anche Gruen 1969, 295-320; Luibheid 1970, 88-94; Ward 1980, 48-63. 71 Sulla quale Hayne 1990 non si sofferma. Liv., perioch. 106: Iulia, Caesaris filia, Pompei uxor, decessit, honosque ei a populo habitus est, ut in campo Martio sepeliretur. Gallorum aliquot populi Ambiorige duce, Eburonum ‹rege›, defecerunt. A quibus Cotta et Titurius, legati Caesaris, circumventi insidiis cum exercitu cui praeerant caesi sunt. Et cum aliarum quoque legionum castra oppugnata magno labore defensa essent, inter quae eius cui in Treveris praeerat Q . Cicero, ab ipso Caesare hostes proelio fusi sunt. M. Crassus bellum Parthis inlaturus Euphraten flumen transiit, victusque proelio in quo et filius eius cecidit, cum reliquias exercitus in collem recepisset, evocatus in colloquium ab hostibus velut de pace acturis, quorum dux erat Surenas, conprehensusque et, nequid vivus pateretur repugnans, interfectus est. 72 Cf. Plut., Pomp. 53,6; App., civ. 2,68; Dion. Cass. 39,64,1. 73 C. Caesar Treveris in Gallia victis iterum in Germaniam transiit, nulloque ibi hoste invento reversus in Galliam Eburonas et alias civitates, quae conspiraverant, vicit et Ambiorigem in fuga persecutus est. P. Clodi a T. Annio Milone candidato consulatus Appia via ad Bovillas occisi corpus plebs in curia cremavit. Cum seditiones inter candidatos consulatus, Hypsaeum, Scipionem, Milonem essent, qui armis ac vi contendebant, ad comprimendas eas Cn. Pompeio legato … et a senatu cos. tertio factus est absens et solus, quod nulli alii umquam … Q uaestione decreta de morte P. Clodi Milo iudicio damnatus
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l’uccisione di Publio Clodio Pulcro, l’incendio della curia Hostilia, altri disordini e il terzo consolato di Pompeo, concesso per la prima volta senza collega e in assenza da Roma; seguono notizie sul processo a Tito Annio Milone – senza menzione della sconfitta ciceroniana – e sulle decisioni relative alla candidatura cesariana al consolato, per terminare con altre notizie sull’impresa gallica. Come osserva Hayne, la descrizione di Pompeo come absens (in realtà solo fuori dal pomerium) ne accentua la separazione dai problemi interni; manca altresì ogni menzione del fatto che sarebbe stato presto affiancato nella carica dal suocero Q uinto Cecilio Metello Pio Scipione Nasica, precedentemente indicato tra i fautori degli scontri 74. La Periocha del libro 109 75, che apre la trattazione della guerra civile, ricorda rapidamente i contrasti interni, il senatus consultum ultimum che aveva affidato a Pompeo il compito di difendere la res publica (7 gennaio 49 a.C.), l’arrivo di Cesare con l’intenzione di punire con la guerra i suoi avversari – notazione molto indicativa –, la presa di Corfinio e la cacciata di Pompeo e di ceterosque partium eius dalla Penisola italica. Hayne osserva: «it is particolarly tragic that we do not have Livy’s full account of the crucial first months of 49»; ciò, a nostro avviso, anche in relazione alla molto discussa strategia di Pompeo: se infatti la Periocha lo descrive respinto dall’avanzata cesariana, la critica moderna tende a ritenere, in relazione a una serie di osservazioni presenti nella corrispondenza ciceroniana, che il suo fosse un piano meditato da tempo 76. in exilium actus est. Lex lata est ut ratio absentis Caesaris in petitione consulatus haberetur, invito et contradicente M. Catone. Praeterea res gestas a C. Caesare adversus Gallos qui prope universi Vercingentorige Arverno duce defecerunt, et laboriosas obsidiones urbium continet, inter quas Avarici Biturigum et Gergoviae Arvernorum. 74 Hayne 1990, 441. Fonti sul consolato di Scipione in MRR II 234-235. 75 Causae civilium armorum et initia referuntur contentionesque de successore C. Caesari mittendo, cum se dimissurum exercitus negaret nisi a Pompeio dimitterentur. Et C. Curionis tr. pl. primum adversus Caesarem, dein pro Caesare actiones continet. Cum senatus consultum factum esset ut successor Caesari mitteretur, M. Antonio et Q . Cassio tr. pl., quoniam intercessionibus id senatus c. impediebant, urbe pulsis … mandatumque a senatu coss. et Cn. Pompeio, ut viderent nequid res p. detrimenti caperet. C. Caesar bello inimicos persecuturus cum exercitu in Italiam venit, Corfiniun cum L. Domitio et P. Lentulo cepit eosque dimisit, Cn. Pompeium ceterosque partium eius Italia expulit. 76 Hayne 1990, 441. Sulla strategia di Pompeo basti citare von Fritz 1942, Pocock 1959; Burns 1966; Powell 2002; Welch 2012.
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Bisogna tuttavia, a nostro avviso, considerare il contesto nel quale tali osservazioni sono state partorite. La testimonianza di Cicerone, tanto preziosa per ricostruire lo sbando creato dalla ritirata di Pompeo, pare molto meno utile a comprenderne la strategia; in particolare, insospettisce il fatto che le recriminazioni sulla premeditazione della ‘fuga’ e i riferimenti all’uso della flotta contro Roma e la terra Italia compaiano tutti in contesti polemici nei confronti dell’amico Tito Pomponio Attico, che appunto gli consigliava di seguire Pompeo 77. Analoga impressione – e forse elemento ancora più indicativo – emerge dai Commentarii cesariani, che ricordano come, secondo alcuni, il 1° gennaio 49 a.C. Cesare temesse ancora che le 2 legioni sottrattegli da Pompeo fossero trattenute nei dintorni di Roma per essere rivolte contro di lui 78. Un abile propagandista come Cesare, poi, avrebbe lasciato passare inosservato il criminale disegno nemico di strangolare Roma e la terra Italia con un assedio dal mare o perlomeno quello d’intraprendere una strategia ‘piratesca’? Ciò che ci colpisce particolarmente è piuttosto la mancanza di ogni descrizione di quanto avvenuto il 17 gennaio 49 a.C., ovvero l’ordine pompeiano di abbandonare Roma, riportato con grande enfasi da autori ‘liviani’ quali Lucano e Cassio Dione, concentrati sul panico successivo alla fuga del proconsole (prima verso il sud e poi, poco più di un mese dopo, oltre l’Adriatico) 79. Si tratta di un elemento che in teoria non doveva mancare in un autore ‘repubblicano’ e che, se correttamente elaborato, avrebbe potuto costituire un supporto all’ideologia, municipale e italica, di Augusto. Non solo: si tratta di un elemento che in teoria non doveva mancare in un autore la cui Patavinitas era denunziata – come si è ipotizzato – anche da una particolare attenzione ‘urbana’ 80. Parimenti Cesare, nei Commentarii sulla guerra civile, ricorda che i consoli lasciarono la città, atto sino ad allora impensabile 81. 77 Il primo accenno all’abbandono della città compare nel dicembre 50, in una lettera che – con lo spirito di una suasoria – tratteggia tutti gli scenari possibili (Att, 7,9,2); il progetto pompeiano prende invece forma in tre lettere del marzo 49 (Att. 9,7,3; 9,9,2; 9,10,6), in rimprovero all’amico (cf. Fezzi 2017, 251-254). 78 Caes., civ. 1,2,3. 79 Fonti e discussione in Fezzi 2017, 196-223; sulla trattazione specifica di questo momento in Lucano e nelle altre fonti vd. anche Wensler 1989; Barrière 2015. 80 Attenzione osservata da Gabba 1956, 83-85. 81 Caes., civ. 1,6,7.
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Il solo Cassio Dione spiega il tutto adducendo un motivo razionale (e antipompeiano): Pompeo temeva il successo delle trattative che erano già in corso con l’avversario 82. Molto meno razionale, per altre fonti, fu la dinamica della decisione, scaturita nel corso di una drammatica seduta senatoria e a causa della quale Pompeo fu criticato aspramente da molti alleati (per la sua sorprendente impreparazione ma anche perché il piano faceva ricordare il cruento ritorno di Silla dall’oriente); si richiamarono quindi due modelli difensivi ormai ‘classici’, quelli degli strateghi Temistocle (che aveva abbandonato Atene) e Pericle (che invece l’aveva difesa a tutti i costi) 83. Accanto a essi, fu rivisitato anche l’episodio del sacco gallico, che Cicerone – criticando il comportamento di Pompeo in una lettera ad Attico – riporta nella versione in base alla quale un manipolo di valorosi avrebbe resistito sul Campidoglio 84. Per Appiano, Pompeo il 17 gennaio avrebbe chiarito che solo l’abbandono dell’Urbe avrebbe portato a una efficace resistenza 85. Sempre Appiano attribuisce al proconsole, ormai a Tessalonica, un ulteriore discorso, tenuto davanti ai senatori, ai cavalieri e all’esercito, che riecheggiò le parole del 17 gennaio e forse fornì un’ulteriore risposta alle critiche: citando il precedente di Temistocle, puntualizzò che gli antenati, al giungere dei celti, avevano lasciato la rocca, e che Marco Furio Camillo aveva riconquistato la città muovendo da Ardea 86. Il tutto ci porta a ipotizzare un sentito dibattito o, perlomeno, un’efficace attività propagandistica sulla resistenza o meno della rocca nei confronti dei celti (che Livio nel superstite libro 5 Ab urbe condita considera reale) 87. Secondo Livio, il casus belli del 390 a.C. fu un errore diplomatico; anche allora mancò un dittatore, adeo occaecat animos fortuna 88. L’esercito fu guidato da comandanti sprovveduti, poco attenti alle leve e sprezzanti verso il diffuso Dion. Cass. 41,6,2-4. Fonti e discussione in Fezzi 2017, 205-207. 84 Cic., Att., 7,11,3 (da Roma o dalla Campania, 17-22 gennaio). 85 App., civ. 2,146-148. 86 App. civ. 2,205; discussione in Carsana 2007, 171-173. 87 Versione liviana del sacco gallico in 5,35,1-55,5; sui problemi interpretativi e il confronto con le altre numerose fonti basti citare Skutsch 1953; Sordi 1984. Sulla riflessione letteraria e la figura di Camillo vd. Oakley 2015. Sulle connessioni dell’antica vicenda con la guerra civile cesariana vd. anche Gaertner 2008. 88 Liv. 5,37,1. 82 83
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timore per quel popolo proveniente dai confini dell’Oceano. Essi fecero porre il campo in un luogo inadatto, non protetto da una trincea, né si preoccuparono di prendere gli auspicii o di sacrificare. Presso l’Allia l’armata romana fu così messa in fuga. Molti si rifugiarono a Veio; chi rientrò nell’Urbe dimenticò invece di chiudere le porte. Il panico risparmiò tuttavia la popolazione. I giovani atti alle armi e i più validi tra i senatori si ritirarono, con mogli e figli, armi e viveri, sulla rocca e sul Campidoglio. I plebei, ormai in penuria di frumento, fuggirono oltre il Gianicolo, disperdendosi nei campi o raggiungendo le città vicine. Le vestali sotterrarono alcuni oggetti sacri e ne portarono altri nell’etrusca Cere. Gli anziani più illustri restarono invece nelle proprie dimore, votati alla morte, con addosso le loro vesti più ufficiali. I celti si diedero al saccheggio. Chi era sulla rocca resistette, pur scorgendo la rovina della città sottostante. A Veio iniziarono a confluire uomini e si decise di richiamare Camillo, esule ad Ardea. Fu quindi inviato un messaggero sul Campidoglio, adeo regebat omnia pudor discriminaque rerum prope perditis rebus servabant 89, per ottenere che i comizi richiamassero l’esule e il senato lo nominasse dittatore. Ciò che avvenne. Camillo dopo la riconquista convinse i concittadini a ricostruire Roma piuttosto che spostarsi a Veio, come invece suggerivano alcuni, soprattutto tra i plebei. I successivi riferimenti a Pompeo nelle Periochae sono relativi ai perduti libri liviani 111 e 112. Nella Periocha del 111 90 si ricordano, dopo la ribellione di Marco Celio Rufo ed altri eventi in Egitto e Spagna, l’assedio di Durazzo – dal quale, si sottolinea, Pompeo era riuscito a liberarsi –, il trasferimento della guerra in Tessaglia e lo scontro presso Farsalo, la mancata partecipazione a esso di Cicerone, uomo a nessuna cosa meno adatto per natura che alla guerra, e la grazia generale concessa da Cesare. Liv. 5,46,7. M. Caelius Rufus praetor cum seditiones in urbe concitaret novarum tabularum spe plebe sollicitata, abrogato magistratu pulsus urbe Miloni exuli, qui fugitivorum exercitum contraxerat, se coniunxit. Uterque, cum bellum molirentur, interfecti sunt. Cleopatra, regina Aegypti, ab Ptolemaeo fratre regno pulsa est. Propter Q . Cassi praetoris avaritiam crudelitatemque Cordubenses in Hispania cum duabus Var‹ron›ianis legionibus a partibus Caesaris desciverunt. Cn. Pompeius ad Dyrrhachium obsessus a Caesare et, praesidiis eius cum magna clade diversae partis expugnatis, obsidione liberatus translato in Thessaliam bello apud Pharsaliam acie victus est. Cicero in castris remansit, vir nihil minus quam ad bella natus. Omnibusque adversarum partium, qui se potestati victoris permiserant, Caesar ignovit. 89 90
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In quella del 112 91 si ricordano il panico dei vinti, la morte di Pompeo assassinato in Egitto, la fuga della moglie Cornelia e del figlio Sesto a Cipro, la reazione di Cesare, piangente alla vista della testa mozzata del nemico, e la sua vendetta nei confronti degli assassini, per terminare con altre notizie sugli eserciti romani in Africa e Asia minore. Hayne ipotizza che l’attribuzione dell’omicidio ad Achilla, e non a un veterano romano (che parte delle fonti ricordano con il nome di Settimio), sia volta a sottolineare l’inaffidabilità egiziana 92. Potremmo aggiungere che la Periocha riporta un’altra notizia in questo senso: colui che mostrò la testa a Cesare sarebbe stato il retore Teodoto 93. Confidiamo che gli elementi da noi individuati abbiano offerto un ulteriore contributo al già molto convincente quadro di Hayne. A partire dalle Periochae si può infatti individuare, nel Livio perduto, una grande ammirazione per la figura di Pompeo sino alla vittoria su Mitridate; dopo il ‘primo triumvirato’ continuano comunque a operare omissioni su episodi potenzialmente imbarazzanti. In realtà, l’attenzione si sposta sempre più, comprensibilmente, su Cesare e sulla sua impresa gallica, nonché sulla sua irresistibile avanzata durante la guerra civile. A nostro avviso, indizi su una nutrita riflessione sull’abbandono pompeiano di Roma, avvenuto il 17 gennaio 49 a.C. – al quale mai nelle Periochae si accenna in termini aperti – potrebbero invece essere cercati nel superstite libro 5, quando Livio dovette in un certo senso ‘prendere posizione’ sul sacco gallico, attraverso una versione che contrasta pesantemente con quella offerta dallo stesso Pompeo… tanto da farci sospettare che la molto elaborata 91 Trepidantia victarum partium in diversas orbis terrarum partes et fuga refertur. Cn. Pompeius cum Aegyptum petisset, iussu Ptolemaei regis, pupilli sui, auctore Theodoto praeceptore, cuius magna apud regem auctoritas erat, et Pothino occisus est ab Achilla, cui id facinus erat delegatum, in navicula antequam in terram exiret. Cornelia uxor et Sex. Pompeius filius Cypron refugerunt. Caesar post tertium diem insecutus, cum ei Theodotus caput Pompei et anulum obtulisset, infensus est et inlacrimavit. Sine periculo Alexandriam tumultuantem intravit. Caesar dictator creatus Cleopatram in regnum Aegypti reduxit et inferentem bellum Ptolemaeum isdem auctoribus, quibus Pompeium interfecerat, cum magno suo discrimine evicit. Ptolemaeus dum fugit, in Nilo navicula subsedit. Praeterea laboriosum M. Catonis in Africa per deserta cum legionibus iter et bellum a Cn. Domitio adversus Pharnacen parum prospere gestum continet. 92 Hayne 1990, 442. 93 Confermata da Plut., Caes. 48,2; sul suo ruolo nella decisione dell’omicidio cf. Plut., Pomp. 77,3-7.
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figura del suo Camillo – spesso identificata in quella di Augusto – possa rappresentare quel condottiero ‘ideale’ che il pur ammirato Pompeo non era riuscito a incarnare.
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FRANCESCA CAVAGGIONI
STORIOGRAFIA E LEGES PUBLICAE IL CASO DI LIVIO, AUC 21-30
«En relisant attentivement Tite-Live, j’ai … été frappé de constater combien les indications qu’il nous fournit en la matière sont loin d’être systématiques, et combien il est parfois difficile de trouver une logique dans la mention ou l’omission d’une ratification par le peuple ou par la plèbe». Con queste parole, in un contributo del 2003, J.-L. Ferrary 1 rimarcava la problematica lacunosità dei dati legislativi serbati da Livio nei libri 21-45 degli Ab urbe condita. Tali dati, a parere dello studioso, sarebbero deficitari da vari punti di vista: sul piano del contenuto, per la laconicità dei riferimenti ai testi di leggi e rogationes; sul piano dell’iter legis, per la frequente semplificazione o omissione dei passaggi procedurali; e su un piano quantitativo generale, per l’oblio riservato a parte delle norme emanate, specialmente quelle di routine o inerenti al diritto privato, ma altresì quelle in materia di diritto pubblico promosse dai tribuni della plebe, talora preservate solo grazie a citazioni casuali o indirette 2. A conclusioni non dissimili perveniva, qualche tempo più tardi, anche Th. Lanfranchi analizzando il materiale contenuto nella prima deca: pure esso incompleto sotto diversi profili, per la propensione della fonte a subordinare il fatto giuridico alle esigenze diegetiche e storiografiche 3. Che la parzialità della testimonianza liviana sia l’elemento maggiormente posto in risalto dalla critica non può stupire. La cita Ferrary 2003; il passo citato è a 107. Ivi, spec. 122-123. Sul disinteresse liviano per l’attività tribunizia si era già espresso Badian 1996, 189-190, 211. 3 Lanfranchi 2012. 1 2
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 369-413 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125336
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zione selettiva delle notizie di questo tipo nella storiografia antica è un dato di fatto 4, apertamente ammesso dagli autori stessi 5, e non può che costituire il punto di partenza della riflessione di storici e giuristi moderni 6, interessati ad appurare il grado di attendibilità e completezza delle informazioni disponibili al fine di ricostruire la realtà del ricorso alla ratifica assembleare e il suo ruolo nel quadro delle fonti di produzione del diritto nella Roma repubblicana 7. In questa sede tuttavia vorrei porre in evidenza, accanto ai limiti registrati, anche altri aspetti del ‘quadro legislativo’ degli Ab urbe condita. Il trattamento che il Patavino riserva a tale documentazione, infatti, è complesso e non opera solo in ordine a quanti e quali provvedimenti riportare, ma anche a come riportarli. Tali modalità di citazione, che paiono seguire coordinate ricorrenti, non possono essere né casuali né prive di significato. Q uali caratteristiche allora presenta il discorso liviano in materia di leges e plebis scita? Vi si possono individuare dei tratti distintivi? E quale significato e quale finalità si devono loro attribuire? Per ragioni di spazio l’indagine, ancora a livello di studio preliminare, verterà su una parte dell’opera dello storiografo, la terza deca, che per la sua natura monografica 8 consente una trattazione autonoma. Il tentativo di rispondere agli interrogativi posti all’interno di questa sezione circoscritta contribuirà comunque ad approfondire il pensiero liviano, sotto un profilo, quello politicoistituzionale, non sempre adeguatamente considerato, e, più in generale, lo spazio e il valore della legge nell’immaginario collettivo tra repubblica e principato. 4 La misura della «sproporzione tra il noto e l’ignoto», per usare le parole di Mantovani 2012, 725-726, è comprovata dal confronto con le leggi a noi giunte per via epigrafica. 5 Basti il rinvio alle dichiarazioni di Dion. Cass. 28,7,6 e 53,21,1. Il paragone con il materiale serbato da fonti di impostazione differente, come Cicerone, conferma tale caratteristica della letteratura storiografica: sul punto, Williamson 2005, spec. 445-449. 6 Oltre che nei lavori citati nelle note precedenti, il concetto è ripreso in un’ottica lievemente diversa – per sottolineare le indebite inferenze operate talora dagli studiosi – da Sandberg 2001, 12-20, 41-44 e Paananen 1993 (quest’ultimo sull’erronea tendenza a collegare le rogationes attestate al voto dei comizi centuriati, i quali, in ambito legislativo, avrebbero viceversa un ruolo esiguo). 7 La ricerca di Ferrary in effetti si inquadra in un più ampio progetto di palingenesi delle leggi romane, denominato LePoR (Leges Populi Romani, URL: http://www. cn-telma.fr/lepor/), diretto dallo stesso Ferrary e da Ph. Moreau. 8 Ridley 2000, 17; Levene 2010, VIII.
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1. Assenza di riflessioni generali: la legge come provvedimento concreto Il primo elemento che desta attenzione è il fatto che, nell’ambito dei libri 21-30, rari, e scarsamente significativi, sono i riferimenti generici alla legge astrattamente intesa 9. Nella stragrande maggioranza dei casi, il Patavino allude piuttosto a provvedimenti concreti, sottoposti (o destinati a essere sottoposti) alla ratifica popolare. Complessivamente, essi ammontano a poco più di una trentina 10, sono inegualmente distribuiti tra i libri che compongono la sezione 11 e toccano vari ambiti, relativi al diritto pubblico. Ricorrendo a una classificazione di massima 12, si distinguono quattro settori principali: le leggi relative alla guerra e alla pace; le leggi che hanno a che fare con l’esistenza fisica o politica dei cives; le leggi che attengono alla sfera religiosa; le leggi che regolano la vita politico-istituzionale. Più precisamente, all’interno del primo gruppo Livio menziona: • la legge con cui viene dichiarata guerra a Cartagine (21,17,4); • e quelle con cui si conclude la pace con la Macedonia e con la stessa Cartagine (29,12,15-16; 30,43,2-3 13). Nel secondo nomina: • alcune leggi per il conferimento della cittadinanza a singoli in-
dividui o a gruppi (ai cavalieri Campani nel 215 e a Muttine nel 210: 23,31,10-11; 27,5,7);
9 Si vedano in particolare: 21,3,6; 18,10; 22,3,4; 26,2,1; 16,9; 28,12,3-4; 30,37,9, che esaminerò a tempo debito. 10 L’elenco coincide con quello dato da Ferrary nel contributo citato, con qualche differenza. Tralascerò infatti sia le misure che, pur risalendo al periodo cronologico affrontato nei libri in esame, sono ricordate in altre sezioni dell’opera, sia quelle, indi viduate dai moderni, che Livio non definisce in maniera chiara come tali. Viceversa, considererò tutte le misure che, impiegando una terminologia codificata e immediatamente riconoscibile, il Patavino identifica come leggi, anche quando siano ritenute inattendibili dalla critica. 11 Le citazioni variano da un minimo di due a un massimo di otto provvedimenti per libro. I libri 24 e 28 non presentano rimandi. 12 Alle difficoltà di classificare le questioni oggetto di normazione legislativa fa espressamente cenno Williamson 2005, 9. Di fronte alla varietà di classificazioni proposte dagli studiosi, ho scelto di attenermi alle linee guida individuate da Mantovani 1999, 264-265 con l’aggiunta di ulteriori sottocategorie impiegate in LePoR. 13 Q uest’ultima, a dar credito a Livio, oltre a conferire al senato facoltà di decernere ut cum Carthaginiensibus pax fieret, chiedeva anche al popolo di stabilire chi tra i comandanti dovesse eam pacem dare e ex Africa exercitum deportare.
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• la decisione, nel 210, di rimettere al senato la facoltà di deci-
dere de Campanis (26,33,11-34,1) e un analogo provvedimento de Satricanis proposto al tempo dei maiores da M. Antistio (26,33,10); • due delibere connesse a processi capitali, dirette a rendere irrevocabile l’esilio dell’imputato sottrattosi alla sentenza (sono le vicende di M. Postumio Pirgense nel 212 e di Cn. Fulvio Flacco nel 211: 25,4,9-11; 26,3,12). Come provvedimenti di ambito religioso cita invece: • la legge che autorizza e precisa il rito del ver sacrum nel 217 • e quella che, nel 208, stabilisce una data fissa per la celebrazione in perpetuum dei ludi Apollinari (23,10,1-6; 27,23,7). Q uanto infine alle iniziative legislative regolanti la vita politica e istituzionale, di gran lunga le più numerose, l’autore ricorda una serie di misure di vario tenore e rilevanza, tra cui si segnalano anzitutto quelle che hanno a che vedere con i requisiti per essere senatore o accedere alle magistrature, quali: • il plebiscito Claudio che sancisce il divieto per i senatori e i loro figli di possedere navi della portata superiore a 300 anfore (21,63,3-4); • la norma del 217 che sospende i vincoli di rieleggibilità consolare per tutta la durata della guerra (27,6,7); • le leges che interdicono ai figli di un magistrato curule ancora vivente di rivestire le cariche plebee (30,19,9); • e il provvedimento che, nel 203, concede un’amnistia in materia a C. Servilio Gemino (ibid.); ad esse si aggiungono quelle finalizzate alla istituzione di speciali commissioni magistratuali (che a volte sembrano contenere anche l’indicazione dei candidati); è il caso: • della rogatio con cui si creano, nel 217, i triumviri mensarii (23,21,6-7); • della nomina, nel 215, di Q . Fabio a duumviro aedis dedicandae causa (23,30,13-14); • della creazione, nel 212, dei quinqueviri murris turris reficiendis • e di due commissioni triumvirali (i triumviri bini), incaricati, gli uni, di restaurare i templi di Fortuna, Mater Matuta e Spes, 372
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distrutti da un incendio, gli altri, di ricercare i sacra e fare l’elenco dei dona andati perduti (25,7,5-6); • dell’istituzione di altri triumviri bini preposti, sempre nel 212, all’arruolamento, esteso anche ai minori di 17 anni, e della delibera di regole specifiche per il computo degli anni di servizio per quest’ultimi (25,5,8-9) 14. Vi sono infine i provvedimenti che intervengono sui poteri di magistrati e promagistrati, in particolare conferendo, estendendo (in senso spaziale e temporale) o abrogando l’imperium o ancora attribuendo poteri eccezionali o funzioni speciali. Nella fattispecie Livio menziona nell’ordine: • la proposta del tribuno Metilio, che nel 217 equipara i poteri del magister equitum a quelli del dittatore (22,25-26, praec. 25,10; 25,16 – 26,7); • la sospensione dell’interdizione a montare a cavallo per il dittatore del 216, M. Giunio Pera (23,14,2); • il conferimento nel 215 di un imperium proconsolare a M. Claudio Marcello, pretore l’anno precedente (23,30,19); • la scelta e l’invio di un comandante cum imperio in Spagna nel 211, dopo la morte degli Scipioni (26,2,5-6); • la concessione a Marcello, nello stesso anno, di mantenere l’imperium quo die urbem ovans iniret (26,21,5); • la nomina, l’anno successivo, di un dittatore comitiorum habendorum causa (27,5,14-19); • l’assegnazione ai censori del 209 dell’incarico di locare l’ager Campanus (27,11,8); • la proposta, avanzata dal tribuno C. Publicio Bibulo, ancora nel 209, di abrogare l’imperium di Marcello (27,20,11-21,4);
14 Il testo liviano non è perfettamente perspicuo perché non rievoca l’atto legislativo ma solo le disposizioni date dal senato sulla questione. Senza fornire troppi dettagli, lo storiografo si limita a rilevare le difficoltà incontrate dai consoli dell’anno nell’effettuare la leva e la pronta reazione del senato, che li richiama al loro dovere e triumviros binos creari iussit; in tale contesto inserisce il dettaglio dell’invito ai tribuni, si iis videretur, a chiedere al popolo un’autorizzazione atta ad evitare, per i minorenni, una ferma più lunga del normale. Così com’è, il plebiscito disposto ex sc non sembra aver nulla a che fare con la creazione delle commissioni, ma per analogia con altre situazioni si ritiene che prevedesse anche questa disposizione (sul punto, per tutti, Ferrary 2003, 131-132).
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• la proroga dell’imperium a C. Aurunculeio, già pretore in Sarde-
gna, nel 208 (27,22,6); • la scelta dei comandanti da inviare in Spagna provvisti di un imperium proconsolare nel 204 e poi nel 201 (29,13,7; 30,41,4); • le delibere in merito alla problematica assegnazione del comando della guerra in Africa nel 202 e nel 201 (30,27,3-4; 40,10).
2. Prevalere delle leggi ‘in formazione’ sulle leggi ‘in atto’ Tutti questi provvedimenti Livio tende a citarli nel momento della loro elaborazione, quando sono proposti e/o votati, o quanto meno ventilati. Più che sulla legge come prodotto finito, insomma, la sua attenzione si focalizza sul procedimento legislativo nel suo realizzarsi. Per la verità, non mancano riferimenti a leggi già approvate, il cui iter si è concluso in tempi più o meno recenti. Tali leggi però sono soltanto quattro. Esse vengono rievocate fuori dal contesto cronologico di pertinenza – nel corso della narrazione o all’interno di un discorso attribuito a un dato personaggio –, con varie finalità: ora come eventi atti a chiarire il quadro politico attuale; ora come precedenti per caldeggiare, motivare o giustificare un certo tipo di condotta o un nuovo provvedimento. Così avviene con il plebiscito Claudio, votato nel 219 o nel 218, ma citato tra i fatti del 217 per definire l’orientamento politico del console C. Flaminio, sostenitore di quella legge, e una delle ragioni dei suoi attriti con il senato 15; con la legge Antistia, che, come detto, aveva rimesso al senato il diritto di regolare la questione dei Satricani cum defecissent, probabilmente nel 320 16, e che viene menzionata nel 210 nel corso della discussione de Campanis, per sollecitare un’analoga risoluzione 17; con il plebiscito che sospendeva, per tutta la durata del conflitto con Cartagine, i vincoli di rieleggibilità per chi aveva
21,63,3-4. Per la datazione vedi Ferrary 2003, 116 con n. 30. Dovrebbe trattarsi, infatti, della defezione di Satrico narrata da Livio nel libro 9, conclusasi con l’espugnazione della città da parte del Cursore e la punizione dei capi della rivolta, dopo un’inchiesta per accertarne le responsabilità (9,12,5; 16,2-10). In quel contesto non è fatto cenno alla rogatio Antistia, forse a causa del prevalere di altri più rilevanti temi (a tali eventi si collegano infatti il famoso elogio di Papirio Cursore e la digressione su Alessandro Magno: 16,11-19,17). 17 26,33,10-11. 15 16
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il rango di consularis 18, votato nel 217 ma chiamato in causa nel corso dei comizi elettorali consolari per il 209 dal magistrato presidente quale exemplum giuridicamente rilevante per legittimare il voto della centuria che lo designava console 19; e con la normativa che vietava ai figli di magistrati curuli viventi l’assunzione di cariche plebee, nominata come prassi contra quam sanctum legibus erat, per giustificare la deroga concessa nel 203 a C. Servilio Gemino, che aveva violato l’interdizione ignaro che il padre fosse ancora in vita 20.
3. Contenuto, forma e terminologia: lo schema base e le sue varianti Tanto alle leggi vigenti quanto a quelle in realizzazione Livio allude per lo più in modi fissi e standardizzati, che seguono uno schema sempre identico sotto il profilo della struttura e del lessico impiegati. In genere, infatti, egli rievoca il momento legislativo in forma sintetica, facendo riferimento a tre aspetti 21: a) l’avvio della procedura su iniziativa magistratuale, indicato attraverso l’atto di rogare populum/plebem 22 o il più generico ferre 23 (a reggere il sostantivo legem 24 o il complemento ad populum/ plebem 25 oppure nella formula ferre vellent iuberent 26); 27,6,7. 27,6,6-8. 20 30,19,9; per la cronologia di tali leges, databili presumibilmente tra il 364 e il 209 a.C., vd. n. 170. 21 L’unica deroga evidente a questo schema, riscontrabile all’interno della casistica, è quella di 3,19,9, testé rievocata (vd. n. precedente con testo). 22 22,10,2; 25,4,9; 26,33,12; 27,5,17 (cf. 5,16). Sono presenti anche le varianti rogationem ferre a 26,33,10; rogationem promulgare a 22,25,10; rogationem facere a 27,5,7; rogationem perferre a 30,19,9; e il semplice sostantivo rogatio a 23,21,6 e 30,43,4. Per gli esempi di 26,33,10; 30,27,3 e 41,4, in cui la medesima terminologia è impiegata nel contesto di un senatoconsulto, vd. infra. 23 Sulla distinzione tra rogare – come verbo che designa specificamente il momento attuativo del procedimento legislativo – e il più vago ferre ad populum vd. Sandberg 2001, 97 e passim. 24 22,63,3; 27,23,7. 25 23,14,2; 31,10; 26,21,5; 27,6,7; 11,8; 22,6; 29,13,7; 30,19,9. Per i passi 23,30,14; 25,5,8-9; 26,2,5-6 vd. infra. 26 21,17,4; 30,43,2. A 30,40,10 compare l’espressione latum ad populum (…) cuius vellent imperio in Africa esse. 18 19
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b) il momento della delibera popolare, reso ora con il verbo sciscere, propriamente ‘votare’ 27 (o il sostantivo plebis scitum 28), ora con iubere 29; c) il contenuto della rogatio o della delibera, espresso per lo più 30 con un semplice complemento in de + ablativo 31 o con una proposizione infinitiva 32, interrogativa 33 o all’ut/ne + congiuntivo 34. Sul piano terminologico, pochissime sono le varianti 35; il lessico è, come si vede, specialistico e selezionato, le forme discorsive rare 36. Sul piano strutturale, lo schema triadico testé descritto può presentarsi privo di un elemento. La formulazione completa si riscontra infatti solo in una dozzina di casi 37. Nei restanti, manca uno 27 25,4,9; 26,3,12; 33,10; 27,5,17; 6,7; 11,8. Per il significato di sciscere vd. Fest. 184 L. con il commento di Ducos 1984, 126-127. 28 22,26,4; 25,7,5; 26,33,12. 29 23,30,19; 26,33,12; 29,12,15-16; 13,7; 30,27,4; 43,3. 30 Non mancano casi, poco numerosi, in cui la fonte si limita a riferire il risultato della delibera come dato di fatto (23,21,6 triumviri […] rogatione […] facti; 25,7,5 comitia […] plebique scitu habita; 27,5,7 Muttines […] civis factus rogatione […] facta). In altri la risposta assembleare è riportata più ampiamente in oratio recta (26,33,12 e 30,43,3, su cui vd. § 4). 31 22,25,10; 27,20,11 e 21,1; 22,6. 32 21,17,4; 23,30,19; 25,4,9; 26,3,12; 29,13,7; 30,43,2. Si ha un semplice complemento oggetto invece nei passi: 29,12,15-16; 30,27,4; 40,10. Per il caso peculiare di 26,2,5, in cui il contenuto della rogatio è formulato all’interno di un senatoconsulto, vd. infra. 33 29,13,7; 30,40,10; e, all’interno delle disposizioni senatorie, 30,27,3 e 41,4. 34 21,63,3; 23,14,2; 30,14; 31,10; 26,21,5; 33,10; 27,5,17; 6,7; 11,8; 23,7; 30,19,9; e, nell’ambito di un senatoconsulto, 25,5,8. 35 In 26,2,5-6 si trovano agere e promulgare (ea […] acta promulgataque est); il verbo agere ritorna poi a 27,20,11 e 21,1, nel racconto della rogatio Publicia, dove, a 21,4, compare anche l’espressione rogatio antiquaretur; la decisione popolare è designata attraverso il verbo decernere a 30,40,10 (assegnazione del comando in Africa). 36 Si segnalano in particolar modo i passi relativi alla promulgazione della rogatio Metilia e della rogatio Publicia, commentati nel § 4. 37 Più precisamente, la fase rogatoria è indicata attraverso la iunctura ferre ad populum (seguito talora da vellent iuberent) in cinque casi, in unione: ora con tribus iusserunt (29,13,7 per il comando in Spagna nel 204 e 30,43,2-3 per la pace con Cartagine); ora con plebs scivit (a 26,6,7 per la legge de lege solvendis consularibus e a 27,11,8 per la locatio dell’ager Campanus); ora con decernere (30,40,10, a proposito del comando in Africa nel 201). Rogationem ferre e rogationem promulgare sono invece impiegati in correlazione con sciscere e plebis scitum a 26,33,10, in rapporto alla legge Antistia, e a 22,25,10 e 26,4 a proposito della rogatio Metilia. Plebem rogare è viceversa seguito da plebs scivit in 25,4,9 (per il decreto di esilio a Postumio) e 27,5,17 (a proposito della nomina del dittatore comitiorum habendorum causa); da plebes iussit in 26,33,12 (relativo alle decisioni de Campanis). La stessa terminologia (con populus e tribus al posto di plebs)
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dei primi due poli, vuoi l’azione di sottoporre alla assemblea una determinata proposta da parte del magistrato, vuoi l’azione dell’assemblea di sciscere o iubere. Si registra peraltro una discrepanza a livello quantitativo tra le due formulazioni ridotte: le occorrenze in cui a essere ricordato è in via esclusiva il ruolo decisionale del popolo sono di gran lunga meno numerose, quattro in tutto. Così, per l’attribuzione del l’imperium proconsolare a Marcello, si ricorda solo che populus iussit 38; relativamente al decreto di esilio di Flacco che scivit plebs 39; in merito al trattato di pace con la Macedonia che iusserunt omnes tribus 40; e in ordine alla nomina delle commissioni del 212 che comitia … plebi(que) scitu habita 41. Le situazioni invece in cui la rievocazione del procedimento legislativo si esaurisce nello stadio iniziale sono una dozzina. Nella fattispecie, Livio ricorre alla locuzione ferre ad populum sette volte, di cui cinque nella forma passiva latum est senza indicazione del magistrato rogante 42 e due all’attivo con la precisazione del magistrato rogante 43. Rogare compare una volta come verbo, sempre al passivo, nella formula rogatus … populus 44, e altre due come sostantivo, da solo 45 o all’interno di un ablativo assoluto (rogatione… facta) 46. si riscontra anche in 30,27,3-4, in merito all’assegnazione del comando in Africa nel 202, con una variante: qui l’atto di populum rogare è rievocato indirettamente, all’interno del senatoconsulto che sollecita l’iniziativa, e a cui segue, appunto, la delibera delle tribus. 38 23,30,19. 39 26,3,12. 40 29,12,15-16. 41 25,7,5. 42 23,31,10 sulla concessione della cittadinanza agli equites Campani: et de trecentis equitibus Campanis (…) latum ad populum ut cives Romani essent; 27,22,6 sulla proroga ad Aurunculeio: latumque de prorogando imperio ad populum est; 30,19,9 sull’amnistia a Gemino: latum ad populum est ne C. Servilio fraudi esset quod (…) (ma vd. n. 46). A 23,14,2 il verbo è all’ablativo assoluto: latoque, ut solet, ad populum ut equum escendere liceret. A 21,17,4 invece la locuzione regge vellent iuberent: latum (…) ad populum vellent iuberent populo Carthaginiensi bellum indici. 43 21,63,3 sul plebiscito Claudio: legem quam Q . Claudius tribunus plebis (…) tulerat, ne quis senator (…); 26,21,1-5, connesso alla celebrazione dell’ovatio da parte di Marcello: tribuni plebis ex auctoritate senatus ad populum tulerunt ut M. Marcello (…). 44 È il provvedimento relativo al ver sacrum riportato in 22,10,2. 45 23,21,6 triumviri mensarii, rogatione M. Minuci tribuni plebis facti. 46 27,5,7 Muttines etiam civis Romanus factus rogatione ab tribunis plebis ex auctoritate patrum ad plebem facta. Cf. anche il già citato caso di Gemino (n. 42), ove
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In tutti questi passaggi la fase del voto e dunque la risposta del popolo, pur non esplicitamente segnalata (al massimo appare in forma indiretta, all’interno della domanda posta dal magistrato 47), è comunque sottintesa e data per scontata. Considererei a parte invece altri cinque episodi in cui ritorna la stessa terminologia (ferre ad populum, in un’occasione plebem rogare) in relazione però non all’avvio della procedura ma a una fase ancora progettuale. Si fa cioè riferimento solo all’affiorare, in seno al senato, dell’opportunità (o necessità) di consultare il popolo su una determinata questione e all’invito rivolto dal consesso a uno o più magistrati di ferre ad populum ut… (a volte seguito da iuberent) 48. L’attuazione del senatoconsulto, ovvero il vero e proprio passaggio legislativo, non è annotato, perlomeno non in maniera perspicua. A volte è fatto cenno (magari non nella stessa sede) al risultato finale (la creazione dei duumviri aedis dedicandae 49, quella dei triumviri preposti alla conquisitio 50, il voto dei ludi Apollinari 51); in merito alla questione del comando spagnolo, si arriva a dire che ea cum tribunis acta promulgataque, senza chiarire se la procedura sia proseguita oltre lo stadio della promulgazione 52; mentre per quanto riguarda la sistemazione del fronte nel 201 le l’espressione latum ad populum est è ripresa successivamente nell’espressione hac rogatione perlata (30,19,9). 47 21,17,4. 48 Così avviene nella rievocazione della nomina di Fabio a duumviro per la dedica del tempio di Venere Ericina (23,30,14 senatus decrevit ut Ti. Sempronius (…) ad populum ferret ut […] iuberent […]); nelle misure relative all’arruolamento dei minorenni (25,5,8 tribuni si iis videretur ad populum ferrent ut […]); e alla regolarizzazione dei ludi apollinari (27,23,7 et praetor urbanus legem ferre ad populum iussus ut […]); e per la questione del comando spagnolo nel 211 (26,2,5-6 omniumque in unum sententiae congruebant agendum cum tribunis plebis esse, primo quoque tempore ad plebem ferrent quem cum imperio mitti placeret […]) e nel 201 (30,41,4 uti consules cum tribunis agerent ut, si iis videretur, plebem rogarent cui iuberent in Hispania imperium esse). 49 23,31,9 interea duumviri creati sunt Q . Fabius Maximus et T. Otacilius Crassus aedibus dedicandis, Menti Otacilius, Fabius Veneri Erycinae. Non conoscendo l’esatta formulazione del plebiscito – se contenesse o meno l’indicazione dei nomi – resta problematico stabilire se la frase allude alla votazione della legge o a una procedura elettorale successiva. 50 25,5,9 ex hoc senatus consulto creati triumviri bini conquisitionem ingenuorum per agros habuerunt. Come nel passo precedente, anche qui l’incertezza del contenuto della disposizione legislativa non consente di valutare se la notizia abbia a che fare solo con la disposizione senatoria o anche con il plebiscito votato nell’occasione. 51 27,23,7 ipse primus ita vovit, fecitque ante diem tertium nonas Q uinctiles. 52 26,2,6; dopo di ciò la narrazione si interrompe per descrivere il processo a Cn. Fulvio Flacco. Sull’argomento Livio ritorna a 26,17,1, riferendo dell’invio in Spagna di C. Nerone, disposto dai patres.
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indicazioni successive implicano forse un qualche scarto tra le disposizioni senatorie e la rogatio effettivamente presentata 53. Comunque sia, è evidente che il passaggio al voto non costituisce la priorità del racconto.
4. Accentuazioni e silenzi La menzione di una lex o di un plebiscitum nella descrizione liviana della guerra annibalica consta, in genere, di questi pochi dati e, come estensione, non travalica il singolo paragrafo. Nelle occasioni, poco numerose, in cui la fonte si sofferma più diffusamente sull’evento legislativo, raramente è per precisarne meglio il contenuto o la ratio. Se anche, a volte, il testo contiene qualche delucidazione sulle ragioni dell’intervento normativo 54 o ne fornisce qualche clausola più particolareggiata – come nella concessione della cittadinanza ai cavalieri Campani 55 o nel decreto di esilio per Postumio 56 –, nella stragrande maggioranza dei passi la notizia si esaurisce in una breve proposizione o in un complemento. Fanno eccezione due provvedimenti: quello relativo alla procedura di espletamento del ver sacrum 57 e quello connesso all’attuazione delle misure de Campanis 58. 53 Secondo la versione data da Livio, il senatoconsulto prevedeva di rimettere al popolo la scelta di un comandante da inviare in Spagna, disponendo al contempo il rientro di Manlio Acidino e Cornelio Cetego, che avevano condotto le operazioni fino a quel momento (30,41,4-5). Da riferimenti seriori apprendiamo che Lentulo è ancora attivo in Spagna nel 200 e Acidino anche più tardi (31,20,1; 50,10-11): perciò Ferrary ritiene che la rogatio sottoposta al popolo avesse modificato il tenore del decreto dei patres (LePoR, URL: http://www.cn-telma.fr/lepor/notice259/). 54 A proposito ad esempio del divieto per senatori e figli di possedere navi della portata superiore a trecento anfore 21,63,4 osserva che id satis habitum ad fructus ex agris vectandos; quaestus omnis patribus indecorus visus. 55 Oltre al conferimento della civitas Livio ricorda l’iscrizione nel municipio di Cuma e le argomentazioni addotte dai richiedenti: et de trecentis equitibus Campanis qui in Sicilia cum fide stipendiis emeritis Romam venerant latum ad populum ut cives Romani essent; item uti municipes Cumani essent pridie quam populus Campanus a populo Romano defecisset. Maxime ut hoc ferretur moverat quod quorum hominum essent scire se ipsi negabant vetere patria relicta, in eam in quam redierant nondum adsciti (23,31,10-11). 56 La delibera precisava le condizioni in cui sarebbe stata effettuata la vendita dei beni e l’emanazione del decreto dell’acqua e del fuoco: tribuni plebem rogaverunt plebesque ita scivit si M. Postumius ante Kalendas Maias non prodisset citatusque eo die non respondisset neque excusatus esset, videri eum in exsilio esse bonaque eius venire, ipsi aqua et igni placere interdici (25,4,9-11). 57 22,10,1-6. 58 26,33,12.
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Per entrambi il Patavino dà in oratio recta il testo della rogatio. La formula con cui la introduce è pressoché identica (in haec verba rogare), con qualche differenza. Nel primo caso lo storiografo segnala che ad essere coinvolto è il populus riunito nei comizi 59, ma, ricorrendo alla diatesi passiva, lascia imprecisato il magistrato rogante, ravvisabile forse nel pretore citato poco prima, che avrebbe consultato il pontefice de vere sacro 60 e che, a sua volta, potrebbe identificarsi con il pretore urbano M. Emilio, responsabile del l’adempimento delle misure religiose varate nell’occasione 61. Nel secondo si puntualizza che ad avanzare la proposta è il tribuno della plebe L. Atilio, che si rivolge alla plebs riunita nel concilio 62. In tutti i casi, la presenza reiterata della locuzione in haec verba presuppone che la proposta sia riferita in forma letterale. Essa si configura come una domanda rivolta ai votanti di esprimere la propria opinione e volontà su quanto proposto 63. Più precisamente, in merito al ver sacrum, al populus sarebbe stato chiesto velitis iubeatis haec sic fieri? e cioè che, in cambio della salvezza della repubblica entro cinque anni, si sacrificasse a Giove tutto ciò che la primavera avesse recato della razza suina, ovina, caprina e bovina e quanti animali non fossero stati ancora sacri, a partire dal giorno in cui il senato e il popolo lo avessero ordinato 64. A questo impegno generale sarebbe stata affiancata una serie di disposizioni specifiche, volte ad escludere ogni ambiguità
22,10,2. 22,10,1. 61 22,9,11. In verità, rievocando a 33,44,2 l’episodio del 217 in tutt’altro contesto, lo stesso Livio attribuisce il voto della primavera sacra al pretore A. Cornelio Mammula; tra i due passi però non v’è necessariamente contraddizione: nulla vieta di pensare che Emilio abbia presentato la rogatio e che, una volta che la formula fu approvata dai comizi, un altro pretore, Mammula, abbia pronunciato il vero e proprio voto de senatus sententia populique iussu (cf. Scheid 2012, 232). L’identità del magistrato rogante, comunque, dato il silenzio di Livio, non è certa: pur non condividendola, annoto l’ipotesi di Ferrary 2003, 109, il quale non esclude che la presidenza dei comizi possa essere stata tenuta dal dittatore in persona, vero ispiratore delle misure e della interpretazione religiosa degli eventi di quell’anno. 62 26,33,12. 63 Per la formula standard della rogatio imperniata sul quesito velitis iubeatis Q uirites (…)? cf. Gell. 5,19.9 e, in generale, Crawford 1996, 10. 64 22,10,2-3 ‘velitis iubeatis haec sic fieri? Si res publica populi Romani Q uiritium ad quinquennium proximum (…) salva servata erit hisce duellis (…) tum donum duit populus Romanus Q uiritium quod ver attulerit ex suillo ovillo caprino bovillo grege quaeque profana erunt Iovi fieri, ex qua die senatus populusque iusserit’. 59 60
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al momento della solutio voti e a evitare di incorrere in qualche scelus 65. In ordine alla questione campana, invece, il testo avrebbe previsto dapprima l’elenco puntiglioso di cose e persone che dovevano costituire l’oggetto delle decisioni terminando con la formula: de iis rebus quid fieri velitis vos rogo, Q uirites 66. Così come sono citate dalla fonte, tali rogationes sollevano più di una difficoltà. Palese è l’impiego del linguaggio formulare e ripetitivo tipico degli atti ufficiali 67. E purtuttavia, considerata la nostra ignoranza sulle modalità di conservazione dei documenti originali, sulla loro accessibilità, sui canali di trasmissione, e tenuto conto dei margini di rielaborazione stilistica 68, rimane problematico appurarne il grado esatto di autenticità. In particolare, la versione della rogatio de Campanis, nei termini in cui è riportata, richiede, da parte del concilio, una risposta articolata che non si allinea con la formula correntemente nota di assenso o rifiuto (uti rogas/ antiquo) 69: cosicché sono stati avanzati dubbi sulla sua attendibilità 70. Sulla base di questi esempi, si è comunque autorizzati a credere che Livio tenda a contrarre il dettato legislativo 71 e che solo vicende particolari – che per vari motivi godevano di canali di memoria privilegiati – lo inducano a fare una deroga: per quanto concerne l’episodio del ver sacrum in effetti entrava in gioco una legge di ambito sacrale – ambito per sua natura conservativo – e per 22,10,4-6. 26,33,12 L. Atilius tribunus plebis ex auctoritate senatus plebem in haec verba rogavit: ‘omnes Campani Atellani Calatini Sabatini qui se dediderunt in arbitrium dicionemque populi Romani ‹Q .› Fulvio proconsule, quosque una secum dedidere quaeque una secum dedidere agrum urbemque divina humanaque utensiliaque sive quid aliud dediderunt, de iis rebus quid fieri velitis vos rogo, Q uirites’. 67 Sul tema vd., tra gli altri, Crawford 1996, 15-25 e Lotito 2012. 68 Per questo tipo di problemi vd., e.g., i contributi di Laffi 2003 e Caldini 2003. Sulla conservazione dei documenti anche Sandberg 2001, 12-20; e per un esempio di adattamento stilistico dei testi legislativi, quello ciceroniano, Lotito 2012, 139-142. 69 In effetti, secondo 26,33,12, plebes sic iussit: ‘Q uod senatus iuratus, maxima pars, censeat, qui adsient, id volumus iubemusque’. Per la risposta classica vd. l’exemplum della legge Acilia Minucia del 201: de pace ‘Uti rogas’ omnes tribus iusserunt (30,43,3). 70 Vd. e.g. von Ungern-Sternberg 1975, 101-102. 71 In che misura è impossibile dire. È opinione comune che le leggi più antiche (come per esempio le XII Tavole) fossero meno minuziose (Mantovani 1999, 198) e che lo stile prolisso caratterizzi soprattutto le leggi di età tardo repubblicana (Ducos 1984, 161-170). 65 66
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di più relativa a una disposizione innovativa 72; quanto al trasferimento al senato della facoltà di decidere il trattamento dei Campani defezionati, toccava un tema sensibile, oggetto di riflessioni e rivisitazioni da parte della tradizione storiografica e centrale nella riflessione liviana 73. Più che al contenuto della rogatio, una descrizione più accurata e maggiori dettagli Livio li riserva piuttosto alle fasi in cui si realizza il procedimento legislativo, specialmente quando ineriscano a contesti a vario titolo problematici. Ciò avviene negli stessi casi testé considerati, dove, oltre a deli neare il testo di legge, la fonte dà conto anche dei modi in cui si giunge a coinvolgere l’assemblea, anzi a decretare l’imprescindibilità di un iussum populi. A proposito del varo della primavera sacra, infatti, l’intervento normativo è posto in essere solo dopo il pronunciamento in tal senso del pontefice massimo, consultato all’uopo dal pretore 74. Analogamente, l’interrogazione della plebs nel 210 in ordine alla questione campana promana, in sede senatoria, dalle obiezioni sollevate da M. Atilio Regolo, che ricorda opportunamente lo stato di cives dei Campani e, richiamandosi al precedente dei Satricani, l’impossibilità di deciderne la sorte solo per senatum 75. Si tratta, in ambedue le circostanze, di situazioni inusitate, in cui la soluzione legislativa non appare subito scontata ed emerge in corso d’opera, su sollecitazione di un singolo esperto, provvisto dell’auctoritas derivante dal rango, dalle competenze tecniche, dall’esperienza e dalla conoscenza diretta 76. E perciò la fonte vi dà adeguato spazio 77. Heurgon 1957, 36-51; Orlin 1997; Scheid 1998. Sulla questione campana e le presumibili distorsioni operate dall’annalistica vd. von Ungern-Sternberg 1975, 77-122. 74 22,10,1 his senatus consultis perfectis, L. Cornelius Lentulus pontifex maximus consulente collegium praetore omnium primum populum consulendum de vere sacro censet: iniussu populi voveri non posse. Sull’identità del pretore vd. n. 61 con testo. 75 26,33,10-11 per senatum agi de Campanis qui cives Romani sunt iniussu populi non video posse idque et apud maiores nostros in Satricanis factum esse (…) itaque censeo cum tribunis plebis agendum esse ut eorum unus pluresve rogationem ferant ad plebem qua nobis statuendi de Campanis ius fiat. 76 Il pontefice ovviamente è lo specialista in materia; M. Atilio Regolo aveva partecipato come legato di Fulvio alla campagna di riconquista di Capua e ex iis qui ad Capuam fuerant era quello che godeva di maxima auctoritas (26,33,5-6). 77 Una qualche attenzione alle premesse – in un racconto però meno articolato ed elaborato – la si ritrova anche nella delibera relativa ad un’altra iniziativa inno72 73
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Una trattazione estesa caratterizza anche la ricostruzione degli antecedenti del provvedimento, promulgato nel 210, con cui si rimetteva al popolo la scelta di chi dovesse essere nominato dittatore per tenere i comizi elettorali 78. Il racconto più articolato si giustifica questa volta nel quadro di un clima conflittuale, segnato da una controversia giuridica sorta tra la maggioranza senatoria e il console Levino intorno alla nomina dittatoria: e precisamente intorno alla possibilità – sostenuta dal console e respinta dai patres – di dicere dictatorem M. Valerio Messalla in Sicilia 79. Il ricorso al voto popolare è il mezzo, escogitato dal senato, per aggirare la resistenza del console. Ma la complessità della vicenda induce Livio a rievocare partitamente il senatoconsulto emanato nell’occasione – con la previsione di una serie di alternative 80 – e tutte le fasi successive: il rifiuto del console a convocare i comizi; il divieto da lui imposto al pretore di convocarli al posto suo; la presentazione della rogatio da parte dei tribuni; il voto con la designazione di Q . Fulvio Flacco; la partenza di Levino nel giorno in cui si teneva il concilio plebeo; la necessità di deferire la dictio all’altro console, Marcello; la nomina di Flacco a dittatore e di P. Licinio Crasso in qualità di magister equitum 81.
vativa: la nomina dei duumviri incaricati della dedica dei templi di Venere Ericina e Mens, votati nel quadro delle medesime iniziative post Trasimeno. Q ui Livio si limita a ricordare che Fabio sottopone al senato la questione e che su questo impulso i patres emanano un senatoconsulto, ove si precisa chi deve procedere alla consultazione popolare e quando debba farlo (23,30,13-14). 78 È questa, a mio parere, l’interpretazione più corretta delle indicazioni fornite da Livio in due differenti passaggi: quando dà il contenuto del decreto del senato, che, a suo dire, invitava il console a populum rogaret quem dictatorem dici placeret, eumque quem populus iussisset diceret dictatorem (27,5,16); e quando riferisce la delibera della plebs, che scivit ut Q . Fulvius, qui tum ad Capuam erat, dictator diceretur (27,5,17). A giudicare da tali passi, il plebiscito cioè avrebbe indicato la persona da designare, ma la dictio sarebbe stata effettuata, come di norma, dal console. È possibile, come sostiene Ferrary, che il popolo si esprimesse su un nome dato (limitandosi a confermarlo o respingerlo) e che la delibera specificasse che la nomina spettava al console, escludendo altri magistrati (il che spiegherebbe perché, partendo Levino, si sia dovuti ricorrere a Marcello): LePoR, URL: http://www.cn-telma.fr/lepor/notice232/. 79 27,5,14-15; per Ferrary, la disputa potrebbe adombrare un disaccordo sul personaggio che avrebbe dovuto rivestire l’incarico (LePoR, URL: http://www.cn-telma. fr/lepor/notice232/). 80 Il decreto rivolgeva l’invito di rogare populum in primo luogo al console; se questi si fosse rifiutato, attribuiva il compito al pretore o, in ultima istanza, ai tribuni: 27,5,16. 81 27,5,17-19.
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Analoga ricchezza di dettagli connota anche altri contesti, pure contrassegnati da accesi dibattiti. Si tratta di tre note proposte, presentate da tribuni della plebe, pare su autonoma iniziativa, senza l’avallo esplicito del senato o addirittura contro la sua volontà: il plebiscito Claudio, la legge Metilia e la rogatio Publicia. Q uali dati risultano maggiormente approfonditi in tali frangenti? Nel caso della lex Claudia, menzionata, come si diceva, fuori del contesto cronologico di appartenenza 82, l’accenno è più rapido. L’autore – interessato a chiarire la figura del neoconsole Flaminio, il suo temperamento e le ragioni del suo dissidio con il senato – pone l’accento sulle ripercussioni suscitate dal provvedimento sul piano politico: la summa contentio che accompagna la sua approvazione, la divisione che scava all’interno dell’élite (tra Claudio e Flaminio da un lato, l’intero senato dall’altro) e le ricadute di immagine per il suasor legis, l’invidia acquisita presso la nobilitas e il favor guadagnato presso la plebs, capace di tradursi in un successo ai comizi consolari 83. Riguardo l’intervento di M. Metilio, che si colloca nel quadro delle polemiche sulla tattica temporeggiatrice imposta da Fabio 84, Livio riporta, brevemente e in forma di discorso indiretto, le argomentazioni del tribuno, senza ascriverle a una sede precipua 85, e la reazione di Fabio a tali discorsi 86. Delinea quindi il momento della convocazione dell’assemblea, il concilio della plebe, precisando che avvenne all’alba (luce orta, cum plebis concilium esset) 87, ma focalizza l’attenzione sui sentimenti che agitano gli astanti, divisi tra tacita invidia dictatoris favorque magistri equitum, e sul prevalere Vd. n. 15 con testo. 21,63,3-4 novam legem, quam Q . Claudius tribunus plebis adversus senatum atque uno patre adiuvante C. Flaminio tulerat (…). Res per summam contentionem acta invidiam apud nobilitatem suasori legi Flaminio, favorem apud plebem alterumque inde consulatum peperit. 84 L’antecedente più immediato che fa da sfondo alla presentazione della proposta è quello della vittoria di Gereonio, conseguita dal maestro della cavalleria M. Minucio Rufo durante l’assenza del dittatore (22,24,1-14). 85 22,25,3-11; sulla base dei passi 25,1 (de iis rebus persaepe et in senatu et in contione actum est) e 25,12 (commento finale sullo scarso credito di Fabio nelle contiones e in senato), che incorniciano il discorso di Metilio, è comunque ragionevole pensare che, per lo storiografo, gli argomenti fossero spesi tanto nella curia quanto di fronte al popolo. 86 22,25,12-16. 87 22,25,17. 82 83
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della corrente antifabia, che tuttavia non riesce a trovare chi se ne faccia apertamente e autorevolmente portavoce 88. In ultimo è fatto comparire il personaggio di Varrone, come colui che unus inventus est suasor legis 89. A questo punto però si inserisce una digressione biografica sul personaggio, sulle sue origini, le sue aspirazioni e la sua carriera 90: e l’emanazione del plebiscito che approva la proposta è data alla fine, quasi en passant e sempre in funzione della costruzione del ritratto varroniano, quale mezzo per acquisire una ‘solitaria’ gratia da parte di un homo novus che non avrebbe potuto aspirare altrimenti ai vertici delle magistrature 91. Un ulteriore richiamo al plebiscito si ritrova infine più avanti, all’interno di un discorso posto in bocca a Minucio. Salvato da Fabio in extremis, il magister equitum avrebbe riconosciuto la superiorità della tattica dittatoria e disconosciuto, lui per primo, il provvedimento che lo aveva innalzato nel ius, con le seguenti parole: plebei scitum, quo oneratus ‹sum› magis quam honoratus, primus antiquo abrogoque et … sub imperium auspiciumque tuum redeo 92… Nel rievocare la rogatio Publicia di nuovo Livio pone in primo piano il promotore dell’iniziativa, il tribuno C. Publicio Bibulo. Egli è definito sin dall’inizio inimicus di Marcello e la sua decisione di agere de imperio abrogando eius è prospettata come l’ultima tappa di una lunga serie di attacchi, perpetrati adsiduis contionibus e diretti a mettere in cattiva luce il comandante e a renderlo inviso alla plebe (infamem invisumque plebei) 93. Il modo di esprimersi e lo stesso termine agere indicano, mi pare, una fase ancora iniziale di elaborazione del progetto di legge 94: e nello stesso senso depone la successiva allusione ai necessarii di Marcello, che riescono ad ottenere, per il loro congiunto, la possibilità di rientrare a Roma e perorare la propria causa di persona 95. Solo successivamente lo storiografo passa a descrivere la seduta del
Ibid. 22,25,18. 90 22,25,19 – 26,4. 91 22,26,4 haud parum callide auram favoris popularis ex dictatoria invidia petit scitique plebis unus gratiam tulit. 92 22,30,4. Per i problemi giuridici posti dal brano vd. infra, § 6. 93 27,20,11. 94 Sulle complesse fasi di elaborazione di un progetto di legge, anteriori alla promulgazione vera e propria, vd. Ferrary 2012a, 5-12. 95 27,20,12. 88 89
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concilio, puntualizzando che esso si tiene in circo Flaminio e suscita viva partecipazione a tutti i livelli della scala sociale 96. Nella ricostruzione storiografica, comunque, l’andamento della seduta si risolve in un sintetico confronto diretto tra il rogator e l’‘accusato’: alle rimostranze del primo – che denuncia gli scarsi risultati ottenuti sin lì, attribuendoli alla strategia temporeggiatrice voluta dalla nobilitas e all’insipienza di Marcello, e adombra sospetti di fraus – il secondo risponde enumerando le res compiute 97. Alla fine si registra la vittoria di Marcello, il quale non solo ottiene il rigetto della proposta, ma consegue altresì l’elezione al consolato 98. Si evince chiaramente, dagli esempi esaminati, che Livio fornisce notizie più consistenti in rapporto a misure che concernono passaggi e personaggi cruciali dei fatti storici oggetto di narrazione. Il rimando al plebiscito Claudio in effetti serve ad illustrare i limiti di Flaminio e dunque le ragioni della prima vera débâcle subita ad opera di Annibale, quella al Trasimeno, di cui il console, nella tradizione cui attinge l’autore, è considerato responsabile. La legge Metilia si collega al tema della strategia da impiegare contro i Cartaginesi e alla contestata ma risolutiva adozione della cunctatio, altro turning point della vicenda bellica destinato ad avere grande eco nella memoria collettiva. Dal canto suo, la rogatio Publicia prosegue la riflessione (centrale nella deca) sulle artes imperatoriae e lo fa in relazione a un momento di snodo del conflitto e a uno dei suoi maggiori protagonisti. Si colloca infatti al crocevia tra le imprese di Scipione in Spagna 99 e il malaugurato consolato di Marcello e di Crispino, in cui i consoli troveranno entrambi la morte 100, lasciando per la prima volta orba la res publica, simultaneamente, dei suoi sommi magistrati 101. E, non a caso, fa seguito a un passaggio riepilogativo, in cui Livio traccia una sorta di bilancio della fortuna dei vari leader attivi in quel periodo: con la crescente fama di Scipione vittorioso, la tenuta di Fabio, espugnatore di Taranto astu magis quam virtute, il declino dell’astro di Fulvio, le difficoltà di Marcello, oggetto di adversus rumor 102. 27,21,1. 27,21,2-4. 98 27,21,4. 99 27,17,1 – 20,8, con la famosa vittoria di Baecula. 100 27,22 – 29, spec. 27. 101 27,33,6-7. 102 27,20,9-10. 96 97
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L’esposizione dei fatti notevolmente più ampia del consueto – il racconto della rogatio Metilia occupa ben due capitoli – serba informazioni preziose sul piano sostanziale e procedurale. Come si inferisce dalla descrizione che se n’è fatta, tuttavia, tali informazioni sono inserite all’interno di un resoconto dall’andamento discorsivo, sunteggiante, ricco di allusioni rapide e indirette, interrotto da digressioni, poco incline a rispettare un rigido ordine evenemenziale: sicché le argomentazioni addotte a favore o contro la proposta non risultano precisamente contestualizzate e sono riportate in forma sintetica, semplificata e mono-orientata; e la ricostruzione dell’iter legis, pur contenendo dettagli riguardo tempi, luoghi, affluenza o particolari come la prassi dei suasores, non ripercorre, se non a grandi linee, tutti i passaggi giuridici di un processo estremamente laborioso e complesso, di cui offre solo qualche squarcio. A essere maggiormente considerate sono piuttosto le dinamiche socio-politiche: la capacità delle proposte – viste come catalizzatori di favor e di invidia per i protagonisti – di suscitare o alienare i consensi all’interno della comunità, la morfologia delle forze in campo, le ulteriori conseguenze, soprattutto elettorali, del formarsi di tali schieramenti. Tali dinamiche del resto ben si attagliano alla prospettiva liviana, opera di uno storico e non di un giurista, che trascende il piano del diritto e guarda alla legge in un’ottica pragmatica e concreta, per l’uso politico che se ne fa e le ripercussioni psicologiche e sociali che ne derivano: quella raccontata dal Patavino è la legge calata nella realtà umana e collettiva dell’Urbe. Anche sotto questo profilo, in ogni modo, la rappresentazione resta schematica e improntata a modelli dicotomici standardizzati.
5. Incidenza e ‘paternità’ dello strumento legislativo: un ruolo circoscritto ed eterodiretto? Da questa maniera di presentare la legge in età annibalica quale immagine scaturisce? La menzione di vari provvedimenti dimostra come egli consideri l’attività deliberativa di comizi e concili, quanto meno quella relativa al ius publicum, un ganglio vitale della vita della città – se non un elemento distintivo dell’entità urbana 103 – e perciò un soggetto 103 Tant’è vero che la punizione esemplare inflitta a Capua, regina dei traditori, consiste nella soppressione delle sue istituzioni e dei suoi organi deliberativi, tra cui,
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privilegiato di una storiografia votata a ricostruire la storia cittadina. Da questo punto di vista, del resto, l’autore si iscrive nel solco di una lunga tradizione 104 e si allinea, sia pure in una dimensione pragmatica più che teorica, con le affermazioni programmatiche con cui aveva aperto il libro II 105. Al contempo, il dato quantitativo generale, ovvero il numero limitato di leggi attestate 106, e soprattutto il trattamento cursorio, a volte quasi sbrigativo, riservato a tali notizie 107 paiono configurare quello per populum come un segmento, agli occhi dell’autore, non univoco né prioritario nel circuito decisionale. In esso, per di più, a guardare ad alcune delle scelte espositive adottate, risulta a prima vista ridimensionato proprio l’apporto di quella componente assembleare che ne costituisce l’elemento distintivo rispetto ad altri atti deliberativi. L’approccio focalizzato sul ‘farsi della legge’ 108, più che sul risultato 109, porta infatti in primo piano le fasi della elaborazione della soluzione legislativa e del dibattito che vi è connesso 110: con la conseguenza di valorizzare il ruolo svolto da altri organi istituappunto, il concilium plebis (26,16,9): l’annientamento istituzionale della civitas è anche più significativo della distruzione materiale. 104 Sul rapporto tra legge e città, vd. Cic., leg. 2,5,12 e, in generale, Ducos 1984, 21-81 e passim. Sull’appartenenza del tema legislativo, quasi per statuto, al genere storiografico, basti il rimando ad Asellione (FRHist 20F1-2): per il quale leggi e rogationes (sia pur non da sole) sono strumento essenziale per chiarire i motivi delle azioni belliche e dunque elemento qualificante dell’historias scribere. 105 Sul brano, notissimo, di 2,1,1 – in cui gli imperia legum, insieme con le res gestae e gli annui magistratus, sono segno precipuo di un populus liber e argomento prioritario del peragere dello storiografo – non posso qui soffermarmi. Per particolari applicazioni del nesso lex/libertas nella deca in esame cf. comunque infra, n. 127 con testo. 106 Vd. § 1. 107 Specialmente gli scarsi ragguagli sul testo di legge e la ratio che vi presiede, ricavabile in senso lato solo dal contesto e non sempre: vd. §§ 3-4. 108 Vd. § 2. 109 A conferma di un maggior interesse verso il tema del coinvolgimento del popolo più che al risultato di tale coinvolgimento si noti l’infrequenza delle forme sostantivali lex e plebiscitum. Q uest’ultimo vocabolo compare a 25,7,5, ove si dice che i comitia tenutisi nel 212 per la creazione dei quinqueviri e dei triumviri sunt habita de senatus sententia plebique scitu; e di nuovo a 27,5,19, nel racconto della nomina del dittatore comitiorum causa nel 210, ma solo a conclusione di un lungo passaggio in cui l’accento è messo sulle disposizioni senatorie e sul ruolo dei tribuni e della plebe. Lex si ritrova a 21,63,3 (legge Claudia) e a 27,23,7 (legge Licinia sui ludi Apollinari), ma sempre in dipendenza da ferre e dunque in correlazione con la fase rogatoria. 110 Vd. § 4.
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zionali, i magistrati e, soprattutto, il senato. Rispetto a tali fasi, il passaggio normativo formale viene viceversa occasionalmente omesso, riassorbito nel senatoconsulto che lo raccomanda o nei fatti che ne conseguono 111. Va nello stesso senso il ricorso a una terminologia che per rievocare il varo di un provvedimento a volte isola e assolutizza la fase rogatoria, intesa come pars pro toto 112. A ciò si aggiunga che, con un’unica eccezione 113, la risposta del l’assemblea è sempre in linea con la proposta sottoposta al voto e/o con il decreto senatorio. A una prima lettura, insomma, la legge descritta dal Patavino appare come qualcosa che cala dall’alto, che viene decisa altrove e a cui si ricorre in maniera abbastanza limitata. Tale impressione si fa tuttavia più sfumata laddove si considerino più da vicino le logiche dell’esposizione liviana e l’insieme complessivo dei dati. Bisogna anzitutto fare attenzione a dare il giusto peso alle scelte formali del testo: esse rispondono in primo luogo a esigenze narrative e storiografiche e non necessariamente hanno a che fare con il valore rimesso alla legge. L’impiego di moduli ricorrenti sul piano terminologico, morfologico e sintattico, ad esempio, trova spiegazione in un contesto più ampio. Oltre che nei fatti legislativi, infatti, tale uniformità citazionale si rinviene anche in ordine ad altre tipologie di notizie (quali i dati relativi alle elezioni e ai sacerdozi, all’assegnazione di truppe e comandi, ai trionfi, ai prodigi e via dicendo); e trova rispondenza, da un punto di vista strutturale generale, nella adozione dell’impianto annalistico. Dietro di essa dunque è ragionevole cogliere un messaggio più profondo: una precisa visione della storia e della storiografia 114. Producendo un senso di ripetitività, in effetti, tale modalità espositiva serve a rendere manifesto il funzionamento regolare e inarrestabile dell’intero sistema politicoistituzionale, generazione dopo generazione: e traduce concretamente e ‘narrativamente’ quella concezione collettivistica e dia Vd. § 3. Vd. sempre § 3. 113 Q uella della rogatio Publicia de imperio abrogando Marcelli, che viene respinta (sul punto vd. infra). 114 Ritengo applicabili per analogia al discorso legislativo liviano le osservazioni che Phillips 2009 svolge in relazione alle notizie trionfali e Zorzetti 1971 in ordine all’impianto annalistico. 111 112
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cronica dello sviluppo della forma civitatis e della vicenda storica dell’Urbe che Cicerone attribuiva a Catone 115. Analogamente, la concisione del discorso legislativo, con le sue omissioni e semplificazioni, risponde anche e soprattutto alle prerogative di una storia che deve farsi leggere e possibilmente delectare il lettore. Lungi perciò dal denunciare irrilevanza e scarsa autonomia della delibera popolare, essa prova semmai, insieme con l’uso di un lessico specialistico, la notorietà del linguaggio e della prassi legislativa presso il pubblico cui si rivolge l’autore; e dunque una certa dimestichezza con l’esperienza normativa, parte integrante di un patrimonio collettivo e di un orizzonte quotidiano 116. A riprova dei diversi significati – non necessariamente squalificanti – che un tono apparentemente sbrigativo può assumere nella narrazione liviana, basti citare la menzione della legge con cui si vota la guerra a Cartagine 117. Il rimando è breve e viene dato in seconda istanza, quasi en passant, in un contesto tutto incentrato sulle direttive emanate dai patres. Dapprima infatti Livio mostra in azione il senato che, dopo un momento di sbandamento 118, ordina il sorteggio delle provinciae consolari e decreta il numero delle legioni, delle coorti ausiliarie e delle navi 119; solo poi allude al fatto che latum inde ad populum vellent iuberent populo Carthaginiensi bellum indici 120; infine passa alle iniziative religiose 121. Senza dubbio nel testo la consultazione del popolo è posta in secondo piano rispetto all’azione del senato, e l’impiego dell’avverbio inde marca il passo. Sembra trattarsi tuttavia di una posposizione temporale e pragmatica, più che concettuale e ideologica, che non implica necessariamente inferiorità. Le deliberazioni senatorie elencate per prime, di fronte a una guerra di quelle proporzioni, hanno logicamente la preminenza: anche l’ambito del sacro viene dopo e certo non se ne intende disconoscere l’importanza. Lo stesso procedere secco e rapido dell’esposizione mira semplicemente, a mio parere, Cato FRHist 5F131 apud Cic., rep. 2,1,2. A un’idea del genere perviene anche Romano 2012, basandosi sulla letteratura extragiuridica, e, per altra via e con altre istanze, Williamson 2005. 117 21,17,4. 118 21,16. 119 21,17,1-3. 120 21,17,4. 121 21,17,4. Segue, a 21,17,5-9, la divisione delle copiae tra i consoli e l’assegnazione di un contingente al pretore L. Manlio in Gallia. 115 116
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a trasmettere un’idea di concretezza, efficienza, fattività, atta a fare da contraltare alla paralisi segnalata poco sopra 122; e non ne sono esenti le stesse disposizioni dei patres. Un discorso simile vale per la legge che conferiva al dittatore la facoltà di montare a cavallo, ricordata in connessione con la nomina dittatoria di M. Giunio Pera, nel 216. Al riguardo, Livio si limita a dire che Pera, rebus divinis perfectis latoque, ut solet, ad populum ut equum escendere liceret, nella drammatica situazione postcannense avrebbe fatto ricorso ad ultimum … auxilium, l’arruolamento dei condannati alla prigione 123. Il rimando alla legge è senz’altro incidentale e preservato in quanto curiosità antiquaria 124. Alla luce del contesto in cui è inserito, mi chiedo tuttavia se lo storiografo non abbia voluto deliberatamente mantenerlo 125 per richiamare, con esso, il potere sovrano del popolo. Q uello del dittatore infatti è un imperium esorbitante (e per ciò stesso agli occhi di Livio inquietante 126), tanto più nel caso di Pera, costretto a iniziative senza precedenti, devianti dall’ordine costituito: sottolinearne la dimensione legalitaria, e dunque l’idea di popolo come fonte ultima di legittimità, in parallelo al tema dell’obsequium dovuto all’autorità religiosa (ravvisabile nell’espletamento degli obblighi sacrali), vale forse a normalizzare la magistratura straordinaria ponendola sotto controllo 127. L’accenno al popolo è dunque veloce, ma non irrilevante, rivestendosi semmai di un significato pregnante. 122 21,16. Sul blackout decisionale che caratterizza questi momenti nella trattazione di Livio e investe in primis il senato, vd. Cavaggioni 2018, spec. 338-339. 123 22,14,2-3. 124 Del significato della disposizione, verisimilmente un tabù religioso, e delle circostanze della sua introduzione sono state date dai moderni varie interpretazioni (una panoramica è ora in Urso 2005, 50-51 con n. 56). L’interdizione comunque ha lasciato traccia nella letteratura antica, visto che ne parla anche Plutarco in relazione alla nomina dittatoria di Fabio nel 217 (Fab. 4,1-2), avanzandone una duplice spiegazione; e ne fa cenno, ma in un senso un po’ diverso (come restrizione che vale solo domi), Cassio Dione nella versione di Zonar. 13-14. 125 L’accenno al voto popolare compare solo nella versione liviana. Plut., Fab. 4,1-2 fa riferimento (come detto, in relazione alla dittatura di Fabio e non di Giunio) a una richiesta di esenzione rivolta alla bulé: πρῶτον (…) ᾐτήσατο τὴν σύγκλητον ἵππῳ χρῆσθαι παρὰ τὰς στρατείας. È vero che poi allude al divieto in termini di πάλαιος νόμος, ma tale espressione per Ferrary 2003, 123-124 n. 70 non ha significato tecnico, valendo semplicemente ‘regola generale’. 126 Sulle riserve liviane nei confronti della dittatura – al di là dei motivi di apprezzamento – rimando a Cavaggioni 2017. 127 Il motivo della legge come fonte di garanzia ed eguaglianza, e dunque antidoto a un potere eccessivo e senza freni, è del resto classica: Ducos 1984. All’interno della
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Anche gli aspetti terminologici meritano un esame più approfondito. A ben vedere, pur ponendo in risalto, come visto, il ruolo di magistrati e senato, il lessico adoperato non annulla del tutto il riferimento al popolo. In primo luogo, se pure è vero che la fonte spesso allude al varo di una lex o di un plebiscitum concentrandosi solo sull’iniziativa magistratuale 128, non bisogna dimenticare che in un numero eguale di casi ricorda, insieme con essa, l’atto del popolo di sciscere o iubere 129, il quale, peraltro, in quattro circostanze è il solo ad essere menzionato, identificando tout court l’intero processo legislativo 130. La rappresentazione ‘compartecipata’, quindi, risulta, grosso modo, quantitativamente pari a quella che evidenzia la direzione dall’alto. La tendenza inoltre a impiegare le espressioni rogare populum o ferre ad populum da sole nella diatesi passiva, senza complemento d’agente espresso – tralasciando dunque il nome del magistrato rogante 131 –, fa in qualche misura assurgere in primo piano l’assemblea, unico soggetto istituzionale evocato. Parimenti, quando lo storiografo dà la preminenza, più che al passaggio normativo, al senatoconsulto che lo sollecita 132, le soluzioni lessicali e sintattiche adottate spesso valorizzano, direttamente o indirettamente, il ruolo del popolo, alludendo, attraverso i verbi velle e iubere, alla sua facoltà di esprimere la propria volontà e impartire ordini 133. Così, in merito alla creazione dei duumviri aedis dedicandae del 217, il senato, su richiesta di Fabio, decretò che il console designato, Ti. Gracco, appena entrato in carica ad populum ferret ut Q . Fabium duumvirum esse iuberent 134; nel 202 i consoli sono invitati ad agere con i tribuni ut, si iis videretur, terza deca lo ritroviamo ‘al negativo’ in rapporto alle figure di Annibale e di Flaminio, singoli che non si sottomettono all’aequum ius garantito dalle leggi e dai magistrati, dal diritto e dal costume (Annibale in 21,3,6; 30,37,9) e non rispettano la superiore maiestas di leggi, senato, mondo divino (Flaminio a 22,3,4). 128 Cf. § 3 nn. 42-46. 129 Cf. n. 37. 130 Cf. nn. 38-41. 131 Cf. nn. 42 e 44. 132 Sono le vicende citate a n. 48. 133 La valenza di tali vocaboli è, come noto, discussa; pare difficile tuttavia espropriarli totalmente di un significato pregnante, rendendoli equivalenti al semplice accipere: Ducos 1984, 110-131, praec. 125-128; cf. Hellegouarc’h 1972, 182. 134 23,30,14.
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populum rogarent quem vellet in Africa bellum gerere 135 e ancora, nel 201, cui iuberent in Hispania imperium esse 136. E iubere ricompare con placere nelle disposizioni senatorie per la nomina del dittatore preposto alla convocazione dei comizi nel 210: ita decrevit senatus ut consul priusquam ab urbe discederet populum rogaret quem dictatorem dici placeret, eumque quem populus iussisset diceret dictatorem 137. A tali considerazioni di ordine formale si aggiungono poi, su un piano sostanziale, espliciti riconoscimenti della rilevanza della ratifica assembleare. Negli episodi connessi alla celebrazione del ver sacrum e alle misure da adottare de Campanis, ad esempio, tale ratifica viene prospettata come imprescindibile fonte di legittimità: in entrambi infatti è asserita a chiare lettere l’impossibilità di decidere iniussu populi in quelle materie 138. E il principio è ribadito, in termini generali e astratti, in altri contesti e in relazione ad altri temi. È addotto dai Punici come principio cardine della prassi romana nella conclusione dei trattati nel corso dell’ambasceria a Cartagine che segna l’inizio della guerra 139. E nella seduta senatoria del 211, dopo la morte degli Scipioni in Spagna, è di nuovo chiamato in causa per criticare il titulus honoris di cui si era arrogato Marcio, definitosi propretore quando l’imperium gli era stato dato non populi iussu non ex auctoritate patrum 140. In altre circostanze, pur senza essere strettamente indispensabile, il coinvolgimento popolare si delinea nei fatti come unica via per uscire da una situazione di stallo e di conflitto: è solo rimettendo la questione all’assemblea ad esempio che si supera la disceptatio tra il senato e il console Levino nel 210 141; e, in fondo, anche 30,27,3. 30,41,4. 137 27,5,16. Placere da solo si ritrova invece nell’episodio dell’assegnazione del comando spagnolo nel 211: …in unum sententiae congruebant agendum cum tribunis plebis esse, primo quoque tempore ad plebem ferrent quem cum imperio mitti placeret in Hispaniam… (26,2,5). 138 22,10,1; 26,33,10. 139 21,18,10. 140 26,2,1. A questi passaggi si possono accostare quelli, più famosi, connessi all’edi lità di Scipione e alla persecuzione di Postumio Pirgense: in essi di nuovo si enfatizza la sovranità del popolo (spec. 25,2,6-7; 4,1-6), sia pure in ambiti diversi dall’ambito legislativo, ovvero in campo giudiziario ed elettorale. 141 27,5,14-17. 135 136
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il ricorso ai comizi per la problematica assegnazione del comando spagnolo nel 211 142 e della provincia africana a fine conflitto 143 – ancorché la fonte non lo dica espressamente – sembra iscriversi nel medesimo ordine di idee. Certo si tratta pur sempre di un popolo che agisce sotto la guida dei primores e riconosce loro una superiore capacità di discernimento: tant’è che nella stessa vicenda de Campanis rimette al senato quelle decisioni che pure sarebbero sua prerogativa esclusiva 144; e altrove mostra di ritenere che solo una legge garantita da un suasor autorevole possa essere sottoposta al voto 145. È tuttavia, tale popolo, un soggetto che sembra anche muoversi con un certo margine di autonomia. Se è vero infatti che, nella quasi totalità della casistica, comizi e concili avallano le direttive di senatori e magistrati, a volte si colgono delle discrasie. Nel dibattito sul plebiscito Claudio, ad esempio, la plebs appare portatrice di interessi propri (non coincidenti con quelli che Livio attribuisce, monoliticamente, al senatus) e, su istigazione del tribuno e del senatore Flaminio, li persegue votando una legge che non gode di consenso unanime 146. Nel caso della rogatio Publicia, viceversa, persuaso da Marcello e dall’elenco delle sue res gestae, il concilio respinge la proposta del tribuno demagogo 147. Tutto ciò avviene sempre su impulso e sotto la direzione di un esponente della classe dominante (Claudio e Flaminio da una parte, Marcello dall’altra); ma l’esito differente dei due procedimenti legislativi implica una certa indipendenza di giudizio, o quanto meno una non scontatezza del risultato, che ridimensiona l’immagine di un popolo nelle vesti di burattino eterodiretto. Ovviamente, gli indizi ora passati in rassegna non sono di per sé sufficienti a dipingere un Livio ‘filo-popolare’. Presi nel loro insieme, però, tratteggiano un quadro dei rapporti istituzionali, in materia di legislazione, molto più articolato di quanto non appaia a una prima lettura. Senza dubbio, in linea con una concezione gerarchica delle competenze, di matrice aristocratica, nella visione 26,2,5. 30,43,2-3. 144 26,33,10 – 34,1. 145 Emblematico in tal senso l’episodio della rogatio Metilia (22,25,17); sul motivo del suasor cf. comunque anche 21,63,3-4. 146 21,63,3-4. 147 27,21,4. 142 143
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del Patavino è l’élite a detenere le redini del procedimento 148, specie nella elaborazione del testo normativo, nella promozione dell’iter e nella conduzione del dibattito, sì da essere sovente il fulcro del racconto. Rispetto ad essa, l’assemblea ha certo un ruolo subordinato, solo ratificante, che tuttavia è non solo riconosciuto in linea di principio, ma anche, nei fatti, non del tutto irrilevante, facendosi anzi, in qualche caso, imprescindibile e/o dirimente, senza essere giocoforza acquiescente 149. D’altro canto, la scelta liviana di concentrarsi sul momento della produzione della legge agevola una rappresentazione interattiva e compartecipe del processo: quello legislativo, a Roma, è infatti un procedimento che de iure prevede il concorso di organi differenti, nell’ambito di un sistema che concepisce la res publica come un corpo unitario, l’imperium come un potere compatto e totalizzante, l’interdipendenza reciproca degli organi come un mezzo per limitare gli abusi 150. Ciò detto, preme peraltro rilevare che il Patavino, se pure riconosce una dialettica ineguale di ruoli e prerogative tra i soggetti che concorrono a creare la lex o il plebis scitum, non pare concepire e prospettare tale sbilanciamento – se non in circostanze sporadiche ed eccezionali 151 – in termini problematici e contrappositivi 152 né porsi la questione della natura e degli eventuali limiti della sovranità popolare, almeno nei termini in cui ce la poniamo noi. Nel racconto dei libri 21-30 il controllo dall’alto operato da senato e magistrati e il sostanziale allineamento nel voto dei cives non sono apertamente interpretati come segno di una inferiorità e di una mancanza di indipendenza e di potere di populus e plebs; o quanto meno non è questa dimensione a essere sottolineata, quanto piuttosto l’elemento della concordia e di una ‘sana’ unità di intenti tra tutte le componenti dell’Urbe. 148 Sulla dicotomia gerarchizzata che regola le relazioni all’interno della città tra ceti dirigenti e sottoposti, dipendente da un modello organicistico nel quale si avvertono gli echi della filosofia platonica e stoica, della mentalità patronale e clientelare romana, di un clima contemporaneo sensibile a un’esigenza di ordine, anche diretto dall’alto, vd. per tutti Mineo 2014. 149 In tal caso agendo sia in bonam sia in malam partem, come vedremo al § 7. 150 Pani 2010, 53 e passim. 151 Vd. § 4. 152 Illuminante, sotto questo profilo, come osserva Ferrary 2012a, 19, il confronto con i frammenti delle orazioni catoniane, che rivelano, per il periodo immediatamente successivo, un quadro molto più dibattuto di quanto non affiori da Livio.
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6. Ambiti di applicazione e portata della legge Ma la legge così realizzata quale applicazione concreta trova? Come ha messo in evidenza l’elenco fornito al § 1, nel racconto della terza deca l’attività normativa si esplica in una pluralità di ambiti: non solo in quelli considerati tradizionalmente di pertinenza del popolo (ovvero quelli relativi alla guerra, alla pace, alla concessione o revoca della civitas) 153, a volte, peraltro, bisognosi di essere ribaditi 154; ma anche in settori altri, che non costituiscono sempre e necessariamente riserva di legge. Con l’eccezione del l’episodio del ver sacrum – in cui è fatto riferimento a un parere specialistico 155 – tali interventi sono rievocati senza spiegazioni o giustificazioni: segno che, nella visione della fonte, rimettere la decisione all’assemblea al di fuori delle materie codificate, ove se ne ravvisi l’opportunità, non solleva obiezioni e, anzi, costituisce prassi normale. Tale diritto, a giudicare dalla casistica offerta, opera soprattutto in rapporto a questioni di potere e di leadership: almeno i due terzi delle misure ricordate attengono infatti, in vario modo e con diversa portata, all’argomento, riguardino le condizioni di accesso alle cariche o all’ordine istituzionalmente votato alla politica, o l’attribuzione (ma anche la revoca) del potere di comando, di cariche straordinarie o di speciali compiti 156. Erano i cives del resto a selezionare la classe dirigente eleggendo i magistrati; e, a ben vedere, alcuni dei provvedimenti attestati nei nostri libri sconfinano in qualche modo nell’ambito elettorale 157. Le leggi che istituivano speciali commissioni – i triumviri mensarii nel 217, i duumviri aedis dedicandae causa nel 215, i quinqueviri preposti al restauro delle fortificazioni urbane e i triumviri bini incaricati della conquisitio ingenuorum, della ricostruzione dei templi incendiati e di altre misure nel 212 158 – indicavano forse, almeno in qualche caso, anche il nominativo di chi doveva rivestire 153 Vd. in tal senso Polyb. 6,14, con le osservazioni di Mantovani 1999, 229-233, 264-265; particolarmente utili anche le annotazioni di Laffi 2012, 453-455. 154 Cf. 26,33,10-11. 155 22,10,1. 156 Le ricerche condotte dalla Williamson, per questo e per altri periodi, confermano tale percentuale: Wiliamson 2005, 9-16, 23-30, 36-46. 157 Così Ducos 1984, 155-156 con n. 13. Di plebisciti «de caractère législative» provvisti al contempo di «une fonction élective» parla Ferrary 2003, 133. 158 23,21,6; 30,14; 25,5,8-9; 7,5-6.
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l’incarico 159. E nello stesso senso sembrano muoversi il provvedimento relativo alla nomina del dittatore nel 210 160 e taluni di quelli concernenti l’invio a un fronte di comandanti provvisti di imperium. Mi chiedo perciò se possa non essere casuale che, proprio in tali frangenti, Livio adotti, per indicare il passaggio normativo, una formulazione vaga 161 e se tale modalità espositiva, più che frutto di incomprensione, non rifletta un’effettiva e consapevole difficoltà di catalogazione 162. Nel quadro tracciato negli AUC, comunque, a tale ampiezza di applicazione di leggi e plebisciti corrispondono anche limiti precisi, che divengono palesi quando si esaminino le circostanze in cui si ricorre alla delibera assembleare e le finalità che vi sono rimesse. La casistica offerta rivela infatti come il procedimento legislativo nasca per lo più in risposta a una situazione contingente e specifica, che affiora (o è fatta affiorare) più o meno all’improvviso, non di rado rivestendosi dei connotati dell’emergenza. Si tratti dell’evolversi dei rapporti internazionali, dell’emergere di particolari necessità in campo amministrativo, religioso, militare, politico o di questioni riguardanti i cives 163, all’origine di una lex o di un plebis scitum, nel periodo considerato, è di solito una crisi o un inceppamento del sistema, l’individuazione di una inefficienza o di una inadeguatezza 164 o l’insorgere di uno stallo nel funzionamento degli assetti, susseguente a un conflitto 165. A tale crisi la soluzione legislativa – che talora, come nella nomina del dittatore comitiorum habendorum causa nel 210, assume 159 Ferrary 2003, 131-136 lo ipotizza a proposito dei triumviri mensarii e dei duumviri aed. ded., mentre tende a escluderlo per le commissioni del 212 (nelle quali i comizi elettorali sembrerebbero disgiunti dalla votazione della legge istitutiva). 160 27,5,14-19, discusso a n. 78. 161 Lo sottolinea anche Ducos 1984, 155, inferendone a sua volta che «la notion de lex publica n’est pas toujours facile à saisir dans ces cas particuliers». 162 Ferrary 2003, 133 e 136 parla invece di «inexactitude» e «imprécision du récit livien». 163 Vd. la lista riportata al § 1. 164 Si considerino in tal senso la legge sui requisiti di rieleggibilità o i conferimenti di imperium (27,6,7; 26,2,5-6; 29,13,7; 27,3-4; 40,10; 41,4), diretti a porre rimedio ai problemi di selezione e gestione del comando; o le rogationes di Metilio e Publicio (22,25 – 26; 27,20,11 – 21,4), determinate, insieme con altri motivi, da insoddisfazioni strategico-militari; o ancora la nomina di speciali commissioni per compiti peculiari, non esperibili dalle strutture ordinarie (23,21,6-7; 25,5,8-9; 7,5-6; 27,11,8). 165 Paradigmatiche da questo punto di vista sono la legge Lucrezia, conseguente allo scontro tra senatori e console Levino, e la legge Acilia Minucia, connessa alle polemiche suscitate da Lentulo (27,5,14-19; 30,43,2-3).
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i caratteri dell’extrema ratio 166 – fornisce una risposta non meno circoscritta e puntuale. Pur nelle loro diverse declinazioni, i provvedimenti varati tendono infatti non tanto a sancire principi generali quanto a rispondere a quella data questione pratica 167; spesso dunque, più che prescrivere ‘norme di comportamento generali, cioè rivolte a una pluralità aperta di soggetti, e astratte, cioè applicabili a una pluralità indeterminata di casi’, organizzano e disciplinano un evento specifico e riguardano un gruppo circoscritto, se non addirittura un singolo individuo 168. Legata com’è a una contingenza, inoltre, questo tipo di legge secondo Livio può anche avere durata temporanea: così ad esempio la norma riguardante la rieleggibilità dei consolari, votata nel 217, è destinata a durare quoad bellum in Italia esset 169. Ciò non significa, ovviamente, che lo storiografo non ammetta l’esistenza di leggi di portata più generale, capaci di valere nel tempo mantenendo autorevolezza e forza prescrittiva. È il caso delle leges (a noi in parte sfuggenti 170) che interdicevano l’accesso delle cariche plebee ai figli di magistrati curuli viventi. Nella narrazione liviana esse serbano intatto il loro potere vincolante a distanza di secoli. Essere sanctum legibus (quanto meno per questa categoria di provvedimenti) costituisce un punto che non può essere disatteso e cui si può derogare solo ove non vi sia colpa volontaria e con l’avallo popolare: nel 203 pertanto si rende necessaria la ratifica di una speciale amnistia, per la violazione commessa dal console C. Servilio Gemino 171.
166 Come detto, infatti, in tale circostanza si rimette la questione al popolo solo dopo che le vie tradizionali sono abortite: 27,5,14-16. 167 Su tale portata circoscritta della legge si veda, per tutti, Ducos 1984, 28-39, spec. 31-39. Per l’esistenza e la definizione di leggi a contenuto provvedimentale o atti di governo adottati nella forma di provvedimento amministrativo, Laffi 2012, 461 (da cui è tratta la citazione nelle righe successive del testo). 168 Particolarmente illuminante il casus della legge concedente un’amnistia a C. Servilio Gemino: 30,19,9. 169 27,6,7. 170 Cronologia, contenuto e finalità di tali norme restano per molti versi oscuri. Un quadro delle ipotesi avanzate dai moderni è dato da Ferrary (LePoR, URL: http:// www.cn-telma.fr/lepor/notice351/): lo studioso ritiene che Livio faccia riferimento a una serie di provvedimenti, collocabili tra il 364 e il 209, il primo dei quali sarebbe stato promulgato dopo il varo delle leggi Licinie Sestie, per preservare la forza delle magistrature plebee nel momento in cui esponenti dell’ordine accedevano alle cariche patrizie ed entravano a far parte della nobilitas. 171 30,19,9.
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Leggi di portata più circoscritta valgono invece come precedenti su cui modellare la condotta in rapporto ad analoghe questioni giuridiche e istituzionali 172. Così la legge Antistia, promossa dai maiores al tempo della defezione di Satrico, presumibilmente nel 319 173, nel 210 induce a rimettere al senato, mediante voto popolare, il ius di decidere de Campanis, rei di una colpa analoga. In un’altra occasione però l’exemplum non ha la medesima incisività. Nel corso dei comizi consolari di quello stesso anno, presieduti dal dittatore Q . Fulvio Flacco, il richiamo al plebiscito del 217 de lege solvendis consularibus, fatto dallo stesso Flacco per legittimare il voto della centuria Galeria che lo designava console 174, non pare dirimente. Di fronte a un precedente legislativo recente, privo dell’avallo dei maiores e rilevante solo una parte del problema sollevato, i tribuni continuano a giudicare improprio magistratum continuari e inammissibile la creatio di un presidente. Solo il ricorso a un organo terzo, il senato, consente di uscire dall’impasse 175. Livio infine non tralascia di ricordare, sia pure in modo indiretto, la possibilità che un provvedimento, regolarmente votato, venga successivamente abrogato. Lo fa in relazione alla legge Metilia, che, promulgata per ovviare alla presunta inadeguatezza della strategia fabia, si dimostra nei fatti inutile e dannosa. Nella versione degli Ab urbe condita, in realtà, il passaggio abrogativo non è esplicitamente annotato. Secondo quanto già osservato, la fonte si limita a riportare le parole del maestro della cavalleria, il quale, battuto, rinuncia spontaneamente alla equiparazione del comando e si sottomette al dittatore dicendo: plebei scitum, quo oneratus ‹sum› magis quam honoratus, primus antiquo abrogoque et … sub imperium auspiciumque tuum redeo 176… Logicamente, il magister equitum non ha facoltà, da solo, di cassare il precedente voto popolare 177 e l’affermazione, inclusa all’interno di un discorso retoricamente rielaborato, non va intesa alla lettera: è solo un’assunzione Sul valore di exemplum nel senso di precedente vd. Chaplin 2000, 137-140. Per la datazione vd. n. 16. 174 27,6,2-8. 175 27,6,9-11. 176 22,30,4. 177 Ha invece facoltà di sottomettersi all’imperium del collega, come giustamente rileva Vervaet 2007, 210-211 (con esempi). Il dato compare anche nelle versioni di Val. Max. 5,2,4; Plut., Fab. 13; Dion. Cass. 14,19-20. 172 173
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di responsabilità e un pubblico ravvedimento da parte del diretto interessato, che, motore della vicenda, per primus rinnega il provvedimento che lo ha indebitamente innalzato a un honos eccessivo. Mi pare tuttavia implicito (e significativo) il rinvio alla necessità di revocare la legge Metilia, probabilmente attraverso un nuovo voto popolare, suggerito qui dall’impiego del termine tecnico antiquo e ribadito da altre fonti 178. Pare di dedurre, da questa serie di testimonianze, una qualche attenzione, nell’autore, al problema dell’efficacia e della persistenza nel tempo dello strumento legislativo. Certo manca, nella sezione dedicata al conflitto annibalico, una trattazione articolata, di cui si ha traccia invece in altre parti degli Ab urbe condita: basti pensare ai notissimi passi dei libri 9 e 34 connessi, rispettivamente, alle polemiche sulla censura di Ap. Claudio e alla proposta di abrogazione della legge Oppia 179. In forma più episodica e meno approfondita affiora in ogni caso anche qui una consapevolezza del peso delle circostanze e della loro evoluzione, nonché della loro capacità di incidere a vario titolo sul potere vincolante della norma sancita dal popolo. Considerata da alcuni studiosi un tratto rilevante della rappresentazione liviana della lex 180, tale sensibilità non poteva del resto non contraddistinguere l’opera di uno storico, opera per sua natura costruita attorno al concetto di tempo.
7. Efficacia, utilità e rischi della legge Provvisto di tali caratteri, l’atto legislativo è visto da Livio sotto una luce prevalentemente positiva. Benché manchino, nella terza deca, giudizi apertamente elogiativi sui provvedimenti varati, essi risultano in genere motivati ed efficaci. Lo si inferisce dal contesto in cui sono inseriti o, più esplicitamente, dal modo in cui lo storiografo li presenta, nei pochi 178 In Zonar. 8,26 si legge infatti che Minucio τὴν ἀρχὴν παραδέδωκεν, οὐδ᾽ἀνέμεινε τὸν δῆμον ἀναψηφίσασθαι, ἀλλ᾽ἐθελοντῆς τὴν ἡγεμονίαν (…) ἀφῆκε (commento in Vervaet 2007, 217-218). 179 9,33,3 – 34,26, spec. 33,8-9 e 34,6-11; 34,1,1 – 8,3 (in particolare 6,4-5, con la distinzione tra leggi perpetuae utilitatis causa in aeternum latae – che non debbono essere abrogate a meno che non lo richieda l’usus o un qualche status rei publicae le renda inutili – e leggi cosiddette mortales e temporibus ipsis mutabiles). 180 Lo mette ben in evidenza Ducos 1984, 467-468; vd. anche, tra gli altri, Chaplin 2000, 127-128, 160-161.
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frangenti in cui indulge a qualche considerazione sulle ragioni del l’intervento. Così la rogatio di Minucio che istituisce i triumviri mensarii nel 217 e lo fa, a sentire lo storiografo, propter penuriam argenti sembra andare incontro a un problema oggettivo 181; il conferimento dell’imperium proconsolare a Marcello dopo Canne, quod post Clannensem cladem unus Romanorum imperatorum in Italia prospere rem gessisset 182, suona come un riconoscimento dovuto; la concessione della cittadinanza romana agli equites Campani, quod quorum hominum essent scire se ipsi negabant vetere patria relicta, in eam in quam redierant nondum adsciti, viene a sanare un corto circuito giuridico 183; l’avvio di trattative di pace con la Macedonia deliberata da omnes tribus, quia verso in Africam bello omnibus aliis in praesentia levari bellis volebant, prende atto di una convenienza strategica 184. La descrizione liviana, tuttavia, non cela neppure i risvolti pericolosi, meno meritori o più controversi del ricorso al voto assembleare. Lo fa in tre occasioni: in rapporto al plebiscito Claudio, alla rogatio Metilia e alla rogatio Publicia 185. Che cosa rende queste misure discutibili? Non è, necessariamente, una questione di contenuto. Se la proposta di Metilio è in effetti un’iniziativa in sé sbagliata e dannosa per la civitas – e non a caso sarà foriera di funeste conseguenze e, appunto, abrogata 186 –, non lo è altrettanto il plebiscito Claudio. O, quanto meno, il commento liviano che lo accompagna – quaes tus omnis patribus indecorus visus –, alla luce della nota polemica contro avaritia e ricchezza, non suona come una condanna 187. Più che dal contenuto, i rischi, secondo Livio, promanano dal l’uso che si fa dello strumento legislativo. Tutti questi provvedimenti, giusti o sbagliati che siano, sono infatti concepiti e/o impiegati in malam partem, ovvero, nella visione del Patavino, concepiti e/o impiegati non in vista del bene collettivo, bensì per un obiettivo personale e strumentale: per colpire un avversario e 23,21,6. 23,30,19. 183 23,31,10-11. 184 29,12,15-16. 185 Rispettivamente 21,63,3-6; 22,25 – 26, spec. 25,10; 25,16 – 26,7; 27,20,11 – 21,4. 186 22,27-28; 30,4. 187 21,63,4; per la polemica contro la ricchezza vd. e.g. praef. 11-12. 181 182
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al contempo trarne vantaggio per sé o per la propria pars. La legge Claudia – che pure definisce e salvaguarda principi etici e valori importanti 188 – viene brandita da C. Flaminio in funzione antisenatoria e sfruttata come trampolino per guadagnarsi quel favore popolare che lo fa ascendere al secondo consolato. La legge Metilia dà fiato alla miope insofferenza verso una strategia di guerra onerosa, che accomuna ceti elevati e ceti inferiori, alle ambizioni del maestro della cavalleria Minucio, alle mire di Varrone. La proposta di Publicio è uno scontro tutto interno al ceto dirigente, tra sostenitori e inimici di Marcello, la cui stella, a detta di Livio, comincia allora ad offuscarsi e diviene oggetto di una campagna denigratoria fatta di adversus rumor. Gli interessi e gli obiettivi variano, così come varia la morfologia delle forze che li perseguono, ma l’orientamento di fondo è il medesimo: la propensione, da parte di tribuni demagoghi 189, in un clima difficile, a far leva, attraverso un sapiente uso della retorica 190 e l’individuazione di un bersaglio polemico in funzione di capro espiatorio, sull’emotività dell’opinione pubblica (soprattutto, ma non solo, dei ceti inferiori) e sugli interessi di parte. E medesime sono le conseguenze: le proposte provocano accese discussioni e scissioni pericolose all’interno del corpo civico, che finiscono anche per alterare il funzionamento del sistema (influendo ora sui risultati elettorali 191, ora sull’andamento della campagna militare, ora sulla struttura dei poteri 192, e via dicendo). L’amplificazione che tali episodi ricevono all’interno del testo – ove, come visto, sono al centro di trattazioni che travalicano il consueto schema più sintetico 193 – attesta l’interesse di Livio per questo genere di problematiche. Vd. n. prec. Il testo liviano non implica peraltro un’equazione leggi tribunizie = leggi dannose: a queste tre iniziative oggetto di critica si contrappongono infatti una quindicina di interventi tribunizi giudicati positivamente (23,21,6; 25,4,9; 5,8; 26,2,5-6; 3,12; 21,5; 33,10 e 12; 27,5,7; 5,17; 6,7; 11,8 (non espressamente indicati); 30,27,3; 41,4; 43,2). 190 Tanto nel caso della legge Metilia quanto per quella avanzata da Publicio lo storiografo riporta, in forma indiretta, il contenuto dei discorsi dei promotori (22,25,3-11; 27,20,11; 21,2-3). 191 Vd. l’elezione di Flaminio e di Varrone (21,63,4; 22,26,4), ma anche, in senso positivo, quella di Marcello (27,21,4). 192 Mi riferisco, ovviamente, in entrambi i casi alla lex Metilia (22,25,1 – 30,9). 193 Cf. §§ 3-4. 188 189
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Ciò detto, va sottolineato che nel racconto del secondo conflitto romano-punico prevale comunque una rappresentazione di segno diverso. Per l’autore degli AUC la legge in questo periodo non è, in linea di massima, fonte di divisioni né di eccessivo dibattito 194; e, per quanto magari parziale nel contenuto, non appare animata da scopi faziosi. Anzi, sembra essere piuttosto espressione di una unità di intenti tra le componenti (istituzionali e sociali) della civitas; o addirittura – a inferire da alcuni esempi – strumento per creare, attorno a temi critici e in momenti drammatici, la più ampia condivisione possibile 195 o, come negli episodi della legge Lucrezia e della Acilia Minucia sopra citati 196, via per superare eventuali conflitti. Un mezzo per creare consenso che, nella visione liviana, sembra funzionare, dal momento che, in più di un’occasione, l’esito della consultazione è il voto unanime di omnes tribus 197.
8. Fondamenti e tratti distintivi della Darstellung liviana Q uesto modo di delineare l’attività legislativa nei libri 21-30 degli Ab urbe condita è il frutto della riflessione di uno storiografo, che deve fare i conti con il materiale documentario di cui dispone, con la realtà degli assetti esistenti, con la natura e le finalità della propria opera: e perciò guarda alla legge in modo particolare e parziale, privilegiando la norma-evento nella sua concretezza, inserita nella trama dei fatti storici e politico-sociali, mettendone in luce certi aspetti e tralasciandone altri. A risultarne è comunque una riflessione aperta a varie istanze.
Cf. §§ 3 e 4. In tal senso, ancorché Livio non lo affermi esplicitamente, sembrano interpretabili le iniziative religiose della primavera sacra e dei ludi Apollinari o la decisione di rimettere al popolo la scelta dei comandanti da inviare sul fronte spagnolo: 22,10,1-6; 27,23,7. 196 27,5,14-19; 30,43,2-3. 197 Così avviene nella approvazione della pace con la Macedonia (29,12,16), per il conferimento del comando spagnolo a Lentulo e Acidino (29,13,7) e di quello africano a Scipione (30,27,4 e 40,10) e per la conclusione della pace con Cartagine (e la definizione del ruolo di Scipione, 30,43,3). Nel rigetto della rogatio Pulicia l’unanimità del corpo votante non è esplicitamente indicata, ma è indirettamente confermata dagli eventi successivi, l’elezione di Marcello a console ingenti consensu da parte delle centuriae omnes (27,21,4). 194 195
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I temi e le prospettive toccati risentono naturalmente di quella consolidata tradizione di pensiero che, sulla linea tracciata da filosofi e pensatori greci, è venuta affinandosi nel corso del I secolo 198 e ha trovato negli scritti ciceroniani la sua più matura espressione. Tradizionali e ciceroniane sono ad esempio la definizione della legge come elemento qualificante l’entità-città; il processo legislativo come interazione tra più soggetti istituzionali e il ruolo subordinato del popolo; l’idea di un modello di lex fondato sulla ragione e sul consenso, piuttosto che sulla forza, contro le teorie utilitaristiche, che riducevano invece il diritto a un gioco tra forze antagonistiche e ne facevano unicamente un mezzo di repressione; il nesso inscindibile con il concetto di concordia 199. Pur inserendosi in un solco tracciato, tuttavia, la Darstellung liviana – attentamente costruita attraverso deliberate scelte formali – si distingue, mi pare, con un suo profilo precipuo. Tre al riguardo mi sembrano gli elementi maggiormente degni di nota. Il primo è senza dubbio il modo in cui viene ripresa e trattata la connessione con il motivo della concordia. Prospettiva non nuova 200, come si diceva: nella terza deca però essa viene portata avanti in modo costante, percorrendo come un filo rosso l’intera narrazione, nonché declinata in termini differenti e approfondita sotto vari punti di vista. Manca invero il riferimento a una costruzione collettanea della norma – che fa invece capolino nel III libro, nella rievocazione idealizzata della emanazione delle XII Tavole 201 – e solo accennato è il rimando alla lex come fattore unificante di un popolo al pari della lingua 202. L’attribuzione alla legge della funzione di unire la comunità contrassegna però, come visto, tanto Un quadro sintetico è in Ducos 1998, 113-127. Su tali affinità tra la visione ciceroniana e liviana vd., per tutti, Ducos 1984, 465-467. La bibliografia specifica sulle idee dell’Arpinate intorno al ruolo del popolo e della legge – variamente declinate a seconda dei momenti e dei contesti – è cospicua; mi limito a rinviare ad alcuni contributi a vario titolo significativi per la nostra ricerca, tra i tanti meritevoli di menzione: Ferrary 1995, Grilli 2005, Asmis 2005, Buongiorno 2012, Vasaly 2015, 132-135. 200 In merito agli sviluppi del tema – antico e ampiamente discusso nel pensiero greco, dai pitagorici a Platone agli stoici, ma fondamentale a partire dalla tarda repubblica, quando diviene uno dei nodi maggiori della riflessione politica – vd. ancora Ducos 1984, 153-209, spec. 194-202. 201 3,34,4-5, con il commento di Ducos 1984, 99-100. 202 Lo si ritrova in 28,12,3, nel ritratto dei soldati che compongono l’eterogeneo esercito cartaginese, i quali, a detta dello storiografo, non hanno né lex né mos né lingua communis. 198 199
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il piano procedurale, nella forma della compartecipazione tra gli organi 203, quanto il piano sostanziale, con la critica ai casi in cui lo strumento legislativo si fa divisivo 204 e l’esaltazione dell’unanimità 205. Ne promana un quadro coerente e sfaccettato, non privo di accenti originali, o, quanto meno, di accentuazioni atte a conferirgli una coloritura specifica. Mi sembra peraltro – ed è il secondo elemento da sottolineare – che tale impostazione, nel caso dei libri 21-30, comporti, alla resa dei conti, una qualche apertura verso la componente assembleare 206, il cui diritto a esprimersi è riconosciuto in via teorica e apprezzato nei fatti. Sia pure sotto la guida dei ceti dirigenti, il popolo-legislatore liviano è, come rilevato, un soggetto che agisce quasi sempre correttamente ed efficacemente. Nei rari casi in cui cade vittima di politici demagoghi (Claudio e Flaminio, Metilio e Varrone), le critiche non risparmiano magistrati e senatori, tutt’altro che esenti da colpe; e anzi, proprio gli scontri interni all’élite aprono talora un varco all’azione dei ceti che non ne fanno parte. Beninteso, tali interventi hanno precisi limiti quantitativi e qualitativi, a chiarire i quali può forse sovvenire – se il paragone non è azzardato – il confronto con l’azione ascritta da Livio alle donne. Soggetti tendenzialmente passivi e subordinati, anche le mulieres sono capaci, in qualche circostanza, di farsi protagoniste degli eventi, di agire in modo costruttivo e di contribuire in modo essenziale alla risoluzione di un conflitto, spesso operando come agenti di riconciliazione 207: la loro ingerenza tuttavia resta confinata a uno stadio liminale e transitorio 208, non comporta l’abdicazione dei valori tra Cf. § 5. Cf. § 4. 205 L’accordo e l’unanimità, come detto, rilevano sia sul piano della dialettica tra le componenti istituzionali, con la sostanziale omogeneità tra direttive del senato, contenuto della rogatio e voto dell’assemblea; sia all’interno del corpo votante, che si esprime più volte all’unisono: cf. § 7. Si noti qui per inciso che negoziazione e ricerca di un accordo caratterizzano non solo i rapporti tra élite dirigente e ceti sottoposti, ma anche quelli interni al ceto dominante: così, ad esempio, avviene persino in un contesto conflittuale come quello della rogatio Publicia, nel corso del quale, a sentir Livio, si produce, tra inimici e necessarii di Marcello, una sorta di contrattazione sui tempi in cui discutere la proposta (27,20,12). 206 Pace Ducos 1984, 467. 207 Mustakallio 1998; Claassen 1998; e soprattutto Milnor 2009. Con riferimento specifico alla rappresentazione liviana del ratto delle Sabine vd. anche Miles 1995 e Brown 1995. 208 È soprattutto Miles 1995, 179-195 a riconoscere, nella rappresentazione liviana del ratto delle Sabine, gli elementi propri dei riti di passaggio, in cui i protago203 204
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dizionali e mira al ripristino della ‘normalità’ 209. Mutatis mutandis, in modo simile ancorché non identico, il ruolo attivo e autonomo del popolo rimane sporadico ed eccezionale: ma c’è e tanto basta, credo, se non a revocare in dubbio l’immagine filo-aristocratica dello storiografo patavino, a renderla meno monolitica, restituendole profondità e complessità. D’altro canto, la necessità di una cooperazione tra le parti, su cui Livio tanto insiste, non può che implicare un qualche riconoscimento effettivo, reale, per quanto limitato, dei diritti e delle ragioni della componente subordinata, tenuta all’obbedienza ma degna comunque di qualche considerazione. Come giustamente rileva Brown (sia pure in altro contesto), la concordia – inammissibile tra soggetti agli antipodi come padroni e schiavi – si instaura tra persone poste su piani non troppo distanti e differenti 210. Naturalmente questo tipo di rappresentazione attiene a un determinato tipo di popolo e a un determinato periodo storico: attiene cioè al popolo-istituzione (non al popolo-persona o al popolo-massa 211) al tempo della guerra annibalica. Il popolo-legislatore della prima deca, ad esempio, è ritratto in modo in parte differente. Ivi, in un confronto tra gli ordini che consta di una successione di crisi e turbolenze 212, la legislazione si fa di frequente (benché non sempre) strumento di lotta, sfruttata a beneficio di un gruppo e contro l’avversario, e fonte di divisione e dissenso, a tutto vantaggio dei nemici 213. Emblematiche in tal senso sono le leggi agrarie promosse da tribuni, mai sine maximis motibus rerum agitata 214, foriere di discordia non solo tra patrizi e nisti passano da una condizione iniziale di separazione a una finale di integrazione, passando attraverso una fase liminale di transizione; è in questa specifica fase che si esplica l’azione muliebre. 209 L’atteggiamento dell’autore verso un ruolo attivo delle donne – che negli AUC raggiunge il massimo grado di espansione possibile (Miles 1995 e Brown 1995) – è variamente interpretato dai moderni, in maniera ora più ora meno problematica e sofferta (vd. bibliografia alla n. 207). 210 Brown 1995, 313-314. 211 Il quale viceversa spesso agisce in maniera incontrollata e irrazionale: vd., in reazione ai fallimenti militari, Cavaggioni 2013 e, in un’ottica generale, Mineo 2006 e 2014. 212 Si esprime in tali termini Vasaly 2015, 135-136. 213 Vd. e.g. 2,44,7-12. Ovviamente la trattazione che Livio ivi riserva al tema legi slativo è articolata e tocca vari aspetti: per una disamina complessiva delle misure riportate dalla fonte in questi libri cf. Lanfranchi 2012. 214 2,41,3.
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plebei 215, ma anche tra i patres stessi (quando un console se ne fa portavoce) e persino all’interno del collegio tribunizio 216. I patrizi comunque non sono da meno e varano pur’essi norme finalizzate a dirimere la città, come il divieto di conubium 217, o impiegano quelle esistenti come mezzo di repressione ai danni dei plebei 218. Il racconto del bellum maxime omnium memorabile doveva invece costituire lo sfondo più appropriato per una raffigurazione meno problematica e più misurata dell’attività di comizi e concili. A partire almeno dal II secolo, in parte anche su sollecitazione dei cambiamenti apportati dalla conquista di un impero mondiale, il secondo conflitto romano-cartaginese era venuto infatti configurandosi nella tradizione storiografica – peraltro non senza un fondo di verità – come un momento paradigmatico del dispiegarsi delle virtù romane e della capacità, tra le altre cose, di arginare le spinte centrifughe e ritrovare un’unità nazionale intorno a principi e valori condivisi 219. La versione degli Ab urbe condita – una versione monumentale, destinata a divenire punto di riferimento per gli autori seriori 220 – aderisce in toto a tale caratterizzazione 221, tra l’altro ribadendola anche a livello strutturale. Se ha ragione infatti Bernard Mineo 222, e l’architettura dell’opera liviana si fonda su due cicli temporali
215 I quali vi fanno ricorso non solo per curare gli interessi del proprio gruppo, ma anche per trarre in trappola l’avversario. Così ad esempio il tribuno A. Virginio, tratto K. Q uinzio in tribunale, persevera nel tentativo di presentare la rogatio Terentilia per indurre Cesone a qualche gesto avventato: legem interim non tam ad spem perferendi quam ad lacessendam Caesonis temeritatem ferre (3,11,10). 216 In particolare a partire dal 480, con il suggerimento da parte di Ap. Claudio di bloccare le iniziative dei tribuni ricorrendo al veto dei loro stessi colleghi (2,44,1-6). 217 4,4,10. 218 Vd. ad esempio, nel contesto degli anni ’60 del V secolo, 3,9,5-6, dove si parla di metus legum come strumento di oppressione dei consoli patrizi nei riguardi dei plebei. 219 La fissazione e l’evoluzione di tale immagine all’interno della tradizione, tra Fabio Pittore e Valerio Massimo, e le cause che ne stanno alla base sono al centro del contributo di Chassignet 1998. Sulla II guerra punica come effettivo momento di coe sione e gestione condivisa del potere da parte della nobilitas e del popolo vd. invece, tra gli altri, con differenti accentuazioni: Clemente 1990, 86-90; Feig Vishnia 1996, spec. 110-111; Valvo 2005, 71-73. 220 Ridley 2000, 40; Chassignet 1998, 69 (con particolare attenzione al caso di Valerio Massimo). Sul valore e la rilevanza della narrazione liviana del conflitto vd. anche, in una prospettiva complessiva, Levene 2010. 221 Chassignet 1998, 62-63. 222 Mineo 2006.
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– estesi, rispettivamente, da Romolo alla catastrofe gallica e da Camillo ad Ottaviano –, ognuno contraddistinto da una fase ascendente seguita da un declino in base al prevalere dell’unione o della divisione in seno alla città, gli anni del confronto con Annibale – almeno sino al 207 – si collocherebbero proprio al culmine della fase ascendente del secondo ciclo: al momento cioè del raggiungimento della massima concordia interna, seguito dall’apparire, ancora in nuce, dei primi attriti. La centralità del motivo della concordia e una certa attenzione ai sottoposti d’altra parte si giustificavano appieno nell’alveo di una storiografia, qual è quella liviana, condizionata dall’esperienza traumatica delle guerre civili e animata da intenti pedagogici. Nell’invito alla collaborazione, alla negoziazione, a posporre gli interessi personali, individuali e di gruppo, al bene collettivo, rinunciando a qualche pretesa, l’autore rinveniva una risposta al problema che costituiva il fulcro della sua ispirazione: la ricerca di un modo per ricostruire uno stato in declino bisognoso di una rifondazione morale e civica 223. L’applicazione di tali istanze all’ambito legislativo trovava peraltro ulteriori sollecitazioni e si rivestiva di risonanze particolari nel clima della Roma dominata da Ottaviano. È noto, infatti, che il princeps aveva fatto della restaurazione del diritto uno dei capisaldi del suo programma. Al recupero del potere e della forza della legge, in particolare, egli aveva dato spazio fin dai primissimi anni, con iniziative concrete come l’abolizione delle misure illegali emanate dai triumviri e il ripristino del giuramento per i consoli di aver rispettato le leggi 224: iniziative accompagnate da un’adeguata opera di propaganda se, come sembra, è proprio la restaurazione ‘legale’ a essere celebrata nell’aureus emanato nel 28 a.C., recante la legenda LEGES ET IVRA PR RESTITUIT 225. In una simile temperie, le modalità con cui Livio allude all’attività deliberativa di populus e plebs dovevano risultare allineate
223 Sul pensiero politico liviano e sulle finalità della sua storiografia – al centro di una bibliografia sterminata – basti il rimando a: Kapust 2011; Hammer 2014; Mineo 2014; Vasaly 2015. 224 Dion. Cass. 53,1,1 e 2,5. A proposito della lex Titia, che aveva conferito ai triumviri poteri speciali, tra cui quello di prendere decisioni senza consultare né il senato né il popolo, e sulle misure adottate dai triumviri, in forme tradizionali e non, vd. Dion. Cass. 46,55,3 e Laffi 1993, spec. 40-42, 50-53. 225 Accolgo la lettura e l’interpretazione di Mantovani 2008.
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e consonanti con lo spirito del programma augusteo e il suo interesse a conferire centralità alla lex. Al contempo, nel contesto di una Roma in cui si andava forgiando un nuovo regime, che dopo secoli rimetteva il potere nella mani di un unus, l’insistenza sulla necessità di una cooperazione e l’attenzione verso i ceti non appartenenti all’élite dirigente non potevano non suonare come un monito, o piuttosto un richiamo, verso il nuovo signore dell’Urbe: la cui azione legiferatrice, nel frattempo, non si limitava a restituere vim legibus, ma andava oltre, procedendo a emendare utiliter le norme vigenti e a proporne di novae in nome della salus rei publicae 226. Se queste sono, per le ragioni dette, le tematiche più enfatizzate del discorso legislativo liviano, non sono comunque le uniche affrontate. Al contrario – ed è l’ultimo punto da mettere in risalto – l’immagine della legge proposta dall’autore nei libri 21-30 è, come si accennava all’inizio, un’immagine articolata. Ne scaturisce una nozione di lex composita, tutt’altro che univoca, fatta di luci e di ombre. Una nozione che, da un lato, connette il procedimento legislativo a certe prerogative sovrane del populus, considerate imprescindibili, ma che, al contempo, pone in primo piano l’apporto di altri organi, spesso protagonisti assoluti della scena. Una nozione che è, insieme, elevata e non priva di elementi di debolezza: poiché riconosce alla deliberazione popolare una funzione positiva, compensativa, integrativa, a volte anche risolutiva, in una varietà di campi, ma le riserva un ruolo sussidiario e legato alle circostanze, una portata per lo più circoscritta, talora una debolezza prescrittiva e una aleatorietà nel tempo. Tale immagine composita riflette a un tempo la ricchezza di spunti che connota la riflessione degli autori latini sul tema 227 e l’ampiezza di sguardo dello storiografo patavino, la sua capacità di cogliere vari aspetti e affrontare problematiche differenti, sia pure con una trattazione non esaustiva né tecnica, a volte semplificata, adatta al genere storiografico. 226 L’articolazione dell’azione riformatrice augustea in materia di leggi, opportunamente sottolineata da Ferrary 2012b, traspare chiaramente da Vell. 2,89,3-4. A leges novae latae fa del resto riferimento Augusto stesso in R.Gest.div.Aug. 8,5, dichiarandosene auctor (legibus novi[s] m[e auctore l]atis (εἰσεγαγὼν καίνους νόμους) nell’edi zione curata da Scheid 2007); secondo Tac., ann. 1,8,3, su proposta di L. Arrunzio, i legum latarum tituli furono esibiti ai funerali del princeps. 227 Cf. in generale Ducos 1984.
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Proprio però perché Livio è uno storico, che si muove entro binari concreti 228, la sua testimonianza coglie anche l’eco di una realtà effettiva, autenticamente complessa e variegata. Per questo per certi versi la descrizione del nostro, anche nei suoi aspetti contraddittori tra principi e prassi, è utile tramite per avvicinarsi a una nozione complicata, lontana dai parametri moderni.
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MARCO ROCCO
ATTIVITÀ LEGISLATIVA E RITRATTI DI RE IN AUC 1
Benché molto sia stato scritto a proposito di leges regiae, ancora di recente è stato osservato che non vi è accordo tra i giusromanisti se effettivamente i re di Roma abbiano mai legiferato in senso stretto, conformemente cioè a quella che sarebbe in seguito divenuta la nozione classica di lex. Non appaiono ancora uniformi e concordi nemmeno i criteri di selezione sottesi alle raccolte moderne dei provvedimenti regi ricordati dalle fonti 1. Benché oggi, giustamente, si stia nel complesso rinunciando a voler leggere l’attività legislativa del periodo monarchico applicando retrospettivamente principi fondanti che sarebbero stati elaborati solo più tardi, vale a dire almeno a partire dalla promulgazione delle XII Tavole 2, non si è ancora potuto stabilire in maniera univoca quali, tra le statui zioni regie consegnate dalla tradizione, vadano intese come vere e proprie leges, tanto più che non è quasi mai dato di appurare se esse fossero approvate dalle curie, configurandosi come leges curiatae, o semplicemente imposte come leges datae 3. Forse non ci si 1 Sintesi e discussione aggiornate in Carandini et alii 2011, 281-376; Laurendi 2013, 9-18; cf. Bujuklić 1998. Sull’ambiguità filologica sottesa ai criteri delle raccolte moderne vd. Mantovani 2012, 287 n. 17. 2 Bujuklić 1998, 93-113; Carandini et alii 2011, 281-289. Secondo Amunátegui Perelló 2020 le fonti letterarie indurrebbero a supporre che le leges regiae fossero percepite dai Romani come norme ancora improntate a un carattere divino-sacrale, mentre le leggi delle XII Tavole rappresentassero la prima legge secolare di Roma. 3 D’Ippolito 1998, 40-41. Franciosi 2003, XV e n. 11, esclude che si trattasse di leges curiatae e le ritiene leges datae, nonostante la testimonianza di Pomponio; Carandini et alii 2011, 293-301, invece, ritengono che le curiae partecipassero già al processo di formazione delle regole del diritto, come dimostrerebbe il fatto che il loro intervento era il fondamento essenziale dell’imperium dei re; ma già Bujuklic 1998, 106-113; 128-138 postulava l’esistenza di leges emanate dai re – da intendersi
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 415-444 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125337
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allontana troppo dal vero accogliendo la prudente nozione di leges regiae quali «solenni pronunce espresse unilateralmente dal rex di fronte all’assemblea cittadina», proposta da Luigi Capogrossi Colognesi 4. Pochi anni orsono Dario Mantovani, riprendendo lo studio della nota e diffusa tradizione secondo la quale le prime leggi scritte di Roma, anteriori alle XII Tavole stesse, sarebbero state raccolte alla fine dell’età regia dal pontefice Papirio 5, invitava a rileggere tutta la questione delle leges regiae adottando l’ottica e gli strumenti del filologo, prima ancora che quelli del giurista 6. Q ualcosa di simile propone oggi Christopher Smith, quando afferma che «we need to reintroduce historiography into legal history as an important constitutive but also highly falsifying component» 7. Approcci di questo tipo consentono innanzitutto di rendersi conto che quello di leges regiae non è un conio moderno, per quanto talvolta i moderni ne abbiano abusato: l’espressione, infatti, è ricavabile da un passo liviano che ricorda come, all’indomani del sacco gallico, i nuovi tribuni militum consulari potestate ordinassero di ritrovare foedera ac leges sopravvissuti all’occupazione: tra questi, quaedam regiae leges 8. Altrove Livio impiega il sintagma al singolare: il tribuno L. Valerio Tappo, in occasione della discussione intorno all’abrogazione della lex Oppia, nel 195 a.C., ricorda la particolare valenza di quelle leggi
in generale più come ‘atti normativi’ che non come ‘legislazione’ in senso stretto –: alcune curiatae, altre centuriatae, altre datae, con una probabile evoluzione dalle prime alle terze in un’epoca (quella della ‘monarchia etrusca’) in cui il potere regio assunse i connotati caratterizzanti una leadership impositiva di tipo militare. Per argomentazioni a carattere archeologico-antropologico a favore dell’intrinseca necessità di una forma primitiva di legislazione nella Roma dei primordi vd. Smith 2020a. 4 Capogrossi Colognesi 2009, 35. 5 La notizia è tramandata principalmente dal giurista Pomponio in Dig. 1,2,2,1-3; 1,2,2,7; 1,2,2,36, ma cf. anche Dion. Hal. 3,36,4; Macr., Sat. 3,11,5-6; Serv., ad Aen. 12,836; Dig. 50,16,144; vd. Santoro 1998; Laurendi 2020. Il prenome di Papirio, variamente e contraddittoriamente tramandato dalle fonti come Sesto, Publio o Gaio, non è sicuro, mentre tutti i testimoni sono concordi nell’attribuirgli la carica di pontefice. La raccolta dovrebbe risalire all’epoca di Tarquinio il Superbo o agli anni successivi alla sua cacciata da Roma: vd. Franciosi 2003, XVII n. 15; Laurendi 2020, 97-98. Molti indizi, tra cui soprattutto l’iscrizione incisa sul cosiddetto cippo del Lapis Niger, lasciano supporre che ben prima del Decemvirato alcune leggi fossero messe per iscritto: vd. Bujuklić 1998, 114-118, ma cf. già Tondo 1973, 17-34 e, in generale, Tondo 1971. 6 Mantovani 2012, 283-284. 7 Smith 2020b, 103. 8 6,1,10.
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che perpetuae utilitatis causa in aeternum latae sunt, tra cui la regia lex simul cum ipsa urbe nata 9. Allo stesso tempo, però, di per sé queste occorrenze non aiutano a dirimere le questioni sopra accennate, perché nel primo libro Ab urbe condita, dedicato alla monarchia, i sintagmi appena citati non sono mai impiegati, sebbene talvolta Livio utilizzi i termini lex e ius in riferimento a provvedimenti di vario genere ascrivibili lato sensu a un’attività legislativa dei re 10. Nondimeno, Tito Livio resta una fonte imprescindibile per la ricerca sul tema, benché le leges regiae siano tramandate soprattutto da autori greci, quali Dionigi di Alicarnasso e, seppur limitatamente a Romolo e Numa, Plutarco: il valore dell’opera liviana per la ricerca sulle leges regiae è confermato dalla mera constatazione che, talvolta, il Patavino è l’unico testimone di alcuni di questi provvedimenti 11. Alla luce di tutte le precedenti considerazioni, ci si propone di tracciare un’analisi narratologica, lessicale e stilistica delle modalità e degli scopi con i quali i diversi provvedimenti emanati dai re sono presentati nel primo libro degli Ab urbe condita, per fornire un contributo all’inquadramento storiografico e letterario della tradizione delle leges regiae che possa concorrere a una loro più adeguata contestualizzazione nell’epoca di produzione e fruizione delle opere letterarie che più le tramandano 12: operazione, questa, magistralmente condotta in passato da Emilio Gabba per quanto riguarda Dionigi di Alicarnasso 13. La conclusione complessiva, seppur provvisoria, a cui si giunge è che Livio, eccettuati rarissimi casi, scelga di volta in volta i contenuti da esporre e diversifichi le tecniche narrative e retoriche a due scopi: 1) dare particolare risalto a tradizioni fondative che abbiano valore di ammaestramento per il suo presente, al quale le ricollega; 2) contribuire a delineare ritratti dei diversi re che siano per lo più coerenti al loro interno, sebbene combinino spesso elementi sia positivi sia negativi. La scelta dei brani da esaminare è ispirata in parte alle diverse categorie di leggi comiziali individuate da Lanfranchi nella prima 34,6,7. 1,8,1; 1,17,9; 1,19,1; 1,26,6-7. 11 Vd. Franciosi 2003, passim. 12 Cf. Mantovani 2012, 284. 13 Gabba 1996, 137-146; Gabba 2000, 69-150. Per lo studio delle leges regiae in Dionigi, limitatamente alla monarchia latino-sabina, si segnala la recente pubblicazione di Di Trolio 2017. 9
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decade liviana (con esclusione del primo libro) 14, perché le tipologie proposte dallo studioso ben si adattano alla natura estremamente variegata delle leges regiae ricordate da Livio, senza che ciò implichi un’equiparazione di queste alle leggi comiziali. La prima tipologia comprende i provvedimenti riguardanti la vita religiosa, con l’eccezione dei sacra ascrivibili a Numa: infatti, come sostiene Dario Mantovani, questi ultimi si configurano come precetti e norme tecniche attinenti a pratiche sacerdotali, piuttosto che come statui zioni di diritto privato e/o costituzionale 15. Le sezioni successive riguardano rispettivamente: istituzioni fondamentali della civitas; vita politica; guerra ed esercito; leggi agrarie; concessione della cittadinanza. Q uesto il quadro sinottico dei passi del primo libro trattati nelle prossime pagine: • Vita religiosa:
− 24, 3-9 (Tullo Ostilio) − 32, 5-14 (Anco Marcio) • Istituzioni fondamentali della civitas:
− − − − − − − −
8, 1-3 (Romolo) 8, 7 (Romolo) 13, 6-7 (Romolo) 26, 2-14 (Tullo Ostilio) 35, 6 (Tarquinio Prisco) 42, 4-43, 13 (Servio Tullio) 49, 6 (Tarquinio il Superbo) 60, 4 (Servio Tullio)
• Vita politica:
− − − − −
13, 4-5 (Romolo e Tito Tazio) 38, 1-2 (Tarquinio Prisco) 44, 1 (Servio Tullio) 52, 1-5 (Tarquinio il Superbo) 55, 1 (Tarquinio il Superbo)
Lanfranchi 2012. Vd. da ultimo Mantovani 2012 (cf. già Tondo 1973, 33-34): vere leges regiae sarebbero da considerarsi solo quelle concernenti norme di diritto civile e, forse, anche pubblico, tramandate sotto il nome di re diversi da Numa e giunte a noi quasi sempre in forma indiretta, parafrasata e vaga. 14 15
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• Guerra ed esercito:
− − − −
13, 8 (Romolo e Tito Tazio) 30, 3 (Tullo Ostilio) 36, 2; 7-8 (Tarquinio Prisco) 52, 6 (Tarquinio il Superbo)
• Leggi agrarie:
− 46, 1 (Servio Tullio) • Concessione della cittadinanza:
− 11, 2 (Romolo) − 30, 1-2 (Tullo Ostilio) − 33, 1-2; 5-6 (Anco Marcio) Al netto delle vicende relative ai sacra numani, nella prima decade Livio registra soltanto due provvedimenti regi che hanno esplicita connessione con la vita religiosa. Si tratta di procedure sacrali volte ad ‘adeguare’ alla volontà degli dei le relazioni di Roma con i popoli stranieri: nel primo caso è descritta la stipula di un foedus con gli Albani prima del duello tra Orazi e Curiazi, sotto Tullo Ostilio 16; nel secondo si narra l’introduzione del rito di dichiarazione di guerra da parte di Anco Marcio 17. Entrambi gli episodi vedono coinvolti i sacerdoti Feziali, sulla cui origine Livio non riferisce nulla – se si eccettua un brevissimo accenno a una connessione con gli Equicoli nel secondo passo –, ma che secondo Dionigi sarebbero stati istituiti da Numa 18. Pur essendo piuttosto tecnici nella loro formulazione, i due passi non registrano norme e precetti assimilabili a pratiche tout-court religiose, come nel caso dei sacra numani, bensì contengono riferimenti a fondamentali istituzioni giuridiche di ‘diritto internazionale’, vitali per la politica di Roma. Si può concordare con Giovanni Turelli, quando afferma che «l’elevato tecnicismo delle procedure […] fa risaltare la funzione giuridico-religiosa dei Feziali. […] L’attività 1,24,3-9. 1,32,5-14. 18 Dion. Hal. 2,72; cf. Plut., Num. 12. Cic., rep. 2,31 li fa risalire a Tullo Ostilio. Cf. Ogilvie 1965, 110-112; 130-136. Alcuni moderni avanzano l’ipotesi, suffragata dalla possibile connessione tra i Feziali e Giove Feretrio, che questo collegio sacerdotale risalga addirittura a Romolo: vd. Carandini et alii 2011, 275-276. Sulla questione cf. Mora 1995, 253-255. Sul rito feziale e il bellum iustum vd. da ultimo Rüpke – Richardson 2019, 99-124. 16 17
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diplomatica, se intesa quale apparato organizzato di persuasione e convincimento della controparte, […] non rientra nel panorama delle incombenze sacerdotali» 19. In tal senso, non è da escludere a priori che la presenza di specifici formulari, così evidente in entrambi i brani, vada ascritta alla perpetuazione del loro uso in ambito diplomatico, più che alla loro valenza religiosa 20. In effetti, fonti tardorepubblicane autorevoli e ‘tecniche’ come Varrone e Cicerone talvolta accennano ad alcune competenze dei Feziali, soprattutto quelle relative alla stipula dei foedera, come ancora pienamente in auge ai loro tempi 21. Lo stesso Livio, nel riportare il dettagliato dialogo tra Tullo Ostilio e il Feziale Marco Valerio in occasione del foedus tra Romani e Albani, afferma che il cerimoniale dei foedera non è mai mutato e tale permane anche all’epoca del Patavino, come lascia intendere l’uso del verbo fiunt al presente 22. D’altra parte, nel medesimo periodo l’autore precisa che le clausole specifiche dei patti variano a seconda della loro tipologia: l’importanza del passaggio è resa evidente dall’uso di una stringata espressione chiastica in poliptoto, foedera alia aliis legibus 23, che tende a porre in contrasto l’estrema varietà dei contenuti dei singoli trattati con l’immutabile fissità della loro forma 24. Forse proprio per un motivo analogo, pur registrando le parole pronunciate dal pater patratus Spurio Fusio prima del sacrificio volto a suggellare il patto con gli Albani, Livio ritiene che non sia necessario riferire il prolisso carmen utilizzato nel giuramento finale: probabilmente si tratta di formula già nota al lettore in quanto ancora in uso, come di nuovo lascia intendere l’uso di fit e peragit al tempo presente, in un contesto narrativo in cui gli altri predicati sono coniugati tutti al perfetto 25. Turelli 2011, 122-123. Cf. Hickson 1993, 134. 21 Vd. soprattutto Varro, ling. 5,86; Cic., leg. 2,21. Per l’interpretazione di questi passi si veda soprattutto Santangelo 2014, 88-89; 94-95. Del resto, è noto che la vetus praefatio fetialium continuò a essere usata per sancire i foedera fino all’età imperiale: Suet., Claud. 25,14. Per l’esistenza del collegio dei Feziali fino all’inizio del III sec. d.C. e il ricorso ai loro rituali, episodicamente attestato dalle fonti, cf. Latte 1960, 123-124; 297; Carandini et alii 2011, 275. 22 1,24,3 foedera alia aliis legibus, ceterum eodem modo omnia fiunt. 23 Ibid. 24 Cf. de Martino 1972-1975, II 39. 25 1,24,6 Pater patratus ad ius iurandum patrandum, id est, sanciendum fit foedus; multisque id verbis, quae longo effata carmine non operae est referre, peragit. 19 20
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Di nuovo, nel passo relativo all’introduzione del rito feziale di dichiarazione di guerra da parte di Anco Marcio, Livio afferma subito con chiarezza che esso è ancora usato dai Feziali 26, e per tutta la prima parte della descrizione del rito coniuga regolarmente i verbi al tempo presente, mentre nella seconda, tornando a narrare nello specifico l’episodio della guerra dichiarata da Anco ai Prisci Latini, impiega imperfetti e perfetti, prima di ribadire, a conclusione del capitolo, che il rito antico è stato perpetuato dai posteri 27. Certo Livio, che forse attinse le procedure rituali cui si è accennato anche dai commentarii del collegio sacerdotale 28, potrebbe essere stato influenzato dalla cura posta da Augusto nel rivitalizzare il cerimoniale dei Feziali, da lui stesso utilizzato in veste di pater patratus per la dichiarazione di guerra a Cleopatra 29. Ma va sicuramente esclusa l’ipotesi estrema, secondo la quale gli storici augustei avrebbero falsamente attestato l’esistenza di un vero e proprio collegio di Feziali, e delle sue relative funzioni, anteriormente alla riorganizzazione voluta dal princeps 30. Al contrario, la doppia testimonianza liviana appare nel complesso coerente con una recente tesi di Federico Santangelo: sulla base di un’attenta ricognizione delle fonti letterarie ed epigrafiche superstiti lo studioso, pur ritenendo correttamente che le fonti più antiche sui Feziali, in particolare proprio Livio, non possano essere considerate come testimonianze storiche accurate sull’origine del collegio, se non altro perché in esse trovano spazio tradizioni differenti e non del tutto compatibili tra loro 31, giunge alla conclusione che effettivamente i Feziali, almeno a partire dall’età medio-repubblicana, fungevano da consiglieri nella gestione dei preliminari di 26 1,32,5 ut tamen, quoniam Numa in pace religiones instituisset, a se bellicae cae rimoniae proderentur, nec gererentur solum sed etiam indicerentur bella aliquo ritu, ius ab antiqua gente Aequiculis quod nunc fetiales habent descripsit, quo res repetuntur. Cf. Ov., fast. 6,207-208. 27 1,32,14 hoc tum modo ab Latinis repetitae res ac bellum indictum, moremque eum posteri acceperunt; cf. Rich 2011, 199-209. 28 Vd. Rich 2011, 192. 29 Dion. Cass. 50,4,4; cf. R.Gest.div.Aug. 7,3 fetialis fui. Sintesi in Turelli 2014, 469 n. 62. 30 Vd. Bianchi 2016, 48. 31 Santangelo 2014, 99-100; cf. già Rich 2011, 202-204. Riguardo a Livio, tuttavia, occorre osservare che «the antiquity of the procedure in general […] seems to be confirmed by its similarity to the procedures of early Roman civil law»: vd. Beard et alii 1998, II 7; cf. Martin 1982-1994, I 156.
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una dichiarazione di guerra e, soprattutto, dovevano essere attivamente coinvolti nella conclusione dei trattati 32. Al di là dell’attendibilità storica della testimonianza liviana, per la comprensione degli intenti dell’autore è molto più significativo cercare di comprendere perché egli enfatizzi l’immutabilità delle formule rituali e l’importanza di ciò che esse simboleggiano. Ciò che a Livio interessa qui non è l’esattezza del dato storico, quanto il suo valore più profondo, cioè l’idea che la sacralità di una tradizione antichissima impone che le relazioni tra Roma e le civitates straniere, in pace e in guerra, siano ancora al tempo dell’autore conformi al principio imprescindibile dell’osservanza di un’impeccabile ritualità religiosa, al fine di evitare che l’empietà di una decisione politica sfoci in una iniuria nei rapporti internazionali, che è appunto la colpa che commetteranno di lì a poco gli Albani 33. Q uesta stretta correlazione ideale è resa evidente dall’insistito accostamento, sempre tramite l’enclitica -que, tra gli aggettivi/avverbi iustus/iuste-iniuste/purus e pius/pie-impie 34. E proprio in questo senso potrebbe essere interpretata la patente invenzione, da parte del Patavino, del racconto della consultazione del senato da parte di Anco dopo la scadenza dell’ultimatum imposto ai Prisci Latini 35: la ripetitività quasi ossessiva della formula, sotto forma di enumerazione ritmica di tricola il cui lessico in buona parte riecheggia quello riscontrabile altrove in questo capitolo e nello stesso capitolo 24, e la maggior ricercatezza complessiva del dialogo tra il re Santangelo 2014, 91. Per il tradimento di Mezio Fufezio: 1,27,1-3. 34 Liv. 1,32,6-7: ‘Audi, Iuppiter’ inquit; ‘audite, fines’ – cuiuscumque gentis sunt, nominat -; ‘audiat fas. Ego sum publicus nuntius populi Romani; iuste pieque legatus venio, verbisque meis fides sit.’ Peragit deinde postulata. Inde Iovem testem facit: ‘Si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier mihi exposco, tum patriae compotem me nunquam siris esse’; 1,32,9: ‘Audi, Iuppiter, et tu, Iane Q uirine, dique omnes caelestes, vosque terrestres vosque inferni, audite; ego vos testor populum illum’ – quicumque est, nominat – ‘iniustum esse neque ius persolvere; sed de istis rebus in patria maiores natu consulemus, quo pacto ius nostrum adipiscamur’; 1,32,12 Tum ille: ‘Puro pioque duello quaerendas censeo, itaque consentio consciscoque’. Per purus come equivalente di iustus, scelto da Livio «purely for its alliterative effect and its vague moral overtones», vd. Ogilvie 1965, 134. 35 1,32,11-12 confestim rex his ferme verbis patres consulebat: ‘Q uarum rerum litium causarum condixit pater patratus populi Romani Q uiritium patri patrato Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis, quas res nec dederunt nec solverunt nec fecerunt, quas res dari fieri solvi oportuit, dic’ inquit ei quem primum sententiam rogabat, ‘quid censes?’; su questa invenzione vd. già Rich 2011, 203-204, che però offre una diversa interpretazione degli intenti di Livio. 32 33
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e i singoli senatori interpellati, sembrano proprio rimarcare la necessità della massima ponderazione nel decidere in merito alla dichiarazione di guerra, conformemente a una ritualità che conferisca alla deliberazione anche l’avallo degli dei, in precedenza chiamati a testimoni con espressioni bi- e tripartite simili a quella usata qui 36. I provvedimenti relativi alle istituzioni che costituiscono la struttura più profonda della civitas andrebbero secondo alcuni considerati mores, piuttosto che leges, in quanto frutto di processi di sedimentazione di prassi politiche e sociali consuetudinarie non istituzionalizzate, e non esito immediato di decisioni ascrivibili a singole volontà legislatrici 37. Livio, invece, li riconduce a specifiche azioni normatrici dei re, soprattutto del conditor. Ben tre, infatti, sono i passi in cui Romolo è presentato come creatore di istituti basilari del corpo civico. Nel primo brano, all’inizio si afferma assai genericamente che il re, che nel capitolo precedente è descritto nell’atto di fortificare il Palatino e compiere le cerimonie sacre, iura dedit al popolo per la prima volta riunito in assemblea 38. Il termine iura appare strettamente associato a leges, il che lascia supporre che qui i due sostantivi siano impiegati di fatto come sinonimi nel senso di ‘norme costituzionali’ 39. Poi Livio si sofferma sull’istituzione dei dodici littori quali insigna imperii, e riporta due diverse tradizioni sul l’origine del loro numero, esprimendosi in favore di quella che li voleva mutuati dal mondo etrusco 40. Interessante notare come si voglia evidenziare quella cura posta da Romolo per l’aspetto sceno-
36 1,32,6; 9. Cf. Dangel 1982, 59; Hickson 1993, 114; 115-116. Sulla «funzione cogente del rito, che da una parte impegna gli dei, dall’altra condiziona gli uomini», vd. Turelli 2014, 469. 37 Carandini et alii 2011, 309-334. 38 1,8,1 Rebus divinis rite perpetratis vocataque ad concilium multitudine quae coalescere in populi unius corpus nulla re praeterquam legibus poterat, iura dedit. 39 Carandini et alii 2011, 291-293; cf. Bujuklić 1998, 112-113. 40 1,8,2-3 quae ita sancta generi hominum agresti fore ratus, si se ipse venerabilem insignibus imperii fecisset, cum cetero habitu se augustiorem, tum maxime lictoribus duodecim sumptis fecit. Alii ab numero avium quae augurio regnum portenderant eum secutum numerum putant. me haud paenitet eorum sententiae esse quibus et apparitores hoc genus ab Etruscis finitimis, unde sella curulis, unde toga praetexta sumpta est, et numerum quoque ipsum ductum placet, et ita habuisse Etruscos quod ex duodecim populis communiter creato rege singulos singuli populi lictores dederint.
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grafico del potere che lo contraddistingue anche altrove, ad esempio nella consacrazione degli spolia opima del re dei Ceninensi 41. Nel secondo passo, alla fine del medesimo capitolo, Romolo decide di affiancare un consilium alle già fiorenti vires della civitas, creando a tal scopo i cento senatori originari 42. In maniera analoga al caso precedente Livio fornisce, seppur molto in breve, due diverse possibili eziologie per il numero di membri di quella che sarà la più longeva istituzione romulea, ma questa volta non prende posizione per nessuna delle tradizioni menzionate, anzi l’uso anaforico del sive quia sembra lasciar intendere che l’autore le consideri entrambe valide. Nell’ultimo brano, infine, all’indomani della pace coi Sabini Romolo istituisce le trenta curie, derivandone i nomi da quelli di alcune delle donne contese con il popolo di Tito Tazio 43. In quest’ultimo caso Livio non solo pone una questione a metà strada tra l’eziologia e la storiografia, cioè quella dei criteri di scelta adottati per denominare le curie, ma si distingue nettamente da Dionigi, appoggiandosi a una tradizione, già presente in Cicerone ma in seguito non accolta interamente da Plutarco 44, che mette in relazione la nascita dell’isti tuzione con la rappacificazione e l’unione tra Romani e Sabini 45. Come si può notare, gli accenni liviani all’istituzione di norme costituzionali da parte di Romolo sono piuttosto stringati, e tendono a sviluppare solo particolari questioni di carattere antiquario non direttamente funzionali al racconto, che mancano nel testo di Dionigi 46. Tutti e tre i passi, nondimeno, vogliono chiaramente porre in risalto, seppur solo con pochi tratti efficaci, la saggezza e la previdenza politica di Romolo, la cui azione appare qui essenzialmente mirata a unificare e pacificare il nascente corpo civico e a 1,10,4-7. 1,8,7 Cum iam virium haud paeniteret consilium deinde viribus parat. Centum creat senatores, sive quia is numerus satis erat, sive quia soli centum erant qui creari patres possent. Patres certe ab honore patriciique progenies eorum appellati. 43 1,13,6-7 Ex bello tam tristi laeta repente pax cariores Sabinas viris ac parentibus et ante omnes Romulo ipsi fecit. Itaque cum populum in curias triginta divideret, nomina earum curiis imposuit. Id non traditur, cum haud dubie aliquanto numerus maior hoc mulierum fuerit, aetate an dignitatibus suis virorumue an sorte lectae sint, quae nomina curiis darent. 44 Cic., rep. 2,14; Plut., Rom. 20,3 (cf. 14,1-2; 14,8): la notizia secondo la quale le donne sabine sarebbero state eponime delle curie è dimostrata falsa. 45 Cf. Dion. Hal. 2,7,2-3: Romolo istituisce le curie all’indomani della fondazione della città e della sua proclamazione a re. 46 Cf. Dion. Hal. 2,7,2-3; 12; 29,1. 41 42
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inculcare in esso l’ossequio per le leggi, garantito dalla venerabilità di un imperium che è incarnato dal re e temperato dal consilium dei senatori. Q ueste caratteristiche del conditor sono in qualche modo messe in risalto proprio dall’insistito ricorso all’eziologia che, come osserva Matthew Fox, soprattutto nel primo libro ha non solo la funzione di creare una pausa narrativa al termine di un episodio, ma anche quella di evidenziare «a sense of connection between the Rome of now and the Rome of the distant past» 47. L’intento liviano di caratterizzare i sovrani con tratti incisivi e coerenti appare ancor più evidente dal parallelismo oppositivo tra altri due brani, ricavati rispettivamente dai capitoli 35 e 49. Nel primo si racconta la creazione di altri cento senatori da parte di Tarquinio Prisco 48. Anche qui l’azione normativa è narrata sotto forma di un breve accenno, ma in modo tale da rivelare con chiarezza il comportamento politico del re: egli infatti, ampliando il consesso senatorio con l’introduzione di una factio haud dubia regis, ha come scopo non solo quello di accrescere la maestà della res publica, ma anche quello di rafforzare il proprio potere. Q uesta esplicita osservazione concorre ulteriormente al ritratto complessivo di Tarquinio ricavabile dalle pagine liviane ed evidenziato soprattutto in questo capitolo, ossia quello di un uomo eccellente sotto ogni altro aspetto, ma guidato in tutte le sue azioni politiche meno dal bene dello Stato che dalla ambitio, intesa come tendenza a brigare per ottenere supporto politico 49. Un comportamento che, diversamente dalle fonti greche, Livio non attribuisce in alcun modo ai predecessori di Tarquinio 50. Speculare a questo passo è quello relativo all’ultimo Tarquinio, il quale, dopo aver fatto assassinare i senatori che credeva avessero parteggiato per Servio Tullio, stabilì che non ne fossero eletti di nuovi in loro sostituzione, con l’intento di screditare l’intero consesso 51. Giova osservare che queste caratterizzazioni dei re non sono Fox 2015, 291. Liv. 1,35,6 Ergo virum cetera egregium secuta, quam in petendo habuerat, etiam regnantem ambitio est; nec minus regni sui firmandi quam augendae rei publicae memor centum in patres legit qui deinde minorum gentium sunt appellati, factio haud dubia regis cuius beneficio in curiam venerant. 49 Cf. in particolare 1,35,2. Per il significato di ambitio nei passi liviani relativi a Tarquinio Prisco vd. Penella 2004. 50 Vd. Penella 2004, 631-632; Vasaly 2015, 43-45. 51 1,49,6 Praecipue ita patrum numero imminuto statuit nullos in patres legere, quo contemptior paucitate ipsa ordo esset minusque per se nihil agi indignarentur. 47 48
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costruite arbitrariamente, ma ereditate da una tradizione già consolidata, come emerge dal confronto con Dionigi 52. Livio, semmai, interviene a rendere omogeneo in ogni suo aspetto il quadro consegnatogli dalle fonti. Certo questa operazione va inquadrata nella ricerca di esemplarità connaturata all’opera liviana, come è stato giustamente sottolineato 53. Ma può essere interpretata anche in altri due modi: come volontà di aderire alla tradizione più antica e come ricerca di una necessaria verisimiglianza della narrazione, perseguita per mezzo della sua aderenza alla natura dei personaggi. Se nel primo caso è abbastanza evidente l’intento storiografico dell’operazione, non sarebbe corretto limitarsi a individuare nel secondo soltanto il mero tentativo di abbellire e rendere più piacevole ed efficace la narrazione da un punto di vista letterario; al contrario, la verisimiglianza del racconto pare essere per Livio funzionale alla ricerca stessa della verità storica, secondo l’ideale, sostenuto da Cicerone in alcuni passaggi del De inventione e del De oratore quasi certamente noti al Patavino, che la narrazione per essere probabilis deve adeguarsi alla verità dei fatti e dei caratteri, cioè deve perseguire quella che è, appunto, la prima historiae lex, vale a dire la ricerca della verità 54. Connessi a questa volontà di caratterizzazione di re promotori di fondamentali riforme costituzionali appaiono anche due brani relativi a provvedimenti serviani, di ampiezza assai difforme. Nel primo, che si sviluppa per due lunghi capitoli, Livio illustra la riforma censitaria, probabilmente la più nota in assoluto tra le leges regiae 55; il secondo, al contrario, è un brevissimo ed enigmatico cenno a norme per l’elezione dei consoli, ricavate da commentarii del re e utilizzate nei comizi centuriati al tempo della cacciata dei Tarquini da Roma 56. Diversamente dal suo predecessore Tarquinio, Servio Tullio è presentato da Livio, subito prima della descrizione
52 Dionigi ricorda solo cursoriamente la notizia, riportata da alcuni storici, secondo la quale il regno di Romolo avrebbe assunto tratti tirannici negli ultimi anni: Dion. Hal. 2,56,3. Al contrario, Plutarco tratteggia Romolo come un vero tiranno: Plut., Rom. 26,1-3; 31. 53 Vd. Stem 2007; cf. Vasaly 2015, 37-40. 54 I passi ciceroniani in questione (Cic., de orat. 2,62-63; inv. 1,29; top. 97) erano probabilmente noti a Livio secondo McDonald 1957, 160. Cf. Luce 1977, 182. 55 1,42,4 – 43,13. 56 1,60,4 Duo consules inde comitiis centuriatis a praefecto urbis ex commentariis Ser. Tulli creati sunt, L. Iunius Brutus et L. Tarquinius Collatinus.
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della riforma censitaria, come un uomo che cercò di legittimare e rafforzare il suo potere nec iam publicis magis consiliis […] quam privatis 57. La coerenza di questo ritratto positivo prosegue anche nel racconto del provvedimento, dapprima in forma esplicita 58, poi in maniera più indiretta, quando Livio sottolinea come il nuovo sistema coniugasse la conservazione del diritto di voto per tutti i cittadini, con il trasferimento effettivo della capacità decisionale (‘vis omnis’) nelle mani dei soli maggiorenti, in virtù del preponderante numero di centurie in cui erano distribuiti questi ultimi 59. Nello stesso modo potrebbe essere inteso il cursorio cenno, proprio in chiusura del libro, a dei commentarii Ser. Tulli, dai quali i liberatori della città avrebbero tratto le norme per l’elezione dei due consoli tramite convocazione dei comizi centuriati presieduti dal praefectus urbis, nominato in precedenza da Tarquinio nella persona di Spurio Lucrezio 60. La notizia è stata considerata da molti un’invenzione tarda, forse di età sillana 61, mentre altri hanno evidenziato come i commentarii serviani potessero essere, in realtà, un manuale contenente protocolli e procedure, come ne sono attestati per diversi collegi religiosi: un compendio che illustrava non tanto l’iter da seguire per eleggere i consoli, quanto quello prestabilito per la convocazione dei comizi 62. Al di là di questa vexata quaestio, probabilmente destinata a restare priva di soluzione, ciò che qui interessa notare è il fatto che Livio, proprio in chiusura del libro, voglia idealmente associare alla nascita del consolato e, quindi, della Repubblica, il nome di quel re che già in precedenza aveva presentato come desideroso di deporre il potere e donare la libertas alla patria 63. 57 1,42,1. Sugli stratagemmi narrativi impiegati da Tito Livio per porre sotto una luce positiva Servio Tullio, pur senza sottacere gli aspetti d’irregolarità della sua salita al trono e la fragilità del potere che ne derivava, si veda Poletti 2013 (soprattutto 145-147). 58 1,42,4 Adgrediturque inde ad pacis longe maximum opus, ut quemadmodum Numa divini auctor iuris fuisset, ita Servium conditorem omnis in civitate discriminis ordinumque quibus inter gradus dignitatis fortunaeque aliquid interlucet posteri fama ferrent. Censum enim instituit, rem saluberrimam tanto futuro imperio (…). 59 1,43,10-11. 60 Cf. 1,59,12. 61 Vd. ad es. Thomsen 1980, 22; 247-248; Marastoni 2009, 78-85; 260-261; Ridley 2014, 98-99. 62 Vd. Ogilvie 1965, 231-232. 63 1,48,9.
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L’opera liviana è la fonte storiografica che più di ogni altra tratteggia in modo tanto marcato e insistito Servio Tullio come sovrano libertario, seppur non ‘rivoluzionario’, come vedremo 64: Dionigi, infatti, pur riportando anch’egli la convinzione, diffusa tra gli storici, che Servio intendesse trasformare la monarchia in democrazia, ignora completamente, come anche Cicerone nel De republica, la notizia relativa ai commentarii 65. Normalmente si ritiene che un profilo di questo tipo sia stato suggerito a Livio dall’idealizzazione di Servio prodotta dalla tarda annalistica, qui adottata in quanto funzionale all’elogio indiretto di Silla o, eventualmente, di Augusto 66. Ma questa tesi, per quanto verisimile e intrigante, rischia di focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla nota questione se Livio fosse un sostenitore o un detrattore di Augusto. Diversamente, ciò che traspare in modo nitido dal dettato liviano è che l’autore intende enfatizzare al massimo la contrapposizione tra il ‘buon’ Servio, il quale, se non fosse stato assassinato, avrebbe condotto a felice conclusione la trasformazione dello Stato romano da monarchia a repubblica, al punto da aver già predisposto tutte le procedure istituzionali necessarie, e il ‘cattivo’ Tarquinio, che costituì una sorta di funesta, seppur necessaria, anomalia in questo naturale processo evolutivo 67. Lo testimonia il fatto che Livio, subito dopo aver menzionato la voce secondo la quale Servio aveva in 64 Si rileva un’unica ombra in questo quadro per il resto così nitido: l’accenno al fatto che Servio primus iniussu populi, voluntate patrum regnavit (1,41,7). Il dato è ribadito da altre fonti autorevoli (Cic., rep. 2,37; Dion. Hal. 4,40,1; cf. Flor. 1,6,1-2), ma è merito di Poletti 2013 aver evidenziato come Livio, diversamente da altri autori, consideri questo tratto della condotta politica di Servio Tullio una forma di irregolarità del suo regno, più che di illegittimità, peraltro immediatamente e ripetutamente attenuata dai numerosi e alti meriti riconosciutigli e dall’insistita contrapposizione con Tarquinio il Superbo (cf. Penella 2004, 633). 65 Dion. Hal. 4,40,3; Cic., rep. 2,37-43. Resta a parte il celebre frammento del Brutus di Accio, ove si afferma che Servio Tullio ‘libertatem civibus stabiliverat’ (Acc. apud Cic., Sext. 123 = praetext. 40 Ribbeck3). L’intenzione di Servio di abdicare, sventata dall’intervento di Tanaquil morente, è ricordata anche da Plut., fort. Rom. 323d. 66 Vd. Ogilvie 1965, 185; 194; Ridley 2014, 98-99; Marastoni 2009, 51-85; 180-188. 67 Vd. anche, seppur in termini più generici, Bernard 2000, 197-199, e soprattutto Fromentin 2003, secondo la quale Livio accosta i due re all’interno di una medesima visione ‘tragica’. Appare contraddittoria la tesi di Martin 2015, 266-267, il quale ritiene che Livio da una parte non credesse nella tradizione di Servio intenzionato a dare la libertà al popolo romano, ormai maturo a governarsi da solo, in quanto non si spiegherebbe come quest’ultimo avesse poi potuto sopportare per un altro quarto di secolo il regime dispotico del Superbo, ma che dall’altra aderisse completamente al mito storiografico dei commentarii Servi Tulli.
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animo di dare la libertà al popolo romano, lo addita esplicitamente quasi come il sovrano ideale 68. Merita una considerazione a parte il celebre passo in cui Livio racconta l’istituzione, da parte di Tullo Ostilio, dei duumviri/duoviri perduellionis e della possibilità di provocatio connessa a questo reato, come conseguenza dell’uccisione di Orazia a opera di suo fratello vittorioso nel duello contro i Curiazi di Alba 69. Non è qui il caso di soffermarsi sulle implicazioni giuridiche del brano, che è per lo più considerato frutto di mera leggenda 70. Semmai pare interessante notare come qui Livio ritorni a inserire nel racconto numerosi discorsi diretti, nei quali è di nuovo impiegato un linguaggio formulare che questa volta, tuttavia, non sembra connesso a una ritualità di tipo sacrale in senso stretto, bensì a una modalità di espressione più schiettamente giuridica, che impiega già elementi caratteristici di una sistemazione del diritto di epoca posteriore 71: ne sono una spia lo schema sintattico, costituito da brevissime frasi principali, indipendenti e ipotetiche, e la giustapposizione tra congiuntivo (iudicent), indicativo (provocarit; vincent) e imperativo (certato; obnubito; suspendito; verberato) 72. Non a caso, nel volgere delle poche righe centrali del passo il termine lex, variamente declinato, è usato dal Patavino per ben cinque volte, tanto quanto in nessun altro luogo del primo libro. La pietas e, in generale, l’afflato religioso ritornano solo nella parte finale del brano che, tuttavia, non riguarda più la lex istituita da Tullo Ostilio, bensì l’introduzione di un mos: il regolare compimento, da parte della gens Horatia, di piacularia sacrificia per espiare l’assassinio della fanciulla, una pratica connessa alla conservazione, ancora ai tempi del l’autore, del cosiddetto sororium tigillum. La sapiente e peculiare miscela di narrazione, dialogo, formularità costruita ritmicamente 73 1,48,8. 1,26,2-14. 70 Vd. tra gli altri Liou-Gille 1994, 6. 71 In generale, sulla dialettica tra adeguamento di forma e stabilità di contenuto nelle leges regiae tramandate dalle fonti latine vd. Tondo 1973, 56-86. Sintesi sulla letteratura riguardante l’autenticità del formulario in Turelli 2014, 475 n. 91. 72 1,26,6 ‘Duumviros’ inquit, ‘qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem facio’. Lex horrendi carminis erat: ‘Duumviri perduellionem iudicent; si a duumviris provocarit, provocatione certato; si vincent, caput obnubito; infelici arbori reste suspendito; verberato vel intra pomerium vel extra pomerium’. Vd. Ogilvie 1965, 115; Powell 2011, 471-472. 73 Per gli aspetti ritmici del passo in questione vd. Dangel 1982, 157; 175. 68 69
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ed eziologie topografiche e giuridiche, conferiscono al brano un particolare rilievo 74, il cui cardine è costituito dall’esplicita contrapposizione ideale fra la giusta spietatezza della lex horrendi carminis, da una parte, e l’avveduta clementia dei suoi interpreti, rex e populus, dall’altra 75, entrambe concezioni che, pure in questo caso, Livio vuole presentare come archetipiche e innate nell’istituzione stessa, il che ne sancisce implicitamente la giustezza e il valore paradigmatico per ogni epoca. Q uasi tutti i provvedimenti regi concernenti la vita politica della città riguardano singoli foedera di alleanza tra Roma e altre civitates 76. Si distinguono dal racconto del foedus tra Romani e Albani, di cui si è già avuto modo di parlare, perché non riportano le formule impiegate, il che sembra coerente con il fatto che Livio le ha già ricordate in occasione di quell’episodio, a sua detta il più antico del cui cerimoniale si conservi memoria 77. In effetti, il linguaggio formulare e arcaizzante è nuovamente adottato dall’autore solo nel breve racconto della deditio di Collazia a Tarquinio Prisco, probabilmente perché non si tratta di un vero e proprio trattato di alleanza, ma di una tipologia di accordo affatto peculiare. Il foedus per eccellenza è quello con cui Romolo e Tito Tazio, al termine della guerra scatenata dal ratto delle donne, siglano la pace e riuniscono Latini e Sabini in un unico popolo 78. Anche qui, come nel caso delle altre leges regiae attribuite al fondatore, Livio narra assai succintamente i fatti, considerati semplice coronamento della comune volontà di pacificazione e integrazione, preferendo 74 Cf. Solodow 1979, 261-264; Fox 2015, 292-293. Per l’utilizzo di riferimenti a luoghi specifici, in particolari quelli che recano vestigia del passato, allo scopo di movere il lettore, vd. Vasaly 1993, 26-39. 75 Su questa ambivalenza vd. già Solodow 1979, 255-256; 257. 76 Dal novero è stato escluso il foedus concluso da Tullo Ostilio coi Latini, ricordato da Livio solo retrospettivamente e per inciso all’inizio del regno di Anco Marcio: 1,32,3. 77 1,24,4. 78 1,13,4-5 inde ad foedus faciendum duces prodeunt. Nec pacem modo sed civitatem unam ex duabus faciunt. Regnum consociant: imperium omne conferunt Romam. Ita geminata urbe ut Sabinis tamen aliquid daretur Q uirites a Curibus appellati. Monumentum eius pugnae ubi primum ex profunda emersus palude equus Curtium in vado statuit, Curtium lacum appellarunt. Per l’eziologia del toponimo Lacus Curtius cf. la diversa tradizione riportata da 7,6,6, dove si riconosce l’impossibilità di accertare quale delle due sia autentica (vd. anche il contributo di V. Fabrizi in questo volume, pp. 253-255).
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aggiungere al termine del racconto due note antiquarie sull’origine sabina del termine Q uirites e del toponimo Lacus Curtius. In questo si differenzia da Dionigi, che dedica quasi un intero capitolo alla stipula del patto e ne precisa dettagliatamente ogni singola clausola, ricordando alla fine solo l’eziologia di ‘Q uiriti’. Livio sarà poi imitato da Plutarco, dal quale, però, si distingue per la scelta di una tecnica narrativa più mossa e drammatica, resa evidente dalla sintassi spezzata e dalla notazione dell’improvviso silenzio calato tra i due eserciti schierati subito prima della stipula del foedus 79. Assai diversa, invece, la narrazione dei foedera promossi da Tarquinio il Superbo con i popoli vicini: mentre il secondo brano consiste solo in una fugace menzione dei trattati di pace stretti o rinnovati con Equi ed Etruschi 80, il primo si inserisce all’interno di un racconto che si prolunga per ben tre capitoli, volto a dimostrare l’abilità politica del re nell’uso di inganni e raggiri per ottenere i propri fini. Grazie a un elaborato e astuto piano volto a vendicarsi di un nobile di Ariccia, Turno Erdonio, che l’aveva duramente criticato durante l’assemblea dei maggiorenti latini convocata presso il lucus Ferentinae, Tarquinio conquista l’intimorita fiducia di tutta la lega e ottiene così di rinnovare l’antico foedus, stipulato da Tullo Ostilio con gli Albani, senza però lasciare dubbi alle controparti in merito al ruolo predominante di Roma 81. Si tratta, dunque, di un foedus concluso su un piano di disparità e ottenuto con l’inganno e le minacce. Non è un caso, quindi, che appena concluso il racconto dell’episodio, nell’attacco del capitolo successivo, Livio definisca Tarquinio iniustus in pace rex. Q uesta notazione si aggiunge agli Dion. Hal. 2,46; Plut., Rom. 19,9-10; 18,6. Sulle due note antiquarie liviane cf. Ogilvie 1965, 79. 80 1,55,1. 81 1,52,1-5 Revocatis deinde ad concilium Latinis Tarquinius conlaudatisque qui Turnum nouantem res pro manifesto parricidio merita poena adfecissent, ita verba fecit: posse quidem se vetusto iure agere, quod, cum omnes Latini ab Alba oriundi sint, eo foedere teneantur, quo sub Tullo res omnis Albana cum colonis suis in Romanum cesserit imperium; ceterum se utilitatis id magis omnium causa censere ut renovetur id foedus, secundaque potius fortuna populi Romani ut participes Latini fruantur quam urbium excidia vastationesque agrorum, quas Anco prius, patre deinde suo regnante perpessi sint, semper aut exspectent aut patiantur. Haud difficulter persuasum Latinis, quamquam in ea foedere superior Romana res erat; ceterum et capita nominis Latini stare ac sentire cum rege videbant, et [Turnus] sui cuique periculi, si adversatus esset, recens erat documentum. Ita renovatum foedus, indictumque iunioribus Latinorum ut ex foedere die certa ad lucum Ferentinae armati frequentes adessent. Sulle incongruenze del racconto liviano e per un tentativo di loro risoluzione vd. Barzanò 1991. 79
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altri elementi della caratterizzazione negativa del personaggio, cui si è già accennato, e poco vale a stemperarla il concomitante riconoscimento delle sue ottime doti di comandante 82. Si colloca a parte, come si accennava, il foedus relativo alla deditio di Collazia dopo la guerra condotta da Tarquinio Prisco contro i Sabini 83. Livio di nuovo torna a concentrare l’attenzione sugli aspetti formulari del trattato, tralasciando la caratterizzazione del re. Ricompare la struttura tripartita, qui in forma di domande poste da Tarquinio ai delegati collatini e relative risposte, costituite da un solo verbo. Una struttura affine è già stata osservata nel caso delle formule dei Feziali. Tuttavia, diversamente dai casi precedenti, Livio qui non impiega un lessico imperniato intorno ai concetti di iustus e pius, né evidenzia il contrasto tra variabilità delle singole condizioni e immutabilità del formulario attraverso un uso diversificato dei tempi verbali. Tutto il racconto è nel complesso assai più conciso, sebbene Livio, diversamente dal solito, si dilunghi più di Dionigi, il quale non riporta i formulari tramandati dall’annalistica 84. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che la deditio, diversamente da un foedus, almeno fino al termine dell’epoca repubblicana non prevedeva garanzie contrattuali, in quanto Roma si limitava a offrire la propria fides, che la controparte poteva scegliere di accettare o rifiutare 85. Anche all’ultimo provvedimento della sezione, la lex de incensis promulgata da Servio Tullio in concomitanza con l’istituzione del censo, Livio dedica solo una nota assai scarna, relegandola a una brevissima parentesi all’interno della narrazione della riforma centuriata 86. Il severissimo dispositivo sanzionatorio di questa legge è presentato come uno strumento meramente funzionale ad accelerare le operazioni del censimento. Forse proprio l’intento di enfa 1,53,1. 1,38,1-2 Collatia et quidquid citra Collatiam agri erat Sabinis ademptum; Egerius – fratris hic filius erat regis – Collatiae in praesidio relictus. Deditosque Collatinos ita accipio eamque deditionis formulam esse: rex interrogavit: ‘Estisne vos legati oratoresque missi a populo Collatino ut vos populumque Collatinum dederetis?’ – ‘Sumus.’ – ‘Estne populus Collatinus in sua potestate?’ – ‘Est.’ – ‘Deditisne vos populumque Collatinum, urbem, agros, aquam, terminos, delubra, utensilia, divina humanaque omnia, in meam populique Romani dicionem?’ – ‘Dedimus.’ – ‘At ego recipio’. 84 Dion. Hal. 3,50,2-3. 85 Vd. Auliard 2006, 40; 42-43. 86 1,44,1 Censu perfecto quem maturaverat metu legis de incensis latae cum vinculorum minis mortisque […]. 82 83
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tizzare quest’uso finalizzato a scopi considerati buoni e necessari induce Livio a scegliere dalle sue fonti una versione della legge più severa rispetto a quella trasmessaci da Cicerone e Dionigi e dalla giurisprudenza del III sec. d.C.: secondo Livio, infatti, agli incensi potevano essere comminati carcere e morte, mentre gli altri autori ricordano confisca dei beni, fustigazione e schiavitù 87. Le modalità con le quali Livio presenta la legge, in breve, sembrano concorrere ancora una volta al ritratto complessivo di Servio Tullio come re giusto e libertario, ma pronto a usare l’indispensabile severità quando ritenuta necessaria a indurre i sudditi a comportamenti utili al bene della res publica. Numerosi sono i provvedimenti riguardanti guerra ed esercito, e quasi tutti sono riportati da Livio in forma assai sintetica, talvolta imprecisa o inesatta. Il primo riguarda il reclutamento, da parte di Romolo e Tito Tazio, di tre centurie di cavalieri, battezzate Ramnenses, Titienses, Luceres 88. Come in altri casi esaminati in precedenza, questo episodio consente a Livio di inserire una nota antiquaria nel racconto, che consiste nel ricondurre l’origine del primo nome a Romolo e del secondo a Tito Tazio, lasciando irrisolta l’etimologia del terzo con la giustificazione dell’incertezza delle fonti. In realtà, come noto, Varrone e altri autori attribuiscono le denominazioni ricordate da Livio non alle centurie di cavalleria ma alle tribù originarie e le ricollegano a gentilizi etruschi, non ai nomi dei due re 89. Q ui probabilmente Livio da una parte condensa le informazioni a sua disposizione sovrapponendo le centurie di cavalleria, ciascuna delle quali fornita da una tribù, alle tribù stesse, che nell’opera sono menzionate come tali solo assai più tardi 90; dall’altra parte si serve di due false etimologie, forse per rafforzare una volta di più il legame tra istituzioni antichissime e il re fondatore, come era stato nel caso 87 Dion. Hal. 4,15,6 (cf. 5,75,3); Cic., Caec. 99-100; Ulp., fr. 11,11; Gai inst. 1,160. 88 Liv. 1,13,8 Eodem tempore et centuriae tres equitum conscriptae sunt. Ramnenses ab Romulo, ab T. Tatio Titienses appellati: Lucerum nominis et originis causa incerta est. 89 Vd. Varro, ling. 5,55; cf. Plut., Rom. 20,2. Rix 2006, 167-175 nega l’origine etrusca di questi nomi, propendendo per quella latina. Sulla questione vd. anche Cornell 1995, 114-118. 90 10,6,7 (con la variante Ramnes al posto di Ramnenses); cf. Fest. 484 L. Per il legame implicito tra tribù e centurie in Livio vd. Oakley 1997-2005, IV 94-95.
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delle curie 91. Con le tre centurie di cavalieri qui menzionate vanno probabilmente identificati i trecento Celeres di cui si circonda Romolo come guardia del corpo in guerra e in pace, ricordati dallo stesso Livio poco dopo: tale sovrapposizone deriva con ogni probabilità dal confluire di due diverse tradizioni, rintracciabili separatamente in diverse altre fonti 92. Successivamente è Tullo Ostilio a occuparsi dell’esercito. Distrutta Alba e integrata la sua popolazione nella cittadinanza romana, egli accresce gli effettivi di cavalleria e fanteria, introducendo norme che Livio descrive in modo non del tutto chiaro 93: da una parte il re aggiunge alle truppe dieci turmae di cavalleria reclutate tra gli Albani, il che, se si conteggiano 30 cavalieri per turma 94, sembrerebbe implicare un raddoppiamento complessivo della cavalleria, fino a quel momento costituita solo dalle predette tre centurie di Romolo e Tito Tazio; dall’altra parte, il re completa gli organici delle legioni preesistenti ‘eodem supplemento’ e ne arruola di nuove. Q uest’ultima notazione potrebbe significare che Tullo Ostilio integrò un proporzionale numero di Albani anche tra i ranghi della fanteria, ma colpisce l’allusione alla presenza di più di una legione, altamente improbabile in quest’epoca 95. Certo potrebbe trattarsi di un’esagerazione di Livio o della sua fonte, ma in realtà qui probabilmente il termine legio è usato non tanto nel senso tecnicomilitare prettamente romano di ‘legione’, quanto in quello più generico di ‘truppe’ di fanteria, ‘schiere di armati’, come sembra confermare, nello stesso libro, la menzione di una legio Fidenatium e di Sabinas legiones 96. Se così inteso, il passo non crea più particolari difficoltà, e la forzatura va interpretata nell’ottica di un’enfatizzazione delle cure per l’esercito da parte di Tullo Ostilio, che
Vd. Ogilvie 1965, 80. Cf. Mora 1995, 214-215. 1,15,3; cf. Plut., Rom. 26,2. Vd. Ogilvie 1965, 83-84; Scapini 2015, 276. 93 1,30,3 et ut omnium ordinum viribus aliquid ex novo populo adiceretur equitum decem turmas ex Albanis legit, legiones et veteres eodem supplemento explevit et novas scripsit. Il corrispondente passo di Dionigi (3,33,3) ricorda solo che, dopo la presa di Alba, Tullo Ostilio poteva disporre di una quantità doppia di soldati romani e di numerose truppe alleate. 94 Polyb. 6,20,9; 25,1; Fest. 484 L; Isid., orig. 9,3,51. Vd. Dobson 2008, 50. 95 Plut., Rom. 13,1 lascia intendere che già al tempo di Romolo esistevano più legioni, ciascuna delle quali costituita da 3000 fanti e 300 cavalieri, ma si tratta di un dato inverosimile. 96 1,27,5; 37,3. Vd. Luce 1977, 241. 91 92
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Livio vuole tratteggiare come figura esemplare di re guerriero e bellicoso, più ancora di Romolo 97. Delle tre centurie di cavalleria istituite da quest’ultimo, Livio torna a parlare in occasione di una successiva guerra contro i Sabini, quando illustra il fallito tentativo di Tarquinio Prisco di creare nuove centurie da contraddistinguere con il proprio nome: impedito da un vaticinio contrario dell’augure Atto Navio, al quale tenta inutilmente di opporsi, il re aggira l’ostacolo raddoppiando gli effettivi delle centurie preesistenti 98. Le cifre trasmesse in merito da Livio non convincono: raddoppiando gli effettivi delle centurie romulee, infatti, si sarebbe dovuto ottenere un totale complessivo di 600, non 1800 cavalieri; anche supponendo che, dopo l’integrazione degli Albani voluta da Tullo Ostilio, il numero di cavalieri ereditato da Tarquinio ammontasse già a 600, il loro raddoppiamento avrebbe portato a un totale complessivo di 1200. Piuttosto, il numero di 1800 equites coincide in modo sospetto con quelli delle 18 centurie di cavalleria della riforma serviana, il che induce a pensare a un anacronismo da parte di Livio 99. Lo scontro con Atto Navio, del quale il re mette sarcasticamente in dubbio le doti divinatorie finendo malamente scornato, contribuisce ad accentuare l’immagine di Tarquinio come di un uomo pronto a tutto, persino a rasentare l’empietà, pur di realizzare la propria personale ambitio 100. Livio stabilisce un legame eziologico tra l’episodio e il presente di Roma attraverso la menzione dei cosiddetti sex suffragia, derivati appunto dalla geminazione delle centurie, che altri autori attribuiscono invece a Servio Tullio 101. Q uesto gli consente di porre Tarquinio accanto a Romolo e allo stesso Servio Tullio, seppur in posizione subordinata, nell’opera di creazione delle istituzioni fondamentali della città. Cf. Bernard 2000, 198-199; Fox 2015, 293. 1,36,2 Tarquinius equitem maxime suis deesse viribus ratus ad Ramnes, Titienses, Luceres, quas centurias Romulus scripserat, addere alias constituit suoque insignes relinquere nomine; 1,36,7-8 neque tum Tarquinius de equitum centuriis quicquam mutavit; numero alterum tantum adiecit, ut mille et octingenti equites in tribus centuriis essent. Posteriores modo sub iisdem nominibus qui additi erant appellati sunt; quas nunc quia geminatae sunt sex vocant centurias. Dionigi, da parte sua, non ricorda una geminazione delle centurie, ma solo l’abbandono del progetto di crearne di nuove da parte di Tarquinio: Dion. Hal. 3,71,5. 99 Cf. 1,43,9. Vd. Ogilvie 1965, 152. 100 Cf. Penella 2004, 633. 101 Fest. 452 L; vd. Ogilvie 1965, 152. 97 98
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La stessa cosa non vale certo per il Superbo, la cui opera di geminazione delle truppe consiste nel creare nuovi manipoli misti romano-latini dopo l’imposizione del foedus ai Latini 102. Nell’immaginare simili reparti compositi di Romani e alleati Livio opera una forzatura anacronistica 103. Tale forzatura è funzionale a rappresentare il comportamento del Superbo come coerente con le subdole e inique azioni appena compiute a danno dei Latini: e infatti il re, diversamente da Tullo Ostilio che rende gli Albani cittadini di Roma e li integra nell’esercito, ha come scopo quello di privare gli alleati di propri capi e comandi e persino dei signa, rendendoli così dei docili strumenti delle sue ambiziose mire espansionistiche, narrate nel capitolo successivo. Nel primo libro è menzionata un’unica legge agraria, una distribuzione viritana di terra strappata ai nemici voluta da Servio Tullio per riconciliarsi il popolo in seguito alle maldicenze di Tarquinio di governare iniussu populi 104. Il modo in cui Livio ricorda questa lex regia serve a rafforzare una volta di più l’immagine di un sovrano libertario, mentre il fatto che alla lex si accenni in modo estremamente cursorio sembra funzionale a dimostrare l’abilità del re nel difendersi dalla minaccia rappresentata dal giovane Tarquinio e a contrapporre la giusta e moderata condotta del primo ai loschi maneggi del secondo 105. Tutto ciò, naturalmente, non mira a fare di Servio Tullio una sorta di antesignano dei riformatori tardorepubblicani, benché la notizia, anacronistica nei termini in cui è formulata, presenti tratti
102 1,52,6 qui ubi ad edictum Romani regis ex omnibus populis convenere, ne ducem suum neve secretum imperium propriave signa haberent, miscuit manipulos ex Latinis Romanisque ut ex binis singulos faceret binosque ex singulis; ita geminatis manipulis centuriones imposuit. 103 Una forzatura resa ancor più evidente dall’utilizzo del termine ‘manipolo’: la legione manipolare non compare prima del IV secolo a.C. (vd. ad es. Brizzi 20082, 33-37; cf. Ogilvie 1965, 204). Nel passo corrispondente Dionigi accenna solo al fatto che Tarquinio raccolse un gran numero di truppe alleate, superiore a quello dei Romani stessi (Dion. Hal. 4,50,1). 104 1,46,1 Servius quamquam iam usu haud dubie regnum possederat, tamen quia interdum iactari voces a iuvene Tarquinio audiebat se iniussu populi regnare, conciliata prius voluntate plebis agro capto ex hostibus viritim diviso, ausus est ferre ad populum vellent iuberentne se regnare; tantoque consensu quanto haud quisquam alius ante rex est declaratus. 105 Vd. anche Poletti 2013, 137-138; 141-143.
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che risentono chiaramente del discorso politico di età graccana 106. Tale conclusione è rafforzata dal confronto con la corrispondente testimonianza di Dionigi, il quale connota il provvedimento serviano come un atto ben più rivoluzionario: lo storico greco, infatti, ricorda una ridistribuzione ai nullatenenti di terra occupata illegalmente dai ricchi già all’inizio del regno di Servio, il quale in seguito avrebbe addirittura assegnato a degli schiavi manomessi terreni tolti ai nemici in guerra 107. Livio, al contrario, sembra voler far in modo che la condotta del re appaia inquadrata entro un alveo ‘costituzionale’: quando infatti, in strettissima connessione con la legge agraria, ricorda che Servio sottopose al giudizio del popolo la legittimità del suo regno 108, egli impiega un lessico tipico della lex rogata, evidente nella formula ‘vellent iuberentne’ 109. Livio nel primo libro ricorda tre concessioni della cittadinanza da parte dei re a nemici sconfitti in guerra. La prima, a opera di Romolo, è duplice, a vantaggio degli abitanti delle città di Caenina e Antemnae, e avviene su istanza di sua moglie Ersilia, mossa a compassione dalle suppliche delle fanciulle rapite da queste città 110. L’episodio, che si chiude con l’esaltazione della concordia come strumento di consolidamento dello Stato ed è seguito dal breve racconto della sconfitta dei Crustumini e dell’emigrazione di molti di loro a Roma 111, sembra quasi voler anticipare, amplificandolo, l’esito finale della guerra scatenata dal ratto delle donne, quando Romolo e Tito Tazio, su impulso delle donne stesse, sigleranno la pace e decreteranno l’unione dei due popoli in un unico corpo civico 112. Non è da escludere che l’insistenza sul ricorso alla con Vd. Ogilvie 1965, 187; Gabba 1996, 156. Dion. Hal. 4,9,8-11; 27, 1-6. Vd. Marastoni 2009, 25-26. 108 La notizia è riportata anche da Cic., rep. 2,38 e Dion. Hal. 4,12,2-3, i quali, diversamente da Livio e in modo più verisimile, collocano la notizia all’inizio, non alla fine del regno di Servio Tullio. 109 Vd. Ogilvie 1965, 187. 110 1,11,2 duplicique victoria ovantem Romulum Hersilia coniunx precibus raptarum fatigata orat ut parentibus earum det veniam et in civitatem accipiat: ita rem coalescere concordia posse. Facile impetratum. 111 1,11,3-4. 112 Numerose e importanti fonti anche in questo episodio attribuiscono un ruolo centrale a Ersilia: Dion. Hal. 2,45,2; 45,6; Ov., fast. 3,203-212; Cn. Gell. FRHist 14F5 (ap. Gell. 13,23,13); Plut., Rom. 19,7; Dion. Cass. 1,5,5. Cf. Kowalewski 2002, 21-23. 106 107
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cordia da parte di Romolo, un tratto per lo più assente nella tradizione sul personaggio rappresentata da Cicerone e Dionigi 113, Livio voglia istituire un parallelo con la politica di Augusto 114. Tuttavia, in questi passi assai più centrale della figura di Romolo risulta quella di Ersilia e delle altre donne 115: sono loro ad assumere l’iniziativa pacificatrice e a piegare con le loro accorate preghiere il re, imbaldanzito dalla vittoria. La stessa scelta di fare di Ersilia la moglie di Romolo e la promotrice di una parziale riconciliazione anticipata rispetto alla conclusione della guerra non ha corrispettivi prima di Livio, ed è chiaramente tesa ad assegnare alle donne il ruolo di protagoniste nella conclusione della pace e, di conseguenza, nell’istituzione stessa della fondamentale categoria politica della concordia, prontamente accolta e tradotta in azione concreta da Romolo 116. Anche il re guerriero per eccellenza, Tullo Ostilio, concede la cittadinanza a dei nemici sconfitti, quegli Albani che condividono le radici ancestrali con i Romani, hanno partecipato alla fondazione della città 117 e, come si è visto, sono destinati ad essere inquadrati nel suo esercito 118. La notizia del provvedimento consta per lo più di una serie di brevissime principali efficacemente accostate per asindeto. Anche in questo brano sembra che Livio miri soprattutto a esaltare la rinnovata concordia tra antichi nemici, benché il riferimento iniziale alle rovine di Alba distingua in modo piuttosto netto questo episodio dal precedente: ad operare qui non è lo spirito di concordia, ma il diritto del vincitore, per quanto siano evidenziati anche importanti vantaggi per i deportati. L’ultimo provvedimento del genere ricordato da Livio per il periodo della monarchia riguarda diversi trasferimenti a Roma di Vd. Cic., rep. 2,13; Dion. Hal. 2,5,4. Vd. Mineo 2015a, 145. Cf. Stem 2007, 467-468. 115 Vd. ad es. Vandiver 1999, 212-217. Nel racconto di Dionigi è invece Romolo a prendere l’iniziativa di accogliere nella cittadinanza gli abitanti di Caenina e Antemnae: Dion. Hal. 2,35. 116 Vd. Brown 1995, 300-303; 306-310; 312-313. 117 1,6,3. 118 1,30,1-2 Roma interim crescit Albae ruinis. Duplicatur civium numerus; Caelius additur urbi mons, et quo frequentius habitaretur eam sedem Tullus regiae capit ibique habitavit. Principes Albanorum in patres ut ea quoque pars rei publicae cresceret legit, Iulios, Servilios, Q uinctios, Geganios, Curiatios, Cloelios; templumque ordini ab se aucto curiam fecit quae Hostilia usque ad patrum nostrorum aetatem appellata est. Cf. Dion. Hal. 3,29,7. I nomi delle famiglie ricordate da Livio e Dionigi in realtà sembrano di origine latina: vd. Ogilvie 1965, 122-123. 113 114
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popolazioni latine sconfitte, questa volta a opera di Anco Marcio 119. Q ui Livio, quasi a voler giustificare l’azione dura del re, chiarisce quasi subito che Anco seguì morem regum priorum, qui rem Romanam auxerant hostibus in civitatem accipiendis. Per rafforzare questa ideale continuità, indispensabile all’accrescimento della potenza romana, l’autore enfatizza gli ampliamenti dell’abitato resi possibili dall’estensione del corpo civico; allo stesso scopo insiste sulla volontà del re di mettere in collegamento rioni vecchi e nuovi, giungendo persino a una forzatura quando afferma che il ponte Sublicio fu costruito per collegare alla città il Gianicolo, mentre in realtà quest’ultimo fu fortificato per proteggere l’estremità occidentale del ponte già esistente 120. Ne risulta un ritratto di Anco Marcio nel complesso moderatamente positivo, ma assai poco marcato rispetto a quello di altri re. Il suo profilo non si staglia chiaro e nitido, ma emerge quasi sempre solo in controluce, dal confronto con sovrani precedenti 121: con Numa nel brano dell’istituzione della formula feziale della dichiarazione di guerra; con Romolo e Tullo Ostilio qui. Riassumendo, possiamo osservare che nel trattare le leges regiae riguardanti la vita religiosa in rapporto alle relazioni internazionali Livio tende soprattutto a porre in risalto tradizioni fondative che possano fungere da modello ispiratore per la decadente società contemporanea, in perfetto accordo con l’invito programmatico della praefatio a prendere dalla storia i documenta da imitare e quelli da evitare, e in linea con l’interpretazione profondamente pessimistica dei suoi tempi che offre nella praefatio stessa 122. Nei racconti relativi all’introduzione di norme ‘costituzionali’ Livio non solo persegue il medesimo obiettivo, ma mira anche 119 1,33,1-2 Ancus demandata cura sacrorum flaminibus sacerdotibusque aliis, exercitu novo conscripto profectus, Politorium, urbem Latinorum, vi cepit; secutusque morem regum priorum, qui rem Romanam auxerant hostibus in civitatem accipiendis, multitudinem omnem Romam traduxit. Et cum circa Palatium, sedem veterum Romanorum, Sabini Capitolium atque arcem, Caelium montem Albani implessent, Aventinum novae multitudini datum; 1,33,5-6 inde ingenti praeda potens Romam redit, tum quoque multis milibus Latinorum in civitatem acceptis, quibus, ut iungeretur Palatio Aventinum, ad Murciae datae sedes. Ianiculum quoque adiectum, non inopia loci sed ne quando ea arx hostium esset. Id non muro solum sed etiam ob commoditatem itineris ponte sublicio, tum primum in Tiberi facto, coniungi urbi placuit. 120 Vd. Ogilvie 1965, 137. 121 Vd. già Bernard 2000, 198. 122 Praef. 9-10.
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a caratterizzare in modo organico i singoli re, con ritratti chiaroscurali che mescolano tratti positivi e negativi, con prevalenza dei primi tranne che nel Superbo 123. Ne risultano profili caratteristici dei re che, sebbene debitori di una tradizione già da lungo tempo consolidata, spesso risultano sensibilmente diversi da quelli reperibili nelle altre fonti 124. Nelle rimanenti categorie di leges i fini dell’autore restano per lo più gli stessi: nel complesso, sembra che Livio da una parte insista nel creare, a scopo di ammaestramento per i contemporanei, ideali connessioni tra il più remoto passato di Roma e il presente, dall’altra accentui il più possibile la coerenza interna dei ritratti dei sovrani, soprattutto grazie alla contrapposizione con quella di altri re, per accrescere la verisimiglianza del racconto. Q uesta cifra della narrazione appare funzionale alla ricerca stessa della verità storica, che è un obiettivo perseguibile anche per mezzo dell’adattamento di contenuti e forme del racconto ai personaggi. Naturalmente, non si tratta di una verità derivante dalla documentazione oggettiva della storia di un’epoca tanto antica, che di per sé è assai difficilmente ricostruibile 125 e, pertanto, suscettibile di adattamenti e alterazioni 126, quanto dell’immagine che Livio vuole dare di essa in base al suo personale punto di vista. Tale immagine, dunque, risulta costruita sulla base di criteri di verisimiglianza funzionali al messaggio che l’autore intende affidare alla storia 127.
123 Cf. Luce 1977, 239 n. 20: «Most of the kings are represented as versatile and many-sided». Per la complessità del giudizio morale espresso da Livio riguardo ai personaggi della sua opera vd. ad es. Solodow 1979. 124 Cf. Luce 1977, 235-236. 125 Come riconosce Livio stesso: 6,1,2 res cum vetustate nimia obscuras velut quae magno ex intervallo loci vix cernuntur, tum quid rarae per eadem tempora litterae fuere, una custodia fidelis memoriae rerum gestarum, et quod, etiam si quae in commentariis pontificum aliisque publicis privatisque erant monumentis, incensa urbe pleraeque interiere. Cf. 5,21,9 sed in rebus tam antiquis si quae similia veri sint pro veris accipiantur, satis habeam; 7,6,6 fama rerum standum est, ubi certam derogat vetustas fidem. 126 Luce 1977, 224 rileva che «in the first ten books Livy’s freedom in adapting and inventing seems to have gone far beyond anything we find in the later books». 127 Alla medesima conclusione pervenne, trattando del conflitto degli ordini nella prima decade, Ridley 1990.
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FEĐA MILIVOJEVIĆ
LIVY AND THE THIRD ILLYRIAN WAR – AN ANALYTICAL APPROACH *
The historical episode we commonly call the Third Illyrian War (168 bc) ultimately resulted in the final destruction of the Illyrian kingdom on the Eastern shores of the Adriatic 1. Although mainly in the background of a fairly more significant Third Macedonian War, Rome’s actions against the Illyrian king Genthius were not left unnoticed by historical sources. Primarily by Livy, whose remarks about the circumstances on the Eastern shores of the Adriatic from the beginning of the second century bc, the course of war operations, and the imposed measures after the peace treaty is largely the only information recorded in ancient historiography. However, distributed and sporadically written throughout books 41-45, Livy’s information is not without historiographical and chronological problems. In this contribution, I will point out three modern interpretations of Livy’s information about the Third Illyrian War in correlation to the general events of the Third Macedonian War. In the first part of the article, I will discuss the problems regarding our understanding of the general circumstances that preceded not only the Third Illyrian War but also Rome’s intervention against Perseus. Various information from Livy lead to the conclusion that, unlike the previous wars with Macedonia, during the preparations for war Rome was in a far more difficult situation due to Genthius’
* This article represents an expanded, modified, and updated smaller part of the author’s published doctoral thesis. When necessary, the doctoral thesis/book is duly cited. 1 Although usually there is no numbering of the Illyrian wars, the title ‘the Third Illyrian War’ is commonly used to denote the third, and final war Rome waged against the Illyrian kingdom (168/167 bc). Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 445-475 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125338
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indecisiveness regarding his allegiance in the forthcoming battles. For certain aspects, however, there is still no coherent explanation. For example, Genthius’ position as an ally or a foe before 172 bc, the strategic importance of the Roman protectorate situated between Genthius’ and Perseus’ territory, and the affected position of some of the Roman allies in light of Genthius’ seemingly expansionist policy. It seems opportune here to combine several Livy’s paragraphs into one plausible account of the historical circumstances on the Eastern shores of the Adriatic up until 172 bc. Secondly, Livy’s information indicates that the, otherwise unnoticed, second front of war operations in the Third Macedonian War (around Lake Lychnidus) was the result of previous Roman precautionary measures in the area. Brought as a response to Genthius’ indecisiveness and justified strategic reasoning, the activities and the eventual fate of several Roman commanders sent to protect the area around Lake Lychnidus ultimately incited Genthius to align himself with Macedonia. Therefore, it seems necessary here to examine Livy’s account of these events and present the true causes of the war that led to the final destruction of Genthius’ Illyrian kingdom. Additionally, the role of praetor Lucius Anicius Gallus has not been considered properly so far, namely his initial and subsequent task before the culmination of the war. The third and final part re-evaluates Livy’s information about the consequences of the Third Illyrian War. Specifically, Anicius’ proclamation and the division of the Illyrian kingdom into three regions. Relative to Paullus’ simultaneous administrative division of Macedonia, and with a detailed analysis of Anicius’ imposed measures, it is possible to ascertain the borders of Illyrian regions, the type of organization, and the conditions in which some communities assumed a more privileged position on the Eastern shores of the Adriatic. As a conclusion to this part, a brief discussion on the lasting impact of Anicius’ proclamation is required: – its repercussions on future historical events and the creation of the southern border of the future province of Illyricum, constituted more than one hundred years later.
1. Circumstances before the war When we try to determine the causes of the Third Macedonian War it is generally accepted that we should ‘find’ them in the renewed 446
LIVY AND THE THIRD ILLYRIAN WAR
Macedonian interest in Greek affairs 2. Considering what we know about the relations between Rome and Macedonia in the first part of the second century bc, this was certainly a considerable change in Macedonian policy. The consequences of the peace treaty after the Second Macedonian War (197 bc) were drastic for the future of Macedonia 3. Excluded from the military and political events of contemporaneous Greece, Macedonia and in its king Philip V were under strict Roman control 4. A period of stable relations was in effect. Philip became an active Roman ally and the communities on the Eastern shores of the Adriatic benefited from almost twenty years of peace 5. However, after Philip died in 179 bc, circumstances changed significantly. The new king Perseus, unlike his father, ‘realized’ that aggressive Macedonian policy in Greece led only to defeat and adverse peace treaties. He decided, therefore, to implement an altogether different approach, primarily towards the autonomous Greek poleis. The initiative to renew the friendship with Rome was just one part of that policy 6. Perseus systematically restored relations with those Greek communities that had previously been in long-standing wars with Philip 7. Unfortunately for Rome, this could have happened at a more convenient time. The peace treaty of the Second Macedonian War had badly affected the cities in Thessaly, the Aetolian War (191-189 bc) limited the activities of the Aetolian League, while the only true Roman ally – the Achaean League – showed interest in becoming Perseus’ friends. Even though the Achaean League did nothing, fearing Rome’s reaction, it was obvious that Macedonia’s influence over the Greek states increased
Hammond 1988, 505. On Polybius and the outbreak of the war see Golan 1989. Liv. 32,35; Polyb. 18,8. On the peace conferences see Larsen 1936; Eckstein 1987, 281-283; Walbank 1994, 384-393. On Flamininus see Badian 1970; Baldson 1967; Briscoe 1972; Eckstein 1976. 4 An example of this control is Rome’s order to Philip in 185 bc to reduce the territorial limits of Macedonia to the borders of old Macedonia. Liv. 39,27-28. Walbank 1940, 231-235. 5 Philip became a Roman ally in the war against Sparta (195 bc) and refused to align himself with Attalus III and the Aetolians in the Aetolian War (191-189 bc). In more detail see Walbank 1940, 186-258; Gruen 1973. Milivojević 2021, 38-39. 6 Polyb. 25,3. See Liv. 42,41 for Perseus’ interpretation of the unjust treaty between Rome in Macedonia. 7 For a detailed analysis see Derow 1989, 301-307. 2 3
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considerably with Perseus’ reign 8. Yet all of this was tolerable and surmountable with efficient diplomacy. What Rome could not tolerate, however, was the fact that Perseus provided an alternative for the Greek states 9. The policies of those states that did not want to be associated with Rome now became closely related to Macedonia’s, while the existing Roman allies saw an alternative in Perseus’ benevolent attitude towards the Greeks 10. War was hardly avoidable. Livy gives us meaningful information on the events preceding the declaration of war, thus demonstrating the inevitability of a new violent Roman-Macedonian conflict: an entrepreneur named Lucius Rammius reported to the Senate that Perseus had the intention of poisoning Roman officials in Brundisium 11; several Roman commissions sent to Greece and Macedonia brought back to Rome the troubling news of general unrest 12; and Eumenes, the king of Pergamon, arrived in Rome to convince the Senate to act decisively against Perseus because he was planning to go to war against Rome 13. These and many other, similar events occurring in the turbulent period from 174 to 172 bc fuelled the Senate’s animosity towards Perseus 14. And while there is still discussion regarding whether they were the true reasons behind the start of the Third Macedonian War, there is no doubt that, as early as 173 bc, Rome had begun preparations for a war that could no 8 Gruen 1984, 403-419. The weak relations between the Aetolian League and Rome can be seen from the moment when civil war erupted in Aetolia. The Aetolians asked Macedonia for help, not Rome. This is further emphasized by Eumenes in his speech before the Senate. Liv. 42,12,7-8. For the Aetolians and Rome see Polyb. 18,38,1 – 39,7; 18,15; App., Mac. 5-10; Oost 1954, 69-71; Derow 1979, 11-12. See Eckstein 2009 for the analysis of the relations between Rome and the Greek states after 188 bc. For the Achaean League and Rome see Badian 1952b. 9 Derow 1989, 303-308; cf. Liv. 42,40. Even Polybius writes positively on Perseus (25,3,4-8). 10 Milivojević 2021, 38-40. 11 Liv. 42,18. Rammius was a distinguished citizen of Brundisium whose job was to entertain Roman commanders and ambassadors leaving or arriving in Brundisium. Liv. 42,17; 42,40 – 41. Milivojević 2021, 40. 12 In more detail in Hammond 1988, 497-504. 13 Liv. 42,11 – 13. On this Livy is in a contradiction with Polybius (24,5) and Diodorus (29,22). Cf. Liv. 42,40. On Eumenes’ speech and analysis see Liv. 40,20 – 24; 42,12,8-9. On the murder of Arthetaurus, a Roman ally see Liv 42,40; cf. App., Mac. 11,2. 14 Hammond 1988, 497-504. In 175 bc the Dardanians complained against the Bastarnae and Perseus. Liv. 41,19,3-4. In 174 bc the Senate was informed about Perseus’ embassy to Carthage. See Derow 1989, 304.
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longer be postponed. The ensuing Roman diplomatic offensive in 172 bc, charging Perseus with many offences, was only a final act in the official declaration of open hostilities 15. 1.1. Genthius’ indecisiveness and the Roman Protectorate From a retrospective point of view, the general idea about how Rome intended to approach the Third Macedonian War is more or less clear. The course of military operations until Lucius Aemi lius Paullus arrived in Macedonia (168 bc) demonstrates Roman attempts to invade Macedonia through Thessaly with the ultimate goal of defeating Perseus on his own territory 16. However, unlike the previous wars with Macedonia, during the preparations for war itself Rome had to pay significant attention to the events in the Illyrian kingdom. The reason goes back one decade. At approximately the same time as Macedonia, the Illyrian kingdom went through a change in leadership. Pleuratus, probably the most loyal and enduring ally the Romans ever had in any king across the Adriatic, died until 181 bc and his son, Genthius, succeeded the Illyrian throne 17. We do not know Genthius’ attitude towards Rome in the beginning stages of his reign. In all probability, the Illyrian king was overly occupied with the consolidation of his power. Polybius’ indirect information that Genthius’ succession did not happen without problems or territorial concessions gives some insight 18. Other than that, for the most part of the decade between 180 and 170 bc, Livy and other sources are silent on his activities 19. Yet in the events immediately preceding the start of the Third Macedonian War, Genthius appears as an important factor in Rome’s plans on
Hammond 1988, 500. For the course of the war see Meloni 1953, 211-215; Hammond 1988, 505-559. 17 Milivojević 2021, 41. For the relationship between Pleuratus and Rome see Liv. 27,30,3-14; 31,38,7-8; 33,34,11; Polyb. 18,47,12; 21,11,7-8; 21,21,3-4. Cf. Zonar. 9,15. There is no information when Pleuratus died and Genthius became king. May 1946, 53. The change probably occurred after 189 bc, but before 181 bc when Lucius Duronius arrived at Genthius’ court. Liv. 40,42,1-6. 18 Polyb. 32,9 writes that the Delmatae detached themselves from the Illyrian kingdom at the beginning of Genthius’ reign. 19 The complaints on Genthius existed even in 181 bc. Praetor Lucius Duronius accused the Illyrian king of piracy and that he held some Roman citizens against their will. Liv. 40,42,1-6. It is possible that Duronius exaggerated. Wilkes 1969, 24. 15 16
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the Eastern shores of the Adriatic. Livy documents two important events: (1) Dated somewhere in the beginning of 172 bc, as Livy writes 20, while the war with Macedonia awaited, the Issaean embassy arrived in Rome and cast suspicion on Genthius. The Issaeans complained that Genthius ravaged their territories and, more importantly, warned the Senate that his envoys, who were in Rome at the time, were actually Perseus’ spies. When the Illyrian envoys appeared before the Senate they replied that Genthius had sent them merely to refute the Issaean accusations. But when asked why, upon their arrival in Rome, they did not report to a magistrate in order to receive the customary lodging and entertainment; and in order that their arrival and intentions might be known, they hesitated in their answer. The Senate ordered them to leave Rome and decided to send envoys to the Illyrian king with a message that the Roman people are aware of the injustice he had done to their allies. (2) The second event must be placed later in the same year: 172 bc. In the context of a strong Roman diplomatic initiative in Greece, Lucius Decimius was sent from Corcyra to the Illyrian court. His task was to investigate whether Genthius had any regard for friendship with the Roman people and to persuade him to join the Roman side in the war against Perseus 21. Decimius was, of course, calling upon Rome’s longstanding friendship and alliance with Pleuratus, but it seems Genthius was not as prone to proRoman politics as his father 22. The entire episode ended in failure. Genthius, along with Illyrian princes, allegedly bribed Decimius so that he would not have to decide on his involvement in the war. The Senate was informed about the bribe and Decimius returned to Rome in disgrace 23. Whether or not these two bits of information from Livy are directly connected, and Decimius’ task came as a consequence of the Issaean embassy in Rome, is open to debate. It does not change the fact that Genthius became an object of suspicion in Rome on account of his indecision. Moreover, in a general description Liv. 42,26. Liv. 42,37,1-2. Decimius was previously sent to Greece. Cf. App., Mac. 11,4. 22 Wilkes 1969, 24; Domić-Kunić 1993, 217. See n. 16. Milivojević 2021, 41. 23 Liv. 42,45,8. 20 21
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of the circumstances at the very beginning of 171 bc, Livy writes that, of all the kings and princes who had already decided to side with either Rome or Macedonia in the war, Genthius was the only one still hesitant 24. It seemed he would decide on his involvement through impulse rather than reasoning – Genthius rex Illyriorum fecerat potius cur suspectus esset Romanis quam satis statuerat, utram foveret partem impetuque magis quam consilio his aut illis se adiuncturus videbatur 25. This changed the whole concept of the war against Macedonia. Genthius’ capricious character meant he could join Perseus just as easily as Rome and, in such a scenario, for the first time since any Roman army crossed the Adriatic (in the so called First Illyrian War of 229 bc), Rome would have to do what it repeatedly tried to avoid in any subsequent military conflict on the Eastern shores of the Adriatic, i.e. wage war against the combined Illyrian and Macedonian kingdoms 26. Other than the fact that simultaneous engagements in Macedonia and on the Adriatic would divide Roman forces and endanger the position of Roman allies, there was an even bigger problem. The consequences of leading a war on two fronts would mainly be reflected upon the integrity of the Roman Protectorate – an area comprised of free Roman allies, geographically positioned exactly between Genthius’ and Perseus’ kingdoms (see Map 1) 27. There are three strategic reasons why the Protectorate was so important to Rome: (1) As the course of the First Macedonian War demonstrated, the coastal area around Apollonia and Dyrrhachium served as a buffer zone between Macedonia and the Adriatic with which Rome prevented any possible enemy attempt to transfer their forces into Italy 28. Marcus Valerius Laevinus’ report to the Senate in 210 bc clearly emphasized the significance of holding the coastal belt to protect Italy from Philip’s invasion 29. Conceptually, the same was Liv. 42,29. Liv. 42,29,11. 26 Milivojević 2021, 41-42. Summary of events in Badian 1952a; Hammond 1968. For Rome’s similar strategic reasoning in 219 bc see Bilić-Dujmušić 2017, 333-341. 27 Allies such as Apollonia, Dyrrhachium, the Parthini, etc. South-eastern borded of Genthius’ territory was the river Mat, while Perseus’ kingdom on the west bordered with Lake Lychnidus (Map 1). See Hammond 1988, 153. 28 See Liv. 24,10,4-5; 24,40,16-17; 26,25,1-6. Milivojević 2021, 43. 29 Liv. 26,28,2-3. For the strategic importance of the protectorate see Hammond 1968. 24 25
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true at the beginning of the Third Macedonian War. Rome had no reason to believe Perseus would not implement the strategy of his father. Thus, the holding of the coastal belt was imperative in preventing any possible invasion of Italy. (2) Second, by holding the Protectorate, Rome controlled the supply line from Italy to Macedonia. The distance between Brun disium and Apollonia (or Dyrrhachium) can be covered in roughly one day of sailing and it served as the best possible route for supplying the army across the Adriatic. (3) Finally, the most evident reason is that the coastal belt of the Protectorate was the most suitable disembarkation zone for any army sent from the direction of Brundisium. In the Second Macedonian War, consular armies disembarked here regularly and further advanced towards Epirus or Macedonia 30. It is no surprise, then, that the very first army Rome sent to engage Perseus at the outset of the Third Macedonian War disembarked exactly in Nymphaeum, in the vicinity of Apollonia 31. Therefore, considering the start of the Third Macedonian War and the strategic importance of the Protectorate, Rome found itself in an adverse situation. Genthius’ indecisiveness was a precarious factor in the previously established plan for how Rome should engage Perseus. The Illyrian king commanded one of the biggest navies on the Eastern shores of the Adriatic. Together with a sizable land army and the political influence from the river Neretva in the north-west to Lissus in the south-east (at least), Genthius’ eventual decision on his involvement was relevant to all parties engaged in the war. We can argue whether his neutral stand came from his general anti-Roman sentiment, or from a careful assessment of his position between the most powerful state of the Western Mediterranean and one of the strongest Hellenistic monarchies. From a Roman perspective, however, Genthius created a problem for which certain precautionary measures were necessary. Given the circumstances, there was actually only one thing Rome could do: engage additional forces and place them in important strategic locations within the Protectorate. Livy writes about this in books 42 and 43 and his information is crucial for understanding how
Such as P. Sulpicius Galba in 200 bc. Liv. 31,22; Zonar. 9,15. Liv. 42,36,4-5. Milivojević 2021, 43.
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Genthius ultimately chose Perseus’ side and thus started the Third Illyrian War.
2. Roman reaction and the Third Illyrian War Rome did not hesitate to take action in securing the Roman Protectorate by any means. As Livy writes, roughly at the same time that the Issaeans informed the Senate on Genthius’ suspicious behaviour (first part of 172 bc), the task of safeguarding the vital areas in the Roman Protectorate was entrusted to Gnaeus Sicinius (praetor peregrinus). Perseus was declared an enemy of Rome and the Senate ordered Gnaeus Sicinius to enlist troops and transport them from Brundisium to Apollonia as rapidly as possible and distribute them as garrisons in the cities on the coast. The objective was to protect the coastal area of the Protectorate where the consul, to whom the war against Macedonia will be allotted, might safely arrive with his fleet and disembark his own army 32. Despite the urgency, Sicinius completed his task the following year 33, transferring 5000 infantry and 300 cavalry to Nymphaeum, in the vicinity of Apollonia 34. Further on, after setting up camp in Nymphaeum, Sicinius sent tribunes with 2000 troops to occupy the forts of the Dassareti and the Illyrians, the very communities that had asked for garrisons so they could be better protected from their Macedonian neighbours 35. Whether the decision to send troops to the forts of the Dassareti and the Illyrians was originally conceived by the Senate or whether it was the result of Sicinius’ assessment upon arrival, the historical context of his mission is clear. Until the arrival of the consul tasked with the war against Macedonia, Sicinius was supposed to protect the coastal area around Apollonia and Dyrrhachium.
32 Liv. 42,18,1-4. On Sicinius before he went to war. See Liv. 39,39,1-2; 39,45,1-7; 41,13,4-5; 42,10,6-8; 42,19,6-8; 42,22,5-8. 33 After the Senate entrusted Sicinius with this task, the Macedonian war was postponed for one year. Liv. 41,18,6. 34 Liv. 42,36,8-9. Cf. Dio 20 = Zonar. 9,22. 35 Ibid. There is a discussion on how many soldiers Sicinius transferred. In Liv. 42,27 there is a much larger number. Gelzer 1935, 299; Walbank 1941, 82-86; Gruen 1984, 413 n. 85; Brunt 1971, 659; Luce 1977, 123-129; Warrior 1981, 8-14, 23; Brennan 2000, 122-123; Erdkamp 2006, 55-56. Additional confirmation that the Roman army crossed the Adriatic is in Liv. 42,40. Walbank 1941.
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The fortification of the Dassareti and the Illyrians, on the other hand, happened in the area stretching from Lake Lychnidus to the slopes of Sharr Mountain in the north (Scordus mons) 36, and was necessary for three strategic reasons (see Map 2) 37: (1) Whoever holds this area controls the only safe land communication between the Illyrian and Macedonian kingdoms. The nominal borders of the Protectorate stretched from the region around Lissus in the north, along with the valley of Mati River (Mathis) to the south-east and the territory of the Parthini, further along, the upper course of the river Genusus (Skhumbin) up to Lake Lychnidus. Therefore, the only available route through which Perseus and Genthius could have communicated is north of Lake Lychnidus and across the Sharr Mountain. The ambassadors would then traverse the region Livy calls Illyrici solitudines 38 and, in a few days’ time, arrive at Genthius’ capital, Scodra (Skadar). When the negotiations between Perseus and Genthius started (169 bc), the Macedonian envoys travelled to the Illyrian court specifically through this area 39. With the placement of garrisons on key control points, Sicinius would secure the area and complicate any form of communication between the two kings. (2) Considering the primary Roman plan to engage Perseus in Thessaly, the area around Lake Lychnidus was the only one from which Perseus, starting from western Macedonia, could have penetrated into the Roman Protectorate. If the Roman positions around Lake Lychnidus fell, it would have been easy for Perseus to advance along the valley of Genusus all the way up to the coastal area around Dyrrhachium and Apollonia. Rome’s supply line and the disembarkation zone would be endangered. During the previous Macedonian wars, Philip V moved through this area consistently and on more than one occasion caused the Romans and Illyrians trouble 40. With the positioning of troops in the area, Rome would create a first line of defence which could block Perseus’ attempts Liv. 43,20,1. Polyb. 28,8,3. Strabo 7. fr. 10. Milivojević 2021, 43. 38 Liv. 43,20,1. 39 Liv. 43,19 – 20; Polyb. 28,8,3; Plut., Aem. 13. For the position of ‘desert Illyria’ (cf. Polyb. 28,8,3) see Walbank 1976, 269 n. 38; Hammond 1988, 524 n. 2. 40 For the course of these attacks through Lychnidus in the First and Second Macedonian War see Walbank 1940, 11, 68, 80, 92, 141; Errington 1989a, 81-107 and 1989b, 244-274. 36 37
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or at least try to stop his advancement until the arrival of considerable reinforcements. In that way the entrance to the Roman Protectorate could be protected and a war on two fronts could possibly be avoided. (3) The concept of a war on two fronts should be seen from both perspectives. Just as Rome tried to avoid it, so did the Macedonian king. The area around Lake Lychnidus was not only the entrance to the Roman Protectorate but also to western Macedonia. With simultaneous advancement in Thessaly and from Lake Lychnidus to western Macedonia (via Dibra-Popovec) 41, Rome would endanger Perseus’ position on two fronts and force him to separate his troops or levy additional ones. The Macedonian king knew this very well and in the winter at the beginning of 169 bc attacked the region because the Illyrians, as Livy writes, were giving the Romans good positions 42. These three points explain why a continuous engagement of Roman forces was necessary in the area around Lake Lychnidus. Soon after Sicinius sent troops to the Dassareti and the Illyrians, he had to detach from his army an extra 2000 soldiers for the defense of Larisa 43. Both decisions were the result of extreme caution and premeditation. Larisa was an important stronghold in Thessaly where the consul Licinius had set up camp before the battle of Callicinus, while the area north of Lake Lychnidus was crucial for the safety of the Roman Protectorate. Ultimately, Sicinius did what he was sent to do: he secured the coastal area where the consul would soon disembark and sent an advance force to Thessaly and occupied relevant positions to protect the entrance to the Roman Protectorate. After having successfully completed his task, Sicinius returned to Italy and, in the following year (170 bc), he was involved in solving yet another problem across the Adriatic – with the Carnians, Histrians, and Iapodians 44.
Hammond 1988: 523 observes these routes in the context of 169 bc. Liv. 43,18,3. Further discussed below. 43 Liv. 42,47,10-11. 44 Liv. 43,5,10. Livy writes the cognomen Gaius, but in all probability it should be Gnaeus. MRR I 423 n. 7; Gruen 1984, 227. 41 42
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2.1. Appius Claudius Centho and Perseus’ counterattack There should be no doubt that Sicinius’ activities on the Eastern shores of the Adriatic marked the beginning of the Third Macedonian War. Immediately after the completion of his task, a consular army led by Publius Licinius Crassus disembarked in Nymphaeum and Perseus declared war on Rome 45. However, the subsequent war operations were far from advantageous to Rome. The conflicts of 171 and 170 bc demonstrated Perseus’ ability to command his troops with the utmost diligence 46. The majority of Roman attempts to invade Macedonia, under the leadership of Licinius (171 bc) and his successor, Aulus Hostilius Mancinus (170 bc), were fairly unorganized and limited to plundering Greek cities 47. The initiative in the war was on the Macedonian side and Rome needed to do something. In the meantime, despite the positioning of Sicinius’ garrisons, Livy writes that Genthius’ indecisiveness now posed an even bigger threat to Rome and its desirable outcome of the war with Perseus. There is no information to explain why, but Rome’s suspicion in Genthius increased in 170 bc. War was being waged only in Macedonia and the Senate thought additional measures were necessary. On one hand, two thousand troops were placed on eight fully equipped ships and sent from Brundisium to Issa, where Gaius Furius was in charge of the island with two Issaean ships. Simultaneously, the consul in Macedonia, Aulus Hostilius Mancinus, sent Appius Claudius Centho to Illyricum with 4000 troops to protect the bordering communities. Unhappy with the army he was given, Claudius asked for additional troops from Rome’s allies and amassed altogether 8000 troops of different origin. After traversing the whole region, he occupied the position in Lychnidus, among the Dassareti 48. In the case of Furius, the intentions of the Senate are rather evident. Furius was in charge of Issa (legatum Issam) and, among other things, wached over the events in the Illyrian Kingdom. Liv. 42,49 – 51. Perseus defeated Licinius in a cavalry skirmish near Callicinus. Liv. 42,58 – 60. Derow 1989, 308-316. 47 Hammond 1988, 505-523. 48 Liv. 43,9. This is not the first mention of Gaius Furius. In the same year when Lucius Duronius returned from Illyricum there was a war against the Histri and Furius was in charge of the Italian coast from Tarentum to Aquileia. Liv. 41,1. 45 46
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If Genthius decided on a war against Rome, Furius would be among the first to find out and the island would serve (as it already had) as an advantageously positioned naval base 49. On the other hand, the arrival of Appius Claudius Centho in Lychnidus among the Dassareti, cannot be a coincidence. Claudius assumed a dominant position in a region where Sicinius, more than one year prior, had sent tribunes with 2000 troops. There were two good reasons why. (1) Livy’s information suggests that Claudius’ appointment as the supreme commander in the Roman Protectorate was the result of the Senate’s further suspicion in Genthius. What we know about the differences in circumstances across the Adriatic between 172 and 170 bc supports such a conclusion. Genthius’ indecisiveness was not equally problematic at the beginning of the Third Macedonian War and in 170 bc. Sicinius’ task of securing the vital areas of the Roman Protectorate occurred when the war with Perseus had not yet started, while Claudius’ task in 170 bc came after two unsuccessful war seasons in which the Roman army was inferior to Perseus’ 50. There was no more unfavorable moment for Rome than 170 bc for Genthius to align himself with Perseus. Precautionary measures were again necessary. (2) Secondly, by way of another bit of Livy’s information, we know about Perseus’ successful attack on the Dardanians. The description is lost but, judging from the context, the attack happened in the second half of 170 bc and the aim of the Macedonian king was to secure his north-western borders 51. Perseus’ presence in the vicinity of Lychnidus called into question the safety of the area which Sicinius had previously secured. The attack on the Dardanians could have been just the start of a larger plan by Perseus to fortify the passages towards his kingdom and Rome needed to secure the key positions which guarded the entrance to the Protectorate and western Macedonia. Indeed, the decision to send Appius Claudius Centho to Illyricum seemed vital given the circumstances. Genthius’ recent suspi49 Milivojević 2021, 44-45. The information about eight fully equipped ships could be wrong. Weissenborn suggests decem et octo, and Thiel duodecim. Weissenborn 1866, 170. Thiel 1946, 377. Cf. Schlesinger 1951, 34. 50 Derow 1989, 308-316. Milivojević 2021, 47-49. 51 The description of the attack is lost. Liv. 43,19,13. Hammond 1988, 521; Papazoglu 2007, 130. For the reference in Diod. 30,4 see Papazoglu 2007, 129 n. 127.
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cious behavior required action and Perseus’ initiative to secure his borders needed an equal reaction. The intention was sound. A substantial influx of troops to the border areas of the Protectorate, led by an experienced commander, could have given Rome the necessary peace of mind to deal with bigger problems it had in Thessaly. As it turned out, it seems that Claudius’ arrival in Lychnidus did not improve Rome’s position, but rather marked the downfall of all Roman positions in the region. Livy writes that, not long after he chose Lychnidus as the center of his operations, Claudius attacked Uscana, the biggest city of the Penesti 52. This occurred during the winter at the end of 170 bc when Uscana was a part of Perseus’ territory and had a Macedonian garrison. Claudius was led to believe that the inhabitants of the city would rise against the Macedonians if he were to attack the city. Without taking the necessary precautions, as Livy judges, Claudius launched an attack during the night, but a sudden onslaught from the city completely shattered his army. During the retreat he lost more men than in the attack, eventually returning to Lychnidus with only 2000 troops 53. In theory, Claudius’ attack on Uscana made strategic sense. All the advantages of controlling the region north of Lake Lychnidus were available by holding its key positions, of which Uscana was the most dominant 54. Yet, being in Perseus’ territory, Uscana gave these advantages to the Macedonians. Claudius’ attempt to eliminate the threat to Roman positions in the region was reasonable enough. Whether or not the outcome of the attack was inevitable due to Claudius’ mind-blinding greed, as Livy would have it 55, Claudius did fail to take the city and his defeat was thus the biggest one the Romans had endured so far in the course of the Third Macedonian War. However, the most significant consequence was yet to come. Incited by Roman activities in the region (i.e. Claudius’), Perseus finally decided to protect the western borders and attack the Roman positions and begin negotiations with Genthius. Kitchevo. With quoted literature see Proeva – O. Brankoviḱ 2002; Proeva
52
2014.
53 Liv. 43,10. Livy brings a detailed description of the battle. For the Senate’s reaction on Claudius’ defeat see Liv. 43,11. 54 Uscana controlled three important communications. Towards western Macedonia (via Makedonski Brod-Prilep); to the north and the slopes of Sharr Mountain (via Gostivar-Tetovo); and to the entrance to the Roman Protectorate (via PopoecPesočani-Struga-Ohrid). See Map 2. 55 Liv. 43,10,3.
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Livy extensively writes about this event 56. In the same winter when Claudius attacked Uscana (at the turn of 170/169 bc) Perseus decided to crush the will of his neighbours so he would not have to consider them a threat in spring when the war operations with Rome were to continue. So, when the snow blocked the mountain passes from Thessaly, he set out to the only area, as Livy writes, which allowed access to Macedonia from Illyricum and where the Illyrians were giving the Romans good positions. Perseus also thought if he conquered the nearest Illyrians he would probably encourage Genthius to ally himself with Macedonia. The attack was a complete success. Starting from Stuberra, Perseus soon enough received the surrender of a Roman garrison from Uscana 57; captured two important cities – Draudacium (Gostivar), Oaneum (Tetovo) 58; and, with the mediation of the spared Roman commanders, also received the surrender of 11 oppida and 1500 Roman soldiers. Upon completion, Perseus sent Pleuratus the Illyrian and Adeus the Macedonian to Genthius among the Labeati 59. Finally, Perseus returned to the region, strengthened the garrisons in Uscana and other cities he conquered and returned to Macedonia 60. Unfortunately, we do not know where exactly the eleven oppida and 1500 Roman soldiers were stationed. Considering Perseus’ advance towards today’s Polog valley, these forts might have been positioned either in the Polog valley or immediately before Draudacium. What can be said with absolute certainty is that this Perseus’ attack, in the winter at the turn of 170/169 bc, changed everything. The chain capitulation of Roman positions in the region Liv. 43,18 – 20. Liv. 43,18,5-11. The mention of a Roman garrison in Uscana, after Claudius’ defeat, implies that Claudius had some successes in the region after his defeat. This aspect of Claudius’ command in Illyricum is analysed in another article. Milivojević 2019; id. 2021, 46-48. 58 Livy’s description of Oaneum has incited several authors to assume that Oaneum indeed is Tetovo. See Vulić 1934, 28, 39; Mack 1951, 177; Papazoglu 1957, 66 (following Vulić); Mirdita 1975, 208-209. The river Artatus (where Oaneum lies) must be Vardar (the same opinion as Vulić 1934, 39), possibly even its branch – Pena, which emerges on Sharr Mountain and flows through Tetovo to Vardar. Vulić 1934, 28, 39, proposed a reasonable identification of Gostivar as Draudacium. On the name of the city see Krahe 1929, 23, 72, 87; Mayer 1957, 128; id. 1959, 39. Mirdita 1975, 211 proposed Gradec near Gostivar as Draudacium. See Milivojević 2021, 47 n. 168. 59 Liv. 43,19. 60 Liv. 43,20. An identical report on the envoys exists in Polybius (28,8), with a minor difference in the narration of events. Papazoglu 2007, 129-130. 56 57
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north of Lake Lychnidus was detrimental to the Roman cause. On this, the second front of war operations in the Third Macedonian War, Rome lost. The garrisons that Sicinius had placed in the region capitulated, Claudius was defeated and retreated to Lychnidus; Perseus controlled the region and most importantly – the negotiations between Perseus and Genthius commenced. Seemingly it was only a matter of time when the Illyrian and Macedonian king would jointly attack the weakened Roman positions 61. 2.2. The arrival of Lucius Anicius Gallus and the Third Illyrian War Yet we know very little about Genthius, the Protectorate, or the Roman forces in Lychnidus after Perseus’ attack in 169 bc. Livy and our other sources are more ‘focused’ on the events in Thessaly; the arrival of a new consul, Q uintus Marcius Philippus; his advance into Macedonia; the role of Rhodes in the war, etc. 62. Based on the sparse information Livy provides we know two things: (1) Appius Claudius Centho did not sit idle in Lychnidus. In the war season of 169 bc he decided to attack Phanote in Epirus because he believed he would clear his name of the shameful defeat in Illyricum by taking this strong city. Unfortunately, he had to abandon the siege and retreat to Lychnidus with heavy losses 63. In the meantime, another Roman commander in Lychnidus, Lucius Coelius tried to reclaim Uscana from the Macedonians (Uscanam retinere), but just as Claudius at Uscana, Coelius retreated to Lychnidus with heavy losses 64. (2) In the second place, Genthius’ negotiations with Perseus seemed to be delayed on account of money. The Illyrian king was not averse to an alliance with Macedonia, but he needed money which Perseus clearly did not want to give 65. This was an impasse, for the time being, benefiting only Rome. Nevertheless, the turning point in the events of 169 bc, and indeed in the whole Third Macedonian War, was the election of Lucius Aemilius Paullus as consul for the upcoming 168 bc. Paullus received Macedonia as his province and he immediately requested 63 64 65 61 62
Milivojević 2021, 48. Meloni 1953, 288-290; Hammond 1988, 523-531. Liv. 43,21,4-5. Liv. 43,21,1-4. Liv. 43,20. Polyb. 28,8,1 – 9,13. Dio 20,66. Diod. 30,9. Plut., Aem. 9.
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that the Senate send envoys to Macedonia to inspect the armies and report their findings 66. The feedback vividly illustrated the gravity of the situation in which the Romans found themselves across the Adriatic. The envoys returned to Rome at the beginning of 168 bc and they reported the following 67: the army of the consul Q . Marcius Phillipus was led into Macedonia by trackless passes, had enough grain for only six days, and was not strong enough to engage Perseus. In Lychnidus, Claudius did not have a strong enough force to distract Perseus on a second front of war operations. What is more, Claudius implied that if he were to not receive reinforcements, or were the existing army not to be transferred to safer positions, the danger for himself and his soldiers was great 68. As the envoys finished their report, the Senate made two decisions. Lucius Aemilius Paullus was ordered to immediately leave for Macedonia and assume the position of supreme commander of Roman forces. In Lychnidus, the commander Appius Claudius Centho was to be succeeded by praetor peregrinus, Lucius Anicius Gallus 69. In no small regard, Paullus’ and Anicius’ overt preparations for war inadvertently caused a series of events that ultimately led to the ourbreak of the Third Illyrian War. And quite expectedly. From a Macedonian perspective, the largest Roman army yet was about to cross the Adriatic. Anicius was charged with transferring and leading a force numbering two legions (and an equal number of allies); Paullus’ two legions were to be supplemented with an unknown number of allies (and probably additional Roman troops); all the while Paullus’ consular colleague, G. Licinius was ordered by the Senate to lead 14,000 recruits from Gaul to Macedonia as a relief force to Marcius and his men 70. It was an entirely different Roman plan of action. For the first time in the Third Macdonian War the Senate decided to simultaneously send equally strong armies to Thessaly and Lychnidus. Apparently, the objective was to divide the Macedonian forces between two fronts of war operations and eventually surround them.
68 69 70 66 67
Liv. 44,18. Liv. 44,20. Liv. 44,20,5. Liv. 44,21,1-5. For the preparations see Liv. 44,21,5-11.
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Perseus knew this all too well. Controlling the entrances to his kingdom was of vital importance for the defensive and offensive strategies he employed during the war. It had worked very well in previous war seasons. With the exception of Marcius’ endeavour, Thessaly was so far secure, while all Roman attempts in the region north of Lychnidus (such as Claudius’ and Coelius’), were blocked and ineffective without reinforcements (especially after the surrender of Roman garrisons in the winter of 170/169 bc). This time was different. Although the influx of new legions in Thessaly was not something new in general, for Lychnidus and the surrounding area it surely was. Between 170 and 168 bc Claudius had at his disposal mostly allied troops with no reinforcements from Italy or even the army in Thessaly. His repeated pleas, first to the Achaeans and then to Paullus’ delegates, were denied for unknown reasons. Even Polybius expresses his bewilderment 71. Whatever justification lay behind a somewhat Roman disregard for Claudius’ problems, the fact remains: on the second front of war operations in the Third Macedonian War, Perseus had nothing to fear until 168 bc. The western entrance to his kingdom was secure. That is, until the Senate decided to send Anicius with roughly 20,000 troops to Lychnidus. Perseus needed to respond. Two big Roman armies were about to overwhelm the western and southern entrances to Macedonia. Therefore, the Macedonian king considered he could no longer delay the negotiations with Genthius on his involvement in the war 72. The episode is well known. Genthius received partial payment for his alliance and was tricked into showing open hostility to Rome. Livy’s later description of Genthius’ surrender to Anicius reveals his regret for foolish actions 73, but by this point it was too late. By imprisoning Marcus Perperna and Lucius Petillius, the Roman ambassadors currently visiting his court, the Illyrian king had aligned himself with Perseus and the Third Illyrian War had officially started 74. Whether or not Perseus’ idea was to counter Anicius’ arrival in Lychnidus by engaging Genthius in the war is a matter for discus Polyb. 28,13,7-14. Kromayer 1907, 265 n. 1, 293, 338. Gruen 1984, 509. Liv. 44,23. 73 See n. 82. 74 Liv. 44,27,8-12. Perseus promised Genthius 300 talents, but gave him only 10 with the promise of the rest after he declared war on Rome. App., Ill. 9. 71 72
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sion elsewhere. The Illyrian king finally did what Rome had reason to believe he would do even before the Third Macedonian War had started. Genthius’ alliance with Perseus was only a matter of current circumstances. Until 168 bc, Perseus was winning the Third Macedonian War and Genthius only aligned himself with the side he thought was going to win. There was no official declaration of war. The imprisonment of Perperna and Petillius was good enough for Rome to send an army. And even though Lucius Anicius is generally associated with leading it to victory in the Third Illyrian War, initially the Senate did not charge him with the task. Livy is rather clear on the matter: additus est his tertius L. Anicius praetor, cuius inter peregrinos iurisdictio erat; eum in provinciam Illyricum circa Lychnidum Ap. Claudio succedere placuit 75. Anicius’ initial command was only to replace Claudius in Lychnidus. Indeed, eventually he was in charge of the Third Illyrian War, which means that Genthius’ declaration of war must have happened after the Senate’s decision on new commanders in Macedonia and Illyricum 76. However, the imprisonment of the Roman ambassadors started a war for which only the supreme commander or Roman forces in the Protectorate could be in charge. With the Senate’s decision, Anicius was only a designatus to the position held by Claudius. That is, until he arrived on the Eastern shores of the Adriatic and the handover of duty was performed. This would explain Livy’s information on the beginning stages of the Third Illyrian War. Genthius gathered 15,000 troops in Lissus and attacked Bassania, a Roman ally. Claudius heard of the alliance between Genthius and Perseus and advanced along the valley of the river Genusus to deal with the Illyrian king. He may have even succeeded in defeating Genthius and finally redeeming his name, but Livy writes that Anicius arrived in Apollonia, heard what was happening and ordered Claudius to stop and wait for his arrival 77. The remainder of the war operations in the Third Illyrian War is more or less known. After arriving in Apollonia and stopping Claudius’ advance, Anicius marched to save Bassania when he was informed that sixty Genthius’ ships were ravaging the territory Liv. 44,21,4. Milivojević 2021, 49. Otherwise, Livy would have stipulated that Anicius went to war with Genthius. Milivojević 2021, 49. 77 Liv. 44,30,10-15. Only then does Livy write that Anicius’ task was the campaign against Genthius. Liv. 44,30,2. Milivojević 2021, 49-50. 75 76
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of Dyrrhachium and Apollonia. A naval battle ensued, but Livy’s description is mostly lost: tum classis ad…to eo tradiderunt se 78. Illyrian ships obviously surrendered and Anicius advanced towards Scodra where Genthius retreated 79. Believing in the good fortune of the campaign as a whole, Anicius attacked and routed the Illyrian forces beneath the city walls of Scodra. Panic overwhelmed the Illyrians and Genthius, left with no other option 80, entered into negotiations which would end the war. Under the pretense of a cordial dinner with the praetor, Genthius arrived in the Roman camp and was put under the guard of Gaius Cassius. Scodra was taken and the Roman ambassadors, Petillius and Perperna, released from prison. Perperna was sent to Meteon where he captured Genthius’ family members and Anicius sent word to Rome that the war was over, the Illyrian king captured and Illyricum placed in dicione populi Romani 81.
3. Consequences of the Third Illyrian War Thus ended the war Livy found unique in its conclusion: word of its successful ending had reached the Roman people before the news that it had even begun 82. During the conversation with Anicius, Genthius fell to his knees before the praetor and blamed his own stupidity for, as Livy puts it, having received a mere ten talents, hardly the fee of a gladiator, even though he was a king negotiating with a king 83. Interestingly enough, his defeat took place at approximately the same time as Perseus’ in the decisive battle of the Third Macedonian War (Pydna) 84. Genthius and Perseus were defeated and, as the year was coming to an end (168 bc), the Senate decided Liv. 44,30,14-15. Another confirmation of the surrender of the ships is in App., Ill. 9. 80 Genthius was waiting for the arrival of his brother Caravantius with reinforcements. But he never came. Liv. 44,30,7-9; 44,31,10. 81 Liv. 44,30 – 32; 45,3,1-2. See also App., Ill. 9; Zonar. 9,24; Plut., Aem. 13,3; Eutrop. 4,6 has an error that Gaius Anicius defeated Genthius. Ruf. Fest. 7,5; Flor., epit. 1,29; Diod. 31,8,4; Athen. 14, p. 615,4. Anicius celebrated his triumph over Genthius and Illyricum. See Liv. 45,43. Eutrop. 4,8; Vell. 1,9,5; Polyb. 30,22 brings a report on the triumph where Anicius, allegedly, acted disgracefully. 82 Liv. 44,32,5. 83 Liv. 44,31,12-15. 84 Liv. 44,32 – 44. See Deny 2000 for the analysis of the chronology of 168/ 167 bc (especially table on page 436). Cf. Beloch 1918, 412-419; Oost 1953. 78 79
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that Paullus and Anicius should both remain in their provinces until, on the advice of the Senate’s legates, they arrange the postwar circumstances 85. The downfall of Perseus and Genthius was followed by several decisions with which Rome tried to ensure peace within Macedonia and throughout the former Illyrian kingdom. One of the final acts in this process, the proclamation of Lucius Anicius in Scodra, contains all the decisions for the territory and communities of the Illyrian kingdom, and is important for understanding the conditions on the Eastern shores of the Adriatic after the termination of Genthius’ kingdom. Therefore, as a conclusion to this article, the consequences of the Third Illyrian War and Anicius’ proclamation will be succinctly and concisely addressed. First and foremost, the general idea regarding the role that Rome intended to play in the post-war circumstances was clear. As Livy writes, the arrangement of Macedonia and Illyricum had to be something other than monarchical 86. Besides naming the ten legates for Macedonia and the five for Illyricum, the Senate decided that the Macedonians and Illyrians should have their freedom (in order to make it clear that their freedom was secure under the protection of Rome). Macedonia was meant to be divided into four parts and its people were obligated to pay the Romans half the amount of taxes they had previously been giving to their kings, while a similar settlement was intended for Illyricum 87. The details of the settlement were left to Paullus and Anicius, as the supreme commanders. As Livy writes for Illyricum, after Genthius was captured, Anicius placed garrisons in important cities. Gabinius was in charge of Scodra, as the centre of the former kingdom, while Gaius Licinius held Rhizon and Olcinium. A short episode about Anicius in Epirus ensued and he returned to Illyricum when the winter had already started 88. Just as Paullus had in Macedonia, Anicius called a meeting with the leading people from the area of his operations. The meeting was held in Scodra, where the five legates from Rome arrived. Anicius proclaimed Liv. 45,16,2. Ibid. 87 Liv. 45,18. The concept of freedom of the Macedonians under Rome see Hatzopoulos 1996: 43-46. 88 Liv. 45,26,1-11. 85 86
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that the Senate decided to give the Illyrians their freedom and to withdraw all the garrisons from their towns, forts and strongholds. As a reward for aligning with Rome before Genthius was defeated, an exemption from taxes was given to Issa, the Taulantii, the Pirustae, the Dassareti, Rhizon, Olcinium and the Daorsi. An obligation to give half of the taxes they had paid to their king was imposed on Scodra, the Dassareni, the Selepitani and the rest of the Illyrians. Afterwards, Anicius divided Illyricum into three parts, and Q uintus Cassius bestowed 220 confiscated Illyrian ships (lemboi), to Corcyra, Apollonia and Dyrrhachium 89. Perhaps the most important fact from this description by Livy is that Anicius divided the territory of the Illyrian kingdom into three regions. It was, in essence, a similar division to Paullus’ in Macedonia, yet here we have a much more fragmented description of the regions 90: unam eam fecit, quae supra … dictam est, alteram Labeatas omnis, tertiam Agravonitas et Rhizonitas et Olciniatas accolasque eorum. This is most evident when we try to ascertain where exactly the first region was. Clearly it was ‘above’ something, but ‘above’ what exactly? Several authors made suggestions. Müller proposed quae supra Pistam est, based on a place in the Peutinger map, situated to the south of Lissus 91. Madvig, on the other hand, suggested quae supra Issam est 92. Both suggestions are not convincing. Besides Madvig’s otherwise geographically illogical suggestion 93, Müller’s relies on the city for which there is absolutely no information in the sources, and he does not provide any arguments to explain why Pista should
89 Liv. 45,26,11-15. In most editions of Livy, there is a formulation: Taulantios, Dassaretiorum Priustas. That is, some editors do not place a comma between the mention of the Dassareti and the Pirustae because of the genitive form Dassaretiorum and accusative Pirustas. Naturally, this started a discussion whether the Pirustae were a part of the Dassareti. Other editors, however, suggested that the comma between Taulantios and Dassaretiorum should be moved after Dassaretiorum, thus assuming that the Taulantii were a part of the Dassareti. More in Wilkes 1969, 27; Bojanovski 1988, 90-91. Both of these assumptions were dismissed with arguments by Šašel Kos 2005: 345. Thus false in Mayer 1957, 264. 90 Liv. 45,26,15. Milivojević 2021, 53. 91 Müller 1883, 308 ad ii, 16, 3. The Peutinger Map, 6A2 (Talbert 1840). 92 Madvig 1860, 606; cf. Pajakowski 1981, map 2; Kuntić-Makvić 1992, 6-9; Cabanes 2002, 175; Šašel Kos 2005, 288-289. 93 Issa is an island and is in no way connected to the Illyrian territories Livy claims were divided.
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be the determining factor 94. Rather, the problem must be observed from a different standpoint. When describing the regions, Livy clearly wrote about the areas that geographically follow one another. After he described the first region, Livy moved on to the second, encompassing the Labeatae, and finally to the third, around the modern day Bay of Kotor. The description follows the southeastnorthwest direction, because of which the lost information about the first region must have described the area preceding Scodra. That is, in all likelihood the first region had a southern border with some community (or a city) ‘above which’ it began, while the northern border went along the second region around the Labeatae. In addition, considering that Anicius’ proclamation exclusively divided the territory of the former Illyrian kingdom, the first region must have included the south-eastern parts of Genthius’ kingdom. More specifically, an area around Lissus, a city where Genthius used to reside and where he decided to gather his army at the beginning of the Third Illyrian War 95. How much in the wider environment of Lissus we can place the border of Genthius’ kingdom (and thus the first region) can be ascertained with the location of two cities: (1) Bassania, a Roman ally, situated five miles in the immediate hinterland of Lissus. As it is known from the course of the war, Genthius attacked this city and Ap. Claudius Centho decided to confront the Illyrian king 96; and (2) Dyrrhachium in the south, a city which was undoubtedly not a part of Genthius’ kingdom. Consequently, the border of the Illyrian kingdom had to be placed between Dyrrhachium and Lissus, including the immediate hinterland to Bassania. That is why, it seems that Zippel’s emendation to Livy’s text is the most accurate: quae supra Dyrrhachium est 97. The parts above Dyrrhachium constituted the first region. It probably started at the river Mathis, included the immediate hinterland towards Bassania, and bordered the north with the second region around the Labeatae. The other two regions are well known. The second included the Labeatae, their cities Scodra and Meteon, where the liberated Roman ambassador, Perperna, went to cap Milivojević 2021, 53-54. On the position of Pista, see Ceka 1984, 24-25. Liv. 43,20,2; 44,30,6-8. 96 Hammond 1988: 537. Genthius’ attack on Bassania as a Roman ally imply it was not a part of his kingdom. Cf. Liv. 44,30,12. 97 Zippel 1877, 96-97. Milivojević 2021, 54. 94 95
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ture the members of Genthius’ family 98. The third region, however, included the Bay of Boka and the cities of Rhizon (Risan), Olcinium (Ulcinj), Acruvium (Agravonitae – Kotor), and their neighbours 99. This kind of division indicates that the Senate (or Anicius himself) drew a logical distinction between the territories which were the basis of Genthius’ kingdom, and those communities which were only included in its borders. The Taulantii, the Pirustae and the Daorsi were only peripheral communities of the defeated kingdom, in the right moment loyal to Rome and thus excluded from the regions. Unfortunately, there is no information about how these regions functioned. For the corresponding Macedonian ones it was clear. Each one had its centre, common arca, Assembly and elected magistrates 100. Considering Livy’s words about similar settlements for Macedonia and the Illyrian kingdom 101, there is a possibility that all three Illyrian regions had their capital centres as Lissus, Scodra and Rhizon. With such a division, Rome abolished the existing conditions where one centre of power controlled the whole territory of the previous kingdom. Three separate Illyrian regions, with separate territory and their centre for the time being complicated any possible attempts to restore the former Illyrian kingdom. The tripartite division of the Illyrian kingdom was carried out in the area from Lissus to the modern Bay of Boka (including the immediate hinterland) because this was always the nucleus of the Illyrian kingdom. Comprised of Genthius’ capital and regional centres which had served the Illyrian kings of the past, the three Illyrian regions to some extent represented an early version of the first administrative division of territory on the Eastern Adriatic. As for the communities and cities mentioned in Anicius’ proclamation, there is no reason to doubt that from then on they constituted a Medun in the wider area of Podgorica. Šašel Kos 2005, 287, 412. Cf. 44,32,3. Milivojević 2021, 54-56 (especially Map 5 for the borders of the regions). From Anicius’ proclamation onward Lissus, Scodra and the Daorsi minted coins which were the same weight and had the same depiction of an Illyrian ship. See Islami 1966, 435-443; H. Ceka 1967, 290; id. 1984, 16-17 n. 8; cf. Hammond 1988, 562 n. 3; Kos 1998, 76, 210, 324-325. Rhizon also continued to mint coins, but they were different from the aforementioned ones. See Ujes 2002 with previous literature. 100 Liv. 45,29. 101 Liv. 45,18,7. 98 99
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part of an area under ‘Roman protection’ 102. Their principle difference was the same as the difference between the nucleus of Genthius’ kingdom and its periphery. On one hand, the information about Scodra, the Dassareni and the Selepitani point to a territory at the very centre of Genthius’ former kingdom, around modern day Lake Scutari 103. The inclusion of Genthius’ capital city, Scodra, implies also the Labeatae. For that reason, Anicius’ decision to impose tax on the communities from which Genthius drew his strength seems understandable, despite the populist measure of lowering the amount they were meant to pay the Roman people. On the other hand, all the allies from the war were rewarded for their loyalty with exclusion from having to pay taxes. The list includes the coastal cities Rhizon and Olcinium, and the communities of the Taulantii, the Pirustae, and the Daorsi, whose participation in the war on the Roman side might have been prompted by their desire to leave the confines of the Illyrian kingdom 104. To conclude, the consequences of the Third Illyrian War and Anicius’ proclamation were significant. In a way, the successful ending of the Third Macedonian and Third Illyrian War marked the end of the period of conflicts between Rome and those political communities that, on several occasions, tried to dispute Rome’s supremacy on the Eastern shores of the Adriatic. Macedonia, once an important factor in determining Rome’s policy towards the East, vanished from the historical scene as an autonomous kingdom, independent in pursuing its own politics. Genthius’ defeat, however, led to the ultimate fall of the Illyrian kingdom and the integration of its territory under the protection of Rome. Anicius’ proclamation preserved the relationships with the communities which were in dicione populi Romani from the first conflicts with the Illyrian state. It also conditioned future events. In the following period, Rome’s attention would be directed towards protecting Anicius’ arrangement on the Eastern Adriatic. Ten years after the
102 Similar to how Rome placed all the communities that were involved in the First Illyrian War under protection and friendship. Milivojević 2021, 12-23. 103 Liv. 44,31,3. Lake Scutari = Lake Skhoder = Skadarsko jezero. Briscoe 2012, 565. 104 Just as the Delmatae did in the beginning stages of Genthius’ reign. Polyb. 32,9. On the location of the Taulantii, the Pirustae and the Daorsi see (with quoted literature) Šašel Kos 2005, 344-345, 363 n. 100, 408-409.
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Third Illyrian War, the Delmatae began their expansion, endangering Anicius’ territorial division and forcing Rome to react. Ultimately, it was an arrangement worth protecting. More than one hundred years after it was envisioned, Anicius’ division of the Illyrian kingdom served as a basis for the future province. Specifically, the old border of the first region on Lissus now became the border between the provinces of Illyricum and Macedonia. As Pliny the Elder writes: A Lisso provincia Macedonia 105.
Map 1 Author’s work.
Plin., nat. 3,143. Milivojević 2021, 66-70.
105
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Map 2 Author’s work.
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DE ZAMA À CYNOSCÉPHALES ÉTUDE COMPARÉE DES STRATÉGIES RHÉTORIQ UES DE TITE-LIVE ET POLYBE
1. Introduction Parmi les nombreux affrontements qui ont marqué l’histoire militaire, certains ont davantage retenu l’attention que d’autres, pour leur ampleur, pour leur déroulement et leurs innovations, parce qu’ils ont décidé du sort de grandes personnalités, d’empires, et avec eux, de nombreuses vies humaines. Tel était probablement déjà le cas dans l’Antiquité lorsque l’on lit la manière dont Polybe présente et traite les batailles emblématiques de Zama et de Cynoscéphales. L’historien grec fait en effet suivre ces deux récits de réflexions personnelles sur la manière de comprendre les événements, et en particulier sur le plan tactique: dans le premier cas, Polybe fait l’éloge de la tactique adoptée par Hannibal face à Scipion et cherche à écarter tout reproche qui pourrait être adressé au Carthaginois à ce niveau; dans le second cas, il tente de montrer que la tactique romaine est en réalité supérieure à celle de la phalange gréco-macédonienne. Or, comme cela a été identifié depuis longtemps par les Q uellenforscher 1, ces deux épisodes font partie de ceux pour lesquels nous disposons également du récit de Tite-Live; on est même autorisé à penser que l’historien latin s’est servi, d’une manière ou d’une autre, des Histoires de Polybe pour rédiger son propre récit des événements, puisque Polybe est nommément cité dans les deux livres liviens correspondants (30,45; 33,10). Ces deux particularités font de ces extraits parallèles un terrain d’investigation remarquable, mais trop souvent négligé, non pas seulement pour établir 1 Pour un résumé des recherches dans ce domaine, voir l’introduction du volume de Tränkle 1977.
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 477-497 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125339
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la vérité historique, mais pour étudier, par la méthode comparative, la manière dont les historiens écrivaient l’histoire, proposaient ou défendaient une certaine vision des événements, en faisant usage d’argumentation et de persuasion. C’est ce que nous proposons de faire ici en nous appuyant sur les ressources de la philologie, de la narratologie et bien sûr sur les concepts développés dans les traités de rhétorique et d’argumentation, de l’Antiquité à nos jours 2.
2. Cynoscéphales (Polyb. 18,19,1 – 32,13; Liv. 33,6,1 – 10,7) Phases du récit
Polyb. XVIII
Préparatifs de Flamininus Mouvements et premiers contacts Difficultés de la progression Nouvelle rencontre et début des combats Discours de Flamininus et organisation des troupes Réaction de Philippe Combat décisif Coup d’éclat d’un tribun romain, défaite et retraite de Philippe Digression sur l’utilisation de la phalange a) Introduction b) Réfutation c) Comparaison d) (Contre-) Argumentation e) Conclusion
Liv. XXXIII
18 19 20 21 – 22 23 24 25 26 – 27
5,4-12 6,1-6 6,7 – 7,3 7,4 – 8,3 8,3-6 8,7-14 9,1-7 9,8 – 10,7
28 – 32 28,1-5 28,6-11 28,12 – 30,10 31,1 – 32,5 32,6-13
/
Après avoir fait le récit de la défaite de Philippe, aux paragraphes 28 à 32 du livre 18 de ses Histoires, Polybe fait une longue digression où il se propose de comprendre pourquoi les Romains l’ont toujours emporté sur les Macédoniens 3. Pour l’historien grec, la raison du succès romain est à chercher dans les spécificités tactiques des deux formations. La réflexion est organisée à la manière d’un véritable discours: après une brève introduction (28,1-5) et la réfutation de potentiels 2 La méthode s’inspire des lectures, à la fois dialectiques et rhétoriques, pratiquées par certains humanistes, comme Pierre de la Ramée, sur les textes anciens, ou de ce qui se fait actuellement en Analyse du discours (J.-M. Adam, R. Amossy, D. Maingueneau). Pour un autre exemple, voir Sans 2016b. 3 Polyb. 18,28,4 χρήσιμον καὶ καλὸν ἂν εἴη τὸ τὴν διαφορὰν ἐρευνῆσαι, καὶ παρὰ τί συμβαίνει Ῥωμαίους ἐπικρατεῖν καὶ τὸ πρωτεῖον ἐκφέρεσθαι τῶν κατὰ πόλεμον ἀγώνων.
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ÉTUDE COMPARÉE DES STRATÉGIES RHÉTORIQ UES DE TITE-LIVE ET POLYBE
contre-exemples (28,6-11), Polybe décrit et compare en détails la disposition des deux formations (28,12 – 30,11). Son argumentation peut ensuite se résumer de la façon suivante 4: de la description comparative, Polybe conclut que si elle est engagée dans les conditions qui lui sont propres, la phalange l’emportera toujours, car elle pourra déployer toute sa puissance 5. Mais il existe de nombreuses circonstances, détaillées par l’historien grec (31,1 – 32,5), où la phalange est inefficace et qui peuvent donc invalider la conclusion: quand le terrain n’est pas dégagé, quand l’ennemi adopte une stratégie de mouvement, quand il dispose de réserves, c’est-à-dire, probablement, dans la majorité des cas. Mais l’historien grec va plus loin et montre que la dernière condition est toujours réalisée dans le dispositif romain (31,12 – 32,5) pour donner à son argumentation un caractère nécessaire et clore la discussion (32,6-13). Mais outre ses raisonnements, il prétend aussi s’appuyer sur l’évidence des faits 6, c’est-à-dire sur le récit qu’il vient d’en faire. Il convient dès lors de revenir, à la lumière de cette réflexion, sur le texte qui précède, en le confrontant à celui de Tite-Live, et de reprendre les différences qui peuvent être relevées entre les deux représentations de l’événement 7. Polyb. 18
Liv. 33
19,1-5 Πλὴν ὅ γε Τίτος (…) ἐξέπεμπε τοὺς κατοπτεύσοντας καὶ διερευνησομένους (…). Φίλιππος δὲ [καὶ] κατὰ τὸν αὐτὸν καιρὸν πυνθανόμενος (…) τοὺς μὲν εἰθισμένους προπορεύεσθαι τῆς δυνάμεως προεξαπέστειλε 19,12 καὶ τότε μὲν ἐπὶ πολὺν χρόνον ἀκροβολισάμενοι διεχωρίσθησαν εἰς τὰς αὑτῶν παρεμβολάς ·
6,1-4 Q uinctius (…), progressus modicum iter (…) speculatum in qua parte (…) misit. Certior iam factus (…) defungi quam primum et ipse certamine cupiens ducere ad hostem pergit (…). 6,6 regii fugati atque in castra compulsi sunt. (cont.)
Notamment à l’aide du schéma de S. E. Toulmin. Voir Sans 2021. Polyb. 18,30,11 ἐξ ὧν εὐκατανόητον ὡς οὐχ οἷόν τε μεῖναι κατὰ πρόσωπον τὴν τῆς φάλαγγος ἔφοδον οὐδέν, διατηρούσης τὴν αὑτῆς ἰδιότητα καὶ δύναμιν, ὡς ἐν ἀρχαῖς εἶπα. 6 Polyb. 18,28,7 δῆλον δὲ τοῦτο πεποιήκαμεν ἡμεῖς ἐπ’ αὐτῶν ὑποδεικνύοντες τῶν ἀγώνων. Μαρτυρεῖ δὲ (…); 32,1 οὐκέτι γὰρ ἐκ τοῦ λόγου δεῖ τεκμαίρεσθαι τὸ νυνὶ λεγόμενον ὑφ’ ἡμῶν, ἀλλ’ ἐκ τῶν ἤδη γεγονότων. 7 Nous passerons ici en revue les traits les plus saillants des deux récits. Pour une analyse rhétorique plus détaillée de cet épisode, voir Sans 2021. Les textes utilisés ici sont ceux de Paton 1926 et Achard 2001. 4 5
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Polyb. 18
Liv. 33
20,2 λαβεῖν τόπους ἁρμόζοντας ταῖς αὑτοῦ δυνάμεσιν 20,7 Ἐπιγενομένου δ’ ὄμβρου καὶ βροντῶν ἐξαισίων, πάντα συνέβη τὸν ἀέρα τὸν ἐκ τῶν νεφῶν (…). 20,8 Oὐ μὴν ἀλλ’ ὅ γε Φίλιππος κατανύσαι σπεύδων (…). Δυσχρηστούμενος δὲ (…) βραχὺν τόπον διανύσας τὴν μὲν δύναμιν εἰς χάρακα παρενέβαλε. 21,4; 8 πέμποντες εἰς τὴν ἑαυτῶν παρεμβολὴν ἐδέοντο σφίσι βοηθεῖν. (…). οἱ δὲ Μακεδόνες ἠμύνοντο μὲν γενναίως, πιεζούμενοι δὲ (…) προσέφυγον πρὸς τοὺς ἄκρους καὶ διεπέμποντο πρὸς τὸν βασιλέα περὶ βοηθείας.
6,12 Tertio die primo nimbus effusus, dein caligo nocti simillima Romanos metu insidiarum tenuit. 7,1 Philippus maturandi itineris causa (…) nihil deterritus, signa ferri iussit; sed tam densa caligo occaecauerat diem ut neque signiferi uiam nec signa milites cernerent, agmen ad incertos clamores uagum uelut errore nocturno turbaretur. 7,6 nuntios ad ducem mitterent / 7,8 opem regis per nuntios implorabant.
Chez Polybe, au cours des jours qui précèdent la bataille, aucun des deux camps ne paraît prendre l’ascendant. Les deux chefs d’armée semblent faire preuve d’une égale compétence et réagissent de façon similaire aux mêmes facteurs: les encombrements du terrain, le brouillard, le besoin de ravitaillement. Et si Philippe s’aventure imprudemment dans le brouillard (20,8), il parvient à rattraper la situation. Il garde en tête son objectif, que Polybe est le seul préciser: il cherche un terrain adapté à ses troupes 8 (20,2). Le résultat des premières escarmouches apparaît à peu près nul: les Romains, un moment enfoncé face à des Macédoniens qui combattent vaillamment, ne doivent leur salut qu’à l’intervention des cavaliers étoliens, ou plutôt à leur spécialité tactique (22,5), bien expliquée par Polybe 9. Chez Tite-Live, au contraire, dès le début de l’épisode, se construit un contraste constant entre les deux belligérants qui sont représentés dans des activités similaires. Flamininus 10 apparaît prudent, redoutant les manœuvres de son adversaire 11, là où Philippe, arrogant Walbank 1957-1979, II 579. Tite-Live (33,7,13) est plus succinct. Cf. Briscoe 1973, 257. 10 Sur le traitement de Flamininus dans ce passage et les différences dans la représentation de la bataille, voir Carawan 1988, 222-224; Luce 1977, 39-41; Tränkle 1977, 100-102; 187-189; Witte 1910, 382-387. 11 Cf. Liv. 33,6,12 metu insidiarum; 7,4 ab insidiis. Tite-Live précise à deux reprises que Flamininus craint les embuscades de l’ennemi, ce qui ne semble pas dif8 9
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dans sa volonté de combattre, s’obstine: ses troupes sont représentées en train d’errer à l’aveuglette dans un épais brouillard (7,1), d’une manière qui n’a pas de correspondant dans le texte grec. Dans les premières rencontres, les Romains apparaissent ici vainqueurs ou peu diminués, tandis que l’expression amplifie les reculs macédoniens 12 (fugati atque in castra compulsi; per nuntios implorabant). Polyb. 18
Liv. 33
22,8-10 ἀναβοῶν “Βασιλεῦ, φεύγουσιν οἱ πολέμιοι·(…) ὥστε τὸν Φίλιππον, καίπερ οὐκ εὐδοκούμενον τοῖς τόποις, ὅμως ἐκκληθῆναι πρὸς τὸν κίνδυνον. (…). Διὸ καὶ προορώμενος ὁ Φίλιππος τὴν δυσχρηστίαν τῶν τόπων, ἐξ ἀρχῆς μὲν οὐδαμῶς ἡρμόζετο πρὸς ἀγῶνα·τότε δὲ παρορμηθεὶς διὰ τὴν ὑπερβολὴν τῆς εὐελπιστίας τῶν ἀγγελλόντων ἕλκειν παρήγγελλε τὴν δύναμιν ἐκ τοῦ χάρακος. 24,7; 9 ἠναγκάζετο βοηθεῖν καὶ κρίνειν ἐκ τοῦ καιροῦ τὰ ὅλα, καίπερ ἔτι τῶν πλείστων μερῶν τῆς φάλαγγος κατὰ πορείαν ὄντων καὶ προσβαινόντων πρὸς τοὺς βουνούς. (…) τοῖς μὲν φαλαγγίταις ἐδόθη παράγγελμα καταβαλοῦσι τὰς σαρίσας ἐπάγειν, (…).
8,1 Laetior res quam pro successu pugnae nuntiata, (…). 8,2 inuitum et cunctabundum et dicentem ‹Philippum› temere fieri, non locum sibi placere, non tempus (…). 8,5 (Discours de Flamininus) (…) fama stetisse, non uiribus Macedoniae regnum; eam quoque famam tandem euanuisse.
25,2-3 Tὸ μὲν οὖν δεξιὸν τοῦ Φιλίππου λαμπρῶς ἀπήλλαττε κατὰ τὸν κίνδυνον, ἅτε καὶ τὴν ἔφοδον ἐξ ὑπερδεξίου ποιούμενον καὶ τῷ βάρει τῆς συντάξεως ὑπερέχον καὶ τῇ διαφορᾷ τοῦ καθοπλισμοῦ πρὸς τὴν ἐνεστῶσαν χρείαν πολὺ παραλλάττον·τὰ δὲ λοιπὰ μέρη τῆς δυνάμεως αὐτῷ τὰ μὲν ἐχόμενα τῶν κινδυνευόντων ἐν ἀποστάσει τῶν πολεμίων ἦν, τὰ δ’ἐπὶ τῶν εὐωνύμων ἄρτι διηνυκότα τὰς ὑπερβολὰς ἐπεφαίνετο τοῖς ἄκροις.
9,3-4 Dextero cornu rex loci plurimum auxilio, ex iugis altioribus pugnans, uincebat; sinistro tum cum maxime adpropinquante phalangis parte quae nouissimi agminis fuerat, sine ullo ordine trepidabatur; media acies, quae propior dextrum cornu erat, stabat spectaculo uelut nihil ad se pertinentis pugnae intenta.
8,10 mox refugientibus suis et terrore uerso paulisper incertus an copias trepidauit; deinde ut adpropinquabat hostis et, praeterquam quod caedebantur auersi nec nisi defenderentur seruari poterant, ne ipsi quidem in tuto iam receptus erat, (…). 8,13 Macedonum phalangem hastis positis, quarum longitudo impedimento erat, gladiis rem gerere iubet.
ficile à imaginer à partir du texte de Polybe, mais contribue à dépeindre un chef conscient du danger et un ennemi sournois. Les deux auteurs, et de façon générale, l’historiographie grecque et romaine, envisagent la ruse de façon différente. Cf. Johner 1996, 68-69; voir également Olivier et alii 2006, et plus particulièrement l’article de M. Simon-Mahé dans ce même volume, 99-12). 12 Achard 2001, 76; Briscoe 1973, 257.
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Le début inattendu des hostilités prend les deux chefs au dépourvu (Polyb. 18,22,1 ; Liv. 33,7,8-9). Philippe est trompé par les déclarations encourageantes de messagers. Dans le texte grec (22,8), celles-ci sont transmises en style direct, ce qui, par un effet de point de vue 13, rend son erreur sinon excusable, du moins compréhensible. Mais il a conscience que le lieu n’est pas adapté au combat qu’il veut livrer 14 (22,10). Bientôt, il constate un second problème (24,7): une partie des troupes accuse un certain retard et, précise Polybe, est toujours en ordre de marche (κατὰ πορείαν), qui s’oppose à l’ordre de bataille. De son côté, Flamininus a remotivé ses troupes par une brève harangue et s’apprête à lancer l’assaut (23). Mais, occupant une position surélevée, le roi ne désempare pas et forme une phalange avec les troupes qu’il a sous la main, ce qui s’avère efficace (25,2-3): là où elle profite d’une position et de conditions avantageuses, la phalange l’emporte (λαμπρῶς ἀπήλλαττε κατὰ τὸν κίνδυνον), grâce à sa force et à son équipement selon Polybe. Dans le texte latin (8,1), le narrateur affirme immédiatement le caractère erroné des messages reçus par Philippe et sanctionne ainsi son erreur d’appréciation (Laetior res quam pro successu pugnae nuntiata). Dès lors que les événements ne correspondent pas à son attente, le roi apparaît ici davantage troublé et hésitant (inuitum et cunctabundum et dicentem ‹Philippum›) et par conséquent, se retrouve bien vite dans des situations, dont Tite-Live développe les aspects et qui apparaissent dès lors plus compliquées que dans le texte grec: il est contraint de se battre pour sauver les troupes qui sont déjà engagées (7,10), puis bientôt, pour sauver même sa propre vie (ne ipsi quidem in tuto iam receptus erat). Il semble subir le cours des événements plus que son adversaire. Celui-ci s’adapte avec brio avec des troupes qui récupèrent vite; la fin de la harangue prêtée au général romain (8,5) est ici différente et dénonce en particulier l’orgueil des Macédoniens 15, opposé à leurs forces réelles. Au cœur de la bataille, la phalange réorganisée par Philippe, n’a ici pour seul avantage que sa position surélevée (loci plurimum auxilio), qui sitôt perdue, précipitera sa défaite. Elle ne profite pas en effet du principal atout tactique signalé par Polybe, puisque dans le texte latin,
Sur cette notion, voir Rabatel 2004; 2008. Walbank 1967, 580. 15 Achard 2001, 77; Briscoe 1973, 262. 13 14
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elle a dû, probablement suite à une erreur de traduction de l’historien latin 16, renoncer à ses lances, trop encombrantes, pour combattre (8,13). Ce petit succès sur un flanc est toutefois noyé au milieu d’informations négatives dans le tableau global de bataille 17 (9, 3-4). Polyb. 18
Liv. 33
25,4-7 ὁ δὲ Τίτος, θεωρῶν (…) τὰ δ’ ἐκ τῶν ἄκρων ἀκμὴν ἐπικαταβαίνοντα, τὰ δ’ ἔτι τοῖς ἄκροις ἐφεστῶτα, προθέμενος τὰ θηρία προσῆγε τὰς σημαίας τοῖς πολεμίοις. Oἱ δὲ Μακεδόνες, οὔτε τὸν παραγγελοῦντ’ ἔχοντες οὔτε συστῆναι δυνάμενοι καὶ λαβεῖν τὸ τῆς φάλαγγος ἴδιον σχῆμα διά τε τὰς τῶν τόπων δυσχερείας καὶ διὰ τὸ τοῖς ἀγωνιζομένοις ἑπόμενοι πορείας ἔχειν διάθεσιν καὶ μὴ παρατάξεως, οὐδὲ προσεδέξαντο τοὺς Ῥωμαίους εἰς τὰς χεῖρας ἔτι, δι’αὐτῶν δὲ τῶν θηρίων πτοηθέντες καὶ διασπασθέντες ἐνέκλιναν. 26,2-3 Eἷς δὲ τῶν χιλιάρχων τῶν ἅμα τούτοις, σημαίας ἔχων οὐ πλείους εἴκοσι, καὶ παρ’αὐτὸν τὸν τῆς χρείας καιρὸν συμφρονήσας ὃ δέον εἴη ποιεῖν, μεγάλα συνεβάλετο πρὸς τὴν τῶν ὅλων κατόρθωσιν. θεωρῶν γὰρ (…). 26,8 Κατανοήσας δὲ τοὺς Ῥωμαίους κατὰ τὸ δίωγμα τοῦ λαιοῦ κέρως τοῖς ἄκροις ἤδη προσπελάζοντας, (…) 26,12 Ἀκμὴν δὲ τοῦ Τίτου ταῦτα διανοουμένου (…) ὀλίγοι δέ τινες διέφυγον ῥίψαντες τὰ ὅπλα.
9,6-7 In hos incompositos Q uinctius, (…), elephantis prius in hostem actis impetum facit (…). Non dubia res fuit; extemplo terga uertere Macedones, terrore primo bestiarum auersi.
27,4 ἔνθα δὴ καταλαβόντες τοὺς Αἰτωλοὺς προεμπεπτωκότας καὶ δόξαντες στέρεσθαι τῆς σφίσι καθηκούσης ὠφελείας, ἤρξαντο καταμέμφεσθαι τοὺς Αἰτωλοὺς καὶ λέγειν πρὸς τὸν στρατηγὸν ὅτι (…).
9,8 Et ceteri quidem hos pulsos sequebantur; unus e tribunis (…). 9,10-11 in tali re turbationem accessit quod phalanx Macedonum grauis atque immobilis (…). Paulisper in medio caesi (…). 10,2 deinde postquam fugam effusam animaduertit et omnia circa iuga signis atque armis fulgere (…). 10,4-5 parcere uictis in animo habebat. (…) primis caesis ceteri in fugam dissipati sunt. 10,6 ea magna iam ‹ex parte› direpta ab Aetolis inueniunt.
16 Achard 2001, 78; Tränkle 1977, 180; Luce 1977, 39-40; 171; Briscoe 1973, 263; Walbank 1967, 582; Walsh 1958, 84-85. 17 Les expressions dextero cornu, sinistro et media acies semblent indiquer que Tite-Live applique mécaniquement le schéma stéréotypé d’une bataille rangée classique, ce qui ne correspond sans doute pas ici à la réalité (Achard 2001, 78; Luce 1977, 39-40; Briscoe 1973, 264; Walsh 1961, 161; 198-199; Witte 1910, 385-386), mais outre son intérêt didactique, cette division permet à Tite-Live de contrebalancer le succès de Philippe.
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Chez Polybe, alors que les choses ne semblent pas encore décidées, c’est précisément l’entrée en jeu des facteurs défavorables à la phalange qui va précipiter la défaite de Philippe. Flamininus (25,4) voit la faille dans le dispositif de son adversaire, et Polybe met bien en évidence les facteurs qui guident la décision du général romain: ce dernier lance l’assaut sur les troupes qui ne sont pas rangées et qui se débandent immédiatement. Polybe (25,6-7) s’arrête un instant sur cette déroute et la justifie en précisant que les troupes n’avaient pas reçu d’ordre et n’avaient encore pu former la phalange (λαβεῖν τὸ τῆς φάλαγγος ἴδιον σχῆμα). Sur l’autre flanc, la phalange de Philippe tient bon, mais une autre faille est opportunément exploitée par un tribun romain 18. Polybe (26,2) affirme d’emblée le caractère décisif de cette initiative (μεγάλα συνεβάλετο πρὸς τὴν τῶν ὅλων κατόρθωσιν), puis la justifie en détaillant l’action du tribun: avec un faible nombre d’hommes et une certaine facilité, il parvient à contourner la phalange, qui, prise au piège, est rapidement dispersée et massacrée. Alors que le roi est en train de se replier, Polybe nous livre à nouveau ses pensées (26,8): Philippe comprend qu’il a perdu car il laissé à l’adversaire une position qu’il occupait. Au cours de la retraite, Polybe nous apprend un dernier détail révélateur: quelques survivants de l’armée de Philippe se font massacrer alors qu’ils tentent de se rendre, ce qu’ils indiquent en levant leurs lances, un geste dont les Romains ignoraient la signification et n’ont pas pris en compte. Parvenus au camp abandonné par Philippe, les Romains découvrent qu’il a déjà été pillé par les Étoliens. Privés de leur butin, les soldats mécontents interpellent directement leur général (27,3). Chez Tite-Live, lors de la contre-attaque romaine, la moitié de l’armée macédonienne succombe à la peur des éléphants (terrore primo bestiarum auersi). Le chef et ses hommes apparaissent ainsi soumis à leurs émotions, dont le lexique est bien plus présent dans le texte latin. Finalement, l’heureuse initiative du tribun ne fait ici qu’accélérer ou justifier une défaite déjà annoncée par le narrateur (Et ceteri quidem hos pulsos sequebantur). Le massacre des survivants macédoniens est atténué par le fait que Flamininus, comprenant tardivement le geste des Macédoniens, a l’intention de les épargner et par le fait que la tuerie paraît également plus limité 19 (10,4-5); Walbank 1967, 584. Achard 2001, 79; Briscoe 1973, 265; Walsh 1961, 151-152.
18 19
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enfin, il n’est fait aucune mention d’un quelconque mouvement de grogne à la fin de l’épisode. En résumé, du côté grec, l’argumentation finale de Polybe apparaît d’autant plus convaincante que le récit met en exergue les éléments tactiques, qui apparaissent comme les causes principales; on trouve d’ailleurs de nombreuses correspondances lexicales entre le récit et la digression qui le suit. L’historien latin simplifie ces données: les Romains, irréprochables, y compris au niveau éthique, semblent surtout l’emporter car ils affrontent de piètres adversaires, qui, eux, accumulent les erreurs ou les désavantages. L’attention est reportée sur d’autres aspects: si l’on a vu le caractère explicatif, voire logique, du récit de Polybe, on retient surtout les traits visuels et spectaculaires du récit livien, rappelant la technique de l’ekphrasis 20, comme la végétation encombrante qui gêne la progression des troupes (6, 7), l’errance des Macédoniens à travers le brouillard (7, 2), le massacre des soldats de la phalange (9, 9-11), les cadavres et les enseignes romaines à travers les yeux de Philippe (10, 2) 21, qui est le comme le spectateur de sa propre défaite.
3. Zama (Polyb. 15,9,1 – 16,6; Liv. 30,31,10 – 35,9) On trouve déjà un traitement semblable pour l’épisode de la bataille de Zama 22. Polyb. 15
0) Préambule 9,3-4: Introduction 9,6-10: ordre de bataille de Scipion 10,1-7: discours de Scipion 11,1-3: ordre de bataille d’Hannibal 11,4-12: discours d’Hannibal
Liv. 30
0) Préambule 32,1-4: discours commun des chefs 32,6-11: discours d’Hannibal, puis surtout de Scipion 33,1-3: ordre de bataille de Scipion 33,4-7: ordre bataille d’Hannibal (cont.)
20 Sur cette technique, enseignée dans le cadre des progymnasmata, voir Webb 2009. 21 Tous ces éléments sont ajoutés par Tite-Live par rapport au texte de Polybe. Voir Achard 2001 ad locc.; Luce 1977, 41; Briscoe 1973 ad loc.; Walsh 1961, 186187. 22 Sur la comparaison entre le récit de Polybe et celui de Tite-Live, voir Kahrstedt 1913, 354; De Sanctis, 1917, 655; Klotz, 1940, 197; Tränkle 1977, 239. Les textes utilisés sont ceux de Foulon – Weil 1995 et Conway – Johnson 1935.
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Polyb. 15
Liv. 30
1) 12,1-7: combat de cavalerie / charge des éléphants 2) 12,8 – 13,10: combat d’infanterie; première et deuxième lignes de l’armée d’Hannibal 3) 14: combat d’infanterie; troisième et dernière ligne de l’armée d’Hannibal 4) 15,3 – 16,6: éloge (de la tactique) d’Hannibal
33,8-11: discours principal d’Hannibal 1) 33,12-16: combat de cavalerie / charge des éléphants 2) 34,1-8: combat d’infanterie; première et deuxième lignes de l’armée d’Hannibal 3) 34,9 – 35,3: combat d’infanterie; troisième et dernière ligne de l’armée d’Hannibal 4) 35,4-9: éloge (de la tactique) d’Hannibal
Le récit de Polybe est ici également suivi d’une argumentation explicite (15,3 – 16,6) qui, s’annonçant comme un éloge, apparaît avant tout comme une défense d’Hannibal 23. L’historien grec affirme en effet qu’Hannibal avait fait tout ce qu’un bon général, doté d’expérience, était censé faire (πάντα τὰ δυνατὰ ποιήσας κατὰ τὸν κίνδυνον, ὅσα τὸν ἀγαθὸν ἔδει στρατηγὸν καὶ πολλῶν ἤδη πραγμάτων πεῖραν εἰληφότα): avant la bataille, il avait tenté d’obtenir la paix; en vue de la bataille elle-même, il avait pris les meilleures dispositions possibles, étant donné les troupes disponibles. La répartition de celles-ci, sur plusieurs lignes, avec les éléphants en tête, avait à la fois pour but de déstabiliser et de fatiguer les troupes adverses, mais aussi de contraindre les hommes, en particulier ceux de la seconde ligne, à se battre. Ici encore, nous voudrions montrer que ces éléments sont corroborés par le récit qui précède et, en particulier, par les traits qui le distinguent de celui de Tite-Live. Polyb. 15
Liv. 30
0) 9,3-4 Ἐφ’ἃ τίς οὐκ ἂν ἐπιστήσας συμπαθὴς γένοιτο κατὰ τὴν ἐξήγησιν; οὔτε γὰρ δυνάμεις πολεμικωτέρας οὔθ’ ἡγεμόνας ἐπιτυχεστέρους τούτων καὶ μᾶλλον ἀθλητὰς γεγονότας τῶν κατὰ πόλεμον ἔργων εὕροι τις ἂν ἑτέρους, οὐδὲ μὴν ἆθλα μείζω τὴν τύχην ἐκτεθεικυῖαν τοῖς ἀγωνιζομένοις τῶν τότε προκειμένων·
0) 32,1-4 pronuntiant ambo arma expedirent milites animosque ad supremum certamen, (…). Ad hoc discrimen procedunt postero die duorum opulentissimorum populorum (…).
23 On se rappelle la critique qu’Isocrate (Enc. Hel. 1) adressait à Gorgias pour son éloge d’Hélène.
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Polyb. 15
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9, 6-10 (orde de bataille de Scipion) Πλὴν ὁ μὲν Πόπλιος ἔθηκε τὰς τάξεις τῶν ἰδίων δυνάμεων τὸν τρόπον τοῦτον. 10,1-7 (discours de Scipion) Ταῦτα δ’ ἑτοιμασάμενος ‹ἐπ›επορεύετο παρακαλῶν τὰς δυνάμεις (…). 11,1-3 (ordre de bataille d’Hannibal) Ὁ μὲν οὖν Πόπλιος τοιαύτην ἐποιήσατο τὴν παραίνεσιν. Ὁ δ’ Ἀννίβας (…). 11,4-12 (discours d’Hannibal) Παρήγγειλε δὲ τοὺς ἰδίους στρατιώτας ἕκαστον παρακαλεῖν (discours d’Hannibal)
32,6-11 (discours d’Hannibal puis de Scipion): Poenus sedecim annorum in terra Italia res gestas, (…). Scipio Hispanias (…). 33,1-3 (ordre de bataille de Scipion): Instruit deinde primos hastatos (…) dato praecepto ut ad impetum elephantorum (…) uiam qua inruerent in ancipitia tela beluis darent. 33,4-7 (ordre de bataille d’Hannibal): Hannibal ad terrorem primos elephantos (…) 33,8-11 (discours principal d’Hannibal): Varia adhortatio erat in exercitu inter tot homines quibus non lingua, non mos, non lex, non arma, non uestitus habitusque, non causa militandi eadem esset. (…)
Après que la discussion entre Hannibal et Scipion a échoué, Polybe (9,3-5) éveille tout d’abord l’intérêt pour l’affrontement qui va suivre avec des techniques (amplification, singularisation) qui rappellent celles de l’exorde et que l’on retrouve également dans l’épisode précédent (18,28). Il expose ensuite, de façon parallèle et symétrique, les discours des deux chefs et la répartition de leurs troupes sur le champ de bataille. À ce moment du récit, aucun camp ne semble donc se détacher. Tite-Live, au contraire, brise cette impression d’équilibre et, dès avant le début de la bataille, en annonce l’issue par un mécanisme d’amorce 24. Il rapproche d’abord les deux armées, dans une allocution commune aux deux chefs sur les enjeux de la bataille et dans la description des premiers instants tendus du face-à-face. S’opposant à quelques paroles prêtées à Hannibal, la harangue de Scipion est assez brève et classique, ce qui reporte l’attention sur la disposition en partie inhabituelle des troupes, dont Tite-Live anticipe les effets positifs. Se tournant alors du côté d’Hannibal, il montre que ce dernier a réparti ses hommes comme Scipion l’avait prévu et s’apprête donc à lancer ses éléphants dans son piège. Suivent les encouragements d’Hannibal, qui, à l’aide d’interprètes, développe autant d’arguments qu’il Au sens de Genette 1972, 105. Voir également Sans 2016a.
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y a de contingents différents 25 dans son armée. Tite-Live donne ainsi à voir le caractère composite de l’armée de Carthage qui entre en contraste avec le bloc romain 26. Polyb. 15
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1) 12,1 Ἐπειδὴ δ’ ἑκατέροις ἦν εὐτρεπῆ τὰ πρὸς τὸν κίνδυνον, πάλαι τῶν Νομαδικῶν ἱππέων πρὸς ἀλλήλους ἀκροβολιζομένων, τότε παρήγγειλε τοῖς ἐπὶ τῶν ἐλεφάντων Ἀννίβας (…). 12,2 τῶν περὶ τὸν Μασαννάσαν ταχέως ἐψιλώθη τὸ λαιὸν κέρας τῶν Καρχηδονίων. 12,4 ἕως ὅτου πεφοβημένα τὰ μὲν διὰ τῶν διαστημάτων ἐξέπεσε, δεξαμένων αὐτὰ τῶν Ῥωμαίων ἀσφαλῶς κατὰ τὴν τοῦ στρατηγοῦ πρόνοιαν, τὰ δ’ ἐπὶ τὸ δεξιὸν μέρος παραφυγόντα διὰ τῶν ἱππέων συνακοντιζόμενα τέλος εἰς τὸν ἔξω τόπον τῶν στρατοπέδων ἐξέπεσεν, ὅτε δὴ καὶ Λαίλιος ἅμα τῇ περὶ τοὺς ἐλέφαντας ταραχῇ συμβαλὼν ἠνάγκασε φυγεῖν τοὺς τῶν Καρχηδονίων ἱππεῖς προτροπάδην.
1) 33,12-13 Cum maxime haec imperator apud Carthaginienses, duces suarum gentium inter populares, pleraque per interpretes inter immixtos alienigenis agerent, tubae cornuaque ab Romanis cecinerunt, tantusque clamor ortus ut elephanti in suos (…). Addidit facile Masinissa perculsis terrorem (…). 33,16 donec undique incidentibus telis exacti ex Romana acie hi quoque in suo dextro cornu ipsos Carthaginiensium equites in fugam uerterunt. Laelius, ut turbatos uidit hostes, addidit perculsis terrorem.
La bataille se déroule en plusieurs phases. Chez Polybe, le combat s’engage véritablement alors que les ailes de cavalerie sont déjà aux prises: voulue ou non, cette ellipse attire l’attention sur l’action qui suit. Hannibal profite de cette occasion pour lancer ses lancer ses éléphants à l’assaut des lignes romaines, que l’on devine vulnérables. Mais une partie des pachydermes, affolés, se détourne de son objectif et fonce sur les Numides au service d’Hannibal; Massinissa, allié de Scipion, saisit alors cette opportunité pour prendre l’avantage sur ces derniers. La peur fait fuir le reste des bêtes hors du champ de bataille ou les fait tomber dans le dispositif de Scipion, dont Polybe fournit alors tous les détails, mettant ainsi en valeur la tactique du général romain dont il souligne la prévoyance (κατὰ τὴν τοῦ στρατηγοῦ πρόνοιαν). Laelius profite de la confusion pour prendre à son tour l’avantage sur son aile, face aux forces adverses. 25 Tite-Live mentionne même la présence d’un contingent macédonien dans l’armée de Carthage (Dorey 1957, 185-187). Si cet ajout peut avoir diverses fonctions, notamment celle d’accréditer l’existence d’un accord entre Hannibal et Philippe V de Macédoine et de fournir un motif de reproche (Liv. 30,42), il augmente également le caractère composite de cette armée. 26 Sur cet élément du récit livien, voir Levene 2010, 237-243.
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Chez Tite-Live, Hannibal est interrompu au milieu de ses encouragements par le son des trompettes romaines qui affolent des éléphants inexpérimentés. Le Carthaginois perd ainsi l’initiative 27. La majorité des bêtes fonce sur les Numides: Massinissa s’ajoute ici comme un facteur de terreur supplémentaire (addidit facile Massinissa perculsis terrorem) et prive l’armée de Carthage d’une partie de sa cavalerie. De manière attendue, les éléphants qui parviennent jusqu’aux rangs ennemis sont accueillis grâce aux mesures prises par Scipion et arrivent tout juste à compenser les dégâts qu’ils subissent par ceux qu’ils causent (cum multis suis uolneribus ingentem stragem edebant). Le dispositif fonctionne ici encore mieux que dans le texte grec: les soldats romains parviennent non seulement à canaliser et neutraliser les bêtes, mais aussi à les rediriger vers la seconde aile de cavalerie de l’adversaire, où elles font des ravages; comme Massinissa, et avec la même expression qui souligne l’analogie (addidit perculsis terrorem), Laelius n’a alors plus qu’à finir le travail. Polyb. 15
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2) 12,8-9 Ἐπειδὴ δ’ ἐγγὺς ἦσαν ἀλλήλων,οἱ μὲν Ῥωμαῖοι κατὰ τὰ πάτρια συναλαλάξαντες καὶ συμψοφήσαντες (…), οἱ δὲ μισθοφόροι τῶν Καρχηδονίων ἀδιάκριτον ἐποίουν τὴν φωνὴν καὶ παρηλλαγμένην· οὐ γὰρ πάντων ἦν κατὰ τὸν ποιητὴν ὁ αὐτὸς θροῦς 13,1-2 τῇ μὲν εὐχερείᾳ καὶ τόλμῃ προεῖχον οἱ μισθοφόροι τὰς ἀρχάς, καὶ πολλοὺς κατετραυμάτιζον τῶν Ῥωμαίων, τῷ δὲ τῆς συντάξεως ἀκριβεῖ καὶ τῷ καθοπλισμῷ πιστεύοντες οἱ Ῥωμαῖοι μᾶλλον ἐπέβαινον εἰς τὸ πρόσθεν. 13,3-6 τοῖς δὲ μισθοφόροις τῶν Καρχηδονίων οὐ συνεγγιζόντων οὐδὲ παραβοηθούντων (…). Ὃ καὶ πολλοὺς ἠνάγκασε τῶν Καρχηδονίων ἀνδρωδῶς ἀποθανεῖν· φονευόμενοι γὰρ ὑπὸ τῶν μισθοφόρων ἐμάχοντο παρὰ τὴν αὑτῶν προαίρεσιν ἅμα πρός τε τοὺς ἰδίους καὶ πρὸς τοὺς Ῥωμαίους. Ποιούμενοι δὲ τὸν κίνδυνον ἐκστατικῶς καὶ παρηλλαγμένως οὐκ ὀλίγους διέφθειραν καὶ τῶν ἰδίων καὶ τῶν ὑπεναντίων. (…). Tοὺς δὲ διασῳζομένους καὶ φεύγοντας οὐκ εἴασε καταμιγῆναι ταῖς δυνάμεσιν Ἀννίβας, (…).
2) 34,1 Vtrimque nudata equite erat Punica acies cum pedes concurrit, nec spe nec uiribus iam par. (…) congruens clamor ab Romanis eoque maior et terribilior, dissonae illis, (…). 34,2 concursatio et uelocitas illinc maior quam uis. 34,3 uelut nullo resistente incessere.
34,4-8 Afri et Carthaginienses, adeo non sustinebant ut contra etiam (…). Non tamen ita perculsos iratosque in aciem accepere (…).
Levene 2010, 243.
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Suite à cette première déconvenue, Tite-Live conclut à l’infériorité des Carthaginois, alors qu’Hannibal semble conserver ses chances dans le texte grec. Polybe laisse penser qu’il tire à nouveau parti de l’éloignement des cavaliers pour lancer la première ligne infanterie, composée de mercenaires. Lorsque retentissent les cris des soldats qui s’apprêtent à en venir aux mains, Polybe contraste les deux armées et révèle la diversité de l’armée carthaginoise sans pour autant en faire un défaut, alors que Tite-Live donne l’avantage aux Romains en s’appuyant sur ce même facteur. Dans le corps à corps qui s’ensuit, l’historien grec oppose les qualités des uns et des autres, et la lutte semble indécise. Finalement, accusant plusieurs désavantages, les mercenaires finissent par tourner le dos. Polybe pointe en particulier le manque de soutien de la seconde ligne de Carthage, restée immobile, ce qui semble étrange, voire choquant. Les mercenaires, abandonnés, se retournent contre leur camp, mais Polybe souligne alors un effet positif inattendu (13,5-6): les Carthaginois, contraints de faire face à deux adversaires à la fois, redoublent d’ardeur et occasionnent des pertes significatives. Lorsque ceux-ci fuient à leur tour, Hannibal intervient même personnellement pour que sa dernière ligne se comporte de la même manière. Tite-Live n’accorde aux mercenaires de Carthage que la vitesse et l’avantage provisoire de l’élan (34,2). Passé le premier choc, les Romains progressent avec une facilité déconcertante (uelut nullo resistente incessere). Le manque de solidarité sert également de transition et de critère de contraste entre les deux armées. À nouveau, l’historien latin souligne l’importance de ce facteur. Il entérine la dislocation de la première ligne plus tôt que dans le texte grec et porte un éclairage particulièrement négatif sur l’immobilisme des autres membres de l’armée ennemie, qui a pour conséquence le revirement des premiers engagés. Ici, Africains et Carthaginois, confrontés à deux fronts, prennent logiquement la fuite, sans briller particulièrement. Ils connaissent alors le même sort que les mercenaires face à la dernière ligne, qui, en l’absence d’explication, offre un spectacle désolant en refusant d’accueillir les fuyards. Polyb. 15
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3) 14,2 ὅ τε γὰρ τῶν νεκρῶν ὄλισθος, ὡς ἂν αἱμοφύρτων καὶ σωρηδὸν πεπτωκότων, ἥ τε τῶν χύδην ἐρριμμένων ὅπλων ὁμοῦ τοῖς πτώμασιν ἀλογία δυσχερῆ τὴν δίοδον ἔμελλε ποιήσειν τοῖς ἐν τάξει διαπορευομένοις.
3) 34,9 Ceterum tanta strages hominum armorumque locum in quo steterant paulo ante auxiliares compleuerat ut prope difficilior transitus esset quam per confertos hostes fuerat.
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14,6-7 Ὄντων δὲ καὶ τῷ πλήθει καὶ τοῖς φρονήμασι καὶ ταῖς ἀρεταῖς καὶ τοῖς καθοπλισμοῖς παραπλησίων ἀμφοτέρων, ἄκριτον ἐπὶ πολὺ συνέβαινε γενέσθαι τὴν μάχην, ἐν αὐταῖς ταῖς χώραις ἐναποθνησκόντων τῶν ἀνδρῶν διὰ φιλοτιμίαν, ἕως οἱ περὶ τὸν Μασαννάσαν καὶ Λαίλιον (…)
34,12 Ita nouum de integro proelium ortum est; quippe ad ueros hostes peruentum erat, et armorum genere et usu militiae et fama rerum gestarum et magnitudine uel spei uel periculi pares; sed et numero superior Romanus erat et animo quod iam equites, iam elephantos fuderat, iam prima acie pulsa in secundam pugnabat. 35,2 Is demum equitum impetus perculit hostem.
Le récit grec s’interrompt alors un instant sur la description du massacre encore frais. Le ralentissement de la progression romaine, qui n’a provisoirement plus de résistance en face d’elle, se comprend mal. Polybe résout alors ce paradoxe par ses explications et souligne le risque encouru: empêtrés dans la masse de cadavres, les hastati et les principes se disloquent au point que Scipion doit intervenir pour remettre de l’ordre. Un rude combat s’engage alors avec la dernière ligne de Carthage, qui semble de force égale (παραπλησίων ἀμφοτέρων, ἄκριτον ἐπὶ πολὺ συνέβαινε γενέσθαι τὴν μάχην). Dans ce cadre, le retour des cavaliers apparaît déterminant pour faire définitivement pencher la balance en faveur de Rome. Chez Tite-Live, le rapport de cause et de conséquence du texte grec est habilement inversé: l’empêtrement des Romains sert ici à prouver et à mesurer l’étendue du carnage et est l’occasion d’ironiser sur l’efficacité des troupes de Carthage (ut prope difficilior transitus esset quam per confertos hostes fuerat). C’est le véritable combat (nouum de integro proelium; ueros hostes) qui commence alors selon l’historien latin, avec la troisième ligne, ce qui disqualifie ainsi l’action de celles qui précèdent 28. La balance des forces est un instant rétablie avant d’être brisée, les Romains disposant d’un avantage sur au moins deux points (et numero superior Romanus erat et animo). Dès lors, le retour des cavaliers ne fait que précipiter une défaite inéluctable. Et alors que Polybe terminait 28 Cette redéfinition du combat qui s’engage est un procédé typique de ce que Perelman – Olbrechts-Tyteca 2008, 550-609 nomment la dissociation de notion: celle-ci consiste à séparer deux aspects ou compréhensions auparavant unis au sein d’une notion floue (par exemple, la justice), pour ensuite les hiérarchiser et valoriser un nouveau sens, restreint, au détriment de l’autre, souvent sur la distinction entre apparence et réalité.
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son récit par un constat relativement neutre, Tite-Live ne laisse supposer aucun survivant dans le camp carthaginois. Polyb. 15
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4) 15,3 – 16,6 Ἀννίβας δὲ μετ’ ὀλίγων ἱππέων κατὰ τὸ συνεχὲς ποιούμενος τὴν ἀναχώρησιν εἰς Ἀδρύμητα διεσώθη, πάντα τὰ δυνατὰ ποιήσας κατὰ τὸν κίνδυνον, ὅσα τὸν ἀγαθὸν ἔδει στρατηγὸν καὶ πολλῶν ἤδη πραγμάτων πεῖραν εἰληφότα. Πρῶτον μὲν γὰρ εἰς λόγους συνελθὼν ἐπειράθη δι’ αὑτοῦ λύσιν ποιήσασθαι τῶν ἐνεστώτων (…). Mετὰ δὲ ταῦτα συγκαταστὰς εἰς τὸν κίνδυνον οὕτως ἐχρήσατο τοῖς πράγμασιν ὥστε μὴ δυνατὸν εἶναι βέλτιον πρὸς Ῥωμαίους ἀγῶνα συστήσασθαι, παραπλησίῳ καθοπλισμῷ χρώμενον, οὗ τότε συνεστήσατ’ Ἀννίβας. (…) Eἰ δὲ πάντα τὰ δυνατὰ ποιήσας πρὸς τὸ νικᾶν ἐσφάλη τὸν πρὸ τούτου χρόνον ἀήττητος ὤν, συγγνώμην δοτέον·ἔστι μὲν γὰρ ὅτε καὶ ταὐτόματον ἀντέπραξε ταῖς ἐπιβολαῖς τῶν ἀγαθῶν ἀνδρῶν, ἔστι δ’ ὅτε πάλιν κατὰ τὴν παροιμίαν ἐσθλὸς ἐὼν ἄλλου κρείττονος ἀντέτυχεν· ὃ δὴ καὶ τότε γεγονέναι περὶ ἐκεῖνον φήσειεν ἄν τις.
4) 35,4-9 Hannibal cum paucis equitibus inter tumultum elapsus Hadrumetum perfugit, omnia et ante aciem et in proelio priusquam excederet pugna expertus, et confessione etiam Scipionis omniumque peritorum militiae illam laudem adeptus singulari arte aciem eo die instruxisse: elephantos in prima fronte quorum fortuitus impetus atque intolerabilis uis signa sequi et seruare ordines, in quo plurimum spei ponerent, Romanos prohiberent; deinde auxiliares ante Carthaginiensium aciem ne homines mixti ex conluuione omnium gentium, quos non fides teneret sed merces, (…); tum, ubi omnis spes esset, milites Carthaginienses Afrosque (…); Italicos incertos socii an hostes essent (…). Hoc edito uelut ultimo uirtutis opere, Hannibal (…).
Dans la digression qui suit le récit, le lecteur de Polybe comprend alors que toutes les difficultés rencontrées par les Romains sont le fruit d’une intention et les effets maîtrisés d’un plan élaboré à l’avance par Hannibal, qui ne semble avoir rien perdu de son talent et aurait pu à nouveau remporter la victoire. Mais si la tactique et son exécution ne sont pas à mettre en cause, quelle est donc la raison de la défaite? Polybe estime qu’après avoir fait tout ce qui était en son pouvoir, Hannibal mérite l’indulgence (Eἰ δὲ πάντα τὰ δυνατὰ ποιήσας πρὸς τὸ νικᾶν ἐσφάλη τὸν πρὸ τούτου χρόνον ἀήττητος ὤν, συγγνώμην δοτέον·ἔστι) et indique, à l’aide d’une citation, que le hasard (ταὐτόματον) 29 a fait que ce jour-là Hannibal 29 Le hasard est associé au thème de la Fortune, récurrent dans l’œuvre de Polybe, et qui a suscité les interrogations de nombreux chercheurs. Sur la Tyche chez Polybe, voir Deininger 2013, 71-111; Ferrary 1988, 265-276; Maier 2012; McGing 2010, 195-201; Pédech 1964, 331-354; Walbank, 1967, 17-26; 1978, 58-65.
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avait un homme meilleur face à lui 30 (ἐσθλὸς ἐὼν ἄλλου κρείττονος ἀντέτυχεν). Ironiquement, l’historien rend hommage au Carthaginois en mettant en œuvre les ressources du logos en faveur de l’irrationalité de l’histoire. Même si les conclusions défendues dans le cas de Cynoscéphales et de Zama semblent très différentes, voire incompatibles, on reconnaît une cohérence dans la méthode: celle qui consiste, par la réflexion et l’argumentation, à éliminer rationnellement les causes possibles. Chez Tite-Live, le récit est cette fois également suivi d’une digression (35,4-9) sur le talent militaire d’Hannibal 31, qui, comme s’il était nécessaire de convaincre le lecteur, s’appuie sur l’aveu de Scipion lui-même 32. Tite-Live ne retient pas la tentative de paix faite par Hannibal et violemment repoussée par Scipion et ici, l’éloge se trouve en porte-à-faux manifeste avec le récit. Il est plutôt l’occasion de rappeler les origines diverses des troupes et leur motivation parfois douteuse 33, ainsi que de montrer que ceux sur lesquels reposaient tous les espoirs (in quo plurimum spei ponerent; ubi omnis spes esset) ont le plus déçu. En d’autres termes, pour expliquer la défaite d’Hannibal, Tite-Live suggère une réponse plus simple à son lecteur et similaire à celle de la bataille de Cynoscéphales: si, cette fois, le chef n’a pas démérité, l’épisode montre que, contrairement aux Romains, c’est l’armée de Carthage qui, par ses défauts, et en particulier sa désunion, ne s’est pas montrée à la hauteur de son commandement.
4. Conclusion Pour conclure, on retrouve, bien sûr, dans ces deux exemples particuliers les tendances générales des deux œuvres et de leurs auteurs, 30 Cette remarque n’est pas sans lien avec l’extrait précédent, puisque, pour repousser les contre-exemples que constituaient les défaites romaines au cours de la seconde guerre punique, Polybe (18,28,6-11) rappelait qu’Hannibal avait adopté l’équipement romain, et qu’au cours de cette guerre, c’étaient les chefs qui avaient fait la différence. 31 C’est évidemment ce genre de similitudes frappantes qui laissent penser que Polybe est bien le principal modèle de Tite-Live pour cette partie de son œuvre. 32 De Sanctis 1917, 655; Klotz 1940, 197. 33 Tite-Live (30,33,6; 35,9) interprète les troupes venant d’Italie (Polyb. 15,11,2) comme étant des troupes italiennes qui combattant sous la contrainte (De Sanctis 1917, 655; Klotz 1964, 197; Tränkle 1977, 239).
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identifiées par la critique moderne: tandis que Polybe cherche à comprendre les événements, à en déterminer les causes, et montre un intérêt prononcé pour les aspects militaires et tactico-stratégiques 34, Tite-Live écrit une œuvre à la gloire de Rome, dont il exalte les succès et dont les vertus sont les véritables héroïnes et moteurs de l’histoire. Mais la comparaison révèle également les procédés récurrents qui permettent de construire ces représentations et qui intéressent davantage le rhétoricien: les effets de point de vue, les prolepses et analepses, la présence ou l’absence de justification, l’usage du paradoxe ou de l’opposition à une attente implicite 35, l’explicitation ou la mise en exergue de certains aspects, l’attribution de certaines intentions ou conséquences, apportent un éclairage positif ou négatif sur les personnages et leurs actions et produisent, à partir d’un même événement, des impressions différentes. Si l’on accepte l’hypothèse probable que Polybe est la source de Tite-Live pour ces deux épisodes, on peut alors parler d’ajouts, de suppressions et de substitutions qui rappellent fortement les manipulations auxquels les Anciens étaient formés dans le cadre des progymnasmata 36. On remarque aussi, d’un côté, que chaque auteur a sa propre façon de faire: Polybe affirme puis justifie, argumente ses positions, affichant ainsi un ethos d’expert, et, comme dans un discours judiciaire, (re)construit un enchaînement de causes et d’effets qui paraît prévisible et maîtrisable, c’est-à-dire compatible avec l’idée qu’il y a des enseignements, des principes à en tirer, même s’ils ne sont pas infaillibles 37. Tite-Live, généralement, montre plus qu’il n’explique: un jeu de compensations et un contraste qualitatif constant entre les belligérants tend toujours à désigner, même de façon implicite, la supériorité naturelle de Rome sur ses ennemis comme la véritable cause de la victoire 38. Dès lors que l’issue n’est pas remise en cause, et en s’appuyant sur une connivence plus grande avec le lecteur, l’histoire devient un spectacle, plutôt Meißner 2013, 127-157. Souvent notée par les connecteurs οὐ μὴν ἀλλά en grec, tamen ou ceterum en
34 35
latin.
36 On pense en particulier aux exercices d’accompagnements, comme la paraphrase ou l’ ‘élaboration’, mis au jour grâce à la tradition arménienne du traité d’Aélius Théon (Patillon 2002). 37 Guelfucci 2010. 38 Bernard 2000, 247-303; Mineo 2006, 255-291.
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épidictique, émaillé de notations visuelles, rappelant la technique de l’ekphrasis, d’amplifications et d’effets dramatiques. D’un autre côté, tous ces procédés sont autant d’indices qui, mis ensemble, dessinent une représentation cohérente. Les deux auteurs se rejoignent ainsi dans l’utilisation d’un même dispositif de base où le récit est mis au service de conclusions explicites ou implicites. Ce dispositif, qui s’illustre ici sur le plan pratique est celui qui avait été avancé par Woodman 39 sur le plan théorique: celui de la narratio rhétorique, c’est-à-dire la partie qui, dans un discours, expose les faits de manière telle que l’on puisse en tirer des arguments favorables à la cause dans la partie suivante. Ce principe de la dispositio, les deux auteurs avaient pu sans doute l’apprendre à l’école du rhéteur 40, et ont très bien pu s’en inspirer pour écrire et défendre leur propre vision de l’histoire.
Bibliographie Achard 2001 = G. Achard (éd.), Tite-Live, Histoire romaine, tome XXIII : Livre XXXIII, Paris 2001. Arnaud-Lindet 2001 = M.-P. Arnaud-Lindet, Histoire et politique à Rome. Les historiens romains (iiie siècle a. J.-C. – ve siècle ap. J.-C.), Paris 2001. Bernard 2000 = J.-E. Bernard, Le portrait chez Tite-Live. Essai sur une écriture de l’histoire romaine, Bruxelles 2000. Briscoe 1973 = J. Briscoe, A Commentary on Livy, Books 31-33, Oxford 1973. Carawan 1988 = E. Carawan, Graecia Liberata and the Role of Flamininus in Livy’s Fourth Decade, TAPhA 118, 1988, 209-252. Cizek 1995 = E. Cizek, Histoire et historiens à Rome dans l’Antiquité, Lyon 1995. Conway – Johnson 1935 = R. S. Conway – S. K. Johnson (edd.), Titi Livi Ab urbe condita, vol. IV: Libri XXVI-XXX, Oxford 1935. Deininger 2013 = J. Deininger, Die Tyche in der pragmatischen Geschichtsschreibung des Polybios, in V. Grieb – Cl. Koehn (Hrsgg.), Polybios und seine Historien, Stuttgart 2013, 71-111. De Sanctis 1917 = G. De Sanctis, Storia dei Romani, vol. III.2: L’età delle guerre puniche, Torino 1917. Woodman 1988, 85-87. Pour ce qui concerne Polybe, voir Pédech 1964, 43-52 et le volume collectif Purposes of History édité par Verdin et alii (1990). Q uant à Tite-Live, on l’a parfois soupçonné d’avoir été rhéteur lui-même: Arnaud-Lindet 2001, 195; Cizek 1995, 149; Grimal 1992, 88, tant ses compétences en rhétorique paraissent évidentes. On cite à l’appui de cette hypothèse Q uintilien (10,1,39) et Tacite (ann., 4,34,3). 39 40
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Dorey 1957 = T. A. Dorey, Macedonian Troops at the Battle of Zama, AJPh 78 (2), 1957, 185-187. Ferrary 1988 = J.-L. Ferrary, Philhellénisme et impérialisme. Aspects idéologiques de la conquête romaine du monde hellénistique, de la seconde guerre de Macédoine à la guerre contre Mithridate, Rome 1988. Foulon – Weil 1995 = É. Foulon – R. Weil (édd.), Polybe, Histoires, Livres XIII-XVI, Paris 1995. Genette 1972 = G. Genette, Figures III, Paris 1972. Grimal 1992 = P. Grimal, La littérature latine, Paris 1992 (19651). Guelfucci 2010 = M.-R. Guelfucci, Polybe, le regard, la structure des Histoires et la construction du sens, CEA 47, 2010, 329-357. Herman 2008 = Th. Herman, Narratio et argumentation, in E. Danblon – E. de Jonge – E. Kissina – L. Nicolas (édd.), Argumentation et narration, Bruxelles 2008, 29-39. Johner 1996 = A. Johner, La violence chez Tite-Live. Mythographie et historiographie, Strasbourg, 1996. Kahrstedt 1913 = U. Kahrstedt, Die Geschichte der Karthager, vol. III, Berlin 1913. Klotz 1940 = A. Klotz, Livius und seine Vorgänger, Amsterdam 1940. Levene 2010 = D. S. Levene, Livy on the Hannibalic War, Oxford 2010. Luce 1977 = T. J. Luce, Livy: The Composition of his History, Princeton 1977. McGing 2010 = B. McGing, Polybius’s Histories, Oxford, 2010. Maier 2012 = F. K. Maier, ‘Überall mit dem Unwarteten rechnen’. Die Kontingenz historischer Prozesse bei Polybios, München 2012. Meißner 2013 = B. Meißner, Polybios als Militärhistoriker, in V. Grieb – C. Koehn (Hrsgg), Polybios und seine Historien, Stuttgart 2013, 127-157. Mineo 2006 = B. Mineo, Tite-Live et l’histoire de Rome, Paris 2006. Olivier et alii 2006 = H. Olivier – P. Giovannelli-Jouanna – Fr. Bérard (édd.), Ruses, secrets et mensonges chez les historiens grecs et latins, Lyon, 2006. Patillon 2002 = M. Patillon (éd.), Aelius Théon, Progymnasmata, Paris 2002. Paton 1926 = W. R. Paton (ed.), Polybius, The Histories, vol. V, London – New York 1926. Pédech 1964 = P. Pédech, La méthode historique de Polybe, Paris 1964. Perelman – Olbrechts-Tyteca 2008 = Ch. Perelman – L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation, Bruxelles 2008 (19581). Rabatel 2004 = A. Rabatel, Argumenter en racontant. (Re)lire et (ré)écrire les textes littéraires, Bruxelles 2004. Rabatel 2008 = A. Rabatel, Homo Narrans. Pour une analyse énonciative et interactionnelle du récit, voll. I-II, Paris 2008. Sans 2016a = B. Sans, Σημεῖον and τεκμήριον from Polybius to Livy, in L. Calboli Montefusco – M. S. Celentano (a cura di), Papers on Rhetoric, vol. XIII, Perugia 2016, 337-352.
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PARTE III
LIVIO E L’ARCHEOLOGIA
PAOLO CARAFA
UNA NUOVA PAGINA DI LIVIO L’ARCHEOLOGIA DELLA PRIMA ROMA
1. Premessa Devo il titolo di questo contributo a Carmine Ampolo. Nel 1986, in occasione di una visita allo scavo iniziato l’anno precedente sulla pendice settentrionale del Palatino, egli fu uno dei primi studiosi a verificare personalmente quanto fosse estesa l’area della città arcaica che veniva riportata alla luce per la prima volta 1. Allora, Ampolo definì la stratificazione che aveva di fronte ‘una nuova pagina di Livio’, espressione più che adatta a sottolineare il valore di fonte storica dei documenti archeologici. Non è necessario sottolineare quanto i dati archeologici abbiano offerto una ‘fonte documentaria indipendente che può confermare la tradizione storica’ 2 e quanto essi siano stati ritenuti rilevanti nella discussione sulle origini di Roma. Come è noto, Arnaldo Momigliano – primo fra tutti – considerò con attenzione la documentazione archeologica relativa alla prima città, cogliendone l’estrema complessità e ritenendola una fonte di informazione essenziale per la ricostruzione della storia politica e urbana più antica di Roma 3. Tuttavia, sul tema specifico della relazione tra dati 1 L’area scavata nell’autunno del 1986 era pari a 1130 mq. circa (Palatium e Sacra Via 1). Un’estensione notevole non solo in sé ma ancor più se paragonata ai pochi e limitati scorci del paesaggio urbano del VI secolo a.C. che erano stati visti e documentati fino ad allora: Foro Romano, saggio presso il cosiddetto equus Domitiani mq. 5; Comizio, Saggi Boni e Romanelli/Squarciapino mq. 9,3; Sant’Omobono, saggi Colini e Gjerstad mq. 33 circa. Oggi, l’area di città di età regia indagata sulla sola pendice settentrionale del Palatino ha raggiunto la superficie complessiva di 1,5 ettari circa (Santuario di Vesta 2017). 2 Cornell 1986, 65. La traduzione è mia. 3 Momigliano 1938; 1963; 1989a; 1989b.
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 501-520 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125340
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archeologici e tradizione, Momigliano sospese il giudizio in attesa che si definissero le polemiche che accompagnarono la pubblicazione della monumentale opera di E. Gjerstad, Early Rome I-VI, Lund 1953-1973. Infatti, le cronologie assolute proposte dallo studioso svedese per oggetti o contesti stratigrafici vennero subito sottoposte ad aspre critiche, essendo ritenute a ragione eccessivamente basse 4. Oggi la nostra conoscenza materiale della prima città è incredibilmente più approfondita e basata su un sistema cronologico e tipologico assai più stabile e certo rispetto ad allora 5. Non solo, i dati raccolti attestano ormai un processo di cambiamento, in atto nell’abitato di Roma a partire dalla prima metà dell’VIII secolo a.C. Tuttavia, si discute ancora vivacemente su quale sia la relazione tra il quadro che emerge dalle ricerche archeologiche e la ricostruzione delle origini conservata nelle nostre fonti. Inoltre, lo scetticismo di alcuni ricercatori riguardo la possibilità di conoscere alcuni degli elementi più remoti della storia della città o riguardo alcune delle più recenti ricostruzioni proposte proprio grazie ai risultati delle nuove scoperte è lo stesso, se non addirittura maggiore 6. Date queste premesse, il testo che segue è articolato in tre sezioni. La prima (paragrafo 2) offre una breve considerazione del racconto di Livio sulle origini della città. La seconda (paragrafo 3) descrive il quadro archeologico aggiornato relativo alla prima età regia e alla fase immediatamente precedente. La terza, infine, propone inizialmente un’interpretazione di questo quadro (paragrafo 4.1). Altra cosa è comparare tale quadro con la memoria degli Antichi, riflessione che sarà presentata (paragrafo 4.2) considerando in particolare le critiche più recenti mosse da coloro che ritengono che «la documentazione archeologica contrasta radicalmente con il racconto di tutti gli storici dei quali si è conservata l’opera, incluso Livio» 7. 4 Müller-Karpe 1959; Peroni 1960; Riemann 1960; Müller-Karpe 1962; Colonna 1964; Riemann 1970; 1971; Colonna 1977. Per un’analisi delle scelte metodologiche che portarono ad accettare o a respingere la ricostruzione di E. Gjerstad vedi ora Carafa c.d.s. 5 Si veda al proposito la recentissima sintesi di Guidi 2019 e Benedetti et alii 2019. 6 Per citare solo gli esempi più recenti Hall 2014; Beard 2015; Cornell 2015. Da ultimo tra i giuristi vedi Vincenti 2017, 3-18. Per una più attenta e corretta lettura dei nuovi dati archeologici da parte di storici vedi invece Smith 2005, Grandazzi 2017, 52-185. Vedi ora anche Bradley 2020, 138-155: pur con alcune incertezze e lievi imprecisioni sulle cronologie assolute e dubbi sulla lettura di alcuni contesti, si ritiene che il quadro archeologico ora definito non consenta più di immaginare la nascita della città solo alla fine del VII secolo a.C. ma almeno «un certo livello di sofisticazione politica» già prima del 650 a.C. 7 Cornell 2015, 248. La traduzione è mia.
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UNA NUOVA PAGINA DI LIVIO
2. La prima città di Livio Sulla prima Roma di Livio e sulle fonti utilizzate dallo storico per redigere la prima parte del libro 1 si è scritto molto 8 e non è questa la sede per riprendere, anche se solo brevemente, la questione. Ciò che invece è stato fatto solo di rado, è applicare alla leggenda di Roma i metodi di analisi tipici della ricerca storico-religiosa o antropologica sulle memorie culturali pre-storiografiche e sui miti 9. Da questo punto di vista, tra gli storici mi sembra si sia distinto J. Poucet, che ha proposto un’efficace prima stratigrafia e lettura strutturale della leggenda, riconoscendo in essa alcuni strati articolati nel modo seguente, dal più antico al più recente: 1. ‘ampia materia’ narrativa pre-fabiana, 2. redazione di Fabio, 3. amplificazioni narrative successive alla redazione di Fabio. Dal punto di vista della struttura narrativa, invece, lo stesso studioso ha identificati motivi narrativi ‘liberi’ e motivi narrativi ‘fissi’ 10. Noi abbiamo proposto la ricostruzione di una possibile morfologia della saga delle origini, delle sue varianti mitiche e delle relative amplificazioni narrative nei quattro volumi de La leggenda di Roma 11. Da quelle proposte, cui rimando per ogni altro aspetto più generale o di particolare dettaglio, traggo alcuni elementi utili al tema che qui interessa. Nell’opera di Livio, escluse le vicende comprese tra la fuga di Antenore ed Enea da Troia all’usurpazione di Amulio (1, 1-3) e l’excursus relativo alla lotta tra Ercole e Caco (1,7, 4-15), la nascita di Roma è narrata in tredici capitoli così articolati: 1,4,1-3
Nascita dei gemelli
1,4,4-6
Esposizione e salvazione dei gemelli
1,4,8-5,3
La gioventù dei gemelli
1,5,4-6,2
La conquista di Alba e l’uccisione di Amulio
Prima impresa
1,6,3-7,3
La fondazione della città e la morte di Remo
Rito
Nucleo mitico A
(cont.)
8 Si vedano ad esempio Ogilvie 1965, 29-35, 46-87; Musti 1970, 21-81, 140-155; Cornell 1975; 1986; Luce 1977; Forsythe 1993; Miles 1995; Jaeger 1997; Mineo 2006; Cornell 2013; 2015. 9 Per il tema che qui interessa si veda Brelich 1955; 1958; 1972; 1976; 19952; 2002. 10 Poucet 1985; 2000. 11 Leggenda I-IV.
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1,8,1-7
Costituzione 1: littori, senatori, Asilo
1,9,1-11,4
Il ratto delle donne e le prime guerre di Romolo
1,11,5-13,5
La guerra romano sabina e il regno di Romolo e Tito Tazio
1,13,6-8
Costituzione 2: curiae, centuriae, tribus
1,14,1-15,8
Morte di Tito Tazio, regno e seconde guerre di Romolo
1,16,1-8
Morte di Romolo
Seconda impresa
Nucleo mitico B
La struttura narrativa ha il suo centro nel rito di fondazione, sezione che divide la leggenda in due parti analoghe e speculari, ciascuna composta da un nucleo mitico e un’impresa. Di queste ultime, la prima – la vendetta e l’uccisione di Amulio – è assai meno complessa della seconda. Essa, infatti, comporta la creazione di una città con il suo popolo, i suoi luoghi, le sue istituzioni e il suo territorio. Tale struttura, nella sua essenza, accoglie tutti i motivi fissi della tradizione. Pertanto, essa può risalire al nucleo più antico della leggenda che, come abbiamo cercato di argomentare, può risalire alla prima età regia. Se consideriamo invece le varianti mitiche che Livio sceglie per comporre il suo racconto, si rileva che egli ha sempre accolto quelle meno ‘autentiche’ in termini mitici 12 tranne un solo caso: la storia di Tarpea. In un altro caso, la scomparsa di Romolo, non accoglie la variante dello squartamento del re – probabilmente più antica e miticamente genuina – ma la ricorda ambientandola in Campo Marzio e non nel Volcanal. Q uesta sorta di variazione sul tema condivide tra i vari un elemento centrale, comune a tutte le altre versioni: Roma nasce in un luogo disabitato.
3. L’archeologia di Roma dal IX al VI secolo a.C. 3.1. Una documentazione consistente e ben datata In primo luogo, dobbiamo ribadire quanto il dossier stratigrafico relativo alla primissima età regia sia oggi (tab. 2) assai più consistente di quello sul quale si basarono storici e archeologi alla fine del secolo scorso per datare la nascita della città intorno al 600 a.C. (tab. 1). 12 Per il concetto e una definizione di autenticità mitica, che non significa in alcun modo memoria storicamente affidabile, si veda da ultimo Leggenda I, 14-38 e 65-66 (A. Carandini).
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UNA NUOVA PAGINA DI LIVIO
Tabella 1. Stratigrafie sulle quali si basa la datazione all’Orientalizzante Recente per la nascita della città. Estensione (mq)
Volume (mc)
Frammenti datanti 13
Foro, Saggio Boni-Gjerstad pres- 5 so il cosiddetto Equus Domitiani, strato 22A metà ca. del VII secolo a.C.
0,75
0 (la datazione si basa sul l’assenza di bucchero)
Comizio, Saggio Boni X, strato 8,78 21 fine del VII secolo a.C.
3
1
Tabella 2. Stratigrafie databili alla prima età regia (775/750-650 a.C. ca.) nell’area del Foro e della pendice settentrionale del Palatino. Estensione (mq) 14
Comizio, Saggio Squarciapino, 0,5 strato 16 seconda metà dell’VIII secolo a.C. Comizio, c.d. stipe, reperti di seconda metà VIII secolo a.C.
Volume (mc)
Frammenti datanti 15
0,125
3
?
7
?
Comizio, Saggio Boni X, strato 8,78 23 metà ca. del VII secolo a.C.
3,24
3
Foro, Saggio Boni-Gjerstad pres- 5 so il cosiddetto Equus Domitiani, strati 22B-28, fine VIII secolo a.C.
6,65
6
Comizio, Saggio Boni X, strato 8,78 21 fine del VII secolo a.C.
3
1 (cont.)
13 Come è noto, la terza condizione per riconoscere archeologicamente una città sul sito di Roma è stata considerata la creazione del santuario di Vesta (Ampolo 1988). Esso è stato datato non sulla base di stratigrafie (non documentate prima dei nostri scavi) ma sulla base degli oggetti di età Orientalizzante Recente rinvenuti nel cosiddetto Pozzo B nel santuario. Come già H. Müller-Karpe aveva indicato (1962) gli oggetti più antichi all’interno dello stesso pozzo risalgono però all’VIII secolo a.C. 14 Per la distribuzione e le superfici dei saggi da noi effettuati, dove sono state raggiunte le fasi alto arcaiche e il suolo naturale vedi Santuario di Vesta 2017 tav. 12. 15 Consideriamo qui solo i frammenti utilizzati per definire la cronologia assoluta di attività e gruppi di attività citati nelle sezioni dedicate ai reperti in Santuario di Vesta 2017 o in Carafa 1995.
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Estensione (mq)
Mura Palatine età alto arcaica
80,13
Volume (mc)
Frammenti datanti
66,5
20 oggetti integri (corredi delle sepolture associate alla fortificazione) e ca. 2600 frammenti ceramici
Vicus, aedes e Atrium Vestae, età 14,2554 alto arcaica
10,12
885
Sacellum/ara di Aius Locutius, 5,1359 età alto arcaica
4,20
2
Fanum con sacellum dei Lares
13,66420
5,2
93
Domus Regia
12,75940
12,7
14 oggetti integri (corredi delle sepolture associate alla domus) e 24 frammenti ceramici
5,4
755
Fanum e sacellum di Giove Sta- 5,1869 tore, età alto arcaica
In secondo luogo, le tipologie sulle quali basiamo le nostre datazioni e il sistema cronologico a esse collegato sono ancora validi nelle linee fondamentali. In anni recenti, grazie alle nuove scoperte e alla migliore edizione di vecchi contesti, sono stati apportati solo lievi aggiustamenti: 1) ciò che veniva identificata come una breve fase di transizione interposta tra i Periodi Laziali III e IV (cosiddetta ‘Fase Transizionale’) è oggi considerata una sottofase del Periodo Laziale IIIB; 2) l’utilizzo sempre più diffuso di analisi al C14 e della dendrocronologia ha permesso di stabilire una serie di datazioni assolute, ‘indipendenti’, calibrate scientificamente e illustrate nella tabella seguente. Fase Laziale
Cronologia assoluta
I
1050/1025-925 a.C. ca.
IIA1
925-900 a.C. ca.
IIA2
900-875 a.C. ca.
IIB1
875-850 a.C. ca.
IIB2
850-825 a.C. ca.
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UNA NUOVA PAGINA DI LIVIO
Fase Laziale
Cronologia assoluta
IIIA1
825-800 a.C. ca.
IIIA2
800-775 a.C. ca.
IIIB1
775-750 a.C. ca.
IIIB2
750-725 a.C. ca.
I sistemi di datazione sono dunque affidabili, sia per la correttezza del sistema di riferimento costruito nel corso degli anni, sia per la quantità dei dati ora disponibili e in continuo accrescimento 16. 3.2. Una grande soluzione di continuità La storia dell’abitato sul sito di Roma che emerge oggi si articola nelle fasi seguenti 17. Fase 1. Dalla fine del X secolo a.C. al 775 a.C. circa.
Tra le fasi laziali IIA2 e IIB1 (intorno all’875 a.C. ca.) si verificano l’abbandono simultaneo dei sepolcreti più antichi distribuiti (dalla fine del X secolo a.C.) in piccoli nuclei nei fondovalle (presso il tempio di Antonino e Faustina, nel Foro di Cesare e nel Foro di Augusto) e lo sviluppo di nuove necropoli sull’Esquilino (via Lanza) e ai margini del Q uirinale (tra largo Santa Susanna e via Antonio Salandra). Allo stesso tempo le aree abitate si estendono dalle sommità delle alture verso i fondovalle. Q uesti avvenimenti consentono di riconoscere un fenomeno unitario: l’ampliamento dell’area abitata e lo spostamento delle necropoli in periferia. Ciò è indizio della nascita di un centro unificato di tipo proto-urbano. Fase 2. Prima soluzione di continuità. Fase 2.1. Dal 775 al 700 a.C. circa.
A partire dalla fase laziale IIIB1 (tra il 775 e il 750 a.C. ca.), alcuni settori dell’abitato più antico sono distrutti e appaiono i primi edifici e luoghi ‘centrali’ e pubblici: le mura del Palatino, il quartiere di Vesta con la sua residenza; il Comizio, i culti pubblici sul Campi doglio e, infine, il Foro. Santuario di Vesta 2017, 48-51. Carafa 1997; Leggenda III, 253-255 (P. Carafa).
16 17
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Ne consegue che nello stesso momento e nello stesso abitato si registrano fenomeni diversi: a) alcuni settori sono distrutti e sosti tuiti da realtà diverse (pendice settentrionale del Palatino); b) in altri – dove la trama dell’abitato era assente o comunque meno densa – sono allestiti luoghi ‘nuovi’ perché funzionali a un’organizzazione di tipo diverso da quella precedente, quali ad esempio una piazza pubblica (Foro e Comizio); c) altri ancora non subiscono varia zione alcuna (Foro di Cesare); d) altri infine da epoca precedente si configurano come zone ‘particolari’ perché non condividono con il resto dell’abitato il tabù dell’esclusione delle sepolture di adulti ma in sincronia con i fenomeni a) e b) non le accolgono più (Giardino Romano). Inoltre, se analizziamo la distribuzione topografica dei fenomeni sopra descritti si rileva che: il fenomeno a) è attestato sul Palatino; il fenomeno b) nell’area tra Palatino e Campidoglio; il fenomeno c) in settori diversi; il fenomeno d) sulla cima del Campidoglio. Emerge così un quadro di trasformazione che interessa in modi diversi aree diverse dell’abitato, quale che sia l’evento storico cui vogliamo collegare questo processo e indipendentemente da singoli casi di ‘continuità’ specifica che devono essere letti nel quadro più generale. Fasi 2.2. e 2.3. Dal 700 al 625 a.C. circa e dal 625 al 575 a.C. circa.
Per tutta l’età medio-orientalizzante non si registra nessun cambiamento di rilievo nei contesti archeologici di Roma, per quanto a noi noto fino a oggi. Il quadro strutturato nei diversi settori dell’abitato intorno alla metà dell’VIII secolo a.C. o precedentemente – come nel caso dell’area del Foro di Cesare – viene conservato. Lo stesso avviene nel corso dell’Orientalizzante Recente, fase tradizionalmente considerata come momento di formazione/ nascita della città. Tutti gli elementi costitutivi della struttura topografica pubblica (sistema Santuario di Vesta-Foro-Comizio-ArceCampidoglio) esistono ormai da circa 150 anni e sono conservati e/o ristrutturati grazie a tecniche edilizie più evolute che prevedono strutture con fondazioni in pietra e tetti di tegole. Fase 3. Seconda soluzione di continuità. Dal 575 al 500 a.C. circa.
Solo nel corso del VI secolo a.C. appaiono nuovi segni di mutamento, dal punto di vista della struttura e della forma della città. Si costruiscono nuove mura che abbracciano tutte le alture dell’abi 508
UNA NUOVA PAGINA DI LIVIO
tato alla sinistra del fiume e l’area abitata si estende ulteriormente, acquisendo un settore più ampio dell’Esquilino. È questa la fase nella quale si realizzano le sole opere pubbliche definite maximae dai Romani: il Circo, la Cloaca e il Tempio di Giove sul Campidoglio. Dopo il 550 a.C., le antiche mura palatine vengono distrutte e nuovi quartieri nascono alla pendice del monte. In alcuni settori dell’abitato, solo ora il tessuto protostorico viene definitivamente cancellato, come dimostrano i recenti scavi al Foro di Cesare 18.
4. Due racconti a confronto 4.1. Roma grande prima dei Tarquini Roma è stata subito grande. Le dimensioni dell’area abitata dall’età del Ferro all’età tardo arcaica, ricostruibili sulla base della carta archeologica e dei dati inseriti nel Sistema Informativo Archeologico della città di Roma 19 e del suo territorio, sono le seguenti: Cronologia relativa
Datazione
Ettari
Dalla fase laziale IIB1 alla fase laziale IIIA2
875-775 a.C. ca.
212,75025
Dalla fase laziale IIIB1 alla fase laziale IVB
775-580 a.C. ca.
239,6746
Dal 580 a.C. ca. (area racchiusa dalle Mura Serviane) Post 580 a.C. ca.
363,752
Se consideriamo il mondo greco, la rilevanza di Roma dal punto di vista quantitativo emerge ancora più chiaramente. Per quanto mi è stato possibile verificare, non sono state esaminate in dettaglio le dimensioni dei centri maggiori nella Grecia dell’età del Ferro. 18 Recenti indagini nel settore sud-orientale del Foro di Cesare hanno rivelato un’articolata sequenza stratigrafica che documenta la storia dei quest’area ai margini dell’Argileto, dall’età del Bronzo fino alla costruzione del complesso cesariano. Sappiamo così che nel XIII secolo viene creato un terrazzamento artificiale sul quale corre una strada e, successivamente, nella stessa zona si sviluppa una necropoli dei Periodi Laziali 1 e 2A1 (metà XI – fine X secolo a.C. circa). Dopo l’abbandono del sepolcreto, qui sorge un nucleo abitato del quale si conservava parte di una capanna (fase laziale 2B), una fornace per ceramica con due tombe di bambine e un pozzo (fase laziale IIIB), trasformata poi in forgia per fondere metalli presso una nuova capanna (VII secolo a.C.). Solo nel primo quarto del VI secolo a.C., questo paesaggio così antico viene sostituito da un nuovo quartiere, con una strada e almeno due edifici, con fondazioni in scheggioni e opera quadrata di tufo cappellaccio, divisi da uno stretto ambitus. Gli scavatori propongono di attribuire questi resti a due domus con ambienti interni disposti su due lati di una corte interna (Delfino 2014, 51-74 e 87-93). 19 Capanna 2012; Carafa 2012.
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Invece, è stato possibile ricostruire in modo affidabile l’estensione urbana di città della madrepatria o delle colonie di età alto arcaica solo nei quattro casi seguenti: Città
Ettari
Bibliografia
Siracusa
75,36 (Ortigia) 153,77444 (Akradina) 229,138927 (totale)
Elaborazione da Mertens 2006, fig. 567
Megara Hyblaea
60
Gras, Tréziny 1999
Taranto
49
Mertens 2006, p. 59
Naxos
10 (35 dal VII sec. a.C.)
Mertens 2006, p. 87
Pertanto, la messe di dati raccolta dalla fine del secolo scorso ci ha spinto a ritornare a una domanda che era stata posta circa venticinque anni fa, ancora una volta da C. Ampolo: «quando si può accertare a Roma l’esistenza di una vera città, cioè quando vediamo i ‘segni’ del sistema della città-stato?» 20. Egli, lucidamente, aveva anche indicato il metodo per rispondere a questa domanda: «l’unica documentazione cui possiamo ricorrere in prima istanza è quella archeologica» 21. Q uesta cospicua documentazione archeologica relativa alla prima età regia, infatti, rivela che la creazione dei primi luoghi e monumenti pubblici della città, attribuita all’età dei Tarquini, si data su solide basi all’inizio dell’età regia. Pertanto, il regno degli ultimi re non può essere connesso alla nascita di elementi fondativi di uno Stato, che sembrerebbe invece esistere già prima della fine del VII secolo a.C. 22. I nuovi dati attestano anche un processo di cambiamento, in atto a partire dal secondo quarto dell’VIII secolo a.C. Data la natura di questo processo – distruzione di settori dell’abitato più antico e nascita di edifici e luoghi ‘centrali’ e pubblici – è possibile ipotizzare che questa trasformazione fosse connessa a un mutamento di tipo politico/istituzionale. Di conseguenza, non sembra possibile affermare che il nuovo quadro sia in contrasto con Ampolo 1988, 155. Ampolo 1988, 156. 22 T. Cornell, dopo le prime notizie delle nostre scoperte, ritenne che «l’urbanizzazione del tardo VII secolo è, strettamente parlando, solo un terminus ante quem per innovazioni sociali e istituzionali che possono essere state il prodotto di un atto (o di una serie di atti) di fondazione più antica» (Cornell 2000, 47). 20 21
510
UNA NUOVA PAGINA DI LIVIO
l’esistenza di una città o, addirittura, che la smentisca. Per queste ragioni abbiamo proposto di datare la ‘nascita di Roma’ nell’arco di tempo che va dai decenni a cavallo della metà dell’VIII secolo a.C. fino alla fine dello stesso secolo. Possiamo definire questo processo con nomi diversi, ma la soluzione di continuità tra prima parte dell’età del Ferro e seconda metà dell’VIII secolo a.C. è documentata nel terreno di Roma stessa. In questa soluzione di continuità tra due insediamenti diversi, verificabile prima della seconda epoca regia, sta anche la possibilità di comparare il quadro archeologico con l’essenza della ricostruzione storica degli Antichi. 4.2. La memoria degli Antichi e il ‘conflitto’ tra dati archeologici e la narrazione degli storici romani Altra cosa, infatti, rispetto all’analisi archeologica, è comparare questa trasformazione con il racconto che i Romani elaborarono per illustrare le proprie origini (la cosiddetta ‘leggenda di Roma’). Ci siamo chiesti quale relazione potesse eventualmente esistere tra le due diverse serie documentarie, stratigrafie e racconti/tradizioni. Abbiamo voluto iniziare a considerare globalmente e sistematicamente tutti i prodotti materiali e culturali dell’età delle origini o relativi a essa. Ciò non implica un’accettazione acritica della narrazione mitico-leggendaria. La leggenda è stata variamente datata (dal VI al IV secolo a.C., per alcuni ancor prima) e le proposte avanzate per la sua redazione/definizione/formazione/evoluzione sono diverse. La nostra è una tra queste ed è possibile fissarla alla prima età regia. Ma si tratta di un piano diverso e indipendente rispetto all’analisi archeologica dell’evoluzione dell’abitato, nella quale si giunge a risultati autonomi, a prescindere dalla valutazione della ‘tradizione’ e del suo valore ‘storico’ che si voglia preferire. Il fenomeno di fondazione/formazione della città è cosa ben distinta dal mito della fondazione, così come ci è stato conservato nelle varianti delle nostre fonti, e verificabile indipendentemente da esso. Il che ci riporta a un eventuale confronto tra due serie documentarie diverse. Di recente sono state varie le critiche mosse alla nostra ricostruzione. In particolare, è stata ribadita con forza l’idea che la documentazione archeologica non costituisca per queste epoche una fonte affidabile e che, se considerata, dimostra semmai un’evidente contraddizione con la tradizione storico letteraria. 511
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Tralasciando una serie di osservazioni relative a dettagli particolari, le argomentazioni fondamentali di chi non accetta la nostra ricostruzione sono quattro. Esaminiamole separatamente. a) Non si può proporre un confronto tra dati archeologici e tradizione letteraria perché quest’ultima è solo una memoria ‘varie gata e amorfa’ 23. Ciò non è vero. Si può non accettare la nostra ricostruzione della stratigrafia della leggenda di Roma e la sua datazione che proponiamo 24, ma è stato dimostrato già da A. Brelich e da J. Poucet che questa leggenda ha una morfologia precisa 25, come del resto tutti i miti e le memorie culturali pre-storiografiche. La sua articolazione in varianti mitiche non ne fa un racconto confuso, contraddittorio o privo di struttura narrativa logica. Semmai ne accresce il valore di documento culturale. b) La documentazione archeologica smentisce la tradizione. Infatti la prima dimostra che il sito di Roma è occupato ininterrottamente dalla prima metà del II millennio a.C. mentre la seconda ricorda univocamente una città nata in un territorio deserto 26. Tale affermazione ci porta a una prima considerazione. Proprio gli studiosi che più negano la possibilità di instaurare un confronto tra dati archeologici e tradizione letteraria (vedi punto precedente) usano i primi per smentire la seconda. Ma poiché non esistono dati archeologici più adatti di altri per essere confrontati con le fonti non archeologiche, l’intero processo deduttivo è scorretto dal punto di vista ermeneutico. Conviene piuttosto comparare serie documentarie diverse, basandosi su analisi filologicamente corrette e rispettose della documentazione. Il punto è questo. Il dossier archeologico dimostra che un abitato unificato di tipo proto-urbano viene modificato in una sua parte (il Palatino), si estende verso la sommità delle alture dell’Esquilino e del Q uirinale e riceve un’aggiunta sostanziale: il sistema Foro-Comizio-Arce-Campidoglio intorno al 750 a.C. La memoria delle origini di Roma raccolta nella tradizione letteraria si divide in due grandi varianti: variante 1) nasce una città fondata in un luogo deserto (filone annalistico-poetico); 25 26 23 24
Hall 2014, 122, 134, e 141. Leggenda I-IV. In particolare Leggenda I, xlvi-lxiv (A. Carandini). Vedi sopra paragrafo 2. Hall 2014, 138-141; Cornell 2015, 244.
512
UNA NUOVA PAGINA DI LIVIO
variante 2) nasce una città fondata nel luogo dove esisteva un abitato più antico chiamato Septimontium (filone antiquario). Secondo la nostra proposta, per questo specifico segmento della tradizione, appaiono maggiori affinità tra quadro archeologico e variante 2) piuttosto che tra quadro archeologico e variante 1). Bisogna dunque chiedersi perché una parte della tradizione abbia escluso ed eliminato la variante 2). Una possibile spiegazione potrebbe essere la necessità per il mito ‘ufficiale’ di Roma di enfatizzare l’impresa del fondatore inscenando una fondazione ‘dal nulla’, in un luogo remoto e dal valore di un inizio assoluto. Inoltre, bisogna anche chiedersi perché i Romani abbiano conservato in autorevoli tradizioni culturali la memoria di un abitato più antico di Roma. Si trattava evidentemente di un elemento difficilmente eliminabile 27. Ricorrere a motivazioni generiche e implausibili (la tradizione è un colossale e caotico cumulo di invenzioni contraddittorie e senza senso) non è fruttuoso né culturalmente sufficiente. Rilevare una dissonanza tra dossier archeologico e variante 1) significa solo sancire l’ovvio, senza porsi alcuna domanda. c) La documentazione archeologica di età alto-arcaica è inconsistente 28, priva di opportuni confronti 29; prove archeologiche certe di una città appaiono solo nella seconda età regia 30. Anche in questo caso, si tratta di un’affermazione semplicemente falsa, come dimostra una veloce consultazione delle più recenti edizioni del dossier di età regia. È bene proporre sintesi archeologiche solo dopo essersi documentati in modo corretto su quantità e qualità della documentazione e delle relative datazioni. d) Il metodo utilizzato per definire le nostre ipotesi sarebbe basato su una maldestra combinazione di dati archeologici e brani delle fonti e, soprattutto, su una sovrainterpretazione 31 o ‘secondary Su questi temi vedi Leggenda I, xiv-xvii; xlviii; lxiii-lxv (A. Carandini). Beard 2015, 56, 82-83, 96. 29 Hall 2014, 136-137. 30 Cornell 2015, 249: «In the later archaic period … there is clear archaeological evidence of a functioning city state in the form of an organized space with public cults, sacred and other public buildings, streets and communal meeting places (in particu lar, the Forum and the Comitium)». 31 Su questo tema ha particolarmente insistito Ampolo 2013 cui è stato risposto dettagliatamente in Carafa 2014. 27 28
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interpretation’ dei rinvenimenti 32. In particolare, «correlare rinvenimenti con culti e monumenti attestati a causa della loro posizione (Vesta, il Comizio, Iuppiter Feretrius ecc.) è metodologicamente infondato» 33. Mai abbiamo correlato rinvenimenti con luoghi ricordati dalle fonti per la loro posizione (‘location’). Q uando l’archeologia rivelava non generiche tracce di occupazione precedenti questo o quel monumento, ma fasi non ancora identificate di monumenti noti, le abbiamo datate correttamente, recuperando una parte della vita di quell’edificio/luogo che ancora non si conosceva. Più complesso è, invece, il tema dell’interpretazione topografica. Abbiamo tentato di identificare il complesso di monumenti, in alcuni casi sconosciuti prima delle nostre scoperte, con quanto sappiamo della topografia di Roma. In particolare nell’area circostante la Sacra via, lungo la pendice settentrionale del Palatino, il cospicuo corpus di fonti letterarie ed epigrafiche permette di identificare una serie di monumenti rilevanti, tutti legati alla struttura politica della città e attribuiti dalle fonti al primo re. Oltre il santuario di Vesta e la Casa delle Vestali: la aedes Larum, la domus Regia, le mura Palatine, il santuario di Iuppiter Stator. Nella stessa area sarebbe possibile localizzare la domus dei Tarquini successivamente trasformata nella domus Publica, sede del Pontefice Massimo 34. Identificare questi edifici con i resti da noi scoperti e datati alla metà dell’VIII secolo a.C. circa significa dunque far risalire l’esistenza di una struttura politica fino alla prima età regia. Si tratta, come è noto, di una ricostruzione discussa, avversata soprattutto da coloro che ritengono di poter localizzare la summa Sacra via e il complesso di monumenti sopra considerati nella zona circostante l’Arco di Tito 35. Si può propendere per un’ipotesi o per l’altra ma, se ci si vuole confrontare con tale problema, non si può non considerare il quadro stratigrafico e topografico costituito dai contesti da noi riportati alla luce (fig. 1-4). Infatti, come ha lucidamente stigmatizzato F. Zevi, «le fonti stesse consentono soluzioni contrastanti» riguardo l’identificazione del complesso dei monumenti in summa Sacra via 36. Cornell 2015, 250. Cornell 2015, 251. La traduzione è mia. 34 Santuario di Vesta 2017; Carafa 2017. 35 Per limitarsi ai soli contributi più recenti: Palombi 1997-1998; La Regina 1999; Ziolkowski 2004; 2015; Coarelli 2012; Zevi 2014. 36 Zevi 2014, 55. 32 33
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Fig. 1 Palatium, mura palatine, lucus Vestae, ara Aii Locutii?, fanum Iovis Statoris, Velia, 750-700 a.C. (Santuario di Vesta 2017, tav. 4).
Fig. 2 Palatium, murus Romuli, lucus Vestae, fanum Iovis Statoris, Velia, 530-509 a.C., III sec. a.C. (Santuario di Vesta 2017, tav. 5).
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Fig. 3 Palatium, murus Romuli, lucus Vestae, fanum Iovis Statoris, Velia, 80-44 a.C. (Santuario di Vesta 2017, tav. 6).
Fig. 4 Palatium, murus Romuli, lucus Vestae, fanum Iovis Statoris, Velia, 27 a.C.-14 d.C. (Santuario di Vesta 2017, tav. 7).
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Se si pone la summa Sacra via presso la sella che univa il Palatino e la Velia, resta comunque il problema di proporre una possibile interpretazione per gli edifici compresi nel quartiere connesso al santuario di Vesta e ai lati della ‘nuova’ via di accesso al Palatino dalla Via Sacra, il cosiddetto Clivo Palatino A sconosciuto prima dei nostri scavi, che attraversava la linea delle mura dove si trovava una porta dalla metà dell’VIII secolo a.C. Anche ammettendo che tutti i monumenti da noi esaminati nel loro sviluppo edilizio e architettonico, a eccezione della Casa delle Vestali, siano da considerare edifici mai citati nelle fonti letterarie e quindi per noi ignoti e non identificabili, resta un dato di fatto rilevante che non può essere dimenticato nell’interpretazione del l’insieme. Il quartiere, con i suoi lotti e gli edifici che lo costituiscono, viene creato in un lasso di tempo così breve da poter essere considerato un contesto/progetto unitario. L’atto di nascita del sistema coincide con una soluzione di continuità in termini di storia dell’abi tato – la distruzione dei gruppi di capanne proto-urbane – e si data intorno alla metà dell’VIII sec. a.C. La struttura e gli elementi costitutivi di questo ‘paesaggio originario’ non vengono alterati nella loro sostanza per un periodo di circa nove secoli e, anche quando l’incendio neroniano produrrà un paesaggio nuovo, molti degli elementi creati per la prima volta nell’VIII sec. a.C. vengono conservati o riproposti. Tale impressionante continuità rivela una volontà di conservazione di questi elementi e ne suggerisce uno ‘statuto speciale’, assimilandoli a possibili memorie. Poiché, con certezza almeno nel caso del santuario di Vesta, si tratta di elementi costitutivi di una struttura politica centralizzata, è almeno lecito soffermarsi sul valore e sulla funzione che le strutture databili alla prima età regia hanno avuto nella storia del paesaggio urbano. Ciò non significa sovrainterpretare. Né cercare nei dati archeo logici conferma di ciò che la tradizione letteraria ha creduto legittimo e possibile ricostruire o, ancor peggio, di eventi mitici o leggendari. Significa invece interrogarsi su quale possibile relazione eventualmente esista tra la serie di continuità e discontinuità nei paesaggi urbani sopra illustrate e il racconto degli antichi, leggendo con attenzione questa ‘nuova pagina di Livio’.
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UNA NUOVA PAGINA DI LIVIO
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P. CARAFA
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MONICA SALVADORI – LUCA SCALCO
ELEMENTI ICONOGRAFICI DELLA DISFATTA: IL MODELLO DELLA CANNE LIVIANA
1. Introduzione La narrazione liviana della battaglia di Canne occupa, con il racconto delle fasi preparatorie, dello svolgimento dello scontro armato e delle conseguenze della sconfitta, una parte considerevole del libro 22 degli Ab urbe condita. La disfatta subita dall’esercito romano viene accuratamente descritta dallo storico patavino per il suo valore di exemplum 1 ed è per tale motivo che l’autore la riprende spesso nel corso dell’argomentazione, soprattutto in relazione ad altri episodi riferibili alla seconda guerra punica 2. A partire dalla evidenza quasi visiva che caratterizza il ‘dopo Canne’ e sulla scia delle frequenti riflessioni sulla formazione delle scene di battaglia nei monumenti pubblici romani 3, ci poniamo nella prospettiva di verificare se tra storiografia e immaginario artistico vi siano ricorrenze comuni di temi e schemi nella trattazione di un soggetto specifico – il campo dopo la battaglia – che ben si prestava alla messa in atto di studiati effetti emozionali dal forte impatto comunicativo. Va da sé che permane il problema, già ampiamente discusso in una longeva querelle, se il rapporto tra questi due linguaggi sia stretto e ponderato ovvero, più probabilmente, liquido e inconsapevole. Va ribadito che il testo scritto, come è noto, alimenta una successione di fatti e situazioni, virtualmente illimitata e immediatamente comprensibile. Le arti figurative operano invece in uno spazio ben
Chaplin 2000, 54-72. Come in Liv. 27,1-2. 3 Valgano fra tutte le note pagine di T. Hölscher (1993, 21-30). 1
2
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 521-542 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125341
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M. SALVADORI – L. SCALCO
definito e concluso, dove uno o più momenti di un determinato racconto possono essere descritti: il ricorso, da parte dell’artista, a tecniche di composizione ‘sinottica’ sulla base di una grammatica propria del linguaggio iconico – dove un ruolo fondamentale assumono gli oggetti, i gesti e gli schemi figurativi – esplicita al fruitore dell’immagine lo scorrere degli eventi e gli suggerisce il contenuto della situazione rappresentata. M. S. – L. S.
2. La peculiare trattazione liviana: elementi iconici della sconfitta La drammaticità del racconto liviano articola in maniera dettagliata la breve disamina già fornita, prima di lui, da Polibio 4: l’autore greco, infatti, per evidenziare l’impatto della sconfitta si limita a sottolineare il numero elevato di caduti, un elemento che ritorna in numerose altre trattazioni della medesima battaglia 5. Rispetto a queste altre fonti, Livio pone particolare enfasi nella descrizione del campo all’indomani dello scontro 6. Come si sintetizza nella tab. 1, dopo l’azione bellica e le sue fasi più sanguinose, quali l’accerchiamento dei soldati e la morte del console, il testo liviano si sofferma sul campo cosparso di cadaveri e feriti, ammucchiati l’uno sull’altro: i Cartaginesi sopravvissuti passano ispezionando il terreno, per recuperare i feriti, finire i nemici agonizzanti e per raccogliere i caduti e dar loro sepoltura. Lo spettacolo doveva essere desolante per i pochi superstiti romani, tanto che l’autore stesso, poco dopo la trattazione dell’evento, afferma enfaticamente che la sconfitta patita ad opera dei Cartaginesi fu la più grande di sempre, tanto da rendere gravoso anche solo raccontarla 7. La strutturazione del racconto colpisce per la sua forte iconicità e lascia supporre che fu proprio il valore emblematico della clades cannense a richiedere una disamina così attenta, visto che in molti altri pas Polyb. 3,116,1 – 117,12. Ad es. la calamitas di Cicerone (Cic., Brut. 12), o la ‘tomba della gloria romana’ (Plin., nat. 15,76). Spesso il riferimento è generico e non quantificato esattamente come nei passi inseriti in tabella 1, ma la memoria dell’elevato numero di perdite giunge fino all’epoca tarda, come testimonia ad esempio Amm. 31,13,19. 6 Orrore richiamato a 22,59,15. 7 22,54,7. 4 5
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ELEMENTI ICONOGRAFICI DELLA DISFATTA: IL MODELLO DELLA CANNE LIVIANA
saggi militari dell’opera liviana tali aspetti sono trattati in maniera più cursoria: in diverse sconfitte esemplari, quali la battaglia di Sentino o dell’Allia, lo storico riporta l’esito dello scontro, ma non si dilunga nel descrivere i particolari più macabri 8. Considerando l’attenzione posta dallo storico patavino nella descrizione degli eventi bellici, già messa in evidenza recentemente dal Koon 9, non è da escludere che i paragrafi in questione vogliano riflettere ed insistere sulla situazione reale che avrebbe visto un osservatore all’indomani della battaglia; proprio le peculiarità nella struttura della descrizione, specialmente se confrontate con altri luoghi liviani 10, lasciano ipotizzare che lo storico patavino abbia voluto impiegare mezzi fortemente persuasivi, enfatizzando in particolare alcuni aspetti.
Recupero dei feriti
×
Funerale cartaginese
×
×
Funus di L. Emilio Paolo
×?
×
×
×
×
Plut., Fab. 16,8
×
Flor. epit. 2,6,15-18
Descrizione del campo di battaglia
App., Hann. 7,4,25-26
Sil. 10,449-577
×
Q uint., inst. 8,6,26
×
Sen., dial. 4,5,4
Liv. 22, 51,1-52,59
Conteggio dei caduti
Strabo 6,3,11
Polyb. 3,116,1 – 117,12
Tabella 1. Confronto tra le principali narrazioni della battaglia di Canne.
×
×
×
×
×
×
8 Ad es. 3,5,11; 3,8,10; 3,42,5; 4,46,7; 5,18,9; 6,33,12; 7,15,8; 8,30,7; 8,39, 1-15; 25,34 – 35; 31,21,1-18; 31,27,7; 31,35, 1-38, 10; 41,4,8; 42,58,1 – 60,10. Cf. Gomez 1995. 9 Koon 2010. 10 5,38 – 39; 10,29,10-11; 25,34 – 35; 31,34,4. Si ritrovano elementi simili in Virgilio (Verg., Aen. 11, 193-212, come quadro pressoché conclusivo della guerra) e meno in Sallustio (Sall., Cat. 61, come quadro conclusivo della guerra civile).
523
M. SALVADORI – L. SCALCO
Innanzitutto, chi agisce e costituisce il punto di osservazione della vicenda è lo Straniero, non il Romano. Livio sviluppa cioè una trattazione in ‘negativo’ che, anche a causa della sconfitta patita 11, pone in primo piano i Cartaginesi ed il recupero dei loro cadaveri e feriti. È Annibale che, nella ricostruzione dello storico patavino, descrive il paesaggio di morte; il campo di battaglia è cosparso di cadaveri, alla rinfusa, con le teste affondate in buche, ammucchiati l’uno sull’altro indipendentemente dalle fazioni, come nel particolare del Numida mutilato ma ancora vivo, bloccato nei movimenti dal cadavere di un Romano 12. Inoltre, tra i corpi lordati di sangue Livio distingue due categorie di feriti: coloro che riescono ad alzarsi in piedi e quelli invece che, moribondi, implorano pietà. Nella prospettiva rovesciata, è compito dei Cartaginesi mostrarsi pietosi con essi, non dei Romani, dato che i pochi sopravvissuti al massacro erano infatti fuggiti, lasciando i superstiti sul campo di battaglia in balia del nemico 13. Chi di questi, risvegliatosi alla mattina, era sorpreso dai Cartaginesi veniva giustiziato immediatamente; la tragicità della situazione viene amplificata nel momento in cui sono i soldati romani stessi ad implorare una morte dignitosa e rapida al nemico 14. Infine, Livio lascia un certo spazio alla descrizione del cumulo dei cadaveri cartaginesi e al loro interramento, successivo comunque alla raccolta del bottino di guerra ma indice del valore del l’esercito punico e del suo rispetto verso i caduti 15. A sottolineare la dignità morale dei ‘barbari’, lo storico afferma come fosse possibile, stando ad alcune sue fonti, che tale onore fosse stato esteso anche al console romano, seppur già egli stesso dubiti che l’onorevole sepoltura fosse stata concessa in quel primo momento 16. Nelle altre fonti che trattano della battaglia di Canne, non tutti questi elementi sono diffusamente trattati o comunque presenti, Come poi in Sen., dial. 4,5,4. Presente, ma ambientato nel corso dello scontro, in Val. Max. 3,2,11. 13 Cf. invece 4,37 – 39; 7, 8 (compiuto dagli Ernici sconfitti, per rimarcare la vittoria di Roma). Al contrario App., civ. 1,43. Sul tema Giorcelli 1995; Peretz 2005. 14 22,51,6. 15 22,52,6, e poi più genericamente Manil. 4,660. Il numero dei cadaveri suscitò scalpore ed interesse, tanto da lasciare un’eco anche nella produzione di letteratura archeologica e divulgativa (Gervasio 1956). 16 22,52,6. Cf. invece Liv. 3,18,10. Per le devotiones dei Decii (8,10; 10,29,11) la scena del mucchio di cadaveri è descritta in maniera simile a quanto cantato da Silio Italico per la morte Emilio Paolo (Sil. 10,504-506). 11 12
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ELEMENTI ICONOGRAFICI DELLA DISFATTA: IL MODELLO DELLA CANNE LIVIANA
come evidenzia la tabella 1. Mancano tanto in Polibio quanto in narrazioni successive 17, ma ritornano sotto diverse forme nella versione epica di Silio Italico, di circa un secolo più tarda. La prospettiva del poeta di corte è sempre incentrata sullo sguardo cartaginese, ma è maggiormente impegnata nella descrizione delle gesta dell’eroe (ora Annibale, ora Emilio Paolo, ora Clelio) o di momenti più topici o letterari, quali la morte e il funerale del generale o la creazione di una pira per i soldati caduti 18, lasciando così in secondo piano la componente oggettiva e militare della trattazione liviana. L’attenzione indirizzata allo stato del campo di battaglia all’indomani dello scontro è stata già notata dagli studiosi, segnatamente da Victoria Pagán che cataloga il passo nel novero delle aftermath narratives, ossia le descrizioni più o meno cruente dei risultati dello scontro armato. Q ueste, sostanzialmente rintracciabili in testi che vanno dall’opera di Sallustio a quella di Tacito, si sviluppano sinteticamente in tre nuclei di azioni: 1. la raccolta dei feriti; 2. la descrizione del campo di battaglia; 3. il seppellimento dei caduti (cf. tab. 2). A quanto risulta dalla sinossi di tali estratti, l’enucleazione della sconfitta passa necessariamente per la descrizione del campo di battaglia cosparso di cadaveri, sui cui aspetti più cruenti gli autori indugiano in vario modo. Nel gruppo delle aftermath narratives la trattazione liviana relativa a Canne è peculiare per complessità e ricchezza tematica e non è da escludere che essa abbia avuto una certa importanza nella definizione dei criteri descrittivi e stilemi letterari adatti per connotare al meglio una sconfitta. Un primo richiamo si ritrova infatti nei Pharsalia di Lucano 19 e, in epoca traianea, nelle prose storiche di Tacito, il quale utilizza i medesimi elementi dello storico augu17 Polyb. 3, 116 – 117; Sil. 10,449-577; App., Hann. 1,52; 4,25; Plut., Fab. 16,7-8; Strabo 6,3,11; Q uint., inst. 8,6,26; Eutr. 3,10; Val. Max. 1,1,15; 3,7,10; 5,6,7; 6,6,7,4; Flor., epit. 2,6,15 (cf. infra); Cic., Cato 75; off. 3,47; nat. 3,80; Lucan. 2,45; Plin., nat. 7,106; 15,76. 18 Si ritrovano elementi simili in Virgilio (Verg., Aen. 11,193-212, come quadro pressoché conclusivo della guerra), che già G. Baldo riallacciava ad una tradizione epica che rimonta all’Iliade (Baldo 2004, 746). Livio più correttamente propone l’inumazione dei caduti: sul rituale funerario punico Bénichou-Safar 1982; Ramos Sáinz 1990. 19 Lucan. 7,787-796. Il raffronto è reso più solido dal fatto che è proprio il poeta ad avvicinare Annibale a Cesare, avvalorando peraltro il seppellimento del console da parte del generale Punico (ibid. 800).
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steo per descrivere le pesanti sconfitte subite dall’esercito romano: a Teutoburgo pone l’enfasi sul ritorno dell’esercito presso il luogo della sconfitta, coperto di ossa; a Bedriaco indugia nell’ispezione angosciante del campo ancora insanguinato quaranta giorni dopo la battaglia 20.
Tac., ann. 1,61
/
×
×
×
×
×
/
×
×
Caduti sul campo di battaglia
/
Funerali/raccolta o recupero delle salme
×
× ×
×
Sil. 10, 449-577
Stat., Theb. 3,114-132
Lucan. 7,787-796
Tac., hist. 2,70
Recupero dei feriti
Liv. 22,51-52
Sall., Cat. 61
Verg, Aen. 11,193-210
Tabella 2. Confronto tra le principali aftermath narratives. Il simbolo ‘/’ indica una descrizione solo parziale del tema.
× ×
L. S.
3. Dalle aftermath narratives alle aftermath images dei rilievi storici romani Il linguaggio figurativo dell’arte romana privilegia, come è noto, le scene di battaglia rese in formule iconografiche stereotipate, volte ad una immediata comprensione della virtus militare romana e della sottomissione violenta del nemico combattente 21: tra gli innumerevoli esempi valgano il fregio del Monumento dei Giuli o il famoso Sarcofago di Portonaccio, in cui, ai piedi dei soldati impegnati nel duro scontro fisico, si affastellano i corpi dei caduti 20 Tac., ann. 1,61; hist. 2,70. Sul parallelo già Flor., epit. 2,30 (anche per il cruento post-battaglia). Su Teutoburgo e la tangenza con le tematiche trattate cf. anche Clementoni 1990, 198 e 201. 21 Krierer 2002, 164; Coarelli 2008, 65.
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e dei feriti 22. La situazione peculiare delle fasi ‘dopo la battaglia’ – seppur meno attestata – trova invece forme di rappresentazione in determinate porzioni dei cd. rilievi storici soprattutto nel corso del II secolo d.C. In particolare, specifiche sequenze narrative della Colonna Traiana, del Trofeo di Adamklisi e della Colonna Aureliana presentano alcune scene che si potrebbero definire delle ‘aftermath images’ 23, poiché esse non coincidono con la raffigurazione di morti o feriti sul campo della battaglia ancora in corso, riassunta dallo scontro tra soldati stanti o a cavallo o arroccati sulle mura 24, ma con il più raro momento della ‘quiete dopo la tempesta’, quando la scena è occupata dai cadaveri e dalle azioni connesse al loro recupero. Considerando da un lato l’esiguità della documentazione e dal l’altro il fatto che spesso tali raffigurazioni vengono accorpate, in letteratura, sotto la voce di scene di battaglia 25, si può forse ritenere questo momento dello scontro armato come un tema specifico, all’interno della più generale iconografia a soggetto bellico. Sulla traccia avanzata dalle situazioni descritte nelle aftermath narratives, il tema iconografico si viene a declinare in diverse rappresentazioni del campo di battaglia: dai corpi dei caduti abbandonati a terra uno sopra l’altro, ai tentativi di porsi in salvo da parte dei soldati ancora in forze, al recupero dei feriti 26. A fianco della selezione tematica, un’ulteriore punto di contatto con le aftermath narratives è dato dalle modalità di strutturazione della scena. Come nei testi letterari si è riscontrata la tendenza ad introdurre e isolare le descrizioni cruente del campo ‘dopo la battaglia’ con un lessico e una sintassi peculiare 27, così nei monumenti considerati le convenzioni iconografiche adoperate per enucleare le scene specifiche sono abbastanza definite: o tramite l’introdu Boymel Kampen 1981, 56, 10, fig. 18. La scelta del termine è nostra, quale calco ‘iconografico’ di aftermath narratives. 24 Il tema, di ascendenza greca e noto almeno dalle pitture dell’Esquilino (Hölscher 1994, 41 tav. 1, 2), è in uso continuativamente fino all’epoca medio-tardo imperiale, tanto in contesti pubblici, come l’Arco di Costantino o di Settimio Severo (Berenson 1952, tavv. 16-17, 27) quanto privati (i sarcofagi di cui Reinsberg 2006, 66-70, 94-98). 25 Lehman Hartleben 1926, ma poi anche Rossi 1971; Bode 1992, 146, tab. 2; Pirson 1996, 158. 26 Sull’argomento, e sulla divisione canonica, cf. Ghedini – Colpo 2007, 49-54; Ghedini 2011, 183. 27 Pagán 2000, 432. 22 23
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zione di elementi paesistici, che fungono da limiti della rappresentazione, o mediante la gestione accorta dell’orientamento delle figure e la direzionalità dei gesti, o, infine, grazie ad una differenza di prospettiva e di scala – ottenuta mediante la collocazione periferica del tema in questione rispetto alla più complessa struttura della scena bellica raffigurata 28. Pur considerando il punto di vista differente rispetto al passo liviano – i morti sono i Daci 29 e non i Romani, che figurano sempre vittoriosi come obbliga la destinazione didascalico-celebrativa del monumento 30 –, sulla Colonna Traiana si ritrovano tre rappresentazioni che hanno forti tangenze con le situazioni descritte nel brano della battaglia di Canne.
Fig. 1 Particolare della scena XXIV della Colonna Traiana (rielaborazione da Coarelli 1999, tav. 24). 28 In generale, sulla tecnica di impaginazione della colonna traiana Koeppel 1982, 515. 29 Settis 1988, 121. 30 Krierer 2002.
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Nella scena XXIV è in corso una battaglia, la prima raffigurata sulla colonna e già identificata come lo scontro di Tapae 31, osservata a distanza dal re Decebalo 32: fra la retroguardia dacica ed il sovrano nemico è raffigurata una scena di recupero delle salme (fig. 1). Q uesta è fisicamente distinta dall’azione bellica in corso sulla sinistra, sia per la definizione dello spazio – in cui si evita la sovrapposizione delle due azioni –, sia per la posizione delle figure, con i soldati stanti fisicamente contrapposti a quelli intenti al recupero dei corpi 33. Si ritrovano in questa lastra le stesse categorie di feriti identificate da Livio nel passo cannense: chi è ormai defunto o del tutto moribondo 34, chi viene aiutato ad alzarsi, chi invece riesce, seppur a fatica, a trascinarsi al sicuro 35. Nella scena XXXVIII continua la battaglia e i barbari sono destinati alla sconfitta, accerchiati dalle truppe romane e costretti a calpestare i propri compagni caduti o feriti 36. Il risultato dello scontro è segnato, come indicano due elementi nella porzione superiore del registro figurato: allo stesso modo di quanto avviene nella descrizione liviana, e per di più nella medesima successione, sono raffigurati a sinistra dei carri, variamente interpretati dagli esegeti della scena, su cui è riverso il corpo di un bambino ucciso 37, e a destra il nucleo dei soldati morti (almeno due sono visibili), scomposti e distesi l’uno sull’altro 38 (fig. 2). Infine, nella scena XLI, la distinzione tra il momento della battaglia e le fasi immediatamente successive viene marcata dalla strut-
Becatti 1982, 555; Bode 1992, 144. Settis 1988, 288, fig. 31; Coarelli 1999, 68; più possibilista Galinier 2007, 64. 33 Cf. infatti Rossi 1971, 142 che vede la scena come ritirata dell’esercito dacico. 34 Settis 1988, 121 la definisce come ‘deposizione’ per la sua forte icasticità. 35 Altri recuperi di feriti sono noti all’interno della colonna, ma inseriti in composizioni più ampie (Settis 1988, 121, 129). 36 Nel caso del ferito pileato in primo piano, intento ad estrarre la freccia dalla spalla, si nota un certo parallelismo con la versione di Silio Italico della sconfitta di Canne (Sil. 10,454). 37 Galinier 2000, 185; Uzzi 2005, p. 123 38 Settis 1988, 311, 312; Coarelli 1999, 84, tav. 40. La lettura della scena è complessa e i diversi studiosi propongono alcune variazioni sull’interpretazione dei singoli elementi: così Rossi e poi Becatti pensano si tratti di un combattimento attorno a dei carri (Rossi 1971, 150; Becatti 1982, 557), giustificati dal Galinier, dal Bode e dal Koeppel in quanto simboli di un’ambientazione notturna con barricata di carri (Koeppel 1991, 165-167; Bode 1992, 149; Galinier 2007, 114-115, forse di nomadi per Bianchi 1990, 16). Secondo il Gauer, i carri, a loro volta potrebbero essere dei Daci, carichi del bottino razziato in Mesia (Gauer 1977, 27). 31 32
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Fig. 2 Particolare della scena XXXVIII della Colonna Traiana (rielaborazione da Coarelli 1999, tav. 40).
Fig. 3 Particolare della scena XLI della Colonna Traiana (rielaborazione da Coarelli 1999, tav. 43).
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tura quasi architettonica del registro figurato 39, con gli alberi che vengono utilizzati per inquadrare l’esito dello scontro armato 40 (fig. 3). In questo caso, rispetto alla scena precedente, si nota una stringente tangenza con le situazioni venutesi a creare nel campo di battaglia della Canne liviana: se qui parte dell’esercito si rifugia a Canosa, cercando di evitare le truppe cartaginesi 41, nel dettaglio della Colonna Traiana i Daci fuggono attraverso la foresta per cercare riparo dall’impeto della cavalleria romana. Il campo di battaglia – se non tutto, almeno quello in prossimità della selva – rimane coperto da cadaveri ammucchiati l’uno sopra l’altro, in una mescolanza caotica che, complici alcuni arti visibili qua e là, rende l’idea della carneficina patita, del tutto paragonabile ai corpi di Numidi e Romani descritti da Livio 42. Solo l’uomo seduto in primo piano lascia ipotizzare che vi sia ancora qualche ferito a testimoniare l’accaduto, ma a differenza della scena precedente, in cui i corpi venivano recuperati, in questa chi sopravvive viene abbandonato al suo destino, esattamente come accaduto ai legionari sopravvissuti ai Cartaginesi 43. Evidentemente la raffigurazione del campo di battaglia coperto di soldati uccisi doveva essere recepita come scena molto pregnante, sinonimo tanto di disfatta per lo sconfitto quanto di superiorità per il vincitore: stando al sistema di lettura recentemente proposto da Galinier, le scene considerate si collocano all’inizio della guerra in Dacia, nella prima campagna per la XXIV e nella spedizione in Mesia per la XXXVIII e XLI. In particolare, esse si posizionano nella porzione inferiore della colonna in quei settori destinati alla rappresentazione della superiorità bellica romana 44; inoltre, a conferma del loro status di aftermath images, costituiscono l’anello di congiunzione tra le battaglie e le scene relative alle azioni seguenti Coarelli 1999, 89, tav. 45. Sull’uso degli alberi come articolazione delle scene e come indicatore dello spazio non civilizzato cf. Settis 1988, 134; Conti 2001, 202. 41 22,50. Erano 10.000 i sopravvissuti per Val. Max. 4,8,2. Secondo la tradizione riportata da Appiano, alcuni soldati vennero invece presi dai cartaginesi (App., Hann. 4,26). 42 «[…] i Daci caduti: disarticolati manichini fra le gambe dei romani, poi cumulo orrendo di cadaveri, che fanno da contrappunto alla fuga dei compagni» (Settis 1988, 121). 43 Diversa la lettura invece del Rossi, che vede una scena di recupero dei corpi e dei feriti (Rossi 1971, 152). 44 Galinier 2007, 81-88, 103. 39 40
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lo scontro armato, come la cattura di prigionieri, le adlocutiones, i donativi 45. Analogo doveva essere l’intento comunicativo delle metope del Trofeo di Adamklisi, monumento a forma di tumulo dedicato nel 109 agli interventi dell’esercito romano in Mesia e in Dacia 46. Nonostante l’evidente differenza di stile, dovuta all’intervento di scalpellini locali, i temi raffigurati sulle metope che ornavano il Trofeo sono vicini a quelli che trovavano spazio sulla Colonna Traiana. Abbondano, vista la destinazione celebrativa del monumento dedicato a Marte Ultore, le scene a soggettivo bellico o con la raffigurazione dei caduti nel corso della battaglia 47, ma la metopa nr. 24 descrive in modo sintetico e al tempo stesso efficace la situazione del campo dopo la battaglia: i cadaveri sono ammassati l’uno sopra l’altro, in una prospettiva rovesciata e poco naturalistica, resi in maniera scomposta e riversi in più posizioni, chi sdraiato e chi sollevato fino a sembrare quasi seduto 48 (fig. 4).
Fig. 4 La metopa nr. 24 del Trofeo di Adamklisi (Bianchi 1990, fig. 18).
Galinier 2007, 51-56. Amiotti 1990, 208. 47 Ad es. le metope 35 e 36. 48 Ferri 1933, fig. 519; Bianchi 1990, 15; Diversamente dai caduti nelle scene col tema della battaglia in corso, disposti nella parte inferiore del registro figurato ana45 46
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Nel caso della Colonna Aureliana, infine, le attestazioni di after math images sono più limitate e meno dettagliate rispetto a quanto visto finora, in una ripresa degli schemi traianei meno centrata sulla disfatta dell’esercito e più improntata ad enfatizzare gli aspetti emozionali connessi alla presenza dei cadaveri 49. Valga come esempio la scena LXI, dove infatti ai captivi o ai disertori barbari, a seconda dell’interpretazione fornita, non è garantita una presa onorevole: vengono condotti dal boia, forse di origini germaniche anch’egli 50, e poi decapitati; i loro cadaveri sono abbandonati sul terreno in posizioni scomposte, non diversamente da quanto accade per i corpi esanimi sui campi di battaglia. Il punto di vista della situazione narrata dalle immagini della Colonna Aureliana è analogo a quanto delineato sopra per l’altra colonna coclide: come accadeva per i Daci, anche in questo caso sono solo i Germani ad essere raffigurati come defunti sul campo o intenti alla fuga 51; inoltre, anche in questo caso le scene sono collocate in stretta correlazione con le rappresentazioni dell’im peratore, ad enfatizzare la differenza tra i barbari violenti e sottomessi ed il potere illuminato di Roma. Le rappresentazioni del campo dopo la battaglia si ritrovano in alcuni punti della colonna, come nella scena VIII. Q ui vengono mostrati per la prima volta sul monumento i barbari e, tra le raffigurazioni di una adlocutio e di un colloquio tra l’imperatore ed una delegazione di Germani, l’attenzione verte fin da subito sulle situazioni più violente 52. Infatti, all’arrivo dei diplomatici fanno da cornice due scene 53: nella porzione superiore sono ritratti un ufficiale romano intento a giustiziare o ad inseguire e uccidere un barbaro in fuga; nella porzione inferiore sono raffigurati i cadaveri sul campo, segno dell’avvenuta sconfitta o presagio delle inevitalogamente allo schema canonico (Metopa 31; Bianchi 1990, fig. 16). Non è escluso, sebbene non si possa parlare di una perfetta sovrapposizione, che gli eventi storici e le rispettive modalità di raffigurazione siano comuni a Colonna e Trofeo (Metope 35-24; scene XXXVIII, XLI; Rossi 1971, 58, 62; Bianchi 1990, 15-16). 49 Hölscher 2000; Balty 2000; Coarelli 2008, 57-71; Kovacz 2009, 158-159; Beckmann 2011, 89-109 sul problema della ripresa degli schemi traianei nella colonna aureliana; Pirson 1996, 159-161 sull’attenzione alle numerose morti in battaglia nella colonna aureliana. 50 Caprino 1955, 102. 51 Galinier 2000, 155-157. 52 Pirson 1996, 145, fig. 6; Hölscher 2000, 96; Galinier 2000, 146. 53 Caprino 1955, 85; Coarelli 2008, 127.
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bili sofferenze patite dai Germani 54. I barbari sono in questo caso due, riversi l’uno sull’altro, di cui uno con il capo rivolto a terra, in analogia con il passo liviano, che descrive i caduti con le teste affondate nel terreno 55 (fig. 5). Risulta suggestivo notare, inoltre, che dopo questa situazione funesta gli scalpellini raffigurino un’adlocutio, imitando così il modello traianeo sia nella sequenza di soggetti sia nella posizione fisica delle immagini 56. Simile situazione ritorna nella celebre scena XVI con la rappresentazione del miracolo della pioggia, quando cioè l’esercito romano, provato dalla prolungata carenza d’acqua, riesce ad avere la
Fig. 5 Particolare della scena VIII della Colonna Aureliana (rielaborazione da Coarelli 2008, 127).
Pirson 1996, 147, 150. Nel caso della scena XXXVIII-XXXIX della colonna traiana, la testa del soldato morto accatastato con gli altri è poggiata sul terreno, rivolta verso l’osservatore; nel caso della colonna aureliana, invece, non sembra trattarsi del mucchio di corpi pre-sepoltura ed inoltre è visibile la nuca all’osservatore, con la testa riversa a terra. 56 Beckmann 2011, 105. 54 55
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meglio sul nemico per l’arrivo di una tempesta violenta 57. In questo caso manca dunque la scena di battaglia ma ritorna lo stesso schema utilizzato per la scena XL-XLI della colonna traiana, con i cadaveri dei nemici travolti dall’impeto delle acque e ammassati l’uno sull’altro, piegati o stesi a terra, chi prono e chi supino, con l’inserimento anche delle carcasse dei cavalli a rendere più drammatica l’ambientazione 58 (fig. 6). Anche in questo caso l’imperatore è assente dallo scontro (sebbene alcune fonti lascino pensare che fosse presente tra le proprie schiere 59) e ricompare nella scena immediatamente successiva in una adlocutio 60. A conferma delle strette
Fig. 6 Particolare della scena XVI della Colonna Aureliana (rielaborazione da Coarelli 2008, 142). 57 Caprino 1955, 88. Sulla datazione dell’episodio, uno dei pochi collocabili cronologicamente per tutta la colonna, Davies 2000, 47-48 e Coarelli 2008, 50. 58 Galinier 2000, 183; Kovácz 2009, 167; Beckmann 2011, 135. Sulla caoticità cf. Hölscher 2000, 100. 59 Caprino 1955, p. 89; Kovacz 2009, 29, 53, 57, 72, 140-143 ma cf. 137 e Coarelli 2008, 46 sulla loro affidabilità. 60 Coarelli 2008, 143, Beckmann 2011, 139-140.
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relazioni tra la narrazione liviana e i rilievi della Colonna Aureliana, non sembra superfluo sottolineare il fatto che Livio renda ancora più drammatica la sconfitta cannense descrivendo come il fiume che scorreva nei pressi del luogo dello scontro fosse pieno di cadaveri, un passaggio ‘caratteristico’ ripreso ed enfatizzato nell’epitome di Floro, del principio, appunto, del II secolo d.C. 61. M. S.
4. Conclusioni: la Canne liviana come modello della disfatta militare? In conclusione, sono rare le scene dei rilievi storici che insistono sulla raffigurazione del tema del ‘dopo la battaglia’, con il contesto dello scontro occupato dai corpi dei soldati uccisi o in fin di vita. Il tema era certamente di grande impatto visivo ed emotivo, per la sua forza iconica nel comunicare la sconfitta dell’esercito nemico o comunque la superiorità del vincitore, e sembra significativamente introdotto nella produzione artistica di età traianea, in cui la narrazione di eventi storici si connota per uno spiccato realismo. In particolare, se nelle aftermath narratives è soprattutto il recupero delle salme, con funera annessi, a connotare efficacemente il senso della disfatta, nelle aftermath images la definizione della sconfitta passa soprattutto per la raffigurazione dei cadaveri e dei feriti ammassati sul terreno, i primi senza una onorevole sepoltura e i secondi privati delle cure mediche 62, articolata in diverse varianti, legate al numero di caduti o alla fuga dei superstiti (tab. 3). Pare esserci, dunque, solo una parziale tangenza tra linguaggio letterario e lessico iconografico e questo non stupisce. Entrambi propongono un tema comune, articolato in maniera simile e attraverso l’uso di elementi ricorrenti (il cumulo di corpi, i feriti agonizzanti), ma differiscono per la frequenza di rimandi a situazioni specifiche: tale discrepanza lascia supporre che nei due media vi fossero diverse esigenze, che comportavano la ripresa di singoli elementi in maniera similare, ma con una diversa orchestrazione. 61 Liv. 25,12,5; Flor., epit. 2,6,15. Probabilmente ripreso anche nel fiume pieno di sangue descritto da Sen., dial. 4,5,4. 62 Rambaldi 2016 per la Colonna Traiana.
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Tra i passi citati, quello di Livio spicca per la ricchezza di contenuti e, pertanto, non è forse azzardato ipotizzare che la sua descrizione del campo di battaglia all’indomani della sconfitta di Canne abbia potuto contribuire a definire un modello forte anche per l’icono grafia della disfatta militare. La strutturazione della scena liviana trova in effetti importanti tangenze nella composizione delle immagini pertinenti alla medesima situazione, sia per l’articolazione generale del racconto, sia e soprattutto per la scelta degli elementi minimi caratterizzanti 63.
CA VII
CA XVI
×(2)
×*(7)
×(3)
×(2)
×(3)
×(3)
Caduti sul campo di battaglia Funerali/raccolta o recupero delle salme
TA XXIV
Recupero dei feriti
CT XLI
CT XXXVIII
CT XXIV
Tabella 3. Confronto tra principali aftermath images.
×(1)
Legenda: CT = Colonna traiana; TA = Trofeo di Adamklisi; CA = Colonna Aureliana. I numeri tra parentesi indicano il numero minimo di corpi raffigurati; il simbolo * indica la fuga degli sconfitti sopravvissuti.
Resta comunque impossibile sostenere l’ipotesi che Livio abbia svolto il ruolo di unica fonte di riferimento per l’impaginazione di queste immagini 64; tuttavia, riprendendo la riflessione di Salvatore Settis, sembra possibile sostenere che, alla base dell’iconografia storica, o almeno di questo tema specifico, vi fosse la presenza di un immaginario collettivo di lunga durata 65. La narrazione liviana faceva sicuramente parte di tale bagaglio culturale e, a quanto emerge dalle scene dei monumenti pubblici considerati, la discussa tangenza semantica e compositiva tra i due strumenti di comuni Similmente Hölscher 1993, p. XX. In particolare cf. la sintesi della problematica in Coarelli 2008, 46; Beckmann 2011, 128-129, 133-140; Rambaldi 2016, 89-90. 65 Settis 1988, 109-111. 63 64
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cazione, letterario e artistico, è comunque evidente, se non solida. Riprendendo le analisi di Tonio Hölscher, verrebbe da dire che la cristallizzazione su pietra e l’utilizzo di questi elementi semantici rendesse i morti delle Colonne e del Trofeo una dichiarazione ‘programmatica’ di un concetto storico ed ideale più ampio 66, immagini che nella loro crudezza e concretezza veicolavano il significato ideologico della disfatta militare del nemico e di conseguenza della superiorità dell’Impero romano. Non meraviglia, dunque, che circa diciassette secoli più tardi, quando Heinrich Leutemann corredò di incisioni il libro ‘Rom’ di Wilhelm Wagner, un’opera generalista in tre tomi e riccamente illustrata sulla storia di Roma, venissero scelti proprio gli elementi liviani per rappresentare la battaglia di Canne: rendere, iconicamente, l’esito cruento dello scontro non poteva che passare per la descrizione del campo di battaglia fornita dallo storico patavino, tra mucchi di cadaveri e feriti, con un numida in primo piano coperto da un soldato romano defunto 67 (fig. 7).
Fig. 7 Tavola ottocentesca rappresentante la vittoria di Annibale (Wagner 1877, 97).
Hölscher 1994, 111-112; 132. Wagner 1877, 97.
66 67
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In questo caso la scelta di Livio come ‘fonte di ispirazione’ è trasparente, ma quante altre volte il tema del campo coperto dai corpi abbandonati arriverà ad essere enfatizzato in età contemporanea? L’esito cruento dello scontro armato, nel caso specifico la sconfitta di Gettysburg (1863), viene così immortalato in uno dei primissimi ‘sul campo’ da Timothy H. O’Sullivan 68 (fig. 8). E l’orrore della guerra, del massacro che priva l’essere umano della sua dignità, trova la più atroce delle metafore nella installazione ‘Balkan Baroque’ (1997) di M. Abramovich, in cui l’artista siede su un’ingente massa di resti scarnificati di fresca macellazione: come a Canne, è la visione di un’alba stanca, di un primo impatto con la cruda realtà che non lascia più distinguere tra vincitori e vinti 69 (fig. 9). M. S. – L. S.
Fig. 8 ‘A Harvest of Death, Gettysburg, Pennsylvania’, T. H. O’Sullivan, luglio 1863 (Metropolitan Museum, inv. 2005.100.1201; ‹https://www.metmuseum.org/art/collection/search/285644›).
Naef – Wood 1975, fig. 146. Von Fustenberg 2006, 18-39.
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Fig. 9 ‘Balkan Baroque’, M. Abramović (XLVII Biennale di Venezia. giugno 1997; ‹https://www.the-tls.co.uk/articles/public/fascinated-repelled-but-not-bored/›).
Bibliografia Amiotti 1990 = G. Amiotti, Il monumento ai caduti di Adamklissi, in Sordi 1990, 207-213. Baldo 2004 = G. Baldo, Commento, in Virgilio, Eneide, Venezia 2004, 693756. Balty 2000 = L’armée de la colonne Aurélienne: images de la cohésion d’un corps, in Sheid – Huet 2002, 197-204. Becatti 1982 = G. Becatti, La Colonna Traiana, espressione somma del rilievo storico romano, ANRW II.12.1, 1982, 536-578. Beckmann 2011 = Beckmann M., The column of Marcus Aurelius: the genesis & meaning of a Roman imperial monument, Chapel Hill 2011. Bénichou-Safar 1982 = G. Bénichou-Safar, Les tombes puniques de Carthage: topographie, structures, inscriptions et rites funéraires, Paris 1982. Berenson 1952 = B. Berenson, L’arco di Costantino o della decadenza della forma¸ Milano 1952. Bianchi 1990 = L. Bianchi, Il programma figurativo del Trofeo di Adamclisi. Appunti per una nuova interpretazione, StRom 38, 1990, 1-18. Bode 1992 = R. Bode, Der Bilderfries del Trajanssäule. Ein Interpretationsversuch, BJb 192, 1992, 123-174. Boymel Kampen 1981 = N. Boymel Kampen, Biographical Narration and Roman Funerary Art, AJA 85(1), 1981, 47-58, Caprino 1955 = G. Caprino, I rilievi della Colonna: la guerra germanica e sarmatica, in C. Caprino – A. M. Colini – G. Gatti – M. Pallottino – P. Romanelli, La colonna di Marco Aurelio, Roma 1955, 79-118.
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ELEMENTI ICONOGRAFICI DELLA DISFATTA: IL MODELLO DELLA CANNE LIVIANA
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M. SALVADORI – L. SCALCO
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MARIA STELLA BUSANA – CLAUDIA FORIN
LA VILLA NELL’OPERA DI TITO LIVIO TRA FONTE LETTERARIA E DATO ARCHEOLOGICO
1. Premessa Il presente contributo vuole proporre una riflessione sull’efficacia e sull’affidabilità dell’opera di Tito Livio per l’interpretazione del dato archeologico. In particolare, sono analizzati i paesaggi di villae descritti da Livio in più passi degli Ab urbe Condita, in riferimento a fatti avvenuti tra il V e la prima metà del II sec. a.C. 1. (tab. 1). L’intento è cercare di comprendere quale significato abbia in Livio il termine villa e quale relazione esista tra il testo liviano e la realtà archeologica: un riferimento consapevole alla realtà storico-archeologica al tempo dei fatti narrati, oppure una proiezione della situazione insediativa a lui coeva, momento di massima fioritura delle villae, o piuttosto un topos letterario, ipotesi che a una prima lettura sembrava la più corretta per il ricorrere della stessa immagine di ville incendiate. A tal fine sono stati, innanzi tutto, analizzati i termini con cui Livio si riferisce agli insediamenti extraurbani, identificati in villa, tugurium, casa e vicus; quindi, le ricorrenze liviane del termine villa sono state messe a confronto con quanto noto dalle indagini di scavo e di superficie per i territori e per le epoche a cui Livio fa riferimento. Va precisato che negli ultimi decenni tali ricerche territoriali hanno avuto un notevole impulso e hanno condotto a importanti risultati e novità, per quanto la ricostruzione dei quadri insediativi sia fortemente condizionata dalla visibilità dei dati e dalle strategie d’indagine. M. S. B. – C. F. 1 Si ringrazia il dott. Luca Beltramini per l’aiuto nella ricerca delle ricorrenze terminologiche nell’opera di Tito Livio.
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 543-565 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125342
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M. S. BUSANA – C. FORIN
2. La villa nelle fonti letterarie e in archeologia L’etimologia della parola villa rimanda all’insediamento nel territorio, come il termine vicus (aggregato di case), dal quale villa probabilmente deriva come contrazione da vic-ula, diminutivo di vic-us 2. Secondo la definizione che ci fornisce Varrone (116-27 a.C.) nel De re rustica scritto nel 37 a.C., poco prima dell’opera di Tito Livio, con il termine villa i Romani intendevano un insediamento abitativo-produttivo extraurbano e isolato, con apertura al mercato: non est villa sine fundo magno et eo polito cultura; Varrone distingue inoltre la villa simplex rustica dalla villa et urbana et rustica, da cui si comprende che il termine villa poteva indicare insediamenti di impegno architettonico ed economico molto diverso 3. Il testo di Livio risulta particolarmente interessante perché i libri sopravvissuti (1-10, 21-45 e scarsi frammenti degli altri) si riferiscono a un arco cronologico (V-III sec. a.C.) che precede l’esplosione del fenomeno della villa, avvenuto nel II-I sec. a.C.: se in epoca tardo repubblicana la villa è ben documentata dall’archeologia (fenomeno comunemente messo in relazione con le conseguenze derivate dalla conquista del Mediterraneo da parte di Roma) 4, esiste un acceso dibattito tra gli studiosi sulle caratteristiche e sul ruolo economico degli insediamenti rurali nei secoli precedenti. La scoperta e l’interpretazione come villa del complesso emerso negli anni ’90 del secolo scorso nell’area dell’Auditorium di Roma (circa 1 miglio a nord-ovest di Roma) (fig. 1) rappresenta un punto fondamentale della questione 5: una fattoria di circa 350 mq, risalente alla seconda metà del VI sec. a.C., viene sostituita agli inizi del V secolo a.C. da un più articolato complesso di circa 700 mq (dotato di un’area di servizio estesa 1400 mq), che fu attivo, con varie trasformazioni, fino al II sec. d.C. Sulla base di un passo di Tito Livio relativo ai primi scontri tra patrizi e plebei, il primo in cui compare il termine villa (2,23,5) (passo 1), Andrea Carandini ha proposto di riconoscere nel primo impianto un esempio delle fattorie, probabilmente di plebei, distrutte ed espropriate dai patrizi di DELI 1999, v. villa; Torelli 2012, 9. Varro rust. 3,1-10. 4 Carandini 1989; Becker – Terrenato 2012. 5 Carandini et alii 2006. 2 3
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LA VILLA NELL’OPERA DI TITO LIVIO
Fig. 1 Roma, fattoria e villa dell’Auditorium, planimetria delle diverse fasi: a) Fase 1 (550-500 a.C.); b) Fase 2 (500-300 a.C.); c) Fase 3 (300-225 a.C.); d) Fase 4 (225-150 a.C.). Da Carandini et alii 2006.
Roma 6. Va detto che finora il complesso dell’Auditorium costituisce un unicum e che altri studiosi lo hanno interpretato come parte di un agglomerato secondario (il pagus Latiniensis), escludendo la Carandini 2006, 566-567.
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comparsa di villae prima del III secolo a.C., su influenza di nuovi sistemi di sfruttamento agricolo intensivo sviluppatisi in Magna Grecia durante il secolo precedente 7. C. F.
3. La villa in Tito Livio: aspetti terminologici e contesto storico Nell’opera superstite di Tito Livio sono state identificate venti ricorrenze del termine villa nell’ambito di vicende ambientate in Italia, escludendo quelle in cui si fa riferimento alla villa publica, cioè l’edificio situato nel Campo Marzio, sede dei censori almeno dal 435 a.C. (Liv. 4,22,7). I passi si riferiscono, come detto, ad avvenimenti storici distribuiti nell’arco cronologico che va dagli inizi del V alla prima metà del II sec. a.C., in un’area geografica compresa tra Etruria meridionale, Lazio, Campania e Puglia settentrionale (tab. 1). In tutti i passi Livio utilizza il termine villa nel significato di complesso extraurbano isolato e connesso a un’economia agricola e di allevamento, come si desume dai riferimenti alla presenza di dispense e magazzini che conservano cibo e vino e di bestiame. Lo stesso significato si mantiene in tutti i passi, senza evidenziare significativi cambiamenti della tipologia insediativa, ma va sottolineato che Livio non fornisce alcun dato descrittivo che consenta di comprendere meglio le caratteristiche architettoniche e dimensionali dei complessi citati. È importante osservare che, oltre al termine villa, Livio utilizza anche i termini tugurium (tab. 2), che sembra connesso alla piccola proprietà a conduzione unifamiliare vicina alla città, e casa (tab. 3), che in Livio risulta invece essere una costruzione in materiale deperibile, sempre connessa a un uso temporaneo, frequentemente con scopi militari e in riferimento a contesti geografici esterni all’Italia. Inoltre, in due casi (passi 4 e 12) distingue la villa dal vicus, correttamente inteso come nucleo abitato più articolato. Si può dire, quindi, che Livio scelga in modo consapevole i termini in relazione alle diverse realtà insediative minori. Dei venti passi in cui Livio fa riferimento a villae, quattordici sono ambientati nel contesto di scontri militari (passi 1-5, 7-9, Torelli 2012, 11.
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12-16, 18). Altri sei passi costituiscono invece riferimenti occasionali a residenze extraurbane (passi 6, 10, 11, 17, 19, 20). Dal punto di vista storico le ricorrenze si inseriscono nell’ambito di quattro principali momenti: – gli anni iniziali della Repubblica, con lotte interne tra patrizi e plebei (passo 1) e gli scontri nel Lazio tra le varie componenti della Lega latina con i popoli confinanti (Sabini, Volsci, Equi, Falisci e Capenati), che porteranno alla graduale presa di potere e all’emergere di Roma fino alla presa di Veio nel 396 a.C. (495-396 a.C.) (passi 2-8); – gli scontri tra Roma e i Sanniti (I: 343-341 a.C.; II: 326304 a.C.; III: 298-290 a.C.) (passi 9-11); – la conquista definitiva dell’Etruria (342-295/283 a.C.) (passo 12); – la seconda guerra punica e gli scontri con Annibale (218202 a.C.) (passi 13-18). Di seguito verranno analizzati nel dettaglio i passi liviani, inserendoli nel contesto storico-geografico e mettendoli a confronto con i dati archeologici. C. F.
4. La villa in Tito Livio: il confronto con i dati archeologici 4.1. Dintorni di Roma e Lazio Passi 1-3, 5, 10-11, 17, 19 (V-III sec. a.C.)
Tra i contesti a cui si riferiscono i passi liviani, l’area geografica che conosciamo meglio dal punto di vista archeologico è senza dubbio il Lazio, inteso soprattutto come Latium Vetus, delimitato a nord dal basso corso del Tevere e dal corso del fiume Aniene, a sud dal complesso dei Colli Albani e dal Circeo, verso l’interno dagli Appennini. Il suburbio di Roma, in particolare, è stato recentemente interessato da ricerche di superficie nell’ambito del progetto per la rea lizzazione del Sistema Informativo Archeologico di Roma e del Lazio, condotto dall’Università La Sapienza e coordinato da Paolo Carafa e Maria Teresa d’Alessio 8 (fig. 2). Carafa 2016, 60-66 e nota 18.
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Fig. 2 Il Suburbio di Roma e il Latium Vetus. Il retino rosso evidenzia le aree analizzate e in corso di analisi nell’ambito del progetto condotto dall’Università La Sapienza di Roma. Da Carafa 2016.
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Passi 1 (inizi V sec. a.C.) e 2-3 (496-495 a.C.)
Del passo 1 si è già ricordato il riferimento all’esproprio di una fattoria nell’ambito dei conflitti tra patrizi e plebei di inizi V sec.; nei passi 2 e 3, invece, Livio descrive la distruzione di fattorie latine operata dai Sabini nei pressi dell’Aniene. Per quanto riguarda i dati archeologici, nel settore settentrionale del suburbio di Roma (pertinente ai centri di Roma, di Fidenae, di Crustumerium), le ricerche hanno documentato una presenza stabile nel territorio fin dal VII sec. a.C. con piccole fattorie (distribuzione superficiale su 1000 mq; assenza di materiali di pregio), che si incrementano nel corso del VI sec. a.C., adottando anche coperture in tegole e coppi. Alcuni esempi sono la citata fattoria dell’Auditorium (550-500 a.C.), nel territorio di Roma, e la fattoria presso Ponte Salario nel territorio di Fidenae, situata sulla sponda destra dell’Aniene, che sembra attiva da metà VI fino a pieno V sec. a.C., in un momento storico di espansione del controllo di Roma. Nel V sec. a.C. compaiono le prime residenze rurali aristocratiche (distribuzione superficiale su 2000-15000 mq; presenza di materiali di pregio) di cui una testimonianza è la I fase della villa dell’Auditorium (500-300 a.C.), che sostituisce la fattoria arcaica. Tali residenze più impegnative aumenteranno dalla seconda metà del IV sec. a.C. in connessione a un sensibile abbandono e dislocazione delle fattorie 9. Analoghi dati sono emersi nei territori a est e a sud di Roma, tra la via Appia e la via Casilina (agri di Roma, Collatia, Bovillae, Tusculum) 10. I dati archeologici confermano quindi la presenza nel V sec. a.C. di insediamenti abitativo-produttivi sia minori sia di grande impegno architettonico e con un importante ruolo economico: il quadro è quindi coerente con l’utilizzo del termine villa in Livio. Passi 5 e 10-11 (469-342 a.C.)
Ancora nell’ambito degli scontri con i popoli confinanti, nel passo 5 Livio fa riferimento ai Volsci che avanzano (presumibilmente dai loro territori a sud di Roma) incendiando le fattorie latine, mentre nei passi di carattere descrittivo 10 e 11, ambientati in piena guerra sannitica, fa riferimento all’abitazione dove viveva e lavorava la terra T. Q uinzio Crispino, presso Tusculum. Carafa 2016, 60. Carafa 2016, 66.
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Anche in questo territorio compreso tra le pendici meridionali del Monte Albano e la pianura pontina le ricerche di superficie condotte da un’équipe olandese dell’Università di Groningen hanno documentato l’avvio di un popolamento nel VII sec. a.C., anche se con poche presenze. Se nel VI sec. a.C. (soprattutto nella seconda metà) si osserva un notevole incremento delle presenze con insediamenti di limitata estensione (distribuzione superficiale tra 1000 e 5000 mq) è solo dopo la metà del IV sec. a.C. che il numero dei siti occupati cresce significativamente nel numero e nelle dimensioni (distribuzione superficiale su 10000 mq) 11. In questo territorio sono state identificate anche numerose strutture di terrazzamento in opera poligonale tradizionalmente definite basis villae e datate al IV secolo a.C., di cui tuttavia non è mai stata adeguatamente verificata la funzione e la cronologia 12 (fig. 3). L’incremento di insediamenti dopo la metà del IV sec. a.C., in entrambe le aree laziali, è stato interpretato come effetto della Lex Licinia de modo agrorum (367 a.C.) e della definitiva affermazione della proprietà patrizio-plebea 13.
Fig. 3 Distribuzione delle basis villae nel territorio tra Cora e Setia (sinistra); ipotesi ricostruttiva di uno dei siti individuati (destra). Da Becker 2012.
Attema et alii 2010; Attema et alii 2014. Becker 2012. 13 Carafa 2016, 68-70. 11 12
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Anche in quest’area, dunque, le indagini recenti confermano l’esistenza, nell’epoca dei riferimenti liviani, di una diffusa presenza di fattorie ma anche di siti di maggior impegno architettonico. L’assenza di dati di scavo rende tuttavia difficile una puntuale interpretazione di tali insediamenti. Passi 4 e 7-8 (470-394 a.C.)
Nei passi liviani sono spesso chiamati in causa anche Sabini, Falisci, Capenati (gli ultimi due strettamente legati a Veio), che occupavano i territori dell’Italia centrale e che in seguito verranno gradualmente sottomessi da Roma 14. In una fase in cui Roma non ha ancora il pieno controllo dei territori confinanti, Livio descrive i Romani che assediano le campagne e incendiano le fattorie per indebolire i nemici, rispettivamente Sabini, Falisci e Capenati, rifugiati nelle città. Il Tiber Valley Project, condotto dalla British School at Rome, nel quale si inserisce il South Etruria Survey, ha interessato, tra gli altri, gli agri di Falerii, Capena e parte della Sabina e raccolto preziosi dati archeologici sull’insediamento rurale di queste aree. Le ricerche di superficie hanno mostrato che in epoca arcaica erano presenti insediamenti rurali, benché il territorio non risulti densamente popolato: sono documentate sia fattorie di livello modesto e dimensioni contenute sia siti di maggior impegno, che in epoca tardo repubblicana diventeranno villae. Tra la metà del V e la metà del IV sec. a.C., epoca interessata dai passi liviani, si registra una contrazione delle presenze (soprattutto delle fattorie) 15; per questo periodo mancano però scavi stratigrafici 16. 14 Storicamente la conquista della Sabina da parte di Roma si può ritenere completata in seguito alla battaglia di Sentino (295 a.C.) ma di fatto è nel 290 a.C., dopo la fine della terza guerra sannitica, che Manio Curio Dentato si impadronì di tutta la regione sabina fino all’Adriatico (evitando futuri collegamenti e coalizioni tra i popoli a nord e a sud di Roma): Pesando 2005, 130-136. Falisci e Capenati erano popolazioni stanziate a ridosso degli Etruschi, sulla riva destra del Tevere. Nel V e IV sec. sono alleati con Veio in funzione antiromana. Capena viene conquistata insieme a Veio nel 396 a.C. e il suo territorio si avviò verso una precocissima romanizzazione. La prosperità di Falerii crebbe invece nel corso del IV sec. a.C. anche in seguito alla caduta di Veio. La città viene conquistata e distrutta nel 241 a.C. dopo che, forse provata dagli effetti della prima guerra punica, si era ribellata a Roma: Pesando 2005, 93. 15 Di Giuseppe 2005. 16 Di Giuseppe 2005.
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Con tutti i dubbi dovuti alla difficoltà di localizzare i passi e ai limiti della ricerca, allo stato attuale i riferimenti di Livio potrebbero trovare riscontro nei dati archeologici, ma anche in questo caso non abbiamo elementi utili per definire le caratteristiche dei siti. C. F. 4.2. Etruria Passi 6 (415 a.C.) e 12 (299 a.C.)
Altri passi liviani si riferiscono a contesti esterni al Latium Vetus, tra cui l’adiacente Etruria. Passo 6 (415 a.C.)
Il passo 6, riferito al 415 a.C., si inserisce in un momento di forte conflitto tra Roma e Veio. Le fattorie dei Veienti sono state distrutte dal Tevere e i Romani rimandano temporaneamente la guerra. Le ricognizioni effettuate nel territorio di Veio (ancora nell’ambito del Tiber Valley Project) hanno evidenziato anche in questo territorio un precoce popolamento rurale fin dal VII sec. come per l’area latina; tra VII e VI sec. a.C. si riscontra un notevole incremento delle presenze insediative, con una distribuzione capillare, e dopo il 550 a.C. è documentato un aumento importante dei siti rurali, che si mantiene anche in seguito 17. Nell’agro veiente e nell’epoca descritta da Livio l’insediamento rurale sparso era quindi ampiamente diffuso ed erano presenti sia fattorie sia siti di maggiore impegno (con materiali di pregio) che potrebbero giustificare l’uso del termine villa. Passo 12 (ca. 299 a.C.)
Tra la seconda metà del IV e gli inizi del III sec. a.C. (epoca del passo liviano) il territorio dell’Etruria entra gradualmente sotto il controllo di Roma, che completerà la conquista dopo la battaglia di Sentino del 295 a.C. Sebbene difficile da localizzare, il passo liviano descrive l’avanzata dei Romani che, ancora una volta, devastano fattorie e villaggi dei nemici per attirarli in battaglia. Di Giuseppe – Patterson 2009.
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Le ricerche attestano, nel V-IV sec. a.C., una presenza limitata di fattorie nei territori delle città etrusche. In questa fase le prime aristocrazie preferivano concentrare la popolazione in città e, più raramente, in oppida e castella per motivi economici e militari (si veda, ad esempio, lo sviluppo di centri come Doganella, di Ghiaccioforte e di Saturnia). La crescita dei centri è quindi connessa a una contrazione dell’insediamento rurale e il modello agrario dominante prevedeva una presenza umana temporanea nel territorio 18; quando erano previste, si costruivano strutture in materiale deperibile, che sono difficilmente riconoscibili anche con survey intensivi. La parallela assenza di necropoli sparse (diffuse, invece, a partire dalla tarda repubblica) conferma che le fattorie erano, in linea di massima, estranee al paesaggio rurale dell’Italia fino al IV-III sec. a.C. 19. I risultati più significativi derivano dalle indagini condotte nella Valle dell’Albegna (tra Talamone e Argentario), nell’ambito del progetto italo-britannico Paesaggi d’Etruria. Tali ricerche hanno mostrato, alla vigilia della conquista romana, un insediamento costituito da centri urbani fortificati (sedi di élites relativamente ricche) e da fattorie isolate di livello molto modesto sparse nella campagna 20; nella zona costiera la situazione era invece differente, con la sopravvivenza del sistema arcaico dei villaggi e una maggiore dispersione della popolazione in campagna 21. In questo caso l’uso del termine villa sembra inappropriato al tipo di insediamento attestato dal dato archeologico. Va ricordato che in Etruria meridionale vere e proprie ville sono attestate archeo logicamente dalla metà del III sec. a.C.: un esempio è rappresentato dal sito di Selvasecca di Blera, per il quale è stata recentemente proposta la datazione di metà III sec. a.C. 22 (fig. 4). È interessante, invece, osservare che nel passo liviano si parla di villae (nel senso di siti isolati) e di vici, come effettivamente documentato dalle ricerche di superficie. M. S. B. Perkins 2002. Torelli 2012; per gli aspetti propriamente storici si veda Cifani 2013. 20 Un esempio è rappresentato dal sito della fattoria in Loc. Tartuchino, occupato dal tardo VI e abbandonato nel tardo IV e inizi III a.C. (Perkins 2002, 86-89). 21 Perkins 2002. 22 Klynne 2006-2007. 18 19
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M. S. BUSANA – C. FORIN
Fig. 4 Blera, loc. Selvasecca (Tarquinia), planimetria della villa (II a.C. - IV d.C.). Da Carandini 1989.
4.3. Campania Passi 9, 13-14 (ca. 343-202 a.C.)
Altri passi liviani fanno riferimento, in momenti storici e aree diverse, alla Campania, che fu teatro prima del conflitto tra Romani e Sanniti, poi degli scontri con Annibale. Passo 9 (343 a.C.)
In Campania, intorno al 440-420 a.C., dopo le invasioni sannitiche, si andò formando una sorta di stato campano autonomo e si interruppe il controllo etrusco sul tirreno meridionale. Nel 343 a.C. i Campani chiedono l’aiuto di Roma contro i Sanniti per difendere Capua. Q uesto sarà il pretesto che porterà allo scoppio della prima guerra sannitica 23. Nel passo 9 Livio descrive le distruzioni degli insediamenti campani operate dai Sanniti. 23 L’azione militare romana fu affiancata da una capillare opera di accerchiamento del Sannio, perseguita attraverso una serie di fondazioni coloniarie latine (tra il
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Le ricognizioni condotte nel territorio di Calatia-Casilinum (vicino a Capua) nell’ambito della Carta archeologica della Campania, hanno individuato pochi insediamenti con materiali datati a partire dalla metà del V sec. a.C., riferibili per lo più a fattorie (17) ma anche a siti di maggiore impegno (8) che sembrano frequentati anche successivamente 24. Un deciso incremento appare più evidente dal III ma soprattutto nel II sec. a.C. L’utilizzo del termine villa da parte di Livio potrebbe essere correttamente riferito alla presenza di fattorie e insediamenti di maggiore impegno, effettivamente confermata dal dato archeologico. Passi 13-14 (218-202 a.C.)
Altri due passi liviani si riferiscono alla Campania settentrionale (Monte Massico e bacino di Garigliano) in un periodo più tardo, nell’ambito della seconda guerra punica, quando l’esercito di Annibale avanza nel territorio dei Campani devastando campi e fattorie. Le ricognizioni finora effettuate in quest’area hanno individuato pochissimi siti (2 ville) con materiali datati a partire dalla metà del IV a.C., mentre la maggior parte dei siti rurali individuati si data a partire dalla metà del II sec. a.C. 25. In questo caso i riferimenti liviani non sembrano trovare pieno riscontro nei dati archeologici, anche se va ricordato che nel 340 a.C. l’ager Falernus era stato preso da Roma ai Campani e distribuito ai cittadini romani. Si può dunque pensare che molti dati non siano visibili. M. S. B. 4.4. Puglia settentrionale (territorio di Herdonia) Passo 16 (212-210 a.C.)
Infine, un passo di Tito Livio si riferisce alla Puglia settentrionale. Ricordiamo che alla fine del IV sec. a.C. i Dauni avevano chiesto l’intervento di Roma contro i Sanniti (seconda guerra sannitica) 334 e il 298 furono dedotte Cales, Fregellae, Luceria, Suessa Aurunca, Saticula, Interamna Lirenas, Sora, Alba Fucens, Carseoli). 24 Launaro 2011, 135-137. 25 Launaro 2011, 294-301.
555
M. S. BUSANA – C. FORIN
e da questo momento si stringe un’alleanza anche tra gli Apuli e Roma, che consolida la sua presenza con la fondazione di Luceria (315 a.C.) e, poco dopo, di Venusia (291 a.C.). Al momento della seconda guerra punica si contano numerose civitates coinvolte nelle vicende belliche come alleate di Roma. In questo contesto, Livio fa riferimento a un evento bellico (212-210 a.C.) durante il quale Annibale posiziona i suoi soldati presso le villae del territorio di Herdonia. Se in passato si riteneva che un’occupazione rurale stabile fosse da riferire alla fase post-annibalica 26, le recenti ricerche condotte nei territori di alcuni centri della Daunia (Arpi, Canusium, Ausculum e Herdonia, citata da Livio) hanno documentato, tra la fine del IV e la metà del III sec. a.C., una significativa intensificazione del popolamento rurale sparso con presenza di fattorie di piccole e medie dimensioni (tra i 100 e i 400 mq) realizzate con cura (fondazioni lapidee e coperture in tegole e coppi). L’ipotesi degli studiosi è che si tratti di appoderamenti nel territorio organizzati dalle aristocrazie indigene che detenevano la proprietà terriera 27. L’esplo sione dell’insediamento sparso e quindi del piccolo-medio appoderamento coloniale è stato interpretato come il riflesso di strutturazioni sociali e di ordinamenti giuridici ancora del tutto estranei all’esperienza delle comunità indigene, esito dei contatti con il mondo ellenistico e romano. Tale situazione attesta l’esistenza di forti interessi fondiari da parte delle aristocrazie ascese ai vertici dei poteri locali, le cui enormi ricchezze derivavano proprio dalla disponibilità e dallo sfruttamento di ampie proprietà terriere nonché, dalla metà del III a.C., dall’esportazione di parte della produzione verso i mercati adriatici e egei. Il riferimento liviano trova quindi riscontro nei dati archeologici che mostrano, nel III sec. a.C., un territorio intensamente popolato. Ulteriori conferme vengono anche dai territori vicini, come quello lucano, dove nel III sec. a.C. sono documentate strutture di notevole impegno architettonico di matrice magno-greca, come il complesso di Moltone di Tolve (fig. 5), che riveste una particolare importanza anche per quanto riguarda lo sviluppo della villa
Volpe 1990, 40-45. Goffredo 2014.
26 27
556
LA VILLA NELL’OPERA DI TITO LIVIO
Fig. 5 Tolve, loc. Moltone (Potenza), planimetria del complesso rurale: a) Fase 1 (IV a.C.); b) Fase 2 (III a.C.); c) Fase 3 (II a.C.). Da Russo 1996.
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M. S. BUSANA – C. FORIN
romana. Nella prima metà del III sec. a.C. la fattoria viene ristrutturata e l’impianto originario della casa a pastàs viene ampliato verso sud con aggiunta di una corte porticata (peristilio?), che assume l’aspetto di un vero e proprio atrio; una trasformazione che viene attribuita al momento in cui diventa una proprietà romana a seguito della sconfitta dei Lucani nel 282 a.C. e della conseguente attribuzione di terre. Secondo alcuni studiosi si tratta di un esempio di proto-villa che testimonia la forte osmosi tra cultura magnogreca e cultura romana 28. M. S. B. 4.5. Riferimenti occasionali Passi 19-20 (193-183 a.C.)
Nel II sec. a.C. Livio fa riferimento a villae anche in situazioni non belliche, come la devastazione delle campagne e delle ville causata dal Tevere nel 193 a.C. circa, nei dintorni di Roma, oppure in riferimento alla villa di Scipione l’Africano nel territorio di Literno, realizzata probabilmente a seguito delle assegnazioni ai veterani della seconda guerra punica 29 (188-183 a.C. circa). Benché tale complesso non sia noto archeologicamente, possiamo avere un’idea delle sue caratteristiche principali grazie alle parole di Seneca 30: da una parte la valenza produttiva, dato l’accenno a lavori 28 Torelli 2012. Se confrontiamo la fase di III sec. a.C. del complesso di Moltone di Tolve con la III fase dell’edificio dell’Auditorium (prima metà III a.C.) notiamo che la pianta di quest’ultima mostra un’aggiunta dell’atrio, sebbene irregolare. Da questi due esempi possiamo con certezza concludere che il vecchio modello della fattoria di origine greca fu sottoposto a radicali cambiamenti dovuti alle trasformazioni sociali dovute all’espansione di Roma che aveva appena cominciato con le conquiste di IV-III sec. a.C. La politica di fondazione e di colonizzazione del territorio portò i nuovi coloni all’imitazione dello stile di vita delle élites dominanti. Un modo di esserne parte era mostrare/adottare nella pianta di casa, anche rurale, la pianta della casa ad atrio. Q uesto è l’ambiente culturale dove si devono cercare le vere origini ideo logiche della planimetria che caratterizzò il settore residenziale della villa, che adotta proprio il modello della casa urbana. L’alleanza politica (367-366 a.C. leggi LicinieSestie) tra patrizi e plebei legò insieme larghe masse di cittadini soldati a una solida nobilitas urbana che si manifesta anche tramite questo modello architettonico. La casa ad atrio è un ibrido tra le culture magno-greca e romana: l’unione tra la fattoria greca di V-IV sec. a.C. e la casa romana di città (ad atrio). 29 Liv. 34,45. 30 Sen., epist. 86,4 Vidi villam extructam lapide quadrato, murum circumdatum silvae, turres quoque in propugnaculum villae utrimque subrectas, cisternam aedificiis
558
LA VILLA NELL’OPERA DI TITO LIVIO
agricoli, dall’altra la notevole dimensione e impegno architettonico (come l’adozione dell’opera quadrata, la presenza di torri e di un balneum, seppure piccolo e oscuro, elemento che si diffonderà nelle ville solo in età imperiale). Il passo liviano rappresenta dunque un’interessante testimonianza letteraria 31, insieme al De agri cultura di Marco Porcio Catone (234 – 149 a.C.), della presenza di insediamenti romani produttivi di prestigio precedenti alla fase di massimo sviluppo della villa (seconda metà del II sec. a.C.). Per quest’ultima fase sono numerose le testimonianze archeologiche che confermano la diffusione nel territorio sia di estesi complessi abitativo-produttivi destinati a uno sfruttamento agricolo intensivo, volto a una produzione vinaria e olearia orientata al mercato, sia di prime residenze di prestigio in località di particolare pregio paesaggistico 32. M. S. B.
5. Conclusioni In conclusione, il confronto tra la fonte letteraria liviana e il dato archeologico ha fatto emergere alcuni dati concreti e spunti di riflessione. Innanzitutto, Livio sembra utilizzare il termine villa come riferimento consapevole a insediamenti extraurbani isolati con funzione abitativa e produttiva (legata all’agricoltura e all’allevamento), distinguendoli dai tugurii (piccole fattorie vicine alla città), dalle casae (strutture deperibili militari) e dai vici, intesi come aggregati di strutture nel territorio. Il termine sembra utilizzato come riferimento generico, indipendentemente dalle dimensioni architettoniche ed economiche degli ac viridibus subditam quae sufficere in usum vel exercitus posset, balneolum angustum, tenebricosum ex consuetudine antiqua: non videbatur maioribus nostris caldum nisi obscurum. 31 I resti della villa di Scipione ad oggi non sono conosciuti a livello archeologico, sebbene un primo tentativo di localizzazione risalga al 1930 da parte del Soprintendente Maiuri. L’esistenza, nella prima metà del II sec. a.C., di altre residenze di carattere aristocratico in Campania è indirettamente attestata da altre fonti che raccontano i soggiorni di personaggi di spicco del patriziato romano (Romizzi 2001, 39). 32 Carandini 1989. Per le ville d’otium indagate archeologicamente si rimanda a Romizzi 2001 con ampia bibliografia.
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M. S. BUSANA – C. FORIN
edifici, di cui lo storico non definisce mai precisamente i caratteri, anche per un ovvio interesse verso gli eventi storici. Del resto, come abbiamo sottolineato, lo stesso Varrone utilizza il termine villa per insediamenti rurali di livello qualitativo anche molto diverso (villa simplex rustica, villa urbana et rustica), ma sempre legati a un fundus ben coltivato. I risultati delle ricerche archeologiche condotte negli ultimi anni attestano l’effettiva presenza di insediamenti rurali nelle aree e nei periodi storici citati dall’autore, spesso in anticipo rispetto alla cronologia del popolamento stabile e diffuso nel territorio postulata in passato (ad esempio, nel Lazio e in Puglia). Si tratta quasi sempre di ricerche di superficie, che non forniscono quindi informazioni dettagliate sugli edifici, ma che hanno potuto riconoscere insediamenti diversi per dimensione, impegno architettonico, ruolo economico. Per quanto riguarda l’aspetto più letterario dei passi liviani con riferimenti a villae, non oggetto di analisi in questa sede, ci limitiamo a osservare il ricorrere dell’immagine di fattorie in fiamme (incendia villarum): è possibile che Livio utilizzi un topos legato alle vicende belliche, ma non è da escludere che descriva una strategia militare reale finalizzata a tagliare i viveri ai centri urbani dei nemici; anche quando si parla di casae, seppure in altre ambientazioni, l’autore ricorre spesso all’immagine di strutture incendiate. Nonostante l’utilizzo del termine villa come riferimento generico e il possibile ricorso a un topos letterario, il quadro insediativo territoriale ‘evocato’, certo non descritto, da Livio (e dalle sue fonti) appare dunque sostanzialmente reale e uno stimolante riscontro storico per la futura ricerca archeologica. M. S. B. – C. F.
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LA VILLA NELL’OPERA DI TITO LIVIO
Tabella 1. Elenco dei passi liviani con ricorrenza del termine villa. Livio
Localizzazione
Cronologia e contesto
Testo
Proprietari
1
2,23,5
Lazio; dintorni di Roma
495 a.C. (scontri patriziplebei)
quia propter populationes agri non fructu modo caruerit, sed villa incensa fuerit, direpta omnia.
Cittadino romano
2
2,26,1 Presso l’Aniene
496-495 a.C. (console Aulo Postumio contro i Sabini)
ibi passim diripi atque incendi villas. fessi cum itinere tum populatione nocturna, magna pars in villis repleti cibo vino.
Romani
3
2,26,3
4
2,62,4
Territorio settentrionale dei Sabini
470 a.C. circa
incendiis deinde non villarum modo sed etiam vicorum.
Sabini
5
2,63,2
Lazio; a sud (Volsci) e a nord (Equi) di Roma
469 a.C. (scontri contro Volsci e Equi)
cum Volscos adesse fumo ex incendiis villarum fuga que agrestium cognitum est.
Romani
6
4,49,1
Territorio di Veio
415 a.C.
agros Tiberis super ripas effusus maxime ruinis villarum vastavit.
Veienti
7
5,12,5
Lazio settentrionale: Falerii e Capena
401 a.C.
praedae actae incendiisque villarum ac frugum vastati fines.
Falisci e Capenati
8
5,26,4
Lazio settentrionale: Falerii
394 a.C.
populatione agrorum atque incendiis villarum coegit eos agredi urbe.
Falisci
9
7,30,15
Campania antica
343-342 a.C. (pre-guerra sannitica)
incendia villarum ac ruinas, omnia ferro igni que vastata.
Campani
10
7,39,14
11
7,42,3
Presso Tusculum (SE di Roma)
342 a.C. circa (I guerra sannitica)
12
10,11,6
Etruria (Lazio settentrionale?)
298 a.C.
cum tectum villae qui ad id missi erant intrassent. Nec in T. Q uincti villam, sed in aedes C. Manli. cum passim non villae solum sed frequentes quoque vici incendiis fumarent.
T. Q uinzio Peno Capitolino Crispino
Etruschi
(cont.)
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M. S. BUSANA – C. FORIN
Livio
13
Localizzazione
22,14,1
Cronologia e contesto
Campania
218-202 a.C. (II guerra punica)
Testo
amoenissimus Italiae ager villae incendiis fumabant. Fumus ex incendiis villarum agrorumque.
Proprietari
Campani
14
22,14,8
15
23,32,14
generico tra Lazio e Campania
213 a.C.
qui non invexisset… villas incensurum.
Romani e/o Campani
16
25,21,2
Puglia settentrionale; presso Herdonia
212-210 a.C.
tria milia expeditorum militum in villis circa vepribus disponit.
Territorio di Herdonia
17
26,26,6
Dintorni di Roma
210 a.C. (post assedio di Siracusa del 212)
Siculos prope urbem in villis obtrectatorum.
Nemici di Claudio Marcello
18
28,11,8
Lazio e Italia in generale?
206 a.C. circa
inopia servitiorum, pecore direpto villis que dirutis aut incensis.
Romani
19
35,21,6
Lazio e dintorni di Roma
193 a.C.
In agris passim inundatis pecua ablata, villarum strages facta est.
Romani
20
35,52,4
Literno (Campania)
188-183 a.C.
ad eum privatum ex villa sua extrahendum.
Villa di Scipione l’Africano
Tabella 2. Elenco dei passi liviani con ricorrenza del termine tugurium.
Livio
Localizzazione
Cronologia
Testo
Proprietari
L. Q uinzio Cincinnato
1
3,13,10
Al di là del Tevere; dintorni di Roma
460 a.C. circa?
pecunia a patre exacta crudeliter, ut divenditis omnibus bonis aliquamdiu trans Tiberim veluti relegatus devio quodam tugurio viveret.
2
3,26,9
Al di là del Tevere; dintorni di Roma
458 a.C.
togam propere e tugurio proferre uxorem Raciliam iubet.
L. Q uinzio Cincinnato
42,34,2
Sabina/tribù Crustumina (Crustumerium?)
200 a.C. circa
pater mihi iugerum agri reliquit et paruum tugurium, in quo natus educatus que sum, hodie que ibi habito.
Spurio Ligustino (centurione)
3
562
LA VILLA NELL’OPERA DI TITO LIVIO
Tabella 3. Elenco dei passi liviani con ricorrenza del termine casa.
1
2
3
4
5
6
Livio
5,53,7
25,39,3
30,3,9
30,5,7
35,27,3
35,27,6
Localizzazione
Cronologia
Testo
Proprietari
Roma
Dopo il 390 a.C. (sacco di Roma da parte dei Galli)
si tota urbe nullum melius amplius ve tectum fieri possit, quam casa illa conditoris est nostri, non in casis ritu pastorum agrestium que habitare est satius inter sacra penates que nostros quam exulatum publice ire?
Romolo
Spagna
211 a.C. circa (II guerra punica)
pars semisomnos hostis cae dunt, pars ignes casis stramento arido tectis iniciunt, pars portas occupant, ut fugam intercludant.
Strutture all’interno dell’accampamento cartaginese
Numidia
Assedio di Utica (fine II guerra punica)
Numidae praecipue casis harundine textis storea que pars maxima tectis, passim nullo ordine, quidam ut sine imperio occupatis locis extra fossam etiam vallum que habitabant.
Numidi
Numidia
Fine II sec. a.C. (fine II guerra punica)
neque ea res morata diu est; nam ut primis casis iniectus ignis haesit, extemplo proxima quaeque et deinceps continua amplexus totis se passim dissipavit castris.
Strutture all’interno dell’accampamento di Asdrubale
192 a.C. (guerra laconica)
inde litora legens cum ad propinquum castris hostium promunturium venisset, egressus callibus notis nocte Pleias pervenit, et sopitis vigilibus ut in nullo propinquo metu, ignem casis ab omni parte castrorum iniecit.
Strutture all’interno dell’accampamento di Filopemene
195 a.C. (guerra laconica)
cum ibi stativa essent et pauci tabernacula haberent, multitudo alia casas ex harundine textas fronde, quae umbram modo praeberent, texissent, prius quam in conspectum hostis veniret, Philopoemen necopinantem eum improviso genere belli adgredi statuit.
Strutture all’interno dell’accampamento di Nabide
Grecia
Grecia
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M. S. BUSANA – C. FORIN
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LA VILLA NELL’OPERA DI TITO LIVIO
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GUIDO FURLAN
COSTRUZIONE E MANUTENZIONE DEI CONDOTTI FOGNARI DELLE CITTÀ ROMANE IL CONTRIBUTO DELL’OPERA DI LIVIO ALL’INTERPRETAZIONE DEI DATI ARCHEOLOGICI
Il rapporto tra archeologia e fonti scritte ha una storia lunga e sfaccettata e nasce dall’irresistibile necessità di confrontare, per quei periodi e quei luoghi per cui è possibile farlo, quanto è ricavabile dal dato materiale (manufatti, strutture, strati) con le parole tramandateci da autori di un passato più o meno remoto 1. Sulla complessità di questo rapporto, nell’ottica di un’archeo logia globale capace di fare buon uso di fonti di informazione differenti, vale la pena rimandare senz’altro a un articolo di Daniele Manacorda dedicato al grande lavoro svolto da André Tchernia sul vino nell’Italia romana 2. Manacorda, giustamente, ricompone la dualità fonte materiale/fonte scritta nel più generale contesto del raggiungimento di un obiettivo storico comune. Sganciandosi da una prospettiva storica e scendendo invece in un orizzonte più propriamente disciplinare, per quanto estremamente semplificato, questo rapporto ha chiaramente avuto, soprattutto in passato, due versi principali, vale a dire quello dell’archeologia al servizio delle fonti e quello delle fonti al servizio dell’archeologia: nel primo caso l’archeologia rappresentava uno strumento per trovare la conferma di un dato noto attraverso le fonti scritte, nel secondo caso erano le fonti note ad essere impiegate al servizio della ricerca archeologica.
1 Il contributo prende spunto da alcuni aspetti della tesi di dottorato discussa da chi scrive nel 2015, successivamente sviluppati in Furlan 2017, in Dobreva et alii. 2018 e in Furlan 2019. 2 Manacorda 2007.
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 567-580 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125343
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G. FURLAN
Riguardo il secondo aspetto di questo rapporto, quello delle fonti al servizio dell’archeologia, credo si possa grossolanamente articolare un’ulteriore suddivisione in due macro filoni: – uso delle fonti per ‘trovare’ o scoprire qualcosa; – uso delle fonti per interpretare quanto rinvenuto. Un esempio classico ed eclatante del primo uso che è stato fatto delle fonti scritte è ovviamente quello della scoperta di Troia da parte di Heinrich Schliemann, avvenuta nel corso degli anni ’70 del XIX secolo. Ancora oggi un sito può venire scelto per eseguirvi un’indagine archeologica perché menzionato dalle fonti scritte 3, che sono in grado di fornire chiavi interpretative e dati cronologici di partenza, i quali a loro volta possono consentire analisi di dettaglio di determinati fenomeni. Il secondo uso che si può fare di una fonte scritta, cioè l’interpretazione di un dato materiale, è forse quello più comune e trasversale. Fonti letterarie possono essere impiegate ad esempio per il riconoscimento di un edificio o di una infrastruttura: ne è prova evidente, ad esempio, l’immenso e appassionante dibattito archeologico e storiografico sul Palatino e sulle sue mura nel corso dell’VIII secolo a.C. 4. La fonte scritta, tuttavia, può anche essere pedina fondamentale per la lettura filologica di un singolo manufatto. Basti pensare ad un altro caso estremamente noto, ovvero al mosaico della casa del Fauno, a Pompei, raffigurante la scena di battaglia tra Alessandro e Dario 5, da riconoscersi nella battaglia di Isso o forse più convincentemente in quella di Gaugamela. È anche grazie all’incrocio delle informazioni fornite da diversi frammenti di fonti scritte che il manufatto viene interpretato come copia ‘lapidea’ di un quadro, forse del famoso pittore Apelle o dell’altrettanto celebre Philoxenos. In questa sede si vuole dar voce ad un modo diverso di impiegare la fonte scritta, nel nostro caso il testo liviano. Si tratta di una modalità figlia degli sviluppi più propri della disciplina archeologica da campo, un filone di studi apparentemente distante anni luce dall’esame dei testi antichi. Augenti 2003, 514-515. Per citare solo alcuni contributi, vedi Ricci et alii 1995; Carandini 2006, 171184, 434-453; Coarelli 2012 e da ultimo Carandini et alii 2017. 5 Moreno 2000. Vedi anche Cohen 1997, partic. 51-82, e l’interessante review del volume ad opera di A. D. Lee (Lee 1998). 3 4
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In breve, si vuole dimostrare l’utilità della fonte scritta nell’interpretazione di alcuni processi formativi del record archeologico. Si tratta dei modi in cui si formano, fisicamente e addirittura chimicamente, i palinsesti archeologici celati nelle nostre città e nei nostri territori 6. Va da sé che capire i meccanismi per cui si formano strati, strutture, contesti, etc. rappresenta un aspetto fondamentale affinché uno scavo archeologico possa portare ad una solida ricostruzione storica. Si tratta di un campo di studi di carattere squisitamente metodologico, dal quale per troppo tempo l’archeologia classica si è tenuta in disparte, venendo per questo giustamente criticata. Eppure, come avremo modo di vedere, proprio l’archeologia classica potrebbe fare uso, anche in questo campo, di strumenti che sono negati allo studio di altri periodi storici, cioè, per l’appunto, le fonti letterarie (e in particolar modo proprio l’opera di Livio). Il campo di gioco scelto per questo tentativo di ‘redenzione’ è piuttosto inusuale o quantomeno specifico. Si tratta della gestione dei rifiuti nel mondo romano 7, della manutenzione delle reti fognarie 8 e, soprattutto, di come gli archeologi interpretano il record materiale prodotto da questo insieme di attività. In particolare si concentrerà l’attenzione sull’interpretazione di quei depositi costituiti dal riempimento dei condotti di scarico, un ‘tipo di strato’ senz’altro peculiare, ma piuttosto comune nel panorama di scavo di un qualsiasi contesto urbano di età romana. Non mi riferisco, ovviamente, ai depositi prodotti dalla deliberata obliterazione dei condotti, che può avvenire nel caso di ristrutturazioni edilizie. Mi riferisco invece a quei depositi che si formano per il progressivo apporto, più o meno costante e più o meno rapido, di materiali e di sedimenti all’interno dei condotti fognari. Come avremo modo di apprezzare, si tratta di un tipo di deposito archeologico particolarmente interessante, perché i dati che fornisce, se letti correttamente, rappresentano una sorta di proxy del funzionamento del ‘sistema città’ in un dato periodo. Ciò significa che sebbene si tratti di strati piuttosto particolari, il loro interesse travalica i ristretti confini dello scavo archeologico, per illuminare fenomeni su scala ben più ampia, fornendo preziose informazioni
Leonardi 1992a, Schiffer 1987. Remolà Vallverdú – Acero Pérez 2011, Ballet et alii 2003, Dupré Raventós – Remolà Vallverdú 2000. Vedi anche Furlan 2017 e Bradley 2012. 8 Koloski-Ostrow 2015. 6 7
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sulla gestione delle città antiche, con tutti i benefici che se ne possono trarre per una lettura storica di medio e lungo periodo. Prima di vedere come il testo liviano può guidarci nel comprendere il modo di formazione di questi depositi è necessario aprire una breve parentesi sulle loro caratteristiche in termini strettamente archeologici. Il bacino di deposizione 9 di questi strati è senz’altro particolare, visto che le fognature e i canali di scolo formano una rete di spazi interconnessi, gerarchizzati e direzionati, a cui si accede da molteplici punti sparsi in tutto il tessuto infrastrutturale urbano (pozzetti, tombini, caditoie, vasche), i quali peraltro selezionano metricamente il materiale in ingresso. I depositi poi possono apparire estremamente stratificati (come nel caso di Trento 10, fig. 1) oppure più massivi (vedi l’esempio di Milano 11, fig. 2), magari a causa del mascheramento causato da processi deposizionali e post deposizionali. La matrice che forma questi depositi può essere ricondotta all’accumulo progressivo di quantità di sedimento più o meno modeste, a seconda della capacità di trasporto solido del flusso di acqua in entrata nel sistema 12. L’acqua provvede anche all’ingresso di materiali archeologici, generalmente di piccole dimensioni: si tratta di manufatti o ecofatti scartati, gettati, trasportati oppure semplicemente persi, ovvero di rifiuti. All’interno del condotto l’acqua provvede al trasporto e alla deposizione sia del sedimento che dei materiali; il processo deposizionale avviene non tanto verticalmente, come nella gran parte dei depositi archeologici urbani, quanto orizzontalmente, provocando il dislocamento e il rimescolamento di quanto entrato nella rete fognaria secondo un verso preciso, dato dalla pendenza dei condotti. In base a quanto osservabile sul campo e in pieno accordo con quanto conosciamo sul funzionamento delle città romane, i collettori, pensati e realizzati principalmente per lo smaltimento delle acque reflue, fungevano, in maniera più o meno occasionale, anche da bacini di deposizione per i rifiuti urbani, dei quali rappresentavano a tutti gli effetti una delle vie di smaltimento 13. Leonardi 1992b. Bassi 1997. 11 Blockley – Caporusso 1991. 12 Ann Olga Koloski-Ostrow riporta il caso recente di ingenti quantità di sedimenti accumulate nella Cloaca Maxima in meno di un anno (Koloski-Ostrow 2015, 65). 13 Vedi, in generale, Hodge 2002, 332-345; Gelichi 2000, 15-17; Liebeschuetz 2000, 57-59, Scobie 1986, 408-409. 9
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Fig. 1 Trento. Sezione esposta di uno dei riempimenti dei condotti fognari emersi nel corso delle indagini 1994-1996. Da Bassi 1997.
Fig. 2 Milano. Uno dei riempimenti dei condotti fognari emersi nel corso delle indagini per la linea MM3 presso la stazione Missori (1989-1990). Da Blockley – Caporusso 1991.
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Circoscrivendo l’indagine ai materiali rinvenuti in questi depositi, si possono notare nello stesso contesto picchi di attestazioni per alcune fasi storiche e scarsi rinvenimenti riferibili ad altri periodi. Ad esempio nel caso di alcuni condotti indagati ad Aquileia, presso la domus di Tito Macro 14, si notano grandi quantità di materiale databile tra III e V secolo d.C., ma pochi materiali pertinenti ai due secoli precedenti, in cui pure i condotti erano in uso. Simili distribuzioni sono ravvisabili anche negli assemblages prodotti dai riempimenti dei condotti fognari di altri centri Cisalpini (Cremona, Trento, Rimini, Milano 15). Che tipo di processo o fenomeno si cela dietro a questo pattern? Ecco che finalmente le fonti scritte possono gettar luce su un fenomeno che non lascia record archeologico, o meglio, come vedremo, che ne comporta la rimozione. Le fonti disponibili sulla vita dei sistemi fognari sono molto scarse e proprio per questo assai preziose; l’unica fonte legislativa di rilievo sembra consistere in pochi passaggi da Ulpiano 16, mentre tra le fonti letterarie si possono contare alcuni stralci dalle epistole di Plinio e da Dionigi di Alicarnasso che avremo modo di vedere. Q ualche dato in più è disponibile riguardo alla costruzione dei condotti, ma si tratta di una questione differente rispetto alla loro manutenzione, nonostante, come vedremo, i due aspetti siano strettamente legati, secondo un certo punto di vista. Per nostra fortuna, tuttavia, disponiamo di alcuni passi del l’opera di Livio, spesso sottovalutati a questo riguardo, che gettano un po’ di luce proprio sul tipo di fenomeni che ci interessano. Verso la fine del primo libro della sua opera, l’autore descrive, con tratti carichi di pathos, gli avvenimenti che a Roma portano alla fine della monarchia. Lucrezia si è tolta la vita e Bruto si dirige a Roma alla testa di una folla armata. Arrivato al foro, parla di fronte al popolo e ricorda l’arroganza del re e lo stato misero della plebe, ridotta a morire di fatica a forza di svuotare fosse e cloache (addita superbia ipsius regis miseriaeque et labores plebis in fossas cloacasque exhauriendas demersae 17). È bene a questo punto focalizzare l’attenzione sul verbo exhaurio, che in alcune traduzioni viene reso con ‘scavare’, ma che mi Furlan 2017, 330-333, Dobreva et alii 2018. Dobreva et alii 2018. 16 Ulp. Dig. 43.23. 1-2. 17 Liv. 1,59,9. 14 15
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pare abbia più propriamente il significato di svuotare o addirittura quello, anche figurato, di prosciugare. Si tratta di un’osservazione necessaria perché ‘scavare cloache’ in italiano potrebbe suggerire l’idea della loro costruzione, piuttosto che del loro svuotamento. Tuttavia sembra chiaro come sia proprio di questo secondo fenomeno che si parli, ovvero dell’invisibile e poco edificante, quanto assolutamente necessaria, opera di pulizia dei sistemi fognari. Q uesti del resto erano il fiore all’occhiello delle città romane, assieme agli acquedotti e alle strade lastricate, persino agli occhi dei visitatori greci, come ci ricorda un passo di Dionigi di Alicarnasso (ἔγωγ᾽ οὖν ἐν τρισὶ τοῖς μεγαλοπρεπεστάτοις κατασκευάσμασι τῆς Ῥώμης, ἐξ ὧν μάλιστα τὸ τῆς ἡγεμονίας ἐμφαίνεται μέγεθος, τάς τε τῶν ὑδάτων ἀγωγὰς τίθεμαι καὶ τὰς τῶν ὁδῶν στρώσεις καὶ τὰς τῶν ὑπονόμων ἐργασίας 18). Come è stato notato in altri studi, i sistemi fognari dei romani non erano completamente auto-pulenti 19, a causa del limitato controllo della velocità dell’acqua che era possibile ottenere. Era necessario quindi che, affinché il sistema funzionasse, qualcuno garantisse lo svuotamento periodico dei condotti. È chiaro perciò che quanto era finito nei condotti fino al momento della pulizia veniva in gran parte rimosso, senza avere la possibilità di entrare a far parte di quel record archeologico che viene poi effettivamente scavato nei condotti di scarico. Q uesto spiega in maniera convincente la scarsa presenza di materiali relativi a periodi per cui non vi è evidenza di particolari flessioni nella vita urbana e che anzi sono generalmente riconosciuti come momenti di salute delle città romane (particolarmente tarda età repubblicana e primo impero). Piuttosto, quanto rinveniamo nei condotti sembrerebbe da mettere in relazione, per la gran parte, con la crisi delle fognature delle città romane, ovvero con quel periodo che vede, spesso a partire dal medio/tardo impero, il venir meno di pratiche efficaci di manutenzione. In sostanza, più era efficace la manutenzione, meno materiali si accumulavano; al contrario, grandi quantità di materiale corrispondono a periodi di scarsa attenzione alla pulizia dei condotti.
18 Dion. Hal. 3,67,5 (‘Per quanto mi riguarda, le tre più importanti opere di Roma, che meglio mostrano la grandezza del suo impero, sono gli acquedotti, le strade lastricate e la costruzione delle cloache.’). 19 Scobie 1986, 412, nota 100.
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Si tratta di un meccanismo fondamentale per la corretta lettura dei depositi archeologici costituiti dai riempimenti dei condotti fognari antichi e soprattutto per l’interpretazione della mole di manufatti che questi restituiscono; peraltro vale la pena notare che in tal modo si ribalta completamente l’assioma, spesso implicito, che vuole che a molti materiali rinvenuti corrispondano momenti di prosperità economica, mentre minori quantità di manufatti suggerirebbero periodi di crisi. Tornando al passo di Livio, va osservato che, almeno nelle parole di Bruto, la pulizia delle fogne assume una connotazione tutt’altro che positiva e rappresenta addirittura un’attività degradante, quasi non degna del popolo romano. Del resto una delle poche altre fonti che testimonia la pulizia dei condotti fognari, ovvero un’epistola di Traiano a Plinio il Giovane, fa piuttosto chiaramente riferimento all’uso di manodopera coatta per questo genere di attività 20. Credo tuttavia sia importante distinguere, a questo proposito, tra l’esito dell’attività di pulizia e il suo svolgersi. Se infatti non sembra degno del popolo romano pulire le cloache, è tuttavia degno del popolo romano avere le cloache pulite! Bruto cioè non disprezza l’opera di mantenimento dei condotti in sé, quanto il fatto che sia il popolo dei Romani, victores omnium circa populorum 21, a doverla materialmente eseguire. In effetti in un altro passo del testo liviano il tono con cui si accenna alla manutenzione delle fogne è ben diverso. Siamo ormai ai tempi di Catone (184 a.C.) e i censori (Catone stesso e L. Valerio Flacco) stanno combattendo i privilegi che alcuni privati si erano assicurati a spese della comunità, allacciandosi abusivamente agli acquedotti o costruendo in spazi pubblici. I censori tuttavia non svolgono solo una funzione repressiva, ma anche un ruolo costruttivo: appaltano infatti, con denaro appositamente stanziato, una serie di lavori, tra cui il rivestimento in pietra delle fontane, la pulizia, ove necessario, delle cloache e la costruzione di nuove fognature sull’Aventino e in altri luoghi non ancora forniti di questo servizio (opera deinde facienda ex decreta in eam rem pecunia, lacus sternendos lapide, detergendasque, qua opus esset, cloacas, in Aventino et in aliis partibus, qua nondum erant, faciendas locaverunt 22). In questo caso la pulizia delle cloache (detergendas cloacas) Plin., epist. 10.32.2 ad purgationes cloacarum. Liv. 1,59,9. 22 Liv. 39,44,5. 20 21
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è vista in un’ottica senz’altro positiva e sembra ricevere l’approvazione di Livio stesso, il quale, notoriamente vicino alle correnti conservatrici del pensiero politico romano, presenta del resto nella sua stessa opera un ritratto di Catone censore tutt’altro che sfavorevole 23. Va anche ricordato che la pulizia delle cloache, per quanto svolta preferibilmente da manodopera servile o in stato di carcerazione, non era certo priva di costi. Ancora Dionigi di Alicarnasso, nel prosieguo del passo già riportato, citando esplicitamente Gaio Acilio, senatore e storico del II sec. a.C., afferma che in un caso i censori, per la pulizia e la manutenzione dei condotti attraverso i quali non passava più l’acqua di scarico, avevano speso all’incirca 1000 talenti, una somma enorme (ἄν τις Γάιον Ἀκίλλιον ποιησάμενος τοῦ μέλλοντος λέγεσθαι βεβαιωτήν, ὅς φησιν ἀμεληθεισῶν ποτε τῶν τάφρων καὶ μηκέτι διαρρεομένων τοὺς τιμητὰς τὴν ἀνακάθαρσιν αὐτῶν καὶ τὴν ἐπισκευὴν χιλίων μισθῶσαι ταλάντων 24). Non è questa la sede per soffermarsi sul ruolo svolto dai censori, che pure meriterebbe un approfondimento particolare; nell’ottica di questo contributo vale la pena piuttosto di sottolineare la sostanziale conferma della fonte liviana, in particolare riguardo l’esistenza di opere di manutenzione e pulizia, apparentemente non frequenti, ma comunque periodiche. Inoltre, viene riportato il fatto che le cloache potessero riempirsi fino a non poter più svolgere in alcun modo la loro funzione di scarico; si tratta probabilmente della causa scatenante che portava ad appaltare grandi opere di pulizia e manutenzione e ciò conferma in maniera efficace il quadro formativo-deposizionale tratteggiato in precedenza. Infine, come anticipato, emerge chiaramente lo sforzo, anche economico, richiesto da queste operazioni. Un terzo passo dell’opera liviana getta poi una luce importante su un ulteriore aspetto chiave: quello della pianificazione. Siamo questa volta all’indomani del saccheggio di Roma da parte dei Galli, nel 390 a.C. La ricostruzione della città procede celermente, ma piuttosto disordinatamente e senza un’attenta pia nificazione, tanto che (e questo è il punto che ci interessa) le cloa che, che prima passavano in suolo pubblico, si ritrovarono a passare Liv. 39,40. Dion. Hal. 3,67,5 (‘[…] se si considera valida l’opera di Gaio Acilio, che afferma che una volta, quando le cloache erano state trascurate e non vi poteva più passare l’acqua, i censori appaltarono la loro pulizia e manutenzione a mille talenti’). 23 24
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al di sotto di case private (festinatio curam exemit vicos derigendi, dum omisso sui alienique discrimine in vacuo aedificant. Ea est causa cur veteres cloacae, primo per publicum ductae, nunc privata passim subeant tecta, formaque urbis sit occupatae magis quam divisae similis 25). È stato detto che la funzione di questo passo sia quella di spiegare perché Roma, a differenza ad esempio di tante colonie romane e latine, non avesse un assetto urbano regolare 26. In questa sede non preme però indagare se il saccheggio gallico ebbe realmente un impatto drastico sull’impianto topografico di Roma, quanto la notazione fatta da Livio sul rapporto tra cloache e spazi pubblici, che lo scrittore lascia intendere avrebbe dovuto avere maggiore importanza durante la ricostruzione. Q uest’importanza non può che risiedere nel fatto che, attraversando spazi pubblici, alle fognature potesse essere garantita una più efficace opera di pulizia e manutenzione. È da questo che deriva lo stretto rapporto delle fognature con il resto della rete infrastrutturale urbana, in primis le strade, che effettivamente caratterizza la gran parte dei centri urbani di età romana. In altri termini la pianificazione di queste infrastrutture teneva conto delle esigenze di manutenzione, più o meno routinaria, che queste avrebbero avuto. L’importanza data alle operazioni di pulizia, anche dei sistemi di smaltimento delle acque reflue, del resto emerge non solo dai passi liviani, ma anche da alcuni aspetti della ritualità romana, legati all’idea di purificazione dello spazio urbano. Ne è testimonianza importante la presenza del sacello dedicato a Venere Cloa cina, situato nel Foro Romano proprio nel punto di passaggio della Cloaca Maxima e ricordato peraltro dallo stesso Livio 27 e soprattutto da Plinio 28. Il sacello è anche raffigurato, nel 42 a.C., in un denario di Mussidius Longus 29, in questo caso con chiaro richiamo alla concordia, tanto agognata in tempo di guerre civili quanto legata alla nascita del sacello stesso, sorto sul luogo della riconciliazione e purificazione rituale di Romani e Sabini all’indomani dell’episodio del ratto 30. Il sacello lega quindi fisicamente, oltre Liv. 5,55,5. Perelli 1974, 928, nota 55.2. 27 3,48,5. 28 Plin., nat. 15,119. 29 RRC, p. 509, pl. 60, 494/42-43. 30 Vedi Eitrem 1923, 15-16; Edlund-Berry 2006, partic. 171. 25 26
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che idealmente, la purificazione rituale (lustratio) con la pulizia vera e propria dello spazio urbano. Può risultare sorprendente, agli occhi dell’osservatore odierno, come anche un’attività tutt’altro che edificante e di stampo assolutamente utilitaristico come il funzionamento dei condotti di scarico potesse essere inserita in un’ottica rituale, ma agli occhi di un contemporaneo la cosa doveva essere assolutamente normale e, anzi, rivestire una certa importanza 31. Per riassumere, ciò che emerge dal testo liviano e dalle altre fonti esaminate è quanto segue: 1. nel mondo romano venivano effettuate più o meno periodiche operazioni di pulizia dei condotti fognari, i quali potevano riempirsi fino a non essere più in grado di svolgere la loro funzione di scarico; 2. le operazioni di pulizia, anche se svolte preferibilmente da manodopera coatta, potevano essere notevolmente costose; 3. a Roma, un ruolo particolare nella manutenzione dei condotti doveva essere svolto, almeno per un certo periodo, dai censori; 4. per favorire la manutenzione e la pulizia dei condotti era importante che questi si snodassero in spazi pubblici; 5. la pulizia delle cloache era ritenuta importante, perché il loro funzionamento era legato ad alcuni aspetti della ritualità romana connessi alle pratiche di purificazione. È giunto quindi il momento di tornare, dopo questa lunga parentesi al di fuori dei ristretti confini del cantiere archeologico, ai riempimenti dei nostri condotti. Ciò che fanno nel nostro caso le fonti scritte, e in particolare, come visto, il testo liviano, è aiutare a comprendere processi di formazione del record archeologico che sarebbero altrimenti invisibili, o quantomeno difficilmente postulabili. Nel nostro caso spiegano il perché dell’assenza, o meglio della rimozione, di una parte di quanto ci saremmo potuti aspettare di recuperare e svelano il significato di quanto effettivamente conservatosi, addirittura ribaltando alcuni schemi mentali piuttosto consolidati nelle modalità interpretative dell’archeologo da campo. Per gli aspetti religiosi e sociali legati alla Cloaca Maxima, vedi Hopkins 2012.
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In altri termini, il rinvenimento nei condotti di pochi materiali afferenti ad un dato periodo implica che durante questo lasso di tempo una efficace manutenzione provvide alla rimozione dei rifiuti accumulatisi; ciò significa che le autorità cittadine disponevano dei mezzi, della capacità e della volontà politica di mantenere in buono stato la rete infrastrutturale costituita dai condotti di scarico. Il ‘sistema città’, almeno per quanto riguarda gli aspetti (non secondari) della gestione delle acque e dei rifiuti, poteva considerarsi in buona salute. Grandi quantità di materiali presenti nei condotti adombrano invece periodi di crisi del sistema di controllo delle acque e dei rifiuti, rappresentando quindi un importante elemento di valutazione nel grande dibattito che riguarda la crisi e la trasformazione delle città antiche. Il testo liviano e le poche altre fonti disponibili permettono tuttavia di andare oltre e sul tema aprono uno squarcio anche sugli agenti e i modi alle spalle del processo fisico (in sé banale) di rimozione periodica del contenuto dei condotti fognari. Ci parlano, ad esempio, del rapporto tra cittadino romano e pulizia, dei costi che questa poteva comportare, di chi la svolgeva, di quali magistrature la sovraintendevano e persino del ruolo svolto dalle necessità di manutenzione nella pianificazione dei collettori. Sembrano temi lontani dalla grande storia, fatta di eventi e di personaggi precisi, ma si tratta invece di aspetti cruciali nell’interpretazione dell’evolversi, sul medio e lungo periodo, delle realtà urbane antiche, sotto il punto di vista urbanistico, economico e sociopolitico. Q uanto brevemente illustrato mostra chiaramente come la disciplina archeologica possa approcciarsi alle fonti scritte anche in maniera leggermente diversa rispetto ai modi ricordati all’inizio di questo contributo. Del resto l’archeologia da campo si è notevolmente evoluta negli ultimi 40-50 anni, come è evoluto notevolmente il suo rapporto con altre discipline, particolarmente col mondo delle scienze esatte; sembra quindi giusto, oltre che naturale, che anche il suo rapporto con l’uso delle fonti scritte possa evolvere, esplorando sentieri magari inaspettati e inconsueti.
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PARTE IV
LETTORI DI LIVIO DAL TARDOANTICO ALL’ETÀ MODERNA
ANTONIO PISTELLATO
ADDITAMENTA STORICO-NARRATIVI ALLA PERIOCHA 49 DI LIVIO A mia madre
1. Introduzione La Periocha 49, una delle più frequentate dagli studiosi dei Libri Ab urbe condita, si distingue per la peculiarità dei paragrafi 21-27 che la concludono. Dedicati alla figura del cosiddetto pseudo-Filippo, essi hanno concentrato il dibattito critico in merito alla genuinità liviana del materiale contenutovi. Meno indagato, invece, risulta il piano più strettamente narrativo considerato alla luce della cronologia delle Periochae, che in questa sede si intende approfondire. Il quadro storico è quello successivo alla battaglia di Pidna del 168 a.C., che segnò la sconfitta della potenza egemone in Grecia, il regno di Macedonia, e l’inizio della stabile dominazione romana del territorio ellenico. Tra il 149 e il 148 a.C. si combatté la quarta guerra macedonica, nella quale i Macedoni cercarono di riconquistare la libertà da Roma. Alla base del conflitto fu l’impresa di un avventuriero di umili origini, Andrisco, che si accreditò quale figlio dell’ultimo re macedone Perseo assumendo il titolo di Filippo VI e guidando la rivolta antiromana. Benché il tentativo fallisse, la vicenda di Andrisco rimase bene impressa nella memoria collettiva degli antichi. La storiografia superstite, greca e latina, ne registra lo sviluppo rocambolesco, incentrato su un tema di grande fortuna letteraria, quello delle azioni compiute sotto falso nome 1.
Scardigli 2005, 150-154. In generale vd., per esempio, Ehrman 2012, 23-29.
1
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 583-596 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125344
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2. I paragrafi 21-27: esame testuale Si riproducono, di seguito, i paragrafi della Periocha il cui testo, insieme all’apparato che lo accompagna, segue l’edizione di Paul Jal per la Collection Budé 2: [21] Andriscus quidam, ultimae sortis homo, Persei *se* regis filium ferens et mutato nomine Philippus uocatus cum ab urbe Romana, quo illum Demetrius, Syriae rex, ob hoc ipsum mendacium miserat, clam profugisset, multis ad falsam eius fabulam uelut ad ueram coeuntibus, contracto exercitu totam Macedoniam aut uoluntate incolentium aut armis occupauit. [22] Fabulam autem talem finxerat: ex paelice se et Perseo rege ortum traditum educandum Cretensi cuidam esse, ut in belli casus quod ille cum Romanis gereret, aliquod uelut semen regiae stirpis exstaret. [23] Hydramyti se educatum usque ad XII aetatis annum, patrem eum esse credentem a quo educaretur, ignarum generis fuisse sui. [24] Adfecto deinde eo, cum prope ad ultimum finem uitae esset, detectam tandem sibi originem suam falsaeque matri libellum datum signo Persei regis signatum, quem sibi traderet, cum ad puberem aetatem uenisset, obtestationesque ultimas adiectas, ut res in occultato ad id tempus seruaretur. [25] Pubescenti libellum traditum in quo relicti sibi duo thensauri a patre dicerentur. [26] Tum scienti mulierem se subditum esse, ueram stirpem ignoranti edidisse genus atque obtestatam, ut prius quam manaret ad Eumenen res, Perseo inimicum, excederet his locis, ne interficeretur. [27] Eo se exterritum, simul sperantem aliquod a Demetrio auxilium in Syriam se contulisse atque ibi primum quis esset palam expromere ausum. [21] se ante regis Rossbach : post regis D Guelf. KQ νσ : post filium γλ ║ romana : roma Q γ ║ ipsum DE Guelf. KQ Ry. εζνρτ : om. rell. ║ fabulam : famam D Guelf. ν ║ [22] talem : huiusmodi ν ║ et DEγζλρτ : om. rell. ║ perseo : -se γλ ║ cretensi ε : om. λ : cyrtese Q ν : crete (certe) se rell. ║ in Kν : ad Guelf. : om. rell. ║ gereret : ageret ν ║ aliquod : -quid Eμ ║ regiae stirpis : s. r. ν ║ perseo demortuo post exstaret add. ν ║ [23] aetatis annum : annum a. ν ║ fuisse sui : s. f. EKρ ║ [24] finem uitae : u. f. λνρστ ║ tandem sibi : s. t. Dγρ ║ persei : -se Q γσ ║ obtestationesque : ostenta- ελρ ║ occultato Rossbach : -culto D Guelf. Leid. 19 ζηιχ : -cupata λ : -cupatas ρτ : -cupato rell. ║ [25] relicti : -tis NP ║ [26] scienti : -tem ηνχ ║ mulierem ηθνχ : -ri rell. ║ se om. μ : post subditum ηνπχ ║ ignoranti Guelf. Leid. 19 γηινπχ : -tis rell. ║ manaret : -neret DE Guelf. Q ερ ║ res : regi E Guelf. Oλρστ : rege μ ║ [27] a demetrio auxilium : aux. a d. ηνχ ║ in syriam : a syria N : in syria Pθ ║ contulisse Leid. 19 ζηνπρχ : -lit rell. ║ qui post ibi add. Q Ry. μ ║ ipse omnino post quis add. ν. 2 Jal 1984, che basava la sua edizione sulla collazione di 36 codici su 87 noti – di cui 5 collazionati per sondaggi. Ulteriori citazioni dalle Periochae (infra nel testo) seguono la medesima edizione di Jal.
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A lungo vi fu chi ritenne i paragrafi una interpolazione – così già Eduard Wölfflin nell’Ottocento, ma senza spiegarne la natura e senza provare a datarla 3. Per parte sua, un filologo scrupoloso come Alfred Klotz si dichiarò sorpreso che essi non trovassero collocazione, piuttosto, nella Periocha 48 precedente 4, dove la vicenda di Andrisco figura per la prima volta, sia pure evocata in modo conciso 5. Vi è stato, però, chi ha propeso per la sostanziale autenticità del materiale narrativo liviano – Otto Rossbach per primo, all’ini zio del Novecento 6. Tale linea ha preso progressivamente piede, nel quadro di una più generale rivalutazione dello spessore letterario delle Periochae promossa da William Bingham e Paul Jal 7. Nella fattispecie, Jal ha esaminato i paragrafi dedicati allo pseudoFilippo sulla base del confronto con le versioni di Polibio (36,10) e Diodoro (32,15), da cui Livio poté dipendere in buona parte – a dispetto della circostanza che, in termini di contenuti, Diodoro diverga dalla Periocha in modo considerevole. Non è però necessario guardare unicamente alle analogie con le fonti greche, alle quali è noto che Livio fece ricorso nella redazione dei libri Ab urbe condita, per apportare elementi a favore dell’impronta liviana dei paragrafi 21-27. Ragioni più stringenti, in effetti, ne assicurano la genui nità. Si tratta di corrispondenze lessicali e formulari con il dettato liviano dei libri superstiti, che ricorrono nelle stesse Periochae ma anche in altre abbreviazioni dei libri Ab urbe condita. Accanto a queste, si aggiungano parallelismi con autori che dal materiale liviano talora dipendono. Alcuni esempi, di seguito proposti, valgano a darne una misura 8: 21 ultimae sortis homo, Persei *se* regis filium ferens si consideri, innanzitutto, come nel II secolo d.C. Floro epitomava Livio sul medesimo punto: uir ultimae sortis Andriscus inuaserat, dubium liber an 3 Wölfflin 1887, 347-348, 350, che sviluppava una linea già avanzata da Jahn 1853, in sede prefatoria e in generale sulle Periochae. 4 Klotz 1936, 86. 5 Perioch. 48,10 Andriscus, qui se Persei filium, regis quondam Macedoniae, ingenti adseueratione mentiretur, Romam missus. L’ultima menzione di Andrisco, parimenti concisa, si trova invece subito dopo la Periocha 49, a 50,1 Thessalia, cum et illam inuadere armis atque occupare Pseudophilippus uellet, per legatos Romanorum auxiliis Achaeorum defensa est. 6 Rossbach 1910 che, peraltro, individuava nelle Periochae interpolazioni di ben minore entità, datandole genericamente all’età umanistica (pp. XX, XXIV-XXVII). Jal 1984, LXIV è sulla stessa linea, ma non data. 7 Bingham 1983 e Jal 1984, LXVII e nt. 1 nonché comm. ad loc. 8 Per la discussione dei passi ho tratto giovamento dalle osservazioni e dai consigli di Paola La Barbera, alla quale devo la mia gratitudine.
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seruus, mercennarius certe (1,30,3 [olim 2,14,3] = 1, p. 72, ll. 19-20 Rossbach); successivamente svariava Ampel. 16,5 uir plebeius et degener cum ex similitudine formae Philippi filium se persuasisset. Al di fuori del campo narrativo di matrice direttamente liviana, si veda Vell. 1,11 qui se Philippum regiaeque stirpis ferebat, cum esset ultimae, che a Livio dovette probabilmente ricorrere per il suo veloce resoconto su Andrisco. Lo stesso dicasi molto più avanti nel tempo, ed è il caso di Amm. 26,6,20 Andriscus de genere quidam infimae sortis (den Boeft et alii 2008, comm. ad loc.). A monte si delinea il topos della correlazione tra impostura e umili origini sociali, argomento prediletto nel mondo romano per rappresentare il malaffare, o comunque per screditare chi è a mal partito (vd. per es. Rohr Vio 2009, 6-22): cf. in tal senso perioch. 116,8 humillimae sortis homo, qui se C. Mari filium ferebat che concerne Chamates (Amatius corr. Sigonio), lo pseudo-nipote di Gaio Mario (definito sedicente figlio di Mario nella Periocha: forse di Mario il Giovane?): oltre all’evidenza lessicale si registra un’analogia contenutistica, perché anche nella Periocha 116 il tema narrativo è quello della falsa identità; accanto, però, ve ne è una prettamente strutturale perché, come nella Periocha 49, anche nella 116 la notizia sull’impostura si colloca alla fine; e questo in una Periocha peraltro monotematica, in quanto tutta consacrata al cesaricidio del 44 a.C. Conviene addurre anche un paragone con Suet., Aug. 19,1 nam ne ultimae quidem sortis hominum conspiratione et periculo caruit, a siglare il riferimento alle tentate congiure ai danni di Augusto, realizzate mediante falsificazioni. Il tema interessa molto ad Ammiano, che proprio sulle modeste origini di Andrisco insiste anche in 14,11,31 Andriscum in fullonio natum. La clausola ultima/infima + sost. che riconduce all’origine o a un tratto comportamentale negativo occorre, seppur slegata dal tema del falso, in perioch. 19,2 sortis ultimae hominem riferito a Claudio Glicia, nominato dittatore da Publio Claudio Pulcro nel corso della prima guerra punica; perioch. 82,4 ultimae audaciae homine riferito all’età sillana, quando Gaio Fimbria legato del console Valerio Flacco fece uccidere quest’ultimo in Tessaglia (peraltro una delle zone di operazioni militari dello Pseudo-Filippo: perioch. 50,1); 21 ad falsam eius fabulam uelut ad ueram, subito ripreso con ridondanza da 22 fabulam autem talem finxerat cf. Liv. 34,2,3 equidem fabulam et fictam rem ducebam (Catone il Censore parla in veste di console riferendosi al mito delle donne di Lemno); formulazione analoga in Ps.Heges. 5,46 (p. 397, l. 6 Ussani) ut Iudaeae fabulae ferunt (l’imperatore Tito parla del mitico attraversamento del Mar Rosso). La fabula escogitata dallo pseudo-Filippo è qualificata in termini che si addicono alle fabulae della mitografia (cf. ThLL s.v. fabula, 27,40-28,17): una chiave per comprendere la fortuna della vicenda di Andrisco in letteratura e il respiro di cui gode nella Periocha 49, per cui vd. infra; 21 contracto exercitu in Liv. 27,41,1 contracto exercitu è riferito alle operazioni militari di Annibale nell’Italia meridionale (Bruzio e Lucania);
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22 uelut semen regiae stirpis exstaret cf. Liv. 24,25,10 ut omnes regiae stirpis interficerentur; e ancora Vell. 1,11 regiaeque stirpis ferebat, cum esset ultimae sempre su Andrisco; 24 cum prope ad ultimum finem uitae esset cf. Liv. 37,53,8 ad extremum uitae finem contenuto nel discorso del re Eumene al Senato; formula analoga ma in diverso contesto narrativo compare in Suet., Aug. 58,2 ad ultimum finem uitae; 24 cum ad puberem aetatem uenisset cf. Liv. 1,3 imperium ei ad puberem aetatem incolume mansit riferito al giovane Ascanio; 26 ueram stirpem ignoranti edidisse genus cf. Cic., Lael. 70 ut in fabulis qui aliquamdiu propter ignorationem stirpis et generis in famulatu fuerunt, cum cogniti sunt et aut deorum aut regum filii inuenti (rovesciamento positivo); 27 simul sperantem cf. Liv. 30,19,4-5 Mago non imperio modo senatus periculoque patriae motus, sed metuens etiam ne uictor hostis moranti instaret Liguresque ipsi relinqui Italiam a Poenis cernentes ad eos quorum mox in potestate futuri essent deficerent, simul sperans leniorem in nauigatione quam in uia iactationem uolneris fore et curationi omnia commodiora, impositis copiis in naues profectus, uixdum superata Sardinia ex uolnere moritur (il passo riguarda Magone Barca, fratello di Annibale).
3. La cronologia compositiva: raffronti letterari ed evenemenziali Ulteriori elementi di riflessione offre un esame comparativo del testo latino della Periocha 49, in particolare alla luce delle testimonianze letterarie cronologicamente vicine alla produzione delle Periochae. Esso permette di immergere la pagina in un più largo quadro di riferimento. In effetti, benché strida con la concisione dei passaggi nelle Periochae 48 e 50, lo spazio dedicato alla storia di Andrisco, che da sola occupa circa un terzo della Periocha 49, sembra rispondere a un gusto riconoscibile anche altrove all’epoca. Q uanto concesso cursoriamente da Jal («tout au plus» comm. ad loc., p. 124), riguardo al possibile interesse dell’epitomatore (e del suo pubblico) per le histoires merveilleuses 9, consente di inquadrare i paragrafi sullo pseudo-Filippo in un orizzonte narrativo più solido. L’attenzione portata sugli impostori ebbe una lunghissima fortuna letteraria, non solo come riflesso di una prassi storicamente diffusa. Già per 9 Histoires merveilleuses da intendersi senz’altro nel senso delle Wundererzählungen, termine coniato per la produzione ellenistica da Reitzenstein 1906.
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Polibio l’exploit di Andrisco fu miracoloso e contrario a ogni aspettativa (36,10,5 θαυμαστὸν ἐφάνη καὶ παράδοξον τὸ γεγονός), al punto da spingere lo storico di Megalopoli a stupirsi della credulità di Greci e Romani parimenti gabbati dallo pseudo-Filippo. Diodoro definì la vicenda un δράμα (32,15,4) che Andrisco seppe recitare con arte patetica (32,15,5 τραγῳδήσας). Un imaginarius et scaenicus rex era lo pseudo-Filippo, come ebbe a qualificarlo Floro (e dietro di lui forse lo stesso Livio: si veda in tal senso l’uso di imaginarius in Liv. 3,41,1) 10. E immaginifica è la fabula di Andrisco presentata nella Periocha 49, ove per due volte si insiste sulla natura fabularis dell’impresa (21-22), fondata sopra un falso libellus ‘comprovante’ l’origine regale dell’impostore. Nel IV secolo la pratica epitomatoria sempre più diffusa favorì la circolazione di testi in lingua latina complessi e, soprattutto, estesi – anche a partire da originali greci – la cui fruizione era circoscritta ad ambienti limitati. Si pensi, per esempio, all’epitome latina attribuita allo pseudo-Egesippo, autore cristiano ormai identificabile con Ambrogio (così da ultimo Canfora 2021, 100-116, 146-150), che condensò Flavio Giuseppe operando sulla Guerra giudaica e aggiungendo inserzioni dalle Antichità giudaiche (entrambe redatte alla fine del I secolo d.C.). Il ruolo delle histoires merveilleuses nel testo dello pseudo-Egesippo/Ambrogio è degno di nota. Un passo specialmente ha influenzato la produzione letteraria ben al di là dell’evo antico – fino almeno a Boccaccio. Si tratta del racconto dell’inganno subito dalla nobile Paolina, devota isiaca, a opera del cavaliere Decio Mundo che si finge il dio Anubi (2,4), famosum ludibrium di età tiberiana che nella sua forma letteraria riprende il modello ellenistico della storia del mago e (pseudo)profeta Nectanebo e della regina Olimpiade, veicolato dal Romanzo di Alessandro (Rom. Alex. 1,1-14) 11. Colpisce, in particolare, l’analogia stilistica dell’uso di accusativo + infinito che accomuna parte del brano dello pseudo-Egesippo/Ambrogio e dei paragrafi della Periocha – come talora i libri Ab urbe condita. 10 Flor. 1,30,4 (olim 2,14,4) = p. 73, ll. 3-7 Rossbach: igitur dum haec ipsa contemnit populus R., Iuuentio praetore contentus, uirum non Macedonicis modo sed Thraciae quoque auxiliis ingentibus ualidum temere temptauit inuictusque a ueris regibus ab illo imaginario et scaenico rege superatus est. 11 Il racconto ispirò la novella seconda della quarta giornata del Decameron – dove l’ingannatore è lo scaltro frate Alberto da Imola e l’ingannata è la veneziana donna Lisetta; ma anche il De mulieribus claris che Boccaccio scrisse in latino, con sacrando il capitolo 91 a Paulina romana femina.
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Lo stesso Romanzo di Alessandro, d’altronde, costituì nella letteratura occidentale una base cruciale per lo sviluppo del gusto verso il tema narrativo dell’inganno attuato attraverso la trasformazione. La dirompente fortuna della sua traduzione latina a opera di Giulio Valerio non poté che amplificarne l’incidenza in maniera determinante nel IV secolo. La circostanza appare significativa. In tal senso, l’anonimo epitomatore di Livio poté essere ben inserito nella temperie del suo tempo e consapevolmente poté concepire abbreviazioni più elaborate di altre a partire dall’opera liviana. Nella sua singolarità, la Periocha 49 dimostra anzi, al di là del sostanziale rispetto del lessico liviano già posto in evidenza, una vera e propria autonomia letteraria che Jal intuì fra i primi – e che è stata in seguito sostenuta, per esempio, da Jane Chaplin 12. Che in quest’epoca l’interesse per le false identità acquisisca vigore, del resto, è dimostrato dalla tradizione riguardo alla vicenda di un altro celebre impostore, lo pseudo-Nerone sorto agli onori delle cronache nel biennio 68-69 d.C. Anch’egli, significativamente, operò in un teatro d’azione analogo a quello dello pseudo-Filippo, e al pari di questi fu uomo di umilissimi natali 13. Il suo caso ebbe sicuro impatto, giacché fu seguito da due ‘epigoni’ in epoca flavia, sotto Tito e Domiziano 14. Si alimentò così la ‘vulgata’ di un Nerone mai morto, come appare ben testimoniato in Dione Crisostomo e nella stratificata concrezione testuale e culturale degli Oracoli Sibillini 15. Ciò stesso, soprattutto a partire dal III secolo, e fino almeno al V secolo, produsse un’importante fase di rielaborazione in ambito cristiano 16 – in particolare, dopo la disfatta di Edessa e la cattura dell’imperatore Valeriano da parte dei Persiani (260 d.C.). L’evento, di portata epocale per l’Occidente romano, diede impulso alla leggenda del Nero redivivus, concepito quale parallelo negativo
12 Chaplin 2010, 460, che chiama in causa anche perioch. 48; cf. in termini analoghi Horster 2017, 41-46 intorno a perioch. 21-22, incentrate sulla seconda guerra punica. 13 Tac., hist. 1,2,1; 2,8-9; Suet., Nero 40,2; Dion. Cass. 63,9,3 = Xiph. 191,14-16 Stephanus. Cf. Zon. 11,15, p. 45,11-16 Dindorf. 14 Sotto Tito: Dion. Cass. 66,19,3b = Zonar. 11,18, p. 55,19-27 Dindorf. Cf. Joann. Antioch., fr. 187 Roberto. Sotto Domiziano: Suet., Nero 57,2. 15 La testimonianza di Dione Crisostomo è in Or. 21,9-10 von Arnim. Si vedano poi Orac. Sibyll. 4,119-124, 1137-139; 5,137-154, 214-227, 361-376; 8,68-72, 153157. Si vedano, più in generale, Tuplin 1989; Champlin 2003, 10-24. 16 Rougé 1978.
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della resurrezione di Cristo 17 (ricostruzioni in M. Sordi e J. M. Poinsotte 18). Non è per nulla inverosimile che all’autore delle Periochae tale orizzonte fosse noto. Si può tuttavia andare oltre. Altri eventi, registrati in storiografia, concorrevano forse a stimolare l’interesse per le imposture. Ne offre testimonianza, nella prima metà del III secolo, Cassio Dione. Lo storico severiano riferisce un episodio che dichiara di avere appreso da suo padre, relativo all’epoca di Commodo e, in particolare, all’audace e controversa fuga di Sesto Q uintilio Condiano. Fu costui esponente di punta del Senato (cos. 180), che l’imperatore fece condannare a morte, dopo aver provveduto a eliminare dalla scena politica suo padre e suo zio 19. La vicenda di Sesto risulta notevole, soprattutto, per la descrizione della sua fuga 20. Il tema dell’impostura vi emerge, anzi, in modo articolato. Ricorrono diversi aspetti consonanti con la storia dello pseudo-Filippo: simulazioni, assunzioni di false identità, volte a consentire al fuggiasco di far perdere le proprie tracce. Secondo Dione, la picaresca sparizione di Sesto Q uintilio Condiano acquisì fama diffusa, al punto che dopo la morte di Commodo un ulteriore, ignoto impostore assunse l’identità di Sesto. Il suo fine era quello di acquisirne il cospicuo patrimonio, a suo tempo fatto sequestrare in sede giudiziaria. Il tentativo del falso Sesto durò poco, giacché egli venne catturato e fu sottoposto a interrogatorio dal nuovo imperatore Pertinace, che lo colse in fallo. La dignità storiografica riconosciuta all’avventura ne certifica l’impatto mediatico. D’altronde, la famiglia dei Q uintilii divenne un ‘caso letterario’. Il comune destino del padre e dello zio di Sesto, morti insieme per colpa del principe-tiranno, colpì infatti a lungo l’immaginario collettivo. In tal senso, ragionando sulla presenza dei due fratelli nella Vita di Commodo nella Historia Augusta 21, Agnès Molinier-Arbo ha notato come ancora (almeno) nel IV secolo il loro ricordo godesse di una allure proverbiale; e questo sulla scorta 17 III secolo: Comm., ap. 827 ss.; in. 1,41,7; Victorin. Poetov., in apoc. 13,2,12-13 (CSEL 49); IV secolo: Lact., mort. pers. 2,7-9; Joann. Chrys., in epist. ad Rom. 31,5 (MPG 60, col. 674); in epist. II ad Thess. 4,1 (MPG 62, col. 486); V secolo: Sulp. Sev., chr. 2,95,5; Hier., in Dan. 4,11,30a; August., civ. 20,19,3. 18 Sordi 1962, 138; Poinsotte 1999, 207; Salvadore 2011, 181. 19 PIR2 Q 22 (A. Strobach). 20 Dion. Cass. 73(72),6. 21 Hist. Aug., Comm. 4,9.
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di Ammiano Marcellino, nel cui resoconto esso appare sublimato nell’immagine dell’unione affettiva tra i due perseguitati 22. In tal senso, non mi sembra da escludere che su quest’onda la storia di Sesto e del suo pseudolus seguitasse a circolare in epoca tarda. Purtroppo, non ne resta una traccia diretta. Nondimeno, ancora nel III secolo un evento di ben maggiore portata storica e di assai più marcato impatto politico si registrò al tempo in cui Cassio Dione stava probabilmente attendendo alla stesura della Storia romana. L’accessione di Elagabalo al soglio imperiale (218) destò scandalo tra i senatori di antico e nuovo ceppo. Diversi passi dionei, in parte sopravvissuti, in parte epitomati e caratterizzati da una complessa tradizione che si inoltra nell’epoca bizantina, sono il sintomo di una interessante vulgata: il nuovo principe viene infatti menzionato quasi esclusivamente come pseudo-Antonino, nel solco della polemica relativa al nomen Antoninorum su cui insiste con particolare continuità la Historia Augusta 23. Appare allora interessante che qui, nella Vita di Elagabalo, non si rinunci a sottolineare il dato in termini piuttosto paradossali, poiché lo stesso Elagabalo ritorce l’etichetta di pseudo-Antonino a detrimento di Diadumeniano, figlio di Macrino; e il parallelismo con il precedente storico e letterario dello pseudo-Filippo è reso esplicito: insecutus es‹t› famam Macrini crudeliter, sed multo magis Diadumeni, quod Antoninus dictus est, Pseudoantoninum ut Pseudophilippum eum appellans 24. Oltre a ciò non si trascuri, peraltro, come il problema dell’usurpazione di identità nel III secolo interessasse diversi orizzonti letterari: si pensi a un poeta cristiano quale Commodiano, che faceva degli pseudoprophetae un oggetto di attacco 25. D’altronde lo stesso Ammiano, che scriveva nell’ultimo scorcio del IV secolo, ricordava l’ardita usurpazione del potere di principe
Amm. 28,4,21 ita concordes, ut Q uintilios esse existimes fratres. Molinier-Arbo 2012, 159. 23 Dion. Cass. 79(78),32,4; 34,4; 35,1; 36,1; 37,2; 38,2; 39,4-6; 40,2; 80,1,1; 7,3; 12,22 = Exc. Val. 409 (p. 762); 17,1 = Petr. Patr., Exc. Vat. 152 (p. 232 Mai = p. 217,813 Dindorf); 18,5 = Petr. Patr., Exc. Vat. 154 (p. 232-233 Mai = p. 217,17-20 Dindorf); 19,1a = Petr. Patr., Exc. Val. 155 (p. 233 Mai = p. 217,21-24 Dindorf). Sulla presenza del nomen Antoninorum nella Historia Augusta, unico testo latino, si vedano Scholtemeijer 1993; Burgersdijk 2010; Pistellato c.d.s. 24 Hist. Aug., Heliog. 8,4. Il testo latino è quello stabilito da Hohl 1965. 25 Comm. ap. 978, 983; in. 1,41,12, 15; 1,42,39; 2,1,39. 22
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da parte del nobile Procopio di Cilicia nel 365, contro gli imperatori legittimi Valentiniano I e Valente 26. Il tentativo di Procopio ebbe corto respiro, poiché si concluse nel 366 con la sua decapitazione, disposta da Valente. Nondimeno, Ammiano gli dedicava notevolissimo spazio narrativo. Al di là del suo esito infelice, l’impresa è in effetti degna di memoria. Mostra, inoltre, parziali ma interessanti analogie con il modello di Sesto Q uintilio Condiano, in particolare là dove Ammiano narra di come Procopio si ingegnasse per non farsi catturare. Non si tratta solo di questo, però. Lo storico antiocheno si preoccupa di trovare i precedenti di quello che egli stesso definisce un insolitus casus 27: Mirantur quidam profecto irrisione digna principia incaute coepta et temere, ad ingemescendas erupisse rei publicae clades, ignari forsitan exemplorum, accidisse primitus arbitrantes. Sic Adramytenus Andriscus, de genere quidam infimae sortis, ad usque Pseudophilippi nomen euectus, bellis Macedonicis tertium addidit graue. Sic, Antiochiae Macrino imperatore agente, ab Emesa Heliogabalus exiluit Antonius. Ita, inopino impetu Maximini, Alexander cum Mamaea matre confossus est. In Africa superior Gordianus, in imperium raptus, aduentantium periculorum angoribus implicatus, uitam laqueo spiritu intercluso profudit 28.
Q uattro esempi sono tratti dal passato, il più risalente dei quali è rappresentato da Andrisco. Tutti discendono dal tema del male causato alla res publica da uomini imprudenti e temerari. L’exemplum di Andrisco è in parte contrastivo perché, a differenza del l’umile pseudo-Filippo, Procopio era uomo insigni genere. Tuttavia, il paragone era pienamente giustificato, da un lato, dal prestigio indiscusso dell’antico modello, dall’altro, dalle rilevanti analogie tra la vicenda greca e quella romana. Si noti infatti come per Ammiano Andrisco si sia guadagnato non già il nomen Philippi ma lo Pseudophilippi nomen. Q ui, mi sembra, il discorso ammianeo concerne un piano più avanzato rispetto a quello della storia. Siamo entro l’orizzonte della fama e della sua trasmissione letteraria; e ciò appare confermato da una seconda occorrenza di Andrisco e del Amm. 26,5,8-26,9. Amm. 26,7,1. 28 Amm. 26,6,19-20. Il testo latino segue l’ed. Marié 1984 (Collection Budé). Ammiano sembra peraltro esibire qualche influsso stilistico liviano: si veda, in rapporto a incaute ... et temere, Liv. 2,37,6 inconsulte et temere nonché l’occorrenza di temere in Flor. 1,30,4 (olim 2,14,4) = p. 73, ll. 3-7 Rossbach (citato supra). 26 27
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suo Pseudophilippi nomen, inteso nel medesimo senso, quando Ammiano ragiona a consuntivo della vicenda e della fortuna del l’imperatore Costanzo Gallo, morto nel 354 29. Ammiano testimonia così, con tutta evidenza, la solida circolazione del ricordo dell’impresa di Andrisco nel tardo IV secolo. E del resto la lunga sequenza narrativa che lo storico antiocheno dedica alla vicenda di Procopio sollecita a più riprese il ricordo di Andrisco. Procopio operò con straordinaria astuzia, al fine di raccogliere forze militari capaci di sostenere le sue pretese politiche, diffondendo false notizie sulla morte di Valentiniano e sulla propria acclamazione quale nuovo imperatore, depistando gli inseguitori durante i suoi molteplici spostamenti. La qualità narrativa della storia denuncia tutto l’interesse di Ammiano per l’exploit, degno di ricordo perché svoltosi in modo incruento, circostanza che lo rendeva tanto più stupefacente 30. Vi è però dell’altro. Ammiano registra come in quel tempo l’illustre Procopio fosse apertamente bollato dall’ancor più illustre ex console Arbitione, vicino all’imperatore Valente, come publicus grassator e profligatus nebulo 31: la polemica pubblica poneva l’accento sulla gravità inaccettabile della sua impresa, rovesciando deliberatamente, attraverso i fatti, la nobiltà genetica di Procopio. Ciò stesso poté alimentare l’autorevolezza del modello dello pseudo-Filippo come precedente deteriore, in quanto fondato su una origo socialmente squalificata.
4. Conclusioni Alla luce di simili parallelismi storici e narrativi, è possibile chiudere questa analisi dei paragrafi 21-27 della Periocha 49 con una considerazione ulteriore. In particolare, è inevitabile toccare in modo più diretto il problema della cronologia, pur senza la pretesa che un’indagine così circoscritta dica alcunché di risolutivo nel merito. La collocazione delle Periochae non è quasi mai stata ristretta entro un arco che non fosse men che generico. Le oggettive 29 Amm. 14,11,31 haec (scil. fortuna) Adramytenum Andriscum, in fullonio natum, ad Pseudophilippi nomen euexit. Il testo latino segue l’ed. Galletier – Fontaine 1968 (Collection Budé). 30 Così Amm. 26,9,11 chiudeva su Procopio: quod est mirandum, quoad uixerat increntus. 31 Amm. 26,9,5.
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difficoltà nel raccogliere elementi per restringerla lo giustificano ampiamente. Eppure, se i parallelismi con le vicende della metà avanzata del IV secolo sono ammissibili, l’intuizione di Jal circa una datazione alla seconda metà del IV secolo risulterebbe corroborata. Secondo Jal, al di là del sostegno apportato dal floruit del l’attività epitomatoria nel IV secolo sottolineato a suo tempo da Rossbach e Klotz, la frequenza di gentilizi abbreviati nei manoscritti delle Periochae «incite aussi à songer à la deuxième moitié du ive siècle…» 32. L’editore della Collection Budé con prudenza relegava questa ipotesi a una nota dell’introduzione. I puntini di sospensione con cui lasciava aperta la frase erano però una strizzata d’occhio a favore di una direzione aperta all’indagine, che io mi sentirei di confermare. Non dovrebbe troppo sorprendere che nel Livio epitomato nel IV secolo tanto spazio sia dedicato ad Andrisco. Ancor meno lo dovrebbe se l’epitomatore approntava la sintesi dopo il 366. La storia dello pseudo-Filippo non solo circolava da secoli come exemplum ‘di scuola’ ma era addirittura à la page poiché attualissimo era l’exploit di Procopio. Il redattore delle Periochae potrebbe esserne un testimone consapevole. È certo innegabile che la lettura proposta in questa sede costituisce un singolo caso di studio che, di per sé, non basta a fornire un quadro solido del problema. Non è tuttavia da escludersi che un’investigazione a più largo spettro intorno al rapporto fra le Periochae e il piano evenemenziale della seconda metà del IV secolo frutti risultati ulteriori. Di lì in poi, la letteratura latina, specialmente patristica, appare fitta di termini quali pseudoapostoli, pseudochristiani, pseudochristi, pseudoepiscopi e soprattutto pseudoprophetae. Continua così e si incrementa in modo esponenziale un filone avviato con i primi scrittori ecclesiastici nel III secolo, cui avranno contribuito le tensioni dottrinarie in seno alla disomogenea comunità cristiana, che si registrano per lo più in sede di commento alla produzione scritturale 33. Può anche darsi il caso, però, che gli accadimenti storici Jal 1984, XXIV, n. 7. Fra i numerosissimi esempi citiamo Cypr., epist. 55,15,1; 55,24,2; 59,10,2; 59,14,1; 73,16,1; Ambr., in psalm. 39,4,1; 43,7,1; in Luc. 1,5; 2,766; 8,499; 10,194; Aug., un. eccl. 9,23; c. Faust. 1,3; 13,5; un. bapt. 1,16,25; 3,19,26; 4,3,4; civ. 18,41; 20,14; quaest. 53,60; doctr. christ. 4,7; in psalm. 49,3; Hier., adv. Iovin. 2,37; in Matth. 1,1500; 4,506; 4,515; in Ezech. 4,13,244; in Is. 6,14,13,41; in Gal. 1,336,33; in Eph. 2,532,32; in Am. 1,2,300; in Mich. 1,3,64; in eccles. 1,5,142; epist. 121,56,11; Mar. Victorin., Gal. 1,2,3; Ruf., Orig. in Rom. 33,5,8; 34,10,5. 32 33
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della seconda metà del IV secolo abbiano contato qualcosa in tale rigoglio. Il peso dello pseudo-Filippo nella Periocha 49 dei libri Ab urbe condita rappresenterebbe così solo un frammento di un più ampio processo culturale, posto tuttavia in un’epoca di snodo, perciò stesso forse meritevole di approfondimento.
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A. PISTELLATO
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LA RICEZIONE DEI PRODIGIA LIVIANI IN GIULIO OSSEQ UENTE, TRA PERSISTENZE IDEOLOGICHE E NOVITÀ NARRATIVE
1. Giulio Ossequente nella tradizione epitomatoria liviana Nella ricca e complessa tradizione epitomatoria liviana il Liber prodigiorum di Giulio Ossequente occupa un posto a sé stante. Pur entrando infatti a pieno titolo nel più generale novero delle questioni connesse alle incertezze sulle fonti, in particolare sui rapporti con la perduta epitome di età tiberiana e sui riferimenti cronologici circa la datazione del testo, l’operazione compiuta da questo ignoto compilatore di excerpta liviani si distingue per l’intenzionalità compositiva e per il metodo seguito nell’elaborazione del testo, che è frutto fuor di dubbio, per quanto riguarda i resoconti prodigiali, di una riscrittura ad verbum dei passi liviani 1. A partire dal Liber di Ossequente, la cui editio princeps aldina del 1508 deriva da un Codex Parisinus oggi perduto e che sulla base del titolo tràdito è assai probabilmente imperfectus, essendo mancante la parte ab anno Urbis conditae quingentesimoquinto (249 a.C.) fino al 190 a.C., che è l’anno di riferimento per il primo dei capitoli conservati, il confronto diretto con il testo liviano è possibile, sulla scorta dei libri dello storico latino che ci sono pervenuti, solo per i primi 11 dei 72 capitoli del testo e quindi lungo un arco temporale che va dal 190 al 167 a.C. Di tale periodo di 24 anni Ossequente tiene conto soltanto di 13. Dalla sottostante tabella di corrispondenze si può notare come i capitoli di Ossequente restituiscano i prodigia dei libri liviani dal 37 al 45 lungo una serie parzialmente discontinua di anni. 1 Offrono validi strumenti per orientarsi nella tradizione storiografica liviana Mastandrea 1974 e Bessone 1982.
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 597-608 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125345
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Non mancano inoltre le sfasature: per l’anno 178 viene meno la possibilità del confronto con il testo liviano, mentre per quanto riguarda gli anni 177 e 176 la confusione delle coppie consolari fa sì che il prodigio dell’anno 177 risulti omesso. Il capitolo 10, infine, mette erroneamente in relazione i consoli dell’anno 175 con un’epidemia che in Livio viene riportata anche all’anno 174. anno
Obs.
Liv.
190
1
37,3,2 s.; 5 s.
188
2
38,36,4
186
3
39,22,3-5
183
4
39,46,5 e 56,6
182
5
40,2,1-4
181
6
40,19,2 s.; 4s.; 40,29,2
179
7
40,45,3; 59,7
178
8
---
177
---
41,9,5 s.; 13,1 s.
176
9
41,14,7; 15,1
175
---
174
10
41,21,5
167
11
45,16,5 e 16,7
Tale sovrapponibilità parziale consente la formulazione di ipotesi interpretative che trarrebbero beneficio da riscontri oggettivi in merito all’intentio auctoris, forse esplicitata in un perduto proemio. Migliore luce può essere comunque fatta oggi anche grazie a un definitivo superamento dei dubbi sulla cronologia di Ossequente, la cui attività la maggior parte degli studi recenti tende a collocare non oltre gli inizi del V secolo d.C., comunque anteriormente alla repressione del culto dei sacrifici dopo Teodosio. Cornice di sfondo oggi generalmente accettata per l’ideazione del Liber è rappresentata dalla fase di revisione dell’opera liviana che in tale scorcio di tempo, in seguito all’azione dei circoli tradizionalisti dei Simmachi e dei Nicomachi, tornò a essere accessibile nella sua forma originaria 2. 2 Sulle questioni relative alla datazione del Liber di Ossequente si veda Picone 1974.
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LA RICEZIONE DEI PRODIGIA LIVIANI IN GIULIO OSSEQ UENTE
Un elemento sul quale ormai le controversie possono considerarsi superate è anche quello relativo alla fede religiosa di Ossequente, che crea attorno alle cerimonie pagane di cui riferisce un’atmosfera di rispetto, un’aura quasi sacrale, e che mai mette in dubbio la veridicità del racconto, veicolo di una conoscenza che tanta parte aveva avuto nella vita civile e domestica dei Romani. Ossequente registra e sottoscrive il legame esistente tra l’umano e il divino nelle forme della religione tradizionale: nella maggior parte dei casi l’antica espiazione religiosa era riuscita a placare gli dei e a evitare le disgrazie. Il suo essere un pagano sensibile al pathos che i culti antichi avevano saputo creare nella comunità dei cittadini romani risulta ancor più evidente dal confronto con l’atteggiamento di un Orosio che negli stessi anni affrontava con piglio ben diversamente polemico la questione delle credenze religiose che precedettero l’affermazione del cristianesimo. La voce di Ossequente è quella di chi ha conoscenza diretta dell’ultimo tentativo di restaurazione del culto e dei riti pagani sotto l’imperatore Eugenio, quando i pagani credettero di poter tornare a un passato felice. Non opera puramente nostalgica, dunque, ma documento di una polemica in atto contro le proibizioni dei culti pagani: Ossequente crede ancora necessario, secondo gli antichi costumi romani, che i prodigi pubblici siano espiati con sacrifici 3. Q uando Ossequente si accingeva alla composizione del Liber, il genere epitomatorio doveva avere ormai già fatto le sue prove più significative e stava aprendosi all’evoluzione, che in qualche modo apparenta Ossequente a Eutropio, verso una narrazione storica compendiaria, quale quella del genere breviarium, dal quale l’epitome di distacca per la sua caratteristica essenziale di derivazione da un originale di ampia dimensione. La storiografia del IV secolo si presenta, sullo sfondo di un accentuato carattere tradizionalista, come sedimentazione della riflessione storica del passato, riduzione a sommario di quello che è già stato scritto, gusto della volgarizzazione in forme succintamente enciclopediche. Ossequente non si distacca da tutto ciò, pur distinguendosi per la peculiarità della sua esigenza epitomatoria, dalla quale dipendono le specifiche
3 Ancora Picone 1974 per una rivalutazione dell’importanza della posizione di Ossequente all’interno della polemica politico-religiosa della fine del quarto secolo.
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modalità di combinazione di dati storici e resoconto prodigiale nei capitoli del Liber 4. L’appartenenza di Ossequente al filone dei compendi liviani apre come si è accennato la prospettiva della fonte delle notizie storiche utilizzate dal nostro autore. Alcune confusioni relative ai dati storici riportati alla fine dei capitoli che compongono il Liber si spiegano secondo Peter Lubrecht Schmidt proprio supponendo che Ossequente abbia desunto da Livio il solo materiale relativo ai prodigia e che invece si sia servito di un secondo lavoro per gli inserti storici. Gli studi sono oggi prevalentemente orientati a riconoscere la sua dipendenza da una cronaca liviana individuata nel Chronicon di Ossirinco 5.
2. Il resoconto prodigiale nell’opera di Tito Livio Nei libri dell’opera liviana il resoconto cronologico dei fatti politico-militari della storia di Roma è spesso abbondantemente intessuto di annotazioni sul cerimoniale politico-religioso che attraverso la procuratio prodigiorum prendeva in carico eventi anomali, dalle calamità naturali alle nascite deformi fino a episodi portentosi riguardanti in particolare oggetti e luoghi di culto, accogliendone ufficialmente, nelle forme della nuntiatio, il carattere di segni premonitori di un turbamento della pax deorum. La dimensione contrattualistica della religione romana imponeva, tanto nel contesto pubblico quanto in quello privato, il ricorso a riti espiatori che riconciliando i fedeli con la divinità assicurassero il ripristino delle condizioni di benessere e di prosperità di cui la collettività aveva bisogno soprattutto nei momenti più impegnativi della sua storia. Lo stretto intreccio tra resoconto prodigiale ed eventi storici testimonia nel racconto di Livio l’indiscutibile incidenza dei prodigia sulla società romana, che ha dedicato a tali fenomeni uno spazio politico e una dimensione sociale ben definiti, tali da rendere i resoconti prodigiali parte integrante della storia repubblicana. La procedura di notificazione ed espiazione dei prodigia durò infatti a Roma con una certa regolarità almeno per due secoli, dalla metà del III secolo a.C. fino ad Augusto, quando trovò il suo termine nel nuovo ordinamento imperiale. Per l’analisi dello sviluppo della letteratura epitomatoria cf. Galdi 1922. Globalmente risolutivo sul tema Schmidt 1968.
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Nel testo liviano il racconto dei prodigia viene presentato come elemento di verità storica nella misura in cui l’autore accoglie la tradizione condivisa unanimemente dalle sue fonti e diventa prezioso ingrediente narrativo di un discorso complessivamente orientato all’animazione drammatica del resoconto storico. La nuntiatio e la procuratio prodigiorum generano nel lettore di Livio un coinvolgimento emotivo non minore di quello suscitato dal racconto delle turbolenze politiche e delle disfatte militari. Nell’opera dello storico augusteo il resoconto prodigiale diventa sistematico, quasi una vera e propria relazione annuale, a partire dal libro 21, che segue il decimo, nella serie dei libri che conserviamo. Mentre la prima decade si limita a una serie relativamente scarna di prodigi, gli unici che l’autore dovette aver trovato registrati nelle sue antiche fonti, con solo 17 loci testuali per un periodo di più di quattro secoli, tra il 218 e il 167 a.C., complici la maggiore disponibilità di documentazione, ma anche, a monte di ciò, il clima collettivo di angoscia e turbamento degli anni della contesa cartaginese, che dovette avere certamente moltiplicato l’attesa di segni premonitori di un futuro tanto temuto, i prodigi riferiti occupano ben 40 loci testuali tra la terza e la quinta decade e alcuni sono decisamente estesi, arrivando ad occupare tutto un capitolo, come accade per i prodigi degli anni 207, 191, 172 e 169.
3. Caratteri della tecnica epitomatoria ed elementi del sermo prodigialis di Ossequente Delle due tecniche epitomatorie a suo tempo classificate da Marco Galdi 6, quella della sostituzione equivalente e quella della ripresa dell’originale ad verbum, negli undici capitoli di Ossequente per i quali è consentito il confronto con la fonte prevale nel resoconto prodigiale la seconda. Per quanto riguarda poi il dato storico, questo all’interno del meccanismo compositivo del capitolo viene utilizzato da Ossequente prevalentemente come parte di un sistema a doppio binario (che viene meno nei capp. 1-5–7): la notizia storica chiude normalmente il capitolo, giustapponendosi al resoconto prodigiale, di cui rappresenta l’esito favorevole o sfavorevole. La prospettiva compendiaria comprime fino in sostanza ad annullarla la dimensione narrativa sviluppata in Livio: il risultato sul Cf. Galdi 1922.
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piano linguistico-sintattico è la prevalenza di una modalità elencativa-giustappositiva che produce enumerazione, con una tecnica espositiva non molto diversa da quella degli originali documenti della storiografia arcaica che Livio aveva sotto gli occhi quando componeva i suoi libri, dagli Annales Maximi ai Fasti Pontificali. La registrazione asciutta, quasi catalogica, non è tuttavia priva di impatto nei confronti del lettore, ai cui occhi si squaderna una sintesi della storia di Roma negli anni documentati che ne restituisce con dovizia di informazioni anche i lati più oscuri, ancora circondati da quell’alone di mistero, di reverentia e horror, che dovette animare i sentimenti di coloro che li vissero. Ponendo il capitolo 1 7 a confronto con il passo liviano che ne è la fonte si può constatare il massiccio prelievo di materiale testuale da Livio, le cui parti vanno a costituire, in pratica completamente, con espressione linguistica solo parzialmente mutata, il capitolo di Ossequente 8. Obs. 1 L. Scipione C. Laelio Coss. – 190 a.C. Iunonis Lucinae templum fulmine ictum ita, ut fastigium valvaeque deformarentur. In finitimis pleraque de caelo tacta. Nursiae sereno nimbi orti et homines duo exanimati. Tusculi terra pluit. Mula Reate peperit. Supplicatio per decem pueros patrimos ‹et› matrimos totidemque virgines habita. Liv. 37,3,2-6 (…) prodigia per pontifices procurari placuit. Romae Iunonis Lucinae templum de caelo tactum erat, ita ut fastigium valvaeque deformarentur; Puteolis pluribus locis murus et porta fulmine icta et duo homines exanimati; Nursiae sereno satis constabat nimbum ortum; ibi quoque duos liberos homines exanimatos; terra apud se pluvisse Tusculani nuntiabant, et Reatini mulam in agro suo peperisse. Ea procurata, Latinaeque instauratae, quod Laurentibus carnis quae dari debet data non fuerat, supplicatio quoque earum religionum causa fuit quibus dis decemviri ex libris ut fieret ediderunt. Decem ingenui decem virgines, patrimi omnes matrimique, ad id sacrificium adhibiti, et decemviri nocte lactentibus rem divinam fecerunt.
7 Seguo il testo di Ossequente stabilito da Paolo Mastandrea (Mastandrea – Gusso 2005). 8 Utili osservazioni nell’ambito dell’analisi della scrittura di Ossequente in Santini 1988.
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Q uesto inizio del Liber prodigiorum è privo di notizie storiche correlate all’elencazione dei prodigia, che in Livio invece innervano il testo. La stessa procuratio viene da Livio rendicontata puntualmente, con riferimento agli organismi sacerdotali (pontifices, decemviri) e alle procedure codificate (consultazione dei Libri Sibillini, stabilmente impiegata nella Roma repubblicana per la procuratio in occasione di carestie ed epidemie), mentre in Ossequente rimane solo traccia dell’espiazione del prodigio (supplicatio…habita). Q ui la ripresa è davvero ad verbum: nonostante la tendenza generale in Ossequente a contrarre e semplificare la sintassi, rimane infatti invariato il costrutto consecutivo ita ut fastigium valvaeque deformarentur. Per i prodigi che seguono nell’elenco il fulmen postulatorium che colpisce le porte del tempio di Giunone Lucina a Roma, Ossequente segue invece un procedimento che più volte risulta utilizzato nei capitoli successivi, quello della trasformazione in costrutti sintatticamente autonomi, cioè in frasi con il verbo di modo finito, della serie delle infinitive liviane (ortum, exanimatos… pluvisse…peperisse). In questo modo, con l’eliminazione di ogni elemento che attiene all’annunzio o all’accettazione da parte delle autorità, la notizia è riportata in modo più diretto, viene meno ogni forma di prudenziale distacco e l’evento prodigioso viene a tutti gli effetti collocato nel piano indubitabile dei fatti. Il resoconto prodigiale risulta in Ossequente stabilmente compresso anche rispetto alle fasi della procedura che secondo l’ordinato racconto liviano si sviluppava dalla prima deliberazione che decretava l’accoglimento del prodigio (nuntiatio) fino all’esecuzione dei riti decisi dopo la consultazione degli organismi preposti alla interpretazione del prodigio stesso (procuratio). Ossequente riporta il fatto prodigioso soffermandosi succintamente sugli elementi necessari per collocarlo nel tempo e nello spazio, come possiamo vedere dal capitolo 2 relativo all’anno 188 a.C. Obs. 2 M. Messala C. Livio Coss. – 188 a.C. Luce inter horam tertiam et quartam tenebrae ortae. In Aventino lapidum pluviae novemdiali expiatae. In Hispania prospere militatum. Liv. 38,36,4 (…) supplicatio triduum pro collegio decemvirorum imperata fuit in omnibus compitis, quod luce inter horam tertiam ferme et quartam tenebrae obortae fuerant. Et novendiale sacrificium indictum est, quod in Aventino lapidibus pluvisset.
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Il capitolo è un chiaro esempio della brevitas enfatica che l’autore persegue. Sono due i prodigi annoverati in questo caso e solo del secondo, la pioggia di pietre sull’Aventino, viene menzionata l’espiazione per mezzo del novendiale sacrificium, il cui rituale, specifico per l’espiazione della pioggia di pietre, durante il quale si sospendeva ogni attività, come testimoniato da Livio, venne isti tuito ai tempi di Tullo Ostilio. Gli elementi temporali nell’opera di Ossequente sono generalmente limitati alla cronologia consolare; ad essi si aggiungono talvolta specificazioni finalizzate a porre in risalto l’eccezionalità dell’evento (in questo capitolo: piogge con il cielo sereno, tenebre in pieno giorno). Per quanto riguarda la collocazione spaziale, i prodigi riferiti da Ossequente sono disseminati in un’area territoriale piuttosto estesa, corrispondente grosso modo all’Italia centro-meridionale: è l’area di una periferia che forma con il centro una profonda unità culturale e religiosa. Se la nuntiatio e la procuratio sono decise da Roma e la proclamazione enfatica di queste procedure ha anche lo scopo di far sentire a tutta la collettività statale quanto le istituzioni si prendano a cuore la prosperità dei territori, il prodigium tuttavia indica talvolta elementi di crisi di questi rapporti, soprattutto in corrispondenza di eventi che possono mettere a dura prova il sistema delle alleanze. Guardando tra le pieghe della lectio di Ossequente si evidenziano i tratti di un genus dicendi che, come ebbe a dire a suo tempo Otto Rossbach, dipende omnino a Liviano. L’originale forma di restituzione dello stile arcaizzante di Livio deve essere tuttavia interpretata lungo una linea che al di là dello storico augusteo pone Ossequente in diretto rapporto di discendenza dalle origini stesse della prosa arcaica, ritmica e sacrale. Già Carlo Santini ha posto in rilievo come lo stile commatico e allitterante del materiale prosastico risalente all’età arcaica abbia avuto la ventura di prestarsi negli storici, Ossequente compreso, a una riproduzione con mutamenti relativamente modesti proprio grazie alla compattezza del sermo prodigialis, inteso come lingua tecnica, dotata di caratteristiche sue proprie, che trasferisce entro il particolare sistema di segni retorici impiegato nel resoconto dei prodigia e dei riti connessi con la loro procuratio le procedure tipologicamente fisse dei riti di espiazione 9.
9 Una articolata analisi e molti esempi dei caratteri del sermo prodigialis in Ossequente sono reperibili in Santini 1988.
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Si tratta di una lexis in cui l’assunto della formularità nella strutturazione linguistica bene si incontra con il requisito della brevitas epitomatoria. Da questo punto di vista la semplificazione della sintassi con la drastica riduzione delle strutture ipotattiche è il corollario dell’assoluto rilievo conferito alla singola parola, la cui semantica appare rafforzata e collocata su un piano straniato, lontano dalla significazione quotidiana, attraverso il ricorso a un sistema di strumenti retorici non diverso da quello utilizzato nei carmina preletterari a carattere giuridico-religioso, in cui la prima istanza è quella della notificazione. La strumentazione retorica utilizzata è perciò ricca di echi fonici funzionali a evocare la valenza magica della parola che rende autorevole l’annuncio e produce attorno ad esso tutta l’enfasi del caso. Lo stesso capitolo 2 sopra esaminato può offrire un esempio di questa tecnica. Sul piano sintattico l’espressione appare governata da evidenti parallelismi per la stabile presenza in fine periodo di forme del perfectum perifrastico con ellissi di sum. I singoli componenti di questa sintassi sono costrutti trimembri (luce / inter horam tertiam et quartam / tenebrae ortae // In Aventino / lapidum pluviae / novemdiali expiatae// piegati con estrema regolarità al ritmo martellante delle allitterazioni e degli omeoteleuti. Caratteri non dissimili si ritrovano nel capitolo 6, dove peraltro Ossequente dimostra di saper tagliare e incollare con abilità il testo di Livio, oggetto di una lettura estesa e compendiato qui a partire da due distinti passi del libro 40. Ritornano i costrutti in paral lelismo trimembre e le iterazioni di suoni allitteranti. Obs. 6 ‹P. Cornelio Cethego M. Baebio Tamphilo Coss.› – 181 a.C. In area Vulcani et Concordiae sanguinem pluit. Hastae Martis motae. Lanuvii simulacrum Iunonis Sospitae lacrimavit. Pestilentiae Libitina non suffecit. Ex Sibyllinis supplicatum cum sex mensibus non pluisset. Ligures proelio victi deletique. Liv. 40,19,2-4; 29,2 In area Volcani et Concordiae sanguine pluvit; et pontifices hastas motas nuntiavere, et Lanuvi simulacrum Iunonis Sospitae lacrimasse. Pestilentia in agris forisque et conciliabulis et in urbe tanta erat ut Libitina funeribus vix sufficeret. (…) sex menses nusquam pluvisse memoriae proditum.
Dalla insistita facies retorica sembra dipendere l’aggiunta Martis relativa alle hastae, alle lance sacre conservate nella regia di Numa 605
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Pompilio: con tale aggiunta il periodo risulta composto da tre parole e Martis è in allitterazione con motae. Le stesse implicazioni allitteranti sembrano all’origine dell’inserimento di ex Sibyllinis nella frase Ex Sibyllinis supplicatum cum sex mensibus non pluisset. La succinta nota finale riguardante la sconfitta in battaglia dei Liguri presenta un altro elemento distintivo della lectio del Liber con la coppia sinonimica in omeoteleuto con enclitica finale victi deletique. Nel capitolo 7 relativo all’anno 179 incontriamo altri due procedimenti espressivi caratteristici del Liber. Obs. 7 Q uinto Fulvio L. Manlio Coss. – 179 a.C. Nimbis continuis in Capitolio signa aliquot deiecta. Fulmine Romae et circa plurima decussa. In lectisternio [Iovis] terrae motu deorum capita se converterunt; lanx cum integumentis quae Iovi erant apposita decidit de mensa, oleas mures praeroserunt. Liv. 40,45,3 Eadem tempestas et in Capitolio aliquot signa prostravit, fulminibusque complura loca deformavit, aedem Iovis Terracinae, aedem Albam Capuae portamque Romanam; muri pinnae aliquot locis decussae erant. Liv. 40,59,7 Terra movit; in fanis publicis ubi lectisternium erat deorum capita, quae in lectis erant, averterunt se, lanxque cum integumentis, quae Iovi adposita fuit, decidit de mensa; oleas quoque praegustasse mures in prodigium versum est.
L’uso degli indefiniti aliquot e plurima a indicare il numero imprecisato delle statue abbattute dai nimbi continui e dal fulmine modifica il testo liviano nella direzione di una genericità che non intende determinare vaghezza di informazione. La notificazione prudenziale pone l’annuncio al riparo dal rischio delle inesattezze, che invaliderebbero la nuntiatio e la successiva espiazione. Dopo il resoconto delle statue abbattute, nel capitolo trova uno spazio considerevole, vista l’estensione complessiva delle notizie su questo anno, il racconto del prodigium verificatosi nell’ambito del rito del lectisternium, banchetto rituale offerto agli dei, i cui busti venivano adagiati sui letti triclinari. Per una scossa di terremoto i capita deorum si girarono all’indietro e i cibi offerti, evidentemente sgraditi agli dei che li rifiutarono, caddero dalla mensa e furono rosicchiati dai topi. Può forse stupire il venire meno della brevitas con 606
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la scelta di riferire ampi particolari dell’accaduto: il testo liviano viene sostanzialmente conservato nel suo impianto narrativo, con la soppressione della forma del resoconto indiretto (in prodigium versum est), che elimina ogni riserva sulla verità dell’accaduto. Nel capitolo 11 Ossequente compendia con una formula sommativa generale e con il ricorso ad una coppia polare (aliquot loca sacra profanaque) il puntuale elenco liviano di luoghi colpiti dal fulmine, cioè caelo tacta, secondo il solenne lessico tecnico della folgorazione proprio del sermo prodigialis accanto al meno reverenziale fulmine icta. Risulta ad verbum la ripresa del resoconto degli altri prodigi dell’anno, di particolare intensità e gravità (pioggia di pietre, apparizione di una cometa, versamento di sangue da un focolare per giorni e notti) visto che la procuratio riferita da Livio comportò il ricorso ai Libri Sibillini e la purificazione lustrale del l’Urbe. Ossequente si limita a riferire l’esito favorevole della terza guerra macedonica, ribadendo indirettamente la connessione tra il ristabilimento della pax deorum e la prosperità dello Stato. Obs. 11 Q . Aelio Paeto M. Iunio Coss. – 167 a.C. Romae aliquot loca sacra profanaque ‹de› caelo tacta. Anagniae terra pluit. Lanuvi fax ardens in caelo visa. Calatiae in agro publico per triduum et duas noctes sanguis manavit. Rex Illyrici Gentius et Macedoniae Perseus devicti. Liv. 45,16,5 Aedes deum Penatium in Velia de caelo tacta erat (…). Anagniae terra pluerat et Lanuvi fax in caelo visa erat; et Calatiae in publico agro M. Valerius civis Romanus nuntiabat e foco suo sanguinem per triduum et duas noctes manasse. Liv. 45,16,7 (…) quoniam (…) Perseus et Gentius reges cum Macedonia atque Illyrico in potestate populi Romani essent.
Q uesti esempi di letteratura prodigiale tratti dal Liber di Giulio Ossequente mostrano l’esistenza, al di là dell’apparente assenza di velleità artistiche propria di una compilazione catalogica non priva di sviste e approntata molto probabilmente anche in maniera affrettata, di una tecnica compositiva fatta di regolarità lessicali e retoriche di cui Giulio Ossequente ha sicura padronanza e che vengono utilizzate nell’ambito di una tradizione, non solo espressiva ma anche teologica, di cui il nostro autore è consapevole testimone 607
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e che vede in Livio il riferimento essenziale. La dimensione epitomatoria, con le sue norme di condensazione, opera in tal modo nei confronti del sermo prodigialis del testo liviano una sorta di rafforzamento sul piano degli effetti di gradazione drammatica, resi ancor più evidenti grazie alla essenzialità della lexis metodicamente perseguita attraverso la soppressione degli elementi accessori 10.
Bibliografia Bessone 1982 = L. Bessone, La tradizione epitomatoria liviana, ANRW II.30.2, 1982, 1231-1263. Galdi 1922 = P. Galdi, L’epitome nella letteratura latina, Napoli 1922. Mastandrea 1974 = P. Mastandrea, La fortuna di Giulio Ossequente e due emendazioni al testo di Livio, Atti dell’Accademia Patavina 86, 1974, 195-206. Mastandrea – Gusso 2005 = P. Mastandrea – M. Gusso (a cura di), Giulio Ossequente, Prodigi, Milano 2005. Picone 1974 = G. Picone, Il problema della datazione del Liber prodigiorum di Giulio Ossequente, Pan 2, 1974, 71-77. Rossbach 1910 = O. Rossbach (ed.), T. Livi periochae omnium librorum. Fragmenta Oxyrhynchi reperta. Iulii Obsequentis prodigiorum liber, Leipzig 1910. Santini 1988 = C. Santini, Letteratura prodigiale e ‘sermo prodigialis’ in Giulio Ossequente, Philologus 132 (2), 1988, 210-226. Schmidt 1968 = P. L. Schmidt, Iulius Obsequens und das Problem der Livius – Epitome. Ein Beitrag zur Geschichte der lateinischen Prodigienliteratur, Mainz 1968.
Il riferimento è ancora a Santini 1988.
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CONCETTA LONGOBARDI
VELUT HANNIBALIS VERBA SUNT LETTURE ANTICHE DI LIVIO
La presenza liviana nei corpora scoliastici della tarda antichità costituisce un punto di osservazione rilevante per comprendere quale ‘Livio’ si leggesse nei contesti scolastici e secondo quali forme il testo liviano fosse noto a chi commentava gli autori 1. Sebbene gli Ab urbe condita libri fossero stati difatti emendati per interesse dei Simmachi e dei Nicomachi, come si evince da una serie di subscriptiones 2, la presenza del Patavino è assolutamente scarna all’interno delle opere della tarda antichità. Mai citato da Macrobio né da Ausonio, Paolino di Nola, Rutilio Namaziano, compare in maniera molto vaga e senza riferimenti specifici al testo in Sidonio Apollinare 3 e, anche nei casi in cui sono più frequenti i riferimenti 1 Per una prospettiva sulle dinamiche relative alla scuola antica rimando al lavoro di De Paolis 2013 e alla bibliografia ivi indicata (p. 465 n. 1). 2 Le subscriptiones sono riportate, in varie forme e combinazioni, a chiusura dei singoli libri. Vi compaiono tre nomi diversi – Victorianus, Nicomachus Dexter e Nicomachus Flavianus – secondo cinque forme (Victorianus v.c. emendabam domnis Symmachis; Nicomachus Dexter v.c. emendavi; Nicomachus Dexter v.c. emendavi ad exemplum parentis mei Clementiani; Nicomachus Flavianus v.c. III praefectus urbis emendavi; Emendavi Nicomachus Flavianus v.c. ter praef. urbis apud Hennam/Termas; le subscriptiones sono edite e analizzate da Zetzel 1980). L’interesse dei Simmachi per il testo di Livio, che doveva comparire presumibilmente per intero nella biblioteca di famiglia, è testimoniato anche da una lettera inviata da Simmaco il quale prometteva a Valeriano un testo completo dell’opera liviana che necessitava però di un’attenta revisione: munus totius Liviani operis quod spopondi etiam nunc diligentia emendationis moratur (ep. 9,13). Per la problematica relativa al revival aristocratico di Livio nella tarda antichità si veda Cameron 2011, 498-526. 3 Sidon., epist. 9,14,7 Nam si omittantur quae titulis dictatoris invicti scripta Patavinis sunt voluminibus; quis opera Svetonii, quis Iuventii Martialis historiam, quisve ad extremum Balbi ephemeridem fando adaequaverit?; carm. 2,188-189 vel quidquid in aevum / mittunt Euganeis Patavina volumina chartis; carm. 23,145-146 Q uid vos eloquii canam Latini / Arpinas, Patavine, Mantuane?
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 609-627 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125346
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all’opera liviana, non ne è certa la lettura diretta, come avviene in Agostino 4. Per quanto concerne invece i grammatici editi da Keil, fatta eccezione per un luogo del primo libro riportato da Diomede 5 e uno presente nel commento di Pompeo a Donato 6, tutte le restanti citazioni testuali provengono da Prisciano il quale, secondo una prassi che si evince anche per le citazioni di altri autori ma che lo connota in maniera originale rispetto alla tradizione grammaticale a lui precedente, ne leggeva il testo direttamente anche oltre la prima decade 7. Le citazioni liviane degli antichi scoliasti risultano invece stranamente corpose, soprattutto nel caso dei commenti a Lucano. 4 Agostino menziona esplicitamente Livio solo dodici volte e in nessuno di questi casi si tratta di un libro giunto per tradizione diretta. Se pure gli erano noti i contenuti dell’intera opera liviana non si può dire con certezza che Agostino leggesse il testo originale; poteva trattarsi di «un’epitome molto ampia, fedele e vicina nel tempo, d’età tiberiana all’incirca» (cf. Zecchini 1993,156 n. 40). Per l’analisi della presenza di Livio in Agostino cf. Hagendhal 1967, 195-207; 650-666. 5 Item Livius ab urbe condita libro primo ‘novos transiluisse muros’ (GLK 1,374,9 = Liv. 1,7,2). 6 Constat apud omnes Carmentem nympham illam, Evandri matrem, quae Nicostrata dicebatur, Latinas litteras invenisse. Ipsa primum transtulit in Italiam Latinas litteras. Hoc habemus initio Livii, et ‘Evander vir mirabilis veneratione litterarum’ (GLK 5,98,12 = Liv. 1,7,8). Il luogo liviano è in realtà più ampio ed appare essere stato sintetizzato da Pompeo: Evander tum ea, profugus ex Peloponneso, auctoritate magis quam imperio regebat loca, venerabilis vir miraculo litterarum, rei novae inter rudes artium homines, venerabilior divinitate credita Carmentae matris, quam fatiloquam ante sibyllae in Italiam adventum miratae eae gentes fuerant. 7 Wessner 1919 analizza le ricorrenze liviane per dimostrare come i materiali di Prisciano fossero originali e non mediati dalla tradizione grammaticale precedente e in particolar modo che fossero indipendenti da Capro. Che Prisciano avesse a disposizione un testo di Livio contenente oltre la prima decade lo sembra rendere chiaro una sezione del settimo libro dell’Ars (de ceteris casibus) relativa all’accusativo singolare di seconda declinazione in cui compaiono numerosi esempi di uso linguistico tratti dal libro 60 e dal 39 degli Ab urbe condita: invenitur tamen in usu etiam in um accusativus huiuscemodi nominum. Cicero de natura deorum III: Theseum, Hippolytum. Livius in XL ab urbe condita: ‘odio, cui Perseus indulgeret’. In eodem: ‘Perseo sese adiungunt’. In eodem: ‘totus in Perseum versus’. In eodem: ‘ad Perseum misit’. In eodem: ‘transgressus Perseum filium’. In eodem: ‘Perseum Amphipolim mittit’. Idem in XXXVIIII: ‘Areus et Alcibiades’. In eodem: ‘quod Areum et Alcibiaden ne Lacedaemonii possint reprehendere’ (GLK 2,299,15-300,1). Il grammatico risulta operare scelte originali e derivanti da lettura diretta anche nel caso di altri autori quali Orazio: il Venosino compare centocinquanta volte e vengono indicati, per ogni citazione, titolo dell’opera ed eventuale numero del libro, secondo la tipica prassi di schedatura del grammatico. Sono riportate inoltre per la prima volta varianti del testo, come si può emblematicamente vedere a proposito di carm. 3,17,4, per cui Prisciano dichiara di aver trovato attestate sia la forma fastos, come un sostantivo di seconda declinazione, che sia quella fastus, secondo la quarta. Rimando su questa problematica allo studio di De Nonno 1998, 37-38.
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Il confronto fra questi, gli antichi scoliasti oraziani e Servio consentirà di mettere in luce come i riferimenti all’opera di Livio risultino fondamentalmente parafrasati o relativi a porzioni testuali non altrimenti note e appaiano verosimilmente attinti ad una forma epitomata degli Ab urbe condita libri. Se la storia fu difatti sempre materia privilegiata nella realizzazione di forme epitomate e il primo a realizzarne fu Marco Giunio Bruto, autore di compendi a Polibio, Fannio e Celio Antipatro 8, l’opera liviana, che nonostante l’estesa mole soppiantò immediatamente tutta la tradizione precedente sia come fonte storica tout-court che per la sua dimensione etica e poetica, ebbe, a partire dall’età imperiale, una fortuna inversamente proporzionale alla sua diretta conoscenza. Si composero riassunti delle Storie almeno sin dall’età di Marziale 9 e sorsero numerosissimi ‘prontuari’ con alla base personalità più o meno evidenti che o sintetizzavano l’opera riproducendone la struttura e l’organizzazione in libri, com’è il caso più noto delle Periochae, oppure ne costitui vano una selezione tematica, com’è il caso dei prodigi riportati da Giulio Ossequente. Si tratta evidentemente di una tradizione molteplice 10 di cui si sono scoperti nuovi tasselli anche di recente 11 8 Galdi 1922 ha dedicato una monografia alle forme letterarie compendiate nella letteratura latina mentre per quelle relative alla storiografia, con relativi esempi, cf. Lizzi 1990. 9 Si ritiene comunemente che il Livio in dono accompagnato dal distico di Marziale (14,190 pellibus exiguis artatur Livius ingens, / quem mea non totum bibliotheca capit) sia una sua forma epitomata, cosa che rendeva possibile la sua collocazione in una biblioteca. 10 Nella tradizione epitomatoria liviana sono individuabili due filoni, uno costi tuito da opere con impostazione cronologica e uno da opere con uno sviluppo narrativo più ampio (tra cui le Periochae, Eutropio, Orosio). Il fatto che nelle stesse Periochae compaiano elementi non riconducibili a Livio ha portato a ipotizzare l’esistenza di una forma epitomata originaria datata all’età tiberiana dalla quale sarebbero derivate le altre. Non risulta possibile però pensare a una tradizione rigidamente unitaria, motivo per cui accanto all’epitome tiberiana gli studiosi hanno ipotizzato l’esistenza di almeno una seconda epitome in cui sarebbe confluito materiale dalla prima contaminata con altri modelli. Alla tradizione epitomatoria a partire dall’età imperiale e in particolare alle Periochae ha dedicato numerosi studi Luigi Bessone (per questa analisi cf. Bessone 1982; alla tematica lo studioso ha dedicato numerosi contributi fra i quali si segnalano, in particolare, Bessone 1984 e Bessone 2015) mentre si è occupato delle dinamiche della tradizione testuale Reeve 1988 e 1991. 11 È il caso del frammento papiraceo scoperto nel 1903 contenente la cosiddetta Epitoma di Ossirinco, otto colonne variamente mutile contenenti un riassunto del l’opera liviana che segue l’organizzazione in libri e la suddivisione della tematica in anni consolari, alle quali se n’è aggiunta una ulteriore contenuta nel PSI XII 1291. Il testo è stato edito e commentato da Funari 2011; si veda altresì Funari 2014.
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e rispetto alla quale i commentari scolastici possono fornire utili indicazioni. Non entrerò in questa sede nel dettaglio dei problemi filologici che riguardano la scoliastica oraziana; serve però sapere, per questa valutazione, che il rapporto fra il testo pervenuto sotto il nome di Porfirione 12 e la redazione del cosiddetto pseudo-Acrone 13 può essere indagato proprio rispetto agli autori citati. Il secondo corpus, infatti, risente evidentemente del commento di Servio e del nuovo gusto citazionale con l’ingresso di autori quali Lucano, Stazio, Giovenale e lo stesso Orazio che comincia a essere considerato auctoritas linguistica 14. Il ‘gusto letterario’ risulta quindi cronologicamente successivo come si può evincere dal sistema citazionale: PORFIRIONE: 1) Virgilio con 163 citazioni; 2) Lucilio 34; 3) Omero 22; 4) Terenzio 20; 5) Ennio 15; 6) Sallustio 13; 7) Plauto e Persio 12; 8) Cicerone 8; 9) Lucrezio 4; 10) Catullo, Livio, Ovidio 3; 11) Lucano 2; 12) Pacuvio e Titinio 1. PSEUDO-ACRONE: 1) Virgilio con 721 citazioni; 2) Lucano 51; 3) Giovenale 50; 4) Terenzio 49; 5) Persio 25; 6) Cicerone 19; 7) Sallustio 11; 8) Stazio e Plauto 8; 9) Ennio e Ovidio 5; 10) Livio 4; 11) Nevio e Petronio 1 15. 12 Sotto il nome di Porfirione, personalità da datare agli inizi del III secolo d.C., è giunto un commento a Orazio che costituisce probabilmente l’esito ridotto della redazione originale. Due recenti monografie sono dedicate al commento (Diederich 1999 e Kalinina 2007). Il testo è citato secondo l’edizione Holder 1894; sulla pratica citazionale del commentatore cf. Mastellone Iovane 1998. 13 Gli scolii a Orazio pervenuti sotto il nome di Acrone risultano frutto di una stratificazione derivante da generazioni e ambienti diversi il cui nucleo di base, di cui sono testimoni più evidenti gli scholia vetustiora del Parisinus Latinus 7900A editi da Keller 1902, deve essere stato raccolto attorno al V secolo a partire da note che potrebbero rifarsi allo stesso Elenio Acrone, colui che veniva ritenuto tra gli antichi il migliore commentatore di Orazio. Il testo è qui riportato secondo l’edizione Teubneriana curata da Keller 1902 e Keller 1904. I lavori più recenti sul corpus riguardano principalmente il commento alla produzione lirica; si rimanda, per quanto riguarda quelli a carattere generale, a Noske 1969; Borszák 1972; Borszák 1998. Sulla pratica citazionale nelle opere scolastiche e sul suo valore rispetto alla tradizione dei testi citati cf. De Nonno 1990; per il caso specifico del corpus pseudacroniano Longobardi 2014a. 14 È a partire da Servio che il Venosino acquista un ruolo di rilievo come auctoritas linguistica: sono ben centotrenta le citazioni oraziane di carattere grammaticalelinguistico, frutto probabilmente di una scelta individuale dell’esegeta virgiliano piuttosto che di una tendenza dell’epoca. Cf. in particolare le p. 70 ss. di Santini 1979. 15 Vengono considerati esclusivamente gli autori di cui compaiono citazioni dirette – da questo l’assenza di Lucilio e Omero – omettendo lo stesso Orazio che risulterebbe secondo solo a Virgilio.
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LETTURE ANTICHE DI LIVIO
Per quanto concerne Livio, le citazioni sono le stesse e ricorrono nel commento ai medesimi luoghi, facendo supporre che sia stato proprio Porfirione il fons per chi successivamente ha commentato Orazio. Negli ultimi versi del celebre componimento dedicato alla morte di Cleopatra Orazio dice che la regina sdegnò che le liburne inesorabili traessero in pompa trionfale lei, che era donna regale, come una semplice privata (saevis Liburnis scilicet invidens / privata deduci superbo / non humilis mulier triumpho, carm. 1,37,30-32). Nello spiegare invidens l’antico commentatore dice che viene qui sottinteso Augusto giacché è verso Augusto che Cleopatra provava sdegno, perché la propria prigionia non glorificasse la sua vittoria. Continua riferendo che, in maniera analoga, anche nell’opera liviana la regina, fatta prigioniera da Augusto, quando veniva trattata con più indulgenza era solita dire «non sarò sottomessa», non triumphabor: INVIDENS Augusto invidens, ne captivitas sua illi speciosiorem faceret triumphum. Nam et Livius refert Cleopatram, cum de industria ab Augusto capta indulgentius tractaretur, dicere solitam: ‘Non triumphabor’. Ordo est: scilicet non humilis mulier invidens privata deduci superbo triumpho.
L’espressione attribuita alla regina non è altrimenti nota e nella Periocha 133, alla quale rimanda anche l’editore dello pseudoAcrone, si legge che Cleopatra si diede a morte volontaria, con nessun riferimento però alle parole che avrebbe proferito 16. Se, procedendo a ritroso, si considera quanto esprime Porfirione nel commento al luogo, si può vedere come la trattazione risulti più ampia, aspetto che appare anomalo rispetto a quanto solitamente avviene. Q uesto si verifica anche per la stessa citazione ‘liviana’ che nel testo porfirioneo compare in greco (un greco che, evidentemente, dopo non si sarebbe più compreso): [Invidens] scilicet Augusto, ne captivitas sua illi gloriosiorem honestioremque triumphum faceret ornatu. Nam et [Titus Libius] refert illam, cum de industria ab Augusto in captivitate[m] indulgentius tractaretur, idemtidem 16 M. Antonius ad Actium classe victus Alexandriam profugit, obsessusque a Caesare, in ultima desperatione rerum, praecipue occisae Cleopatrae falso rumore inpulsus, se ipse interfecit. Caesar Alexandria in potestatem redacta, Cleopatra, ne in arbitrium victoris veniret, voluntaria morte defuncta, in urbem reversus tres triumphos egit, unum ex Illyrico, alterum ex Actiaca victoria, tertium de Cleopatra, imposito fine civilibus bellis altero et vicesimo anno.
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dicere solitam fuisse: Οὐ θριαμβεύσομαι [id est non triumphabor ab alio]. Il viaggio verso Brindisi narrato da Orazio nella quinta satira del primo libro era finalizzato ad accompagnare la missione diplomatica di Mecenate e Cocceio, come il poeta dichiara (huc venturus erat Maecenas optimus atque / Cocceius, missi magnis de rebus uterque / legati, aversos soliti conponere amicos, sat. 1,5,27-29). A proposito di Lucio Cocceio Nerva, l’antico commentatore dice che fu un proavus/avus di Nerva e che fu colui che chiese ad Augusto di inviare qualcuno per occuparsi delle cose più importanti. Mecenate fu per questo mandato con Agrippa per condurre entrambi gli eserciti in un unico accampamento; di questo argomento si sarebbe occupato Livio nel libro 127, secondo quanto si legge nello scolio al verso 27: M‹A›ECENAS OPTIMUS ATQ UE COCCEIUS Cocceius Nerva proavus Nervae fuit, qui inperavit Romae. Cocceius Nerva, avus Nervae, qui postea inperavit, mandavit Augusto, ut mitteret, qui de summa rerum tractaret. Ergo missus est M‹a›ecenas cum Agrippa, qui utrumque exercitum in una castra coegerunt. Hoc Livius libro CXXVII. Intellegendum autem, quod Fonteio misso ab Antonio Augustus M‹a›ecenatem et ceteros ad eundem locum miserit.
Anche in questo caso l’annotazione di Porfirione è più ricca. Il commentatore riferisce che al sorgere di un contrasto fra Augusto e Antonio, Lucio Cocceio Nerva avrebbe chiesto a Cesare di inviare qualcuno a Terracina; per primo vi si sarebbe recato Mecenate, in seguito anche Agrippa, sancendo un saldissimo patto di alleanza. Q uesto episodio lo avrebbe riferito anche Tito Livio nel libro 127, fatta eccezione per la menzione di Fonteio Capitone il cui nome compare qualche verso dopo in Orazio. HUC VENTURUS ERAT MAECENAS ET RELIQ UA Dissensione orta inter Caesarem Augustum Antoniumque Luci[li]us Cocceius Nerva avus eius, qui postea imperavit, petit a Caesare, ut aliquem, cum quo de summa rerum tractaret, mitteret Tarracinam. Et primum Maecenas, mox et Agrippa adgressi sunt, hi[i]que, qui pepigerant fidem confirmatissimam, in una castra conferre signa utrosque exercitus iusserunt. Hoc et Titus Libius in libro CXXVII refert, excepta Fontei Capitonis mentione.
Nella Periocha del libro 127 17 non compare alcun riferimento alla missione di Mecenate e Agrippa e l’assenza di Fonteio Capitone 17 Parthi Labieno, qui Pompeianarum partium fuerat, duce in Syriam inruperunt victoque Decidio Saxa, M. Antoni legato, totam eam provinciam occupaverunt. M. Anto-
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nella fonte liviana da cui è redatta la nota potrebbe derivare da una confusione fra le negoziazioni del 40 a.C. e quelle del 37, quando Fonteio fu probabilmente portavoce di Antonio nelle trattative che precedettero l’accordo di Taranto. Una citazione testuale compare invece nel commento al verso 2 dell’epodo 16, componimento fortemente civile che si apre con una desolata constatazione, da parte di Orazio, del profilarsi di nuove battaglie civili 18: Altera iam teritur bellis civilibus aetas, / suis et ipsa Roma viribus ruit (vv. 1-2). Gli antichi commentatori rimandano all’incipit degli Ab urbe condita libri in cui Livio lamenta come Roma, partita da piccoli inizi, crebbe a tal punto da essere oppressa dalla sua stessa mole, Res est praeterea et immensi operis, ut quae supra septingentesimum annum repetatur et quae ab exiguis profecta initiis eo creverit ut iam magnitudine laboret sua. Nello pseudo-Acrone non è riportato il nome dell’autore ma si legge soltanto, nello scolio al verso, magnitudine sua laborat. Che si tratti di una citazione, non introdotta nemmeno da ut come avviene solitamente, e che si tratti di Livio lo si evince grazie al commento di Porfirione al luogo (Hoc est, quod Titus Libius ait: ‘Vt magnitudine laboret sua’). Il luogo non ricorre in Servio né all’interno del corpus dei grammatici latini e pare un impiego originale di Porfirione. Il fatto che la citazione sia tratta da una sezione di rilievo come quella proemiale, tuttavia, non è testimonianza di una possibile lettura diretta del testo liviano giacché un’espressione tanto pregnante poteva essere ricordata alla stregua di un detto o comparire essenzialmente identica in una forma compendiata dell’opera liviana ad uso scolastico 19. nius cum ad bellum adversus Caesarem gerendum incitaretur ab uxore Fulvia ne concordiae ducum obstaret, pace facta cum Caesare, sororem eius Octaviam in matrimonium duxit. Q . Salvidenum consilia nefaria adversus Caesarem molitum indicio suo prostraxit, isque damnatus mortem conscivit. P. Ventidius Antoni legatus Parthos proelio victos Syria expulit Labieno, eorum duce, occiso. Cum vicinus Italiae hostis, Sex. Pompeius, Siciliam teneret et commercium annonae impediret, expostulatam cum eo pacem Caesar et Antonius fecerunt ita ut Siciliam provinciam haberet. Praeterea motus Africae et bella ibi gesta continet. 18 Se l’epodo fu scritto nel 38 l’allusione sarebbe alla guerra contro Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno; se scritto nel 41 alla guerra di Perugia mossa da Ottaviano contro il fratello di Antonio. Per il commento puntuale all’ode cf. Kiessling – Heinze 1917 e Nisbett – Hubbard 1978; ulteriori rimandi bibliografici in Romano 1991, 1003. 19 Se si considera l’indice di Keil si può vedere chiaramente come i grammatici tendano a citare il primo libro delle opere degli autori e come il numero delle citazioni decresca con il procedere dei libri. Il caso più emblematico è rappresentato da
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Su tale base pare poco probabile la soluzione che suggerisce Keller, editore dello pseudo-Acrone, per risolvere la crux desperationis che pone a schol. carm. 2,1,6. A proposito di periculosae plenum opus aleae, l’opera piena di pericoloso discrimine della guerra civile, il commentatore riporta una citazione che non riesce ad essere ricondotta ad alcun autore: ALE‹A›E Ut † Cogit alea belli.
In apparato Keller rimanda a Liv. 37,36,9 dove il sovrano Antioco, dopo aver inviato un’ambasceria per trattare la pace, non avendo ricevuto le condizioni attese ritenne più sicuro correre i rischi della guerra (nihil ea moverunt regem, tutam fore belli aleam ratum, quando perinde ac victo iam sibi leges dicerentur). L’espressione alea belli ha un aspetto epico presentandosi come la successione di un dattilo e un bisillabo finale di un esametro ma la ricerca lessicale non ha prodotto alcun risultato e l’espressione appare di carattere generico per indicare l’incertezza dell’esito della guerra 20. L’ultima occorrenza liviana all’interno del corpus scoliastico oraziano è relativa al commento al verso 69 dell’ode 4,4, un componimento celebrativo per la vittoria di Druso sulle popolazioni alpine. Ai vv. 69-72 è riportato il discorso che il poeta immagina pronunciato da Annibale che ha perso ogni speranza di vittoria, Carthagini iam non ego nuntios / mittam superbos: occidit, occidit / spes omnis et fortuna nostri / nominis Hasdrubale interempto. Nel commentare il luogo l’esegeta antico ritiene che si tratti delle parole proferite da Annibale che, addolorato nel vedere la testa di Asdrubale, si sarebbe espresso con le parole agnosco te, fortuna Carthaginis 21. Virgilio (9 colonne di citazioni relative al primo libro dell’Eneide, 6 del libro II, un po’ più di 5 del libro III e così procedendo) ma avviene in modo analogo per le Odi di Orazio (libro I citato 95 volte, libro II 36 volte, libro III 33 volte, libro IV 15 volte), per Lucrezio (libro I 25 volte, libro II 15 volte, libro III 14 volte, libro IV 3 volte, libro V 3 volte, libro VI 8 volte), per Lucano, etc. 20 Essa viene impiegata da Thomas May nella ‘continuazione’ della Farsalia in sette libri che pubblicò nel 1630: Hic incerta diu varii stetit alea belli (3,330). Thomas May tradusse in inglese il poema di Lucano; nel 1626 comparvero i primi tre libri, nel 1927 la traduzione completa. Con il titolo di Supplementum Lucani fu pubblicata a Leiden, nel 1640, la continuazione della Farsalia in latino, opera in sette libri che fece seguito all’opera in vernacolare, nota come Continuation, pubblicata nel 1630 (A Continuation of the Subject of Lucan’s Historical Poem till the Death of Julius Caesar; cf. Bruère 1949). 21 IAM NON EGO NUNTIOS Adhuc velut Hannibalis verba sunt; tamen iuxta historiae fidem viso Hasdrubalis capite in haec dolore dicta Hannibal dicitur erupisse: ‘Agnosco te, fortuna Carthaginis’.
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L’episodio è narrato da Tito Livio che riporta il discorso di Annibale in forma indiretta, Hannibal tanto simul publico familiarique ictus luctu, adgnoscere se fortunam Carthaginis fertur dixisse 22. Nell’epitome di Floro sono presenti le parole che Annibale avrebbe proferito; il riferimento tuttavia non è alla fortuna di Cartagine bensì alla sua infelicitas: Certe Hannibal re cognita cum proiectum fratris caput ad sua castra vidisset, ‘agnosco’ inquit ‘infelicitatem Carthaginis’ 23. Lo pseudo-Acrone potrebbe aver riadattato da Livio oppure aver citato mnemonicamente. È inoltre ipotizzabile che abbia tratto l’episodio di Annibale da un compendio a carattere storico sul tipo dell’epitome di Floro in cui avrebbe letto la citazione agnosco te, fortuna Carthaginis. Q uando, nel XVIII secolo, l’abate Lhomond compose il De viris illustribus urbis Romae a Romulo ad Augustum per fini scolastici, a proposito dell’episodio di Annibale che vede la testa del fratello Asdrubale scriveva Caput Asdrubalis, quod servatum cum cura attulerat, proiici ante hostium stationes iussit. Annibal, viso fratris occisi capite, dixisse fertur: ‘Agnosco fortunam Carthaginis’, compiendo verosimilmente la medesima operazione dello pseudo-Acrone attraverso l’adattamento dal testo di Livio e/o da un suo compendio. La presenza di Livio in Servio 24 e nei commenti a Lucano rende ancora più chiara la possibilità che alla base di chi redige le note di commento agli auctores vi siano forme compendiate dell’opera liviana diverse rispetto a quelle a noi note. Il commento a Virgilio di Mauro Servio Onorato 25 costituisce in qualche modo uno ‘spartiacque’ e fonda una maniera di commentare i testi antichi, dive Liv. 27,51,11-12. Flor., epit. 1,22. 24 Servio definisce idonei auctores quelli che è lecito considerare exempla linguistici (su questo cf. Kaster 1978). A partire dallo studio di Wessner 1929 si è messo in luce come Servio crei di fatto un nuovo canone letterario ‘sdoganando’ una serie di autori su cui innanzitutto Lucano, Stazio e Giovenale, letture che si affermeranno così nella scuola del grammaticus. Lloyd 1961 si è occupato delle citazioni degli autori di età repubblicana; eseplificativamente, a proposito delle citazioni di Giovenale e Stazio, si vedano Monno 2009 e 2013. Sulla presenza di Livio in Servio cf. Pellizzari 2003, 238-240. 25 Servio compare tra gli interlocutori dei Saturnali di Macrobio, dato del quale gli studiosi si sono serviti per stabilire la cronologia del commento; una sintesi della questione è in Brugnoli 1988. Murgia 2003 ritiene che Servio abbia composto il commento a Virgilio agli inizi del V secolo, probabilmente prima del sacco di Roma del 410 relativamente al quale non compare mai alcun riferimento. Per la dipendenza da Servio degli scolii oraziani più antichi rimando a Longobardi 2017 (in particolare le pp. 51-54). 22 23
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nendo modello imprescindibile per gli altri testi scolastici della tarda antichità. Se anche il nome di Livio ritorna nel testo serviano abbastanza frequentemente, le citazioni risultano in qualche modo vaghe e generiche e non fanno riferimento a luoghi specifici della sua opera. È raro difatti che il testo liviano venga citato in maniera puntuale quanto piuttosto si tratta di parafrasi, di riassunti del contenuto, come si può evincere dalla lettura dello scolio al v. 7 del primo libro dell’Eneide in cui si rimanda a Livio per il problema relativo ad Ascanio, se dovesse cioè essere considerato figlio di Lavinia oppure di Creusa: ALBANIQ UE PATRES Albam ab Ascanio conditam constat, sed a quo incertum est, utrum a Creusae an a Laviniae filio: de qua re etiam Livius 26.
Delle trentuno volte in cui Livio ricorre in totale 27, in sedici casi si tratta di riferimenti che non si riescono a ricondurre ai libri Con de qua re Servio farebbe riferimento esclusivamente alla maternità di Lavinia, come si legge in Livio 1,1,11: brevi stirpis quoque virilis ex novo matrimonio fuit, cui Ascanium parentes dixere nomen. Spesso inoltre nel commentario si rimanda a Livio per questioni concernenti l’origine dei nomi dei luoghi, ad esempio Campania che, secondo il Patavino, sarebbe connessa ai luoghi ‘campestri’ e non a Capys, come si legge nel commento ad Aen. 10,145 (ET CAPYS HINC NOMEN CAMPANAE DUCITUR URBI iste quidem dicit a Capy dictam Campaniam. Sed Livius vult a locis campestribus dictam, in quibus sita est. Sed constat eam a Tuscis conditam viso falconis augurio, qui Tusca lingua capys dicitur, unde est Campania nominata. Tuscos autem omnem paene Italiam subiugasse manifestum est) o, ancora, nel commento al v. 158 del libro 7 dell’Eneide, dove l’autorità liviana – affiancata a quella di Catone, ma senza che vi siano citazioni né nell’uno né nell’altro caso – è riportata a proposito della Troia che Enea avrebbe fondato (PRIMASQ UE IN LITORE SEDES ideo ‘primas’, quia imperium Lavinium translaturus est. Et sciendum civitatem, quam primo fecit Aeneas, Troiam dictam secundum Catonem et Livium: quod et ipse dicit ‘nec te Troia capit’). 27 Le ricorrenze liviane in Servio sono elencate in Mountford-Schultz 1930; una valutazione della cultura storica di Servio e del suo metodo citazionale è in Sensal 2004. Stok 1996 analizza la presenza in Servio degli annalisti e degli storiografi di età repubblicana ponendo particolare attenzione al caso di Livio. Lo studioso mette in luce come il Danielino risulti maggiormente aderente alla fonte a differenza di Servio, più propenso alla parafrasi e al compendio, e come nella fonte comune dovessero essere presenti ampie citazioni testuali. Nell’introduzione a La Penna-Funari 2015 (p. 25-31) vengono invece valutate le citazioni delle Historiae di Sallustio all’interno dei corpora scoliastici: esse risultano più numerose in Servio che è il più delle volte l’unico fons, portando a ipotizzare una conoscenza non diretta dell’opera storiografica da parte del commentatore. È invece da considerare un errore della tradizione il riferimento a una presunta versione in giambi dell’opera liviana realizzata da Avieno; come mette in luce Murgia 1970 in Serv., Aen. 10,388 non bisogna leggere Avienus tamen, qui totum Livium iambis scripsit bensì Vergilium, come conferma la medesima notizia riportata nel commento ad Aen. 10,272. 26
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trasmessi dalla tradizione testuale mentre in soli quattro casi vengono citate porzioni di testo che, anche se rimandano a un libro giunto per tradizione diretta, quale può essere il primo degli Ab urbe condita, non coincidono con il testo a noi noto. In generale il fatto che l’autorità liviana venga richiamata in maniera erronea come testimonianza di una tradizione ideologicamente importante quale il tradimento della patria da parte di Enea e Antenore 28 rende comunque evidente la necessaria prudenza nel caso delle testimonianze serviane. A proposito dell’invocazione a Pale con cui si apre il terzo libro delle Georgiche 29, Servio nota come il poeta si serva di un nuovo proemio pur trattandosi di un’opera unitaria. Virgilio applicherebbe così l’espediente dell’iterazione proemiale di cui si sono serviti altri autori per consentire ai lettori di mitigare le loro fatiche: è il caso di Cicerone, che lo ha applicato nelle Verrine, e di Livio che frequentemente (frequenter) avrebbe rinnovato le sezioni iniziali, come nel caso di incensa a Gallis urbe e di completis consulibus 30. Sono questi due incipit non altrimenti noti e che non vengono ricondotti a specifici libri liviani. 28 ANTENOR POTUIT non sine causa Antenoris posuit exemplum, cum multi evaserint Troianorum periculum, ut Capys qui Campaniam tenuit, ut Helenus qui Macedoniam, ut alii qui Sardiniam secundum Sallustium; sed propter hoc, ne forte illud occurreret, iure hunc vexari tamquam proditorem patriae. Elegit ergo similem personam; hi enim duo Troiam prodidisse dicuntur secundum Livium, quod et Vergilius per transitum tangit, ubi ait ‘se quoque principibus permixtum agnovit Achivis’, et excusat Horatius dicens ‘ardentem sine fraude Troiam’, hoc est sine proditione: quae quidem excusatio non vacat; nemo enim excusat nisi rem plenam suspicionis (Serv., Aen. 1,242). In realtà Livio non lo testimonia affatto, salvando invece, nella parte iniziale della sua opera storica, entrambi i personaggi dall’accusa che veniva loro mossa: iam primum omnium satis constat Troia capta in ceteros saevitum esse Troianos, duobus, Aeneae Antenorique, et vetusti iure hospitii et quia pacis reddendaeque Helenae semper auctores fuerant, omne ius belli Achivos abstinuisse (Liv. 1,1). Sull’impiego delle fonti in Servio a proposito del presunto tradimento di Enea rimando a Longobardi 2014b. 29 Te quoque, magna Pales, et te memorande canemus / pastor ab Amphryso, vos, silvae amnesque Lycaei (georg. 3,1-2). 30 TE Q UOQ UE MAGNA PALES invocat deam pabuli dicturus de animalibus, sicut de frumentis dicturus et vitibus Cererem invocavit et Liberum. Sane non est mirandum, usum esse eum prooemio, sicut est usus in primo: nam aliud quodammodo inchoaturus est carmen, pastorale scilicet, post completum georgicum. Deinde etiamsi unum sit, scimus concessum esse scribentibus, ut iteratione prooemii legentum reficiant interdum laborem: nam et Livius frequenter innovat principia, ut ‘incensa a Gallis urbe’, ut ‘completis consulibus’, et Cicero in Verrinis, qui in frumentaria conciliavit auditorum animos iteratione principii, ut ‘omnes qui alterum iudices nullis impulsi inimicitiis’ (riporto in grassetto le aggiunte danieline). Le due citazioni sono riportate separatamente nell’edizione Weissenborn come frammenti 68 e 60 (= 64 Hertz).
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Nel commentare il verso 456 del primo libro dell’Eneide, a proposito di Enea che, in attesa di Didone, scorge la raffigurazione degli eventi di Troia 31, il Danielino riporta un’annotazione relativa alla differenza fra pugna e certamen 32. Mentre pugna – e così analogamente proelium – indica un combattimento di limitata estensione temporale, bellum è proprio di un tempo non determinato, com’è il caso di bellum Punicum, Mithridaticum. Il commentatore cita così due luoghi che ritiene esemplificativi, uno tratto dalle Historiae di Sallustio 33 e uno liviano che non è altrove testimoniato, ni Pyrrhus unicus pugnandi artifex magisque in proelio, quam bello bonus. Le vicende di Pirro, qui indicato come più bravo a vincere una battaglia che la guerra, riguardavano i libri 12, 13 o 14 ai quali rimandano gli editori dei frammenti. Nel commento ad Aen. 2,148 si legge che le parole di Priamo, quisquis es…noster eris 34, corrispondono alla formula con la quale veniva accettato dal generale romano il disertore dell’esercito nemico come avrebbe testimoniato Livio 35, cosa della quale informa però nuovamente solo Servio. L’unico luogo in cui è possibile operare un confronto con l’originale liviano è il commento al verso 813 del sesto libro dell’Eneide in cui, a proposito di Tullo Ostilio, si dice che infrangerà la quiete della patria (otia qui rumpet patriam) e si cita testualmente Livio: OTIA Q UI RUMPET de hoc Livius ‘inde Tullum, qui ferox et Romulo, quam Numae similis’. Namque sub ingenti lustrat dum singula templo / reginam opperiens, dum quae fortuna sit urbi / artificumque manus inter se operumque laborem / miratur, videt Iliacas ex ordine pugnas / bellaque iam fama totum vulgata per orbem, / Atridas Priamumque et saevum ambobus Achillem (Aen. 1,453-458). 32 Sane pugna est temporale certamen, idem et proelium significat; bellum autem universi temporis dicitur, ut Punicum, Mithridaticum. Sallustius ‘ita sperat pugnam illam pro omni bello futuram’. Livius ‘ni Pyrrhus unicus pugnandi artifex magisque in proelio, quam bello bonus’. Per le problematiche relative alle note che compaiono in aggiunta del testo serviano e che sono definite danieline dal nome del primo editore, Pierre Daniel, rimando al volume di Vallat 2012. 33 Fr. 100 La Penna – Funari = 1.109 M. La citazione sallustiana è riportata anche da Servio nel commento ad Aen. 10,311, OMEN PUGNAE Sallustius ‘pugnam illam pro omine bello futuram’. Ideo ergo ‘omen’, quia, sicut nunc, sic ubique vincet Aeneas. 34 Q uisquis es, amissos hinc iam obliviscere Graios / (noster eris) mihique haec edissere vera roganti: / quo molem hanc immanis equi statuere? Q uis auctor? (vv. 148150). 35 Q UISQ UIS ES licet hostis sis. Et sunt, ut habemus in Livio, imperatoris verba transfugam recipientis in fidem ‘quisquis es noster eris’ (fr. 61 Weissenborn = 58 Hertz, di incerta sede). Il motivo torna anche in altri luoghi liviani quali 9,18,9 e 30,35,11. 31
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Thilo-Hagen, editori del testo serviano, rimandano a Livio 1,22 in cui si dice che Tullo Ostilio fu ferocior quam Romulus (inde Tullum Hostilium, nepotem Hostili, cuius in infima arce clara pugna adversus Sabinos fuerat, regem populus iussit; patres auctores facti. Hic non solum proximo regi dissimilis sed ferocior etiam quam Romulus fuit); la citazione serviana sembra in realtà fondere e sintetizzare questo luogo, dal quale dipenderebbe la prima parte della citazione, con un altro liviano, 1,20, al quale si dovrebbe invece il quam Numae similis: sed quia in civitate bellicosa plures Romuli quam Numae similes reges putabat fore iturosque ipsos ad bella, ne sacra regiae vicis desererentur flaminem Iovi adsiduum sacerdotem creavit insignique eum veste et curuli regia sella adornavit. Ancora più significative, ai fini di questa trattazione, sono le occorrenze liviane all’interno dei commenti a Lucano 36 dove maggiormente numerose sono le porzioni di testo riportate ma per cui i commentari costituiscono in tutti i casi l’unica testimonianza. A proposito dei Giudei, la cui terra era stata conquistata da Pompeo in seguito alla campagna mitridatica, Lucano dice che adorano un dio invisibile e irriproducibile 37. L’antico commentatore rimanda a un luogo in cui Livio doveva trattare de Iudaeis – verosimilmente relativo al libro 102 che riguardava anche, secondo quanto sappiamo dalla periocha, la sottomissione dei Giudei e la presa, per la prima volta, del tempio di Gerusalemme 38 – in una digressione erudita sul tempio e sul dio che vi si adorava, privo di immagini e di raffigurazioni:
36 Si considerano qui i Commenta Bernensia secondo l’edizione Usener e le Adnotationes super Lucanum edite da Endt. Barbara 2011 ha valutato i richiami incrociati tra la scoliastica lucanea e il testo serviano riconoscendo nei vari strati delle Adnotationes uno che dipende da Servio ma individuando allo stesso tempo una serie di casi in cui, pur essendo citato Virgilio, non viene richiamata l’esegesi serviana. Sulla genesi della scoliastica lucanea si vedano Werner 1994 e 1998; sul commentario in generale i contributi raccolti in Esposito 2004a (cf. nel particolare Esposito 2004b e Iannone 2004); il sistema citazionale è stato analizzato da Szelest 1978 e 1985 mentre Tabacco 2014 ha indagato nel particolare la presenza di Solino e Isidoro. 37 Cappadoces mea signa timent et dedita sacris / incerti Iudaea dei mollisque Sophene, / Armenios Cilicasque feros Taurumque subegi (Lucan. 2,592-594). 38 Cn. Pompeius in provinciae formam Pontum redegit. Pharnaces, filius Mithridatis, bellum patri intulit. Ab eo Mithridates obsessus in regia cum veneno sumpto parum profecisset ad mortem, a milite Gallo, nomine Bitoco, a quo ut adiuvaret se petierat, interfectus est. Cn. Pompeius Iudaeos subegit, fanum eorum Hierosolyma, inviolatum ante id tempus, cepit.
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INCERTI IUDEA DEI Livius de Iud‹a›eis ‘Hierosolimis fanum cuius deorum sit non nominant, neque ullum ibi simulacrum est, neque enim esse dei figuram putant’.
Altre citazioni testuali sono riportate nel commento a Lucano 4,354, a proposito di Cesare che ha vinto senza combattere 39; a 5,494, a proposito dei soldati di Cesare che, secondo il loro comandante, avrebbero raggiunto il campo di battaglia anche se ci fosse stato il rischio di un naufragio 40; a 8,9, in relazione alle parole rivolte a Pompeo dalla moglie Cornelia; a proposito di Crastino, il primo a gettarsi in battaglia, ricordato al verso 470 del settimo libro della Farsalia, riguardo il quale viene citato in forma parafrasata negli scholia Bernensia e in forma diretta nelle Adnotationes 41 un luogo che, per tematica, doveva rifarsi al libro 101 degli Ab urbe condita. Compare un errore a proposito di Cicerone che tiene una perorazione nel settimo libro della Farsalia, espediente narrativo creato da Lucano giacché l’Arpinate si era ammalato sul campo di Durazzo 42. Si legge nel commento, difatti, che secondo Livio Cicerone si trovava in Sicilia ai tempi della battaglia di Farsalo: ROMANI MAXIMUS AUCTOR TULLIUS ELOQ UI‹I› fingit hoc. Nam Titus Livius eum in Sicilia ‹a›egrum fuisse tradit eo tempore quo Phar‹s›aliae pugnatum est et ibi eum accepisse litteras a victore Caesare, ut bono animo esset. 39 NEC CRUOR EFFUSUS CAMPIS T. B. P. Livius: ‘et duces ulli us‹ui› in bello milites, per quos tibi licuit sine sanguine vincere? Q uod Caesar‹i› pulcrum est, petimus: quibus armatis pepercisti, deditis consulas’ (comment. Lucan. 4,354). La citazione potrebbe essere relativa al discorso di Afranio prima della resa finale della Spagna (cf. Caes., civ. 1,72 e 1,84). 40 NAUFRAGIO VENISSE V. deest: etiam. [Et] ut amor periculis conprobetur. Livius de hoc ‘veniant si modo mei sunt’. 41 TIBI NON MORTEM Crastinus dictus est hic qui primus iaculatus in Pompei aciem pilum bella conmisit, qui, ut historia refert, adacto in os gladio, sic inter cadavera repertus est, libidinem ac rabiam qua pugnaverat ipsa novitate vulneris pr‹a›eferebat. De quo Titus Livius dicit tunc fuisse evocatum, proximo anno deduxisse primum pilum Gaium Crastinum qui a parte Caesaris primus lanceam misit. Adnotationes 7, 471 CRASTINE MORTI proprium nomen est ‘Crastine’ eius militis, qui primus tela iaculatus est, ut ait Titus Livius ‘primus hostem percussit nuper pilo sumpto Gaius Crastinus’. La forma è molto simile a quanto si legge in Cesare, civ. 3,91; del personaggio si parla anche in Floro 2,13. 42 Cf. Cic., div. 1, 68. Nel commento al verso 59 del terzo libro, inoltre, si richiama Livio a proposito della provincia, che è quella siciliana, in cui l’intervento di Curione mise in fuga il legittimo magistrato, Catone (CURIO SICANIAS TRASC. I. I. A. ut ‹ait› Livius, Marcum Catonem expulit provincia).
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Alcune citazioni vengono riferite ai libri belli civilis, una sezione specifica dell’opera liviana che l’esegeta avrà tenuto bene in considerazione per le affinità con la materia che commentava 43. Si rimanda ad essa nel commento al verso 182 del terzo libro dove, fra gli alleati di Pompeo, è presente Atene che, da gloriosa potenza navale quale era, è ridotta a fornire soltanto tre navi. Il commentatore lucaneo riporta una citazione tratta dal primo libro della guerra civile, che è quindi evidentemente una sottosezione o una sezione antologizzata dell’opera liviana, dove però le navi ateniesi erano soltanto due 44. In maniera analoga al verso 521 del decimo libro delle Adnotationes si riporta che Livio, in libro quarto civilis belli, avrebbe trattato del trionfo celebrato da Cesare su Arsinoe, sorella di Cleopatra 45; alla sezione belli civilis farà pertanto riferimento anche la nota al verso 471 in cui, a proposito dei legati inviati da Tolomeo all’accampamento di Achilla – due e non uno, come dice erroneamente Lucano, vale a dire Serapione e Dioscoride –, si rimanda a un generico libro quarto liviano 46 che non è, evidentemente, quello della tradizione manoscritta. I testi presi in esame consentono di arrivare ad alcune conclusioni. Le citazioni liviane sembrano confermare che gli Ab urbe 43 Nella sottoscrizione di alcuni manoscritti si legge, a proposito della Periocha 109, (liber) qui est civilis belli primus; cf. Jal 1979, 272. 44 EXIGUAE FOEBEA TENENT NABALIA P. Livius in primo libro belli civilis ait: ‘nam At‹h›enienses de tanta maritima gloria vix duas naves effecere’. Athenis tertia pars portus Munic‹h›ia vocatur, ubi est templum Dianae Munic‹h›iae. 45 CAESARIS ARSINOE soror Ptolomei fuit; hanc Ganymedes quidam, spado puellae acceptissimus, in castra Achillae perduxit, cuius iussu Achillas occisus est et exercitui Ganymedes praepositus. Hanc postea Caesar victis Aegyptiis in triumphum duxit, ut meminit Livius in libro quarto civilis belli. Cesare vi fa riferimento nella parte finale del De bello civili (3,112) e compare notizia, in una forma analogamente sintetica, nel quarto capitolo del De bello Alexandrino (Interim dissensione orta inter Achillan, qui veterano exercitui praeerat, et Arsinoen, regis Ptolomaei minorem filiam, ut supra demonstratum est, cum uterque utrique insidiaretur et summam imperi ipse obtinere vellet, praeoccupat Arsinoe per Ganymeden eunuchum, nutricium suum, atque Achillan interficit. Hoc occiso sine ullo socio et custode ipsa omne imperium obtinebat; exercitus Ganymedi traditur. Is suscepto officio largitionem in militem auget; reliqua pari diligentia administrat). 46 SED NEQ UE IUS MUNDI legatos, quos rex miserat duo fuerunt, Dioscorides et Serapio, quorum alter occisus est, ut Titus Livius meminit libro quarto. Di Dioscoride e Serapione tratta Cesare nel terzo libro del De bello civili (Milites tamen omnes in armis esse iussit regemque hortatus est, ut ex suis necessariis, quos haberet maximae auctoritatis, legatos ad Achillam mitteret et, quid esset suae voluntatis, ostenderet. A quo missi Dioscorides et Serapion, qui ambo legati Romae fuerant magnamque apud patrem Ptolomaeum auctoritatem habuerant, ad Achillam pervenerunt, par. 109).
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condita libri non venissero letti direttamente nei contesti scolastici in cui si spiegavano gli auctores, innanzitutto a causa della loro grande mole. Livio non fu modello linguistico ma l’opera liviana fu tuttavia di grande interesse come fonte storica per gli eventi di età repubblicana, come confermano le numerose citazioni. Esistevano, a disposizione di chi ha redatto le note di commento, delle forme epitomate e/o antologizzate di Livio che potevano essere organizzate in sezioni tematiche, fra cui una relativa alla guerra civile in almeno quattro libri. I corpora scoliastici pervenuti, che trovarono il loro primo assemblamento organico nella tarda antichità, costituiscono pertanto un tassello importante nella storia delle forme liviane epitomate; una loro corretta analisi, inoltre, consente di comprendere come sia sempre indispensabile valutare il contesto citazionale soprattutto per quei frammenti – molto numerosi – di cui gli antichi commentatori costituiscono l’unica fonte.
Bibliografia Edizioni moderne dei frammenti di Livio M. Hertz, Titi Livi Ab Urbe condita Libri, vol. IV, pars II: Libri 46-142 – Fragmenta, Leipzig 1864. P. Jal, Tite-Live, Histoire Romaine, tome XXXIII : Livre XLV. Fragments, Paris 1979. A. C. Schlesinger, Livy, vol. XIV: Summaries, Fragments, and Obsequens, London 1959. W. Weissenborn, Titi Livi Ab urbe condita libri, pars VI: – Fragmenta et Index, Lepizig 1851. Titi Livi Ab urbe condita libri curr. Weissenborn – Mueller, Pars IV : Libri XLI-CXLII. Fragmenta. Index, Leipzig 1911. Barbara 2011 = S. Barbara, Le Commentaire à l’Énéide de Servius et les Adnotationes super Lucanum: regards croisés, in M. Bouquet – B. Méniel (édd.), Servius et sa réception de l’Antiquité à la Renaissance, Rennes 2011, 277-308. Bessone 1982 = L. Bessone, La tradizione epitomatoria liviana in età imperiale, in ANRW II.30.2, 1982, 1230-1263. Bessone 1984 = L. Bessone, Le Periochae di Livio, A&R 29, 1984, 42-55. Bessone 2015 = L. Bessone, The Periochae, in B. Mineo (ed.), A Companion to Livy, Chichester 2015, 425-436.
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LETTURE ANTICHE DI LIVIO
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MARIA NICOLE IULIETTO
UNA PERSISTENZA LIVIANA A CARTAGINE
Nel più ampio quadro della fortuna dell’opera liviana – o, per meglio dire, della ‘materia liviana’ – significativa ed interessante si rivela l’indagine intorno alla ricezione e all’influenza dello storico augusteo in epoca tardoantica, età per la quale Alan Cameron ha recentemente parlato di un vero e proprio «Livian revival» 1. L’attenzione che in questa fase fu rivolta all’opus liviano costituì, del resto, uno dei motivi che ne garantì la sopravvivenza, per quanto parziale 2: come è noto, il testo liviano venne curato, emendato e conservato, agli inizi del V secolo d.C., dalle famiglie aristocratiche romane dei Simmachi e dei Nicomachi, così come ci attestano le subscriptiones dei manoscritti ai singoli libri della prima deca liviana 3. In una epistola di Q uinto Aurelio Simmaco, celebre aristocratico pagano che fu console nel 391 d.C., lo stesso Simmaco conferma che l’impresa filologica era in atto e mirava a coprire tutto il testo liviano (epist. 9,13, munus totius Liviani operis quod spopondi): stando alle sue parole, il senatore sarebbe stato in possesso, all’epoca della missiva (401 d.C.), dell’intero corpus liviano. Q uand’anche la conoscenza diretta che la cerchia di Simmaco aveva dell’opera andasse ridimensionata (come crede Alan Cameron, che Cf. Cameron 2011, 498-526. Cf. Canfora 1993, 185. Al IV-V secolo d.C. vanno peraltro ascritti alcuni dei codici liviani fondamentali: il Veronensis (V sec. d.C.) per la prima deca; il Parisinus Latinus 5730 (Puteanus, V sec. d.C.), il più antico esemplare della terza deca; il Vaticanus Latinus 10696 (IV/V sec. d.C.) per la quarta deca; il Vindobonensis Latinus 15 (fine V sec. d.C.), unico testimone per i libri XLI-XLV. 3 Si vedano le subscriptiones dei codici Vaticani 3329 e 1840, ove si legge la formula, in explicit ai libri della prima deca, Victorianus v.c. emendabam domnis Symmachis. 1 2
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 629-641 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125347
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la limita ai soli primi libri) 4, risulta chiaro perché l’interesse di questo gruppo di intellettuali ricadde su un autore come Livio: strenui difensori delle tradizioni avite e della religio pagana 5 in una fase di forti tensioni religiose, gli aristocratici colti dell’epoca promossero un vasto movimento di propaganda all’insegna del conservatorismo e del tradizionalismo culturale, trovando il loro testo più emblematico in un’opera canonica della classicità che aveva eternato magnificamente un sistema ideologico e valoriale che, a quel tempo, l’aristocrazia senatoria vagheggiava e rimpiangeva. Eppure Livio non fu oggetto di un ‘revival’ esclusivamente pagano. Tutt’altro. In area africana Agostino, nel monumentale impianto storico-filosofico del De civitate Dei, guarda a Livio in chiave di contrapposizione ideologica 6; sulla sua scia, le Historiae adversus paganos di Paolo Orosio, redatte come complemento storiografico allo stesso De Civitate Dei 7, costituiscono, poi, una vera e propria «rielaborazione cristiana di Livio» 8. Alla tradizionale impostazione celebrativa della storia di Roma si andava gradualmente affiancando una visione storica universalistica, di matrice cristiana, che mirava a rovesciare i capisaldi epistemologici ed ideologici della storiografia tradizionale che proprio in Livio trovava la sua massima espressione. Sulla base di questa necessaria premessa, sarà dunque possibile tentare un’indagine ulteriore intorno all’incidenza e al Fortleben di Livio e della materia liviana, circoscrivendo il raggio d’azione al Tardoantico africano, con particolare riferimento alla vivace produzione letteraria della Cartagine vandalica degli inizi del VI secolo. Cf. Cameron 2011, 512. La conversione cominciò a partire da Nicomaco Flaviano iunior, anch’egli ‘editore’ dell’opus liviano. 6 Agostino individua «Livio come bersaglio privilegiato, seppure mai menzionato, della propria polemica», e contesta radicalmente le «categorie di ordine etico, religioso e ovviamente politico, spesso strettamente intrecciate tra loro, come virtus, iustitia, fides, sulle quali si è venuto a formare un vero e proprio sistema ideologico di riferimento obbligato per ogni generazione di Romani» (Audano 2009, 115). 7 Agostino, oltre a Floro ed alle Periochae, cita direttamente Livio (cf. Hagendahl 1967, 650-666, che sostiene la consultazione diretta dell’opera integrale di Livio da parte del vescovo di Ippona), così come fa Orosio (cf., ad esempio, Fabbrini 1979, 100-101). Su Orosio e i suoi legami con Livio e la tradizione liviana si veda anche Van Nuffelen 2012. Di converso, Cameron 2011, 512 e n. 80 mette ad esempio in discussione la conoscenza diretta di Livio (da altri asserita con certezza) da parte di Claudiano. 8 Cf. Canfora 1993, 185. 4 5
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UNA PERSISTENZA LIVIANA A CARTAGINE
Se Livio e le sue epitomi sono infatti fonti conclamate per autori africani o vissuti in Africa quali Agostino ed Orosio, non si può credere che la sua influenza si limiti all’ambito della prosa ma, come proveremo a dimostrare, essa traluce anche in altri ambiti di produzione, come quella dei vivaci circoli poetici cartaginesi attivi durante la dominazione vandalica. Espressione privilegiata di questa temperie culturale è l’Anthologia Salmasiana, la grande silloge poetica composta intorno al 534 d.C., trasmessa dal codice Salmasiano (Parisinus Latinus 10318). Ed è proprio all’interno di questa ricca e variegata antologia poetica – riconducibile a poeti appartenenti all’élite romano-africana colta quali Coronato, Flavio Felice, Lussorio e molti altri 9 – che è possibile indagare la presenza di persistenze ed echi dei libri superstiti di Livio. Sotto i Vandali, particolarmente durante il regno di Trasamondo (496-523) e di Ilderico (523-530), la vita culturale a Cartagine fu assai vivace 10, come dimostra la grande silloge poetica Salmasiana, riconducibile ad un ambito di produzione fortemente legato alle scuole di grammatica e retorica del tempo. Nota è la fascinazione che la cultura classica e gli auctores regulati esercitarono in questi ambienti di produzione: basti pensare al ruolo capitale esercitato da Virgilio in questa silloge, variamente testimoniato da una sterminata produzione di rifacimenti, declamazioni, centoni, themata virgiliani. Se la mitologia fornisce ai poeti della Salmasiana gran parte dei suoi soggetti, non sono assenti – per quanto siano minoritari – riferimenti a personaggi e vicende della storia di Roma, soprattutto quella più antica. Ma che ruolo aveva, nelle scuole di grammatica e retorica cartaginesi, lo studio della storia? E in che modo la conoscenza ‘scolastica’ della storia poteva influenzare la produzione poetica?
Si tratta di poeti accomunati dal titolo di vir clarissimus, riservato ai notabili dell’élite municipale o ai maestri di grammatica con comprovata esperienza; si veda, su questo, Kaster 1988, 109-111. 10 La critica è divisa sul ruolo dei sovrani vandalici all’interno di questa fioritura culturale: alcuni ritengono che i re vandalici furono attivi promotori di cultura, in ragione della progressiva ‘romanizzazione’ del loro stile di vita (così Courtois 1955, 222 ss.; Courcelle 1948, 195; De Gaetano 2009, 82, n. 6), tanto da parlare di un vero e proprio ‘rinascimento’ culturale a partire da Trasamondo (cf., ad es., Hays 2004), intervenuto dopo la fase di temporanea stasi a livello culturale che era seguita all’invasione di Geiserico nel 429; altri propendono, invece, per rintracciare una ‘sopravvivenza’ della cultura romana verso la quale i re vandalici furono sostanzialmente indif ferenti (come ad esempio Vössing 1997, 638 ss. e n. 2122). 9
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Nelle scuole d’Africa, fra V e VI secolo, lo studio dei poeti classici – Virgilio in primis – veniva affiancato a quello dei testi storiografici pagani, all’interno di una trasmissione della conoscenza storica certamente ‘condizionata’ dalle esigenze della precettistica retorica e connotata da una schietta finalità pedagogica: lo studio della storia di Roma avveniva attraverso un repertorio di exempla vitii o virtutis reperiti nei testi storiografici o negli appositi manuali 11. Livio, da sempre «principe degli storiografi nei programmi di retorica» 12, con la sua visione esemplare della storia di Roma continuò ad essere un punto di riferimento imprescindibile, anche quando questo quadro storico tradizionale iniziò ad essere oggetto di una revisione moralistica da parte degli storiografi cristiani. È a Livio che pensa Orosio nel primo libro delle sue Historiae adversus paganos, allorquando dichiara di voler proporre una storia universale cristiana ab orbe condito usque ad urbem conditam, dehinc usque ad Caesaris principatum nativitatemque Christi (1,1,14): il richiamo ‘polemico’ alla tradizione pagana è subito evidente nella dichiarata volontà di reinserire le vicende dei regni terreni all’interno di un quadro più ampio, ribaltando lo spettro dei tradizionali valori di riferimento celebrati da Livio nel quadro di un rinnovato disegno provvidenziale 13. Sulla scia orosiana si pongono direttamente due autori africani di V secolo (coevi ai poeti della silloge Salmasiana), quali Fulgenzio di Ruspe, col suo De aetatibus mundi et hominis, cronaca universale cristiana dalla creazione fino all’età imperiale romana 14, e il poeta Draconzio, membro dell’aristocrazia forense di Cartagine che, nel De laudibus Dei (scritto probabilmente tra il 486 e il 496), offre un grandioso affresco della storia cristiana a partire Cf. già Q uint., inst. 2,5,19-20; 10,1,31-34. Cf. De Gaetano 2009, 43. Il forte legame dello storico augusteo con l’insegnamento retorico è riconducibile all’«ipotesi legittima che Livio abbia anche praticato l’insegnamento della retorica (forse ancora a Padova)» (cf. Canfora 1993, 172). Q uintiliano (inst. 8,2,18-19) ci conserva un frammento nel quale Livio stesso criticava un maestro di oratoria che esortava i suoi allievi ad obscurare quae dicerent e li elogiava solo quando il discorso era divenuto del tutto incomprensibile (tanto melior, ne ego quidem intellexi). 13 Più che per un pubblico cristiano, Orosio scrive «contro i lettori di Livio» (Momigliano 1968, 110), ponendosi in polemica contrapposizione all’impianto cele brativo liviano. 14 Sulla stagione della storiografia latina d’Africa, di cui Vittore di Vita (con la sua Historia persecutionis Africanae Provinciae, temporibus Geiserici et Hunirici regum Vandalorum) e Fulgenzio furono i massimi esponenti, nel ventennio tra il 484 e il 498 d.C., cf. Zecchini 1993, 213-227. 11 12
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dalla creazione: particolarmente interessante il libro 3 15, nel quale Draconzio presenta la maggior parte dei riferimenti alla storia profana, riportando una serie di saeva exempla tratti dalla storia greca e romana, a dimostrazione della ferocia sanguinaria e dell’empietà che da sempre aveva caratterizzato i pagani e i loro dèi. I grammatici operanti nell’Africa vandalica si trovavano dunque a dover conciliare il ‘revival’ del sapere antico con le istanze della fede cristiana, di cui l’ambiente culturale africano risultava profondamente intriso: se da un lato, infatti, essi intendevano preservare e valorizzare la loro identità romana, mossi da una volontà di ‘silenziosa’ opposizione ai dominatori vandalici 16, dall’altro il patrimonio culturale classico continuava ad essere oggetto di una ridefinizione interpretativa, in ragione del mutato contesto culturale e sociale che, a partire da Tertulliano, aveva imposto una riflessione sui rapporti di coerenza tra cultura pagana e cultura cristiana. Di fronte a questo quadro complesso i poeti-grammatici dell’Anthologia Salmasiana sembrano tuttavia ritagliarsi uno spazio personale, lontano da quelle istanze di smantellamento critico, in atto ad opera dei cristiani, nei confronti del tradizionale spettro valoriale della Romanità, come dimostra anche il trattamento della materia storico-leggendaria all’interno della silloge. Prendiamo, come caso di studio, la figura di Muzio Scevola, soggetto caro alla declamazione retorica, tradizionale exemplum di coraggio e patriottismo 17, la cui vicenda ci è narrata da Livio nel 15 Gli exempla di storia profana del De laudibus Dei di Draconzio si rilevano «utili a dimostrare per confronto la superiorità del Dio biblico oltre che a dilettare l’ari stocrazia colta di Cartagine, cui si indirizzava in senso immediato l’opera» (cf. Stella 1988, 271). Sui personaggi esemplari della storia romana citati nel libro 3 cf., ad es., De Gaetano 2009, 276 ss. 16 Cf. De Gaetano 2009, 418 e passim. Per un quadro sintetico sul rapporto tra Romani d’Africa e dominatori vandalici si veda la recente sintesi di Bergasa – Wolff 2016, XXXVII ss., in cui si pone l’accento sul tentativo di armonizzazione e compromesso portato avanti dagli autori dell’Anthologia Salmasiana nei confronti dei Vandali (a fronte del violento biasimo manifestato, invece, dagli autori cristiani, che ne criticavano le violenze e le persecuzioni commesse) e sull’importanza che gli stessi dominatori attribuivano all’élite romana, nell’ottica del buon funzionamento amministrativo del regno, tanto da adottare uno stile di vita vicino a quello romano e frequentare le stesse scuole di retorica (stando a quel che dice Drac., Romul. 1,12-14, Sancte pater, o magister, taliter canendus es, / qui fugatas Africanae reddis urbi litteras, / Barbaris qui Romulidas iungis auditorio). Malgrado le violenze connesse all’invasione vandalica, questa non determinò dunque una assoluta rottura con il passato, né l’inizio della «deromanisation» dell’Africa. 17 Nelle Epistulae morales ad Lucilium (3,24) Seneca, dopo aver citato la vicenda di Scevola, scrive: Decantatae, inquis, in omnibus scholis fabulae istae sunt (…). Sulla
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secondo libro (12,1-13,5) 18. Nel novero delle figure esemplari della storia profana Scevola è citato sia da Agostino (civ. 5,18,1 s.) 19 che da Orosio (hist. 2,5,3) 20, i quali valutano il comportamento suo e di altri antichi eroi della repubblica in un’ottica positiva, pur riconoscendone la limitatezza delle aspirazioni terrene. Il personaggio trova spazio anche in Fulgenzio (aet. mund. 11,15) 21 e Draconzio (laud. dei 3,397-406) 22 i quali, però, si distaccano dalla consueta interpretazione della figura e ne fanno un modello negativo, rintracciando nelle intenzioni del suo gesto il mero desiderio di fama e lode terrena. Interessante, perché particolarmente vicina (a ben guardare) al testo e all’interpretazione liviana della vicenda, è invece la versione epigrammatica costituita dal carme De Scaevola dell’Anthologia Salmasiana, di anonimo poeta, (Anthologia Latina 155 Riese2 = 144 Shackleton Bailey = Vnius Poetae Sylloge 66 Zurli), probabilmente valenza ‘esemplare’ della figura si veda, ad es., Heikkinen 1997; sul personaggio cf. Münzer 1933. 18 Forte è la valenza ideologica sottesa a questo episodio nella narrazione liviana; Porsenna è un «sentimental king with an admiration for Roman virtues» (cf. Ogilvie 1970, 255). 19 In questi termini: Si Mucius, ut cum Porsenna rege pax fieret, qui gravissimo bello Romanos premebat, quia Porsennam ipsum occidere non potuit et pro eo alterum deceptus occidit, in ardentem aram ante eius oculos dexteram extendit, dicens multos se tales, qualem illum videret, in eius exitium coniurasse, cuius ille fortitudinem et coniurationem talium perhorrescens sine ulla dubitatione se ab illo bello facta pace compescuit: quis regno caelorum inputaturus est merita sua, si pro illo non unam manum neque hoc sibi ultro faciens, sed persequente aliquo patiens totum flammis corpus inpenderit? Sull’interpretazione agostiniana di Scevola cf. De Gaetano 2009, 276, n. 263. Sull’incidenza della fonte liviana per questo passo di Agostino cf. Hagendahl 1967, 655: «It is likely that Augustine epitomizes Liv. II, 12 about Mucius and Porsenna, but there is no definite proof of this». 20 Orosio così si esprime: Porsenna rex Etruscorum, gravissimus regii nominis suffragator, Tarquinium manu ingerens, tribus continuis annis trepidam urbem terruit conclusit obsedit; et nisi hostem vel Mucius constanti urendae manus patientia vel virgo Cloelia admirabili transmeati fluminis audacia permovissent, profecto Romani conpulsi forent perpeti aut captivitatem hoste insistente superati, aut servitutem recepto rege subiecti. 21 In questi termini: Exurit Mucius inefficaciter dexteram et quia praeferri inaniter concupit, curtatus brachio inaniter vixit: quam fatua vanitas sacrificat vanae famae miseri sui corporis poena et ut nomine tantum opinatus existeret, membrorum facta est turpata ruina. 22 Scaevola flammipotens dextrae cum temneret ignis, / constituit punire manum, licet ipse fefellit, / non manus audaces animos; plus prestitit error / ut sine morte ducis vir tantum laudis haberet. / Non Romana nurus doluit per bella maritum, / non genitor natum planxit, non nata parentem, / non orbata parens deflevit funera nati / nec germanorum mortem flevere sorores; / nec bellum pax ulla ligat pretiumve redemit: / una manus tantum bellum compressit inermis.
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di natura ecfrastica 23, trasmesso dal codice Salmasiano e dal codice Vossianus Lat. Q . 86. Riporto, di seguito, il testo del più recente editore Zurli 2007: De Scaevola Lictorem pro rege necans nunc Mucius ultro sacrifico propriam concremat igne manum. Miratur Porsenna virum poenamque relaxans † maxima † cum obsessis foedera victor init. Plus flammis patriae confert quam voverat armis una domans bellum funere dextra suo. 1 Licturem (c ex t alt. m.) V negans A (mg. corr. m. rec.) mutius A an ultor? 2 manu V 3 penamq; A 4 maxima AV plerisque suspectum mutua SB mitia (prob. Watt) vel mox rata Courtney cũ s. l. et obs- ex poss- V fędera A iniit V patrię A patre V uouerat A interpr. Ziehen et Courtney (‘quam – scil. dextra subiect. – voverat ‹se conlaturam esse› armis’) armis] maris A (mg. corr. m. rec.) (uouerat servato) aris Petschenig (‘die Eine Rechte, welche er dem Opferaltar geweiht hatte’) satis improbabiliter foruesaturis V iuverat armis Riese (SB) fortibus armis vulg. olim, alii aliter an foverat a.?
Mucio per aver ucciso un littore al posto del re ora di sua spontanea volontà brucia sul fuoco dei sacrifici la propria mano. Porsenna ammira quell’eroe e, condonata la pena, pur vincitore stipula un patto con gli assediati. Riesce utile alla patria più con il fuoco la destra che (Scevola) aveva destinata a maneggiare le armi, essa sola facendo cessare la guerra con il suo sacrificio (trad. N. Scivoletto in Zurli 2007).
La vicenda di Muzio viene ricordata nei suoi momenti salienti secondo la versione che Livio dà dei fatti: l’ardimentoso romano, ucciso per errore un membro del seguito del re al posto di Porsenna, brucia la sua mano destra sul fuoco sacrificale; il suo coraggio e amor di patria stupiscono fortemente il re etrusco, il quale decide di lasciarlo libero e di cessare l’assedio dei Romani. Gli elementi del plot liviano ci sono tutti, e si noti che della vicenda esistevano formulazioni anche molto differenti: in Dionigi di Alicarnasso (5,28,3), 23 Cf. Kay 2006, 271, che sottolinea l’uso di ‘segnali’ linguistici tipici dell’ekphrasis, quali i verbi descrittivi al presente e l’avverbio nunc al v. 1. L’avverbio, in verità, non risulta del tutto perspicuo nel contesto poetico: che non sia da correggere con hunc, con traiectio rispetto a lictorem, postulando un errore del copista indotto dall’omeoarto con necans? L’uso del dimostrativo, del resto, sarebbe una ancora più decisiva spia linguistica per sostenere che qui il poeta stia descrivendo una particolare rappresentazione (pittorica o scultorea) della leggenda. Si noti, peraltro, che il carme è trasmesso nel codice Salmasiano subito dopo un ciclo di tre carmi dichiaratamente ecfrastici dedicato alla ninfa Galatea (cc. 151-154 Riese2 = 140-143 Shackleton Bailey = Vnius Poetae Sylloge 62-65 Zurli).
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ad esempio, manca totalmente la vicenda dell’automutilazione; in Valerio Massimo (3,1) Muzio non uccide nessuno, e viene arrestato solo per aver tentato l’impresa 24. Ora, l’epigramma non solo si allinea alla versione liviana per quanto concerne i capisaldi della vicenda ma presuppone, a mio parere, una conoscenza diretta del testo di Livio, come dimostrano alcune riprese verbatim del dettato liviano (che non trovano invece corrispondenze in Floro 25 o nelle Periochae 26). Una prima prova della conoscenza diretta di questo passo liviano da parte dell’anonimo poeta è proprio l’espressione in apertura del componimento lictorem pro rege necans (v. 1), che parrebbe ricalcata su quella liviana scribam pro rege obtruncat (2,12,7). La menzione del lictor si distacca dal testo liviano, in cui si parla di uno scriba seduto accanto al re 27 ed abbigliato in modo simile a quest’ultimo (pari fere ornatu): l’anonimo poté essere influenzato da Mart. 1,21, che costituisce un’importante riduzione epigrammatica dell’episodio liviano 28, in cui in luogo dello scriba si parla di un satelles, una guardia che sta vicino al re (e forse Marziale stesso è stato influenzato da Liv. 2,12, 8, che parla dei satellites regii i quali ar Valerio Massimo si basa sulle Periochae, piuttosto che su Livio, come dimostrano alcune forti consonanze testuali (Liv., perioch. 2, conprehensus inpositam manum altaribus, in quibus sacrificatum erat, exuri passus est ~ Val. Max. 3,1, iniectam foculo exuri passus est). 25 Flor., epit. 1,4,5-6 Mucius Scaevola regem per insidias in castris ipsius adgreditur, sed ubi frustrato circa purpuratum eius ictu tenetur, ardentibus focis inicit manum terroremque geminat dolo. ‘En, ut scias’, inquit, ‘quem virum effugeris; idem trecenti iuravimus’; cum interim – inmane dictu – hic interritus, ille trepidaret, tamquam manus regis arderet. 26 Liv., perioch. 2 Porsenna, Clusinorum rex, bello pro Tarquinis suscepto cum ad Ianiculum venisset, ne Tiberim transiret virtute Coclitis Horati prohibitus est, qui, dum alii pontem Sublicium rescindunt, solus Etruscos sustinuit et ponte rupto armatus in flumen se misit et ad suos transnavit. Accessit alterum virtutis exemplum in Mucio. Q ui cum ad feriendum Porsennam castra hostium intrasset, occiso scriba, quem regem esse existimaverat, conprehensus inpositam manum altaribus, in quibus sacrificatum erat, exuri passus est dixitque tales CCC esse. Q uorum admiratione coactus Porsenna pacis condiciones ferre bellum omisit acceptis obsidibus. 27 Concordano anche Dionigi di Alicarnasso (5,28,2, ove si parla di un grammateus, solo, ma con indosso una toga purpurea), Dione Cassio (cf. Tz., chil. 6,206) e Liv., perioch. 2,12 (occiso scriba, quem rege esse existimaverat). Si noti che Anneo Floro parla di un purpuratus del re (epit. 1,4,5). 28 Cum peteret regem, decepta satellite dextra / ingessit sacris se peritura focis. / Sed tam saeva pius miracula non tulit hostis / et raptum flammis iussit abire virum: / urere quam potuit contempto Mucius igne, / hanc spectare manum Porsena non potuit. / Maior deceptae fama est et gloria dextrae: / si non errasset, fecerat illa minus. Citroni 1975, 76 ritiene che in questa rielaborazione Marziale muova direttamente da Livio o «da fonte vicinissima a Livio». 24
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restano Porsenna dopo l’omicidio, ma di certo il decepta satellite dextra del v. 1 di Marziale non riproduce la struttura della frase liviana che invece viene seguita in modo ligio dall’epigrammista cartaginese) 29. Muzio, dice il poeta al v. 2, compie un gesto estremo, per punire se stesso dell’errore commesso: stende la sua mano nel fuoco acceso per i sacrifici e la brucia, fino in fondo (sacrifico propriam concremat igne manum) 30; l’ignis sacrificus dell’epigramma riecheggia direttamente il fuoco acceso ad sacrificium di Livio (2,12,13, dextramque accenso ad sacrificium foculo inicit). L’indulgenza sulla valenza sacrale del gesto risulta rinforzata da modelli ulteriori che apportano stilemi utili alla considerazione del distico conclusivo: la dextra di Muzio, inizialmente ‘consacrata’ (v. 5, voverat) 31 all’uso delle armi, diventa più utile alla patria proprio in virtù del suo funus, ovvero del suo ‘sacrificio’. Il poeta, infatti, sembra qui dialogare – come dimostrano le analogie sia sul piano concettuale che su quello testuale – con il summenzionato passo draconziano dedicato a Scevola nel libro 3 delle Laudes Dei, ove si asserisce che la mano del Romano fu più utile alla patria proprio in virtù del suo errore (con riecheggiamento della sentenza in chiusa dell’epigramma 1,21 di Marziale, dove la dextra del soldato è ancora una volta personificata): Vnius Poetae Sylloge 66 Zurli,5-6 Drac., laud. dei 3,399-400 Drac., laud. dei 3,406 Mart., epigr. 1,21,7-8
Plus flammis patriae confert quam voverat armis una domans bellum funere dextra suo. … plus prestitit e r r o r ut sine morte ducis vir tantum laudis haberet. una manus tantum bellum compressit inermis Maior deceptae fama est et gloria dextrae: si non e r r a s s e t , fecerat illa minus.
29 Lo scambio dello scriba con il lictor, entrambi prefigurativi della maiestas regia presso gli Etruschi, potrebbe essere intervenuto in considerazione della vicinanza fisica del littore al re (a maggior ragione nel caso del lictor proximus, la guardia dal grado gerarchico più elevato e la più vicina al re, dalla lealtà della quale dipendeva l’incolumità fisica dello stesso). Si noti, per di più, che anche le evidenze archeologiche, con particolare riferimento a cippi di area etrusca, confermano la presenza congiunta del lictor e dello scriba a fianco di magistrati (cf. Colonna 1976). 30 Il verbo concremare è usato in poesia raramente e solo a partire da Seneca (Phaedr. 1216 e Phoen. 346), mentre risulta più volte attestato in Livio (3,7,53; 5,6,42; 6,5,33; 38,2,23; etc.). 31 La lezione ms. quam voverat armis, spesso emendata dagli editori, è invece difesa da Ziehen e Courtney.
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Di fronte all’automutilazione inflittasi dal Romano, il Porsenna di Livio resta sbigottito, attonitus miraculo rex (il poeta africano sembra peraltro richiamare anche questa espressione liviana al v. 3: miratur Porsenna) 32 e sancisce la liberazione del soldato con un’espressione dichiaratamente giuridica, nunc iure belli liberum te, intactum inviolatumque hinc dimitto (2,12,14). Il tenore giuridico di queste espressioni fu colto evidentemente dal poeta cartaginese che le attualizzò nel suo poenamque relaxans 33, al v. 3, volto ad esprimere mediante tecnicismi giuridici tardolatini il ‘condono’ della pena. E ancora, al v. 4 dell’epigramma, il participio obsessis usato in riferimento ai Romani, coi quali Porsenna decide dunque di stipulare un patto, fa il paio con l’espressione populum Romanum… obsessum di Liv. 2,12,3 (che non trova riscontri analoghi in Floro o nelle Periochae). Se l’autore del nostro epigramma conosceva dunque Livio, quantomeno i primi libri, e non solo i suoi compendi – come crederei di aver dimostrato – il testo liviano può diventare allora anche un utile strumento al servizio della constitutio textus, laddove la tradizione manoscritta non risulta del tutto perspicua e ha suscitato dubbi negli editori. Si veda ad esempio la lezione ms. ultro, in chiusa al v. 1. L’ultimo editore, Zurli, ha proposto dubitativamente, in apparato, la congettura ultor che mi pare si possa difendere proprio col richiamarsi alla presentazione iniziale che Livio fa di Muzio e delle motivazioni della sua impresa, volta proprio a vendicare il disonore (2,12,3, indignitatem vindicandam) in cui versava il popolo romano, nuovamente oppresso dagli Etruschi. L’idea e il lessico della vendetta ritorna poco dopo, allorquando Livio riporta il discorso di Muzio al Senato: le motivazioni che lo spingono, sostiene con enfasi retorica il Romano, non sono di scarso momento; il suo scopo non è 32 Anche Marziale utilizza saeva… miracula (epigr. 1,21,3), sulla scorta di Livio. Si veda anche Liv., perioch. 2 admiratione coactus Porsenna. 33 Nel senso analogo di ‘condonare una pena’ la locuzione giuridica poenam relaxare si trova nella quaestio 67 della Summa Theologiae II-2 (relativa alla giustizia umana e alla iniustitia accusatoris in accusando) di San Tommaso d’Aquino: Utrum licite possit poenam relaxare. Come termine tecnico del lessico giuridico relaxare (crimina, veniam, reum) risulta attestato anche nel codex Theodosianus (relaxare veniam, 6,4,22,21; …aut noverint crimina nec fugae latebris nec indulgentiis relaxanda, 8,4,15,7; …liberata re publica tyrannidis iniuria omnium criminum reos relaxari praecipimus, 9,38,12).
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predare o limitarsi soltanto a vendicare l’assedio in corso, ma portare piuttosto a termine un’impresa ben più importante: non praedo nec populationum in vicem ultor, maius si di iuvant in animo est facinus (2,12,5); Muzio non vuole dunque essere un ultor di poco conto, ma il vendicatore ‘ideologico’ del suo popolo per mezzo di un’impresa che gli conferirà gloria imperitura. Il testo di Livio si potrebbe rivelare utile sinanche in vista della crux inserita dall’editore Zurli al v. 5: † maxima† cum obsessis foedera victor init. I codici leggono concordemente maxima, lezione ritenuta giustamente sospetta dalla maggioranza degli editori, i quali hanno avanzato varie proposte emendative (mutua Shackleton Bailey; mitia Watt; mox rata Courtney) 34, non sempre convincenti sotto il profilo paleografico della genesi dell’errore. Il verso in questione dell’epigramma è dedicato all’ultimo nucleo narrativo della leggenda, ovvero alla ratifica della pace, per volere di Porsenna victor, con i Romani. Nel testo liviano Porsenna si affretta ad offrire proposte di pace ai Romani (2,13), intimorito dalla dichiarazione di Muzio dell’esistenza di altri trecento valorosi che, come lui, avevano giurato di attentare alla sua vita. Ed è ancora ribadendo la ratifica della pace – composita pace – che termina il racconto del l’episodio 35. La lezione ms. maxima potrebbe allora essere emendata, proprio sulla scorta del liviano composita pace, con pax iam (postulando che paxiam in scriptio continua sia stato letto maxima a seguito di caduta della lettera marginale p e per interferenza della lettera m incipitaria del v. 4). Non senza esitazione, proporrei di correggere con diversa interpunzione: pax iam, cum obsessis foedera victor init (‘e già fu pace, Porsenna, vincitore, stipula patti con gli assediati’). Il poeta anonimo propone dunque una lettura della vicenda in senso ‘tradizionale’, lontana dall’interpretazione polemica di Kay ritiene meritevole la congettura mutua di Shackleton Bailey (basata sul supporto di Claud. 10,65-66), accolta in textu nella sua edizione critica; su questa discussa lezione cf. Shackleton Bailey 1979, 23; Courtney 1989. 35 Anche nella riflessione agostiniana (civ. 5,18) viene sottolineato il motivo della pace ratificata in fretta da Porsenna per la paura di un suo imminente assassinio per mano dei Romani. Si noti che esistono versioni alternative sull’esito dell’assedio di Porsenna: in Plinio il Vecchio, ad esempio, sembra che Porsenna, condotto con successo l’assedio, abbia imposto un umiliante trattato al popolo romano, con la clausola esplicita di non poter usare il ferro se non in agricoltura (nat. 34,139 in foedere, quod expulsis regibus populo Romano dedit Porsina, nominatim comprehensum invenimus, ne ferro nisi in agricultura uterentur). Kay 2006, 271, ritiene che victor al v. 4 del carme De Scaevola sia un’allusione a questa tradizione alternativa della vicenda. 34
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Fulgenzio e Draconzio, autore coevo che comunque egli conosce e imita (come abbiamo avuto modo di dimostrare anche per questo componimento) 36 e lo fa muovendo direttamente dal testo di Livio. Nell’anonimo – così come negli altri poeti della Salmasiana – l’orgoglio identitario e l’edificante rievocazione del passato romano prevalgono sul senso di sollecitudo animi (relegato consapevolmente allo spazio del non-detto poetico) dettato dalle contingenze del presente e l’intento sembra dunque quello di omaggiare e ricordare con orgoglio ai Vandali, nuovi signori, i grandi valori del passato leggendario di Roma; i valori, cioè, dei signori di un tempo.
Bibliografia Audano 2009 = S. Audano, Agostino tra Bruto, Livio e Virgilio (civ. 3, 16; 5, 18): un possibile tirannicidio cristiano?, in F. Gasti (a cura di), Agostino a scuola: letteratura e didattica. Atti della giornata di studio di Pavia (13 novembre 2008), Pisa 2009, 103-153. Bergasa – Wolff 2016 = I. Bergasa – É. Wolff (édd.), Épigrammes latines de l’Afrique vandale, Paris 2016. Cameron 2011 = A. Cameron, The Last Pagans of Rome, Oxford 2011. Canfora 1993 = L. Canfora, Studi di storia della storiografia romana, Bari 1993. Citroni 1975 = M. Citroni (ed.), M. Valerii Martialis Epigrammaton liber primus, Firenze 1975. Colonna 1976 = G. Colonna, Scriba cum rege sedens, in J. Heurgon (éd.), L’Italie préromaine et la Rome républicaine. Mélanges offerts à Jacques Heurgon, vol. I, Roma 1976, 187-195. Courcelle 1948 = P. Courcelle, Histoire littéraire des grandes invasions germaniques, Paris 1948. Courtney 1989 = E. Courtney, Supplementary Notes on the Latin Anthology, C&M 40, 1989, 197-211. Courtois 1955 = C. Courtois, Les Vandales et l’Afrique, Paris – Alger 1955. De Gaetano 2009 = M. De Gaetano, Scuola e potere in Draconzio, Alessandria 2009. Fabbrini 1979 = F. Fabbrini, Paolo Orosio, uno storico, Roma 1979.
36 Che l’anonimo poeta imiti Draconzio è ormai dato concordemente accettato dagli studiosi (per un quadro sintetico sulla questione, con bibliografia di riferimento, cf. Bergasa – Wolff 2016, XIX e n. 31).
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Hagendahl 1967 = H. Hagendahl, Augustine and the Latin Classics, vol. II, Göteborg 1967. Hays 2004 = G. Hays, ‘ Romuleis Libicisque Litteris’: Fulgentius and the ‘ Vandal Renaissance’, in A. H. Merrills (ed.), Vandals, Romans and Berbers. New Perspectives on Late Antique North Africa, Aldershot 2004, 101-132. Heikkinen 1997 = R. Heikkinen, A Moral Example in Seneca: C. Mucius Scaevola, the Conqueror of Bodily Pain, in J. Vaahtera – R. Vainio (edd.), Utriusque linguae peritus. Studia in honorem Toivo Viljamaa, Turku 1997, 63-72. Kaster 1988 = R. A. Kaster, Guardians of Language. The Grammarian and Society in Late Antiquity, Berkeley – Los Angeles – London 1988. Kay 2006 = N. M. Kay, Epigrams from the Anthologia Latina. Text, Translation and Commentary, London 2006. Momigliano 1968 = A. Momigliano, Storiografia pagana e cristiana nel sec. IV d.C., in A. Momigliano (a cura di), Il conflitto fra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, trad. ital., Torino 1968, 89-110. Münzer 1933 = F. Münzer, Mucius, in RE XVI,1, 1933, coll. 416-423. Ogilvie 1970 = R. M. Ogilvie, A Commentary on Livy, Books 1-5, Oxford 19702 (19651). Shackleton Bailey 1979 = D. R. Shackleton Bailey, Toward a Text of Anthologia latina, Cambridge 1979. Stella 1988 = F. Stella, Fra retorica e innografia: sul genere letterario delle “Laudes Dei ” di Draconzio, Philologus 132, 1988, 258-274. Van Nuffelen 2012 = P. Van Nuffelen, Orosius and the Rhetoric of History, Oxford 2012. Vössing 1997 = K. Vössing, Schule und Bildung im Nordafrika der römischen Kaiserzeit, Bruxelles 1997. Zecchini 1993 = G. Zecchini, Ricerche di storiografia latina tardoantica, Roma 1993. Zurli 2007 = L. Zurli (ed.), Vnius Poetae Sylloge (Anthologia Latina, cc. 90197 Riese = 78-188 Shackleton Bailey), con traduzione di N. Scivoletto, Hildesheim 2007.
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LIVIO E OROSIO IN AL-ANDALUS (CORDOVA, X SECOLO d.C.)
In una sua fondamentale monografia di quarant’anni fa, Fabrizio Fabbrini ha messo perfettamente in luce come la grande opera storiografica di Tito Livio sia alla base delle Historiae adversus paganos di Paolo Orosio, uno dei più importanti testi storici latini della tarda antichità 1. Sebbene alcuni studiosi escludano una derivazione diretta di Orosio da Livio, che Orosio conosca Livio senza intermediari può essere tranquillamente affermato, non solo da vari confronti testuali ma anche dal fatto che nella biblioteca di Ippona, ove Orosio, già ordinato sacerdote, raggiunse il suo maestro Agostino nel 414, esisteva una copia integrale dell’opera liviana. Ma tutto ciò è certamente ben noto agli antichisti. È invece forse meno conosciuta la vicenda concernente la trasmissione al mondo arabo medievale dell’impalcatura liviana della storia di Roma (e di molti dettagli narrati dallo stesso Livio) per il tramite di Orosio. L’esistenza di una traduzione araba delle Historiae adversus paganos di Paolo Orosio era già nota agli arabisti occidentali fin dal XIX secolo soprattutto grazie alle informazioni in merito offerte da Ibn Gˇulgˇul (m. 384/994) e Ibn Haldūn (m. 808/1406) 2. Ma la scoperta del testo poi comunemente˘ noto come Kitāb Hurūšiyūš 3 avvenne solo all’inizio degli anni ’30 del secolo successivo 4. A far Fabbrini 1979. Per una storia dettagliata degli studi concernenti il Kitāb Hurūšiyūš vd. ora Penelas 2001, 17-19 e 83-96. Cf. anche da ultimo Saßenscheidt 2018. 3 In realtà il manoscritto unico dell’Orosio arabo appartenente a The Rare Book and Manuscript Library della Columbia University di New York (X, 893. 712 H) riporta alternativamente la lezione Harūšyuš o Harūšiyûš, mentre Ibn Haldūn e Maqrīzī lo citano come Kitāb Hirūšiyūš; Kitāb Hurūšiyuš o Kitāb Hurūšyūš: ˘quest’ultima è la forma più diffusa negli studi. Vd. Penelas 2001, 13 con n. 1. 4 Martinovitch 1929, 224, nr. 18, e Martinovich 1931. 1 2
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 643-652 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125348
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M. DI BRANCO
conoscere questo testo straordinario agli studiosi di tutto il mondo fu Giorgio Levi Della Vida, che pubblicò un lungo saggio (che resta ancora oggi una pietra miliare sia dal punto di vista dei contenuti sia da quello metodologico) consacrato appunto alla versione araba delle storie di Orosio 5. Purtroppo, Levi Della Vida non ebbe il tempo di dedicarsi all’edizione completa del testo, impresa che fu invece tentata molti anni dopo, nel 1982, da ‘Abd al-Rahmān Badawī, con risultati alquanto discutibili 6. La recente edizione del Kitāb Hurūšiyūš da parte di Mayte Penelas è venuta infine a colmare una lacuna fondamentale nel campo degli studi di storiografia araba, anche se manca tuttora un adeguato commento dell’opera, che metta insieme competenze di arabistica e di storia e filologia classica 7. Il Kitāb Hurūšiyūš è menzionato – e citato – da un certo numero di autori arabi medievali 8, dalle cui testimonianze evince che un manoscritto delle Historiae adversus paganos fu donato al primo califfo andaluso, ‘Abd al-Rah ̣mān III al-Nāsiṛ (300/912-350/961), dall’imperatore bizantino Armāniyūs (cioè Romano II) nell’anno 337/948. Il testo fu tradotto per il figlio di ‘Abd al-Rah ̣mān III, al-Ḥakam II al-Mustansiṛ (che nel 350/961, alla morte del padre, assunse il califfato di al-Andalus), dal giudice (qād ̣ī) dei cristiani di Cordova Ḥafs ̣ al-Q ūtị̄ e da Q āsim ibn As ̣baġ al-Bayyānī, istitutore del califfo al-Ḥakam e personaggio molto noto nella storia religiosa e culturale della Spagna musulmana, che venne poi sostituito da un altro traduttore musulmano 9. Il cristiano dovette mettere a disposizione del collega la propria conoscenza del latino e della tradizione storica classica, quale essa fosse, e il musulmano dovette curare la forma letteraria dell’arabo e dare al testo una patina stilistica che lo rendesse accettabile al pubblico musulmano. Già Levi Della Vida, nella sua esemplare e insuperata analisi filologica del Kitāb Hurūšiyūš, aveva naturalmente messo in luce come tale scritto fosse qualcosa di molto diverso da una semplice Levi Della Vida 1951. Badawī 1982. Vd. le giuste riserve espresse da Molina 1984, 63-64, e da Penelas 2001, 91-96. 7 Una traduzione inglese e un commento storico-filologico del Kitāb Hurūšiyūš sono in preparazione da parte dello scrivente nell’ambito del progetto Marie Curie H2020, OROARAB, MSCA-IF-2017: The Orosius Arabicus and the Arab Vision of the Graeco-Roman World. Researches on the Mediterranean Responsiveness. 8 Per l’elenco completo di queste fonti vd. Daiber 1984, 203. 9 Per maggiori dettagli, vd. Di Branco 2009, 143-189. 5 6
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traduzione e contenesse al suo interno «un laborioso centone» di fonti introdotte sull’impalcatura dell’opera orosiana, senza tuttavia turbarne la linea generale 10. In effetti il testo arabo, anche dal punto di vista formale, non si identifica precisamente con il suo modello latino, e anzi sembra prenderne in qualche modo le distanze. Elementi degni di nota, a questo proposito, sono l’uso della formula ‘ha detto Orosio’ (qāla Hurūšiyūš) per introdurre i passi specificamente orosiani e distinguerli dalle notizie derivate da altre fonti, e le molte libertà nei confronti della lettera del dettato latino rivendicate in maniera esplicita dai traduttori, che, per esempio, intervengono sull’onomastica dei personaggi citati (rendendola compatibile con quella araba), inseriscono genealogie immaginarie e dichiarano di aver soppresso un certo numero di notizie contenute nelle Historiae perché «non corrispondono allo scopo di questo libro» 11. Tuttavia, secondo Levi Della Vida, questo minuto lavorìo di interpolazione non sarebbe stato eseguito dai traduttori arabi, ma da un ‘rimaneggiatore’ latino di Orosio, che volle «fornire ai suoi lettori un manuale completo della storia universale, che non avrebbero potuto trovare nelle Historiae adversus paganos» 12. Q uesta tesi dello studioso italiano è stata accolta e fatta propria da Hans Daiber, per il quale «die arabische Version geht auf eine lateinischen Bearbeitung des bekannten Orosiustextes zurück» 13. Al contrario, Luis Molina e Mayte Penelas, pur non discutendo esplicitamente la questione, attribuiscono il lavoro di scelta e di elaborazione delle fonti aggiuntive rispetto alle Historiae orosiane ai traduttori 14. Alla luce del fondamentale studio di Dimitri Gutas sulle traduzioni di testi greci in lingua araba nella Baghdad abbaside e delle lucide riflessioni di Cristina D’Ancona 15, che hanno mostrato come simili contaminazioni siano un tratto caratteristico dell’opera dei traduttori arabi medievali, appare molto più plausibile l’ipotesi dei due studiosi spagnoli, anche perché lo stesso Levi Della Vida ammette di non conoscere «alcun esempio di una compilazione di tal fatta» 16. Per quanto riguarda invece il problema delle cita 12 13 14 15 16 10 11
Levi Della Vida 1951, 279. Cf. anche Molina 1984, 92. Levi Della Vida 1951, 270 e 282. Ivi, 274. Daiber 1984, 204. Molina 1984, 88-92, e Penelas 2001, 43-66. Gutas 2002, 164-165, e D’Ancona 2005, 180-258. Levi Della Vida 1951, 281.
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zioni pseudo-orosiane (cioè quei passi attribuiti a Orosio da alcuni autori arabi che tuttavia non si trovano né nelle Historiae adversus paganos né nello stesso Kitāb Hurūšiyūš) 17, dall’analisi della sezione greco-romana del Kitāb al-‘Ibar di Ibn Haldūn (che attinge a piene mani alla traduzione araba dell’opera˘ orosiana) sembra venir confermata la tesi di Levi Della Vida riguardo l’esistenza di almeno due diverse versioni arabe interpolate di Orosio 18. D’altra parte, recenti lavori di Gerhard Endress, Mohsen Zakeri e dello stesso Gutas hanno messo in luce come fra i traduttori arabi il concetto di authorship fosse alquanto flessibile (basti pensare alla disinvoltura con la quale essi giungevano ad attribuire ai filosofi greci détti di origine avestica o alla creazione di quello che è stato efficacemente definito da Endress un ‘Aristotele virtuale’, cioè un complesso di testi neoplatonici attribuiti appunto ad Aristotele) 19: non c’è dunque da stupirsi della poca ‘stabilità’ di un testo come il Kitāb Hurūšiyūš, le cui caratteristiche ne facevano già all’origine una sorta di ‘opera aperta’ 20. Al di là delle questioni specifiche, l’analisi di Levi Della Vida è in generale ampiamente condivisibile. In particolare, resta più che mai valida la sua riflessione sulle motivazioni dell’operazione culturale costituita dalla realizzazione del Kitāb Hurūšiyūš, che, come si è detto, è qualcosa di molto diverso da una semplice traduzione letterale. Per Levi Della Vida, infatti, il non comune sforzo ermeneutico e il minuto lavoro di interpolazione alla base del testo ha non solo lo scopo di condurre la narrazione fino alla conquista araba (come si evince dal particolareggiato indice premesso alla traduzione) 21, ma anche e soprattutto quello di adattare il contenuto delle Historiae orosiane – le quali «per l’intento polemico che si propongono trascurano interamente la storia sacra e della profana trascelgono soltanto ciò che si presta meglio allo scopo dell’opera» 22 – alla pro Ivi, 292. Ivi, 293. 19 Vd. Zakeri 1994, 92-102; Endress 1997, 1-2, e D’Ancona 2005, 207-208. 20 Per quanto invece riguarda il problema di alcune citazioni orosiane, contenute in testi di àmbito andaluso, che sembrano più aderenti all’originale latino rispetto alla versione del Kitāb Hurūšiyūš (Levi Della Vida 1951, 288-291), vd. le giuste osservazioni di Daiber 1984, 233-234, n. 222, secondo cui non va escluso che in ambiente mozarabo si possa aver proceduto autonomamente alla traduzione dal latino in arabo di sezioni del testo orosiano. 21 Levi Della Vida 1951, 266-267. 22 Ivi, 279. 17 18
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spettiva provvidenzialistica della storiografia medievale, per la quale storia sacra e storia profana si integrano in un unico racconto 23. Il fatto che egli attribuisca tale sforzo a un anonimo interpolatore latino e non – come sembra più plausibile – ai traduttori arabi, non toglie nulla all’importanza della sua analisi. In ogni caso, va qui sottolineato che, dal punto di vista spirituale, il racconto della storia romana che giunge, attraverso Orosio, ai lettori arabi di al-Andalus è liviano di spirito e di orientamento storiografico: nonostante le sue critiche alla storia romana, Orosio non ha infatti distrutto il quadro che di quella storia aveva dato Livio, la cui visione raggiunge, con Dante, il Medioevo occidentale e, con il Kitāb Hurūšiyūš, il mondo islamico dell’area andalusa e maghrebina. Un notevole pregio del lavoro di Levi Della Vida è la mirabile accuratezza della sua ricognizione delle fonti del Kitāb Hurūšiyūš. In effetti egli ha individuato la provenienza di tutte le principali aggiunte al testo orosiano, appunto derivate da vari libri della Bibbia (soprattutto da quelli storici), dai Chronica Maiora e dalla Historia Gothorum Vandalorum Sueborum di Isidoro di Siviglia, dalla cosiddetta Continuatio Isidori Hispana, dalla Cosmographia Iulii Honorii, dal Chronicon di Eusebio/Gerolamo e dalla Storia ecclesiastica di Eusebio/Rufino 24. A questa documentazione più propriamente storica si affiancano poi alcune fonti di tipo diverso, come le Etymologiae di Isidoro, versi virgiliani e pseudo-virgiliani e gli Actus Sylvestri. Un ruolo importante nella fusione di tali complementi con il dettato delle Historiae adversus paganos deve aver esercitato certamente il giudice dei cristiani Ḥafs ̣ al-Q ūtī:̣ d’altra parte è noto come a Cordova, durante il califfato di al-Ḥakam, oltre a testi biblici furono tradotte dal latino anche molte opere ‘profane’ 25. Il compito di rendere in arabo l’elaborato stile orosiano era estremamente improbo per i due traduttori, tanto più che la materia trattata nelle Historiae doveva esser quasi del tutto ignota non soltanto al traduttore musulmano, ma allo stesso traduttore cristiano. Deve riconoscersi che essi hanno fatto quanto potevano per comprendere il significato non soltanto del racconto ma anche delle digressioni polemiche e delle riflessioni dottrinali che l’originale presenta con 23 Sulla diversità della prospettiva storica orosiano-agostiniana rispetto a quella di uno degli autori più utilizzati dai traduttori arabi per le loro interpolazioni, Isidoro di Siviglia, vd. Hillgarth 1970, 261-311 e soprattutto Merritt Bassett 1976. 24 Levi Della Vida 1951, 269-278. Cf. anche Penelas 2001, 47-66 e 99-119. 25 Vd. soprattutto Van Koningsveld 1994, 17, con n. 64.
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frequenza. Incomprensioni del testo, nei luoghi in cui esso esce dalla piana e semplice narrazione si incontrano molto spesso; e tuttavia, nell’insieme, lo sforzo d’intendere e rendere il significato del latino di Orosio è davvero ammirevole, e spesso è stato coronato dal successo 26. Nonostante le cautele di Levi Della Vida che – probabilmente per modestia – non enfatizza la portata della sua scoperta 27, va messa in giusto in rilievo la straordinaria importanza della traduzione araba di Orosio: essa infatti ha lasciato una profonda impronta nella storiografia dell’Occidente islamico, venendo a costituire per molti intellettuali arabi la porta di accesso privilegiata al mondo greco-romano. Nel Kitāb Hurūšiyūš la storia greca e romana, che fu oggetto di faticose ricerche da parte degli autori arabi ‘orientali’, si staglia prepotentemente al centro della scena senza più filtri e mediazioni. Al testo è premesso un minuzioso indice dei libri e dei capitoli: i primi corrispondono alla divisione delle Historiae adversus paganos, i secondi costituiscono invece delle sezioni completamente nuove (Penelas 2001, 7-16). I lemmi dei libri e dei capitoli espongono dettagliatamente l’argomento degli uni e degli altri. Purtroppo, il manoscritto è acefalo ed è probabile che il recto del primo dei due fogli caduti ne avesse costituito il frontespizio, come accade spesso nei manoscritti arabi; nel verso e in parte del foglio seguente si sarebbe dovuta trovare la prefazione dei traduttori, che forse recava indicazioni relative alle circostanze della composizione della traduzione, da dove Ibn Haldūn può aver tratto le notizie che ci ha tramandate sugli autori˘ e sul tempo in cui essa fu portata a termine. Purtroppo, proprio questa parte, che sarebbe stata di enorme importanza per noi, è stata sottratta alla nostra conoscenza. Per giunta, anche gli ultimi fogli del manoscritto sono andati perduti, e ciò fa sì che la narrazione si interrompa bruscamente poco prima della fine delle Historiae, che, com’è noto si fermano al 417 d.C. Il primo libro inizia con la dedica ad Agostino (Penelas 2001, 17-21), dopo il quale sono poste due introduzioni geografiche (Penelas 2001, 21-42), la seconda delle quali ripresa dalla Cosmographia Iulii Onorii. Segue un’ampia trattazione di storia sacra (Penelas 2001, 42-125), in gran parte dipendente da passi biblici e dai Chro Levi Della Vida 1951, 282. Ivi 288.
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nica maiora isidoriani, alla quale, come nelle analoghe esposizioni di Livio, Eusebio/Gerolamo e Giovanni Malala, si intrecciano notizie sulla storia ‘mitica’ delle città greche e naturalmente il racconto orosiano, che solo dalla fine del primo libro assume le caratteristiche di asse portante della narrazione. Non è senza emozione che si leggono, per la prima volta in lingua araba, i fatti della guerra di Troia e la vicenda del cavallo (Penelas 2001, 80-81), le gesta dei difensori dell’Ellade contro i Persiani (Penelas 2001, 95-101), il nome di Pericle (Penelas 2001, 124), il racconto della Guerra del Peloponneso (Penelas 2001, 121 e 132-173), le grandi imprese della Repubblica romana. Con il Kitāb Hurūšiyūš si disvela al mondo islamico tutta quella parte di storia del mondo classico che era rimasta celata dietro il doppio schermo della prospettiva provvidenzialistica delle cronache bizantine introiettata dagli storici arabi ‘d’Oriente’ e del disinteresse di queste stesse cronache per i miti e le vicende delle repubbliche. Non è forse un caso che questa rivelazione avvenga attraverso una serie di testi – quelli che compongono la fitta trama della traduzione araba dell’opera orosiana – fondamentalmente estranei alla cultura bizantina. Per definire Greci e Romani, i traduttori fanno uso di un’ampia gamma di termini. In primo luogo troviamo qui impiegata l’espressione al-aǧ am, che sebbene generalmente applicata ai Persiani convertiti all’Islām durante i primi due secoli del dominio islamico, nel Maġrib e in al-Andalus ritrova il suo significato originario di ‘non-arabo’ e viene a designare Greci, Romani e Bizantini (ma anche gli Ebrei) 28. Inoltre, si evidenzia un uso ‘anomalo’ della parola Rūm, assai diverso da quello che di essa vien fatto in àmbito ‘orientale’: nel Kitāb Hurūšiyūš, Rūm esprime infatti un concetto piuttosto allargato, che corrisponde grosso modo alla nostra idea di abitante del mondo ellenistico-romano, nella più vasta accezione comprendente anche Bisanzio. Esso ha dunque bisogno di essere ulteriormente specificato: di conseguenza si ricorre a espressioni quali al-Rūm al-ġirīqiyyūn (o semplicemente al-Ġirīqiyyūn), ‘i Greci’; al-Rūm al-yūnāniyyūn (o semplicemente al-Yūnāniyyūn), di nuovo ‘i Greci’; al-Rūm al-ġirīqiyyūn al-ātiniyāšiyyūn (o semplicemente al-Ātiniyāšiyyūn), ‘gli Ateniesi’; al-Rūm al-lat ̣īniyyūn (o semplicemente al-Lat ̣īniyyūn), ‘i Latini’; al-Rūmāniyyūn (o semplicemente al-Rūm), ‘i Romani’. Vd. Di Branco 2009, 158-161.
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Q ueste sovrapposizioni terminologiche e concettuali sono provocate dall’incrocio fra il testo orosiano, con il suo preciso lessico tecnico, e la tradizione ‘orientale’ in cui l’opposizione fondamentale era, molto più semplicemente, quella fra Rūm e Yūnāniyyūn e l’unico punto controverso riguardava il discrimine fra Greci e Bizantini. In effetti i traduttori di Orosio, pur essendo andalusi, non potevano certo ignorare tale impostazione e hanno dunque tentato, con più o meno successo, di rivisitarla alla luce del testo delle Historiae adversus paganos. Tuttavia una simile abbondanza terminologica, in un contesto che – nonostante gli encomiabili sforzi messi in atto – non era in grado di padroneggiare l’enorme mole delle informazioni da essa presupposte, non poteva non essere foriera di qualche confusione. Ad esempio, la parola al Yūnāniyyūn viene indifferentemente utilizzata per indicare i Greci ma anche, in senso stretto, gli Ioni, ritornando, forse inconsapevolmente, al significato originario del termine in questione: così, Troia diviene madīnatu ’l-lat ̣īniyyīn, etc. Al contrario, il Kitāb Hurūšiyūš contribuisce a eliminare (sia pure non del tutto) l’equivoco lessicale e ‘ideologico’ che porta soprattutto i geografi arabi medievali a confondere e a sovrapporre nelle loro descrizioni Roma a Costantinopoli, la ‘vecchia’ alla ‘nuova’ Roma. In effetti, in questo tipo di letteratura, per definire le due città si utilizzavano gli stessi termini: Rūmiya, un caso interessante di paradigma rifatto su un esempio non pertinente (una finale –ia greca vs. a, come nel caso di toponimi quali Antākiya, Nīqiya e Afāmiya) 29, o Rūmiyya, forma aggettivale coniata sul corrispondente sostantivo Rūm: con buona pace di Giuseppe Mandalà, che sostiene il contrario basandosi su un vecchio intervento di Ignazio Guidi (nel quale, peraltro, ancora si confondono le descrizioni arabe di Roma con quelle di Costantinopoli) 30, è del tutto evidente che Rūmiyya era la forma originale, giacché essa, per storici e geografi Sulla questione vd. ora Di Branco 2009, 223-230. Secondo Mandalà 2014a, 69, n. 57, Rūmiya è da considerare, secondo terminologia araba, un nome di luogo originario, o murtagˇal, adattato alla fonetica e alle regole della lingua araba, alla stregua di Ḥalab, Ġarnāt ̣a, Išbiliya, Ušbūna. Ma proprio gli esempi scelti dallo studioso mostrano come il caso di Roma/Rūmiya costituisca piuttosto un’eccezione: l’unico parallelo apparente è quello di Hispalis/Išbiliya, ma il fatto che tale nome non derivi dal latino Hispalis, ma dalla forma intermedia Sibilia (vd. ad es. Barea 2013, 66-67), rende evidente che il fenomeno della trasformazione del nome latino di Roma in quello di Rūmiya non può spiegarsi unicamente all’interno delle regole della lingua araba. 29 30
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arabi è appunto in primis la città dei Rūm, la capitale del nuovo impero romano che procede sulle orme dell’antico, cioè, appunto, Costantinopoli, esattamente come al-Ankubardiyya è la terra dei Longobardi (bilād al-Ankubardiyyīn) e Q us ̣t ̣unt ̣īniyya è la città di Costantino 31. Negli autori arabi d’Occidente il nome di Roma divenne invece, in maniera più semplice e corretta, Rūma o Rūmā (mentre Costantinopoli è chiamata Q us ̣t ̣unt ̣īniyya o Q us ̣t ̣unt ̣īna). In questo processo di puntualizzazione, che può sembrare ovvio, ma che invece ha eliminato una serie notevole di incredibili malintesi, il ruolo della traduzione araba delle storie orosiane, con l’ampia gamma di informazioni storiche e terminologiche che essa mette a disposizione della cultura islamica, appare assolutamente fondamentale. Nel testo arabo, sono riferibili a Livio, per il tramite orosiano, tutti i dettagli che riguardano i prodigia connessi con la politica romana, la narrazione della guerra annibalica, la condanna dei Gracchi, la riprovazione della crudeltà di Silla, il giudizio negativo su Spartaco. Ma soprattutto, va sottolineato come in essi riecheggi in maniera sostanziale quella prospettiva universalistica che informa l’opera orosiana e che giustamente Fabbrini fa derivare da Polibio, da Pompeo Trogo e dallo stesso Livio. Q uanto alle citazioni liviane dirette, che nell’originale latino sono tre, i traduttori arabi ne riportano solo una, quella relativa al numero di uomini schierati dai Galli e dai Sanniti contro l’esercito romano nella battaglia di Sentinum (Penelas 2001, 190-191). E tuttavia, i traduttori arabi sembrano avere piena coscienza dell’autorevolezza dello scrittore citato: essi infatti, quasi a volerlo presentare al pubblico islamico medievale, lo definiscono con una formula altamente suggestiva: sāḥib al-qis ̣as ̣, ‘il maestro delle storie’. Un appellativo che Livio stesso avrebbe probabilmente apprezzato.
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M. DI BRANCO
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ANN VASALY
LIVY’S PREFACE AND PETRARCH, FAM. 1,1: METHOD AND MEANING IN PETRARCHAN IMITATIO et s’ io mi svolvo dal tenace visco mentre che l’un coll’altro vero accoppio, i’ farò forse un mio lavor sì doppio tra lo stil de’ moderni e ’l sermon prisco che, paventosamente a dirlo ardisco, in fin a Roma n’udirai lo scoppio (‘… and if I free myself from the sticky birdlime, while I join one truth with the other, perhaps I will create a work so double between the style of the moderns and ancient speech that, with trepidation I dare to say it, you will hear its outburst even as far as Rome.’) Petrarch, RVF 40,3-8 1
In The Light in Troy, Thomas Greene’s groundbreaking study of Renaissance poetic imitation, the author quotes from a letter (Fam. 22,2) in which Petrarch lists the texts that he had absorbed deeply in his boyhood 2. Here Petrarch explains to Boccaccio that he had inadvertently quoted from Vergil in several poems due to the fact that certain authors ‘were imprinted, not only on my memory but in the marrow of my bones, becoming so much a part of my character (unumque cum ingenio facta sunt meo) that, even if I were never to read them again throughout my life, they would cling to me, having taken root in the innermost part of my soul (in intima animi parte)’ 3. Greene uses a translation that lists the four authors with whom Petrarch was intimately familiar as Vergil, Horace, Livy, and Cicero, but in fact the Latin actually names Boethius rather than Livy 4. The error should be forgiven. One might well expect Livy to appear in this list, given that his history 1 For hypotheses on the identity of the author (possibly Livy) whose work Petrarch is soliciting in this poem, see Fiorilla 2012, 109-115. Translations are my own unless otherwise noted. 2 Greene 1982, 98-99. 3 22,2,13. 4 22,2,12 apud Virgilium apud Flaccum apud Severinum apud Tullium. Greene’s translation from Bishop 1966.
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 653-671 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125349
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A. VASALY
constituted a seminal text in Petrarch’s early intellectual development and creative engagement with classical literature 5. Following in the footsteps of Paduan ‘proto-humanists’ like Lovati and Mussato, Petrarch avidly sought out manuscripts of the extant books of the Ab urbe condita, which he edited and annotated, as well as drawing on the historian in several major, albeit unfinished, works: the prose De viris illustribus and the epic poem that he regarded as his magnum opus, the Africa 6. Despite clear evidence of Petrarch’s extensive knowledge of and attachment to the Roman historian, however, there has been little scholarly investigation of the importance of Livy to the content and meaning of Petrarch’s letters. In what follows I hope to make a brief contribution in this area by discussing Livy’s influence on the letter that serves as preface to his first epistolary collection in prose.
1. Livian intertexts Petrarch’s introductory letter (Fam. 1,1), addressed to his intimate friend Ludwig Van Kempen, whom he called ‘Socrates’, echoes the preface of Livy’s Ab urbe condita at several key points 7. He begins this letter of 1350 by bemoaning the hopeless condition in which he and Socrates find themselves, having suffered the terrible losses associated with the great plague of 1348, including Petrarch’s patron, Cardinal Giovanni Colonna, and his beloved Laura 8. His laments are cut short by the observation that ‘one should refrain 5 Billanovich 1951, 137-208; 1981 argued that Petrarch, by the age of 26, compiled, corrected, and annotated the first, third, and fourth decades of the AUC, creating the most complete contemporary version of the AUC, a signal event in the history of scholarship. This theory has been questioned, most notably by Michael Reeve 1986; 1987a; 1987b (see also discussions by Briscoe 1991, iii-xxii; Fiorilla 2012, 106122; de Franchis 2015, esp. 11, 13; Feraco 2017, 21-22; Petoletti 2019, 282-287). Petrarch’s knowledge of, and passionate interest in, Livy’s text, however, is uncontested (see, e.g., summary in Assenmaker 2017). In addition to his frequent citation of Livy in the Familiares, note: Fam. 24,1, mentioning his early study (1328-1329) of Livy with Raimondo Subirani; RML 1,2,18 (c. 1343-1345), lamenting the survival of only three decades of the AUC, despite his earlier efforts to locate the second decade at the behest of King Robert; and Fam. 24,8 (1350), addressed to Livy, regretting the survival of only twenty-nine books of the AUC. 6 On Lovati and Mussato, see, e.g., Witt 2000, 81-173. 7 This essay complements the discussion of Cicero’s influence on Fam. 1,1 in Vasaly 2018. On Van Kempen, see Papy 2006. 8 On the letter’s date, see Rossi 1930, 169-174; Antognini 2008, 34, 36, 50. (An intermediate redaction of Fam. 1,1 ends Patavii, ydibus januariis, 1350).
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from complaints, at least at the beginning’ (1,1,3 a querelis saltem in principio temperandum est). The expression surely derives from the quasi-poetic period that ends the preface to Livy’s history: ‘But complaints, which are unwelcome even when they might be required, should surely be omitted at the start of undertaking so great a work’ (praef. 12 sed querellae, ne tum quidem gratae futurae cum forsitan necessariae erunt, ab initio certe tantae ordiendae rei absint). While Petrarch repeats the noun querella, he alters the remaining Livian diction and grammar (saltem for ne tum quidem; in principio for ab initio; temperandum est for absint), thereby transmuting the original enough to claim it as his own, yet retaining a strong echo of a passage that would have been well-known to many of his readers 9. A second Livian echo occurs midway through the letter. Petrarch begins a section predicting that Socrates will take pleasure in the collection with the statement that they ‘fall to you from the manly part of those that remain, such as they are’ (Fam. 1,12 tibi de virili reliquiarum illarum parte obveniunt, qualiacunque sunt) 10. This diction would have summoned a number of associations to Petrarch’s learned readers, probably most strongly the opening lines of the preface of the AUC, in which Livy first expresses doubt about the value of his great undertaking, given that other writers may well obscure his fame, but then asserts that ‘howsoever it may be, it will nevertheless be pleasing for me also to have undertaken to do my manly part to preserve the memory of the deeds of the chief people on earth’ (praef. 2-3 utcumque erit, iuvabit tamen rerum gestarum memoriae principis terrarum populi pro virili parte et ipsum consuluisse). If we are correct in seeing another echo of Livy’s preface in this passage, Petrarch has transformed the historian’s idiomatic phrase pro virili parte – referring to Livy’s patriotic intention of memorializing the history of the Roman people ‘to the best of my manly ability’ – into an ambiguous characterization of the letters that make up the collection as derived from the ‘manly part’ of those that survived his destruction by burning of the majority of them. Petrarch has at the same time transformed Livy’s phrase (utcumque erit), dismissing from further considera9 For two recent overviews on the transmission of Livy’s history, see de Franchis 2015; Maréchaux 2015. 10 Cf. dedication to Seniles (1,1,10): quin hoc ipsum, quicquid erit … eo gratias accipies quo serius.
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tion factors that may undermine the success of his future work, into a casual disparagement of his own work in which, even while asserting that the letters represent the ‘manly part’ of what remains, Petrarch makes no claims for their objective excellence (qualia cunque sunt). Petrarch again draws on Livy’s preface in a series of interconnected images that occur at the end of Fam. 1,1. He embarks on this part of the letter by expressing his shame that the sequence of his collection, since it accurately reflect the ‘condition of [his] mind’ at the time of writing (1,1,33 animi mei status), reveals ‘a life that has slipped into softness’ (1,1,38 vite in mollitiem dilapse). While the early letters are marked by the author’s courageous youthful resistance when confronted by the blows of fortune, the cowardly laments of recent letters will make clear how his ‘step and spirit began to totter’ under ‘the powerful onslaught of the enemy’ (1,1,40 hostis viribus atque impetu labare michi pes atque animus cepit). Petrarch goes on to justify his loss of spirit by asserting that he had met many personal tragedies with no faintness of heart, but when almost all his friends ‘were crushed by a single cataclysm, and when the world itself was also dying, to remain unmoved seemed inhuman rather than brave’ (1,1,41 eisdem [amicis] mox una pene omnibus ruina obrutis, et mundo insuper moriente, inhumani potius quam fortis visum est non moveri). The culmination of these interconnected images of destruction and collapse occurs in a passage that the reader is meant to recognize as a direct quotation of Horace’s Odes 3,3. In section 1,1,46, Petrarch promises that in the future he will resemble the hero who, ‘if the shattered world falls apart, its ruins will strike him unafraid’ (Hor., carm. 3,3,37-38 si fractus illabatur orbis / impavidum ferient ruine). These Petrarchan passages recall the most striking and memorable metaphor Livy employs in his preface. Having warned his readers earlier that the Roman world was threatening to collapse under its own weight (praef. 4 magnitudine laboret sua), Livy closes the preface with a picture of precipitous moral decline: late in its history Rome’s disciplina, after remaining strong for an unusually long period, at first ‘started to sink, then began to slide a bit, and finally, slipping more and more, fell headlong’ (praef. 9 labente deinde paulatim disciplina velut desidentes primo mores sequatur animo, deinde ut magis magisque lapsi sint), arriving at the present in which the Romans could endure neither their vices nor the rem656
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edies for them. The connection here of these passages in Petrarch’s opening letter to Livy’s preface depends, then, both on the shared image of a world on the brink of collapse, and on Petrarch’s application to himself personally of the verbs dilabor, labo, and illabor – diction that explicitly echoes Horace (illabor) and implicitly echoes Livy’s use of forms of laboro and labor (laboret/ labente/ lapsi) in the preface.
2. Petrarchan imitatio In regards to Petrarch’s creation through these Livian intertexts of a ‘doubleness’ compounded of ancient and modern style (RVF 40,5-6): of what did it consist and how did it function? In considering this question we turn again to Thomas Greene, who notes the importance of distinguishing so-called ‘repetitions’ – that is, passages ‘whose provenience may be obscure or irrelevant and matters little for the reading of the poem’, on one hand, and ‘usages of earlier texts that the reader must recognize in order to read competently’, on the other. For Greene a key difference exists ‘between echoes so brief or peripheral as to be insignificant and a determinate subtext that plays a constitutive role in a poem’s meaning’ 11. This distinction provides a starting point for thinking about the passages above by raising the following question: should the reader of Petrarch’s letters, in considering the rhetorical effect of his allusions to classical texts, exclude from consideration ‘brief or peripheral’ echoes such as those that, in Greene’s view, played no role in communicating meaning in Petrarch’s poetic texts? If so, it might be argued that the Livian intertexts that I have identified fall into this category. The second one, in particular, is not only subtle and brief but also echoes other classical passages in addition to the AUC. In the Pro Sestio, for instance, Cicero uses the phrase pro virili parte twice, and in the latter he includes the expression cuiuscumque (i.e. ordinis), thereby bringing the phrase into closer alignment with Petrarch’s use of de virile … parte obve11 Greene 1982, 50. See also Pigman 1980, who notes the difficulty of distinguishing imitations important for analyzing the genesis of a text from those important to its function; in regards to the latter, he ultimately dismisses from consideration intertexts that are largely ‘digested’ and transformed, while granting interpretive importance only to more obvious allusions arising from a writer’s expressed desire to compete with his model.
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niunt, qualiacunque sunt in Fam. 1,1,12 12. Moreover, if we focus solely on Petrarch’s use of qualiacunque in the passage, the final lines of the dedicatory poem of Catullus’ libellus also come to mind, for here the Roman poet, like Petrarch, includes in his dedication a form of this depreciating term (i.e. qualecumque) in referring to the collection he is introducing 13. Before dismissing such passages, however, let us first consider what Petrarch himself has to say about imitatio, both in terms of inventio (i.e., his creation of such passages) and persuasio (i.e., the effect of these passages on his readers) 14. With respect to inventio: when writing to Tommaso da Messina in what purports to be an early letter (Fam. 1,8) 15, Petrarch explicitly draws on Seneca’s metaphor (in epist. 84,2-5) of the bee’s creation of wax and honey from the pollen it gathers as an image for the way in which the writer should draw on earlier texts 16. Petrarch’s (and Seneca’s) use of this ubiquitous ancient metaphor points in two main directions 17: it encourages the writer to draw on a wide variety of sources; and it also emphasizes the need to transform one’s source material – like the bees, who do not return to the hive with 12 Cic., Sest. 138 haec qui pro virili parte defendunt optimates sunt, cuiuscumque sunt ordinis. 13 Catull. 1,8-10 quare habe tibi quidquid hoc libelli / qualecumque quod o patrona virgo / plus uno maneat perenne saeclo. On the (contested) text of the poem, see Gratwick 2002. 14 This constitutes a necessarily brief consideration of the complex and extensively discussed subject of Petrarchan imitatio. See, e.g., Gmelin 1932, 98-173 (esp. 118-126, on Petrarch’s theory). More recently: Pigman 1980; Greene 1982; McLaughlin 1995; Mann 2004, 25-45; Fiorilla 2012; Lauri – Lucente 2013, esp. 40-46. 15 Billanovich 1947, 48-49 dates Fam. 1,8 to 1350 (thus, after the death of its addressee). 16 1,8,2 apes in inventionibus imitandas, que flores, non quales acceperint, referunt, sed ceras ac mella mirifica quadam permixtione conficiunt (‘in respect to invention, one should imitate the bees, who do not return to the hive with the flowers as they find them, but through a marvelous kind of alchemy create wax and honey from them’). 17 On the bee metaphor in antiquity, see von Stackelberg 1956. Key metaphors for imitatio (both positive and negative) used by Petrarch in Fam. 1,8; 22,2; and 23,19 include: the bees; father-son likeness; following a leader, path, or footsteps; artistic portrait; well- or ill-fitting clothing. The first four of these are found in Sen., epist. 84 (see also epist. 33 for the ‘path’), and several of them also appear in other ancient sources. It is noteworthy that Petrarch uses Seneca’s digestive metaphor (Fam. 22,2,12-13; cf. Sen., epist. 84,5-7), suggesting complete transformation of a source, only to refer to his own assimilation of certain ancient authors in his youth, rather than as an image of the way a writer ought to manipulate earlier sources. For further discussion and bibliography, see above, note 14.
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the flowers themselves but, ‘through a marvelous kind of alchemy’ (1,8,2 mirifica quadam permixtione), ‘turn what they have found into something different and better’ (1,8,23 in aliud et in melius inventa converterent) 18. In several letters to Boccaccio (22,2; 23,19), Petrarch elaborated on the rhetorical effect of this kind of literary transformation. He declares in 22,2,20 that he wished to follow the ‘path of his predecessors, but not always their very footsteps’ (priorum semitam, sed non semper aliena vestigia sequi), and that he sometimes made use of the writings of others ‘not through stealth, but obtained by permission’ (aliorum scriptis non furtim sed precario uti). He continues: ‘I am one who is pleased by similarity, not identity – and a similarity that is not excessive, allowing the light of the follower’s mind to shine forth, rather than its blindness or poverty’ (sum quem similtudo delectet, non identitas, et similitudo ipsa quoque non nimia, in qua sequacis lux ingenii emineat; non cecitas non paupertas). Although it is not altogether clear what Petrarch means by ‘obtaining permission’ (precario) to draw on an ancient author, the phrase – which is contrasted with the idea of secretly appropriating (furtim) another’s writing – suggests a willingness to make one’s imitation patent, even while explicitly rejecting wordfor-word borrowing. Thus, unless they form part of an explicit quote (22,2,16 nisi vel prolato auctore), Petrarch’s echoes of earlier authors are meant to function in such a way as to communicate their source(s) to the reader, while allowing the originality of their transformation to ‘shine through’ 19. In a later, often-quoted letter to Boccaccio (Fam. 23,19), Petrarch expands on the subtlety he aimed at in this relationship between imitation and source, as well as the concomitant need for the reader’s thoughtful attention in order to perceive it. After gently criticizing the tendency of his young secretary, Giovanni Malpaghini, to adorn his writing with classical quotes, and immediately before returning again to Seneca’s bee simile (13), he writes:
18 Cf. Sen., epist. 84,3-4; Macr., Sat. 1,5; Fam. 23,19,13. Both points were also noted by Petrarch in Q uintilian’s book 10, as shown by his marginalia (Gmelin 1932, 118-121; McLaughlin 1995, 23-25). 19 Seneca also allowed that the source of an imitation might be apparent, but demanded that something new (epist. 84,5 aliud tamen esse quam unde sumptum est) be created.
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An imitator must take care that what is written should be similar rather than identical. And this similarity should not be like that of a portrait to what is represented (in respect to which, praise is given the artificer in proportion to the closeness of the image to the original), but like that of a child to its father; in which, although there are often striking differences of individual parts, there exists a certain ‘shadow’ and what painters call an ‘air’ – especially discernible in the face and eyes – which creates a resemblance and which, once the son is seen, immediately makes us think of the father, despite the fact that, if the matter were reduced to a matter of measures, everything would be dissimilar. But this power [of calling forth the original to the viewer] resides in some hidden property. Therefore we should see to it that, although there is some similarity, many things are dissimilar, and that even what is similar should be latent, unable to be grasped except by means of the silent investigation of the mind, so that the resemblance might be intuited rather than expressed. Thus one should draw on another’s genius and brilliance, but abstain from using his words. The first kind of resemblance is hidden, the other obvious; poets create the former, apes the latter 20.
This passage, in which the allusion to familial resemblance makes use of another Senecan simile for imitation (epist. 84,8), hints at the kind of audience Petrarch envisioned for his work, since he here looks for a high degree of sensitivity and introspection from the reader, as well as what appears to be a scholar’s knowledge of a variety of ancient sources. Such demands accord well with the skills that might be expected of the readers of Petrarch’s Latin works (including the Familiares). They also harmonize with the attitude of an author who often expressed his disdain for the profanum vulgus, favoring readers who would pay attention ‘not so much to what is said as to what is not said’ and who would feel that a ‘truth that has been laboriously discovered, once found, is to that degree more sweet’ 21. As he had written some years ear Fam. 23,19,11-13 Curandum imitatori ut quod scribit simile non idem sit, eamque similitudinem talem esse oportere, non qualis est imaginis ad eum cuius imago est, que quo similior eo maior laus artificis, sed qualis filii ad patrem. in quibus cum magna sepe diversitas sit membrorum, umbra quedam et quem pictores nostri aerem vocant, qui in vultu inque oculis maxime cernitur, similitudinem illam facit, que statim viso filio, patris in memoriam nos reducat, cum tamen si res ad mensuram redeat, omnia sint diversa; sed est ibi nescio quid occultum quod hanc habeat vim. sic et nobis providendum ut cum simile aliquid sit, multa sint dissimilia, et id ipsum simile lateat ne deprehendi possit nisi tacita mentis indagine, ut intelligi simile queat potiusquam dici. utendum igitur ingenio alieno utendumque coloribus, abstinendum verbis; illa enim similitudo latet, hec eminet; illa poetas facit, hec simias. 21 See Secretum 190 (quoted by Kahn 1985: 154): Nam in omni sermone, gravi presertim et ambiguo, non tam quid dicatur, quam quid non dicatur attendum est 20
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lier (1352), Petrarch hoped for an audience willing to expend the effort to read and understand what he had expended so much effort to write 22. It is striking that Fam. 23,19 also contains within it a programmatic statement that actually illustrates the method of imitatio that is being encouraged 23. Concerning the bright prospects he sees in young Malpaghini, Petrarch writes: ‘He will become stronger, I hope, in mind and style, and from many [sources] he will create his own peculiar idiom; and I won’t say that he will avoid imita tion, but hide it, so that he would appear to resemble no one, but instead would seem to have brought something new into Latium from the ancients (ex veteribus novum quoddam Latio intulisse videatur)’ 24. The passage echoes the famous lines of Horace (epist. 2,1,156-157): ‘Captive Greece took possession of its fierce conqueror and imported the arts into rustic Latium’ (Graecia capta ferum victorem cepit et artis | intulit agresti Latio). The echo is brief, depending on the two words Latio and intulisse, and Petrarch has altered the tense of the verb from Horace’s line (intulisse / intulit), as well as its position in relation to Latio. Nevertheless, his learned readers would surely have recognized the source of the passage, and through this recognition the passage would have acquired an added layer of complexity, since in it Petrarch created (‘For in all speech, especially when the matter is serious and ambiguous, one should pay much less attention to what is said than to what is not said’); and Collatio laureationis 9,8: quo laboriosius quesita veritas magis atque magis inventa dulcescit. 22 In Fam. 13,5,23, Petrarch demands that his correspondents abandon everyday concerns when reading his letters: ‘I don’t wish [his reader] to carry on his affairs and to study at the same time. I would not have him comprehend without any effort that which I did not write without effort’ (nolo ego pariter negotietur et studeat, nolo sine ullo labore percipiat que sine labore non scripsi). On Petrarch’s readers, see, e.g., Kahn 1985; Q uillen 1998: esp. 113-122, on Petrarch’s construction through the letters of a literary community. Contra, see Enenkel – Papy 2006a, 1-10, who emphasize the independence of Petrarch’s readers from authorial intention, even in the case of his intimate friend Van Kempen (Papy 2006). 23 Noted also by Mann 2004, 37-38 in regard to Fam. 22,2 and 23,19. Cf. McLaughlin 1995, 26 on Fam. 1,8 as illustrating the Petrarchan principles of imitation (in this case, of Sen., epist. 84) that it advocates. 24 Fam. 23,19,10 Firmabit, ut spero, animum ac stilum, et ex multis unum suum ac proprium conflabit, et imitationem non dicam fugiet sed celabit, sic ut nulli similis appareat sed ex veteribus novum quoddam Latio intulisse videatur. The Latin veteribus points in a number of directions that create interesting parallels between Roman adaptation of Greek literature and fourteenth century adaptation of Roman literature, including: what is old/ old-fashioned (and thus uninteresting compared to what is new); ancient times; ancient people/ the ancestors; ancient sources.
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an equivalency between Horace’s transformation of his Greek literary inheritance and contemporary imitatio of classical Latin authors in Petrarch’s own times 25. The fact that this exemplum occurs within a Latin prose letter also strongly suggests that the comments of Lauri-Lucente concerning imitation and its aims in Petrarch’s poetry might reasonably be applied to his epistles as well: ‘Approached without the knowledge of these components which Petrarch assumes his readers to possess, any literary work will fail to yield up its secrets and will lose immeasurably in richness and resonance; and to neglect these resonances or “umbra quedam” in reading Petrarch’s work is not to hear the poetic dialogue between the poet and his predecessors and the underlying interplay between sameness and differentiation’ 26. This brief overview is clearly not the final word on the complex issue of Petrarchan classical imitation, since many difficulties remain, not least of which is how to interpret Petrarch’s admission in Fam. 22,2 that he was guilty at times of inadvertently quoting those authors with whom he was most familiar 27. Our discussion does nevertheless suggest that, given the transformation and partial concealment Petrarch advises in adapting classical sources – the ‘elusive resemblances’ that derive from ‘the subtle interplay between the presence of the model and its absence’ 28 – and given Petrarch’s expectation that the sensitive reader will respond to these resemblances, Greene’s categories appear to draw too stark a division between the ‘insignificant’ and the ‘determinant’ allusion. I believe that a more insightful approach to Petrarch’s allusions in 25 Gmelin 1932, 118-121 comes to the same conclusion through an analysis of Petrarch’s marginalia on Q uintilian’s book 10. 26 Lauri-Lucente 2013, 40. Cf. comments of McLaughlin 1995, 31 on Petrarch’s concern to avoid word-for-word repetition in both prose and poetry. Enenkel – Papy 2006a, 4 state that «in the Early Modern Period there was no clear distinction between “fictional” and “non-fictional” literature». Perhaps the Petrarchan work most extensively analyzed for the meaning of its allusions is not poetry but prose – Fam. 4,1, on the ascent of Mt. Ventoux. 27 Such inadvertent quotes, if we were able to identify them, would therefore seem to involve only (a kind of unconscious) invention rather than rhetorical function/ persuasio. Note, however, the perspicuous comment of Nicholas Mann 2004, 28 on this letter: ‘Cette lettre n’a rien d’inconscient: elle fait preuve, au contraire, des stratégies conscientes et didatiques de son auteur, de sa volonté de faire se conformer son passé à une idée de lui-même qu’il est en train d’élaborer à l’intention de ses lecteurs presents et future’. 28 Lauri-Lucente 2013, 38.
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the letters would assume that many of them, including the Livian echoes I have noted in this essay, even if imperceptible to Petrarch’s less sophisticated readers, had an important role to play in enhancing the depth and complexity of his ideas for the more learned part of his audience. I would also suggest that, by using a series of echoes from the same text, as he does in Fam. 1,1, Petrarch was able to heighten both the accessibility and the impact of individual allusions for this segment of his audience.
3. Interpretation Guided by this hypothesis, how might we read the sequence of Livian echoes in this letter? It hardly seems fortuitous that the strongest and most recognizable of the three occurs in the first lines of the letter, thus establishing at the outset an implied connection between Petrarch and Livy, between the letter collection prefaced by Fam. 1,1 and the history introduced by Livy’s preface. Here, in his statement that ‘one should refrain from complaints, at least at the beginning’ (1,1,3), we should note that Petrarch has neglected to complete the phrase. At the beginning of what should one refrain from complaints? Petrarch’s elision is carefully considered. Note that the letter 1) narrates the circumstances of Petrarch’s decision to honor a promise made to two of his friends by preserving from his own willful destruction a selection of his verse and prose letters for publication; 2) ultimately reveals that this first letter forms the introduction and dedication of the prose collection created by this decision; and 3) recounts in the course of Fam. 1,1 that future letters will express Petrarch’s recovery of hope and courage after the despair expressed at the beginning of the letter. The overall dramatic force of the introductory letter, therefore, demands that its identity as preface to the collection be revealed only sequentially as the narration proceeds, rather than stated explicitly at the outset through the addition of a genitive phrase such as epistolarum mearum libri to the words ‘at the beginning’. Moreover, we would hardly expect Petrarch to include in the opening of Fam. 1,1 a characterization of the letter collection as a ‘great undertaking’, as such a claim would be incompatible both with the despair of the opening lines and with the presentation of the collection early in the letter as less significant than the ‘greater works’ (1,1,7 maiorum operum) Petrarch has in mind. 663
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The Livian echo contained in this passage, however, supplies as a subtext what Petrarch’s text elides. Despite the doubts and equivocations voiced at the beginning of Livy’s preface, its final sections predict an extraordinary value for the history: the reader who carefully studies it will come to understand the way in which Rome achieved greatness in the past and how it might surmount the moral crisis of the present. The reader is thus prepared for the grandness of the final period (praef. 13), in which Livy, in declaring that it would be inappropriate to commence his history with an epic-like invocation to the gods, creates a praeteritio that embodies just such an invocation; and in which Livy’s characterization of the work as a ‘great undertaking’ (tantum operis) culminates the elevated claims of the sections that immediately precede it. By his truncated allusion to this famous passage, Petrarch avoids the inappropriateness – for the reasons just mentioned – of making an explicit claim for its significance, yet plants in his audience’s mind the suggestion that the collection of prose letters introduced by Fam. 1,1 will be worthy in some ways of being compared with the history which Livy had introduced in similar words. In the second Livian echo, the meaning of the phrase Petrarch uses to characterize the letters of the collection – called the virilis pars of those that remain – runs the gamut in classical Latin from a periphrasis for the male sexual organ to its use in law, where it is essentially emptied of sexual innuendo and refers simply to an individual’s allotted portion 29. In the case of Livy’s use of the expression pro virili parte in the passage from praef. 2-3, a gender association seems to be present, as Livy refers not simply to his assigned lot, but to behavior that befits a real man, as opposed to one who acts like a woman or a child. The phrase occurs at a key point in the sequence of ideas at the beginning of Livy’s preface, in which he declares that his commitment to writing Rome’s history was not based on such commonplace claims as his superior ability to do so or on his desire for the fame it might reap for him, but rather on the pleasure (iuvabit) he will derive from fulfilling his personal and civic obligation to do ‘his manly part’ to memorialize Rome’s deeds 30. 29 See OLD s.v. virilis (with pars): 1b (male sexual organs), 5 (due share) a and b (including pro virili parte). 30 For interpretation of the preface and recent bibliography, see Vasaly 2015, 22-35.
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Petrarch’s use of the phrase virilis pars for his surviving letters stands out by its peculiarity, suggesting that he has employed it in the hopes of arresting the attention of his audience and provoking them to reflect on its source and meaning. It marks the end of a section in which the letters destined for the collection are characterized as ‘having resisted triumphing old age’ (10 cuncta vincenti senio restiterant), and as the recipient of Petrarch’s ‘indulgence’ by being ‘allowed to live’ (10 his ego indulgentior fui: vivere passus sum). Their continued existence testifies ultimately to the author’s ‘fidelity’ to his friends and to his friends’ ‘hope’ (11 ne fidem meam et spes vestras uno igne consumerem) for the work he will produce. Thus, despite the dismissive phrase used in the passage, qualia cunque sunt, these unconventional lines personify the collection in quasi-heroic terms, culminating in the description of them as the ‘virile remnant’ that have survived the fire that has destroyed the rest – perhaps reminding the reader of Aeneas’ followers who, after the conflagration of ships in Sicily provoked by Juno and carried out by the Trojan women, travel onward with Aeneas to their fated destination in Italy. It is noteworthy that the letter ultimately casts the writer himself in epic-heroic terms: tossed from boyhood on the stormy seas of fortune, he has arrived at a critical moment in the journey of his life (Fam. 1,1,21-27). Further erasing the distance between author and work is the repetition of forms of the word senex: to Petrarch and Ulysses, on the one hand, and to the letter collection, on the other 31. All are presented as confronting the challenge of resisting old age and destruction, in order to complete their fated course. In other respects, however, the characterization of the surviving letters as virilis pars appears to form a striking contrast to the persona assumed by their author, since – as noted above – Petrarch states in Fam. 1,1 that the publication of the collection will betray his present lack of virility. He fears that the sequence of the letters will reveal a life that had ‘slipped into softness’ (1,1,38). The use of mollities here carries an unmistakable sexual nuance, pointing to an absence of ideally masculine behavior, in this case demonstrated by Petrarch’s recent lack of fortitude in confronting life’s sorrows. 31 See 1,10 restiterant senio (letters); 1,22 senior / senectute (Ulysses); 1,25 senu isse / senui / senior (Petrarch). See also Carrai 2003 (Ulysses myth in the Familiari); Mazzotta 2009 (Petrarch as Ulysses/Aeneas and the letter collection as an ‘epistolary epic’).
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He goes on to ask whether he had not been ‘a man in his youth’ and ‘a child in his old age’ (1,1,39). His first impulse is to conceal this downward slide by changing the order of the letters or else by simply destroying those of which he was ashamed; but instead he embarks on a final, passionate apology (1,1,39 ad excusationum … arma confugio) for this most ‘unfortunate and detestable’ (1,1,39 infelix et execranda) aspect of his animus, culminating in an assurance to his addressee of the future rebirth of his hope and resolution 32. Petrarch promises that, due to his devotion to his friends (1,1,45 amicorum caritas), he will continue to write to them until he dies, and in these future letters he will demonstrate a new spirit in both his actions and his words (1,1,44 animosius … agere … animosius loqui; et siquid forte stilo dignum se obtulerit, erit stilus ipse nervosior). The use in the passage of the term nervosior (1,1,44) in relation to his future style also carries a sexual nuance: the emasculated puerility of recent letters will be replaced by a future potency – and one that will be able to respond to the demands of even more elevated subject matter 33. The reader is thus led to understand that the characterization of the collection as representing virilis pars, at first seemingly ironic in its relationship to an author who accuses himself of cowardice, ultimately functions as a foreshadowing of Petrarch’s recovery of hope and virility at the end of the letter. But what does Livian echo #2 add to this complex associative pattern? Beyond the mere fact of reinforcing the connection between Petrarch and Livy, the interrelated content and meaning of the two passages make themselves felt, for each establishes a close ethical relationship between author and work. Livy’s statement is a relatively straightforward announcement in the preface that his literary effort expresses his manly and patriotic intention to serve the Roman state, whatever impediments he faces. Ostensibly Petrarch uses the term virilis pars to refer to his work rather than to himself, but as we have seen, he goes on to blur the distinction between self and work by personifying the letters in ways that he will later use to describe himself. The terms of Petrarch’s relation32 On Fam. 1,1 as a microcosm of the liber, see Folena 2003, 272-273. For autobiographical aspects of the collection see esp. Enenkel 2008, 40-87; Antognini 2008. 33 Catullus calls the male member nervosius illud (67,27). Cf. Fam. 1,1,46 virilibus sententiis (of Petrarch’s future letters).
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ship to his collection ultimately prove even closer than that between Livy and his history, for the letters are presented as comprising a history of the writer’s soul (animus), and reading them from the beginning to their future endpoint (coterminous with the writer’s life) will ultimately demonstrate the manly courage hinted at in Petrarch’s characterization of the collection as de virili parte. The themes that I have noted in the Livian echoes from the beginning and middle of Petrarch’s introductory letter recur in the series of related allusions that are found at its end. Petrarch’s world, like Livy’s, is said to be on the edge of collapse. Livy goes on to develop the idea that it is Roman mores that have taken a precipitous slide downwards, while Petrarch writes of a personal spiritual breakdown, one that will become all too apparent to the reader of a letter collection that mirrors his mind and soul. Petrarch’s use of the verb labare in relation to his own condition (1,1,40 labare michi pes atque animus cepit), echoes Livy’s description of the subject of his work, and thus again reinforces the link between the two writers, as well as suggesting an analogy between Livy’s history of Rome and the moral history of the individual contained in Petrarch’s letters. In both cases, the writer, faced with a cultural catastrophe, at first takes pleasure in turning away from the present and immersing himself in the past, but ultimately promises the reader that his work will be part of his transcendence of this crisis: Livy writes of the salutary moral lessons to be gained by the individual and the state from the study of Rome’s history, while Petrarch identifies the continuation of his letter collection with his own ability to overcome the personal losses that the general calamity of the recent past has visited upon him.
4. ‘A work so double between the style of the moderns and ancient speech’ (RVF 40,5-6) In closing I wish to look for a moment at the overall effect of these Livian allusions. Fam. 1,1 takes the form of a powerful cri de cœur in which its generic function as dedication and introduction to an epistolary collection are masked, especially at the beginning. In the process of crafting what John Najemy (1993, 27) has called an ‘improbable fable’ for the genesis of the collection, the letter focuses on the emotions and biography of its author and on his relationship to Socrates, his addressee and alter ego (1,1,19). 667
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In spite of this creative and ‘unclassical’ approach to the genre 34, traditional proemic elements can be discerned – elements that, as we have seen, mirror Livy’s preface in thought and, occasionally, in diction 35: Petrarch’s letter, like Livy’s preface, makes a powerful ethical appeal, referring to his doubts about his abilities to undertake a daunting project, to the hostile external circumstances that militate against its success, and to the personal fides expressed by his decision to commit himself to the work, whatever the obstacles that confront him. Such self-effacement, exaggeration of impediments, and promises to act faithfully and courageously in the face of formidable challenges are typical elements in the rhetorical proem. Livy, however, joins the doubts he expresses concerning the value of his project and his capacity to undertake it, expressed at the beginning of his preface, with the startling suggestion at its end that the history will be a great work, possessed of an overarching value in helping to cure the ills of contemporary Rome 36. The historian thus uses the preface to create a double vision for his work, combining the self-deprecation typical of the rhetorical proem with the claim to significance and lasting impact more characteristic of the poetic introduction 37. Petrarch, on the other hand, finds little space in his introductory letter for explicit claims about the literary excellence and cultural importance of his epistolographic collection, beyond its function in reflecting the triumphs and failures of his own spiritual biography. In fact, he presents the very idea that the collection will reach an audience beyond its dedicatee as problematical (1,1,31). As we have seen, however, the subtext conveyed by a series of Livian echoes serves to raise Petrarch’s own status and the status of his work, subtly suggesting to the sensitive reader a much more elevated image of the collection than what is expressed by
34 Although not all ancient letter collections begin with a dedicatory/introductory letter. (See, e.g., Sen. Ep.). 35 On Latin prose prefaces, see Janson 1964. 36 On Livy’s preface, see Vasaly 2015, 22-35. 37 The nature of the claim/ hope expressed by Latin poets for the significance and permanence of their work is, of course, complex. Note also that two of the most famous, Hor., carm. 3,30 and Ov., met. 15,871-879, occur at the end rather than beginning of their works. For relatively recent discussions of the themes of immor tality/ ephemerality in Latin poetry, see, e.g., Roman 2006; Farrell 2009.
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LIVY’S PREFACE AND PETRARCH, FAM. 1,1
the superficial meaning of the text. Petrarch, like Livy, thus creates a double vision for his liber, and he does so by means of a second kind of ‘doubleness’ – in which, through importing and trans muting the diction and thought of the ancient past, he creates an original and complex language of meaning uniquely his own.
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GIULIANA CREVATIN
NICOLA TREVET INTRODUCE ALLA LETTURA DI TITO LIVIO PROEMIO DELL’EXPOSITIO E EXPOSITIO DEL PROEMIO
Tra il 1317 e il 1319 il maestro domenicano inglese Nicola Trevet 1 si stava dedicando, su richiesta del papa avignonese Giovanni XXII, alla composizione di un certo opus litterale. Il papa si era rivolto al collettore papale in Inghilterra, Rigaud d’Assier, figura di grande prestigio e di grande peso diplomatico, affinché garantisse allo studioso il sostegno economico necessario: Cum dilectus filius frater Nicolaus Treverinus de ordine fratrum predicatorum, magister in theologia, de mandato nostro circa cuiusdam litteralis operis compositionem intendat, ecce nolentes opus ipsum, ad cuius perfectionem afficimur, ex defectu sumptuum intermitti quomodolibet vel differri, discretioni tue per apostolica scripta mandamus, quatinus eidem magistro presentes tibi litteras assignanti vel suo certo nuntio pro eodem de pecunia camere nostre usque ad summam…marcharum necessarias tam factas quam faciendas pro opere memorato ministres expensas. Nos equidem quicquid per ipsius magistri litteras te sibi propterea ministrasse constiterit in tuo faciemus ratiocinio acceptari 2.
Secondo ogni verisimiglianza, si trattava del ‘commento’ a Tito Livio: il colophon che si legge in uno dei tre testimoni dell’expositio, il codice di Lisbona, Mss. Illum. 134-135, lo conferma: Et sic terminatur expositio viginti librorum Titi Livii quos biennali labore exposuit frater Nicholaus Treveth de ordine predicatorum, ex 1 Su Nicola Trevet si veda ora l’importante saggio di Giuseppina Brunetti, riassuntivo dell’attività del domenicano, nel vol. 44 di Memorie Domenicane dedicato al cardinale Niccolò degli Alberti (Brunetti 2013). L’argomento specifico di questo mio contributo si riallaccia ai precedenti Crevatin 2012 e Crevatin 2014, a cui rimando per più ampi riferimenti. 2 Dean 1945, 91.
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 673-692 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125350
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mandato et iussu sancitissimi patris et domini, domini Iohannis pape xxii, ad honorem Domini nostri Ihesu Christi, cui honor est et gloria in secula seculorum. Amen 3.
Ad accogliere la più antica testimonianza della expositio trevetana furono i margini del famoso codice Parigino latino 5690, nella bella scrittura notulare di Landolfo Colonna. Il prezioso manufatto si limitava allora alla prima decade liviana, preceduta da Ditti Cretese e Floro, ma esibiva già l’elegante ornamentazione e la prima tranche delle splendide illustrazioni, una ad ogni inizio di libro liviano. Si tratta in realtà di una porzione minuscola del corposo commento, poiché Landolfo interruppe con l’inizio del secondo libro le annotazioni ricavate da Trevet. È questa solo una delle numerose facies di annotazioni che il codice conserva. La più prestigiosa è, come ben noto, quella di Francesco Petrarca, in relazione germinale con la sua propria scrittura storica 4, solo di pochi decenni posteriore alla ‘lettura’ trevetana. Se nella storiografia petrarchesca, che opera principalmente come riscrittura di un testo-base (Livio – Cesare), si intravede per molti versi l’alba di una nuova concezione storiografica, di un nuovo modo di guardare al passato, la lettura trevetana è rappresentativa di un sistema culturale (scolastico) ben definito e compatto. Ma con la novità significativa dell’applicazione di quel metodo a un testo storico e pagano, non suscettibile di ‘moralizzazione’. Lo scopo del lavoro a suo tempo compiuto sul codice, confluito nel volume Reliquiarum servator, è stato quello di mostrare e argomentare come, al di là della religione del testo, l’oggetto-libro Paris, Bibliothèque Nationale de France, Lat. 5690 abbia segnato una tappa cruciale del recupero di Livio e disegni, anche e proprio grazie alla presenza dei testi liminari – di cui a diritto fanno parte le illustrazioni – una vicenda molto significativa nella storia della fortuna dello storico antico. Le stratificazioni della lettura liviana che il libro esibisce esigono che si parta dalla più antica, cioè dal corredo iconografico 5, il quale opera come un vero e proprio ‘commento’ (diremmo meglio ‘commentario’): perché la maggior parte delle illustrazioni tradu3 Dean 1945, 90. La menzione di un comando principesco vale come dedica (Genette 1987). 4 Fenzi 2012. 5 Le caratteristiche e le cronologie delle illustrazioni sono state studiate da Marcello Ciccuto (Ciccuto 2012).
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NICOLA TREVET INTRODUCE ALLA LETTURA DI TITO LIVIO
cono puntualmente il testo in un linguaggio figurativo tendenzialmente arcaizzante (ben diverso, per intenderci, da certe illustrazioni dei Livi quattro-cinquecenteschi, che ci suggeriscono un ambito romanzesco-cortese), e che vuole aderire al testo con scrupolo di recupero storico 6. Ma alcune immagini arricchiscono il dettato liviano di una imprevista rete di relazioni testuali, com’è il caso della prima, su cui presto torneremo al momento di parlare del proemio, e soprattutto della seconda, che accompagna l’inizio dei libri Ab urbe condita: Iam primum omnium satis constat Troia capta in ceteros saevitum esse Troianos, duobus, Aeneae Antenorique, et vetusti iure hospitii et quia pacis reddendaeque Helenae semper auctores fuerant, omne ius belli Achivos abstinuisse.
Tutto qui, nelle parole di Livio, il racconto della caduta di Troia. Mentre assai più ricca di contenuti si mostra l’immagine di c. 43v, nel cui registro superiore è descritta la presa e distruzione di Troia. L’estrema secchezza del dettato liviano (Troia capta) è tradotta in un’immagine narrativa complessa, che esaminata attentamente svela che l’illustratore non ha rappresentato una generica presa di città, un’immagine standard magari adattabile a situazioni testuali analoghe 7, ma ha tratto i suoi materiali da contesti letterari fiancheggiatori del testo liviano. Innanzitutto dal secondo libro dell’Eneide, a cui ci rinviano i due guastatori sui tetti (445-446 Dardanidae contra turris ac tota domorum / culmina convellunt,); la torre di legno sul tetto del palazzo di Priamo che i Troiani stessi fanno rovinare sugli assalitori (460 ss.); l’apparizione di Pirro che spacca la porta della reggia (Ipse inter primos correpta dura bipenni, 479 ss.) e fa irruzione; i pianti delle donne all’interno. Nel registro inferiore vediamo Enea e Antenore che coi rispettivi seguiti partono dal lido troiano. Nel testo liviano, diversamente da Virgilio, Enea si salva non per forza d’armi, ma grazie a precedenti relazioni diplomatiche. Tuttavia le due figure incoronate non vi trovano giustificazione, mentre sono identificabili col ricorso a Ser Reynaud 1986, 103-114; Heuzé 1994, 225-230. Q uint., inst. 8,3,67-69 Sic et urbium captarum crescit miseratio. Sine dubio enim qui dicit expugnatam esse civitatem complectitur omnia quaecumque talia fortuna recipit, sed in adfectus minus penetrat brevis hic velut nuntius. At si aperias haec, quae verbo uno inclusa erant, apparebunt effusae per domus ac templa flammae et ruentium tectorum fragor et ex diversis clamoribus unus quidam sonus, aliorum fuga incerta, alii extremo complexu suorum cohaerentes et infantium feminarumque ploratus et male usque in illum diem servati fato senes. Per il topos della urbs capta cf. De Jong 2017, 141-154. 6 7
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vio, Ad Aen. 1,212, che contro Virgilio riprende la versione liviana: Capto Ilio Menelaus memor se et Ulixen beneficio Antenoris servatos, etc. Chi ha concepito l’illustrazione ha arricchito il testo liviano con la menzione dei re achei. Ma un altro autore concorre a questa complessa raffigurazione: Darete Frigio, a cui ci rimandano le due figure accoccolate sotto gli archi, nelle quali possiamo riconoscere i traditori Enea e Antenore che comandati per la guardia notturna presso le porte Scee inviano segnali luminosi per chiamare i greci 8. La prima illustrazione del codice, quella di c. 43r, ci introduce all’argomento specifico del mio intervento, ossia l’esposizione trevetana del proemio liviano. Per la descrizione mi avvalgo delle parole di Marcello Ciccuto: «Sotto tre archi, un giovane sovrano riceve l’omaggio di un personaggio barbuto in veste senatoria (un membro della famiglia romana dei Colonna). Il medesimo personaggio compare a un desco rotondo mentre legge e scrive. Si tratta molto probabilmente del nobile committente che, nel giro di rapporti avvincenti famiglie senatorie romane, potere regale angioino e papato, intese sancire con una scena di dedica proprio il recupero dell’antica storia romana di cui la famiglia Colonna si fece promotrice in quel torno d’anni» 9. Q uindi – aggiungerò – il nobile vecchio barbuto non è da identificarsi con ‘Livio che non erra’, come conferma la figurina in basso a sinistra, sotto l’immagine principale, che regge il libro e col dito indica appunto la scena di dedica soprastante: costui è l’Autore. La scena descritta sopperisce a quello che viene avvertito dal l’ideatore del manufatto come un elemento mancante – o, se vogliamo vederla diversamente, introduce un elemento in più a introduzione del proemio stesso – ossia appunto la dedica 10. Prima pars prohemi pincipalis in qua reddit lectorem benivolum humilitatem suam in scribendo exprimens (con segno di rimando a Facturus) Secunda pars prohemi principalis in qua reddit lectorem docilem de quibus velit scribere et que obmittere ostendens (con segno di richiamo a Res est praeterea) 8 Polydamas in oppidum redit, rem peractam nuntiat dicitque Antenori et Aeneae ceterisque quibus placitum erat, ut suos omnes in eam partem adducant, noctu Scaeam portam aperiant, lumen ostendant, exercitum inducant (Dar. 41). 9 Ciccuto 2012 così descrive l’immagine nel cd allegato al volume. 10 Il tema della dedica (o della non-dedica) dei libri Ab urbe condita è stato brillantemente affrontato da Marielle de Franchis (de Franchis 2014), a cui rimando per la tematica relativa.
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NICOLA TREVET INTRODUCE ALLA LETTURA DI TITO LIVIO
Tertia pars prohemi principalis in qua reddit auditorem attentum utilitatem operis sui indicans (con segno di richiamo a Ad illa mihi)
Q uesto è quanto Landolfo ritiene dell’esposizione trevetana del proemio, e scrive sul mg di c. 43r. Siccome finora ho usato indifferentemente le parole ‘commento’ ed ‘esposizione’, è necessaria una breve sosta terminologica. Abbiamo letto Trevet stesso nel colophon definire la propria opera come expositio e il papa committente indicare la natura dell’opera attesa come opus litterale. Opus litterale appare sinonimo perfetto di expositio, in quanto rimanda a una delle operazioni fondamentali che i maestri, durante la lunga epoca della scolastica, praticano sui testi, conducendo gli allievi (ascoltatori, lettori) a interpretarli secondo littera, sensus, sententia 11. Nicola Trevet era un maestro riconosciuto dell’esposizione letterale, quella che innanzi tutto divideva il testo in logiche pericopi e poi ne mostrava l’articolazione e ne spiegava il senso, arricchendo questa sorta di oserei dire ‘riscrittura’ con osservazione di carattere grammaticale, storico, filosofico e più volte evocando quelli che noi chiamiamo luoghi paralleli. Sull’importanza da lui attribuita alla littera – spesso sinonimo di verità storica e comunque base imprescindibile di qualsiasi lettura, anche sacra, proprio in connessione col recupero del contesto storico – è particolarmente significativa la dichiarazione di metodo da lui formulata nella lettera di dedica a Giovanni XXII dell’esposizione del libro della Genesi, dove subito occorre un rinvio alle Retractationes agostiniane (1,18 De Genesi ad litteram liber unus imperfectus), laddove Agostino confessava di aver lasciato senza esito un primo tentativo di commento. Trevet sottolinea che Agostino aveva fatto ricorso all’interpretazione spirituale a causa dell’estrema difficoltà presentata da quella letterale, riaffrontata in un secondo tempo in una ripresa degli studi e della volontà: Post plurima disertorum studia spectabilia operaque clarissima illustrissimus presul Augustinus, acutissimi ingenii exacta diligentia prolixique temporis studioso exercitio, sensus dumtaxat historici intelligentiam se denegat attigisse. Asserit enim in Retractationibus suis […] ad spiritualem confugisse sententiam propter inextricabiles urtandas littere questiones 12. Grabmann 1980, II, 294-295; Glorieux 1968. Leggo dal ms. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, conv. soppr. 208. Cf. Crevatin 2014. 11 12
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Il moderno espositore è ben consapevole che la ‘lettera’ rappresenta la zona più ardua dell’interpretazione, quella che richiede sia maggiore preparazione che superiori e più addestrate capacità. Già nella celebrata lettera dedicatoria dell’Expositio tragediarum, rispondendo puntualmente al committente che aveva presentato il testo senecano come obscuritatibus plenus, connexus latebris, contextus et implexus fabellis (ripercorrendo in tal modo la triade ascendente littera-sensus-sententia), aveva dichiarato di aver praticato la explanatio sensuum e di non aver perseguito ad plenum la sententia (fabularum integumenta ad plenum sum minime consecutus), allo scopo di aggirare la prolixitas operis: parole in cui forse possiamo intravedere una sorta di fastidio per certe esercitazioni cervellotiche sui sensi riposti delle opere ‘letterarie’, e comunque la ferma e chiara volontà di aderire al testo. Tale atteggiamento mi sembra ribadito nella chiusura del prologo generale all’expositio, dove Trevet offre una doppia e alternativa interpretazione della causa finalis: la prima è appunto il piacere del pubblico (causa finalis est delectatio populi audientis), mentre la seconda possibilità concerne, ma con qualche riserva (aliquo modo), il metodo di attrarre nell’orbita della moralizzazione (cristiana) le opere antiche: Vel in quantum hic narrantur quedam laude digna, potest aliquo modo liber hic supponi ethice, nel qual caso tunc finis eius est correctio morum per exempla hic posita 13. Ma qui Trevet è chiamato ad esercitarsi nell’esposizione di un’opera storica, fatto di per sé abbastanza eccezionale, per cui l’ambito concettuale del ‘commento’ che ha come fine l’illuminazione della ‘sentenza’ – in cui è doveroso inoltrarsi nel caso dei testi sacri – rimane a priori fuori dalla sua, e dalla nostra, visuale. Gli studi sugli accessus ad auctores ne hanno illustrato metodi, ambiti e impieghi, con abbondanza di esempi, oltre a fornire utili classificazioni 14. Trevet stesso aderisce, a seconda dell’opera che sta trattando, a l’uno o all’altro di quei modelli 15. Q ui, nell’espo13 Franceschini 1938, 8; Junge 1999, partic. 155-163; Petoletti 2013; Villa 2017, 169-171. 14 Rimando all’utile sintesi di Spallone 1990. 15 Nella prefazione dedicatoria dell’Expositio tragediarum si richiama allo schema delle quattro cause (su cui Minnis 1981); nella prefazione all’Expositio della Consolatio Philosophiae riprende da Guglielmo di Conches (il quale aveva rispettato i sei punti dell’accessus filosofico) la causa compositionis operae sviluppandola molto estesamente; il proemio dell’Expositio del De civitate Dei (che leggo dal cod. Paris, Bibliothèque Nationale de France, Lat. 2075) è organizzato anch’esso sullo schema delle quattro cause: Agostino, iniziando l’opera con la citazione del Salmo 86, 3 gloriosa dicta sunt
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NICOLA TREVET INTRODUCE ALLA LETTURA DI TITO LIVIO
sizione di Tito Livio, siamo, com’è naturale attendersi, nell’ambito del proemio retorico, quello che intende predisporre l’animo del lettore/ascoltatore alla benevolenza nei confronti dell’autore, alla docilità, ossia alla favorevole disposizione ad apprendere l’insegnamento del maestro/dell’opera, all’attenzione verso gli argomenti e i soggetti trattati. Lo schema di base, che è poi quello del discorso giudiziario, è stato formulato (dopo Aristotele) da Cicerone nel De inventione. La letteratura critica fornisce abbondanza di esempi, sia di realizzazione pratica che di elaborazione teorica, in autori e maestri della classicità, della tarda antichità e del medioevo. È stato notato in particolare come i maestri domenicani – tra i quali Nicola Trevet occupa un posto di tutto rilievo – abbiano codificato il proemio in una sorta di ‘mode d’emploi’ sia nelle loro letture di testi che nei proemi delle storie universali da essi stessi compilate 16: che è anche il caso, come vedremo, del nostro espositore. Per praticità noi ci limiteremo a fare riferimento al solo Cicerone del De inventione, magari riletto da Isidoro di Siviglia (orig. 2,7,2), e a due o tre maestri vicini, per vari tramiti, al maestro inglese. Il testo che qui propongo alla lettura non compare, abbiamo visto, tra le note apposte da Landolfo al suo libro. È stato costruito sulla base dei tre testimoni dell’Expositio, due completi, cioè con le due decadi conosciute da Trevet (L = Lisbona, Mss. Illum. 134-135; B = Berlin, Staatsbibliothek, Stiftung Preussischer Kulturbesitz, ms. lat. fol. 570), e uno, il più antico, risalente al XIV sec., con la sola prima decade, il ms. Paris, Bibliothèque Nationale de France, Lat. 5745 (P) 17. Prima di passare ad analizzare velocemente, per sommi capi, l’esposizione trevetana del proemio liviano, dobbiamo soffermarci de te civitas dei (il ‘tema’), affronta tre delle quattro cause que solent in principiis librorum inquiri, cioè materiale, efficiente e finale, mentre la causa formale, que in themate non tangitur, in modo procedendi consistit (ossia nella struttura dell’opera). Una eco liviana (dal proemio) si incontra più avanti: in reliquis vero duobus [scl. libris] docet ob quos mores et ob quam rationem dominus Romanus auxit imperium. Il proemio invece delle sue stesse Historie (o Annales ab origine mundi) è di tipo tecnico, tipico appunto delle storie universali (su questo tipo di prologhi cf. Lamarrigue 2000; Chazan 2000, Heullant-Donat 1993 e 2000). 16 Heullant Donat 1993, 588. Di grande interesse – per una diversa prospettiva storiografica – i saggi dedicati da Rino Modonutti (Modonutti 2014) e da Giovanna Gianola (Gianola 2015) ai proemi di Albertino Mussato. In particolare anche per gli echi liviani (su cui ancora Gianola 2017). 17 Crevatin 2012, 119-123.
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sul proemio del proemio (cioè sul capitoletto con cui Trevet introduce il proprio lavoro sul testo), quello che secondo il codice Parigino lat. 5745 è il Prologus super apparatum. Q uesto capitoletto rientra nell’ambito retorico e concettuale del ‘titolo’ (o dell’esposizione del titolo), tra le cui funzioni c’è quella di presentare l’autore, che è già un modo di disporre il pubblico all’apprendimento: inter titulum et prologum hoc interest, quod titulus auctorem et unde tractetur breviter innuit, prologus autem quid et quomodo et quare scriptum vel legendum sit […]. Praeterea titulus docilem, prologus vero docilem et attentum et benivolum reddit lectorem – così Bernardo di Utrecht, riecheggiato da Corrado di Hirsau 18: titulus […] est brevis ostensio sequentis operis […]. Inter prologum et titulum hoc interest, quod titulus auctorem et unde tractet breviter innuit, prologus vero docilem facit et intentum et benivolum reddit lectorem vel auditorem. La presentazione di Tito Livio è da Trevet affidata in prima doverosa istanza a Girolamo, Epist. 53, confortato da Seneca, contr. 10 praef. 2 19, citazione con la quale l’espositore richiama l’attenzione sulle proprie sperimentate professionalità e dottrina. Infatti alle Declamationes aveva dedicato molte ore faticose, per liberarle dal nubilo obscuritatis che le avvolgeva e dalla caligine fumosa neglecte vetustatis che le opprimeva. Sono parole sue, dalla dedica al confessore di Edoardo II re d’Inghilterra 20. A tale opera, di cui desidererebbe ricevere una copia 21, farà riferimento il cardinale Niccolò Alberti per sollecitare Trevet a cimentarsi con le Tragedie. Ma questa ultima è una vicenda notissima. Dopo aver enunciato dunque il titolo dell’opera, richiamandone la principale caratteristica strutturale, ossia la divisione in decadi, e sbrigata la questione dell’autorevolezza dell’autore 22, Trevet Huygens 1954, 75. Seneca pater, il retore, non era allora, come noto, distinto da Seneca filosofo. Interessante il confronto con la Vita di Livio composta da Lovato Lovati, non moltissimi anni prima, su cui Billanovich 1976, 60-61: in questo accessus sono riportate le poche notizie desumibili dal Chronicon di Eusebio-Girolamo, «con la novità affascinante dell’aggiunta degli epitafi». Mentre il paragrafo trevetano è finalizzato a mettere in luce il grande prestigio di cui lo storico antico godette già nella sua epoca, affinché più ferma ne risulti l’autorevolezza: il che è già un modo di predisporre favorevolmente il lettore. 20 Crevatin 2014, 405. 21 Sul valore e sul successo di quel commento cf. Babey 2006; Monti 2009, 62. 22 Chiamato a contestare l’interpretazione rigida e impraticabile che Enrico di Gand aveva dato della Regula Sancti Augustini, così Trevet ne iniziava l’esposizione 18 19
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passa allo ‘smontaggio’ del proemio liviano. Leggiamo in apertura che Livio ha agito more prohemiali costruendo il proemio dei libri Ab urbe condita sulla tripartizione prescritta dal modello retorico, secondo il quale il proemio deve suscitare nell’ascoltatore/lettore benevolenza, docilità, attenzione. L’espressione stessa more prohemiali richiama alla consapevolezza obbligante di tale tradizione, al necesse est del De inventione, all’inchoandum di Isidoro di Siviglia. E Tommaso d’Aquino osservava, a proposito del De anima di Aristotele, che il filosofo facit tria quae necessaria sunt in quolibet proemio. Nel Dialogus super auctores si dice che Boezio, nei proemi, seguì la consuetudo, e Boezio stesso aveva affermato che omne proemium […] ut in rhetoricis discitur, aut benivolentiam captat, aut attentionem preparat, aut efficit docilitatem. Persino Agostino ne aveva legittimato e consigliato l’uso in questi stessi termini 23. Premittit prologum: è formula standard nelle esposizioni dei proemi. La troviamo nell’accessus ai Disticha Catonis, in Romanus de Roma (premittit proemium) 24, più volte nelle esposizioni boeziane di Gilberto di Poitiers, dove si legge anche nella forma premittit longum […] proemium. La cura e l’attenzione con cui Gilberto di Poitiers, molto apprezzato da Trevet 25, ha trattato la tripartizione retorica nei proemi di Boezio costituisce un precedente dell’operazione trevetana su Livio. (fondata esplicitamente sul metodo dell’interpretazione letterale): In isto qui premittitur regule tytulo, duo digna consideratione tanguntur, videlicet operis sequentis utilitas cum dicitur: regula, et auctoris dignitas cum dicitur: beati Augustini episcopi (Creytens 1964, 140). 23 Faccio qui riferimento ai testi raccolti nel vol. Accessus ad auctores (Huygens 1954), nonché agli ampi studi di Solère 1998, e di Heullant-Donat, Chazan, Lamarrigue, Hamesse in Hamesse 2000b. 24 Hamesse 2000a, XV n. 11. Esponendo il proemio dei Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo, alcuni decenni dopo, in un clima ormai più ‘umanistico’, e segnato dal magistero del Petrarca, Benvenuto da Imola riproporrà la formula (§ 18 dell’Accessus, Rossi 2002, 418-419 e nota): In primo libro Valerius premictit prohemium in quo duo facit in generali. Nam proponit materiam quam scribere intendit et invocat auxilium Tiberii, cuius premium optabat et sperabat, et in hoc facit auditorem docilem, benivolum et attentum cum premittit humilitatem, brevitatem et magnitudinem. 25 Clarebant his temporibus viri illustres […]. Gilbertus Poretanus in Galliis tam liberalium artium, quam divinarum scripturarum scientia eruditus ad plenum. Hic libros Boetii de Trinitate et de Hebdomadis commentavit. Scripsit etiam, ut fertur, librum Sex principiorum, et de Canone Sancto nonnullos libros sua expositione illustrans, post magistrum Anselmum, super Psalterium et super Epistolas Pauli, ex dictis sanctorum Patrum compactam edidit glossaturam (così in Hog 1845, 9; Häring 1966, 12; 54 e 235 per le citazioni dalle Expositiones boeziane).
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Livio ha inteso suscitare la benevolenza del lettore avvalendosi di tre dei quattro loci raccomandati nel De inventione (1,16,22 Benivolentia quattuor ex locis comparatur: ab nostra, ab adversariorum, ab iudicum persona, a causa): la ‘persona’ dell’autore, quella dei suoi avversari, la causa stessa (sono assenti i giudici, poiché non è nominato alcun dedicatario) 26. Q uanto alla persona dell’autore, è opportuno che egli agisca sine arrogantia (Livio infatti ostenta la propria umiltà mettendo in dubbio l’utilità dell’opera); inoltre la causa stessa che lo spinge a scrivere suscita benevolenza (tema del consuluisse memoriae); quanto alla persona degli avversari, individuati nella snob multitudo scriptorum modernisti, Livio li liquida con una (ironica) captatio benevolentiae 27. I lettori dei libri Ab urbe condita si predisporranno in una condizione di ‘docilità’, cioè di apertura verso la materia, si aperte et breviter summam causam exponemus, come insegna Cicerone. Livio infatti enuncia ciò di cui scriverà e ciò che invece eviterà di trattare (tema immensum opus e rigetto delle fabulae). Bisogna notare che il capitolo della docilitas si intreccia con, o meglio anticipa, quello dell’attenzione. Del resto, come spiega Cicerone, cum docilem velis facere, simul attentum facias oportet. E coinvolgono sicuramente l’uditorio i grandi temi, quelli che riguardano la collettività, o gli uomini illustri, o la divinità, o lo stato. Indubbiamente la crescita di Roma ne fa parte. Il tema immensum opus gode nell’esposizione di un trattamento particolarmente attento. Trevet ne propone 26 I dedicatari assumono in molti proemi tardo antichi e medievali proprio la funzione di giudici, poiché ad essi l’autore affida il compito di correggere gli eventuali errori da lui commessi. Gilberto di Poitiers è esplicito su questo punto: nel proemio del Liber de duabus naturis, Boezio Joannem, cui scribit, sui operis correctorem, et Symmachum, cui idem opus destinat, iudicem constituens laudat (Solère 1998, 320). Gilberto introduce una significativa variazione nello schema ciceroniano, peraltro fedelmente seguito: Cicerone (inv. 1,16,23) aveva suggerito di sollecitare l’attenzione degli uditori promettendo loro magna, nova, incredibilia, soggetti pertinenti a tutti, o a persone illustri, o agli dèi, aut ad summam rem publicam; Boezio invece, secondo Gilberto, movet autem attentionem, non quia nova aut incredibilia, sed quia magna et ad Deum universalemque Ecclesiam pertinere, illa de quibus agit significat (In librum de duabus naturis commentaria, PL 64, 1356 A). Così Trevet concludendo la dedica al papa del commento alla Genesi (su cui Crevatin 2014, 408): Opus ergo istud ab annis consummatum nulli tamen hucusque ex integro communicatum vestre sanctissime dominationi transmitto ut iuxta vestre auctoritatis examen in publicum prodeat, quod a me detentum est hactenus in archano. 27 «La proximité entre la formule de Tite-Live et celle de Salluste permet de choisir une certaine ironie de Tite-Live à l’égard de ses concurrents» (de Franchis 2014, 194).
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una doppia interpretazione: nel sottolineare l’enormità del compito che si è addossato, Livio forse critica implicitamente la celebrata brevitas sallustiana (a testimoniarlo ancora Seneca). Comunque (seconda interpretazione) settecento anni di storia sono un’impresa davvero ardua, tanto più che i lettori potrebbero annoiarsi di storie così lontane dal loro burrascoso presente, storie che invece consolano l’animo dello scrittore 28. La terza sezione si apre con un problema testuale: i tre testimoni concordemente recitano reddit auditorem benivolum. Non è un lapsus d’autore, e la testimonianza di Landolfo, che riporta il corretto attentum, lo conferma. Q uesto è un dato da tenere in conto ai fini della ricostruzione della tradizione dell’expositio 29. Ripercorrendo fedelmente lo schema ciceroniano, e forse anche con la suggestione dell’excitatio raccomandata da Isidoro di Siviglia (il lettore/auditore sarà reso benivolum precando, docilem instruendo, adtentum excitando), Trevet ci spiega che Livio ha presentato la propria opera come utile sia politicamente, pertinente cioè ad summam rei publicae, che eticamente, grazie agli esempi da seguire o da fuggire. Incidenter, dice Trevet, Livio Romane rei publice describit nobilitatem. Incidenter è una parola molto significativa, perché ci richiama a una concezione della storiografia (in particolare delle storie universali) nella quale ciò che conta è la verità evenemenziale, la ‘serie’ degli accadimenti, e tutto ciò che ne esula è avvertito come estraneo alla trama di fondo. Q uesto non significa che lo storico ‘moderno’, cristiano, non possa aprirsi all’interesse per scenari più ampi: il celebrato ‘maestro delle storie’, Pietro Comestore, nel compilare la sua storia sacra non aveva escluso la storia dei pagani e non ne aveva rifiutato le testimonianze. Ma a lato: de historiis quoque ethnicorum quedam incidentia pro ratione temporum inse-
28 Q ui Trevet compie un corto circuito temporale, collocando la composizione degli Ab urbe condita al tempo della guerra civile tra Cesare e Pompeo. Perché si è limitato, senza impegnarsi in calcoli (moderatamente) complessi, a riecheggiare Orosio: Anno siquidem ab Urbe condita DCC incertum unde concretus plurimam urbis partem ignis invasit […]. Hinc iam bellum civile committitur, quod magnis iamdudum dissen sionibus ac molitionibus parabatur (6,14,5). 29 Crevatin 2012, 119-123, per i rapporti tra i testimoni. La lezione attentum oltre che dalle note di Landolfo è confermata da Nicola Trevet stesso all’inizio del l’esposizione del prologo: Tertio reddit attentum utilitatem operis sui indicans, dove l’attenzione è collegata all’utilitas e non alla benivolentia.
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rui, instar rivuli qui secus alveum diverticula que invenerit replens preterfluere tamen non cessat 30. Resta allora da vedere come lo storico Nicola Trevet ha riempito i diverticula della sua propria opera aprendoli al gran fiume della storia liviana. Nel 1327 Nicola Trevet dedicò a Ugo di Angoulême, prima successore di Rigaud d’Assier nella carica di collettore papale in Inghilterra (a lui Giovanni XXII – ricordiamo – si era rivolto affinché sostenesse economicamente il maestro domenicano) e poi arcidiacono di Canterbury, la sua propria fatica storiografica, gli Annales ab origine mundi o Historia 31, una cronaca universale su cui la lettera di dedica ci fornisce informazioni interessanti. Ugo infatti aveva espresso un desiderio, o meglio impartito un ordine, come testimonia Trevet stesso: Plurima autem de gestis Romanorum extracta de Tito Livio, que ipse ab urbe condita decem libris prosecutus et de bello punico secundo quod aliis libris decem complexus est, huic operi ad vestram instantiam inserui locis suis secundum quod annorum series requisivit.
Ugo di Angoulême aveva cioè voluto che la profonda conoscenza di Livio acquisita da Nicola Trevet nel corso dell’esposizione letterale non restasse lettera morta, ma intervenisse ad ampliare il tessuto della cronaca. Ciò che Trevet ha puntualmente eseguito, inserendo ampi brani di Livio nella serie cronologica data. Egli è consapevole della difformità della sua opera rispetto al tipo comune, e spiega con lucida coscienza storiografica il metodo seguito. Gli lasciamo la parola: ‘Sebbene nei luoghi in cui ho operato gli inserimenti abbia cercato di condensare molte cose in ossequio al criterio di brevità, credo tuttavia di non aver omesso nessuna contingenza, secondo quanto mi avevate ordinato (nihil me credo iuxta verbum vestrum de contingentibus omisisse), fatta eccezione per le orazioni persuasorie tenute in pubblico, che spesso si rifanno ad avvenimenti già narrati. Talvolta le ho omesse del tutto, sull’esempio di Pompeo Trogo, il quale, secondo quanto testimonia il suo abbreviatore Giustino, rimprovera sia a Livio che a Sallustio l’inserimento di tali orazioni perché esse superano la misura della historia; talvolta però le ho riferite succintamente, perché 30 PL 198, 1475. Anche Paolino da Venezia nel suo Compendium aveva introdotto, a lato del resoconto cronologico, explicationes o contingentia in colonne dedicate (Heullant-Donat 1993, 395). 31 Crevatin 2014, 411.
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contenevano qualche notevole sententia. Perciò ho dovuto superare i limiti consueti agli scrittori di cronache, i quali si propongono la brevità, negli estratti da Tito Livio, e soprattutto nella descrizione della seconda guerra punica’.
Secoli dopo, Hippolyte Taine si porrà in tutt’altra prospettiva: «On voit comment les raisons des faits sont contenues dans les discours des personnages, comment la science est devenue éloquence, – et comment l’historien se trouve philosophe parce qu’il est orateur. À ce titre, les harangues de Tite-Live sont la partie la plus utile de son histoire» 32.
Appendice 1. § Facturus] Prima pars prohemi principalis in qua reddit lectorem benivolum humilitatem suam in scribendo exprimens. § Res est preterea] Secunda pars prohemi principalis in qua reddit lectorem docilem de quibus velit scribere et que obmittere ostendens. § Ad illa] Tertia pars prohemi principalis in qua reddit auditorem attentum utilitatem operis sui indicans. 2. Incipit prologus super apparatum libri Titi Livii ab urbe condita. Titum Livium virum eloquentissimum fuisse beatus Ieronimus in epistola ad Paulinum testatur, de eo sic scribens: ‘Ad Titum Livium, lacteo eloquentie fonte manantem, de ultimis Hyspanie Galliarumque finibus quosdam venisse nobiles legimus, et quos ad contemplationem sui Roma non traxerat, unius hominis fama perduxit’. Q uem et Seneca in ultimi Declamationum libri prologo commendat, dum asserit Lucium Magium eiusdem generum non in sui laudem sed in soceri declamatorem apud populum Romanum celebrem extitisse. · 3. Hunc Titum libri huius, qui est de gestis Romanorum sive de rebus Romanis, auctorem designat titulus hic prescriptus. Distinxit autem hunc librum in duas partes, quarum prima dicitur «Ab urbe condita», ut ex titulo patet, secunda vero «De bello Punico». Utraque vero pars in X libros distenditur. ·
· 2 Expositio Domini Pauli Spira de Colonia super Titum Livium patavinum, etprimo super primum librum decadis prime ab urbe condita B; om. L Istum Livium (al’ Titum Livium in ras.) B non in: nominis B non ipse B post laudem add. scripsisse B sed in soceri om. P sed…apud om. B spatio relicto declamatorem: deinde clamatorie P apud: narrat P Hier., Ep. 53; Sen., contr. 10 praef. 2 Pertinere autem ad rem non puto, quomodo L. Magius, gener Titi Livi, declamaverit, cum illum homines non in ipsius honorem laudarent, sed in soceri ferrent. · 3 autorem B ex: et L distenditur : discenditur L 32 Taine 1856, 31. Di grande rilievo invece il ruolo dell’oratoria nella pratica storiografica di Albertino Mussato: Modonutti 2017.
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4. Prime vero parti, que est de re Romana ab urbe condita, premittit prologum, in quo more prohemiali tria facit, quia primo reddit lectorem benivolum humilitatem suam in scribendo exprimens; secundo reddit docilem de quibus velit scribere et que omittere ostendens, ibi: Res est preterea; tertio reddit attentum utilitatem operis sui indicans, ibi: ad illa michi. · 5. Circa primum tria facit, quia primo suam humilitatem ostendendo utrum opus suum sit utile vel necessarium sub dubitatione ponit; secundo dat causam cur nichilominus scribere voluerit, ibi: utcumque erit; tertio obiectionem quandam solvit, ibi: et si in. Circa primum duo facit, quia primo utrum sit aliqua utilitas operis sui dubitat; secundo huius causam assignat, ibi: Q uippe. · 6. Q uantum ad primum dicit quod nescit utrum facturus sit aliquid utile si scribat res a populo Romano gestas ab urbis prima conditione; et si sciret se aliquid utile facere, non auderet tamen hoc asserere. Opere pretium, idest utile vel necessarium, primordio, idest prima conditione, ausim, idest audebo – et est verbum defectivum quod pro subiunctivo solet poni. · 7. Deinde cum dicit quippe assignat causam sue dubitationis dicens quod res gesta Romani populi tam vulgata est et comuniter nota propter multitudinem scriptorum, quorum qui novi sunt putant certius se scribere quam priores fecerunt vel saltem pulchriori stilo et magis artificiosa eloquentia. Et hoc est quod dicit scribendi arte, idest artficiosa eloquentia, rudem vetustatem, idest veteres in scribendo rudes, superaturos credunt quia, inquam, tam vulgata est res Romani populi nescio utrum utile sit quod ego scribam. · 8. Deinde cum dicit utcumque erit dat causam quare hoc non obstante voluit scribere dicens utcumque erit, idest quomodocumque sit de hoc quod dixi, iuvabit tamen, idest utile erit, me ipsum pro virili parte, idest pro portione et parte mihi debita: virilis pars dicitur portio hereditatis divise que contigit illum inter quos dividitur, unde loquitur ad similitudinem eorum inter quos dividitur hereditas, quorum quilibet tenetur secundum proportionem partis sue supportare onus hereditatis divise in redditu vel in servicio aliquo faciendo. Dicit ergo utile esse tamen me ipsum pro virili parte, idest pro portione mea, consuluisse memorie, idest providisse et iuvisse ut maneat apud me vel apud posteros memoria rerum gestarum, principis terrarum populi, idest ut habeatur in memoria que res geste fuerint et sub quo principe et in quibus terris et que fuerit conditio vel quis status populi Romani. · 9. Deinde cum dicit Et si in solvit enim obiectionem: posset enim sibi dici quod inter tot nobiles scriptores opus suum reputabitur pro nichilo. Respondet quod et si, idest quamvis in multitudine scriptorum non habeat claram famam, sed lateat in obscuro, tamen consoler, idest consolabor, nobilitate et magnitudine, idest quod nobiles sunt et magni, non viles et ignobiles qui officient, idest nocebunt nomini meo, idest fame mee. ·
· 4 re om. L quia om. L reddit uditorem (uditorem in mg.) P · 5 tria…primo om. B voluit B · 6 se om. L B subiunctione B ponitur L · 7 se certius B inquam: in quantum B · 9 et si in tanta (om. enim) B 686
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10. Deinde cum dicit Res est, reddit auditorem docilem ostendendo de quibus est scripturus. Et primo docet de quibus vult scribere ; secundo que vult omittere, ibi : que ante conditam. Circa primum tria facit, quia primo ostendit quod laboriosum est scribere de hiis de quibus intendit dicens : Res est preterea et immensi operis, idest non solum est res plena invidie, ut iam dixi, et hoc forte propter Salustium cuius erat emulus, ut patet ex IX libro Declamationum Senece, sed immensi operis, idest laboris, ut repetatur, scilicet res, que supra septingentesimum annum scilicet gesta est. Hic patet quod Titus hunc librum scripsit septingentesimo anno ab urbe condita, et que profecta ab exiguis iniciis, quia civitas Romana in sui conditione parva erat valde, eo creverit, idest aucta sit, ut iam magnitudine sua laboret quia propter impugnationem aliarum gentium sue magnitudini invidentium laborat bellando et pugnando cum eis pro defensione sue magne potestatis, vel forte hoc dicit propter civile bellum quod iam inchoatum erat, sicut statim dicetur. · 11. Secundo cum dicit Et legentium docet quid de hiis qui lecturi sunt opus suum sentit, dicens quod non erit eis multum delectabile legere ea que scribo de origine urbis, eo quod mallent audire recentiora et viciniora suo tempori, unde dicit Et haut, idest non, dubito quin prime origines, scilicet urbis, proximaque originibus, scilicet gesta, prebitura sunt minus voluptatis plerisque legentium festinantibus ad hec nova, idest tempora et gesta recentia, quibus iam pridem ipse vires populi prevalentis, scilicet Romani, se conficiunt, idest debilitant propter assiduitatem bellorum civilium. · 12. Tercio cum dicit Ego contra ostendit quale emolumentum sibi in scribendo accrevit. Ubi nota quod septingentesimo anno ab urbe condita, quo tempore hic auctor videtur ex predictis hanc hystoriam scripsisse, inchoatum fuit bellum civile inter Pompeium et Iulium Cesarem, quod utique bellum nimis erat pernitiosum rei publice et nimis plangebatur ab hiis qui zelum urbis habebant. Unde Titus Livius scribendo hoc in hoc seipsum consolabatur quod cogitatio sua non erat occupata circa mala presentia dum studuit circa antiquiora scribenda. Unde dicit Ego contra, scilicet illos qui festinant ad audiendum nova et recentia, petam quoque hoc premium laboris mei uti avertam me tantisper certe a conspectu malorum que nostra etas vidit per tot annos dum repeto tota mente, idest cogitatione, prisca, idest antiqua illa repeto inquam expers omnis cure, idest sollicitudinis, que et si non possit flectere animum a vero, scilicet ut in laudem gentis mee falsa scribam, tamen afficere scilicet possit sollicitum, idest trahere affectum meum ut nimis solliciter circa ea que geruntur. ·
· 10 auditorem: auctorem L et om. B ommittere L et immensi: et om. B dixi: dici L forte dicit L laborum L que ab exiguis profecta B iam in mg. P Sen., contr. 9, 1, 4 · 11 eis supra lineam P voluptates B propter: pro P · 12 Tytus Lyvius P hoc: hec B ante premium scripsit et expunxit privilegium P tamen si possit afficere P 687
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13. Deinde cum dicit que ante ostendit a quibus in scribendo se vult abstinere, scilicet ab hiis que contigerunt ante urbem conditam vel condendam. Et circa hoc tria facit, quia primo docet quare vult ab hiis abstinere, scilicet quia illa magis sunt decorata fabulis poeticis quam incorruptis monumentis rerum gestarum, idest quam vera memoria rerum que geste sunt. Et ideo nec ea affirmare nec refellere in anima, idest in intentione, est. · 14. Secundo cum dicit Datur, docet quare non vult ea refellere, quia ignoscendum est antiquis qui talia finxerunt miscendo humana cum divinis, ut augustiora, idest nobiliora, facerent civitatum primordia. Et si hoc licet alicui populo ut suas origines consecret, idest faciat sacras et divinas, precipue licet populo romano propter belli gloriam, ut parentem suum conditorisque sui, scilicet Romuli, Martem, scilicet qui est deus belli, potissimum, idest optimum, ferat, idest dicat, et tam equo animo debent hoc humane gentes ferre, scilicet non contradicendo, sicut paciuntur humane imperium. · 15. Tercio cum dicit Sed et hiis, dicit quod quomodocumque de hiis existiment homines putando ea vera vel animadvertant ea esse falsa, non ponet ea in magno discrimine, scilicet defendendo unam partem vel aliam. · 16. Deinde cum dicit ad illa reddit auditorem attentum docens utilitatem operis sui. Et circa hoc duo facit, quia primo ostendit operis sui utilitatem; secundo Romane rei publice incidenter describit nobilitatem, ibi: Ceterum. Circa primum duo facit, quia primo docet quid lector in suo opere considerare debeat; secundo quam utilitatem ex hoc percipiat, ibi: hoc est illud. · 17. Q uantum ad primum primo docet quomodo debet considerare bonos mores per quos aucta est res publica, unde dicit: quisque pro se, idest sua utilitate, michi, scilicet scribenti, intendat acriter animam ad illa, scilicet considerando que modo dicam, scilicet ut sciat que vita, qui mores fuerint, scilicet olim in urbe, per quos viros quibusque artibus domi milicieque, idest qua prudencia sive tempore pacis quando manebant domi in quiete, sive tempore belli quando foris exercebant miliciam, et partum et auctum sit imperium. · 18. Secundo cum dicit labante, docet quomodo debet considerare mores deficientes et vicia per processum temporis introducta. Unde dicit: sequatur animo, idest post considerationem bonorum morum sequatur animis scilicet considerando, vel sequatur amodo, idest prosequatur deinceps considerando, veluti, idest quomodo, labante, idest cadente et deficiente, deinde paulatim disciplina primo mores dissidentes, idest abinvicem vel a priori statu discordantes, deinde ut, idest quomodo, magis magisque lapsi sunt, scilicet per processum temporis, tum, idest tandem, ceperint ire precipites ut scilicet sic omnino deficiant donec perventum est ad tempora hec, scilicet presencia, quibus nec pati possumus vicia nostra, scilicet propter gravia nocumenta que ex eis inferuntur civibus, sicut ex ambitione Cesaris causatum
· 13 deinde: demum L scilicet scripsi: quia codd. hiis que : que om. L vel eciam L hoc : hec B monimentis B animo B · 14 ea : eam B consecratas faciat B · 15 ante homines scripsit et expunxit gentes B · 16 attentum scripsi cum Landulfo: benivolum codd. docens: dicens B romane: ratione L opere suo B utilitatem om. B · 17 que modo: quomodo L idest: scilicet L · 18 idest post…animis om. B ambitione: ammonitione L causatum: creatum L 688
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est civile bellum, nec remedia, scilicet contra hec vicia pati possumus propter proclivitatem et pronitatem in illa. · 19. Deinde cum dicit: hoc est illud, docet que est utilitas in consideratione istorum, et est ut videas quid imitari debeas et quid vitare, unde dicit: hoc est illud precipue salubre et frugiferum in cognitione rerum, scilicet gestarum, intueri te documenta posita in illustri monumento, idest in clara memoria, omnis exempli inde capias tibi, idest ad utilitatem tuam, tueque rei publice quod imiteris vel quod imitari, scilicet velis vel debeas. Inde, scilicet de huiusmodi exemplis, capias quod vites fedum inceptum, fedum exitum, hoc est ut vites que feda habent principia et fedum finem. · 20. Deinde cum dicit Ceterum, quia iam dixit utile esse intueri res gestas ut inde accipiantur exempla morum, hic incidenter commendat rem publicam Romanam quo ad nobilitatem morum pertinet. Et primo hanc commendationem ponit, secundo casum eius deplangit, ibi: Nuper. · 21. Q uantum ad primum dicit quod, nisi fallatur amore rei de qua scribit, nunquam fuit aliqua res publica sanctior quam romana nec ditior, idest copiosior, bonis exemplis, nec unquam fuit civitas quam vicia tam tarde occupaverunt, nec in qua paupertas et parcimonia tam diu fuit in honore, adeo quod quanto res publica fuit pauperior tanto minus de cupiditate inerat. · 22. Deinde cum dicit Nuper, deplangit casum rei publice in vicia. Et circa hoc duo facit, quia primo planctum breviter ponit, secundo quare planctui non insistat ostendit, ibi: Sed querele. Dicit ergo quod divicie nunc tarde invexerunt avariciam et alia vicia. Et dicit: desideriumque per luxum et libidinem pereundi perdendique omnia, non quia periculum corporis et perditio rerum secundum se desiderentur, sed quia concomitantur libidinem que secundum se desideratur. Ipsa autem consumit corpus et abreviat vitam et inducit perditionem rerum. · 23. Deinde cum dicit Sed querele docet quod non est modo tempus insistendi planctui et querelis. Et primo docet quod non est huic insistendum; secundo docet quid si consuetudo permitteret esset faciendum, ibi : cum bonis. Dicit ergo quod ex quo querele non sunt accepte etiam quando sunt necessarie merito debent abesse principio tante rei ordiende, idest inchoande, scilicet cuiusmodi est res Romana ab urbe condita. · 24. Deinde cum dicit cum bonis docet quid est faciendum, dicens cum bonis pocius, scilicet ordiendum est magis quam cum vituperiis, votisque ominibus et precationibus deorum dearumque libencius inciperemus ut orsis, idest iniciis, tanti operis darent prosperos successus, idest prosperos eventus, si nobis quoque, scilicet hystoriographis, mos, idest consuetudo, esset ut poetis, qui scilicet in principio carminum suorum semper faciunt invocationem deorum. Explicit prologus. Incipit liber primus. ·
· 20 quo: que B pertinet om L B · 21 vicia tam: in natam B tarde: fere B · 22 ostendit om. B nunc: non L secundum se : que secundum se B que… autem om. B · 23 etiam corr. in mg. ex et B non sunt (non supra lineam ) B debent corr. ex deberent B ordiende : ordinande L incoande L cuiusmodi : cuius B L · 24 oriendum L incipienter P incipiemus B explicit…primus. om. L 689
G. CREVATIN
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DISCORSI SOPRA LA ‘TERZA’ DECADE MACHIAVELLI DI FRONTE ALLA SECONDA GUERRA PUNICA
La dedica a Cosimo Rucellai e a Zanobi Buondelmonti che Machiavelli pone al termine dei tre libri dei Discorsi si chiude con parole notissime, sulle quali non è però inutile soffermarsi ancora: Onde io, per non incorrere in questo errore, ho eletti non quelli che sono principi, ma quelli che, per le infinite buone parti loro, meriterebbono di essere; non quelli che potrebbero di gradi, di onori e di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non potendo, vorrebbono farlo. Perché gli uomini, volendo giudicare dirittamente, hanno a stimare quelli che sono, non quelli che possono essere liberali, e così quelli che sanno, non quelli che, sanza sapere, possono governare uno regno. E gli scrittori laudano più Ierone Siracusano quando egli era privato, che Perse Macedone quando egli era re: perché a Ierone, ad essere principe, non mancava altro che il principato; quell’altro non aveva parte alcuna di re, altro che il regno. Godetevi, pertanto, quel bene o quel male che voi medesimi avete voluto: e se voi starete in questo errore, che queste mie opinioni Vi siano grate, non mancherò di seguire il resto della istoria, secondo che nel principio vi promissi. Valete 1.
La scelta di due destinatari che non sono principi, ma ‘meriterebbono di essere’ è stata, in effetti, commentata da più parti. Si deve a Giorgio Inglese la proposta di intendere queste parole come una «vera e seria palinodia per la dedica a Lorenzo» 2 del Principe: prendendo le distanze da quanti ‘sogliono sempre le loro opere a qualche principe indirizzare’, Machiavelli rivedrebbe prima di tutto le valutazioni che lo avrebbero spinto a dedicare ai Medici 3 Machiavelli 2001, II 791. Inglese 1995, XI. 3 Sull’opportunità di intendere la dedica del Principe come indirizzata genericamente alla parte medicea, con ciò sfumando la contraddizione tra la volontà di de1 2
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 693-713 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125351
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il suo opuscolo de principatibus. D’avviso completamente diverso, invece, Mario Martelli 4 che, ipotizzando la vicenda redazionale del Principe si protragga fino al 1518, suggerisce siano i Discorsi a rappresentare la preistoria del pensiero machiavelliano, il cui approdo più originale andrebbe rintracciato proprio nelle riflessioni sul principato. È sull’ultimo rigo del testo machiavelliano, però, che si può forse spendere ancora qualche parola. Machiavelli annuncia infatti ai suoi lettori l’intenzione di ‘seguire il resto della istoria’, cioè di procedere al commento anche della terza e della quarta decade di Tito Livio secondo quanto ‘nel principio’ aveva promesso. Il riferimento è al proemio del primo libro dei Discorsi, dove Machiavelli scrive: Volendo, pertanto, trarre li uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere, sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de’ tempi non ci sono stati intercetti, quello che io, secondo le cognizione delle antique e moderne cose, iudicherò essere necessario per maggiore intelligenzia di essi, a ciò che coloro che leggeranno queste mia declarazioni, possino più facilmente trarne quella utilità per la quale si debbe cercare la cognizione delle istorie 5.
La lettura ravvicinata dei due testi crea, in effetti, qualche stridore: in sede proemiale Machiavelli non annuncia affatto un commento ‘sopra la prima deca’; si ripromette bensì di glossare ‘tutti quelli libri di Tito Livio’ che sono sopravvissuti al naufragio degli Ab urbe condita. Difficile non pensare che la dedica, da intendersi come documento paratestuale di chiusura dell’opera 6, arrivi a correggere il tiro più che a riprendere le fila della sua dichiarazione d’intenti. Ad un dato momento, il lavoro su Livio dovette essere interrotto e, attraversata la prima decade non senza salti in avanti e passi indietro, Machiavelli provò a fermare momentaneamente il punto, rimandando ad altro momento il lavoro sui libri liviani rimanenti. Per capire le ragioni di questa interruzione non è inutile, in manstinare l’opera a Giuliano de Medici espressa da Machiavelli nella lettera a Vettori e la tradizione manoscritta che concordemente riporta la dedica a Lorenzo di Piero de Medici, cf. ora Ruggiero 2016. 4 Cf. Martelli 1999. 5 Machiavelli 2001, I 7-8. 6 Concordemente la riportano alla fine, infatti, i testimoni dei Discorsi utilizzabili in sede di edizione critica. D’altronde, è solo in sede di explicit che è giustificabile un riferimento al proemio come a qualcosa che è stato detto ‘nel principio’, cosa non spiegabile se si colloca la dedica in apertura come avveniva nell’edizione Mazzoni (1929).
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canza di dati certi, ripercorrere le informazioni di cui, allo stato attuale, disponiamo circa la cronologia dei Discorsi. Il riferimento ad una trattazione sulle repubbliche nel secondo capitolo del Principe ha spinto molti a considerare il 1513 come anno in cui una prima redazione di quelli che sarebbero stati i Discorsi doveva essere compiuta, sebbene questo assunto oggi paia meno solido di quanto si è ritenuto in passato: perché il luogo del Principe sia probante, infatti, bisogna postulare che il presunto ‘trattato sulle repubbliche’ fosse un testo già licenziato dall’autore, essendo difficile giustificare l’idea che Machiavelli rimandi, come fosse cosa nota, ad una sua opera che nessuno poteva aver letto. Per questa ragione da più parti 7 si propone ormai di considerare quel riferimento come relativo soltanto agli scritti del periodo di cancelleria o, comunque, di ridurre l’accanimento ermeneutico su un luogo che – se parla di un’opera perduta di Machiavelli – è improbabile si riferisca ai Discorsi così come oggi ci appaiono. Sicuramente dopo il 1513 (precisamente, stando alla sua corrispondenza, tra il 1515 e il 1516) Machiavelli iniziò a frequentare le riunioni degli Orti Oricellari 8. Felix Gilbert 9 ha da tempo dimostrato come rimandi 7 Così Raffaele Ruggiero: «L’esistenza di un’opera sulle repubbliche altrimenti ignota non spiega come mai l’autore di un trattatello destinato, nell’intento di Niccolò, alla massima circolazione – a finire nelle mani dei più autorevoli cittadini di Firenze e dei più eminenti esponenti della curia pontificia – possa omettere un argomento (di estremo rilievo) rinviando a un’opera (la presunta “opera sulle repubbliche” che sarebbe confluita nell’attuale esordio dei Discorsi) assolutamente sconosciuta, oltre che, naturalmente, inedita e non diffusa in alcun modo. […] I dati a nostra disposizione ci permettono soltanto di fissare pochi elementi: i Discorsi, come noi oggi li leggiamo, appaiono unitariamente post-principeschi; di un’“opera sulle repubbliche” non si hanno riscontri eccetto che in questo sibillino avvio del Principe; Machiavelli non può che riferirsi […] alla complessa mole degli scritti machiavelliani di governo, anteriori al 1512 e ben noti, se non addirittura disponibili per cerchie politico-amministrative engagées nel nuovo governo mediceo; scritti già attenti alle tensioni criticoteoretiche relative ai meccanismi di gestione del potere» (Ruggiero 2008). 8 Su questo cf. la voce Orti Oricellari dell’Enciclopedia Machiavelliana (Comanducci 2014). 9 Gilbert 1953, 138-139: «The Discorsi contain a great number of chronological references; and on the basis of these reference it is possibile to give greater precision and meaning to the inference that the composition of the Discorsi extended over six years. Of course many of the chronological references are so vague that for the purposes of exact dating they are of no value. But two statements point to a definite date. In Book II, ch 10, Machiavelli writes that “if treasures guaranteed victory…, a few days ago the combined forces of the Pope and the Florentines would have had no difficulty in overcoming Francesco Maria, the nephew of Julius the Second, in the war of Urbino”. This refers to a definite event, the conquest of Urbino in 1517. Another reference to a definite time can be found in book III, ch. 27. “Fifteen years ago Pi-
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interni al testo costringano a considerare l’anno 1517 come anno in cui la scrittura dell’opera si addensa. Il 2 novembre 1519 muore Cosimo Rucellai e nel maggio dello stesso anno era morto Lorenzo di Piero de’ Medici, lasciando de facto al cardinale Giulio de’ Medici la signoria di Firenze, cosa non priva di conseguenze nella biografia machiavelliana. Con qualche cautela, dunque, si propone ormai di considerare il 1519 come momento in cui collocare la conclusione del progetto organico di scrittura dei Discorsi. Esistono, comunque, interpretazioni che preferiscono considerare quest’opera liviana come un work in progress che avrebbe accompagnato il suo autore sostanzialmente per tutta la vita 10. Gli anacronismi eventualmente rilevati da questa dilatazione della scrittura (ad esempio: il riferimento 11 a Massimiliano I di Asburgo, morto nel 1519, come personaggio vivente) dei Discorsi dipenderebbero dal fatto che essi sono un’opera non finita, mai sottoposta a revisione, da intendersi come una sorta di zibaldone perennemente in fieri dell’attività intellettuale di Machiavelli. Bisogna poi aggiungere che dopo questa fase la vita di Machiavelli conobbe cambiamenti importanti che avrebbero inciso anche sul suo lavoro propriamente letterario. La morte del Duca di Ur-
storia was divided, as it is still, into the Panciatichi and the Cancellieri, but in those days they were armed, whereas today they have given this up”. Since Machiavelli refers here to the civil strife which he had reported in his “relation of the events in Pistoia”, this sentence must have benne written late in 1516 or in 1517. Other chronological indications also point to a special significance of the year 1517 for the composition of the Discorsi. A number of events which took place after 1513 are mentioned, allusions to events which happened as late as 1515, 1516 and 1517 are scattered over all parts of the work, but there is no reference to any evento whick took place after 1517. Thus a consideration of the chronological references leads to the conclusion, that of the six years during which the Discorsi are supposed to have been written, the year 1517 was particularly important». 10 «I Discorsi, insomma, come opera che accompagna l’intero arco della vita e dell’attività, sia politica che letteraria, di Machiavelli: dai giovanili entusiasmi repubblicani alla fiducia risposta negli ultimi anni in un ‘ordinatore’ mediceo (capace di riformare Firenze secondo il modello dello stato misto), passando attraverso l’adesione al ‘principato civile’ (soderiniano prima, mediceo poi) e alle mire principesce di Lorenzo duca d’Urbino». Bausi 2001, p. XVI. 11 ‘Dove si debbe notare che le leghe che si fanno coi principi, che non abbino o commodità di aiutarti per la distanza del sito, o forze da farlo per suo disordine o altra sua cagione, arrecono più fama che aiuto a coloro che se ne fidano: come intervenne, ne’ dì nostri, ai Fiorentini, quando, nel 1479, il Papa ed il re di Napoli gli assaltarono: ché, essendo amici del re di Francia, trassono di quella amicizia “magis nomen, quam praesidium”, come interverrebbe ancora a quel principe, che, confidatosi di Massimiliano imperadore, facesse qualche impresa […]’ Machiavelli 2001, 371-372.
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bino e il ruolo di predominio che Giulio de’ Medici venne a ricorprire sulla città sanciscono infatti la fine dell’ostracismo politico nei confronti dell’ex-segretario, sebbene all’interno di un engagement molto diverso da quello repubblicano. Anche grazie alla mediazione dei suoi amici degli Orti Oricellari e di quello che può essere addirittura considerato il suo patrono, Lorenzo di Filippo Strozzi 12, si ponevano infatti le condizioni per una riabilitazione di Machiavelli all’interno del regime mediceo. Q uesto reinserimento nell’attività politica della città coincise con un lavoro intellettuale che non si esita a definire febbrile: entro l’estate del 1520 Machiavelli avrebbe portato a compimento la stesura dell’Arte della guerra e della Vita di Castruccio Castracani 13. Nel novembre dello stesso anno lo Studio fiorentino di Pisa gli commissionò la scrittura delle Istorie fiorentine 14. Sempre nel 1520 Machiavelli avrebbe ripreso, in sordina, un lavoro di tipo diplomatico, essendo stato inviato a Lucca per conto degli Otto di pratica (e da questa legazione viene fuori il Sommario delle cose di Lucca): questo quadro andrebbe ulteriormente complicato se si accettasse la proposta di datare la composizione della Mandragola tra il 1519 e il 1520 15 (e, comunque, se si considera che nel 1520 la stessa veniva messa in scena 16 a Firenze e a Roma). Ancora, tra il novembre del ’20 e il gennaio del ’21 Machiavelli avrebbe redatto il Discursus florentinarum rerum indirizzato a papa Leone X, un testo decisivo per comprendere la partita che egli pensava di potersi giocare grazie alla sua ritrovata prossimità ai luoghi della decisione politica: 12 È, come noto, il dedicatario dell’Arte della guerra. Per la sua biografia e il suo rapporto con Machiavelli cf. Landon 2013. 13 Su questo testo e sulla «svolta degli anni ’20» che in esso è già misurabile cf. Palumbo 2013, 49-64. 14 «L’8 novembre 1520 Machiavelli fu assunto dagli ufficiali dello Studio Fiorentino di Pisa per due anni, di cui il primo fermo, ed il secondo a loro beneplacito, ‘inter alia ad componendum annalia et cronacas florentinas’. Lo stipendio gli fu fissato a 100 fiorini di sugello per anno, cioè alla metà della somma che aveva guadagnata come secondo cancelliere della Signoria; e siccome il fiorino di sugello, che anche chiamato ‘fiorino di Studio’, era stato gradualmente svalutato in rapporto al fiorino d’oro, il valore effettivo dello stipendio del Machiavelli era di soli 57 fiorini d’oro. Non c’è dubbio che l’incarico fosse dovuto al cardinale Giulio de’Medici, il quale era allora, come arcivescovo di Firenze, capo dello Studio, seppur l’iniziativa potesse essere venuta in parte dallo stesso Papa». Rubinstein 1987, 695. 15 Ma, come praticamente ogni vicenda della bibliografia machiavelliana, anche su di questo esiste un accesissimo dibattito. Cf. Inglese 2006, 157-174. 16 Cf. Stoppelli 2014.
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in esso troviamo infatti il tentativo di ispirare i provvedimenti costituzionali dei Medici in un senso che facesse salve le principali istanze dell’esperienza repubblicana (su tutte, il Consiglio Grande) 17. Se non una ‘svolta’, è quanto basta a dire che una nuova fase di vita intellettuale e politica aveva preso corpo e che, quale che fosse il loro destino, i Discorsi appartenevano a quella precedente 18. Essi potevano ben continuare ad essere presenti sullo scrittoio di Machiavelli, ma bisogna almeno riconoscere che erano in buona compagnia e che dal 1519 l’attività di scrittura machiavelliana era impegnata da molte altre cose. In questo senso, se è senz’altro possibile che alcuni capitoli siano stati rimaneggiati o elaborati ex novo negli anni successivi a quelli della più intensa redazione, gli eventuali inserti tardi rintracciabili nel corpo dei Discorsi non possono far dimenticare quell’opera che, dopo averla annunciata, Machiavelli non scrisse mai: il commento organico alla terza e alla quarta decade di Tito Livio non vide mai la luce e dunque la promessa con cui si chiude la dedica a Cosimo e Zanobi fu destinata a restare inevasa. Ciò può forse spiegare in parte la ragione per cui nel corpo dei Discorsi si trovino commenti a passi che teoricamente esorbitano dall’oggetto di una trattazione che si vorrebbe ‘sopra la prima decade’: il lavoro preparatorio al progetto abortito di continuare il commento a tutti i libri liviani superstiti fornì materiali dalle altre decadi (appunti, note, semplice selezione di passi) che troviamo ricorsivamente nel corpo dei Discorsi e che dovevano essere funzionali all’allestimento di un’opera più estesa di quella che oggi leggiamo 19. Un caso interessante, in questo senso, può essere rappresentato dal quindicesimo capitolo del secondo libro dei Discorsi nel quale – tra gli altri – Machiavelli discute un episodio prelevato dal libro 24 degli Ab urbe condita. Prima di procedere alla lettura del capitolo, sono necessarie alcune informazioni di contesto che con17 Un nuovo tentativo che Jean-Claude Zancarini (2017) definisce molto opportunamente una «scommessa machiavelliana». 18 In questo senso andrebbe sfumata l’idea ancora diffusa di una granitica bipartizione della biografia machiavelliana, riconoscendo che ad un primo momento di esclusione segue un ritorno agli affari di governo, nel quale è possibile riconoscere la persistenza di alcune idee di fondo della pratica politica machiavelliana: si veda ormai la decisiva biografia scritta da Fournel – Zancarini (2020). 19 Basti pensare ai passi dedicati alla figura di Scipione (su questo cf. Fenzi 2016).
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sentano di inquadrare meglio la maniera in cui un evento relativo alla seconda guerra punica si inserisce all’interno della trattazione machiavelliana. Il capitolo in questione fa in effetti parte di un blocco di quattro capitoli del secondo libro dei Discorsi (2,13-16) nei quali Machiavelli si attarda a commentare quegli eventi che, in una reazione a catena, portarono allo scoppio della guerra latina (340 a.C.). I primi tre capitoli di questa sezione, decisamente omogenea (in un’opera, si noti di passaggio, che frequentemente procede per salti), non rappresentano un blocco unitario solo per affinità tematica e perché consecutivi: tutti e tre i capitoli, in realtà, presentano un estratto della medesima orazione degli Ab urbe condita, quella che il pretore latino Lucio Annio Setino tenne durante l’assemblea della lega latina durante la quale si decise di rompere gli indugi ed aprire le ostilità con Roma. La versione integrale di quest’orazione è in Ab urbe condita 8,4: Cum aliud alii censerent, tum Annius: ‘quamquam ipse ego rettuli quid responderi placeret, tamen magis ad summam rerum nostrarum pertinere arbitror quid agendum nobis quam quid loquendum sit. facile erit explicatis consiliis accommodare rebus uerba. (2) nam si etiam nunc sub umbra foederis aequi seruitutem pati possumus, quid abest quin proditis Sidicinis non Romanorum solum sed Samnitium quoque dicto pareamus respondeamusque Romanis nos, ubi innuerint, posituros arma? (3) sin autem tandem libertatis desiderium remordet animos, si foedus [est], si societas aequatio iuris est, si consanguineos nos Romanorum esse, quod olim pudebat, nunc gloriari licet, si socialis illis exercitus is est quo adiuncto duplicent uires suas, quem secernere ab se consilia bellis propriis ponendis sumendisque nolint, cur non omnia aequantur? (4) cur non alter ab Latinis consul datur? ubi pars uirium, ibi et imperii pars est. (5) est quidem nobis hoc per se haud nimis amplum quippe concedentibus Romam caput Latio esse; sed ut amplum uideri posset, diuturna patientia fecimus. (6) atqui si quando unquam consociandi imperii, usurpandae libertatis tempus optastis, en hoc tempus adest et uirtute uestra et deum benignitate uobis datum. (7) tempestatis patientiam negando militem; quis dubitat exarsisse eos, cum plus ducentorum annorum morem solueremus? pertulerunt tamen hunc dolorem. (8) bellum nostro nomine cum Paelignis gessimus; qui ne nostrorum quidem finium nobis per nos tuendorum ius antea dabant, nihil intercesserunt. (9) Sidicinos in fidem receptos, Campanos ab se ad nos descisse, exercitus nos parare aduersus Samnites, foederatos suos, audierunt nec mouerunt se ab urbe. (10) unde haec illis tanta modestia nisi a conscientia uirium et nostrarum et suarum? idoneos auctores habeo querentibus de nobis Samnitibus ita responsum ab senatu Romano esse, ut facile appareret ne ipsos quidem iam postulare ut Latium sub Romano imperio sit. usur-
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pate modo postulando quod illi uobis taciti concedunt. (11) si quem hoc metus dicere prohibet, en ego ipse audiente non populo Romano modo senatuque sed Ioue ipso, qui Capitolium incolit, profiteor me dicturum, ut, si nos in foedere ac societate esse uelint, consulem alterum ab nobis senatusque partem accipiant.’ (12) haec ferociter non suadenti solum sed pollicenti clamore et adsensu omnes permiserunt, ut ageret diceretque quae e re publica nominis Latini fideque sua uiderentur.
Il primo capitolo è dedicato al problema della frode (‘Che si viene di bassa a gran fortuna più con la fraude che con la forza’): esso indica le cause della decisione. I Latini si rendono conto di aver lasciato che la forza di Roma crescesse indisturbata, ingannati dal l’idea che il rapporto tra la città e i centri limitrofi fosse sul serio di parità così come veniva annunciato. Del lungo discorso di Lucio Annio Machiavelli riporta, in questo primo capitolo, pochissime parole: E che sia vero che i Latini si movessono per avere conosciuto questo inganno, lo dimostra Tito Livio nella bocca di Annio Setino pretore latino, il quale nel concilio loro disse queste parole: ‘Nam si etiam nunc sub umbra foederis aequi servitutem pati possumus, etc.’. Vedesi pertanto i Romani ne’ primi augumenti loro non essere mancati etiam della fraude; la quale fu sempre necessaria a usare a coloro che di piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire: la quale è meno vituperabile quanto è più coperta, come fu questa de’ Romani 20.
Vale appena la pena di osservare che, in realtà, non va da sé la scelta machiavelliana di assegnare a Tito Livio (‘lo dimostra Tito Livio nella bocca di Annio Setino’) la definizione di inganno affibbiata alla politica estera romana dai Latini: il giudizio si trova, in fin dei conti, all’interno di un’oratio ficta di un nemico e l’attribuzione di colpe alla parte avversa serve a legittimare la scelta di prendere le armi secondo i vincoli imposti dalla dottrina del bellum iustum 21. Machiavelli, però, non attribuisce alcuna valenza negativa alla frode come strumento politico e, anzi, gli preme stabilire che anche il più grande esercito che la storia abbia conosciuto dovette coniugare le sue azioni di forza con sotterfugi e inganni per ottenere i propri obiettivi. Essendo il proprio assunto più importante della fedele interpretazione del testo, Machiavelli può anche utilizzare le parole di un nemico dei romani che definisce l’alleanza Machiavelli 2001, I 387. Sulla ‘guerra giusta’ come topos delle orationes fictae nella storiografia antica cf. Abbamonte 2009. Due diverse letture del bellum iustum come nodo giuridico della società romana in Calore 2003 e Zuccotti 2004. 20 21
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con Roma come una ‘servitù nascosta sotto l’ombra di un patto equo’, così attribuendo a Livio l’opinione di uno dei suoi personaggi. Il secondo capitolo, il più breve dei quattro, si occupa del fatto che ‘ingannansi molte volte gli uomini, credendo con la umiltà vincere la superbia’. In esso è presentata l’occasione della guerra, cioè lo sviluppo di circostanze favorevoli che convincono i latini che quello è il momento di scegliere ed agire: Di che ne fanno fede le parole usate dal prefato Annio pretore latino nel medesimo concilio, dov’e’ dice: ‘Tentastis patientiam negando militem: quis dubitat exarsisse eos? Pertulerunt tamen hunc dolorem. Exercitus nos parare adversus Samnites, foederatos suos, audierunt, nec moverunt se ab urbe. Unde haec illis tanta modestia, nisi conscientia virium, et nostrarum et suarum?’. Conoscesi, pertanto, chiarissimo per questo testo, quanto la pazienza de’ Romani accrebbe l’arroganza de’ Latini 22.
In questo caso i tagli sono più estesi, ma si può dire che non compromettano il senso della frase. In particolare è significativo che cada la relativa qui ne nostrorum quidem finium nobis per nos tuendorum ius antea dabant, nihil intercesserunt, in cui il pretore latino ripercorre in diacronia l’atteggiamento dei Romani nei confronti dei Latini e individua – nell’allentarsi del controllo dei primi – un’occasione propizia: non è tanto la ‘pazienza de’ Romani’ ad aver prodotto l’opportunità del conflitto, quanto la loro momentanea incapacità di gestire i Latini (l’esercito di Roma, del resto, era appena uscito dalla prima guerra sannitica e, necessariamente, dava segnali di stanchezza). Il capitolo 2.15 è quindi il culmine di un’analisi decisamente insistita che Machiavelli conduce, da più angolature, su una singola oratio liviana che nel suo commento si risolve interamente nel problema della ‘decisione politica’ in tempo di guerra: solo nel sedicesimo capitolo, finalmente, lo sguardo si sposta sullo svolgimento vero e proprio del conflitto e si attarda sulle ragioni che consentirono ai Romani di imporsi nonostante l’equiparabilità dei due eserciti (che erano, dice Machiavelli, ‘pari di ordine, di virtù, d’ostinazione e di numero: solo vi fa differenza, che i capi dello esercito romano furono più virtuosi’ 23).
Machiavelli 2001, I 388-389. Machiavelli 2001, I 397-398.
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Se ci si è dilungati a ricostruire la catena contestuale in cui si inserisce il capitolo in questione è perché queste pur minime informazioni restituiscono immediatamente la stonatura di un’incursione su fatti inerenti alla seconda guerra punica, dal momento che essa interrompe molto bruscamente la linearità del pur eccentrico commento machiavelliano che – fino a quel punto – si stava svolgendo piuttosto coerentemente su alcuni momenti del libro 8 degli Ab urbe condita. Ma, senza altre premesse, vediamo come è strutturato il testo del capitolo. Le tesi che esso svolge hanno a che fare con le tempistiche della decisione politica o, come da titolo, con il fatto che ‘gli stati deboli sempre fiano ambigui nel risolversi: e sempre le diliberazioni lente sono nocive’. Le due questioni presentate nel titolo sono contigue, ma diverse: le decisioni ambigue e le decisioni lente. Entrambi i fenomeni – prendere una decisione volutamente ambigua o prenderla in ritardo – sono caratterizzati da un uso sbagliato del tempo. Per quanto si è visto finora, risulta evidente che questo capitolo sia della massima importanza nell’economia della riflessione machiavelliana: quando la decisione politica riguarda direttamente la guerra essa mette immediatamente al centro il fatto stesso della sopravvivenza dello stato; prendere non solo la decisione giusta, ma anche al momento giusto è ciò che può fare la differenza tra la vita e la morte della città intera – sempre sul punto di essere annientata dal conflitto – e ciò, per chi scriveva negli anni delle guerre d’Italia, giustifica l’interesse per quella che è stata definita ‘retorica dell’emergenza e della guerra’ (Fournel 2006). Per comodità possiamo immaginare il capitolo diviso in tre parti: la prima affronta il problema delle decisioni ambigue; la seconda quello delle decisioni lente (fino al paragrafo diciotto escluso); infine, con una virata sulla storia contemporanea, Machiavelli descrive Firenze nel momento in cui, proprio a causa della sua irresolutezza, stava rischiando l’annientamento. Nei primi paragrafi continua ad essere svolto il commento sul l’orazione di Lucio Annio avviata nei due capitoli precedenti: In questa medesima materia, ed in questi medesimi principii di guerra intra i Latini ed i Romani, si può notare come in ogni consulta è bene venire allo individuo di quello che si ha a diliberare, e non stare sempre in ambiguo né in su lo incerto della cosa. Il che si vede manifesto nella consulta che feciono i Latini, quando ei pensavano alienarsi dai Romani. Perché, avendo i Romani presentito questo cattivo umore che ne’ popoli latini era entrato, per certificarsi della cosa,
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e per veder se potevano sanza mettere mano alle armi riguadagnarsi quegli popoli, fecero loro intendere, come e’ mandassono a Roma otto cittadini perché avevano a consultare con loro. I Latini, inteso questo, ed avendo coscienza di molte cose fatte contro alla voglia de’ Romani, fecioro concilio per ordinare chi dovesse ire a Roma e darli commissione di quello ch’egli avesse a dire. E stando nel concilio in questa disputa, Annio loro pretore disse queste parole: ‘Ad summam rerum nostrarum pertinere arbitror, ut cogitetis magis, quid agendum nobis, quam quid loquendum sit. Facile erit, explicatis consiliis, accommodare rebus verba’. Sono, sanza dubbio, queste parole verissime e debbono essere da ogni principe e da ogni republica gustate: perché, nella ambiguità e nella incertitudine di quello che altri voglia fare, non si sanno accomodare le parole, ma, fermo una volta l’animo, e diliberato quello sia da esequire, è facil cosa trovarvi le parole 24.
I fatti commentati sono, sostanzialmente, gli stessi dei due capitoli precedenti: scoperto il tentativo dei Latini di federarsi con gli altri popoli satelliti della lega per attaccare Roma, il Senato romano li convoca con il pretesto di avere indicazioni militari rispetto al conflitto che in quel momento coinvolgeva la federazione e i Sanniti. Alla fine i Latini decideranno di proporre a Roma delle condizioni talmente inaccettabili (nella fattispecie, che uno dei due consoli fosse eletto dalla federazione) da scatenare la guerra. La scelta di esemplare su questo momento la nocività delle decisioni ambigue è, in effetti, tutt’altro che evidente, dal momento che fu proprio l’intransigenza dei Latini a costare loro la totale disfatta, il definitivo assoggettamento al ruolo di Roma e lo scioglimento di fatto della lega, nonché la morte immediata dell’ambasciatore che presentò la richiesta in senato. Di tutto questo, però, in Machiavelli non c’è traccia. La scelta dell’episodio, in realtà, precipita unicamente sulla massima pronunciata dal pretore latino Lucio Annio durante l’assemblea per decidere in che modo comportarsi con Roma: ad summam rerum nostrarum pertinere arbitror ut cogitetis magis quid agendum nobis, quam quid loquendum sit. Facile erit, explicatis consiliis, accomodare rebus verba. A Machiavelli, più interessato alla memorabilità della frase che non alla sua contestualizzazione storica, tanto basta; e infatti la prima parte del capitolo si chiude con l’ingresso di una prima persona singolare (‘io ho notato questa parte più volentieri, quanto io ho molte volte conosciuto tale ambiguità avere nociuto alle pub Machiavelli 2001, I 390-391.
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bliche azioni, con danno e vergogna della nostra repubblica’) che, in modo un po’ asseverativo, conferma la veridicità della massima in riferimento generico alle ‘molte volte’ in cui poté farne esperienza durante l’attività politica svolta al servizio della repubblica. Per ora si possono lasciare in sospeso altre considerazioni: l’unica cosa che, però, si può notare da subito è che la citazione latina di Machiavelli è leggermente diversa rispetto a quella di Livio. In particolare la finale ut cogitetis è un’interpolazione di cui non c’è traccia nell’antica tradizione a stampa di Livio. È quando la riflessione machiavelliana, affrontato il problema della lentezza nel decidere, passa al problema delle decisioni ambigue che appare l’estratto da Livio 24,28: Non sono meno nocive ancora le diliberazioni lente e tarde, che le ambigue; massime quelle che si hanno a diliberare in favore di alcuno amico; perché con la lentezza loro non si aiuta persona, e nuocesi a sé medesimo. Q ueste diliberazioni così fatte procedono o da debolezza d’animo e di forze, o da malignità di coloro che hanno a diliberare i quali, mossi dalla passione propria di volere rovinare lo stato o adempiere qualche altro loro disiderio, non lasciano seguire la diliberazione, ma la impediscono e la attraversono. Perché i buoni cittadini, ancora che vegghino una foga popolare voltarsi alla parte perniziosa, mai impediranno il diliberare, massime di quelle cose che non aspettano tempo. Morto che fu Girolamo tiranno in Siragusa, essendo la guerra grande intra i Cartaginesi ed i Romani, vennono i Siracusani in disputa se dovevano seguire l’amicizia romana o la cartaginese. E tanto era lo ardore delle parti, che la cosa stava ambigua, né se ne prendeva alcuno partito: insino a tanto che Apollonide, uno de’ primi in Siracusa, con una sua orazione piena di prudenza, mostrò come e’ non era da biasimare chi teneva la opinione di aderirsi ai Romani, né quelli che volevano seguire la parte cartaginese; ma era bene da detestare quella ambiguità e tardità di pigliare il partito, perché vedeva al tutto in tale ambiguità la rovina della republica; ma preso che si fussi il partito, qualunque si fusse, si poteva sperare qualche bene 25.
A leggere l’originale si vede subito che ciò che Machiavelli propone è una traduzione libera, ma ravvicinata delle parole di Livio: In hac turbatione rerum in contionem uocari placuit; ubi cum alii alio tenderent nec procul seditione res esset, Apollonides, principum unus, orationem salutarem ut in tali tempore habuit: (2) nec spem salutis nec perniciem propiorem unquam ciuitati ulli fuisse. (3) si enim uno animo omnes uel ad Romanos uel ad Carthaginienses inclinent, nullius Machiavelli 2001, I 392-393.
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ciuitatis statum fortunatiorem ac beatiorem fore; (4) si alii alio trahant res, non inter Poenos Romanosque bellum atrocius fore quam inter ipsos Syracusanos, cum intra eosdem muros pars utraque suos exercitus, sua arma, suos habitura sit duces. (5) itaque, ut idem omnes sentiant, summa ui agendum esse. utra societas sit utilior, eam longe minorem ac leuioris momenti consultationem esse; (6) sed tamen Hieronis potius quam Hieronymi auctoritatem sequendam in sociis legendis, uel quinquaginta annis feliciter expertam amicitiam nunc incognitae, quondam infideli praeferendam. (7) esse etiam momenti aliquid ad consilium quod Carthaginiensibus ita pax negari possit, ut non utique in prae sentia bellum cum eis geratur; cum Romanis extemplo aut pacem aut bellum habendum. (8) quo minus cupiditatis ac studii uisa est oratio habere, eo plus auctoritatis habuit. adiectum est praetoribus ac delectis senatorum militare etiam consilium; iussi et duces ordinum praefectique auxiliorum simul consulere. (9) cum saepe acta res esset magnis certaminibus, postremo, quia belli cum Romanis gerendi ratio nulla apparebat, pacem fieri placuit cum eis mittique legatos ad rem confirmandam 26.
Ciò che davvero fa problema, lo si vede leggendo le due versioni, non è tanto quello che Machiavelli mette a testo quanto piuttosto quello che omette. Cassando l’ultima parte del discorso di Apollonide, Machiavelli trasforma una perorazione della causa filo-romana in un discorso neutrale fatto da un maggiorente di Siracusa più interessato ad uno schieramento rapido che non alla collocazione dello stesso. Già Martelli – di cui è bene riportare le parole – aveva giustamente puntato il dito sulla tendenziosità della narrazione machiavelliana: Dice il Ridley che Machiavelli fraintende Livio, asserendo che il siracusano Apollonide non si schierasse né dalla parte di coloro che volevano l’alleanza con Roma né dalla parte di quelli che la volevano con Cartagine, essendo l’unica cosa che lo preoccupava il ritardo nella deliberazione: ‘Al contrario’, precisa il Ridley, ‘Livio mostra che egli era un sostenitore dell’alleanza romana ed era preoccupato che la disputa sull’oggetto conducesse alla guerra civile’. Q uest’ultimo è, in effetti, il punto fondamentale. E quando l’Inglese dice che ‘nel racconto liviano, Apollonide accentua soprattutto il rischio che la divisione tra le due parti sbocchi in una lotta intestina’ nient’altro fa se non, con non del tutto ben protesa carità, sfumare e nascondere la vera natura dell’operazione machiavelliana, che non fu ingenuo fraintendimento o involontaria coloritura, ma, a quello che credo, consapevole falsificazione. Consapevole, ho detto: difficilmente, infatti, Machiavelli avrebbe potuto non vedere che Apollonide non
Liv. 24,28,1-9.
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accennava mai al ritardo nella deliberazione, ma ai suoi concittadini raccomandava soltanto di restare uniti e concordi, da qualunque parte, anche se egli preferiva quella romana, essi avessero deciso di schierarsi 27.
Il problema di Livio non è affatto la tempistica delle decisioni politiche, quanto piuttosto la necessità che la loro definizione non mini la concordia, l’unità del corpo politico: in Livio la decisione è subordinata a questo principio e non, come in Machiavelli, alla rapidità dell’azione. È vero che anche in Livio Apollonide sostiene che il contenuto della decisione sia secondario, ma lo è non perché esso rallenta l’agire politico, ma perché è in contrapposizione con la coesione sociale che è il valore fondante della storia per come Livio la immagina. Q uesto è così vero che, al contrario di quanto appare dalla versione di Machiavelli, se continuiamo a leggere la pagina liviana scopriamo che l’appello alla concordia come premessa alla decisione è seguito da un’indicazione precisa sul da farsi da parte di Apollonide: se il siracusano di Machiavelli è neutrale in quanto ‘tecnico della politica’, in Livio egli è scopertamente filoromano e, anzi, convince i suoi concittadini a non tradire il vincolo che da decenni lega Siracusa e Roma per schierarsi contro Cartagine. Tanto più diventa interessante che, all’interno di questa neutralizzazione politica della prospettiva morale di Livio, Machiavelli scelga di tradurre quella che Livio definisce orationem salutarem ut in tali tempore con ‘orazione piena di prudenza’. Letteralmente potremmo tradurre le parole di Livio con un’espressione del tipo ‘un’orazione salvifica per come poteva esserlo in quella circostanza’. La capacità di collocarsi all’interno di una contingenza specifica e, in essa, comprendere ciò che serve alla salvezza dello stato è esattamente la definizione della prudenza all’interno dei Discorsi: una definizione che non deriva linearmente dalla filosofia morale classica, ma è – come è noto – tipicamente machiavelliana 28. Nel capitolo quattordicesimo del primo libro, ad esempio, prudenti sono i Romani che fingono di rispettare la religione, ma sono disposti a calpestarne i responsi quando necessario. In questo caso – che è un caso che Machiavelli altera a bella posta – ‘piena di prudenza’ è l’orazione di chi pone l’urgenza della decisione, subordinando a questa urgenza ogni altra valutazione. Martelli 1998, 93-94. Cfr., ad esempio, Del Lucchese 2013.
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Tradotto e commentato l’episodio siracusano, Machiavelli chiude l’argomentazione dicendo perentoriamente che in nessun altro luogo della sua opera ‘potrebbe mostrare più Tito Livio, che si faccia in questa parte, il danno che si tira dietro lo stare sospeso’. A questo punto il capitolo torna a descrivere gli eventi della guerra latina e introduce il terzo exemplum antico: Dimostralo ancora in questo caso de’ Latini: poiché, essendo i Lavinii ricerchi da loro d’aiuto contro ai Romani, differirono tanto a diliberarlo, che, quando eglino erano usciti appunto fuora della porta con le genti per dare loro soccorso, venne la nuova i Latini essere rotti. Donde Milionio loro pretore disse: – Q uesto poco della via ci costerà assai col Popolo romano –. Perché, se si diliberavano prima, o di aiutare o di non aiutare i Latini, non li aiutando, ei non irritavano i Romani; aiutandogli, essendo lo aiuto in tempo, potevono con la aggiunta delle loro forze fargli vincere; ma differendo, venivano a perdere in ogni modo, come intervenne loro 29.
Già il modo in cui viene introdotto il caso è, in qualche maniera, antieconomico: dopo aver detto che il suo assunto non potrebbe essere meglio confermato che da quanto Livio ci dice sul coinvolgimento di Siracusa nella guerra tra Roma e Cartagine, Machiavelli aggiunge che lo storico patavino ‘dimostralo ancora in questo caso de’Latini’. Difficile capire, infatti, perché sarebbe necessario aggiungere un altro esempio liviano dopo aver presentato il migliore tra quelli possibili, se non ipotizzando che a muovere Machiavelli sia prima di tutto un’esigenza di coesione dell’argomentazione che – dopo una digressione che spezza vistosamente la cronologia del commento – deve riprendere il filo e concludere (accadrà solo nel capitolo successivo) l’esame dei passaggi politicamente più rilevanti della guerra latina. Solo, però, se dagli esempi di storia antica ci spostiamo a quello ultracontemporaneo che Machiavelli commenta alla fine del capitolo – secondo la prassi della comparazione storica che struttura l’intera articolazione dei Discorsi – possiamo apprezzare quanto, in effetti, questo ‘caso de’Latini’ sia marginale e quanto in realtà al cuore della riflessione di Machiavelli in queste pagine ci sia proprio l’esempio stravagante rispetto alla prima decade: E se i Fiorentini avessono notato questo testo, non arebbono avuto co’ Franciosi né tanti danni né tante noie quante ebbono nella passata Machiavelli 2001, I 393-394.
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che il re Luigi di Francia XII fece in Italia contro a Lodovico duca di Milano. Perché, trattando il re tale passata, ricercò i Fiorentini d’accordo: e gli oratori, che erano appresso al re, accordarono con lui che si stessino neutrali, e che il re venendo in Italia gli avesse a mantenere nello stato e ricevere in protezione: e dette tempo un mese alla città a ratificarlo. Fu differita tale ratificazione da chi per poca prudenza favoriva le cose di Lodovico: intanto che, il re già sendo in su la vittoria, e volendo poi i Fiorentini ratificare, non fu la ratificazione accettata; come quello che conobbe i Fiorentini essere venuti forzati e non voluntari nella amicizia sua. Il che costò alla città di Firenze assai danari, e fu per perdere lo stato: come poi altra volta per simile causa le intervenne. E tanto più fu dannabile quel partito, perché non si servì ancora a il duca Lodovico; il quale, se avesse vinto, arebbe mostri molti più segni d’inimicizia contro ai Fiorentini, che non fece il re. E benché del male che nasce, alle republiche, di questa debolezza, se ne sia di sopra in uno altro capitolo discorso, nondimeno, avendone di nuovo occasione per uno nuovo accidente, ho voluto replicarne parendomi, massime, materia che debba essere dalle republiche, simili alla nostra, notata 30.
La sovrapponibilità dell’episodio antico (guerra tra Roma e Cartagine che coinvolge la forza terza di Siracusa) e di quello moderno (guerra tra Milano e Francia e ruolo di Firenze) sono lampanti. Se i Fiorentini avessero notato questo testo – e non lo hanno fatto – non si sarebbero comportati in modo assolutamente inadeguato quando, nel 1499, si erano trovati in una situazione molto simile a quella dei Siracusani stretti tra le richieste di sostegno romane e cartaginesi: Luigi XII pretendeva infatti sostegno economico e militare da parte della repubblica nel tentativo di occupare il Ducato di Milano, da cui però – sempre dirette a Firenze – provenivano le richieste di aiuto di Ludovico il Moro. Grazie all’edizione Marchand possiamo leggere il verbale della consulta che si tenne a Firenze il 26 giugno 1499 in cui si discuteva proprio il da farsi rispetto alle richieste contrapposte: Per i gonfalonieri: che si stia neutrale et stiesi ad vedere et havendosi a determinarsi s’accordano più con Frantia et che a Milano si diano buone parole. Per i Dodici: che si scriva a Vinegia et Roma et vedasi dove sono volti e che con Frantia et con Milano si usi il benefitio del tempo sanza obligarsi con nessuno 31.
Machiavelli 2001, I 394-395. Machiavelli 2002, 265.
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Segue poi il resoconto degli interventi dei singoli membri dell’assemblea in cui, senza contare le volte in cui Machiavelli si limita a dire che chi interviene è d’accordo con l’intervento precedente, l’espressione ‘usare il beneficio del tempo’ ricorre all’incirca una decina di volte. Interessante è anche la lettera che Machiavelli deve scrivere, dopo questa consulta, al commissario della repubblica fiorentina che si trova negli accampamenti di Pisa e che aspetta istruzioni sul da farsi: Magnifico commissario Petro Francisco Tosingo in castris adversus Pisanos, suo maiori honorando. In campo. Magnifice vir, etc. Se io ho differito lo scrivervi, ne è suto cagione le occupazioni grandi in quali mi truovo, e voi mi harete per iscusato. Con Milano le cose vostre si truovano in questi termini. Q uel signore molti dì fa vi richiese che voi vi declarassi suoi conlegati, e obbligassivi a sovvenirlo, ogni volta li fussi di bisogno, di 300 uomini d’arme e 2000 fanti il mese; e all’incontro vi offeriva ciò che addimandassi per la recuperazione di Pisa. Non parve a questi signori che il dichiararsi fosse utile, e totaliter togliere questa pratica pareva pericoloso; e però si è preso mezzi a tenerlo in speranza, e non correre pericolo con Francia; e per questa cagione si mandò ser Antonio da Colle a Milano. E così di continuo si sta in questa agitazione. Il duca fa forza perché vi dichiariate, e voi usate ogni termine per discostarvi, parendovi pericoloso. Con Francia si truovano questi signori in quella medesima difficultà, perché sono con istantia richiesti di aderirsi a sua maestà con questi patti, che voi gli siate tenuti servirlo quanto dura la espedizione di Milano di 500 lance; e lui si vuole obbligare di servir voi per un anno di mille lance ad ogni vostra impresa; e promette fare obbligare i Viniziani et il papa a difendervi. Al che si è fatto risposta ordinaria, col mostrare tal cosa non si poter fare senza nostro manifesto pericolo; e così si va temporeggiando con l’uno e con l’altro, usando il benefitio del tempo. Die VI iulii 99 32.
Machiavelli è costretto a confessare di non sapere cosa dirgli e quindi, sostanzialmente, di aspettare. È necessario leggere questo capitolo – ma la notazione vale per tutti i Discorsi – ricordando che il suo autore ha conosciuto in prima persona gli effetti di un uso sbagliato del tempo, cioè quello dei pesi e dei contrappesi, degli equilibrismi funambolici di Firenze in uno spazio politico sconvolto dalla guerra: Machiavelli cerca allora di sviluppare, qui Machiavelli 2002, 266-267.
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come in altri capitoli, una pedagogia dell’uso del tempo. Q uesta pedagogia deve passare per Livio, ma non lo fa in modo neutrale. Machiavelli innesta nel racconto di Livio la sua idea della temporalità e del modo in cui la virtù (la prudenza) si deve torcere in essa per abitarla, perché le cose ‘non aspettano tempo’. Q uesto sguardo sugli scritti di governo del Machiavelli segretario di cancelleria ci permettono di capire quanto fossero profondamente innervate nella pratica politica le riflessioni che l’autore andò sviluppando anche nelle sue opere post res perditas sul problema della decisione politica. Il ‘beneficio del tempo’ cui si appellavano i membri della Consulta di Firenze era, per Machiavelli, la prova tangibile dell’incapacità della classe politica per conto della quale lavorava di prendere posizione: la città si trovava così costantemente in balia degli eventi e sembrava sempre sul punto di diventare semplice spettatrice della sua stessa dissoluzione. L’episodio dell’assemblea dei latini che si risolvono ad entrare in guerra con Roma deve aver riportato alla mente di Machiavelli esattamente quest’ordine di problemi. Ci mette su questa strada anche una piccola, ma non indifferente spia lessicale: Machiavelli definisce il luogo in cui Lucio Annio Setino tenne la sua perorazione come ‘la consulta che feciono i Latini’. Nei due capitoli precedenti dei Discorsi, che al medesimo brano erano dedicati, Machiavelli rende sistematicamente il lemma ‘consilium’ che si trova in Livio con il calco volgare ‘consiglio’. Non sarà forse un caso che, in un capitolo esplicitamente dedicato ai modi della deliberazione politica, Machiavelli opti invece per una parola (‘consulta’) che per un lettore fiorentino sarebbe stata immediatamente evocativa di una delle principali sedi decisionali della repubblica. In questo senso non è priva di significato quell’apparentemente minima interpolazione che si trova nel testo latino dell’oratio così come Machiavelli la riporta (l’ut cogitetis non testimoniato da nessun codice della tradizione di Livio). A rigore i Latini non devono cogitare proprio nulla perché la battuta che si trova nei Discorsi è solo l’introduzione ad una lunga requisitoria in cui il pretore latino spiega per filo e per segno quali devono essere i prossimi passi della Lega. Q uella finale apocrifa trasforma invece l’enunciazione di una decisione già presa in un momento di ‘consultazione’: Lucio Annio si incarica semplicemente di adattare alle cose le parole (accomodare rebus verba), cioè di trovare l’argomentazione più confacente agli obiettivi che l’assemblea saprà 710
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prefissarsi. Non serve precisare che in questo modo Machiavelli avvicina molto le mansioni del personaggio che prende parola nei Discorsi a quelle che era la sua specifica attività politica: tradurre in ambascerie, lettere, dispacci le decisioni degli organi repubblicani (e spesso – come nel caso della missiva al campo di Pisa – gestire l’imbarazzo di non avere un mandato chiaro). In che modo si inserisce, in questo discorso, la digressione ‘siracusana’? Un indizio importante, in realtà, viene fuori sin dal titolo del capitolo: ‘gli stati deboli’ sono lenti a decidere e logica conseguenza di questo assunto è che ‘sempre’ le decisioni ambigue sono nocive. La situazione di Firenze nell’estate del 1499 non poteva essere efficacemente ricalcata né sulla Lega latina né su Roma: Livio stesso – e Machiavelli, come abbiamo visto, lo ripete apertamente nel capitolo 2.16 – ci dice che le due parti in causa erano assolutamente uguali per estensione e organizzazione dell’esercito. Perché la lezione antica fosse efficace serviva mostrare che, ammesso di avere una classe politica più ‘virtuosa’ di quella che presidiava la repubblica di Firenze, anche uno stato debole è in grado di prendere decisioni né lente, né ambigue. Le parole di Apollonide reperite nella terza decade permettono a Machiavelli di aprire uno squarcio esattamente su questo nodo: esse sono talmente efficaci che, in effetti, quello che pareva un excursus chiarificatore diventa il cuore stesso del capitolo, l’unico dei tre exempla antichi che consente di fondare a giusto titolo il parallelismo con la storia contemporanea di Firenze. Difficile, in mancanza di varianti redazionali per questo (come per ogni) capitolo dei Discorsi, stabilire come si arriva a questa organizzazione testuale: se, insomma, esistesse prima il commento ordinato all’ottavo libro degli Ab urbe condita e solo successivamente la necessità di precisare meglio gli assunti politici linearmente estratti da esso costringessero ad interrompere così bruscamente la cronologia dell’argomentazione con un affondo nella terza decade; o se invece queste schede di lettura ‘esplose’, fatte per giustapposizione di passi secondo criteri di coerenza tematica più che di prossimità cronologica, fossero il vero avantesto dei Discorsi e solo la successiva necessità di raccoglierle in libri spingesse Machiavelli a organizzare blocchi di capitoli più o meno omogenei quanto ai fatti in essi commentati. Non è escluso che uno studio sistematico del modo in cui entrano nella struttura argomentativa dei Discorsi i luoghi eccentrici 711
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rispetto alla prima decade (partendo quindi dai materiali liviani prelevati dai libri restanti, ma estendendolo poi anche alle altre fonti storiografiche utilizzate, soprattutto nei casi in cui queste diventavano necessarie per coprire intervalli cronologici non coperti da Livio) possa fornire in questo senso alcune piste interpretative. Si tratterebbe di precisare meglio, cioè, se esistono delle spie interne ai Discorsi che consentono di ricostruire in via indiziaria il processo di montaggio con il quale Machiavelli cucì insieme ciò che su Livio aveva scritto fino ad un dato momento, prima di abbandonare definitivamente il progetto di un commento organico a tutti i libri superstiti degli Ab urbe condita 33.
Bibliografia Abbamonte 2009 = G. Abbamonte, Discorsi alle truppe: documenti, origine e struttura retorica, in G. Abbamonte – L. Miletti – L. Spina (a cura di), Discorsi alla prova. Atti del Q uinto Colloquio italo-francese Discorsi pronunciati, discorsi ascoltati: contesti di eloquenza tra Grecia, Roma ed Europa (Napoli-S. Maria di Castellabate 21-23 settembre 2006), Napoli 2009, 29-46. Bausi 2001 = F. Bausi, Introduzione a N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, voll. I-II, Roma 2001, IX-XLIV. Calore 2003 = A. Calore, Forme giuridiche del ‘bellum iustum’, Milano 2003. Comanducci 2014 = R. Comanducci, Orti Oricellari, in G. Sasso et alii (a cura di), Enciclopedia Machiavelliana, Roma 2014, 261-265. Del Lucchese 2013 = F. Del Luccese, La prospettiva del prudente. Prudenza, virtù, necessità, religione in Machiavelli, Giornale critico della filosofia italiana 92 (3), 2013, 508-542. Fenzi 2016 = E. Fenzi, Il giudizio di Machiavelli su Scipione l’Africano: la fine di un mito repubblicano?, Engramma 134, 2016. [online] Fournel 2006 = J. L. Fournel, Retorica della guerra, retorica dell’emergenza nella Firenze repubblicana, Giornale critico della filosofia italiana 2 (3), 2006, 389-411. 33 L’intervento da me proposto nel corso del convegno internazionale dedicato al bimillenario liviano, da cui questo contributo sostanzialmente deriva, è stata una delle prime presentazioni pubbliche della ricerca da me condotta durante gli anni del dottorato, relativa al modo in cui Machiavelli leggeva e manipolava il testo di Livio: una ricerca che ha dovuto tanto al confronto in quel consesso così prestigioso e che oggi, quale che ne sia il pregio, ha trovato una sua chiusura nella mia monografia Il Livio di Machiavelli. L’uso politico delle fonti (Salvo Rossi 2020). Mi sia consentito di rimandare a quel lavoro dove alcune delle ipotesi e degli interrogativi presentati in questa sede hanno ricevuto, se non una risposta, almeno un tentativo di sistematizzazione.
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Fournel – Zancarini 2020 = J. L. Fournel – J. C. Zancarini, Machiavel. Une vie en guerres, Paris 2020. Gilbert 1953 = F. Gilbert, The Composition and Structure of Machiavelli’s Discorsi, Journal of the History of Ideas 14 (1), 1953, 136-156. Inglese 1995 = G. Inglese, Introduzione a N. Machiavelli, Il principe, Torino 1995, V-XLV. Inglese 2006 = G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006. Landon 2013 = W. J. Landon, Lorenzo di Filippo Strozzi and Machiavelli: Patron, Client and the ‘Pistola fatta per la peste’/ An Epistle Written Concerning the Plague, Toronto 2013. Machiavelli 2001 = N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di F. Bausi, voll. I-II, Roma 2001. Machiavelli 2002 = N. Machiavelli, Legazioni. Commissarie. Scritti di governo, tomo I: (1498-1500), a cura di J.-J. Marchand, Roma 2001. Martelli 1998 = M. Martelli, Machiavelli e gli storici antichi. Osservazioni su alcuni luoghi dei ‘Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio’, Roma 1998. Martelli 1999 = M. Martelli, Saggio sul ‘Principe’, Roma 1999. Palumbo 2013 = M. Palumbo, ‘Mutazione delle cose’ e ‘pensieri nuovi’. Saggi su Francesco Guicciardini, Bruxelles 2013. Rubinstein 1987 = N. Rubinstein, Machiavelli storico, Ann. Sc. Superiore Normale di Pisa: Classe di lettere e filosofia 17 (3), 1987, 695-733. Ruggiero 2008 = N. Machiavelli, Il principe, a cura di R. Ruggiero, Milano 2008. Salvo Rossi 2020 = A. Salvo Rossi, Il Livio di Machiavelli. L’uso politico delle fonti, Roma 2020. Stoppelli 2014 = P. Stoppelli, Mandragola, in G. Sasso et alii (a cura di), Enciclopedia Machiavelliana, Roma 2014, 118-131. Zancarini 2017 = J. C. Zancarini, Una scommessa di Machiavelli. Per una riforma repubblicana di Firenze (1520-1522), Vicenza 2017. Zuccotti 2004 = F. Zuccotti, ‘Bellum iustum’ o del buon uso del diritto romano, Rivista di Diritto Romano 4, 2004, 1-64.
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LUCIO BIASIORI
DISCORSI MANCATI MACHIAVELLI E GLI HOMINI ILLUSTRI DI PIETRO RAGNONI
1. È rimasta famosa la dichiarazione di Machiavelli di aver tentato, con i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, qualcosa di inedito, percorrendo una via che non era stata ‘ancora da alcuno trita’ 1. I suoi contemporanei e poi gli studiosi hanno reso questa rivendicazione di novità assoluta un’opinione comune. Se, infatti, per il Principe è stato proposto un albero genealogico molto ramificato 2, per i Discorsi la critica si è mossa in modo molto più incerto alla ricerca di precedenti e concorrenti. Una tesi particolarmente netta era stata formulata da Carlo Dionisotti: «Dietro i Discorsi non c’è, che si sappia, nulla, né in latino né in volgare. Non c’è un commento di qualunque genere a Livio; non c’è un commento di quel genere a qualunque autore classico. Beninteso, non è pensabile l’opera di Machiavelli senza appunto la tradizione esegetica umanistica del Q uattrocento e senza in ispecie la rottura di quella tradizione operata a Firenze dal Poliziano nella Miscellanea e ribadita sotto gli occhi di Machiavelli segretario dal Crinito nel De honesta disciplina. Perché di lì viene in un primo tempo la subordinazione del discorso o della quaestio a un testo base, che era stato ed era procedimento normale dei legisti e degli artisti, non dei letterati; in un secondo tempo il disimpegno dal commento continuo del testo base e l’isolamento di singoli passi liberamente scelti dall’interprete; finalmente la sovrapposizione a quei singoli passi di un commento esorbitante l’interpretazione del testo base e mirante a chiarire questioni generali. Q uesta è senza dubbio la preistoria dei Discorsi» 3.
Il panorama non era in realtà così spoglio, né sovrastato solo dai modelli di Poliziano e Crinito. In realtà, già Machiavelli stesso non Discorsi 1, proemio, Machiavelli 1997, I 197. A.H. Gilbert 1938. 3 Dionisotti 1969, 258. 1 2
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 715-734 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125352
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era stato sempre così netto. In un altro passo, sempre del proemio, scopriva meglio le sue carte, dichiarando di voler fare con i suoi Discorsi quello che i commenti al Digesto giustinianeo e alle raccolte di esperienze cliniche avevano fatto nei confronti della giurisprudenza e della medicina: offrire una serie di casi esemplari tratti dalla storia antica da offrire all’imitazione dei contemporanei. Anche per l’arte del governo doveva accadere quello che si era già fatto per il diritto e la medicina. Era cioè necessario riportarla ai modelli classici e tornare a enfatizzare l’esemplarità degli antichi (soprattutto i romani) per l’azione – politica, in questo caso 4. Insistere sulla percezione da parte di Machiavelli di questo comune sottofondo teorico tra politica, medicina e giurisprudenza aiuta a collocare meglio i Discorsi nel loro contesto e nelle intenzioni del suo autore, evitando di considerarli come un’opera senza antenati e senza eredi. In tempi più recenti, inoltre, i Discorsi sono stati accostati al metodo esegetico del predecessore di Machiavelli alla segreteria, Marcello Virgilio Adriani, il quale nelle sue orazioni era solito selezionare dei passi da autori antichi e utilizzarli come punto di partenza per discussioni politiche contemporanee 5. Da ultimo poi è stata sottolineata l’importanza della mediazione di commenti volgari, come quello di Cristoforo Landino alla Commedia di Dante e di Jacopo Bracciolini al Trionfo della fama di Petrarca, che alternavano la continuità dell’esegesi testuale con la presenza di digressioni che spesso andavano nella direzione di attualizzare gli esempi storici, adattandoli alla realtà contemporanea 6. 2. Il percorso indicato da Dionisotti era però parzialmente diverso, in quanto portava nella direzione del genere letterario del commento in volgare a un autore classico. Nonostante in quella sede Dionisotti avesse chiuso l’orizzonte della ricerca su opere sorelle dei Discorsi, altrove fu lui stesso che iniziò a fornire alcuni indizi per riaprire il lavoro in tal senso. ‘Perché le leggi civili non sono altro che sentenze date dagli antiqui iureconsulti, le quali, ridutte in ordine, a’ presenti nostri iureconsulti iudicare insegnano. Né ancora la medicina è altro che esperienze fatte dagli antiqui medici, sopra le quali fondano e’ medici presenti e’ loro iudizii. Nondimanco, nello ordinare le repubbliche, nel mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra, nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio, non si truova principe né repubblica che agli esempli delli antiqui ricorra’ (Machiavelli 1997, 198). 5 Godman 1998, 174, 273. 6 Bausi 1987, 181-182. La questione è poi ripresa in Bausi 2005, 193-194. 4
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Appena due anni prima del netto giudizio formulato in Machiavelli letterato, infatti, aveva segnalato, ad altro proposito, un’opera che egli non mise poi in relazione con i Discorsi 7. Si tratta di un Caio Plinio de li homini illustri in lingua senese traducto et brevemente commentato di Pietro Ragnoni, uscito a Siena nel 1506, ma ‘completo’ già dal mese di dicembre del 1503 8. Perché Dionisotti, che aveva intuito l’importanza di quest’opera come esempio di volgarizzamento della tradizione classica, non pensò poi di proporla, nemmeno in via di pura ipotesi, come un albero della foresta dei Discorsi? Come mai, nel giro di appena due anni, l’individuazione di «un profuso e nelle intenzioni esauriente commento volgare d’un testo classico» 9 si trasformò nella più scettica affermazione che «non c’è un commento di quel genere a qualunque autore classico»? La risposta sta probabilmente nella concezione che Dionisotti aveva di Machiavelli – uomo dalle vaste letture e dalla compiuta formazione umanistica. Una sciatta traduzione commentata di un’opera pseudo-pliniana composta da un oscuro scrittore senese poteva essere un valido esempio di trasmissione della tradizione classica alla realtà linguistica volgare, ma non poteva essere proposta come possibile precedente di un classico del pensiero politico e della letteratura italiana. Inoltre, gli poteva forse ripugnare l’idea che Machiavelli potesse essere in qualche modo debitore non degli antichi, a cui dichiarò sempre di ispirarsi, ma di un’opera composta da un suo contemporaneo, idea che ormai la stretta dipendenza tra la Vita di Castruccio e la Vita Castruccii del lucchese Niccolò Tegrimi (1448-1527) ha reso più familiare agli studiosi. Q ui di seguito si cercherà di far dialogare Dionisotti con se stesso, cioè, fuor di metafora, di mostrare come l’intuizione che egli aveva avuto a proposito dei volgarizzamenti umanistici di autori latini possa risultare utile per iniziare a rispondere a una domanda 7 Dionisotti 1967 (quella parte del saggio non è compresa nella prima versione apparsa su ‘Italia medioevale e umanistica’ del 1958). 8 Ragnoni 1506. L’intervallo tra la stesura e la pubblicazione dell’opera fu dovuto alla reticenza di Ragnoni, vinta poi dall’insistenza di quei ‘nonnulli’ che, come confessa nell’epistola introduttiva a Minosse Boncompagni, avevano spinto perché l’opera fosse divulgata. È probabile che ci sia stata anche una revisione dell’opera, portata avanti da qualcun altro che non era Ragnoni, come testimonierebbero i riferimenti all’autore in terza persona (Ragnoni 1506, M vii v). 9 Dionisotti 1967, 166. Che il volgare fosse una lingua insolita per i commenti nota anche Buck 1975, 15-16.
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su Machiavelli che egli stesso aveva contribuito a porre, ma alla quale aveva dato risposte oggi difficilmente accettabili. 3. L’‘opusculo’ 10 di Ragnoni consiste in una traduzione commentata del De viris illustribus, opera anonima, per lungo tempo attribuita allo storico romano di quarto secolo Sesto Aurelio Vittore, ma che all’epoca era considerata di Plinio il Giovane 11. Nella traduzione-commento di Ragnoni le biografie sono settantasette (l’ultima è quella di Pompeo). Per raggiungere il simbolico numero di ottanta, il senese vi fa seguire un’analoga versione commentata delle vite di Cesare e Augusto (tratte da Svetonio) e di Traiano (da Eutropio). Il De viris illustribus, pedestre raccolta di rapidi medaglioni biografici di personaggi della storia romana, fu un’opera molto diffusa ai tempi di Machiavelli (se ne conoscono 13 edizioni quattrocentesche) e da lui utilizzata, come notava Leslie Walker nel suo commento, in Discorsi 3,16 in merito al rifiuto del consolato da parte di Emilio Paolo. In tempi più recenti è stata individuata la «fonte, o meglio suggestione» dietro Discorsi 3,34 proprio nel Liber de viris illustribus, «un pratico strumento di consultazione (…) che anche Machiavelli probabilmente conobbe e utilizzò per tratteggiare le due sintetiche “biografie” di Torquato e di Scipione» 12. In quell’occasione l’uso da parte di Machiavelli del De viris illustribus avrebbe avuto un significato ben preciso, quello cioè di segnalare «l’importanza e la consistenza dell’eredità culturale quattrocentesca nella produzione machiavelliana; non a caso (per fare un solo esempio), né Aurelio Vittore né Valerio Massimo sono menzionati da Francesco Vettori tra gli storici da lui abitualmente frequentati, nella lettera a Machiavelli del 23 novembre 1513» 13. È difficile condividere questa opinione: se da un lato il tentativo di Ragnoni testimoniava, infatti, la vitalità dell’opera anche tra i contemporanei di Machiavelli, dall’altro non andrà dimenticato che gli uomini di inizio Cinquecento attribuivano il De viris illustribus al nipote del grande Plinio Ragnoni 1506, N v v. Lo stesso Ragnoni cerca di corroborare questa attribuzione con parecchi raffronti testuali tra gli Homini illustri e altre opere di Plinio il Giovane, soprattutto il Panegirico a Traiano. 12 Bausi 1987, 181-182. 13 Bausi 1987, 185. 10 11
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e l’autore del Panegirico a Traiano e quindi un autore tutt’altro che di secondo piano. 4. Così come quella dell’autore, anche l’identità del traduttorecommentatore, il senese Pietro di Bartolomeo Ragnoni, pone qualche problema. Bartolomeo Ragnoni ebbe quattro figli, Pietro Giovanni (1467), Cone (1481), Giacomo (1485) e Niccolò (1489) 14. L’autore degli Homini illustri era dunque il maggiore, di due anni più vecchio di Machiavelli, anche se nel frontespizio dell’opera egli è indicato come il ‘Cone’, creando così una confusione con il fratello più giovane. Di Pietro Ragnoni finora sappiamo solamente quello di cui lui stesso ci informa negli Homini illustri, mentre qualche sparso dettaglio è reperibile da fonti senesi contemporanee 15. Il resto della sua produzione parla una lingua diversa dal volgare spesso contorto e pedestre, ma non privo di intuizioni brillanti, che si legge negli Homini illustri 16. La dedica al signore di Siena Pandolfo Petrucci è preceduta da un’epistola in latino a Minosse Boncompagni, nella quale Ragnoni diede sfogo alle sue preoccupazioni su alcuni detrattori pronti a riprendere la sua opera in quanto ‘nimium audacem’. I timori di Ragnoni non erano del tutto infondati: quel deserto di commenti in volgare a uno storico latino che vediamo oggi doveva apparire tale anche allora. E quindi non ci stupisce che Ragnoni potesse essere stato giudicato temerario da certi settori dell’umanesimo senese. L’autore dichiara che il suo intento originario era di pubblicare una semplice traduzione dell’opera, ma nel corso del lavoro, ‘alcuni supplimenti occurrendo’ 17, egli aveva deciso di ampliare il progetto e di aggiungervi il commento. Nel secondo Archivio di Stato di Siena, ms, A 52, f. 21r. Il manoscritto A VII 36 f. 67v. della Biblioteca degli Intronati di Siena, contenente notizie su autori senesi, riporta scarni elementi, molti dei quali di difficile verificabilità, anche su Ragnoni. Dopo aver ricordato la traduzione-commento del De viris illustribus, parla di un libro manoscritto di lettere ‘dirette a di lui amici, per le quali si scorge il costume di quei tempi, e il carattere particolare di molti uomini’, di cui non si è trovata traccia, come rimane ancora sconosciuta una Egloga morale, stampata a Siena nel 1512. Cf. Archivio di Stato di Siena, ms. D 94, f. 161r, Indice di opere ed autori sanesi. 16 L’altra sua opera a stampa, Petri Raneonei binae litterae pro obitu illustrium virorum Andreae Piccolhominei antque Antonii Bici, Siena 1506 contiene due convenzionali consolationes a Giovanni Ugurgieri e Firmano Bicci in morte di Andrea Piccolomini e Antonio Bicci. 17 Ragnoni 1506, A iiii r. 14 15
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proemio – quello alle vite di Svetonio e Eutropio contenute nella stessa opera – Ragnoni ringrazierà Pandolfo di averlo difeso, dando prova di quella giustizia a cui aveva sempre improntato la sua azione di governo. Le implicazioni politiche del suo volgarizzamento emergono anche leggendo la dedica vera e propria, in cui l’autore si rivolge al signore di Siena con un singolare misto di latino e volgare (‘Pietro Raneoni a Pandolpho Petruccio clarissimo viro concive suo dice salute’), quasi a preannunciare quella simbiosi di passato e presente che dà il taglio a tutta l’opera 18. Q uantunque, nobilissimo Pandolpho, il concepto nostro fusse senza alcuni impedimenti tal descripto lavoro for del limite dare puro et simplice, come il primo disegno era, tamen, mentre che alla expeditione intento ero, alcuni supplementi occurrendo, parean che fortemente ad insistere e quelli addurre mi istigassero. Pertanto qualche loco sparsim annotato habiamo, più per la voluntà qual ci ha transportato che per commentare o vero exporre gli offerentisi et d’improviso loci 19.
‘Supplementi’, ‘qualche loco sparsim annotato’, altrove ‘annotationi’ 20: è forte la tentazione di tradurre in fiorentino i termini usati dal senese Ragnoni con il ben più familiare ‘discorsi’. È stato notato come nel capolavoro machiavelliano il carattere erratico e irregolare dell’opera nasconda traccia della volontà dell’autore di imporre l’andamento di un commento sistematico al testo di partenza. C’è chi ha pensato che tale struttura sia un relitto dei Discorsi come li leggiamo oggi. Più recentemente si tende a pensare che la forma-commento rappresenti invece uno scheletro inserito successivamente per rendere accettabile ai dotti sodali degli Orti Oricellari una materia altrimenti disordinata 21. In ogni caso le due ipotesi concordano nel ritenere l’alternanza tra parti di commento e parti digressive una semplice conseguenza dell’incompiutezza del l’opera, segno, certo, della perenne vitalità del versatile ingegno di Machiavelli – mai contento di una soluzione definitiva – ma altresì qualcosa che sarebbe stato superato a una revisione successiva. 18 La volontà di ‘tracciare un parallelo fra la classe dirigente romana e quella contemporanea’ era comunque una caratteristica largamente presente nel commento quattrocentesco agli storici latini, come notava Casella, 1975, 662. 19 Ragnoni 1506, A iii r. 20 ‘Fine delle annotationi in C. Plinio’, Ragnoni 1506, M i v. 21 Si vedano rispettivamente F. Gilbert 1953 e Bausi 1985.
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Tuttavia, interrogarsi in modo troppo sottile su come doveva presentarsi il testo dei Discorsi durante le diverse fasi della sua stesura rischia, per parafrasare Machiavelli, di allontanarci troppo dalla ‘verità effettuale’ del testo come ci è pervenuto e di spingersi verso la ‘immaginazione’ di come sarebbe potuto essere. Sarebbe, a questo proposito, irragionevole sottovalutare il dato che porta sul campo l’opera di Ragnoni. Essa ci mostra come – negli stessi tempi e in ambienti, come vedremo, molto vicini a quelli dove furono prodotti i Discorsi – fosse pensabile una forma letteraria che univa la continuità del commento testuale alla libertà della digressione e della attualizzazione di singoli passi particolari. Il commento di Ragnoni è infatti stampato a colonne più larghe rispetto al testo tradotto. Tra testo e commento c’è un doppio sistema di richiami, in base alle lettere dell’alfabeto latino e greco, un esempio precoce di nota a pié di pagina trascurato dalle ricerche sull’argomento 22. Tra lettere latine e greche c’è una differenza, rispettata con sufficiente coerenza durante il testo: le lettere greche servono per introdurre commenti al testo legati alla storia cittadina di Siena, mentre quelle latine danno l’avvio a riflessioni che partono dal passo in questione, ma toccano problemi spesso molto vasti, riguardanti la politica, la morale, la religione. 5. Il carattere stringato e didascalico del De viris portava Ragnoni a forzare il genere del commento in due direzioni. In primo luogo egli trattava lo pseudo-Plinio come semplice punto di partenza o – per usare un termine del suo vocabolario su cui sarebbe interessante sapere di più – un ‘contexto’, cioè un testo a cui appoggiarsi per svolgere le proprie digressioni 23. Gran parte delle sue argomentazioni ha alla base un’altra autorità, quella di Livio, che funge da vero principio ermeneutico del testo. Più volte Ragnoni stesso dichiara che ‘lo recondito parlare di Plinio, la facilità et copia di Livio bene apre’ 24. Il confronto tra Livio e (quello che Ragnoni credeva fosse) Plinio ci permette di capire come un contemporaneo di Machiavelli potesse leggere le Decades 25: Il libro di Grafton 1997 prende in considerazione una cronologia più avanzata. Ragnoni 1506, H ii r. 24 Ragnoni 1506, E i v. 25 Andrà sfumata l’affermazione per cui «there is no closer parallel between the Discorsi and any other work of this period as regards the use of Livy to provide examples for imitation» (Richardson 1971, 353). 22 23
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Plinio de la conventione facta tra li Romani et Sanniti quello che più vilipendioso e di memoria digno solo descrive, ma le conditioni furo ultra questa più altre, come il fonte liviano demonstra. Al quale recurrere bisogna, non havendo nel breve rivolo a satietà le sicche labra bagnato. Plinio con la brevità li satiati animi, Livio gli ieiuni (digiuni, ndr) con la copia restaura. (…) Et finalmente l’un per la via corta, l’altro per la longa al summo vertice quelli che con prudentia advertano induce 26.
Ragnoni, commentando Plinio, aveva percorso la ‘via corta’. Del resto, la sua vita, che egli ci presenta priva di ozi, non gliene avrebbe dato il tempo. Ma poco tempo dopo i suoi auspici si sarebbero avverati e uno di ‘quelli che con prudentia advertano’, costretto alla vacanza dall’attività politica, avrebbe percorso la via ‘longa’. Affermare che quella via non fosse ‘suta da alcuno trita’, come fece orgogliosamente Machiavelli, costituiva dunque un’esagerazione. La seconda direzione in cui il testo di Ragnoni si muove in maniera eccentrica rispetto al genere letterario del commento e che lo porta in una zona vicina a quella dei Discorsi è quella che parte dal suo Plinio – e, altrettanto spesso, da Livio – non tanto per spiegare il testo (che, come detto, è una scolastica successione di personaggi illustri di Roma), ma per spostare il discorso verso il presente. La materia che più facilita l’attualizzazione è quella religiosa, in particolare il confronto tra il cristianesimo e la religione dei romani, presente fin dall’apertura dell’opera: Exemplo a noi li Romani sono in ogni cosa. Alla religione e cose sacre multa reverentia prestavano, infine che cosa nefanda existimavano le cose sacre con le immunde mani tractare (…). Prendi adunque lo religioso homo dalli gentili exemplo: et con pudore, vera penitentia, vera contritione e mundandosi con sincera et purgata anima il culto divino reverentemente ministri 27.
Nel prologo Ragnoni aveva iniziato invocando la protezione divina, dato ‘che niente bene, niente con providentia li homini senza lo auxilio, consilio, honore de li Dii immortali auspicassero. Ma’ si chiedeva poi retoricamente ‘tal costume se appresso li Gentili fu sì observato, quanto più a quello s’acconvene, che sotto il vero Dio christianissimamente militare deba?’ 28. Tale domanda retorica sui Ragnoni 1506, 33v. ‘Erano li Romani a la religione loro sì applicati che ogni occurrentia in bona parte e a la religione condecente trahessero’ Ragnoni 1506, K v v. 28 Ragnoni 1506, A iii r. 26 27
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rapporti tra la religione e la guerra riceveva nel testo delle risposte meno scontate del previsto. Q uando, infatti, veniva istituito un confronto tra i romani e i contemporanei nelle cose di religione esso andava a tutto svantaggio dei secondi. La contrapposizione ricorda molto da vicino quella istituita da Machiavelli tra la virile religione dei Romani e il cristianesimo imbelle ed effeminato del suo tempo. Un punto adatto per misurare la vicinanza tra i due è la questione del giuramento: Maggior pegno nelle promissioni dare non sapevano che lo iuramento: per lo quale observare ogni genere di supplicio e di morte, bisognando, sopportavano (…) adeo che, o per propria virtù, o per pudore, o timore ciascuno a dovere lo religioso iuramento observare constricto fusse. Ma all’età nostra quanta cura a quello se habi, quanto per ciascheduno per se medesimo l’apprezzi, dire per vergogna non ardisco 29.
I romani di Ragnoni assomigliano moltissimo ai ‘miei Romani’ di Machiavelli, che ‘temevono più assai rompere il giuramento che le leggi, come coloro che stimavano più la potenza di Dio che quella degli uomini’ 30. La prossimità tra le parole di Ragnoni e quello che avrà ad affermare Machiavelli nei Discorsi rimane intatta, anche quando è lasciato al lettore completare la comparazione tra i romani e i contemporanei. È il caso, ad esempio, di quando Ragnoni tratta della ‘severità de’ romani, che, per li grandissimi beneficii per virtù e sudore alla republica facti, li errori impuniti non restavano’ 31. Anche Machiavelli era rimasto colpito dal segno di benessere che Roma aveva dato nel punire ‘sanza rispetto alcuno de’ suoi meriti’ Manlio Capitolino, che pure era stato il salvatore della città. Io non credo che sia esemplo in questa istoria più atto a mostrare la bontà di tutti gli ordini di quella republica quanto è questo, veggendo che nessuno di quella città si mosse a difendere uno cittadino pieno d’ogni virtú e che publicamente e privatamente aveva fatte moltissime opere laudabili 32.
6. Tra i passi più noti e affascinanti di Machiavelli figurano quelli in cui egli si scaglia ‘contro la opinione di molti che dicono Roma essere stata una repubblica tumultuaria’. Al contrario – argo Ibid. Discorsi 1,11, Machiavelli 1997, I 229. 31 Ragnoni 1506, D iii v. 32 Discorsi 3,8, 5-10, Machiavelli 1997, I 447. Stesso esempio, stesso insegnamento anche in Discorsi 1,24. 29 30
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mentava – era stata proprio ‘la disunione della plebe e del senato romano che fece libera e potente quella republica’ 33. Nonostante le molte ricerche dedicate alla questione, non è ancora del tutto chiaro quali fossero gli obiettivi specifici di quella polemica. Di fronte all’impossibilità di produrre dei richiami testuali stringenti, pare che ci si debba accontentare della conclusione per cui ‘la polemica di Machiavelli (…) sembra rivolta contro un luogo comune piuttosto che contro particolari autori’ 34. Tale luogo comune era stato però rinfocolato in tempi e luoghi vicinissimi a lui proprio da Pietro Ragnoni, a proposito della secessione della plebe sull’Aventino: Exemplo da essere in purgato auro descripto: che quella seditione una tale radice produsse, che in successo di tempo parturì amarissimi fructi. Che se ciascuno nelli debiti termini e gradi soi contenuto si fusse, le già consumpte reliquie della misera et infelice città li residui delli acerbi fructi non sentirebeno. Unde Salustio: ‘Per la concordia le piccole cose crescano, per la discordia le grandi si dissolvano’.
Con ogni probabilità Ragnoni attinse questa interpretazione del ruolo delle discordie civiche a Roma dal suo parente (‘a me affine et concive reverendo’) Francesco Patrizi 35. Tuttavia, se la sua posizione non può dirsi dunque originale, egli rappresenta un interlocutore certamente più verosimile di Patrizi (le cui complesse opere in latino uscirono a Parigi solo alla fine degli anni dieci) per la polemica di Machiavelli sul tema delle lotte intestine a Roma. Parallelamente alla negatività delle lotte sociali, un altro luogo comune contro cui Machiavelli si scaglia, con passione ancora maggiore, è l’incostanza del popolo. L’inizio di Discorsi 1,58, in particolare, è sempre stato considerato, per la sua volontà di difendere la propria opinione ‘con le ragioni, sanza volervi usare o l’autorità o la forza’, uno dei più limpidi del Machiavelli repubblicano’: Nessuna cosa essere più vana e più incostante che la moltitudine, così Tito Livio nostro, come tutti gli altri istorici, affermano. Perché spesso occorre, nel narrare le azioni degli uomini, vedere la moltitudine avere condannato alcuno a morte, e quel medesimo dipoi pianto e sommamente desiderato: come si vede aver fatto il popolo romano di Manlio Capitolino, il quale avendo condannato a morte, sommamente dipoi Discorsi 1,4. Sul tema cf. Sasso 1987. Sono parole di Corrado Vivanti nel suo commento a Machiavelli 1997, I 911
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n. 1.
Ragnoni 1506, I i r.
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desiderava quello. E le parole dello autore sono queste: ‘Populum brevi, posteaquam ab eo periculum nullum erat, desiderium eius tenuit’. E altrove, quando mostra gli accidenti che nacquono in Siracusa dopo la morte di Girolamo nipote di Ierone, dice: ‘Haec natura multitudinis est: aut humiliter servit, aut superbe dominatur’. Io non so se io mi prenderò una provincia dura e piena di tanta difficultà, che mi convenga o abbandonarla con vergogna o seguirla con carico, volendo difendere una cosa, la quale, come ho detto, da tutti gli scrittori è accusata. Ma comunque si sia, io non giudico né giudicherò mai essere difetto difendere alcuna opinione con le ragioni, sanza volervi usare o l’autorità o la forza 36.
Si tratta di una delle tipiche dichiarazioni d’intenti di Machiavelli, dove eventuali obiettivi polemici vengono nascosti, come spesso tra XV e XVI secolo, sotto etichette generali, in questo caso ‘tutti gli scrittori’. Si trattava, in effetti, di un luogo comune tanto tra gli antichi (Cicerone, Sallustio e Tacito, ma anche Orazio e Ovidio) quanto tra i moderni (Matteo Palmieri, Giovanni Cavalcanti, Francesco Guicciardini) 37. Eppure, Pietro Ragnoni merita di essere ascoltato, se non altro perché parte dallo stesso passo di Livio riportato anche da Machiavelli. Per tal dicto si denota del vulgo la sciocchezza: che facilmente a credere s’induce cose derisive e fabulose. Unde chi nel laccio al primo darsi se ha cura, non tanto la autorità dell’orante, quanto della cosa proposta le ragioni, e quel che esser vero per se stesso considera. Et Livio del vulgo la natura ad altro senso parlando con utilità del legente elegantemente notò dicendo: ‘Hec natura multitudinis est aut servit humiliter aut superbe dominatur’ 38.
Al di là del comune ricorso al passo liviano (che Machiavelli, probabilmente citando a memoria, riporta in una forma leggermente diversa da quella di Ragnoni), a colpire è l’ambiguo giudizio di quest’ultimo, secondo cui chi non vuole farsi prendere al laccio, non considera tanto l’autorità di chi parla, ma le ragioni della cosa proposta e quello che è vero di per se stesso. Anche se alla fine Ragnoni non rompe con il giudizio di Livio sull’instabilità della plebe, occorre sottolineare che le parti in causa – l’‘autorità’ da una parte, le ‘ragioni’ dall’altra – sono esattamente le stesse del passo
Discorsi 1,58, Machiavelli 1997, I 315-316. Un elenco dei passi in Machiavelli 2001, I 276, n. 2. 38 Ragnoni 1506, K Viii r. Altrove nell’opera il paragone è tra volgo e fortuna in nome della loro instabilità (J iv r). 36 37
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dei Discorsi e in entrambi i casi la preferenza non va al principio di autorità, ma alla libera e razionale analisi dei testi. 7. Fino a questo punto le somiglianze tra Machiavelli e Ragnoni possono essere spiegate attraverso il loro comune ricorso a Livio come fonte privilegiata. Se si analizzano altre ‘annotationi’ di Ragnoni, si ha invece l’impressione di vedere all’opera gli stessi meccanismi che hanno reso possibile i Discorsi. È da sapere secondo Livio che uno del campo di Tullo, cognosciuto che hebbe Metio con le genti partirsi, che già in auxilio de’ Romani, come obligato, era venuto, subito ad Tullo, incitato il cavallo, s’appresentò. Et exposto che hebbe la cosa, da Tullo per astutia e consiglio fu represo e con clara voce li respose Metio fare quello per suo comandamento, acciocché li nimici, i quali con Metio si erano convenuti, per tal resposta suspecto prendessero et existimassero da Metio duppio tradimento. Unde per lo optimo e provido consiglio Tullo li animi de li nimici avertì. Et certo per multi experimenti s’è veduto, più il provido consiglio che le forti armi in guerra valere e merito [giustamente, ndr], ché le dote dello animo, come di cosa più digna, alle corporee antecellino. E Salustio: ‘Tum demum pericolo atque negociis compertum est in bello plurimum ingenium posse’, benché ancora le forze sono molto necessarie 39.
Si tratta di un passo molto eloquente, dove si può già ritrovare molto del Machiavelli dei Discorsi. Si parte da un passo liviano riferito a un caso specifico per arrivare a chiarire una questione generale (una di quelle contrapposizioni di concetti care a Machiavelli), corroborando tale procedimento con l’appoggio di un altro storico antico, in questo caso Sallustio. Si trattava di un modo singolare di scrivere di storia nella Toscana primocinquecentesca, dove proprio quel Bernardo Rucellai, nei cui Orti si tenevano le conversazioni poi confluite nei Discorsi, aveva traghettato il modello pontaniano di una storiografia condotta seguendo un solo autore antico 40. Ragnoni, al contrario, mette sempre in luce quando gli storici antichi su un fatto erano in disaccordo, dimostra un buon grado d’indipendenza rispetto alle sue fonti (‘dubio resta se da Plinio nostro dissentirò’ 41) e fa uso di molte altre testimonianze non letterarie (soprattutto toponimi)
Ragnoni 1506, B ii r. Il riferimento è al proemio del Bellum Catilinae. Anselmi 1979, 13 e segg. 41 Ragnoni 1506, F i v. 39 40
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nella consapevolezza che, siccome gli storici antichi non riportavano molti particolari, ‘essendo a chi scrive superfluo’ 42, la nostra informazione risulta imperfetta. 8. Ragnoni si è però comportato esattamente come le sue fonti e non ha trasmesso tutti i dettagli che noi ora desidereremmo. Uno in particolare tormenta chi legge la sua opera: gli sarà capitato di incrociare alla corte di Pandolfo l’inviato della repubblica fiorentina e futuro autore dei Discorsi? La storiografia locale senese ha sempre presentato Ragnoni come un letterato. A prestar fede alle sue parole, egli era invece un personaggio politicamente impegnato, tanto da sperare che ‘qualche sublime ingegno e ch’al honesto ocio piu di noi attende’, avrebbe completato la sua opera 43. Ragnoni non doveva esagerare. Lo prova il fatto che proprio a lui venne data da recitare una protestatio de iustitia, discorso rituale invitante i magistrati al rispetto dei diritti dei cittadini 44. Come afferma Ragnoni stesso, a Siena la protestatio era pronunciata ogni semestre ‘a Duce Capitaneoque populi (…) aut eius vicario’ 45. Q uesta sua vicinanza al potere cittadino, oltre a conferire particolare autorevolezza a quanto metteva su carta negli stessi anni, ci porta a non escludere un suo incontro con il futuro autore dei Discorsi. Machiavelli fu a Siena nelle immediate vicinanze della stesura (completata il 20 dicembre 1503) e della pubblicazione (30 marzo 1506) degli Homini illustri di Ragnoni, quando fu impegnato nella sua prima (aprile 1503), terza (luglio 1505) e quarta (agosto 1507) legazione senese. Si tratta del periodo in cui tutte le ricerche più recenti datano il primo progetto dei Discorsi, poi presto abbandonato e ripreso negli anni post res perditas (dal 1515 in poi). Anche tenendo conto di questa «cronologia estremamente dila ‘Plinio nostro il legente de le historie non ieiuno presuppone’, Ragnoni 1506,
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F v r.
43 Anche altrove batterà sullo stesso tasto. Ad esempio nell’orazione a Giovanni Piccolomini rimasta manoscritta ribadirà che ‘paulisper ocio me dederim’, Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, ms. CII 27, f. 297r. 44 Anche Machiavelli, probabilmente nel 1520, fu autore di una protestatio, su cui si vedano Marchand 1975 e Prosperi 2008. 45 Ibid. Ragnoni ‘fu del Supremo maestrato marzo e aprile 1509/1510’ (Archivio di Stato di Siena, Concistoro 2338, f. 93r). Consultando il Libro dei leoni, i registri nei quali erano segnati i nomi dei membri del concistoro e del capitano del popolo, si legge tra i membri del concistoro il suo nome: ‘Dominus Petrus Bart. Coni de Ragnionibus’.
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tata» 46 dei Discorsi, l’importanza della missione senese – con il bagaglio di ‘esperienzia delle cose moderne’ e ‘lezione delle antique’ che Machiavelli portò con sé dalla conoscenza con Pandolfo Petrucci – emerge in tutta la sua importanza per chiarire la genesi della più complessa tra le sue opere. I resoconti delle missioni senesi di Machiavelli, soprattutto della terza (luglio 1505), per la quale è rimasto un numero più cospicuo di lettere, restituiscono un quadro molto vivo di come egli dovette operare in quelle circostanze. Il secco resoconto diplomatico – riguardante la questione della guerra di Pisa e le trame del condottiero Bartolomeo d’Alviano – lascia spesso spazio all’intervento personale del Segretario, il quale fa intravedere il grado di familiarità raggiunta con il signore di Siena (‘con seco mi distesi’, ‘mi ha mille volte pregato’), i contatti frequenti all’interno del palazzo (il ministro Antonio da Venafro e altri di cui non rivela il nome 47) e fuori. Insomma durante quelle missioni senesi Machiavelli ebbe modo di conoscere a fondo molti ‘uomini di qualche cervello (…) e gravità’ 48, sia appartenenti agli ambienti che operavano nell’orbita del signore della città, sia a quelli che a lui si opponevano, in modo che il suo resoconto risultasse, come disse lui stesso, ‘secondo (…) l’universale di questa città’ 49. L’esperienza della legazione senese si depositò poi nelle opere maggiori, dove Machiavelli avrebbe tracciato alcuni memorabili ritratti di Pandolfo Petrucci, ponendone ogni volta in rilievo la capacità di mantenere il potere contro coloro che tramavano ai suoi danni. Già quando aveva potuto incontrarlo di persona, nel 1505, Machiavelli aveva registrato i rimedi che si prendevano dentro il palazzo per premunirsi contro l’infedeltà che serpeggiava tra le vie della città: Mandò per me dopo desinare, intorno ad 17 ore, et secondo che intendo, aveva auto ad desinar seco 5 o 6 cittadini de’ primi et facto con loro un poco di praticuza sopra questa mia venuta, e’ quali eran seco quando giunsi ad casa sua (…). È stato ad me un senese che dice esser così grande amico della città vostra et mi ha detto che voi non vi fidiate di cosa che costui vi prometta o dica (…) et crede ci sia drento grande Bausi 2005, 166. ‘Iarsera dipoi, a dua ore di notte, venne a me el cancellieri della Balia’, Opere, II.561 (lettera del 20 luglio 1505). Sugli ‘innominati machiavelliani’, cf. Larivaille 2006. 48 Q uarta legazione, lettera del 14 agosto 1507, cit. in Machiavelli 1997, II 1069. 49 Ibid., p. 1065. 46 47
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intridura; et che mi advisarà di molte cose mentre ci starò. È costui uomo di assa’ buona presenza et par di cervello, ma mostra esser tanto passionato contro ad chi governa qui, che questo gli toglie fede 50.
La stessa impressione sui rischi che correva il governo di Pandolfo era condivisa da Pietro Ragnoni, secondo il quale ‘non senza iusta cagione spesso dire si sole “rara fides in terris” (…) eo maxime che alli principi quasi che per natura adviene, di cosa alcuna non tanto caro patino, quanto che di sincera fede, in loco de la quale simulationi, tradimenti lo incurrano’. Il riferimento al dedicatario dell’opera, benché implicito, risultava evidente. La situazione continuamente minacciata in cui si trovava il governo di Pandolfo Petrucci era sotto gli occhi di tutti e non stupisce che tanto un osservatore interno come Ragnoni quanto l’inviato fiorentino l’avessero notata. Come poteva Pandolfo difendersene? Ragnoni gli sconsigliò di costruire delle fortezze per difendere la sua persona, ma di servirsi di quelli che, dal Codex di Giustiniano in poi, erano i due fondamenti di ogni potere costituito: Più fermo reparo sono le leggi che le mura (…). Le arme anchora nei regni sono opportune. Unde male senza tali fomenti li imperii si preservano. Q uesto medesimo par che Iustiniano imperadore, nelle institutioni legali inferisca, dicendo in questa sententia: ‘Alla imperatoria maiestà non solo di armi, ma anchora di leggi corroborata essere bisogna: accioché per pace et guerra rectamente gubernare si possi’ 51.
Q ueste parole trovavano la via della stampa, arrivando così davanti agli occhi di Pandolfo Petrucci nel 1506, vale a dire negli stessi mesi in cui Machiavelli stava organizzando l’arruolamento dei soldati da inquadrare nella milizia di popolo della repubblica fiorentina. Nel testo scritto per l’occasione, il Discorso dell’ordinare lo stato di Firenze alle armi o Cagione dell’ordinanza, Machiavelli condivideva la definizione di potere data da Ragnoni: ‘chi dice imperio, regno, principato, republica, chi dice huomini che comandono, cominciandosi dal primo grado et descendendo infino al padrone d’uno brigantino, dice iustitia et armi’ 52. Q uanto all’altro punto toccato da Ragnoni in quel passo – la sfiducia nei confronti delle difese fortificate – quando Machiavelli si trovò a discutere del 50 Terza legazione a Siena, lettera del 17 luglio 1505, in Machiavelli 1997, II 956960. Il tema ritornerà poi in Discorsi 2,31, quanto sia pericoloso credere agli sbanditi. 51 Ragnoni 1506, A iii v. 52 Machiavelli 1997, I 26.
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l’inutilità delle fortezze e dell’opportunità di circondarsi di persone fidate piuttosto che di mura, portò proprio l’esempio di Pandolfo Petrucci, il quale ‘reggeva lo stato suo più con quelli che li furono sospetti che con li altri’ (Principe 20,17). I due non solo condividevano l’analisi delle cause e dei rimedi pratici da prendere contro la debolezza del corpo politico della signoria senese, ma usavano anche le stesse metafore per descrivere la situazione: El simile diremo della debile republica che dell’imbecillo corpo, ma per contrario modo: che quel corpo il quale è tenue ogni piccolo icto o accidente lo averte, così quella republica che è di piccole forze qualunque leve incarco a terra preme. Iterum come nell’affecto corpo, quantunque leve causa più che nel sano la grave si sente, così alla infirma et exhausta republica qualunque cosa adversa accade è da extimare non per la grandezza delle cose, ma per le forze extenuate.
Che i corpi politici, come quelli fisici, potessero patire danni anche da disagi in sé non particolarmente gravi era certamente un argomento frutto di un sapere politico diffuso – anche banale, se si vuole. Certamente non banale è però che Machiavelli il 23 luglio 1505 usasse lo stesso argomento di fronte ad Antonio da Venafro, ministro di Pandolfo Petrucci, e a tutti i membri dell’entourage del signore di Siena: ‘Ero sempre per ricordarlo loro, che corpi più deboli soglion più temere e’ disordini, et farne peggio’ 53. Antonio da Venafro non aveva bisogno di consigli: lo stesso Machiavelli, quando si recò in missione a Siena, era rimasto ammirato dall’abilità politica del ‘quore’ di Pandolfo e ‘caffo delli altri uomini’ 54, tanto da farne l’esempio ‘de’ secretari ch’e’ principi hanno presso di loro’: Non era alcuno che conoscessi messer Antonio da Venafro per ministro di Pandolfo Petrucci, principe di Siena, che non iudicassi Pandolfo essere valentissimo uomo, avendo quello per suo ministro. E perché e’ sono di tre generazione cervelli, – l’uno intende da sé, l’altro discerne quello che altri intende, el terzo non intende né sé né altri: quel primo è eccellentissimo, el secondo eccellente, el terzo inutile, – conveniva pertanto di necessità che, se Pandolfo non era nel primo grado, che fussi nel secondo 55.
Q uello dei tre cervelli era un luogo comune, formulato in origine da Esiodo, filtrato da Livio e diffusissimo nel Rinascimento: lo si Machiavelli 1997, II 977. Lettera ai Dieci del 19 luglio 1505, Machiavelli 1997, II 966. 55 Principe 22, Machiavelli 1997, I 182. 53 54
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ritrova in Alberti, Palmieri, Enea Silvio Piccolomini e infine nel commento di Cristoforo Landino al v. 36 del II canto dell’Inferno, da cui dipende Machiavelli 56. Per il fatto che una formulazione è topica non smette però di essere interessante. A questo proposito non andrà sottovalutato il fatto che, quando Machiavelli rifletteva sulle ‘tre generazioni di cervelli’, lo faceva con la mente rivolta al consigliere di Pandolfo Petrucci, signore di Siena e dedicatario degli Homini illustri di Ragnoni, dove si poteva leggere ‘quello essere el primo viro, il quale consigli quello che al bisogno sia. Il secundo quello, che al bene admaestrante obbedisca. Chi né consigliare né all’altro obbedire sa quello essere di extrema natura’ 57. È possibile che Machiavelli abbia inserito la citazione da Landino a proposito di Antonio da Venafro, perché l’aveva sentita applicare a lui durante la sua legazione senese, o letta in un’opera dedicata a Pandolfo Petrucci? Non è da escludere, visto che si egli si comportò in maniera analoga in un’altra occasione. Un altro argomento discusso da Ragnoni è, infatti, il potere della fortuna nelle vicende umane. L’inserzione di una discussione come questa in un’opera di storia e soprattutto i termini in cui il senese si esprime meritano di essere ascoltati: Alcuni mi si potrebeno opponere, mostrando li mortali a li fluxi celesti esser sottoposti (…) nientedimeno la virtù dell’animo assai più che la instigatione celeste opera. Dicente Ptolomaeo nel quadripartito: ‘Sapiens dominabitur astris’, purché la propria malitia allo infestante planeto favore non presti 58.
Da un dispaccio di Machiavelli sappiamo che Pandolfo Petrucci, pochi mesi prima della pubblicazione dell’‘opusculo’ di Ragnoni a lui dedicato, aveva un’opinione completamente opposta: ‘Fui con Pandolfo subito ‹e disse› che molte volte la prudenzia degli uomini non bastava ad ovviarsi a’ cieli’ 59. Il dedicatario dell’opera – se l’avrà mai letta – avrà insomma giudicato quella pagina di Ragnoni con la sufficienza di chi conosce la vanità di molti sforzi umani per opporsi alle avversità della sorte. La posizione di Machiavelli era allora molto meno pessimistica sul potere dell’uomo di resistere alla fortuna. Nello stesso anno dell’edizione degli Homini illustri e pochi 58 59 56 57
Come ha segnalato Bausi 1997. Ragnoni 1506, F v r. Ragnoni 1506, I ii v (corsivi miei). Lettera del 19 luglio 1505, in Machiavelli 1997, II 964.
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mesi dopo quegli incontri faccia a faccia con Petrucci, Machiavelli affidò le sue riflessioni sul tema ai famosi Ghiribizzi al Soderino: Ma, perché e tempi et le cose universalmente et particularmente si mutano spesso, et li huomini non mutono le loro fantasie né e loro modi di procedere, adcade che uno ha un tempo buona fortuna et uno tempo trista. Et veramente, chi fussi tanto savio che conoscessi e tempi et l’ordine delle cose et adcomodassi ad quelle, harebbe sempre buona fortuna (…) et verrebbe ad essere vero che ’l savio comandassi alle stelle et a’ fati 60.
Sapiens dominabitur astris (il saggio comanderà alle stelle) era un detto diffusissimo nel Rinascimento, su cui Machiavelli andava riflettendo da almeno due anni, come sappiamo da una responsiva di Bartolomeo Vespucci a una sua lettera perduta 61. Non bisogna però sottovalutare la prossimità cronologica tra la stesura dei Ghiribizzi e il colloquio con Pandolfo Petrucci che Machiavelli ebbe in proposito. A Siena il signore della città gli aveva confidato le sue cupe riflessioni sullo strapotere della sorte. Negli stessi ambienti e in un arco di tempo prossimo, un personaggio a lui vicinissimo aveva messo su carta una posizione di ottimistica possibilità di opposizione morale al determinismo celeste. Il Machiavelli dei Ghiribizzi seppe in quel momento dare voce a entrambi, ma lo stesso problema lo avrebbe tormentato a lungo. Alcuni anni dopo, nel Principe, gli avrebbe dato una risposta celebre, che ricalcava non solo nel contenuto ma anche nella forma quella di Ragnoni: E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate da la fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenza loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Q uesta opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dí, fuora d’ogni umana coniettura. A che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro. Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi 62.
Machiavelli 1993, 1083. ‘Sat est quod sententia tua verissima dicenda est, cum omnes antiqui uno ore clament sapientem ipsum astrorum influxum immutare posse’, Bartolomeo Vespucci a Niccolò Machiavelli, Padova, 4 giugno 1504, in Machiavelli 1997, II 101. 62 Principe 25, Machiavelli 1997, I 186-187. 60 61
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Q uello che colpisce, accostando i due passi, non è tanto l’analogia contenutistica, ma quella formale: si riferisce inizialmente l’opinione che i flussi celesti siano più potenti dell’autodeterminazione umana (‘alcuni mi si potrebeno opponere, mostrando li mortali a li fluxi celesti esser sottoposti’, ‘e’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate da la fortuna e da Dio, che li òmini con la prudenzia loro non possino correggerle’), si oppone la propria opinione – ricorrendo alla stessa parola (‘nientedimeno’, ‘nondimanco’) 63 – e si conclude dando una risposta sostanzialmente positiva in relazione ai margini d’azione dell’uomo. Q ueste prime riflessioni intorno ai possibili legami tra Machiavelli e Ragnoni possono forse concludersi utilizzando lo stesso schema di pensiero: non mi è incognito che Dionisotti era dell’opinione che Ragnoni e Machiavelli appartenessero a due storie diverse, nondimeno i passi discussi mi portano a pensare che gli Homini illustri abbiano lasciato una traccia nei Discorsi. Chi fosse più scettico in proposito – e, inutile nasconderselo, avrebbe le sue ragioni – avrà comunque potuto trovare in queste pagine un contemporaneo di Machiavelli, impegnato anch’egli in prima persona in politica, che leggeva Livio con occhio preoccupato della stabilità istituzionale della sua città e con la convinzione che la risposta al problema passasse attraverso l’imitazione della religione, della guerra e della politica dei romani. Per far luce sull’ancora oscura ‘preistoria dei Discorsi’ sembra, in entrambi i casi, un contributo di qualche utilità.
Bibliografia Anselmi 1979 = G. M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa 1979. Bausi 1985 = F. Bausi, I Discorsi di Niccolò Machiavelli. Genesi e strutture, Roma 1985. Bausi 1987 = F. Bausi, Fonti classiche e mediazioni moderne nei ‘Discorsi’ machiavelliani: gli episodi di Scipione, Torquato e Valerio, Interpres 7, 1987, 159-190. Bausi 1997 = F. Bausi, Machiavelli e la tradizione culturale toscana, in Cultura e scrittura di Machiavelli. Atti del Convegno di Firenze-Pisa, 27-30 ottobre 1997, Roma 1997, 81-115. Sull’importanza di questa parola nel lessico di Machiavelli si veda Ginzburg
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PAUL VAN HECK
I DISCORSI SU LIVIO DA NICCOLÒ MACHIAVELLI A PIETRO GIANNONE
È universalmente noto il contributo fondamentale che i Discorsi di Niccolò Machiavelli hanno dato alla diffusione della fortuna di Livio nella prima età moderna, anche fra un pubblico che forse non poté avere accesso diretto all’opera liviana nella sua forma originale *. Ed è noto altresì che il genere letterario di cui i Discorsi di Machiavelli sono il capostipite, il trattato politico in forma di commento ad un autore classico, a partire dalla seconda metà del Cinquecento si concretizza soprattutto in forma di opere su Tacito. Meno noto forse è che ai Discorsi liviani di Machiavelli seguì anche, fra la seconda metà del Cinquecento e la prima metà del Settecento, un gruppetto di altre opere in volgare, che fin dal titolo si danno a conoscere come Discorsi su (o sopra) Livio. In questo contributo saranno passate in rassegna quattro di simili opere, riassumendone brevemente il contenuto e prestando attenzione al loro rapporto sia con l’opera liviana che con quella di Machiavelli. Si tratta di opere di impegno diverso e anche di scopo diverso, scritte in circostanze diverse, di autori ora abbastanza noti, ora semisconosciuti. Nel caso delle prime tre ci si dovrà limitare a pochi rapidi cenni, mentre ci si soffermerà un po’ più a lungo sulla quarta. Il primo autore dopo Machiavelli che scrive dei Discorsi sopra Livio è, a mia conoscenza, Vincenzo Dini. Nel 1560 egli pubblica dei Discorsi sopra il primo libro della terza deca di Tito Livio, seguiti tre anni dopo da un secondo volume con titolo identico. Stampatore * Dopo la consegna del presente articolo è uscita l’edizione a cui si accenna nelle nn. 21 e 25: Pietro Giannone, Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, a cura di Paul van Heck, Torino 2019, voll. I-III. Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 735-761 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125353
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di ambedue i volumi è Antonio Blado, ‘stampator camerale’, cioè pontificio, che, come si sa, trent’anni prima aveva già pubblicato la princeps dei Discorsi machiavelliani. Vincenzo Dini è un autore semisconosciuto. Originario del lucchese, fu cancelliere del cardinale Umberto Gambara, un diplomatico piuttosto importante al servizio di Clemente VII e Paolo III, più volte menzionato nella Storia d’Italia guicciardiniana (XIII.16; XVI.16; XIX.8). Q uando uscì il primo volume dei Discorsi, egli fu al servizio di Federico Borromeo, il fratello di san Carlo, a cui questo volume è dedicato. Il secondo volume è invece dedicato a Massimiliano II d’Asburgo, allora Re dei Romani e di Boemia; come risulta dalla dedica, nel frattempo l’autore era passato al servizio del principe cardinale di Trento. Il Dini scrisse anche un libro di stratagemmi militari, a cui nei Discorsi si rinvia e si attinge molto spesso 1. Nella dedica i Discorsi diniani sono subito caratterizzati come ‘ragionamenti militari’; e la guerra è infatti argomento pressoché esclusivo del primo volume. Nel proemio Dini dichiara poi di essersi basato sulla storia liviana ‘perché [la guerra] da Tito Livio (secondo me) è con più ordine e più interamente che da altro autore che io abbi letto, stata descritta’. Livio per lui è principalmente cronista esemplare di imprese guerresche. I vari capitoli in cui l’opera si divide (undici nel primo volume, dieci nel secondo), sono infatti dedicati in massima parte a vari aspetti dell’attività militare: quando e come cominciare una guerra (I.1), le qualità che si richiedono a un comandante (I.3), come conquistare o difendere una città (I.4), l’artiglieria (II.1), come ritirarsi (II.2), come fare delle sortite durante un assedio (II.4), e via dicendo. Punto di partenza di queste riflessioni sono di solito passi del primo libro della terza deca; ma occasionalmente si cita anche da altri libri e altre deche. Le citazioni sono spesso accompagnate da una traduzione in volgare. Va precisato però che buona parte del secondo volume è dedicata a ‘l’arte del dire, necessaria ad un capitano d’eserciti’, come suona il titolo del capitolo conclusivo, che è una specie di trattatello di arte retorica. A questo capitolo seguono dieci orazioni quasi sempre militari che si devono supporre d’invenzione dell’autore: 1 Non mi è stato possibile vedere questo libro, che forse rimase manoscritto (non figura infatti nel catalogo delle Edizioni del XVI secolo dell’ICCU, che di Dini registra solo i Discorsi).
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per esempio, una Orazione di Tarquinio Prisco al popolo romano (che è però l’unica di argomento liviano) e una Orazione di Carlo V imperatore al suo esercito in Germania contro i Luterani. L’ultimo discorso è un lunghissimo Parlamento di Carlo V imperatore al re Filippo suo figliuolo nella consegnazione del governo de’ suoi stati. Nella parte più propriamente militare, Livio sembra essere l’unico autore classico, o quasi, veramente utilizzato da Dini. Ci si aspetterebbe forse di veder ricordati e citati anche autori come Vegezio e Frontino, che erano un punto di riferimento pressoché obbligatorio in simili opere, ma di loro non c’è traccia. L’unico altro autore a cui si rimanda spesso, e che Dini forse anche lesse almeno in parte, è Cesare; ma da lui non si cita mai. In compenso, si ricordano molto frequentemente avvenimenti contemporanei, come per esempio l’allora recentissima guerra di Siena, conclusasi con l’annessione della Repubblica di Siena al Granducato di Toscana. L’angolo visuale in simili casi è chiaramente filospagnolo. Manca, in questa a dire il vero mediocre opera, qualsiasi allusione scoperta a Machiavelli, e anche, se ho visto bene, qualsiasi elemento sicuramente riconducibile alle opere machiavelliane. A Machiavelli potrebbe ovviamente essere riportabile l’idea di scrivere in volgare dei discorsi su Livio, come anche l’idea di affiancare frequentemente avvenimenti contemporanei ad avvenimenti antichi; e naturalmente qua e là si riscontrano delle corrispondenze tematiche 2. Ma in ogni caso in quest’opera non aleggia lo spirito di Machiavelli. E Livio? Livio, per Dini, è un semplice fornitore di materiale storico, di notizie di ordine militare, che fungono da punto di partenza dei suoi ragionamenti. La storia di Roma e il suo autore come tali non diventano mai oggetto di riflessione. La seconda raccolta di discorsi liviani che merita un breve cenno sono i Venticinque Discorsi politici sopra Livio. Della seconda guerra cartaginese di Aldo Manuzio il Giovane, pubblicati a Roma nel 1601, e ristampati nel 1624.
2 Vedi per es. c. 16v (‘De la ingiustizia […] così circa il rispetto de la robba, come circa quello de gl’onori e di donne […] ne son di esempi piene l’istorie’), 18r-v (Francesco Maria, duca d’Urbino riconquistò il suo stato ‘mediante la benevolenzia de’ suoi sudditi, più che per forza o per potere’); cap. XI (importanza della conoscenza della storia per un capitano d’eserciti). Ma non si tratta mai di corrispondenze veramente stringenti.
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Notissima la personalità dell’autore 3: nipote del grande Aldo, figlio di Paolo, importante editore anche lui e inoltre notevole umanista, Aldo il Giovane si mosse fin da giovanissimo sulle orme soprattutto del padre. Studioso di epigrafia latina, editore e commentatore di numerosi testi classici, grande bibliofilo (possedeva una splendida biblioteca), editore di alterna fortuna, fu una personalità dotata ma anche irrequieta, incapace di concentrarsi a lungo su una stessa cosa. Visse una esistenza piuttosto movimentata tra Venezia e Roma, dove aveva spostato le sue attività editoriali il padre. Fra le sue molte incombenze editoriali e di altro tipo trovò anche il tempo di comporre numerosi scritti propri, uno dei quali sono i nostri Discorsi. Si tratta di un testo non molto lungo (una novantina di pagine), pubblicato postumo a cura dei nipoti dell’autore, morto nel 1597. Il contenuto non contiene agganci che permettano una datazione precisa. Il titolo prospetta discorsi sull’intera terza deca; in realtà il testo contempla solo una serie di passi dei libri 21 e 22. Non sembra dunque impossibile che si tratti di un testo incompiuto. I 25 discorsi sono tutti ispirati a brevi passi liviani, che vengono elencati all’inizio del libro, e spesso ripetuti, in forma anche ampliata, all’interno dei singoli capitoli. Si vedano gli esempi seguenti: I. Ch’egli è necessario mantenere per propria virtù la reputatione lasciata da gli antenati. Missus Hannibal in Hispaniam, primo statim adventu omnem exercitum in se convertit, etc. deinde brevi effecit, ut patri in se minimum in favorem conciliandum esset. [21,4,1-2].
Riassunto: il figlio di un grande padre deve quanto prima mostrare di essere virtuoso anche lui; altrimente delude subito le grandi aspettative che la gente nutre nei suoi confronti. Così fece Annibale, che diede subito buona prova di se; perciò prestissimo ‘non più come figlio di Amilcare, ma come Annibale per se stesso era da tutti generalmente ammirato e osservato’ (3). XV. Per qual cagione il terremoto grande non fosse da quelli che combatterono a Trasimeno sentito. Tantus fuit ardor animorum, adeo intentus pugnae animus, ut eum terrae motum, qui multarum urbium Italiae magnas partes prostravit, nemo senserit. [22,5,8]. 3 Vedi Russo 2007 e, per una discussione dettagliata del contenuto dell’opera e del suo contesto, Russo 2001.
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Riassunto: durante la battaglia del Trasimeno ci fu un grande terremoto; ma i combattenti non se ne accorsero, perché la loro attenzione era tutta assorbita dal pericolo che dovettero affrontare e cercare di superare. Ciò si spiega col fatto che ‘il più delle volte il senso del viso tira e tiene con se occupati e intenti tutti gli altri sensi a quella cosa che vede’ (56). XIX. Come l’amore, non il timore in qual si voglia travaglio mantiene in fede i vassalli. Nec tamen is terror, cum omnia bello flagrarent, fide socios dimovit, videlicet quia iusto et moderato regebantur imperio. [22,13,11].
Riassunto: dopo le tre sconfitte dei Romani contro Annibale, i loro alleati gli rimasero fedeli, perché il dominio romano su di essi fu giusto e moderato. È evidente, in molti casi, la matrice machiavelliana del discorso. Il primo discorso richiama in mente Discorsi 1,11, dove Machiavelli, citando in forma lievemente adattata le famose parole di Dante ‘rade volte risurge per li rami l’umana probitade’ ecc., sostiene che di rado le capacità del padre sono ereditate dal figlio. E nel terzo caso Manuzio si oppone ovviamente a quanto Machiavelli dice in Principe XVII e altrove. E quest’ultimo esempio rende subito chiaro che Manuzio non si limita a riprendere le idee di Machiavelli; in parecchi casi anzi vi si oppone. Non tutti i discorsi sono però riconducibili a Machiavelli, il cui nome per prudenza non viene mai menzionato. Nel già menzionato discorso XV, per esempio, fonte d’ispirazione è chiaramente Aristotele. Il suo nome non figura nel capitolo, ma è evidente che Manuzio ha avuto qui in mente l’inizio della Metafysica, ex visis animus movetur. I discorsi sono arricchiti anche da occasionali rinvii ad altri autori classici: Plutarco, Seneca, Valerio Massimo, Virgilio ed altri. I rinvii alla storia contemporanea e ai suoi protagonisti si contano sulle dita di una mano: la solita battaglia di Agnadello, l’invasione spagnola, Prospero Colonna e soprattutto Andrea Doria, che gode dell’incondizionata ammirazione dell’autore. Da un autore di solida cultura classica come Manuzio ci si sarebbe aspettati forse anche qualche osservazione sull’attendibilità di Livio come storico, sulla sua interpretazione di certe vicende, sul suo stile. Ma simili osservazioni si cercherebbero invano nei suoi Discorsi. Come per Dini, anche per Manuzio Livio rimane essenzial739
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mente un fornitore di vicende memorabili su cui meditare e da cui imparare; e l’angolo visuale rimane in questo caso essenzialmente politico-militare, con attenzione speciale al versante psicologico delle vicende narrate. Anche in questo senso, dunque, Manuzio non si allontana troppo dal modello machiavelliano. Poco noto è il terzo autore di Discorsi sopra Livio, Antonio Ciccarelli. Originario di Foligno, dottore in teologia, probabilmente gesuita, fu uno dei correttori a cui dalla Congregazione dell’Indice fu affidato l’ingrato compito di purgare opere letterarie di passi giudicati inaccettabili. In tal senso il suo nome è rimasto legato ad un’edizione purgata del Cortegiano, apparsa per la prima volta nel 1584. Il Ciccarelli curò poi le edizioni di alcune opere religiose, e compilò raccolte di Vite dei pontefici e di Vite degli imperatori romani 4. I Discorsi sopra Tito Livio uscirono a Roma nel 1598, un anno prima della morte dell’autore; la prima edizione sarebbe rimasta l’unica. Nella dedica a Bernardino Paolini, ‘sottodatario di N. S. Clemente VIII’, l’autore dichiara di aver investito nella sua opera ‘i miei studi di sei anni continui’. Egli rivendica poi per essa una certa originalità, in quanto tratterebbe ‘per lo più materie che da altri non sono state toccate punto’, le quali egli ha cercato di ‘distendere (per dir così) con nervi, e animarle con spiriti filosofici: cosa che non solo non è stata tentata da altri fin qui, ma che pareva a molti, che gran parte di queste materie, io dico l’istoriche e le militari, non fossero del tutto capaci a ricevere sì esatta forma’. Giunge poi a proporre il suo trattato come una specie di introduzione alle Storie liviane, le quali ‘potrà forse […] molto più agevolmente intendere chiunque averà prima letto un poco l’opera nostra’, o addirittura come alternativa ad esse, ‘se alcuno fosse che o per non avere commodità di tempo o volontà di prendere tanta fatiga di leggere l’Istorie Romane, e pure volesse avere delle più scelte e delle più principali qualche conoscimento’. Il libro consiste di 46 discorsi, senza ulteriore suddivisione 5, tutti riguardanti la prima e la terza deca. Ogni discorso è introdotto da una citazione liviana (con traduzione), da cui esso sarebbe ori-
Su Ciccarelli, vedi Longo 1981; sui suoi Discorsi, vedi De Mattei 1967. Ma la dicitura sul frontespizio è ripetuta prima del disc. XXVII, il primo sulla terza decade, all’inizio del quale Ciccarelli si rivolge di nuovo al dedicatario. 4 5
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ginato, e da un Argomento, cioè una breve sintesi del suo contenuto. In questi discorsi, Livio è sì punto di riferimento continuo, ma non certo esclusivo. Già nelle prime righe del primo discorso si ricorda infatti che l’uomo è un animale socievole 6, col che siamo subito in ambito aristotelico; e parecchi saranno in seguito i riferimenti alla Politica e all’Etica. E presenti sono numerosi altri autori classici e postclassici. Anzitutto gli storici tematicamente più vicini a Livio: Polibio, ‘il più antico di quelli, li quali hanno scritto l’istorie romane’ (74), ‘grandissimo istorico, eccellente oratore e buon filosofo’ (302), Lucio Floro e soprattutto Dionigi d’Alicarnasso, ‘valente istorico e molto intelligente nelle cose de’ governi’ (78). Poi (ma l’elenco non mira a completezza) tra i Greci Senofonte (la Ciropedia, ma non solo), Platone, Tucidide e Plutarco; tra i Latini Cicerone, Sallustio, Seneca, Tacito, Vegezio e Vitruvio. Frequenti sono anche i rinvii alla Città di Dio di sant’Agostino, che, com’è noto, fu punto di riferimento pressoché obbligatorio per ogni riflessione approfondita sulla cultura romana. La cultura giuridica è presente non solo con vari richiami al Corpus iuris, ma anche con Bartolo da Sassoferrato. Si citano poi umanisti come Pomponio Leto e Alessandro D’Alessandro; e parecchi sono i rinvii al De magistratibus sacerdotiisque Romanorum di Andrea Fiocchi, trattato circolante sotto il nome dello storico romano Fenestella, e che, a quanto pare, anche per Ciccarelli risaliva all’antichità. Una parte di queste citazioni e riferimenti sarà anche indiretta, ma le più di 300 fitte pagine dei Discorsi di Ciccarelli sono indubbiamente il frutto di svariate letture e di un notevole impegno, di cui testimonia anche una amplissima Tavola delle cose più notabili e principali. Il tono dell’esposizione, poi, manifesta un chiaro entusiasmo per la materia trattata. Ma nell’ampio catalogo di nomi illustri che popolano le pagine dell’opera, manca quello di colui che senza dubbio ne è la fonte prima e primaria. All’innominato il Ciccarelli allude però nella dedica come l’unico che abbia tentato un’impresa simile alla sua (‘quello ch’è stato solo, che a dilungo ha discorso sopra T. Livio’), per poi subito distanziarsi da lui: il suo predecessore, infatti, ‘discorse solamente sopra la prima Deca […] 7; noi abbiamo sopra Arist., Pol. 1253a. Così suggerisce infatti il titolo dell’opera machiavelliana; ma numerosi vi sono anche i riferimenti alla terza deca. 6 7
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la prima e la terza disputato. Egli andò formando le tirannidi, dando precetti tal volta molto empi; noi all’incontro procuramo sempre di formare stati buoni e dare ammaestramenti cristiani e pii. Egli stesso confessa di non avere dato opera alla filosofia 8; noi v’abbiamo impiegata la maggior parte dell’età nostra.’ Verso l’opera di Machiavelli puntano anzitutto i titoli di parecchi discorsi: XV, Se lo Stato romano si poteva ben ordinare senza quei tanti romori e atroci contenzioni tra i tribuni e’ nobili, cioè tra il popolo e ’l senato (cf. M. Disc. 1,6); XXVII, […] s’è meglio di andare a trovare ne’ suoi paesi il nimico, o di aspettarlo ne’ propri (cf. M. Disc. 2,12); XXXI, Se gli Stati si debbono valere de’ soldati e capitani mercenari (cf. M. Pr. 12-14 ecc.); XLII, Egli si adducano le ragioni, per le quali si dimostra questa esser stata la maggiore opera di Annibale, che stando l’esercito suo in terra di nimici per sedeci anni in circa […] egli oprasse in maniera che non nascesse mai sedizione alcuna né tra di essi soldati, né contra esso capitano […] (cf. M. Pr. 17). Ma anche discorsi il cui titolo non fa subito venire in mente questo o quel capitolo dei Discorsi o del Principe, a una lettura attenta rivelano talvolta un’indubbia origine machiavelliana. Pareri machiavelliani sono spesso introdotti da espressioni del tipo ‘alcuni scrivono che’, ‘alcuni dicono che’, ‘s’è osservato che’; ma ancora più spesso Ciccarelli attinge alle idee di Machiavelli senza dichiarare il suo debito. Molti giudizi machiavelliani, infatti, sono da lui ripetuti a titolo personale: ‘i savi principi le pene e il castigo devono fare ordinare da altri, per non concitarsi l’odio altrui; all’incontro per guadagnarsi la benevolenzia di tutti, debbono fare eglino immediatamente li favori e le grazie’ (VII, 48; cf. M. Pr. 19); ‘per fare i grandi acquisti che fece Roma non si poteva fare il più opportuno ordine [si allude alla partecipazione del popolo nel potere politico]; perché quel popolo non arebbe mai obedito a fare tante guerre quante fece Roma, se non fosse stato in tal maniera partecipe di quel dominio’ (IX, 60; cf. M. Disc. 1,6); ‘E T. Livio dice che non le [alla plebe] mancava materia da rispondere, ma le mancava chi facesse la risposta. La quale cosa dimostra come sia inutile una moltitudine sanza capo’ (XXVII, 164; cf. M. Disc. 1,44). Numerosissimi e non di rado amplissimi sono poi i passi machiavelliani che Ciccarelli travasa alla lettera o quasi nel suo trattato,
Non è chiaro a quale passo machiavelliano qui si alluda.
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senza accennare in alcun modo alla loro provenienza. Un elenco completo di tutti i luoghi derivati dalle opere machiavelliane o ispirati ad esse sarebbe senza dubbio lunghissimo. Anche in questo caso la storia di Livio è filtrata dunque spesso attraverso la visuale machiavelliana. Ma tutto ciò non toglie che di quest’opera Livio rimane l’ammiratissimo protagonista. Della Repubblica romana, osserva Ciccarelli nella dedica, molti hanno scritto; ma ‘niuno certamente ne ha trattato più a pieno e più gloriosamente di T. Livio’, non solo per la dolcezza e l’eloquenza del suo stile, o per l’ampiezza del periodo storico descritto, ‘ma per avere ancora meglio che nessuno altro spiegato gli ordini e accennato i modi del governo di quella Repubblica’. Livio, per Ciccarelli, è dunque testimone esemplare, oltre che della storia politico-militare, anche della storia istituzionale di Roma. E amplissima infatti è l’attenzione prestata in questi Discorsi alle istituzioni romane: il potere regale, la dittatura, il tribunato della plebe, il Decemvirato, la censura. E non tutto è certo di matrice machiavelliana: per esempio il discorso II, Se Romolo o Remo fosse più atto ad esser re di Roma, o XLIV, Perché Scipione Africano credesse che Roma fosse stata fabricata per singolar providenza divina, e che dopo lui noi abbiamo avuto altre ragioni ancora da creder il medesimo, o XLVI, Se li Cartaginesi dovevano richiamare Annibale in Africa. E nella discussione di fortunati temi liviani trattati anche da Machiavelli, il ragionamento di Ciccarelli è di solito notevolmente più ampio: non meno di dieci sono per lui le cause ‘che fecero a Tarquinio perdere il regno’ (VIII); addirittura undici ‘le cose principalissime, che per piantare la libertà fece Bruto’, e sette quelle che fece per consolidarla (IX). Caratteristico per il modo di procedere di Ciccarelli è il discorso XXXI, Se gli stati si debbono valere de’ soldati e capitani mercenari. Il tema è machiavelliano, da Machiavelli si traggono parecchi brani ed esempi, oltre che a volte un certo modo di costruire la sintassi (‘o sono … o no; se sono, …; se non sono, …’); ma si esaminano anche argomenti che vengono talvolta addotti a favore dell’impiego di mercenari, e si osserva a ragione che di mercenari si servivano incidentalmente anche i Romani, già nell’aureo periodo repubblicano. E la conclusione a cui infine si giunge è simile a quella di Machiavelli, ma non identica: ‘Il punto della conclusione […] è che un principe non deve avere tutto il suo esercito di gente mercenaria, né ausiliaria, né meno la maggior parte, ma che 743
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una minima parte ve n’abbia, e che li sia utile avervela’. Pur non allontanandosi mai troppo dall’alveo machiavelliano, il Ciccarelli si riserva dunque una certa autonomia. Alla versione liviana degli avvenimenti vengono accostate ripetutamente quelle di altri testimoni antichi, e questi raffronti vengono poi corredati di osservazioni e commenti di vario tipo. Basterà soffermarsi brevemente su un solo caso: quello celeberrimo di Orazio, che dopo la sua vittoria sui tre Curiazi uccise la propria sorella, perché pianse la morte di uno di loro, che era il suo fidanzato. Nel discorso VII Ciccarelli dedica ben dieci dense pagine a questa vicenda, in cui ha certamente bene in mente quanto Machiavelli osserva in materia (Disc. 1,22-24). Tema principale del ragionamento di Ciccarelli (come di uno dei capitoli machiavelliani) è la questione dell’ingratitudine o meno mostrata dal popolo romano verso Orazio, che viene esaminata anche alla luce di parecchi altri episodi consimili; e la conclusione a cui egli infine arriva è sostanzialmente identica a quella di Machiavelli. Ma il suo discorso ha anche una dimensione che manca a quello di Machiavelli. Anzitutto alla versione liviana degli avvenimenti viene accostata quella molto più ampia di Dionigi d’Alicarnasso, e vengono esaminate alcune differenze fra di esse. Ci si sofferma poi sull’esatta natura della colpa di Orazio, definita in Livio perduellio, alto tradimento, ossia, secondo Ciccarelli, ‘delitto di maestà, non per altra ragione […] che perché alla presenza del principe e quasi di tutta Roma fu fatta quell’uccisione’. E benché la sorella uccisa anche per Ciccarelli sia in fin dei conti solo una vittima, egli ricorda il parere secondo cui era in colpa anche lei, ‘poiché in quella publica allegrezza del bene della patria era ingiusto e inopportuno quel lamento e pianto fatto publicamente dalla giovinetta; anzi dimostrava ella tacitamente che l’incresceva della libertà e gloria della patria, poi che piangeva la morte di colui, senza la quale non poteva restare libera, vincitrice e signora Roma’. E infatti, secondo una concezione molto antica «she was guilty of proditio [tradimento], she had mourned for an enemy» 9. E non importa ovviamente la correttezza o meno di quanto affermato da Ciccarelli; importa che egli cercò ripetutamente di guardare al di là della lettera del testo liviano, e di
9 Ogilvie 1965 ad loc., a cui si rinvia per maggiori particolari su tutta la questione qui discussa.
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rispondere a domande che quello stesso testo suscitava in un lettore attento. Alla religione è dedicato il discorso XLI, in cui si difende la tesi che ‘ogni dominio dee riconoscere le prosperità e l’avversità da Dio’, come avrebbero fatto anche i Romani. Punto di riferimento diretto è l’inizio di un capitolo in cui si fa menzione dei molti prodigi che vennero riferiti nel 207 a.C., all’inizio della ripresa della guerra contro Annibale (Liv. 28,11,1 in civitate tanti 10 discrimine belli sollicita, cum omnium secundorum aduersorumque causas in deos uerterent, multa prodigia nuntiabantur). Dopo aver dimostrato ‘che ogni dominio e dominante a Dio si riduca e da esso dipenda’, e che di conseguenza ‘ogni principe e dominio […] dee riferirsi a Dio’, il Ciccarelli afferma che i Romani facevano appunto questo: essi attribuivano alla volontà divina tutto ciò di prospero e di avverso che gli capitava. Q uesta costatazione si traduce però subito in un ammonimento moraleggiante ai cristiani, cultori privilegiati dell’unica fede verace, a seguire il loro esempio: ‘chi è che non vegga che s’i Romani nella falsità dell’idolatria riconoscevano il bene e il male dagl’Iddii, quanto più i principi e i popoli nella vera religione di Gesucristo Salvatore nostro, riconoscere il tutto devono da esso sempre?’ Conclude il capitolo una caratterizzazione dei fondamenti della religione gentile che ci si sarebbe aspettati piuttosto al suo inizio, e che ancora una volta è tolta di peso da Machiavelli (‘la religione gentile era fondata principalmente sopra i responsi degli oracoli ecc.’, cf. Disc. 1,12). Praticamente assente dall’opera è infine la storia contemporanea. Tra i pochissimi accenni ad avvenimenti recenti c’è quello alla sconfitta e morte del re Sebastiano I di Portogallo in Marocco (1578; 66), e quello all’assassinio di Enrico III di Francia (1593; 182). Nei Discorsi di Ciccarelli non c’è dunque quella interazione tra passato e presente che è una delle caratteristiche principali di quelli di Machiavelli. I Discorsi finora brevemente considerati sono tutti cinquecenteschi. L’ultima opera della serie risale invece alla prima metà del Settecento, e appartiene dunque a tutt’altra stagione letteraria, quando il genere del trattato politico in forma di commento ad un autore classico è ormai tramontato da tempo. I Discorsi sopra gli Annali Edd. modd. tanto.
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di Tito Livio di Pietro Giannone su cui ora ci soffermeremo sono dunque per così dire un frutto fuori stagione, che nasce, come vedremo, da circostanze piuttosto casuali 11. Tormentata fu la vicenda biografica del Giannone. Pugliese di nascita, si trasferisce presto a Napoli, dove si laurea in legge e avvia una fortunata carriera nell’avvocatura. Nel tempo libero che gli lasciano le sue attività forensi, lavora a una ambiziosa storia del Mezzogiorno d’Italia, che esce infine nel 1723 in quattro grossi volumi, col titolo Istoria civile del Regno di Napoli. Ma più che ammirazione, in ambito napoletano l’opera desta gelosie e sospetti, e (come il Giannone scriverà più tardi nell’autobiografia) si diffondono subito voci ‘che io negassi ne’ vescovi l’ordinazione; negassi i miracoli; insegnassi il concubinato esser lecito; i pellegrinaggi a’ santuari esser vani ed inutili; negassi il Purgatorio, la venerazione ed intercessione de’ santi’. E soprattutto, i suoi avversari insinuano che egli derida le divozioni particolari dei vari ordini religiosi, ‘sicome a’ Dominicani quella del rosario, a’ Franciscani l’altra del cordone, a gli Agostiniani quella della correggia, ed a’ Carmelitani l’altra degli abitini e loro scapulari; e, per ciò che riguarda a’ Napolitani, non si poté inventare calunnia più acconcia a’ loro perversi fini, che di fargli credere che io negassi il miracolo del sangue di san Gennaio’ 12. Per strada egli comincia ad essere mostrato a dito, i frati e i monaci istigano contro di lui il popolino, e presto il Giannone si vede costretto a fuggire. Egli trova riparo a Vienna, presso l’imperatore Carlo VI, che all’epoca era anche sovrano di Napoli, e a cui la controversa opera era stata dedicata; questi gli assegna una modesta pensione. Nella capitale asburgica il Giannone passa una decina d’anni, decisivi per il suo sviluppo intellettuale, in cui entra in contatto con la cultura europea più avanzata del tempo, accumulando conoscenze ed esperienze che l’ambiente napoletano mai gli avrebbe potuto offrire. A Vienna egli comincia a scrivere poi un’altra grande opera, Il Triregno, in cui egli si dimostra, specie nella terza sua parte (Il Regno papale) molto critico verso il ruolo secolare del papato nella religione e nella storia, e verso certi aspetti della tradizione cristiana. Ma lo scenario della sua vita cambia di nuovo brusca11 Per tutta la vicenda biografica e intellettuale del Giannone, vedi Ricuperati 2017 (riedizione aggiornata di uno studio già apparso nel 1970). 12 Giannone 1971, 82.
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mente nel 1734, con l’invasione borbonica del Regno, che mette fine al dominio austriaco. E col taglio dei legami tra Vienna e Napoli termina anche il pagamento della pensione percepita dal Giannone, che si vede costretto a tornare in Italia. E così può allungarsi su di lui la mano dell’Inquisizione, che è venuta a conoscenza della grande opera eterodossa a cui sta lavorando, e che dopo alterne vicende riesce a convincere la monarchia sabauda ad arrestarlo durante un suo occasionale soggiorno in Savoia. L’arresto comporta anche la confisca dei manoscritti del Triregno ancora incompiuto, che Giannone non potrà più portare a termine. Egli passa gli ultimi dodici anni della sua vita in varie carceri sabaude, e muore infine in quello di Torino nel 1748. Durante la sua lunghissima detenzione il Giannone scrive una serie di nuove opere, le prime delle quali in ordine di tempo sono una bellissima autobiografia intellettuale e un’opera dal titolo Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, in cui riprende un’antica consuetudine con lo storico di Roma. Con le decadi liviane, infatti, il Giannone si era già familiarizzato negli anni dell’adolescenza. Rievocando nella Vita gli anni dello studio universitario e del primo apprendistato nel mondo dell’avvocatura, egli dedica pagine memorande all’importanza che nella sua formazione intellettuale aveva rivestito la lettura di Livio. E qui compare subito in scena la veneranda immagine del suo primo grande maestro, Domenico Aulisio, che per una retta comprensione del diritto romano aveva ritenuto indispensabile lo studio della storia romana. Studio che non poteva che partire da Livio: Egli fu che m’inculcò lo studio dell’istoria romana, dicendomi che quanto era nelle Pandette di Giustiniano, nel suo Codice e Novelle, non potea esattamente intendersi, se non si sapeva l’istoria romana e le varie vicende di quell’Imperio: che i responsi di que’ giurisconsulti, onde Giustiniano avea composte le sue Pandette, e le costituzioni de’ principi, onde s’eran compilati più codici e fatte più raccolte delle novelle loro costituzioni, non potevan ben capirsi, se non si sapevano le occasioni perché furon date o stabilite, i costumi di que’ tempi e la costituzione d’allora d’Italia e delle province che componevano l’Imperio romano, molto diversa e tutto altra di quella che presentemente abbiamo. Bisognava per ciò allo studio delle leggi accoppiare la cognizione dell’istoria romana, fin dal principio che surse quell’Imperio e si distese nelle tre parti del mondo allor conosciuto; e per poter con metodo apprenderla era mestieri cominciare dall’Istoria di Tito Livio; e per supplire la mancanza de’ suoi libri, de’ quali, o per negligenza degli uomini, o per ingiuria del tempo,
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oggi siamo privi, bisognava ricorrere ad altri antichi scrittori romani o greci, che trattarono delle cose romane, per avere un’accurata notizia della costituzione di quell’Imperio fino a’ tempi di Ottavio Augusto; ed in cotal maniera, si avrà una chiara e distinta notizia dell’antica giurisprudenza romana. Q uesta poi, sotto Augusto e gli altri imperadori suoi successori, fino all’imperadore Costantino Magno, prese altro aspetto e varie forme; e questo stato dell’Imperio esser quello che si comprende nelle Pandette e nelle costituzioni di que’ principi, i quali a Costantino precedettero, le quali formano un’altra giurisprudenza, che potrà chiamarsi media, come posta nel mezzo tra l’antica e l’infima, che comincia da Costantino e finisce colla destruzione dell’Imperio romano. E per apprendere questo stato di mezzo, non mancavano altri scrittori, non meno romani che greci, anzi che soprabbondavano, sicome sotto gli imperadori Vespasiano, Tito, Nerva, Traiano ed altri fiorirono i due Plinii, Svetonio Tranquillo, Cornelio Tacito, Dione e tanti altri scrittori delle cose romane di que’ tempi, de’ quali io poteva aver notizia dalle varie Raccolte che si erano a’ nostri tempi compilate. […] Q uesti discorsi, che sovente solea replicarmi, impressero nel mio animo idee conformi, sicché di proposito, secondo il metodo prescrittomi, cominciai a mescolare a’ studi legali l’istoria romana, principiando da quella di Tito Livio e proseguendo di passo in passo, secondo la cronologia de’ tempi, la lettura degli altri seguenti romani scrittori. E su ’l fatto, conoscendo che non ben potea capir Livio senza il soccorso della geografia, per sapere con distinzione i paesi ove dimoravano tanti popoli de’ quali, a que’ tempi, l’Italia si componeva, ed il sito delle province delle Gallie, della Spagna e dell’Africa, e molto più della Grecia, Macedonia, Illirico e dell’altre più remote dell’Asia, della Siria e dell’Egitto, sopra le quali l’Imperio romano distese le vittoriose sue armi, procurai d’aggiungere all’istoria la geografia antica, apprendendola da Tolomeo, secondo le tavole ed esposizioni del Magino 13, poiché la notizia della geografia di Mela e di Strabone e degli altri più esatti geografi moderni mi giunse molto tardi. Ma tutti questi studi io non l’avea come fine, ma l’indrizzava come efficaci mezzi per intendere le origini ed i cangiamenti dell’Imperio romano e come, poi ruinato, fossero surti tanti nuovi domìni, tante nuove leggi, nuovi costumi e nuovi regni e repubbliche in Europa 14.
Giannone ci narra poi come dopo il conseguimento del dottorato egli cominciò ad esercitare l’avvocatura sotto la guida del celebre secondo … Magino: ‘Dell’Introduzione geografica di Claudio Tolomeo […] fu redatta una prima edizione latina (Venetiis 1596; ma cf. anche la postuma Geografia, cioè descrittione universale della terra, Padova 1621) dall’astronomo, geografo e matematico patavino Giovanni Antonio Magini (1555-1617)’. (Giannone 1971, 25-26 nota). 14 Giannone 1971, 21-22, 25-26. 13
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giureconsulto Gaetano Argento; e questa conoscenza gli permise di recarsi regolarmente in casa di un altro luminare del diritto, Gennaro D’Andrea, uomo veramente senatorio e degno di sedere fra’ romani senatori, della cui virtù e sapienza era viva immagine. Q uesti ed il di lui esempio rese a me quasi perpetua la lezione delle Deche di Livio, che egli avea sempre nelle mani; e n’era cotanto preso che, se Plinio il Giovane scrive che un Gaditano dall’estrema Spagna corse fin a Roma, sol per veder Livio 15, egli, se gli fosse stato coetaneo, sarebbe corso fin dal l’America 16, cotanto era adoratore de’ suoi libri, i quali, se bene avea stanchi 17, non era però mai sazio di leggerli e rileggerli. E non posso negare che io, spinto dall’esempio d’un tant’uomo, avendogli quasi sempre innanzi a gli occhi, ne ritrassi gran profitto riguardando alla maniera nobile, seria e grande, colla quale egli tessé quella incomparabile e divina sua istoria 18.
Non è forse escluso che l’entusiasmo che in queste righe si ascrive a distanza di molti anni alla frequentazione giovanile di Livio, fosse in parte il prodotto della sua rivisitazione in età matura. Ma più importante è osservare che questa rivisitazione non si svolge ormai più principalmente al servizio di una migliore comprensione del diritto antico e moderno. A leggere ora Livio non è più lo studente di giurisprudenza, e nemmeno lo studioso delle vicende civili e incivili della sua terra che il Giannone era diventato in seguito 19, ma uno studioso impegnatissimo nello studio della tradizione religiosa: pagana, gentile, ebraica, cristiana. Ed è con questa ottica principalmente che il Giannone legge ormai le storie ed i trattati degli antichi. È significativo infatti che già nell’introduzione alla se Plinio … Livio: vedi Plin., epist. 2,3,8. egli … America: un crescendo in tutto simile nella celebre lett. petrarchesca Ad Titum Livium historicum: Optarem, si ex alto datum esset, vel me in tuam vel te in nostram etatem incidisse, ut vel etas ipsa vel ego per te melior fierem et visitatorum unus ex numero tuorum, profecto non Romam modo te videndi gratia, sed Indiam ex Galliis aut Hispania petiturus. (Fam. 24,8,1). 17 stanchi: letti e riletti. 18 Giannone 1971, 59. 19 Nel primo libro dell’Istoria civile, che contiene ‘un saggio della forma e disposizione dell’imperio romano e delle sue leggi’ (Giannone 1970-1972, I 33), il ricordo delle letture liviane è ben presente, come risulta da citazioni esplicite e anche da alcuni manifesti calchi e allusioni. Un esempio: l’osservazione, nelle parole introduttive al libro I, che l’Impero alla fine ‘oppresso dal grave peso di tanta e sì sterminata mole, bisognò che cedesse sotto il suo incarico medesimo’ (ivi I 39) è chiaramente esemplata su due famosi luoghi liviani (Proemio 4; 7,29,2). 15 16
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prima parte del Triregno, Il Regno terreno, egli aveva accennato agli ‘infiniti avvenimenti miracolosi’ che si leggono nelle ‘istorie’ dei Greci e Romani, e ‘specialmente in quelle di Tito Livio’ 20. Dei Discorsi giannoniani esistono, come vedremo, due redazioni nettamente diverse, stese in tempi nettamente diversi (1738-1739 la prima, 1747-1748 la seconda, rimasta incompiuta), e ambedue pervenuteci in un autografo. Ed è rimasto anche l’esemplare di lavoro su cui queste due redazioni sono basate. Sulle circostanze in cui nacque l’idea dell’opera 21 ci informa un passo dell’autobiografia: […] nel partir da Champerì 22, […] mi provvidi d’un Livio, comprato ivi da un libraro, che fu pur miracolo di trovarlo, ancorché l’edizione fosse cattiva e scorretta. Non posso negare che fummi di gran sollievo, consumando più ore del giorno in leggerlo e rileggerlo, e così rendere meno noiosa la mia solitudine 23.
Subito dopo l’arresto, dunque, Giannone, prevedendo un periodo non breve di reclusione, chiede ed ottiene il permesso di andare in una libreria per comprare qualcosa da leggere. Difficile dire se l’acquisto del Livio fosse mirato o piuttosto suggerito dalle disponibilità della libreria locale. Fatto sta comunque che per parecchio tempo la Storia di Livio fu tra i pochissimi libri che Giannone aveva a disposizione. Nel primo periodo del carcere Giannone non è però solo; gli tiene compagnia il figlio ventenne, Giovanni, che lo serve come segretario e come factotum. La cultura di Giovanni è però modesta, specie il latino gli difetta, e perciò Pietro si serve del suo Livio anche per insegnare al figlio un po’ di latino. Livio assume dunque le vesti non solo di storico di Roma ma anche di modello di grammatica latina.
Giannone 1940, I 22. Ne esiste un’unica edizione a stampa, pubblicata negli anni cinquanta dell’Ottocento da Pasquale Stanislao Mancini, importante giurista, ma editore di testi sui generis, che pubblicò il testo della prima bella copia, intervenendo però pesantemente sul testo, che adattò ai propri gusti stilistici e sfrondò di ciò che gli pareva inutile. La sua edizione, che è priva sia di introduzione sia di note degne di questo nome, dà dunque un’idea molto approssimativa dell’opera. Attualmente è in corso di stampa una nuova edizione a cura di chi scrive. Da questa nuova edizione si riprendono qui alcune pagine, approfondendo poi alcuni aspetti della lettura liviana del Giannone. 22 Chambéry in Savoia, dove Giannone fu arrestato. 23 Giannone 1971, 339-340. 20 21
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E poi, insieme al figlio, comincia a scrivere l’opera che saranno i Discorsi 24. Ed è interessante notare che in un primo momento Pietro intende attribuire la paternità dell’opera non a se stesso, ma al figlio. Fra le carte giannoniane si trovano appunti che non lasciano dubbi in proposito. Difficile dire fino a quando questo proponimento ha persistito; ma esso diventa in ogni caso impossibile nel settembre 1737, quando Giannone viene improvvisamente separato dal figlio. Il direttore del carcere lo manda a chiamare, gli comunica che sarà trasferito altrove, che partirà subito, e che il figlio non lo seguirà. E Pietro non riceve nemmeno il permesso di dire addio al suo Giovanni. Padre e figlio non si rivedranno mai più. Rimasto solo, Giannone continua il lavoro sui Discorsi. Nasce un’opera divisa in due libri, in cui egli si serve di Livio essenzialmente in due modi. Il secondo libro, che è la parte meno interessante dell’opera, è una descrizione sommaria della storia di Roma dalla fondazione della città alla nascita e ai primi sviluppi del cristianesimo in seno all’Impero, con attenzione anche alla sua geografia. La prima metà di questa sintesi storica è basata essenzialmente su Livio. Più interessante il primo libro, che è dedicato principalmente alla religione romana. Per dare un’idea del suo contenuto, basterà citare i titoli di alcuni capitoli o discorsi: I 4. Dell’antica religione de’ Romani, instituita a Roma da Numa Pompilio. – I 5. De’ finti miracoli accaduti presso i Romani, a’ quali prestavan intera fede […]. – I 6. De’ prodigi e portenti. – I 8. De’ maghi, incantatori ed astrologi giudiziari. – I 11. De’ baccanali. – I 12. Del concetto ch’ebbero i Romani del nostro morire; e qual’altra vita riputassero rimanere agli uomini doppo la lor morte […]. La lunga dissertazione che Giannone abbozza su questi ed altri aspetti della religione romana è basata in un primo momento soprattutto su Livio. Ma già durante la stesura della prima redazione dell’opera egli viene a disporre di altri testi, che gli consentono di ampliare e approfondire il discorso. Sono pochi, ma fondamentali: anzitutto la Storia naturale di Plinio, altra miniera di notizie sulla religione romana, e la Città di Dio di sant’Agostino; poi un Tacito, un’edizione di Plinio il Giovane, una Gerusalemme liberata, una Bibbia e pochissimi altri testi. E Giannone attinge fre24 Come risulta da appunti rimastici, inizialmente il Giannone pensò di chiamare la sua opera non Discorsi ma Ragionamenti sopra Livio.
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quentemente anche al libro della memoria. Con questi pochi strumenti a disposizione, nella primavera del 1739 viene portata a termine la prima redazione dell’opera. Essa viene mandata in corte, con dedica a Carlo Emanuele III. Il Livio che emerge dai Discorsi è decisamente uno storico ‘illuminato’. Basteranno a darne un’idea poche citazioni casuali: Egli scrisse la sua Istoria non già ne’ tempi incolti e superstiziosi di Roma, ma nel più culto ed illuminato secolo qual fu quello di Augusto, quando fioriva in Roma colle altre discipline la vera e solida filosofia. (I 3,21) 25 Di Orazio, che fosse epicureo non se ne dubbita, e lo stesso dee dirsi di Catullo e di altri latini poeti che fiorirono a’ tempi di Augusto. La qual dottrina si diffuse in questa età eziandio presso i romani giurisconsulti […]; li quali, sicome in quanto alla dottrina de’ costumi seguitarono gli stoici, così in quanto alla fisica quella di Democrito e di Epicuro. Livio in questi suoi Annali in più luoghi […] mostra aver tenuta l’istessa dottrina; onde non dee sembrar cosa strana se de’ prodigi, miracoli, augùri e di altre cose appartenenti all’antica religione romana abbia sentimenti poco religiosi, sovente deridendo la sciocca credulità del volgo, ed altre volte scovrendo l’accortezza e furberia de’ sacerdoti e degli àuguri, e tante altre vane e puerili superstizioni. (I 3,28-30) Se riguardiamo i fatti da Livio narrati, il costume e l’universal credenza de’ Romani e delle altre nazioni, delle quali sovente li convien parlare, trovaremo gran forza e virtù posta nelle parole e grande scrupolosità nel disporle e collocarle insieme; se poi investigaremo i veri sensi di Livio e di ciascun savio Romano, viritim, trovaremo che le deride non meno di ciò che si è mostrato aver fatto de’ prodigi e miracoli (I 8,215).
Q uesta interpretazione di Livio non viene dal nulla. Alla sua base, e fino ad un certo punto alla base dei Discorsi come opera, è un breve testo che Giannone non aveva a disposizione in carcere e che non cita mai, ma che ha sicuramente ispirato il suo pensiero su Livio e sulla religione antica. Si tratta dell’Adeisidaemon [termine interpretabile come ‘libero da ogni superstizione’] sive Titus Livius a superstitione vindicatus del deista inglese John Toland, pubblicato nel 1709, e che Giannone avrà letto a Vienna. Dà un’idea del contenuto dell’operetta il suo sottotitolo: in qua dissertatione probatur Livium historicum in sacris, prodigiis et ostentis Romanorum enarrandis, haudquaquam fuisse credulum aut superstitiosum; ipsamque Si rinvia ai paragrafi dell’ed. ora in corso di stampa.
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superstitionem non minus reipublicae (si non magis) exitiosam esse, quam purum putum atheismum. Q uesta idea di Livio come mente illuminata, aliena da ogni forma di superstizione religiosa, è dunque un’idea che Giannone prende principalmente dal Toland. Ma diversissima è la sua contestualizzazione nelle due opere. In Toland, infatti, essa sboccherà infine in una difesa, sia pure ovviamente molto cauta e clausolata, della non credenza rispetto alla superstizione. Giannone invece, che era un perseguitato per motivi religiosi, una vittima dell’Inquisizione, e che, dedicando i suoi Discorsi al re Carlo Emanuele III e destinandoli all’educazione del figlio Vittorio Amadeo, sperava di conquistare con essi la simpatia o almeno la commiserazione dei Savoia, e di riavere così la sua libertà, sarà indotto infine dalle circostanze a subordinare, non senza vistose forzature, la sua esaltazione della sapienza tutta stoica, razionale e terrena di Livio e degli antichi alla suprema verità incarnata in una fede rivelata e al magistero della Chiesa di Roma. Dove i punti di partenza e forse anche le convinzioni di fondo dei due autori sono dunque simili, i punti di approdo dei loro discorsi sono infine lontani. Non è risultato possibile identificare con sicurezza l’edizione liviana di cui il Giannone si è servito 26. Nella Vita egli la definisce comunque, come si è visto, ‘cattiva e scorretta’. Si sarà probabilmente trattato di un’edizione con veste tipografica dimessa, e stampata su carta di mediocre qualità: di un’edizione acquistabile con i pochi soldi che egli avrà avuto in tasca a Chambéry, verosimilmente in formato piccolo e perciò facilmente trasportabile. Nei Discorsi giannoniani si riflettono in ogni caso i grandi passi che la filologia liviana ha compiuto dal Settecento in poi. Numerosissimi in essi sono infatti i passi di derivazione liviana che risalgono a lezioni errate ma diffuse tra Cinque e Settecento, e di cui la filologia moderna ha fatto giustizia. Alcuni casuali esempi (prima la lez. moderna, citata secondo il sito The Latin Library, poi il frammento giannoniano (si cita dalla prima bella copia), infine la lezione attestata in edizioni antiche a cui esso risale: 22,1,12 per idem tempus Romae signum Martis Appia via ac simulacra luporum [e i simulacri dei lupi] sudasse – I.6.55 ‘Nel medesimo tempo essersi in Roma veduta sudare la statua di Marte 26 Ed è difficilmente identificabile anche l’edizione liviana di Machiavelli: vedi van Heck 2002.
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eretta nella Via Appia presso i simulacri de’ lupi (da una lez. ad simulacra luporum); 22,1,9 et Arpis parmas [scudi] in caelo visas – I 6,51 ‘ed in Arpi essersi vedute in cielo alcune palme’ (da una lez. palmas); 24,44,8 murus ac porta Caietae […] de caelo tacta fuerat – I 6,86 ‘furon tocche [da fulmini] le porte ed il muro in Roma’ (da una lez. murus ac portae tactae; ‘in Roma’ è aggiunta interpretativa). 27,37,15 in clivum Publicium [verso la Salita Publicia] – I 6,121 ‘nel clivo pubblico’ (da una lez. in clivum publicum). 32,29,2 Aefulae [ad Aefula] – I 6,174 ‘in Ascoli’ (da una lez. Asculo). 34,45,7 nuntiatum est Nare amni [nel fiume Nera] lac fluisse – I 6,179 ‘fu denunciato che ad Interamnia era corso latte’ (da una lez. Interamnae). 39,17,7 adducti ad consules [sogg. i capi della congiura] fassique de se nullam moram indicio fecerunt [… confessarono le loro colpe e denunciarono poi gli altri congiurati] – I 11,39: ‘Furono presi i capi de’ congiurati […], i quali senza molta dimora avendo confessato le loro sceleratezze furon fatti morire’ (da una lez. […] nullam moram iudicio fecerunt. Un banale errore nella trasmissione (iudicio anziché indicio) porta a far supporre soggetto di fecerunt i consoli, con brusco cambiamento sintattico). 40,59,8 lanxque cum integumentis, quae Iovi apposita fuit [il piatto con ciò che lo coprì 27, che era stato messo dinanzi a Giove] decidit de mensa – I 6,213: ‘e la lana con altre coverture ch’erano incontro a Giove fosser cadute’ (da una lez. lanaque cum integumentis, quae Iovi opposita fuit). Molti altri passi di derivazione liviana che se accostati alla loro fonte suscitano degli interrogativi si spiegano non con una lezione antica in seguito abbandonata, ma con un fraintendimento del testo, che sarà stato agevolato anche dalla mancanza in carcere di opere di consultazione quali un buon dizionario. Tre esempi: 24,10,9 aedem in campo Volcani [il tempio di Vulcano nel Campo (Marzio)] – I 6,79 ‘il tempio nel campo di Vulcano’ 28. 27 Integumentis «probably refers to material covering the platter before food was placed on it, not to a lid» (Briscoe 2008, ad loc.). 28 «Einen campus Vulcani gab es nicht» (comm. Weissenborn – Müller 1895 ad loc.).
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35,50,5-6 Vibonem colonia deducta est […] Bruttiorum proxime [prima, in passato] fuerat ager – I 11,72 ‘[…] dove essendosi Vibone dedotta in colonia ed assignati a nuovi coloni i campi, dice che questi erano de’ prossimi Bruzi’. 43,13,4 anguem iubatum [un serpente con la cresta] – I 6,243 ‘un luminoso serpente’ [G. avrà avuto in mente il sost. iubar ‘splendore, luminosità’]. Ma più interessanti sono interpretazioni che, anche se oggi sono giudicate insostenibili, aprono comunque una finestra sul modo in cui determinati passi venivano letti, e sulle associazioni che potevano evocare 29. Si veda l’esempio seguente, che riguarda un episodio della più antica storia di Roma. Essendo stato eletto successore di Romolo, Numa Pompilio prima di accettare la sua elezione volle che fosse consultato il volere divino. In Livio si legge poi quanto segue (1,18,6-10): Inde ab augure, cui deinde honoris ergo publicum id perpetuumque sacerdotium fuit, deductus in arcem, in lapide ad meridiem versus consedit. (7) Augur ad laevam eius capite velato sedem cepit, dextra manu baculum sine nodo aduncum tenens quem lituum appellarunt. Inde ubi prospectu in urbem agrumque capto deos precatus regiones ab oriente ad occasum determinavit, dextras ad meridiem partes, laevas ad septentrionem esse dixit; (8) signum contra quo longissime conspectum oculi ferebant animo finivit; tum lituo in laevam manum translato, dextra in caput Numae imposita, ita precatus est: (9) ‘Iuppiter pater, si est fas hunc Numam Pompilium cuius ego caput teneo regem Romae esse, uti tu signa nobis certa adclarassis inter eos fines quod feci.’ Tum peregit verbis auspicia quae mitti vellet. Q uibus missis declaratus rex Numa de templo descendit 30.
Sulla lettura machiavelliana di Livio, vedi Martelli 1998; van Heck 1998. ‘Condotto quindi sulla rocca da un augure, che da allora in segno d’onore ebbe sempre quella carica sacerdotale, si sedette su una pietra, rivolto a mezzogiorno. L’augure prese posto alla sua sinistra, col capo velato, tenendo nella mano destra un bastoncino ricurvo, senza nodi, che fu chiamato ‘lituo’. Q uando poi, rivolto lo sguardo alla città e alla campagna, e invocati gli dei, ebbe delimitato le zone da oriente ad occidente e proclamate fauste quelle verso mezzogiorno, infauste quelle verso settentrione, fissò mentalmente il punto più lontano cui poteva spingersi lo sguardo; allora, passato il lituo nella mano sinistra e posata la destra sul capo di Numa, così pregò: ‘Giove padre, se è destino che questo Numa Pompilio, di cui io tocco il capo, sia re di Roma, daccene sicuri segni entro i limiti che io ho tracciato’. Enumerò poi gli auspici che desiderava gli fossero inviati. Q uando li ebbe ricevuti, Numa, proclamato re, discese dal recinto augurale’. 29 30
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Partendo da questo passo, e traducendolo in buona parte letteralmente o quasi, il Giannone scrive quanto segue: Q uindi chiamato l’augure (che poi volle che fosse un pubblico e perpetuo sacerdozio) si fece condurre nell’Arce Romana, dov’egli sedutosi sopra una pietra rivolta a mezzogiorno 31 fece seder l’augure, che avea velato il capo, al suo sinistro lato; il quale tenendo nella destra mano un bastone nella cima adunco senza nodi, che chiamarono lituo, riguardando il prospetto della città e dell’Agro Romano cominciò a pregare i dii ed a determinare dall’Oriente all’Occidente le regioni; e lo stesso facendo, per quanto la vista degli occhi potea slungarsi, nelle parti destre rivolte a mezzogiorno, e nelle sinistre a settentrione, così coll’animo designò i confini che doveano racchiudere l’imperio romano; non altrimenti di ciò che si legge nel cap. 15 del Genesi che facesse Iddio con Abramo, al quale designò i confini della terra promessagli, che dalla sua posterità dovea esser posseduta 32. Dapoi, avendo l’augure nella sinistra mano trapassato il lituo, pose la sua destra sopra il capo di Numa, e così pregò: ‘Padre Giove, se è lecito questo Numa Pompilio, di cui io tengo il capo, essere re in Roma, tu manifesta; accioché i tuoi segni siano a noi certi e chiari fra que’ confini che io ho designati.’ Indi proseguì con parole gli auspici; e come se Giove avesse intese ed esaudite le preghiere e datovi assenso, fu dichiarato re Numa; il quale disceso che fu dal tempio, dopo tali riti ed auspici cominciò egli a regnare, ed il popolo ad ubbidirlo tanto più volontieri quanto credea che la di lui elezione fosse piaciuta a’ dii, e stata da Giove approvata. (I.4.31-33)
Come si vede, la cerimonia con cui l’augure interroga il volere divino fa venire in mente al Giannone (a cui sfugge il significato figurato di dextras e laevas) il passo del Genesi in cui Jahweh mostra ad Abramo la terra che sarà della sua discendenza; e questa associazione lo porta ad interpretare la cerimonia augurale anche come una specie di annuncio della grandezza del futuro Impero, di cui verrebbero delimitati qui i confini. Si tratta ovviamente di un’interpretazione che non regge in alcun modo ad un attento esame del testo, ma che ciononostante rappresenta una testimonianza curiosa dell’ottica con cui un simile passo poteva essere letto e frain31 Ma ad meridiem versus è ovviamente lo stesso Numa (‘rivolta’ in G. non è spiegabile con una lez. verso, che non sembra attestata). 32 Semini tuo dabo terram hanc a fluvio Aegypti usque ad fluvium magnum flumen Eufraten; Cineos et Cenezeos et Cedmoneos et Hettheos et Ferezos; Rafaim quoque et Amorreos et Chananeos et Gergeseos et Iebuseos. (Gn 15,18-20). Si veda poi Deuteronomio 34,1-4, dove Jahweh dal monte Nebo mostra a Mosè le terre che saranno del suo popolo.
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teso da chi, come il Giannone, aveva grande familiarità coll’Antico Testamento. Nei Discorsi non è affrontata mai la questione dell’affidabilità della storia antica come descritta da Livio e da altri autori antichi. Si esprimono bensì dubbi circa la storicità delle vicende più antiche tramandateci, ma tali dubbi coincidono in massima parte con quelli espressi dallo stesso Livio. La sua statura come storico non diventa mai argomento di vera discussione. Egli rimane in fondo ‘Livio che non erra’ 33; o perlomeno, il Giannone non cerca di darci di lui e della sua storia un’immagine meno convenzionale, più sfaccettata. Ma questa tematica a ben vedere non fu mai al centro degli interessi giannoniani 34. Un’altra questione riguarda la presenza nell’opera giannoniana del capostipite del genere a cui, seppure in modo particolare, anch’essa appartiene. Machiavelli è sì presente nei Discorsi, ma solo localmente, in alcuni brani isolati, che sono ispirati non da una lettura fresca delle sue opere, che Giannone non aveva a disposizione in carcere, e che nelle sue condizioni non poteva ovviamente menzionare, ma su spunti che la memoria gli suggeriva. Esemplare in tal senso è la conclusione dell’opera, che termina come segue: […] se nell’Italia non si trovasse collocato il seggio maggiore della religione […], non sarebbe né pur nominata, né di essa fatto il minimo conto. Dobbiamo adunque, riconoscendo in noi un sì alto e sublime preggio, e che restituita sotto propri prìncipi la militar disciplina, niente fosse scemato negl’italici petti l’antico valore, far sì che, queste verità conosciute eziandio da straniere nazioni, anch’esse confessino Nella bella Italia esser la sede Del valor vero, e della vera fede.
L’idea di terminare in questo modo i Discorsi viene ovviamente dal Principe, la cui chiusa petrarchesca e militaresca risuona anche qui. Ma i due versi tassiani 35 e quanto precede non sono una rivendicazione della libertà italiana, ma implicano al contrario una forzata Dante, Inf. 28,12. Il tema dell’affidabilità di Livio e di altri autori antichi è argomento di discussione già all’inizio del Seicento (per esempio presso un autore come Cluverius), e acquista nel corso del secolo un’importanza crescente, anche sotto l’influsso del cartesianesimo. E proprio nel momento in cui G. stende i suoi Discorsi, l’erudito olandese (di origini ugonotte) Louis de Beaufort pubblica la sua Dissertation sur l’incertitude des cinq premiers siècles de l’histoire romaine (Utrecht 1738). 35 Ger. Lib. 6,77,7-8. 33 34
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e drammatica sottomissione alla Chiesa e al papato, che Giannone poco prima nel Triregno, quando non aveva ancora le mani legate, aveva energicamente combattuto. La politica e la storia contemporanea non giocano alcun ruolo nei Discorsi giannoniani, che come si è visto sono un’opera dedicata principalmente a questioni religiose. Dal 1739 in poi il Giannone dedicò i suoi sforzi ad altre tre opere impegnative. Ma durante la loro stesura, di tanto in tanto egli tornò sull’esemplare di lavoro dei Discorsi, per inserirvi numerose e spesso lunghe aggiunte, frutto della lettura di altre opere di cui nel frattempo era venuto a disporre: fra esse le Opere filosofiche di Cicerone, la storia di Roma di Dionigi d’Alicarnasso, le Vitae di Plutarco, gli Opera di Gregorio Magno, il De veritate religionis christianae di Grozio, e opere di erudizione contemporanea, come il Traité de la morale des père de l’Église di Jean Barbeyrac, l’Histoire des Juifs del Prideaux e l’Histoire romaine del Rollin. E infine, nell’inverno 1747-1748, egli decise di fare una nuova bella copia dell’opera. Ma ben presto egli dovette rendersi conto che la trascrizione dell’amplissima opera 36 metteva a dura prova le pochissime forze che gli erano rimaste. La salute era ormai debolissima, e debole anche la vista. Egli riuscì ancora a trascrivere l’intero primo libro, e all’incirca la metà del secondo. E così arrivò al passo del decimo capitolo in cui si rievoca l’infame tradimento perpetrato dal re asiatico Prusia ai danni del grande e temutissimo nemico di Roma: il ‘magnanimo eroe’ Annibale. Trascrisse quella storia, e trascrisse anche le sprezzanti parole con cui Livio, richiamandosi a Polibio, descrive l’atteggiamento servile assunto dal traditore verso Roma, e la pessima impressione che questi più tardi, giunto nell’Urbe, fece in Senato: Polybius eum regem indignum maiestate nominis tanti tradit: pileatum capite raso obviam ire legatis solitum, libertumque se populi Romani ferre, et ideo insignia ordinis eius gerere. Romae quo36 La prima redazione conta circa 150.000 parole; la seconda, se il G. avesse fatto in tempo a terminarla, ne avrebbe contate ancora parecchie di più. Mentre tale lunghezza si rivela indubbiamente una debolezza dell’opera (il G. per natura non era portato alla concisione: anche L’istoria civile e l’incompiuto Triregno sono opere amplissime), nel caso dei Discorsi e degli altri trattati del carcere questo difetto ha un’attenuante. Nella lunghissima solitudine carceraria, scrivere e dialogare con autori di tutti i tempi per G. rimase infine l’unica maniera possibile per dimostrare a se stesso di essere ancora vivo, di esistere ancora. Scrivere, dunque, per lui nel carcere diventa una maniera per sopravvivere. Sia detto infine che pochissimi saranno i testi letterari in prosa italiana di queste dimensioni ad esserci pervenuti in tre autografi.
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que cum veniret in Curiam, submisisse se et osculo limen Curiae contigisse et deos servatores suos Senatum appellasse; aliamque orationem non tam honorificam audientibus, quam sibi deformem habuisse 37. Dopo queste parole, forse le ultime in assoluto che scrisse, dovette deporre la penna. All’inizio della sua lunga prigionia, dieci anni prima, il Giannone aveva scritto su una delle ultime carte della Vita, avendo in mente quello stesso tradimento a danno del grande antagonista di quell’altra Roma, e ispirandosi alle famose sue ultime parole: ‘Né so quel che fia di noi; ma temo e pavento che, sembrando alla corte di Roma troppo lungo l’aspettare la morte d’un vecchio, qual io mi sono, non procuri co’ suoi accorti artifici ed ingegni di far prolungare qui il mio incolato, in sì misero ed infelice stato, per affrettarla, quanto fia possibile, almanco con incomodi, disaggi e patimenti, a’ quali la mia grave età d’uopo è che, finalmente, soccomba.’ 38 Fu profeta del suo destino. Varrà infine la pena di riassumere brevemente le caratteristiche principali delle quattro opere che siamo venuti considerando, accostandovi anche l’opera di Machiavelli: dimensioni del testo; temi principali; impiego di altre fonti, accanto alla Storia liviana; presenza della storia contemporanea; presenza di Machiavelli; giudizi su Livio; stile; fortuna. Dimensioni del testo: ampie, nel caso di Machiavelli; ampie o persino amplissime, nel caso di Ciccarelli e Giannone; abbastanza ridotte, nel caso di Manuzio; di media lunghezza, nel caso di Dini (ma, come si è visto, buona parte del testo diniano consiste di orazioni militari che con Livio non hanno nulla a che fare). Temi principali: leggi ed armi, ossia vita politica e vita militare, in Machiavelli; vita militare e eloquenza militare, in Dini; la politica, in Manuzio; la politica e le istituzioni, in Ciccarelli; religione e storia, in Giannone. Impiego di altre fonti: l’opera di Dini sembra basata principalmente su Livio. Manuzio menziona ripetutamente anche altri autori, ma ciononostante anche la sua opera ha una base documentaria piuttosto angusta. Q uelle di Machiavelli, Ciccarelli e Giannone invece sono basate su un ventaglio molto più ampio di testi. Liv. 45,44,19-20. Giannone 1971, 343. Vedi Liv. 39,51,9 libereremus diuturna cura populum Romanum, quando morten senis expectare longum censent. 37 38
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Presenza storia contemporanea: il discorso machiavelliano nasce da una continua dialettica tra passato e presente, tra storia antica e storia contemporanea. Numerosissimi sono i rinvii alla storia contemporanea anche in Dini; pochi invece in Manuzio, pochissimi in Ciccarelli e assenti o quasi in Giannone. La tipica bipolarità dei Discorsi machiavelliani si ritrova dunque solo in Dini. Presenza di Machiavelli: Machiavelli non emerge mai chiaramente in Dini; è invece vistosamente presente in Manuzio e Ciccarelli, anche con funzione strutturante; ed è presente pure, ma solo occasionalmente, in Giannone. Giudizi su Livio: Machiavelli stesso, certo, a volte esprime giudizi su Livio; ma sono, a ben vedere, piuttosto giudizi su giudizi di Livio. Per esempio, egli si dichiara in disaccordo col ruolo che Livio ascrive alla fortuna nella storia di Roma, e con l’interpretazione del tutto negativa della crudeltà di Annibale. Ma non esprime mai un giudizio circostanziato su Livio come autore, e non paragona mai una versione liviana dei fatti con una versione di altra provenienza. In Dini e Manuzio mancano, a parte ovviamente generiche e prevedibili parole di lode, giudizi di qualunque tipo. In Ciccarelli, che affianca ripetutamente versioni diverse di uno stesso avvenimento, troviamo una meditazione attenta sul testo liviano, anche se fortemente condizionata dalla lettura machiavelliana. Per Giannone Livio è, oltre che un grande storico, soprattutto uno spirito illuminato, alieno da ogni superstizione religiosa. Il versante più propriamente filologica dell’opera liviana, il testo come testo, con i suoi pregi stilistici, le sue difficoltà d’interpretazione, la sua trasmissione spesso incerta, rimane in tutti i casi fuori considerazione. Stile: i Discorsi di Machiavelli hanno quello stile conciso, sentenzioso, che costituisce uno dei lati più forti dell’opera ed è sicuramente una delle ragioni principali della sua universale fortuna. Q uelli del toscano Dini sono scritti in una prosa chiara, a volte non priva di una certa eleganza. La prosa di Manuzio non ha particolari pregi né particolari difetti. Molto più ampio il periodare di Ciccarelli; spesso amplissimo e non sempre grammaticalmente corretto quello di Giannone, la cui opera fu scritta però in circostanze difficili, e mai veramente approntata per la stampa. Fortuna: grandissima ovviamente quella dei Discorsi machiavelliani. Modestissima, per non dire praticamente assente, quella dei Discorsi di Dini, Manuzio e Ciccarelli, e anche di Giannone, i cui Discorsi furono però pubblicati solo in tempi molto posteriori. 760
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Bibliografia Briscoe 2008 = J. Briscoe, A Commentary on Livy, Books 38-40, Oxford 2008. De Mattei 1967 = R. De Mattei, Un cinquecentista confutatore del Machiavelli: Antonio Ciccarelli, in Arch. stor. ital. 125, 1967, 69-91 (= Id., Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo, Firenze 1969, 181-200). Giannone 1852 = P. Giannone, Opere inedite a cura di P. S. Mancini, voll. I-II, Torino 1852 (ma 1859), (Contiene, oltre ai Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, un’altra opera scritta in carcere, la Istoria del pontificato di Gregorio Magno). Giannone 1940 = P. Giannone, Il Triregno, voll. I-III, a cura di A. Parente, Bari 1940. Giannone 1970-1972 = P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, a cura di A. Marongiu, voll. I-VII, Milano 1970-1972. Giannone 1971 = P. Giannone, Opere, a cura di S. Bertelli e G. Ricuperati, Milano-Napoli 1971. van Heck 1998 = P. van Heck, La presenza di Livio nei ‘Discorsi’ di Machiavelli, Res Publica Litterarum 21, 1998, 45-78. van Heck 2002 = P. van Heck, Appunti sul Livio di Machiavelli, Neophilologus 86, 2002, 557-565. Longo 1981 = N. Longo, voce Ciccarelli, Antonio, DBI 25, 1981, 353-355. Martelli 1998 = M. Martelli, Machiavelli e gli storici antichi. Osservazioni su alcuni luoghi dei ‘Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio’, Roma 1998. Ogilvie 1965 = R. M. Ogilvie, A Commentary on Livy, Books 1-5, Oxford 1965. Ricuperati 2017 = G. Ricuperati, L’esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Brescia 2017. Russo 2001 = E. Russo, ‘Materia da altri assai bene discorsa’. Machiavelli negli scritti di A.M. il Giovane, Italianistica 30, 2001, 241-272. Russo 2007 = E. Russo, Manuzio, Aldo, il Giovane, DBI 69, 2007, 245-250. Weissenborn – Müller 1895 = W. Weissenborn – H. J. Müller, Titi Livi Ab urbe condita libri, vol. V: Büch XXIV-XXVI, Berlin 1895.
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LIVIO FRA TRADUZIONI E TEORIA DELLA STORIA
MACHIAVELLI, PATRIZI, SPERONI *
1. Introduzione Alla fine del Trecento l’umanista Coluccio Salutati si lamentava in una lettera per l’indisponibilità di tutta una serie di importanti opere o parti di opere storiche del mondo classico, da Tito Livio a Sallustio e Svetonio, da Pompeo Trogo a Q uinto Curzio 1. Per quanto riguarda più in particolare Tito Livio, le parole di Salutati facevano eco a quelle con cui Francesco Petrarca, alcuni decenni prima, nelle Familiares 2 e nei Rerum memorandarum libri 3 aveva espresso il proprio profondo rammarico per il poco, appena 30 libri dei 142 complessivi, che si erano salvati dell’opera dello storico padovano. Senza frutto erano stati i suoi tentativi per colmare qualche lacuna. Sempre per quanto riguarda Livio, le speranze dell’uno e dell’altro dovevano trovare una parziale soddisfazione solo molto tempo più tardi, con la fortunata scoperta nel 1527 di un codice contenente i primi cinque libri della quinta decade 4. Nel 1550 appare a Venezia la Libraria di Anton Francesco Doni 5, che informa sulle traduzioni fatte fino ad allora da altre lingue nell’italiano volgare. Si può apprendere così che alla metà del XVI secolo praticamente tutto il corpus degli storici greci e latini * La presente ricerca è stata svolta nell’ambito del Progetto Strategico EVERE (European and Venetian Renaissance), finanziato dalla Università di Padova. 1 Salutati 1893, 299-301. 2 Petrarca 2009, 3549-3551. 3 Petrarca 2014, 53. 4 Sulla tradizione dei testi liviani cf. fra gli altri: Ullman 1955; McDonald 1971; Billanovich 1981; Reeve 1988; Maréchaux 2015. 5 Doni 1550. Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 763-777 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125354
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era stato tradotto: e ciò riguardava non solo gli autori maggiori, da Tucidide ad Erodoto, da Plutarco a Polibio, ovvero da Cesare a Sallustio, da Tito Livio a Tacito, ad esempio, ma anche quelli che potrebbero essere considerati minori. A valle di questa capillare assimilazione, nella seconda metà del secolo la cultura veneta offre un insieme di opere che si occupano del significato della storia. Anche in questo caso si incontrano tanto autori di primo piano, quanto figure di minor profilo 6. Q uesto stato di cose sembra rendere legittima una domanda: è possibile attraverso Tito Livio collegare tra loro queste due attività, vale a dire da un lato di riscoperta, di traduzione e quindi di diffusione dell’antico e dall’altro di elaborazione teorica, ovvero di riflessione sul significato della storia in quanto tale? In altre parole, è possibile individuare un ponte che segni il passaggio dalla riflessione sugli storici alla riflessione sulla natura della storia? Si può tentare almeno di cominciare a rispondere a una simile domanda assumendo come sfondo ed al tempo stesso come limite il Rinascimento veneto, facendo riferimento a tre autori certamente molto rappresentativi anche all’interno di questo ambito culturale: Niccolò Machiavelli, Francesco Patrizi e Sperone Speroni. A titolo di premessa può essere utilizzato un saggio di Peter Burke: si tratta di un lavoro a carattere generale che analizza l’arco di tempo che corre dal 1450 al 1700 7. È così possibile constatare che dalla metà del Q uattrocento fino alla fine del secolo successivo Tito Livio è uno degli storici più popolari. Per quello che possono valere le statistiche, nel periodo che va dal 1450 al 1599 di Livio si contano 118 edizioni, a fronte di 49 edizioni di Plutarco, 30 edizioni di Tucidide, 26 edizioni di Erodoto e 23 edizioni di Polibio 8. Dal XVII secolo la popolarità di Livio cominciò a declinare, a favore ad esempio di Tacito 9. Ad ogni modo il lavoro di Burke mette in luce un dato che può risultare ulteriormente significativo: nel periodo complessivo di tempo preso in esame dalla ricerca, su 160 edizioni di Livio censite, 83 sono in latino e 77 in volgare 10: lo storico pado6 In generale sulla storiografia umanistica si possono consultare: Cotroneo 1971; Cochrane 1981; Tateo 1990; Doni Garfagnini 2002; Fubini 2003; Olivieri 2004; Ginzburg 2006. 7 Burke 1966. 8 Burke 1966, 137. 9 Burke 1966, 137. 10 Burke 1966, 138.
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vano veniva quindi letto tanto nella lingua originale quanto attraverso le traduzioni, in un sostanziale equilibrio. Da ultimo può essere sottolineato anche il valore pedagogico che gli era attribuito: secondo Erasmo, ad esempio, gli alunni delle scuole dovevano conoscerlo; gli allievi di Vittorino da Feltre leggevano per intero le Storie, così come lo storico padovano era uno degli autori prescritti dalla ratio studiorum dei Gesuiti 11.
2. Machiavelli Nella Libraria Anton Francesco Doni fa l’elogio di Niccolò Machiavelli, definendolo uno degli ‘uomini eccellenti’ della sua epoca e considera i Discorsi sopra la prima deca un’opera molto nobile 12. Il Segretario Fiorentino non era certamente uno sconosciuto nella Serenissima. La presenza di Machiavelli nella cultura veneziana si inseriva in una fitta rete di rapporti tra la città lagunare e Firenze che non è ovviamente possibile approfondire in questa sede 13. A partire comunque dagli anni Trenta del Cinquecento si registrano segni di un accresciuto interesse a Venezia per gli scritti di Machiavelli e sono proprio i Discorsi a segnare l’inizio di questa rinnovata fortuna 14: su diciannove edizioni dei Discorsi uscite nella prima metà circa del secolo (la dead-line può essere fatta cadere nel 1554), quindici risultano stampate a Venezia 15. È stato osservato che «Machiavelli non ha utilizzato nessun autore antico così frequentemente ed in modo così palese quanto Livio» 16. Da questo punto di vista, secondo P. O. Kristeller, Tito Livio ha in particolare influenzato il pensiero politico del Segretario Fiorentino 17. La via che porta da Livio a Machiavelli risulta pertanto evidente; ma si può anche ipotizzare una direzione inversa, che parta da Machiavelli e vada verso Livio, nel senso che proprio l’autore dei Discorsi può aver contribuito alla diffusione ed alla popolarità dello storico padovano. Le edizioni dei Discorsi e le edizioni delle tra Burke 1966, 141. Doni 1550, 34-35. 13 Per un primo approccio si rinvia comunque a Garin 1963 e Paccagnella 2013. 14 Procacci 1995, 9-20. 15 Q uaglio 1969, 416. Sulle edizioni di testi machiavelliani cf. comunque anche Gerber 1912-1913, II 46-47. 16 Mehmel 1948, 163. 17 Kristeller 1979, 31. Sul rapporto Livio/Machiavelli cf. comunque ancora: Parazzoli 1955; Whitfield 1971; Kukofka 1992; Haas 2015. 11 12
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duzioni delle decadi si susseguono quasi freneticamente e si intrecciano fra di loro lungo il XVI secolo. Più in particolare le quindici edizioni veneziane dei Discorsi sono affiancate da almeno dieci edizioni delle decadi tradotte in volgare 18. Nel precedente paragrafo era stata sollevata una questione: è possibile stabilire un ponte tra l’attività di traduzione e conseguente diffusione dell’antico da un lato e la riflessione teorica sulla natura della storia dall’altro? In modo più determinato potrebbe essere chiesto: quali sono le eventuali fondamenta di questo ponte? Nella sostanza il problema che si pone è il seguente: quale è il valore ovvero l’utilità della storia? Si può cercare una risposta innanzitutto assumendo come esempio la Collana Historica pubblicata dall’editore Gabriele Giolito ed uscita a Venezia tra il 1564 ed il 1575. Siamo pertanto a valle dei Discorsi di Machiavelli e del periodo della loro diffusione. Responsabile scientifico della collana era il toscano Tommaso Porcacchi 19. Il progetto effettivamente era molto ambizioso, in quanto doveva coinvolgere insieme traduzioni di storici greci e latini ed edizioni di storici contemporanei in volgare 20. In realtà il progetto fu realizzato solo in parte 21. Porcacchi giustifica nel seguente modo l’opportunità della collana. La storia è una ‘immagine della vita’, di cui fornisce una grande quantità di esempi; essa pertanto può risultare efficace ad almeno tre livelli: diventando uno stimolo per imparare ad agire, oppure per imparare a ragionare, o infine per imparare tutte e due le cose, cioè a ragionare e ad agire insieme 22. Sotto questo profilo, come è stato osservato, Porcacchi considerava il politico ovvero l’uomo di stato come il proprio lettore ideale 23. L’enfasi cade quindi sulla utilità politica della storia, ma su quali basi, quale ne è il fondamento? In Machiavelli possiamo forse trovare la giustificazione di questa utilità. 18 Tali edizioni, che vedono la prevalenza da un lato della stamperia dei Giunta e dall’altro quella della versione di Jacopo Nardi, si sviluppano secondo la seguente successione: 1535, 1540, 1547, 1554, 1559, 1562, 1574, 1575, 1581, 1586. 19 Sulla collaborazione tra Gabriele Giolito e Matteo Porcacchi si possono vedere: Di Filippo Bareggi 1988, 84-86 e passim; Rossi 1998; Nuovo-Coppens 2005; Favalier 2012. 20 Porcacchi 1564, pagine non numerate. 21 Furono pubblicate le opere, già tradotte o ritradotte ex novo, dei seguenti storici greci: Tucidide, Polibio, Dione Cassio, Plutarco, Ditti Cretese e Darete Frigio, Diodoro Siculo ed Erodoto. L’iniziativa fu probabilmente interrotta dalla scomparsa dei suoi due artefici principali: Porcacchi morì nel 1576, Giolito nel 1578. 22 Porcacchi 1570, pagine non numerate. 23 Rossi 1998, 108.
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Nei Discorsi si afferma che sono in grado di capire il valore ovvero il significato della storia gli ‘uomini prudenti’ 24. L’aggettivo va certamente inteso in quella peculiare accezione di prudens per cui significa: esperto, pratico del mondo, che sa valutare le cose. Capire il valore della storia significa così comprendere che se si vuole ‘vedere quello che ha a essere’ bisogna essere capaci di prendere in considerazione ‘quello che è stato’: questo perché ‘tutte le cose del mondo, in ogni tempo’, a qualunque epoca appartengano, trovano ‘il proprio riscontro con gli antichi tempi’ 25. La ‘cognizione delle moderne cose’ presuppone, consegue dalla conoscenza delle ‘antique’ 26. Per chiarire meglio il proprio ragionamento Machiavelli a questo punto si aiuta per mezzo di un paragone con la medicina. Si può facilmente constatare, infatti, che le malattie le quali colpiscono gli uomini al tempo presente sono curate ricorrendo ai rimedi prescritti in passato dagli antichi. Ciò è possibile perché il corpo umano ha mantenuto costantemente la stessa natura e quindi la stessa struttura, ed appunto questo permette l’impiego della scienza medica ideata nell’antichità: ‘Né ancora la medicina è altro che esperienze fatte dagli antiqui medici, sopra le quali fondano e’ medici presenti e’ loro indizii’ 27. In modo analogo la struttura ontologica dell’essere storico, ovvero le ‘passioni’ 28 umane per usare il linguaggio di Machiavelli, è rimasta sostanzialmente immutata. Pertanto come la medicina antica consente di curare ancora le malattie che colpiscono al presente il corpo umano, così la conoscenza storica permette di curare le malattie che al presente colpiscono le repubbliche: ‘E’ si conosce facilmente, per chi considera le cose presenti e le antiche, come in tutte le città ed in tutti i popoli sono quegli medesimi desideri e quelli medesimi omori, e come vi furono sempre. In modo che gli è facil cosa, a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni repubblica le future, e farsi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati; o, non ne trovando degli usati, pensarne de’ nuovi, per la similitudine degli accidenti’ 29. La storia come terapia sociale quindi: la lettura di Livio va diretta pertanto anche a questo fine.
26 27 28 29 24 25
Machiavelli 2001, II 768. Machiavelli 2001, II 768. Machiavelli 2001, I 7. Machiavelli 2001, I 5-6. Machiavelli 2001, II 768. Machiavelli 2001, I 194.
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3. Francesco Patrizi L’opera di Patrizi Della historia diece dialoghi fu pubblicata a Venezia nel 1560 e dedicata a Sigismondo d’Este. Q ui la storia è innanzitutto raffigurata come un grande ‘Theatro’, in cui ‘l’huom può vedere tutte l’humane cose’: essa così, ‘per la via della esperienza’, può insegnare il modo per indirizzare il governo della cosa pubblica verso ‘la pace vera’ e verso ‘la possibile felicità’; essa si rivela pertanto utile non solo per ‘ogni huom privato’, ma soprattutto per ‘ogni huomo di Repubblica, ogni huom di corte, e ogni Prencipe’ 30. Anche il letterato e filosofo di Cherso ribadiva quindi la finalità politica del sapere storico. Da questo lato può essere interessante notare non solo che Tito Livio è ricompreso nel novero degli ‘historici più famosi’, assieme a Tucidide e Sallustio, ma anche che il suo nome compare proprio quando si cercano esempi capaci di gettare luce su quale sia l’autentico fine della storia 31. Più di vent’anni dopo, nel 1583, Patrizi pubblicava La militia romana di Polibio, di Tito Livio, e di Dionigi Alicarnaseo. L’opera era concepita come un vero e proprio trattato su ‘l’arte della guerra’ così come era stata praticata dagli antichi 32. Che la Militia di Patrizi mostri una indubbia e diretta familiarità con i testi machiavelliani, in particolare appunto con L’arte della guerra, è stato già messo in luce 33. Con questo libro Patrizi si propone di esporre quanto, attraverso una accurata osservazione, egli aveva imparato sull’arte della guerra da tutti i più celebri storici che avevano trattato delle imprese belliche del popolo romano: e Tito Livio è ovviamente tra questi. Patrizi sente in primo luogo il bisogno di giustificare il proprio lavoro agli occhi del pubblico: potrebbe infatti apparire strano o fuori luogo che un letterato, un filosofo avesse la presunzione di impegnarsi in una materia simile. Ma nel passato avevano trattato della ‘militia’ non solo re ed imperatori, uomini d’arme e politici, ma anche filosofi 34. A questo proposito viene ricordato un aneddoto citato da Cicerone nel De oratore 35. Annibale aveva deriso il Patrizi 1560, 1r, 51r. Su Patrizi cf. più in generale Vasoli 1989. Patrizi 1560, 58r e 21r. 32 Patrizi 1583, Epistola dedicatoria, pagine non numerate. 33 Vasoli 1989, 229-250. La popolarità dell’Arte della guerra negli ambienti culturali della Serenissima può essere testimoniata dal fatto che delle dodici edizioni cinquecentesche dell’opera nove sono veneziane: cf. Q uaglio 1969, 416. 34 Patrizi 1583, Epistola dedicatoria, pagine non numerate. 35 Cic., de orat. 2,18. 30 31
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filosofo peripatetico Formione, che aveva avuto l’ardire di discettare sull’arte militare in sua presenza. Se Cicerone aveva preso le parti del cartaginese, secondo Patrizi viceversa era meglio rifarsi all’esempio di Scipione, che teneva in gran conto gli scritti di Senofonte, ‘Philosopho’ allievo di Socrate, e che si era rivelato superiore allo stesso Annibale sconfiggendolo appunto a Zama 36. Nella Militia Patrizi espone in maniera dettagliata il modo praticato dai Romani nell’organizzare i loro eserciti. Tito Livio diviene una fonte molto utilizzata per quanto riguarda svariati argomenti, anche molto tecnici: ad esempio l’inizio, la durata e le caratteristiche della ferma; la durata in carica dei consoli in tempo di guerra; il modo di schierare i manipoli, tenendo conto del diverso equipaggiamento e del grado di affidabilità delle truppe; il modo di disporsi e di entrare in battaglia dei diversi ordini di soldati 37. Sono presi in considerazione anche aspetti molto particolari: ad esempio i materiali con cui nei tempi antichi erano forgiate le armi, oppure il modo di configurare gli accampamenti 38. Patrizi non dimentica nemmeno il suo status di uomo di lettere e di filologo e suggerisce anche come emendare il testo liviano da possibili errori fatti dagli antichi copisti 39. Scrivendo di questi argomenti Patrizi non intendeva fare opera di erudizione, ma mettere le competenze acquisite come storico a disposizione della propria epoca. La battaglia di Lepanto, combattuta come è noto il 7 ottobre 1571, non era molto lontana. Dalle pagine della Militia sembra trasparire non tanto la soddisfazione per la vittoria conseguita quanto piuttosto il timore per la persistente minaccia turca. Le storie di Tito Livio sono pertanto messe al servizio del Cristianesimo contro le ‘armi Turchesche’, dai contemporanei ritenute tanto ‘tremende’, mentre, secondo Patrizi, al paragone delle virtù belliche dei Romani andavano considerate ‘di poca o niuna stima’ 40. La Militia romana era destinata ad avere un seguito poco più di dieci anni dopo nei Paralleli militari: si tratta di due ponderosi volumi, pubblicati a Roma in rapida successione l’uno dall’altro. Come già nella Militia, anche in quest’ultima opera di Patrizi sono 38 39 40 36 37
Patrizi 1583, Epistola dedicatoria, pagine non numerate. Patrizi 1583, 2r-3r, 4v-5r, 14v-24v, 19r, 20r-22r. Patrizi 1583, 10v, 65v-68r. Patrizi 1583, 18v. Patrizi 1583, Epistola dedicatoria, pagine non numerate.
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riproposte idee di Machiavelli 41. Nei Paralleli l’analisi dell’arte della guerra non è limitata al solo mondo romano, ma estesa a tutta l’antichità: continui a questo proposito sono ad esempio i riferimenti ad Alessandro Magno. Così come viene allargato il contesto storiografico, altrettanto è ampliato l’orizzonte degli avversari da combattere per la ‘salvezza del Cristianesimo’: non solo quindi gli ‘infedeli’, vale a dire i ‘Turchi che ci stanno sulle porte’ ma anche gli ‘Eretici’ 42. Una delle principali preoccupazioni di Patrizi è ancora quella di parare una possibile accusa di incompetenza nelle cose militari: a questo fine anche nei Paralleli viene citato l’episodio riguardante Annibale e Formione 43. Ma secondo Patrizi l’esempio più eclatante, che dovrebbe assolverlo da tutte le critiche, è dato proprio da Alessandro Magno, il quale ‘sotto Aristotile filosofo divenuto’ fornisce la dimostrazione più chiara ‘che la filosofia, non solo non è dannosa a capitani, ma ch’ella è attissima a fargli superiori a gl’altri’ 44. Nei Paralleli il ruolo giocato da Tito Livio è meno evidente che non nella Militia, ma forse la sua presenza è meno appariscente proprio perché diluita dalla mole ovvero dalla prolissità dell’opera. Ad ogni modo, come già nel libro del 1583, anche nei due successivi volumi lo storico romano è chiamato in causa per tutta una serie di tematiche riguardanti l’assetto organizzativo degli eserciti antichi, talvolta anche per quanto riguarda aspetti particolari e tecnici. Ci sono almeno due casi, tuttavia, che possono assumere più rilievo di altri. Patrizi dà moltissima importanza alla disciplina, la quale, ‘consistente in sapere, e volere, e potere vincere’, è considerata uno degli elementi costitutivi della ars bellandi 45: essa va pertanto considerata come la ‘sola madre delle vittorie’ e la ‘sola cagione che i pari numero vincano i pari, e i pochi vincano i molti’; una ferrea e rigorosa disciplina è ciò che spiega le vittorie degli ‘eserciti Turcheschi’, mentre nella sua mancanza va ricercata la ragione di tante sconfitte cristiane 46. A tale proposito proprio Livio è chiamato in causa per rendere testimonianza di quanto importante fosse 43 44 45 46 41 42
Vasoli 1989, 236-240 e 246-257. Patrizi 1594, Epistola dedicatoria, pagine non numerate. Patrizi 1594, 3 e 10. Patrizi 1594, 13 e 18. Patrizi 1594, 38-39. Patrizi 1595, 2-4.
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la disciplina negli eserciti dei Romani 47. I continui riferimenti ad Alessandro Magno dovevano quasi necessariamente portare Patrizi a stabilire un confronto tra la falange macedone e la legione romana per quanto riguarda le rispettive capacità belliche. Le fonti che egli utilizza per questo confronto sono Polibio e Tito Livio, i due storici più famosi tra quanti, in antico, avevano affrontato il problema 48. Polibio non ha dubbi che la falange macedone, proprio per la sua compattezza, è dotata di una forza d’urto che nessuno può sostenere: questo tuttavia con dei limiti dovuti alla natura del territorio. La falange infatti è in grado di sviluppare tutta la sua potenza se opera in luoghi pianeggianti, che non presentano impedimenti, come fossati, avvallamenti o fiumi: in caso contrario non tarda a rivelare precisi limiti di manovrabilità 49. Per contro la legione romana ha una organizzazione più elastica, che la rende adatta ad operare su ogni tipo di territorio 50. Il giudizio di Polibio era stato condiviso anche da Livio, secondo cui l’efficienza bellica della falange era limitata dalla configurazione del luogo, possedendo una forza d’urto soltanto frontale, mentre l’esercito romano vantava una maggiore mobilità 51. Patrizi non è tuttavia d’accordo con queste valutazioni, potendosi a suo dire dimostrare, sulla base di testimonianze raccolte presso altri storici, che la falange aveva dato buona prova di sé su ogni tipo di terreno: talune sconfitte subite erano semmai da imputare ad errori dei comandanti 52. In conclusione Patrizi ritiene che tanto Polibio quanto Tito Livio siano venuti meno al loro dovere di storici per un eccessivo desiderio di compiacere i Romani, presso i quali ‘il primo stava con onore, ed il secondo n’era tenuto in ammirazione’ 53.
4. Sperone Speroni Il Dialogo della Istoria è una delle ultime opere del filosofo e letterato padovano 54 in quanto si può far risalire agli anni tra il 1585 49 50 51 52 53 54 47 48
Patrizi 1594, 22-23. Patrizi 1595, 415-416. Patrizi 1595, 417-418. Patrizi 1595, 419-421. Patrizi 1595, 422-424. Patrizi 1595, 422-424. Patrizi 1595, 425. In generale su Speroni cf. Fournel 1990.
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e il 1587 55. In Speroni la teoria della storia si intreccia con la questione della lingua, ovvero con la difesa della dignità del volgare non solo sul piano puramente letterario, ma anche inteso come valido strumento di divulgazione scientifica: la sua tesi di fondo è pertanto che ‘lo storico sia Italian nel parlare, se Italiano è per patria’ 56. Sempre per quanto possono valere le statistiche, Tito Livio è lo storico romano che risulta più citato nel Dialogo della Istoria. Tuttavia il rapporto tra Speroni e Livio risulta nella sostanza controverso, in quanto presenta due distinte facce. Il primo lato è quello indubbiamente positivo. Così lo scrittore latino è presentato come ‘il suo Tito Livio’ quando è riferito alla città di Padova 57, ovvero è nominato come ‘il mio Tito Livio’ quando a parlare nel dialogo è un personaggio che può essere considerato un portavoce dello stesso Speroni 58. Sotto questo profilo Livio viene invocato come possibile esempio proprio nel caso della città di Padova. Dai tempi in cui era stata scritta la monumentale opera liviana fino agli anni della tirannide di Ezzelino da Romano nessuno storico aveva più conservato memoria di quanto era accaduto, e non erano stati secoli vuoti di avvenimenti degni di essere ricordati. Eppure Padova doveva essere considerata ‘terra di studio’, ovvero una città indubbiamente colta, dove proprio Livio poteva fornire un chiaro esempio di come si dovesse scrivere una storia. La ricerca delle ragioni di questo silenzio fa ritornare in gioco la questione della lingua. Secondo Speroni nessun cittadino di Padova aveva osato scrivere una storia della propria città perché si era oramai estinta ‘la gentil lingua Latina’ di cui Livio aveva fatto uso: nessuno aveva così avuto il coraggio di usare la propria lingua materna ed il volgare toscano non si era ancora affermato 59. Per completare questa prima faccia della medaglia si può ricordare che agli occhi di Speroni Tito Livio era uno di quei grandi storici a cui andava riconosciuto il merito di aver conservato la memoria della grandezza di Roma 60. Infine si può tener conto del fatto che i per-
Per quanto riguarda più in particolare il Dialogo della Istoria si rinvia a Fournel
55
1989.
58 59 60 56 57
Speroni 1989, II 316. Speroni 1989, I 352. Speroni 1989, II 233. Speroni 1989, I 351-352. Speroni 1989, I 180.
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sonaggi che nei Dialoghi sostengono le parti degli umanisti 61 sembrano considerare Livio anche come un modello di stile per quanto riguarda l’uso della lingua latina 62. Ma, come è stato preannunciato, esiste anche un altro lato della medaglia. La definizione della storia data da Cicerone 63 fa testo nei Dialoghi di Speroni così come in generale lungo tutto il periodo storico che si sta qui considerando. Ma Speroni non poteva non tenere presente anche Aristotele ed il celebre passo della Poetica, in cui viene stabilito un confronto tra storia e poesia 64. Attraverso questa via, probabilmente, si spiegano i motivi per cui Speroni mette a confronto uno storico con un poeta, ovvero discuta di Livio imitatore di Virgilio 65. In questo contesto viene affrontata una questione che solo in parte concerne problemi di stile, mentre, considerata più in profondità, riguarda piuttosto l’individuazione delle peculiarità della ‘risoluta scienza’ 66. La questione viene posta da Speroni nei seguenti termini: quando un autore possa essere definito ‘chiaro e breve’ allo stesso tempo 67. Aristotele può certamente essere considerato ‘breve’, vale a dire conciso, sintetico ‘nelle parole’; possono viceversa sorgere molti dubbi sul fatto che possa essere ritenuto anche ‘chiaro’, ovvero intellegibile 68. I dubbi sono legittimati, secondo Speroni, dal fatto che tanti, quasi infiniti sono i commentatori ed altrettanto infinite di numero sono le rispettive interpretazioni, tutte diverse l’una dall’altra 69. Tra gli scrittori latini solo Virgilio può essere detto ‘chiaro e breve’ allo stesso tempo, ma è un poeta. Tito Livio, scrittore di storia, risulta viceversa molto ‘lungo’. La prolissità in questo caso è imputabile alle ‘molte orazioni’, ai continui discorsi dei vari personaggi, orazioni che sono inserite all’interno della narrazione dei fatti, che la gonfiano in maniera eccessiva, fino a renderla simile ad Ad esempio Lazzaro Bonamici nel Dialogo delle Lingue, oppure Paolo Manuzio nel Dialogo della Istoria. 62 Speroni 1989, II 255-256 e I 180. 63 Cic., de orat. 2,36. 64 Aristot., Poet., 51a 36-51b 7. 65 Speroni 1989, II 52. 66 Speroni 1989, II 196. 67 Speroni 1989, II 197. 68 Di passaggio può essere osservato che di lì a poco Cartesio avrebbe individuato nella chiarezza e distinzione le caratteristiche proprie del metodo scientifico. 69 Speroni 1989, II 197. 61
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una trattazione di retorica 70. I numerosi discorsi inglobati nella narrazione costituiscono comunque una peculiarità o un difetto che Livio ha in comune con altri storici, ad esempio con Tucidide 71. Delle molte caratteristiche implicate nella già ricordata definizione ciceroniana del sapere storico Speroni ne enfatizza una in particolare, quella per cui ‘il vero è vita ed anima dell’istoria’ 72. Ne consegue pertanto che compito fondamentale e dovere primo dello storico è dire la verità. In seconda battuta lo scrittore di storia può anche pensare di ‘dilettare i Lettori’, aggiungendo qualche ulteriore elemento alla propria narrazione, ma senza tuttavia deviare dal suo scopo principale. Speroni cerca di spiegare meglio il senso del suo discorso con un esempio tratto dalla architettura. Il compito di edificare un palazzo spetta indubbiamente ai muratori. Solo dopo che la costruzione è finita si può pensare di abbellirla aggiungendo fregi marmorei o affreschi. Scultori e pittori rappresentano forme di arte diverse rispetto all’arte muraria dei costruttori, i quali hanno un altro compito, che è appunto quello di edificare il palazzo. Per contro lo storico opera da solo e deve svolgere un duplice compito: da un lato costruire per così dire la storia; dall’altro abbellire la propria narrazione. Un’opera storica raggiunge certamente la perfezione quando assolve entrambi i compiti, tanto dire la verità quanto dilettare i lettori. Lo storico tuttavia deve comunque stare attento a rispettare le proporzioni ed evitare il rischio di sconfinare in campi che non sono suoi, ma che sono viceversa propri della oratoria, della retorica e della poesia 73. È evidente, secondo il punto di vista di Speroni, che Livio ha corso proprio questo rischio. Altre volta il giudizio su Livio si fa più severo. In un Fragmento, che gli editori settecenteschi delle Opere di Speroni attribuiscono ad una stesura perduta del Dialogo della Istoria, Speroni afferma che la storia di Tito Livio va considerata soprattutto come un’opera di eloquenza. Sotto questo aspetto non si tratta di autentica storia, quanto piuttosto di un miscuglio di storia e di poesia, che non conserva le proprietà né dell’una né dell’altra. Livio pertanto ha consegnato ai posteri una narrazione certamente ‘bella e appariscente’, che non può essere però considerata buona storia. In un certo senso 72 73 70 71
Speroni 1989, II 201. Speroni 1989, II 238, 312. Speroni 1989, II 319. Speroni 1989, II 319.
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è stato tradito il compito specifico dello storico. La verità, anima della storia, diventa nelle mani di Livio come il legno o la pietra nelle mani dello scultore, il quale, creando belle statue, dà a questi materiali la forma, l’aspetto che lui vuole 74. Dovrebbe in questo modo risultare chiarito in che senso si è parlato di giudizio controverso. La valutazione di Speroni oscilla da ‘il mio Tito Livio’ proposto anche quale esempio di come si debba fare storia, fino ad un Tito Livio presentato quale traditore della missione stessa dello storico. L’immagine di Livio elaborata dal Rinascimento veneto deve tenere conto pertanto anche di queste oscillazioni.
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PARTE V
LIVIO NELLE ARTI FIGURATIVE
GIULIA SIMEONI
I MANOSCRITTI MEDIEVALI ILLUSTRATI DEGLI AB URBE CONDITA LIBRI DI TITO LIVIO IL CASO DEL CODICE ARCH. CAP. S. PIETRO C 132
Il 22 febbraio 1350 Francesco Petrarca, durante il soggiorno a Padova, scrisse una lettera allo storico patavino Tito Livio, immaginando di trovarsi al cospetto della sua presunta lapide sepolcrale nel vestibolo della Basilica di Santa Giustina. Il poeta lamentava la perdita della maggior parte degli Ab urbe condita libri e al contempo ne lodava i pochi sopravvissuti in quanto memoria del passato glorioso, costellato dalle imprese e dai valori degli uomini illustri 1. L’immane opera liviana, definita Livius ingens in un epigramma di Marziale 2, era costituita in origine da 142 libri dedicati alla storia di Roma secondo la ricostruzione di Petrarca 3, dei quali solamente i libri 1-10 e 21-45 sono pervenuti ai giorni nostri. Già in età tardoantica la sua trasmissione risultava frammentaria: la causa di tale fenomeno potrebbe essere individuata nella perdita di gran parte dei libri con il passaggio del patrimonio letterario dal rotolo al codice o nella diffusione di versioni sommarie e abbreviate che tramandavano i contenuti dell’intera opera in forma sintetica, quali compendi ed epitomi (excerpta e periochae) 4. 1 Petrarca, Familiares 24,8. In calce alla lettera indirizzata ‘ad Titum Livium historicum’, Petrarca riferisce quanto segue: ‘Apud superos, in ea parte Italiae et in ea urbe, in qua natus et sepultus es, in vestibulo Iustinae virginis et ante ipsum sepulcri tui lapidem, VIII Kalendas Martias, anno ab Illius orto quem paulo amplius tibi vivendum erat ut cerneres vel audires natum, MCCCLI’ (cf. Bosco 1942, 243-245). Nel testo è indicato l’anno 1351, ma è stato corretto in 1350 (Gasparotto 1975-1976, 140). Cf. anche Monti 2011, 89-90 e Monti 2019. 2 Mart. 14,190. 3 Petrarca, Rerum memorandarum libri 1,18,1; Familiares 24,8,2. Il colto letterato potrebbe avere dedotto il numero complessivo dei libri liviani dalla lettura delle Periochae (Reeve 1991, 462-463). 4 Cf. de Franchis 2015. Sull’argomento in generale si vedano anche Canfora 1974; Cavallo 1975, 83 ss. Per le Periochae cf. Bessone 2015 con bibliografia precedente.
Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 781-807 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125355
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G. SIMEONI
A differenza di altri autori classici, quali Terenzio e Virgilio, non sono noti o pervenuti esemplari tardoantichi illustrati dell’opera liviana. Nonostante il prestigio di Tito Livio nell’Alto Medioevo, l’interesse per la sua opera risulta limitato e la circolazione delle decadi note in questo periodo (la prima, la terza e la quarta) è prevalentemente attestata nei complessi monastici e nelle raccolte palatine imperiali 5. Il numero relativamente scarso delle testimonianze manoscritte e l’assenza di illustrazione sono indicativi della tradizione di copia dell’opera, legata spesso a ricerche di carattere erudito 6. Con la riscoperta del testo liviano già a partire dall’età preumanistica, le decadi superstiti degli Ab urbe condita libri vengono recuperate e riunite dai letterati e commentatori dell’epoca, tra cui Nicola Trevet, Pierre Bersuire e Francesco Petrarca, con spirito filologico e rinnovata passione per la cultura classica, garantendo la fortuna dell’opera nei secoli successivi con numerosi codici e le prime edizioni a stampa 7. Alla luce dei testimoni liviani oggi conosciuti, si possono contare solamente 10 manoscritti latini dell’Ab urbe condita illustrati e attestati a partire dalla seconda metà del XIII secolo fino alla fine del XIV secolo 8. Tra questi, il Livio 173 dell’Archivio della Cattedrale di Valencia (prima e terza decade) è il più antico codice miniato a noi pervenuto e presenta iniziali figurate realizzate in ambito romano 5 Cf. Ullman 1955; Reynolds 1983; Munk Olsen 1982-2014; de Franchis 2015 con bibliografia precedente per la trasmissione del testo liviano. Si rimanda in particolare a Bischoff 1994 e von Büren 1996 per la circolazione di manoscritti di Tito Livio nei monasteri e nelle corti imperiali durante l’epoca altomedievale. 6 Speciale 2000, 198. 7 Cf. in generale Ullman 1955; McDonald 1971; Billanovich 1951; 1981; Maréchaux 2015. 8 Il censimento dei manoscritti latini miniati nel Medioevo è composto dai seguenti testimoni: Valencia, Archivio della Cattedrale, 173; Norfolk, Holkham Hall, Library of the Earl of Leicester, 344; Parigi, Bibliothèque Nationale de France, Lat. 5690; Krakow, Biblijoteka Jagiellonska, 522 (CC I 32); Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro C 132; Lipsia, Universitätsbibliothek, Rep. I.1; El Escorial, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo, R.I.4 e g.I.8; Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 542 inf. e Londra, British Library, Burney MS 198. A questo corpus si aggiungono anche i volgarizzamenti medievali illustrati dell’opera liviana: Milano, Biblioteca Trivulziana, 166; Milano, Biblioteca Ambrosiana, C 214 inf.; Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, It.Z.16 (= 4761) e Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria, N.I.6 e Cremona, Archivio di Stato, L28 (frammento della decade quarta con un’iniziale figurata). I manoscritti degli Ab urbe condita libri menzionati sono stati oggetto di studio nel progetto di ricerca da me condotto nell’ambito della Scuola di Dottorato in Storia, critica e conservazione dei beni culturali dell’Uni versità di Padova sotto la supervisione della prof.ssa Federica Toniolo (cf. Simeoni 2018-2019).
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negli ultimi decenni del Duecento 9. Di poco successivi sono il Livio 344 della Holkham Hall Library, il primo testimone che riunisce le tre decadi note nel Medioevo, databile tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo e decorato da iniziali figurate attribuite al miniatore bolognese noto come il Maestro dell’Infortiatum e delle Istituzioni del Collegio di Spagna 10, e il celebre Lat. 5690 della Biblioteca Nazionale di Parigi, esemplare di lusso al quale la critica ha dedicato numerosi contributi di natura storica, filologica e artistica 11. Il manoscritto parigino con le decadi prima, terza e quarta, introdotto dal De bello troiano di Ditti Cretese (ff. 1-20v) e dall’Epitoma de Tito Livio di Florio (ff. 20v-41v), fu commissionato da Landolfo Colonna, prelato aristocratico della curia pontificia e canonico della cattedrale di Chartres, probabilmente nel primo decennio del Trecento e fu decorato a più riprese da quattro maestri attivi a Roma 12. Successivamente Petrarca entrò in possesso del codice, come testimonia l’annotazione ritenuta autografa nel f. 367r. Tra i testimoni dei primi manoscritti liviani miniati in Italia settentrionale nel XIV secolo merita particolare attenzione il ms. Arch. Cap. S. Pietro C 132 della Biblioteca Apostolica Vaticana, una delle più significative testimonianze del culto di Livio in ambito padovano, fortemente sostenuto già nella seconda metà del Duecento dai primi circoli di preumanisti guidati da Lovato Lovati e dai suoi seguaci, Albertino Mussato e Rolando da Piazzola, e valorizzato nuovamente nel secolo successivo da Petrarca 13. 9 Il manoscritto di Valencia, membranaceo, costituito da 214 fogli scritti in littera textualis, contiene le decadi prima (ff. 1-103r) e terza (ff. 103r-206v) con l’aggiunta di un trattatello di storia romana ai ff. 207-213 copiato nel XV secolo (cf. le schede di catalogo in Olmos y Canalda 1943, 130; Rubio Fernández 1982, 581, n. 708). Cf. anche Billanovich 1958, 266; Borghi 1970; 1974, Reeve 1987, 157; Oakley 1997, 191-215. Per uno studio sull’illustrazione del codice attribuita alla bottega romana del Maestro degli Antifonari di San Pietro cf. Simeoni 2021. 10 Si rimanda a Reynolds 2015, 211-221 per la scheda di catalogo del codice in questione e per l’attribuzione al Maestro del Collegio di Spagna. Per un approfondimento filologico cf. Reeve 1987, 146; Oakley 1997-2005, I 158. 11 Considerata la vastità dei contributi dedicati al manoscritto si rimanda a Ciccuto et alii 2012 con riferimenti bibliografici precedenti della critica. In particolare, per l’analisi del complesso apparato miniato si segnalano gli studi di Avril – Gousset 1984-2012, II 139-142, scheda n. 166; Buonocore 1996, 262-263, n. 49 (scheda di F. Avril); Manzari 2016, 617 ss. 12 Si rimanda a Zanichelli 2004 per un approfondimento sulle problematiche della realizzazione dell’apparato illustrativo del codice parigino. 13 Per il fenomeno del preumanismo padovano cf. Billanovich 1976; Billanovich 1981; Billanovich – Menegazzo 1982; Ronconi 2000; Witt 2000.
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Il codice trecentesco membranaceo 14, con il testo disposto su due colonne redatto in littera textualis 15, si apre con la Vita Livii corredata dalla trascrizione del presunto epitaffio di Tito Livio e dall’Epistula ad Paulinum di San Girolamo 16 (f. 1v), seguite dalle tre decadi che si presentano in un ordine diverso rispetto all’allestimento originario: decade terza (ff. 2r-106v), quarta (ff. 107r-191v) e prima (ff. 193r-338v) 17. Inizialmente il f. 193r con la praefatio e l’intera decade prima avrebbero dovuto seguire il f. 1v. Nell’ultima carta del manoscritto (f. 339r) viene copiato in un secondo momento l’Epitaphium Antenoris conditoris Urbis Patauine 18, vergato in scrittura umanistica. La patavinitas del codice in questione è avvalorata dalla presenza della Vita Livii e del presunto epitaffio di Tito Livio (f. 1v), appartenente in realtà al liberto Tito Livio Halys, la cui riscoperta nei pressi del monastero di Santa Giustina risalirebbe alla seconda metà del Duecento secondo Giuseppe Billanovich, in pieno clima preumanistico dominato dalla figura del letterato e giurista Lovato Lovati che avrebbe promosso la valorizzazione della lapide e redatto la Vita liviana con il testo dell’epigrafe 19. La conclusione dello studioso 14 Il codice misura 390 × 270 mm; è costituito da 339 carte suddivise in 36 fascicoli, tutti quinioni, con alcune eccezioni legate a esigenze testuali. I richiami sono vergati al centro del margine inferiore del verso dell’ultimo foglio di ogni fascicolo. Per una bibliografia degli studi letterari e filologici dedicati al manoscritto cf. Billanovich 1958, 267, 272-273; Borghi 1970, 41-60; Billanovich 1981, 311; Reeve 1987, 143; Oakley 1997-2005, I 212-239, in partic. 227-230. Il manoscritto può essere consultato in versione digitalizzata nel sito della Biblioteca Apostolica Vaticana: https://digi.vatlib.it/view/MSS_Arch.Cap.S.Pietro.C.132 (data di ultima consultazione: 29 aprile 2021). 15 Per l’identificazione delle diverse mani che copiano le decadi si rimanda a Buonocore 1996, 298, n. 61 (scheda di P. Supino Martini): «La scrittura delle prime due decadi (ff. 2r-191v) è una “rotunda” italiana della seconda metà del Trecento, dalle aste estremamente ridotte, compatta ed omogenea, anche se, apparentemente, non di unica mano […] La scrittura della I decade è una gotica anch’essa italiana e di più mani, ma né rotonda, né omogenea». 16 Hieron., epist. 53,1,3. 17 Fohlen et alii 1971, 190. L’inusuale sequenza delle decadi introdotte dalla Vita liviana, dalla trascrizione del presunto epitaffio e dall’epistola di Girolamo, si ritrova anche nel Livio della Österreichische Nationalbibliothek 3099 (sec. XIV), discendente da quello vaticano (Billanovich 1958, 272). Si nota inoltre la presenza insolita di un fino rosso cucito nei margini superiori dei fogli corrispondenti all’inizio delle tre decadi, forse con la funzione di segnalibro. 18 Billanovich 1958, 272. 19 Billanovich 1981, 316-320. Si tratta della lapide di un certo Halys, liberto della gens Livia di Patavium, emancipato da una Livia Q uarta, forse figlia dello storico Tito Livio (CIL V, 2865: V.F. / T. LIVIUS / LIVIAE T. F. / Q UARTAE L. /
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deve tuttavia essere rivista alla luce della valida ricostruzione storica di Cesira Gasparotto, secondo la quale la presunta lapide liviana sarebbe stata riscoperta nel secondo decennio del Trecento e collocata sulla facciata dell’abbazia ‘iussu incliti viri Iacobi de Carraria, tunc Patavi imperantis’ 20, quindi durante il dominio di Giacomo I da Carrara, signore di Padova dal 1318 al 1324. Pertanto la valorizzazione del ritrovamento e l’errata attribuzione a Livio spetterebbero a Rolando da Piazzola, nipote di Lovati e noto per i suoi interessi ‘archeologico-epigrafici’ 21. Il Livio vaticano è il più antico testimone con le decadi precedute dalla Vita di Livio associata alla trascrizione del presunto epitaffio liviano e alla lettera di Girolamo 22. Il suo apparato illustrativo è composto da 33 iniziali collocate all’inizio di ogni libro e 4 miniature che precedono gli incipit delle singole decadi (ff. 2r, 107r, 193r) e del libro 27 (f. 65r). Le scene di battaglia sono miniate in corrispondenza delle decadi terza (libri 21 e 27) e quarta (libro 31) con un gusto tipicamente cavalleresco, ambientate su terreno roccioso e sfondo dorato inquadrato da una cornice azzurra. Il f. 2r si apre con la decade terza, decorata da una vignetta con uno scontro tra due gruppi di cavalieri contrapposti e armati con scudi, lance e spade, un riferimento alla battaglia tra romani e cartaginesi nella seconda guerra punica (fig. 1). In primo piano si distingue un cavaliere in sella al cavallo con la gualdrappa rossa, intento a colpire
HALYS / CONCORDIALIS / PATAVI / SIBI ET SUIS / OMNIBUS). Nel 1547 venne murata nel monumento dedicato a Tito Livio all’interno del Palazzo della Ragione di Padova e si deve a Sertorio Orsato il riconoscimento dell’errata attribuzione nel 1659, quasi un secolo più tardi, quando accompagnò Marquardo Gude a leggere l’iscrizione (Orsato 1659, 155-157). Cf. anche Modonutti 2019, 246-247. Allo storico patavino è ricondotta con maggiore certezza la lapide di età augustea murata nel palazzo Emo-Capodilista in via Umberto I (CIL V, 2975), già nota a Marcanova nel 1465 e attribuita a Livio dal canonico Bernardino Scardeone nel 1560 (Scardeone 1560, 38-43). Cf. Zanella 1989, 67-68; Bodon 2005; 2006 (con ampia bibliografia precedente). 20 Boccaccio, Opere latine, 257-258, 369-370. Cf. anche Hortis 1877; 1879, 416424. Si rimanda a Gasparotto 1975-1976 per le argomentazioni a sostegno della sua ricostruzione. 21 Di recente l’argomento è stato rivalutato da R. Modonutti che, in accordo con la tesi sostenuta da Gasparotto, propone di attribuire allo stesso Rolando anche la paternità della Vita liviana. Ringrazio lo studioso per i preziosi suggerimenti e per avermi permesso di leggere in anteprima il suo contributo (Modonutti 2019). Per la biografia di Rolando da Piazzola (circa 1250-1325) cf. Modonutti 2017. 22 Cf. Billanovich 1981, 311-312 per un elenco dei manoscritti liviani con la trascrizione dell’epigrafe e della vita liviana.
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Fig. 1 Città del Vaticano, Arch. Cap. S. Pietro C 132, f. 2r. © [2021] Biblioteca Apostolica Vaticana.
a morte il suo nemico che cade dal destriero bardato di azzurro. Una scena analogamente composta, ma di dimensioni minori, si ritrova nel f. 65r in corrispondenza del libro 27, che allude agli scontri tra romani, guidati dal console Marcello, e i soldati di Annibale di guardia nelle città sannitiche di Mele e Marmorea, sconfitti 786
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Fig. 2 Città del Vaticano, Arch. Cap. S. Pietro C 132, f. 107r. © [2021] Biblioteca Apostolica Vaticana.
in questa occasione 23. L’incipit della decade quarta (f. 107r) si apre con l’iniziale M (Me quoque iuvat) in cui è raffigurato lo stesso Tito Livio che si appresta a scrivere seduto allo scrittoio (fig. 2). Liv. 27,1,1-2, cf. Feraco 2017, 125.
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Lo storico patavino narra la guerra macedonica 24, a cui allude simbolicamente la scena di battaglia nella vignetta soprastante l’ini ziale. Per illustrare lo scontro, il miniatore recupera lo schema compositivo delle precedenti miniature, conferendo maggiore animazione ai personaggi che si scontrano a coppie di avversari e un tono più cruento, visibile nei cavalieri giacenti a terra in una posizione rigida e innaturale con il sangue che fuoriesce dagli elmi e il cavallo abbattuto. La praefatio al primo libro liviano (f. 193r) si apre invece con la scena di fondazione di Roma, in cui la città è rappresentata come un cantiere medievale con strutture turrite in primo piano ed edifici con merlature e arcate nello sfondo, costruiti da abili muratori in fogge trecentesche (fig. 3). A sinistra si scorge una figura con tunica e il copricapo rosso, probabilmente lo stesso Romolo che dà ordine di edificare la città. Dietro alle quinte architettoniche si intravede una figura maschile con una veste rosata, identificabile forse con il dio Marte, padre e fondatore del popolo romano 25. A destra è raffigurato un gruppo di cavalieri impegnati in un combattimento simile a un torneo medievale incorniciato dalle torri della città murata, scena che sembra alludere alla lotta tra Romani – riconoscibili dall’iscrizione SPQ R sullo scudo – e Sabini, ai quali potrebbe riferirsi la stella di Davide a sei punte con la lettera S scritta negli scudi rosati e su alcune gualdrappe 26. L’apparato illustrativo del manoscritto è arricchito da iniziali decorate che introducono i singoli libri liviani, caratterizzate da un corpo rosato o violetto con terminazioni fogliacee su fondo oro profilato di nero, con motivi floreali, fitomorfi e geometrici sui toni del rosa, rosso, verde, azzurro, inseriti nel campo interno blu decorato finemente a biacca 27, con l’eccezione di quattro capilettera: un profilo maschile grottesco simile a un mascherone (iniziale I, f. 12v); Livio in veste di scrittore (iniziale M, f. 107r); una figura maschile dal volto rosso barbuto sorretto da un lungo collo attorcigliato che regge un cartiglio in mano (iniziale I, f. 123r) e un animale simile a un pesce (iniziale I, f. 299r). Liv. 31,1,1. Cf. Briscoe 1973, 49. Liv. praef. 6-7. Cf. Ogilvie 1965, 26-27. 26 Liv. 1,10,1-4. Cf. Ogilvie 1965, 70-73. 27 Sono presenti iniziali miniate ai ff. 1v; 2r; 12v; 24v; 34v; 44r; 54r; 65r; 76v; 88v; 97r; 107r; 111v; 116r; 123v; 133v; 142r; 150r; 161v; 174v; 184r; 193r; 208r; 225r; 244v; 260r; 275r; 287r; 299r; 310v; 325r. 24 25
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Fig. 3 Città del Vaticano, Arch. Cap. S. Pietro C 132, f. 193r. © [2021] Biblioteca Apostolica Vaticana.
Del manoscritto in questione non sono note né la datazione, né l’identità del committente. A queste problematiche si devono sommare anche gli interventi decorativi collegati alle complesse vicende 789
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collezionistiche, alle quali si cercherà di fornire una risposta il più possibile esaustiva a partire dalle proposte già avanzate dagli studiosi. Giuseppe Billanovich attribuiva la commissione del manoscritto a Francesco I da Carrara nella seconda metà del Trecento, signore di Padova a partire dal 1350 dopo la morte del padre Giacomo II, poiché si riscontra il suo stemma contraddistinto dal saraceno nei ff. 2r, 65r, 107r e 193r, anche se rimaneggiato e sostituito con quello del cardinale Giordano Orsini, ultimo possessore del codice 28. L’attento riesame dell’apparato illustrativo condotto da Giordana Mariani Canova pone in dubbio la convinzione di Billanovich. La studiosa osserva come il fregio che decora il bas de page e il margine destro della praefatio alla decade prima presenti uno stile differente rispetto ai fregi delle altre decadi e come si noti chiaramente l’interruzione nel margine destro per inserire in un secondo momento lo stemma carrarese all’interno di una formella con decorazioni fogliacee (f. 193r) 29. Sulla base del dato stilistico, la studiosa ritiene possibile anticipare al quarto decennio del Trecento la realizzazione dell’intero apparato illustrativo per mano di un maestro padovano con forte impronta bolognesizzante 30, che risente della cultura artistica degli antifonari della Basilica del Santo, realizzati negli anni venti-trenta del Trecento da miniatori bolognesi o padovani influenzati dallo stile bolognese 31. Nel Livio, la tipologia delle iniziali fogliacee con volute e il fregio a barra fogliacea con inserti geometrizzanti del f. 193r, corredati da motivi a picca e bottoni dorati, si ispirano a quelli degli antifonari A e M per il Santo 32. Anche il mascherone con un naso esagerato e arcuato dell’iniziale I (f. 107r) ricorda i modelli decorativi degli antifonari B e M, pur 28 Cf. Fohlen et alii 1971, 190-192; Pellegrin et alii 1975, 35-37; Billanovich 1981, 311; Buonocore 1996, 297-299, n. 61 (scheda di P. Supino Martini). 29 Mariani Canova 2006a, 611-612; 2006b, 66, 415-417 (scheda IV.12); 2011, 63-64. Nei suoi contributi precedenti alla miniatura padovana nel Trecento (Mariani Canova 1985, 357; 1990, 35; 1992, 387; 1994, 19), la studiosa concordava invece con l’analisi di Billanovich 1981, 311 e Buonocore 1996, 297-299, n. 61 (scheda di P. Supino Martini). 30 Mariani Canova 2006b, 416. 31 Per antifonari del Santo cf. Flores D’Arcais 1975; Baldissin Molli et alii 1999, 117-124, nn. 35-38 (schede di F. Flores d’Arcais). Cf. anche Mariani Canova 1999, 20-21; 2011, 63. 32 Per i manoscritti A e M cf. Flores D’Arcais 1975, 731-735; 1977; Baldissin Molli et alii 1999, 117-124, nn. 37-38 (schede di F. Flores d’Arcais).
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presentando una maggiore raffinatezza ed elaborazione formale. Ma, a differenza degli antifonari, il gusto bolognesizzante del Livio appare declinato in chiave più sobria e semplificata, con una gamma cromatica tenue – dal verdino all’azzurro e dal rosa al rosso – che contrasta con i campi interni blu e dorati delle iniziali. Q uesto clima stilistico si intravede anche nei graduali A29 e A30 realizzati tra la fine del quarto e l’inizio del quinto decennio del Trecento per la Cattedrale padovana, oggi conservati alla Biblioteca Capitolare di Padova 33, e nella Cronica in factis et circa facta Marchie trivixane di Rolandino da Padova datata al 1338 (Hamilton 574 della Staatliche Bibliothek di Berlino) 34. Nella maggior parte dei casi, le iniziali del Livio presentano forme più complesse e sono miniate con colori più brillanti rispetto a quelle del fregio: fanno eccezione solo alcune lettere con cromie che virano verso tonalità più opache e scure (ff. 34v, 44r, 161v, 310v). Sono ancora più convincenti e validi i confronti stilistici tra il Livio vaticano e altri due manoscritti, il Boezio D24 della Biblioteca Capitolare di Padova e il Roman de Troie Fr. 782 della Bibliothèque Nationale de France, entrambi esempi della produzione libraria miniata padovana tra quarto e quinto decennio del Trecento. Il primo manoscritto, il De consolatione philosophiae di Boezio commentato da Nicola Trevet, è decorato da iniziali ornate e figure miniate che risentono della ben nota matrice bolognesizzante, ma al contempo ne prendono le distanze poiché «lo stile appare più pacato, i volti sono meno intensamente espressivi, le movenze più contenute» 35. L’ornato delle iniziali su campo dorato I e E del Boezio (f. 1r) ripropone le stesse forme e gli stessi motivi acantiformi su campo blu delle iniziali I, F e N del Livio (ff. 2r, 193r e 193v) e I, P e B del Roman de Troie parigino (ff. 6v, 3r e 35v). Anche i volti di Boezio e della personificazione della Filosofia nell’iniziale I del ms. D24 (f. 36r) sono identici a quelli dei personaggi raffigurati nella vignetta con la fondazione di Roma del Livio vaticano (f. 193r) e nel Roman de Troie parigino (f. 112v). In tutti e tre i casi, il colorito rosato brunastro dei volti viene illuminato da sottili tratteggi di biacca men33 Cf. Mariani Canova et alii 2014, I 262-272, nn. 39 e 40 (schede di M. Minazzato); Mariani Canova 2011, 64-65; Minazzato 2014. 34 Mariani Canova 2011, 64. 35 Mariani Canova et alii 2014, II 612-617, n. 105 (scheda di M. Minazzato), in partic. 616-617.
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tre le sopracciglia, il profilo del naso e la bocca sono contornati da un’incisiva linea bruna che mette in risalto anche la forma allungata degli occhi neri. Il secondo codice, il Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure Fr. 782 della Bibliothèque Nationale de France, si inserisce all’interno di una fortunata produzione illustrata tipicamente venetopadovana dell’opera del chierico francese che ha origine con il lussuoso apparato iconografico del Roman de Troie – ms. 2571 di Österreichische Nationalbibliothek di Vienna – realizzato dal Maestro degli Antifonari di Padova nel primo quarto del Trecento 36. La mano di questo miniatore, affiancata a quella di due collaboratori di ambito bolognese-padovano e un maestro di probabile formazione lombarda, si riscontra anche nel Roman de Troie della Biblioteca Nazionale di Russia a San Pietroburgo (Fr. F.v.XIV.3) databile tra terzo e quarto decennio del Trecento 37. Il Roman de Troie parigino risulta essere il terzo testimone e il più tardo in termini cronologici, realizzato anch’esso in ambito veneto, probabilmente a Padova, nel quinto decennio del Trecento dal maestro che si firma nel f. 110v con il nome ‘TVRLON’ in lettere capitali, con l’aiuto di collaboratori della sua bottega 38. Il codice presenta 36 Per il profilo artistico del Maestro degli Antifonari, identificato con Gherarduccio, e la sua produzione di manoscritti miniati si rimanda a: Flores d’Arcais 1964; Conti 1981, 67-90; Mariani Canova 1999, 18-20; Medica 2004; Toniolo 2007, 109113; 2010; 2015. Per il Roman de Troie di Vienna cf. Thoss 1989; Jung 1996, 297-306; L’Engle 2014, 280-281. Si rimanda a Cambi 2016 (con bibliografia precedente) per la circolazione di testimoni del Roman de Troie in ambito veneto. 37 L’Engle 2014, 281-287; Toniolo 2015, 90. Per il Roman de Troie di San Pietroburgo cf. anche Jung 1996, 253-270; Voronova-Sterligov 1996, 245-251; Treviño Gajardo 2004 (con proposta di datazione tra 1325-1335); L’Engle 2014 (la studiosa propone di datare il codice tra 1325-1330). La critica storico-artistica in passato si è divisa circa la collocazione del manoscritto, proponendo il Veneto (Medica 2004) o la Lombardia (Saxl 1957, 125-138; Pianosi 1992; Cecchini 2000). 38 Cf. L’Engle 2014, 287-288 per la collocazione padovana del Fr. 782 di Parigi con datazione tra 1340-1345. Cf. anche Avril – Gousset 1984-2012, III, 2 152-160, scheda n. 96 con bibliografia precedente, in cui si propone una datazione del manoscritto tra 1340-1350 e si individua la firma del miniatore ‘TVRLON’, responsabile della progettazione dell’apparato illustrativo. L’iscrizione, in lettere capitali e realizzata con la biacca, si trova all’interno della vignetta con il funerale di Ettore. Nonostante sia miniata sotto i piedi di un personaggio che sostiene il letto funebre con il corpo dell’eroe, non identifica il soggetto rappresentato poiché è diversa dagli altri titula in rosso e scritti in gotica che contraddistinguono i nomi dei protagonisti e le scene miniate nelle vignette. Di recente è stato proposto da C. Cipollaro di identificare il maestro suddetto con il pittore Turone di Maxio, poiché la studiosa legge (erroneamente) l’iscrizione come ‘TVRUON’, confondendo la lettera L con la U (Cipollaro 2012, 18). Il Roman parigino è consultabile in versione digitaliz-
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numerose analogie con il Livio vaticano, non solo nella decorazione delle iniziali, ma anche nell’allestimento delle miniature realizzate con accorgimenti e modalità compositive simili. La linea del terreno marcata dalle zolle, le torrette con i tetti cuspidati e le mura merlate che caratterizzano la scena di fondazione di Roma nel manoscritto vaticano (f. 193) si ritrovano anche nel Roman francese (ff. 17r, 21v, 167v), creando uno spazio bidimensionale a più livelli in cui si dispongono i protagonisti liviani. I personaggi del Livio e quelli del ciclo troiano sono miniati seguendo lo stesso modello nella resa delle fisionomie, delle capigliature e delle vesti, come dimostrano i confronti tra Romolo nelle vesti di un dotto trecentesco (f. 193r) e Palamede che discute con Agamennone nel poema troiano (f. 112v) o il manovale intento a stendere l’intonaco sulla torretta (f. 193r) e la figura maschile con la forca che assiste alla cremazione dei guerrieri periti (f. 100r). E ancora, le scene di battaglia sono rappresentate utilizzando gli stessi schemi figurativi: ne sono un esempio lo scontro tra Romani e Sabini (f. 193r) nel Livio e i duelli nel Roman tra Nestore e Laomedonte (f. 17r) e tra Achille ed Ettore (f. 69r) o la battaglia tra Romani e Cartaginesi (f. 2r) e il combattimento tra Pentesilea e Pirro (f. 163v). Le armature dei cavalieri e le gualdrappe con elementi decorativi poligonali si ritrovano in area veneta in alcuni affreschi, oggi purtroppo in stato lacunoso, rinvenuti nella Torre del Capitanio a Verona, databili sempre nel quinto decennio del Trecento, raffiguranti scene tratte dagli Ab urbe condita libri liviani corredate da iscrizioni didascaliche che citano puntualmente l’opera dello storico patavino 39. Nelle miniature del Livio vaticano lo scabro realismo del linguaggio giottesco si volge a nuove eleganze gotiche connotate da colori puri e vivaci. I protagonisti romani sono raffigurati come personaggi trecenteschi, abbigliati secondo la moda dell’epoca, mentre le battaglie sono inscenate in modo fantasioso, imitando i tornei combattuti tra cavalieri medievali. In assenza di un modello illustrativo liviano classico a cui rifarsi per inscenare le storie romane, il miniatore del codice si ispira alla cultura figurativa del suo tempo e ai modelli dei romanzi epico-cavallereschi, ben testimoniati nel
zata nel sito della Bibliothèque Nationale: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b52 0004567.r = francais%20782?rk = 21459;2 (data di ultima consultazione: 29 aprile 2021). 39 Cf. Napione 2009.
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lussuoso Roman parigino 40. La ripresa puntuale di stilemi e modelli iconografici nel Livio vaticano avvalora la proposta di attribuire l’esecuzione dell’apparato illustrativo degli Ab urbe condita libri al miniatore ‘Turlon’ e alla sua bottega negli anni quaranta del Trecento. La vignetta con la scena di fondazione di Roma, di qualità stilistica più elevata rispetto alle altre, è realizzata dallo stesso maestro che si avvale dell’aiuto di almeno un collaboratore per illustrare le scene di battaglia nelle decadi terza e quarta (ff. 2r, 65r, 107r), connotate da un linguaggio stilistico più semplificato e corsivo e da cromie meno brillanti 41. Alla luce di queste considerazioni, è dunque possibile collocare in territorio padovano l’attività di Turlon, che potrebbe essersi formato nell’ambito bolognese o bolognesizzante degli antifonari del Santo. Al maestro e alla sua bottega spetterebbero dunque la realizzazione del Boezio della Biblioteca Capitolare di Padova, del Roman de Troie di Parigi e del Livio vaticano tra gli anni trenta e la fine degli anni quaranta del Trecento 42. Non si conosce l’identità del committente del manoscritto, ma la disposizione anomala degli stemmi nel f. 193r fornisce alcuni utili elementi sui quali riflettere. All’interno del fregio fogliaceo nel margine inferiore di questo foglio è presente uno scudo centrale rimaneggiato e sostituito con quello del cardinale Orsini. Nel margine laterale destro invece la decorazione del fregio viene interrotta a metà per inserire in un momento successivo la formella rettangolare con lo stemma di Francesco I da Carrara, signore di Padova dal 1350 al 1388, anch’esso poi ridipinto e sostituito con quello orsiniano. Da questo dettaglio si deduce che il signore carrarese è il secondo possessore del codice e ne consegue che lo stemma del committente dell’opera doveva celarsi sotto lo scudo centrale del bas de page 43. Dato che l’apparato miniato è databile al quinto decennio del Trecento, come dimostrato, si può ipotizzare che il Livio vaticano sia stato realizzato all’epoca di Giacomo II, signore della città 40 Per un approfondimento circa la tradizione epico-cavalleresca attestata nel mondo del codice miniato cf. Saxl 1957; Buchthal 1971; Perriccioli Saggese 1979; Jung 1996; Cecchini 2000. 41 Già L. Novello ipotizzava la presenza della mano di un miniatore del Roman parigino nel Livio vaticano (Novello 2014, 301-302). 42 Ringrazio la prof.ssa Federica Toniolo, la prof.ssa Giordana Mariani Canova e la dott.ssa Marta Minazzato per il confronto e per l’aiuto ricevuti durante lo studio del manoscritto a cui è dedicato il presente contributo. 43 Mariani Canova 2006b, 415-417, scheda IV.12.
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patavina tra il 1345 e il 1350 44, se non addirittura per lo stesso come già suggeriva Giordana Mariani Canova 45. Di conseguenza, sarebbe stato ereditato successivamente dal figlio Francesco. La realizzazione del manoscritto ben si inserisce all’interno di quel clima culturale che si riscontra a Padova verso la metà del Trecento, volto a rinvigorire grazie alla presenza di Petrarca quella tradizione di revival dell’antico e del culto liviano già radicato nell’ambito padovano fin dal preumanesimo 46. Il celebre letterato si era stabilito a Padova nel 1349, su invito di Giacomo II che gli aveva concesso un ricco canonicato e una casa nei pressi della cattedrale 47. Il signore carrarese, ‘modice litterarum doctus exstitit, verum doctiores magnopere dignabatur’ secondo Vergerio 48, era noto per avere favorito la diffusione della cultura e delle lettere e per la sua stima nei confronti di Petrarca. Lo stesso poeta, autore anche dell’iscrizione funeraria per Giacomo II morto il 19 dicembre 1350 49, scriveva all’amico Boccaccio per commemorare il signore carrarese, sottolineando quanto fosse stato ‘amante degli studi e cultore e giusto estimatore dei belli ingegni’ 50. Sempre al 1350 risale la lettera dedicata a Livio che Petrarca compone immaginando di essere al cospetto della presunta lapide funeraria dello storico patavino, senza lasciare trapelare alcun dubbio sull’autenticità della stessa, a conferma del forte potenziale simbolico del monumento sepolcrale che forse, su sua iniziativa, fu restaurato e collocato accanto all’ingresso della basilica di Santa Giustina assieme al ritratto dello storico patavino durante la signoria di Giacomo II da Carrara, secondo l’ipotesi di Billanovich 51. Anche Francesco I, salito al potere alla morte del padre Giacomo II, era stato grande sostenitore di Petrarca, che continuò a ricoprire un ruolo importante nell’indirizzare gli interessi artistici e culturali della corte carrarese, favorendo nuovamente 44 Cf. Ganguzza Billanovich 1977 per la biografia di Giacomo II da Carrara (circa 1300-1350) con bibliografia precedente. 45 Mariani Canova 2006b, 416. 46 Sull’argomento si veda in partic. Bodon 2005, 183-202; 2006. 47 Cf. Rico – Marcozzi 2015 per una biografia di Petrarca (1304-1374) con ulteriori approfondimenti bibliografici. 48 Cf. Gnesotto 1924-1925, 450; Vergerio 1997, 247, 254. 49 Cf. Ganguzza Billanovich 1977, 675 e in particolare Bellinati 2006 per il rapporto tra Giacomo II e Petrarca. 50 Petrarca, Familiares 11, 3. 51 Billanovich 1981, 321-324.
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il culto dell’antico e dello storico patavino nella seconda metà del Trecento 52. La presenza del codice nelle mani di Francesco I il Vecchio, signore di Padova dal 1350 al 1388 53, è testimoniata dallo stemma con il carro carrarese rosso su campo bianco, visibile parzialmente nel verso del f. 65 in controluce, sovrastato dal cimiero con il saraceno poi rimaneggiato e ridipinto con quello orsiniano. Lo stemma carrarese viene miniato anche nei margini inferiori di fogli ben precisi: nel f. 2r con il libro 21, all’interno di una cornice con fregi dorati e inserti romboidali blu; nel f. 65r con il libro 27 in cui lo scudo è inserito in una formella composita mistilinea a tre comparti rossa e rosa con inserti dorati e blu; nel f. 107r con il libro 31 in una formella quadriloba con elementi decorativi a picche rosse, blu e rosa e nel margine laterale del f. 193r della praefatio all’interno di una formella rettangolare blu e dorata con motivi romboidali, che interrompe il fregio dell’allestimento originale del manoscritto. Tuttavia, grazie all’osservazione ravvicinata e alle riflettografie a raggi infrarossi, si possono ancora intravedere la testa del saraceno con l’elmo dorato dalla foggia orientale sotto l’orsetto di Orsini, le ali dorate e il mantello rosso con punti dorati e le iniziali FF ai lati dello scudo che spiccano sul fondo verde, caratteristiche tipiche del cimiero di Francesco I da Carrara che si trova riprodotto nelle sale del Castello carrarese di Padova, nel Liber cimeriorum dominorum de Carraria (f. 20r) B.P.124/XXII della Biblioteca Civica patavina 54 e nei manoscritti miniati per il signore carrarese nella seconda metà del Trecento. I fregi acantiformi che incorniciano gli stemmi carraresi, dai colori più vivaci e dalle forme più ariose e dinamiche, stilisticamente successivi a quelli delle iniziali e del fregio nel bas de page del f. 193r, appartengono alla stessa tipologia decorativa utilizzata
Cf. Collodo 2006. Si veda anche Bodon 2009, 3 ss. con bibliografia precedente. Per il profilo biografico di Francesco da Carrara il Vecchio (1325-1393) cf. Kohl 1977. 54 Il manoscritto, realizzato da un miniatore padovano, risale alla fine del secolo XIV – inizio XV. Cf. Baldissin Molli et alii 1999, 151, n. 52 (scheda di E. Cozzi); Mantovani 2006, 386-387, n. II.9 (scheda di M. Minazzato); Mariani Canova 2011, 69. Lo stemma di Francesco I è riprodotto anche nel ritratto del signore nel Liber de principibus Carrariensibus et gestis eorum (BP. 158, f. 44v della Biblioteca Civica di Padova) scritto da Pier Paolo Vergerio tra la fine del XIV secolo e l’inizio del secolo XV, anch’esso miniato da maestri padovani. Cf. Baldissin Molli et alii 1999, 152-153, n. 53 (scheda di E. Cozzi); Mantovani 2006, 387-389 n. II.10 (scheda di M. Minazzato). 52 53
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nei codici per Francesco I, ora conservati alla Bibliothèque Nationale de France, tra i quali il Currus carrariensis moraliter descriptus del francescano Francesco Caronelli (Lat. 6468), il Lat. 3345 con l’opera di Albertano da Brescia e il Valerio Massimo Lat. 5858 55. Alquanto misteriosi sono gli emblemi apposti sull’angolo superiore esterno dei fogli 2r, 65r, 107r e 193r, dove lo stemma Orsini in rasura appare sormontato da un cimiero con elmo, velo tricolore bianco, rosso e blu e corona aurea, sulla quale si innesta un’aquila dorata con ali spiegate chiaramente ridipinta su fondo verde e racchiusa da una cornice architettonica inquadrata da quattro listelli dorati con decorazioni romboidali blu. Minuscole cadute di colore della ridipintura lasciano intravedere un corpo grigiastro e striato dotato di ali bianche con piume, in particolare nei ff. 2r e 65r; meno leggibile invece è l’estremità superiore (fig. 4). Anche in questo caso, con l’ausilio delle fotografie a raggi infrarossi e l’osservazione dei fogli in controluce, è stato possibile confermare la presenza
Fig. 4 Città del Vaticano, Arch. Cap. S. Pietro C 132, f. 2r, dettaglio. © [2021] Biblioteca Apostolica Vaticana. 55 Si rimanda ai contributi di Mariani Canova 1990; 1994; 1999, 21-24; 2011 per la miniatura padovana al tempo dei Carraresi. Per i manoscritti Lat. 6468, Lat. 3345 e Lat. 5858 della Bibliothèque Nationale di Parigi cf. Avril – Gousset 1984-2012, III, 2 125, scheda n. 63; 122-123, scheda n. 60; 121-122, scheda n. 58.
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di un cimiero sottostante con le sembianze di uno struzzo con testa coronata e ferro di cavallo stretto nel becco, che ritengo identificabile con il cimiero di Luigi (o Ludovico) I il Grande, re di Ungheria. Osservando il verso del f. 2 si nota, oltre al cimiero, anche lo stemma del re ungherese, uno scudo bipartito con fasciato di rosso e di bianco e il campo azzurro con i gigli angioini, che si riscontra nelle opere da lui commissionate, quali sigilli, monete, oggetti di culto e il Chronicon pictum ungherese 56. Ma lo stemma di Luigi d’Ungheria si rintraccia anche in suolo patavino nel Castello carrarese, dove al re ungherese era stata dedicata una sala decorata con il suo emblema tra 1378 e 1382, data di morte del sovrano 57 (fig. 5). Sono note le relazioni tra il sovrano ungherese e la signoria carrarese che risalgono al 1347, quando Luigi è ospite di Giacomo II da Carrara a Cittadella in occasione della campagna napoletana. Con Francesco I da Carrara si intensificano i rapporti culturali, politici e diplomatici riportati nelle Cronache carraresi dei fratelli
Fig. 5 Padova, Castello Carrarese, Sala di Luigi I d’Ungheria, dettaglio (da Valenzano 2019, fig. 71). Budapest, Országos Széchényi Könyvtár, Clmae 404, f. 2r. Cf. Lucherini 2015 con bibliografia precedente. 57 Per un approfondimento sulla sala dedicata a Luigi d’Ungheria nel castello carrarese si rimanda a Spiazzi 2009, 19; Dal Zotto 2009; Flores d’Arcais 2015 e Baradel 2019. In generale sul castello si veda Valenzano 2019 con bibliografia precedente. 56
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Gatari 58, dato che i due signori si sostengono a vicenda con aiuti materiali, ambascerie e ospitalità reciproca, come accadde durante la guerra ungherese contro Venezia per la riconquista della Dalmazia ripresa nel 1356 e conclusasi con la pace di Zara nel 1358 59. Inoltre, nel 1360 Francesco era stato investito delle città di Feltre e Cividale dal re ungherese e cospicuamente aiutato con uomini e denaro in occasione delle guerre contro Venezia del 1372 e del 1377-1378. Forse per riconoscenza, verso il 1378, fece collocare lo stemma lapideo del re ungherese sopra la porta orientale del Castello 60. Pertanto si può ipotizzare che il manoscritto del Livio vaticano sia stato donato da Francesco I al suo alleato Luigi in segno di riconoscenza per gli aiuti ottenuti nelle guerre: il re ungherese avrebbe mantenuto gli stemmi del signore carrarese, aggiungendo i propri negli angoli superiori delle carte miniate. Il manoscritto giunge successivamente nelle mani di Giordano Orsini, come testimonia la presenza dello stemma, caratterizzato da uno scudo bandato d’argento e di rosso, con capo d’argento caricato di una rosa di rosso bottonata d’oro e sostenuta da una fascia in divisa d’oro, con l’aggiunta del cappello cardinalizio 61. Poiché viene eletto cardinale nel 1405 62, si può dedurre che Orsini sia entrato in possesso del codice dopo tale data, quando fece rimaneggiare gli scudi per inserire il proprio stemma in rasura e ridipingere i cimieri, trasformando il saraceno carrarese in un orsetto bruno e lo struzzo ungherese in aquila dorata con ali spiegate. A questa fase appartengono le aggiunte di elementi architettonici grigio-bruni quattrocenteschi nei margini inferiori e laterali, quali la formella cuspidata nel f. 2r e quelle polilobate a forma di torretta del f. 107r che incorniciano gli emblemi carraresi rimaneggiati e la formella rettangolare che racchiude quello ungherese nei ff. 2r, 65r, 107r e 193r.
Medin – Tolomei 1932, 32 ss. Dal Zotto 2009, 22 ss. 60 Lo stemma lapideo del re ungherese oggi è conservato ai Musei Civici Eremitani di Padova (n. inv. 352). Cf. Banzato – Pellegrini 2000, 12. 61 Solo nel f. 193r lo stemma Orsini non presenta il cappello cardinalizio, in quanto il miniatore è costretto ad adattarsi allo scudo dello stemma precedente per non interrompere e rovinare il fregio decorativo con l’inserimento del cappello. Per una riproduzione dello stemma: Marucchi 1964, 38-39 n. 16, tav. XV, fig. 4. 62 Cf. Celenza 2013 per la biografia di Giordano Orsini (circa 1360-1438). 58 59
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Il Livio vaticano può essere identificato con l’unico ‘Titus Livius deche tres’ menzionato nel lascito librario in favore della Basilica di San Pietro, disposto da Orsini nel testamento del 26 luglio 1434, e nel rotolo contenente l’inventario della raccolta libraria del cardinale databile agli stessi anni 63. Rimane dunque da chiarire come Giordano Orsini sia entrato in possesso del codice. La biblioteca orsiniana era certamente una delle più ricche nella Roma cardinalizia della prima metà del XV secolo, in quanto frutto di ingenti acquisizioni ottenute tramite i validi contatti del cardinale con gli umanisti, gli scrittori più noti del periodo e con i dotti di diverse nazionalità, conosciuti durante i numerosi spostamenti in Europa, in modo particolare in occasione dei concili 64. È testimoniato da varie fonti dell’epoca che nel 1415, durante il Concilio di Costanza, il duca Giovanni ‘senza Paura’ di Borgogna abbia donato all’Orsini un codice di Tito Livio 65. Con questo gesto, il nobile francese aveva intenzione di conquistare il favore del cardinale che faceva parte della commissione voluta dall’antipapa Giovanni XXIII per esaminare il caso del teologo Jean Petit, accusato di avere giustificato e difeso il tirannicidio di Luigi di Valois, duca d’Orléans e fratello di Carlo VI il Folle, re di Francia, avvenuto nel 1408, per ordine del cugino Giovanni, il duca di Borgogna 66. Dunque, se si identifica il Livio vaticano con quello donato da Giovanni senza Paura, è lecito domandarsi come il manoscritto sia giunto nelle mani del duca di Borgogna. Purtroppo la documentazione attualmente disponibile non consente di ricostruire con certezza come avvenne questo passaggio di proprietà.
63 Cf. König 1906, 117-120 per la trascrizione della copia del testamento originale, oggi conservato nell’Archivio della Biblioteca Vaticana (Arch. S. Pietro, arm. 1920, capsa 58, fasc. 206). Cf. Cancellieri 1786, 908 per la pubblicazione dell’inventario della collezione libraria orsiniana conservato insieme alla copia del testamento. Il Tito Livio vaticano è il n. 130 del rotolo (cf. Pellegrin et alii 1975, 35-37 per la citazione del manoscritto negli inventari della Biblioteca Vaticana). In generale per la ricostruzione della biblioteca del cardinale si rimanda a König 1906, 103-107; Lombardi – Onofri 1980. 64 König 1906, 82 ss.; Lombardi – Onofri 1980, 378-382. 65 König 1906, 84-85 che recupera la notizia da Valois 1901, 331-332. Cf. anche i codici conservati alla Bibliothèque Nationale di Parigi che narrano l’episodio (mss. Bourgogne 65, f. 102; Bourgogne 100, f. 136 e Bourgogne 57, f. 257). 66 Celenza 2013, 659.
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Figg. 1, 2, 3, 4: Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Arch. Cap. S. Pietro C 132 per concessione della Biblioteca Apostolica Vaticana, ogni diritto riservato.
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MARIA FEDERICA PETRACCIA
IL RECUPERO DI UN MITO LIVIANO ‘IL RATTO DELLE SABINE’ *
1. Introduzione Il dibattito sul rapporto fra arti figurative e tradizione letteraria si è fatto, in questi ultimi tempi, sempre più vivace, grazie anche a una approfondita riflessione sul termine ekphrasis, tesa al superamento di quella visione restrittiva, affermatasi soprattutto nella letteratura antichistica, che ne aveva limitato l’ambito semantico alla descrizione di opere d’arte. La discussione si è dunque a lungo radicalizzata su due diverse posizioni: da un lato i sostenitori di uno stretto rapporto fra le descrizioni letterarie e i manufatti (statue, sarcofagi, dipinti, etc.), dall’altro quanti ritenevano, invece, che l’ekphrasis fosse un mero esercizio retorico. Oggi tale prospettiva appare decisamente superata e la riflessione critica si è spostata sul versante della visual culture. Di essa troviamo riscontro anche nella letteratura antichistica, che si sta via via riappropriando di una concezione allargata del termine. In un saggio recente, ad esempio, Roberto Nicolai ha riletto in chiave ecfrastica il lungo passo che Virgilio dedica nelle Georgiche alla tormentata vicenda di Orfeo ed Euridice 1, riconoscendo in esso ampie tracce del coevo repertorio figurativo 2. Lo stesso metodo è adottato da Francesca Ghedini e Rosa Alba Dimundo per quanto attiene ai loro studi riguardanti Ovidio e Properzio 3. * Si desidera ringraziare il collega Giacomo Montanari per la sua preziosa collaborazione relativamente a Luca Cambiaso e alla pittura genovese del XVI secolo. 1 georg. 4,457-527. 2 Nicolai 2016. Q uesta breve introduzione prende spunto da Ghedini 2014, 11. 3 Dimundo 1990, Dimundo 2000 e Dimundo 2003. Per quanto riguarda Ghedini si rimanda invece a Ghedini 2008, Ghedini 2011 e Colpo – Ghedini 2012. Livius noster. Tito Livio e la sua eredità, a cura di Gianluigi Baldo e Luca Beltramini, GIFBIB, 26 (Turnhout, 2021), pp. 809-844 © DOI 10.1484/M.GIFBIB-EB.5.125356
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Spostandoci di qualche secolo in avanti, sempre all’interno di questo filone che indaga l’influenza che la letteratura antica ha avuto e ha sulle arti visive, vale la pena di provare ad analizzare il legame esistente tra il mito ‘narrato’ dalle fonti letterarie, in primis Livio, e le conoscenze del committente Negrone Di Negro, e dell’artista Luca Cambiaso, al momento dell’esecuzione di un preziosissimo affresco, raffigurante il Ratto delle Sabine, sito nel Salone del primo piano di Villa Cattaneo Imperiale ‘sulle alture’ a Genova. Il Ratto delle Sabine è uno degli episodi più famosi dell’intera storia della Roma monarchica. Nelle sue linee essenziali il mito si presenta come la soluzione ottimale, più pratica e rapida, per affermare il potere della nascente Urbe, stringere un’alleanza con i Sabini, bellicoso popolo confinante, e procurare una moglie a tutti gli abitanti della nuova città: rapire e sposare le donne dei Sabini 4. Infatti, dopo il rifiuto di questi ultimi di stringere un’alleanza con i Romani, in occasione di una festività vengono invitati con le loro famiglie a prendervi parte; qui, al segnale convenuto, tutti i Romani si scagliano sulle donne nubili, con l’eccezione di Ersilia, le rapiscono e le conducono nelle loro case con la forza. L’unione ormai è fatta e il rifiuto ostinato dei Romani di restituire le prede ai loro vicini provoca una guerra, guerra che cesserà solo quando le donne stesse si frapporranno tra i due schieramenti, per impedire ai mariti di uccidere i loro padri e a questi di uccidere i loro uomini; l’alleanza, anzi la fusione, tra i due popoli può dirsi quindi completa. Si tratta senza dubbio di un racconto forte, con una sua drammaticità ed espressività, e, soprattutto ‘riflettente’ una precisa ideologia del potere, del suo mantenimento e dei suoi ‘giochi’ di equi librio; non deve essere un caso che tale soggetto sia tra i preferiti da committenti e artisti in pieno Cinquecento, quando la mitolo-
4 Il mito è riportato da diversi autori antichi e, seppure con alcune differenze, a volte, come vedremo, significative (vd. infra), viene narrato sempre con questo schema narrativo. Lo si trova quindi in Livio (Liv. 1, 9 – 13), Properzio (Prop. 2,6,18-20, anche se l’Assisiate ne fa solo un breve accenno), Ovidio (ars 1,101-132), Plutarco (Rom. 14 – 19) – autori che in questa sede verranno analizzati approfonditamente – Dionigi di Alicarnasso (A.R. 2,30 – 31), Appiano (Reg. 1), Floro (epit. 1,1,14) e in altre fonti letterarie oggi perdute come Fabio Pittore (Fab. Pict. FRHist 1F6 = HRR I2 19F7 = FGrHist 809F5a), Valerio Anziate (Val. Ant. FRHist 25F5 = HRR I2 239F3) e Giuba (FGrHist 275F23), tutte e tre lette e citate da Plutarco (Rom. 14,1 e 14,7).
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IL RECUPERO DI UN MITO LIVIANO
gia classica e la storia Romana entrano prepotentemente a far parte del linguaggio figurativo dell’epoca. Probabilmente, come già accennato, intorno al 1560, Negrone Di Negro commissiona la decorazione del Salone del primo piano della Villa, in zona Terralba, situata sotto il Santuario di Nostra Signora del Monte, in cui viveva, dopo che il padre aveva acquisto la Villa dai figli di Lorenzo Cattaneo, a due dei più importanti pittori genovesi del tempo 5. È proprio in questa Villa, conosciuta però come Villa Cattaneo Imperiale 6, che la scena del Ratto delle Sabine decora il Salone del primo piano. L’autore di questo affresco è Luca Cambiaso 7, pittore genovese reso celebre proprio per il suo amore per lo spazio e per la ricerca quasi spasmodica del movimento al suo interno 8; infatti Cambiaso
5 Q uesto breve passaggio è analizzato con dovizia di particolari e in maniera esaustiva dallo studioso Andrea Lercari; in un suo lavoro, in corso di stampa (Grandi famiglie genovesi nella storia di villa Cattaneo a Terralba), egli ripercorre tutte le tappe della ‘vita’ di questa preziosa Villa, inaugurata nel 1502 con la visita del Re di Francia, Luigi XII, venuto in quel di Genova in cerca di alleanze. La cortese disponibilità e la gentilezza di questo studioso, che ci ha reso partecipe delle sue ricerche prima ancora che vedano le stampe, hanno permesso a questo articolo di avventurarsi nel difficile e variegato ‘territorio’ dei rapporti tra artisti e committenti della Repubblica Genovese del XVI Secolo. Si vuole quindi in questa sede ringraziarlo di tutto cuore, insieme al Professor Giacomo Montanari, che ha fatto da tramite. 6 La Villa, nonostante questa breve permanenza nelle mani della famiglia Di Negro, che l’acquista nel 1528, con Filippo fu Negrone di Negro, e la lascia, nel 1547 in eredità al figlio, Negrone di Negro appunto, non mostra, nel suo appellativo, traccia di questa proprietà. Q uesto nonostante i Di Negro abbiano, probabilmente, contribuito all’ampliamento strutturale della villa e a numerosi restauri, come a nuove decorazioni; il salone in questione, oggi sala di lettura della Biblioteca Civica Lercari, sarebbe stato voluto proprio da Negrone, in seguito al suo matrimonio con Giulia Fieschi dei Signori di Savignone, quasi a richiamare, attraverso il linguaggio figurativo del mito, la politica matrimoniale, tesa a creare grandi legami gentilizi, delle famiglie della grande aristocrazia genovese cinquecentesca (Lercari c.d.s.). Non deve stupire che la committenza sia stata affidata proprio a Cambiaso che godeva, in quel momento, di grande fama presso le famiglie nobili di Genova, grazie alla realizzazione di importanti cicli di affreschi, come ad esempio nella Villa degli Imperiale a Campetto, villa su cui torneremo più volte nel nostro discorso. 7 Va rilevato che Luca Cambiaso, ad oggi considerato uno dei più grandi esponenti del Cinquecento italiano, non solo a livello locale o regionale, sia assente dal lavoro del Vasari (Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori), dove l’autore ha inserito anche artisti a lui contemporanei come Perin del Vaga o Domenico Beccafumi. Per chi volesse approfondire il tema delle biografie del Vasari, fonte di informazioni su pittori altrimenti poco conosciuti e, soprattutto, su opere oggi andate perdute, si invita a consultare: Mattioda 2017. 8 Per un’analisi dettagliata di Luca Cambiaso, in grado però di mantenere sempre una prospettiva completa della sua personalità artistica, si rimanda al lavoro di Ma-
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«dalla occupazione dello spazio con la figura (…) passa a misurare piuttosto lo spazio in profondità con il movimento dei corpi» 9. Non stupisce quindi come la commissione di una scena del genere, caratterizzata dal grande dinamismo delle figure femminili in fuga e delle figure maschili lanciate al loro inseguimento, possa essere stata per il pittore un ulteriore momento di sperimentazione e ricerca. Gli storici dell’arte concordano nel ritenere il momento della decorazione di Palazzo Cattaneo Imperiale decisivo per il pittore genovese, ormai affermatosi grazie al raggiungimento di quella che Magnani definisce la «compiaciuta gioia operativa» 10. Sottolineare l’importanza di questa committenza e della sua realizzazione nell’ambito della pittura cinquecentesca sarebbe una divagazione troppo lunga, ancora oggi al centro del dibattito tra gli studiosi del manierismo genovese; ciò che a noi preme è individuare quali fossero gli autori classici oltre a Livio, fonte primaria dell’evento, da cui prese ispirazione Cambiaso, o quali gli furono indicati espressamente dal committente, per rappresentare l’episodio del Ratto delle Sabine 11. Per prima cosa perciò è necessario rubare momentaneamente il compito agli storici dell’arte e procedere all’analisi dell’affresco in questione.
2. L’affresco di Villa Cattaneo Imperiale L’affresco occupa la parte centrale del soffitto e si trova al centro di un ciclo di sei riquadri, incentrati sugli episodi salienti avvenuti sotto il regno di Romolo, fino alla sua morte; il tradimento di Tarpeia, che, lasciatasi ‘coinvolgere’ dall’oro o dall’amore per il re dei Sabini, li lascia entrare sul Campidoglio, la sua punizione, le donne gnani, in particolare a due testi pubblicati a dieci anni di distanza l’uno dall’altro: Magnani 1995 e Magnani 2007. 9 Magnani 2007, 23. 10 «Con l’apertura degli anni Sessanta Cambiaso sembra aver raggiunto, in compiaciuta ‘gioia’ operativa, il pieno possesso di una personale tecnica pittorica accanto a una prima soluzione dell’affermata centralità della figura in movimento come struttura costitutiva dello spazio della rappresentazione» (Magnani 2007, 36). 11 Nel XVI secolo l’influenza dei dotti, conoscitori dei testi classici, sui loro ricchi patroni è molto influente anche riguardo le scene da rappresentare a decorazione dei loro palazzi; basti pensare a Villa Farnese di Caprarola e al suo ciclo di affreschi. Q ui il Cardinale Giovanni Farnese fece affrescare la sua dimora seguendo le suggestioni dategli da Annibal Caro prima, da Onofrio Panvinio e da Fulvio Orsini, poi.
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Sabine che intervengono per porre fine alla guerra, la tregua tra i due popoli, l’ascesa al cielo di Romolo e l’incoronazione del suo successore, Numa Pompilio. Risulta chiaro per quale motivo, vista la tematica trattata sulla volta, l’episodio che ha scatenato tutti gli altri, in una reazione a catena di eventi, sia stato posto al centro del soffitto. La scena si svolge all’aperto: sulla sinistra si trova il palchetto dei ‘Romani’, probabilmente collocato all’interno di un’esedra aperta e di un altro edificio caratterizzato da un porticato, sulla sinistra invece si trova un altro portico con i musicisti, collocati su una sorta di scalinata con, alle loro spalle, delle colline, probabile richiamo ai Sette Colli della tradizione, che fanno da sfondo al contesto. Al centro della scena è visibile un arco, probabile ingresso ad un altro edificio, forse un tempio con tanto di statue. L’episodio si svolge su diversi piani di profondità e ha un unico punto di fuga al centro scena; nella descrizione quindi si procederà per piccoli gruppi a seconda dei diversi livelli. A sinistra, in primo piano, si trova un gruppetto di uomini dominato dalla figura del re; il sovrano, in piedi su un piedistallo, con corazza ed elmo, con il mantello ceruleo gettato dietro le spalle, è in posa plastica, con un braccio alzato verso l’alto e brandisce lo scettro, mentre con l’altro indica la scena principale e segue, con sguardo attento, lo svolgimento della vicenda. Alle sue spalle si colloca un piccolo gruppo di anziani togati; parlano tra loro e non partecipano in prima persona al ratto delle donne, avendo probabilmente incaricato qualcuno, più giovane e prestante, di procurare loro una moglie adeguata o più semplicemente, data l’età, non sentendo il bisogno di gettarsi nel tafferuglio. Davanti a loro invece tre soldati, armati da capo a piedi, iniziano a partecipare all’azione; due di loro si lanciano nella mischia, uno addirittura scavalcando il muretto tra due colonne, mentre l’ultimo, appoggiato alla colonna, con le mani puntate alla base della stessa, sembra anche lui pronto a scattare in avanti. Alla sua destra, davanti a una statua femminile collocata, in una nicchia tra due lesene, un gruppo di soldati commenta la scena senza prendervi parte, sebbene il loro atteggiamento mostri in realtà una notevole partecipazione emotiva relativamente a ciò che accade; ciò lo dimostra l’uomo che, con una mano sul cuore, la testa e il busto leggermente reclinati all’indietro, indica, con aria che potremmo definire sognante, se non proprio ‘innamorata’, una ragazza sulla scena. 813
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Spostandoci verso il centro dell’affresco si entra nel vivo del l’azione; gli uomini inseguono e afferrano le donne con impeto e queste, dal canto loro, senza accettare il ruolo di vittime passive, reagiscono, scalciando, urlando e alzando le braccia in gesto di supplica, simbolo universale del dolore già presente nell’iconografia del mondo classico 12. In primo piano si possono identificare cinque coppie distinte; da sinistra un uomo, senza elmo in testa, è riuscito ad afferrare una Sabina, ma sembra che adesso, nel portarla via, incontri qualche difficoltà; la donna infatti scalcia e sembra essere in procinto di colpire con la mano il bruto rapitore, ed è proprio il suo agitarsi a spingere la coppia verso il basso. In questa coppia, contrariamente a quella che è l’immagine archetipica e più conosciuta del primo ratto della mitologia, quello di Ade ai danni di Proserpina 13, è l’uomo a tendere verso il basso, seguendo la diagonale opposta. Dietro di loro vi sono due personaggi che potremmo definire ‘comici’ nel loro modo di agire: un ragazzino, probabilmente inca12 Le braccia alzate sopra il capo sono segno sia di dolore che di invocazione agli dèi, segno comprensibile quasi universalmente; secondo Burkert (Burkert 2003) questa universalità è dovuta al nostro patrimonio biologico, il quale ci rende in grado di comprendere come schiacciarsi al suolo, farci piccoli, alzando le braccia per indicare la distanza che ci separa da chi, più grosso e più forte di noi, potrebbe farci del male, sia esso un dio o un animale, indichi, attraverso un gesto, rimasto invariato dai tempi dell’uomo-scimmia, la sottomissione e la necessità di essere aiutati. Iconograficamente parlando le braccia alzate sono gesto continuamente presente, che, visibile già nell’arte egizia dell’Antico Regno, rimane inalterato in epoca minoica, nelle figurine in terracotta che tendono le braccia verso il cielo, madri delle figure in lutto sulla ceramica greca del periodo geometrico, passando poi nei gesti rituali di cordoglio presso le popolazioni etnografiche del Mediterraneo e dei Balcani (De Martino 1958). 13 «Le origini del mito di Proserpina sono piuttosto antiche e risalgono almeno al VII secolo a.C., allorché si andavano fissando e diffondendo sotto forma scritta le principali storie leggendarie, che costituivano da tempo la materia del canto degli aedi. La prima menzione dell’episodio del ratto è fornita da Esiodo (Th. 912-914), in una redazione che sarà di lì a breve suggellata e resa celebre con l’Inno Omerico a Demetra (Hymn. Hom. 4), a cui tutta la successiva letteratura si atterrà apportando solo lievi modifiche» (Salvo 2015, 241). La scena sembra svolgersi tutta su uno stesso piano dove Ade, a bordo di un carro, trascina Kore tenendola per la vita, mentre la ragazza urla e leva le braccia al cielo (Linder 1988 e Güntner 1986). L’immagine della fanciulla trascinata verso il basso, quindi con la rappresentazione di su due piani spaziali differenti, sembra imporsi all’immaginario collettivo più avanti nel tempo, probabilmente suggerita dalle posizioni appena accennate dei busti dei due protagonisti del mito; lui, intento a non darle possibilità di fuga con il torso chino verso il basso, quasi a bloccarla, e lei che cerca di divincolarsi creando con il suo corpo una diagonale opposta (Brehm 1996). Ad oggi, l’immagine di Ade che trascina Proserpina / Persefone verso il basso, verso il suo regno, mentre lei tende con il corpo verso l’alto, verso la luce, rimane la più familiare.
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ricato da qualcuno più anziano o impossibilitato a partecipare in prima persona, cerca di trascinare via una donna più ‘grande e grossa’ di lui; infatti mentre la figura femminile è ben piantata sui suoi piedi, il piccolo sembra compiere uno sforzo incredibile, con tutto il peso del corpo proteso all’indietro e il busto e il viso inclinati e contorti per la fatica. Davanti a loro un Romano corre verso lo spettatore, tenendo saldamente la sua preda con il volto rivolto verso di lei, quasi a darle un bacio, ma la donna non accetta di buon grado questa ‘gentilezza’, anzi, ha il viso rivolto completamente dall’altra parte, un braccio in alto in atteggiamento supplice e le gambe che scalciano, nervose, nell’aria. Anche qui, come nelle altre coppie rappresentate nell’affresco, è rispettato lo stereotipo del movimento del maschio verso il basso, contrapposto a quello della femmina verso l’alto. Alle loro spalle un altro Romano trascina la ‘sua’ Sabina sulla destra dell’affresco, dopo averla caricata sulle spalle e, nel frattempo, osserva attentamente cosa stia accadendo dietro di lui; non è possibile vedere l’espressione della donna, che è di spalle, con il volto girato dall’altra parte rispetto al suo aggressore, ma la posizione delle braccia sembra volerlo respingere da lei, in uno sforzo che sappiamo essere vano. Procedendo nella descrizione, troviamo la coppia più ‘interessante’ perché sembra riproporre quello che, sin da un primo sguardo, è un ‘ratto’ di tipo erotico, grazie all’utilizzo di un’iconografia che affonda le sue radici nel mondo classico, rimanendo vitale fino ai nostri giorni 14; rapita e rapitore si trovano di profilo; l’uomo tiene saldamente la donna contro il fianco sinistro, cingendole la vita con un braccio, tenendole strettamente le gambe con l’altro, nel mentre la guarda attento. Tutto il corpo della donna, invece, è teso e sembra voler fuggire da quel contatto; il suo volto, il suo
14 Iconograficamente l’esempio più famoso e più vivido di ‘ratto’ è rappresentato dal rapimento di Persefone dello scultore Gian Lorenzo Bernini che, tra il 1621 e il 1622, realizzò quest’opera in marmo per il cardinale Scipione Borghese. La scultura rappresenta un vero e proprio capolavoro grazie alla tecnica di lavorazione del marmo che ha permesso al giovane scultore, allora poco più che ventenne, di rendere l’emotività e la drammaticità dell’avvenimento nei volti dei due protagonisti; Kore ha una smorfia di disperazione e repulsione, con la bocca spalancata e gli occhi roteati all’indietro per lo sforzo, mentre Ade, cercando di evitare i colpi della ragazza, ruota il viso mantenendolo però ben fisso sulla sua graziosa preda. La muscolatura di entrambi è tutta presa dallo sforzo fisico di scappare, da una parte, e di trattenere dall’altra (Mormando 2011).
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braccio, sono girati dall’altra parte, i muscoli esprimono lo sforzo di liberarsi dalla presa e di invocare aiuto. Accanto a loro sfila una coppia a cavallo; la ragazza, questa volta, ha il corpo proteso verso il basso, come a cercare di scendere dal l’animale, ma il cavaliere la tiene ben salda di fronte a lui, vis à vis, e con lo sguardo totalmente concentrato sul volto della donna. Sullo sfondo la scena si fa più caotica: sulla sinistra due uomini a cavallo si contendono la stessa donna, trascinandola per le braccia, un altro uomo cerca di portare via la sua preda, che si dimena, rendendogli il compito decisamente molto arduo, dato che il Romano, per condurla con sé, lontano dalla mischia, sta camminando all’indietro; è l’unica coppia in cui lei guarda l’uomo ma egli non può prestarle attenzione, considerato che deve stare attento a dove muove i suoi passi, costretto come è a camminare al contrario. Sulla destra, infine, un altro cavaliere è colto nell’atto di issare una Sabina sul suo cavallo; le gambe della donna, i suoi abiti e la sua posizione inducono a ritenere che sia stata colta di sorpresa mentre si dava alla fuga. L’affresco si chiude con la rappresentazione di alcuni personaggi, presenti all’interno di un porticato, probabilmente il palco, sul quale si svolgevano gli eventi salienti della festa, come si evince dai suonatori, posti su un piano rialzato e appena visibili ai bordi dell’affresco. Sotto questo piano un gruppo di bambini si sta nascondendo, da una parte spaventati dalla strana piega che ha preso la festa, dall’altra desiderosi di non perdersi nulla di quanto sta accadendo. Davanti a loro un Romano a cavallo ‘invita’ gentilmente i Sabini a rimanere al loro posto senza intervenire e, sullo sfondo, altri due cavalieri tengono a bada i padri che assistono impotenti al rapimento delle loro figlie. La drammaticità del momento è evidenziata dalla coppia che corre tra le due colonne; la donna, braccia tese in avanti e viso atteggiato in un grido disperato, corre per sfuggire all’uomo che la sta inseguendo, anche lui con le braccia protese, in procinto di afferrarla, con le mani che toccano ormai l’abito della fuggitiva. La scena si chiude con un’ultima coppia in cui l’uomo stringe a sé una Sabina disperata, che tenta con tutte le sue forze di opporsi in un tentativo ahimè inutile, considerata la vicinanza dei volti dei due. Il disegno preparatorio dell’affresco, in cui è ben comprensibile cosa si intenda con l’espressione, tanto amata dagli storici dell’arte, 816
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‘Cambiaso cubista’ 15, conservato alla National Gallery of Scotland 16, a Edimburgo, evidenzia come il pittore genovese avesse le idee piuttosto chiare, già nelle prime fasi di progettazione; a parte un aumento e una miglior definizione delle parti architettoniche, i gruppi, o meglio le coppie, sono pressoché invariati. L’affresco di Villa Cattaneo Imperiale rimane un vero e proprio capolavoro della pittura del Cinquecento europeo, i colori vivi e splendenti, i volumi dei corpi e il loro movimento, sono rimasti nel tempo motivo di ammirazione, al di là dell’interesse per il soggetto, tanto che, nonostante la Villa fosse in completo degrado e abbandonata sin dai primi anni ’80 del secolo scorso, soltanto dopo che un’infiltrazione d’acqua aveva fatto crollare il soffitto con il prezioso affresco, nel 1994, sono iniziati i restauri che hanno permesso nel 2004 di riaprire la dimora al pubblico. Ciò che qui interessa maggiormente, al di là della discussione sull’innegabile valore artistico dell’opera di Cambiaso in sé e per sé, è rileggere questo affresco alla luce delle fonti antiche che riportano questo episodio, e comprendere a quale di esse egli possa aver fatto riferimento 17.
3. Il mito liviano 18 Nella sua monumentale opera sulla storia di Roma, Ab urbe condita, Livio racconta, nei primi due libri, le vicende della Roma monarchica 19, vicende per le quali rimane la principale fonte cro15 Gli storici dell’arte sono concordi nell’individuare nell’opera di questo artista una portata rivoluzionaria, quasi un’ ‘avanguardia’, in virtù, soprattutto, dei suoi disegni preparatori; più che di cubismo vero e proprio però, si parla di ‘cubettismo’; con questo termine si intende la capacità del pittore di studiare e rappresentare i corpi, così come le scene più articolate, scomponendo il tutto in forme geometriche di base, quasi fosse un precursore delle avanguardie novecentesche (Schneider 2012, 258-261). 16 National Gallery of Scotland, The Rape of the Sabines, D630. 17 Dion. Hal., A.R. 2,31,1. 18 Per il testo e per il commento l’edizione di riferimento qui utilizzata è quella a cura di Baillet – Robert 1998 (Les Belles Lettres), salvo ove indicato espressamente. 19 I primi due libri, come sottolineava già Dumézil (Dumézil 1941), sono il riflesso razionalistico e storicistico delle basi mitologiche comuni agli Indoeuropei, popolo le cui basi sociali poggiavano sulla tripartizione re-sacerdoti, guerrieri e ‘produttori’, cioè agricoltori e allevatori: «Il Romano, pensa anzitutto storicamente e geograficamente. La sua mitologia non è né filosofante, né fantastica, ma è soprattutto concreta», dice Bloch, quindi «per interpretare storicamente il concetto della tripartizione sociale, ereditata dalla sua ascendenza indoeuropea, ha potuto basarsi
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nologicamente più antica, a disposizione di Cambiaso, sebbene gli studiosi comprendano benissimo come il lasso di tempo così dilatato, che intercorre tra gli eventi e l’autore, e soprattutto l’intenzionalità dell’opera, figlia del regime augusteo e del suo ‘progetto’ culturale, rendano difficile affidarsi completamente alle sue parole. Prima di seguire il testo liviano, è necessario sottolineare il ‘recupero’ di Livio e il rinnovato interesse per la sua opera che, agli inizi del ’500, investe il panorama politico della penisola; nel 1531 infatti venivano dati alle stampe, postumi, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio di Niccolò Machiavelli, in cui l’autore toscano considerava il Patavino un autorevole modello a cui rifarsi per quanto atteneva la politica del tempo 20. È quindi altamente probabile che Negrone di Negro, committente di Cambiaso, conoscesse non solo quest’opera di Machiavelli ma anche il testo da cui essa aveva tratto ispirazione, possedendone, probabilmente, una copia. Q uesto elemento è deducibile attraverso il paragone con una delle grandi biblioteche del tempo, quella di Gian Vincenzo Imperiale, per cui Cambiaso aveva lavorato e a cui aveva, probabilmente, accesso 21. sui movimenti etnici effettivamente avvenuti in Roma e utilizzare l’incorporamento dei Sabini rurali e degli Etruschi guerrieri» (Bloch 1959, 31). La lotta dei Romani contro i Sabini, quindi, ricalcherebbe quella tra Asi e Vani della mitologia scandinava dove gli Asi, guidati da Odino e Thor, combattono contro Niord, Freyr e Freya, capi dei Vani; questa guerra si concluderà poi con l’annessione di questi ultimi. Secondo tale prospettiva, anche i primi re di Roma corrisponderebbero ciascuno ad una precisa classe della tripartizione originaria: Romolo «creazione entusiasta e violenta» (Bloch 1959, 34), è il potere magico e terribile, come Varuna nella mitologia indiana, Numa Pompilio è invece quello giusto e sacerdotale, come Mitra, Tullo Ostilio invece rispecchia la classe dei combattenti, completamente assorbito nella riforma dell’ordinamento militare, infine Tito Tazio, re dei Sabini, coreggente di Romolo dopo la guerra conseguente al Ratto, rappresenta la classe degli agricoltori, avendo introdotto lui stesso i culti degli dèi rurali e stagionali a Roma. Per quello che riguarda il mito romano ci si è avvalsi dell’aiuto della dott.ssa Chiara Cappanera, dottoranda di ricerca in Ciencias de las Religiones, presso l’Università Complutense di Madrid. 20 «La notevole attività di collezionista e committente di opere d’arte, letterato e appassionato bibliofilo operata da Gian Vincenzo Imperiale (…) sin dalla più giovane età andò infatti ad arricchire le raccolte del padre e del nonno, già famose nella Genova del tempo (…). La documentazione derivante dagli inventari di Gian Vincenzo è stata approfonditamente analizzata per quanto riguarda le componenti di collezionismo pittorico e scultoreo, mentre per quanto riguarda il ricco elenco della raccolta libraria ancora molto rimane da indagare» (Montanari 2014, 109-110). 21 Della poderosa biblioteca di Gian Vincenzo Imperiale possediamo un inventario, fatto redigere da lui in persona, attraverso il quale si può cogliere la vastità d’interessi e l’amore di quest’uomo per la letteratura non solo classica: «l’inventario si presenta in forma topografica, ovvero elenca i volumi seguendo la disposizione delle casse e delle scansie presenti nello spazio adibito a biblioteca. I volumi appaiono ordinati per formato, senza badare ad eventuali criteri di soggetto, ma la redazione è sin-
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Per prima cosa Livio, nella sua esposizione dei fatti, afferma che Roma, dopo soli quattro mesi 22, era ormai così potente da essere in grado di affrontare militarmente qualsiasi popolazione dei dintorni ma, sfortunatamente, penuria mulierum hominis aetatem duratura magnitudo erat 23; così Romolo, ex consilio patrum, decide di inviare degli ambasciatori alle popolazioni vicine, per chiedere di stipulare alleanze, attraverso unioni matrimoniali. Ma le parole assennate del re, un bel discorso sul fatto che le città nascono dal nulla con il favore degli dèi e che, proprio in virtù di questa preferenza accordata alla città di Roma, i loro vicini non dovrebbero disdegnare di mescolare la propria stirpe con quella dei Romani, evidentemente prediletta dagli dèi, anzi, sarebbero tenuti a sentirsi onorati da tale proposta, cadono nel vuoto: adeo simul spernebant, simul tantam in medio crescentem molem sibi ac posteris suis metuebant 24. Il motivo, vuole sottolineare Livio, è la paura di fondo nei confronti di Roma che, in soli quattro mesi, è diventata talmente grande da essere in grado di competere con i popoli vicini e di minacciare quindi la loro autonomia. Il popolo Romano però, conscio del proprio valore e, meravigliato che Sabini, Ceninensi 25, Crustumini e Antemnati 26, le popogolarmente scarna di informazioni: prevalentemente compare l’autore, accompagnato dal titolo (molto spesso sintetizzato in una parola unica o con forti abbreviazioni) e dal formato del volume stesso. In rari casi compare la lingua di redazione, ma prevalentemente per le opere spagnole o francesi» (Montanari 2013, 56). 22 Su quando si debba collocare questo episodio, rispetto al momento della fondazione di Roma, gli storici non sono concordi; c’è chi, come Livio (1,9,6) sostiene che sia accaduto dopo soli quattro mesi, quindi nell’agosto del 753 a.C., e chi ritiene sia avvenuto dopo quattro anni, cioè nel 749 a.C. Tra i primi si ricordano Fabio Pittore (FRHist 1F6 = HRR I2 19F7 = FGrHist 809F5a), seguito da Cicerone (rep. 2,7,12), Livio, e Plutarco (Rom. 14,1). Tra i sostenitori dei quattro anni invece si hanno Gneo Gellio, annalista vissuto all’epoca dei Gracchi (FRHist 14F1 = HRR I2 F11), e Dionigi di Alicarnasso (A.R. 2, 30 – 31). Per quanto riguarda Gneo Gellio è stata ipotizzata una precisa volontà; l’autore avrebbe deciso di far intercorrere così tanto tempo, tra la fondazione e il ratto, per ‘riempire’ di eventi i lunghi anni della Monarchia a Roma, di per sé poco distinguibile l’uno dall’altro, volontà che avrebbe caratterizzato tutta quanta la sua opera (Poucet 1967, 67-68). 23 Liv. 1,9,1. 24 Liv. 1,9,5. 25 Cenina era una città latina talmente vicina a Roma che venne completamente assorbita da questa probabilmente già in età monarchica; si trovava, probabilmente, in quella che oggi è la zona di Castel Giubileo (Ogilvie 1976, 68) o di Tor Sapienza (Q uilici 1979, 288-289). 26 Crustumerium e Antemnae erano città antichissime, come si evince da Dionigi di Alicarnasso (A.R. 3,36) e da Virgilio (Aen. 7,631 e comm. di Servio; Ps. Aur. Vict.,
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lazioni loro confinanti 27, non avessero accolto con gratitudine e animo favorevole la proposta, si risente; aegre id Romana pubes passa, dice Livio, et haud dubie ad vim spectare res coepit 28. Così, celando il proprio orgoglio ferito, i Romani organizzano dei grandi Giochi in onore di Nettuno Equestre, ai quali invitano tutti i popoli vicini. Q uesti ovviamente, curiosi di poter vedere la neonata potenza, accorrono in massa, ammirano la città in tutto il suo splendore, le mura fortificate, il gran numero di case e mirantur tam brevi rem Romanam crevisse 29; per la terza volta Livio si preoccupa di sottolineare il monstrum, nel senso etimologico del termine, che fu Roma già dai tempi della sua fondazione e che è ancora in età augustea. Durante lo spettacolo, mentre tutti sono impegnati a guardare i giochi, signoque dato iuventus Romana ad rapiendas virgines discurrit 30. Non è specificato quale fosse questo segnale convenuto ma è chiaro, data la confusione durante l’evento, che doveva essere orig. 17,6); la prima si trovava sulla collina della Marcigliana vecchia, al diciottesimo chilometro della via Salaria (Q uilici – Q uilici Gigli 1980), conquistata dalla sua potente vicina prima del 495 a.C., momento in cui compare la tribù Clustumina (Ampolo-Manfredini 1988, 314). Antemnae invece era molto più vicina a Roma, collocata davanti al Tevere, dove si trova la confluenza con l’Aniene (Q uilici – Q uilici Gigli 1978), e, in ordine cronologico è stata la prima città a cadere sotto Roma. Le guerre del V sec. a.C. che gli storici riportano sotto Romolo, non sono collocate in ordine cronologico ma riflettono lo sforzo di Roma di assicurarsi i territori a Nord di Roma e a sinistra del Tevere, territori strappati a Sabini, Latini e Etruschi. 27 L’evento è passato alla storia con il nome di ‘Ratto delle Sabine’ ma le popolazioni colpite dalle ‘giuste necessità’ della nascente città di Roma sono state, stando alle fonti antiche, ben di più (cf. Bruggisser 1987, 217); Livio riporta quattro popolazioni Caeninenses, Crustumini, Antemnates e aggiunge iam Sabinorum omnis multitudo cum liberis ac coniugibus venit (1,9,9) ad indicare che i Sabini, quindi le Sabine, erano in numero maggiore tra gli ospiti, rispetto alle altre popolazioni. I Ceninensi sono i primi a muovere guerra contro Roma per l’affronto subito (1,10,3) ma l’autore definisce il breve scontro tra le due popolazioni come un levique certamine, con il quale si dimostra che vanam sine viribus iram esse (1,10,4). Seguno gli Antemnati, che dimostrano, come i loro vicini, scarse capacità belliche e vengono quindi sconfitti, nonostante avessero approfittato dell’impegno dei Romani sull’altro fronte (Liv. 1,11,2). Dopo le celebrazioni di Romolo per il trionfo, Ersilia, la sua nuova moglie, lo implora di accogliere, tra i Romani, i genitori delle neo-spose, ormai sconfitti (1,11); questo implica che molte delle donne rapite appartenevano alle due popolazioni appena battute. Infine muovono guerra i Sabini e, anche loro, vengono sconfitti velocemente (1,12); novissimum ab Sabinis bellum ortum multoque id maximum fuit (1,11,5) e ciò si deve al fatto che i Sabini, come riporta Livio, non agirono di impulso ma si prepararono, come si conviene, alla guerra. 28 1,9,6. 29 1,9,9. 30 1,9,10.
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qualcosa di palese, qualcosa che, ben visibile, avrebbe dato il via libera alla ‘caccia alla donna’ da parte dei giovani romani; l’autore non indica neanche chi avrebbe dovuto dare il segnale. La sorte delle ragazze, si suppone tutte ancora nubili per l’utilizzo della parola virgines 31, è dovuta al loro aspetto e alla loro bellezza; la maggior parte viene rapita dal primo uomo che incontrano durante la loro fuga mentre quasdam forma excellentes, primoribus patrum destinatas, ex plebe nomine quibus datum negotium erat domos deferebant 32. Tra queste spicca una giovane particolarmente bella che un gruppo di clientes avrebbe rapito per il loro patrono, un certo Talassio, giovane valoroso e di ottima reputazione, facendola entrare nella casa del futuro sposo identidem ne quis violaret Thalassio ferri clamitatum; e, secondo Livio, opinione condivisa poi da Plutarco 33, inde nuptialem hanc vocem factam 34. 31 Il termine latino virgo, virginis deriverebbe dall’ipotetica radice indoeuropea *werg- (Lewis-Short 1879), presente anche nel sostantivo greco ὀργή, impulso, e nel suo verbo derivato ὀργάω, che si utilizza con il significato di ‘être plein de ‘suc’ ou de ‘sève’ dit d’une terre fertile, de plantes qui bourgeonnent, de fruits qui mûrissent’ (Chantraine 1968, 814-816). Ne deriverebbe che le virgines, più che ragazze che non hanno ancora avuto un rapporto sessuale, sono quindi le ragazze nel loro momento migliore, quando sono mature per essere colte ma ancora sul ramo; la loro attrattiva sugli uomini è quindi al massimo del suo potenziale ed è questo il momento migliore per ‘raccogliere’ i loro frutti. 32 1,9,11. 33 Rom. 15,5. 34 L’origine del grido nuziale è oscura per gli studiosi di oggi quanto lo era per gli antichi; secondo Plutarco, in parallelo alla vicenda di Imeneo per la Grecia, si trattava del nome di un personaggio di invenzione (Plut., Q uaest. Rom. 31,271f-272b), ma le ipotesi etimologiche in antico erano numerose. Sestio Sulla, riportato sempre da Plutarco (Rom. 15,3), sosteneva fosse il segnale dato da Romolo per l’assalto alle Sabine, mentre Giuba (FGrHist 275F90) lo ricollegava al lavoro della tessitura (ταλασίαν), poiché in quel momento c’era commistione tra greco, latino e dialetti italici a Roma. Infatti la tradizione vuole che le donne, dopo che Romani e Sabini si riconciliarono, per gratitudine, furono sgravate da ogni lavoro pesante e fatica domestica con l’eccezione della tessitura. Ancora oggi la spiegazione che collega la parola con un vocabolo greco, sia esso θάλαμος, ταλασία o τάλαρος, è la più accreditata (Ampolo – Manfredini 1988, 209-310). L’idea che la tessitura fosse l’attività per eccellenza della rispettabile donna romana, nascerebbe da qui; questa attività domestica basta, di per sé, ad indicare la rispettabilità e la preziosità di una matrona come si evince dall’epitaffio femminile più famoso di età repubblicana, il cosiddetto ‘Elogio di Claudia’ (CIL I2 1211 = CLE 52). Si tratta di un’epigrafe di II secolo d.C., oggi perduta, su cui si è soffermato molto Massaro (Massaro 2007, 139-141), in cui questa matrona della famiglia Claudia viene presentata al viandante, che passa di fronte al suo sepolcro, come la Romana perfetta, di bell’aspetto, fedele verso il marito, cui ha dato due figli, gradevole di aspetto, discreta nella conversazione, Domum servavit. Lanam fecit (CIL I2 1211. 8 = CLE 52. 8): ciò che era stato richiesto alle donne dei
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A questo punto i padri, spaventati e offesi, lasciano la città incusantes violati hospitii foedus deumque invocantes cuius ad sollemne ludosque per fas ac fidem decepti venissent 35. Anche le loro figlie, ormai raptae e segregate nelle case dei Romani, sono turbate, poiché non sanno cosa aspettarsi e temono, già offese nel corpo, per la loro vita. Soltanto l’intervento di Romolo riesce a risolvere la situazione; egli infatti ribadisce l’‘incolpevolezza’ dei Romani per quanto accaduto alle donne sabine, essendo stato il rifiuto dei loro padri il motivo scatenante di tanta violenza, e le tranquillizza, promettendo loro che saranno mogli e non concubine, condivideranno, insieme agli uomini che le hanno costrette già con la forza a condividere il letto, i beni, la casa e soprattutto i figli, sempre coccolate e accudite dai nuovi sposi che si sforzeranno di far dimenticare loro l’assenza dei genitori e la lontananza dalla loro terra d’origine. Livio conclude sottolineando come le attenzioni dei Romani, le loro blanditiae, fecero breccia nel cuore delle donne rapite, attenzioni che maxime ad muliebre ingenium efficaces precessunt 36. La narrazione degli eventi legati a questo rapimento prosegue nei capitoli successivi dell’opera liviana; i Sabini infatti, sotto la guida di Tito Tazio, seppur non muovendo guerra subito, come avevano fatto gli altri popoli vicini, uscendone miseramente sconfitti, si mostrarono dei nemici attenti e temibili. È all’interno di questa guerra che si colloca l’episodio di Tarpeia, la giovane figlia del comandante della cittadella romana, che tradì Roma per l’oro dei Sabini e venne uccisa da questi sotto il peso dei loro scudi. Livio riferisce due versioni della leggenda: che la sua morte avvenne perché essi temevano li volesse tradire, oppure perché i Sabini volevano mostrare di non avere nessuna pietà per i traditori 37. Sabini, ‘accolte’ nella città di Roma, è quello che continua a essere chiesto alle donne romane. Sull’ argomento vedi anche Cantarella1983 e Cenerini 2013. 35 1,9,13. 36 1,9,16. 37 Liv. 1,11,7. Livio, per non smentirsi, riferisce anche un’altra possibile motivazione per l’uccisione di Tarpeia, schiacciata dal peso degli scudi: seu ut vi capa potius arx videretur (1,11,7). Insomma i Sabini, consapevoli di non potere nulla contro la nascente, ma soprattutto crescente, potenza di Roma, ottengono la rocca grazie ad un tradimento ma desiderano comunque fare bella figura, dimostrando che essa è stata conquistata con la forza dei loro uomini e non con l’aiuto di una fanciulla traditrice. L’assassinio di Tarpeia sarebbe quindi il mascheramento di un combattimento in piena regola, peccato che l’idea di tutto quel dispendio di energie per far fronte a una timida ragazza indifesa, non li facesse uscire lo stesso vincitori; ed è proprio ciò a cui mira Livio, de-virilizzandoli completamente con questa frase perentoria.
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Le ragioni della morte della fanciulla non sono poi così importanti, rispetto al fatto che i Sabini entrarono a Roma e presero possesso della cittadella, pronti a muovere guerra a Romolo e ai suoi. Livio riporta che i Romani stavano avendo la meglio, cosa difficile da credere dato che si deve immaginare una potenza già consolidata che fa irruzione in una città di nuova fondazione, non ancora dotata di un esercito esperto o saldo. Ma deus ex machina, anzi, mulier ex machina, intervengono le Sabine che rendono superflua la verità su chi stesse vincendo fino a quel momento; le coraggiose donne victo malis muliebri pavore 38, si gettano urlando tra i due schieramenti, implorando Romani e Sabini ne sanguine se nefando soceri generique respergerent, ne parricidio macularent partus suos, nepotum illi, hi liberum progeniem 39. Il virile coraggio di queste donne impressiona entrambe le parti; si smette di combattere e si giunge ad un accordo, secondo il quale Regnum consociant: imperium omne conferunt Romam 40. Romolo ha così ottenuto un duplice scopo: assicurarsi che la progenie di Roma non si estingua e unire le due popolazioni sotto il suo potere, dando un piccolo ritorno ai Sabini: ita geminata urbe ut Sabinis tamen aliquid daretur Q uirites a Curibus appellati 41. Ma non è questa la sede per discutere circa la portata della vittoria di Roma sui Sabini 42; quello che qui interessa è capire se, e in 1,13,1. 1,13,2. 40 1,13,4. 41 1,13,5. 42 In realtà l’unione ‘matrimoniale’ tra Romani e Sabini non pone fine alle ostilità tra i due popoli; sappiamo che Tarquinio Prisco dovette affrontarli nuovamente e che, grazie alle sue abilità militari, riuscì ad accrescere ancora di più il territorio romano con le terre strappate loro (Eutr. 1,6). Dopo di lui anche Servio Tullio ebbe problemi con i Sabini, problemi dovuti, in realtà, al suo desiderio di espansione (Eutr. 1,7) che andava a scontrarsi con gli interessi dei popoli confinanti. I Sabini possono dirsi vinti poi soltanto in età repubblicana, quando, nel 504 a.C., Publio Valerio Publicola ottenne il Trionfo per averli sconfitti (Liv. 2,16,6). Bisogna anche considerare che l’intervento salvifico delle Sabine potrebbe essere stato un escamotage per giustificare la fusione di Romani e Sabini senza che si metta in dubbio la supremazia bellica dei primi. Che Livio avesse l’abitudine di alterare la realtà, per evitare che i Romani risultassero come gli sconfitti è fuori di dubbio. Un esempio su tutti è la guerra che essi, deposto l’ultimo re, l’etrusco Tarquinio, combatterono contro Porsenna, sovrano di Chiusi e probabilmente anche massima autorità della Dodecapoli, il quale si insediò sul Gianicolo e da lì mosse contro Roma (Liv. 2,10 – 12). Q ui Livio deve ammettere la grande superiorità dell’esercito di Porsenna e del timore che esso incuteva ai Romani ma, nonostante questo, Roma non cadde, grazie l’eroismo di alcuni dei suoi, in particolare Orazio Coclite (2,10), Muzio Scevola (2,13 e Dion. Hal., A.R. 38 39
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quale misura, Livio abbia costituito la fonte letteraria a cui attinse Luca Cambiaso per rappresentare il ‘suo’ Ratto delle Sabine nell’affresco di Villa Cattaneo Imperiale. Le influenze del Patavino sono ravvisabili, a nostro avviso, soprattutto nella parte sinistra dell’opera, dove è possibile riconoscere Romolo in posizione elevata, così da essere visibile a tutti i giovani romani, i quali attendono trepidanti il segnale convenuto, per lanciarsi nella mischia e rapire le fanciulle, come si può evincere dal giovane rappresentato nell’atto di saltare oltre la balaustra, ansioso di buttarsi nella mischia 43. Anche gli anziani raccolti dietro a Romolo, colti nell’atto di confabulare tra di loro e intenti ad osservare quanto sta accadendo, richiamano alla memoria quanto scrive Livio, secondo il quale i più insigni tra i senatori avrebbero incaricato uomini della plebe di catturare le donne più belle e di portarle nelle loro case 44. Tra di esse spicca una donna che, per l’acconciatura elaborata, abbellita con diversi fili di perle e gioielli, potrebbe indentificarsi, stando alla versione liviana del mito (che non cita Ersilia se non in un secondo momento, cioè a ratto già avvenuto, quando supplica i Romani di accogliere i padri delle nuove spose tra gli abitanti della città 45), con la futura sposa di Talassio 46; donna di una tale straordinaria bellezza che, pur facendo gola a molti, fu loro sottratta e trascinata, dai fedeli clientes, nella domus del nobile patrizio.
5,25,4) e Clelia (2,13), eroismo che impressionò a tal punto il sovrano etrusco da farlo recedere dal suo proposito. La ‘vittoria’ romana non è però così chiara agli occhi degli storici contemporanei; per prima cosa Tacito (hist. 3,72,1) afferma che ad un certo punto Roma si consegnò agli Etruschi e la stessa leggenda di Clelia dimostra che l’Urbe fu costretta a consegnare alcuni ostaggi a Porsenna. A ciò si aggiunge la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso secondo il quale il Senato πέμψαι θρόνον ἐλεφάντινον καὶ σκῆπτρον καὶ στέφανον χρυσοῦν καὶ θριαμβικὴν ἐσθῆτα, ᾗ οἱ βασιλεῖς ἐκοσμοῦντο (A.R. 5,35,1). Come sottolinea Cotta Ramosino «non si tratta quindi di semplici doni onorifici: Roma inviò a Porsenna i simboli della regalità, un gesto che indicava un atto di sottomissione, piuttosto che l’intento di onorare un nemico clemente» (Cotta Ramosino et alii 2004, 48). Q uesta notizia sembra confermata anche da Plinio il Vecchio, il quale riferisce distrattamente, che Porsenna avrebbe vietato per i Romani l’utilizzo del ferro se non per l’agricoltura (nat. 34,139), e da Plutarco, che riporta un arbitrato di Porsenna, accettato dai Romani (Publ. 18 – 19). A questo punto è impensabile ritenere i Romani vincitori; essi devono aver perso la guerra contro Porsenna. 43 Liv. 1,9,10. 44 1,9,11. 45 1,11,2. 46 1,9,12.
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Tuttavia, sebbene la narrazione dell’evento fatta da Livio dovesse essere ben presente a Cambiaso esistono alcuni particolari che inducono a ritenere non si tratti della sua fonte primaria: ad esempio l’autore non esplicita quale sia stato il gesto, né tanto meno se sia stato dato dal re in persona. Anche la caoticità dell’affresco non sembra avere riscontro nel testo dei libri Ab urbe condita, narrazione più asciutta, priva di descrizioni puntuali sul gesto in sé del rapimento, elemento comprensibile considerando la volontà dell’autore di ‘giustificare’ i Romani, colpevoli di aver violato le sacre leggi dell’ospitalità. Prima però di trarre le debite conclusioni, bisogna passare all’analisi di altre fonti letterarie, possibili ‘Muse’ dell’affresco genovese: Ovidio e Plutarco.
4. Le colombe di Ovidio Ovidio si è riuscito «a imporre nell’immaginario collettivo almeno a partire dal Rinascimento se non addirittura dal Medioevo, allorché (le Metamorfosi) vengono tradotte, volgarizzate, commentate, reinterpretate, fatte oggetto di edizioni critiche, prese quale metro per spiegare la realtà contemporanea» 47. Come Livio anche Ovidio faceva parte dell’entourage ‘letterario’ di Augusto, ma il suo approccio a questo evento, che costituisce uno dei capisaldi delle origini di Roma, è completamente diverso da quello di Livio. Infatti, sia nell’Ars che nei Fasti, testi che sembrano incredibilmente lontani l’uno dall’altro, «l’intento principale di Ovidio è quello di sottolineare ancora una volta l’adesione alla realtà mondana di Roma, con le sue feste e le sue cerimonie e la perfetta coincidenza spazio-temporale tra il mondo della relazione erotica e quello della vita civile» 48. Lo spunto per raccontare il ratto delle Sabine viene fornito all’autore dal luogo di caccia amorosa per eccellenza: il teatro (sed tu praecipue curvis venare theatris) 49. Il teatro è infatti il posto giusto per fare ‘conoscenze’, qui si trovano diverse ‘prede’, dalla ragazza da amare per il resto della propria vita, a quella con cui intessere solo un piacevole lusus erotico-amoroso (quodque semel tangas, quodque Salvo 2015, 26. Dimundo 2003, 18. 49 ars 1,89. 47 48
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tenere velis) 50. Lo stesso Ovidio ammette di avere solo l’imbarazzo della scelta quando si reca a teatro e che si tratta di un luogo dove alla donna non è permesso mantenersi pudica troppo a lungo. Il nostro poeta afferma che a dare il via a questa usanza sarebbe stato nientemeno che Romolo cum iuvit viduos rapta Sabina viros 51. Non erano ancora stati costruiti teatri permanenti in muratura o legno in quel momento, una sorta di età dell’oro secondo Ovidio, in cui gli spettacoli si svolgevano all’aperto, con i prati usati come sedili e gli alberi come unici tendaggi per ripararsi dalla calura del sole, in una sorta di luogo idilliaco e campestre in cui anche gli uomini erano un po’ ferini, come si evince dall’aggettivo hirsutas riferito dal poeta alle teste dei Romani 52. Q uesto elemento è «la prima sostanziale novità ovidiana» 53 così come è nuovo anche il modo di rappresentare Romolo, il cui nome richiamava l’idea della primigenia grandezza dell’Urbe, al punto che persino Augusto aveva inizialmente preso in considerazione la possibilità di assumerlo per se stesso 54; il poeta si rivolge al primo re di Roma come ad un amico, senza cerimonie, senza epiteti onorifici, accusandolo quasi di aver mascherato il proprio desiderio di governare la città con la ragion di stato. Prima di lui in realtà già Properzio aveva presentato una versione del ‘Ratto delle Sabine’ molto poco eroica, calcando ancor più la mano sul contrasto esistente tra il primo re di Roma, nutritus duro (…) lactae lupae 55, e le giovani e delicate Sabine, fino a quel momento ignare del contatto maschile, intactas (…) Sabinas 56. Tale contrasto è ben presente anche in Ovidio, che sceglie infatti, in riferimento al popolo di Romolo, l’aggettivo ‘campestre’ di hirsutus 57, ed è utile al poeta di Sulmona per descrivere le giovani fanciulle sabine come prede timorose, la cui innocenza le rende ancor ars 1,92. ars 1,102. 52 ars 1,108. 53 Dimundo 2003, 70. 54 Suet., Aug. 7 e Dion. Cass. 53,16,7. Sull’argomento, cioè sulla idea di Ottaviano Augusto come nuovo Romolo, fondatore, anzi ri-fondatore, dello Stato romano, riportato da lui al suo primitivo splendore e su come questa sua res publica restituta si basasse sulle idee espresse da Cicerone nei suoi scritti politici si rimanda al magistrale lavoro di Licandro (Licandro 2015). 55 2,6,19. 56 2,6,20. 57 ars 1,108. 50 51
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più appetibili agli occhi dei rudi romani, quasi si trattasse di satiri vogliosi che spiano le ignare ninfe come nella più tipica delle scene bucoliche: respiciunt oculisque notant sibi quisque puellam / quam velit, et tacito pectore multa movent 58. L’ambiente nel quale la scena si svolge si anima poi con questi versi che, quasi a replicare il battito accelerato del cuore attraverso la ripetizione della t nel verso appena citato, rendono bene il gioco messo in atto dal Romano, che deve scegliere la fanciulla sulla quale indirizzare le proprie attenzioni. Il tacitus pector è in contrasto anche con ciò che avviene sulla scena; Ovidio informa i suoi lettori che si tratta di uno spettacolo di danza in cui un ballerino si muove, pulsat 59, verbo tipico della danza utilizzato da Ennio in poi 60, al suono di un tibicen Tuscus. A questo punto un applauso assordante irrompe sulla scena, reso foneticamente dalla ripetizione quasi ossessiva della lettera p nei versi 112-114, e Romolo, finalmente, dà il segnale tanto atteso: rex populo predae signa petenda dedit 61. A questo punto, finalmente, i Romani possono sfogare tutta la loro bramosia tenuta a freno fino a questo momento: protinus exiliunt, animum clamore fatentes, / virginibus cupidas iniciuntque manus 62. L’avverbio protinus indica che l’azione subisce un’improvvisa accelerata e il senso di scoppio dell’azione è dovuto sia all’utilizzo del verbo exiliunt che, unito al sostantivo clamores, indica il ritorno dei Romani ad uno stato primordiale, quasi animalesco, in cui gli unici suoni che essi sono in grado di articolare sono delle grida indistinte 63. È qui che il parallelo tra la caccia amorosa e quella ‘animale’ si fa più serrato: le Sabine sono columbae, timidissima turba, e agna novella mentre i Romani sono aquilae e invisi lupi, secondo due topoi narrativi utilizzati per descrivere l’inseguimento di un individuo debole e indifeso da parte di un altro soggetto con intenti ars 1,109-110. ars 1,112. 60 ann. 1 Skutsch. 61 ars 1,114. 62 ars 1,115-116. 63 Di grande effetto è sicuramente l’enallage cupidas manus che rinchiude al suo interno il sostantivo virgines, termine in aperta contrapposizione con la cupiditas. Addirittura secondo Pianezzola (Pianezzola 1991, 203) questa espressione è una celata allusione alla manus iniectio, attraverso il quale un cittadino romano prendeva possesso di un debitore o di uno schiavo fuggitivo. 58 59
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predatori il quale, per raggiungere il proprio scopo, non si sottrae a compiere atti violenti 64. La scena è resa più toccante dall’immobilità delle donne di fronte all’impeto degli uomini; esse restano paralizzate dalla paura e esteriormente quello che muta è soltanto il loro colorito. Ovidio descrive bene le diverse reazioni che hanno le Sabine alla vista di quell’orda che si riversa su di loro e che, si badi bene, non le induce alla fuga, ma anzi, come sembra di capire, le paralizza. L’unico sussulto emotivo è quello legato, come abbiamo già visto, al cambiamento di colorito. Ma facciamo parlare il poeta: Nam timor unus erat, facies non una timoris: pars laniat crines, pars sine mente sedet; altera maesta silet, frustra vocat altera matrem; haec queritur, stupet haec; haec manet, illa fugit 65. Di contro, la sorte, cui vanno incontro le giovani Sabine, è la medesima per tutte: ducuntur raptae, genialis praeda, puellae 66. La descrizione di questo momento è un capolavoro non solo letterario ma, potremmo dire, quasi pittorico; Ovidio riesce a passare dal generale al particolare, da tutte le Sabine, moltitudine di colombe in fuga dalle aquile predatrici, alle singole giovani donne in cui ognuna reagisce diversamente al rapimento e in maniera quasi complementare. Lo stesso timore delle ragazze le trasforma in prede ancor più appetibili per i Romani e accresce il desiderio di possederle da parte di questi ultimi, desiderio che finisce con il giustificare il ratto: Ducuntur raptae, genialis praeda, puellae, et potuit manus multas ipse decere timor 67. «Il termine praeda (v. 125) si inserisce nella metafora della guerra, non intesa qui come conflitto erotico, ma come assalto vero e proprio: nella “iunctura” genialis praeda, inoltre, è possibile rintracciare una singolare coincidenza semantica, perché le donne, vittime effettive di predazione (praeda) si trasformano in oggetto d’amore legittimo (genialis praeda). Particolarmente significativa, inoltre, è la struttura del v. 125, che descrive con tratti rapidi il movimento del rapimento: l’azione oggettivamente deprecabile (ducuntur raptae … puellae) incornicia la “iunctura” che legittima l’evento (genialis praeda); il timor,
64 La similitudine delle colombe, con il falco al posto dell’aquila, si trova in Omero (Il. 22,139-140) mentre per quanto riguarda i lupi e gli agnelli, l’espressione ovidiana è quasi traduzione letteraria di Teocrito (11, 24). 65 ars 1,121-124. 66 ars 1,125. 67 ars 1,125.
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che nei versi precedenti determinava una molteplicità di reazioni, diviene, nel v. 126 un singolare strumento di seduzione» 68. «Nei vv. 127-130 Ovidio torna ad occuparsi dei rapitori, ormai strettamente avvinghiati alle future consorti; nonostante il timore, qualcuna delle sventurate donne tenta di opporsi allo sconosciuto assalitore, ma il suo rifiuto finisce per infiammare ancor di più il cuore del “nemico”, già ardente di passione» 69. In questo clima anche Ovidio, come Livio prima di lui, vuole inserire l’evento princeps; questa volta però non si tratta del rapimento della fanciulla sabina più bella da parte dei clientes di Talassio, bensì di un episodio avvenuto all’interno delle mura domestiche. Un giovane romano infatti tenta di tranquillizzare la propria ‘colomba’, la quale si dibatte tra le sue braccia e non vuole cedere, chiedendole: ‘Q uid teneros lacrimis corrumpis ocellos? Q uod matri pater est, hoc tibi’ dixit ‘ero’ 70. La verve ironica di Ovidio non si ferma a questo scambio di battute tra i due futuri coniugi ma continua nella chiusura dell’episodio, quando il poeta loda Romolo per aver offerto, unico tra tutti, commoda 71, di tale genere, al prezzo dei quali anche lui si sarebbe arruolato di buon grado: Romule, militibus scisti dare commoda solus: haec mihi si dederis commoda, miles ero 72. Il brano in questione rappresenta uno dei momenti più alti della sua Ars; la musicalità dei versi, ottenuta attraverso l’uso sapiente delle immagini, la disposizione delle parole e la scelta stessa di esse, mostrano un Ovidio capace di evocare un episodio così complesso e articolato in pochi versi 73, e di rendere per mezzo di questi percepibile la caoticità del momento. Dimundo 2003, 79 e note 201-203. Dimundo 2003, 80 e nota 204. 70 ars 1,130. 71 Il termine commodum, che indica appunto il premio, il beneficio, ma anche il vantaggio o ciò che viene prestato viene ripetuto due volte a brevissima distanza (Ov., ars 1,131-132) a sottolineare la vera essenza del ratto; le donne in fin dei conti sarebbero state solo un benefit concesso da Romolo ai suoi soldati. 72 ars 1,132. 73 L’estensione del brano è di soli trentun versi; Ov., ars 1,101-132. Certo, l’autore non racconta le conseguenze che questo rapimento ha avuto sulla politica estera della Roma del tempo, cioè tutte le guerre con le popolazioni vicine e il regno congiunto di Romolo e Tito Tazio, ma la sua brevità è esemplare perché riesce a descrivere perfettamente la scena permettendo al lettore di sentire quasi, attraverso la musicalità delle parole, l’enfasi del ballo, il grido delle Sabine fatte prigioniere e l’impeto dei Romani ‘in caccia’. Per un’analisi più dettagliata di tutta la scena, in ogni suo gioco 68 69
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Certamente l’episodio è trasfigurato dalla mente dell’autore, che ricrea, come si è detto, quasi più un agguato ai danni delle ninfe ignare da parte di satiri voyeurs, agguato dettato soltanto dal desiderio erotico di questi ultimi nei confronti delle ragazze. I richiami ovidiani che riecheggiano, a nostro parere, nell’affresco di Luca Cambiaso non sono da sottovalutare. Per prima cosa si è visto come Ovidio passi dal generale al particolare; la scena che descrive è un generico caos provocato dalla fuga delle donne inseguite dai Romani ma le singole figure sono comunque tracciate con grande vivacità narrativa. Lo stesso può dirsi per l’affresco di Villa Cattaneo Imperiale dove, ad un primo sguardo, la scena appare come un groviglio di corpi in movimento, fatto questo che la rende immediatamente comprensibile e avvicinabile alla descrizione ovidiana. Q uesto primo sguardo però non è sufficiente a cogliere l’affresco in tutta la sua potenzialità espressiva; bisogna infatti procedere con una sorta di ragionamento deduttivo, per poter cogliere la complessità della scena che propone il pittore genovese; la donna pietrificata dalla paura, incapace di muoversi, quella che leva alte grida e alza il braccio verso il cielo per chiedere aiuto, quella che reagisce passivamente al proprio destino e quella che invece si ribella con tutte le sue forze. Tutte tipologie di comportamento già presenti nei versi di Ovidio. Ma non è tutto: anche l’immagine delle colombe spaventate dai falchi che si gettano su di loro in picchiata, immagine che suggerisce un movimento dal centro vero l’esterno, quasi come un sasso gettato nell’acqua, sembra ritrovarsi nella volta affrescata di Villa Cattaneo Imperiale. L’opera di Cambiaso ha infatti in comune con la narrazione ovidiana, una disposizione simile delle figure delle vergini sabine e dei predatori romani colte in un vorticoso movimento dal centro ai margini dell’affresco. Sicuramente l’ambientazione è diversa; il pittore preferisce la classica versione dei ludi in ambiente cittadino, cosa che gli permette di inserire le volumetrie architettoniche nello spazio, di studiare il movimento dei corpi al suo interno e, soprattutto, di descrivere una Roma quasi ‘barocca’, venendo così incontro ai gusti del committente. La stessa tipologia di ambientazione, strutture architettoniche complesse, disposte in ‘blocchi’ prospettici con un paeverbale e riferimento letterario, si rimanda a Dimundo 2003, 71-84 e all’ultimo testo con commento edito da Les Belles Lettres (Sers – Bornecque 2016).
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saggio, di contro, naturalistico sullo sfondo, è ‘classica’ per l’arte pittorica del Cinquecento ed è presente anche nell’affresco di Castello, sito nel palazzo degli Imperiale in piazza Campetto a Genova 74. Prima però di giungere a una conclusione circa la fonte che richiama il lavoro di Cambiaso, è necessario esaminare ancora un autore, ritenuto dagli storici dell’arte la fonte letteraria primaria per la realizzazione dell’affresco: si tratta di Plutarco nella Vita di Romolo.
5. Plutarco e la sua eredità Nel 1516 viene data alle stampe la traduzione in latino di tutte quante le Vite Parallele di Plutarco: Vitae Plutarchi Cheronei novissime post Iodocum Badium Ascensium longe diligentius repositae… una cum figuris suis locis apte dispositis, elemento questo che ha contribuito a rendere più accessibile l’opera dello storico di Cheronea poiché, nonostante fosse già disponibile l’originale greco, il pubblico continuava a preferire la traduzione latina 75. Ma l’aspetto «di grande interesse e novità nei confronti della tradizione precedente è dato dalla presenza di incisioni (…). All’inizio di ogni biografia si colloca un’illustrazione che rappresenta un episodio considerato il più significativo di tutto il racconto» 76. Viene così a crearsi una sorta di repertorio iconografico della tradizione classica, ispirato a Plutarco. Prima di chiedersi in che misura l’affresco di Cambiaso coincida però con questo repertorio, è necessario rivolgersi al testo greco nella sua complessità e interezza, non prendendo per ora in considerazione la sua traduzione in latino. Il racconto del Ratto delle Sabine nella Vita di Romolo è il più lungo e articolato di tutti quelli esaminati sin ora 77; lo storico 74 Come già ricordato, in questo momento la Villa era proprietà di Negrone di Negro, committente dell’opera di Cambiaso, che decora la volta del grande Salone: cf. Bernardini 2009, 105. Solo più avanti passerà in possesso degli Imperiale, che possedevano invece, oltre alla Villa Di Campetto, Villa Scassi a Sampierdarena, oggi ospedale comunale. La figura dell’Imperiale quindi, serve come termine di paragone meglio studiato, di ricco e colto committente della Genova aristocratica di XVI Secolo, ma non come il diretto committente dell’opera. Cf. Montanari 2014, 122. 75 Guerrini 1998, 229. 76 Guerrini 1998, 229-230. 77 Rom. 14-19, qui è utilizzata l’edizione di Les Belles Lettres (Chambry-FlacelièreJuneaux 1958).
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di Cheronea vuole riportare tutte le tradizioni relative all’evento e confutare quelle, a suo dire, errate, cominciando proprio dalle motivazioni che spinsero i Romani a rapire le donne: τοῦτο δὲ οὐκ εἰκός: ἀλλὰ τὴν μὲν πόλιν ὁρῶν ἐποίκων εὐθὺς ἐμπιπλαμένην, ὧν ὀλίγοι γυναῖκας εἶχον, οἱ δὲ πολλοὶ μιγάδες ἐξ ἀπόρων καὶ ἀφανῶν ὄντες ὑπερεωρῶντο καὶ προσεδοκῶντο μὴ συμμενεῖν βεβαίως 78. Non è affatto messa in discussione la futura grandezza di Roma, ma si sottolinea come, in epoca monarchica, si trattasse di una città abitata da stranieri, privi di mezzi e senza un vincolo che li tenesse uniti. Manca qui, rispetto a quanto scrive Livio, la narrazione del tentativo compiuto dai primitivi abitanti dell’Urbe di stringere matrimonio con donne ‘straniere’ attraverso mezzi leciti, inviando cioè ambasciatori che chiedessero ai popoli vicini le loro figlie in sposa; Romolo passa subito all’azione ricorrendo a un sotterfugio e diffonde la voce di aver trovato sotto terra, scavando, un’ara del dio Conso o del dio Nettuno. Dopo la scoperta indice quindi uno splendido sacrificio, una gara ed altre magnifiche feste propiziatorie. Secondo Plutarco vengono invitati solo i Sabini e lo storico di Cheronea non accenna all’intenzione del primo re di Roma di estendere l’invito ad altre popolazioni, a θυσίαν τε λαμπρὰν ἐπ᾽ αὐτῷ καὶ ἀγῶνα καὶ θέαν ἐκ καταγγελίας (…) πανηγυρικήν 79. Plutarco è l’unico autore a dire, finalmente, quale fosse il segno convenuto per l’assalto alle donne: ἁλουργίδι κεκοσμημένος 80, si sarebbe alzato in piedi, ripiegando il mantello purpureo e subito rimettendoselo. Solo a questo punto i Romani, con le spade sguainate, assalgono i Sabini e rapirono le loro figlie, lasciando che gli uomini fuggissero illesi 81. Un particolare di questo evento risulta di estrema importanza: γυναῖκα γὰρ οὐ λαβεῖν ἀλλ᾽ ἢ μίαν Ἑρσιλίαν 82, del cui stato di donna maritata non si erano accorti, e che in fin dei conti avrà una sorte molto fortunata andando poi in sposa nientemeno che al re di Roma; particolare questo che testimonierebbe la buona fede dei Romani, costretti dalla necessità al ratto ma non desiderosi di commettere una violenza o un’ingiustizia 83. 80 81 82 83 78 79
Rom. 14,2. Rom. 14,4. Rom. 14,4. Rom. 14,6. Rom. 14,6. Rom. 14,6.
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Anche Plutarco, come aveva fatto Livio prima di lui, si sofferma sull’episodio della giovane donna, che si distingueva τῷ τε κάλλει πολὺ καὶ τῷ μεγέθει 84, rapita per conto di Talassio e di come il loro grido, usato per evitare che qualcun altro catturasse la donna, fosse poi diventato il grido rituale che i Romani utilizzavano in occasione del matrimonio. Oltre a ciò l’autore riporta altre due usanze, quella in cui lo sposo fa superare la soglia della propria casa alla nuova consorte, sollevandola tra le braccia e quella di dividerne i capelli con una lancia, tradizioni queste che sarebbero nate proprio in seguito a tale evento 85. I Sabini però, seppur πολλοὶ μὲν ἦσαν καὶ πολεμικοί 86, inviano ambasciatori per riavere le loro figlie e presentano richieste che Plutarco definisce eque e moderate, richieste che non vengono accettate da Romolo, che li invita invece ad accettare senza protestare l’unione dei due popoli. Roma ha esagerato, non ha rispettato il vincolo di ospitalità, avendo lei ‘subdolamente’ invitato i Sabini a partecipare ai festeggiamenti indetti dal suo re, e la situazione si è aggravata quando ha deciso di non ascoltare i loro ambasciatori; così anche gli altri popoli vicini, seppure non coinvolti nel rapimento delle loro donne, iniziano a temere per la loro indipendenza e sicurezza e si risolvono ad attaccare Roma. Il primo è Acrone, re di Cenina 87, il quale però viene sconfitto e ucciso da Romolo che ne distrugge la città e invita, benevolmente, Rom. 15,1. Il capitolo 15 costituisce una vera e propria eziologia del matrimonio romano, nonostante, come sottolineano Ampolo e Manfredini (Ampolo – Manfredini 1988, 308-309) in età storica il matrimonio ‘per ratto’ fosse stato sostituito da modi più civili di coniugarsi quali la confarreatio, il matrimonio religioso e solenne, l’usus, la convivenza continua e la coemptio, l’acquisto simbolico della donna. Soprattutto però l’uso di rapire delle donne senza poi restituirle utilizzato come causa di eventi bellici, troverebbe qui una sua applicazione in età storica, avendo già degni antenati in età mitica con Elena di Troia. Per quello che riguarda invece l’uso della lancia potrebbe trattarsi di un gesto atto a scongiurare il malocchio, con un suo parallelo nei riti indoeuropei (Rose 1924, 205) oppure se rimanda al taglio di capelli rituale potrebbe essere semplicemente un rito di passaggio. Per maggiori informazioni circa il matrimonio romano e come esso si inserisca nella panoramica dei rituali nuziali delle popolazioni di matrice indoeuropea vd. Dumézil 1984. 86 Rom. 16,1. 87 «Plutarco (…) considera sabine le città di Cenina, Antemnae e Fidene, che entreranno in guerra con Romolo. In effetti, si trattava di centri latini; inoltre, la loro assimilazione indebita ai Sabini è in chiaro contrasto con quanto Plutarco ha detto prima sulla mancanza di fortificazioni tra i Sabini stessi» (Ampolo – Manfredini 84 85
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gli abitanti superstiti a trasferirsi nell’Urbe 88; seguono Fidene, Antemnae e Crustumerium 89, anch’esse immediatamente sconfitte, le quali subiscono una sorte peggiore: i loro cittadini vengono ‘invitati’ a unirsi a Roma e i loro campi assegnati ai cittadini romani, ad eccezione di quelle terre appartenute ai Sabini, padri delle ragazze rapite, che rimangono di proprietà dei vecchi possidenti, a mo’ di risarcimento 90. I Sabini a questo punto, sotto la guida di Tito Tazio, marciano contro Roma; si inserisce qui l’episodio riportato anche da Livio della vergine Tarpeia, figlia del comandante Tarpeio: ἀλλὰ θυγάτηρ ἡ Ταρπηία τοῦ ἄρχοντος οὖσα προὔδωκε τοῖς 91. Tarpeia, desiderosa di possedere i bracciali di cui erano adorni i Sabini, propone loro di aprire le porte della città, a patto che le dessero in compenso ciò che portavano al braccio sinistro; Tito Tazio, che odiava i traditori, ordina ai Sabini di consegnarle quanto pattuito ed egli stesso, toltosi dal braccio sinistro assieme ai bracciali anche lo scudo, li scaglia contro la ragazza, la quale muore schiacciata dal peso degli scudi e dell’oro dei bracciali. In seguito anche Tarpeio, il padre della giovane, accusato di tradimento, viene condannato a morte da Romolo 92. I Sabini comunque ora si trovavano sul Campidoglio e il re di Roma ingaggia battaglia 93, ma lo scontro si interrompe per quello che Plutarco definisce uno ‘spettacolo straordinario’, δεινὸν ἰδεῖν θέαμα 94: le figlie dei Sabini, che erano state rapite, appaiono da ogni parte, frapponendosi tra le armi e i cadaveri, con pianti ed urla, separando i padri dai mariti, alcune coi figlioletti tra le braccia, altre 1988, 311). Il nome del re poi non compare in nessun’altra fonte, nonostante anche Livio parli della guerra tra Roma e questa città, probabilmente risale quindi alla tradizione antiquaria o alla storiografia latina in lingua greca, non trattandosi di un nome né latino né italico (Ampolo – Manfredini 1988, 312). 88 Rom. 16,2-3. 89 Plutarco cita le stesse città che si ritrovano in Livio (1,10,2) con l’aggiunta di Fidene, città che sorgeva a sei miglia da Roma, lungo il Tevere e, probabilmente, come si intuisce dall’estensione dell’abitato, portato alla luce dagli scavi, si trattava di un centro di media importanza (Q uilici 1976, 263). Secondo Livio la città sarebbe caduta soltanto nel 426 a.C., in quanto forte dell’appoggio degli Etruschi di Veio (4,3,1); come si è già detto (vd. supra) gli storici antichi hanno cercato di concentrare tutte le guerre che i Romani hanno mosso per il controllo del territorio circostante, la parte più prossima a Roma, nei primi anni del regno di Romolo. 90 Rom. 17,1-2. 91 Rom. 17,2. Cf. Bruggisser 1987, 208-211. 92 Rom. 17,3. 93 Rom.18,2. 94 Rom. 19,1.
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coi capelli scarmigliati, tutte chiamando coi nomi più dolci ora i Sabini ora i Romani: οὐ γὰρ ἤλθετε τιμωρήσοντες ἡμῖν παρθένοις οὔσαις ἐπὶ τοὺς ἀδικοῦντας, ἀλλὰ νῦν ἀνδρῶν ἀποσπᾶτε γαμετὰς καὶ τέκνων μητέρας 95. Il loro intervento ha un lieto fine e commossi, gli uni e gli altri, indietreggiarono per fare largo alle donne tra i due schieramenti, decidendo di unirsi in un unico regno sotto la co-reggenza di Romolo e di Tito Tazio: βασιλεύειν δὲ κοινῇ καὶ στρατηγεῖν ἀμφοτέρους 96. Il testo di Plutarco è, tra quelli sopra esposti e analizzati, il più completo e dettagliato; oltre all’intento eziologico e alla volontà dell’autore di esporre tutte le versioni differenti che circolavano alla sua epoca su quell’avvenimento, vengono inseriti particolari di grande importanza. Per prima cosa qui viene esplicitato il gesto che compie Romolo per dare il via alle cosiddette ‘proposte di matrimonio’ dei Romani, togliendosi e rimettendosi il mantello purpureo. Nell’affresco di Cambiaso ciò è ripreso tale e quale, con una piccola differenza: il re, rappresentato sulla sinistra dell’affresco, indossa un mantello, chiuso al collo ma tirato indietro sulle spalle, come se lo fosse appena reindossato, ma si tratta di un mantello di colore ceruleo e non rosso. A indossare un mantello rosso è invece Tito Tazio in un altro dei riquadri della volta, nel momento in cui corrompe Tarpeia, riquadro in cui Cambiaso sembra preferire la versione in cui la giovane tradisce Roma perché è innamorata e desidera il re dei Sabini, piuttosto che quella di possedere i loro monili d’oro. Gli elementi plutarchei dell’affresco a nostro parere terminano qui; la scena è ambientata durante i ludi, in ambiente cittadino ma questo è un dato presente anche in Livio e Ovidio, mentre manca nel nostro autore la descrizione dei Romani più anziani che rimangono in disparte, lasciando ai loro clienti la parte più ‘fisica’ della faccenda: quella di rapire le vergini sabine. Rom. 19,4-5. Rom. 19,9. Secondo Plutarco, che, come si è visto, segue nella sua esposizione del fatto un intento di tipo eziologico, le trenta Curie volute in seguito da Romolo prenderebbero il nome proprio dalle donne rapite che, secondo alcuni storici antichi, sarebbero appunto trenta (Dion. Hal., A.R. 2,45,1; 2,46,2. Plut., Rom. 14. Cf. Bruggisser 1987, 218). Q uesta idea è condivisa anche da Livio (1,13,6) e da Cicerone (rep. 2,8). Su questo argomento e per ogni approfondimento si rimanda al volume di Smith, di recentissima pubblicazione (Cavalieri – Smith 2017). 95 96
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6. Alcune considerazioni Si è visto fin qui come Livio, Ovidio e Plutarco abbiano descritto il medesimo episodio, rispettando i canoni imposti dal genere letterario a cui si rifacevano: poesia o storiografia; sebbene Livio sia considerato dalla Moceschi più un poeta che uno storico 97, è chiaro che lo strumento stesso del verso permette a Ovidio una più ampia libertà ed espressività, quindi una ‘pittoricità’ più presente nelle sue parole. Esistono alcuni elementi comuni a tutti e tre gli autori; lo svolgersi del fatto durante uno spettacolo, un segnale specifico che ha dato inizio all’azione, univoco e ben comprensibile a tutti, e la confusione creata durante il rapimento delle donne. Anche questi elementi però presentano alcune diversità; nell’Ars si parla uno spettacolo ambientato in un contesto bucolico 98; il segnale dato espressamente da Romolo si ha solo in Ovidio e Plutarco e solo in quest’ultimo è reso esplicito 99; invece la gamma delle reazioni delle donne è resa con maggiore o minore pathos a seconda dell’autore 100. L’iconografia del Ratto costituisce uno di quelli che Dardenay chiama «les motifs classés (ceux que l’on retrouve dans d’une version à l’autre)» 101; già in un denario risalente al I sec. a.C., il quale presenta sul recto il ritratto barbuto di Tito Tazio, si vede sul verso l’immagine di due soldati romani che trascinano via due donne sabine, tenendole per la vita, mentre queste si dimenano con le braccia rivolte verso l’alto, sperando in un soccorso o in una protezione 102. In generale, la rappresentazione del rapimento di una donna ad opera di un uomo apparteneva a un repertorio ormai standardizzato, derivante dal primo rapimento mitico perpetrato a scopo matrimoniale, cioè quello di Kore o Proserpina da parte di Ade, ed è qui che bisogna rintracciare gli illustri ispiratori di questa scena, ravvisabili come in una filigrana dietro alla grande maestria pittorica e artistica di Luca Cambiaso. Per quanto riguarda le influenze letterarie degli autori classici invece la situazione è ben più delicata. Moceschi 1982. ars 1,108. 99 Rom. 14,5. 100 Vd. supra. 101 Dardenay 2013, 163. 102 Museo Civico Archeologico di Bologna, inv. n. 26656. 97 98
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Sicuramente il secolo XVI era un grande estimatore delle Vite di Plutarco; «si ritrovano [nella biblioteca personale di Gian Vincenzo Imperiale] infatti ben tre edizioni dell’opera: ‘Plutarcii, Vitae volgare, in 4’, ‘Plutarco, Vite, parte seconda, in mezzo’ e ‘Plutarci Vite in foglio’ (…). La consistenza di questo corpus plutarcheo, arricchita da un volume degli Apoftegmi Spartani e da una copia dei Moralia segnala un grande interesse per le opere dello scrittore e filosofo greco (…)» 103. Q uesta grande attenzione per le Vite di Plutarco indica che, con molta probabilità, si trattava di un testo di grande valore per il suo possessore, un testo che veniva frequentemente letto e seguiva addirittura il nobile genovese nei suoi spostamenti, data la presenza di un testo in formato da viaggio elemento questo che induce a immaginare «un ruolo determinante della storiografia plutarchea nella definizione dei soggetti per i numerosi affreschi storici voluti da Vincenzo Imperiale per le sale del grande piano nobile del palazzo [di Campetto]» 104. Gli studiosi di storia dell’arte sono unanimi nel ritenere che Plutarco sia stato, grazie anche alla circolazione della sua opera in traduzione latina, l’autorità indiscussa per tutta l’iconografia profana del Cinquecento europeo 105, e sicuramente questo vale anche per Cambiaso 106. Sarebbe complesso affermare in quale misura e che cosa, il nostro autore abbia attinto dagli scrittori antichi; possiamo solo notare come alcuni dettagli ne richiamino uno piuttosto che l’altro, ad esempio il particolare del mantello. Proprio questo ragionamento però induce a fare ulteriori osservazioni, Montanari 2014, 115. Montanari 2014, 116. L’autore dell’articolo si sta riferendo in al Palazzo degli Imperiale a Campetto, ma il discorso può essere applicato senza problemi anche alla residenza fuori città del nobile, data la presenza di testi in formato ‘trasportabile’. 105 Guerrini 2001, XV. Per citare alcuni lavori sull’importanza di Plutarco per l’iconografia cinquecentesca: Guerrini 1998, Montanari 2014, Montanari 2015. 106 Tito Livio era già stato proposto come ispiratore di Cambiaso, nello specifico degli affreschi di Villa Grimaldi-Sauli, sempre a Genova, riguardanti Scipione l’Africano, dagli studiosi Suida (Suida-Manning – Suida 1958) e Schulz (Schulz 2007). In realtà, come rivela Montanari: «Livio concentra infatti l’attenzione principalmente sugli eventi bellici che vedono coinvolto l’Africano durante le numerose campagne che egli intraprende sino ad arrivare alla decisiva vittoria su Annibale, riportata su suolo africano nei pressi di Zama. Tutto il contrario delle immagini che scorrono» (Montanari 2015, 43), le scene scelte dal pittore infatti non hanno nulla a che vedere con il mondo della guerra, piuttosto sono scene che si ritrovano così descritte nelle coeve edizioni plutarchee. È interessante quindi notare come questo autore fosse fonte per le rappresentazioni artistiche di Cinquecento e, con le dovute precauzioni, si può avanzare un discorso simile anche per quello che riguarda il nostro affresco, o meglio il ciclo di affreschi. 103 104
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soprattutto su chi ha riportato il fatto, domandandosi il perché di alcuni particolari differenti. Per quanto attiene alle altre fonti letterarie oggi perdute 107 come Fabio Pittore e Valerio Anziate, le informazioni che esse riportano riguardano soprattutto il momento storico in cui si verificò l’evento 108, oppure il numero delle donne rapite 109. Ma i tre autori analizzati nel presente lavoro mostrano particolari così differenti che è possibile supporre che gli scrittori, a loro precedenti, cui hanno attinto, non fossero gli stessi. Il lavoro di Livio si colloca ai tempi della diffusione delle grandi biblioteche pubbliche 110; per volontà di Augusto infatti, la capitale era stata impreziosita con ricche e importanti biblioteche, le cui origini sono da ricercarsi nelle collezioni private della tarda Repubblica. Q ueste biblioteche «potevano promuovere nuova letteratura, favorire o limitare la sua trasmissione, agevolare l’accesso a manoscritti preziosi (ma anche concentrare in singoli spazi quegli insostituibili volumi, assai vulnerabili alla distruzione e al fuoco), e fungere da luoghi d’incontro per dibattiti formali o informali, discussioni e spettacoli» 111. L’ammissione o, al contrario, l’esclusione di un determinato autore dagli spazi della biblioteca poteva influire già in età contemporanea alla sua sopravvivenza e diffusione, al punto che molti autori, per esempio Marziale 112, speravano e imploravano un loro posto all’interno di questi luoghi del sapere. Possiamo quindi affermare che Livio abbia letto e attinto da fonti oggi per noi sconosciute, fonti che, dopo un’attenta rilettura in chiave ‘nazionalista’, il Patavino ha deciso di utilizzare o meno per il proprio racconto del Ratto delle Sabine. Anche Ovidio vive e opera nel contesto culturale augusteo; membro del circolo di Messalla Corvino, assiste alla creazione della Cornell 2013. Fab. Pict. FRHist 1F6, Cn. Gell. FRHist 14F1. 109 Val. Ant. FRHist 25F5. 110 Per quanto riguarda lo sviluppo e la diffusione delle biblioteche nel mondo romano, dalla nascita delle grandi collezioni repubblicane per volontà di privati, alla diffusione di biblioteche pubbliche nel periodo che va da Augusto ad Adriano, la loro funzione politica e sociale, il patrimonio che si suppone ospitassero e tutte le implicazioni che questo sistema culturale ha avuto si rimanda a Casson 2001 e Meneghini – Rossella 2013. 111 Nicholls 2014, 82. 112 Mart. 5,5. 107 108
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grande biblioteca pubblica voluta da Augusto, fatta costruire nel portico di Ottavia 113, ha a disposizione un gran numero di testi che riportano la storia del primo matrimonio collettivo dei Romani. Lo stesso dicasi anche per Plutarco, il quale, nella sua vita, ha compiuto numerosi viaggi nella capitale, avendo così modo di consultare personalmente i testi su cui dibatte nelle Vite Parallele. Alla luce di questi ragionamenti possiamo ora trarre le nostre conclusioni.
7. Conclusioni L’affresco di Villa Cattaneo Imperiale e le suggestioni che esso ha raccolto dai diversi autori classici è, in realtà, motore di una serie di questioni aperte che illuminano non solo sul mondo della pittura Cinquecentesca ma, soprattutto, quello degli studi classici, in particolare il rapporto tra i grandi autori, quelli che sono giunti, più o meno integri fino a noi, e degli autori minori da cui essi hanno attinto per le loro opere. L’episodio del Ratto delle Sabine in particolare è stato letto in chiave diversa e piegato, di volta in volta, alle esigenze di chi lo ha tramandato; c’è chi vi ha visto un gesto necessario, dovuto alla crudeltà dei popoli vicini che non volevano accettare la volontà degli dèi di porre accanto a essi una città destinata a diventare caput mundi 114, come Livio, oppure chi un ‘premio’ concesso da Romolo ai propri soldati, bramosi di unirsi a delle donne, dettato dall’impulso di Amore e delle sue promesse 115, come Ovidio, chi invece una mossa saggia operata da Roma, necessaria per espandere il proprio territorio, accrescendo il numero dei propri cittadini e creando così tra conquistati e conquistatori un legame indissolubile, in modo da evitare altri atti violenti 116, come Plutarco. Abbiamo notato come però, nonostante il fatto resti pressoché invariato nelle sue linee generali e principali – l’invito alle popolazioni confinanti, lo spettacolo, il rapimento delle donne e il matrimonio che ne segue, la guerra con i popoli ‘derubati’ e la pace ristabilita dalle Sabine – alcuni elementi secondari, quasi di con Suet., gramm. 21. Liv. 1,9 – 13. 115 Ov., ars 1,11-126. 116 Plut., Rom. 14-19. 113 114
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torno, non trovino riscontro unanime in tutti gli autori: la tipologia del segnale e di chi dovesse darlo, l’ordine con cui si svolgono le guerre contro i Latini e, addirittura, quali popoli fossero coinvolti, sono elementi su cui non c’è concordanza. Tale elemento ci autorizza a ritenere che tali divergenze dovessero nascere da lontano; è quindi opportuno, se non doveroso, ritenere che Livio, Ovidio e Plutarco abbiano prediletto, se non persino attinto da fonti differenti, oggi per noi perdute. Come per Cambiaso, nel cui lavoro si sono voluti ricercare gli echi letterari di chi lo ha preceduto, lavorando egli in un mondo in cui la cultura è protagonista, grazie ai patrimoni librari e collezionistici dei grandi Signori del XVI secolo, secolo che vede finalmente il successo delle Vite di Plutarco, conseguito soltanto grazie alla traduzione dell’opera in lingua latina, che lo rendeva allora fruibile e leggibile per un pubblico più vasto, è possibile anche leggere dietro ai nostri tre autori i gusti letterari del secolo in cui sono vissuti. Chissà se la fortuna di determinate fonti minori, oggi per noi quasi sconosciute, non sia stata oscillante nel tempo e se, in diversi periodi storici, l’una non sia stato preferita all’altra, per moda o anche semplicemente per fruibilità, e che, in questa maniera, i dettagli, da essa riportati, non si siano imposti rispetto a quelli delle fonti ‘concorrenti’. In questa sorta di gioco di specchi possiamo quindi apprezzare come il Ratto delle Sabine, abbia valicato i confini dei volumina, prima, e della pergamena, poi, per continuare a costituire un tema vitale, passibile di oscillazioni tematiche nel suo significato più profondo e di nuove interpretazioni, o semplicemente scelte, per quello che riguarda i suoi elementi di contorno. Forse, quel mantello ceruleo, non riportato da alcuna fonte a nostra disposizione, potrebbe essere invece un elemento riportato da qualche autore minore a noi non pervenuto, ma che, già notata da Plutarco, potrebbe essere arrivata fino agli occhi di Cambiaso, il quale, dato il grande patrimonio librario che circolava nella Genova Cinquecentesca, potrebbe aver avuto a disposizione un’altra fonte antica tout court, da cui attingere e da contaminare con gli altri testi posseduti dal suo committente e giunti sino a noi. Ma, fino a quando non si faranno nuove scoperte o gli studi sulla storiografia frammentaria antica non porteranno nuovi risultati, queste rimangono solo supposizioni.
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Fig. 1 Luca Cambiaso, Il Ratto delle Sabine, Genova, Palazzo Imperiale.
Fig. 2 Luca Cambiaso, Il Ratto delle Sabine – particolare.
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INDICI Indice dei nomi, dei luoghi e delle cose notevoli Indice dei passi citati Indice dei manoscritti
INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
I personaggi romani sono ordinati secondo il nome gentilizio e sono accompagnati, ove possibile, dall’indicazione cronologica della prima magistratura maggiore rivestita. Fanno eccezione gli imperatori e una minoranza di personaggi di età imperiale (ad es. Druso Maggiore). L’indice include anche autori antichi di cui si è fornita una discussione di una qualche ampiezza, indicizzati secondo il nome corrente. Sono inclusi gli editori di Livio fino a Drakenborch compreso. Per i nomi di cui esiste una forma latinizzata è stata adottata la forma di volta in volta impiegata nel testo.
XII tavole: 224, 381 n. 71, 404, 415 (e n. 2), 416 ‘Abd al-Rahmān III al-Nāsir (califfo ˙ 644 ˙ andaluso): Acarnani: 294-295 Acerra: 279, 296 Achei: 285-286, 447, 448 n. 8, 462 Acilio, Gaio (annalista): 234, 575 Acilio Glabrione, Manio (cos. 191 a.C.): 280-281 Achilla (ufficiale egiziano, uccisore di Pompeo): 365, 623 Achille: 793 Acrone: 612 n. 13, vd. pseudo-Acrone Acrone (re di Cenina): 833 Acruvium: 468 Ade: 814 (e n. 13), 815 n. 14, 836 Adeo (legato di Perseo): 459 Adriani, Marcello Virgilio: 716 Afranio, Lucio (cos. 60 a.C.): 348, 622 n. 39 Agamennone: 793 Agesilao: 124 Agnadello, battaglia di: 739
Agostino: 56, 103, 317, 610 (e n. 4), 630 (e nn. 6-7), 631, 634 (e n. 19), 639 n. 35, 643, 648, 677, 678 n. 15, 681, 741, 751 Aiace: 262 Alba/Albani: 329 n. 27, 419-420, 422, 429-431, 434 (e n. 93), 435-436, 438, 503 Alba Fucens: 555 n. 23 Alberti, Leon Battista: 731 Alberti, Niccolò: 673 n. 1, 680 Alcibiade: 210 Alessandria: 333, 336, 338 Alessandro (stratego etolo): 285 Alessandro Magno: 126, 205, 374 n. 16, 568, 770-771 al-Hakam II al-Mustansir (califfo an˙daluso): 644, 647 ˙ Alighieri, Dante: 221, 647, 716, 739 Allia, battaglia dell’: 364, 523 Allucio (nobile ispanico): 114, 122 (e n. 25) Alpi: 153 n. 36, 154 n. 38, 211 Alviano, Bartolomeo d’: 728 Ambracia: 332
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INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
Amilcare Barca: 738 Aminandro (re di Atamania): 283-284 Ammiano Marcellino: 586, 591-593 Ampelio: 356 Amulio: 503-504 Anco Marcio: 217, 268 n. 39, 418-419, 421-422, 430 n. 76, 439 Anicio Gallo, Lucio (cos. 160 a.C.): 446, 460-470 Aniene: 547, 561, 820 n. 26 Annales Maximi: 602 Annibale: 58 n. 60, 136 n. 50, 143, 144 n. 16, 145-148, 150-151, 153155, 177, 182 n. 22, 188 (e n. 40), 189 n. 44, 228-229, 235, 239, 275 n. 3, 277-279, 287 (e n. 44), 289, 295-296, 307, 309, 386-387, 392 n. 127, 408, 477, 485-490, 492493, 524, 525 (e n. 19), 538, 547, 554-556, 586-587, 616-617, 738739, 743, 745, 758, 760, 768-770, 786, 837 n. 106 Annibale Monomaco (consigliere di Annibale): 287 n. 44 Annio Milone, Tito (pr. 55 a.C.): 260 n. 25, 361 Annio Setino, Lucio (leader latino): 699-703, 710 Annone (ufficiale cartaginese): 144 Antemnae: 437, 438 n. 115, 819 (e n. 26), 820 (e n. 27), 834 Antenore: 503, 619, 675-676 Anthologia Salmasiana: 19, 29, 631, 633-640 Antigono III Dosone (re di Macedonia): 285 Antioco III (re di Siria): 101-102, 200, 276-277, 279-283, 288-296, 616 Antistio, Marco (tr. pl. 319): 372, vd. anche lex Antistia Antonio, Marco (cos. 44 a.C.): 211, 213, 215, 332-340, 342-343, 359, 614, 615 n. 18 Appiano: 140, 183 n. 24, 228, 352, 355, 357, 359, 363, 523, 531 n. 41, 810 n. 4 Appio Erdonio: 265 Apollo: 105, 337-338, 342-343 Apollonia: 451 (e n. 27), 452-454, 463464, 466
Apollonide (nobile siracusano): 705706, 711 Apulia: 555-556, 560, 562 Aquileia: 456 n. 48, 572 Arato di Sicione (stratego acheo): 287 Arco di Costantino: 527 n. 24 Arco di Settimio Severo: 527 n. 24 Arco di Tito: 514 Ardea: 363-364 Argento, Gaetano: 749 Ariccia: 431 Aristeno (stratego acheo): 285 (e n. 38) Aristotele: 646, 679, 681, 739, 741, 773 Armenia: 211, 336, 338 Arpi: 556 Ascanio: 587, 618 Asconio Pediano: 9, 13, 23, 260 n. 25 Asdrubale Barca (fratello di Annibale): 98, 100, 179 n. 11, 180 n. 14, 181182, 183 nn. 24-25, 185-186, 190, 253 n. 13, 616-617 Asdrubale Giscone: 153 n. 36, 563 Asdrubale Haedus (politico cartaginese): 59 Atamania/Atamani: 281 (e n. 23), 283284, 287 Atena: 106 Atene: 119 n. 18, 363, 623 Atilio, Lucio (tr. pl. 210 a.C.): 380 Atilio Regolo, Marco (cos. 294 a.C.): 253 n. 12 Atilio Regolo, Marco (cos. 267 a.C.): 106 (e n. 50) Atilio Regolo, Marco (pr. 213 a.C.): 382 (e n. 76) Attalo III (re di Pergamo): 447 n. 5 Atto Navio (augure): 435 Augusto: 16, 26, 148, 201, 202 n. 9, 203, 205, 209, 211-218, 234 n. 61, 242, 251, 253 n. 13, 254 (e n. 14), 273, 304-305, 307, 312-313, 319-320, 331-344, 348 (e n. 5), 349, 359, 362, 366, 408, 409 (e n. 226), 421, 428, 438, 586, 600, 613-614, 615 n. 18, 718, 785 n. 19, 818, 820, 825, 826 (e n. 54), 838 (e n. 110), 839 Aulisio, Domenico: 747 Aulo Gellio: 122 (cos. 391 d.C.): Aurelio Simmaco, Quinto 609, 629
848
INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
Aurelio Vittore, Sesto: 20, 30, 718 Aurunculeio, Gaio (pr. 209 a.C.): 374, 377 n. 42 Ausculum: 556, 754 Ausonio: 609 Aventino: 98-99, 267, 309, 574, 604, 724 Avieno: 618 n. 27 Avignone: 49, 56 Azio, battaglia di: 16, 26, 209-213, 331344 Baetis: 179 Bamberga: 38, 49, 57, 60-62 Barbeyrac, Jean: 758 Bartolo da Sassoferrato: 741 Bassania: 463, 467 (e n. 96) Bastarni: 448 n. 14 Bedriaco, battaglia di: 526 Benevento: 228 Benvenuto da Imola: 681 n. 24 Bernardo di Utrecht: 680 Bersuire, Pierre: 782 Birago, Lampugnino: 328 Blado, Antonio: 736 Bobbio, Abbazia di: 49 n. 23, 58 Boccaccio, Giovanni: 588 (e n. 10), 653, 659, 795 Boezio: 653, 681, 682 n. 26, 791, 794 Bonamici, Lazzaro: 773 Boncompagni, Minosse: 717 n. 8, 719 Borghese, Scipione: 815 n. 14 Borromeo, Carlo: 736 Borromeo, Federico: 736 Bovillae: 260 n. 25, 549 Bracciolini, Jacopo: 716 Brescia, Albertano da: 797 Brindisi: 448 (e n. 11), 452-453, 456, 614 Buondelmonti, Zanobi: 693, 698 Bussi, Giovanni Andrea: 81-95 Caco: 503 Calatia: 555 Calcide/Calcidesi: 291, 292 n. 60 Cales: 555 n. 23 Callicino, battaglia di: 455 Callistene (storiografo): 221 n. 5 Calpurnio Pisone Frugi, Lucio (tr. pl. 149 a.C., cos. 133 a.C.): 169 n. 24
Calpurnio Pisone Frugi, Lucio (cos. 15 a.C.): 214 Cambiaso, Luca: 20, 30, 810-840 Campidoglio: 250 (e n. 2), 251-252, 265-266, 269-271, 363-364, 507509, 512, 834 Campo Marzio: 102, 253 n. 13, 504, 546 Campania: 279, 363 n. 84, 373, 376 n. 37, 546, 554-555, 559 n. 31, 561562, rogatio de Campanis: 372, 374, 376 n. 37, 379, 381-382, 393-394, 399 Canne, battaglia di: 17, 27, 112 n. 3, 143, 203, 287 n. 44, 309, 391, 401, 521-539 Canosa: 531, 556 Capena/Capenati: 547, 551 (e n. 14), 561 Capua: 119 n. 18, 382 n. 76, 387 n. 103, 554-555 Carbach, Nikolaus: 36 Carlo VI (imp. del Sacro Romano Impero): 746 Carlo VI (re di Francia): 800 Carlo Emanuele III (re di Sardegna): 752-753 Carni: 455 Caronelli, Francesco: 797 Carseoli: 555 n. 23 Casilino: 279, 296, 555 Cassio Longino, Gaio (cos. 171 a.C.): 464 Cassio Longino, Gaio (cesaricida, tr. pl. 49 a.C.): 336, 347-348 Cassio Longino, Q uinto (pr. 167 a.C.): 466 Cassio Vecellino, Spurio (cos. 502 a.C.): 226 (e n. 35) Casteggio, battaglia di: 278 Castore e Polluce: 233 Catullo: 612, 658, 666 n. 33 Cavalcanti, Giovanni: 725 Cecilio Metello, Q uinto (cos. 206 a.C.): 141 n. 7 Cecilio Metello Cretico, Q uinto (cos. 69 a.C.): 356-357 Cecilio Metello Pio Scipione Nasica, Q uinto (cos. 52 a.C.): 348, 361 Celio, Lucio (leg. 170 a.C.): 460-462
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INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
Celio Antipatro: 141 n. 8, 142 nn. 9 e 10, 178 n. 7, 229, 244-245, 611 Celio Rufo, Marco (pr. 48 a.C.): 364 Celtiberi: 115, 127, 179 (e nn. 10-11), 180 n. 14, 182-186, 190-191 Cenina/Ceninesi: 424, 819 (e n. 25), 820 n. 27, 833 Cere: 364 Chartres: 41, 783 Ciccarelli, Antonio: 20, 30, 740-745, 759-760 Cicerone: 13, 23, 59 n. 64, 82, 101, 104, 131 n. 43, 161, 163-165, 166 n. 13, 175 (e n. 41), 228, 233-234, 241-242, 253 n. 13, 260 (e n. 25), 261, 315, 317, 320-324, 352, 357, 358 n. 62, 359, 361-364, 370 n. 5, 381 n. 68, 390, 404 (e n. 199), 420, 424, 426 (n. 54), 428, 433, 438, 522 n. 5, 612, 619, 622, 653, 654 n. 7, 657, 679, 682 (e n. 26), 683, 725, 741, 758, 768-769, 773-774, 819 n. 22, 826 n. 54, 835 n. 96 Cilicia: 356 Cincio Alimento, Lucio (pr. 210 a.C.): 143 Cinea: 324 Cino(s)cefale, battaglia di: 159, 174, 280 (e n. 19), 282, 477-485, 493 Cipriano: 82 Cipro: 365 Circo Massimo: 509 Claudia Q uinta (vestale): 309 Claudio, Q uinto (tr. pl. 218 a.C.): 384, 394, 405, vd. anche lex Claudia Claudio Asello (cavaliere romano): 119 n. 18 Claudio Centone, Appio (pr. 175 a.C.): 456-463, 467 Claudio Cieco, Appio (cos. 307 a.C.): 400 Claudio Crasso Inregillense Sabino, Appio (decemviro, cos. 471 a.C.): 257, 306-307, 319 n. 9 Claudio Glicia, Marco (dict. 249 a.C.): 586 Claudio Inregillense Sabino, Gaio (cos. 460 a.C.): 266 Claudio Marcello, Marco (cos. 222 a.C.): 143, 153 n. 36, 233, 373, 377, 383
(e n. 78), 386, 394, 401, 402 (e n. 191), 403 n. 197, 562, 786 Claudio Marcello, Marco (nipote di Augusto): 214 Claudio Nerone, Gaio (cos. 207 a.C.): 178 n. 7, 378 n. 52 Claudio Pulcro, Appio (cos. 212 a.C.): 143 Claudio Pulcro, Appio (cos. 185 a.C.): 293 Claudio Pulcro, Publio (cos. 249 a.C.): 586 Claudio Q uadrigario: 97, 178 n. 7, 225 Cleomene: 155 Cleopatra: 211-213, 332, 334, 336344, 421, 613, 623 Clemente VII (papa): 736 Clelia: 824 n. 42 Clito (stratego acarnano): 294 Cloaca Maxima: 509, 570 n. 12, 576, 577 n. 31 Clodio Pulcro, Publio (tr. pl. 58 a.C.): 260 (e n. 25), 361 Cluny, Abbazia di: 48 Cocceio Nerva, Lucio (leg. 37 a.C.): 614 Collazia: 304, 430, 432, 549 Colonna Aureliana: 17, 27, 527, 533537 Colonna, Giovanni: 654 Colonna, Landolfo: 41, 66, 674, 677, 679, 683 (e n. 29), 783 Colonna, Prospero: 739 Colonna Traiana: 17, 27, 527-532, 537 Comizio: 255 n. 16, 256, 259, 265, 501 n. 1, 505, 507-508, 512, 514 Commodiano: 591 Commodo: 590 Corbie, Abbazia di: 48 (e n. 16) Corcira: 450, 466 Corfinio: 361 Cornelia (madre dei Gracchi): 311 Cornelia Metella (moglie di Pompeo): 365, 622 Cornelio Cosso, Aulo (cos. 428 a.C.): 242 Cornelio Lentulo, Gneo (cos. 201 a.C.): 379 n. 53, 397 n. 165, 403 n. 197 Cornelio Mammula, Aulo (pr. 217 a.C.): 380 n. 61 Cornelio Nepote: 164-166, 175
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INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
Cornelio Cetego, Gaio (cos. 197 a.C.): 379 n. 53 Cornelio Scipione, Gneo (cos. 222 a.C.): 111, 177-192, 373, 393 Cornelio Scipione, Lucio (pr. 174 a.C.): 289 Cornelio Scipione Asiatico, Lucio (cos. 190): 231 Cornelio Scipione, Publio (cos. 218 a.C.): 111, 177-192, 373, 393 Cornelio Scipione, Publio (figlio del l’Africano): 310 Cornelio Scipione Africano, Publio (cos. 205 a.C.): 111-136, 139-155, 169, 187-192, 203, 205, 210, 229, 231232, 235, 244, 275 n. 3, 289, 297 n. 72, 310-311, 386, 393 n. 140, 403 n. 197, 477, 485-493, 558, 559 n. 31, 562, 698 n. 19, 718, 743, 769, 837 n. 106 Cornelio Scipione Emiliano, Publio (cos. 147 a.C.): 200, 234 n. 61, 310-311 Cornelio Silla, Lucio (cos. 88 a.C.): 201, 350-352, 363, 428, 651 Coronato: 631 Corrado d’Hirsau: 680 Costantino I: 527 n. 24, 651, 748 Costantinopoli: 650-651 Costanzo Gallo: 593 Coti (re degli Odrisi): 297 n. 72 Cremuzio Cordo: 347-348 Creta: 356-357 Creusa (moglie di Enea): 618 Crevier, Jean-Baptiste-Louis: 37 Crinito, Pietro: 715 Cristina di Svezia: 49 Crotone: 145 Crustumerium: 549, 562, 819 (e n. 26), 834 Cuma: 379 n. 55 Curia: 249, 256-257, 265, 268 Curia Hostilia: 361 Curio Dentato, Manio (cos. 290 a.C.): 551 n. 14 Dacia/Daci: 528, 529 (e n. 38), 531-533 D’Alessandro, Alessandro: 741 D’Andrea, Gennaro: 749 Dalmati/Dalmazia: 215, 449 n. 18, 469 n. 104, 470, 799
Daorsi: 466, 468 (e n. 99), 469 (e n. 104), 468 (e n. 89), 469 (e n. 104) Dardani: 448 n. 14, 457 Darete Frigio: 676, 766 n. 21 Dassareni: 466, 469 Dassareti: 453-457, 466 (e n. 89) De Beaufort, Louis: 221 Decebalo (re di Dacia): 529 Decemvirato: 206-207, 208 n. 23, 257258, 306-307, 316 n. 3, 319, 324, 416 n. 5, 743 Decimio, Lucio (leg. 172 a.C:): 450 (e n. 21) Decio Mundo (cavaliere romano): 588 Dellio, Q uinto: 340 Demetriade: 281, 296 n. 68 Demetrio (figlio di Filippo V): 280 Demetrio di Faro: 287 Demostene: 237 De viris illustribus: 161, 163-164, 166 (e n. 15), 175, 356, 718-733 Diadumeniano: 591 Didone: 305-306, 620 Diodoro Siculo: 139, 307, 448 n. 13, 585, 588, 766 n. 21 Diomede (grammatico): 610 Dione Cassio: 140-142, 148-149, 151152, 332, 334-335, 339-340, 341 (e n. 32), 343 n. 42, 357-358, 360, 362-363, 364 n. 124, 391 n. 124, 590-591, 636 n. 27, 748, 766 n. 21 Dione Crisostomo: 589 (e n. 14) Dionigi di Alicarnasso: 17, 27, 139, 262 n. 30, 307, 315-329, 417 (e n. 13), 419, 424, 426 (e n. 52), 428, 431-433, 434 n. 93, 435 n. 98, 436 n. 103, 437, 438 nn. 115 e 118, 572-573, 575, 635, 636 n. 27, 741, 744, 758, 810 n. 4, 819 nn. 22 e 26, 824 n. 42, 838 Dini, Vincenzo: 20, 30, 735-737, 739, 759-760 Dioscoride (legato egiziano): 623 (e n. 46) Ditti Cretese: 674, 766 n. 21, 783 Domiziano: 589 Domizio Enobarbo, Gneo (proscriptus): 352-353 Domus Publica: 514 Domus Regia: 514
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INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
Doni, Anton Francesco: 763, 765 Doria, Andrea: 739 Draconzio: 632, 633 (e n. 15), 634, 640 (e n. 36) Drakenborch, Arnold: 35 n. 1, 36-38, 63-64, 67 Draudacium: 459 (e n. 58) Druso Maggiore (cos. 9 a.C.): 214-218, 616 Dupuy, Claude: 46 Duronio, Lucio (pr. 181 a.C.): 449 nn. 18-19, 456 n. 48 Duker, Karl Andreas: 37 Durazzo/Dyrrhachium: 364, 451 (e n. 27), 452-454, 464, 466-467, 622 Ebro: 113, 115-116, 127, 132-133 Edoardo II (re d’Inghilterra): 680 Egitto: 336, 338-340, 364-365 Elagabalo: 591 Elba: 216 Elio Donato: 610 Elio Mancia Formiano: 352, 354 Ellesponto: 289-290 Emilia Terza (moglie di Scipione Africano): 310 Emilio, Marco (pr. 217 a.C.): 380 (e n. 61) Emilio Lepido, Marco (cos. 78 a.C.): 353-354 Emilio Paolo, Lucio (cos. 219 a.C.): 524 n. 16, 525 Emilio Paolo, Lucio (cos. 182 a.C.): 232, 310, 446, 449, 460-462, 465-466, 718 Emilio Regillo, Lucio (pr. 190 a.C.): 101-102 Enrico III (re di Francia): 745 Enrico di Gand: 680 n. 22 Enea: 305-306, 503, 618 n. 26, 619 (e n. 28), 620, 665 (e n. 31), 675-676 Ennio: 208 (e n. 23), 243, 612, 827 Enrico II (imp. del Sacro Romano Impero): 61 Epiro: 452, 460, 465 Equi: 258, 267, 431, 547, 561 Ercole: 503 Erodoto: 764, 766 n. 21 Ersilia: 437 (e n. 112), 438, 810, 820 n. 27, 824
Esiodo: 730, 814 n. 13 Esquilino: 268, 507, 509, 512, 527 n. 24 Etoli: 200, 280-285, 287, 291, 294, 296 n. 68, 280, 447 (e n. 5), 448 n. 8, 484 Etruria/Etruschi: 431, 546-547, 551 (e n. 14), 552-553, 561, 637 n. 29, 638, 820 n. 26, 824 n. 42, 834 n. 89 Ettore: 792 n. 38, 793 Eubea: 291 Eugenio: 599 Eumene II (re di Pergamo): 281, 448 (e nn. 8 e 13), 587 Eusebio di Cesarea: 647, 649, 680 n. 19 Eutropio: 339, 353, 599, 611 n. 10, 718, 720 Ezzelino III da Romano: 772 Fabia maggiore (figlia di M. Fabio Ambusto): 311 Fabia minore (figlia di M. Fabio Ambusto): 311 Fabio Ambusto, Marco (tr. mil. c. p. 381 a.C.): 311 Fabio Massimo Verrucoso, Q uinto (cos. 213 a.C.): 104, 128 n. 33, 132 n. 44, 187, 189-191, 210, 372, 378 n. 48, 383 n. 77, 384 (e n. 85), 385-386, 391 nn. 124-125, 392 Fabio Pittore: 204, 221 n. 4, 225, 407 n. 219, 503, 810 n. 4, 819 n. 22 Facio, Bartolomeo: 69 Falisci: 547, 551 (e n. 14), 561 Fannio (annalista): 611 Farsalo, battaglia di: 364, 622 Fasti: 37, 602 Fenestella: 741 Fere: 291 (e n. 58), 292 Feronia (divinità): 229, 235 Festo: 99, 106 n. 50 Feziali: 419-421, 432, 439 Fidene: 549, 834 (e n. 89) Filarco (storiografo): 222 n. 6 Filino di Agrigento (storiografo): 221 n. 4 Filippi, battaglia di: 337 Filippo V (re di Macedonia): 119 n. 18, 155, 200, 275, 277, 279-289, 293, 295-296, 447 (e n. 5), 454, 478,
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INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
480-482, 483 n. 17, 484-485, 488 n. 25 Filippo VI: vd. Pseudo-Filippo Fiocchi, Andrea: 741 Firenze: 19, 50-51, 696-697, 702, 708711, 765 Flaminio, Gaio (cos. 217 a.C.): 374, 384, 386, 392 n. 127, 394, 402 (e n. 191), 405 Flavio Arbitione (cos. 355 d.C.): 593 Flavio Felice: 631 Flavio Fimbria, Gaio (leg. 86 a.C.): 586 Flavio Giuseppe: 588 Floro: 340, 349, 356-358, 536, 585, 588, 617, 630 n. 7, 636 (e n. 27), 638, 674, 741, 810 Floronia (vestale): 309 Fonteio Capitone, Gaio (leg. 37 a.C., cos. suff. 33 a.C.): 614-615 Formione: 769-770 Foro: 99, 249-273, 501 n. 1, 505, 507508, 512, 575, Foro di Cesare: 507508, 509 (e n. 18), Foro di Augusto: 234, 507 Francesco I da Carrara: 790, 794-795, 796 (e nn. 53-54), 797-799 Fregellae: 555 n. 23 Frontino: 737 Fulgenzio di Ruspe: 632 (e n. 14), 634, 640 Fulvio Flacco, Gneo (pr. 212 a.C.): 372, 377, 378 n. 52 Fulvio Flacco, Q uinto (cos. 237 a.C.): 382 n. 76, 383, 386, 399 Fundanio, Marco (tr. pl. 195 a.C.): 308, 310 Furio, Gaio (leg. 170 a.C.): 456 (e n. 48), 457 Furio Camillo, Marco (tr. mil. c. p. 401 a.C.): 101, 203-206, 208, 212, 217 n. 35, 363 (e n. 87), 364, 366, 408 Furio Filo, Publio (pr. 174): 170 n. 29 Fusio, Spurio (pater patratus): 420 Gabinio (praef. 167 a.C.): 465 Gabinio, Aulo (cos. 58 a.C.): 356 Gallia/Galli: 160-161, 175 (e n. 41), 177, 214, 296 n. 70, 347, 359-360, 461, 651, sacco gallico: 130, 192 n. 51, 200-201, 203-204, 207, 208
n. 23, 212, 224, 225 n. 29, 270271, 363-365, 408, 575 Gambara, Umberto: 736 Gebhard, Jan: 37 Geiserico (re dei Vandali): 631 n. 10 Gelenius, Sigismund: 36, 49 Gemino (sicario di Pompeo): 354 Genzio (re d’Illirico): 445-470 Gerberto di Reims: 57-63 Germanico (cos. 12 d.C.): 216 Gerusalemme: 357, 621 Giacomo I da Carrara: 785 Giacomo II da Carrara: 790, 794, 795 (e nn. 44 e 49), 798 Gianicolo: 364, 439, 823 n. 42 Giannone, Giovanni: 750 Giannone, Pietro: 20, 30, 746-760 Gilberto di Poitiers: 681, 682 n. 26 Giolito, Gabriele: 766 (e nn. 19 e 21) Giovanni XXII (papa): 673, 677, 684 Giovanni XXIII (antipapa): 800 Giovanni Filagato: 60-61 Giovanni Malala: 649 Giovanni I (duca di Borgogna): 800 Giove: 253 nn. 11 e 13, 380, 419 n. 18, 754, 756 Giovenale: 612, 617 n. 24 Girolamo: 647, 680 n. 19, 784 (e n. 17), 785 Giulia (figlia di Cesare, moglie di Pompeo): 358, 360 Giuliano de’ Medici (figlio di Lorenzo il Magnifico): 694 n. 3 Giulio Cesare, Gaio (cos. 59 a.C.): 17, 27, 201, 319, 343-344, 347-349, 352, 354, 356, 358 (e n. 62), 359362, 364-365, 525 n. 19, 622-623, 674, 683 n. 28, 718, 737, 764 Giulio Cesare Ottaviano, Gaio: vd. Augusto Giulio de’ Medici: 696-697 Giulio Valerio: 589 Giunio Bruto, Lucio (cos. 509): 217, 319, 572, 574, 743 Giunio Bruto, Marco (pr. 88 a.C.): 351 (e n. 19), 352 n. 29 Giunio Bruto, Marco (padre del cesaricida, tr. pl. 83 a.C.): 353-354 Giunio Bruto, Marco (cesaricida, pr. 44 a.C.): 347-348, 611
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INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
Giunio Pera, Marco (dict. 216 a.C.): 373, 391 (e n. 125) Giunio Silano, Marco (pr. 212 a.C.): 116 Giunone: 100, 102-106, 253 n. 13, 309, 665 Giustiniano: 729, 747 Giustino: 305 Gneo Gellio (annalista): 819 n. 22 Gregorio Magno (papa): 758 Gronovius, Jacob: 37 Gronovius, Johann Friedrich: 37, 52 Gruter, Jan: 37 Grynaeus, Simon: 36, 38 Gude, Marquardo: 785 n. 19 guerra etolica (191-189 a.C.): 447 (e n. 5) guerra illirica: 16, 26, 445-470 guerre macedoniche: 209, 237, prima: 371, 377, 401, 403, seconda: 200, 209, 477-485, 788, terza: 200, 445470, 607, quarta: 583 guerre puniche: prima: 130, 199-200, 551 n. 14, 586, seconda: 19, 29, 98, 100, 111, 129-130, 143 n. 34, 147, 152-153, 179 n. 10, 187, 191, 198-201, 209, 237, 309, 324 n. 19, 371, 379, 406, 521, 547, 555, 558, 589 n. 11, 651, 693-712, 737, 785 guerre sannitiche: 130, 547, 554, prima: 547, 549, 554, 561, 701, seconda: 547, 555, terza: 253 n. 12, 309, 551 n. 14, 547, 651 Guicciardini, Francesco: 725 Guglielmo di Conches: 678 n. 15 Hafs al-Q ūtī: 644 ˙ ˙ ˙ Thomas: Hearne, 37 Heinsius, Daniel: 37 Herdonia: 555-556, 562 Historia Augusta: 590, 591 (e n. 22) Iapodi: 455 ˇ ulgˇ ul: 643 Ibn G Ibn Haldūn: 643, 646, 648 Icilio,˘ Lucio (tr. pl. 456 a.C.): 306 Ilderico (re dei Vandali): 631 Ilipa, battaglia di: 187 (e n. 36), 188 Illiri/Illirico: 213, 445-470
Imeneo: 821 n. 34 Imperiale, Gian Vincenzo: 818 Interamna Lirenas: 555 n. 23 Ionia/Ioni: 290, 650 Ippoloco (stratego etolo): 291 Irpini: 296 Isidoro di Siviglia: 621 n. 36, 647 (e n. 23), 679, 681, 683 Isocrate: 486 n. 23 Issei: 450, 456, 466 Istri: 455, 456 n. 48 Iuventas (divinità): 104 Labeati: 459, 467, 469 Lacus Curtius: 253-255, 430 n. 78 Lago Albano: 100 Lamia: 281 Lampsaco: 290, 291 (e n. 57), 294 Landino, Cristoforo: 716, 731 Laomedonte: 793 Larissa: 291-293 Latini: 421-422, 430 (e n. 76), 436, 700-701, 703, 707, 710-711, 820 n. 26, 840 Lavinia: 618 (e n. 26) leges Liciniae Sextiae: 256 n. 19, 312, 398 n. 170, 558 n. 28 Lelio, Gaio (cos. 190 a.C.): 115-117, 123, 488-489 Leone X (papa): 697 Lepanto, battaglia di: 769 Leto, Pomponio: 741 lex Acilia Minucia: 381 n. 69, 397 n. 165, 403 lex Antistia: 374 (e n. 16), 376 n. 37, 399 lex Claudia: 372, 374, 377 n. 43, 384, 386, 394, 401 lex Gabinia: 356-357 lex Licinia: 388 n. 109 lex Lucretia: 397 n. 165, 403 lex Manilia: 357 lex Metilia: 376 n. 36, 386-387, 394 n. 345, 397 n. 164, 399-401, 402 (e nn. 190 e 192) lex Oppia: 310, 400, 416 lex Terentilia: 257-259, 263-264, 407 lex Titia: 408 n. 224 lex Trebonia: 360 Libri Sibillini: 589, 603, 607
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INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
Licinio (Nerva?), Gaio (leg. 167 a.C.): 465 Licinio Crasso, Gaio (cos. 168 a.C.): 461 Licinio Crasso, Marco (cos. 30 a.C.): 214 Licinio Crasso, Publio (cos. 171 a.C.): 455, 456 (e n. 46) Licinio Crasso Dives, Marco (cos. 70 a.C.): 215, 350 n. 17, 355, 360 Licinio Crasso Dives, Publio (cos. 205 a.C.): 102 n. 26, 383 Licinio Imbrex (poeta): 102 n. 26 Licinio Macro (annalista): 317 Licinio Stolone, Gaio (cos. 364 a.C.): 311-312 Licinio Tegula, Publio (poeta innico): 98, 102, 107 Licinio Verre, Gaio (pr. 74 a.C.): 175 (e n. 41) Licnido: 446, 451 n. 27, 454-458, 460463 Licurgo: 125, 323 Ligustino, Spurio (centurione): 562 Lisimachia: 289 Lisso: 452, 454, 463, 466-468, 470 Literno: 229, 558, 562 Livio Andronico: 15, 25, 97-100, 102107, 224 Livio Denter, Marco (cos. 302 a.C.): 97 Livio Salinatore, Marco (cos. 219 a.C.): 97, 100, 104 Locri: 14, 24, 139-155 Lorenzo de’ Medici (duca di Urbino): 693, 694 n. 3, 696 Lorsch, Abbazia di: 36 Lovati, Lovato: 65, 654 (e n. 6), 680 n. 19, 783-785 Lucano: 349, 362 (e n. 79), 525-526, 610, 612, 616 nn. 19-20, 617 (e n. 24), 621-623 Lucca: 360 (e n. 70), 697 Luceria: 555 n. 23, 556 Lucilio: 612 (e n. 14) Lucrezia: 304-306, 572 Lucrezio: 612, 616 n. 19 Lucrezio, Spurio (praefectus urbis): 427 Lucrezio Tricipitino, Lucio (cos. 462 a.C.): 260 n. 25 Ludi Apollinares: 372, 378 (e n. 48), 388 n. 109, 403 n. 195
Ludi saeculares: 103-105, 107 Ludi Tarentini: 103, 105 Ludovico il Moro (duca di Milano): 708 Luigi I (re d’Ungheria): 798 (e n. 57) Luigi XII (re di Francia): 708, 811 n. 5 Luigi di Valois (duca d’Orléans): 800 Lusitani: 171 n. 29, 358 Lussorio: 631 Machiavelli, Niccolò: 17, 19-20, 27, 29-30, 315, 327-329, 693-712, 715-760, 765-767, 818 Macrino: 591 Macrobio: 306, 609, 617 n. 25 Maestro degli Antifonari, cd. (miniatore): 783 n. 9, 792 (e n. 36) Maestro del Collegio di Spagna, cd. (miniatore): 783 (e n. 10) Magone (ufficiale cartaginese): 117, 119, 123 Magone Barca (fratello di Annibale): 58 n. 60, 587 Maittaire, Michel: 35 n. 1 Malpaghini, Giovanni: 659, 661 Mandonio (re ispanico): 121-122 Manilio, Gaio (tr. pl. 66 a.C.): 357 Manlio Acidino, Lucio (pr. 210 a.C.): 379 n. 53, 403 n. 197 Manlio Capitolino, Marco (cos. 392 a.C.): 723 Manlio Torquato, Tito (cos. 347 a.C.): 119 n. 118, 718 Manlio Torquato, Tito (figlio del precedente): 119 n. 118 Manuzio, Aldo: 35-36, 738 Manuzio, Aldo, detto il Giovane: 20, 30, 737-740, 759-760 Manuzio, Paolo: 738, 773 n. 61 Marcanova, Giovanni: 785 n. 19 Marcio, Lucio (sottoufficiale romano): 178 n. 7, 180 n. 12, 393 Marcio Coriolano, Gneo: 226 (e n. 35), 309, 320, 321 (e n. 12), 322-323, 326 Marcio Filippo, Q uinto (cos. 186 a.C.): 460-462 Mario, Gaio (cos. 107 a.C.): 201, 348, 586 Mario Vittorino: 59 n. 64
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INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
Marte: 532, 788 Marziale: 611 (e n. 9), 636 (e n. 28), 637, 638 n. 32, 838 Marziano Capella: 59 n. 64 Massimiliano I (imp. del Sacro Romano Impero): 696 Massimiliano II (imp. del Sacro Romano Impero): 736 Massinissa: 189, 297 n. 72, 488-489 Massiva (nipote di Massinissa): 297 n. 72 Media: 338 Mecenate: 334, 341-342, 614 Medione: 294-295 Meinhard di Bamberga: 61 Menenio Agrippa (cos. 503 a.C.): 101, 224 Mercurio: 118 (e n. 14) Mesia: 529 n. 38, 531-532 Messene: 287 Metauro, battaglia del: 97-98, 203, 204 (e n. 16), 205, 210, 214 Meteon: 467 Metilio, Marco (tr. pl. 217 a.C.): 373, 384 (e n. 85), 397 n. 164, 401, 405, vd. anche lex Metilia Mezio Fufezio: 329 n. 27, 422 n. 33 Minucio Esquilino Augurino, Lucio (cos. suff. 458 a.C.): 226 (e n. 35) Minucio Rufo, Marco (mag. eq. 217 a.C., dict. 217 a.C.): 384 n. 84, 385, 400 n. 178, 401-402 Minucio Termo, Q uinto (cos. 193 a.C.): 169-171, 173 n. 36 Mitridate VI (re del Ponto): 357, 365 Modena: 353 Mnasiloco (leader acarnano): 294 Mussato, Albertino: 654 (e n. 6), 679 n. 16, 685 n. 32, 783 Muttine (luogotenente punico): 371 Muzio Scevola: 633-640, 823 n. 42 Nabide (re spartano): 285, 563 Napoli: 746-747 Nardi, Jacopo: 766 n. 18 Nectanebo: 588 Negro, Negrone di: 810, 811 (e n. 6), 818, 831 n. 74 Nestore: 793 Nettuno: 116, 134, 135 (e n. 47), 820, 832
Nevio: 105, 245, 612 Nicandro (stratego etolo): 281-283 Nicia: 210 Nicomachi: 598, 609 (e n. 2), 629 Nova Carthago (Cartagena): 14, 24, 111-136, 153 n. 36, 154 n. 38, 182 n. 22 Numa Pompilio: 417, 418 (e n. 15), 419, 439, 605-606, 755, 756 (e n. 31), 813, 818 n. 19 Numidi: 488-489, 524, 531, 538, 563 Oaneum: 459 (e n. 58) Olcinium: 465-467, 469 Olimpiade (madre di Alessandro Magno): 588 Omero: 339, 612 (e n. 14), 828 n. 64 Opimia (vestale): 309 Oppio, Gaio (tr. pl. 215 a.C.): 307 Oppio, Gaio (storiografo): 352 Orazi e Curiazi, duello tra: 119 n. 118, 226 (e n. 35), 419, 429, 744 Orazio: 105, 331, 333-334, 336-337, 339, 342, 610 n. 7, 612-617, 653, 656-657, 661, 725 Orazio Coclite, Publio: 823 n. 42 Orosio: 19, 29, 339, 353-354, 599, 611 n. 10, 630 (e n. 7), 631, 632 (e n. 13), 634 (e n. 20), 643-651, 683 n. 28 Orsini, Giordano: 790, 794, 796-797, 799 (e n. 62), 800 Ossequente, Giulio: 18, 28, 98 n. 9, 597-608, 611 Ostilio Mancino, Aulo (cos. 170 a.C.): 456 Ostio Ostilio: 252 Otone III (imp. del Sacro Romano Impero): 60-62 Ottavia minore (sorella di Augusto): 214 Ovidio: 20, 31, 306, 612, 725, 809, 810 n. 4, 825-831, 835-836, 839-840 Pacuvio: 612 Padova: 65, 772, 781, 785, 790-792, 794-796 Palmieri, Matteo: 725, 731 Paolina (matrona romana): 588 Paolini, Bernardino: 740 Paolino da Venezia: 684 n. 30
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INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
Paolino di Nola: 609 Paolo II (papa): 82, 95 Paolo III (papa): 736 Paolo Diacono: 82 Papiria (madre di Scipione Emiliano): 310 Papirio (pontefice massimo): 416 (e n. 5) Papirio Carbone, Gneo (cos. 85 a.C.): 351, 352 (e n. 29) Papirio Cursore, Lucio (cos. 326 a.C.): 374 n. 16 Papirio Peto, Lucio (amico di Cicerone): 352 n. 28 Palamede: 793 Palatino: 98, 251-252, 342, 423, 501 (e n. 1), 505, 507-508, 512, 514, 517, 568 Panormita, Antonio Beccadelli, detto: 69 Parti: 211, 215, 336, 338, 360 Partini: 454 Patrizi, Francesco: 20, 30, 724, 764, 768-771 Pentesilea: 793 Pergamo: 119 n. 118, 281 Pericle: 363, 649 Periochae: 17-18, 27-28, 93, 197, 211, 213-215, 217, 335, 339, 347-366, 583-595, 611 n. 10, 636 Perperna, Marco (leg. 168 a.C.): 462464, 467 Perperna Veientone, Marco (pr.? 82 a.C.): 354 Perrebia/Perrebi: 281, 284 Perseo (re di Macedonia): 171 n. 29, 200, 232, 235, 297 n. 72, 445-465, 583, 585 Persio: 612 Petau, Alexandre: 49 n. 22 Petillio, Lucio (leg. 168 a.C.): 462-464 Petit, Jean: 800 Petrarca, Francesco: 19, 29, 40 (e n. 8), 50 (e n. 28), 51, 52 n. 33, 53, 56-57, 62, 65-66, 69, 72, 653-669, 674, 681 n. 24, 716, 763, 781-783, 795 (e nn. 47 e 49) Petrucci, Pandolfo: 719-720, 727-732 Petronio: 612 Phanote: 460 Piacenza: 161, 174, 175 (e n. 42)
Piccolomini, Enea Silvio: 731 Pidna, battaglia di: 171 n. 29, 200, 204 (e n. 12), 232, 233 n. 52, 464, 583 Pietro Comestore: 683 Pirro (figlio di Achille): 675, 793 Pirro (re d’Epiro): 620 Pirustae: 466 (e n. 89), 468, 469 (e n. 104) Pista: 466, 467 n. 94 Platone: 395 n. 148, 404 n. 200, 741 Plauto: 260 n. 25, 612 Pleurato (legato di Perseo): 459 Pleurato (re d’Illirico): 449 (e n. 17), 450 Plinio il Giovane: 236-237, 523, 572, 574, 718 (e n. 11), 718 (e n. 11), 719, 721-722, 751 Plinio il Vecchio: 94, 210, 213, 255 n. 16, 237, 470, 572, 576, 639 n. 35, 715, 719, 824 n. 42 Plutarco: 140, 162-166, 168, 171, 173 (e n. 35), 174 nn. 37-38, 175, 287, 334, 337-340, 350-354, 391 n. 124, 417, 424 (e n. 52), 739, 741, 758, 764, 766 n. 21, 819 n. 22, 824 n. 42, 831-838 Po: 175, 177, 354 Polenton, Sicco: 9, 13 n. 1, 23 n. 1 Polibio: 15, 24-26, 111-136, 139 (e n. 2), 140, 142-143, 152-155, 171172, 178 n. 7, 191 n. 50, 204, 206, 221 (e n. 3), 222, 225, 235, 237, 279 (e n. 13), 282-283, 286-288, 310-311, 315, 317-319, 323-325, 327-329, 447 n. 2, 448 nn. 9 e 13, 449 (e n. 18), 459 n. 60, 462, 464 n. 81, 477-495, 522-523, 525, 585, 588, 611, 651, 741, 758, 764, 766 n. 21, 771 Pompeo (grammatico): 610 (e n. 6) Pompeo Magno, Gneo (cos. 70 a.C.): 17, 27, 201, 347-366, 615 n. 18, 621-623, 683 n. 28, 718 Pompeo Magno Pio, Sesto (figlio del precedente): 349, 365, 615 n. 18 Pompeo Trogo: 651, 684, 763 Pomponio Attico, Tito: 104, 165 (e nn. 8 e 13), 362-363 Porcacchi, Tommaso: 766 (e nn. 19 e 21)
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INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
Porcio Catone, Marco (cos. 195 a.C.): 159-175, 308, 390, 559, 574-575, 586, 618 n. 26 Porcio Catone, Marco (pr. 54 a.C.): 360, 622 n. 42 Porfirione: 612 (e n. 12), 613-615 Porsenna: 130, 634-635, 638-639, 823 n. 42 Porta Collina: 270-271 Porta Mugonia: 252 (e n. 10), 253 n. 13, 255 Poseidone: vd. Nettuno Postumio Pirgense, Marco (pubblicano): 372, 376 n. 37, 379, 393 n. 140 Preneste: 170 Priamo: 620, 675 Prideaux, Humphrey: 758 Prisciano: 105, 610 (e n. 7) Procopio di Cilicia: 592-594 Properzio: 208 (e n. 23), 341-344, 809, 810 n. 4, 826 Proserpina: 105, 814 (e n. 13), 815 n. 14, 836 Prusia I (re di Bitinia): 758 pseudo-Acrone: 612-613, 615-617 pseudo-Antonino: 591 pseudo-Egesippo: 588 pseudo-Filippo: 583-594 pseudo-Nerone: 589 Publicio Bibulo, Gaio (tr. pl. 209 a.C.): 373, 385, 397 n. 164, 402 (e n. 190), vd. anche rogatio Publicia Publilio Volerone (centurione romano): 256 Q āsim ibn Asbaġ al-Bayyānī: 644 Q uintiliano: ˙238, 243, 523, 659 n. 18, 662 n. 25 Q uintiliano (pseudo): 59 n. 64 Q uintilio Condiano, Sesto (cos. 180 d.C.): 590, 592 Q uinto Curzio: 763 Q uinzio, Cesone: 258, 259-260 (e n. 25), 261, 262 n. 30, 263 (e n. 32), 264, 407 n. 215 Q uinzio Capitolino, Tito (cos. 471 a.C.): 266-269, 271 Q uinzio Cincinnato, Lucio (cos. suff. 460 a.C.): 258, 262 n. 30, 266, 562
Q uinzio Crispino, Tito (cos. 208 a.C.): 143, 386 Q uinzio Flaminino, Lucio (cos. 192 a.C.): 15, 25, 159-175 Q uinzio Flaminino, Tito (cos. 198 a.C.): 159, 173 n. 36, 174, 290 n. 56, 447 n. 3, 478, 480 (e nn. 10-11), 481482, 484 Q uinzio Peno, Tito (dict. 361 a.C.?): 549, 561 Q uirinale: 507, 512 Ragnoni, Pietro: 19, 30, 715-733 Rammio, Lucio: 448 (e n. 11) Reggio: 143-144 Reims: 58, 61 (e n. 75) Rémi d’Auxerre: 59 n. 64 Remo: 503, 743 Renano, Beato: 36, 49 Rhizon: 465-466, 468 (e n. 99), 469 Rigaud d’Assier: 673, 684 rogatio Publicia: 376 nn. 35-36, 384386, 389 n. 113, 394, 397 n. 164, 401, 402 (e n. 190), 405 n. 205 Rodano: 177 Rodi/Rodiesi: 170 n. 29, 460 Rolandino da Padova: 791 Rolando da Piazzola: 783, 785 (e n. 21) Rollin, Charles: 758 Romanzo di Alessandro: 588-589 Romolo: 204, 206, 250, 253 (e n. 12), 255 (e n. 16), 265, 320, 408, 417418, 419 (e n. 18), 423-424, 426 n. 52, 430, 433-435, 437-439, 503504, 563, 743, 755, 788, 793, 812813, 818 n. 9, 819, 820 nn. 26-27, 822-824, 826 (e n. 54), 827, 829 (e nn. 71 e 73), 831 n. 34, 832-836, 839 Rubicone: 347 Rucellai, Bernardo: 726 Rucellai, Cosimo: 693, 696, 698 Rufino: 647 Rutilio Namaziano: 609 Sabini: 250-256, 258, 265-266, 271, 312, 424, 430, 432, 435, 547, 549, 551 (e n. 14), 561-562, 576, 788, 793, 810-840, ratto delle Sabine: 20, 31, 312, 405 n. 207, 576, 810840
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INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
Sagunto: 177, 182 n. 22 Sainte-Maure, Benoît de: 792 Sallustio: 204, 317, 355, 525-526, 612, 618 n. 27, 620, 725-726, 741, 763764, 768 Salutati, Coluccio: 763 Sanniti: 296, 651, 703, vd. guerre sannitiche santuario di Vesta: vd. tempio di Vesta Sardegna: 374 Saticula: 555 n. 23 Saturno: 105 Scardeone, Bernardino: 785 n. 19 Scodra: 454, 464-467, 468 (e n. 99), 469 Scotussa: 291-292 Sebastiano I (re di Portogallo): 745 Segontia: 355 Seleuco I: 289 Selepitani: 466, 469 Sempronio Asellione: 388 n. 104 Sempronio Gracco, Gaio (tr. pl. 123 a.C.): 311 Sempronio Gracco, Tiberio (cos. 215 a.C.): 227-228, 234, 243-244, 392 Sempronio Gracco, Tiberio (cos. 177 a.C.): 232 Sempronio Gracco, Tiberio (tr. pl. 133 a.C.): 311 Sempronio Longo, Tiberio (cos. 218 a.C.): 177 Seneca: 348, 523, 558, 633 n. 17, 637 n. 30, 658 (e n. 17), 659 (e n. 19), 660, 678, 680 n. 19, 739, 741 Seneca il Vecchio: 161, 163-164, 166, 175, 237, 340 n. 30, 660 (e n. 19), 680 n. 19, 683 Senofonte: 123-124, 741, 769 Sentino, battaglia di: 200, 523, 551 n. 14, 552, 651 Serapione (legato egiziano): 623 (e n. 46) Sertorio, Q uinto (procos.? 82-73 a.C.): 354-355 Servilio Gemino, Gaio (cos. 203 a.C.): 372, 375, 377 nn. 43 e 46, 398 (e n. 168) Servio: 106, 611, 612 (e n. 14), 615, 617-621, 819 Servio Tullio: 203-204, 206-207, 418-419, 425-426, 427 n. 57, 428
(e nn. 64-65 e 67), 432-433, 435436, 437 (e n. 108), 823 n. 42 Settimio (uccisore di Pompeo): 365 Sicinio, Gneo (pr. 172 a.C.): 453 (e nn. 32-33 e 35), 454-457, 460 Sicinio Velluto, Lucio (tr. pl. 491 a.C.): 321 n. 12 Sidonio Apollinare: 609 Siena: 717, 719, 727-728, 729 n. 50, 732, 737 Siface: 153 n. 36, 179, 189 Sigismondo d’Este: 768 Sigonius, Carlo: 36-37, 116 n. 12, 121 n. 21 Sileno (storiografo): 118 n. 15 Silio Italico: 131 n. 42, 183 n. 24, 523, 524 n. 16, 525, 529 n. 36 Silvestro II (papa): vd. Gerberto di Reims Simmachi: 598, 609 (e n. 2), 629 Simonide di Ceo: 242 Siracusa: 19, 29, 59, 144, 146, 510, 562, 705-708 Smirne: 290, 291 n. 57, 294 Socrate: 769 Sora: 555 n. 23 Spagna: 111-113, 115, 127, 131, 133, 141 n. 7, 170-171 n. 29, 177-179, 182 n. 17, 187, 190, 211-212, 214, 364, 373-374, 376 n. 37, 378 (e nn. 48 e 52), 379 n. 53, 386, 393 (e n. 137), 394, 403 nn. 195 e 197, 563, 622 n. 39, 644 Sparta/Spartani: 125, 286, 318, 328, 447 n. 5 Spartaco: 355, 651 Speroni, Sperone: 20, 30, 764, 771-775 Stazio: 526, 612, 617 n. 24 Strabone: 523, 748 Strozzi, Lorenzo di Filippo: 697 Stuberra: 459 Subirani, Raimondo: 654 n. 5 Suessa Aurunca: 555 n. 23 Sulpicio, Servio (tr. mil. c. p. 377 a.C.): 311 Sulpicio Galba, Publio (cos. 211 a.C.): 452 n. 30 Sulpicio Galba, Servio (cos. 144 a.C.): 171 n. 29 Svetonio: 336, 358, 718, 720, 763
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INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
Tacito: 347, 495 n. 40, 525-526, 725, 735, 741, 751, 764, 824 n. 42 Talassio: 821, 824, 829, 833 Taranto: 97, 104, 144 n. 16, 154 n. 38, 178 n. 7, 278, 386, 456 n. 48, 510, 615 Tarquinio il Superbo: 204, 217, 317, 322, 325, 327, 416 n. 5, 419, 428 nn. 64 e 67, 431, 436, 440, 743, 823 n. 42 Tarquinio Prisco: 418-419, 425 (e n. 49), 430, 432, 435, 823 n. 42 Tarpeia: 504, 812, 822 (e n. 37), 834835 Tarragona: 113, 135 Taulantii: 466 (e n. 89), 468, 469 (e n. 104) Tegrini, Niccolò: 717 Temistocle: 363 tempio dei Lares: 514 tempio dei Lares permarini: 102 tempio di Antonino e Faustina: 507 tempio di Apollo (cd. Sosiano): 99 tempio di Apollo (Palatino): 342 tempio di Concordia: 101 tempio di Fortuna: 372 tempio di Giove Feretrio: 242, 419 tempio di Giove Ottimo Massimo: 266, 509 tempio di Giove Statore: 98-100, 253 (e n. 13), 255, 506, 514 tempio di Giunone Lucina: 603 tempio di Giunone Regina: 98-100 tempio di Mater Matuta: 372 tempio di Mens: 383 n. 77 tempio di Minerva (Aventino): 99 tempio di Spes: 372 tempio di Venere Cloacina: 255 n. 16, 576 tempio di Venere Ericina: 378 n. 48, 383 n. 77 tempio di Vesta: 505 n. 13, 508, 514, 517, Atrium Vestae: 506-507, 514, Casa delle Vestali: 517 Teocrito: 828 n. 64 Teodosio: 598 Teodoto (retore): 365 Teopompo: 222 n. 6 Terentilio Arsa, Gaio (tr. pl. 462 a.C.): 257, vd. anche lex Terentilia
Terenzio: 260 n. 25, 612, 782 Terenzio Culleone, Q uinto (pr. 187 a.C.): 230-231 Terenzio Varrone, Marco (cos. 216 a.C.): 287 n. 44, 385, 402 (e n. 191), 405 Termo: 287 Termopili, battaglia delle (191 a.C.): 280-281 Tertulliano: 633 Tessaglia/Tessali: 281, 283-284, 291, 294, 321, 364, 447, 449, 454-455, 458-462, 586 Tessalonica: 363 Teutoburgo, battaglia di: 526 Tiberio: 214-218, 347 Tibullo: 208 (e n. 23) Ticino, battaglia del: 112 n. 3, 115, 126 Timeo di Tauromenio: 221 n. 5, 305 Tirreo: 294-295 Titinio: 612 Tito: 586, 589 (e n. 13) Tito Tazio: 252, 255 (e n. 16), 418419, 430, 433-434, 437, 504, 818 n. 19, 822, 829 n. 73, 834-836 Toland, John: 752 Tolomeo V (re d’Egitto): 289 n. 53 Tolomeo XIII (re d’Egitto): 623 Tommaso d’Aquino: 638 n. 33, 681 Torino: 49 n. 23, 747 Tours: 48 Tracia/Traci: 214, 281, 289 n. 53 Traiano: 574, 718 Trasamondo (re dei Vandali): 631 (e n. 10) Trasimeno, battaglia del: 153 nn. 3637, 203, 383 n. 77, 386, 739 Trebbia, battaglia della: 153 n. 37 Trevet, Nicola: 19, 29, 673-689, 782, 791 Trionfo di Adamklisi: 17, 27, 532, 533 n. 48, 537-538 Troia: 503, 568, 618 n. 26, 620, 649650, 675 Tucidide: 240, 741, 764, 766 n. 21, 768, 774 Tullo Ostilio: 418-420, 429, 430 n. 76, 431, 434 (e n. 93), 435-436, 438439, 604, 620-621 Turlon (miniatore): 792, 794 Turno Erdonio: 431 Tuscolo/Tuscolani: 265-266, 549, 561
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INDICE DEI NOMI, DEI LUOGHI E DELLE COSE NOTEVOLI
Ugo di Angoulême: 684 Ulisse: 665 (e n. 31) Ulpiano: 572 Uscana: 119 n. 18, 458 (e n. 54), 459 (e n. 57), 460 Utica, battaglia di: 154 n. 38, 564 Valente: 592-593 Valentiniano I: 592-593 Valeriano: 589, 609 n. 2 Valerio, Marco (feziale): 420 Valerio Anziate: 97, 122, 142 n. 8, 159168, 173 n. 34, 174-175, 225, 810 n. 4 Valerio Flacco, Lucio (cos. 195 a.C.): 159, 574 Valerio Flacco, Lucio (cos. suff. 86 a.C.): 586 Valerio Levino, Marco (cos. 210 a.C.): 383 (e n. 78), 393, 397 n. 165, 451 Valerio Massimo: 103, 161, 163-164, 166, 175, 311, 352-354, 407 nn. 219220, 636 (e n. 24), 681 n. 24, 718, 739, 797 Valerio Messalla, Marco (cos. 226 a.C.): 383 Valerio Messalla Corvino, Marco (cos. suff. 31 a.C.): 838 Valerio Publicola, Publio (cos. 509 a.C.): 320 n. 10, 823 n. 42 Valerio Publicola, Publio (cos. 475 a.C.): 265-266 Valerio Voluso, Manio (dict. 494 a.C.): 320 Valerio Tappo, Lucio (pr. 192 a.C.): 307-308, 310, 416 Valla, Lorenzo: 37, 52 n. 33, 69, 72-73, 180 n. 14 Vandali: 19, 29, 630-631, 633 n. 16, 640 Van Kempen, Ludwig: 654 Varrone: 103-104, 420, 433, 544, 560 Vegezio: 737, 741 Veio: 364, 547, 551 (e n. 14), 552, 561, 834 n. 89 Velia: 517 Velleio Patercolo: 334-335 Venafro, Antonio da: 728, 730-731
Venezia: 35-36, 738, 763, 765-766, 768, 799 Venusia: 556 Vergerio, Pier Paolo: 796 n. 54 Verrio Flacco: 103 Vespucci, Bartolomeo: 732 Vettori, Francesco: 694 n. 3, 718 Veturia (madre di Coriolano): 309 Veturio Filone, Lucio (cos. 206 a.C.): 141 n. 7 via Appia: 549 via Casilina: 549 Via Sacra: 98, 252 n. 10, 255 n. 16, 501 n. 1, 514, 517 Vibellio Taurea (cavaliere capuano): 119 n. 118 Vienna: 36, 38-39, 746-747 Villa Cattaneo Imperiale: 810-840 Vipsanio Agrippa, Marco (cos. 37 a.C.): 214, 340, 614 Virgilio: 208 (e n. 23), 234, 262, 305, 332, 343, 525 n. 18, 526, 612 (e n. 14), 614, 617 n. 25, 618-621, 631-632, 653, 675, 739, 773, 782, 819 n. 26 Virginia: 306, 307 (e n. 26) Virginio, Aulo (tr. pl. 461 a.C.): 263, 407 n. 15 Virginio, Lucio (tr. pl. 449 a.C.): 307 Vitruvio: 741 Vittore di Vita: 632 n. 14 Vittorino da Feltre: 765 Vittorio Amedeo III (re di Sardegna): 753 Volcanal: 504 Volsci: 258, 267, 309-310, 547, 549, 561 Volscio Fittore, Marco (tr. pl. 461 a.C.): 260 n. 25 Volumnia (moglie di Coriolano): 309 Worms: 36 Zama, battaglia di: 136 n. 50, 153 n. 36, 180 n. 12, 477, 485-493, 769, 837 n. 106 Zonara: 141-143, 147-152, 311
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INDICE DEI PASSI CITATI
INDICE DEI PASSI CITATI a cura di Giovanna Todaro
Accius praet. 40 Ribbeck3: 428 n. 65 Ammianus 14,11,31: 593 n. 28 26,5,8 – 26,9: 592 n. 25 26,6,19-20: 592 n. 27 26,6,20: 586 26,7,1: 592 n. 26 26,9,5: 593 n. 30 26,9,11: 593 n. 29 28,4,21: 591 n. 21 31,13,19: 522 Ampelius 16,5: 586 18,19,1: 356 n. 52 Appianus civ. 1,43: 524 n. 13 1,367: 350 n. 17 1,449: 352 n. 23 1,515: 355 n. 45 2,146-148: 363 n. 85 2,205: 363 n. 86 Hann. 1,52: 525 n. 17 4,25: 525 n. 17 4,26: 531 n. 41 5: 178 n. 5 7,4,25-26: 523 35,150-152: 228 n. 39 230: 140 Iber. 14: 178 n. 5 16: 179 n. 11 Ill. 9: 462 n. 74, 464 n. 81
Mac. 5 – 10: 448 n. 8 11,2: 448 n. 13 11,4: 450 n. 21 Mithr. 438: 356 n. 52 568: 359 n. 66 582-583: 359 n. 65 599: 359 n. 65 Reg. 1: 810 n. 4 Sic. fr. 6,2: 357 n. 55 Aristotele Poet. 51a 36 – 51b 7: 773 n. 64 Pol. 1254a: 741 n. 6 Asellio FRHist 20F1-2: 388 n. 104 Asconius Mil. argumentum 30C – 32C Clark: 260 n. 25 Athenaeus 14, p. 615,4: 464 n. 81 Augustinus civ. 3,13, p. 112,13 Dombart-Kalb: 253 n. 11 3,18: 103 n. 31 7,11, p. 288,1-14: 253 n. 11 20,19,3: 590 n. 16 hist. fr. 11 M.: 317 Aulus Gellius 5,19,9: 380 n. 63 7,8,6: 122
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INDICE DEI PASSI CITATI
13,23,13: 437 n. 112 13,23,16: 102 n. 102 Ausonius Mos. 623: 180-181 n. 14 Bellum Alexandrinum 4,1: 623 n. 45 Bellum Hispaniense 31,8: 263 n. 34 Caesar civ. 1,2,3: 362 n. 78 1,6,7: 362 n. 81 1,72: 622 n. 39 1,84: 622 n. 39 3,91: 622 n. 41 3,109: 623 n. 46 3,113: 623 n. 45 Gall. 6,8,1: 184 n. 29 7,17,2: 184 n. 29 Cassius Dio 1,2: 149, 255 n. 16 1,5,5: 437 n. 112 7,24,8-9: 311 n. 55 8,22,9: 141 n. 7 8,24,1: 141 n. 7 8,25,7: 141 n. 7 8,25,11: 141 n. 7 14,19 – 20: 399 n. 177 16 fr. 57,43: 122 n. 25 17 fr. 57,56: 141 n. 7 17 fr. 57,59: 141 n. 7 20: 453 n. 34 28,7,6: 370 n. 5 36,18,1 – 19,3: 357 n. 55 36,19,3: 357 n. 53 37,55,1 – 58,1: 358 n. 62 37,56,2: 358 n. 62 39,25,1 – 30,4: 360 n. 70 39,64,1: 360 n. 72 41,6,2-4: 363 n. 82 46,55,3: 408 n. 224 50,4,4: 421 n. 29 50,15: 341 n. 32 50,15,3: 340 n. 29 50,30,3-4: 332 n. 5 50,31,1: 334 n. 15
50,31,5-6: 334 n. 16 50,33,1-3: 341 n. 32 50,33,1: 541 51,6-11: 340 53,1,1: 408 n. 224 53,2,5: 408 n. 224 53,16,7: 826 n. 54 53,21,1: 370 n. 5 57,12,4: 129 63,9,3: 589 n. 12 66,19,3b: 589 n. 13 72,23,5: 149 73 (72),6: 590 n. 19 79 (78),32,4: 591 n. 22 79 (78),34,4: 591 n. 22 79 (78),35,1: 591 n. 22 79 (78),36,1: 591 n. 22 79 (78),37,2: 591 n. 22 79 (78),38,2: 591 n. 22 79 (78),39,4-6: 591 n. 22 79 (78),40,2: 591 n. 22 80,1,1: 591 n. 22 80,7,3: 591 n. 22 80,12,22: 591 n. 22 Cato maior orat. fr. 42 Sbl. Cug.: 170 n. 26 fr. 43 Sbl. Cug.: 170 n. 28 fr. 55 Sbl. Cug.: 174 n. 40 FRHist 5F131: 390 n. 115 Catullus 1: 165 n. 11 1,8-10: 658 n. 13 67,27: 666 n. 33 Celsus 6,5: 122 n. 24 Censorinus 17,8: 103 n. 29 17,11: 103 n. 28 Cicero ac. 1: 240 n. 85 Att. 7,9,1: 363 n. 77 7,9,2: 362 n. 77 7,11,3: 363 n. 84 9,7,3: 362 n. 77
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INDICE DEI PASSI CITATI
9,9,2: 362 n. 77 9,14,2: 352 n. 27 9,10,6: 362 n. 77 9,14,2: 354 n. 42 Balb. 40,13: 187 n. 33 Brut. 4,3: 364 n. 39 12: 522 n. 5 62: 225 n. 30 65: 165 n. 9 72: 104 nn. 36-37 230: 353 n. 25 Caec. 99-100: 433 n. 87 Cat. 1,5,11: 253 n. 13 1,13,33: 253 n. 13 2,6,12: 253 n. 13 Cato 42: 161 n. 2 75: 525 n. 17 29,6: 187 n. 33 de orat. 1,62 – 64: 222 n. 10 2,2: 240 n. 85 2,18: 768 n. 35 2,36: 773 n. 63 2,62-63: 241, 426 n. 54 2,62: 242 n. 96 2,63: 242 2,253-354: 242-243 div. 1,68: 622 n. 42 2,148: 131 n. 43 fam. 9,21,3: 352 n. 28 fin. 5,52: 224 n. 22 imp. 34: 354 n. 52, 356 n. 52 inv. 1,16,22: 682 1,16,23: 682 n. 26 1,26: 426 n. 54 Lael. 70: 587 leg. 1,2,5: 242 n. 96 2,21: 420 n. 21 2,5,12: 388 n. 104 Mil. 5: 260 37: 260 n. 25 92: 260 n. 25 104: 260 n. 25 nat. deor. 2,6: 233 n. 52 3,80: 525 n. 17 3,80,32: 187 n. 34 off. 1,61: 187 n. 34 1,64: 187 n. 34 3,47: 525 n. 17 parad. 1,12,28: 187 n. 34 Q uinct. 2: 184 n. 29
rep. 2,2,2 2,7,12: 819 n. 22 2,8: 835 n. 96 2,13: 438 n. 112 2,14: 424 n. 44 2,16: 321 n. 11 2,31: 419 n. 18 2,37-43: 428 n. 65 2,38: 437 n. 112 2,57: 317 Sext. 123: 428 n. 65 138: 658 n. 12 top. 97: 426 n. 54 Tusc. 1,28: 233 n. 52 1,37,89: 187 n. 34 1,89: 228 n. 38, 234 n. 60 Verr. 2,5,33: 175 n. 41 Coelius Antipater FRHist 15F38: 245 n. 105 FRHist 15F8: 141 n. 8 FRHist 15F12: 141-142 n. 8 FRHist 15F13: 141 n. 8 FRHist 15F14b: 141 n. 8 FRHist 15F15: 141 n. 8 FRHist 15F25: 141-142 n. 8 Commodianus apol. 827 ss.: 590 n. 16 Curtius Rufus 4,2,12: 124 n. 29 5,5,19: 180-181 n. 14 Dares Frigius 41: 676 n. 8 De viris illustribus 47,7: 161 n. 3 49,8: 122 n. 25 77,2: 353 n. 34 77,5: 356 n. 52 Diodorus 20,66: 460 n. 65 29,22: 448 n. 13 30,9: 460 n. 65 31,8,4: 464 n. 81 32,15: 585
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INDICE DEI PASSI CITATI
Diomedes GLK 1,374,9: 610 n. 6
Ennius ann. 1 Skutsch: 827 n. 60
Dionysius Halicarnassensis A. R. 2,7,2-3: 424 nn. 45-46 2,7,12: 424 n. 46 2,15: 320 2,30 – 31: 810 n. 4, 819 n. 22 2,31,1: 817 n. 17 2,35: 438 n. 115 2,45,2: 437 n. 112 2,45,6: 437 n. 112 2,56,3: 426 n. 52 2,71: 419 n. 18 3,29,7: 438 n. 118 3,33,3: 434 n. 93 3,36: 819 n. 26 3,36,4: 416 n. 5 3,67,5: 573, 575 3,71,5: 435 n. 98 4,9,8-11: 437 n. 107 4,12,2-3: 437 n. 108 4,15,6: 433 n. 87 4,27,1-6: 437 n. 107 4,40,3: 428 n. 65 4,50,1: 436 n. 103 5,1,2: 319 5,25,4: 823-824 n. 42 5,35,1: 823-824 n. 42 5,53: 322 5,63: 322 5,75,3: 433 n. 87 6,22: 322 6,46,3: 321 n. 12 6,47,2-3: 321 n. 12 6,48,2: 321 n. 12 6,57,2: 320 n. 10 6,60,1: 319 n. 9 6,61,3: 319 n. 9 6,89: 324 7,33,1-2: 321 n. 12 7,55,2: 320 7,66,2: 321 7,66,3: 322, 326 10,4,4: 262 n. 30 10,5,1: 262 n. 30 11,1,6: 307 n. 30 29,1: 424 n. 46 Rh. 11,2: 326
Eutropius 1,7: 823 n. 42 3,10: 525 n. 17 3,14: 178 n. 7 3,14,2: 187 n. 34 4,6: 464 n. 81 4,8: 464 n. 81 5,9,1: 353 nn. 32 e 34 6,12,1: 356 n. 52 7,7: 339 Fabius Pictor FRHist 1F6: 810 n. 4, 819 n. 22, 838 n. 108 Festus p. 372 L: 255 n. 16 p. 412,13 L: 106 n. 50 pp. 446-448 L: 99 n. 12 p. 452 L: 435 n. 101 p. 484 L: 433 n. 90, 434 n. 94 Florus epit. 1,1,14: 810 n. 4 1,22: 617 1,29: 464 n. 81 1,30,3: 586 1,30,4: 588 1,41,15: 356 n. 52 1,42,4-6: 357 n. 55 1,58,1: 187 n. 34 1,78,12: 187 n. 34 2,6,15-18: 523, 525 n. 17, 536 n. 61 2,11: 263 n. 34 2,13: 622 n. 41 2,21,8: 339 2,21,9: 340 4,8,1-2: 349 n. 10 Frontinus strat. 2,11,5: 122 n. 25 Gaius inst. 1,160: 433 n. 87
866
INDICE DEI PASSI CITATI
Cn. Gellius FRHist 14F5: 437 n. 112 FRHist 14F1: 819 n. 22, 838 n. 108
Isidorus orig. 2,7,2: 679 9,3,51: 434 n. 94
Granius Licinianus 36,2 C: 353 n. 34
Isocrates Hel. 1: 486
Hesiodus Th. 912-914: 814 n. 13
Iuba FGrHist 275F23: 810 n. 4 FGrHist 275F90: 821 n. 34
Historia Augusta Comm. 4,9: 590 n. 20 Heliog. 8,4: 591 n. 23 quatt. tyr. 6: 242 n. 93 Homerus Il. 3,226-227: 262 6,90-92: 106 n. 44 269-310: 106 n. 44 22,139-140: 828 n. 64 Od. 4,513: 105 n. 41 Hieronymus epist. 53: 680 in Dan. 4,11,30a: 590 n. 16 Horatius carm. 1,3,21-22: 336 1,3,32: 336 1,37: 331, 333, 342 1,37,30-32: 613 3,3: 656 3,3,37-38: 656 3,6,18-21: 105 n. 50 3,17,4: 610 n. 7 3,30: 668 n. 37 epod. 9,7-20: 331 9,27-32: 336 9,30: 337 16,1-2: 615 epist. 2,1,156-157: 661 sat. 1: 208 n. 23 1,5,27-29: 614 2: 208 n.23 Hymni Homerici 4: 814 n. 13 Iohannes Chrysostomus in epist. ad Rom. 31,5: 590 n. 16 in epist. II ad Tess. 4,1: 590 n. 16
Iustinus 19,1,1: 106 n. 48 Lactantius mort. pers. 2,7-9: 590 n. 16 Liuius Andronicus Od. fr. 12 Blänsdorf (= fr. 16 Warmington): 105 n. 42 trag. 40 Ribbeck3 (= fr. 41 Warmington): 105 n. 43 Liuius praef. 1: 243 n. 102 praef. 2-3: 655, 664 praef. 2: 240 n. 86 praef. 4: 238 n. 78, 656 praef. 6: 243 n. 102 praef. 9-10: 439 n. 122 praef. 9: 656 praef. 10-12: 401 n. 187 praef. 10: 184 nn. 27-28 praef. 12: 222 n. 8, 655 praef. 13: 664 1,1 – 3: 503 1,3: 587 1,4,1-3: 503 1,4,4-6: 503 1,4,8 – 5,3: 503 1,5,4 – 6,2: 503 1,6,3 – 7,3: 503 1,6,3: 438 n. 117 1,7,2: 610 n. 5 1,7,8: 610 n. 6 1,7,4-15: 503 1,8,1-7: 504 1,8,1-3: 418 1,8,1: 417 n. 10, 423 n. 38 1,8,2-3: 423 n. 40
867
INDICE DEI PASSI CITATI
1,8,7: 418, 424 n. 42 1,9 – 13: 810 n. 4, 839 n. 114 1,9,1 – 11,4: 504 1,9,6: 820 n. 28 1,9,9: 820 nn. 27 e 29 1,9,10: 820 n. 30, 824 n. 43 1,9,11: 821 n. 32, 824 n. 44 1,9,12: 824 n. 46 1,9,13: 822 n. 35 1,9,16: 822 n. 36 1,10,2: 834 n. 89 1,10,3: 820 n. 27 1,10,4-7: 424 n. 41 1,10,4: 820 n. 27 1,11: 820 n. 27 1,11,2: 419, 437 n. 110, 820 n. 27, 824 n. 45 1,11,3-4: 437 n. 111 1,11,5 – 13,5: 504 1,11,5: 820 n. 27 1,11,7: 822 n. 37 1,12: 820 n. 27 1,12,2: 252 n. 8 1,12,8-10: 254 1,12,8: 255 1,13,1-3: 255 1,13,1: 823 n. 38 1,13,2: 823 n. 39 1,13,4-5: 255, 418, 430 n. 78 1,13,4: 823 n. 40 1,13,5: 823 n. 41 1,13,6-8: 504 1,13,6-7: 418, 424 n. 43 1,13,6: 835 n. 96 1,13,8: 419, 433 n. 88 1,14,1 – 15,8: 504 1,15,3: 434 n. 92 1,16,1-8: 504 1,17,9: 417 n. 10 1,18,6-10: 755 1,19,1: 417 n. 10 1,20: 621 1,22: 621 1,24,1: 226 n. 35 1,24,3-9: 418, 419 n. 16 1,24,3: 420 n. 22 1,24,4: 430 n. 77 1,24,6: 420 n. 22 1,24,7-8: 100 n. 17 1,25,1-5: 119 n. 18
1,26,2-14: 418, 429 n. 69 1,26,6-7: 417 n. 10 1,26,6: 429 n. 72 1,27,1-3: 422 n. 33 1,27,5: 434 n. 96 1,28,11: 276 n. 6 1,30,1-2: 419, 438 n. 118 1,30,3: 419, 430 n. 76, 434 n. 93 1,32,5-14: 418, 419 n. 17 1,32,5: 421 n. 26 1,32,6-7: 422 n. 34 1,32,6: 423 n. 36 1,32,9: 422 n. 34, 423 n. 36 1,32,11-12: 422 n. 35 1,32,12: 422 n. 34 1,32,14: 421 n. 26 1,32,6-10: 100 n. 17 1,33,1-2: 419, 439 n. 119 1,33,5-6: 419, 439 n. 119 1,33,8: 268 n. 39 1,35,2: 425 n. 49 1,35,6: 418, 425 n. 48 1,36,2: 419, 435 n. 98 1,36,7-8: 419, 435 n. 98 1,37,3: 434 n. 96 1,38,1-2: 226 n. 32, 418, 432 n. 83 1,41,7: 428 n. 64 1,42,1: 427 n. 57 1,42,4 – 43,13: 418, 426 n. 55 1,42,4: 427 n. 58 1,43,9: 435 n. 99 1,43,10-11: 427 n. 59 1,44,1: 418, 432 n. 86 1,46,1: 419, 436 n. 104 1,48,8: 429 n. 68 1,48,9: 427 n. 63 1,49,6: 418, 425 n. 51 1,52,1-5: 418, 431 n. 81 1,52,6: 419, 436 n. 102 1,53,1: 432 n. 82 1,55,1: 418, 431 n. 80 1,57,9: 304 n. 11 1,57,10: 304 n. 12 1,58,5: 304 n. 14 1,58,7: 305 n. 15 1,58,10: 305 n. 17 1,59,9: 572, 574 1,59,12: 427 n. 60 1,60,4: 418, 426 n. 56 2,1,1: 388 n. 105
868
INDICE DEI PASSI CITATI
2,1,4: 261 n. 27 2,2,1: 237 n. 75 2,2,2: 320 2,6,11: 263 n. 34 2,6,19: 826 n. 55 2,6,20: 826 n. 56 2,8,5: 226 n. 33 2,8,15: 226 n. 33 2,10 – 12: 823 n. 42 2,10: 823 n. 42 2,13: 823-824 n. 42 2,21,3: 226 n. 33 2,21,6: 317 2,23,1-15: 256 n. 19 2,23,5: 561 2,26,1: 561 2,26,3: 561 2,28,7: 318 n. 7 2,30,2: 318 n. 7 2,30,15: 292 n. 61 2,32,8-12: 101 n. 20 2,32,8: 224 n. 17 2,33,1-11: 309 n. 48 2,33,1: 318 n. 8 2,33,3: 319 2,40,1-14: 309 n. 48 2,40,2: 309 n. 47, 310 n. 49 2,40,10: 225 n. 24, 226 n. 35 2,41,3: 206 n. 214 2,41,11: 226 n. 35 2,44,1-6: 407 n. 216 2,44,7-12: 406 n. 213 2,54,3: 226 n. 33 2,54,9: 257 2,55,8-9: 256 2,62,4: 561 2,63,2: 561 3,3,9: 257 n. 23 3,41,1: 588 3,5,11: 523 n. 8 3,5,12: 225 n. 26 3,8,10: 226 n. 34, 523 n. 10 3,10,8 – 14,6: 258 3,10,8-14: 258 3,10,11-14: 258 3,10,13: 263 n. 35 3,11,1-2: 258 3,11,3-5: 259 3,11,6-8: 259 3,11,6: 261
3,11,7: 260, 262 3,11,8: 260 n. 25 3,11,9: 264 3,11,10: 407 n. 215 3,12,1: 260 n. 25 3,12,6: 260 n. 25 3,13,1-3: 260 n. 25 3,13,10: 562 3,14,2-4: 264 3,14,5: 264 3,15,1 – 21,8: 264 3,15,6: 265 3,15,7-9: 265 3,16,1-4: 265 3,16,5-6: 265 3,17,1-8: 265 3,17,4: 256 n. 20 3,17,7: 265 3,17,9: 265 3,18,1-4: 265 3,18,4: 265 3,18,7: 266 3,18,8: 266 3,18,9-10: 266 3,18,10: 524 n. 16 3,19,7: 266 3,19,9: 375 n. 21 3,23,7: 226 n. 34 3,26,9: 562 3,33,1: 324 3,34,4-5: 404 n. 201 3,38,8-10: 256 n. 20 3,42,5: 523 n. 8 3,44,4: 306 n. 23 3,44,7: 305 n. 27 3,47,5: 226 n. 33 3,48,1: 306 n. 22 3,48,5: 307 n. 25, 576 n. 27 3,52,5-7: 256 n. 20 3,67,1 – 68,13: 266 3,67,1: 226 n. 32 3,67,3: 267 3,67,4: 263 n. 34 3,67,7-9: 267 3,67,10-11: 267 3,68,1-2: 256 n. 20, 268 3,68,6: 268 3,68,9-13: 269 3,69,1 – 70,15: 269 3,69,2-3: 279 n. 13
869
INDICE DEI PASSI CITATI
3,70,14-15: 226 n. 32 4,3,1: 834 n. 89 4,4,10: 407 n. 217 4,7,10-12: 233 n. 55 4,16,3: 226 n. 35 4,20,5-11: 242 n. 94 4,23,1: 226 n. 33 4,37 – 39: 524 n. 13 4,46,7: 523 n. 8 4,49,1: 561 4,54,4: 226 n. 32 5,7,6-10: 256 n. 20 5,12,5: 561 5,16,3: 184 n. 29 5,18,9: 523 n. 8 5,21,9: 440 n. 125 5,26,4: 561 5,35,1 – 55,5: 363 n. 87 5,37,1: 363 n. 88 5,38 – 39: 523 n. 10 5,39,3: 64 5,41,4-6: 270 5,46,7: 364 n. 89 5,49,7: 208 5,53,7: 563 5,55,5: 576 6,1,1-3: 206 n. 30, 237 n. 74 6,1,1: 237 n. 75 6,1,2-3: 225 n. 28 6,1,2: 440 n. 125 6,1,10: 224 n. 21 6,12,5: 184 n. 29 6,14,5: 683 n. 28 6,20,4: 226 n. 35 6,33,12: 523 n. 8 6,34,1 – 42,14: 256 n. 19 6,34,5 – 35,1: 311 n. 54 6,36,6: 234 6,39,4: 226 n. 32 7,6,6: 430 n. 78 7,8: 524 n. 13 7,10,6: 119 n. 18 7,15,8: 523 n. 8 7,18,10: 226 n. 33 7,29,1: 237 n. 75 7,29,2: 238 n. 78 7,30,15: 561 7,39,14: 561 7,42,1: 226 n. 33 7,42,3: 561
8,4: 699 8,7,9: 119 n. 18 8,9,6-8: 100 n. 18 8,10: 524 n. 16 8,11,2: 226 n. 34 8,18,1-12: 308 n. 35 8,18,2: 226 n. 33 8,23,17: 226 n. 33 8,30,7: 523 n. 8 8,39,1-15: 523 n. 8 8,40,4-5: 225 n. 30 9,12,5: 374 n. 16 9,15,8: 226 n. 34 9,16,2-10: 374 n. 16 9,16,11 – 19,17: 374 n. 16 9,17,1 – 19,17: 126 n. 32 9,17,1-2: 222 n. 8 9,18,9: 620 n. 35 9,23,5: 226 n. 342 9,33,3 – 34,26: 400 n. 179 9,33,8-9: 400 n. 179 9,34,6-11: 400 n. 179 9,42,3: 226 n. 33 9,46,2: 226 n. 33 10,1,7: 97 n. 3 10,2,3: 226 n. 34 10,6,7: 226 n. 33, 433 n. 90 10,11,6: 561 10,13,10-11: 118 n. 17 10,18,7: 226 n. 34 10,26,5: 226 n. 33 10,29,10-11: 523 n. 10 10,29,11: 524 n. 16 10,31,9: 309 n. 39 10,37,15: 253 n. 12 10,46,7: 226 n. 34 21,1,1-5: 199 n. 5 21,1,1: 240 21,1-2: 130 21,3,6: 371 n. 9, 392 n. 127 21,4,1-2: 738 21,4,2 – 6,2: 46 n. 9 21,4,5-8: 278 n. 10 21,9,2 – 11,4: 46 n. 9 21,10,3: 53 e n. 38 21,10,13: 54 n. 43 21,13,9: 278 n. 11 21,16: 390 n. 118, 391 n. 122 21,17,4: 372, 375 n. 26, 376 n. 31, 377 n. 42, 390 nn. 117 e 120-121
870
INDICE DEI PASSI CITATI
21,17,5 – 19,5: 46 n. 9 21,17,5-9: 390 n. 121 21,18,10: 371 n. 9, 393 n. 139 21,21,5-6: 182-183 n. 22 21,21,7-8: 182 n. 22 21,25,16 – 26,7: 401 n. 185 21,32,7: 154 n. 38 21,40,3: 178 n. 5 21,41: 128 n. 35 21,45,3: 278 e n. 11 21,46,7-10: 112 n. 3 21,48,10: 278 e nn. 11-12, 279 n. 13 21,57,14: 277 21,60,4: 296 n. 69 21,62,6-11: 309 n. 42 21,63,3-6: 401 n. 185 21,63,3-4: 372, 374 n. 15, 394 nn. 145146 21,63,3: 376 n. 34, 377 n. 43 21,63,4: 379 n. 54, 388 n. 109 21,63,4: 401 n. 187, 402 n. 191 22,1,9: 754 22,1,12: 755 22,1,17-20: 309 n. 43 22,5,8: 738 22,3,4: 371 n. 9, 392 n. 127 22,6,5: 48 22,6,11: 278 22,7,5: 278 n. 11, 279 22,9,11: 380 n. 61 22,10,1-6: 379 n. 57, 403 n. 195 22,10,1: 380 n. 60, 382 n. 74, 393 n. 138, 396 n. 155 22,10,2-3: 380 n. 64 22,10,2: 375 n. 22, 377 n. 44, 380 n. 59 22,10,4-6: 381 n. 65 22,10,8: 129 n. 37 22,13,2: 278 n. 11, 279 22,13,11: 739 22,14,1: 562 22,14,8: 562 22,22,1-3: 178 n. 5 22,22,1: 178 n. 5 22,25,1 – 30,9: 402 n. 192 22,25 – 26: 373, 397 n. 164 22,25,16 – 26,7: 373 22,25,19 – 26,4: 385 n. 90 22,25,3-11: 384 n. 85, 402 n. 190 22,25,10: 373, 375 n. 22, 376 nn. 30 e 37
22,25,12-16: 384 n. 86 22,25,12: 384 n. 85 22,25,17: 384 n. 87, 394 n. 145 22,25,18: 385 n. 89 22,25,19 – 26,4: 385 n. 90 22,25,26 – 16,7: 373 22,26,4: 376 nn. 28 e 37, 385 n. 91, 402 n. 191 22,30,4: 385 n. 92, 399 n. 176 22,51,1 – 52,9: 523 22,51,6: 524 n. 14 22,52,6: 524 nn. 15-16 22,53,1-13: 112 n. 3 22,54,7: 522 n. 7 22,57,2-3: 309 n. 41 22,58,1-3: 279 22,58,2: 278 n. 11 22,59,15: 522 22,63,3: 375 n. 24 23,5,12: 287 n. 44 23,6,6: 226 n. 34 23,10,1-6: 372 23,14,2: 375 n. 25, 376 n. 34, 377 n. 42 23,15,4: 278 e nn. 11-12 23,17,4: 279 n. 14 23,17,18-19: 279 n. 14 23,21,6-7: 372, 397 n. 164 23,21,6: 375 n. 22, 376 n. 30, 377 n. 45, 396 n. 158, 401 n. 181, 402 n. 189 23,27,8: 184 n. 29 23,30,13-14: 372, 383 n. 77 23,30,14: 376 n. 34, 378 n. 48, 392 n. 134 23,30,15: 143 23,30,19: 373, 376 nn. 29 e 31, 377 n. 38, 401 n. 182 23,31,9: 378 n. 49 23,31,10-11: 371, 379 n. 55, 401 n. 183 23,31,10: 375 n. 25, 376 n. 34, 377 n. 42 23,32,14: 562 23,40,14: 396 n. 158 23,41,10-12: 143 23,42,1-13: 279 23,42,4: 278 n. 11, 296 23,43,11: 278 n. 11 23,47,3: 119 n. 18 23,49,12: 185 n. 30 24,1,1-13: 143 24,7,8: 38, 48, 53, 58
871
INDICE DEI PASSI CITATI
24,8,20: 184 n. 28 24,10,4-5: 451 n. 28 24,10,9: 754 24,13,1-2: 278 n. 11 24,13,2: 279 24,20,14-15: 278 n. 11 24,20,15: 278 e n. 12 24,24,7: 59 24,25,10: 587 24,28: 704 24,28,1-9: 705 24,30,13: 278 n. 11 24,40,16-17: 451 n. 28 24,41: 178 n. 5 24,42,6: 185 n. 30 24,44,8: 754 24,48,1 – 49,8: 179 n. 8 24,49,7: 185 24,49,8: 179 n. 10, 186 25,2,6-7: 112 n. 3, 393 n. 140 25,2,9: 309 n. 40 25,3,3-6: 182 n. 17 25,3,4-8: 448 n. 9 25,3,6: 178 n. 5 25,4,1-6: 393 n. 140 25,4,9-11: 372, 379 n. 56 25,4,9: 375 n. 22, 376 nn. 27, 31 e 37, 402 n. 189 25,5,8-9: 373, 375 n. 25, 396 n. 158, 397 n. 164 25,5,8: 376 n. 34, 378 n. 48, 402 n. 189 25,5,9: 378 n. 50 25,7,4: 47 25,7,5-6: 373, 396 n. 158, 398 n. 164 25,7,5: 376 nn. 28 e 30, 377 n. 41, 388 n. 109 25,9,16-17: 278 n. 11 25,11,1-18 – 15,4-5: 154 n. 38 25,11,2-18: 144 n. 16 25,12,15: 536 n. 61 25,13,12: 47 25,16,25 – 17,4: 227-228 25,16,12: 276 n. 6 25,21,2: 562 25,32,2: 179 n. 9 25,32,7-8: 182 n. 17 25,33,1-5: 181, 182 n. 25, 186 25,33,1-2: 180-181 25,33,1: 182 n. 17, 184 25,33,2: 185 25,33,3: 185
25,33,4-5: 182 25,33,2: 182 n. 18 25,33,4: 182 nn. 19 e 21-22, 186 25,33,5: 183 n. 23 25,33,6: 183, 184 n. 28, 187 n. 34, 191 25,33,7-9: 183 n. 25 25,34 – 35: 523 n. 8 25,36,14: 178 n. 5 25,39,3: 563 25,39,12: 234 25,39,17: 233 n. 56 26,2,1: 371 n. 9, 393 n. 140 26,2,5-6: 373, 375 n. 25, 376 n. 35, 378 n. 48, 397 n. 164, 402 n. 189 26,2,5: 376 n. 31, 393 n. 137, 394 n. 142 26,2,6: 378 n. 52 26,2,13: 187 n. 33 26,3,12: 372, 376 nn. 27 e 31, 377 n. 39, 402 n. 189 26,5,9: 119 n. 18 26,6,7: 376 n. 37 26,11,5: 178 n. 5 26,11,10-13: 229 26,16,9: 371 n. 9, 387-388 n. 103 26,17,1: 178 n. 5 26,18,1 – 20,6: 112 26,18,1-6: 112 26,18,7-9: 112 26,18,7-8: 135 26,18,10 – 19,2: 112 26,19,3-9: 112 26,19,3: 126 26,19,4: 126, 131 26,19,7: 126 26,19,9: 126 26,19,10 – 20,6: 113 26,19,11: 224 n. 20 26,21,1-5: 377 n. 43 26,21,5: 373, 375 n. 25, 376 n. 34, 402 n. 189 26,25,1-6: 451 n. 28 26,26,6: 562 26,28,2-3: 451 n. 29 26,30,9: 46 26,33,5-6: 382 n. 76 26,33,10-11: 374, 382 n. 75, 396 n. 154 26,33,10: 372, 375 n. 22, 376 nn. 27, 34 e 37, 393 n. 138, 402 n. 189 26,33,10 – 34,1: 394 n. 144 26,33,11 – 34,1: 372
872
INDICE DEI PASSI CITATI
26,33,12: 375 n. 22, 376 nn. 28-30 e 37, 379 n. 58, 380 n. 62, 381 nn. 66 e 69, 402 n. 189 26,37,5: 129 n. 38 26,41 – 51: 111 26,41,3-25: 113 26,41,4-5: 129 26,41,8: 187 n. 33 26,41,9: 129-130 26,41,10-12: 130 26,41,17: 129 n. 37 26,41,18: 131 26,41,19-20: 131 26,41,20-22: 132 26,41,21: 133 26,41,23-25: 128 n. 34 26,41,18: 42, 47 26,42,1-6: 116 26,42,1-5: 113 26,42,3-4: 134 26,42,5: 116 26,42,6-9: 113 26,42,6: 117 26,42,9: 117 26,43,1-2: 118 n. 17 26,43,3-8: 113 26,43,8: 135 n. 47 26,44,1 – 46,10: 113 26,44,1-2: 117 26,44,3-4: 117 26,44,6 – 45,4: 154 n. 38 26,44,6-11: 118 26,44,6: 118 26,44,10-11: 118 26,45,1-5: 118 26,45,2: 118 n. 17 26,45,3: 118 n. 17 26,45,4: 118-119 n. 17 26,45,6 – 46,5: 119 26,45,7-8: 135 26,45,9: 135, 239 n. 84 26,46,2: 119 26,46,6-10: 119 26,46,10: 120 26,47,1-10: 113 26,47,1-2: 120 26,47,3-4: 120 26,47,5-10: 121 26,48,1-14: 113 26,48,3-14: 121 26,48,3: 121 n. 22
26,49,1-6: 114 26,49,2-6: 121 26,49,2: 226 n. 34 26,49,7 – 50,13: 114 26,50,1-13: 121 26,50,14 – 51,14: 114 26,51,2: 123 26,51,3-5: 123 26,51,7: 123 26,51,8: 124 27,1 – 2: 521 27,5,7: 371, 375 n. 22, 376 n. 30, 377 n. 46, 402 n. 189 27,5,14-19: 373, 397 nn. 160 e 165 27,5,14-17: 393 n. 141 27,5,14-16: 398 n. 166 27,5,14-15: 383 n. 79, 403 n. 196 27,5,16: 375 n. 22, 383 nn. 78 e 80, 393 n. 137 27,5,17-19: 383 n. 81 27,5,17: 375 n. 22, 376 nn. 27 e 34, 383 n. 78, 402 n. 189 27,5,19: 388 n. 109 27,6,2-8: 399 n. 174 27,6,6-8: 375 n. 19 27,6,7: 372, 375 nn. 18 e 25, 376 nn. 27 e 34, 397 n. 164, 398 n. 169, 402 n. 189 27,6,9-11: 399 n. 175 27,11,4-6: 98 n. 7 27,11,5: 98 n. 6 27,11,8: 373, 375 n. 25, 376 nn. 27, 34 e 37, 398 n. 164, 402 n. 189 27,15,2-3: 292 n. 61 27,17,1 – 20,8: 386 n. 99 27,17,1: 296 27,17,10: 185 n. 30 27,19,11-12: 297 n. 72 27,20,9-10: 386 n. 102 27,20,11 – 21,4: 373, 397 n. 164, 401 n. 185 27,20,11: 376 nn. 30 e 35, 402 n. 190 27,20,12: 385 n. 93, 405 n. 205 27,21,1: 376 nn. 30 e 35, 386 n. 96 27,21,2-4: 386 n. 97 27,21,2-3: 402 n. 190 27,21,4: 376 n. 35, 386 n. 98, 394 n. 147, 403 n. 197 27,22 – 29: 386 n. 100 27,22,6: 374, 375 n. 25, 376 n. 30, 377 n. 42
873
INDICE DEI PASSI CITATI
27,23,7: 372, 375 n. 24, 378 nn. 48 e 51, 388 n. 109 27,23,7: 376 n. 34 27,25,10-13: 143 27,28,13-17: 143 27,30,3-14: 449 n. 17 27,33,6-7: 386 n. 101 27,37,6: 98 n. 8, 377 n. 42 27,37,7: 97, 98 n. 9 27,37,8-10: 309 n. 44 27,37,11-15: 99 n. 10, 253 n. 13 27,37,13: 99 n. 11, 224 n. 18 27,37,15: 754 27,41,1: 586 27,51,11-12: 617 28,11,1: 745 28,11,8: 562 28,12,2-5: 188 n. 40 28,12,3-4: 371 n. 9 28,12,3: 404 n. 202 28,12,10-15: 187 28,12,11-12: 187 28,12,11: 185 n. 30 28,13,1-4: 187 28,14,1 – 15,16: 188 28,14,1-2: 188 n. 39 28,15,2-4: 188 28,20,12: 292 n. 61 28,32,6-7: 187 n. 33 28,38,6: 141 n. 7 28,39,4: 187 n. 33 28,39,6: 187 n. 33 28,40 – 44: 187, 189, 210 28,41,2-3: 189 n. 44 28,41,14-15: 189 28,41,14: 187 n. 33 28,42,7-8: 189 28,42,1: 184 n. 28 28,42,19-20: 190 n. 46 28,42,21: 129 n. 37 28,43,2 – 44,18: 128 n. 33 28,43,9-20: 190 28,46,16: 145 29,1,1: 147 29,3,15 – 30,21,12: 63 29,3,15: 50 e n. 25, 51 29,6 – 7: 140 29,6,1: 143, 147 n. 20 29,6,2: 143-144 29,6,4: 143
29,6,5-6: 147 n. 19 29,6,8-9: 144 29,6,9: 147 n. 21 29,6,10-14: 142 n. 12 29,6,10-11: 144 29,6,10: 155 29,6,12: 145 29,6,13: 145, 155 29,6,14: 145, 148, 150-151 29,6,15: 150 29,6,17: 145, 148, 150-151 29,7,3: 155 29,7,4-7: 142 n. 12 29,7,4: 146, 155 29,7,5: 146 29,7,6: 146 29,7,8: 148 29,7,9: 146 29,12,15-16: 371, 376 nn. 29 e 31, 377 n. 40, 401 n. 184 29,12,16: 403 n. 197 29,13,7: 374, 375 n. 25, 376 nn. 29, 3133 e 37, 397 n. 164, 403 n. 197 29,25,2: 226 n. 34 29,27,3-4: 397 n. 164 29,27,13-14: 244 29,23,4: 185 n. 30 29,36,9: 263 n. 34 29,40,10: 397 n. 164 29,41,4: 397 n. 164 30,3,9: 563 30,5,7: 48, 563 30,9,10 – 10,9: 154 n. 38 30,16,2: 226 n. 34 30,18,3: 72 n. 125 30,19,4-5: 587 30,19,4: 58 n. 60 30,19,9: 372, 375 nn. 20, 22 e 25, 376 n. 34, 377 n. 42, 377-378 n. 46, 398 nn. 168 e 171 30,19,12: 58 n. 60 30,21,11-12: 50-51 30,21,11: 50 n. 25 30,26,10: 48 30,27,3-4: 374 30,27,3: 375 n. 22, 376 n. 33, 393 n. 135, 402 n. 189 30,27,4: 376 nn. 29 e 31; 403 n. 197 30,28,2: 132 n. 44 30,30,8-9: 136 n. 50
874
INDICE DEI PASSI CITATI
30,30,14: 48 30,32,1-4: 485 30,32,6-11: 485, 487 30,33,1-3: 485, 487 30,33,4-7: 485, 487 30,33,6: 493 n. 33 30,33,8-11: 486-487 30,33,12-16: 486 30,33,12-13: 488 30,33,16: 488 30,34,1: 489 30,34,2: 489 30,34,3: 489 30,34,4-8: 489 30,34,9 – 35,3: 486 30,34,9: 490 30,34,12: 491 30,35,4-9: 486, 492-493 30,35,11: 620 n. 35 30,36,2: 47, 49 30,37,3 – 38,2: 48 n. 16 30,37,9: 129 n. 37, 371 n. 9, 392 n. 127 30,40,10: 374, 375 n. 26, 376 nn. 31, 33, 35 e 37, 403 n. 197 30,41,3: 48, 65 30,41,4-5: 379 n. 53 30,41,4: 51, 69, 374, 375 n. 22, 376 n. 33, 378 n. 48, 393 n. 136, 402 n. 189 30,41,6 – 45,7: 63, 72-73 30,41,6: 48-51, 63-64, 66 e n. 100, 67, 69-70, 72-73, 75 30,41,7: 70, 75 30,41,9: 70 30,42: 488 n. 25 30,42,2: 75 30,42,4: 75 30,42,5: 75 30,42,6: 70, 75 30,42,8: 70 30,42,11: 75 30,42,14: 70 30,42,15 – 44,6: 47-48, 63-65, 73 30,42,17: 276 n. 6 30,42,16: 75 30,42,21 – 44,6: 64 30,42,15: 51, 66-67, 69-72 30,42,16: 65, 67 30,42,17: 67, 71 e n. 134, 72 30,42,18: 67, 71 e n. 134
30,42,19: 67, 71 e n. 134, 72 30,42,21: 48-49, 51, 58-59, 71 n. 134 30,43,2-3: 371, 376 n. 37, 394 n. 143, 398 n. 165, 403 n. 196 30,43,2: 65, 375 n. 26, 376 n. 31, 402 n. 189 30,43,3: 67, 376 nn. 29-30, 381 n. 69, 403 n. 197 30,43,4-5: 75 30,43,4: 67, 71, 375 n. 22 30,43,5: 68, 71 30,43,6: 68, 72 30,43,7: 72-73, 75 30,43,9: 68, 72 30,43,10: 68 30,43,12: 68, 71 e n. 134 30,43,12: 59, 72 30,43,13: 75 30,44,1: 68, 72 30,44,2: 68, 72 30,44,3: 68, 72 30,44,5: 66, 68, 72 30,44,6: 51, 65 n. 91, 66, 68, 71 30,44,7: 65, 70, 75 30,44,8: 70 30,44,9: 70 30,44,10: 75 30,44,11: 70, 75 30,44,12: 75 30,44,13: 70, 75 30,45,1: 70 30,45,2: 75 30,45,3: 75 30,45,4: 70, 75-76 30,45,5: 76, 225 n. 25 30,45,6: 76 30,45,7: 50, 70, 76 31,1,5: 198 n. 3, 209 n. 24, 238 n. 79 31,12,9-10: 102 n. 25 31,16,1: 280 n. 17 31,20,1: 379 n. 53 31,21,1-18: 523 n. 8 31,22: 452 n. 30 21,24,12-13: 119 n. 18 31,25,8: 286 n. 40 31,27,7: 523 n. 8 31,28,4: 280 n. 17 31,34,4: 523 n. 10 31,35,1 – 38,10: 523 n. 8 31,38,7-8: 449 n. 17
875
INDICE DEI PASSI CITATI
31,50,10-11: 379 n. 53 32,5,8: 280 n. 17 32,15,4: 588 32,15,5: 588 32,21,25: 285 32,21,10-11: 286 32,29,2: 754 32,33,12-14: 285 32,35: 447 n. 3 33,5,4-12: 478 33,6,1-6: 478 33,6,1-4: 479 33,6,6: 479 33,6,7: 485 33,6,12: 480 e n. 11 33,7,1: 480-481 33,7,2: 485 33,7,4 – 8,3: 478 33,7,4: 480 n. 11 33,7,6: 480 33,7,8: 480 33,7,10: 482 33,7,13: 480 n. 9 33,8,1: 481-482 33,8,2: 481 33,8,3-6: 478 33,8,5: 481-482 33,8,7-14: 478 33,8,10: 481 33,8,13: 481 33,9,1-7: 478 33,9,3-4: 481 33,9,6-7: 483 33,9,8-10,7: 478 33,9,8: 483 33,9,9-11: 485 33,9,10-11: 483 33,10,2: 483, 485 33,10,4-5: 483-484 33,10,6: 483 33,10,8: 225 n. 26 33,10,10: 225 n. 25 33,12,7: 276 n. 6 33,13,1-7: 280 n. 19 33,20,13: 238 n. 76 33,34,11: 449 n. 17 33,38,1-12: 289 n. 53 33,38,1-7: 290 n. 54 33,38,1: 289 33,38,3: 290
33,38,5-7: 290 33,38,5: 291, 294 33,44,2: 380 n. 61 34,1,1 – 8,3: 400 n. 179 34,2,3: 586 34,6,4-5: 400 n. 179 34,6,7: 417 n. 9 34,7,8-9: 308 n. 32 34,7,9: 122 n. 24 34,45: 558 34,45,7: 754 35,21,6: 562 35,21,7: 263 n. 34 35,27,3: 563 35,27,6: 563 35,34,1-12: 281 n. 20 35,46,9-11: 292 n. 60 35,50,5-6: 755 35,52,4: 562 36,9,1-3: 291 36,9,4: 291, 294 36,9,12-15: 292 36,9,15: 293 36,10: 293 36,10,3-4: 291 36,10,3: 293 36,10,5: 588 36,10,11: 293 n. 63 36,10,13: 293 n. 63 36,11,8: 294 36,12,1-3: 294 36,12,4-5: 294 36,12,6-7: 294 36,14: 283 36,14,7-8: 283 36,25,1: 281 36,25,7-8: 281 36,29,1-11: 281 36,29,9-20: 282 36,33,1-7: 280, 282 36,33,1: 280 36,33,5: 280 36,38,7: 225 n. 27 37,3,2-6: 602 37,3,2: 598 37,3,5: 598 37,7,1-16: 286 37,20,14: 119 n. 18 37,32,12: 292 n. 61 37,34,1 – 37,9: 289
876
INDICE DEI PASSI CITATI
37,34,7: 289 n. 52 37,36,6: 289 n. 52 37,36,9: 616 37,45,8: 276 n. 6 37,52,3: 263 n. 34 37,53,8: 587 38,1,2: 284 n. 36 38,10,1-6: 281 n. 23 38,36,4: 598, 603 38,40,8: 281 38,53,7-8: 230 38,53,8: 229-230 38,55,1-4: 230 38,55,8-12: 231 n. 43 38,56,1: 231 n. 44 38,56,2-3: 231 38,56,3-4: 231 38,56,5-8: 232 n. 47 38,57,2-8: 232 n. 48 38,57,8: 232 38,58,4: 187 n. 33 39,17,7: 754 39,21,2: 263 n. 34 39,22,3-5: 598 39,23,9: 281 n. 22 39,24,8-12: 285 39,28,1: 281 n. 23 39,28,3: 281 n. 22 39,39,1-2: 453 n. 32 39,40: 575 39,41,5-6: 308 n. 35 39,42-43: 159-160 39,42,3: 172-173 n. 34 39,43,5: 174 nn. 37-38 39,44,5: 574 39,45,1-7: 453 n. 32 39,46,5: 598 39,51,9: 759 n. 38 39,55,1: 296 39,56,6: 598 40,2,1-4: 598 40,16,5: 607 40,16,7: 607 40,19,2-4: 605 40,19,2: 598 40,20 – 24: 448 n. 13 40,29,2: 598, 605 40,37,5-7: 308 n. 37 40,41,6 – 42,15: 47 40,42,1-6: 449 nn. 17 e 19
40,45,3: 598, 606 40,52,2: 101 40,48,6: 263 n. 34 40,59,7: 598, 606 40,59,8: 754 41,1: 456 n. 48 41,4,8: 523 n. 8 41,9,5: 598 41,12,5: 263 n. 34 41,13,1: 598 41,13,4-5: 453 n. 32 41,14,7: 598 41,15,1: 598 41,18,6: 453 n. 33 41,25,8: 238 n. 76 42,10,6-8: 453 n. 32 41,16,5: 598 41,16,7: 598 41,19,3-4: 448 n. 14 41,21,5: 598 42,11 – 13: 448 n. 13 42,12,7-8: 448 n. 8 42,12,8-9: 448 n. 13 42,17: 448 n. 11 42,18: 448 n. 11 42,18,1-4: 453 n. 32 42,19,6-8: 453 n. 32 42,22,5-8: 453 n. 32 42,26: 450 n. 20 42,27: 453 n. 35 42,29: 451 n. 24 42,29,11: 451 n. 25 42,34,2: 562 42,36,4-5: 452 n. 31 42,36,8-9: 453 n. 34 42,37,1-2: 450 n. 21 42,40 – 41: 448 n. 11 42,40: 448 n. 9 e 13, 453 n. 35 42,41: 447 n. 6 42,45,8: 450 n. 23 42,47,10-11: 455 n. 43 42,49 – 51: 456 n. 45 42,58 – 60: 456 n. 46 42,58,1 – 60,10: 523 n. 8 43,5,10: 455 n. 44 43,9: 456 n. 48 43,10: 458 n. 53 43,10,3: 458 n. 55 43,10,5: 119 n. 18 43,11: 458 n. 53
877
INDICE DEI PASSI CITATI
43,13,4: 755 43,18 – 20: 459 n. 56 43,18,3: 455 n. 42 43,18,5-11: 459 n. 57 43,19 – 20: 454 n. 39 43,19: 459 n. 59 43,19,13: 457 n. 51 43,20: 459 n. 60, 460 n. 65 43,20,1: 454 nn. 36 e 38 43,20,2: 467 n. 95 43,21,1-4: 460 n. 64 43,21,4-5: 460 n. 63 43,44,1: 42 44,18: 461 n. 66 44,20: 461 n. 67 44,20,5: 461 n. 68 44,21,1-5: 461 n. 69 44,21,4: 463 n. 75 44,21,5-11: 461 n. 70 44,23: 462 n. 72 44,27,8-12: 462 n. 74 44,30 – 32: 464 n. 81 44,30,2: 463 n. 77 44,30,6-8: 467 n. 95 44,30,10-15: 463 n. 77 44,30,12: 467 n. 96 44,30,14-15: 464 n. 78 44,31,3: 469 n. 103 44,31,12-15: 464 n. 83 44,32 – 44: 464 n. 84 44,32,3: 468 n. 98 44,32,5: 464 n. 82 45,1,2-3: 232 45,1,6-10: 233 n. 51 45,3,1-2: 464 n. 81 45,16,2: 465 n. 85 45,18: 465 n. 87 45,18,7: 468 n. 101 45,20,2: 467 n. 95 45,26,1-11: 465 n. 88 45,26,11-15: 466 n. 89 45,26,15: 466 n. 90 45,29: 468 n. 100 45,43: 464 n. 81 45,44,19-20: 759 n. 37 fr. 61 Weissenborn = 58 Hertz: 620 n. 35 Periochae 19,2: 586 21 – 22: 589 n. 11
48: 587, 589 n. 11 48,10: 585 48,12-13: 308 n. 38 49: 586-589 49,21-27: 583-584, 593 49,21-22: 588 50: 587 50,1: 586 80,9-10: 349 n. 8 82,4: 586 85: 350 87: 351 89: 351, 353 n. 34 90: 353 91: 354 92: 354 92,2: 355 93: 354 94: 354 96: 354 97: 355 99: 356 100: 357 101: 357 102: 357-358, 621 103: 358-359 104: 359 105: 359-360 106: 360 107: 360-361 109,4: 348 n. 4, 361, 623 n. 43 111: 364 112: 365 116,8: 586 121: 335-336 123,1: 349 n. 9 127: 614 127,5: 349 n. 9 128,1: 349 n. 9 130: 336 131,1: 349 n. 9 133: 212-213, 613 134: 212-213 135: 212, 214 136: 214 137: 214 138: 214 139: 214 140: 214 141: 214-215 142: 315
878
INDICE DEI PASSI CITATI
Lucanus Phars. 2,45: 525 n. 17 2,576-579: 356 n. 52 2,592-594: 621 n. 37 6,420-422: 349 n. 10 6,623: 180-181 n. 14 7,787-796: 525 n. 19 Adnotationes 7,471: 622 n. 41 10,471: 623 10,521: 623 Commenta Bernensia 2,592-594: 621-622 3,59: 622 n. 42 3,182: 623 4,354: 622 5,494: 622 8,9: 622 Macrobius Sat. 1,5: 659 n. 18 2,4,28: 348 n. 6 3,11,5-6: 416 n. 5 5,17,6: 306 n. 20 Martialis 14,190: 611 n. 9 5,5: 838 n. 112 Nepos Cato 3,5: 164-165 n. 8 Obsequens 1: 598, 601-602 2: 598, 603 3: 598 4: 598 5: 598, 601 6: 598, 605 7: 598, 601, 606 8: 598 9: 598 10: 598 11: 598, 607 27a: 98 n. 9, 107 n. 52 32: 107 n. 52 34: 98 n. 9
36: 98 n. 9 43: 107 n. 52 46: 98 n. 9, 107 n. 52 48: 98 n. 9, 107 n. 52 53: 98 n. 9, 107 n. 52 Orosius 3,10: 308 n. 35 4,16,1: 187 n. 34 4,17,2: 178 n. 7, 187 n. 34 5,21,14: 352 n. 30 5,22,17: 354 n. 41 6,19,1: 339 Ouidius ars 1,11-126: 839 n. 115 1,89: 825 n. 49 1,92: 826 n. 50 1,101-132: 810 n. 4, 829 n. 73 1,102: 826 n. 51 1,108: 826 nn. 52 e 57, 836 n. 98 1,109-110: 827 n. 58 1,112: 827 n. 59 1,114: 827 n. 61 1,115-116: 827 n. 62 1,121-124: 828 n. 65 1,125: 828 nn. 66-67 1,130: 829 n. 70 1,131-132: 829 n. 71 1,132: 829 n. 72 epist. 7,98: 306 n. 21 8,95: 122 n. 24 14,115: 184 n. 29 fast. 3,203-212: 437 n. 112 4,107-108: 122 n. 24 6,207-208: 421 n. 26 met. 15,871-879: 668 n. 37 trist. 3,11,9: 180-181 n. 14 5,10,35: 180-181 n. 14 Plinius maior praef. 16: 210 n. 27, 240 3,143: 470 n. 105 5,119-120: 255 n. 16 6,88: 180-181 n. 14 7,86: 233 n. 52 7,98: 359 n. 66 7,106: 525 n. 17 7,191: 106 n. 48 8,4: 106 n. 48
879
INDICE DEI PASSI CITATI
15,76: 522 n. 5, 525 n. 17 15,119: 576 n. 28 22,6,13: 234 n. 61 34,139: 823-824 n. 43 37,13: 353 n. 35, 359 n. 66 Plinius minor epist. 2,3,8: 236, 749 n. 15 10,32,2: 574 n. 20 Plutarchus Moralia quaest. Rom. 271f-272b: 821 n. 34 de fort. Rom. 323d: 428 n. 65 326a: 225 n. 29 praec. ger. r.p. 806e: 350 n. 17 Vitae Aem. 9: 460 n. 65 13: 454 n. 39 13,3: 464 n. 81 Ant. 55: 339 n. 27 63,8: 340 65: 334 n. 17 65,7: 343 n. 40 68: 335 68,3: 340 69,3-6: 338 73,1: 340 Arat. 49,1: 287 n. 45 Brut. 4,3: 354 n. 39 Caes. 48,2: 365 n. 93 Cam. 225 n. 29 Cato Mai. 17,1-5: 163 n. 6 17,3-5: 162 17,5-6: 173 n. 35 17,6: 174 nn. 37-38 Cic. 16,3: 253 n. 13 Cor. 33-36: 309 n. 48 Crass. 6,5-6: 350 n. 17 Fab. 4,1-2: 391 nn. 124-125 13: 399 n. 177 16,7-8: 525 n. 17 16,8: 523 Flamin. 18,3-10: 162 18,3: 168 n. 21 18,5-10: 162 n. 38 18,10: 174 n. 38 19,1-3: 173 n. 35
19,4-5: 174 n. 38 19,4: 174 n. 37 Num. 1: 225 n. 29 12: 419 n. 18 Pomp. 8,2-4: 350 n. 17 10,4-6: 352 n. 21 10,7-9: 352 n. 21 12,5: 353 n. 32 12,6: 352 n. 30 12,8: 353 n. 34 13,7-8: 359 n. 64 16,3-7: 353 n. 38 23,2: 359 n. 64 26,7: 356 n. 52 28,3: 356 n. 52 29,1-7: 357 n. 55 45,1: 366 n. 66 53,6: 360 n. 72 77,3-7: 365 n. 93 Publ. 18 – 19: 823-824 n. 43 Pyrrh. 19,6: 324 Rom. 13,1: 434 n. 95 14: 834 n. 96 14 – 19: 810 n. 4, 831 n. 77, 839 n. 116 14,1-2: 424 n. 44 14,1: 810 n. 4, 819 n. 22 14,2: 832 n. 78 14,4: 832 n. 79 14,5: 836 n. 99 14,6: 832 nn. 81-83 14,7: 810 n. 4 14,8: 424 n. 44 15,1: 833 n. 84 15,5: 821 n. 33 16,1: 833 n. 86 16,2-3: 834 n. 88 17,2-3: 834 n. 90 17,3: 834 n. 91 17,3: 834 n. 92 18,2: 834 n. 93 19,1: 834 n. 94 19,4-5: 835 n. 95 19,7: 437 n. 112 19,9: 835 n. 96 19,10: 255 n. 16 20,2: 433 n. 89 20,3: 424 n. 44 26,1-3: 426 n. 52 26,2: 434 n. 92 31: 426 n. 52
880
INDICE DEI PASSI CITATI
Polyaenus 8,16,6: 122 n. 25 Polybius 1,1,5-6: 237 n. 73 1,14,7-8: 221 n. 4 2,56,1-16: 222 n. 6 3,12,25: 153 3,46,7 – 48,12: 153 n. 36 3,81,12: 153 n. 36 3,59,1-9: 153 3,116,1 – 117,12: 522 n. 4, 523, 525 n. 17 4,27,9: 186 4,77,1-4: 286 5,10,1: 286 5,10,10-11: 286 6,9,11-18: 324 6,9,12: 324 6,10,12: 323 6,10,14: 324 6,11,1: 324 n. 19 6,14: 396 n. 153 6,20,9: 434 n. 94 6,25,1: 434 n. 94 6,54,1 – 55,4: 235 n. 63 6,48,1 – 50,6: 318 7,11,1 – 14,6: 286 7,11,9: 287 7,12,1-10: 287 7,14,4: 287 8,32,2 – 34,1: 154 n. 38 9,2,1-4: 153 9,2,5: 153 9,2,6: 153 9,12,8 – 19,9: 154-155 9,12,9: 154 9,14,6 – 15,15: 155 9,17,9: 155 9,18,1-9: 155 9,19,5-9: 155 9,20,1-10: 153 9,24,5-6: 287 n. 44 9,24,8: 287 n. 44 10,2,1 – 20,8: 115 10,2,1 – 5,10: 115 10,2,1: 127 10,2,5-7: 125 10,2,5-13: 153 n. 36 10,2,8-12: 125
10,3,1: 125 10,3,3-7: 115 10,3,7: 126 10,3,3-6: 125 10,4,1 – 5,8: 115, 126 10,5,1-6: 115 10,6,1-6: 128 10,6,3: 133 10,6,6: 12 10,5,8: 126 1,5,9: 126 10,6,7 – 9,3: 116 10,6,7 – 9,7: 116 10,8,2-5: 133 10,8,6-7: 133 10,9,1: 116, 153 n. 36 10,9,4-7: 116-117 10,9,6: 116 10,9,8 – 10,13: 116 10,11,1-4: 116 10,11,1-3: 117 10,11,5-8: 116, 153 n. 36 10,11,7: 134 10,12,1 – 15,11: 116 10,12,1: 118 10,12,2-4: 117 10,12,5-11: 117 10,12,10-11: 154 n. 38 10,13,1-5: 118 10,13,3: 118 10,13,6 – 14,1: 118 10,13,6-8: 154 n. 38 10,14,1 – 15,11: 116 10,14,1-15: 119 10,14,7-12: 133 10,14,14: 119 10,14,15: 119 10,15,3-8: 119 10,15,4: 120 10,16,1 – 17,16: 116 10,16,2 – 17,5: 120 10,16,1: 121 n. 22 10,17,6-9: 120 10,17,11-13: 121 10,17,16: 121 10,18,1 – 19,7: 116 10,18,7 – 19,7: 121 10,18,7: 121 10,18,12: 122 10,19,8: 123
881
INDICE DEI PASSI CITATI
10,20,1-8: 116 10,20,1-5: 123 10,20,6-7: 123 10,20,6: 124 10,26,8: 286 10,33,1-7: 153 n. 36 11,18a,1-3: 153 11,19,1-7: 153 n. 36 12,5,1-4: 140, 142 12,5,5 – 6b,10: 140 12,25e,5-7: 153 12,27,6-9: 153 12,25g,1-4: 153 14,5,15: 153 n. 36 14,9,7 – 15,12: 154 n. 38 15,9,3-5: 487 15,9,3-4: 485-486 15,9,6-10: 485, 487 15,10,1-7: 485 15,11,1-3: 485, 487 15,11,2: 493 15,11,4-12: 485, 487 15,12,1-7: 486 15,12,1: 488 15,12,2: 488 15,12,4: 488 15,12,8 – 13,10: 486 15,12,8-9: 489 15,13,1-2: 489 15,13,3-6: 489 15,13,5-6: 490 15,14: 486 15,14,2: 490 15,14,6-7: 491 15,15,1 – 16,6: 153 n. 36 15,15,3 – 16,6: 486, 492 15,16,6: 153 n. 36 18,3,4: 286 12,5,1-4: 142 12,10,1 – 12b,3: 221 n. 5 18,18: 478 18,8: 447 n. 3 18,15: 448 n. 8 18,19: 478 18,19,1-5: 479 18,19,12: 479 18,20: 478 18,20,2: 480 18,20,7: 480 18,20,8: 480
18,21 – 22: 478 18,21,4: 480 18,21,8: 480 18,22,1: 482 18,22,5: 480 18,22,8-10: 481 18,22,8: 482 18,22,10: 482 18,23: 478, 482 18,24: 478 18,24,7: 482 18,25: 478 18,25,2-3: 481-482 18,25,4-7: 483 18,25,4: 484 18,25,6-7: 484 18,26 – 27: 478 18,26,2-3: 483 28,26,2: 484 18,26,8: 483 18,26,12: 483 18,27,4: 483 18,28 – 32: 478 18,28: 487 18,28,1-5: 478 18,28,4: 478 n. 3 18,28,6-11: 478-479 18,28,6-7: 493 18,28,7: 479 n. 5 18,28,12 – 30,11: 478-479 18,30,11: 479 n. 5 18,31,1 – 32,5: 478-479 18,31,12 – 32,5: 479 18,32,6-13: 478-479 18,38,1 – 39,7: 448 n. 8 18,47,12: 449 n. 17 20,11,1-12: 282 20,11,7: 282 n. 27 20,11,9: 282 n. 27, 283 n. 31 21,11,7-8: 449 n. 17 21,21,3-4: 449 n. 17 28,8,1 – 9,13: 460 n. 65 28,8,3: 454 nn. 36 e 39 24,5: 448 n. 13 25,3: 447 n. 6 30,22: 464 n. 81 30,45: 477 31,25: 204 n. 12 31,25,5: 171 31,26,1-10: 310 n. 51
882
INDICE DEI PASSI CITATI
32,9: 449 n. 18, 469 n. 104 33,10: 477 36,10: 590 38,1,1 – 4,9: 221 n. 2
8: 305 n. 18 8,5: 409 n. 226 25,1-3: 349 n. 10 35,2: 216 n. 33
Porphyrio Hor. sat. 1,4,27: 614 Hor. epod. 15: 615
Rufius (?) Festus 7,5: 464 n. 81
pseudo-Acro schol. carm. 2,1,6: 616 4,4,69-72: 616 Priscianus GLK 2,231,12: 105 n. 43 GLK 2,232,3: 105 n. 42 GLK 2,232,6: 105 n. 40 GLK 2,299,25 – 300,1: 610 n. 7 Propertius 2,6,18-20: 810 n. 4 2,16: 341-342 3,11: 341-342 3,11,31-32: 342 4,6,29 ss.: 343 4,6,51 ss.: 342 4,6,53: 343 4,6,55 ss.: 343 4,6,60: 343 4,6,63 ss.:343 pseudo-Aurelius Victor orig. 17,6: 819 n. 26 Q uintilianus 6,1,52: 239 n. 83 8,3,67-69: 675 n. 7 8,6,26: 523, 525 n. 17 8,6,48: 261 n. 26 10,1,31: 243 10,1,32: 243 n. 100 10,1,39: 495 n. 40 10,7,23: 239 n. 83 12,10,37: 239 n. 83 12,11,5: 239 n. 83 12 prooem. 1,1: 238 n. 77 12 prooem. 1,2-4: 239 Res gestae diui Augusti 1,1: 331 7,3: 421 n. 29
Sallustius Cat. 10,1: 204 n. 13 61: 523 n. 10 Iug. 52,4: 263 n. 34 79,4: 263 n. 34 99,3: 263 n. 34 hist. fr. 1,10 Mauren. (= 1,15 La Penna – Funari): 317 fr. 1,109 Mauren. (= 1,100 La Penna – Funari): 620 n. 33 fr. 2,98 Mauren. (= epist. Pomp.): 355 n. 46 Seneca maior contr. 9,1,14: 237 n. 71 9,2: 161-162 n. 4 9,2,26: 237 n. 71 10 praef. 2: 237 n. 71, 680 suas. 1,1: 238 n. 82 1,4: 238 n. 82 1,7: 340 n. 30 6,16 – 17: 237 n. 71 6,21 – 22: 237 n. 71 Seneca ben. 4,7,1: 253 n. 11 dial. 4,5,4: 523, 524 n. 11, 536 n. 61 epist. 33: 658 n. 17 84: 658 n. 17 84,2-5: 658 84,3-4: 659 n. 18 84,5-7: 658 n. 17 84,5: 659 n. 19 84,8: 660 86,4: 558 n. 30 nat. 5,18,4: 348-349 n. 8 Seruius Aen. 1,7: 618 1,235: 233 n. 52 1,242: 619 n. 28 1,456: 620
883
INDICE DEI PASSI CITATI
4,37: 106 n. 48 6,813: 620 7,158: 618 n. 26 10,145: 618 n. 26 10,272: 618 n. 27 10,311: 620 n. 33 10,388: 618 n. 27 12,836: 416 n. 5 georg. 3,1-2: 619 Strabo 6,3,11: 523, 525 n. 17 7 fr. 10: 454 n. 36 Sidonius carm. 2,188-189: 609 n. 3 23,145-146: 609 n. 3 epist. 9,14,7: 609 n. 3 Silius Italicus 10,449-577: 523, 525 n. 17 10,504-506: 524 13,381-384: 183 n. 24 13,382: 178 n. 7 13,650-702: 183 n. 24 13,671: 178 n. 7 15,268-285: 122 n. 25 Statius Theb. 2,512: 180-181 n. 14 Suetonius Aug. 7: 826 n. 54 19,1: 586 Claud. 1: 216 n. 32 25,14: 420 n. 21 gramm. 21: 839 n. 113 Iul. 19,2: 358 n. 61 Nero 40,2: 589 n. 12 57,2: 589 n. 13 Tib. 9: 216 n. 32 Sulpicius Severus chr. 2,95,5: 590 n. 16 Symmachus epist. 9,13: 609 n. 3 Tacitus ann. 1,61: 526 n. 20 4,34,3: 348 n. 3, 495
1,8,3: 409 n. 226 hist. 1,2,1: 589 n. 12 2,8,9: 589 n. 12 2,70: 526 n. 20 3,72,2: 824 n. 43 Theocritus 11,24: 828 n. 64 Thucydides 1,1: 240 n. 87 Ulpianus fr. 11,11: 433 n. 87 Dig. 43,23,1-2: 572 n. 16 Valerius Antias FRHist 25F5: 810 n. 4, 838 n. 108 FRHist 25F29: 122 Valerius Maximus 1,1,15: 525 n. 17 2,4,5: 103 n. 30 2,5,3: 308 n. 35 2,9,3: 161 n. 4 3,2,11: 524 n. 12 3,7,10: 525 n. 17 4,3,1: 122 n. 25 4,8,2: 531 n. 41 5,2,4: 399 n. 177 5,2,9: 350 n. 17 5,3,5: 352 n. 22 5,6,7: 525 n. 17 6,2,8: 353 n. 33, 354 n. 40 6,3,8: 308 n. 38 6,7,4: 525 n. 17 9,11,4: 187 n. 34 9,13,2: 352 n. 21 Varro ling. 5,55: 433 n. 89 5,86: 420 n. 21 6,94: 104 n. 32 rust. 3,1-10: 544 n. 3 Velleius Paterculus 1,4,9: 263 n. 34 1,9,5: 464 n. 81 1,11: 587 2,38,4: 187 n. 34 2,53,4: 353 n. 35
884
INDICE DEI PASSI CITATI
2,66,1: 335 n. 21 2,84,1: 333 n. 13 2,89,3-4: 409 n. 226
Victorinus in apoc. 13,2,12-13: 590 n. 16
Vergilius Aen. 1,479-481: 106 n. 44 2,148-150: 620 n. 34 6,765-846: 234 n. 62 7,631: 819 n. 26 7,706-709: 261 n. 29 7,761-762: 261 n. 29 7,783-784: 262 9,176-178: 261 n. 29 11,193-212: 523 n. 10, 525 n. 18 11,640-641: 261 n. 29 11,677-683: 262 georg. 3,1-2: 619 n. 29 4,457-527: 809 n. 1
Xenophon Hell. 3,4,17: 123-124 3,4,18: 124 3,4,20: 124
Verrius Flaccus ap. Schol. Horat. Carm. saec. 8: 103 n. 27
Zonara 8,26: 400 n. 178 9,11,8: 147 e n. 20, 148, 150 9,11,9: 147-148, 150 9,15: 449 n. 17, 452 n. 30 9,24: 464 n. 81 9,22: 453 n. 34 11,15: 589 n. 12 11,18: 589 n. 13 13 – 14: 391 n. 124
885
INDICE DEI MANOSCRITTI
INDICE DEI MANOSCRITTI a cura di Giovanna Todaro
Bamberg Staatsbibliothek, Class. 25: 59 Staatsbibliothek, Class. 34: 61 Staatsbibliothek, Class. 35a: 61 e n. 70 Staatsbibliothek, Class. 35-II: 48 Staatsbibliothek, Class. 44: 59 Staatsbibliothek, Med. 1: 61 Berlin Staatsbibliothek Preußischer Kulturbesitz, Hamilton 574: 791 Besançon Bibliothèque municipal, 838: 64, 75 n. 129
BAV, Pal. lat. 876: 41, 50 BAV, Reg. lat. 762: 48 BAV, Reg. lat. 902: 49 BAV, Vat. Lat. 5991: 94 Cremona Archivio di Stato L28: 782 n. 8 Archivio di Stato, Notarile, filza: 979 El Escorial Real Bibl. del Monasterio de San Lorenzo R. I. 4: 782 n. 8 Real Bibl. del Monasterio de San Lorenzo g. I. 8: 782 n. 8
Cambridge Trinity College: 637
Firenze BML, conv. soppr. 263: 75 n. 130 BML, Edili 183: 94 BML, plut. 63.14: 51 n. 29 BML, plut. 63.20: 48 BML, plut. 63.21: 49 Bibl. Riccardiana, 487: 81, 83, 9295
Chicago Newberry Case 163: 47 Newberry Case 164: 49
Gèneve Bibl. de Gèneve, fr. 177: 63 n. 82, 64, 75 nn. 131-132, 76 n. 133
Città del Vaticano BAV, Arch. Cap. S. Pietro C 132: 782 n. 8, 783, 786-788, 797 BAV, Arch. Cap. S. Pietro, arm. 19-20, capsa 58, fasc. 206: 800 n. 63
Holkham Hall Library of the Earl of Leicester, 344: 63, 65 n. 97, 782 n. 8, 783 Library of the Earl of Leicester, 345: 63 e n. 82, 75 n. 129, 76 n. 133
Budapest Országos Széchényi Könyvtár, Clmae 404: 798 n. 56
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Library of the Earl of Leicester, 349: 63 e n. 82, 64 Library of the Earl of Leicester, 350: 63 n. 82, 64 Library of the Earl of Leicester, 351: 63 n. 82, 64 Library of the Earl of Leicester, 352: 63 n. 82, 64, 75 nn. 131-132 Krakov Biblijoteka Jagiellonska 522 (CC I 32): 75 n. 132, 782 n. 8 Leiden Bibliotheek der Rijksuniversiteit, Voss. Lat. F. 21: 63, 67 Leipzig Universitätsbibliotek Rep. I. 1: 782 n. 8 London British Library, Burney 198: 50, 782 n. 8 British Library, Harley 2493: 40, 49, 66, 180-181 n. 14 British Library, Harley 2684: 50 British Library, Harley 2736: 59 British Library, Royal 15. A. xxxxiii: 59 Milano Bibl. Ambrosiana, C 214: 782 n. 8 Bibl. Ambrosiana, D 142 inf.: 782 n. 8 Bibl. Trivulziana 166: 782 n. 8 Modena Biblioteca Estense, Lat. 385: 48 n. 20, 50 Montpellier Bibliothèque de la Faculté de Médecine, H. 115: 64 München Bayerische Staatsbibliothek, Clm 14436: 61 n. 75 Bayerische Staatsbibliothek, Clm 29224 (2): 49
Bayerische Staatsbibliothek, Ine. 2° s. a. 793m: 83 n. 9 Nancy Archives départementales de Meurthe et Moselle, IF342 n.° 3: 47 n. 10, 50 Napoli Bibl. Naz., Vindob. lat. 33: 48, 63 Padova Biblioteca Capitolare, D24: 791 Bibl. Civica, B.P.124/XXII: 796 Paris BnF, Bourgogne 57: 800 n. 65 BnF, Bourgogne 65: 800 n. 65 BnF, Bourgogne 100: 800 n. 65 BnF, fr. 782: 791-792 BnF, ital. 5: 47 BnF, lat. 2075: 678 n. 15 BnF, lat. 3345: 797 n. 55 BnF, lat. 5690: 50, 66, 782 n. 8, 783 BnF, lat. 5730: 46 n. 3, 48 BnF, lat. 5731: 48, 51, 180-181 n. 14 BnF, lat. 5732: 48 BnF, lat. 5736: 48 BnF, lat. 5858: 797 n. 55 BnF, lat. 6468: 797 n. 55 Roma Bibl. Vallicelliana, B 61: 81-82 Siena AS, A 52, f. 21 r: 719 n. 14 San Pietroburgo Bibl. naz. di Russia, Fr. F.v. XIV. 3: 792 Stuttgart Württembergische Landesbibliothek, Cod. Donaueschingen A. II. 16: 49 Torino Bibl. Universitaria N.I.6: 782 n. 8
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Valencia Archivo de la Catedral, 173: 64, 782 e n. 8, 783 n. 9 Venezia Bibl. Naz. Marciana, It. Z 16 (= 4761): 782 n. 8 Bibl. Naz. Marciana, Lat. Z: 364
Wien Österreichische Nationalbibliothek 2571: 792 Österreichische Nationalbibliothek 3099: 784 n. 17
EDIZIONI (secc. XV-XVI) Roma, 1469 o 1470 (J. Andrea Bussi, editio princeps): 35, 81-95, 180-181 n. 14 Mainz 1519 (Moguntina): 35 Parigi 1510 (Ascensiana 1): 35 Parigi 1513 (Ascensiana 2): 35 Venezia 1518-1520 (Aldina): 35-36 Basilea 1531 (Frobeniana 1): 35-36 Basilea 1535 (Frobeniana 2): 35-36 Venezia 1555, 1556, 1572 (C. Sigonio): 36
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PARTE I
IL TESTO DI LIVIO TRA FILOLOGIA E CRITICA LETTERARIA
John Briscoe Editing Livy, 1469-2016 This paper traces the editorial history of Livy’s work from the editio princeps (Rome 1469/1470) to the present day, highlighting how editors have increased our knowledge of Livy’s manuscript tradition. Marielle de Franchis Éditer la troisième décade de Tite-Live: bilan et perspectives This chapter provides a complete overview of the manuscript tradition of Livy’s third decade, focusing on the contribution of mss. recentiores to our understanding of the history of Livy’s text. The manuscript tradition is considered not only in strictly ecdotic terms, but in a broad cultural perspective. Marco Palma Antigrafo manoscritto / apografo a stampa. La princeps della quarta decade fra Bussi, Sweynheym e Pannartz This chapter focuses on the editio princeps of Livy’s fourth decade, edited in 14691470 by Andrea Giovanni Bussi and published by Sweynheym e Pannartz, and explores Bussi’s editing practices by analysing his manuscript exemplar (Riccar dianus 487). Charles Guittard Livius apud Livium. À propos du carmen de 207 (Liv. 27,37,7) This paper re-examines Livy’s narrative of the religious crisis of 207 bc, and especially his testimony concerning the carmen composed by a poet named Livius and sung by 27 virgines on the occasion of the expiatory rites in honour of Juno Regina. This account is compared with other passages where Livy deals with other early Latin literary ‘texts’, such as the carmen composed by Licinius Tegula in 200 bc or Menenius Agrippa’s appeal, alongside modern reconstructions of
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Livius Andronicus’ poetic career, in order to reassess our knowledge of early Latin literature. Luca Beltramini Livio e Polibio sull’assedio di Nova Carthago This paper compares the depiction of Scipio Africanus in Livy’s book 26 and Polybius’ book 10, focusing on the commander’s first great feat, the capture of Nova Carthago. A close comparison of the two accounts shows Livy’s will of modifying Polybius’ eulogistic portrayal, in order to give his reader a more nuanced portrayal of the commander, who imposed himself on Rome’s political stage as a new kind of charismatic leader. Thanks to his political and military skills, Scipio managed to bring Rome to victory, but, on the other hand, his leadership was representative of an ethos unsettlingly far from traditional Roman mos maiorum. Vincenzo Casapulla L’assedio di Locri nel libro 29 di Livio In this paper Livy’s account of the recapture of Locri by Scipio in 205 bc is compared synoptically with other historians’ extant versions, so as to recognize which parts Livy inherited from his sources and which parts are likely to be innovative. The discussion focuses particularly on the assumption that Polybius’s lost account of this episode influenced Livy’s narrative. Such a hypothesis is far more controversial than usually admitted. Indeed, Livy’s narrative presents some features which are in open contrast with certain extant parts of Polybius’s work. However, the presence of features like these is likely to be due to Livy’s bias in handling Polybius as a source. Tommaso Ricchieri Lucio Q uinzio Flaminino e Catone nella narrazione liviana fra tradizione e censura (39, 42 – 43) The author deals with Livy’s account of the scandal involving Lucius Q uinctius Flamininus, brother of the famous Titus, whom Cato expelled from the Senate on charges of having murdered a Gallic nobleman to please his lover (184 bc). The chapter analyses the different versions of the episode reported by Livy, focusing on the gender and identity of Lucius’ lover and the identity of the victim. Giovanna Todaro Id quidem cavendum semper Romanis ducibus erit. Il caso dei fratelli Scipioni This chapter offers a close analysis of Livy’s account of the defeat of P. and Cn. Scipio, father and uncle of the future Scipio Africanus, whose death put Rome’s stronghold in Spain in serious danger. Livy’s account of the episode points to its peculiar exemplary value, showing the historian’s concern with the moral and didactic value of history. Bernard Mineo Structure dialectique et structure architecturale dans l’Ab urbe condita de Tite-Live Livy’s Ab urbe condita is built on two monumental and complex structures: one, visible to all, consists in Livy’s work being divided into groups of books (simple
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book, pentades, decades, pentekaidecades); the other one remains invisible to the eye and consists in the organization of the narrative according to a historical dialectic reflecting a cyclical conception of time. This paper aims at showing how Livy has succeeded in combining a dialectic structure and an architectural structure (the division into books), so as to make his philosophy of History visible in the external structure of his work. Marine Miq uel Histoire et vérité chez Tite-Live. Manifestations auctoriales et nœuds narratifs dans l’Ab urbe condita Livy is usually regarded as an author who spares his comments and barely mentions his method or his historical view, whereas a historian like Polybius offers his audience long and enlightening developments on his historiographical vision. Yet, if we thoroughly read the Livian text, we shall think differently. Indeed, we find numerous authorial comments in the Ab urbe condita, on the use of sources, on the veracity of the reported facts, or on the lessons learned from the narrative. In this paper, we intend to focus on the authorial passages, i.e., the ‘narrative nodes’ in Livy’s work. Each passage conveys the image of the historian at work, talking about his research, justifying the sorting of his sources, ordering and commenting those. In this regard, they are at the heart of Livy’s vision of history and historical writing. The purpose of this study is to go beyond the approach of Q uellenforschung and to study such passages in their narrative function. Thanks to a study of the semantics of narrative terms, we will at first underline how these narrative nodes show the various sources, and shape the persona of an historian who, as Marincola underlines it, both follows the tradition and departs from it. These nodes also slow down or stop the narrative, in order to draw public attention. They then provide narratio which is a turning point of the account and which questions the power of generals and statemen or the links between knowledge and conquest. This study on the narrative nodes in the Ab urbe condita will finally allow us to understand the links between truth and historical narrative in Livy’s vision. Virginia Fabrizi La guerra nel Foro. Analisi e implicazioni di un ricorrente tema liviano The narrative construction of space in Livy’s Ab urbe condita centres on the fundamental dichotomy between Rome’s urban space, which is the site of politics and civic life, and the external military space. In the First Pentad, however, this distinction is repeatedly put into question by the recurring narrative motif of war in the Forum, which is the focus of this essay. The Forum comes into existence, both physically and narratively, through the battle between the Romans and the Sabines in Livy 1.12–13. The narrative of the Struggle of the Orders in Books 2–5 often represents the Forum through war metaphors, military vocabulary and the occasional use of epic motifs and conventions. At the end of the Pentad, during the great crisis that precedes the re-foundation of the city, the Forum becomes once more a space of war as it falls prey to the Gallic invaders. The Forum thus emerges as the space par excellence of encounter and struggle – the space, moreover, where the inner destructive energies of the community constantly threaten to break out unless they are redirected onto the external world.
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Elisa Della Calce Le virtù dei nemici di Roma nelle ultime decadi liviane. L’esempio della clemenza This paper focuses on the way Livy presents the clemency of three major enemies of Rome in the last preserved decades of his AUC. Hannibal’s clemency in the third decade is the model against which to compare Philip V’s and Antiochus III’s exercise of this virtue. The analogies and, above all, discrepancies are highly revealing of Livy’s different attitude towards these three foreign leaders.
PARTE II
LIVIO COME FONTE STORICA E STORIOGRAFICA
Francesca Cenerini Il ruolo delle donne nella narrazione liviana: alcuni esempi Livy’s narrative of events concerning women has been interpreted as reflecting his desire to present ‘formative models’ of the behaviour of the ideal matron, starting with the story of Lucretia. It should be noted, however, that Livy is aware of the change in the status of women during the Republican age and proposes family harmony as an ever-present value. Paolo Desideri Livio, Dionigi, e Machiavelli, sul conflitto patrizio-plebeo This chapter offers a close comparison of Livy’s and Dionysius’ accounts of some key episodes of the struggle of the orders. The two historians start from a similar theoretical frame, based on Polybius’ (and later Cicero’s) interpretation of the ‘mixed constitution’ as the foundation of republicanism, but they differ radically from an ideological point of view. The general outset of the two authors’ works reflects this differing ideological perspective. Arnaldo Marcone A proposito della battaglia di Azio. Tradizione augustea e tradizione liviana This chapter deals with the reception of the battle of Actium in Augustan poetry, focusing on the ideological development of the representation of the battle. The poetic versions of the battle are then compared with Livy’s treatment, as it can be reconstructed from the Periochae, and the versions given by other ‘Livian’ sources, such as Plutarch and Cassius Dio. Luca Fezzi Gneo Pompeo ‘Magno’ nelle Periochae This article attempts to reflect, on the basis of the Periochae, on the treatment of Pompey in the lost books of Livy’s Ab urbe condita. It is possible to identify an initial strong and favorable attention; even after the ‘first triumvirate’, there are many omissions on potentially embarrassing facts. Understandably, the focus shifts more and more to Caesar and his Gallic enterprise, as well as to his unstoppable advance during the civil war.
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Francesca Cavaggioni Storiografia e leges publicae. Il caso di Livio, AUC 21-30 This contribution proposes a re-examination of the problem of the reliability and completeness of Livy’s account for the reconstruction of republican legislative activity, on the basis of a complete survey of the references to leges contained in the third decade. The analysis of the narrative modalities with which Livy reports the discussion and the promulgation of these measures enriches our knowledge of his historiographic perspective: the celebration of the concordia between the different components of the citizenship is central in this context, a celebration that does not hide the highly complex and sometimes difficult aspects of republican political life. Marco Rocco Attività legislativa e ritratti di re in AUC 1 Although the so-called leges regiae are mainly transmitted by Greek sources, primarily Dionysius of Halicarnassus and Plutarch, Livy in his first book records a number of legislative measures that were issued by kings. These ‘laws’, some of which we find exclusively in the Ab urbe condita libri, can be framed in various ways within the context of kings’ legislative activity. All the passages relating to this activity are ordered according to the type of measure considered and are examined from a narrative, lexical and stylistic point of view, in order to verify what Livy is aiming at by choosing from time to time only certain information offered by the sources and diversifying narrative and rhetorical techniques. It is possible to note that Livy adapts his story not only to the different types of measures considered, but also to the narrative function assigned to each of them. In general, at least two trends can be observed in Livy: he describes with particular care the sacred formulas of some laws, if he considers that their value is still foundational and exemplary for his time; at the same time, he makes sure to point out all aspects of the content of the law that may appear consistent with the overall moral and political portrait of the author of the measure, in order to increase the verisimilitude of the story. Feđa Milivojević Livy and the Third Illyrian War – An Analytical Approach This paper provides a new perspective on several key problems of Livy’s information about the Third Illyrian War, more precisely, on the circumstances on the Eastern shores of the Adriatic that conditioned Rome’s military intervention, strategic and contributory causes behind the declaration of war, the position of Genthius as an ally (or a foe?) before the war and Rome’s mistrust of the Illyrian king. Further on, the author examines Anicius’ original military task and gives a new perspective on the consequences of the war, paying particular attention to Anicius’ proclamation, the borders of the three Illyrian regions and their organization, the privileged position of certain communities on the Eastern Adriatic, and the formation of the southern border of the future province of Illyricum, constituted over one hundred years later. Benoît Sans De Zama à Cynoscéphales. Étude comparée des stratégies rhétoriques de Tite-Live et Polybe This paper consists of a comparison between Polybius’ and Livy’s narratives of the battles of Cynoscephalae (Polyb. 18,19 – 32; Liv. 33, 6 – 10) and Zama (Polyb.
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15,9 – 16,6; Liv. 30,31,10 – 35) from a textual and rhetorical point of view. It shows the various techniques used by the authors to persuade and convince the reader and orient him towards specific conclusions. Beyond the authors’ own uses of the various techniques, they share a common basic mechanism: the historical narrative functions like a rhetorical narratio which presents the facts in such a way that arguments can be drawn from them.
PARTE III
LIVIO E L’ARCHEOLOGIA
Paolo Carafa Una nuova pagina di Livio. L’archeologia della prima Roma Recent archaeological discoveries on the Palatine Hill testify for the first time the history of the core of Rome between the 9th and the 7th century bc. For this reason, they have been defined as ‘a new page of Livy’. Monica Salvadori – Luca Scalco Elementi iconografici della disfatta: il modello della Canne liviana Livy’s narrative of Cannae’s catastrophic ending stands out for its iconic power in the Ab urbe condita and in other reports of the same tragic defeat (Liv. 22, 51-54): the historian describes the aftermath of the battle from the Carthaginian point of view and lingers on the grim details of corpses and wounded survivors. The harshness of such elements conveys the idea of a total defeat of an army and made them suitable to be utilized in other aftermath narratives – both earlier and especially later than Livy’s – but rarely with such intensity and abundance. The paper aims to detect the presence of these elements also in the realm of Roman art, especially in the field of military iconography on public monuments. They tend to present more codified themes, such as heroic skirmish, bloody battles and sieges, but tend to avoid more troublesome representation, such as the field covered by corpses and wounded soldiers. Nevertheless, some scenes on Trajan’s column (18-20, 29, 41), on Adamklisi’s Tropaeum (24) with Dacian remains (24), and of Marcus Aurelius’ column (8, 16, 41) with Germans’ corpses, can be classified as aftermath images, for they reveal a macabre particularism very close to that of the literary reports. The structure of such images recalls those iconic elements which characterize the Livian exemplum and elaborates them in specific semantic symbols, inserting them in new narrative contexts. Maria Stella Busana – Claudia Forin La villa nell’opera di Tito Livio. Tra fonte letteraria e dato archeologico This paper aims to verify the value of Livy’s work for the interpretation of archaeological data, focusing on references to the villa, that is, a productive settlement isolated in the countryside. Livy’s references to villas are compared with the new archaeological data from excavations and surveys carried out in central and southern Italy. The goal is to understand whether the choice of the term villa by Livy is conscious and corresponds to a historical reality, whether it is a projection of reality that is contemporary to him or whether it is a literary topos. It can be observed that, despite the use of the term ‘villa’ as a generic reference and the possible recourse to a
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literary topos, the Livian villae landscape appears to be substantially real and constitutes a stimulating historical comparison for archaeological research. Guido Furlan Costruzione e manutenzione dei condotti fognari delle città romane. Il contributo dell’opera di Livio all’interpretazione dei dati archeologici Waste management in the Roman world is a recent yet well-developed topic. In this field, archaeological evidence (sewers, dumps, rubbish pits etc.) is as important as written sources, which cast light on aspects leaving no trace in the archaeological record. Livy’s work, in particular, offers substantial clues to interpret those contexts formed by the progressive filling of sewers and culverts. This kind of analysis, in turn, represents a key tool for interpreting the nature and the effectiveness of the measures taken by the civic authorities to manage urban infrastructures and rubbish disposal; this is a proxy of the health of the urban system, today as well as in antiquity. Indeed Livy, sketching the drama of the end of the monarchy in Rome and then the period of Cato Censor (1,59; 39,44), reminds us of the necessary, periodic cleaning of the sewage and drain system, that is, one of those activities of purgatio leaving no material sign in the archaeological record; conversely, it produces a sounding absence, intra moenia, of materials related to specific periods. In other words, Livy’s excerpts are a crucial element for interpreting those formation processes which are the focus of the interpretive activity of field archaeologists. This represents a good example of the productive connection existing between literary sources and modern archaeological practice. Livy’s text does not only offer precious elements for evaluating routine maintenance activities; describing the reconstruction of Rome after the Gallic fire in 390 bc (5,55), it also highlights the very ratio laying behind the construction of sewage and draining systems and their bond with the urban grid. Through the negative example of Rome, the author recalls the importance of careful planning, particularly concerning the relation between sewage systems and public spaces (streets). In sum, Livy’s work provides surprising key elements for the hermeneutic of the archaeological excavation and, more in general, for the interpretation and knowledge of the ancient urban centres and their infrastructures and, eventually, of invisible aspects connected with their maintenance and management.
PARTE IV
LETTORI DI LIVIO DAL TARDOANTICO ALL’ETÀ MODERNA
Antonio Pistellato Additamenta storico-narrativi alla Periocha 49 di Livio This chapter deals with a curious portion of Periocha 49 (sections 21-27), focused on Andriscus, the so-called pseudo-Philippus. Starting from a systematic examination of previous critical stances, which tended to polarise around opposite interpretations, the paper offers a comparative analysis of the Periocha and Livy’s surviving books, which shows that the section devoted to pseudo-Philippus is consistent with Livy’s language and style. This study, moreover, allows to further explore Jal’s suggestion that Per. 49 shows the epitomizer’s (and his audience’s) interest in the so-called histoires merveilleuses, by placing this text in a broader
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narrative and cultural context, which can be traced in contemporary Latin and Greek sources. Mariella Tixi La ricezione dei prodigia liviani in Giulio Ossequente, tra persistenze ideologiche e novità narrative The compositional technique adopted by Julius Obsequens in his Liber prodigiorum is examined through a direct comparison to the Livian text. The resulting analysis of the similarities between the two texts, beyond the evident word-by-word rewriting of some Livian passages, clearly enhances the effects of compendious textual perspective, which is characteristic of Ossequente’s lexis, over the organization and compression of historical data. The advantage of all this is a revival of traditions, both expressive and theological, which make up the typical features of the ‘sermo prodigialis’. Concetta Longobardi Velut Hannibalis verba sunt. Letture antiche di Livio Livy’s presence in the scholastic corpora of Late Antiquity constitutes an important observation point for understanding which text was read in school contexts and in which forms it was known to those who commented the authors. The presence of Livy is in fact very sparse among the works of Late Antiquity, while the citations of the ancient scholars are more substantial, especially in the case of Lucan’s comments. A comparison between these, the Horatian commentaries, and Servius allows us to highlight how the references to Livy are fundamentally paraphrased or contain textual portions not otherwise known; they appear to be drawn from an epitomized form of the Ab urbe condita libri. Maria Nicole Iulietto Una persistenza liviana a Cartagine In the broader perspective of Livy’s late antique Fortleben, this paper focuses on the historian’s fortune in the literary production of Vandal-ruled Carthage (6th cent.), as reflected in a short poem of the Anthologia Latina concerning the legend of Mucius Scaevola (Anth. Lat. 155 Riese2 = 144 Shackleton Bailey = Unius Poetae Sylloge 66 Zurli). This poem suggests a direct knowledge of Livy’s work (or at least of its initial books) by the anonymous author. Marco Di Branco Livio e Orosio in al-Andalus (Cordova, X secolo d.C.) In a fundamental monograph published forty years ago, Fabrizio Fabbrini has perfectly highlighted how the great historiographic work of Titus Livius is at the base of the Historiae adversus paganos by Paulus Orosius, one of the most important historical Latin texts of Late Antiquity. All this is certainly well known to classicists. Perhaps less well-known is the story of the transmission to the medieval Arab world of Livy’s account of the history of Rome through the Kitāb Hurūšiyūš, a translation made in Cordoba for the Andalusian caliph al-Hakam II al-Mustansir (961-976 ad). This article surveys the events related to this translation, which was to become the fundamental access point for the Arabs of the Middle Ages to the history of the Greco-Roman world.
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Ann Vasaly Livy’s Preface and Petrarch, Fam. 1,1: Method and Meaning in Petrarchan Imitatio Despite clear evidence of Petrarch’s extensive knowledge of and admiration for Livy’s history, there has been little scholarly investigation of the importance that the many allusions to the text of the AUC have for the content and meaning of Petrarch’s letters. This essay makes a brief contribution to this topic, by identifying three subtle echoes of the preface to the AUC found in the dedicatory letter of Petrarch’s first epistolary prose collection; by briefly surveying the author’s theoretical statements on classical imitatio; and by exploring, in light of these statements, the possible significance of these Livian ‘intertexts’ for the letter’s readers. Giuliana Crevatin Nicola Trevet introduce alla lettura di Tito Livio. Proemio dell’expositio e expositio del proemio The first commentary on Livy was written by the Dominican friar Nicholas Trevet, at the request of Pope Johannes XXII, between 1317 and 1319. Some extracts of this expositio are preserved in the margins of Landolfo Colonna’s precious illuminated manuscript of Livy (Parisinus lat. 5690), transcribed by Landolfo himself. This chapter proposes an edition of Trevet’s exposition of Livy’s praefatio and of the short Accessus that introduces it. The edition is introduced by an analysis of the rhetorical schemes and the method followed by Trevet, which offer a significant testimony of late Scholasticism. Andrea Salvo Rossi Discorsi sopra la ‘terza’ decade. Machiavelli di fronte alla seconda guerra punica This paper deals with Machiavelli’s comment about the events that determined the involvement of Syracuse in the Second Punic War (214 bc) as reported by Livy in Ab urbe condita (book 24). This comment is part of a block of chapters (2.13-2.16) focusing on the Latin War (340 bc) and thus represents a strong flashforward that breaks the chronological path of the Discorsi. This essay suggests that Machiavelli needed this ‘syracusan’ excursus in order to focus on the specificity of the ‘weak States’ during the wartime: Syracuse becomes a duplication of Florence when involved in the conflict between the Duchy of Milan and the Kingdom of France in the summer of 1499. Still vividly remembering those political circumstances, Machiavelli rewrites the Livian episode in order to adapt it to the ‘effective truth of the matter’ he learnt during his political work as secretary of the second chancellery. Lucio Biasiori Discorsi mancati. Machiavelli e gli Homini illustri di Pietro Ragnoni The origins of Machiavelli’s Discourses on Livy are still a matter of debate. In particular, research on the work’s literary genre has yet to offer consistent results. Some scholars, following Machiavelli’s own remarks, have suggested similarities with commentaries on Emperor Justinian’s Digest or collections of clinical cases.
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Others have singled out the importance of his master Marcello Virgilio Adriani’s exegetical method. Still others have highlighted the connections with vernacular literary commentaries, such as that by Cristoforo Landino on Dante’s Divine Comedy or that by Jacopo Bracciolini on Petrarch’s Triumph of Fame. This essay joins the debate by analyzing the Homini illustri (Illustrious men) composed by the Sienese Pietro Ragnoni. This commented translation of the fourth-century De viris illustribus shows many resemblances with the Discourses, first in terms of literary genre, then in the topics addressed, and finally in the two authors’ biographies. Ragnoni, who was very close to the de facto Lord of Siena, Pan dolfo Petrucci, wrote (1503) and published (1506) the Homini illustri in the very same months when Machiavelli stayed in Siena as an emissary of the Florentine republic. Paul van Heck I Discorsi su Livio da Niccolò Machiavelli a Pietro Giannone After Niccolò Machiavelli’s Discourses on the First Decade of Livy, between the second half of the sixteenth and the first half of the eighteenth century four more treatises in Italian were written with the title Discourses on Livy. They are the Discourses on the First Book of the Third Decad by Vincenzo Dini (publ. 1560-63), the Twenty-five Political Discourses on Livy. On the Second Carthaginian War by Aldus Manutius the Younger (publ. 1601, but written some time earlier), the Discourses on Livy by Antonio Ciccarelli (publ. 1598), and the Discourses on the Annals of Livy by Pietro Giannone (written 1737-48, publ. 1859). The present article offers a comparative analysis of these four treatises, briefly summarizing their content and major characteristics and paying special attention to their relationship with the works of Livy and Machiavelli. Franco Biasutti Livio tra traduzioni e teoria della storia. Machiavelli, Patrizi, Speroni By focusing on Livy’s reception, the research aims to verify the existence of a link between the activity of rediscovery, translation and therefore dissemination of ancient historiography on the one hand, and the activity of theoretical elaboration, that is of reflection on the meaning of history, on the other, activities that both characterize the Renaissance period. The study considers the Venetian Renaissance as its background as well as its limit and refers to three authors who are certainly very representative within this cultural field: Niccolò Machiavelli, Fran cesco Patrizi and Sperone Speroni. The result is as follows. The vulgarizations of the classics of ancient historiography do not constitute a production of an erudite character with literary purposes, but obey the idea of a civil and political function of history, and had the statesman as their ideal reader. At the same time, the theoretical reflection identifies historical knowledge as the bearer of a truth capable of acting as a social therapy: history is the great theatre of all human events, where, from experience, it is possible to identify a way to steer the government of public affairs towards potential happiness.
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ABSTRACTS PARTE V
LIVIO NELLE ARTI FIGURATIVE
Giulia Simeoni I manoscritti medievali illustrati degli Ab urbe condita libri di Tito Livio. Il caso del codice Arch. Cap. S. Pietro C 132 This contribution proposes an examination of the reception of Livy’s Ab urbe condita in the medieval illuminated manuscripts. It focuses on the ms. Arch. Cap. S. Pietro C 132 with the aim of analyzing the illustrations under their stylistic and iconographic aspects, and of reconstructing its collecting events. Maria Federica Petraccia Il recupero di un mito liviano. ‘Il Ratto delle Sabine’ The great fresco painted around 1565 by Luca Cambiaso on the vault of Di Negro’s Villa in Genoa represents a subject considered emblematic by contemporaries for the use of power during the Roman monarchy, a very interesting theme even at the time of the Republic of Genoa: the Rape of the Sabine Women. The fresco represents an ideal dialogue between the classical literary author, the patron (Negrone di Negro, a rich minister of the Duke of Savoy and an aristocrat of the Republic of Genoa), and the painter. The aim of this paper is to highlight, for the first time with regards to this Villa, how the biographical experiences of Negrone di Negro take on shapes, colours and matter thanks to Cambiaso’s brushes, as they are described through the allegory of one of the better-known episodes of Roman ‘mythology’. The Genoese cultural landscape is clarified by a documentary survey on the libraries of the city’s aristocrats, a crucial element in precisely identifying the antiquarian taste and the strong will which undoubtedly inspired the desire to create such a great masterpiece, even considering similar episodes in the same period and geographical area. Archival sources, an art-historical approach and philology are used at the same time to offer a multidisciplinary view of Genoese culture of the 16th century, through the fundamental overview of the classical sources (Plutarch, Life of Romulus, XIV-XV), with particular attention to Livy (I, 9), widely present in the examined Genoese libraries.
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