L’Italia dalla dittatura alla democrazia. 1919-1948 [Vol. 2]


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Italian Pages 387 Year 1972

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L’Italia dalla dittatura alla democrazia. 1919-1948 [Vol. 2]

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FRANCO CATALANO

L’Italia dalla dittatura alla democrazia 1919/1948 VOL.2

FELTRINELLI UE 614

Franco Catalano

L’ITALIA DALLA DITTATURA ALLA DEMOCRAZIA 1919/1948 Volume secondo

Con Γ8 settembre, dopo una guerra non sentita e già perduta, non giunge la pace: solo la lotta contro un nemico implacabile può con­ quistarla. Accanto agli alleati la condurranno le formazioni partigiane e i partiti del CLN, tra cui si distinguono comunisti e azio­ nisti. Nel gran filone della Resistenza europea, la guerra italiana di popolo è anche, al di là dei dissensi, sforzo di progettazione della rinnovata società futura. La pace ci restituisce un’Europa bipartita a Mosca nel ’44 da Stalin e Churchill, sottomessa al dominio' delle due superpotenze: con la vecchia Europa, matrice di guerre, soc­ combe il nazionalismo, fino ad allora motore delle politiche statuali. La Liberazione ci restituisce un’Italia che, cacciate le armate tede­ sche, cerca col governo Parri l’inizio del rinnovamento sperato e un compromesso tra il polo liberal-democristiano e il polo delle sini­ stre (PCI, Pd’A, socialisti): le difficoltà dell’ora e il sabotaggio dei liberali, crocianamente nostalgici della democrazia prefascista, cau­ sano prima l’impotenza e poi la caduta del governo. Il ministero De Gasperi abilmente illude PCI e PSI, “partiti di massa,” men­ tre dà spazio alla destra, elimina i CLN secondo i desideri liberali, rende incerto e contestato il referendum da cui nasce la repubblica. Il metodo del compromesso funziona per l’ultima volta nella pre­ parazione della nuova costituzione; per le minacce degasperiane il PCI accetta di inserirvi il Concordato, ma non evita la cacciata del­ le sinistre dal governo: la crescente tensione tra i blocchi e la crisi economica spingono i ceti dominanti a scegliere la via del modera­ tismo anticomunista e della ricostruzione liberistica, ispirata alle idee ottocentesche di Einaudi e non alla lezione keynesiana e all’espe­ rienza rooseveltiana. La mancata guida cosciente dello sviluppo lascerà un pesante retaggio; la Costituzione approvata nel ’48 resterà invece una conquista preziosa: inerte, se inattuata e indifesa, fe­ conda, se inverata e rinnovata ogni giorno da ciascuno di noi. Franco Catalano è nato a Fidenza nel 1915 ed è professore incaricato di storia contemporanea all’Università di Milano. Tra le sue opere ricordiamo La storia del C.l.n.a.i., Bari, 1956; L’età sforzesca, Milano, 1956; La fine del dominio spa­ gnolo in Lombardia, Milano, 1958; Illuministi e giacobini del Settecento italiano, Milano, 1959; Vita politica e questioni sociali, 1859-1900, Milano, 1962; Milano tra liberalismo e nazionalismo, 1900-1915, Milano, 1962; Potere economico e fa­ scismo, 1919-1921, Milano, 1964; Stato e società nei secoli, 4 voli., Firenze-Messina, 1966-1969; Storia dei partiti politici italiani, Torino, 1969; L’economia ita­ liana di guerra, 1935-1943, Milano, 1970

Prezzo dei due volumi L. 2.200

Copertina: Liliana Landi

Universale Economica

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Franco Catalano

L’Italia dalla dittatura alla democrazia 1919-1948 Nuova edizione accresciuta VOLUME SECONDO

Giangiacomo Feltrinelli Editore I

Prima e seconda edizione: 1962 e 1965 (Lerici editori)

Prima edizione nell'Universale Economica: ottobre 1970 Seconda edizione nell’Universale Economica: maggio 1972

Copyright by ©

Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

Capitolo primo

I problemi iniziali della Resistenza

La nascita del Comitato di Liberazione Nazionale

La fuga del re e del Badoglio rese necessario creare, al loro posto, un’altra autorità nella Roma che stava per es­ sere occupata dai tedeschi: infatti, il 9 settembre si riunì il consiglio dei ministri — tranne, naturalmente, il presi­ dente ed i ministri militari che stavano per imbarcarsi ad Ortona a Mare — ma dovette sciogliersi senza poter deli­ berare nulla, ignorando tutto della situazione. La dissoluzio­ ne del governo fu resa sensibile dal gesto dei ministri Piccardi e Severi {quest’ultimo dell’Educazione Nazionale) che fecero, come scrive il Bonomi, atto di adesione al Comitato nazionale delle correnti antifasciste, il quale, pertanto, ve­ niva riconosciuto come l’organismo che poteva e doveva sostituire il ministero che ormai praticamente non esisteva più. Cosi in una riunione di quello stesso giorno, il Co­ mitato si trasformò in Comitato di Liberazione Nazionale in base ad un ordine del giorno proposto dal Bonomi e che, per il momento, fece tacere le due opposte correnti, quella rappresentata dall’azionista La Malfa che avrebbe voluto "una dichiarazione di principio” naturalmente anti-monarchica, e l’altra del De Gasperi contraria alle ‘‘inutili paro­ le”: "Nel momento in cui il nazismo tenta restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifasci­ sti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel conses­ so delle libere nazioni.” Ancora c’era, il 9 settembre, la speranza di poter oppor­ re una valida resistenza ai tedeschi e, perciò, si capisce que­ st’ordine del giorno effettivamente alquanto “sommàrio e generico” (Ragghianti), e si capisce anche come gli azioni­ sti abbiano potuto approvarlo, sebbene facessero seguire ad esso un commento più impegnativo sull’/talid libera in cui si diceva che il popolo italiano possedeva ^‘fmaltsqnte 0.

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un organo autorevole che [poteva] rappresentarlo dinanzi a chiunque." Era, questa, una posizione che sembrava trop­ po ardita ad alcune correnti, a quelle moderate, ma che do­ veva inevitabilmente imporsi, tant’è vero che 1Ί1 settem­ bre in una nuova riunione del Comitato, lo stesso Bonomi, senza dubbio più vicino alla destra che alla sinistra, con­ statando l’assoluta assenza di istruzioni da parte del go­ verno, esortò i rappresentanti dei vari partiti a tenersi pre­ parati "per agire in un’ora ancora ignota ma forse non troppo lontana. In quell’ora bisognerà,” soggiunse, "en­ trare da protagonisti sulla scena." Il giorno seguente, 12, altra riunione in cui si formulò questa ipotesi, come scrive ancora il Bonomi: "Gli anglo-americani entrando in Roma constateranno che la monarchia e il Governo non funzio­ nano più perché assenti e fuggiaschi, perciò il Comitato di Liberazione potrà essere considerato da loro come l’unica organizzazione capace di assicurare la vita del paese, cioè quasi come un Governo di fatto che governa nella carenza di ogni altro. A tal fine si [deliberò] la redazione di un ma­ nifesto per precisare il carattere del Comitato di Libera­ zione e per chiarire che esso, pur non avendo investiture dall'alto, esprimeva la volontà popolare, dalla quale traeva la sua autorità e la sua legittimità.” Sembrava, dunque, che un accordo si fosse raggiunto fra le varie correnti politiche sulla estensione dei poteri del CJL.N., che derivava la sua legittimità e la sua autorità dalla volontà popolare e che rappresentava il governo di fatto nell’Italia occupata dai tedeschi. La monarchia era quasi dimenticata e, senza dubbio, essa veniva gravemen­ te esautorata da questa deliberazione; molto probabilmen­ te la sua difesa sarà apparsa impossibile, in quel momen­ to, anche ai partiti che rimanevano monarchici. Ma un aiuto insperato venne a questi ultimi dal Churchill, il qua­ le in un suo discorso alla Camera dei Comuni, il 21 set­ tembre (in cui rese omaggio ai "sentimenti elementari di umanità del popolo italiano" che aveva soccorso con ogni mezzo i prigionieri alleati liberati dai campi di concentra­ mento e li aveva aiutati o a raggiungere la Svizzera o a ri­ fugiarsi in montagna), disse che "per l’interesse generale e per quello dell’Italia [occorreva] che tutte le forze della vita nazionale italiana superstiti si [stringessero] assieme al loro Governo legittimo e che il re ed il maresciallo Ba­ doglio avessero l’appoggio di tutti gli elementi liberali e di sinistra.” Nello stesso giorno ripeteva, in un messaggio al Roosevelt, che era “d’importanza essenziale dare al re 6

e all’Amministrazione di Brindisi autorità di governo e unità di comando su tutta l’Italia”; Badoglio, secondo lui, rappresentava il legittimo governo italiano. Nel tempo stes­ so, però, premuto dai laburisti — che alla Camera dei Co­ muni lo avevano frequentemente interrotto — e dall’opi­ nione pubblica più sinceramente liberale, era costretto ad insistere sul dovere del re e del Badoglio di "costituire il più largo Governo di coalizione antifascista possibile” e sulla necessità di considerare qualsiasi accomodamento co­ me provvisorio, dettato dalle esigenze belliche e tale, ad ogni modo, da non "pregiudicare menomamente il diritto indiscutibile della nazione italiana di scegliere e decidere il futuro Governo del paese su linee democratiche, quando le [fossero state] restituite la pace e la tranquillità.” Da queste contraddittorie dichiarazioni una cosa risul­ tava con chiarezza: che Vittorio Emanuele III doveva ri­ manere in carica fino alla pace e che il governo Badoglio era l’unico riconosciuto dagli alleati, il solo, come credeva il Churchill, che fosse in grado di combattere non solo contro i nazi-fascisti ma anche contro le gravi “condizioni di confusione e di anarchia prevalenti in Italia," sopra ogni altra cosa temute dal premier inglese. Tuttavia, l’allarga­ mento del governo era da lui ritenuto indispensabile, men­ tre un sovrano che si riconosceva quasi in stato d’accusa di fronte al suo popolo, quale autorità poteva avere? Erano veramente dichiarazioni poco chiare, sebbene esse rappre­ sentassero, in definitiva, un aiuto per le correnti politiche italiane di destra, che avevano dovuto subire, nei giorni pre­ cedenti, la volontà dei partiti di sinistra: questi avrebbero voluto la sospensione delle prerogative regie già durante la guerra per realizzare veramente una nuova unità popo­ lare attorno alle aspirazioni democratiche. Il Bonomi rive­ la appunto quanto uscissero rafforzate le destre dal discor­ so di Churchill: la monarchia, sebbene sub judice e pre­ caria, ricondotta a Roma dagli alleati avrebbe ripreso la sua normale funzione e, di conseguenza, il C.L.N. non avreb­ be potuto attendersi nessun riconoscimento che lo abilitas­ se al governo del paese.

Contrasti fra destra e sinistra nel C.L.N. romano Si era determinata, perciò, una nuova situazione che consenti ai democristiani, ai liberali e ai laburisti (quelli della democrazia del lavoro) di tentare di sovvertire il rap­ 7

porto di forza che si era stabilito nel Comitato. La riunio­ ne del 28 settembre fu tutta dedicata alla discussione di questo problema: ancora una volta, però, l’iniziativa fu delle sinistre, battendosi il partito d’azione (La Malfa) con decisione per la sospensione delle prerogative regie e quel­ li socialista (Nenni) e comunista (Scoccimarro) per l'assun­ zione del potere da parte di un organo investito dalla vo­ lontà popolare, cioè da parte del CJL.N. e per la condanna di ogni compromesso con il governo Badoglio. Insomma, il p. d’a. era più preoccupato della questione istituzionale e il p.s.i. e il p.c.i. piuttosto di quella del governo per una efficace direzione della guerra, perché questa discussione riguardava anche direttamente i poteri del Comitato, il qua­ le doveva essere riconosciuto come l’effettiva e sola autori­ tà del paese. Le destre, invece, che non avvertivano l’impor­ tanza di questo problema, sarebbero state disposte a tratta­ re con il Badoglio, pur riservandosi di agire per una caratte­ rizzazione più liberale del governo, come osserva il Ragghianti, ed accettavano naturalmente la monarchia, che non volevano fosse dichiarata decaduta. Il Casati, liberale, minacciò la rottura della unanimità nazionale se si fossero sospese le prerogative regie. Più difficile era la posizione di coloro — democrazia cristiana (Gronchi) e Bonomi — che non riconoscevano la figura del monarca, ma nel tempo stesso non volevano gettare sul tappeto la questione isti­ tuzionale e, implicitamente, del governo Badoglio; se non si riconosceva il re non si doveva riconoscere nemmeno il generale e si doveva porre la questione istituzionale, se lo si riconosceva, allora non si poteva porre questa que­ stione. Peraltro, si trattava di una posizione che rifletteva quel­ la del Churchill e, perciò, aveva molte probabilità di suc­ cesso, come dimostrò l’approvazione, avvenuta il 5 ottobre, dopo altre discussioni, di un ordine del giorno formulato dal Bonomi che, dopo aver riassunto i motivi per cui il Comitato antifascista si era trasformato in Comitato di Li­ berazione Nazionale, precisava i due "doveri dell’ora.” “1) deferire al libero voto del popolo, convocato al ces­ sare delle ostilità, la decisione sul problema istituzionale, e pertanto invitare alla concordia gl’italiani, richiedendo loro di rinviare, in omaggio all’unità spirituale del paese, le questioni che possano dividerli e di rimettersi lealmen­ te alle decisioni popolari; ”2) dar vita ad un governo non militare, ma politico che, raccogliendo tutte le forze antifasciste, possa condur­ 8

re la lotta contro i tedeschi e contro i fascisti, governo che, nella sospensione di fatto di tutti i poteri costituzionali sconvolti e distrutti dalla contaminazione fascista e dagli avvenimenti di questi giorni, assuma il carattere di un go­ verno straordinario il quale, senza pregiudizio alcuno di quanto sarà per stabilire la libera volontà del paese, ab­ bia tutte le facoltà per condurre, nella concordia degli ita­ liani, la guerra di liberazione e per creare le condizioni del­ la libera consultazione del popolo." Era un ordine del giorno interlocutorio e che troncava per il momento, il contrasto fra le due parti del Comitato non assegnando la vittoria né all'una né all’altra: ecco perché quasi tutti se ne mostrarono insoddisfatti, pur aven­ dolo approvato perché non si poteva fare altrimenti.

1 compiti del C.L.N. di Milano

Se a Roma si discuteva con vivacità dei problemi della monarchia e del governo (che erano senz’altro problemi di grande importanza in quanto implicavano le funzioni del C.L.N.), a Milano i problemi di cui ci si occupava erano pro­ fondamente diversi. La decisione di trasformarsi in Comi­ tato di Liberazione fu presa in una delle prime riunioni do­ po Γ8 settembre, quando si seppe dal Nenni della analoga decisione romana. L’incipiente attività delle bande arma­ te — composte, allora, di ufficiali e soldati che non si era­ no rassegnati alla cattura da parte dei tedeschi, ai quali si erano aggiunti, come scrive il Valiani, i giovani pili ar­ dimentosi, militanti nei partiti antifascisti — fece nascere subito la questione di un comando militare e lo stesso Nen­ ni chiese al Parri se fosse disposto ad assumersene la re­ sponsabilità; ma questi rispose che, per il momento, la situazione gli sembrava ancora troppo confusa per pensa­ re ad un vero e proprio comando militare. Un altro grave problema che dovette affrontare il Comitato milanese fu quello degli aiuti ai prigionieri alleati, che erano lasciati liberi di scegliere fra queste tre soluzioni: unirsi alle ban­ de in montagna, o stare nascosti presso famiglie soprattut­ to di contadini, oppure passare in Svizzera. In genere, essi sceglievano la prima o la terza soluzione e in questo caso bisognava rifornirli di scarpe, vestiario, coperte, pagare le guide nel caso che volessero andare in Svizzera (il Comita­ to favoriva la prima soluzione, perché in tal modo si raf­ forzavano le formazioni di cui, in quei primi momenti, cir­ 9

ca un quarto degli effettivi fu costituito da ex-prigionieri). E quelli che sceglievano di rimanere presso famiglie pri­ vate erano trattati con un profondo senso di umanità che dimostrava come la propaganda fascista dell’odio fra i po­ poli e, in particolare, contro l’Inghilterra, fosse penetrata poco nelle semplici anime dei nostri contadini o operai: il loro contegno era detto, in una relazione del Comitato di Torino, "ammirevole,” perché soffrivano la fame pur di di­ videre con i prigionieri il loro pane e sopportavano, senza lasciarsene impressionare, gli arresti e le fucilazioni mi­ nacciati dai bandi tedeschi; dimostrazione palese di quanto il coraggio civile sia, non poche volte, più diffìcile del corag­ gio militare, in guerra. In tutte le province si venivano formando i C.L.N. e quello di Milano, per la stessa posizione centrale della città e per l’autorità degli uomini che in essa si trovava­ no, acquistava a poco a poco una importanza preminente, certo non dal punto di vista militare — che, in tal senso, ben più importanza aveva il C.L.N. di Torino, che doveva dirigere una lotta partigiana nelle numerose valli molto più estesa che in Lombardia —, ma dal punto di vista po­ litico e organizzativo. Infatti, esso si mise quasi subito in collegamento con i rappresentanti alleati in Svizzera (Alien Dulles per l’O.S.S. americano e McCaffery per la Special Force britannica) attraverso i nostri uomini politici che si erano raccolti a Lugano dopo T8 settembre e tra i quali si trovavano esponenti di tutti i partiti democratici. Si for­ nivano notizie circa i movimenti delle truppe tedesche e dei loro depositi; si davano le parole d’ordine per i lanci (Saluti da Alessandro-, Saluti da Domenico-, ecc.) e si chie­ devano soprattutto mitragliatrici leggere con forte dota­ zione di munizioni; bombe a mano; apparecchiature per sa­ botaggio ferroviario; materiale di sussistenza; apparecchi radio T.R. con cifrario e istruzioni per mettere in grado le formazioni di corrispondere direttamente con gli angloapiericani. Il problema deH’armamento era veramente quel­ lo più importante, perché solo esso avrebbe consentito di passare dalla fase di assestamento ad una fase di attacco e di offensiva. Fra il settembre e l’ottobre, scrive il Longo, — accogliendo l’impostazione, per cosi dire, autonoma data alla lotta dal p.c.i., il quale non poteva certo contare sugli aiuti alleati — le azioni dei partigiani furono ancora "di ti­ po elementare”: “Sono azioni di molestia contro posti di blocco e caserme, colpi di mano per rifornirsi di armi e di materiali, atti di sabotaggio, imboscate.” Si doveva evitare 10

di spingere i tedeschi ad una violenta azione repressiva fino a quando non si fosse raggiunta una certa autonomia di armi, di viveri e di vestiario. La liberazione di Mussolini (12 settembre) e la formazione del governo repubblicano fascista Il 12 settembre paracadutisti germanici, guidati da Ot­ to Skorzeny, un tipo di avventuriero quattrocentesco, spre­ giudicato ed audace, avevano liberato il Mussolini dal Gran Sasso portandolo, poi, al Quartier generale tedesco. Questa liberazione aveva risolto il problema del nuovo governo, che si era posto ad Hitler non appena le sue truppe ave­ vano occupato ritalia. L'11 settembre il maresciallo Kesselring aveva pubblicato una ordinanza con cui dichiarava "territorio di guerra" e soggetto "alle leggi tedesche di guerra” tutto il territorio da lui controllato; dell’ordine pubblico venivano rese responsabili le "autorità e le orga­ nizzazioni civili italiane," le quali avrebbero dovuto impe­ dire “ogni atto di sabotaggio e di resistenza passiva contro le misure tedesche," che sarebbe stato giudicato secondo il diritto tedesco di guerra; ogni sciopero era vietato e "gli organizzatori di scioperi, i sabotatori e i franco-tiratori [sarebbero stati] giudicati e fucilati per giudizio somma­ rio." Ma era chiaro che i capi nazisti dovevano desiderare che si formasse un governo che evitasse loro la necessità di trattare il popolo italiano come un popolo vinto, ren­ dendo in tal modo molto più difficile la continuazione della guerra nella penisola. A questo proposito, Hitler aveva avu­ to un colloquio con il Tassinari, il quale aveva sostenuto, come ha riferito recentemente il generale Wolff (nomina­ to poi Comandante superiore delle SS e della polizia in Italia), che si dovesse costituire un governo apartitico con specialisti di valore al fine di eliminare il pericolo della guerra civile. Ma il Tassinari partiva dal presupposto che il fascismo fosse definitivamente finito, cosa che Hitler non voleva ammettere se aveva parlato, nel suo discorso al popolo tedesco del 10 settembre, di tradimento che ave­ va provocato le vicende italiane degli ultimi mesi. Sicché, quando il Mussolini (“pallido, invecchiato, un cappello di feltro nero calato sulla fronte segnata di rughe," cosi lo vide il Wolff) giunse in Germania, aveva deciso che dovesse formare un nuovo governo fascista continuatore di quello caduto il 25 luglio: “Führer,” disse il duce, "come posso 11

ringraziarvi per tutto quel che avete fatio per me e per la mia famiglia!,” e con queste parole aveva implicitamen­ te dato il suo consenso a tutto quello che avrebbe voluto Hitler. Né sembrerebbe, a stare al racconto del figlio Vit­ torio allora anch’egli in Germania, che avesse sollevato obiezioni all’invito a formare un nuovo governo, perché "forti ragioni, in parte a me sconosciute," soggiunge Vitto­ rio, lo spingevano a riprendere il comando delle superstiti forze politico-militari rimaste fedeli all’asse: in lui dovettero agire due motivi, uno dei quali fu probabilmente, come taluno disse, quello di rendere la Germania meno ineso­ rabile e intransigente nei nostri confronti ("Solo la mia persona,” disse, "è fuori di ogni sospetto e può essere di utilità, oggi, agli italiani”), e di far si che la penisola non fosse inondata di "marchi d'occupazione” che avrebbero ridotto alla fame il popolo italiano e rovinato la sua econo­ mia (già le forti spese dei militari tedeschi avevano provo­ cato un sensibile deprezzamento della nostra moneta). L’al­ tro motivo va ricercato nella sicurezza che la Germania non fosse ancora battuta: Hitler riuscì ancora una volta a infondergli fiducia nelle “armi modernissime capaci di ca­ povolgere le sorti della guerra." La guerra non era ancora perduta perché a Salerno la testa di ponte alleata avrebbe potuto essere, con un po’ di fortuna, circoscritta o addirit­ tura eliminata e in Russia, dopo la caduta di Karcov, non si disperava di fermare il fronte. Cosi, il 15 settembre l’agenzia ufficiosa "Deutsches Nach­ richten Bureau” annunciava che il Mussolini aveva ripre­ so la direzione del fascismo in Italia e riportava alcuni or­ dini del giorno con cui il partito nazionale fascista veniva chiamato partito fascista repubblicano (Alessandro Pavolini ne era nominato segretario provvisorio); venivano ripristi­ nate le istituzioni del partito e ricostituita la Milizia vo­ lontaria (comandante Renato Ricci) con il compito di for­ nire aiuto ai tedeschi combattenti sul territorio italiano, di dare al popolo immediata assistenza e "di riesaminare le posizioni dei membri del partito in rapporto al loro con­ tegno di fronte al colpo di Stato della capitolazione e del disonore, punendo esemplarmente i vili e i traditori”; in­ fine, il p.f.r. dichiarava gli ufficiali delle forze armate liberi dal giuramento prestato al re. In questi ordini del giorno erano già anticipate le linee fondamentali del risorto fasci­ smo, linee che il duce, parlando alla radio di Monaco, il 18 settembre, espose più ampiamente: solo la dinastia e gli uomini vicini ad essa con alcuni “invigliacchiti elementi 12

del fascismo" avevano preparato il tradimento e cercato di cancellare venti anni “di storia gloriosa”; ma ora, libe­ rato da ogni impaccio, il fascismo avrebbe potuto creare il suo Stato, “nazionale e sociale, nel senso più lato della parola." Il programma d’azione era il seguente: riprendere le armi al fianco della Germania (“soltanto il sangue può cancellare una pagina cosi obbrobriosa nella storia della Patria”); preparare la riorganizzazione delle forze armate attorno alla Milizia ("solo chi è animato da una fede e com­ batte per un’idea non misura l’entità del sacrificio”); eli­ minare i traditori e in particolare quelli che fino al 25 lu­ glio avevano militato nelle file del partito; annientare la plutocrazia parassitarla e fare del lavoro, finalmente, il sog­ getto dell’economia e la base infrangibile dello Stato: "Con­ tadini, impiegati e piccoli impiegati," concluse, "lo Stato che uscirà dall’immane travaglio, sarà il vostro Stato e co­ me tale lo difenderete contro chiunque sogni ritorni im­ possibili." Il fascismo riprendeva le affermazioni socialisteggianti delle origini e il Mussolini poteva sfogare il risentimento contro la borghesia che aveva nutrito dall’inizio della guer­ ra in poi: finalmente, esclamava, come se forze potenti e avverse avessero sino allora impedito o arrestato o devia­ to gli sviluppi sociali del suo movimento, di cui, pertanto, il fascismo non aveva nessuna colpa. Sembrava che il duce fosse convinto che, innalzando la bandiera repubblicana e popolare, le classi lavoratrici sarebbero accorse a lui dimen­ ticando appunto che il fascismo era stato, come confessa­ va lo stesso Mussolini, contrario alle loro aspirazioni. Evi­ dentemente, il duce non conosceva bene lo stato d’animo di quelle classi lavoratrici e non aveva assistito alle ma­ nifestazioni nate spontanee in tutta Italia alla notizia del­ la sua caduta, altrimenti la sua fiducia sarebbe stata meno intensa. Eppure, egli doveva trovare un ceto sociale sul quale appoggiarsi e, perciò, si rivolgeva ai contadini e alla piccola borghesia che, negli anni della lotta per la conqui­ sta del potere, avevano realmente rappresentato la forza del fascismo. Ma la sua posizione, ora, era contraddittoria e molto debole, perché lo costringeva a rigettare sugli al­ tri la colpa di quanto non era riuscito a fare in favore di quei ceti nei quali riponeva le sue speranze nel tentativo di presentarsi agli italiani libero da ogni colpa. Era quan­ to avveniva anche nei riguardi della denuncia del tradimen­ to, come se il 25 luglio — osserva il Perticone — non fosse 13

stato la conseguenza dei lunghi errori del fascismo: il Pavolini disse alla radio di Monaco, il 17 settembre, che il regime era stato vinto "da potenti inimicizie esterne e dal tradimento interno," e disse anche che il partito non sa­ rebbe stato "la semplice copia del primo," nel nuovo pe­ riodo che si sarebbe potuto chiamare costituente, "pur ono­ randosi altamente di raccoglierne la luminosa tradizione.” Insomma, condanna o esaltazione del passato? Questo era il dilemma in cui si aggirava il fascismo repubblicano, de­ sideroso eppure incapace di rinnegare del tutto il suo pas­ sato. Del resto, era per esso impossibile rinnegarlo perché allora avrebbe dovuto anche ripudiare la guerra al fianco della Germania, cambiare radicalmente la politica estera; ed era, invece, proprio questo che gli impediva di rinno­ varsi dal profondo; cosa, d’altronde, veramente impossibile per esso. Il 23 settembre, il Mussolini, in attesa della Costituente che avrebbe dovuto stabilire gli ordinamenti dello Stato fa­ scista, componeva il governo nel quale entravano il Graziani per la Difesa nazionale, il Buffarmi Guidi per gli In­ terni, il Tringali Casanova per la Giustizia e il Biggini per l’Educazione nazionale. Il 27, nell’anniversario del patto tripartito, si riuniva per la prima volta il nuovo governo, ed il Mussolini tracciava le seguenti direttive: “cordiale e pratica collaborazione alle autorità militari tedesche che operano sul fronte italiano”; raggiungimento dell'integrità territoriale e dell’indipendenza politica del paese; nessuna repressione per gli antifascisti, ma severe sanzioni per i fascisti che, avendo tradito il 25 luglio, si erano resi cor­ responsabili "dell’abisso nel quale la Patria è caduta”; pre­ parazione della Costituente, i cui due principi essenziali dovevano essere l’unità politica e il decentramento ammi­ nistrativo “con un pronunciatissimo contenuto sociale.” Il consiglio dei ministri, inoltre, decideva pure il trasferi­ mento della capitale da Roma in altro luogo presso il Quartier generale e lo scioglimento del Senato; il riordina­ mento delle Forze armate; la fusione delle Confederazio­ ni sindacali in un’unica Confederazione generale del lavoro e della tecnica e il mantenimento della Commissione per l’accertamento degli illeciti arricchimenti, istituita dal go­ verno Badoglio, con l’intento però di farla funzionare so­ prattutto per gli avversari, in quanto le ricerche venivano estese a tutti coloro che, senza distinzione di partito, ave­ vano "negli ultimi 30 anni ricoperto cariche politiche e in­ carichi pubblici, ivi compresi i funzionari e i militari” (tut­ 14

tavia, i più importanti gerarchi, accusati di illeciti guada­ gni, elevarono le loro proteste). Come si vede, il duce aveva insistito sulla necessità di pacificare gli italiani evitando ogni repressione verso gli antifascisti per realizzare una operante concordia in grado di assicurare l’effettivo ritorno alle armi; a queste sue pa­ role si uniformarono tutti i giornali e le federazioni fasci­ ste che, in frequenti ordini del giorno, affermarono di voler tendere “fraternamente la mano con cuore puro,” “giuran­ do di aver dimenticato ogni torto." Lo stesso Pavolini disse di mirare "alla collaborazione fra gli uomini di diversa pro­ venienza politica." Ma, anche in questo caso, c’era contrad­ dizione fra il desiderio di pacificazione e le esigenze della guerra tedesca che facevano vedere in ogni rifiuto al reclu­ tamento per il servizio del lavoro germanico (per la Todt) o in ogni resistenza alla collaborazione, un sabotaggio pu­ nibile con le più gravi pene; lo stesso bollettino tedesco doveva parlare, il 30 settembre, di "severissimi provvedi­ menti contro nascenti disordini comunisti," che non erano altro che i disordini provenienti dall’attività delle forma­ zioni partigiane; il 19 settembre i tedeschi avevano incen­ diato il paese di Boves, in provincia di Cuneo, abbandonan­ dosi ad ima delle prime stragi generali della popolazione che, in seguito, costellarono tutta la Resistenza, non sapen­ do su chi vendicare l’uccisione di un loro ufficiale. Il governo del Sud e la dichiarazione di guerra alla Ger­ mania

A Brindisi, dove il re con suo figlio e gli altri principi che avevano potuto raggiungerlo, e il maresciallo Badoglio con i ministri militari erano sbarcati alle 14,30 del 10 set­ tembre, la vita politica era dominata dalla chiusa diffi­ denza di Vittorio Emanuele III che sospettava di tutto e di tutti, sempre timoroso che qualche gesto più ardito po­ tesse compromettere la monarchia. Il 15 settembre il Pun­ toni scriveva: “È una giornata piena di amarezze. La pro­ paganda rossa lievita in maniera paurosa. Il governo non fa nulla, sembra anzi che sostenga gli oppositori della Mo­ narchia”; il 16: “La situazione interpa è grave; non si vede uno spiraglio di luce nella nuvolaglia che ci pesa in testa. Badoglio è in balia degli avvenimenti, non ha risorse, le sue idee sembrano corte e sfuocate"; e, poi, il 25, alla vigilia della partenza del primo ministro per Malta, dove doveva 15

firmare il “lungo armistizio”: "Come al solito, il Marescial­ lo prende tutto alla leggera e il timore di Sua Maestà è che alla presenza degli alleati il Capo del Governo non sappia reagire con la dovuta energia per la difesa degli interessi del Paese e della Monarchia, interessi che in fin dei conti si identificano.” Ma era proprio questa identifi­ cazione, dal Puntoni data per sicura, che ormai da molti veniva posta in dubbio, soprattutto quando essa riguardadava Vittorio Emanuele III: anche il Croce, che pure ma­ nifestava sentimenti filo-dinastici, riteneva che il sovrano avesse perso ogni prestigio e che a lui, "sventurato,” non ri­ manesse che abdicare, “cedendo la corona al figlio che non è cosi direttamente responsabile e gravemente compro­ messo come lui.” Il timore del re era che il Badoglio si lasciasse convin­ cere dal gen. Eisenhower a dichiarare guerra alla Germa­ nia, ed infatti questo fu l’argomento principale su cui di­ scusse, nei giorni seguenti, con il gen. Mac Farlane, coman­ dante della missione anglo-americana presso il nostro go­ verno, e con lo stesso Badoglio, cercando di far prevalere il punto di vista che non fosse il caso di parlare di guerra alla Germania. Evidentemente, il sovrano era ripreso dalla paura di infrangere quella specie di armatura fascista che si sforzava di tenere in vita come una delle sue principali difese: "Dalle notizie ricevute e da documenti che ho vi­ sto," scriveva il Croce nel suo diario di questo periodo, "ho tratto il convincimento che il re, e il servitorame che 10 circonda, pensano alla salvazione della monarchia mercé 11 sostegno che troverebbe nel grosso degli ex-fascisti, che essa protegge come può affinché non siano molestati e con­ servino stipendi e prebende"; e VEconomist affermava che i soldati britannici rimanevano turbati (disconcerted) dal­ la prevalenza degli elementi fascisti nelle città liberate. Ma la volontà degli alleati si faceva sempre più pres­ sante ed al Badoglio, prima di recarsi a Malta, fu comu­ nicato non solo il testo dell’" armistizio lungo” che avrebbe dovuto firmare e che era molto piu grave nei nostri con­ fronti di quello “corto,” in quanto conteneva l’espressione "resa incondizionata" che prima mancava, ma anche un documento che prometteva il riconoscimento dello stato di cobelligeranza all’Italia dopo che questa avesse dichia­ rato guerra alla Germania (in esso era pure l’impegno an­ glo-americano di sostenere il re e il governo senza pregiu­ dicare, peraltro, la libertà del popolo italiano di scegliersi "la forma di governo” che meglio gli piacesse alla fine del 16

conflitto; inoltre il Badoglio era invitato ad allargare il suo ministero). Il re, però, continuò a dimostrarsi perples­ so e l’Acquarone si dichiarò contrarissimo alla dichiarazio­ ne di guerra temendo che i tedeschi si abbandonassero a barbare rappresaglie contro la popolazione. Ma tutte que­ ste esitazioni dovettere essere superate perché l’Eisenhower, nella discussione sulle modalità della cooperazione ita­ liana, pose come primo punto quello dell’entrata in guer­ ra: dal verbale del colloquio risulterebbe che il Badoglio, pur dichiarandosi personalmente d’accordo, si riservò di riferire “nella forma più esatta" al sovrano; dalle sue me­ morie, invece, appare che egli rispose di essere del parere “di far questo passo al più presto." Ad ogni modo, non ci si poteva più opporre all’esplicito desiderio degli alleati e Vittorio Emanuele III ne rimase dolorosamente sorpreso; tuttavia, cercò ancora di rimandare e ci volle una specie di ultimatum anglo-americano, 1Ί1 ottobre, perché si rasse­ gnasse ad una decisione che tanto apertamente mostrava di non gradire. Il 13 ottobre, alle ore 13, finalmente si comu­ nicò, via Spagna, lo stato di guerra con la Germania: "Sua Maestà è convinto," annota il Puntoni, "che Badoglio si è piegato alle pressioni degli alleati e che non ha strappato nulla in cambio di una decisione cosi grave.” Il rifiuto degli esponenti politici a collaborare con il so­ vrano e con il Badoglio

In un momento tanto importante, il sovrano tentava di rigettare sul suo primo ministro ogni responsabilità; e gli conveniva fare cosi perché altrimenti avrebbe dovuto ri­ conoscere che la sua stessa autorità era rimasta colpita in maniera quasi irreparabile: comandavano ormai gli angloamericani ed era, questa, una realtà di cui occorreva ren­ dersi ragione. Né il sovrano tardò molto a capirlo ed in lui nacque il proposito di ricrearsi una difesa, una volta venuta meno quella degli ex-fascisti, negli stessi alleati, assecon­ dandone le intenzioni. E siccome fra queste c’era soprattut­ to quella che il governo venisse allargato — una condizione che doveva essere rispettata se non si voleva perdere la loro fiducia —, egli incaricò, il 7 ottobre, l’Acquarone di an­ dare a Napoli "per prendere contatto," scrive il Puntoni, “con qualche personalità politica napoletana” e indurla ad entrare nel ministero, “il quale ha bisogno assoluto di es­ sere ampliato e consolidato.” A Malta il Badoglio aveva avu17

to il suggerimento di fare entrare in un nuovo governo il conte Sforza, il quale stava per arrivare in Italia e che ri­ scuoteva la fiducia in particolare degli americani, ma che aveva pronunciato poco prima un discorso “ben poco com­ plimentoso nei riguardi del Re d’Italia,” come aveva scritto il Roosevelt al Churchill; di conseguenza, a Vittorio Ema­ nuele III forse dovette sembrare preferibile trattare con gli uomini politici napoletani, che aveva buoni motivi di ritenere influenzati dal Croce, in cui pure, però, aveva po­ ca fiducia. L’11 ottobre, peraltro, l'Acquarone tornava "da Napoli con la bella notizia che nessun uomo politico napo­ letano intende partecipare a un governo presieduto da Ba­ doglio. Fra l’altro, Acquarone ha riferito che si fa sempre più intensa la propaganda politica contro il Re e la Monar­ chia." Può darsi che in seguito a questo passo il Croce abbia scritto nel suo diario le parole che abbiamo citato sopra sul re e sugli ex-fascisti; dopo le quali aveva aggiun­ to di essere indignato dalla spregiudicatezza con cui la monarchia accettava tutti, anche i comunisti, purché fa­ cessero professione di fede monarchica: "Credo che que­ sto giuoco, che dovrebbe far passare sopra alla condotta deplorevole tenuta dal re nel corso del fascismo, non riu­ scirà e a ogni modo saremo vigili a sventarlo. Io ho sem­ pre stimato la monarchia utile all’Italia; ma non è colpa nostra se la monarchia dei Savoia ha perduto ogni pre­ stigio, come tutti sentono e dicono." In un primo momento, era sembrato che l’allargamento del governo potesse essere rinviato a quando fosse stata liberata Roma, poiché si era creduto che gli anglo-america­ ni, superata la forte resistenza tedesca a Salerno, sarebbero avanzati rapidamente. Ma il Kesselring (che aveva ottenu­ to l’approvazione di Hitler al suo piano di una difesa siste­ matica dell’Italia meridionale e centrale contro l’opposta opinione del Rommel che avrebbe voluto ripiegare sulla linea Pisa-Rimini) aveva gettato nella lotta tutte le sue for­ ze, anche quelle provenienti dalla Calabria ed era riuscito inizialmente a sconvolgere lo sbarco alleato infiltrandosi al centro fra il X Corpo GB ed il VI US. Ma a poco a poco la situazione era migliorata ed il 1° ottobre gli anglo-ame­ ricani entravano in Napoli, che si era sollevata contro i tedeschi dal 27 settembre in una lotta eroica che aveva vi­ sto il popolo combattere dalle barricate contro i carri ar­ mati e imporre la resa ai reparti nemici [la stampa britan­ nica che parlava, proprio in questi giorni, di apatia (supre­ me apathy) degli italiani, forse non teneva nel dovuto con18

to questi episodi]. Il 27 settembre, l'VIII armata britannica aveva occupato Foggia costringendo i tedeschi ad indietreg­ giare prima dietro il Fortore e poi oltre il Biferno, mentre la V armata americana, proseguendo al di là di Napoli, pas­ sava il 18 ottobre il Volturno. Ma una rapida avanzata non era più possibile e ravvicinarsi della brutta stagione obbli­ gava i due avversari a fare il punto della situazione prima di dare inizio a quella che si poteva definire la seconda fa­ se della campagna: il Puntoni nel suo diario scriveva, il 7 ottobre: "Roma rimane un sogno vago e lontanissimo. Il Re mi appare assai amareggiato e sfiduciato," questo perché anche a lui la mancata liberazione di Roma poneva gravi e urgenti problemi. Infatti, poteva sentire crescere l'ostilità contro la sua persona, facendosi l’attività dei par­ titi antifascisti più cosciente e più intensa: un tentativo di formare schiere di volontari che non prestassero giu­ ramento né al re né al Badoglio — tentativo che, pur con questo agnosticismo, avrebbe rappresentato un evidente pe­ ricolo per la monarchia — si era a poco a poco esaurito, vinto dalla sorda diffidenza del governo e, in parte, anche degli alleati. Ma il Croce, che era stato uno dei promotori di questi gruppi di combattimento, non si scoraggiava e si proponeva di sostituirli “con altra opera affine." Del resto, la situazione si andava radicalizzando anche per l’influenza delle notevoli difficoltà economiche: infatti, si era passati d’un tratto dalla mancanza di moneta per i ritiri dei depositi dalle banche da parte dei cittadini allar­ mati dalle vicende dell’8 settembre, ad una forte inflazione determinata dall'alto cambio fissato per la sterlina ( = a 400 lire) e per il dollaro ( = a 100 lire) e dalle quantità di va­ luta che i soldati alleati, pagati circa 10 volte più dei no­ stri, rovesciavano sul mercato acquistando a qualunque prezzo cibi e prodotti, che già scarseggiavano. Le uova, se­ condo l’esempio citato dal Badoglio, salirono da 5 a 30 lire l’una e alla fine di settembre già si soffriva di eccesso di cir­ colante. Il disagio della popolazione aumentava e la spin­ geva, cosi, a desiderare soluzioni radicali: anche il Croce sembrava avvertire quasi una amara insoddisfazione del­ la sua serena superiorità di filosofo: “Continua tristezza, che è anche senso d’inadeguatezza a quanto conviene so­ stenere soffrendo e operando” (16 ottobre). Il C.L.N. di Napoli, inoltre, era concordemente allineato su posizioni re­ pubblicane e abbiamo visto il rifiuto degli uomini politici di questa città ad aderire all’invito dell’Acquarone. 19

I primi scontri fra le bande e i nati-fascisti Alla campagna di pacificazione del fascismo repubblicano il C.L.N. di Milano rispose, il 7 ottobre, con un ordine del giorno in cui, dopo avere annunciato la nuova denomina­ zione da poco assunta di Fronte dei partiti antifascisti, chia­ mava tutto il popolo italiano alla lotta contro il tedesco in­ vasore e contro i fascisti, che se ne facevano servi. “Tutti siamo mobilitati per la causa comune: chi possiede senta il dovere di dare a chi tanto soffre; non lasciamo deportare nessuno in terra straniera; non lavoriamo per il nemico te­ desco; non lasciamoci inquadrare nelle sue formazioni arma­ te. Ci unisca il grido dei nostri padri: Fuori i tedeschi!” Al tentativo di creare una nuova concordia attorno al fascismo, il C.L.N. dell’Italia settentrionale opponeva la “già operante unità degli italiani contro l’invasore,” ed alla campagna per la pacificazione rispondeva esortando ad intensificare la lot­ ta "contro il tedesco invasore e contro i traditori che se ne fanno delatori." Come si vede, il problema della lotta con­ tinuava ad essere preminente per il Comitato milanese e questa sua decisa presa di posizione ridiede maggiore im­ portanza alle correnti estremistiche del fascismo, che erano state tenute sino allora in freno dalle opposte correnti: "A un certo punto," scrive il Perticone, "la parola d’ordine cambia bruscamente. Non pacificazione, ma odio; non di­ stensione, ma vendetta, violenza, persecuzione.” Questo cambiamento portò anche alla fine della relativa calma concessa alle bande partigiane: il 17-19 ottobre si ebbe, infatti, sulle montagne attorno a Lecco il primo vero scontro fra i gruppi che si erano raccolti al Pizzo d’Ema e i tedeschi, uno scontro che, dopo il successo iniziale con­ tro gli sbandati che occupavano le pendici della montagna, divenne molto più duro. I nazi-fascisti riuscirono a ripor­ tare la vittoria solo il terzo giorno, dopo un ultimo vigoroso assalto alla Capanna Monzese, difesa da alcuni partigiani che consentirono, in tal modo, ai loro compagni di ritirarsi con le armi e con il materiale. I partiti di destra, nel C.L.N. milanese, trassero la convinzione, da questo episodio, che si dovesse mantenere un atteggiamento più cauto e pruöente ed evitare anche di provocare il nemico tanto più che l’avanzata alleata, ritenuta in un primo momento ra­ pida, si stava dimostrando invece molto diffìcile e lenta. Ma i partiti di sinistra videro nella difesa di "sparuti distacca­ menti di partigiani," come scrisse il Longo sul Combatten­ te, contro “cannoni, aeroplani e migliaia di soldati,” una 20

prova delle possibilità militari della Resistenza e della sua funzione nel quadro generale della guerra contro la Ger­ mania. Ogni scetticismo, perciò, doveva essere abbandona­ to ed anzi bisognava continuare "nella strada intrapresa con più audacia e con più fiducia ancora.”

La deliberazione del C.L.N. di Roma del 16 ottobre 1943 Mentre nell’Italia settentrionale si affrontavano le prime, dure prove della lotta armata, a Roma si discuteva dei po­ teri del CJL.N. nei riguardi della monarchia e del governo Badoglio; né queste erano discussioni oziose perché avreb­ bero potuto incidere, in misura notevole, sulla autorità del C.L.N. stesso. La dichiarazione di guerra alla Germania da parte del governo di Brindisi aveva rafforzato la monarchia e il Badoglio (Vittorio Emanuele III si era dimostrato tal­ mente incapace di comprendere le esigenze della situazione da preferire l’inclusione nel governo del Grandi — e c’era voluto l'esplicito divieto di Roosevelt per impedirgli un gesto che gli avrebbe sollevato contro l’opinione pubblica britannica e americana — ad una ardita decisione; e certo, questa continua e assillante preoccupazione di salvare il trono da pericoli veri o immaginari gli nocque più di ogni altra cosa), ma quasi contemporaneamente era venuto il rifiuto degli uomini politici napoletani di collaborare con il re e con il suo primo ministro. Tuttavia, poteva sembrare che fosse in atto un tentativo di coprire la monarchia poi­ ché sia gli alleati — Eisenhower a Malta — sia il Badoglio, nella dichiarazione di guerra, avevano parlato di libertà concessa al paese di decidere, a guerra finita, sulla "forma di governo” e non sulla "forma di Stato." Questo impensie­ rì il C.L.N. centrale romano, il quale si riunì, il 16 ottobre, per precisare il suo atteggiamento. Dopo un ampio dibatti­ to ed a conclusione di esso venne approvato il seguente ordine del giorno, che segnò, come afferma il Ragghianti, lo "statuto fondamentale del C.L.N. in Italia”: Il Comitato di Liberazione Nazionale, di fronte all’estremo tentativo mussoliniano di suscitare, dietro la maschera di un sedicente stato repubblicano, gli orrori della guerra civile, non ha che da riconfermare la sua più recisa e attiva opposizione, negando al fascismo ogni diritto ed autorità, dopo le sue tre­ mende responsabilità nella catastrofe del Paese ed il suo as­ servimento al nazismo, di parlare e agire in nome del popolo italiano; di fronte alla situazione creata dal re e da Badoglio

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con la formazione del nuovo governo, con gli accordi da esso conclusi con le Nazioni Unite, ed i propositi da esso manifestati,

afferma

che la guerra di liberazione, primo compito e necessità suprema della riscossa nazionale, richiede la realizzazione di una sincera ed operante unità spirituale del Paese, e che questa non può farsi sotto l’egida dell’attuale governo costituito dal re e da Badoglio; che deve essere promossa la costituzione di un go­ verno straordinario che sia l'espressione di quelle forze politi­ che le quali hanno costantemente lottato contro la dittatura fa­ scista e fino dal settembre 1939 si sono schierate contro la guer­ ra nazista. Il C.L.N. dichiara che questo governo dovrà: 1) assumere tutti i poteri costituzionali dello Stato, evitando però ogni atteggiamento che possa compromettere la concordia della nazione e pregiudicare la futura decisione popolare; 2) condurre la guerra di liberazione a fianco delle Nazioni Unite; 3) convocare il popolo, al cessare delle ostilità, per decidere sulla forma istituzionale dello Stato.

In realtà, questa deliberazione rappresentò un momen­ to di estrema importanza nella soluzione del problema po­ litico italiano, in quanto sanzionò la “totale desolidarizzazione dalla monarchia e dal suo governo” delle forze poli­ tiche democratiche, facendo del C.L.N. l’effettivo governo del paese, l’organismo dal quale il nuovo governo avrebbe dovuto derivare la sua autorità. La monarchia era veramen­ te accantonata e tutti i sei partiti Diconoscevano che l’unità del Comitato poteva essere mantenuta — cosi scrive B. Visentini — soltanto a patto che venisse affrontato e in qual­ che modo risolto il problema istituzionale. Le posizioni delle correnti di destra apparivano salvaguardate dalla espressione: "evitando però ogni atteggiamento che pos­ sa compromettere la concordia della nazione e pregiudicare la futura decisione popolare,” ma, indubbiamente, questo ordine del giorno fu un successo per i partiti repubblicani che erano riusciti a rompere quell’atmosfera di acquiescen­ za che giocava a tutto vantaggio della monarchia. In diretto rapporto con esso si ebbe, il 23 ottobre, una comunicazione del Badoglio al sovrano sulla intensificata at­ tività degli uomini politici avversi alla Corona; il giorno dopo, il primo ministro scrisse a Vittorio Emanuele III prospettandogli l’opportunità che abdicasse e che rinun­ ciasse al trono anche il figlio Umberto in modo che la suc­ cessione fosse presa dal piccolo Vittorio Emanuele con la 22

sua reggenza. Il Badoglio affermava che questa propo­ sta era in dipendenza dell’atteggiamento assunto dai par­ titi clandestini di Roma, i quali riscuotevano il pieno ap­ poggio del conte Sforza. Ma si trattava di una soluzione che non era del tutto quella sostenuta dal C.LJM. centrale, perché, secondo questo, il problema istituzionale doveva essere affrontato dal popolo italiano, pienamente libero di scegliere tra monarchia e repubblica, mentre lo Sforza, che riteneva, come affermava il Badoglio nella sua lettera, la monarchia necessaria per Punita d’Italia, credeva dj po­ terla salvare facendo salire sul trono il nipotino, che non aveva nessuna delle pesanti responsabilità del nonno. Ma tale proposta, definita dal Puntoni “ambigua e maligna," incontrò subito una decisa reazione da parte del re, il quale convocò i ministri militari e "più che chiedere un parere, [domandò] a ciascuno se [poteva] contare sulla loro devozione e su quella delle Forze Armate," come se dovesse difendersi con l’esercito da un pericolo concreto; e, poi, prese una posizione rigida e disse al Badoglio di non sperare nella sua abdicazione e di sospendere i contatti con le varie personalità politiche, quasi sperando che in tal modo il problema potesse risolversi.

Difficili trattative del re con gli esponenti democratici

La sua linea di condotta, ben presto decisa, fu di tenere distinto il problema del governo da quello della monar­ chia: per il primo si sarebbero dovuti riunire tutti gli sfor­ zi in suo appoggio e cercare elementi nuovi in modo da rafforzarlo; per il secondo, invece, se ne sarebbe riparlato alla fine della guerra, non più alla liberazione di Roma, co­ me era sembrato in un primo tempo. Pertanto, il sovrano si impegnò con tutte le sue forze per ottenere adesioni al ministero, nella convinzione che ciò gli avrebbe consentito di far dimenticare la piu grave questione riguardante la monarchia. Incaricò il colonnello Montezemolo, a Roma, di invitare il Bonomi a partecipare al gabinetto Badoglio, ma ne ebbe un reciso rifiuto perché il Bonomi volle mantener­ si fedele alla deliberazione del C.L.N.; inviò a Napoli l’Acquarone per convincere il De Nicola, il Rodino e il Porzio a collaborare con il suo governo incaricandolo di accenna­ re, "per forzare la loro decisione,” anche "alla probabile adesione del conte Sforza,” il che era ben lontano dall’es­ sere vero (26 ottobre); il 30 ottobre partiva per Napoli lo 23

stesso Badoglio e ne ritornò il 1° novembre riferendo che la situazione era buia e che tutti erano "decisamente ostili al Sovrano.” Invece il ministro della Real Casa si era di­ chiarato “soddisfatto e ottimista" sui suoi colloqui napo­ letani, avendo trovato il De Nicola, il Porzio e il Rodino disposti ad entrare nel governo, ma solo dopo la liberazio­ ne di Roma e a patto che ne facesse parte anche lo Sforza. Quanto al Croce, che “sul principio si era dimostrato pieno di animosità contro il Re, alla fine si sarebbe ammansito.” Erano due versioni contrastanti tanto da far nascere in Vittorio Emanuele III il desiderio di recarsi di persona a Napoli, "per incontrarsi con gli esponenti politici democristiani e liberali,” cioè con quelli che giudicava più fa­ vorevoli alla sua persona. In realtà, il colloquio dell'Acquarone con il Croce era stato "penoso” e questi continuò ad insistere sulla impos­ sibilità in cui si trovava di ridar vita, con la sua parola o con la sua penna, a chi “aveva voluto suicidarsi": la mo­ narchia avrebbe anche potuto restare indiscussa purché si creasse una reggenza. A questo punto, l’Acquarone gli fece leggere “le adesioni ricevute, in data 21 ottobre, dai rap­ presentanti dei vari partiti in Roma” che sembravano ac­ cogliere “il concetto di rimandare a dopo la guerra la que­ stione istituzionale”; egli, perciò, cercava di giocare sul con­ trasto fra le due tesi: abdicazione e Costituente e voleva servirsi della deliberazione del 16 ottobre per evitare una decisione dolorosa senza accorgersi — o volersi accorgere — che di gran lunga più pericolosa per la monarchia era la posizione romana di quella dei liberali napoletani. Il Croce e lo Sforza ripeterono anche al Badoglio la conve­ nienza di condurre il re all’abdicazione, non essendovi altra via d’uscita: “Il Badoglio mi è parso,” scriveva il Croce, “già persuaso di ciò.” Il 3-4-5 novembre il sovrano si recò effettivamente a Napoli, ma i tre uomini politici sui quali contava, si dimostrarono indecisi, lo Sforza arrogante ed anche l'esponente democristiano. Rodino, sostanzialmente contrario, in opposizione all’atteggiamento della Chiesa na­ poletana che risultava “decisamente a favore della Mo­ narchia.” Un fallimento furono, perciò, queste complesse tratta­ tive, fallimento che era stato reso ancora più grave dalla conferma venuta dalla conferenza dei ministri degli Esteri delle tre potenze alleate (riuniti per la prima volta insie­ me a Mosca, dal 19 ottobre al 3 novembre) di lasciare il po­ 24

polo italiano libero di scegliersi le istituzioni che volesse (fu decisa anche la creazione di una Commissione alleata di controllo — A.C.C. — che subentrava all’A.M.G.O.T. — Allied Military Government of Occupied Territory —, in cui entravano anche i rappresentanti russo e francese, e più tardi sarebbero entrati quelli greco e jugoslavo con il compito di controllare l’amministrazione italiana e far ri­ spettare la leale applicazione dell'armistizio): "Su questo terreno,” osservava il Bonomi, cioè sul terreno del rico­ noscimento della libertà del popolo italiano, "sarà possi­ bile costruire una situazione politica solida, se le impa­ zienze di alcuni nostri giovani amici non compromette­ ranno l’avvenire” (1° novembre). Ma il 15 novembre la necessità di tener fede alla delibe­ razione del 16 ottobre faceva sentire al Bonomi l’urgenza di prendere posizione sulla proposta del Croce e dello Sfor­ za, cioè di una abdicazione che salvasse, mediante una sosti­ tuzione personale, il principio, monarchico. Cosi, il 17 novem­ bre, il C.L.N., nuovamente riunito, approvava un ordine del giorno in cui si dichiarava che il popolo italiano avrebbe dovuto, "appena liberato il territorio nazionale, esprimere la sua volontà circa le forme istituzionali dello Stato." E proseguiva: "A questo diritto, che discende dal principio de­ mocratico e che ha avuto il suo riconoscimento anche ne­ gli accordi interalleati di Mosca, il popolo italiano non può in alcun caso rinunciare. Pertanto, il problema istitu­ zionale dovrà essere sottoposto nella sua interezza, non pregiudicabile da sostituzioni di persona, al sovrano giudi­ zio di tutto il paese.” Infine, confermava la necessità che il nuovo governo assumesse tutti i poteri costituzionali per dare finalmente al paese quella guida che gli era fino allo­ ra mancata e per condurre, nell’unione di tutti gli italiani, la guerra liberatrice. Era la risposta all’invito, rivolto an­ che da Mosca, ad allargare il governo: il C.L.N. centrale ri­ badiva che la questione del governo si identificava con quella della monarchia e che non era possibile collaborare né Con il primo né con la seconda. Il nuovo governo do­ veva essere formato il più presto possibile e segnare una decisa rottura con il passato: era, questa, una posizione che forse, senza che il Bonomi se ne accorgesse, andava ben oltre le richieste formulate dagli alleati, i quali non intendevano abbandonare il re e il Badoglio.

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Il governo fascista e i tedeschi Se nel Sud il governo era. travagliato da tutte queste difficoltà, non minori difficoltà — se pure di genere diver­ so — travagliavano il governo fascista nel Nord. Il mito della pacificazione era malinconicamente tramontato ed era rimasta la realtà di un regime privo di effettiva libertà e costretto a eseguire la volontà dei tedeschi. Giovanni Dolfin, capo della segreteria particolare del duce, testimonia che questi, quando doveva parlare con l’ambasciatore te­ desco, Rudolph Rahn, appariva “agitato da un singolare nervosismo, come dovesse ogni volta prepararsi a sostene­ re una lotta estenuante," e che, dopo i colloqui, rimaneva “per lo più di pessimo umore e stanco”: “Rahn è l’eterno duellante, e il più pericoloso, e il Duce commenta spesso con grande amarezza la singolare situazione nella quale gli eventi lo hanno posto [...]. Parlandomi dei tedeschi, subito dopo un colloquio con l’incaricato d’affari, che chiama iro­ nicamente il ‘viceré d’Italia,’ mi ha detto: ‘Questi signori non vogliono evidentemente debiti di riconoscenza verso di noi, al momento della resa dei conti. Agiscono infatti nei nostri confronti partendo dal presupposto, non ancora dimostrato, d’aver già vinto la guerra.”' E talvolta, il Mus­ solini, come aveva fatto prima del luglio 1943, rivelava “la sua angoscia anche per una vittoria tedesca, alla quale dimostra spesso di non credere. E soprattutto di non de­ siderarla." Il duce, stanco e sfiduciato ("Egli è stanco,” notava il Dolfìn dall’inizio di novembre [...]. "Al suo rientro dalla Germania, molte illusioni sulle nostre possibilità e sulla realtà della situazione gli sono cadute!’’), non riusciva piu a imporsi ed il nuovo regime stava rapidamente diventan­ do il regime dell’arbitrio e dell’illegalità: Vito Mussolini ha scritto non molto tempo fa che uno dei problemi più gra­ vi per il governo era dato dalle "numerose polizie politiche e militari che spuntavano come funghi e che spesso sfuggi­ vano al controllo degli stessi prefetti delle grandi città.” Infatti, oltre alla polizia ufficiale, ridotta nel suo funziona­ mento e nei suoi quadri (essendosi molti funzionari allon­ tanati per darsi alla macchia) e ai reparti della Guardia nazionale repubblicana, funzionavano “reparti sorti in seno ad altre formazioni armate”; per di più, in alcune città, "si erano costituite delle polizie per cosi dire private, con una organizzazione oltremodo sommaria (un capo, un avvocato, pochi agenti ed un gruppo di informatori più o meno in 26

buona fede), che godevano della massima indipendenza, e che agivano non sempre con lo scrupolo dei reparti orga­ nici. Esse erano estremamente difficili da controllare. Sen­ za contare poi le numerose polizie, o parapolizie, tedesche che interferivano tra loro e con quelle italiane." Mancava, perciò, una autorità centrale che fosse in gra­ do di imporsi e, naturalmente, tutte queste polizie, che sfuggivano ad ogni controllo, si comportavano verso la po­ polazione senza riguardi, inasprendo la repressione su di essa con soprusi che ne rafforzavano l’ostilità. Il che contri­ buiva ad estendere il movimento partigiano: il 7 novem­ bre il Dolfin scriveva: “Da qualche giorno cominciano a giungere i regolari rapporti sull’attività partigiana, che si sta rafforzando in ogni plaga. Le bande, per quanto non molto numerose né organizzate, compiono azioni isolate di disturbo e di sabotaggio [...]. Il Duce è preoccupato, per­ ché afferma che se il fenomeno non viene stroncato subito, tra alcuni mesi i tedeschi condurranno vere e proprie ope­ razioni militari per debellarlo." Il Mussolini stesso, per­ tanto, confessava la sua impotenza di fronte al fenomeno del banditismo, che richiedeva, da parte del fascismo, l’or­ ganizzazione di una forza militare quasi esclusivamente de­ stinata a combatterlo. Di conseguenza, si rendevano neces­ sari due eserciti, uno per la lotta contro l’invasore stranie­ ro e l’altro per la lotta contro i partigiani; fu questo il mo­ tivo per cui la questione esercito-milizia si fece, nel mese di novembre, acuta, sostenendo il Graziani ed il Gambara, capo di stato maggiore, la necessità di adottare un criterio unitario, facendo assorbire la milizia dall’esercito e "ta­ gliando corto, in tal modo,” scrive il Graziani, "al deplo­ revole sistema seguito dal regime fascista di moltiplicare 10 sforzo per ottenere un risultato miserabile." Il Dolfin parla di incidenti gravi sorti, il 15 novembre, fra il Gam­ bara e il Ricci, che non voleva sentir parlare della scom­ parsa della milizia, ma il Mussolini, "posto dalla contesa in una situazione di vero disagio," sospendeva gli incon­ tri, "rinviando ogni decisione in merito.” La ricostituzione della milizia era voluta dal partito, ed era anche richiesta dall’intensificarsi delle azioni partigiane. Cosi, il 20 novem­ bre la "Stefani” comunicava che venivano istituite la guar­ dia nazionale repubblicana e la milizia repubblicana, con 11 compito "di difendere all’interno le istituzioni e far ri­ spettare le leggi della repubblica; di proteggere l’incolumi­ tà personale dei cittadini; di garantire l’ordinato svolgersi di tutte le manifestazioni singole e collettive dell’attività 27

nazionale." Sdegnosamente, il Graziani più tardi commen­ tò: “Dopo la G.N.R., con concezione ugualmente faziosa, fu­ rono anche create le brigate nere, circa 30 mila uomini, e con ciò si tornò alla caotica molteplicità, cosi cara alla mentalità mussoliniana.” Altre difficoltà nascevano, per i fascisti, da. quella che Vito Mussolini definisce "pesantissima invadenza tedesca” in Alto Adige e nella Venezia Giulia; il 24 novembre il duce si lamentava con il Dolfìn perché le sue proteste con Γ" al­ leato" Hitler erano rimaste sino allora “prive di risposta,” anzi una risposta indiretta era venuta poiché, proprio in quei giorni, i due alti commissari di Trieste e di Innsbruck erano stati nominati Statthalter, cioè rappresentanti dello Stato. Il 6 dicembre, ancora il Dolfìn metteva in rilievo co­ me ormai anche i prefetti fossero scelti dai tedeschi e co­ me i cittadini italiani del Trentino fossero costretti ad “adire Tribunali stranieri"! La verità era che i tedeschi si consideravano in territorio conquistato, sicché le stesse “vi­ branti e, talvolta, dure proteste del Mussolini” ricevevano dal Rahn "inconcludenti assicurazioni.” E che si conside­ rassero in territorio occupato era dimostrato anche dai rapporti economici fra la Repubblica fascista e il Reich, rapporti che, come risulta da una relazione del ministro delle Finanze di Salò, Giampiero Pellegrini, dovevano ren­ dere possibile, da parte tedesca, il più intenso sfruttamen­ to delle risorse italiane, senza alcuna preoccupazione delle conseguenze che ne sarebbero derivate: infatti, un primo accordo del 21 ottobre prevedeva un contributo di guerra mensile di 7 miliardi di lire, portati, con un secondo ac­ cordo del 17 dicembre, a 10, in considerazione che, nell'at­ tesa della ricostituzione delle Forze armate italiane, quelle germaniche difendevano la penisola dagli anglo-americani. Con tale contributo il governo tedesco avrebbe dovuto far fronte a quattro gruppi di spese: 1) per l’alimentazione e l’equipaggiamento delle sue truppe; 2) per la ricostruzione di opere di difesa, campi d’aviazione e fortificazioni; 3) per il pagamento dei materiali bellici preesistenti e per quelli di nuova ordinazione tedesca; 4) per il pagamento di beni requisiti e per il rimborso dei buoni di occupazione. Ma, faceva osservare il Pellegrini, con un certo risentimento, il governo germanico si era rifiutato, “senza darne una giu­ stificazione basata sulla interpretazione degli accordi,” di provvedere a quasi tutte queste ed altre spese che nel rap­ porto del ministro erano minutamente elencate. Di conse­ guenza, la spesa mensile si aggirava sui 17 miliardi di lire, 28

ai quali andava aggiunto il disavanzo della gestione nor­ male che poteva calcolarsi sui 450 milioni mensili. Era una situazione che lo stesso Pellegrini definiva “paurosa" e che provocava un rialzo progressivo e rapido dei prezzi, aggra­ vando il tenore di vita dei ceti popolari.

La socializzazione -fascista Il fascismo repubblicano, però, credeva di poter vince­ re l’ostilità di questi ultimi insistendo sulla socializzazione delle imprese, un punto del suo nuovo programma che avrebbe dovuto dimostrare quanto esso fosse diverso dal vecchio fascismo. Nicola Bombacci parlava convinto di “politica di massa” ed era in prima linea, scrive il Dolfin, tra coloro che si battevano per una vera rivoluzione sociale e con lui i “numerosi sindacalisti, attivissimi in questo pe­ riodo.” Anche il Mussolini talora sembrava appassionarsi alla questione sociale, ma talaltra lasciava chiaramente capire di subordinarla al compito principale del suo go­ verno, che era quello di riportare il popolo italiano al com­ battimento: “Le masse hanno bisogno," disse il 25 otto­ bre al Dolfin, “di un ideale che le soddisfi: come gli uo­ mini singoli. Al vecchio mondo dei privilegi e delle caste noi sostituiremo lo Stato del Lavoro, con la L maiuscola. Ma, come fascisti, intendiamo innanzitutto riconquistare al popolo italiano il diritto di cittadinanza nel consesso dei popoli onorati ripristinando alla parola ‘onore’ il suo incon­ fondibile significato." Il 15 novembre, proprio per fondare questo Stato del lavoro, si tenne a Verona il congresso del partito fascista repubblicano, un congresso che fu "alquanto mosso”: “Mol­ te idee, molti principi e svariate correnti." Il giorno dopo il duce riassumeva cosi le sue impressioni, piuttosto nega­ tive: "È stata una bolgia vera e propria! Molte chiacchiere confuse, poche idee chiare e precise. Si sono manifestate le tendenze più strane, comprese quelle comunistoidi. Qual­ cuno, infatti, ha chiesto l’abolizione, nuda e cruda, del di­ ritto di proprietà! Ci potremmo chiedere, con ciò, perché abbiamo, per vent’anni, lottato coi comunisti!" Tuttavia, il Dolfin aveva affermato che il manifesto, in cui erano rias­ sunte “le aspirazioni della stragrande maggioranza dei fa­ scisti non infeudati alle plutocrazie industriali ed agrarie,” sembrava poter conciliare, sul terreno sociale, le tendenze più disparate. In verità, il manifesto-programma conteneva 29

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affermazioni che poi non ebbero alcuna applicazione (co­ me quella che consentiva ad ogni cittadino il diritto alla critica della pubblica amministrazione e al controllo, un diritto che, pochi giorni dopo, il Mussolini si pentiva di aver riconosciuto), oppure che erano in netto contrasto l’una con l’altra (come quella dello spazio vitale "indispen­ sabile ad un popolo di 45 milioni di abitanti” con quella che proclamava scopo della politica fascista la realizza­ zione di una comunità europea). Ma la piu grave contrad­ dizione era nel campo sociale, poiché dopo aver detto che si doveva abolire il sistema capitalistico interno," si con­ cedeva alla proprietà privata la garanzia dello Stato, ma, d’altra parte, si istituivano in ogni azienda le rappresen­ tanze dei tecnici e degli operai che dovevano cooperare "intimamente all’equa fissazione dei salari, nonché all’equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale azionario e la partecipazione agli stessi per parte dei lavoratori.” Era, questo, senza dubbio, il punto piu importante del manifesto (che, tra l’altro, fondava una specie di repubbli­ ca presidenziale), e fu anche il punto che incontrò una vi­ vace opposizione da parte di chi si chiedeva se era il mo­ mento più opportuno per riforme sostanziali e che fu visto con scarso entusiasmo dai tedeschi i quali temevano che ne potessero venire intralci alla produzione di guerra. Il Rahn non cessò di dare, alla illusione del duce di poter "ripren­ dere" la sua strada, i "duri colpi del suo piccone demoli­ tore” ed il comando germanico dichiarò "protette" una se­ rie di industrie per sottrarle alla socializzazione (Dolfin). Ma la risposta piu eloquente al programma di Verona ven­ ne da alcuni fatti che dimostrarono la vanità delle promes­ se affettatrici: mentre i gerarchi erano riuniti a congresso giunse la notizia, comunicata subito dal Pavolini all'assem­ blea, dell'uccisione del federale di Ferrara. In preda a “una ondata di reazione violenta” i congressisti gridarono: "A Ferrara! A Ferrara!” e subito le polizie federali di parec­ chie città si diressero sulla città estense per procedere a rappresaglie immediate. Tredici detenuti come sospetti di antifascismo furono uccisi "senza giudizio di sorta.” Il Mus­ solini, indignato, anzi furibondo, stigmatizzò l’episodio co­ me "un atto stupido e bestiale” e mostrò l’intenzione di far perseguire i responsabili, senza alcun riguardo; ma di fronte al Pavolini che aveva accettato pienamente la tesi degli estremisti, “Occhio per occhio, dente per dente,” rinunciò ai suoi propositi, costretto a riconoscere che il controllo 30

delle province sfuggiva in gran parte al suo governo. Per­ fino i tedeschi si dichiararono "indignati contro la ‘barba­ rie’ ” e il Dolfin commentava: "gesuitismo e tragica ironia!”

Gli scioperi del novembre 1943 nel Nord

L’altro episodio che fece capire come la socializzazione fosse fallita prima ancora di essere applicata (vi fu, forse, solo il capo della provincia di Padova che stabili, con de­ creto del 30 novembre, che i 450 operai deff’officina Stanga per costruzioni ferrotranviarie, ne diventassero proprietari e cointeressati), fu lo sciopero che scoppiò nelle città in­ dustriali del Nord, a partire dal 18 novembre. In questo giorno si misero in agitazione gli operai di Torino, già pre­ ceduti da quelli di Milano che avevano attuato alcune brevi astensioni dal lavoro. Ma il 18 novembre ebbe inizio uno sciopero di più vaste proporzioni e di più lunga durata (a Milano, ai primi di dicembre, durò 8 giorni). In apparenza, i motivi erano quasi esclusivamente economici — infatti, i lavoratori chiedevano un aumento dei salari del 100% e della razione del pane a 500 grammi e il raddoppio dei ge­ neri da minestra —, ma erano anche evidenti i motivi poli­ tici: nei manifestini diffusi clandestinamente era detto: "Ba­ sta con la politica di fame, basta col fascismo. Vogliamo pa­ ne, pace e libertà!" Nel periodo precedente era stata intensa, fra le correnti democratiche, la discussione sui compiti da assegnare alle agitazioni operaie: i comunisti erano favo­ revoli a politicizzarle il più possibile, mentre i democristia­ ni ed i socialisti ritenevano che la lotta politica contro i nazi-fascisti fosse di competenza del C;L.N. Proprio questo dissenso fece mancare una direzione unitaria agli scioperi del novembre-dicembre e, sebbene il p.c.i. si impegnasse a fondo, tuttavia essi nacquero in gran parte spontaneamen­ te dalla insofferenza degli operai. I risultati furono, peraltro, notevoli perché il rifiuto dei lavoratori a trattare con i sindacati fascisti, esautorò del tutto questi anche di fronte ai tedeschi; inoltre, la grande azione realizzò l’unione degli operai con gli impiegati, scesi anch’essi in lotta e portò ad una netta distinzione nelle correnti clandestine, tra le funzioni dei C.L.N. d’azienda o di categoria e i Comitati d’agitazione, i primi con compiti politici generali ed i secondi con compiti sindacali ed eco­ nomici. La classe lavoratrice cittadina si era data, cosi, un efficace strumento con cui condurre le immancabili future 31

battaglie e l’aver separato le due funzioni dava maggior libertà ai C.d’A. messi in grado di preparare gli scioperi senza correre il pericolo di scoprirsi troppo con rivendica­ zioni di natura politica. Questi scioperi, i primi nell’Euro­ pa occupata dai nazisti, furono un successo non solo perché le richieste dei lavoratori vennero accolte (con aumenti sa­ lariali e della razione del pane — sempre però inferiore al­ l’aumento del costo della vita che era stato del 200-300% — e con la nomina di una Commissione dei prezzi alle di­ rette dipendenze del capo dello Stato cui era assegnato l'in­ carico di impedire le variazioni dei prezzi dei prodotti agricoli, industriali, ecc., un incarico molto difficile fino a quando almeno non si fossero regolate definitivamente le questioni economiche con la Germania), ma anche perché, oltre ad avere eliminato l’autorità del fascismo repubbli­ cano sul piano politico come su quello sociale (si disse che i tedeschi avessero intenzione di assumere direttamen­ te l’amministrazione del paese), fecero fallire la socializza­ zione poiché gli operai mostrarono di non avere alcuna fi­ ducia in essa. Questo, naturalmente, rafforzò la tendenza di coloro che avevano sollevato dubbi o che si erano di­ chiarati contrari: la soluzione dei problemi del lavoro do­ veva essere ricercata solo nella forza: una lezione che se fu appresa dai nazi-fascisti fu pure molto bene appresa dalle classi lavoratrici. Sembrava che l’unico punto del programma di Verona che potesse essere applicato, soprattutto perché era molto favorevolmente visto dai tedeschi, fosse quello relativo agli ebrei: "Gli appartenenti alla razza ebraica,” era detto in quel programma, “sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica.” Il 1° dicembre una ordinanza di polizia, in esecuzione di tale articolo, dispo­ neva che tutti gli ebrei, anche se discriminati, fossero av­ viati ai campi di concentramento e che tutti i loro beni, mobili ed immobili, venissero confiscati; inoltre sottopo­ neva a speciale vigilanza tutti coloro che, nati da matrimo­ ni misti, avevano ottenuto il riconoscimento di appartenere alla razza ariana. Il Giornale d’Italia affermava che tutto ciò era un’applicazione del manifesto-programma di Vero­ na, ma l’Osservatore cattolico ribatteva, il 4 dicembre, che: 1) un manifesto di partito non poteva costituire una fonte giuridica, soprattutto quando vigeva una legge fon­ damentale dello Stato che considerava cittadini i nati nel territorio dello Stato da cittadini dello Stato; 2) che a nes­ sun cittadino di nazione nemica era stata comminata la 32

confisca totale dei suoi beni; 3) che l’ordinanza di confisca definitiva oltrepassava il manifesto di Verona dove gli ebrei erano considerati “nemici temporanei." Questa recisa pre­ cisazione rientrava in quell’atteggiamento di riserbo che la Chiesa aveva assunto verso la repubblica fascista (che dal 1° dicembre, per meglio accentuare il suo nuovo carattere, si disse sociale), un atteggiamento che aveva già avuto altre manifestazioni, come, ad esempio, la seguente nota di mon­ signor Evasio Colli, direttore generale dell’Azione cattolica in Italia, pubblicata dall'Avvenire il 26 ottobre: "Leggo nei giornali di oggi [20 ottobre] una informazione, secondo la quale l’Azione Cattolica Italiana avrebbe invitato i suoi so­ ci ‘a servire lealmente lo Stato fascista repubblicano.’ Per la verità debbo precisare che questa in nessun suo atto o scritto ha mai fatto menzione né di Stato, né di fascismo, né di repubblica. L’Azione Cattolica Italiana non deve fare, non ha fatto e non farà mai della politica. Se ne facesse, tradirebbe la sua missione. Il supporre che ne faccia, si­ gnifica non conoscerla.” Era una secca smentita che tron­ cava ogni tentativo fascista di far credere che le gerarchie ecclesiastiche e l'Azione cattolica guardassero con favore la nuova repubblica: cosi, questa veniva a trovarsi in un profondo isolamento. Il problema dei lanci

Il CJL.N. dell’Italia settentrionale, dopo lo sciopero di Torino, aveva approvato un ordine del giorno in cui espri­ meva la sua piena solidarietà con la classe operaia che, "consapevole di rappresentare un elemento fondamentale per la lotta nazionale di oggi e per la ricostruzione di do­ mani," era insorta contro i nazi-fascisti. Era un ordine del giorno molto impegnativo perché sembrò che tutte le cor­ renti del Comitato avessero raggiunto un accordo sulla funzione delle classi lavoratrici nella futura società demo­ cratica. Certo, l’accordo era stato favorito dal fatto che questi scioperi avevano rappresentato per il C.L.N. la pos­ sibilità di dimostrare agli alleati come il popolo italiano fosse, nella sua grande maggioranza, contrario ai tedeschi ed ai fascisti; e di una simile dimostrazione esso aveva veramente bisogno perché sentiva che la sua azione con­ tinuava ad incontrare una certa diffidenza negli anglo-ame­ ricani, come si era potuto constatare dopo il colloquio che il Parri, comandante delle formazioni militari del partito II.2

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d’azione, e un altro attivo dirigente azionista, Leo Valiani, avevano avuto in Svizzera, il 3 novembre, con Dulles e McCaffery. I due rappresentanti del C.L.N. di Milano ave­ vano avuto chiara l’impressione che gli alleati volessero limitare l’attività partigiana a sporadiche azioni di sabotag­ gio, mentre essi avevano prospettato una resistenza che poteva rapidamente trasformarsi, se adeguatamente aiuta­ ta, in una vera e propria guerra, alimentata da grosse for­ mazioni. Il Parri aveva anche molto sinceramente parlato della pregiudiziale anti-monarchica e repubblicana con cui il Comitato conduceva la lotta, lasciando "stupiti," dice il Valiani, il Dulles ed il McCaffery; i quali, però, quasi con­ vinti dal calore dei due italiani, avevano acconsentito a tracciare "i termini generali di un accordo" ed a stabilire i lanci che avrebbero dovuto esser fatti. Il Parri era ritornato a Milano profondamente soddi­ sfatto dell’incontro, ma nei giorni seguenti si potè capire come gli alleati avessero poca intenzione di mantenere le promesse: alcune azioni, come quelle di Croce di Morene presso Sale Marasino (Brescia) del 7 novembre e quella del gruppo "Cinque Giornate” sul San Martino (Varese) fra il 13 e il 17 novembre, in cui i tedeschi si erano impegnati con carri leggeri, motomitragliatori, artiglieria, lanciafiam­ me ed aerei da bombardamento, subendo, peraltro, gravi perdite e non riuscendo ad agganciare i partigiani, si erano svolte senza i desiderati aiuti di armi da parte degli angloamericani. Cosi, il 24 novembre, Alberto Damiani, che a Lugano teneva i collegamenti militari con Dulles e McCaf­ fery, scriveva loro: "Come previsto, ancora oggi purtrop­ po nulla si è concretato [...]. Ora la situazione si va aggravando giorno per giorno, particolarmente per le ban­ de dei partigiani [...]. Molte bande corrono il pericolo di dissolversi per la mancanza di effettivi larghi rifornimenti e di un valido continuato aiuto finanziario [...]. Teniamo duro, ma fino a quando se continua un tale abbandono?" E proseguiva affermando che, caduti i migliori uomini che ancora guidavano la Resistenza, la lotta si sarebbe smor­ zata spostandosi “da un piano organico e ben diretto ad una forma puramente episodica.” Che era forse quanto il Churchill desiderava, ma che non volevano però gli italiani, i quali continuavano ad insistere perché gli alleati invias­ sero finalmente gli aiuti promessi. Il 27 novembre, infatti, da Milano si ripeteva: “La situazione è grave. Siamo sulle spine. Se mancheranno aiuti, soprattutto armi, crolleremo; le bande, sfiduciate, molleranno." E si prospettava un modo 34

di finanziamento che avrebbe dovuto essere piuttosto un prestito, una anticipazione, non certo un regalo: "Dandodoci in modo tassativo la possibilità di disporre di alme­ no 50 milioni nei 4-5 mesi di nostra azione, faremo guerra grossa! Per questo finanziamento stiamo studiando la pos­ sibilità di darvi in cambio delle lire italiane grossi stocks di franchi francesi che potranno essere agevolmente utiliz­ zati in Francia. Non si tratterebbe quindi che di una anti­ cipazione, seguita entro breve tempo dalla compensazione anzi detta. In ogni modo, mentre noi stiamo studiando la realizzazione di questo progetto, è indispensabile, ripetiamo, che gli anglo-americani si rendano conto della serietà de­ gli intenti del Comitato di Liberazione ed intervengano im­ mediatamente senza ulteriori indugi. I risultati di questa fattiva collaborazione si vedranno a brevissima scadenza!" Il giorno seguente, di nuovo il Damiani faceva presente il pericolo che la Resistenza cadesse nell’“ attivismo episodi­ co e disorganizzato," perdendo, in tal modo, quell’entusia­ smo e quella speranza di contribuire alla rinascita delle libere istituzioni democratiche che ne rappresentava la ca­ ratteristica essenziale. Solo il 23 dicembre era effettuato il primo lancio, un lancio che veniva definito dal Comitato milanese “eviden­ temente di prova, dato il modestissimo valore del riforni­ mento (equipaggiamento per 30 uomini).” La realtà era che gli alleati non nascondevano la loro diffidenza verso le forze della Resistenza, e soprattutto il Churchill continuava a temere l’anarchia che avrebbe potuto essere provocata dalle correnti antifasciste: il 6 novembre egli aveva scritto a Roosevelt che tutte le informazioni in suo possesso mo­ stravano che le Nazioni Unite avrebbero perso molto scio­ gliendo la presente combinazione Re-Badoglio," che aveva consegnato agli alleati la flotta e che assicurava la fedeltà "di grandissima parte dell’infelice esercito e del popolo italiano." Il congresso di Bari (28-29 gennaio 1944)

A Brindisi, invece, il re, sempre sospettoso, era convin­ to, come ha documentato il diario del Puntoni, che gli al­ leati favorissero ed appoggiassero i suoi avversari, od al­ meno non li contrastassero con la dovuta energia. Il 16 novembre il Badoglio aveva annunciato “le decisioni pre­ se," come dice ancora il Puntoni, "per il completamento 35

del governo," ma non si trattava certo dell’auspicato com­ pletamento democratico, perché il dicastero delle Finanze era stato assegnato all’ex ministro fascista Guido Jung. Questo sollevò l’indignazione dei partiti antifascisti, indi­ gnazione che colpiva soprattutto la persona dello stesso sovrano, in quanto a lui sembrava risalire ogni responsa­ bilità (del resto, il suo contegno era tale da avvalorare que­ sta opinione perché egli cercava di agire esautorando del tutto il primo ministro): il Croce scriveva, il 21 novembre, di avere consigliato ad alcuni amici, che gli chiedevano qua­ le contegno fosse da tenere verso il ministero messo su dal re, “il rifiuto e la più rigorosa intransigenza”; e, pochi giorni dopo, il 29, parlava al Corbino “in modo cosi strin­ gente e caloroso” dell’errore da lui commesso nel parteci­ pare "al ministero fatto dal re” da scuoterlo (ed infatti, il Corbino tornava subito a Brindisi e rassegnava le dimis­ sioni). Segno dell’acuità tensione era, poi, la deliberazione del C.L.N. di Bari in cui si dichiarava che "nessuna colla­ borazione né totale né parziale né politica né tecnica [era] possibile” con il governo e si chiedeva ai partiti ed ai loro aderenti di attenersi "rigorosamente all’osservanza di tale indirizzo politico.” Una certa salvezza parve venire a Vittorio Emanuele III dai deliberati della conferenza di Teheran (fra Churchill, Roosevelt e Stalin, tenuta dal 28 novembre al 1° dicembre, che vide il primo insistere per l’offensiva nei Balcani, pro­ posta respinta dal Roosevelt e da Stalin: si disse che que­ sta conferenza avesse stabilito i principi della collabora­ zione fra tutti gli Stati, grandi e piccoli, in quanto vi si discusse a lungo dell’organizzazione delle Nazioni Unite, affermando la non-ingerenza negli affari interni di ciascun paese); una certa salvezza, abbiamo detto, perché in essa fu ribadita la volontà degli alleati di rimandare al momen­ to della liberazione di Roma il problema del nuovo gover­ no. Di questa decisione si fece forte il re, il quale comunicò al generale Joyce, capo della missione alleata, in assenza del Mac Farlane, la sua ferma intenzione di procedere alla formazione di un altro ministero al momento della libera­ zione della capitale. Egli tendeva a rigettare sul Badoglio il proposito di prolungare il più possibile la sua vita di capo del governo, nell’ingenuo tentativo di far dimenticare, in tal modo, la questione istituzionale. Ma nulla ormai po­ teva fargli ritrovare la simpatia e la fiducia di coloro che le avevano del tutto perdute e neppure l'arrivo al fronte del Raggruppamento motorizzato (i cui soldati portavano 36

come distintivo lo scudetto di Savoia) e la sua partecipa­ zione alle operazioni nella zona di Montelupo sulla doloro­ sa strada di Cassino, valsero a vincere l’ostilità degli ele­ menti democratici, che, guidati dallo Sforza, dal Croce e adesso anche dal De Nicola, chiedevano con sempre mag­ giore insistenza l’abdicazione del sovrano. Il 29 dicembre, il Puntoni esprimeva all’aiutante di campo del principe di Piemonte, Gamerra, il suo parere che Vittorio Emanuele non avrebbe mai acceduto a richieste del genere o a "pres­ sioni esercitate da uomini che pretendono di rappresentare la volontà di tutti gli italiani e che per la verità rappre­ sentano invece soltanto il loro pensiero personale." Il 19 gennaio 1944, il re ribadiva al Badoglio che non avrebbe abdicato se non quando ne fosse stato richiesto dal pae­ se "nella sua totalità” e che "l’espressione di questa volontà si [sarebbe potuta] avere soltanto quando l’Italia [avesse avuto] un Parlamento regolarmente eletto.” Infine, il 23 gennaio, consegnava al Mac Farlane un promemoria che diceva: “1) Il Ministero attuale durerà fino al ritorno del governo italiano nella capitale; 2) non appena Roma sarà liberata dai tedeschi, si dovrà costituire un Ministero a larga base che comprenda esponenti di tutti i partiti e non comprenda uomini in alcun modo compromessi con il fascismo; 3) entro quattro mesi dalla pace si dovrà eleggere la Camera dei Deputati; 4) il Parlamento potrà liberamente discutere le istituzioni e riformarle anche to­ talmente; 5) il Paese, liberamente consultato, sarà arbitro delle sue sorti; 6) la Corona seguirà fedelmente la volontà del Paese manifestata dai rappresentanti della Nazione li­ beramente eletti.” Come si vede, Vittorio Emanuele III si irrigidiva e non voleva dare assolutamente ascolto ai consigli degli uomini politici napoletani, una parte dei quali, accettando anche il principe di Piemonte, mirava, con l'abdicazione del vec­ chio sovrano troppo compromesso con il fascismo, a sal­ vare la monarchia. In questi consigli il re vedeva non solo la fine sua personale ma anche della stessa dinastia, poi­ ché l’abdicazione avrebbe significato riconoscere ed am­ mettere' pubblicamente le colpe del suo regno: ma era pro­ prio questa aperta confessione che il Croce e il De Nicola volevano, per poter purificare l’istituzione da ogni macchia. Evidentemente, si trovavano di fronte due posizioni irre­ conciliabili ed a renderle ancor di più tali era venuto l’an­ nuncio, approvato il 4 dicembre, in un convegno di C.L.N. della Puglia e di Napoli, di un "Congresso Nazionale dei 37

Comitati di Liberazione di tutte le province dell’Italia an­ cora occupata dai nazisti e degli esuli," indetto da un comi­ tato organizzatore. Tale congresso si sarebbe dovuto tenere il 20 di quel mese, ma il Badoglio chiese agli alleati che lo impedissero, cosa che essi effettivamente fecero, sollevan­ do, però, vivacissime critiche anche perché sembrava che le forze monarchiche stesserò riorganizzandosi (si parlava di una tendenza legittimistica capeggiata dai generali Mes­ se, Berardi e daH’ammiraglio De Courten; il 25 dicembre usciva il primo numero di un giornale monarchico, Unione, organo di un costituendo partito omonimo e il 21 gen­ naio 1944 il Puntoni osservava che le azioni della monar­ chia sembravano in rialzo). La proibizione alleata produsse "sorpresa e delusione” nei partiti e tra i combattenti della Resistenza nell’Italia settentrionale e centrale: in una lunga dichiarazione il C.L.N. di Milano condannava l’atteggiamento dell’Amgot e contestava che gli scopi perseguiti dagli alleati (eliminare il fascismo; intensificare il concorso italiano alla guerra; mantenere l’ordine ed avviare il paese alla ripresa della pratica democratica) potessero essere raggiunti appoggian­ do e favorendo “le macchinazioni dell’attuale governo di Bari.” La Resistenza italiana avrebbe fatto di tutto per capo­ volgere una simile “incresciosa” situazione: "Le Nazioni Unite raccolgano ed intendano," concludeva, "la voce del­ l’antifascismo e della Resistenza che è la voce concorde dell’Italia fedele alle sue tradizioni di libertà e di demo­ crazia.” Naturalmente non fu solo questa protesta, ma an­ che quella dell’opinione pubblica meridionale a far cam­ biare consiglio agli alleati, i quali, il 7 gennaio concedet­ tero il permesso per il congresso da tenersi il 28-29 a Bari, salvo divieto del Comando delle truppe operanti. Alle forze democratiche veniva dato slancio, fiducia ed entusiasmo nella prospettiva di una assemblea che avrebbe potuto de­ liberare sui più importanti problemi del momento. Era diffusa l’attesa di qualcosa che sbloccasse la situa­ zione, stagnante dopo il rifiuto del re, e lo Sforza pregava il Croce di recarsi a Bari, “dove può darsi che accada qual­ cosa” ("Anch’io penso e spero cosi,” soggiungeva il filosofo napoletano). Questa attesa giustificava i messaggi dei C.L.N. di Roma e di Milano, rispettivamente del 19 e del 26 gen­ naio: in essi si ripeteva che il governo Badoglio, compro­ messo con "il nefasto e abbietto regime fascista,” non ave­ va alcuna autorità per guidare il paese nella lotta contro il nazi-fascismo; bisognava, pertanto, attenersi all’ordine del 38

giorno del 16 ottobre e costituire quel governo straordina­ rio, emanazione del C.L.N., che assumesse tutti i poteri co­ stituzionali dello Stato fin quando il popolo italiano avesse potuto liberamente decidere sulla forma istituzionale: "eventuali contrasti e divergenze," affermava il messaggio di Milano, “su tali punti fondamentali potrebbero irrime­ diabilmente pregiudicare l’attesa e indispensabile unità del­ la Nazione.” Ma sembrava che nell’Italia meridionale i partiti di si­ nistra, guidati dai comunisti (che continuavano a rappre­ sentare, come aveva detto il Soleri del loro contegno du­ rante i quarantacinque giorni, un "elemento di calma e di responsabilità, che si controllava ed autolimitava,” per­ ché sempre preoccupati dell'unità delle forze antifasciste e timorosi di un eventuale isolamento del loro partito), si disponessero a partecipare al governo Badoglio, nell’inten­ to di superare il punto morto e di immettere le correnti antifasciste nel ministero. Tuttavia, il partito d'azione, in una riunione di delegati di tutte le regioni tenuta il 26 gennaio, alla vigilia cioè del congresso, approvò una mo­ zione che adottava una linea di maggiore intransigenza nei riguardi della monarchia, perché oltre a proporre di for­ mulare un atto di accusa contro il re, "fondato su tutte le violazioni dello statuto da lui commesse,” attribuiva il potere al congresso di proclamarsi assemblea rappresenta­ tiva dell’Italia liberata. Esso avrebbe dovuto completarsi in Roma, “per ivi sedere fino alla formazione della Costi­ tuente, assolvendo temporaneamente ai seguenti compiti: 1) procedere alla formazione del Governo; 2) intensificare lo sforzo bellico; 3) vigilare a che niuno attenti alle ricon­ quistate libertà”; nel frattempo, fino alla liberazione della capitale, si sarebbe dovuta eleggere nel suo seno una Giunta permanente dell’Italia liberata, che avesse i poteri di deli­ berare e agire invece del congresso. Il Degli Espinosa defi­ nisce questa mozione “un deciso atto rivoluzionario,” per­ ché respingeva anche la reggenza, che continuava ad es­ sere la soluzione caldeggiata dal Croce, dallo Sforza e dal De Nicola (il Croce, quando gli fu fatta leggere la mozione azionista la disse "semplicemente cretina" e “puerile"). Fra queste due posizioni se ne era delineata una terza, di ele­ menti più moderati e conservatori rappresentati dall’Arangio Ruiz, liberale, e dal Rodinò, democristiano, i quali erano favorevoli a collaborare con il principe di Piemonte, se il re avesse abdicato. In tale senso i due uomini politici cerca­ rono, il 23 gennaio, di influire sul Croce per guadagnarlo 39

alla loro causa, trovandolo però risoluto sulla negativa. Il 28 gennaio, i congressisti furono informati che il ge­ nerale Alexander, nuovo comandante alleato nel Mediter­ raneo dopo la partenza (28 dicembre) dell’Eisenhower per la Gran Bretagna dove doveva assumere il comando del corpo di spedizione per lo sbarco in Francia, aveva vietato agli ufficiali alleati di assistere al congresso e vietato altre­ sì la trasmissione per radio dei discorsi; che gli invitati nei palchi non potevano superare gli ottocento e solo per la seduta inaugurale. “È chiaro,” osservava il Croce, "che si vuole impedire, per quanto è possibile, l’efficacia di questa solenne manifestazione, la prima che si faccia in Italia dopo la caduta del fascismo. L’apparato di truppe e carabinieri, come per una rivolta che stia per scoppiare, è enorme e ridicolo” (il 30 gennaio egli firmava una prote­ sta redatta dallo Sforza e indirizzata "all’Eden, al Cordell Hull e al Molotov per il contegno tenuto dalle autorità al­ leate verso il Congresso"; invece, il Puntoni si era dimo­ strato allarmato per l’"ampia diffusione” data dagli alleati e per le "lunghe e dettagliate cronache” trasmesse dalla radio). La tesi delle sinistre si rivelò effettivamente fuori della realtà e, pertanto, non esercitò alcuna influenza sul congres­ so, in cui si affrontarono, anche per l’autorità dei propo­ nenti, le altre due tesi, quella del Croce e quella dell'Arangio Ruiz. Quest’ultimo riuscì, in definitiva, a prevalere nel­ la risoluzione finale, soprattutto per la preoccupazione del­ l’unanimità che sarebbe stata infranta se non si fosse tro­ vata una soluzione di compromesso: "dinanzi alla risolutez­ za,” scrive il Degli Espinosa, "dei demo-cristiani e dei li­ berali, i tre partiti oltranzisti [cioè di sinistra] ripiegarono e finirono per accontentarsi della creazione della Giunta. Ri­ tirati, infine, i vari ordini del giorno, si decise di formularne uno nuovo che raccogliesse l’unanimità. Nel nuovo, non si faceva questione del Principe." Perciò, anche la soluzione so­ stenuta dal Croce non aveva potuto resistere, dimostrando in tal modo quanto essa fosse debole di fronte alle due estreme, e basata, in ultima analisi, pure essa su una valu­ tazione alquanto astratta della situazione. Bisogna però dire che molto probabilmente mancò al filosofo napoletano la vo­ lontà di difenderla con risolutezza, o almeno che egli si ras­ segnò abbastanza facilmente alla deliberazione concordata, perché essa rispondeva al suo più intimo sentire, come rive­ lano queste parole del suo diario, sotto la data del 7 feb­ braio: "Mi avvedo che l'essersi taciuto, nei dibattiti del Con­ 40

gresso di Bari, del principe ereditario, ha in certo modo ria­ perto la possibilità di un’accettazione della sua persona in sostituzione del re. Alla domanda rivoltami in proposito ho detto che l’importante è l’allontanamento del re, rappre­ sentante superstite e diretto del fascismo, pel resto si po­ trà riconsiderare la situazione.” Invece, come al solito, il Puntoni vedeva nel fatto che non si fosse fatto alcun cen­ no alla successione del principe un tranello: "È evidente, e questo è il pensiero dell’ambiente che vive attorno al Sovrano, che la successione del Principe è soltanto un tra­ nello per arrivare più rapidamente alla creazione di una repubblica." Era cosi sospettoso e diffidente, quell’ambien­ te, da non riuscire a distinguere tra avversari ed amici e da confondere tutti nella stessa decisa avversione. Ma co­ me i risultati del congresso fossero, in realtà, favorevoli alla monarchia lo dimostrò il commento del Bonomi, il quale disse la formula approvata a Bari dei “pieni poteri” da attribuire al governo fino alla Costituente, “più transi­ gente e adattabile" di quella "tutti i poteri costituzionali dello Stato" contenuta nella mozione del 16 ottobre. Di conseguenza, le correnti di destra, anche a Roma, si sentirono incoraggiate a resistere alla pressione sempre più forte che le sinistre esercitavano sul Comitato, anche in vista della sperata, imminente liberazione della capitale ad opera delle truppe alleate, sbarcate il 22 gennaio a Net­ tuno e ad Anzio, a 55 chilometri da Roma: “La nuova for­ mula,” osservava il Bonomi, "troverà opposizione nei tre partiti estremi. Nenni ci ha già annunziato che ci sarà battaglia. E sia. Una chiarificazione è necessaria.” Il 15 febbraio, il Nenni gli comunicava un ordine del giorno del suo partito, discusso e approvato il 9, in cui si dichiarava "l’impossibilità pei partiti antifascisti di collaborare in qualsiasi forma con la monarchia, la quale dovrebbe esse­ re interamente accantonata in attesa che la Costituente proclami la repubblica. I socialisti aggiungono che, nel caso che gli altri partiti non accettino integralmente il lo­ ro atteggiamento, essi si ritireranno dal Comitato di Li­ berazione Nazionale." Era un attacco risoluto a quelli che erano ritenuti i cedimenti dei partiti democratici, attacco reso necessario dalla volontà di non consentire soluzioni che pregiudicassero il problema del governo che si ritene­ va di dovere affrontare tra poco. Il Bonomi osservava: "È una prima crepa nella compagine dell’alleanza e un colpo duro alla vitalità del Comitato,” ma anch’egli si di­ sponeva a resistere con energia. 41

Il processo di Verona Intanto, i fascisti repubblicani, abbandonata la campa­ gna per la pacificazione, avevano dato inizio ad una dura politica repressiva: una sempre maggiore influenza anda­ vano acquistando gli elementi estremisti che erano aperta­ mente appoggiati dai tedeschi: "[...] a Berlino,” scriveva il Dolfin, sotto la data del 15 dicembre 1943, "sono soprat­ tutto stanchi della nostra debolezza ed attendono da noi una politica più forte e decisa.” E aggiungeva che da al­ cune province pervenivano "le voci più strane, comprese quelle di complotti contro il Governo e di marce di fascisti e di formazioni militari sul Garda, per compiere una va­ sta pulizia.” Tali repressioni culminarono nelle giornate di Ferrara e nelle rappresaglie milanesi in seguito alla uc­ cisione del segretario federale Aldo Resega (19 dicembre). Il duce, in quest’ultima occasione, "pressato dal Partito," dove "le diverse formazioni più o meno autonome minac­ ciavano diretti interventi a carattere sommario,” autoriz­ zò la convocazione del Tribunale militare con il compito di giudicare "alcuni elementi sovversivi indiziati come ap­ partenenti ai gruppi terroristici.” "Saranno questi colpe­ voli?," si chiedeva alquanto perplesso il Dolfin, ritenendo la domanda, “in questo periodo di diffusa follia collettiva," angosciosa. Il C.L.N. di Milano prese subito posizione contro questo inasprimento della lotta, che purtroppo aveva assunto lo aspetto di una spietata e tragica guerra civile, prospettiva che nessun cittadino può mai accettare a cuor leggero seb­ bene talvolta divenga necessario l’accettarla per non rinun­ ciare alla difesa dei piu nobili valori umani: ormai era uscito dalle incertezze dei primi momenti e la costituzione del Comitato militare l’aveva reso più cosciente della sua forza. Cosi poteva trasmettere, via Lugano, un "solenne ammonimento" ai neofascisti da far leggere per diversi gior­ ni dalla BBC italiana di Londra e dalla radio di New York: "Complici i nazisti, sanguinose repressioni infieriscono nel­ l’Italia occupata per mano dei nazifascisti, i quali si acca­ niscono contro gli antifascisti arrestati con una serie im­ pressionante di brutali sevizie e di efferate crudeltà che rinnovano la più spietata ferocia del medio-evo [...]; nes­ suno di essi, presto o tardi, sfuggirà al castigo e alla san­ zione.” I nostri rappresentanti in Svizzera cosi riassume­ vano per il Dulles e il McCaffery questa comunicazione: “Preghiamovi nel modo più vivo dare massima pubblicità 42

in stampa sollevando più alto scandalo possibile. Forse po­ trete alleggerire la sorte di qualcuno dei nostri. Pregate radio Londra e radio N.Y. di chiamare in causa la respon­ sabilità personale dei gerarchi fascisti e dei nazisti come criminali di guerra." In questa “nota urgente" del 30 di­ cembre era descritta la pressione sempre più crescente del nemico: “Nella sola Milano, in un sol giorno (21 dicem­ bre) venivano eseguiti ben 200 arresti. Nella zona di ErbaCanzo-Asso (Como) i tedeschi irrigidivano i provvedimen­ ti repressivi, portando il coprifuoco alle 12,30! Sempre più abominevoli i particolari sulle atrocità repressive nazifasciste. Dopo i fatti di San Martino di Varese, una quin­ dicina di prigionieri più alcuni civili sospetti favoreggia­ tori, in tutto 23 uomini, venivano abbandonati intenzional­ mente nelle mani della milizia fascista. Chiusi in sotterra­ nei, venivano torturati in modo tale da renderli irricono­ scibili, cavati gli occhi, massacrati. Altri patrioti nel bre­ sciano venivano uccisi a bastonate. Un giovane, innocente, inseguito e ferito, veniva seppellito ancora vivo. Le carceri di San Vittore a Milano sono riservate quasi esclusivamen­ te ai politici e la custodia è affidata alle SS; i prigionieri vivono in celle, incatenati alle mani e ai piedi, e solo dieci minuti al giorno vengono slacciati per mangiare e per i bisogni corporali. Cosi incatenati, vengono fustigati fre­ quentemente e la tortura normale per farli parlare è quella di mettere le dita delle mani sotto una pressa. Si parla di altre torture spaventevoli. Uno dei nostri amici è stato visi­ tato: piagato in tutto il dorso, mani spaventevolmente tu­ mefatte, polsi sanguinanti." Era, del resto, naturale che i fascisti si assumessero la responsabilità di questa dura repressione, perché non riu­ scendo, anche per l’opposizione tedesca, ad organizzare un esercito per la guerra contro gli anglo-americani, volevano almeno rendersi utili in tal modo. “Ho potuto definitiva­ mente convincermi,” si sfogava il Mussolini con il Dolfin, “che non avremo mai un esercito. I tedeschi non lo vo­ gliono." Una simile situazione, con i voluti ostacoli alla co­ stituzione di alcune divisioni, rendeva inevitabile una sog­ gezione quasi assoluta dei fascisti alla Germania: il duce si sfogava con l’ex-socialista Carlo Silvestri affermando che gli italiani avevano ragione "di dire che non conto niente, che sono un fantasma. La realtà è che siamo appena qual­ cosa di meno di un vero e proprio territorio di occupazio­ ne," poiché il comandante di un presidio militare germani­ co poteva "emanare una ordinanza che annullava quelle 43

emesse in precedenza dal capo della provincia." Il Musso­ lini, che non si rassegnava ad esercitare un potere fittizio per delega altrui, avvertiva sempre nei suoi alleati un più o meno aperto rimprovero per ciò che era accaduto: l’ad­ detto militare presso l’ambasciata nipponica, Mitonobù, at­ tribuiva le cause del 25 iuglio non solo alla impreparazione bellica e alla incapacità e infedeltà delle alte sfere militari, ma anche alla corruzione del regime e alla intolleranza del popolo verso il prepotere dei gerarchi. Perciò, il duce doveva tentare di rigettare da se stesso e dal suo partito la taccia di inettitudine che sembrava spin­ gere perfino il Führer a mostrarsi freddo e riservato con lui. In una simile situazione runico modo che gli rimaneva era quello di condannare severamente i gerarchi dissidenti del 25 luglio (buona parte dei quali — tra cui Ciano, De Bono, Gottardi, Marinelli, Pareschi, ecc. — si trovava in carcere a Verona), perché solo cosi poteva avvalorare l’ac­ cusa del “tradimento,” mostrando cioè di non rispet­ tare neppure i suoi affetti familiari quando si trattava di punire i responsabili della caduta del fascismo. Si era detto che i tedeschi avessero voluto il processo e che lo stesso Hitler, preso da odio in particolare contro il Ciano per il suo atteggiamento antitedesco (il Wolff ha dichiarato recentemente che il Führer giudicava un “incondizionato tradimento” quello commesso dal nostro ministro degli Esteri nei confronti del suo paese, quando, nel 1939, aveva garantito confidenzialmente all’ambasciatore inglese che l’Italia non sarebbe entrata in guerra a fianco della Ger­ mania: la difficile situazione che si era venuta a creare avrebbe reso inevitabile l’attacco alla Gran Bretagna), in­ tendesse affrettare il giudizio capitale. Ma, poi, a rendere più incerta questa decisa volontà era intervenuta la que­ stione dei diari del Ciano, che interessavano moltissimo il ministero degli Esteri e il servizio di sicurezza del Reich, i quali volevano entrarne in possesso, poiché vi erano do­ cumentati i rapporti fra la Germania e l’Italia, non sem­ pre corretti da parte della prima (dopo la fucilazione del Ciano, la minaccia della moglie Edda, rifugiata in Svizzera, di pubblicare il diario, comunicata al duce con una lettera, fece entrare questi in una vivissima agitazione: “La pub­ blicazione di questo diario," disse al Dolfìn, "che tende a dimostrare la continua fellonia tedesca nei nostri con­ fronti, anche durante il periodo di piena alleanza, potrebbe in questo momento provocare delle conseguenze irrepara­ bili! Comunque, sempre di una gravità eccezionale!”). 44

Cosi, mentre i tedeschi cercavano di contrattare con il Ciano, tramite Frau "Felicita” Beetz, la salvezza in cambio della consegna dei diari, il duce diventava, proprio per il desiderio di lavare sé ed il fascismo da ogni mac­ chia, più intransigente: il 7 gennaio, ricevendo il presiden­ te del Tribunale speciale straordinario, che avrebbe dovu­ to giudicare i membri del gran consiglio, gli impartì “istru­ zioni molto precise”: "Procedere senza riguardi di sorta verso chicchessia, secondo coscienza e giustizia”; poco dopo, affermava, “con estrema decisione," davanti al Dolfin: “Chi ha votato l’ordine del giorno Grandi sarà con­ dannato!”; infine, al senatore Rolandi Ricci ed al ministro della Giustizia, Pisenti, che gli facevano osservare come l’accusa di tradimento non avesse fondamento giuridico, replicò che "ragion di Stato imponeva una valutazione po­ litica.” E sulla necessità di questa valutazione politica con­ tinuò ad insistere fra Γ8 e il 10 gennaio, cioè nei giorni del processo, destando sorpresa nel Dolfìn per "la fermezza de­ cisa, categorica, in netto contrasto con tutte le [sue] prece­ denti affermazioni.” Sicché, quando la sentenza di morte fu emessa, il duce, pur lasciando scorgere la sua acuta sofferen­ za, esclamò “con forza”: "Se ho superato me stesso con que­ sto atto estremo, è perché spero che esso sia utile, come mi hanno fatto capire da più parti, al Paese!’’; ed al Silvestri chiari il significato di tutta quella triste vicenda e della condanna (definita dal Croce "un delitto aggiunto agli al­ tri, un orrore”): "[...] la sentenza di Verona non ha voluto colpire soltanto gli imputati, anche quelli latitanti, e fra costoro vi sono i maggiori colpevoli, ma il capitalismo ita­ liano, che ha sabotato la guerra e creato questa situazione. La sentenza ha voluto essere epilogo e premessa al cam­ mino della Repubblica sociale." Ma i risultati furono forse diversi da quelli che si aspettava il duce, perché rigettando su alcuni uomini tutta la responsabilità del crollo del re­ gime e denunciandoli come traditori, il fascismo repubbli­ cano si toglieva ogni possibilità di rinnovamento e mostra­ va di ricollegarsi strettamente al vecchio fascismo, rispet­ to al quale affermava una rigorosa continuità.

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Capitolo secondo

L’azione di governo della Resistenza

La costituzione del C.L.N.A.I. “In previsione della cessazione dei normali collegamenti tra Roma e il resto dell’Italia ancora occupata dai tede­ schi,” le direzioni romane dei tre partiti di sinistra — d’azio­ ne, socialista e comunista — avevano ritenuto opportuno fissare, fin dall’ll dicembre 1943, "alcune direttive fondamentali” ai compagni che sarebbero stati chiamati fra po­ co “a sostenere da soli il peso e la responsabilità sia del­ l’azione armata contro l’invasione sia della lotta politica." Restava inteso che, "per conservare unità di indirizzo e di azione," tutti i collegamenti ed i rapporti che fino a quel momento avevano gravitato su Roma, avrebbero, dopo la liberazione della capitale, gravitato su Milano. La parte più importante di questo messaggio era quella più strettamen­ te politica, in cui i tre partiti esprimevano l’esigenza della "più ferma e radicale intransigenza nei riguardi della mo­ narchia e di Badoglio,” perché intorno ad istituzioni e a uomini del passato non si poteva costruire l’avvenire: "La collaborazione, ai fini della lotta contro i tedeschi, con le forze politiche e sociali espresse dai partiti di destra, si attua nella costituzione e nel funzionamento dei C.L.N., ma non deve in alcun modo sconfinare in collaborazione con la monarchia e con Badoglio. Unione nazionale sotto l’in­ segna del C.L.N. si, unione nazionale sotto l’insegna della monarchia e di Badoglio, no.” Questo atteggiamento avrebbe dovuto essere mantenuto con assoluta fermezza, in quanto soltanto nella vittoria contro la monarchia stava la premes­ sa di quella trasformazione democratica della società italia­ na che i tre partiti di sinistra, “ciascuno con la sua ideologia e con il suo programma," volevano realizzare; se si fosse consentito alla monarchia stessa di riprendersi, “la sorte delle forze democratiche in Italia sarebbe [stata] segnata.” Con lo sguardo rivolto a questa ricostruzione democratitica, e, perciò, sostanzialmente preoccupati piu della lotta 46

politica post-bellica che della guerra contro il nazifascismo, i rappresentanti romani consigliavano "l’intesa politica" fra i dirigenti locali dei tre partiti attraverso “il frequente e cordiale contatto personale": ogni frizione sarebbe stato un punto guadagnato dalle forze reazionarie e, ripetevano, "nella cooperazione non solo affermata, ma volonterosamen­ te e concretamente praticata, [sarebbe stato] il fondamen­ to della ricostruzione democratica dell’Italia." Meno importante era, come abbiamo detto, la parte de­ dicata all’azione militare, in cui, peraltro, si faceva osser­ vare come soltanto 'Tintervento delle grandi masse popo­ lari nella guerra partigiana e nella resistenza attiva all’oc­ cupante, [fosse] decisivo per assicurare alle forze democra­ tiche la direzione della guerra di liberazione e la loro de­ cisiva influenza nella vita politica italiana." Era evidente che, proprio nella imminenza della liberazione di Roma, i tre partiti di sinistra avevano rafforzato la loro unità per influire più profondamente sulla nuova situazione politica; essi richiedevano anche ai loro compagni del Nord l’esem­ pio di una simile operante unione di propositi per rendere più efficace la loro azione e per accrescerne le possibilità di successo. Ma Γ11 dicembre 1943 parlare di cessazione dei normali collegamenti fra Roma e l’Italia settentrionale sembrava prematuro, perché la situazione degli alleati, ferma la V Armata sulla linea del Volturno e arrestata l’VIII sulla li­ nea Ortona-Villa GrandejArielli-Orsogna, non era tale da poter far concepire alcuna speranza. Alla fine dell’anno era chiaro che la strategia anglo-americana era entrata in crisi non solo per la mancanza di mezzi sufficienti, ma anche, come dice lo Jars, per l’incapacità dei comandi a modifi­ care le "recettes tactiques," che erano state uno dei fattori essenziali delle vittorie africane. Nelle due conferenze del Cairo (22 nov.-7 die.) e di La Marsa (vicino a Tunisi: Natale 1943) erano stati elaborati i piani alleati per la nuova cam­ pagna: ancora una volta il Churchill e gli inglesi avevano mostrato di dare maggiore importanza al settore italiano e mediterraneo che a quello francese. Essi consideravano l’operazione Overlord con una apprensione a stento dissi­ mulata — scrive l’Eisenhower — e avrebbero voluto mette­ re rapidamente in grado le due armate di penetrare nei Balcani, mentre di tutt’altro parere erano gli americani. Alla fine prevalse l’opinione di questi ultimi e la nomina dell’Eisenhower a comandante supremo delle forze desti­ nate ad attaccare i tedeschi nella Francia del nord lo rivelò, 47

ma il Churchill riuscì tuttavia ad imporre il suo piano mi­ rante ad una rapida liberazione di Roma mediante uno sbar­ co nel settore di Anzio in collegamento con una ripresa del­ l’offensiva della V Armata. Fu lo sbarco (operazione Shingle) attuato tra Anzio e Nettuno nella notte fra il 21 e 22 gen­ naio, uno sbarco che in un primo momento destò la viva fiducia di una rapida avanzata, essendo stato il Kesserling evidentemente sorpreso dall’improvviso attacco. Fu sotto l’impressione di questo sbarco che il C.L.N. centrale decideva, il 31 gennaio, di investire il C.L.N. di Mila­ no dei poteri di “governo straordinario del Nord." Nella sua lunga lettera, il Comitato romano si impegnava a promuo­ vere, subito dopo la liberazione della capitale, la formazio­ ne di un "governo espresso dal popolo, secondo le condi­ zioni già indicate con l’ordine del giorno del 16 ottobre," nella convinzione che solo in tal modo si sarebbero potute suscitare “le energie combattive del paese e assicurare la partecipazione dell’Italia alla guerra non come belligerante soltanto, ma come alleata delle Nazioni Unite.” A tal fine, però, occorreva anche che, "proseguendo l’opera iniziata con tanto ardimento e spirito di sacrificio,” il C.L.N. mila­ nese provvedesse ad intensificare la resistenza attiva, "poi­ ché la liberazione dell’Italia non deve essere affidata sol­ tanto alle forze militari delle Nazioni Unite, ma ad essa de­ vono contribuire il valore, l’abnegazione e l’audacia degli italiani.” E concludeva esortando a difendere contro ogni attacco l’unità del Comitato, condizione essenziale per una efficace azione del popolo italiano: "Non permettete a in­ fluenze reazionarie di minare la vostra compattezza e di paralizzare le vostre iniziative. Coloro che insinuano che voi dovete diffidare delle masse lavoratrici o dovete dare l’ostracismo a questo o a quello dei partiti coalizzati, sono elementi disgregatori che mirano a distruggere la vostra compattezza”; le "basse speculazioni disgregatrici” pote­ vano servire soltanto “gli interessi del nazismo e del fa­ scismo": frasi che palesemente alludevano al partito comu­ nista, il più esposto agli attacchi delle destre. Il 31 gennaio, quando fu scritta questa lettera, si era tenuta, come scrive il Bonomi, una riunione, in cui era parso che il malumore delle sinistre per alcune iniziative del sovrano e del, Badoglio (quest’ultimo aveva comunica­ to, il 15 gennaio, dopo aver diffidato i sei partiti del C.L.N. di astenersi da ogni attività politica non appena avvenuto l’ingresso degli anglo-americani in Roma, di avere conferito al gen. Armellini, inviso alle sinistre perché ex-comandante 48

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delle camicie nere, il comando militare della piazza: e, nei giorni seguenti, si erano svolte discussioni molto vivaci per­ ché gli “elementi più accesi” volevano impedire che le trup­ pe badogliane avessero la prevalenza in Roma, che doveva essere occupata soltanto dalle forze del C.L.N.) fosse scom­ parso: "Nessuno screzio, nessun dissenso, nessuna polemi­ ca. Tutti hanno ammesso che si debbono evitare urti e con­ flitti con l’autorità militare.” Molto probabilmente, questo cedimento delle sinistre fu favorito dall’unanime approva­ zione della lettera al C.L.N. di Milano; in essa, come si è visto, si reagiva “alle basse speculazioni disgregatrici,” che erano state rese particolarmente temibili in Roma da quelle iniziative monarchiche e badogliane: ma a Milano bisogna dire che esse non furono affatto avvertite, anche perché la lotta armata dava ai partiti di sinistra un prestigio notevole. Crisi dei partiti democratici nell’Italia meridionale Ma la liberazione di Roma, ritenuta imminente, diven­ tava di nuovo, per l’accanita resistenza tedesca, una lon­ tana speranza: il Croce annotava, il 5 febbraio: "Purtrop­ po le speranze di una imminente entrata in Roma sono ca­ dute e anche sul fronte dello sbarco alleato ci si avvia alla stasi”; ed il Puntoni aveva già espresso la sua sfiducia in una rapida risoluzione della -faccenda fin dal 23 gennaio e poi aveva ripetuto, il 28: "Tanto sul Garigliano quanto sul­ la testa di sbarco di Nettuno le operazioni alleate ristagna­ no e non danno adito a speranze di sorta.” Evidentemente, l’aiutante di campo di Vittorio Emanuele III mostrava, con quella sua precipitosa sfiducia quando ancora la situazione per gli anglo-americani sembrava abbastanza favorevole, di non desiderare affatto la liberazione di Roma, che avrebbe sollevato e imposto tanti problemi ai quali il re non era ancora preparato a rispondere (il 7 febbraio scriveva nel suo diario: “Nella zona di Nettuno gli anglo-americani han­ no ricevuto una dura lezione e si trovano in crisi”; e dieci giorni dopo: “Nella zona di Nettuno la situazione militare è sempre critica. Gli alleati attraversano una crisi cosi grave che potrebbe indurli a reimbarcarsi. Anche sul Garigliano i tedeschi riprendono l’iniziativa”). Il sovrano, infatti, con­ tinuava a rimanere irremovibile nella sua decisione di non abdicare per il momento, mentre da quanto scrive il suo aiutante di campo si capisce che si riteneva difeso quasi esclusivamente dagli elementi ex-fascisti e che guardava 49

sempre con grande diffidenza gli uomini democratici (il 17 gennaio il Puntoni esprimeva il suo parere sull’ex-generale della milizia Giannantoni al maggiore Jonston dell’Intelligence Service perché era venuto a conoscenza, tramite il Badoglio, di lamentele degli alleati: lo diceva "un uomo di grande onestà e rettitudine” e metteva in guardia il suo interlocutore da "certe manovre che mirano tutte allo stes­ so segno: colpire il Sovrano screditando le persone che il Sovrano riceve”; più. tardi, il 25, dimostrava la sua con­ trarietà alla "eliminazione del fascismo dalla vita pubblica italiana,” trovando le norme che regolavano l'attività del Commissariato addetto a tale compito, del quale era stato incaricato Tito Zaniboni — espulso poi dal partito socia­ lista per avere accettato di collaborare con il governo Ba­ doglio —, "non soltanto inumane ma addirittura contrarie al diritto”). Del resto, era naturale questo atteggiamento di Vitto­ rio Emanuele III, dal momento che egli, sempre più al­ larmato, scorgeva in ogni mossa dei partiti democratici un attentato alla monarchia. Inoltre, faceva risalire ad essi tutto ciò che, anche soltanto in apparenza, poteva sembra­ re contrario alla sua persona, come, ad esempio, l’agita­ zione di circa 12.000 contadini ed operai che, all’inizio di febbraio, avevano preteso, riferiva il Puntoni, “oltre a mi­ glioramenti salariali, provvedimenti di carattere politico addirittura inattuabili. O il governo agisce con fermezza o si salterà nel buio.” Ed invece, le correnti democratiche (raccolte nella Giunta nominata dal congresso di Bari e che si riuniva regolarmente a Napoli) non avevano avuto alcuna parte in queste manifestazioni, ed anzi ne furono sorprese, tanto da esserne spinte a denunciare, il 16 feb­ braio, con maggiore energia di quanto avessero fatto sino allora, il "neo-fascismo monarchico” reso responsabile del perdurare della mentalità e della struttura politica e so­ ciale instaurata dal passato regime, che, ora, vincolava e inceppava "ogni attività del paese all’arbitrio delle Prefettu­ re e di tutti gli organismi da esse dipendenti." In tale si­ tuazione, la Giunta esecutiva invitava i C.L.N. dell’Italia liberata a farsi “legittimi e sinceri organi di rappresentan­ za e di difesa” degli interessi popolari procedendo alla co­ stituzione delle Giunte municipali, le quali avrebbero do­ vuto iniziare "seriamente ed energicamente senza ulteriori colpevoli indugi l’opera di risanamento morale, politico ed economico dei comuni stessi.” Tutto questo, però, sarebbe stato sempre molto aleatorio se non si fosse ottenuta l’ab­ 50

dicazione del re e la conseguente formazione di un gover­ no democratico: cosi, il 9 febbraio, aveva comunicato a Vittorio Emanuele il deliberato unanime del congresso di Bari, in base al quale "presupposto innegabile della rico­ struzione morale e materiale italiana” era l’abdicazione di colui che era ritenuto il solo responsabile delle sciagure del paese: “Ogni ulteriore indugio," concludeva, "aggrava la situazione e rende più paurose le vostre responsabilità, che non possono essere in alcun modo coperte da una co­ stituzione lacerata." Questo ordine del giorno fu recapitato al re, con un ritardo che il Puntoni non riusciva a spiegarsi, il 22 febbraio ("Si tratta, semplicemente, di un ‘ordine’ di abdicazione In testa alle firme c’è quella di Arangio Ruiz”: a dire la verità, tra i firmatari della deliberazione non c’era per i liberali l'Arangio Ruiz, ma di lui si ricor­ dava la relazione sulla politica interna svolta a Bari, che aveva rappresentato una dolorosa sorpresa per gli elementi monarchici), e, pertanto, il 16 febbraio non aveva potuto giungere la risposta alla Giunta, la quale, nella circolare ai C.L.N., dichiarava "il re ribelle alla volontà unanime del popolo italiano, onde ogni vincolo tra il popolo e Vittorio Emanuele è spezzato." Si trattava, senza dubbio, di una dichiarazione molto grave che esorbitava nettamente dai limitatissimi poteri ri­ conosciuti alla Giunta stessa dagli alleati (infatti, questi le imposero di ritirare una circolare con cui si invitavano i pub­ blici funzionari a non parteggiare per il re e per i suoi com­ plici, perché giudicata un invito alla disobbedienza civile), ed era assolutamente impossibile prescindere dalla volontà degli anglo-americani. Sicché, il 18 febbraio, i rappresentanti dei partiti antifascisti inviavano al Mac Farlane un me­ morandum che constatava amaramente come l’azione al­ leata in Italia prendesse "la forma di un appoggio dato al governo personale del Re e di Badoglio," e che esortava, an­ che per l’immediato evidente interesse degli alleati, ad ap­ provare "la formula moderata e di compromesso propo­ sta dalla Giunta esecutiva." Ma anche questo memo­ randum rimase senza alcuna risposta, o, meglio, una ri­ sposta venne ad esso proprio dal Churchill, il quale, il 22 febbraio, in un suo discorso riprendeva, secondo il Pun­ toni, "il pensiero del nostro Re," dicendo che se avessero dovuto verificarsi mutamenti nella struttura del governo si sarebbe dovuto aspettare che venisse riconquistata Ro­ ma. Era un nuovo aiuto fornito alla monarchia e al Bado­ glio nella loro difficile lotta contro le opposizioni democra51

tiche (il capo del governo, infatti, faceva, il 26, una dichia­ razione ufficiale che appariva al Puntoni “un’esplosione di gioia per le dichiarazioni di Churchill ai Comuni e un rin­ graziamento per l’elemosina d’ossigeno fatta al suo Mini­ stero. Come al solito,’’ soggiungeva l’aiutante di campo con il consueto, evidente malumore contro il marescial­ lo, “quando parla, Badoglio parla soltanto per sé,”) e la Giunta non poteva fare altro che prendere atto, il 28 feb­ braio, di questa situazione: "Il primo mese di attività della Giunta è nettamente negativo [...]; dopo il discorso del Primo Ministro Britannico, del 22 febbraio, [vi è chi] so­ stiene addirittura che la Giunta dovrebbe sciogliersi. La radio, la stampa quotidiana rifiutano sistematicamente di dare pubblicità ai comunicati e messaggi della Giunta. Le autorità delle Nazioni Unite sono indifferenti ed ostili. Le comunicazioni tra la Giunta e i Comitati di Liberazione delle regioni dell’Italia liberata quasi impossibili o affidate a mezzi di fortuna; con la Sardegna non è stato ancora pos­ sibile di stabilire alcun contatto”; tutto ciò mentre il go­ verno riprendeva animo e ardire, riorganizzava e discipli­ nava il neo-fascismo e tentava di sgretolare l’antifascismo, ed il re, infine, si rifiutava di abdicare. Un mese più tardi, il 29 marzo, il rappresentante del p.d’a., Calace, era costret­ to a constatare che nessuna delle richieste contenute nella mozione del 29 gennaio, approvata all’unanimità da tutti i partiti, era stata realizzata: “L’immediata abdicazione del re è rimasta lettera morta [...]. Siamo ad un punto morto.” Si faceva strada, perciò, lo sconfortante senso di un fal­ limento, che era reso ancora più acuto dai contrasti che cominciavano a nascere fra i sei partiti della Giunta, con­ trasti naturali data la quasi assoluta impossibilità di una azione costruttiva: i tre partiti di sinistra, infatti, avevano comunicato di avere indetto per il 4 marzo uno sciopero di protesta contro il discorso del Churchill con una iniziativa che gli altri tre partiti criticarono perché presa a loro in­ saputa. Lo sciopero fu, poi, proibito dagli alleati e al suo posto si tenne un comizio, ma il partito liberale, la demo­ crazia cristiana e la democrazia del lavoro pubblicarono un comunicato con cui si invitavano tutti i partiti a man­ tenere l’unione sacra, facendo capire, in tal modo, all’opi­ nione pubblica che l’accordo non regnava più nella Giunta. Ci si era veramente cacciati in un vicolo cieco, e gli espo­ nenti delle sinistre, soprattutto del p. d'a. e del p.s.i., nel tentativo di uscirne, trascorrevano a propositi rivoluzionari, come quello avanzato dal Calace, il 29 marzo, che la Giun52

ta stessa procedesse alla formazione del Governo straordi­ nario di Liberazione Nazionale assumendo tutti i poteri costituzionali dello Stato, pur senza pregiudicare la volon­ tà popolare sulla futura forma istituzionale. La proposta venne subito accettata dal socialista Oreste Lizzardi [Longo­ bardi], ma respinta con decisione dall'Arangio Ruiz. L’arrivo di Palmiro Togliatti in Italia

Gli interni contrasti, pertanto, aggravavano l’impotenza delle correnti antifasciste, ma la situazione veniva rimessa in movimento inaspettatamente dalla Russia e dal partito comunista, ad opera del suo capo. Paimiro Togliatti, giunto in Italia il 27 marzo. L’Unione Sovietica, forse desiderando esser presente anche nel Mediterraneo mediante una più diretta influenza sull’Italia, aveva deciso di stabilire rap­ porti diretti con il Regio governo italiano (14 marzo), deci­ sione contro cui aveva subito protestato il Calace propo­ nendo l’approvazione di un telegramma al maresciallo Sta­ lin con il quale la Giunta riconfermava "condanna regime e uomini responsabili sciagure nostro paese e tragedia mon­ diale," evidentemente interpretando — cosa, in effetti, giu­ sta — quel gesto russo come un rafforzamento della monar­ chia e del governo. Ma il telegramma non era stato appro­ vato dalla Giunta, la quale, però, pochi giorni dopo, doveva essere messa di fronte ad una svolta ben più importante, poiché il Togliatti, appena sbarcato, dichiarava di essere disposto ad entrare nel ministero Badoglio. La mossa de­ stava opposizione a destra e a sinistra dello schieramento politico, nel partito liberale come in quelli d’azione e so­ cialista. Nel primo, non tanto nei suoi rappresentanti uf­ ficiali, come un Arangio Ruiz, che nel complesso si dimo­ strarono abbastanza soddisfatti di quell’aiuto venuto al re e al governo da chi meno si sarebbe creduto, quanto piut­ tosto nel Croce il quale sperava molto, per sbloccare la situazione, nei passi avviati dal De Nicola con il sovrano per deciderlo ad una soluzione a cui l’uomo politico napo­ letano pensava fin dal dicembre 1943, cioè ad una luogote­ nenza (un istituto di cui non si avevano troppi esempi nel­ la nostra storia costituzionale), fino a quando il popolo italiano potesse decidere sulla forma dello Stato. In collo­ qui che il De Nicola aveva avuto con il re il 19 e il 20 feb­ braio (il Puntoni aveva capito che dovevano esservi “nel­ l’aria fatti grossi” ed il 20 febbraio aveva notato un "lungo 53

colloquio" di Sua Maestà con il Principe ereditario), Vit­ torio Emanuele III aveva finito con Faccettare, purché però il trapasso dei poteri al figlio seguisse alla liberazione di Roma, “differimento necessario per ragioni pratiche di residenza, e simili,” scrive il Croce subito informato del­ l’esito positivo delle trattative. Ed il Croce stesso, di fron­ te all’iniziativa del Togliatti, affermava di ritenere la base che il suo amico aveva posto "in silenzio, chiaramente su­ periore" e rigettava la colpa di quanto stava avvenendo e della offerta possibilità alla Russia di intervenire nelle co­ se italiane, agli “uomini politici anglo-americani, ai Chur­ chill e agli Eden e ai Roosevelt,” che avevano "per più mesi respinto le ragionevoli e ragionate proposte e le pre­ mure dei liberali e democratici italiani, che chiedevano l'allontanamento del re per formare un governo demo­ cratico." Ma la reazione più vivace venne dagli azionisti; per essi il Calace e il Cianca espressero, nella Giunta, le più ampie riserve circa una eventuale collaborazione con il Badoglio, che era forse il problema più importante, essendo quello dell’abdicazione del re passato in secondo piano; e venne anche dai socialisti, il cui rappresentante Lizzadri rinviò la decisione sulla proposta del partito comunista al Con­ siglio nazionale, che si sarebbe riunito il 15 aprile. Era chiaro che la mossa del Togliatti aveva messo in crisi tutto lo schieramento dei partiti democratici, costretti improv­ visamente a considerare i problemi di potenza che la guer­ ra suscitava. Infatti, la Russia era stata spinta a ricono­ scere il governo Badoglio forse dall’intento, come abbiamo detto, di non essere estromessa dal Mediterraneo e dal­ l’Italia nel momento in cui la liberazione della capitale la­ sciava intravedere la formazione di quel governo di 'più vasta base" promesso agli italiani dal Churchill (si trat­ tava, perciò, di una manifestazione della sorda rivalità esistente fra i sovietici e gli anglo-americani, che veniva dopo le dichiarazioni dell’Eden ai Comuni, il 23 febbraio, sulla volontà dell’Inghilterra di non stabilire sfere d’in­ fluenza in Europa: il riconoscimento di Stalin poteva esse­ re inteso come una risposta a tali dichiarazioni, in quanto presupponeva l’intento di intervenire nella zona che appa­ riva riservata agli alleati occidentali e come tale es­ so fu inteso dalla stampa britannica). Forse anche il ge­ sto sovietico (che fu accolto dal nostro governo con grande calore: “È questo indubbiamente un gesto che non sarà dimenticato facilmente dal popolo italiano, compiuto co54

m’è in una delle ore più tragiche della sua storia”) fu ispi­ rato dal desiderio di rendere possibile la cessione di una parte della flotta italiana alla Russia, cessione che era sta­ ta annunciata dalle radio alleate il 4 marzo e che aveva mi­ nacciato di provocare ima crisi di governo, avendo mani­ festato il Badoglio l’intenzione di dimettersi se quella no­ tizia si fosse dimostrata vera (ma il Churchill aveva fatto il 9 marzo, una nuova dichiarazione che in parte annullava quella precedente e, di conseguenza, si era potuto capire che per la spartizione della nostra flotta occorreva il con­ senso del governo italiano, un consenso che, naturalmen­ te, avrebbe potuto esser dato più facilmente se gli fosse stato concesso un palese aiuto). La rinuncia al trono di Vittorio Emanuele III

Quello che è certo, peraltro, è che il Togliatti inserì l’Ita­ lia nel complesso gioco politico internazionale (egli fu an­ che mosso, come dichiarò in una seduta della Giunta ese­ cutiva del 18 aprile, dal desiderio di porre il partito comu­ nista "in condizioni di parità con qualsiasi altro partito,” un desiderio che rivelava quasi certamente la sua scarsa conoscenza della situazione italiana, e soprattutto di quella del Nord, dove il p.c. era assolutamente sullo stesso piano degli altri partiti e non correva alcun pericolo di isola­ mento, come il Togliatti stesso sembrava temere), renden­ do però gli anglo-americani perfettamente consapevoli della necessità di riprendere rapidamente il terreno perduto per non lasciarsi sfuggire l’influenza sulla penisola. Ed allora se l’U.R.S.S. si appoggiava alla monarchia e al Badoglio, occorreva cambiare radicalmente l’atteggiamento tenuto si­ no allora nei riguardi delle correnti democratiche e abban­ donare il sovrano e il suo governo. Gli Stati Uniti, per bocca del loro presidente, si erano dichiarati fin dal 13 marzo favorevoli ad una simile politica (il Roosevelt, in quella data, aveva scritto al Churchill dicendogli di non capire perché si sarebbe dovuto ancora esitare ad appog­ giare i sei partiti di opposizione e soggiungeva che l’opi­ nione pubblica americana non poteva comprendere "la no­ stra costante tolleranza e il nostro apparente appoggio a Vittorio Emanuele”), trovando, però, un risoluto avversa­ rio nel premier britannico. Ma ora anche questi si convin­ se della assoluta necessità di rovesciare le vecchie posizio­ ni: cosi, all’inizio di aprile, venivano cambiati i rappre­ 55

sentanti inglese (sir Noel Charles al posto del Macmillan come Alto Commissario) e americano (Alexander Kirk al posto del Murphy) nel Consiglio consultivo per l’Italia. Nella prima riunione, alla quale intervenne il Charles, il gen. Mac Farlane lesse una dichiarazione ufficiale in cui si esprimeva la speranza che si potesse giungere presto ad una democratizzazione del governo italiano con l’accordo fra tutti i partiti politici. Tuttavia, la prima condizione era la rinuncia del sovrano al trono, ma ancora il 7 aprile Vit­ torio Emanuele si era dimostrato irremovibile nel suo pun­ to di vista: “intende concedere,” cosi ne riassumeva le intenzioni il Puntoni, “la Luogotenenza a suo figlio quan­ do Roma sarà rioccupata: la Luogotenenza durerà fino a che durerà la guerra e provvederà a preparare libere ele­ zioni di popolo; in un secondo tempo il Sovrano abdiche­ rà a favore del Principe di Piemonte." C’era stato si, nei giorni precedenti, qualche sintomo del mutamento degli al­ leati (ad esempio, il 6 aprile, Radio Londra aveva diffuso, “con un’insistenza insolita,” la notizia che Umberto si era detto pronto ad assumere la Luogotenenza, primo passo per arrivare al definitivo allontanamento del re dagli affari pubblici: "siamo in pieno dramma,” aveva commentato il Puntoni), ma il sovrano era corso ai ripari ribadendo la sua intransigenza. Tuttavia, si trattava di una intransigenza che non po­ teva certo opporsi alla volontà degli alleati, sicché quando questa gli fu comunicata, il 10 aprile, non rimase a Vitto­ rio Emanuele che cedere. Il colloquio con il Mac Farlane, il Murphy e il Macmillan, che erano accompagnati da sir Noel Charles, si svolse il 10 aprile e rivelò la risoluta in­ tenzione degli alleati di chiudere questo capitolo e di eli­ minare la persona del re come l'unico ostacolo alla forma­ zione di un nuovo governo democratico. Quando il Mac Farlane aveva chiesto udienza reale, il sovrano e l’Acquarone avevano pensato che fosse desiderio del Macmillan di presentare, trovandosi alla vigilia del congedo, il suo suc­ cessore, Noel Charles, ma, appena introdotti, essi dichiararo­ no subito, racconta il Puntoni, “in termini secchi e poco ri­ guardosi, le vere ragioni della loro visita. Gli [al sovrano] hanno detto che i governi inglese e americano considerano ormai l’opinione pubblica italiana decisamente contraria alla sua permanenza sul trono e che ritengono perciò indispensa­ bile la sua rinuncia alle funzioni di Capo dello Stato. ‘Tale rinuncia,’ hanno affermato i quattro funzionari capeggiati da Mac Farlane, ‘permetterà la costituzione di un governo 56

solido con la partecipazione dei rappresentanti di tutti i partiti. Noi suggeriamo che venga istituita la Luogotenenza e che sia affidata al Principe di Piemonte. Aspettiamo la ri­ sposta di Vostra Maestà per le 16 di oggi.’ La ri­ chiesta ha il carattere di un vero e proprio ultimatum. Mac Farlane ha fatto capire al Sovrano che una decisione rapi­ da è indispensabile perché in caso contrario i governi al­ leati potrebbero prendere severe misure nei confronti del popolo italiano. Il Re è rimasto sorpreso e mi ha detto che la missione Mac Farlane ha il carattere di una vera e propria imboscata.” I rappresentanti americani e bri­ tannici affermarono anche (ma perché se ne accorgessero era stata necessaria l’iniziativa russa) che nei loro paesi tutti erano contro Vittorio Emanuele perché aveva dichia­ rato una guerra che era costata all'Inghilterra e agli Stati Uniti parecchie decine di migliaia di morti e che, in Gran Bretagna solo il Churchill difendeva ancora il sovrano. Negli ambienti di corte, come riferisce ancora il Pun­ toni, ci si domandò “il perché di questo brusco voltafaccia degli alleati, tanto più che negli ultimi tempi era parso che i governi inglese e americano fossero disposti a soste­ nere il Re di fronte alle assurde pretese dei partiti." La ragione fu trovata abbastanza facilmente: "forse gli angloamericani hanno bisogno di agitare la situazione per tene­ re testa alla Russia la quale, con la nomina del suo rap­ presentante in Italia e con le dichiarazioni fatte dal capo dei comunisti italiani, ha cercato in un certo qual modo di assumere una posizione predominante nella politica di casa nostra [...]. Per reazione e per dimostrare che in Ita­ lia comandano loro, inglesi e americani hanno chiesto la testa di Vittorio Emanuele.” In pochi giorni si era caduti dalla soddisfazione per la mossa sovietica che era sen·· brata rafforzare il re e il Badoglio (ma il Puntoni aveva espresso, il 3 aprile, la sua diffidenza: "Ogni mossa sovieti­ ca però è sempre dettata da reconditi secondi fini e in que­ sto caso un secondo fine deve esserci perché non si può dire che i comunisti si siano pronunciati a favore del Re per amore... della monarchia!") nell’amaro dolore della forzata rinunzia. In realtà, l’iniziativa della Russia e del Togliatti ottenne questo risultato di grande importanza, cioè contribuì in maniera decisiva all’allontanamento di Vittorio Emanuele e rese possibile la formazione di un nuovo governo più rispondente alla volontà del paese e delle correnti democratiche. Infatti, dopo che il 12 aprile il re ebbe comunicato di aver deciso di lasciare la vita pub­ 57

blica e di nominare il figlio Luogotenente del regno (ma l’effettivo passaggio sarebbe avvenuto solo alla liberazio­ ne di Roma), il Badoglio potè iniziare le consultazioni per il suo nuovo ministero, consultazioni alle quali i vari parti­ ti si presentarono isolatamente, destando la vìva critica del Calace che, in seno alla Giunta, sostenne ripetutamente la necessità che la Giunta stessa conducesse unitariamente le trattative. Il 21 aprile, dopo aver superato l’irrigidimento del p.d’a. che aveva chiesto, come condizione per la sua partecipazione al governo, la destituzione del maresciallo (in questo partito si scontrarono, in quei giorni, piuttosto vivacemente due tendenze, una favorevole all’entrata nel gabinetto ed una contraria: alla fine vinse la prima), il Ba­ doglio poteva annunciare, il 21 aprile, l’esito positivo delsua fatica? Il 24 i nuovi ministri giurarono; o meglio, per superare le difficoltà sollevate da coloro i quali affermava­ no che lo Statuto non faceva obbligo di giurare oppure pro­ ponevano di ricorrere ad un giuramento con riserva, il primo ministro fece una dichiarazione comune a nome di tutti; il 28, poi, veniva pubblicato il programma concre­ tato durante il primo consiglio dei ministri tenuto il giorno precedente, in cui il punto più importante era dato dal­ l’esplicito impegno di fare eleggere un’Assemblea costituen­ te e di voler dare vita a un ristretto corpo consultivo, qua­ si un simbolo del Parlamento che ancora mancava (anche a questo proposito il Calace aveva dichiarato, in una se­ duta della Giunta, il 15 aprile, che il suo partito riteneva insufficiente il proclama del re perché non portava traccia di quella "fondamentale storica esigenza del popolo italia­ no,” che era la Costituente).

1 II governo risultò cosi composto: Pietro Badoglio presidente del Consiglio e ministro degli Esteri; Benedetto Croce, Carlo Sforza, Giulio di Rodinò, Paimiro Togliatti e Pietro Mancini (socialista) ministri sen­ za portafogli; Salvatore Aldisio (democristiano) ministro dell'Interno; Fausto Gullo (comunista) ministro dell’Agricoltura e Foreste; ArangioRuiz (liberale) ministro della Giustizia; Adolfo Omodeo (azionista) mini­ stro della Pubblica Istruzione; Francesco Cerabona (democratico del la­ voro) ministro delle Comunicazioni; Quinto Quintieri ministro delle Fi­ nanze; Attilio Di Napoli (socialista) ministro dell’Industria, Commercio e Lavoro; Alberto Tarchiani (azionista) ministro dei Lavori Pubblici. I dicasteri militari rimanevano ai ministri in carica (e ciò fu ritenuto im­ portante dal Puntoni) e cioè al gen. Taddeo Orlando il ministero della Guerra; al gen. Renato Sandalli il ministero dell’Aeronautica e all’am­ miraglio Raffaele De Courten il ministero della Marina.

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La politica di potenza e i partiti italiani La mossa della Russia e del Togliatti aveva, perciò, in­ dubbiamente portato a questo risultato di notevole impor­ tanza ed aveva, di conseguenza, rimesso in movimento il fronte antifascista che, come si è visto, era veramente giunto ad un punto morto dal quale non avrebbe potuto uscire se non mediante qualche gesto rivoluzionario, che avrebbe, peraltro, incontrato una dura opposizione negli alleati ed avrebbe anche segnato la fine dell’unione dei va­ ri partiti nel C.L.N. Ma questo risultato era stato ottenu­ to inserendo l’Italia nella politica intemazionale di poten­ za ed il governo Badoglio nasceva inevitabilmente come un governo filo-occidentale perché erano stati gli anglo-ame­ ricani a risolvere in senso favorevole ai partiti democra­ tici l’intricata situazione. La Gran Bretagna e gli Stati Uni­ ti erano passati subito al contrattacco ed erano riusciti a bloccare le conseguenze della mossa sovietica, mantenen­ do sul nostro paese la loro influenza, ed anzi rafforzandola e rendendola più aperta ed esclusiva e tale da respingere, ad ogni modo, quella di altri paesi e, in particolare, della Russia. Perciò, la posizione che il p.c.i. era riuscito a rag­ giungere (il Togliatti aveva pienamente ottenuto, come vo­ leva, che il suo partito fosse considerato su un piano di as­ soluta parità con gli altri) era, in se stessa, una posizione di debolezza e non di forza, proprio perché il ministero era, forse più di prima, sottomesso alla volontà degli anglo-ame­ ricani. Cosi, diventava impossibile ciò che il Churchill aveva soprattutto temuto, cioè che un governo democratico ri­ chiedesse una revisione o una attenuazione delle dure clausole d’armistizio ("Un nuovo governo italiano,” ave­ va detto il premier britannico, “dovrà guadagnarsi la sti­ ma del popolo italiano, cercando di resistere alle nostre richieste: con ogni probabilità cercherà di sollevare obie­ zióni circa i termini dell’armistizio [...]”): è per questo motivo che la mozione presentata per il partito socialista dal Roveda nella seduta della Giunta del 6 aprile, in cui si diceva che l’azione del nuovo governo avrebbe dovuto essere caratterizzata dallo sforzo di decidere gli alleati a rivedere la posizione internazionale fatta all’Italia e ad abbandonare le "rigide posizioni di armistizio per forme che sanzionino in modo effettivo e concreto quelli che so­ no gli effettivi rapporti di fatto attualmente esistenti tra l’Italia e le Nazioni Unite, dopo cinque mesi di guerra in comune,” assumeva il preciso significato di un rigetto del­ 59

la politica di potenza e di suddivisione dell’Europa in sfe­ re di influenza. Senza dubbio, anche al partito comunista sarebbe con­ venuto che la lotta contro tale politica si allargasse e si estendesse, poiché essa portava con sé la sottomissione del nostro paese alla preponderanza anglo-americana. Ma il partito comunista era troppo inserito nella condotta dell’U.R.S.S. per potersi mantenere indipendente rispetto ad es­ sa. La guerra entrava ormai nella sua fase finale e già lascia­ va scorgere le preoccupazioni delle grandi potenze per la riorganizzazione dell’Europa; era, purtroppo, una riorganiz­ zazione basata sul riconoscimento di determinati confini per l’un gruppo e per l’altro, cioè sulle sfere d’influenza, o bloc­ chi. La Germania stava per venire sconfitta, ma essa lasciava ai vincitori la concezione antidemocratica dello spazio vitale trasformato in zona d’influenza, per quanto si debba an­ che osservare che tale tendenza era cominciata nel periodo successivo alla crisi mondiale del 1929, quando il mondo era sembrato dividersi in tanti scompartimenti chiusi ed economicamente autosufficienti. Abbiamo detto, purtroppo e abbiamo definito tale tendenza antidemocratica perché, in ef­ fetti, essa era tale da togliere ogni libertà ed ogni possi­ bilità di autonomo sviluppo a tutti i paesi che rientravano in una o nell’altra zona rendendo possibile il perdurare al governo di quei partiti che meglio assicurassero una difesa delle posizioni della potenza egemone (ma su tale problema, di importanza decisiva per il mondo del dopoguerra, ritor­ neremo più avanti). In questo senso, l’iniziativa della Russia e del Togliatti rappresentava veramente una svolta di grandissima impor­ tanza e l’atteggiamento dei vari partiti di fronte ad essa fu naturalmente diverso: i liberali l’accettarono quasi sen­ za rendersene esattamente ragione scorgendovi soltanto la possibilità di una politica conservatrice e tale da frenare gli impulsi talora eccessivi e rivoluzionari delle sinistre; i democristiani, invece, raccolsero per quello a cui essa con­ dusse, cioè per la soggezione del nostro paese agli alleati occidentali dei quali, già da allora, ritenevano di poter di­ ventare i più diretti rappresentanti, o almeno si adoperava­ no per diventarlo; gli azionisti e i socialisti furono quelli che sollevarono maggiori difficoltà, forse più i primi che i secondi, i quali, per il momento, acconsentirono ad entra­ re nel governo Badoglio senza sollevare eccezioni, ma le cui perplessità furono espresse più tardi da Rodolfo Mo­ randi, in un lucido articolo, pubblicato nel periodico 60

del partito, Politica di classe (“Lettera aperta ai com­ pagni comunisti"), in cui erano fissate le differen­ ze tra il metodo comunista e il metodo socialista: "La realtà è che i socialisti portano, anche nel fuoco del­ l’azione, delle esigenze che i comunisti non provano. Essi debbono assegnare un orizzonte agli sforzi che chiedono alla massa lavoratrice, non possono limitare le prospettive a successivi traguardi di tappa. E questo orizzonte è rap­ presentato dalle finalità di classe. Secondo la concezione poi che i socialisti hanno del partito, è la massa che nel partito esprime i suoi interessi e per mezzo del partito si dirige. Invece nella concezione comunista il partito è strumento per manovrare la massa, conforme alle diret­ tive che ai quadri compete di assegnargli. Tutto questo comporta naturalmente una dinamica diversa. È qualcosa di simile alla differenza che si stabilisce tra gli ordinamen­ ti militari e quelli civili. Per gli uni basta un ordine, per gli altri occorre la motivazione, ossia la consapevolezza delle ragioni che muovono ad una data azione, e dei fini non soltanto immediati che sono da raggiungere." Il Moran­ di respingeva l’accusa che i comunisti avanzavano contro i socialisti, di avanzare troppe riserve sulla politica del C.L.N. e affermava di non accettare le limitazioni che i comuni­ sti stessi volevano porre all’azione della classe lavoratrice per non incrinare il blocco dei partiti e per non diminuire la fiducia guadagnata negli strati borghesi: "I comunisti contano di esercitare la loro influenza al momento venuto attraverso organismi di penetrazione affiancati al partito, come il Fronte della Gioventù, la Difesa della Donna e al­ tri del genere. Ora, noi socialisti francamente non pensiamo che si possa arrischiare su queste carte gli interessi di classe. La classe deve prendere posizione come tale. Nessu­ no vuol dubitare che l’intento che i comunisti portano nel­ la lotta sia il bene della classe, ma se essi svolgono una politica per la classe, noi, conforme al metodo democra­ tico cui ci ispiriamo, non possiamo fare che una politica di classe." Era il contrasto, come si vede, fra il metodo comunista di alleanza anche con le correnti borghesi, metodo inteso a destare una fiducia che consentisse “una certa quale possibilità di manovra” (possibilità di manovra che si ri­ dusse, poi, a ben poca cosa e che anzi fu rapidamente fran­ tumata), e il metodo socialista che puntava invece sulla esistenza dei contrasti politici e sociali e che riteneva ne­ cessaria la lotta per superare questi e per affermare le ragioni della classe. In fin dei conti, quest’ultimo era un 61

metodo che si ribellava alle sfere di influenza e che si bat­ teva per una vita politica autonoma, in cui i dissidi fossero affrontati e superati con una contesa aperta e democratica. A loro volta, gli azionisti si mostrarono, soprattutto nel­ l’Italia occupata, intransigenti verso la svolta Togliatti e verso il conseguente governo Badoglio: la direzione del partito a Roma decise che la partecipazione dell’Omodeo e del Tarchiani era avvenuta a titolo personale e che essa, perciò, non impegnava il partito stesso. Questa risoluta opposizione degli azionisti era, in un certo senso, naturale perché essi erano quelli che più apertamente sostenevano la necessità di un ordine internazionale democratico; il loro ricordo andava al Mazzini, sicché condannavano recisamen­ te qualsiasi accenno ad una deviazione di tale ordinamento e, in particolare, la caduta nella politica di potenza. Una fìtta discussione — documentata dal volume Una lotta nel suo corso — si svolse tra Milano, Firenze e Roma sulla possibilità e sulla convenienza di accettare o no le de­ cisioni napoletane: il 16 aprile, il Parri cosi riassumeva la situazione, quale si vedeva da Milano, in una lettera (ine­ dita) ad Alberto Damiani e ad Adolfo Tino a Lugano: “Pen­ siero prevalente gruppi Nord è per intransigenza: non po­ chi, in zone diverse, dissentono, temendo i danni dell’as­ senza: obiezioni sensatissime, ma non tali da dover mutare orientamento fondamentale. In riunione giorni or sono con amici Torino si è constatata impossibilità di fronte a si­ tuazione nuova irrigidirsi in negativa aprioristica, di spi­ rito formalista; si è subordinata perciò accettazione ingurgitamento grosso rospo luogotenenza a condizione di go­ verno popolare, diretta emanazione CLN, non inquinato de­ mocrazia prefascista o reazionarismo, non revocabile sino a Costituente da luogotenente; quindi accettando in sègui­ to a pressioni alleate continuità formale istituto garante di legittimità poteri, ma con sostanziale vacanza regia; e sempre professando più ampia collaborazione fattiva a lot­ ta comune.” E verso una simile soluzione si orientarono gli azionisti di Firenze e di Milano, rifiutandosi di inten­ dere, insieme con il partito socialista, e come invece vole­ vano i liberali, i democristiani e i comunisti, il C.L.N. quale una specie di "delegato del nuovo governo di coalizione” ed insistendo perché al C.L.N. stesso fosse conservato il suo carattere proprio ed originario (cosi si scriveva da Firenze il 25 aprile). Questa posizione venne chiaramente espressa da una mozione approvata a Milano dai delegati del p.d’a. della Lombardia, Liguria, Piemonte, Emilia, Ve­ 62

neto e comunicata a Firenze dal Valiani il 26 aprile, con cui si deplorava "profondamente e recisamente la grave violazione alle premesse del rinnovamento morale e poli­ tico, che il Comitato di Liberazione Nazionale ed in parti­ colare il p.d’a.” si prefiggeva, rappresentata dal governo Badoglio, e si dichiarava di considerare questi "legato a circostanze transitorie e di carattere provvisorio" (ben di­ versamente dai liberali, democristiani e comunisti, perciò, che lo volevano, al contrario, ritenere definitivo). I ministri azionisti, inoltre, dovevano intendersi impegnati “a promuo­ vere, non appena possibile, la trasformazione dell’attuale go­ verno in un governo emanazione diretta ed esclusiva delle forze popolari antifasciste," mentre il ministero doveva fermamente respingere ogni ingerenza dinastica nel suo funzionamento e considerarsi “responsabile solo di fronte agli organi rappresentativi dei partiti antifascisti"; infine, la mozione riaffermava “che la funzione effettiva di gover­ no nell’Italia settentrionale [doveva] spettare ai Comitati di Liberazione Nazionale nella loro attuale composizione ed in quanto [mantenessero ed accentuassero] il carattere popolare ed antifascista della guerra di liberazione antite­ desca ed antifascista." Come si vede, il p.d’a. cercava di far riassumere alla lotta contro il nazifascismo il significato profondamente rinnovatore e rivoluzionario per cui si era sempre battuto, annullando gli effetti della mossa comunista che non solo inserivano il nostro paese nella politica mondiale di poten­ za ma anche potevano rappresentare una non gradita re­ staurazione della vecchia vita politica italiana e della de­ mocrazia prefascista. Del resto, proprio questo sembrava essere l’intento del p.c.i., del quale era manifesta la volontà di reincanalare la società italiana nella tradizionale antitesi capitalisti-proletariato, con una suddivisione in sfere di in­ fluenza anche all’intemo e con l’eliminazione di ogni forza politica che potesse costituire una pericolosa concorrenza, poiché solo in tal modo esso avrebbe potuto assumere l’in­ contrastata direzione delle forze popolari. Le ripercussioni degli avvenimenti napoletani nell'Italia occupata L’iniziativa del Togliatti, perciò, negava che questa ve­ nisse assunta da altri partiti per una politica che forse non sarebbe rientrata del tutto negli schemi comunisti; in fin 63

dei conti, era una specie di patto di non aggressione reci­ proca che manteneva in vita l'avversario, cioè la destra e la conservazione, e che, in questo, seguiva da vicino la situazio­ ne internazionale che vedeva, per il momento, l'alleanza fra la Russia da un lato e l’Inghilterra e gli Stati Uniti dall’al­ tro. Ma quella iniziativa lasciava appunto in vita la destra ed anzi dava ad essa nuovo vigore, come si potè capire dalle ripercussioni che ebbe sulla situazione del C.L.N. romano. Dopo l’ordine del giorno socialista del 9 febbraio, con il quale si chiedeva che la monarchia venisse accantonata, si era avuta, il 2 marzo, la risposta del Bonomi in cui que­ sti affermava che ci si trovava di fronte ad una diversa con­ cezione "circa la procedura e il metodo” e che, pertanto, era necessario che il Comitato prendesse "una posizione netta e precisa prima che gli avvenimenti politici che ma­ turano rendano più nocivi l’equivoco e l’incertezza.” Secon­ do lui, il procedere all’accantonamento della monarchia “nel senso che essa non avesse più parte alcuna nella inve­ stitura del Governo, nella rappresentanza del Paese e in ogni e qualsiasi attività dello Stato,” avrebbe turbato la concordia dei cittadini e la disciplina delle forze armate, ma soprattutto avrebbe fatto giungere la monarchia stessa "pressoché distrutta al giudizio del Paese,” pregiudicando, in tal modo, la libertà di scelta e di decisione del popolo. Il che sarebbe stato contrario all’impegno, ripetutamente approvato anche dagli alleati, di rinviare alla fine della guerra la decisione sulla forma istituzionale dello Stato. Questa dichiarazione del presidente accese la discussio­ ne nel C.L.N. centrale il 18 marzo, quando si delinearono due posizioni nettamente contrapposte: "l’una," come scrive il Bonomi, "comprendente i liberali, la democra­ zia cristiana e la democrazia del lavoro, sostanzialmente aderente ai concetti della Dichiarazione; l’altra compren­ dente i comunisti, i socialisti e il partito d’Azione, parzial­ mente o totalmente contraria a questi concetti e all’illu­ strazione verbale di essi." Se il La Malfa e il Nenni furono i più intransigenti nel respingerli (il Nenni fu contraddetto “con molta forza” dal De Gasperi), il comunista Scoccimarro, invece, “ammise doversi accettare per il futuro governo democratico l’investitura del re, esigendo però che i po­ teri di tale governo [fossero] cosi ampi da assorbire gran parte dell’autorità regia in modo da ridurre la monarchia a un’ombra di se stessa.” L’ordine del giorno, compilato in modo da raccogliere il pensiero della maggioranza, cioè delle tre democrazie e del comunista, non fu accettato dal

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La Malfa, il quale chiese di poter consultare i suoi amici, mentre anche il Nenni parve accedere ad esso. Si tratta­ va, indubbiamente, di un ordine del giorno che segnava una piena vittoria per le destre, in quanto riconosceva la ne­ cessità di rinviare la determinazione dei modi di applica­ zione della mozione del 16 ottobre al momento della libe­ razione di Roma. Le correnti moderate potevano credere, perciò, di ave­ re vinto la difficile battaglia perché erano riuscite ad iso­ lare il p.d’a., ma nei giorni seguenti dovette giungere a Ro­ ma una deliberazione del C.L.N. di Milano, approvata il 17 marzo, in cui, dopo aver riaffermato la necessità storica del patto che univa i vari partiti nel C.L.N., si proclamava “la necessità della costituzione di un governo straordinario composto dai rappresentanti dei partiti aderenti, al quale dovranno essere trasferiti tutti i poteri costituzionali dello Stato.” Solo un tale governo, "responsabile unicamente da­ vanti alla Nazione e alle sue future forme rappresentative, col deferire ogni decisione sul problema istituzionale al­ l’inappellabile verdetto del suffragio universale," avrebbe potuto unire tutti gli italiani contro i loro nemici. Questa deliberazione, dice il Valiani, fu sostenuta dal suo compa­ gno di partito, Albasini Scrosati, il quale, "con la sua ele­ gante e non appariscente insistenza," riuscì a fare accet­ tare da tutti "la pili recisa dichiarazione antimonarchica che da un organismo unitario sia mai stata fatta.” Eviden­ temente, a Roma, dopo un simile ordine del giorno, che si richiamava rigidamente alla mozione del 16 ottobre, i co­ munisti ed i socialisti dovettero accorgersi di aver fatto troppe concessioni il 18 marzo, ed ecco perché essi si uni­ rono di nuovo agli azionisti ritirando la loro approvazione e proponendo un altro ordine del giorno che riprendeva con intransigenza la deliberazione dell’ottobre: "essi mirano," notava il Bonomi, "a conferire al nuovo governo i carat­ teri di un governo rivoluzionario che, senza ancora pro­ clamare la repubblica, accantoni la monarchia sostituendo­ la in tutti i suoi residui poteri.” Il C.L.N. centrale era, cosi, spaccato in due e molto di­ pendeva dall’atteggiamento che avrebbe preso il suo pre­ sidente, il quale, però, pensò di sottrarsi alla gravità di una decisione scrivendo, il 24 marzo, una lettera di dimis­ sioni, "nel silenzio della mia cameretta, semplice ed auste­ ra come si conviene ai giovani seminaristi dedicatisi al ser­ vizio divino.” Eppure, le dimissioni, in quel momento ed in quella occasione, equivalevano ad un aperto consenso al­ 11.3

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la tesi delle tre democrazie, come le diceva egli stesso. In effetti, il Bonomi si diceva mosso "dal fermo proponimen­ to di non avallare più oltre atteggiamenti, parole, manife­ stazioni pubbliche" da lui reputate “non autorizzate da tutto -il Comitato perché espressione particolare di alcune parti soltanto.” Il suo pensiero era che non si dovesse pre­ giudicare la soluzione della questione istituzionale con ge­ sti che potevano sembrare un invito alla rivolta; si dimet­ teva non volendo “piu oltre apparire come corresponsabile e quasi solidale con interpretazioni, con atteggiamenti, con manifestazioni del tutto contrari a questo [suo] matura­ to pensiero." Si trattava, senza dubbio, di una crisi molto grave che, praticamente, spezzava il Comitato, al quale, per di più, era tolta, con l’assenza del suo presidente, ogni possibilità di mediazione fra le due opposte tesi. Era, come si vede, press’a poco, la situazione in cui si era venuta a trovare la Giunta napoletana prima dell’arrivo del Togliatti; ed an­ che sul C.L2Q. romano questo arrivo e le successive posi­ zioni assunte dal leader comunista, agirono in senso fa­ vorevole ad una ripresa del suo funzionamento. Ma la bre­ ve vicenda contribuì a rafforzare le destre poiché "tutte le interminabili discussioni sul modo di essere del Gover­ no di Comitato di Liberazione (con o senza investitura re­ gia, con o senza accantonamento della monarchia, con o senza poteri costituzionali straordinari)," rimanevano su­ perate. Il binomio Badoglio-Togliatti, osservava il Bonomi, con la soddisfazione che era anche dei liberali, dei democristiani e dei laburisti (democratici del lavoro), aveva tra­ scinato "dietro a sé tutto l’antifascismo” e lo aveva portato "a giurare nelle mani di re Vittorio, che [aveva] preso l’im­ pegno di ritirarsi dietro la persona di suo figlio, futuro Luogotenente Generale del Regno.” Il mese di aprile scorreva nell'assestamento dei vari par­ titi e nelle discussioni interne, particolarmente vivaci per gli azionisti e i socialisti, perché i comunisti non espresse­ ro "né letizia né disappunto”: obbedirono disciplinati. E solo il 5 maggio si tenne una nuova riunione del C.L.N. che si concluse con l’approvazione di un ordine del giorno con cui si decideva che tutti i partiti rimanessero “stretti e so­ lidali nel Comitato cooperando con il Governo ai fini della guerra di liberazione nazionale.” Dopo di che il Bonomi era invitato a riprendere il suo posto di presidente, essen­ do ormai “le discussioni sul modo di costituzione del go­ verno” superate dagli avvenimenti nell’Italia liberata, invi66

to che era accettato dal vecchio uomo politico, il quale ri­ volgeva al C.L.N. una lettera con la quale constatava, "con piacere," che si era "unanimemente riconosciuta la neces­ sità di cooperare con il nuovo Governo”: "in seguito a ciò," soggiungeva, "le ragioni delle mie dimissioni dalla presi­ denza del Comitato non hanno più pratica efficacia.” Come si vede, si trattava di una soluzione profondamen­ te diversa da quella che il partito d’azione aveva adottato nell’Italia occupata, di una soluzione che modificava in mi­ sura rilevante i rapporti fra le varie correnti politiche e che soprattutto segnava un punto di vantaggio per quelle mo­ derate. Cosa che poteva apparire — ed era in verità — piut­ tosto grave soprattutto data la ormai non lontana liberazio­ ne della capitale: il C.L.N. aveva rinunciato alla spinta in­ novatrice con cui era stato creato ed aveva quasi del tutto perduto la funzione di perno della rivoluzione politica e so­ ciale da tanti auspicata. Era la prima, grande vittoria delle destre che toglieva alle sinistre la direzione che avevano si­ no allora mantenuta e le poneva su un piano di difesa.

Gli scioperi del marzo 1944 nell’Italia settentrionale Come abbiamo detto, il processo di Verona aveva riget­ tato il fascismo repubblicano sul vecchio fascismo, ma era assolutamente indispensabile per il Mussolini e per i suoi seguaci dare almeno l’impressione che il loro era un mo­ vimento del tutto nuovo, se volevano rivolgersi alla po­ polazione con la speranza di fare breccia nella sua pesante diffidenza. Cosi, il 12 febbraio, il consiglio dei ministri ave­ va approvato un decreto legge sulla "immissione del lavoro nella gestione delle imprese; sul trapasso delle imprese, che trascendono, per la loro importanza l’ambito privati­ stico, in proprietà dello Stato, e sulla limitazione degli utili del capitale e la partecipazione del lavoro agli utili stessi.” Si stava, perciò, realizzando quella "più alta giustizia sociale, mediante ima più equa distribuzione della ricchezza, la partecipazione del lavoro alla vita dello Stato e un equo regolamento delle relazioni tra capitale e lavoro,” che ave­ va rappresentato il punto più importante del primo pro­ gramma dei fascismo repubblicano? Ora, quel punto al­ quanto vago si era meglio precisato e si era fatta anche più viva la consapevolezza di contrapporre “alla concezio­ ne comunista, che si risolve in un capitalismo di Stato, nel quale i singoli fattori produttivi non hanno diritto di rap­ 67

presentarla né di partecipazione alla vita dello Stato, il concetto fascista e nazionalsocialista che vuol portare il capitale ed il lavoro a collaborare alla vita dello Stato.” Ma chi avesse voluto indagare un po’ più a fondo in questa proclamata volontà di una nuova giustizia sociale, avrebbe potuto scorgervi non poche delle vecchie caratteristiche: anzitutto, esisteva nel decreto-legge un esplicito accenno alla tutela della proprietà privata “entro l’orbita dei prin­ cipi sanciti dalla Carta del Lavoro, antidoto al programma comunista da una parte, e a quello plutocratico dall'altra. " E, poi, nello stesso consiglio dei ministri, veniva approva­ to uno schema di legge costitutivo dell’"Istituto di Gestio­ ne e Finanziamento," i cui compiti si risolvevano in un aiuto e in un incoraggiamento all’iniziativa privata, poiché esso doveva, oltre che “amministrare il capitale delle im­ prese di proprietà dello Stato e vigilarne l’attività, par­ tecipare per conto dello Stato alla formazione del capitale di imprese private; curare lo svincolamento da partecipa­ zioni e attività che lo Stato non avesse interesse a con­ servare; finanziare imprese, fossero esse di proprietà dello Stato o di proprietà privata.” Perciò, non solo la Carta del Lavoro ma anche questo Istituto, che continuava la tradizionale politica fascistica di sovvenzionamento all’in­ dustria privata e di rinuncia alle proprie attività da parte dello Stato, giustificavano la continua ostilità da parte delle classi lavoratrici. Era alquanto difficile poter conciliare que­ sta ripresa della privatizzazione del sistema produttivo ita­ liano con il trapasso delle imprese in proprietà dello Stato, che era annunciato nel decreto legge sulla socializzazione. Ma il duce aveva bisogno di quel provvedimento che avrebbe dovuto immettere il lavoro nella gestione delle imprese proprio perché, come si è visto, ad esso si dichia­ ravano contrari i tedeschi, che facevano sentire sempre più opprimente la loro pressione sull’Italia: lo stesso Mus­ solini si era lamentato, il 10 febbraio, con il Dolfin, che Rahn, Wolff e Leyers cercassero di impedire "con ogni in­ trigo" la socializzazione, "scaraventandoci contro industria­ li ed operai.” “È in una giornata di pieno furore antitede­ sco,” aveva notato il suo segretario, al quale aveva detto: “Vi accorgete o no, che siamo veramente ridotti a comparse di una compagnia di operette? e scadente, nel suo com­ plesso, per giunta?... siamo un pugno di liberti, comandati a governare un popolo di schiavi." Pertanto, ancora una volta, il duce era preso dal desiderio di dimostrare la sua indipendenza nei confronti dell’alleato, un desiderio che 68

dal 1939 in poi gli aveva giocato parecchi brutti scherzi e che lo aveva spesso condotto in situazioni difficili; ma non poteva rassegnarsi alla parte secondaria alla quale ormai le penose vicende che aveva attravfcrsato lo condannavano. Peraltro, i tedeschi, pur facendogli capire chiaramente di non approvare la socializzazione, cercavano anche di evitarne le conseguenze con altri metodi che potevano ap­ parire più intelligenti e che erano condannati dal Musso­ lini quando diceva che essi gli scaraventavano contro gli operai: infatti, l’Anfuso testimonia che “i tedeschi si il­ lusero sulle prime di poter anche condurre una politica so­ ciale per loro conto, politica che avrebbe dovuto collimare con le requisizioni del R.U.K. (l’organizzazione economica tedesca diretta dal gen. Leyers), e provare l’introduzione di un socialismo di marca nazista." E racconta di aver rac­ colto le “rapite confidenze” di un propagandista sociale ap­ partenente alla Reichsführung che gli parlò con emozione delle “sue conversazioni con la massa operaia milanese o torinese sottolineando i consensi che raccoglieva il suo di­ re e il discreto ma sicuro entusiasmo con cui gli sembrava venisse salutato il suo arrivo.” Soddisfazione che l’Anfuso cosi commentava: “Conoscendo gli umori dell’epoca e sa­ pendo che una buona parte del suo uditorio era iscritta al partito comunista, non mi sorprendeva il fatto che gli fosse stata offerta cosi cordiale accoglienza: era una delle tante e più chiare manovre che servivano a respingere il dono della socializzazione fatto da Mussolini"; e poco prima ave­ va scritto che gli operai della Breda o della Fiat fìngevano di ascoltare i propagandisti tedeschi o anche di seguire i loro suggerimenti, ben sapendo che ciò avrebbe significato "ostacolare l’azione dei fascisti e ritardare l’attuazione di quelle misure patrocinate dai loro compatrioti in camicia nera.” In effetti, le masse lavoratrici erano recisamente avverse ad ogni allettamento dei fascisti ed un Comitato segreto di agitazione (la cui costituzione dimostrava la maturità cospirativa della classe operaia), fin dal 10 febbraio, aveva rivolto un appello per uno sciopero generale, appello che fu subito appoggiato dal C.L.N.A.I., il quale cosi riassu­ meva le rivendicazioni dei lavoratori: “perché si ponga termine al saccheggio del Paese per opera degli occupanti tedeschi e dei loro servi fascisti; si impedisca il trasporto in Germania delle installazioni industriali italiane, delle nostre scarse materie prime e delle maestranze piu qualifi­ cate; e perché si ottenga la soppressione delle industrie di 69

guerra per Hitler onde evitare bombardamenti aerei, e si converta il lavoro in prodotti di cui la popolazione tanto soffre la mancanza.” Il C.L.N.A.I., in questa sua mozione del 15 febbraio, invitava "tutti i cittadini pensosi delle sor­ ti della Patria ad associarsi all’azione dei patrioti e dei la­ voratori, rivolta ad affrettare la liberazione di Roma e di tutto il Paese”; esprimeva il suo disprezzo per i traditori della Patria che si erano posti al servizio del nemico e am­ moniva gli industriali, che collaboravano con i tedeschi ed i fascisti, "a riflettere che gli interessi del Paese e del po­ polo stanno al di sopra dei loro interessi particolari.” Le parole d'ordine del Comitato d’agitazione furono tradotte in termini tali da dare una giustificazione economica alla grande agitazione dai rappresentanti di fabbrica di Milano e della zona circostante che si riunirono a Cusano Milanino: essi misero in rilievo come le concessioni strappate con i precedenti scioperi fossero già state superate “dal vertiginoso aumento dei prezzi”; come fossero scomparsi dal mercato i generi calmierati in seguito al tentativo di bloccarne i prezzi; come nessuna delle tante promesse fosse stata mantenuta; come infine si fossero moltiplicati gli ar­ resti, le persecuzioni, le violenze e le fucilazioni sommarie dei patrioti e dei loro familiari. Cosi, sin da questo periodo di preparazione, la nuova agitazione si presentava con caratteri profondamente di­ versi da quelle che l’avevano preceduta: anzitutto, si po­ teva notare una più stretta unione fra i Comitati operai e il C.L.N. e, poi, cosa particolarmente importante, si av­ vertiva che i lavoratori, adesso, conducevano la loro lotta in continuo rapporto con i partigiani dei quali assumeva­ no apertamente le difese nel tentativo e nella speranza di poter costringere i nazi-fascisti a desistere dalle loro dure repressioni. Ed infatti, lo sciopero, iniziato a Mila­ no il 1° marzo e rapidamente estesosi a tutti i centri in­ dustriali dell’Alta Italia (i fascisti comunicarono che ad esso partecipavano più di 200.000 operai, una cifra, natu­ ralmente, che doveva ritenersi inferiore alla verità; il Wolff ha detto, più tardi, 350.000), si svolse con queste due ca­ ratteristiche che gli diedero un preciso valore politico, quel valore che invece i fascisti si sforzarono di negare af­ fermando che esso aveva intenti puramente salariali. Ma era molto difficile continuare a sostenere questa tesi di fronte all’intervento del C.L.N.A.I. che, il 3 marzo, riconob­ be “nello sciopero generale degli operai, impiegati e tecni­ ci e nella simpatia della popolazione tutta," il “segno della 70

sicura rinascita della Patria e della sua prossima liberazio­ ne”; e che in un’altra mozione dello stesso giorno rivolgeva un elogio alle masse operaie ed al Comando Volontari della Libertà, l’organismo militare della Resistenza. In quest’ultima mozione il C.L.N.A.I. mostrava di voler dare allo scio­ pero un significato politico più generale poiché affermava che esso aveva dimostrato Γ" irriducibile opposizione del popolo italiano all’invasore nazista, il suo reciso disprezzo per la repubblica fantoccio ed i suoi miserabili espedienti di socializzazione, e la sua indefettibile volontà di lotta fino alla vittoria”; inoltre, rivolgendosi agli» alleati, si diceva con­ vinto che essi avrebbero compreso come "la effettiva di­ rezione del movimento di riscossa nazionale [appartenesse] ormai all’irresistibile iniziativa delle masse popolari e del­ le formazioni armate”: il che voleva essere un invito, rivol­ to in un momento piuttosto diffìcile per i rapporti delle correnti antifasciste con gli anglo-americani (si era agli inizi del marzo), a riconsiderare il problema italiano sulla base di una realistica valutazione della situazione, che ve­ deva, almeno nell’Italia occupata, le forze popolari lottare contro il tedesco e non la monarchia o il vecchio esercito. Di nuovo, i fascisti erano stati scavalcati dall’azione dei lavoratori che aveva dimostrato vana la politica della so­ cializzazione: il Mussolini, “seccato e deluso," disse: "Gli operai rispondono alla socializzazione, che non hanno ca­ pita nella sua importanza attuale e futura, con gli sciope­ ri”; e, dopo aver meditato per qualche istante, scrive il Dolfin, proruppe con violenza: “Se gli operai non vogliono la socializzazione, sospenderemo le leggi emanate in ma­ teria!" Questa forzata rinuncia ad un programma, in cui il duce aveva riposto tante speranze, sarebbe stata, indubbia­ mente, una vittoria per la classe lavoratrice del Nord, in quanto avrebbe rivelato come nessuna socializzazione pote­ va vincerne l’ostilità. Né diverso fu il risultato dello scio­ pero perché gli elementi estremisti presero il sopravvento (il Buffarmi Guidi, appoggiato dal Rahn e dal Wolff, cercò di ottenere l’investitura ad alto commissario con pieni po­ teri per il Piemonte, la Liguria e la Lombardia ed in una circolare, di cui parla il Silvestri, esortò, fra l’altro, a "spa­ rare nel mucchio, se necessario"), mentre Hitler direttamente, dal suo quartier generale, inviava al Wolff l’ordine di troncare con ogni mezzo l’agitazione, specialmente a To­ rino, di arrestarne i capi e di deportare nei campi di lavo­ ro in Germania il 20 per cento degli operai scioperanti, cioè circa 70.000 lavoratori. Di quest’ordine, dopo vive in­ 71

sistenze, si ottenne la revoca, ma intanto naufragava la po­ litica della “mano leggera”; nei momenti critici il governo fascista spariva e i tedeschi si trovavano di fronte al popolo italiano, deciso a lottare per la sua libertà. L’eccidio delle Fosse Ardeatine

Proprio nei giorni in cui pili grave era stato il dissidio fra i vari partiti nel C.L.N. centrale, in seguito ad un at­ tentato compiuto dai partigiani romani contro una colonna tedesca in via Rasella (23 marzo), in cui vennero uccisi 32 soldati, il comando germanico aveva deciso, dopo una ra­ pida consultazione con il quartier generale in Italia e in Germania, di condannare a morte dieci detenuti politici per ogni tedesco caduto. In realtà, alle Fosse Ardeatine furono fucilati, tra il 24 e il 25 marzo, non 330 bensì 335 detenuti, e si disse che ciò fu dovuto ad uno sbaglio, di­ mostrando veramente come la vita di un uomo non con­ tasse nulla. Si era giunti al punto più basso a cui può con­ durre la guerra, quello in cui si sente spenta la comune partecipazione ad una grande tragedia che supera tutti e che ha il potere di smorzare l’ira nel cuore dei nemici; nei tedeschi, invece, era subentrata ad essa la fredda ed aspra determinazione di difendersi ad ogni costo e non rinunciando a qualsiasi mezzo, anche, e forse soprattutto, quello del terrore. La guerra, cosi, si riduceva ad una lotta disumana in cui si poteva credere di riportare vittoria quan­ to più si fosse mostrata crudeltà e disprezzo per le mode­ ste, ma pur sempre valide, ragioni del vivere civile. Alle Fosse Ardeatine caddero uomini delle più diverse provenienze politiche e sociali, tutti accomunati nella stes­ sa volontà di sacrificio in nome dei più alti ideali, di que­ gli ideali che i tedeschi calpestavano con tanta indifferenza, indifferenza che, però, li avrebbe condotti alla sconfitta. Co­ munisti accanto ad azionisti, "ariani” accanto ad ebrei, uo­ mini del popolo accanto ad ufficiali del regio esercito: sen­ za dubbio, la repressione era stata cosi violenta perché Roma si trovava nelle immediate retrovie del fronte e sa­ rebbe stato pericoloso lasciare che le forze della Resisten­ za si rafforzassero con atti come questo di via Rasella; inol­ tre, dichiarò più tardi il Kesselring, il comando tede­ sco temette che l’attentato fosse il preludio dell’insurre­ zione generale stabilita in concomitanza con l’offensiva al­ leata (in quei giorni, infatti, una serie di poderosi attac­ 72

chi aerei — operazione detta Strangle — sulle vie di co­ municazione tra Firenze e Roma e più giù verso il fronte, poterono far supporre che fosse imminente l’attacco deci­ sivo), ed infatti, nel comunicato emanato dallo stesso co­ mando, si diceva che erano "in atto le indagini per chiari­ re fino a che punto questo criminoso fatto [fosse] da at­ tribuirsi ad incitamento anglo-americano.” Infine, quasi certamente vi fu nei tedeschi l’intento di approfondire il dissidio che divideva le varie correnti del C.L.N., destre contro sinistre, essendosi le prime quasi sempre dichiarate contrarie agli attentati ed ai sabotaggi per evitare le gravi rappresaglie; ed un esempio cosi duro, quale l’uccisione di 335 ostaggi, avrebbe forse potuto spingere i partiti mode­ rati ad accentuare la loro polemica contro gli azionisti, i so­ cialisti ed i comunisti che, invece, sostenevano la necessità di non arrestarsi di fronte a tali considerazioni. Ma questo calcolo, se anche ci fu, si rivelò sbagliato perché il Bonomi, pur essendo in quei giorni dimissionario, accettò di scrivere, dietro preghiera del Nenni una “nota di indigna­ zione e di protesta": per un momento, il C.L.N. ritrovò la sua unità né valse ad infrangerla la definizione, usata nel comunicato germanico, sia per gli attentatori sia per gli ostaggi fucilati, di "comunisti badogliani,” una defini­ zione in se stessa contraddittoria e che rivelava solo il de­ siderio di spaventare l’opinione media facendo apparire, secondo i metodi cari ai nazi-fascisti, tutti gli avversari come comunisti. Eppure, sembrava che ben poche potes­ sero essere le speranze di riuscire a determinare scissioni o fratture su questi temi nel fronte avversario che non era affatto incrinato dalle discussioni sull'utilità o meno degli attentati; ed anzi la cattura e l’uccisione degli ostaggi era­ no unanimemente condannate e tale condanna era sen­ z’altro più forte del ritegno ad inasprire la lotta, come ave­ va dimostrato un avvertimento dell’Osservatore romano (7-8 gennaio), solenne e molto bello: “Parliamo delle vitti­ me di questo arbitrio e del suo crudele abuso. Arbitrio, perché del prelevar ostaggi nessuna positiva legge di guer­ ra fa parola: crudele abuso, perché l’ostaggio patteggiato gode l'immunità degli stessi ambasciatori, finché dura la ragione dell’esser suo, e resta poi prigioniero solo se essa venisse meno, mentre qui vediamo gli ostaggi presi di for­ za, prigionieri prima, quindi passati per le armi, non solo contro ogni diritto divino ed umano, ma contro ogni norma positiva ed ogni pratica efficacia. Giacché, seppure ci si volesse appellare a supreme esigenze di guerra, sono pro­ 73

prio le convenzioni di guerra che prescrivono la inviolabi­ lità dell’onore, dei diritti di famiglia, della vita, della pro­ prietà privata degli individui e proibiscono pene collettive ‘per causa di fatti individuali.’ E basta d’altronde lume di ragione per comprendere che la ingiusta vendetta corrobo­ ra agli occhi dell'offensore l’offesa, e la sua sproporzione lo spinge a rinnovarla, posto che gli rimane sempre un or­ rendo credito di sangue. Tant’è vero che le 'punizioni esem­ plari’ per numero e per ferocia sono tornate e tornano inu­ tili, sono esca al fuoco, nuovo volume e peso che si ag­ giunge alla valanga ed al suo precipitare.” Parole che ri­ masero inascoltate e l’eccidio delle Fosse Ardeatine fu il piu crudele episodio della disperata volontà di difesa di chi si sentiva vicino alla sconfìtta. La liberazione di Roma La potente offensiva aerea alleata, fra il 15 ed il 20 mar­ zo, avrebbe voluto essere il preludio ad un attacco decisivo alla linea tedesca Gustav ed a quella Hitler, che correva subito dietro la prima, ma anch’essa non diede i risultati sperati perché il nemico oppose una resistenza accanita, soprattutto attorno a Cassino, una posizione che domina­ va la vallata del Liri e che si opponeva, perciò, ad ogni avanzata verso il nord. In un colloquio che il comandante del settore del Mediterraneo, maresciallo Maithland Wilson, aveva avuto, verso la fine di febbraio, con due inviati del Roosevelt e del Churchill e con i membri dello stato mag­ giore dell’Eisenhower, si era stabilito di riesaminare la situazione generale il 20 marzo, alla luce dei risultati con­ seguiti in Italia: questo perché sempre piu pressanti si fa­ cevano le insistenze americane affinché si prendesse seria­ mente in esame la possibilità di uno sbarco nella Francia meridionale (operazione Anvil) in appoggio allo sbarco sul­ le coste della Normandia. Il premier britannico era ancora favorevole ad intensificare la guerra in Italia, come rive­ lano chiaramente le sue memorie, e, pertanto, si dichiarò pronto ad accettare il punto di vista del Wilson, che, do­ po una conferenza con il maresciallo Alexander e con il generale Eaker (comandante delle forze aeree nel Mediter­ raneo), aveva comunicato a Londra e a Washington il suo parere che l’operazione Anvil dovesse rinviarsi a luglioagosto e che il modo migliore di contribuire al successo dell’Overlord consistesse nel rinunciare — cosi riferisce il 74

Churchill — a qualsiasi attacco contro la riviera francese per concentrare gli sforzi sull’Italia. Gli americani furono più lenti nell’accettare tale parere e solo il 19 aprile si dis­ sero d'accordo sulla priorità dell’offensiva su Roma. Cosi, raggiunto l’accordo sul piano politico, il comando alleato potè preparare il piano per il grande attacco pri­ maverile, che ebbe inizio il 13 maggio, impegnando, come disse il bollettino tedesco, notevoli contingenti, appoggiati da formazioni aeree e corazzate. La battaglia divenne su­ bito violenta nella zona della V armata, verso il Tirreno, a nord di Castelforte, e nella zona dell’VIII, al di là del Liri, a sud di Cassino. Il 15 maggio, i tedeschi erano costret­ ti ad ammettere che i nemici, sempre appoggiati da “un ingentissimo potenziale di uomini e di materiale,” erano riusciti a guadagnare terreno, e che essi stessi erano stati costretti a ripiegare "su una prestabilita posizione a ca­ tenaccio." Nei giorni seguenti, gli alleati continuarono ad impiegare tutte le loro forze ed i bollettini tedeschi dava­ no una visione apocalittica della violenta lotta: "L’ininter­ rotto fuoco tambureggiante, con enorme impiego di mu­ nizioni, i pesantissimi attacchi aerei, l’impiego di carri ar­ mati, manovrati come artiglieria mobile, la lotta accanita per ogni fortino e per ogni altura, che spesso cambiano ripetutamente possesso nello spazio di breve tempo, con­ feriscono a questi combattimenti il carattere delle grandi battaglie difensive della passata guerra mondiale.” Certo, i tedeschi erano schierati su un terreno a loro favorevole perché le montagne, le vallate, i corsi dei torrenti impedi­ vano la manovra dei carri armati anglo-americani; eppu­ re, lentamente ma sicuramente gli alleati avanzavano ed il nemico doveva sganciarsi, per quanto sistematicamente, ed attestarsi su nuove posizioni, che permettevano, come esso diceva, di economizzare le forze. Cassino veniva oc­ cupata dagli alleati il 17 maggio, mentre il 23 incomincia­ va anche l’attacco sul fronte di Nettuno, ad ovest di Lit­ toria e nella zona fra questa città e Cisterna, ed il 25 si annunciava effettuato il collegamento degli anglo-americani nella zona pontina ed i tedeschi erano impegnati fra Ci­ sterna e Velletri. Nel tempo stesso, questi ultimi abban­ donavano la valle del Liri e cercavano di fare resistenza nel settore del Melfa: qui, però, gli alleati erano più in­ dietro e solo il 29 occupavano Ceccano e si battevano at­ torno a Fresinone. Ma ormai le sorti dei germanici preci­ pitavano e, una volta avvenuta la saldatura delle truppe avanzanti dalla testa di ponte di Anzio-Nettuno con quelle 75

all'interno, l’avanzata anglo-americana divenne quasi irre­ sistibile per il rapido sfondamento delle linee tedesche sui monti Ausonii e Lepini e per le profonde infiltrazioni sulla direttrice Velletri-Valmontone-Palestrina-Tivoli. In tal mo­ do, X Colli Albani rimanevano aggirati, e ciò consenti agli alleati di operare una conversione in direzione di Roma che tagliò fuori le linee tedesche. Il 4 giugno la battaglia per Roma era terminata ed a sera le retroguardie tedesche lasciavano la capitale, e i primi reparti anglo-americani ne raggiungevano i sobbor­ ghi: dai rifugi uscivano — scriveva La Civiltà cattolica — "i giovani e gli uomini che non avevano voluto aggregarsi ai repubblicani o lavorare per i tedeschi.” Dall’alba del 5 "la città di Roma è pavesata del tricolore, numerosa folla acclama alle truppe alleate.” Alle 8,30, il comandante della V Armata, gen. Clark, giungeva alla capitale e si recava in Campidoglio ed intanto il Comitato di Liberazione Nazio­ nale si insediava a Palazzo Wedekind, da dove il Bonomi parlava alla folla esortandola all’unione per la nuova guer­ ra rivolta "a cancellare la vergogna di quella che ci è stata imposta."

La formazione del nuovo governo Bonomi

Con la liberazione di Roma, Vittorio Emanuele III avreb­ be dovuto rispettare l’impegno assunto il 12 aprile di no­ minare il figlio Luogotenente; ma si capi subito la sua in­ tenzione di frapporre indugi, volendo firmare, cosi disse il decreto per il passaggio dei poteri nella capitale, dove, per­ tanto, avrebbe voluto recarsi. Ma, ancora una volta, il Mac Farlane impose la pesante volontà degli alleati ed in un colloquio che egli ebbe con il re alla presenza del ca­ po del governo, gli disse che era impossibile aderire alla sua richiesta, "perché,” come riferisce il Badoglio, "la stampa anglo-americana attendeva che, nello stesso giorno della liberazione di Roma, avvenisse il trapasso”; bisogna­ va evitare che “pochi giorni di distacco fra l’entrata a Ro­ ma e la firma del decreto," eccitassero l’opinione pubblica in Inghilterra ed in America, facendo sollevare dubbi sulla sincerità della dichiarazione reale. Pertanto, egli rispose al sovrano dichiarando che il suo desiderio era impossibile, e poi aggiunse, secondo il racconto del Puntoni: "Le con­ dizioni della città non sono tali da consigliare la vostra pre­ senza in Roma. Per di più a Roma non si può arrivare né 76

per via aerea né per strada..." Il colloquio prosegui su un tono penoso: "Il Re ha detto: ‘Sta bene. Voglio allora che tutto ciò [il divieto degli alleati ad un suo viaggio a Roma] mi sia messo per iscritto dal Capo del Governo...’ Badoglio ha risposto: ‘Manderò la lettera, secondo i desideri di Vo­ stra Maestà. Intanto è necessario che Vostra Maestà firmi.’ Il Re ha replicato: ‘Non firmerò nulla, se prima non fir­ merà lei...’ Badoglio ha cercato di perdere tempo, ma date le insistenze del Sovrano ha dovuto compilare la lettera che il Re pretendeva. Solo allora Sua Maestà si è deciso ad apporre la sua firma al decreto [...].” In questo decreto era detto che, "su proposta dei Ministri responsabili,” il Luogotenente generale avrebbe atteso, "in nostro nome, a tutti gli affari amministrativi ed [esercitato] tutte le pre­ rogative regie senza eccezione, sottoscrivendo decreti reali che [sarebbero stati] controfirmati e legalizzati nei modi usuali”: "Intimiamo,” concludeva, "a tutti gli interessati di osservare e di far osservare il presente decreto come leg­ ge dello Stato.” Ad Umberto di Savoia, pertanto, erano affidati tutti i poteri ed il governo, formato dei rappresentanti dei partiti politici, si riteneva responsabile di fronte a lui: era la po­ sizione subordinata nei riguardi della monarchia che la Giunta aveva finito con l’accettare e che era stata, poi, con­ validata dal C.L.N. di Roma. Nessun dubbio sembra che abbia sfiorato gli esponenti antifascisti sulla possibilità che una simile subordinazione venisse accettata anche dalla capitale (del resto, non c’era stata la dichiarazione appena ricordata del Bonomi la quale riconosceva che i partiti an­ tifascisti collaboravano con il ministero Badoglio?). Sic­ ché, quando si pose il problema delle eventuali dimissio­ ni, l’opinione del ministro Guardasigilli, Arangio Ruiz, l'esperto del gabinetto, che non fosse affatto necessario da­ re le dimissioni, fu facilmente accolta da tutti (anche dal Togliatti, che si dichiarò apertamente contrario alla sosti­ tuzione del maresciallo). Ma anche qui intervenne il Mac Farlane, che, chiamato il Badoglio il 6 giugno, gli disse es­ sere "assolutamente conforme alle regole costituzionali [e questo era il parere del De Nicola], che l’intero Gabinetto offrisse le sue dimissioni.” Tuttavia, anche il Mac Farlane non dubitava che il reincarico sarebbe spettato allo stesso maresciallo, e solo riteneva che fosse più conveniente “an­ dare a Roma col Ministero dimissionario," poiché in tal modo sarebbe stato “più facile inglobare nel Gabinetto ele­ 77

menti politici romani lasciando in disparte altri elementi che erano nel Ministero dimissionario." Ed infatti, il Luogotenente, ricevute le dimissioni, diede al Badoglio l’incarico di costituire il nuovo governo, inclu­ dendovi gli uomini politici di Roma e delle altre province che potessero parteciparvi. Nulla, perciò, si interrompeva nella vecchia legalità ed il passaggio avrebbe dovuto esse­ re quasi insensibile, simboleggiato dalla permanenza al po­ tere del maresciallo. Eppure, a Roma, il Badoglio, che vi giunse Γ8 giugno insieme con il principe Umberto, trovò una situazione ben diversa da quella che aveva immagina­ to, perché nella riunione che si tenne in una sala a pian­ terreno del Grand Hotel, presente anche il Mac Farlane, tutti i membri del C.L.N. (Casati liberale; Ruini democra­ tico del lavoro; De Gasperi democristiano; Cianca azionista; Nenni socialista e Scoccimarro comunista) espressero la loro convinzione che si dovesse costituire un “governo schiettamente democratico, formato da elementi di sicura fede antifascista, e con tali poteri da poter condurre ener­ gicamente la guerra antitedesca e da poter preparare la li­ bera consultazione popolare per la scelta delle forme isti­ tuzionali.” "L’intonazione della discussione," conclude il Bonomi, il quale parrebbe aver sentito questo parere per la prima volta (ma forse in lui agiva una segreta avversio­ ne ad una simile soluzione della crisi, che avrebbe potuto apparire rivoluzionaria), "è tale da dare subito l’impres­ sione che la volontà prevalente è per un Governo del tut­ to nuovo, capeggiato da un uomo nuovo." I rappresentanti dei vari partiti contemporaneamente designarono all’una­ nimità il Bonomi, presidente del C.L.N., volendo significare che il governo avrebbe dovuto essere un governo del Co­ mitato. Rimaneva un’ancora di salvezza per il Badoglio ed a questa egli si appigliò senza indugio; aveva cioè la spe­ ranza che il Togliatti, che era stato "l’artefice della sua for­ mazione ministeriale nell’aprile,” non approvasse tale po­ sizione, ed egli avrebbe potuto trascinare, come era appun­ to avvenuto nella crisi precedente, gli altri partiti di sini­ stra, facendo crollare il fronte delle correnti democratiche. Ma anche il capo dei comunisti fini con il riconoscere la necessità di una profonda rinnovazione che si concretasse nella formazione di un gabinetto nuovo. Al Badoglio non rimaneva che ritirarsi, riconoscendo in tal modo l’autorità preminente del C.L.N., la cui volontà era riuscita a far fallire la designazione del Luogotenente; era, questo, un risultato di grande importanza che prati­ 78

camente annullava gli effetti della combinazione dell'apri­ le la quale aveva riconosciuto alla monarchia un diritto di iniziativa e che aveva minacciato di incapsulare, come scri­ ve il Visentini, le forze democratiche nelle forze tradizio­ nali dello Stato italiano. Sulla base di questo primo risul­ tato, il p.d’a. e il p.sd., il 10 giugno, chiesero che: “1) il go­ verno si considerasse investito dalla volontà popolare e non designato dall’alto; 2) prendesse solenne impegno di procedere immediatamente all’emanazione di una legge per la convocazione di un’Assemblea costituente. Tale Assem­ blea avrebbe deciso sovranamente dell’assetto politico e so­ ciale del Paese; 3) alla formula del giuramento nelle mani del Luogotenente si sostituisse un impegno, che i singoli mi­ nistri avrebbero preso di fronte al Presidente del consiglio, di non pregiudicare fon la loro opera le istituzioni politi­ che e civili esistenti; 4) il governo emanasse direttamente delle leggi sotto la sua responsabilità, senza bisogno di sanzione da parte del monarca, o di chi per lui." Queste condizioni, tranne la prima, furono esposte dal Bonomi al Luogotenente, il quale si. sarebbe interessato in modo par­ ticolare a quella riguardante il giuramento; alla fine, di­ chiarò di accettare i tre punti e incaricò il Bonomi stesso di formare il governo, per quanto ormai fosse stato quasi completamente esautorato. E questa esautorazione fu praticamente ammessa nel comunicato ufficiale, in cui era detto semplicemente che il presidente del C.L.N. si era fatto interprete delle esigenze politiche dei sei partiti presso il Luogotenente, ed in cui venivano ripetute le condizioni sopra esposte, senza, però, l’ultima sulla emanazione delle leggi da parte del governo. Ma il ministero si affermava del tutto indipendente quan­ do faceva precedere la sua formazione da una dichiarazio­ ne con la quale i partiti del Comitato si impegnavano “a garantire fino all’approvazione della nuova costituzione da parte dell’Assemblea Costituente l’esercizio delle libertà fon­ damentali e a conservare unità di azione contro qualsiasi violazione dell’ordine democratico.” Il 14 giugno, l’Italia Nuova, organo del monarchico partito democratico italia­ no, ammetteva che "il nuovo Ministero, una volta nomina­ to e sanzionato dalla Corona, [avrebbe vissuto] di vita propria, solo responsabile dei suoi atti, da esso stesso fir­ mati e sanzionati, e non [avrebbe dovuto] render conto che alla Costituente, alla cui costituzione [avrebbe dovuto] dar forma e realizzazione.” Intanto, dopo rapidissime consultazioni, il 10 giugno il 79

Bonomi aveva presentato al Luogotenente la lista dei mem­ bri del nuovo governo,2 la formula dell’impegno dei mini­ stri era la seguente: “I membri del governo giurano nel loro onore di esercitare la loro funzione nell’interesse su­ premo della Nazione e di non compiere, fino alla convoca­ zione dell’Assemblea Costituente, atti che comunque pre­ giudichino la soluzione della questione istituzionale." Se­ condo un accordo raggiunto piu tardi, il 20, solo il presi­ dente del consiglio avrebbe giurato fedeltà alla Corona: "È un altro passo verso la Repubblica,” commentava il Puntoni, che esprimeva l’allarme degli ambienti monar­ chici. Ed allarmati si mostrarono anche gli alleati, i quali, per mezzo del Mac Farlane, fecero comunicare al Bonomi che il nuovo governo non poteva entrare in funzione se non dopo che da Londra, da Mosca e da Washington fosse giunta la regolare approvazione: un “placet," osserva il Croce, “che a noi, nell'aprile, non si permisero d’imporre,” ed il Croce stesso consigliò, ma invano, che “per questa sconvenienza si levasse una decorosa protesta,” "giacché l’armistizio aveva condizioni molto dure, ma non già la fa­ coltà di violare il galateo.” A proposito delle preoccupazio­ ni degli alleati, a dimostrare tutto l’allarme da cui fu preso il Churchill sta un suo messaggio "personale e strettamen­ te segreto” a Stalin dell’ll giugno 1944, in cui diceva: "So­ no meravigliato di ciò che è accaduto al maresciallo Ba­ doglio. Mi sembra che abbiamo perduto l’unico uomo com­ petente col quale avevamo a che fare, e anche un uomo che poteva servirci meglio di tutti. L’attuale gruppo di politi­ canti avidi e decrepiti, naturalmente, si sforzerà di allar­ gare le pretese italiane e potrà causarci il massimo inco­ modo. Mi sareste di grande aiuto se mi comunicaste la Vostra opinione a tal riguardo.” Lo Stalin non si faceva pregare e quello stesso giorno cosi rispondeva al Churchill, con un altro messaggio segreto e personale: "Ho ricevuto il Vostro messaggio sulle dimissioni di Badoglio. Anche per me le dimissioni di Badoglio sono giunte inattese. Pen­ savo che senza il consenso degli alleati inglesi e americani 2 Presidenza, ministero degli Interni e degli Esteri: I. Bonomi; Giu­ stizia: U. Tupini (d.c.); Tesoro: M. Soleri (p.l.i.); Finanze: Siglienti (p.d’a.); Industria, Commercio e Lavoro: G. Gronchi (d.c.); Agricoltura: F. Gullo (p.c.i.); Lavori Pubblici: P. Mancini (p.s.i.); Comunicazioni: F. Cerabona (d.l.); Pubblica Istruzione: Guido De Ruggiero (p.d’a.); Guerra e Aviazione: A. Casati (p.l.i.); Marina: ammiraglio R. De Courten. Ministro senza portafogli: B. Croce (p.l.i.: poche settimane dopo, diede le dimissioni); C. Sforza (indipendente); A. De Gasperi (d.c.); M. Ruini (d.l.); A. Cianca (p.d’a.); P. Togliatti (p.c.i.); G. Saragat (p.s.i.).

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non si potesse sostituire Badoglio e nominare Bonomi. Tut­ tavia, dal Vostro messaggio risulta che ciò è accaduto con­ tro la volontà degli alleati. È da ritenere che alcuni circoli italiani intendano compiere il tentativo di modificare a loro favore le condizioni dell'armistizio. Comunque, se le circostanze suggeriranno a Voi e agli americani che in Ita­ lia sia necessario avere un altro governo, e non il governo Bonomi, potete contare che da parte sovietica non vi saran­ no ostacoli.” Scambio di messaggi quant’altri mai istrutti­ vo: infatti, esso dimostrava che, sia da parte inglese sia da parte russa, c’era il timore che il nuovo governo ten­ tasse di modificare in suo favore le clausole dell’armistizio; poi, c’era anche, nel Churchill, il solito disprezzo verso i "politicanti, avidi e decrepiti,” mentre, nello Stalin, si po­ teva notare il completo abbandono delle forze democrati­ che, e, pertanto, anche del p.c.i., pur di non guastare o rom­ pere i cordiali rapporti con gli alleati occidentali. Tutta la vicenda, inoltre, lasciava chiaramente comprendere co­ me un certo gioco fosse concesso alle correnti antifasciste italiane, purché agissero con energia e mantenendosi en­ tro i confini democratici, gioco che neppure il Churchill era in grado di contrastare. Infine, la risposta di Stalin riconosceva, implicitamente, che l'Italia rientrava nella zona d’influenza anglo-americana, e che di quanto succede­ va in essa erano responsabili gli “ alleati inglesi e ameri­ cani.” Eppure, anche la sconvenienza di cui temeva Croce dimostrava che il governo Bonomi rappresentava una ef­ fettiva rottura, un qualcosa di veramente nuovo; in real­ tà, significava il passaggio dei poteri dalla monarchia al C.L.N., un passaggio che le correnti più attive della Re­ sistenza avevano costantemente auspicato e che era una grande vittoria contro tutte le forze interessate ad impe­ dirlo. Problemi del nuovo governo

A Roma la vita riprendeva ed il giorno in cui il Bono­ mi presentava il suo ministero, 10 giugno, aveva luogo la commemorazione del sacrificio di Giacomo Matteotti sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, dove 25 anni prima il de­ putato socialista era stato rapito. Intervennero circa 20 mila persone e parlarono oratori di tutti i partiti (lo Sfor­ za a nome del governo; Salvatore Italia per la d.c.; Emilio 81

Lussu per il p.d’a.; Giuseppe Di Vittorio per il p.c.i. e Pie­ tro Nenni, che fu l’oratore ufficiale, per il p.s.i.; inoltre un rappresentante del partito repubblicano, non rappresentato nel C.L.N., uno della democrazia del lavoro e un comunista francese dell’esercito di liberazione). "Alla commemorazio­ ne," scrisse La Civiltà cattolica, “danno maggior senso di attualità, non soltanto i recenti ricordi delle sevizie di Palazzo Braschi, delle camere di tortura di via Tasso e della cosi detta ‘Pensione Jaccarino,’ ma le voci, corse fin dal 6 giugno, di 14 cadaveri abbandonati dai tedeschi in fuga nella tenuta Grazioli, al chilometro 10 della via Cas­ sia”: fra quei cadaveri, fu trovato, poi, anche Bruno Buozni, il socialista organizzatore sindacale, che rinnovava l’e­ sempio del Matteotti di dedizione alle classi lavoratrici ed alla causa della libertà, nel tempo stesso. Uno dei primi problemi che la libertà imponeva era quello della ricostituzione della organizzazione sindacale distrutta dal fascismo: a tale intento, gli esponenti autoriz­ zati delle tre principali correnti sindacali — democristia­ na, socialista e comunista — avevano tenuto riunioni prima della liberazione della capitale e, dopo aver affermato la necessità dell'unità sindacale quale "strumento più effica­ ce per il potenziamento dell'organizzazione del lavoro," avevano deciso di procedere alla ricostituzione di “un or­ ganismo confederale, denominato la Confederazione Gene­ rale Italiana del Lavoro, di una sola Federazione nazionale per ogni ramo della produzione, di una sola Camera con­ federale del lavoro per ogni provincia, e di un solo Sinda­ cato locale e provinciale per ogni ramo o categoria di at­ tività produttiva." Il comunicato relativo, pubblicato il 13 giugno, garantiva la massima libertà e il piu ampio rispet­ to agli aderenti alle altre correnti sindacali, ma questo in­ tento di limitare, in sostanza, la rappresentanza dei lavo­ ratori ai tre partiti, che si potevano ritenere di massa, de­ stò vivaci critiche nei liberali e, in particolare, negli azio­ nisti, i quali espressero il dubbio che si potesse "far riac­ quistare agli italiani una coscienza morale, politica e sin­ dacale” mediante sistemi che imponevano "l’unità a priori." In effetti, si delineava, in questa questione, la tendenza dei partiti di massa ad esaurire il quadro della vita politica e sindacale italiana, eliminando gli altri partiti minori, od almeno rigettandoli ai margini; era, per il momento, una tendenza nettamente contraria alla unanimità dei vari par­ titi nel C.L.N., tendenza, peraltro, a cui era sembrato si fosse contravvenuto nella formazione del governo, che ave­ 82

va visto una leggera prevalenza del p.l.i., della d.c. e del p.d’a. (che occupavano i ministeri della Giustizia, del Te­ soro, delle Finanze e dell’Industria), cioè alle correnti che dalla sinistra andavano verso destra, quasi per equilibrare la spinta a sinistra data alla situazione dalle stesse vicende che avevano portato al nuovo ministero. Ma era soprattutto il p.c.i. che sembrava favorire un orientamento della politica italiana basato sui tre grandi partiti, ed il Togliatti, parlando, il 9 luglio, al Palazzo Bran­ caccio, cosi delineò il programma del suo partito: guerra di liberazione dell’Italia insieme con tutte le correnti poli­ tiche, anche se monarchiche; rispetto della tregua istitu­ zionale; la lotta senza quartiere contro gli uomini o i grup­ pi responsabili della rovina del paese; unione delle forze sane, ossia della classe lavoratrice rappresentata dai par­ titi democratico-cristiano, socialista e comunista. Questa nuova autorevole presa di posizione trovò una recisa oppo­ sizione ancora nei liberali e negli azionisti: L’Italia libera disse sfocata la visione di una Italia in cui soltanto l’al­ leanza fra i partiti marxisti e cattolici potesse garantire contro il pericolo reazionario e la Ricostruzione (liberale) affermò che vi erano analogie fra il discorso del Togliatti e quello del Mussolini alla Camera nel 1921, quando que­ sti aveva lanciato l’idea di una intesa con i socialisti e i po­ polari. Il De Gasperi, rispondendo al capo del p.c.i., il 23 luglio, fu più cauto su questo punto e mostrò quasi di non accogliere l’invito, ma apertamente pose il suo partito come rappresentante degli interessi conservatori polemiz­ zando da un lato contro la proposta del Nenni di una or­ ganizzazione politica fondata sui consigli di fabbrica e, dall'altro, contro lo statalismo oppressore della libertà, di­ feso, a suo parere, dal comuniSmo. La democrazia cristiana, nelle sue parole, era quella che doveva difendere la libertà e l’avvenire del nostro paese, e questa condotta moderatamente conservatrice giustificava la genericità sulla questio­ ne istituzionale (contro cui reagiva vivacemente il p.d’a.). Più tardi, il papa, nel suo radiomessaggio per il quinto an­ niversario dell’inizio della guerra (1° settembre), appoggiava tale programma sostanzialmente conservatore, riprovando Γ" illusoria aspettazione di [una] palingenesi totale del mondo” e l’“esaltata speranza di un regno millenario di universale felicità’’ che poteva nascere “fra le vittime di un malsano ordinamento economico e sociale." Alla ir­ ragionevole e ingiustificata impazienza che tutto aspet­ tava da sovvertimenti e da violenze, Pio XII opponeva le 83

“norme che l’esperienza, la sana ragione e l'etica sociale cristiana additano come i fondamenti e i principi di ogni giusta riforma," e soprattutto il principio, già enunciato da Leone XIII nella sua Rerum novarum, che per ogni retto ordine economico e sociale dovesse porsi "come fondamento inconcusso il diritto della proprietà privata." Il radiomessaggio, per questo aspetto, si risolveva nella affermazione della necessità e convenienza di garan­ tire e promuovere "la piccola e media proprietà nell’agri­ coltura, nelle arti e nei mestieri, nel commercio e nell’in­ dustria.’’ "Difendendo il principio della proprietà privata, la Chiesa persegue un alto fine etico-sociale”; ben lungi dal sostenere “il presente stato di cose," essa intendeva fare dell’istituto della proprietà privata "un elemento dell’ordi­ ne sociale, un necessario presupposto delle iniziative uma­ ne, un impulso al lavoro a vantaggio dei fini temporali e trascendenti della vita, e quindi della libertà e della digni­ tà dell’uomo, creato ad immagine di Dio, che fin dal prin­ cipio gli assegnò a sua utilità un dominio sulle cose ma­ teriali." In verità, si assisteva, in quei momenti, ad una ripresa delle correnti moderate, ripresa favorita dal fatto che l’Ita­ lia, quasi per pacifico riconoscimento dei suoi uomini re­ sponsabili, doveva rientrare nella zona anglo-americana. L’8 agosto, infatti, il Bonomi confermava, al corrispondente del New York Times che, data la sfera d'influenza in cui si trovava il nostro paese, la Russia non avrebbe potuto eserci­ tare in nessun modo pressioni o interferenze su di esso. Di conseguenza, il nuovo governo nasceva con una impronta filo-occidentale, in un certo senso, più marcata di quella del precedente gabinetto Badoglio. Forse anche questa cosi impegnativa dichiarazione, che prendeva atto della divi­ sione in sfere d’influenza dell’Europa (cosa, peraltro, che non era stata ancora ufficialmente sanzionata), voleva es­ sere diretta a calmare le apprensioni degli anglo-america­ ni per la formazione di un ministero del C.L.N. (all’inizio il governo era stato costretto a risiedere a Salerno, essen­ do Roma nelle immediate retrovie e solo alla metà di lu­ glio gli era stato consentito di trasferirsi a Roma, ma pra­ ticamente senza autonomia, tanto da far scrivere all'Avanti!, il 9 luglio, che non si poteva governare neppure da Ro­ ma "se per rimuovere un fattorino è necessario il consen­ so di una commissione di controllo”). Risultato che era stato raggiunto, dal momento che, il 4 agosto, come riferiva La Civiltà cattolica, Cecil Sprigge, in una corrispondenza 84

dall'Italia diffusa dalla Reuter, affermava che gli alleati sta­ vano riconoscendo il nostro contributo con l’apprezzamen­ to del governo britannico, espresso da Attlee; con la di­ chiarazione del Curchill di accettare una cresciuta collaborazione militare italiana; con la considerazione in cui era stata presa la richiesta avanzata dal Bonomi di godere della legge "affìtti e prestiti,” e con la mancata pubblicazione dei termini dell’armistizio. Era chiaro che si andavano stabilendo rapporti più cor­ diali fra gli anglo-americani e il governo italiano, il che avrebbe consentito di dare pratica attuazione all’impegno assunto dal consiglio dei ministri il 17 luglio (e già prima anche il 23 giugno) di stabilire un regolare collegamento con le bande armate di partigiani ("le quali lottano con­ tro l’invasore tedesco e devono essere considerate come parte integrante dello sforzo di guerra della Nazione”), per migliorarne l’inquadramento e accrescere l’aiuto morale e materiale di cui abbisognavano. Questo impegno aveva fat­ to veramente capire alla Resistenza del Nord di essere di fronte ad un governo ben diverso da quello di Badoglio, e da ciò la sua soddisfazione. Sembrava che finalmente fos­ se asceso alle responsabilità del potere l’antifascismo, an­ che per la decisa rottura con la politica fascistica: infatti, fin dal 23 giugno, il consiglio dei ministri, affermando che l’Italia, "sottrattasi ad un regime di polizia," poteva deci­ dere liberamente dei suoi destini, contestava "la politica fascista contro l’integrità territoriale di altre Nazioni, e condannava le aggressioni compiute dal fascismo contro la Francia, la Grecia, la Jugoslavia e la Russia, aggressioni che [avevano] infranto le più nobili tradizioni italiane, già suggellate su tutti i campi di battaglia della guerra 19151918."

Il C.L.N. come organo di potere Dopo la liberazione di Roma, le truppe alleate avevano proseguito abbastanza rapidamente l’avanzata verso il nord; i tedeschi non avevano più linee fortificate su cui attestarsi fino alla linea gotica che correva da Rimini a Pi­ sa e dovevano, perciò, ritirarsi, non potendo opporre una valida resistenza alle superiori forze nemiche. Il 21 giugno, gli anglo-americani occupavano Perugia, oltrepassavano, nel settore adriatico, il Tronto e giungevano 16 chilometri a nord di Grosseto. Poteva sembrare di essere vicini alla 85

offensiva finale contro la Germania, perché contemporanea­ mente avveniva (6 giugno) lo sbarco alleato sulle coste della Normandia, uno sbarco che portava a grandi succes­ si, per quanto i tedeschi lottassero sempre con accanimen­ to (ma il 13 giugno il De Gaulle poteva porre di nuovo i piedi sul suolo francese, accolto a festa dalla popolazione di Bayeux), mentre in Russia i sovietici avevano scacciato del tutto il nemico dalle terre invase tre anni prima ed avanzavano, infrangendo ogni resistenza, dal Baltico al Mar Nero; inoltre, l’aviazione alleata era diventata quasi padrona assoluta del cielo e l’arma subacquea germanica non rappresentava più una seria minaccia. In queste condizioni, anche il C.L.N.A.I. aveva creduto che stessero per verificarsi “avvenimenti di grande impor­ tanza per la liberazione del nostro paese,’’ e, perciò, il 2 giugno, aveva indirizzato a tutti i Comitati Regionali e Provinciali di Liberazione Nazionale una lunga lettera in cui definiva quali dovevano essere i compiti dei C.L.N. nel­ la nuova situazione. Anzitutto, la necessità di dare alla lot­ ta la più larga estensione possibile, faceva ritenere vane e superate le lunghe discussioni, che si erano svolte in sede di C.L.N.A.I., fra i partiti di destra e quelli di sinistra sulla "natura e struttura dei C.L.N.," da intendere cioè co­ me "C.L.N. solo provinciali," scrive il Longo, sempli­ ci coalizioni dei cinque partiti antifascisti, oppure come C.L.N. “di massa, largamente ramificati dappertutto, nelle officine, nei rioni, nei villaggi, con la rappresentanza di tut­ te le forze esistenti e attive sul posto.” I liberali ed i de­ mocristiani erano per la prima soluzione, alla quale, però, si opponevano, sebbene con diverse motivazioni, gli azionisti, i socialisti ed i comunisti. Ora, la stessa realtà dava ragione a quest’ultima tesi, la sola che consentisse di sperare in una intensificazione della lotta, quale era voluta da tutti per riabilitare il popolo italiano di fronte al mondo intero. Cosi, nella lettera era detto che il movimento dei Comitati di Liberazione doveva "artico­ larsi in organismi periferici, locali, rionali ed anche di fab­ brica e di villaggio, cioè in C.L.N. che coordinino e dirigano in modo immediato l'attività delle varie organizzazioni di massa, anche elementari, delle varie località." Ma la lettera si rivelava particolarmente importante nelle indicazioni che forniva per l’assunzione del potere politico da parte dei C.L.N. nell’intervallo fra la ritirata tedesca e l’arrivo degli eserciti alleati. In questo breve periodo incombeva ai C.L.N. provinciali e locali “il dovere di assumere di lo­ 86

ro iniziativa in nome della nazione e del governo e nella sfera delle rispettive competenze, la direzione della cosa pubblica, di assicurare in via provvisoria le prime urgenti misure di emergenza per quanto riguarda la prosecuzione della guerra di liberazione fino alla distruzione del nazi­ fascismo, i provvedimenti di epurazione contro i fascisti repubblicani e gli agenti del nemico in generale, l’ordine pubblico, la produzione, gli approvvigionamenti, i servizi pubblici ed amministrativi.” Era un vero e proprio programma di governo che fa­ ceva dei C.L.N. i centri della nuova vita democratica, gli organismi che dovevano favorire Γ" effettiva partecipazione popolare alla vita del paese,” si da rendere possibile la creazione di “un regime progressivo aperto a tutte le con­ quiste democratiche ed umane.” Senza dubbio, la lotta partigiana, una scuola insopprimibile di libertà e di auto­ nome iniziative, aveva lasciato la sua evidente traccia in queste disposizioni, che non volevano essere assolute poi­ ché era detto, nella lettera, che esse erano date solo "a tito­ lo generale” e che si lasciava "ai C.R. e ai C.P. [Comitati regionali e Comitati provinciali] la più ampia latitudine per la loro applicazione pratica." Una scuola di autonome iniziative ed anche di dignità umana e di capacità di auto­ governo, perché la Resistenza si dimostrava ansiosa di far vedere agli alleati come sapesse affrontare i complessi pro­ blemi di vaste comunità, creando tutti gli organi adatti al funzionamento delle amministrazioni locali. Infatti, il C.L.N.A.I. insisteva perché i C.L.N. provinciali assumessero “collegialmente il potere politico per quanto riguarda [va] l’amministrazione della provincia delegando, sotto la loro responsabilità e il loro controllo, le proprie funzioni a persone di comune fiducia, sotto la veste di Commissario della Provincia, di Capo della Polizia, ecc." Gli anglo-ame­ ricani, avanzando, dovevano trovare già funzionanti questi organismi nominati dai C.L.N., i quali, in tal modo, fini­ vano con l'essere veramente i responsabili ed i generatori del potere politico. Questa lettera, pertanto, attuava una rivoluzione pacifica e l’essenziale era che essa si compiva con il pieno accordo di tutti i partiti: ma la sua grande importanza consisteva anche nel fatto che essa realizzava, di fatto, la rivoluzione democratica auspicata, facendo a nuova classe dirigente le masse popolari e contribuendo ad eliminare i vecchi ceti che avevano detenuto, fino allora, il potere. 87

L’espansione partigiana nella prima metà del 1944

Certo, tale risoluta assunzione di poteri era resa possi­ bile perché il C.L.N.A.I. si sentiva sempre più appog­ giato, nella sua azione politica, dalla ostilità della popola­ zione verso i nazi-fascisti {ostilità che aveva avuto una eloquente espressione negli scioperi del marzo), e, soprat­ tutto, dalla lotta armata partigiana che era andata assu­ mendo proporzioni sempre più vaste. In effetti, con il nuo­ vo anno si erano avuti più frequenti lanci alleati, e ciò sembrava avere indicato un cambiamento neH'atteggiamento anglo-americano. Ma il Parri, con una lettera del 25 marzo ai compagni di Lugano (inedita) si era lamentato egualmente di questa fase di aiuti disordinati che mostrava la tendenza a scartare gli organismi dirigenti della Resi­ stenza: "La nostra condizione per quanto concerne l’ap­ poggio atteso dagli amici di costà [A. Dulles e McCaffery] è passata per due fasi, rovinose entrambe anche se diver­ samente. Dapprima assenteismo che ha significato l’afflosciamento e l'annullamento di molte situazioni prometten­ ti {Val Brembana, Seriana, Camonica, Asiago, Feltrino, Carnia), soprattutto lombarde e venete. Gli effetti profonda­ mente demoralizzanti sono stati aggravati dalle promesse che avevano creduto di poter fare e dalle conseguenti inu­ tili attese; poi, iniziatisi in gennaio e intensificati in feb­ braio, sono cominciati i lanci. Ottima cosa, ma il modo disorganico e confusionario va creando una pericolosa si­ tuazione di pasticcio cui urge portare rimedio. Nella pri­ ma fase vedevamo incomprensione e deliberato proposito, non locale ma centrale, di non appoggiare il nostro movi­ mento; nell’attuale c’è una effettiva, forse deliberata, azio­ ne per scartare tutti gli organi centrali e controllare e gui­ dare direttamente il movimento. Il nostro sforzo di coor­ dinamento continuo e ostinato è reso spesso vano dalla leggerezza e indisciplina sia dei nostri, sia degli amici vo­ stri." E proseguiva denunciando il "pasticcio pericoloso” creato dagli alleati, "intenzionalmente (mi sembra) trascu­ rando, e quindi svalutando, l’organizzazione centrale esi­ stente, che sola poteva permettere il miglior coordina­ mento, e quindi rendimento, del lavoro"; e, infine, cosi concludeva: “Preghiamo ancora di fare ogni sforzo per inchiodare in capo agli amici di là dell’acqua queste due semplici e conclusive idee: 1) il problema delle armi è per noi pregiudiziale ad ogni altro: attorno ad una mitraglia88

trice raccogliamo 10 uomini; 2) un rifornimento d’armi largo, intelligente e coordinato (non disordinato e a spizzi­ co come l’attuale) può permetterci di passare dalla guer­ riglia spicciola alla guerra organizzata, può darci la pos­ sibilità di efficace concorso operativo alle future azioni al­ leate." Insomma, il Parri mirava sempre a fare “guerra grossa” e si irritava per tutto ciò che sembrava contrariare tale sua aspirazione; eppure, il movimento partigiano si raffor­ zava e, a cominciare dal febbraio, come testimonia D. Li­ vio Bianco, la situazione si era rovesciata: “Di colpo il partigianato, quasi fossero stati bruscamente recisi i vin­ coli che lo comprimevano e trattenevano, si rimise in mo­ vimento e fece un balzo avanti.”3 Le bande uscivano dalle 3 In una relazione segreta del 206° Comando militare regionale (P.C. 733) e rivolta ai Comandi militari provinciali e per conoscenza allo Stato Maggiore dell’Esercito (P.C. 865) fascista, in data 13 febbraio 1944, era detto: "L’attività delle bande dei Partigiani, superata la fase di organiz­ zazione è entrata decisamente in quella dell’azione, particolarmente nelle province lombarde e piemontesi. A seconda dei motivi e dei fini che si ripromettono, tali bande possono suddividersi in tre categorie: 1) bande di patrioti, ben armate, inquadrate ed organizzate, il cui movimento può definirsi ‘badogliano’; 2) bande che chiameremo ‘comuniste,’ anch’esse ben armate ed or­ ganizzate, il cui carattere di partigiani è essenzialmente dato dai par­ titi antifascisti; 3) bande di delinquenti, che, profittando dell’attuale situazione e spacciandosi per patrioti, commettono rapine, furti ed assassini. Le prime e le seconde sembra agiscano agli ordini di un unico sedi­ cente ‘Comitato di Liberazione Nazionale’ e vengono largamente fornite di fondi provenienti da sottoscrizioni più o meno spontanee di cittadini e da potenze nemiche, ma la loro azione si differenzia nei compiti e nei fini. Le prime hanno i seguenti compiti: lotta al fascismo; costituzione di reparti armati per la protezione, in caso di evacuazione delle truppe tedesche, di impianti, stabilimenti, opere d’arte, ecc.; ed in genere tu­ telare l’ordine pubblico, impedire distruzioni da parte dei tedeschi in casi di ritirata. Il fine che si ripromettono è di preparare il ritorno della monarchia e del governo badogliano. Le seconde: lotta al fascismo, lotta ai tedeschi da effettuare con colpi di mano isolati (guerriglia); sabotaggi; organizzazione di scioperi per intralciare la produzione bellica; sabotaggio nella costituzione delle nuove forze armate italiane, sia eliminando gli uf­ ficiali, sia svolgendo attiva propaganda nei reparti. Tutto ciò per preparare l’avvento dei partiti cosi detti democratici di sinistra. In quest'ultimo periodo il sedicente movimento patriota presenta le seguenti caratteristiche che possono essere sfruttate per un’abile propa­ ganda: 1) il movimento partigiano tende a prendere un certo sopravvento su quello cosiddetto badogliano [...]. Conseguenze di tale recente evoluzione: 1) le bande ‘badogliane’ cominciano a preoccuparsi del prevalere del movimento di partigiani. Ciò ha permesso a questo Comando di avvi-

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loro zone per "colonizzarne" altre, figliavano altre forma­ zioni, si davano una stampa propria che sostituiva quella che fino allora era giunta dalla città. Era un esercito di nuovo tipo, in cui i comandanti erano eletti dal basso pur non avendo spesso alcun grado; un esercito in cui la disci­ plina militare, "severa, e talvolta anche rigorosa,” non im­ pediva una consapevolezza profonda delle ragioni politiche e ideali della lotta. Anche i metodi con cui i partigiani combattevano erano nuovi e si adattavano rapidamente al­ le esigenze di una efficace difesa contro i rastrellamenti: in un primo tempo i nazi-fascisti attaccavano frontalmen­ te risalendo le valli ed in tal caso la difesa era basata su sbarramenti trasversali nei punti dove essa era facilitata da interruzioni stradali (ma, come avvenne, ad esempio, nel Cuneese, in Valle Varaita, un ponte importante — scri­ ve il Bianco — non saltato, quello di Valcurta, consenti ai tedeschi di superare lo sbarramento trasversale e di met­ tere in grave crisi tutta l’organizzazione partigiana della valle); poi invece di un unico attacco massiccio, adottaro­ no la tattica delle rapide puntate offensive, degli attacchi improvvisi irradiantisi nelle varie direzioni, tattica alla quale i giellisti e i garibaldini risposero "spostandosi rapi­ damente ed occultamente da un punto all’altro, e contrat­ taccando con un ben congegnato sistema di imboscate”; in­ fine, l’ultima novità nel sistema d’attacco del nemico fu quello seguito nelle grandi operazioni di rastrellamento del­ la fine di aprile, quando, come dice ancora il Bianco, agli intenti di disturbo e di disorganizzazione si sostituirono quelli di un vero e proprio annientamento: infatti, "men­ tre forze corazzate procedevano lungo il fondo della valle, colonne di fanteria, disposte a scaglioni nel senso dell’al­ tezza, avanzavano metodicamente lungo i fianchi della val­ le medesima. E contemporaneamente, dalle valli attigue altre colonne salivano verso le creste divisorie, per sbarrare il passo alle forze partigiane in movimento, e prenderle in trappola. La stessa manovra veniva svolta, oltreché per la valle principale, anche per i valloni laterali.” A questa nuo­ va tattica i partigiani risposero mediante l’"abbandono del sistema di difesa trasversale, per un sistema di difese mul­ tiple, scaglionate in profondità lungo un solo fianco della cinare qualche esponente di dette bande per iniziare opera di propaganda a favore del nuovo esercito; 2) qualche banda badogliana attualmente già collabora con le auto­ rità italiane e con le truppe germaniche per la lotta alle bande estremi­ ste ed ai delinquenti comuni.”

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valle, e piazzate piuttosto in alto; mediante la predisposi­ zione di depositi di viveri e munizioni e di punti d’appoggio in alta montagna; e mediante interruzioni stradali multi­ ple e complesse." Quest’ultima tattica tedesca stava ad indicare che il pe­ ricolo dei partigiani si era fatto più grave, dal momento che, per eliminarlo, non bastavano più le semplici azioni di disturbo ma erano necessarie le vaste e difficili battaglie di annientamento, battaglie, però, che non raggiungevano lo scopo, come affermava il Parri in un biglietto ai com­ pagni in Svizzera in cui rendeva conto delle operazioni del marzo: "Si sono sviluppate durante tutto marzo violente azioni di rastrellamento nell’Appennino emiliano e nelle Alpi liguri-piemontesi. Specialmente violente le azioni in Valle dell’Alto Tanaro e adiacenti, Appennino modenese e reggiano. Forti le perdite nostre; molti i prigionieri trucida­ ti (forse un paio di centinaia); feroci le rappresaglie alle popolazioni civili ree non di aver ospitato ma di dimorare in luoghi frequentati dai patrioti; circa 10 villaggi incen­ diati; un paio di centinaia di contadini massacrati, in pre­ valenza vecchi, donne e bambini. Ma più gravi numericamente le perdite nemiche, specie tedesche: si tratta di pa­ recchie centinaia di uomini (daremo valutazione più pre­ cisa). Ma più interessante e da segnalare e sottolineare è la circostanza che anche dove le azioni sono state più spin­ te ed hanno costretto i nostri, impari di forze e specie di armamento, a sbandarsi, le formazioni sono poco dopo ri­ nate. Non eran passate tre settimane che in Val di Lanzo ricominciavano i colpi di mano, e cosi succederà in Val Germanasca (Val Chisone) tra breve. Altre azioni tedesche di vasto raggio sono in corso per liberare le linee di comu­ nicazione Nord-Sud ed Est-Ovest da questa minaccia, sem­ pre più temuta.” Nulla, perciò, avrebbe potuto sradicare il fenomeno par­ tigiano, che rispondeva alla insopprimibile esigenza di lot­ tare per la libertà e che era attivamente sostenuto dalla po­ polazione, che pure era colpita dalle rappresaglie, dagli in­ cendi e dalle distruzioni. Questo constatava anche una co­ municazione del Comitato Militare Nord Italia con cui si chiedeva al Dulles un urgente incontro (“È veramente ur­ gente, dato che abbiamo indici di prossime operazioni che ci toccheranno forse da vicino, sapere come affrontare da alleati e non da strumenti i probabili compiti di guerra. Tutto il resto è accessorio") tra un rappresentante autoriz­ zato e responsabile del Q. G. alleato ed un suo esponente: 91

"È difficile fornire valutazioni di forze, assai variabili in conseguenza dei rastrellamenti severi che tedeschi e fasci­ sti muovono incessantemente or contro l’una or contro l’altra vallata. L'esperienza ha però dimostrato che non v’è repressione crudele e bestiale che possa impedire il rifor­ marsi quasi sempre, appena ristabilita la situazione, delle bande.” In questa stessa comunicazione era un quadro ab­ bastanza interessante delle formazioni partigiane control­ late dal Comitato Militare: “Il Comitato Militare Nord Ita­ lia fa presente che esso controlla attraverso gli organi lo­ cali, praticamente tutte le bande esistenti nelle montagne e le organizzazioni militari clandestine di certe valli e delle pianure. Attualmente le formazioni più forti e di maggior interesse sono stanziate in Piemonte nelle vallate del Cuneese, nelle valli del Po e del Pellice; nelle valli di Lanzo, nel Biellese, in Valsesia e zone a queste adiacenti; in Lom­ bardia nella zona di Lecco e adiacenti sino alla bassa Vaitellina, nella Valcamonica; nel Veneto nelle zone di Asiago, Conegliano, Feltre e nel Friuli; in Emilia nell’Appennino Piacentino, nell’alta Valle del Taro e nell’alto Modenese; in Liguria nell’Appennino alle spalle di Genova." La diffìcile situazione dell’esercito fascista

Mentre il movimento partigiano si sviluppava in tal mo­ do, i fascisti non riuscivano ad organizzare, come avrebbe­ ro voluto, l’esercito per dare il loro contributo alla guerra contro gli anglo-americani: nella relazione citata sopra del 206° Comando militare regionale era detto che erano rico­ minciati “gli inconvenienti che nel periodo precedente il 25 luglio, avevano assunto proporzioni non indifferenti. Lette­ re anonime, lettere censurate, relazioni varie denunciano: 1) che in alcune località si esplica molta parzialità nell’arruolare i giovani di leva, sia per favoritismo, sia per ragio­ ni di lucro; 2) che in alcune caserme, nonostante le 10 lire di miglioramento, si mangia poco e male; 3) che in alcuni reparti ed uffici militari si svolge propaganda negativa nei riguardi del nuovo esercito e di denigrazione contro gli uf­ ficiali e quel personale che ha ripreso con entusiasmo il proprio servizio; 4) che in molti reparti si opera propa­ ganda sovversiva. "Molte di queste lamentele trovano effettivamente con­ ferma in fatti riscontrati. Precisamente: 1) in qualche di­ stretto il numero dei militari inviati all’ospedale militare od 92

in licenza illimitata od assegnato al servizio condizionato è elevatissimo rispetto al numero delle reclute presentate; 2) in qualche reparto si nota una depressione di spirito mi­ litare e morale troppo accentuata, il che lascia supporre 1'esistenza di opera moralizzatrice negativa, se non con­ traria, di ufficiali e sottufficiali; 3) gli arbitrari allontana­ menti dai reparti, che in qualche caso hanno assunto pro­ porzioni allarmanti, lasciano facilmente intuire che un’at­ tivissima propaganda sovversiva viene svolta nei reparti e fuori di essi.” Come si vede, era un esercito minato dal di dentro ed è significativa, a questo proposito, l’impressione ricevuta dal Caviglia da un film Luce in cui si vedeva il giuramen­ to di fedeltà alla repubblica sociale: "Venivano avanti dei generali, salutavano Graziani, baciavano la bandiera. Non ho mai visto simili tipi di generali. Dove sono andati a sta­ narli? Io non avrei affidato loro da comandare nemmeno un caporale di cucina." Certo, molto dipendeva dalle dif­ ficoltà che i tedeschi continuavano a sollevare diffidando del soldato italiano: per eliminarle, il duce ripetutamente sollecitava un colloquio con Hitler, colloquio che alla fine gli fu concesso nell’aprile a Klessheim. L’Anfuso, che fu presente, dice che per la prima volta il Führer aveva asse­ gnato al “vicino del Sud” uno spazio di tempo tale da con­ sentirgli di esporre idee e desideri, sicché la prima mat­ tinata fu dedicata alla enumerazione che fece il Mussolini "delle lagnanze concernenti la carenza del suo Governo determinata dal peso delle amministrazioni germaniche.” Ma Hitler, mal dissimulando la nuova sfiducia per il suo grande alleato di un tempo, accusò i lavoratori italiani di essere pigri e comunisti, si lamentò che le truppe italiane cantassero l’Internazionale e denunciò poi il disgre­ gamento del fascismo: “Non avevo mai inteso,” scrive Anfuso, "un Hitler cosi simile alla sua leggenda.” Il Mus­ solini, come il Führer disse apertamente, era necessario ai suoi piani e solo per tale motivo veniva tenuto in vita. In­ somnia, fu un colloquio assolutamente negativo, anche per­ ché il duce non riuscì ad ottenere alcuna soddisfazione su uno dei punti che più gli stava a cuore, cioè sul reclutamen­ to forzoso di manodopera italiana per la Germania. Infat­ ti, forse le difficoltà maggiori gli venivano proprio da tale reclutamento che contribuiva a rafforzare le formazioni partigiane (il Caviglia, sotto la data del 9 maggio, notava: "Hitler cerca molti lavoratori per la Germania; per questo hanno chiamato alle armi la classe del 1914. Nella nostra 93

provincia tutti i contadini di questa classe si sono dati alla montagna. Anche molti giovani delle classi 1923, 24, 25, 26 si sono rifugiati tra i ‘ribelli’ ”) e che sollevava le vivaci proteste anche dell’Anfuso, allora ambasciatore a Berlino: "Scrissi e telegrafai a Mussolini che le promesse fatte dai tedeschi per attirare i lavoratori italiani in Germania era­ no pure ed enormi menzogne; lo dissi aU’Auswärtiges Amt tutte le volte che potei; lo scrissi in centinaia di Note che denunziavano i rastrellamenti e le deportazioni, premet­ tendo per ogni caso, che esso rappresentava, per sé stante, una violazione della sovranità italiana, una illegittimità di fatto che doveva subito essere sanata col rimpatrio imme­ diato." Ma erano tutte proteste che avevano scarsa, anzi nes­ suna, efficacia, e cosi, mentre l'esercito partigiano si raffor­ zava e si estendeva, quello fascista repubblicano non riu­ sciva a darsi una struttura solida e tale da consentirgli un serio contributo alla guerra. Questa situazione fu rivelata dalla offensiva di pace lanciata dal Mussolini nel maggio, quando l’inizio dell’azione alleata sul fronte a sud di Roma rendeva indispensabile, soprattutto in vista dei suoi pos­ sibili sviluppi, eliminare del tutto, o quasi, il pericolo par­ tigiano. Perciò, il duce promise una completa amnistia per chi si fosse presentato entro il 25 maggio: piena riabili­ tazione, niente deportazione in Germania, niente servizio militare; per chi, invece, non si fosse presentato, il bando lasciava prevedere la punizione più. spietata poiché, scadu­ to il termine, sarebbero incominciate vaste operazioni di rastrellamento. Una certa crisi fu provocata da questo ul­ timatum nelle formazioni, e in alcune zone, come attesta il Bianco, "non pochi partigiani cedettero, e si allontanarono, magari dopo aver nascosto le armi con l’intenzione di tor­ nare a riprenderle al ‘momento buono’ ’’; ma, in genere, i “volontari della libertà" seppero resistere e respinsero an­ che il consiglio, che giungeva loro insistente dal piano, di "polverizzarsi," cioè di dividersi in gruppetti di due o tre, lasciare la montagna e scendere in pianura per sistemarsi alla spicciolata in cascine. L’accoglierlo, scrive il Bianco, “avrebbe significato, praticamente, disfare le formazioni, rinunciare ad esse come unità organiche, come serbatoi e basi morali, che attingevano la loro forza e solidità appun­ to dalla loro compattezza." Del resto, l’attacco in grande stile non venne: i tedeschi erano troppo impegnati, in quei momenti, sui vari fronti ed i fascisti da soli non avevano certo la possibilità di con­ 94

durre le minacciate grandiose manovre di annientamento. Questo rappresentò una vittoria per i partigiani che ne trassero nuovo slancio, mentre segnò una crisi per l'avver­ sario, per superare la quale il Comando supremo tedesco accogliendo la tesi del Kesselring, secondo cui la lotta cón­ tro le forze armate nemiche regolari e quella contro i par­ tigiani costituivano un tutto inscindibile, affidò a lui anche quest’ultima sottraendola al comandante delle SS. Cosi di­ ventava possibile la unitarietà di comando con la forma­ zione di speciali "reparti di assalto" o di emergenza pres­ so le divisioni, sempre pronti ad entrare in azione; ne fa­ cevano parte, come dice lo stesso Kesselring, "gli uomini dotati di maggior spirito combattivo, convenientemente istruiti ed equipaggiati." Questo avveniva nel maggio, ma il 15 giugno, dopo il sostanziale fallimento àCd'ultimatum del duce, nel IV Gran rapporto agli ufficiali superiori del­ l’esercito fascista sulla repressione del ribellismo, tenuto dal gen. Mischi, il comandante militare del Piemonte, Ren­ zo Montagna, precisava che nella sua regione la situazione andava peggiorando e che, se non si fosse provveduto, i ribelli, che già controllavano quasi tutto il Piemonte, avreb­ bero finito con l’impadronirsene totalmente. Ribadiva inol­ tre che, allo stato delle cose, la nuova chiamata di classi era un errore perché avrebbe servito solo a rafforzare le forze ribelli. Il comandante militare di Alessandria e della Liguria, Luigi Jallà, a sua volta, riferiva che la situazione si era improvvisamente aggravata e che vi erano bande ef­ fettivamente operanti sui 400-500 uomini; infine il coman­ dante militare della Lombardia, Filippo Diamanti, afferma­ va che se nelle province di Cremona, Bergamo, Pavia e Va­ rese la situazione era stazionaria — province quasi esclusi­ vamente di pianura — essa si era fatta particolarmente grave a Sondrio, Como e Milano.

La formazione del C.V.L. (Corpo Volontari della Libertà) In una relazione di parte antifascista del 24 giugno è documentata la "grande ripresa dell’attività dei partigiani dopo l’inizio dell’offensiva anglo-americana. Nelle regioni Pavese e Piacentina le bande, continuamente rafforzate dai disertori, dominano intere regioni. I tedeschi non sono più capaci di esercitare un vero controllo. [...]. L'invio in Ger­ mania però continua, e questo fatto aumenta le diserzioni, specialmente fra i carabinieri, di cui i tedeschi sempre me­ 95

no si fidano. Frequentissimo è il caso di giovani che si pre­ sentano al servizio militare per farsi vestire ed armare, e poi friggono, raggiungendo le formazioni partigiane. Anche interi reparti attrezzati si danno alla macchia. Ad Ivrea, ad esempio, metà del battaglione San Marco, composto di soldati della marina, è passato in blocco ai partigiani. L’al­ tra metà è stata disarmata per timore che seguisse la pri­ ma." Questo notevole sviluppo del movimento partigiano portò alla costituzione, il 9 giugno, del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà (C.V.L.). Fino ad allora un'azione unitaria, in campo militare, aveva scritto il Lon­ go nel maggio, era stata esercitata dai Comitati militari del C.L.N., un’azione molto utile, anche se talvolta non sufficientemente efficace, perché si era trattato di organi pa­ ritetici, “essenzialmente politico-militari,” che non potevano sostituire organi esecutivi di carattere militare. Il Longo stesso, perciò, aveva espresso l’esigenza di un Comando uni­ ficato, con una differenziazione gerarchica, in grado non so­ lo di stabilire il coordinamento delle azioni, ma anche di "chiedere e distribuire i materiali e le forze necessarie al coordinamento dello sforzo”; infine, era necessario un co­ mando che rappresentasse il movimento partigiano nei suoi rapporti con il governo nazionale. Questo Comando unificato fu appunto il C.V.L., voluto anche, in gran parte, dalla convinzione della imminenza di avvenimenti decisivi, data la liberazione di Roma e data pure la rapida avanzata alleata verso il nord: infatti, nel­ la Circolare n. 1 i compiti del nuovo Comando erano cosi definiti: "Il Comando Generale per l’Italia, pur non pre­ sumendo di dirigere le azioni delle varie unità, nell’auto­ nomia e nell’iniziativa delle quali riconosce un elemento di quella rapidità e agilità che devono caratterizzare l’azione partigiana, farà opera però affinché le singole azioni siano sempre più dirette verso un movimento d’insieme, organiz­ zato secondo i migliori criteri dettati dall’esperienza. Farà avere, a questo proposito, a tutti i Comitati e Comandi di­ pendenti delle istruzioni soprattutto per quanto riguarda la preparazione organizzativa e tecnica dell’insurrezione na­ zionale.” Sembrava venuto, pertanto, il momento di fare la "guerra grossa” ed il C.V.L. doveva coordinare le sparse azioni verso un movimento d'insieme e preparare l’insur­ rezione nazionale; era quanto avevano sempre auspicato i giellisti, per mezzo del loro esponente militare, il Parri, ed abbiamo visto dalle parole del Longo come i comunisti fos­ sero molto favorevoli al passaggio dai precedenti Comitati 96

al nuovo Comando. Ed appunto il Parri ed il Longo, come rappresentanti dei due partiti che davano alla lotta il mag­ gior contributo, ottennero una posizione di rilievo perché ad essi fu assegnata la sezione operazioni, che era la più importante fra tutte le sezioni istituite (queste erano: assi­ stenza, informazioni e controspionaggio, amministrazione, aviolanci, trasporti e collegamenti, prigionieri, alleati, fal­ si). Quasi subito il Comando militare cominciò a funzio­ nare con "tutti i servizi attrezzati,” fungendo, come scrive il Valiani, "da Comando strategico e da Stato Maggiore”; esso "si faceva ubbidire da tutte o quasi le bande delle sei regioni settentrionali, provvedeva a instaurare la discipli­ na e persino i Tribunali militari, là dove non esistevano ancora, aveva il suo controspionaggio, emetteva quotidia­ ni bollettini di guerra, era in rapporti organici con le mis­ sioni alleate.” Il C.V.L. era, nel tempo stesso, un organo militare e po­ litico perché il movimento d’insieme che diceva di voler promuovere non poteva nascere senza una visione comples­ siva della lotta partigiana; del resto, questa sua natura po­ litica e militare corrispondeva al processo allora in atto nelle formazioni che andavano militarizzandosi e politiciz­ zandosi. In un rapporto sulle formazioni "Giustizia e Li­ bertà" in Piemonte, era detto "Molti 'militari puri’ (ufficia­ li e sottufficiali del disciolto esercito, carabinieri, ecc.), tro­ vatisi a contatto con altre formazioni politiche e compren­ dendo l’utilità dell’inquadramento in una grande organizza­ zione unitaria, optarono spontaneamente per ‘Giustizia e Libertà’ accettandone i presupposti politici. Parallelamen­ te al ‘politicizzarsi’ di 'militari puri’ (per il che si deve in­ tendere non la propaganda di un partito, ma il tentativo di rieducare il popolo italiano diseducato da vent’anni di fascismo, e di creare dei combattenti consapevoli degli sco­ pi della loro lotta e del valore del loro sacrifìcio), si veri­ ficava il fenomeno inverso del progressivo ‘militarizzarsi’ degli attivisti politici che avevano costituito i quadri delle prime bande e che vennero man mano formandosi una più robusta preparazione tecnica. Cosi, i reparti, sempre me­ glio amalgamati, seppero resistere, nella più parte dei casi, allo sbandamento anche nelle situazioni più critiche, e, do­ ve un rastrellamento piu duro li metteva temporaneamen­ te in crisi, non tardarono a ricostituirsi.”

11.4

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La minaccia del Kesselring e la risposta del C.L.N.A.I.

"Dopo l’abbandono di Roma,” scrive il Kesselring nel­ le sue Memorie di guerra, “si ebbe un inasprimento del­ l’attività partigiana, in misura per me affatto inattesa. Que­ sto periodo di tempo può esser .considerato come la data di nascita della ‘guerra partigiana illimitata’ in Italia.” L’af­ flusso di nuovi elementi alle bande avrebbe portato ben presto queste a circa centomila uomini, sicché la guerra partigiana divenne per il comando tedesco "un pericolo reale, la cui eliminazione era un obiettivo di capitale im­ portanza.” Secondo il Kesselring, una cosi notevole esten­ sione del movimento fu dovuta soprattutto agli appelli di Badoglio (il quale, però, non era piu capo del governo) e del maresciallo Alexander, che “incitavano alla guerriglia e proclamavano il prossimo annientamento delle armate te­ desche in Italia.” Si capisce, pertanto, il proclama del co­ mandante tedesco reso noto il 27 giugno, in cui si afferma­ va che il generale inglese Alexander, con il suo ordine di colpire i germanici alle spalle, si era messo al bando di ogni onore militare ed in cui si minacciavano dure rappre­ saglie alle famiglie italiane se si fosse eseguito quell'ordi­ ne: “Finora ho dimostrato con i fatti che il rispetto dei principi umani è una cosa di logica normale. Come capo responsabile, però, non posso più esitare a impedire, con i mezzi più repressivi, questo spregevolissimo e medioeva­ le sistema di combattere. Avverto che userò immediata­ mente questi mezzi e ammonisco badogliani e sovversivi a non continuare nel contegno tenuto sinora.” Tenuto sinora: il che voleva dire che i badogliani e i sovversivi non avevano aspettato l’ordine di Alexander per attaccare i tedeschi: in verità, la forza raggiunta dal mo­ vimento partigiano poneva necessariamente il problema del­ la sua eliminazione. Ecco, perciò, la violenta minaccia che stava ad indicare la fine dei tentativi di pacificazione, delle amnistie: le formazioni, se non si fossero astenute da ogni azione, sarebbero state annientate, ed in quei giorni II par­ tigiano alpino, organo dei giellisti piemontesi, dava notizia di un rapporto tenuto dal Buffarmi Guidi ai capi delle pro­ vince del Piemonte che voleva essere, in certo qual modo, l’applicazione del bando Kesselring. Infatti, il ministro del­ l’Interno disse: "In Piemonte il ribellismo domina sovra­ no. È assolutamente necessario, per evidenti ragioni poli­ tico-strategiche, stroncarlo definitivamente [...]. La popolazio­ ne civile che, nella più ampia maggioranza, favorisce i ban­ 98

diti, tutta quanta può e deve pagare. Bisogna creare il vuoto intorno ai ribelli, senza preoccuparsi in nessun modo di quanto possa costare, nella vita e negli averi, ai cosiddetti civili, valligiani o sfollati.” Pure in quei giorni, il 21 giu­ gno, un decreto legislativo fascista annunciava la pena di morte per la devastazione, il saccheggio e l’organizzazione di scioperi e di serrate. Era evidente, perciò, l’intento delle autorità, sia fasciste sia tedesche, di colpire la popolazione per isolare i partigiani e costringerli, in tal modo, a cedere; era una offensiva a fondo in concomitanza con l’avanzata alleata e che tendeva a liberare le retrovie da ogni pericolo. Ma il C.L.N.A.I. rispose subito al Kesselring ed al Mus­ solini, al primo dicendogli che il suo manifesto tradiva "manifestamente uno stato d’animo d’orgasmo e di paura per la prossima inevitabile sconfìtta nazista" (e proseguiva affermando che proprio i mezzi usati dai nazi-fascisti — case saccheggiate, villaggi arsi, uomini fucilati in massa o depor­ tati come schiavi, ecc. — spingevano sempre più numerosi gli italiani a battersi per la loro patria: "Il nemico trarrà dalle sue minacce conseguenze contrarie a quelle che si promette”; e concludeva chiedendo agli alleati di iscrivere il nome del Kesselring come numero uno fra i criminali di guerra e ordinando a tutti i cittadini di sabotare ed impe­ dire in ogni modo l’applicazione del bando), ed al secondo stabilendo che tutti coloro che avessero in qualunque modo applicato o fatto applicare le disposizioni del decreto legi­ slativo fossero perseguiti con le stesse pene. Ormai il C.L.N.A.I., dopo la costituzione del governo Bonomi, che era stato una emanazione del Comitato, si sentiva investito dei pieni poteri per l’Italia occupata e poteva, pertanto, parlare con tanta sicurezza. La politica internazionale della Resistenza Come si è visto, uno dei primi atti del nuovo ministero era stato quello di condannare le aggressioni fascistiche contro la Francia, la Grecia, la Jugoslavia e la Russia, di an­ nullare l’armistizio con la Francia e di rinsaldare i vincoli di amicizia e di sincera collaborazione con la vicina Jugo­ slavia. Questo sentimento di nuova comunione internazio­ nale fra i popoli era particolarmente sentito dal C.L.N.A.I. e dai partiti che ne facevano parte, alcuni dei quali, come quello d’azione, avevano ripreso, con vive speranze, il fede­ ralismo ottocentesco repubblicano e si battevano tenace­ 99

mente in suo favore anche per contrastare la politica di po­ tenza. Ed appunto a questo nuovo senso di fratellanza furo­ no ispirati gli atti del Comitato verso il popolo jugoslavo al quale aveva dichiarato, il 7 febbraio 1944, la volontà degli italiani di lottare insieme con esso "per la cacciata degli oppressori tedeschi e fascisti, allo scopo comune di raggiun­ gere l’unità e la libertà nazionali sulla base del principio democratico di autodecisione dei popoli a disporre di se stessi." Inoltre, aveva allora stabilito di istituire contatti con i Comitati di Liberazione sloveno e croato “per l’appog­ gio reciproco e per il coordinamento della lotta,” sicuro che attraverso una simile collaborazione si sarebbe giunti al fraterno e pacifico regolamento dei rapporti fra i due po­ poli. Alcuni mesi più tardi, il 10 giugno, quando cioè si assi­ steva ad un rapido svolgersi degli avvenimenti politici e mi­ litari, il C.L.N.A.I. rivolgeva un appello alle popolazioni del­ la Venezia Giulia, condannando la politica “di oppressione e di snazionalizzazione” seguita dal fascismo “a danno del diritto di vita civile delle popolazioni slave praticamente indifese,” e denunciando soprattutto la “vile aggressione ar­ mata dell’aprile 1941.” Ora, invece, la nuova democrazia ita­ liana doveva cambiare radicalmente tale politica ed abban­ donare la diffidenza che ancora alcuni, specie nelle provin­ ce di confine, oscurati dalla propaganda degli ultimi vent’anni, nutrivano verso gli slavi: “Deve essere oggi chiaramente affermato e deve diventare convincimento di ogni italiano che i problemi derivanti dalla vicinanza e dalla convivenza dei due popoli occorre siano affrontati e risolti in uno spi­ rito di mutua fratellanza e fiducia nel rispetto dei diritti na­ zionali di ciascuno, e che il popolo italiano riconosce la com­ pleta unità nazionale e l’indipendenza dei popoli jugoslavi che loro spetta di diritto e che vengono consacrate con il sacrificio del loro sangue migliore, conclamate dalle loro rappresentanze popolari e sanzionate dal supremo organo legislativo ed esecutivo della Jugoslavia federata e demo­ cratica. Le popolazioni italiane della Venezia Giulia, cui la presente esortazione è rivolta, non dimentichino che ogni popolo che si batte per la propria indipendenza e per le libertà democratiche, si batte anche per una causa comu­ ne a tutti i popoli.” L’adottare una simile politica diventava tanto più necessario in quanto solo in tal modo si sarebbe­ ro potuti affrontare i difficili e complessi problemi che mi­ nacciavano di dividere ancora una volta i due popoli; intan­ to, però, il C.L.N.A.I. poteva annunciare di avere ottenuto, 100

da parte jugoslava, il riconoscimento che era "prematuro ed inopportuno l’iniziare qualsiasi discussione sulle soluzioni territoriali derivanti dall’esistenza di popolazioni di naziona­ lità miste, problemi che [avrebbero dovuto] essere risolti sulla base del principio di nazionalità e di autodecisione, tenendo presente la necessità della collaborazione economi­ ca fra i popoli, efficiente garanzia degli interessi vitali delle singole nazioni, e della esigenza di una solidarietà nella ricostruzione dei paesi devastati dall’occupazione nazifasci­ sta”; inoltre, ogni soluzione doveva essere prospettata nel quadro di una più larga e generale sistemazione politica ed economica dell’Europa. Questi criteri di una pace duratura rendevano veramente “nocivo alla più efficace condotta del­ la guerra di liberazione” il soffermarsi a discutere soluzioni "ipotetiche ed arbitrarie." "Oggi è il giorno dell’azione,” con­ cludeva l’appello, esortando gli italiani della Venezia Giulia a costituire “senza indugio in ogni centro i Comitati di Li­ berazione Nazionale” e a dar vita “a Comitati antifascisti italo-sloveni e italo-croati, i quali, oltre ad organizzare la lotta comune contro i comuni oppressori, avrebbero [avuto] anche lo scopo di armonizzare gli interessi dei due popoli.” Questi concetti servirono di base per le trattative che si svolsero, nei mesi di giugno e luglio, fra il C.L.N.A.I. e il Co­ mitato interregionale del Fronte di liberazione nazionale per il litorale sloveno (P.O.O.F.), trattative che si conclusero con l’approvazione di un documento (19 luglio), in cui i due Co­ mitati salutavano con soddisfazione "l’unità di combatti­ mento” che si andava formando tra "le masse popolari di tutte e due le nazionalità, anzitutto nelle zone confinanti e nazionalmente unite": “Il C.L.N.A.I. ed il P.O.O.F. sono con­ vinti che i comuni sforzi di lotta dei combattenti delle due nazionalità nelle zone miste creeranno, attraverso la con­ creta coordinazione delle azioni comuni, le condizioni per la totale eliminazione dell’intolleranza nazionale, contribuendo all’amichevole convivenza fra i due popoli." I due organi di rappresentanza popolare convenivano nel ritenere “nociva ed inopportuna ogni discussione sulla delimitazione defini­ tiva e sulla futura appartenenza statale delle zone di nazio­ nalità miste,” poiché la soluzione definitiva dei, zionali e territoriali sarebbe stata possibile soltanto liberazione. Intanto, il P.O.O.F. constatava ^ht-il popolo ita­ liano aveva condannato "la politica imperiqlisfà,,del pasàagg to ed i misfatti del regime aggressore /e sna^onà^gzator«’i lottando contro i nazisti ed i fascisti, il che creferTe con­ dizioni che avrebbero permesso "l’amich^pje soluzióne‘de

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rapporti fra il popolo italiano e il popolo sloveno, nel rico­ noscimento anche degli interessi nazionali italiani.” Segui­ vano, poi, elencate in 8 punti, le condizioni per una effettiva cooperazione delle due nazionalità "nella lotta contro gli occupanti nazisti, contro i fascisti italiani e contro la guar­ dia bianco-blu slovena": collaborazione dei partigiani, degli operai nelle fabbriche (dove si dovevano fondare i Comitati di unità operaia o Odbori Delavake Enotnosti, C.U.O.-O.D.E.) e dei rappresentanti del Fronte di liberazione nazionale sloveno e del C.L.N. italiano, i quali avrebbero costituito il comune Comitato antifascista di coordinazione o Koordinacijski antifascistični Odbor (C.A.C.-K.A.O.). Questa serie di deliberazioni e di intese sollevò dubbi in alcuni partiti: infatti, la democrazia cristiana e il partito d’azione triestini, esprimendo la comune insoddisfazione per l’appello agli italiani della Venezia Giulia, affermarono che esso non aveva dimostrato una sincera comprensione delle esigenze della popolazione italiana e che aveva dimenticato come molti slavi fossero ancora animati da sentimenti di so­ praffazione nazionale nei riguardi degli italiani: di conse­ guenza, la sfiducia e la diffidenza di questi erano giustificate. Insomma, sembrò che il manifesto del C.L.N.A.I., come si disse a Trieste, fosse "permeato da una sostanziale incom­ prensione per le istanze politiche propugnate dal C.L.N. del­ la Venezia Giulia." A sua volta, il p.c.i. criticò l’accordo se­ gnato con il P.O.O.F., in una lettera al C.L.N.A.I. del 21 lu­ glio, perché gli parve che fosse affiorata la tendenza "a ri­ tenere che noi facevamo grandi concessioni senza nulla ot­ tenere in contropartita.” Cosa non vera, ché anzi un irrigidi­ mento del C.L.N. o del governo su tale posizione avrebbe potuto realmente mettere l’Italia in condizioni di dover ac­ cettare una decisione unilaterale dei vincitori: “La grande contropartita, della quale nel C.L.N.A.I. non si è tenuto conto, è quella di trattare e concludere un accordo su piede di parità, senza alcun intervento della posizione dei vinci­ tori, delle clausole dell’armistizio, ciò che ci permette di avere nella regione Giulia una posizione giuridica ben di­ versa da quella dell’Italia meridionale e centrale liberata, al momento della liberazione, colla presenza delle truppe del­ l’esercito del maresciallo Tito. Con la loro proposta [di un riconoscimento, in diritto ed in fatto, dell’unità e dell’indi­ pendenza nazionale del popolo sloveno e di tutti i popoli jugoslavi, che era stato fatto nel manifesto agli italiani della Venezia Giulia, ma non era stato inserito nell’accordo con il 102

P.O.O.F., perché alcuni partiti del C.L.N.A.I. avevano voluto evitare che si ripetesse il caso del 1918, quando i larghi ri­ conoscimenti dei nostri diritti nazionali, erano stati poi misconosciuti al momento della pace], gli amici sloveni hanno fatto ciò che ancora non è stato fatto da alcun movimento popolare e di liberazione di alcun altro paese, e noi abbiamo apprezzato questa grande cosa al suo giusto valore.” Anche con la Francia andavano allacciati nuovi rapporti, dopo il "colpo di pugnale” infertole nel giugno 1940, rapporti che solo la Resistenza avrebbe potuto stringere, forte del ri­ pudio della politica fascista: furono i giellisti del Cuneese, guidati da Duccio Galimberti e dal Bianco, in rappresentan­ za del Comando dell’Alta Italia, che riuscirono a stabilire i contatti. In diversi incontri, ora in territorio francese ora in territorio italiano, i rappresentanti dei due movimenti approvarono un documento — riportato dal Bianco — che rispecchiava gli ideali politici degli azionisti e del “chef de la 2me Région,” seguace convinto di un sincero “socialisme humaniste" (30 maggio). Infatti, vi si dichiarava che la re­ sponsabilità del recente passato politico e militare ricadeva sui rispettivi governi, e non sui due popoli, vittime entram­ bi di regimi di oppressione e di corruzione; vi si affermava la piena solidarietà franco-italiana nella lotta contro il fa­ scismo e il nazismo quale fase necessaria per l’instaurazio­ ne delle libertà democratiche e della giustizia sociale, in una libera comunità europea; ed infine vi si riconosceva che per l’Italia, come per la Francia, il regime migliore per assicurare le libertà democratiche stesse e la giustizia so­ ciale era quello repubblicano. In un documento addiziona­ le venne prevista una stretta collaborazione — che poi fu realizzata — tra le rispettive forze della Resistenza nella fase insurrezionale che avrebbe dovuto assicurare la conquista delle libertà democratiche. Evidentemente, i giellisti italiani ed i partigiani francesi avevano cercato di raggiungere con l'accordo non solo una più profonda intesa fra i due popoli, ma anche un reciproco aiuto per il raggiungimento delle comuni aspirazioni; ed era molto significativo il fatto che, dopo aver ripetutamente parlato di libertà e di giustizia e di forma repubblicana, si fosse prospettata una stretta colla­ borazione nella fase insurrezionale, quasi ad indicare che i due movimenti si sarebbero battuti proprio per raggiunge­ re quelle conquiste politiche.

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La conferenza di Bretton Woods (luglio 1944) per la rico­ struzione economica intemazionale

Un sintomo confortante per la ricostruzione economica del dopoguerra consisteva nella decisione, da cui sembrava­ no animate l’Inghilterra e gli Stati Uniti, di evitare, median­ te il ritorno al libero scambio, gli errori e gli inconvenienti che avevano prima portato alla crisi del 1929 e poi allo scon­ volgimento dei rapporti internazionali negli anni successivi: il vice-presidente americano fin dal 1943 aveva auspicato la formazione "di una nazione federale mondiale su basi eco­ nomiche," ed il Morgenthau, sottosegretario al Tesoro, af­ fermò, nel luglio 1944, che “Tunica genuina salvaguardia dei propri interessi [stava] nella cooperazione internazionale,” e che “la sola forma intelligente di egoismo nazionale [consi­ steva] nell’accordo internazionale su basi collaborazionistiche.” Appariva chiara, pertanto, l'intenzione di evitare che il tentativo di ogni singolo paese di sostenere il proprio mercato interno ed i prezzi variando il cambio ed il saggio di sconto da parte di ogni banca centrale (Pietro Ferraro in Mercurio), favorisse il sorgere di tendenze protezionistiche e di nazionalismi esasperati. Questa intenzione, che implicava il riconoscimento di una propria responsabilità in quanto era avvenuto fra le due guerre e, in particolare, fra il 1930 e il 1940, portò alla deci­ sione, presa nella conferenza di Bretton Woods (luglio 1944), di creare due grandi organismi economici internazionali, il “Fondo internazionale di stabilizzazione” e la “Banca inter­ nazionale di ricostruzione e sviluppo” (quest’ultima entrò in funzione più tardi, il 27 dicembre 1945). A Bretton Woods trionfò — come ha scritto Paolo Simeoni in Politica estera — la tesi statunitense, della creazione di un nuovo tipo di sistema valutario basato pur sempre sull’oro, rispetto alla tesi britannica, che proponeva invece la creazione di un “quantum” di valuta internazionale che non fosse né deter­ minato in maniera imprevedibile ed imprecisabile (come avviene per Toro) né esposto alle ampie fluttuazioni deri­ vanti dalla politica aurea seguita dai vari paesi, un “quan­ tum, cioè, regolato in base alle reali esigenze del commer­ cio mondiale, suscettibile altresì di contrazione ed espan­ sione, per fronteggiare le tendenze inflazionistiche e defla­ zionistiche della effettiva domanda mondiale.” Ma l’accede­ re alla tesi britannica — sostenuta dall’illustre economista inglese, il Keynes — avrebbe significato, per gli Stati Uniti, rinunciare ad una soddisfacente possibilità di impiego dei 104

loro 23 miliardi di dollari in oro (il 90% circa dell'oro mon­ diale), e, pertanto, essi imposero il loro punto di vista, dan­ do una nuova prova della supremazia che avevano raggiun­ to sulla alleata Inghilterra, dove questo fatto generò malu­ more e pessimismo, di cui si fecero espressione soprattutto i deputati conservatori. Il "Fondo internazionale di stabilizzazione" sarebbe stato costituito dall’oro e dalle monete nazionali dei paesi aderen­ ti, e si proponeva di stabilizzare il corso dei cambi e di for­ nire ai paesi a debole valuta la possibilità di acquistare le divise necessarie per saldare le loro posizioni debitorie. Ogni paese sarebbe stato autorizzato a richiedere al Fondo le divise estere di cui avesse avuto bisogno per far fronte ai suoi impegni commerciali, nei limiti dei suoi diritti determi­ nati dalla “quota” che gli era stata assegnata, in cambio di moneta nazionale o di oro. Le divise richieste sarebbero sta­ te attinte dalle quote di valuta dei vari paesi. Le difficoltà al funzionamento del Fondo avrebbero potuto nascere, come ha osservato il Simeoni, dal fatto che non ci si era voluti interessare del problema dell’indebitamento internazionale o delle situazioni di squilibrio finanziario interno provocate dalla guerra; di conseguenza, non si era tenuto conto che il mondo non era economicamente sano, bensì sconvolto e per metà distrutto. Inoltre, un’altra difficoltà avrebbe potuto sorgere dalla esiguità dei crediti concessi: YEconomist disse la distribuzione sproporzionata (incongruous), perché al Re­ gno Unito era stato assegnato un credito di 425 milioni di dollari quasi uguale a quello della Russia (400 milioni); alla Cina di 180 e alla Francia di 150. Sproporzionata anche in rapporto alle esigenze dei vari paesi, poiché, ad esempio, la Gran Bretagna avrebbe dovuto affrontare un deficit che si aggirava dai 4 ai 5 miliardi di dollari con 425 milioni; c’era il pericolo che, per mantenere un efficiente equilibrio della propria bilancia dei pagamenti, alcuni popoli si vedessero costretti ad una politica deflazionistica e ad una contrazio­ ne degli scambi internazionali, il che avrebbe finito con il danneggiare gli stessi paesi a forti risorse e con il compro­ mettere 1’esistenza dell’accordo monetario internazionale (Simeoni). Tuttavia, per quanto riguardava il passaggio dall’economia di guerra a quella di pace avrebbe dovuto funzionare la Banca di ricostruzione e sviluppo, autorizzata a racco­ gliere fondi nei paesi membri ed a consentire, poi, che il ri­ cavo del prestito ottenuto potesse venire convertito nella va­ luta di qualsiasi altro membro. In tal modo, la Banca avreb105

be potuto concedere crediti in valuta estera per quell’am­ montare ritenuto indispensabile dai vari paesi per i loro acquisti all’estero in materie prime ed in macchinari neces­ sari alla ricostruzione. Cosi, questo organismo avrebbe no­ tevolmente favorito il risanamento delle economie distrutte dalla guerra, sebbene anche in questo caso potessero na­ scere dei dubbi, data l’esiguità del capitale della Banca, 10 miliardi di dollari, mentre solo in Italia i danni erano di alcune decine di miliardi. Erano tutte perplessità legittime che nascevano dalla consapevolezza di uno sforzo ancora inadeguato alla vastità delle esigenze, ma la cosa più im­ portante era che si fossero capiti gli errori commessi dopo il 1930 e che ci fosse la precisa ed esplicita volontà di non cadere più in essi.

La liberazione di Firenze

Le truppe alleate, durante il mese di luglio, progredirono verso il nord, ma subendo un evidente rallentamento, che si fece particolarmente sensibile quando giunsero nei pres­ si di Firenze. Il 25 luglio le avanguardie giunsero a 16 chi­ lometri da questa città, ed il 4-5 agosto reparti sud-africani e britannici dell’VIII Armata entrarono nei suoi sobborghi, attestandosi sulla riva meridionale dell’Amo. I tedeschi te­ nevano quella settentrionale e solo 1Ί1 agosto si ritirarono perché minacciati di aggiramento dalle colonne nemiche che stavano procedendo oltre Empoli e Pontassieve. In Toscana gli anglo-americani trovarono una situazione ben diversa da quella meridionale: i C.L.N. qui funzionavano effettivamen­ te e controllavano la situazione sia dal punto di vista mili­ tare sia da quello politico. Il Comitato toscano di Liberazio­ ne Nazionale (C.T.L.N.), dietro proposta del rappresentante azionista, Enzo Enriques Agnoletti, aveva assunto, fin dal 7 giugno, con un manifesto reso noto il 15, tutti i poteri di governo: sembrava quasi la prima concreta applicazione del manifesto del C.L.N.A.I. del 2 giugno: "Il C.T.L.N., come rap­ presentante del popolo, è l’unica autorità politica dell’Italia occupata [...]. Presso tutti i servizi pubblici, gli uffici, le banche, le industrie di qualche importanza devono imme­ diatamente costituirsi dei comitati formati da rappresen­ tanti dei vari partiti politici che possano rapidamente pro­ cedere alla nomina di consigli e commissioni di lavoratori, impiegati, tecnici, dirigenti. Questi consigli e commissioni avranno il compito di gestire l’industria, la banca, il servizio 106

pubblico nell’interesse del popolo e della lotta di liberazio­ ne.” Da questo manifesto, scrive il Ragghianti, data l’assun­ zione dei poteri di governo da parte del C.T.L.N., ma sem­ brerebbe che, in giugno, il Comitato fosse preoccupato so­ prattutto Jlei problemi sindacali, come dimostrarono ap­ punto alcune riunioni dedicate ad essi. Un passo avanti fu compiuto nelle riunioni del 21 e 26 luglio, nella prima delle quali "il C.T.L.N. deliberò di rendersi padrone con qualsiasi mezzo, di fatto, della città prima dell’arrivo degli Alleati; di rifiutare qualsiasi trattativa offerta eventualmen­ te dai tedeschi; di attaccare tedeschi e fascisti per rendere operante e incontestabile la volontà popolare di partecipare direttamente alla liberazione del Paese”; e nella seconda decise “di ottenere che il Comitato fosse riconosciuto dagli Alleati come l’unico rappresentante del popolo toscano, e che essi riconoscessero le disposizioni prese dal Comitato per la riorganizzazione democratica della vita civile." In quest’ultima riunione vennero ricostituiti la Giunta co­ munale, con il sindaco e i due vice-sindaci, l’Amministrazio­ ne provinciale, la Camera di Commercio, il Commissariato provinciale dell’alimentazione, ecc. Adesso, veramente, il C.T.L.N. aveva assunto tutti i po­ teri di governo anche nel campo politico, creando le am­ ministrazioni municipale e provinciale e mostrandosi riso­ luto a difendere queste sue designazioni di fronte agli al­ leati. Concluse la riunione del 26 un solenne impegno di tutti i partiti di “non accettare nessuna carica senza previa autorizzazione del C.T.L.N.,” impegno che riconosceva solo nel Comitato la fonte di ogni autorità. Gli anglo-americani perciò trovarono a Firenze questi uomini consapevoli della loro dignità, che avevano combattuto il nazi-fascismo con­ tinuando una vecchia e mai sospesa lotta in nome dei prin­ cipi democratici, e che, perciò, chiedevano ed esigevano ri­ spetto; e gli alleati compresero e mostrarono di apprezzare, sebbene un po’ a malincuore, questo primo notevole esem­ pio di autogoverno e di capacità organizzative. Infatti, il Ragghianti, alla fine di settembre, scriveva al Valiani che gli anglo-americani avevano accolto le amministrazioni no­ minate dal C.T.L.N. "con ammirazione pur renitente”; ma malgrado fossero giunti con le loro liste “di fiduciari (no­ bili, fascisti e semifascisti, conservatori, ecc.)” avevano do­ vuto "riconoscere pienamente tutte senza eccezione le no­ mine" del Comitato. Il quale stabili, il 16 agosto, “con decre­ to proprio,” di consegnare "i poteri di governo provvisorio” agli alleati. Sicché appare giusto quanto ha scritto più tardi 107

E. Enriques Agnoletti, cioè che il problema del riconosci­ mento del Comitato di Liberazione del Nord, dopo Firenze, da problema teorico, quale era stato fino allora, divenne un problema pratico: "A Firenze gli Alleati sono entrati impre­ parati a collaborare con i Comitati di Liberazione e a ri­ conoscerli, e ne sono usciti preparati a riconoscerli e a col­ laborare con essi come prassi normale da non porsi nep­ pure in discussione.” Né, in verità, gli anglo-americani risparmiarono le lodi al Corpo italiano di liberazione che combatteva al loro fian­ co ed ai partigiani: il colonnello Ship disse che i patrioti di Firenze si erano dimostrati "molto bravi e di grande aiuto”; cosi pure il colonnello Mac Carthy ne riconobbe il contribu­ to alla comune lotta contro i nazi-fascisti e proclamò uno dei "principali doveri" degli alleati quello "di considerare in­ dividualmente i membri di queste bande, quando la lotta sarà finita”; il generale Browning, tributando calorose lodi al Corpo italiano di liberazione, affermò che aveva "combat­ tuto bene e con successo”; il maggiore McIntosh, che aveva diretto la lotta oltre l'Amo in collaborazione con il C.L.N. e con il C.V.L., fu esplicito, nel dicembre 1944, con il presi­ dente del C.L.N.A.L, Pizzoni, a Roma, "nel lodare l’attività organica e solidale del C.L.N. e lo spirito combattivo ed il coraggio dei V.L.” “L’episodio di Firenze,” cosi commen­ tava il Pizzoni, scrivendo al Comitato di Milano, "ha avu­ to indubbiamente molto favorevole influenza sul migliore apprezzamento che ora gli Alleati fanno sui C.L.N. e sulle speranze che essi ripongono nei C.L.N. del Nord.” Infine, lo stesso generale Alexander lodò i partigiani per il loro co­ raggio, la loro tenacia e abilità, soggiungendo: “I patrioti italiani ed i migliori cittadini nelle zone recentemente libe­ rate possono essere di grande aiuto al Governo militare al­ leato dando vita ad organismi rappresentativi che aiutino gli ufficiali del Governo militare alleato il più presto pos­ sibile, prima del loro arrivo [...]. Io lascerò l’amministrazio­ ne della città nelle mani dei migliori cittadini, che non sa­ ranno più sotto il dominio della tirannide fascista.” Anche la stampa britannica mise in rilievo il nuovo clima politico della capitale toscana: il Times scrisse: “Firenze è stata il teatro di un esperimento spontaneo di autogoverno, che può avere importanza considerevole per determinare quale sarà il sistema politico che in definitiva prenderà il posto del fascismo [...]. L’episodio di Firenze ha una portata mol­ to più vasta di quella della riforma del governo locale nel suo senso stretto: esso riguarda il problema dell’autono­ 108

mia regionale"; VEconomist sostenne che i partigiani italiani avevano garantito un sistema politico stabile ed una effi­ ciente amministrazione facendo trovare pronta tutta la struttura del governo locale. Dopo questi riconoscimenti alleati non poteva mancare quello del nostro governo (a di­ re la verità, il Ragghiami afferma che il C.T.L.N. non trovò “alcun ausilio nel governo, anzi recisa contrarietà"), il qua­ le infatti venne, il 6 settembre, dallo stesso presidente del consiglio, che rivolse — con una certa retorica, a dire la verità, alquanto superata e certamente indegna degli sforzi sopportati dai partigiani — un messaggio ai patrioti espri­ mendo loro la riconoscenza degli italiani e l’apprezzamen­ to degli alleati per lo “sforzo eroico con cui affrontavano la morte per il riscatto della patria e per la liberazione del mondo dalle mortificanti dominazioni del fascismo e del nazismo.”

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Capitolo terzo

L’insurrezione nazionale

La venuta del Churchill in Italia I comandanti anglo-americani concessero questi ricono­ scimenti anche perché avevano effettivamente bisogno del concorso e dell’aiuto dei partigiani, soprattutto da quando era stata decisa, il 2 luglio, l’operazione Anvil sulle coste del­ la Francia meridionale, decisione che aveva portato ad una notevole diminuzione degli effettivi alleati (la V Armata del gen. Clark discese da 249.000 uomini a 153.000), mentre an­ che le forze aeree subivano una grave amputazione doven­ dosi dividere tra i due fronti, dell’Italia e della Provenza. Invece, il Kesselring aveva ricevuto rinforzi e nell'agosto, sulla linea gotica, poteva disporre di 26 divisioni germani­ che, due neo-fasciste ed una italo-slovacca adibita ai lavori deH’Organizzazione Todt (gli stavano di fronte 23 divisioni). L'indebolimento degli anglo-americani minacciava di far fallire la grande offensiva verso la pianura padana e poi in direzione dell’Istria e di Vienna a cui il Churchill, come si è visto, teneva molto, tanto da renderlo recisamente con­ trario all’operazione Anvil (o Dragoon come poi fu detta), che cercò in ogni modo di impedire. Certo, la guerra stava assumendo sviluppi poco graditi al premier britannico, in particolare nel settore del Mediterraneo, che era, poi, quello che più gli importava, e questo non solo in Italia, ma anche nei Balcani, dove oltre al pe­ ricolo di una rapida avanzata russa, c’era l’esercito di libe­ razione jugoslavo che, sotto la guida del maresciallo Tito, si andava orientando sempre più verso l’Unione Sovietica e dove la Grecia era sempre più sottoposta alla pressione del­ le forze comuniste raccolte nelle due organizzazioni dell’E.L.A.S. e dell’E.A.M., alle quali non riusciva ad opporsi validamente la resistenza non comunista dell’E.D.E.S. e dell’E.K.K.A. Per tutti questi motivi, il Churchill decise, al­ l’inizio di agosto, di venire in Italia per "sciogliere il nodo politico di cui Roma era il centro.” A Napoli ebbe colloqui 110

con Tito, in cui questi lo rassicurò dicendogli di non avere "alcun desiderio," cosi riferisce il Churchill nelle sue Me­ morie, "d’introdurre il sistema comunista in Jugoslavia, non foss’altro perché la maggior parte dei paesi europei avrebbe probabilmente avuto dopo la guerra regimi demo­ cratici." Ma aggiunse pure che "lo sviluppo degli avveni­ menti nei piccoli paesi dipendeva dai rapporti fra le grandi potenze," lasciando capire che se la Jugoslavia fosse stata liberata dalla Russia, non avrebbe potuto opporsi alla pre­ dominante influenza di questa. Tuttavia, il Churchill usci da questi colloqui abbastanza soddisfatto; poi, si recò in Cor­ sica per dimostrare come, pur avendola avversata, si inte­ ressasse all’operazione Dragoon; ma il suo pensiero era fisso al fronte italiano, ed egli era sempre più assalito dal timore di non poter giungere a Vienna prima dei russi. Il 31 agosto, scriveva al feldmaresciallo Smuts di sperare ancora di riu­ scire ad “aggirare e spezzare la linea gotica, irrompere nel­ la valle del Po, e, finalmente, avanzare attraverso Trieste e la sella di Lubiana su Vienna.” A tal fine era andato, nei giorni precedenti, a trovare i generali Alexander e Clark nella speranza di poter assistere all’inizio della grande of­ fensiva. Ma avendo subito, questa, un lieve rinvio, tornò a Roma dove si incontrò con il presidente del consiglio gre­ co, Papandreu. La situazione greca era stata "una delle principali ragioni che [lo] avevano indotto a venire in Ita­ lia,” ed egli fu contento di sentirsi appoggiato dal Roosevelt nell’intento di mandare in quella penisola un corpo di spe­ dizione (10-12.000 uomini con un po' di carri armati, di can­ noni e di autoblindo) per impedire che ai tedeschi si sosti; tuissero i comunisti. Ancora a Roma ebbe colloqui con il Bonomi, con il Bado­ glio, con il Luogotenente, con i capi di tutti i partiti e, in­ fine, con il papa, un incontro quest’ultimo che sembrerebbe fosse stato da lui sollecitato per trovare aiuti nella lotta contro il comuniSmo: infatti, il pericolo comunista fu il tema che “occupò la maggior parte dell’udienza, cosi come era accaduto al suo predecessore diciotto anni prima [...]. Io,” scrive il Churchill, "avevo sempre provato per esso la più viva antipatia; e, se do,vessi aver l’onore di un’altra udienza col Sommo Pontefice, non esiterei a ritornare sullo argomento." Intanto, però, cercava di ridestare l’interesse del Roosevelt per il settore italiano, in modo da poter te­ nere in vita il piano dell’avanzata su Vienna, ma la risposta del presidente americano fu, per lui, deludente perché que­ sti gli disse che il gen. Alexander avrebbe potuto ottenere 111

notevoli risultati con le forze che aveva a sua disposizione e gli rifiutò altri aiuti, essendo impegnato a fondo in Fran­ cia. Pertanto, il Churchill partiva dall’Italia con l’amarezza di non aver potuto assistere a quel successo "di cui aveva­ mo cosi maledettamente bisogno. L’Italia non doveva essere interamente liberata per altri otto mesi; la puntata dell’ala destra in direzione di Vienna ci era negata; e, salvo in Gre­ cia, la nostra capacità militare di contribuire alla liberazio­ ne dell’Europa sud-orientale era finita.” Ma, prima di partire, rivolgeva un messaggio al popolo italiano, in cui, dopo aver fatto una breve lezione sulle ca­ ratteristiche del regime liberale, diceva che sarebbe stato "un errore gravissimo’’ se l’Italia, uscita “da un lungo pe­ riodo di tirannide finito in un disastro spaventoso [...], si [fosse lasciata] prendere di nuovo tra gli artigli del sistema totalitario fascista, in qualunque forma esso [potesse] pre­ sentarsi”; da ciò la necessità di stare in guardia "contro i gruppi insidiosi che [cercavano] di afferrare il potere" e di adoperarsi per preservare la libertà. Senza dubbio, questo voleva essere un avvertimento agli italiani ed al loro go­ verno a vigilare contro gli eventuali attacchi delle sinistre e, in particolare, del partito comunista, nel quale il Churchill sospettava l’intento di approfittare di ogni situazione favo­ revole. Il messaggio coincideva, stranamente, con le voci in quel periodo diffuse in Inghilterra e negli Stati Uniti che dicevano i due governi alleati scontenti del ministero Bonomi; qualche giornale parlava anche di un ritorno di Ba­ doglio alla Guerra sotto la presidenza dell’Orlando e, ad ogni modo, sembrava quasi imminente un nuovo gabinetto spostato verso destra. Sicché, la domanda che si poneva YEconomist, dopo aver citato le parole di elogio dell’Alexarider per i partigiani (“Forse sta per uscire da questi contatti qualche gesto favorevole al governo italiano, alle forze dei patrioti, al popolo italiano? Saranno loro rivolte benevoli parole nella lotta per ritrovare le vie della libertà?"), erano destinate a rimanere senza risposta. Dalla conferenza di Quebec a quella di Mosca (settembre e ottobre 1944)

Il fallimento delle speranze di una rapida avanzata in Italia, fece nascere nel Churchill, il quale non voleva ri­ nunciare ai suoi piani balcanici, il desiderio di raggiungere l’intento in altro modo: “ero estremamente ansioso,” con112

fessa nelle sue Memorie, "di precedere i russi in certe zo­ ne dell’Europa centrale.” La cosa diventava urgente perché negli ambienti militari alleati si era convinti che la Germa­ nia non avrebbe potuto resistere ancora a lungo: Parigi era stata liberata e cosi pure vaste zone della Francia; i sovie­ tici stavano per riprendere la loro poderosa avanzata; la Grecia era quasi tutta libera e le "armi segrete" (Le Vi — Vergeltungswaffe o arma di rappresaglia — che i tedeschi avevano cominciato a lanciare sull’Inghilterra nel giugno 1944) erano state quasi del tutto sconfitte. Il Churchill, però, si opponeva ad ogni eccessivo ottimismo, ed ebbe ragione, ma allora questo suo stato d’animo era determinato dal fat­ to che aveva bisogno ancora di un po’ di tempo per portare a termine i suoi disegni. Per coordinare con gli amici ameri­ cani e "afferrare in pieno il significato dei numerosi proget­ ti che stavano dinanzi a noi," fu convocata la conferenza di Quebec, iniziata il 13 settembre. Qui, il primo ministro in­ glese fece una relazione generale sull’andamento della guer­ ra e, a proposito dell’Italia, disse “d’aver sempre visto con favore un’avanzata dell’ala destra per assestare alla Germa­ nia una pugnalata all’ascella adriatica: il nostro obiettivo avrebbe dovuto essere Vienna,” ma non essendo ciò più pos­ sibile, affermò di aver riflettuto a lungo sulla opportunità di favorire l’avanzata lungo la penisola conquistando l’Istria e occupando Trieste e Fiume mediante uno sbarco: un’altra ragione per tale operazione, aveva fatto osservare, "era il rapido straripamento delle truppe russe nella penisola bal­ canica e la pericolosa diffusione dell’influenza sovietica in tale regione." In questa conferenza il Churchill ebbe la soddisfazione di vedere approvato il suo punto di vista dai capi dello Stato Maggiore combinato, punto di vista che consisteva anche nell’impegno a non ritirare nessuna grande unità dall’Italia fino a quando il gen. Alexander non fosse riuscito ad inva­ dere la valle del Po. Peraltro, nel suo pensiero lo sbarco in Istria era sempre subordinato allo sperato sfondamento del­ la linea gotica, ed era naturale che cosi fosse perché altri­ menti quelle truppe sarebbero venute a trovarsi isolate e senza possibilità alcuna di soccorso. Cosi, egli continuava a nutrire la fiducia che le due armate schierate in Italia po­ tessero infliggere una definitiva sconfìtta al nemico e avan­ zare rapidamente verso il confine orientale. Ma la sua sod­ disfazione durò poco: infatti, egli abbandonò Quebec il 17 settembre ed il 24 cominciava la nuova, grande offensiva russa con una penetrazione in territorio jugoslavo a sud 113

del Danubio. La Romania e la Bulgaria furono ben presto sotto il controllo sovietico e lo stesso Stalin gli scriveva, il 29 settembre, che la sua azione aveva l’obiettivo di fare uscire l’Ungheria dal conflitto: il comuniSmo alzava “il ca­ po,” commentava amaramente il Churchill, "riparato dallo strepito delle armi del fronte di battaglia russo. La Russia era la Liberatrice e il comuniSmo il Vangelo che essa re­ cava." Tale situazione rafforzò nel premier britannico l'inten­ zione — che già nutriva da un po’ di tempo — di parlare con Stalin "da uomo a uomo" per raggiungere un accordo sui Balcani. Perciò, dopo una breve preparazione, egli par­ tiva per Mosca con Eden il 5 ottobre, passando per l’Italia, dove rimase "molto addolorato” nel sentire che lo sfonda­ mento della linea gotica era ormai reso impossibile sia dalla ostinata difesa tedesca sia dalle piogge torrenziali e dai venti violentissimi. Appena arrivato, il 9, ebbe un primo colloquio con i dirigenti sovietici, Stalin e Molotov: "Il momento era favorevole per trattare," osserva il Churchill, il quale affron­ tò senza indugi il problema che lo assillava, scrivendo su un "mezzo foglio di carta” le sue proposte per la sistemazio­ ne di quella zona in cui i russi raggiungevano una influenza predominante: Romania maggioranza del 90% alla Russia e del 10% agli altri; Grecia 90% all’Inghilterra e agli Stati Uniti e 10% alla Russia; Jugoslavia 50% e 50%; Ungheria 50% e 50%; Bulgaria 75% alla Russia e 25% agli altri. Passò il foglietto a Stalin il quale vi tracciò sopra un grosso segno di "visto”: "La faccenda fu cosi completamente sistemata in meno che non si dica.” Ma un dubbio sfiorò allora il pri­ mo ministro inglese: “Non saremo considerati cinici per il fatto che abbiamo deciso questioni cosi gravide di conse­ guenze per milioni di uomini in maniera cosi improvvisata? Bruciamo il foglio.” Stalin, però, gli disse: "Conservatelo voi.” In realtà, sembrava di essere ritornati all'ancien régi­ me quando gli uomini erano soltanto anime, âmes, che ve­ nivano passate da uno Stato all’altro e che si compravano e si vendevano seguendo i calcoli di una politica d’equili­ brio basata su astratti rapporti di forza; astratti perché non si teneva alcun conto della volontà dei singoli popoli. Un tale sistema aveva potuto funzionare sino al 1814-15, ma dopo di allora, con l’accresciuta coscienza della dignità uma­ na e dell’indipendenza nazionale, sembrava che fosse di­ ventato impossibile. Ora, invece, veniva rinnovato da due fra le grandi potenze che lottavano contro i dittatori eu­ ropei, che avevano creduto, essi si, di poter trattare gli uo114

mini come cose. Come abbiamo detto, la concezione anti­ democratica delle zone d’influenza era stata la caratteristica soprattutto del nazismo, e diffìcilmente si sarebbe potuto immaginare che essa sarebbe risorta presso i suoi avversa­ ri. Naturalmente, era una concezione che toglieva libertà e autonomia sia alla zona sottomessa agli anglo-americani sia a quella sottomessa ai russi, perché in ciascuna di esse avrebbero dovuto esservi sempre governi bene accetti all’una o all’altra delle potenze dominanti. Senza dubbio, il Churchill aveva tutte le ragioni di esse­ re soddisfatto della sistemazione cosi rapidamente raggiun­ ta, ma, nei giorni seguenti gli sforzi di Stalin furono rivolti a far riconoscere la preponderanza sovietica anche in Un­ gheria e in Romania: il 12 ottobre il primo ministro britan­ nico scriveva ad Harry Hopkins: "Essi [i russi] s’interessa­ no molto dell’Ungheria, di cui parlano, erroneamente, come di un Paese un tempo confinante. Rivendicano la piena re­ sponsabilità in Romania, ma sono disposti a disinteressarsi di gran parte di ciò che accadrà in Grecia.” Questi desideri furono riconosciuti giusti dal Churchill, il quale in un mes­ saggio ai colleghi del suo ministero disse, lo stesso 12 ot­ tobre: "La Gran Bretagna ritiene giusto professare il massi­ mo rispetto per il punto di vista russo nei confronti di que­ sti due Paesi [la Bulgaria e la Romania] e per il desiderio sovietico di avere praticamente l’iniziativa nella direzione dei loro affari [...]. Poiché le truppe sovietiche stanno ora occupando il territorio ungherese, è naturale che ai russi spetti una maggiore influenza sulla politica di tale Pae­ se [...].” I colloqui di Mosca si concludevano il 17 ottobre, perciò, con la formale divisione in due sfere di influenza dell’Euro­ pa (“Gli accordi conclusi riguardo ai Balcani furono, ne son certo, quanto di meglio si potesse fare”), divisione, per­ altro, che forse valse a preservare in sèguito il vecchio con­ tinente da quella sorda e non poche volte aperta e dramma­ tica gara fra i due blocchi nelle zone dove essa non era sta­ ta applicata. Contrasti, quali poi avvennero in Corea, in In­ docina, nel Medio Oriente, in Africa, a Cuba, ecc., se fosse­ ro scoppiati in Europa avrebbero potuto facilmente por­ tare ad una terza guerra mondiale. Sembra, quindi, che il prezzo della pace pagato dalle popolazioni europee sia stata questa rinuncia alla libertà di disporre di se stesse, di cui una volta andavano tanto orgogliose.

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Dumbarton Oaks e l’organizzazione internazionale “dal nome ‘Le Nazioni Unite”’

La gioia per i risultati raggiunti (lasciando la Russia il Churchill scrisse a Stalin: “Eden e io partiamo dall’Unione Sovietica ritemprati moralmente e fisicamente dalle discus­ sioni avute von voi, Maresciallo Stalin, e con i vostri colle­ ghi. Questo memorabile incontro di Mosca ha dimostrato che non esistono questioni che non possano essere sistema­ te tra di noi allorché ci troviamo insieme per discutere in maniera sincera e confidenziale. L’ospitalità russa, che è giustamente famosa, ha superato se stessa in occasione del­ la nostra visita [...]’’) aveva fatto dimenticare al primo mi­ nistro inglese che uno dei motivi che l’aveva spinto ad af­ frontare il viaggio era stato anche quello di trovare, median­ te conversazioni dirette, il modo di superare le difficoltà sorte alla conferenza di Dumbarton Oaks, che si era svolta dal 21 al 28 settembre tra gli anglo-americani e i russi (dal 29 settembre al 7 ottobre fra i primi e i cinesi; la Francia, il cui governo formato dal De Gaulle, il 3 giugno, fu ricono­ sciuto de jure il 23 ottobre, non era stata invitata). Infatti, il Churchill nelle sue memorie scrive: "La conferenza di Dumbarton Oaks si concluse senza alcun accordo; io avver­ tivo più vivo che mai il bisogno di vedere Stalin...,” ma, a Mosca, era stato preso da problemi ben più gravi e del dissi­ dio rivelatosi a Dumbarton Oaks non si era affatto parlato. Quella conferenza era stata molto importante perché ave­ va elaborato una serie di proposte per l’istituzione di una organizzazione internazionale per il mantenimento della pa­ ce e della sicurezza, “dal nome ‘Le Nazioni Unite’.’’ Gli sco­ pi dell’organizzazione dovevano essere: "1) mantenere la pace e la sicurezza internazionale; e a tal fine prendere ef­ ficaci misure collettive atte a prevenire e allontanare le mi­ nacce alla pace, a sopprimere gli atti di aggressione o le al­ tre violazioni della pace, a ottenere con mezzi pacifici l’as­ sestamento o la composizione delle liti internazionali che siano capaci di condurre a violazioni della pace; 2) svilup­ pare i rapporti amichevoli fra le nazioni e prendere altre convenienti misure per il consolidamento della pace uni­ versale; 3) ottenere la cooperazione internazionale per la soluzione dei problemi intemazionali di ordine economico e sociale, e umanitari d'altro genere; 4) istituire un centro nel quale siano coordinati gli atti compiuti dalle nazioni nel per­ seguimento degli scopi umani.” Per raggiungere questi fini l’organizzazione — basata sul principio dell’uguaglianza as­ 116

soluta di tutti gli Stati amanti della pace — doveva avere come organi principali: a) un’Assemblea generale; b) un Consiglio di Sicurezza; c) una Corte intemazionale di Giu­ stizia; e d) una Segreteria. Inoltre, era prevista, per favo­ rire "la creazione di quelle condizioni di stabilità e di be­ nessere che sono necessarie alle pacifiche e amichevoli re­ lazioni fra le nazioni," la formazione, sotto gli auspici del­ l’Assemblea generale, di un Consiglio Economico e Sociale (cap. IX, sez. A, B, C e D), voluto soprattutto dagli Stati Uniti, gli inglesi e i russi dimostrandosi, fino allora, propen­ si a limitare l’organizzazione ai soli problemi di sicurezza. L’Assemblea generale avrebbe avuto “il diritto di espri­ mersi sui principi generali della cooperazione per il mante­ nimento della pace e della sicurezza intemazionale, com­ presi i principi per il regolamento del disarmo e degli ar­ mamenti; di discutere ogni questione attinente al manteni­ mento della pace e della sicurezza internazionale che [fosse] presentata da un membro dell’Organizzazione o dal Consi­ glio di Sicurezza; e di fare raccomandazioni riguardo a tali principi e questioni" (cap. V, sez. B). Il punto più importan­ te di questo capitolo era dato dalla sez. C, in cui, come dis­ se nel 1945 Antonio Basso su Lo Stato moderno, si era evitata la regola dell’unanimità prevista dall’art. 5 della So­ cietà delle Nazioni, una regola che si era rivelata dannosa ad una efficace e tempestiva azione, e si era adottata invece quella della maggioranza di due terzi per le decisioni più importanti, e della maggioranza semplice per le altre (il Consiglio Economico e Sociale, a sua volta, votava a sempli­ ce maggioranza). Nel cap. VI sul Consiglio di Sicurezza era lasciato, per il momento, in sospeso il problema della proce­ dura della votazione, poiché sia gli Stati Uniti sia l’Unione Sovietica erano contrari a riconoscere ad una semplice mag­ gioranza del Consiglio stesso il diritto di obbligarli ad un intervento militare (perché un’altra innovazione, rispetto al­ la Società delle Nazioni, ed innovazione anch’essa impor­ tante, era quanto stabiliva il cap. Vili, sez. B, art. V, se­ condo cui i membri dell'organizzazione avrebbero dovuto mettere “a disposizione del Consiglio di Sicurezza, dietro suo invito e in forza di una o più speciali convenzioni con­ cluse tra loro, forze armate, facilitazioni e aiuti nella mi­ sura necessaria allo scopo di mantenere la pace e la sicu­ rezza internazionale”; era anche istituito — sez. B, art. 9 — un Comitato di Stato Maggiore Militare, "col compito di consigliare e assistere il Consiglio di Sicurezza in tutte le questioni relative a ciò di cui il Consiglio di Sicurezza ha 117

bisogno per mantenere la pace e la sicurezza internaziona­ le, e relative all’impiego e al comando delle forze messe a sua disposizione, al regolamento degli armamenti o al pos­ sibile disarmo”). Nelle discussioni che seguirono fra le gran­ di potenze si riconobbe agli Stati membri permanenti del Consiglio — Cina, Francia, Inghilterra, U.R.S.S. e Stati Uni­ ti — il diritto di disporre del veto; ma le difficoltà sarebbe­ ro nate quando in un conflitto si fosse trovato implicato uno di questi quattro Stati. In tale caso, gli Stati Uniti pro­ posero che si abbandonasse il veto, ma Stalin non rinunciò alla unanimità, neppure in seguito ad una lettera personale del Roosevelt. Certo, il principio del veto era antidemocrati­ co e finiva con il negare ciò che era detto nel cap. II (Prin­ cipi) sulla uguaglianza sovrana di tutti gli Stati; ma anche gli U.S.A., pur avendo fatto pressione perché si rinuncias­ se ad esso, erano, in ultima analisi, convinti che non si potesse fare altrimenti, se Stettinius, dal 27 novembre se­ gretario di Stato al posto di Cordell Hull, scrisse che l’una­ nimità era "vitale per il funzionamento dell’organizzazione.” Del resto anche se si fosse adottato, per il Consiglio, il prin­ cipio della maggioranza, ben difficilmente avrebbero potuto essere adottati provvedimenti contro gli Stati Uniti o l’U.R.S.S. se fossero stati dichiarati aggressori. Inoltre, allo­ ra, proprio l’unanimità consentiva di sperare che l’accordo fra le quattro grandi potenze sarebbe stato duraturo, esclu­ dendo o rendendo difficile il sorgere di aspri contrasti. La stampa anglo-americana, peraltro, cercò di dissipare l'im­ pressione che sarebbe potuta nascere, di una organizzaziozione creata per il predominio dei quattro paesi membri di diritto, e scrisse che "la tecnica non avrebbe dovuto esse­ re quella di imporre la volontà delle grandi potenze agli al­ tri Stati, ma piuttosto quella di fornire i mezzi con cui que­ sti avrebbero potuto esercitare una influenza sulle decisio­ ni che ci si riprometteva di adottare." Un altro problema, che rimase in sospeso a Dumbarton Oaks, fu quello della ammissione, richiesta da Stalin, delle sedici repubbliche socialiste federate, ammissione giustifi­ cata dal fatto che esse avevano dato un grande contributo alla guerra. Stalin risaliva all’esempio del Commonwealth britannico, formato di tanti paesi ognuno dei quali dispone­ va di un voto; il problema non si poneva per gli Stati Uni­ ti, che d’altra parte, osserva il Basso, avevano già i loro Stati satelliti. Ma, pur con queste difficoltà e con questi problemi non risolti, le basi erano gettate per una organi­ ca e costruttiva politica del dopoguerra. 118

Il separatismo siciliano Fin dal 23 luglio 1943, cioè poco dopo lo sbarco alleato, era stato presentato al gen. Alexander un memoriale in cui i separatisti siciliani, rifacendosi alla lunga tradizione di autonomia della loro isola, avevano avanzato la richiesta che venisse riconosciuta l’indipendenza della Sicilia. Essi erano convinti che gli alleati avrebbero desiderato di assi­ curarsi, mediante il possesso di basi in Sicilia e in Sardegna (dove pure nacque un movimento separatista), un predo­ minio tale nel Mediterraneo da evitare, per il futuro, ogni altra eventuale minaccia. Giustificavano la loro richiesta so­ prattutto con la politica seguita dal regno d’Italia dal I860 in poi, politica che si era rivelata contraria agli interessi delle province meridionali, e anche con la storia della loro regione che era stata sempre una storia di gelosa difesa contro l’accentramento prima di Napoli e poi del Piemonte. Il Finocchiaro Aprile, capo del movimento indipendentista siciliano (m.i.s.), riuscì a far credere di avere l'appoggio ma­ teriale e morale degli anglo-americani, i quali effettivamen­ te guardarono con un certo favore il separatismo per la pos­ sibilità, che esso sembrava loro offrire, di reagire ad un pre­ dominio comunista sulla penisola, predominio molto temu­ to. Inoltre, il Finocchiaro Aprile ricattava (nei primi mesi del 1944) il governo italiano con la minaccia della disobbe­ dienza civile, che poteva riscuotere largo successo fra le masse popolari (come dimostrò, dopo, la campagna contro la lega), e che poteva servirsi della organizzazione militare clandestina dell’E.V.I.S. (Esercito volontario per l’indipen­ denza siciliana). Tuttavia, l’appoggio degli alleati non andava al di là di una moderata benevolenza ed il m.i.s. si rivelava troppo de­ bole anche per tentare un attacco allo Stato italiano, pur cosi privo di autorità e di forza per farsi valere. Perciò, in un appello rivolto, il 20 luglio 1944, agli anglo-americani era apertamente auspicata la loro occupazione dell’isola: “le nostre sofferenze, l’assoluta privazione della libertà, l’odio del Governo italiano verso di noi, ci fanno indubbiamente desiderare che gli Stati Uniti e l’Inghilterra rioccupino mi­ litarmente l’isola.” Ma nessun incoraggiamento più esplicito veniva dagli alleati, sicché 1Ί1 ottobre il presidente del con­ siglio, Bonomi, smentiva le voci di presunti appoggi, smen­ tita che era confermata, pochi giorno dopo, il 18, dall’amba­ sciatore britannico, sir Noel Charles, che disse tali voci de­ stituite di qualsiasi fondamento. Tuttavia, proprio in quei 119

giorni, il Finocchiaro Aprile, in un congresso di circa 200 rappresentanti del movimento (Taormina, 19-22 ottobre), in­ sisteva di nuovo sull’appoggio del Churchill e del Roosevelt, che, disse, avevano parlato della questione siciliana a Que­ bec, ed espresse il programma massimo dei separatisti affer­ mando che alla conferenza della pace i rappresentanti del­ la Sicilia avrebbero dovuto sostenere il diritto dell’isola alla indipendenza e alla costituzione di uno Stato sovrano con diritti pari a quelli delle altre nazioni libere; in tale occa­ sione la Sicilia avrebbe dovuto anche rivendicare la priori­ tà di diritto sulle colonie italiane. Il separatismo era alimentato da opposti ceti sociali, dai grossi proprietari terrieri e dai baroni da un lato e dai con­ tadini dall’altro, i primi perché volevano difendere i loro privilegi staccandosi dall’Italia in cui temevano la preva­ lenza di correnti di sinistra (avevano anche motivi econo­ mici ben precisi, chiariti da don Sturzo, il quale, nel settem­ bre 1943, aveva scritto che l’indipendenza siciliana poteva sembrare “un buon affare a quei mercanti che pensano che la futura sterlina e il futuro dollaro, in Sicilia, saranno più utili che la misera liretta italiana"), e gli ultimi perché, co­ me in tutte le precedenti crisi dello Stato, cercavano, an­ cora una volta, di procedere alla occupazione delle terre. Per rimediare a queste varie cause il consiglio dei ministri istituì, il 27 ottobre 1944, presso l’Alto Commissariato per la Sicilia, una Consulta presieduta dall’Alto Commissario e composta di 24 membri tra i rappresentanti delle organizza­ zioni economiche e politiche. Alla Consulta sarebbe spettato far proposte sull’ordinamento regionale dell’isola (lo Sturzo, nell’articolo citato su L’Italia libera di New York, aveva det­ to che il rimedio ai danni provocati dalla burocrazia centralizzatrice a tipo piemontese e dal fascismo padano-romagnolo andava ricercato nel regionalismo, "caratteristica del­ l’Italia risorta," e nella "formazione di una coscienza popo­ lare veramente politica e democratica," tale da impedire “a demagoghi, a capitalisti e a capi di Stato di manomettere i diritti della libertà popolare”: ma tale sua posizione rive­ lava l’antica, e mai sopita, polemica del cattolico contro lo Stato italiano), e dare il parere sui provvedimenti sotto­ posti al suo esame. Inoltre, il consiglio dei ministri stanzia­ va 500 milioni per lo sviluppo dell’industria siciliana e 1 mi­ liardo per la trasformazione del latifondo, i cui "piani im­ mediati di utilizzazione” erano affidati all'Ente di colonizza­ zione, che avrebbe dovuto sostituirsi ai proprietari, qualora questi non avessero dato sufficiente affidamento di seguirne 120

le direttive. Erano provvedimenti importanti e che, nelle condizioni in cui si trovava il governo di allora, rappresen­ tavano, senza dubbio, il massimo che si potesse fare, prov­ vedimenti che cercavano di sanare il malessere economico che era alla base del separatismo, il quale, proprio perché affondava le radici in una lontana tradizione, muoveva il po­ polo siciliano anche indipendentemente da motivi di natura economica, nella convinzione di dovere finalmente ribellarsi e vendicarsi di veri o supposti — più veri, forse, che sup­ posti — soprusi patiti.

Il proclama Alexander La divisione dell’Europa in due zone di influenza e l’as­ sicurazione, ottenuta dal Churchill a Mosca che Stalin non avrebbe cercato di straripare dalla sua zona, toglieva ogni importanza al fronte italiano. Ora, non c’era più alcun bi­ sogno di affrettarsi a giungere all’Istria o a Vienna per fer­ mare l'avanzata russa; di conseguenza, veniva anche a ces­ sare la necessità dell’aiuto dei partigiani nelle retrovie per favorire gli attacchi delle truppe alleate sempre più ridotte in effettivi (anche l’VIII Armata, verso la metà di ottobre aveva dovuto rinunciare a una parte delle sue forze, inviata in Grecia). Certo, in quei mesi, fra il settembre e l’ottobre, l’aiuto diretto e indiretto fornito dai patrioti italiani agli anglo-americani era stato notevole: diretto sulla linea di combattimento (e abbiamo visto i numerosi riconoscimenti alleati ai partigiani di Firenze), e indiretto perché diverse di­ visioni tedesche furono trattenute nell’Italia settentrionale da azioni che culminarono nella liberazione di intere zone. Nell’Ossola, a partire dal 10 settembre, cioè da quando si sperava ancora in una rapida avanzata degli alleati, e nella Carnia dal 26 settembre, si erano costituite Giunte provvi­ sorie di governo che avevano riorganizzato la vita locale in tutti i settori, dalla scuola all’assistenza medico-sanitaria, al servizio annonario, alla giustizia, ecc. Ma l’Ossola fu com­ pletamente dimenticata dagli anglo-americani che non rispo­ sero ai pressanti inviti di effettuare lanci di armi e di ma­ teriali, e, cosi, dopo una resistenza durata piu di un mese, il 22 ottobre, questa “zona libera" era eliminata dai nazi­ fascisti, che l’avevano attaccata con grande spiegamento di forze, anche con numerosi aerei; i fascisti, poi, vi avevano impegnato i loro migliori reparti, battaglioni della S. Marco, della Folgore, della X Mas, della Monte Rosa, ecc. Intanto, 121

i tedeschi si erano impegnati a fondo per eliminare il pe­ ricolo partigiano sull'altipiano del Grappa e lungo l’Isonzo, dove erano state create altre zone libere. Dal Veneto, nel mese di ottobre, l’offensiva germanica si era spostata in Pie­ monte, nelle Langhe, dove esistevano alcuni forti gruppi di patrioti che avevano liberato diversi paesi attorno ad Alba. In questo periodo, perciò, il movimento partigiano era costretto alla difensiva, eppure il Kesselring scriveva che "in seguito all’allargarsi dell'organizzazione partigiana, le zone minacciate od occupate dalle bande andavano conti­ nuamente accrescendosi di numero,” sollevando il problema della loro eliminazione. E di nuovo si poneva anche l'altro problema, connesso a questo, del terrore da ispirare alle popolazioni per indurle a non prestare più aiuto ai parti­ giani: cosi, si spiega quella che è stata detta "l’inutile stra­ ge” — non inutile, però, se vista in tale prospettiva — di Marzabotto dove perirono, dal 30 settembre al 1° ottobre, circa 1.500 elementi civili e 300 partigiani. Ancora il Kessel­ ring dice che gli eccessi o le atrocità solo in minima parte devono essere posti a carico di reparti tedeschi, poiché van­ no attribuiti "in parti uguali alle bande, alle organizzazioni neofasciste ed ai gruppi di disertori tedeschi," ma Marzabotto sta recisamente a smentirlo. La Resistenza si trovava in queste gravi difficoltà, quan­ do venne, il 13 novembre il "proclama Alexander” a mo­ mentaneamente disorientarla. Il maresciallo, quasi traendo la dovuta lezione dai risultati della conferenza di Mosca, dopo avere assunto il comando generale del teatro di guer­ ra del Mediterraneo in seguito alla partenza di Wilson, rivol­ geva un messaggio ai partigiani del Nord per esortarli a ces­ sare le operazioni su vasta scala. Come si è visto, di opera­ zioni su vasta scala i patrioti ne avevano condotte diverse in questi ultimi tempi, proprio mentre gli anglo-americani non riuscivano a sfondare la linea gotica e non riuscivano nemmeno a conquistare Bologna, che i capi dello Stato Mag­ giore combinato avevano loro assegnato come l'obiettivo più importante. Verso la metà di novembre si entrava, pertanto, nella stasi invernale, una stasi che, adesso, non preoccupava molto, tanto che anche nelle Memorie di guerra del Chur­ chill non si nota più il rammarico, che prima era stato cosi vivo, per non poter giungere rapidamente al confine orien­ tale italiano. In un certo senso, bisogna dire che il procla­ ma Alexander fu un atto di sincerità verso i partigiani per­ ché li avverti chiaramente che non potevano e non doveva­ no aspettarsi più aiuto dagli alleati, e fece loro capire che 122

il fronte italiano, avendo perduto ogni importanza, sarebbe caduto quando la Germania fosse stata ridotta agli estremi.

Esso diceva: La campagna estiva, iniziata Γ11 maggio e condotta senza interruzione fin dopo lo sfondamento della linea gotica, è finita; inizia ora la campagna invernale. In relazione all’avanzata al­ leata, nel periodo trascorso, era richiesta una concomitante azio­ ne dei patrioti: ora le piogge e il fango non possono non ral­ lentare l’avanzata alleata, e i patrioti devono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fron­ teggiare un nuovo nemico, l’inverno. Questo sarà duro, molto duro per i patrioti, a causa delle difficoltà di rifornimento di viveri e di indumenti: le notti in cui si potrà volare saranno po­ che nel prossimo periodo, e ciò limiterà pure la possibilità dei lanci; gli alleati però faranno il possibile per effettuare i rifor­ nimenti. In considerazione di quanto sopra esposto il gen. Ale­ xander ordina le istruzioni ai patrioti come segue: 1) cessare le operazioni organizzate su larga scala; 2) conservare le munizioni ed i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini; 3) attendere nuove istruzioni che verranno date o a mezzo radio “Italia combatte” o con mezzi speciali o con manifestini. Sarà cosa saggia non esporsi in azioni troppo arrischiate; la pa­ rola d’ordine è : stare in guardia, stare in difesa; 4) approfittare però ugualmente delle occasioni favorevoli per attaccare tedeschi e fascisti; 5) continuare nella raccolta delle notizie di carattere mili­ tare concernenti il nemico, studiarne le intenzioni, gli sposta­ menti e comunicare tutto ciò a chi di dovere; 6) le predette disposizioni possono venire annullate da ordini di azioni particolari; 7) poiché nuovi fattori potrebbero intervenire a mutare il corso della campagna invernale (spontanea ritirata tedesca per influenza di altri fronti), i patrioti siano preparati e pronti per la prossima avanzata; 8) il gen. Alexander prega i capi delle formazioni di portare ai propri uomini le sue congratulazioni e l’espressione della pro­ fonda stima per la collaborazione offerta alle truppe da lui co­ mandate la scorsa campagna estiva.

Senza dubbio, questo proclama disorientò la Resistenza italiana, anche perché essa stava già attraversando un mo­ mento di crisi, sottoposta come era ai rastrellamenti dei tedeschi che, non avendo pili la preoccupazione di un at­ tacco nemico, potevano dedicarsi all’annientamento delle bande partigiane. La lotta che da mesi conducevano gli ita­ liani, attraverso difficoltà di ogni genere, perdeva, inoltre, con quel proclama, ogni valore autonomo e si poteva chia123

ramente capire come essa fosse sempre stata intesa dagli anglo-americani soltanto in funzione della loro politica di potenza: ora contrariata, ora scoraggiata a seconda delle necessità belliche e a seconda del più o meno grave pericolo sovietico. In tal modo, anche la libertà non aveva più il grande significato di una conquista morale, di una liberazio­ ne da un passato che si ripudiava decisamente, e minacciava di diventare soltanto la base per un regime fedele agli occi­ dentali. La reazione degli organismi dirigenti della Resisten­ za a questa impostazione della lotta partigiana, che ne tra­ diva profondamente gli ideali tendendo a ridurre i patrioti a mercenari, venne, il 2 dicembre, con una circolare redat­ ta dal Longo e diramata dal Corpo Volontari della Libertà a tutti i Comandi regionali, al Comando della Valsesia, al Comando della Val d’Ossola e al Comando Piazza di Mila­ no: “È opinione di questo Comando,” era detto in essa, "che si debba reagire nel modo più fermo alle interpretazio­ ni pessimistiche e disfattiste che da alcuni sono state date alle istruzioni” del gen. Alexander. Si riconosceva che in al­ cuni comandi regionali e in alcuni comandi di formazione era affiorata la tendenza a capitolare di fronte alle difficoltà del momento, ma si dichiarava nel modo più fermo che ogni richiamo al proclama per giustificare proposte di smobili­ tazione, di “contrazione” delle forze e della lotta partigiana, di "invii in licenza," di stasi operativa per la stagione inver­ nale, era assolutamente ingiustificato; questo perché le istru­ zioni dell’Alexander non erano di smobilitazione o di stasi, ma di continuazione della lotta, sebbene su scala più ridotta perché gli anglo-americani, fermi sulla linea gotica, non avrebbero potuto fornire un aiuto immediato. Ma questa circolare toccava il punto più importante sollevato dal pro­ clama, quando affermava con energia e con grande convin­ zione: “Non si deve dimenticare che la lotta partigiana, per il popolo italiano e per ogni singolo combattente, non è stata un capriccio o un lusso a cui si possa rinunciare quan­ do si voglia. È stata ed è una necessità per difendere giorno per giorno il patrimonio materiale, politico e morale del popolo italiano”: un motivo, questo, che era già stato chia­ ramente espresso nel n. 17 del Ribelle (novembre 1944), l’or­ gano delle “Fiamme Verdi,” formazioni delle valli brescia­ ne che facevano capo al partito democristiano, sebbene in posizione piuttosto indipendente per il rifiuto a politicizzare la lotta accettando le direttive del C.L.N.A.I. e per la volontà di mantenerla invece su un piano puramente morale e spi­ rituale: “Come noi abbiamo dichiarata estranea la guerra 124

tedesca, noi sappiamo che non è nostra la guerra inglese e la guerra russa. La nostra è ribellione più alta che non la stessa guerra: per questo contro noi ci si accanisce, per que­ sto siamo lasciati soli. Come tutte le idee grandi questa no­ stra ha bisogno della fecondazione del sangue e del gelo deH'indifferenza. " Il 3 dicembre anche il C.L.N.A.I. prendeva posizione af­ fermando che l’attendere passivi l’ora della liberazione, o peggio far credito alle manovre del nemico, avrebbe signifi­ cato esporre la Resistenza a sacrifìci ben più gravi di una lotta dura e prolungata: "Gli italiani sanno che non vi è posto nelle nostre file per gli attesisti, e tanto meno per i sabotatori dell'insurrezione nazionale, per i consiglieri di patteggiamenti col nemico. Chi, usurpando il nome del Co­ mitato di Liberazione Nazionale, osasse levar la voce del tradimento e farsi mezzano di tregue e di compromessi, si escluderebbe per ciò stesso dalla comunità dei patrioti.” La preoccupazione del C.L.N.A.I. era quella di garantire ai par­ tigiani che un "fronte interno saldo e incrollabile” sostene­ va la loro lotta e difendeva le loro spalle, cioè di far loro sentire che l’appoggio della popolazione non sarebbe venu­ to meno neppure nei duri momenti che si annunciavano; ed il suo manifesto era rivolto a mettere in guardia contro le proposte e le promesse in cui i nazifascisti si profonde­ vano perché gli italiani si abbandonassero "inermi ed inerti alla loro paterna sollecitudine”; e voleva anche essere un avvertimento a tutti coloro che tentavano, con "manovre di compromesso e di tradimento,” di pugnalare "alle spalle l’insurrezione nazionale,” di “frenarne e spezzarne lo slan­ cio,” perché temevano “il popolo in armi nella lotta di libe­ razione.” Anche il Comando militare regionale piemontese, il Comando delle formazioni "Giustizia e Libertà” del Pie­ monte, il Comando Piazza di Milano, il Comando militare delle formazioni autonome del Piemonte (con una circolare del suo comandante, gen. Trabucchi), fecero eco alle istru­ zioni del C.V.L., pienamente approvandole. Naturalmente, i tedeschi ed i fascisti approfittarono subito del proclama Alexander per esortare i partigiani — parlando loro del tra­ dimento alleato — ad abbandonare gli accampamenti di montagna e a ritornare alle loro case. Ma la Resistenza non era assolutamente un piacere o un lusso a cui si potesse ri­ nunciare da un momento all’altro: era ormai una esigenza insopprimibile per il popolo italiano, quella che ne giustifi­ cava le speranze di una risurrezione morale in un mondo rinnovato dalla libertà. 125

La ripresa dei rapporti con gli alleati

Le ultime vicende politiche intemazionali, e, in particola­ re, la conferenza di Mosca, dovevano esercitare una notevole influenza anche sulla situazione interna italiana: infatti, la convinzione che ormai il nostro paese fosse stato definitiva­ mente assegnato alla zona occidentale non poteva non raf­ forzare le correnti di destra. Da diverso tempo una sorda lotta era in atto fra i sei partiti che partecipavano al go­ verno Bonomi, lotta che era incominciata a farsi acuta nella seconda metà di ottobre, perché fino a quel momento una relativa concordia aveva regnato fra i vari movimenti poli­ tici. AH’inizio di settembre c’erano stati nuovi inviti da par­ te del partito socialista e di quello comunista alla democra­ zia cristiana perché accettasse un "accordo politico concre­ to” (più esplicito era stato l’invito socialista che avrebbe voluto impegnare i cattolici alla battaglia per la repubblica democratica; ma il consiglio nazionale della d.c. aveva re­ spinto speciali "patti politici, che fatalmente avrebbero avu­ to la conseguenza, anche se non voluta, di minare l'attuale compagine governativa"). In realtà, la democrazia cristiana saldava la destra con la sinistra e se si fosse spostata verso quest’ultima avrebbe contribuito a spaccare il fronte dei partiti democratici. Tuttavia, era chiaro che quelle proposte del p.s.i. e del p.c.i. tendevano a creare ai due partiti di sini­ stra una loro prevalenza nel ministero e, di conseguenza, indicavano una aperta diffidenza nei riguardi delle correnti moderate. Piu tardi, fra il 6 e I’ll ottobre, il governo, dopo avere in precedenza affermato la necessità di “risolvere den­ tro il governo stesso, i problemi che [i vari partiti crede­ vano] necessario affrontare" (e ciò al fine "di dare all’opi­ nione pubblica la prova che i Partiti al Governo operano concordemente, e che i fini particolari di ciascuna parte po­ litica restano subordinati al fine più alto di liberare il Paese e di creare uno Stato democratico interprete della volontà collettiva,” 26 settembre), prendeva alcuni provvedimenti di natura sociale abbastanza importanti, come quello che rico­ nosceva alle cooperative o altri enti di contadini il diritto di ottenere la concessione di terreni — di proprietà privata o di Enti pubblici — incolti o insufficientemente coltivati e la conduzione diretta di terre appartenenti ai “gerarchi” del passato regime (6 ottobre); oppure l’altro, dell’ll, che rego­ lava i contratti di colonia parziaria o di compartecipazione vigenti soprattutto nell’Italia meridionale e nelle isole, fa­ cendo migliori condizioni al colono e promuovendo la revi126

sione dei rapporti di ripartizione in tutti quei casi in cui la suddivisione delle spese e dei prodotti non corrispondes­ se più all’equilibrio economico del contratto. Intanto, gli anglo-americani stavano mutando il loro at­ teggiamento nei riguardi dell’Italia: il 15 agosto avevano restituito aU’amministrazione italiana le province di Roma, Fresinone e Littoria; il 26 settembre si pubblicava a Wa­ shington una dichiarazione comune del presidente Roosevelt e del primo ministro britannico Churchill, in cui, dopo aver riconosciuto la volontà del popolo italiano "di esser libero e di combattere a fianco delle democrazie per prendere il suo posto fra le Nazioni Unite,” si dichiarava che si sarebbe con­ cessa “gradatamente” maggiore autorità al governo italiano, ove questo desse prova di saper mantenere l’ordine, far ri­ spettare le leggi e assicurare il regolare funzionamento del­ la giustizia. A tal fine, la Commissione Alleata di Controllo si sarebbe denominata semplicemente Commissione alleata; l’Alto Commissario britannico a Roma avrebbe preso “il ti­ tolo addizionale di ambasciatore” mentre il governo italiano sarebbe stato invitato a nominare i suoi rappresentanti a Londra e a Washington. Inoltre, si sarebbe provveduto su­ bito all’invio di “aiuti sanitari e di rifornimenti essenziali aH’Italia’’ tramite 1’U.N.R.R.A. (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), dando inizio, nel tempo stes­ so, alla ricostruzione dell’economia italiana ridotta dal fa­ scismo e dalla guerra in condizioni disastrose (si calcolava che nell’Italia centrale il 94% degli impianti elettrici fosse andato distrutto). Infine, alcune modifiche alla legge sul commercio con il nemico avrebbero consentito all’Italia di riprendere i contatti commerciali con le potenze occidentali (il che avvenne prima con gli Stati Uniti e, il 19 ottobre, anche con l’Inghilterra). Proseguendo, come si disse allora, verso la piena conci­ liazione, il Roosevelt, il 10 ottobre, metteva a disposizione del governo italiano crediti in dollari per l’equivalente delle lire italiane già emesse e da emettere per la paga delle trup­ pe degli Stati Uniti, come pure l’ammontare in dollari delle rimesse effettuate da persone residenti negli Stati Uniti ad amici e parenti in Italia e il ricavato in dollari dei prodotti esportati dall’Italia, tutti crediti che avrebbero dovuto es­ ser spesi negli stessi Stati Uniti "per rifornimenti essenziali alla vita della popolazione civile nell’Italia liberata.” Era, questo, un provvedimento molto desiderato, sebbene ci si chiedesse se il credito in dollari dovesse servire ad acqui­ stare merci soltanto in America anche quando esse si fos127

sero trovate su altri mercati a minor prezzo (supposizione senz’altro esatta, data la tendenza degli U.S.A, a crearsi un vasto mercato per la propria esuberante produzione); ed anche i crediti delle rimesse degli emigranti italiani negli Stati Uniti o quelli per le merci italiane esportate non po­ tevano rappresentare contropartita di nostri debiti, poiché erano anzi un fattore attivo della nostra bilancia dei paga­ menti con l’estero. Ma la soddisfazione per il credito delle am-lire (ne erano state emesse 35 miliardi senza che si sa­ pesse fino allora come dovevano essere considerate, quale contropartita a credito, in un teorico clearing — ci si era chiesto — in cui si registrassero a debito dell’Italia le forniture per la popolazione civile oppure senza alcuna contropartita di merci, quale compenso delle spese di oc­ cupazione, e, perciò, a totale carico della nostra esausta economia) era troppo grande per consentire che ci si fer­ masse a riflettere su tali problemi. La crisi del governo Bonomi

Con questi aiuti alleati la situazione economica si andava risollevando (continuava sempre a rimanere grave poiché, calcolando anche i 70 miliardi consegnati dal governo fa­ scista ai tedeschi ed il ritmo di 5-6 miliardi stampati al me­ se in Alta Italia, la circolazione era passata dai 96,5 miliar­ di al 20 luglio 1943 ai 180 miliardi con un aumento di circa il 750% rispetto al 31 dicembre 1938), ed il Soleri, ministro del Tesoro, poteva dire, alla fine di settembre, la condizione grave, ma non disperata, soprattutto tenuto conto che dal maggio 1944 non erano stati più emessi biglietti dalla Banca d'Italia nel territorio liberato, né si dovevano prevedere al­ tre emissioni, dato il notevole riafflusso nelle casse della Banca stessa. Questo miglioramento rimise in moto la vita politica, stimolando le correnti di destra ad una maggiore attività: il primo, grave urto fra esse e le sinistre si ebbe in occasione di un tentativo da parte di alcune centinaia di contadini di occupare, ad Ortucchio nel Fucino, parte delle terre del principe Torlonia (18 ottobre): nello scontro con i carabinieri che ne segui rimase ucciso un contadino e ne furono feriti sei. La stampa di sinistra — L'Italia libera, ΓΑvanti! e L’Unità — accusarono la forza pubblica di farsi "strumento di reazione” e chiesero non solo una severa in­ chiesta, ma anche “una energica opera di epurazione,’’ in questo appoggiata dal Comitato di Liberazione Nazionale 128

che deplorò gli episodi “di inconsiderata repressione.” Era­ no critiche che colpivano lo stesso ministero, nella cui azio­ ne, pertanto, i tre partiti dimostravano di avere scarsa fidu­ cia: il che fu messo in rilievo, in un ordine del giorno della direzione della d.c., che faceva notare come il disagio del paese in guerra fosse acuito "da un senso di sfiducia” verso il governo di una parte della stampa dei partiti che allo stesso governo partecipavano — mettendone in gioco, in tal modo, “la coesione, il prestigio ed ogni fattiva operosità” — e riaffermava “l’urgente necessità di una decisa ed unitaria azione governativa, e il dovere di tutti i partiti di concorrer­ vi lealmente ed efficacemente.” Contrasti, infine, si scavavano fra i due gruppi contrappo­ sti pure a proposito dell’epurazione, ma, anche se i sociali­ sti ed i comunisti indicevano, il 12 novembre, una grande riunione di circa 80.000 persone allo stadio di Domiziano sul Palatino per commemorare il XXVII anniversario della rivo­ luzione russa, sembrava che l’iniziativa fosse passata ai loro avversari, i quali parevano decisi, ora, a sfruttare la situa­ zione favorevole creata alle destre dalla conferenza di Mo­ sca. Infatti, il 7 novembre, veniva resa nota una intervista concessa dal Luogotenente ad Herbert Matthews del New York Times, in cui egli affermava che, per la forma futura dello Stato, le preferenze dei monarchici andavano al plebi­ scito, “conformemente ai principi della Carta Atlantica, se­ condo i quali tutti i popoli, senza eccezione, [avrebbero do­ vuto] avere la possibilità di esprimere il proprio desiderio.” Il plebiscito era, senza dubbio, in apparenza più democratico della Costituente, ma esso era visto con sospetto dalle cor­ renti di sinistra, le quali temevano che la scarsa educazione politica di larghi strati popolari, soprattutto nell’Italia me­ ridionale, e la loro sottomissione a cricche locali insieme con il tenace lealismo monarchico di vaste zone, giocassero a favore della dinastia. Inoltre, il plebiscito, al quale era sembrata favorevole la democrazia cristiana, avrebbe con­ sentito ai partiti di mantenersi agnostici sul problema mo­ narchia-repubblica, essendo la decisione demandata al corpo elettorale e venendo a mancare la necessità di impegnarsi per l’elezione di una Assemblea dalla cui maggioranza avreb­ be dovuto uscire, poi, la scelta. Questo lasciava sospettare, come scrive il Visentini che taluni partiti, in tal modo, in­ tendessero svolgere la propria influenza a favore della so­ luzione monarchica senza che essi stessi o i loro esponenti fossero costretti ad assumere alcuna responsabilità in tale senso. Del resto, esisteva un decreto-legge, approvato a II.5

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Salerno nella prima riunione del gabinetto Bonomi, con cui si stabiliva che “dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali [fossero] scelte dal popolo italiano, che a tal fine [avrebbe eletto], a suffragio universale, diret­ to e segreto, una Assemblea Costituente, per deliberare la nuova costituzione dello Stato.” Era stata una decisione ap­ provata aH’unanimità e chi tentava di modificarla si poneva fuori e contro la legge. Ecco perché la campagna, subito iniziata soprattutto dal p.s.i. e dal p.d’a., raggiunse il suo in­ tento: infatti, il consiglio dei ministri, riunitosi il 7 novem­ bre, dopo aver riaffermato che "i partiti politici, di cui il Governo è l’emanazione, sono espressione della volontà e delle aspirazioni del popolo italiano in lotta per la sua li­ bertà," riconfermò “l’impegno solenne di decidere del pro­ blema istituzionale attraverso il voto di un’Assemblea Co­ stituente, cosi come è stato stabilito in una legge dello Stato." Era una sconfitta per i liberali e per i democristiani, ed anche per lo stesso Bonomi, che, come testimonia il Pun­ toni, “aveva letto il testo dell’intervista in precedenza e lo aveva approvato, apportandovi qualche correzione." La cor­ rezione, come rivelò la stampa monarchica, sarebbe consi­ stita nella soppressione dell’inciso, stabilito dal Luogotenen­ te dopo essersi consigliato non solo con il Bonomi, ma an­ che con il Visconti Venosta e con l’Orlando: "come altre persone con le quali ho parlato, egli [Umberto],” la stam­ pa monarchica riferiva una comunicazione dello stesso Mat­ thews, "osservò che, nelle presenti circostanze, non la Mo­ narchia, ma la Repubblica potrebbe condurre ad una ditta­ tura in Italia." La campagna delle sinistre era stata tanto più vivace ("I partiti di sinistra sono in stato di mobilita­ zione,” aveva notato il Puntoni) in quanto già da tempo denunciavano le "forze occulte della reazione in agguato” (F.O.D.R.I.A., secondo la sigla che ne era stata coniata), di cui anche il presidente del consiglio era stato costretto ad occuparsi. Una nuova sconfitta le correnti di destra dovet­ tero registrare quando, il 9 novembre, il Comitato toscano di Liberazione Nazionale presentò al primo ministro un me­ moriale che conteneva la richiesta della costituzione imme­ diata di una Assemblea Consultiva nazionale, formata dai rappresentanti dei C.L.N. regionali, e la definizione giuridica dei Comitati stessi. I compiti della Consulta avrebbero do­ vuto essere: 1) dare parere sui provvedimenti di carattere generale; 2) indicare i provvedimenti necessari per la solu­ zione di problemi concreti; elaborare il sistema elettorale 130

per la formazione della Costituente e le strutture fondamen­ tali del nuovo Stato democratico; 3) costituire, d’intesa con il governo, comitati tecnici per lo studio di questioni speci­ fiche. Il Bonomi esaminò il memoriale insieme con i sei ministri senza portafogli, e, riconosciutane l’importanza, de­ cise di portarlo a conoscenza dell’intero consiglio dei mini­ stri. Era una sconfitta per le destre, perché esse avevano cercato di eludere il problema della Consulta, ed il Bonomi, in suo luogo, aveva nominato, fin dal 15 luglio, il presidente del Senato (il marchese Tomasi della Torretta, dei principi di Lampedusa) e il presidente della Camera (Vittorio Ema­ nuele Orlando), quale “affermazione della continuità ideale dell’antica Camera dei Deputati con l’Assemblea che sarà li­ beramente eletta dal popolo italiano, quando esso avrà libe­ ramente deciso i suoi ordinamenti costituzionali." Che cosa potevano significare queste due nomine, dal momento che le due assemblee non esistevano? “Forse si volevano prepa­ rare due organi," osserva il Visentini, “che, secondo la precedente consuetudine costituzionale, avessero parte nel­ la soluzione di una eventuale crisi governativa? Non era questo incompatibile con la eliminazione dell’iniziativa re­ gia, che era un punto fondamentale dell’accordo di giugno?” (Ma la cosa più grave era il tentativo di riaffermare la “continuità ideale" fra il vecchio e il nuovo, rendendo vano ogni proposito di rinnovamento delle anchilosate strutture statali da parte dei C.L.N.). La campagna delle sinistre intanto proseguiva e tendeva ad ottenere l’esplicito riconoscimento della sottomissione dei prefetti ai Comitati di L.N.: si distingueva ancora in questa campagna il partito socialista, particolarmente de­ ciso ad imprimere un ritmo più energico alTazione di go­ verno, che appariva cauta e lenta per quanto riguardava, ad esempio, la punizione dei delitti fascisti o l’avocazione degli illeciti profitti di regime. Ma tutto questo irrigidì i li­ berali ed i democristiani, facendo loro pensare che si fosse di fronte ad un tentativo, più energico che non per il passato, di mettere completamente da parte il vecchio Sta­ to e di instaurare una nuova legalità rivoluzionaria basata non più sulla continuità costituzionale ma sui nuovi orga­ nismi popolari, cioè i C.L.N.; il p.l.i. e la d.c., insomma, do­ vettero pensare che si intensificasse la tendenza ad accan­ tonare la monarchia per realizzare nella sua interezza la formula: “tutto il potere al Comitato di Liberazione." Era, senza dubbio, una tendenza contraria all’impegno di rispet­ tare quell’equilibrio tra le varie forze in contrasto che im­ 131

pedisse ad ognuna di esse di influire direttamente o indiret­ tamente sulla volontà della nazione; ma il modo come il Bonomi ritenne di risolvere la difficile situazione era altret­ tanto contrario a quell’impegno, ed anzi violava lo spirito che aveva presieduto alla formazione del suo ministero. In­ fatti, senza avvertire i membri del gabinetto, presentò le dimissioni del governo al Luogotenente, restituendogli, in tal modo, quella iniziativa che, nel giugno, gli era stata, vo­ lutamente e palesemente, sottratta (26 novembre). La difficile soluzione della crisi Il Puntoni scriveva: “Per l’atteggiamento dei partiti, si tratterà certamente di una crisi laboriosa e difficile," e, in realtà, fu cosi perché si scontrarono due autorità che, ades­ so, si ritenevano uguali. Il Luogotenente raccolse pronta­ mente l’occasione che gli era stata offerta e iniziò subito le consultazioni con i due presidenti del Senato e della Ca­ mera, e con i Collari dell’Annunziata, incaricando, dopo, an­ cora il Bonomi della formazione del nuovo ministero. In­ tanto, i sei partiti avevano dovuto riconoscere — anche quel­ li che forse non avrebbero voluto farlo — che c’era stata la rottura degli impegni presi nel giugno e, di conseguenza, riaffermarono la necessità, in una riunione del 26 novem­ bre, che il governo continuasse "ad essere l’espressione dei partiti della presente coalizione," "emanazione legittima del­ la volontà del popolo” in lotta per la liberazione del paese e la distruzione del fascismo, e sola rappresentante delle forze che ancora si battevano nell’Italia occupata per la vit­ toria. Il C.L.N., pertanto, invitò il Bonomi a tornare a pre­ siedere le sue riunioni in modo che fosse possibile risolvere la crisi nel suo ambito; ma il vecchio uomo politico non accettò l’invito, credendo possibile una sua nuova designa­ zione da parte del Luogotenente come presidente del consi­ glio. Allora il C.L.N. chiamò a dirigere i propri lavori il conte Sforza e lo designò anche come primo ministro di un governo di C.L.N. Cosi, le due designazioni si contrappone­ vano l’una all’altra e non si scorgeva in qual modo si sareb­ be potuti uscire da questo vicolo chiuso, da questa prova di forza fra i due poteri nessuno dei quali era disposto a cedere. La soluzione venne da un “colpo di scena” inaspettato e, in un certo senso, anche doloroso per gli italiani, perché rivelò chiaramente quanto fosse limitata la loro libertà, 132

tanto più limitata ora, dopo la suddivisione in due zone di influenza dell’Europa. Il 27 novembre un comunicato del C.L.N. aveva parlato di discussioni sui "rapporti fra il Go­ verno italiano e i Governi alleati," ma nulla era trapelato della comunicazione con cui l’ambasciata britannica fece sapere, il giorno seguente, che una eventuale nomina dello Sforza non avrebbe migliorato le relazioni dell’Italia con la Gran Bretagna. Era un gesto che si risolveva in un evidente appoggio alle tendenze conservatrici, perché molto difficil­ mente il C.L.N. avrebbe potuto trovare l’accordo su un altro nome, ed era anche un gesto che rivelò, come disse don Sturzo, che il gabinetto inglese stava seguendo in Europa una politica di sfere d’influenza considerando l’Italia, la Gre­ cia e naturalmente la Spagna come rientranti nella sfera britannica; il Mediterraneo, perciò, doveva essere ritenuto un mare britannico (lo Sturzo soggiungeva che l’Inghilterra seguiva la stessa politica nel Nord, con l’Olanda, il Belgio, la Danimarca, la Norvegia e la Francia, ma che questo ave­ va spinto il De Gaulle e il suo ministro degli Esteri, Bidault, a recarsi a Mosca per rinnovare, il 10 dicembre, il vecchio trattato franco-russo). Il Churchill, parlando ai Comuni, giu­ stificò il veto con “gli intrighi [dello Sforza] che avevano culminato nell’espulsione del maresciallo Badoglio dal suo ufficio,” ma i corrispondenti notarono che un cosi vivo risen­ timento doveva avere pure altre cause, fra cui erano premi­ nenti quelle che lo Sforza stesso non si fosse dimostrato entusiasta dei termini dell’armistizio e che fosse contrario alla prospettiva di dare alla Gran Bretagna basi navali in Italia. L’atteggiamento del premier inglese era chiarito, inoltre, da quanto egli disse sui partiti del C.L.N., i quali agivano, secondo lui, "nel loro proprio interesse personale e politico” (al che lo Sturzo ribatteva dicendo di conoscere quegli "uomini, di grande dignità e animati da spirito di sacrifìcio ammirevole” che lottavano per un’Italia libera e democratica”: "Spero,” concludeva, "che Churchill possa trovare uomini di eguale tempra nella Camera dei Comuni d’Inghilterra"). Immediata fu la reazione dei socialisti e degli azionisti, i quali negarono la loro fiducia al Bonomi: i primi afferma­ rono in una mozione la necessità di una politica che assi­ curasse nel campo interno la libera espressione della volon­ tà del paese, scorgendo nel veto “la confluenza di forze con­ servatrici [intese] a sbarrare la via alla nuova democrazia italiana e a favorire la riconsacrazione di istituti condan­ nati dalla coscienza popolare." In loro aiuto parve venire 133

una dichiarazione del ministro degli Esteri americano, Stettinius, che confermò l’impegno, preso alla conferenza di Mosca dell’ottobre 1943, di fornire al popolo italiano "ogni possibilità di creare istituzioni politiche e d'altra natura fondate su principi democratici." Questa dichiarazione di non ingerenza negli affari interni del nostro paese, costrin­ se il Churchill a fare apparire il veto come un’opinione del­ l’ambasciatore britannico a Roma: era, come la disse don Sturzo, "una specie di ritirata strategico-politica,” che però non ebbe molta importanza per la specifica situazione ita­ liana, poiché il valore del veto non ne risultò affatto di­ minuito. Cosi, la condizione del C.L.N. ne usci aggravata, in quanto si fece più evidente per esso l’impossibilità di accordare di nuovo la fiducia al Bonomi (il quale, tra l’al­ tro, aveva dovuto essere al corrente delle intenzioni degli inglesi e non aveva fatto nulla per mutarle), mentre, come si poteva prevedere, non gli riusciva ad accordarsi su un’al­ tra designazione: infatti, la candidatura Ruini, che aveva assunto la presidenza del C.L.N. dopo le dimissioni dello Sforza, gradita ai democratici del lavoro, agli azionisti, ai socialisti e ai comunisti, fu nettamente respinta dai liberali e accettata dai democristiani solo "in via subordinata,” cioè nel caso che il Bonomi avesse dovuto declinare l’incarico. Si incominciava a capire che il Comitato era incapace di risolvere la crisi e, certo, la disunione gli impediva di im­ porsi come elemento determinante di essa. La compattezza del C.L.N. si stava sfaldando, non solo a destra, ma, poco dopo, anche a sinistra, e questo poteva essere inaspettato, se pure non del tutto imprevedibile. Il Bonomi, infatti, ave­ va capito l’impotenza dei suoi avversari e pensò, pertanto, di svolgere le trattive con i singoli partiti, “avendo ragio­ ne di ritenere di essere,” disse, "nelle presenti condizioni, l’uomo politico che [avrebbe trovato] minori ostacoli nel difendere e nel far progredire la posizione dell’Italia nei rapporti internazionali.” Il p.l.i. accettò senza porre alcuna condizione; non cosi i tre partiti di sinistra che conferma­ rono di essere disposti a partecipare soltanto ad un gover­ no che fosse espressione diretta del C.L.N.; a sua volta, la democrazia cristiana si mostrò propensa ad aderire purché, però, ci fosse la partecipazione di almeno uno dei due par­ titi tradizionali di sinistra, socialista o comunista. Tornava a valere, in questa occasione, quello che lo Sturzo aveva definito il dovere di questo partito di fare da anello di con­ giunzione fra le varie classi sociali e fra destra e sinistra, un dovere voluto dalla sua stessa natura di partito interclassi­ 134

sta che lo rendeva costantemente incerto fra le due opposte parti politiche. In realtà, l’andare al governo con i soli li­ berali, avrebbe potuto spostarlo troppo sulla destra ed avrebbe potuto anche attirargli l’accusa di avere provoca­ to la definitiva rottura del C.L.N., e sia l’una sia l'altra co­ sa esso voleva in ogni modo evitare. Sembrava, perciò, che si stesse profilando la possibilità di far fallire il tentativo del Bonomi, se il p.s.i. e il p.c.i. fossero rimasti intransigentemente sulla negativa (il p.d’a. era con sicurezza su tale posizione, ma si incominciava a capire che il suo peso politico era piuttosto relativo e sen­ z’altro inferiore a quello degli altri due partiti di sinistra); in tal caso, sarebbe spettato alla d.c., come a quella a cui sarebbe risalita la responsabilità della mancata formazio­ ne del secondo ministero Bonorqi, indicare il successore, che non avrebbe potuto essere che il De Gasperi. Pur con tutti i dubbi che tale designazione sollevava (trattandosi di un partito che, fra l’altro, non aveva ancora preso un de­ ciso impegno per la repubblica e che aveva mostrato, in diverse situazioni, di propendere per le soluzioni di destra), sarebbe stata pur sempre una designazione che avrebbe re­ stituito al C.L.N. il diritto all'iniziativa politica che il gesto del Bonomi gli aveva tolto. Ma, forse proprio per questo motivo la d.c. non poteva desiderare troppo una simile so­ luzione, sebbene essa le consentisse di porre un suo uomo a capo del governo: il fatto era che avrebbe potuto venire accusata dalle destre di aver reso vani i loro sforzi per riportare la vita politica italiana nell’alveo della tradizione monarchica. D’altra parte, anche il Bonomi dovette rendersi conto del pericolo corso e allora cercò di uscirne proponendo, con una lettera ai segretari dei partiti democratico cristiano, socialista e comunista, di condividere insieme con lui, come vice-presidenti, le responsabilità della direzione politica del governo. Si delineava, cosi, chiaramente il tentativo di dare maggior peso ai partiti di massa, o a quelli che allora si supponevano tali, ponendo in secondo piano gli altri partiti: era una proposta alla quale i comunisti (sotto la predo­ minante ispirazione del Togliatti) si erano sempre det­ ti favorevoli e per la quale da tempo si battevano, deside­ rando giungere ad una specie di divisione in zone di in­ fluenza anche nella vita interna con i democristiani, che potevano essere ritenuti i rappresentanti degli anglo-ame­ ricani: a questi sarebbe andata la direzione politica del paese e a loro sarebbe spettata la direzione del mondo del 135

lavoro. Da questo momento ebbe inizio lo sfaldamento a sinistra del C.L.N., poiché mentre i socialisti rispondevano, il 4 dicembre, irrigidendosi sulla condizione che si rimettes­ se al Comitato la designazione del primo ministro, senza tenere alcun conto dell’incarico dato dal Luogotenente, i comunisti invece adottarono una formula più elastica, insi­ stendo per una soluzione “nel quadro del C.L.N.” tale da riuscire "ad una accentuazione democratica della politica interna, estera e di guerra del Governo italiano, e ad un maggior aiuto al movimento di resistenza del Nord.” Il Bonomi dichiarò inaccettabile la condizione posta dai sociali­ sti, “anche per riguardo all’impegno assunto di non pregiu­ dicare in alcun modo la questione istituzionale, prima che si [fosse] pronunciata l’Assemblea Costituente,” ma disse “accoglibile” la tesi comunista, mostrando di intenderla nel senso che gli offrisse "l’opportunità di sentire tutti in­ sieme i partiti che [facevano] capo al C.L.N.’’; nel tempo stesso, ribadiva, quasi a meglio precisare il suo pensiero si che non vi fossero dubbi su di esso, che gli era impossibile prescindere dal suo "carattere di incaricato a risolvere la crisi.” Pertanto, quando, il 7 dicembre, si annunciò raggiunto l’accordo fra la democrazia del lavoro, il partito liberale, la democrazia cristiana e il partito comunista, era evidente che l’esigenza di porre il Comitato di Liberazione al centro del­ la vita del paese, come nuovo organismo dal quale ogni al­ tra autorità doveva derivare^ era stata battuta; la monar­ chia aveva ripreso buona parte del potere che aveva perdu­ to e questo era reso sensibile dal fatto che, Γ8 dicembre, il Luogotenente, vinta ogni difficoltà, affidava ufficialmente al Bonomi il reincarico per la formazione del nuovo gabinetto, come notava con una malcelata soddisfazione il Puntoni. Poco più tardi, entro il gennaio e il febbraio del ’45, la nuo­ va situazione fece sentire le sue ripercussioni anche sul­ l'Italia del nord, nello scambio di lettere che, a cominciare dal 20 novembre ’44, si ebbe fra i partiti del C.L.N. Aveva cominciato il p.d’a., il quale aveva insistito con vigore sul­ la esigenza che il Comitato prendesse "tutte le misure ne­ cessarie per entrare immediatamente in funzione come go­ verno legale in caso di insurrezione o di liberazione.” Nel­ la sua lettera aperta era, inoltre, contenuto un giudizio net­ tamente negativo sulla situazione politica dell’Italia meri­ dionale, dove non era stato creato nessun "organo di am­ ministrazione a carattere popolare," in grado di dare "agli strati popolari attivi il senso della corresponsabilità del 136

governo del Paese. Unico strumento di governo [era] rima­ sto l’apparato statale centralizzato e autoritario.” Gli azioni­ sti, pertanto, riprendevano la loro solita polemica contro il vecchio Stato e si battevano per un nuovo Stato, di cui, però, non mettevano nel giusto rilievo il carattere sociale. Il 26 novembre era giunta la risposta del p.c.i., il quale, a sua volta, tornava ad insistere sul problema dell’allarga­ mento dei C.L.N. mediante l’immissione di rappresentanze popolari e delle organizzazioni popolari: il che era, come abbiamo detto, un modo molto efficace per scardinare real­ mente il vecchio Stato e crearne uno profondamente di­ verso, basato sulla eliminazione delle antiche classi diri­ genti e sull’ascesa degli strati più umili. Politica, questa, ben lontana dai giochi di tipo bassamente parlamentare a cui si abbandonava a Roma il Togliatti, il quale, proprio in quei giorni, stava accettando di entrare nel governo con la d.c. e il p.l.i. E proprio da questi due ultimi partiti ven­ ne un violento attacco a tale "atteggiamento aprioristico” ed alla "pretesa vana ed anche impolitica” del p.d’a.: il p.l.i. definì "infecondo, nocivo e destinato a fallire” il tentativo di fare dei C.L.N., considerati semplici organi dell’insurre­ zione, organi "permanenti del nuovo assetto democratico," da cui avrebbero dovuto ricevere la loro investitura tutte le autorità pubbliche: sembrava ai liberali che ciò equiva­ lesse ad un voler monopolizzare, da parte di “taluni comi­ tati di partito,” il potere politico. Più veemente fu la rispo­ sta polemica della d.c., la quale disse che sarebbe stata "una triste fine” della eroica missione dei membri dei C.L.N., "se, ad un certo momento, costoro si impadronis­ sero della sovranità nazionale senza che nessuno li abbia designati all’infuori della loro coscienza e del loro corag­ gio; in realtà, essi imporrebbero al popolo italiano un’altra dittatura, certamente infinitamente migliore, ma sempre dittatura, perché non liberamente eletta dalla massa popo­ lare, ma autodesignatasi salvatrice e guida della Nazione.” Perciò, i liberali e i democristiani si rifiutavano recisa­ mente di considerare i C.L.N. gli strumenti del rinnova­ mento del paese: il che faceva intravedere quanto sareb­ be stata dura la lotta politica dopo la liberazione. Il Comi­ tato si era ormai spaccato in due, e se ciò non si verificò del tutto fu per l’atteggiamento, per cosi dire, più conci­ liante del p.c.i., che si accontentò, sotto la guida del To­ gliatti, di una fetta di potere pur di continuare a rimanere al governo. Ne rimanevano fuori il partito d’azione e quello socialista, 137

all’opposizione del governo, ma non dello sforzo di guerra, al quale dichiararono di voler portare tutto il loro contri­ buto. Ma, intanto, l’opinione pubblica, come scrisse La Ci­ viltà cattolica, "avvertendo l’awenuto sfaldamento del Co­ mitato, non [comprendeva] come un blocco cosi fortemen­ te incrinato [potesse] fare da ‘base’ di un Governo solido e non bisognoso di puntelli,” il che voleva dire che il C.L.N. sembrava aver perduto buona parte della sua funzione poli­ tica. I comunisti avevano ottenuto quella posizione premi­ nente a cui aspiravano ed il ministero appariva veramente dominato da essi e dai democristiani (i liberali non avevano più alcuna importanza, e si capiva che avevano condotto la battaglia esclusivamente per un principio conservatore, del quale avevano rappresentato il punto di convergenza). In apparenza, si sarebbe detto che i comunisti erano riu­ sciti ad imprimere al ministero un indirizzo chiaramente di sinistra, dal momento che il programma contemplava il proseguimento dell’epurazione in modo rapido ed impar­ ziale e la repressione dei delitti fascisti; l’aumento dello sforzo di guerra; la delega dei poteri governativi ai C.L.N. del Nord e la creazione di un Alto Commissariato, onde ri­ fornire i C.L.N. stessi dei mezzi adeguati; l’istituzione di Commissioni consultive quale preparazione dell’Assemblea Consultiva; aiuto alle classi più povere con il contributo di quelle più ricche e, perciò, incremento dell’Alto Commissa­ riato per l’avocazione dei profitti di regime. Eppure, anche a questo proposito, La Civiltà cattolica, parlando sempre dalla posizione del disinteressato osservatore, metteva in rilievo "l’insanabile divergenza di concezioni politiche fra i vari gruppi della coalizione, concordi in un punto solo, nell’anti­ fascismo, benché anche qui cominciassero i dissensi non ap­ pena dall’affermazione teorica si cercasse scendere all’attua­ zione pratica." Pertanto, si poteva prevedere che anche quel programma cosi ardito sarebbe stato combattuto e sabotato dalle destre, uscite rafforzate da tutte queste vicende. E, certo, uno dei risultati della crisi fu quello di aver contri­ buito a spaccare in due la situazione politica italiana: i co­ munisti sarebbero stati facilmente travolti dalla volontà re­ stauratrice della maggioranza del governo, se non fossero stati sostenuti dai due partiti che erano rimasti all’oppo­ sizione. Furono appunto gli azionisti e i socialisti a impedire che le conseguenze del dissidio fra le due parti conduces­ sero alla definitiva rottura del C.L.N., cosa che sarebbe sta­ ta molto grave in quel momento: infatti, essi rappresenta­ rono un punto di forza per la difesa del Comitato e consen­ 138

tirono ai comunisti di chiedere e di ottenere l’impegno che il governo si dimettesse non appena anche l’Italia del Nord fosse stata liberata. Il che voleva dire che la soluzione rag­ giunta doveva essere intesa come provvisoria e che, perciò, in quanto tale, non poteva modificare sostanzialmente i dati della situazione fissati nel giugno. Questo impegno spinse anche la d.c., che temeva sempre di venire isolata a destra e che voleva tenere legati al ministero i due partiti estranei ad esso, a richiedere che il governo, pur essendo formato da quattro dei sei partiti, dovesse considerarsi tuttavia espres­ sione del C.L.N. Cosi, si poteva dire bloccata la rinnovata iniziativa delle destre e veniva salvato il compito del Comi­ tato quale unico strumento di unificazione delle varie esi­ genze politiche, uno strumento che, come si capiva sempre meglio, aveva efficacia solo in una prospettiva di superamen­ to della politica internazionale dei blocchi contrapposti. Il rifiuto degli azionisti e dei socialisti era anche rifiuto ad accettare un compromesso analogo a quello fra anglo-ameri­ cani e sovietici su base interna, nella consapevolezza che solo in tal modo si sarebbero salvate le ragioni del rinno­ vamento democratico del paese; altrimenti, essendo l’Italia assegnata all’influenza occidentale, non sarebbe rimasto al­ tro che adattarsi alla prevalenza dei gruppi conservatori, vanamente mascherata dalle posizioni di forza presso le classi lavoratrici mantenute dal partito comunista. Il C.L.N.A.I. di fronte alla crisi L’azionista Altiero Spinelli, in una lettera inviata ad E. Rossi e A. Tino in Svizzera da Milano, il 4 dicembre, scri­ veva: “Queste due alternative: restaurazione autoritaria e ricostruzione democratica sono le due alternative che si stanno contrastando il campo a Roma. Il presidente del consiglio deve essere indicato dal luogotenente (dal capo del vecchio Stato) o dal C.L.N. (dal capo provvisorio del nuovo)? La debolezza del C.L.N. sta nel fatto che, a diffe­ renza del luogotenente, esso non ha consapevolezza, ma solo un oscuro sentimento di rappresentare un nuovo Stato. E perché non ha tale consapevolezza? Perché dietro di sé non ha C.L.N. locali e regionali che siano organi di governo e di amministrazione effettivi, i quali si levino in coro ad esigere che il loro centro governi. Il C.L.N.A.I. ha assai più questa consapevolezza. Ed infatti qui è stato il rappresentante li­ berale (cioè del partito che a Roma si è messo dalla parte 139

dello Stato autoritario e della restaurazione), il quale ha chiesto che si intimasse a Roma di nominare un governo del C.L.N. e non del luogotenente. Perché i liberali hanno potuto qui assumere tale posizione? Perché qui il C.L.N. ha co­ minciato a legiferare, sia pure segretamente, e di giorno in giorno cresce il senso della responsabilità. Esso capisce di essere lo Stato!” Ed anche il Valiani, in una lettera del 1° dicembre ai compagni del p.d’a. di Roma (inedita), in cui aveva loro consigliato di partecipare al governo se ad esso partecipavano i comunisti ("se no, vi tagliate le gambe!!") e di non spingere il risentimento per il veto a Sforza fino a rinunciare alla ricerca di un ulteriore accordo politico con l’Inghilterra (noi dobbiamo avere “tenacia sufficiente per persuadere la Gran Bretagna che i suoi migliori amici sono i democratici di sinistra italiani, che questi e solo questi hanno veramente rotto col nazionalismo italiano in favore di una federazione europea che si formi, nel centro ovest e sud del nostro continente, attorno alla Gran Bretagna”: si trattava, in ultima analisi, di una volontaria accettazione della divisione del vecchio continente in due blocchi, cosa, peraltro, alquanto deprimente, soprattutto per un partito che puntava sul rinnovamento democratico del paese), ave­ va anche scritto che l’errore dei partiti di sinistra, nella capitale, era stato quello di aver sollevato problemi giusti­ ficati e giusti dall’alto, attraverso memorandum delle dire­ zioni dei partiti e articoli di stampa senza aver organizza­ to preventivamente la pressione dal basso: "Bisognava fa­ re invece e urge fare tutto questo: creare organi di base del C.L.N., C.L.N. di azienda, di banca, dei trasporti, nei mi­ nisteri, nei villaggi, delle professioni liberali, degli ex-partigiani; formare questi organi di base del C.L.N., crearli in tutti i rioni cittadini, in tutte le zone agricole e convocare convegni provinciali e poi regionali e poi interregionali. Ta­ li convegni hanno molto maggiore importanza dei comizi dei singoli partiti; i comizi sfumano nel nulla; ad un convegno partecipano i quadri dirigenti delle masse e ne esce fuori una sistematica campagna di organizzazione dell’opinione pubblica [...]. Questo è il problema della ricostruzione de­ mocratica in Italia: organizzare il popolo dal basso; tempo­ reggiare in alto finché la base non è organizzata; agire con estrema decisione quando la gran massa della nazione è veramente organizzata.” Erano giudizi che definivano esattamente la situazione romana e dell’Italia centro-meridionale, dove, tranne che nella Toscana (e abbiamo visto la funzione assolta dal 140

C.T.L.N. nei riguardi della Consulta), il C.L.N. aveva una esi­ stenza molto precaria e, ad ogni modo, non nasceva da or­ ganiche e sostanziali esigenze popolari e, soprattutto, non aveva dietro di sé la dura ed aspra lotta contro i nazi-fascisti, una lotta che nel Nord era scuola di spirito di iniziativa e di autonomismo costruttivo. Ecco perché la crisi romana aveva potuto mettere rapidamente in difficoltà il C.L.N., un organismo di vertice e niente affatto di base, che, perciò, non era riuscito a contrastare efficacemente l’offensiva di tutte le forze tradizionali, che avevano una importanza di gran lunga superiore. Nell’Italia settentrionale stava for­ mandosi una nuova classe dirigente, giovane e, per cosi dire, post-fascista, mentre nel Mezzogiorno la scena era domi­ nata dal ceto politico pre-fascista, di cui il Bonomi e il par­ tito liberale del Croce (che aveva condannato la pretesa del Comitato di diventare “una sorta di governo provvisorio, sostituendosi allo Stato esistente e legale e lasciando que­ sto come mera parvenza e vuoto nome,” ed aveva afferma­ to che “l’unico frutto buono” della crisi era stato di avere mantenuto "la linea legale dello Stato Italiano”) erano gli illustri rappresentanti. La posizione di forza e di ricono­ sciuta autorità che il C.L.N.A.I. teneva a Milano gli consen­ ti di approvare il 3 dicembre, una mozione — che fu propo­ sta, come diceva lo Spinelli, proprio dal rappresentante li­ berale, Giustino Arpesani —, in cui deprecava che si fosse prodotta a Roma “una crisi di governo per l’intervento di forze oscure ed incontrollate, la cui opera determinò l’av­ vento del fascismo, lo sostenne sino a ieri portando il Pae­ se alla rovina, ed oggi tende di nuovo a scindere gli italiani, ad inquinare i Partiti e a ridurre la politica alla meschina difesa degli interessi personali o di gruppo, rinnovando me­ todi e sistemi dei quali la catastrofe italiana segna la con­ danna storica”; proclamava che la vita politica del paese doveva esplicarsi “limpidamente nell’ambito definito dai Co­ mitati di Liberazione e dai Partiti che li compongono” ed affermava che "solo un Governo formato da persone desi­ gnate dal Comitato di Liberazione Nazionale” poteva "tro­ vare la forza e l’autorità necessarie per reggere le sorti del Paese in questa grave ora della sua storia,” e che un tale governo rappresentava “l’elemento più efficiente per poten­ ziare il contributo italiano alla guerra comune delle Nazioni Unite.’’ Il Comitato, con questa mozione, dimostrava la sua com­ pattezza e la sua unità, e questo era particolarmente impor­ tante in un momento in cui vivaci erano nel suo seno le di­ 141

scussioni sui compiti e sull’estensione dei C.L.N. (discus­ sioni che opponevano i tre partiti di sinistra ai liberali ed ai democristiani) ed in cui il fascismo stava per lanciare la sua ultima, disperata campagna per la pacificazione. Il 16 dicembre, infatti, il Mussolini al Lirico di Milano pronuncia­ va il grande “discorso della riscossa," in cui insisteva sulla efficacia della politica sociale verso la quale gli operai ave­ vano abbandonato l’iniziale diffidenza (ma gli operai stessi erano scesi in sciopero diverse volte fra l’ottobre e il no­ vembre ed avevano risposto, aderendo all’invito del C.L.N.A.I., con una quasi generale astensione al tentativo fascista di fare eleggere nelle fabbriche le commissioni interne); si diceva sicuro che le popolazioni della valle del Po depreca­ vano l’arrivo degli anglo-sassoni perché non volevano saper­ ne di un governo, che, pur avendo alla vice-presidenza un Togliatti, avrebbe riportato "al nord le forze plutocratiche e dinastiche, queste ultime oramai palesemente protette dall’Inghilterra.” Con abilità, pertanto, il Mussolini cercava di sfruttare il malcontento suscitato negli ambienti della Resistenza dalla soluzione della crisi romana, malcontento rivelato dalla mozione del 3 dicembre, per fare apparire il suo regime come l’unico veramente anti-plutocratico: egli sperava che i repubblicani antifascisti si decidessero a vole­ re la repubblica “proclamata da Mussolini” piuttosto che "soggiacere alla monarchia voluta da Churchill." Ma, per meglio attirare questi avversari, avrebbe dovuto far loro concessioni sul piano politico: a tal fine, disse, opponendosi alle richieste degli estremisti farinacciani, che "la presenza di altri gruppi” con il diritto "di controllo e di responsabile critica sugli atti della pubblica amministrazione," accanto al partito unico, avrebbe potuto essere "feconda di risulta­ ti." Queste affermazioni diedero origine ad una campagna revisionistica, della quale si fecero espressione La Stampa (con articoli di Parini, Pettinato, Spampanato), la Repubbli­ ca fascista, e, infine, L’Italia del popolo, un giornale diretto da Edmondo Cione che ottenne, il 14 febbraio 1945, l’autoriz­ zazione dal duce a costituire un "Raggruppamento naziona­ le repubblicano socialista,” i cui compiti avrebbero dovuto essere: “contribuire alla realizzazione del programma espresso con le parole: Italia, Repubblica, Socializzazione; risvegliare il senso della fierezza italiana; opporsi a qua­ lunque restaurazione monarchica e capitalistica; appoggia­ re la socializzazione; esercitare responsabile opera di cri­ tica e di controllo sugli atti di governo e dell'amministra­ zione.” 142

Intanto, il C.L.N.A.I., messo di fronte alla politica del governo di Roma cosi favorevole al movimento partigiano (per dimostrare priva di senso l’accusa di uno spostamento a destra, il Bonomi aveva nominato il 10 dicembre, un mi­ nistro per le terre occupate, nella persona del comunista Mauro Scoccimarro), approvò una mozione, il 12 gennaio 1945, in cui, dopo aver riaffermato la propria unità, si dice­ va sicuro che la creazione del ministero per l’Italia occupa­ ta avrebbe potenziato l’aiuto al popolo combattente del­ l’Italia settentrionale. Alcuni giorni dopo, però, il 17 gen­ naio, avendo avuto una conoscenza pili precisa degli svi­ luppi e delle conseguenze politiche della crisi per mezzo delle relazioni dei suoi delegati che si erano trovati nella capitale proprio durante il suo svolgimento, approvava un’al­ tra mozione più ferma e intransigente nella difesa delle proprie posizioni: “Il C.L.N.A.I., udita la relazione della mis­ sione a Roma, dichiara di mantenere, indipendentemente dalla soluzione romana della crisi governativa, la propria compattezza e il diritto ad una azione politica; conferma il proprio orientamento generale, le proprie soluzioni pratiche, le proprie designazioni a cariche pubbliche, quali risultano dalle sue precedenti deliberazioni, volte a condurre la guer­ ra di liberazione per la cacciata dei tedeschi e fino all’epu­ razione radicale del fascismo e all'instaurazione di un re­ gime di solida e sana democrazia.’’ Il C.L.N.A.I., perciò, non rinunciava a porsi come organismo centrale della nuova vita politica italiana e il fatto che dichiarasse di continuare a ritenere valide le nomine da esso approvate, significava che aveva visto nella crisi anche la possibilità di un inde­ bolimento del Comitato non tanto di fronte al vecchio Sta­ to, quanto di fronte agli alleati; insomma, l’aveva giusta­ mente interpretata come uno slittamento verso una mag­ giore soggezione agli anglo-americani, come era, in realtà, per il fatto che l’Italia rientrava nella zona d’influenza oc­ cidentale (al De Gasperi era andato il ministero degli Este­ ri, quasi a garanzia di un atteggiamento gradito all’Inghil­ terra e agli Stati Uniti). L'Economist osservava che l'insta­ bilità governativa derivava dalla scarsa autonomia concessa dagli alleati, per cui il ministero italiano non aveva praticamente alcun potere: "nell’interesse della democrazia italia­ na,” soggiungeva, "gli alleati dovrebbero trovare il modo di concedere agli italiani almeno una parvenza di effettivo autogoverno.” Ma era possibile questo, nella situazione in cui era stata messa la penisola dagli accordi di Mosca e dalla sua completa soggezione agli anglo-americani? Ormai 143

appariva vano sperarlo, o piuttosto una autonomia sarebbe stata concessa nella misura in cui l’Italia avesse dato la ga­ ranzia di non nutrire alcun proposito di sottrarsi alla in­ fluenza occidentale, cioè nella misura in cui i partiti di si­ nistra, e soprattutto il partito comunista, fossero stati ri­ dotti all’impotenza. La missione al Sud del C.L.N.A.I.

Come abbiamo detto, negli stessi giorni in cui si svolge­ va la faticosa crisi di governo, si trovava a Roma una de­ legazione del C.L.N.A.I., composta da Felici [Alfredo Pizzoni], Maurizio [Ferruccio Parri], Mare [Giancarlo Pajetta] e da Franchi [Edgardo Sogno], in cui gli alleati avevano particolare fiducia poiché vedevano in lui ‘'l’esponente delle formazioni autonome e un informatore obiettivo,” tale dà equilibrare, nel loro pensiero, gli elementi di sinistra, l’azio­ nista Parri e il comunista Pajetta, che avevano invano cer­ cato di non fare includere nella delegazione. Invece, non designato era stato proprio il Sogno, il quale, però, parti ugualmente, via Berna, Ginevra, Annemasse, Lione e Napoli, per Roma. Il compito della missione, che da lungo tempo il Comitato desiderava inviare, era quello di svolgere trat­ tative con il nostro governo e con gli alleati per il definitivo e formale riconoscimento del movimento partigiano e dei suoi organi dirigenti, cioè del C.L.N.A.I. come organo coor­ dinatore e promotore della lotta di liberazione nell’Italia occupata; essa doveva, inoltre, richiedere un adeguato finan­ ziamento che consentisse di resistere all’offensiva del ne­ mico e alla cattiva stagione. In definitiva, perciò, quegli uo­ mini che giunsero verso il 20 novembre a Roma, mostrava­ no apertamente di non tenere in alcun conto quanto aveva consigliato alla Resistenza del nord il generale Alexander con il suo proclama di pochi giorni addietro; ed infatti, nella prima riunione che essi ebbero, il 23 novembre, con Sacmed (il Supremo Comando alleato del teatro d’operazioni del Mediterraneo), al Pizzoni, che faceva notare come l’esercito partigiano salisse a 90.000 uomini sulle montagne (nelle cit­ tà ve n’era quasi il doppio), gli anglo-americani risposero ammettendo che non fosse “profittevole mettere dei freni ai partigiani che operano lontano dalle loro case” e che era anzi indispensabile continuare le operazioni: era loro in­ tenzione fornire aiuti ai partigiani stessi per evitare la stasi invernale, ma il cattivo tempo e l’esiguo numero di appa­ 144

recchi a disposizione limitavano necessariamente il tonnel­ laggio dei rifornimenti. Un relativo successo, perciò, era stato raggiunto, ma gli alleati si mostrarono, poi, più rigidi sul problema del di­ sarmo dei patrioti dopo la liberazione, al quale non vole­ vano rinunciare, temendo che potesse verificarsi anche in Italia quanto si stava verificando in Grecia. Invece, il C.V.L., come diceva un memoriale presentato dalla delegazione al governo perché agisse a sua volta presso gli anglo-america­ ni, considerava "essenziale evitare il disarmo e la dissolu­ zione dei suoi reparti man mano che essi siano raggiunti dall’avanzata alleata, sia per l’apporto che essi possono da­ re alla costituzione del nuovo Esercito italiano, sia per non pregiudicare mortalmente l’efficienza combattiva dei volon­ tari nel periodo di guerra che ancora fi attende.” Non solo i partigiani avrebbero potuto divenire preziosi, se inquadra­ ti in grandi unità apposite, per la successiva guerra alpina e di fiancheggiamento, ma anche per la tutela dell’ordine pubblico; insomma, il C.L.N.A.I. ed il C.V.L., ritenevano fer­ mamente che l’esercito partigiano dovesse "costituire un apporto fondamentale per il rinnovamento dell’Esercito ita­ liano, perché il futuro esercito della Nazione [diventasse] espressione del popolo.” Connesso a questo problema era l’altro del "riconoscimento ufficiale del C.V.L. come esercito regolare e la notificazione internazionale di esso a tutti gli effetti," in quanto erano soddisfatte “le condizioni previste dalla Convenzione di Ginevra (denominazione, uniforme, di­ stintivo, armamento visibile).’’ Anche per quest’ultimo ri­ conoscimento la delegazione si rivolgeva al Bonomi con un memorandum del 25 novembre, dicendo che il provvedi­ mento sarebbe stato giustificato dalla “maturità di organiz­ zazione e di capacità di lavoro del C.L.N." Ma, come è noto, il governo, il giorno seguente, entrava in crisi e, cosi, il primo ministro, che già quando aveva ri­ cevuto la missione si era trincerato dietro la volontà degli alleati ("Il governo italiano non c’entra per nulla”), era mes­ so neH’impossibilità di agire. Il peso delle trattative ricade­ va tutto sui delegati del C.L.N.A.I., i quali, però, si trova­ rono di fronte, all’inizio di dicembre, ad un irrigidimento degli anglo-americani (forse determinato dal fatto che la ripresa delle destre, segnalata dalla crisi, faceva loro intra­ vedere la possibilità di evitare concessioni alla Resistenza). Infatti, essi posero come condizione preliminare il disarmo delle formazioni e poi richiesero l’adempimento di tutti gli obblighi militari derivanti dalle condizioni d’armistizio, sen­ 145

za concedere al C.L.N.A.I. l’autorità sufficiente per dare a quegli obblighi stessi piena esecuzione. In tal modo, il C.L.N. veniva ridotto ad uno strumento militare degli alleati, o tutt’al più ad un organo tecnico-amministrativo (il Pizzoni nelle conversazioni che aveva avuto con i comandanti an­ glo-americani aveva ricevuto l’impressione che questi si ri­ servassero la più ampia libertà di sostituire subito gli ele­ menti nominati dai C.L.N. alle varie cariche: “A Roma han­ no pronti," egli disse al suo ritorno a Milano, "i vari ex­ prefetti e consiglieri di prefettura che, al minimo incidente, potranno essere immessi d’autorità, in sostituzione di ele­ menti nostri [...]"), privato di ogni funzione politica rinno­ vatrice e di ogni effettiva autonomia. Il 5 dicembre, la de­ legazione fece ancora un tentativo di modificare questo at­ teggiamento con una lettera in cui chiedeva l’assicurazione che le formazioni del C.V.L. fossero impiegate, "nella mas­ sima misura possibile, nella guerra contro i tedeschi fino al termine del conflitto, e nella lotta contro i fascisti,” e che il C.L.N.A.I. fosse riconosciuto "come l'unico organo che esercita e può esercitare poteri politici ed amministrativi a nome del governo italiano nel territorio occupato”; il co­ mando alleato, inoltre, avrebbe dovuto dare il suo consenso al riconoscimento che il Comitato chiedeva al governo ita­ liano. Come si vede, erano richieste in cui erano scomparse al­ cune delle esigenze avanzate all’inizio e che rappresentava­ no, per cosi dire, il minimo a cui la delegazione potesse adattarsi senza dover confessare un pieno fallimento delle trattative. Eppure il documento che dovette firmare, il 7 dicembre, nella sala del Grand Hôtel, non conteneva quasi nessuna di quelle condizioni: il C.L.N.A.I. avrebbe dovuto stabilire e mantenere una stretta cooperazione, dietro espres­ so desiderio del Comandante Supremo Alleato, fra tutti gli elementi che svolgevano attività nel movimento della Resi­ stenza (non si parlava, perciò, di riconoscimento); durante il periodo di occupazione nemica, il C.V.L. avrebbe dovuto eseguire tutte le istruzioni date dal Comandante in Capo AA.L, il quale agiva in nome del Comando Supremo Al­ leato, con particolare cura alle misure atte a salvaguardare le risorse economiche contro gli incendi, le demolizioni e simili depredazioni dei tedeschi (il compito dei partigiani, pertanto, era ridotto ad azioni secondarie che non impli­ cavano una collaborazione tattica con gli anglo-americani); il capo militare del C.V.L. avrebbe dovuto essere un uffi­ ciale bene accetto al Comandante in capo alleato (c’era qui 146

un esplicito accenno alle difficoltà sollevate dal C.V.L. ad accettare il gen. Cadorna, paracadutato fin dall’agosto '44 co­ me comandante militare della Resistenza, e accolto con diffi­ denza dai partiti di sinistra che non ne avevano approvato l’intento di condurre una guerra senza pregiudiziali né inter­ ferenze politiche, cosa impossibile, a loro parere, per una lotta che richiedeva, invece nei suoi combattenti una preci­ sa consapevolezza politica); nelle zone liberate, non appena istituito un Governo Militare Alleato, il C.L.N.A.I. avrebbe dovuto riconoscerlo e cedere ad esso "ogni autorità e tutti i poteri di governo e di amministrazione precedentemente assunti,” mentre le formazioni del C.V.L. avrebbero dovuto eseguire ogni ordine alleato, "compresi gli ordini di sciogli­ mento e di consegna delle armi” (questo punto era forse il più grave di tutto il documento, perché era la più recisa ne­ gazione di ciò per cui si era battuta la delegazione e toglie­ va al C.L.N. la speranza di poter avviare la nuova vita de­ mocratica senza la pesante tutela anglo-americana); infine, veniva stabilita un’assegnazione mensile “non eccedente 160 milioni di lire [...] per far fronte alle spese del C.L.N.A.I. e di tutte le altre organizzazioni antifasciste," assegnazione che sarebbe stata ripartita nella seguente misura: Liguria 20 milioni; Piemonte 60; Lombardia 25; Emilia 20; Vene­ to 35. "Ad un certo momento," scrive il Parri, "ci doman­ dammo se convenisse firmare. Ma firmammo. Troppo gran­ de, troppo importante, quello che avevamo ottenuto per non lasciar in seconda linea le altre considerazioni.” In realtà, forse per la prima volta gli alleati stipulavano un accordo con i rappresentanti dell’organismo unitario della Resisten­ za, e ciò aveva, indubbiamente, una grande importanza an­ che se era mancato il riconoscimento ufficiale del C.L.N.A.I.: questo poteva essere la base per ulteriori passi avanti e pro­ babilmente consenti la dichiarazione del Bonomi del 26 di­ cembre con cui il governo italiano riconosceva il C.L.N.A.I. "quale organo dei partiti antifascisti nel territorio occupato dal nemico" e lo delegava a rappresentarlo nella lotta con­ tro i fascisti e i tedeschi. Tale dichiarazione, peraltro, da un lato lasciò insoddisfatto il Comitato milanese, il quale si propose di darle una sua interpretazione, e, dall’altro, provocò una precisazione da parte degli anglo-americani secondo cui questi non riconoscevano il C.L.N.A.I. neppure "come organo dei sei partiti.” Era una grave delusione che si aggiungeva a quella del proclama Alexander, ed il grande merito di quegli uomini impegnati nella dura battaglia con147

tro i nazi-fascisti fu di non aver piegato di fronte a tutte queste difficoltà, di non essersi arresi pur quando sembra­ vano venir meno le alte ragioni ideali per cui si sacrifica­ vano. “Il naufragio della Carta Atlantica" Cosi era intitolato un articolo — pubblicato sul quaderno 2273 del 24 febbraio 1945 della Civiltà Cattolica — in cui padre Messineo commentava i risultati della conferenza di Jalta fra Churchill, Roosevelt e Stalin (4-11 febbraio 1945). Prima di arrivare al Mar Nero, il premier britannico si era incontrato con il presidente americano a Malta e qui era apparso ancora preso dal desiderio di occupare, sfruttando la resa tedesca in Italia, quanto più territorio dell’Austria fosse possibile, poiché "era indesiderabile,” disse, “che una parte dell’Europa occidentale superiore al necessario fosse occupata dai russi." Ma ben altri problemi attendeva­ no i due uomini politici alla vicina conferenza convocata, come scrive il Churchill, per consentire una revisione del­ l’intero assetto strutturale dell’Europa postbellica: "Una vol­ ta battuti i nazisti, come si doveva trattare la Germania? Che aiuto ci si poteva aspettare dall’Unione Sovietica nel rove­ sciamento finale del Giappone? E, conseguiti gli obiettivi mi­ litari, quali misure e quale organizzazione potevano fornire i tre grandi Alleati per la pace futura e il buon governo del mondo? Le discussioni di Dumbarton Oaks erano terminate in parziale disaccordo; cosi pure, in una sfera minore ma non meno vitale, i negoziati tra i 'polacchi di Lublino’ pro­ tetti dai sovietici e i loro compatrioti di Londra [...].” Tut­ tavia, quando il Churchill parlava di revisione dell’assetto strutturale europeo sembrava volere alludere al destino dei paesi balcanici, in quanto mostrava di ritenere che “raccor­ do privato e temporaneo,” da lui sottoscritto con Stalin nel­ l’ottobre precedente, non dovesse “governare o influenzare l’avvenire di quelle vaste regioni dopo la disfatta della Ger­ mania." Perciò, il primo ministro inglese si recava a Jalta con l’in­ tento, almeno cosi poteva sembrare, di rimettere in discus­ sione l’intesa moscovita, forse perché continuava ad essere tormentato dal dubbio e dal sospetto di essere stato, allora, troppo cinico. Ma questo intento, se anche vi fu, non fu af­ fatto espresso alla conferenza che fu dedicata in particolare a quattro problemi: 1) il problema di una più precisa defìni148

zione delle Nazioni Unite, in base ai presupposti elaborati a Dumbarton Oaks; 2) il problema dell'occupazione della Germania; 3) il problema polacco consistente nel tentativo di raggiungere un accordo fra il governo in esilio di Londra e il governo di Lublino, ultimamente trasferito a Varsavia; 4) il problema dell’intervento russo contro il Giappone. Fra questi problemi, poi, quello di cui più a lungo si discusse fu il polacco, in cui si delineò sempre più grave il contrasto fra gli occidentali e i sovietici a proposito delle frontiere della nuova Polonia e del governo da riconoscere ufficial­ mente, se quello di Londra o quello di Varsavia. Ebbene, su entrambi questi due punti parve che Churchill e Roosevelt finissero con l’accettare il punto di vista di Stalin, il quale voleva che le frontiere orientali polacche seguissero la li­ nea Curzon e che quelle occidentali fossero spostate fino a comprendere una larga parte di territorio tedesco (dalla cit­ tà di Stettino a sud lungo il fiume Oder e la Neisse occiden­ tale), anche se ciò avesse dovuto implicare il trasferimento di diversi milioni di tedeschi; sull’altro problema, cioè sul riconoscimento di uno dei due governi, il comunicato finale, dopo avere affermato che una nuova situazione si era crea­ ta in Polonia con la completa liberazione ad opera dell’Ar­ mata rossa, dichiarava che il governo provvisorio di Varsa­ via avrebbe dovuto essere riorganizzato su basi piu ampie con l’inclusione dei capi democratici provenienti dalla Polo­ nia stessa e dai polacchi all’estero: il nuovo governo si sa­ rebbe chiamato: Governo Provvisorio polacco di unità na­ zionale. La soluzione, pertanto, era stata trovata nell’allar­ gamento del governo allora esistente nel paese, allargamen­ to che era una cosa ben diversa dalla fusione di questo go­ verno con quello in esilio. L’impressione, quindi, che se ne ricevette fu di una sensibile vittoria del punto di vista rus­ so, tanto piu che, nello stesso comunicato, era detto che l’Unione Sovietica manteneva relazioni diplomatiche "col presente Governo provvisorio polacco," ma non si parlava di analoghe relazioni degli anglo-americani con il governo di Londra. Furono appunto queste concessioni degli occidentali che fecero osservare alla Civiltà cattolica come si fosse di fron­ te al "naufragio della Carta atlantica,” perché si erano vio­ lati il punto 2° e il punto 3° di essa, che riconoscevano il diritto dei popoli interessati ad essere consultati sui muta­ menti territoriali ed a scegliersi la forma di governo sotto la quale intendessero vivere: infatti, non si era chiesto al­ cun parere alle popolazioni per i trasferimenti di territoro,

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e il non aver fatto menzione del governo di Londra stava ad indicare, secondo padre Messineo, che la soluzione adot­ tata doveva essere considerata come una piena esautora­ zione di questo e una investitura autoritaria dell’altro for­ matosi in Polonia. "La cedevolezza,” egli concludeva, “an­ glo-americana dinanzi alle pretese del compagno Stalin è stata totale; i due capi di Stato non solo hanno sacrificato la Polonia, ma con la Polonia hanno sacrificato quei princi­ pi programmatici tanto solennemente proclamati in occa­ sione del loro primo incontro"; sicché, la Carta atlantica non era “riuscita a mantenersi a galla sul mare sconvolto degli interessi e degli egoismi nazionali, fino alla conclu­ sione della pace: varata nell’Atlantico è già naufragata nel Mar Nero.” Ma lo stesso Churchill aveva affermato ai Comuni, il 15 gennaio, rispondendo ad una interrogazione sulla validità della Carta atlantica (poiché era sembrato che il Roosevelt in un suo discorso del 22 dicembre ne avesse messo in dub­ bio la validità, che i suoi scopi mantenevano lo stesso va­ lore di quello che avevano nel 1941, sebbene non fosse pro­ babile che tutti i suoi obiettivi potessero venire immediatatamente raggiunti. Del resto, ancora il Churchill, sempre ai Comuni, riferendo, il 27 febbraio, sui risultati di Jalta, ave­ va esplicitamente riconosciuto che, in certo qual modo, la Polonia rientrava nella sfera d'influenza russa: "I polacchi avranno il loro futuro nelle loro stesse mani, con l’unica li­ mitazione che dovranno onestamente seguire, in armonia con i loro alleati, una politica amichevole verso la Russia.” L'inizio del contrasto fra gli anglo-americani e i sovietici Tuttavia, bisogna anche osservare che la cedevolezza dei due alleati occidentali era derivata, in buona parte, dal fat­ to che Stalin aveva promesso che, al più tardi dopo un me­ se, se non vi fosse stata qualche catastrofe al fronte, si sa­ rebbero potute tenere libere elezioni: "Io dissi,” scrive il Churchill, “che ciò senz’altro ci tranquillizzava, e poteva­ mo appoggiare di cuore un Governo liberamente eletto che subentrasse a qualunque altro organismo affine, ma non do­ vevamo esigere nulla che intralciasse comunque le opera­ zioni militari. Queste erano il fine supremo. Se però la vo­ lontà del popolo polacco si poteva accertare in tempo cosi breve, o anche in due mesi, la situazione sarebbe stata in­ teramente diversa e nessuno vi si poteva opporre." In real150

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tà, a Jalta, gli anglo-americani, negando il loro riconosci­ mento al governo di Varsavia fino al suo previsto allarga­ mento o fino alle elezioni, avevano lasciato capire di voler continuare, qualora nessuna di queste due condizioni si fos­ se verificata, a riconoscere il governo di Londra, contro i cui aderenti ormai le autorità sovietiche apertamente proce­ devano in Polonia. La continuazione delle trattative per risolvere ogni dif­ ficoltà era stata demandata ad una Commissione formata dal commissario sovietico per gli Esteri, Molotov, e dagli ambasciatori americano e britannico, ma il 20 marzo essa non era ancora giunta ad un accordo, perché i russi vole­ vano che ai colloqui i polacchi di Varsavia partecipassero come rappresentanti del governo, mentre gli occidentali in­ sistevano che vi intervenissero allo stesso titolo degli altri gruppi: cioè i sovietici ritenevano che il nuovo governo do­ vesse avere come base quello di Varsavia ed essere integrato con qualche elemento a loro gradito, e gli anglo-americani volevano invece un governo in cui gli uomini politici di Londra fossero sullo stesso piano di quelli residenti in Po­ lonia. Inoltre, il Molotov aveva ritirato l’invito da lui stesso fatto a Jalta di inviare osservatori, ed anzi mostrava di cre­ dere che tale invito non fosse mai stato rivolto agli occi­ dentali, e suggeriva loro di rivolgersi all’amministrazione di Varsavia. Neppure mostrava di voler prendere in conside­ razione la proposta che si evitassero in Polonia misure aven­ ti un peso sull’avvenire dello Stato polacco, con la quale espressione il Churchill si riferiva quasi certamente alla ri­ forma agraria che subito era stata avviata nel territorio li­ berato dalle truppe sovietiche e che era un problema che doveva stare molto a cuore agli esuli di Londra. Era pro­ prio tale spirito conservatore dei polacchi all’estero che sol­ levava una viva diffidenza nei sovietici, e lo stesso primo mi­ nistro britannico riconosceva che "certi sostenitori del Go­ verno polacco di Londra, e in particolare l’organizzazione clandestina di estrema ala destra, la cosiddetta N.S.Z.” po­ tevano fornire ai russi fondati motivi di lagnanza. Erano stati i polacchi di Londra a respingere sdegnosamente le decisioni di Jalta affermando che la linea Curzon avrebbe rappresentato "una quinta spartizione della Polonia, compiu­ ta dai suoi stessi alleati,’’ e rifiutandosi di ammettere l’al­ largamento del Comitato di Lublino-Varsavia, "di nomina straniera,” mediante l’immissione in esso "di capi demo­ cratici della stessa Polonia e di polacchi all’estero’’: un ta­ le governo — concludeva la nota presentata il 13 febbraio 151

alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti — "non può far altro che legalizzare l’interferenza sovietica negli affari interni della Polonia." Evidentemente, perdurava in quegli esuli una tenace avversione alla Russia, il che forniva un valido argo­ mento a Stalin per respingere le trattative con tali uomini e per chiedere che fossero designati polacchi che accetta­ vano la linea Curzon e che desideravano rapporti amiche­ voli fra i due paesi: “Il Governo sovietico,” disse in una lettera al Churchill del 7 aprile, “insiste su questo poiché molto sangue è stato versato dai soldati sovietici per la li­ berazione della Polonia, e perché nel corso degli ultimi trent’anni il territorio della Polonia è stato usato due volte dal nemico per un’invasione della Russia.” Il contrasto era giun­ to ad un punto drammatico quando i russi, verso la metà di marzo, avevano chiesto che alla prossima conferenza di San Francisco, convocata per il 25 aprile per preparare il piano definitivo della Organizzazione delle Nazioni Unite se­ condo le linee proposte a Dumbarton Oaks, fosse invitato solo il governo di Lublino; al rifiuto degli occidentali i so­ vietici avevano risposto dicendo che non vi avrebbero in­ viato Molotov: “Ciò minacciava,” osserva il Churchill, "di rendere impossibile qualunque progresso a San Francisco, e anzi la stessa Conferenza.” Queste discussioni cosi vivaci e questi contrasti erano resi possibili dal fatto che la Polonia non era stata assegna­ ta, nei colloqui di Mosca dell’ottobre 1944, alla esclusiva sfera d’influenza russa (50% agli uni e 50% agli altri, come si è visto) e, di conseguenza, gli anglo-americani credeva­ no di poter imporre ai sovietici il rispetto dei loro diritti, che consistevano nella difesa delle correnti democratiche borghesi. Ben diversa, invece, era la situazione della Roma­ nia, dove il Churchill aveva riconosciuto che la maggioran­ za del 90% spettava all’U.R.S.S. ed aveva riserbato solo il 10% agli altri. Di tale situazione predominante approfittò la Russia, risolvendo il dissidio fra il partito liberale e il par­ tito nazionale dei contadini da un lato e i partiti del fronte democratico nazionale (del quale facevano parte i piccoli agricoltori, i liberali dissidenti, i socialisti ed i comunisti), dall’altro, sulla riforma agraria — dissidio che aveva por­ tato, il 26 febbraio, alla proclamazione dello stato d’assedio da parte del governo Radescu —, in favore del fronte. In­ fatti, il 27 febbraio, il vice-commissario agli Esteri sovietico, Vishinskij, si era presentato al re Michele e gli aveva chie­ sto di sciogliere il ministero di coalizione. Il sovrano aveva cercato di resistere, ma, dopo lunghe consultazioni, aveva 152

ceduto affidando, in un primo momento, il reincarico al principe Stirley, che però dovette rinunciare quasi subito al mandato (2 marzo). Fu invitato allora il comunista Petru Groza, che il 6 marzo potè presentare la lista dei nuovi mi­ nistri, tratti tutti dal fronte con l’esclusione dei nazionalcontadini e dei nazional-liberali: si trattava di un governo, come disse il presidente del consiglio, risoluto a liquidare il passato, ad adempiere gli obblighi verso gli alleati e a mantenere più strette relazioni con "la grande vicina in Oriente.’’ Le reazioni delle capitali occidentali furono, nel comples­ so, positive: Washington approvò l’atto compiuto dalla Rus­ sia, pur facendo rilevare che il trasferimento di poteri non avrebbe potuto diventare effettivo che alla conferenza della pace ("di libera votazione popolare non si fece parola,” scri­ veva La Civiltà cattolica), e a Londra Eden informò i depu­ tati che i sovietici avevano comunicato essere necessario eliminare il generale Radescu perché incapace di mantenere l'ordine nelle retrovie dell’esercito rosso e di impedire effi­ cacemente l’attività degli elementi favorevoli ai fascisti e ai nazisti. La verità era che gli anglo-americani non avreb­ bero potuto protestare per “il dominio di una minoranza comunista” perché alla Russia era stata riconosciuta una funzione predominante in Bulgaria e in Romania, mentre essi si assumevano la tutela della Grecia: “Stalin si era strettamente attenuto,” afferma Churchill, "a questa in­ tesa durante le sei settimane di combattimenti contro co­ munisti ed E.L.A.S. nella città di Atene, ad onta del fatto che ciò riusciva spiacevolissimo a lui e a quelli della sua cerchia [...]. Se io lo incalzavo troppo c’era il caso che di­ cesse: ‘Io non mi sono immischiato nelle vostre faccende in Grecia; perché non dovreste lasciarmi la stessa libertà di azione in Romania?”’ Erano le prime conseguenze della di­ visione dell’Europa in sfere d’influenza, una divisione che imponeva a ciascuna delle due parti di disinteressarsi dei paesi che non rientravano nella propria zona. Tensione nei rapporti fra l’Italia e la Francia...

La Valle d’Aosta minacciava di diventare, nei primi mesi del 1945, un punto di notevole attrito fra l’Italia e la Fran­ cia, mostrando quest’ultima il desiderio e l’intenzione di annettersela. Certo, la popolazione della Valle aveva avuto gravi motivi di lamentarsi della politica fascista soffocatri153

ce dei suoi sentimenti autonomistici, e subito dopo Γ8 set­ tembre si era formato, guidato dal doti. Emilio Chanoux, notaio di Aosta, un forte movimento clandestino che si era unito alla popolazione valdese delle valli del Pellice, altret­ tanto antifascista e decisa ad ottenere l'autonomia nel qua­ dro, però, di una nazione italiana rinnovata su basi demo­ cratico-federali. Il 19 dicembre 1943 i valdesi e i valdostani si erano incontrati a Chivasso e qui avevano approvato un manifesto in cui chiedevano il riconoscimento dell’autono­ mia nei seguenti campi: a) politico-amministrativo; b) culturale-scolastico, con il diritto ad usare le due lingue, ita­ liana e francese; c) economico, con un trattamento fiscale, agrario e industriale particolare. Lo Chanoux fu ucciso dai fascisti nel maggio 1944 e da allora si erano affermate altre tendenze, una delle quali propendeva per l’annessione alla Svizzera (che però non volle prendere in esame tale richie­ sta), ed un’altra favorevole all’unione alla Francia. Qui tro­ varono una buona accoglienza tanto che, verso la metà del settembre 1944, fu mandata una missione politico-militare nella Valle con l’incarico di saggiare il terreno. Questa delicata situazione era a conoscenza del C.L.N.A.I., il quale approvò, il 6 ottobre 1944, una solenne dichiara­ zione che riconosceva l'autonomia valdostana (essa fu, poi, confermata dal governo Bonomi e dal Luogotenente: sareb­ be stata una autonomia del tipo di quelle siciliana e sarda), ed incaricò la delegazione partita nel novembre per il sud di incontrarsi con gli elementi responsabili francesi per di­ scutere del problema. Nel ritorno da Roma, pertanto, il Pizzoni e il Parri (il Pajetta era rimasto nella capitale con il compito di continuare le trattative per il riconoscimento uf­ ficiale del Comitato e del C.V.L.) ebbero dei colloqui con esponenti militari del vicino paese, alla presenza di Euge­ nio Dugoni, delegato del C.V.L. nella Francia del sud-est, e di ufficiali britannici della "Special Force" ed americani deir'O.S.S.” Le riunioni del 19 e 20 dicembre, nell’Alta Sa­ voia, furono dedicate esclusivamente all’esame della questone valdostana, ed i francesi parvero decisi ad ottenere la designazione a comandante delle formazioni partigiane di un certo “Mésard" che si era attivamente impegnato nella propaganda politica a favore della Francia. Peraltro, gli ar­ gomenti addotti dal Parri — il quale, tra l’altro, affermò che il C.L.N.A.I. non avrebbe mai dato il suo consenso a tale nomina — persuasero gli anglo-americani della necessità di trovare un’altra soluzione che fosse, in un certo senso, di compromesso fra le due tesi opposte: la soluzione avanzata 154

dal col. americano Baker, perciò, fu che si cercasse un co­ mandante cosi autorevole da imporsi al “Mésard." Dalla di­ scussione, divenuta generale, usci il nome del gen. Chatrian, valdostano, antifascista al quale si pensava che il "Mésard" stesso non avrebbe potuto rifiutare il suo concorso; e, co­ me rappresentante del C.L.N. di Aosta, si convenne sul no­ me di F. Chabod, come l’uomo più indicato. Intanto, però, i numerosi partigiani valdostani che ave­ vano dovuto sconfinare in Francia in seguito ai rastrella­ menti dell’ottobre-novembre, e che erano stati riorganizza­ ti dagli alleati, erano trattenuti dalle autorità francesi. An­ cora nel febbraio 1945 queste si opponevano al ritorno nella Valle di due brigate di partigiani ed anche dei loro coman­ danti, con la scusa che in mezzo ad essi si nascondesse si­ curamente qualche spia fascista. Tuttavia, Parigi negava di avere simili rivendicazioni ed affermava che si sarebbe oc­ cupata della cosa soltanto nel caso di un plebiscito valdo­ stano in favore della Francia. Ma sembrava di capire che il governo della vicina nazione (che era tuttora sotto lo stretto controllo nazionalistico del De Gaulle) andasse pre­ parando segretamente la situazione favorevole a questo ple­ biscito: forse sperava che al momento della liberazione si creasse nella Valle il caos (altrimenti, perché proibire il rientro dei migliori partigiani?), che avrebbe giustificato lo intervento delle truppe francesi per ristabilire l’ordine, non essendo il governo italiano in grado di provvedere con le sue forze. Cosi, si sarebbe potuto tenere il plebiscito e la popolazionè, grata, avrebbe votato per l'annessione alla Francia. Del resto, questi dubbi apparivano appunto giusti­ ficati dalla politica del generale De Gaulle, che amava ri­ prendere le tradizioni della monarchia dei secoli XVI e XVII, di un Luigi XVI, quando il possesso di Saluzzo e di Pinerolo aveva consentito alla Francia di tenere una punta avanzata nella pianura del Po; perciò, l’eventuale possesso della Val d’Aosta avrebbe avuto per essa un significato so­ prattutto strategico. In tali condizioni, un discorso del De Gaulle, pronun­ ciato a Nizza il 10 aprile — quando cioè era appena co­ minciato il decisivo attacco alleato alla linea gotica —, venne ad accrescere i sospetti sulle intenzioni francesi: il generale, infatti, dopo aver ricordato la liberazione della città che aveva fatto "giustizia per sempre” della pretesa "di strappare Nizza alla Francia," aggiunse: "Adesso i con­ ti si faranno tra i popoli e non tra gli individui. Sarebbe in­ degno della Francia e indegno di Nizza se il popolo france­ 155

se vincitore se la prendesse con i singoli. Quel che occorre è assai più: una sistemazione fra i due popoli e una siste­ mazione durevole. Lo spirito della vittoria anima Nizza co­ me la Francia intera. È il vento della vittoria che si è al­ zato: l’ho sentito aleggiare l’altro ieri intorno alle nostre bandiere sul Reno. Che dico il Reno? Ora aleggia assai al di là, sulle Alpi, e sta per superarle." Erano frasi piutto­ sto oscure, pronunciate con una retorica ancien style, che sembravano nascondere il proposito di prender parte alla occupazione alleata dell’Italia o anche a qualcosa di più grave. ...e con la Jugoslavia Piu difficili, però, erano senz’altro i rapporti con la Jugo­ slavia, che apertamente da tempo aveva dichiarato il propo­ sito di annettersi quella che era detta la Marca istro-goriziana, cioè la Venezia Giulia. Infatti, fin dal giugno-luglio 1944, mentre erano in corso i colloqui fra i rappresentanti del C.L.N.A.I. e del P.O.O.F., Josip Smodlaka, commissario jugoslavo agli Esteri dell’A.V.N.O.J. (Assemblea nazionale antifascista di Liberazione nazionale), sulla rivista Nuova Jugoslavia, aveva affermato il diritto del suo paese ad occucupare Fiume, Pola, Trieste e Gorizia con tutto il territorio che era stato annesso all’Italia alla fine della prima guerra mondiale. Poi, nel settembre, era uscito un volume, La haute Adriatique et les problèmes politiques actuels, in cui si sosteneva la necessità di non separare i centri italiani dalla circostante campagna slava e di non tagliare Trieste dal retroterra di cui era lo sbocco. Infine, Γ8 gennaio 1945, ancora lo Smodlaka ripeteva, a Londra, che la pace fra l’Italia e la Jugoslavia si sarebbe potuta concludere solo alle condizioni volute da quest’ultima. Il C.L.N. della Venezia Giulia, formato dal p.l., dalla d.c., dal p.d’a. e dal p.s.i. (il p.c.i., scrive Giovanni Paladin, ave­ va annunciato con un suo proclama del 17 ottobre 1944 "il passaggio nello schieramento politico jugoslavo” e, perciò, si era ritirato dal Comitato) aveva preso posizione firman­ do, il 9 dicembre 1944, un patto con il quale i rappresentan­ ti dei quattro partiti dichiaravano di considerare “sacro ed inviolabile il principio dell’unità d’Italia, raggiunto in que­ ste terre con il più puro sacrificio di sangue, e riconosciuto dalle democrazie occidentali nella precedente guerra di libe­ razione, che chiudeva il ciclo delle guerre risorgimentali.” 156

Tuttavia, i partiti antifascisti, "decisi a togliere ogni osta­ colo alla collaborazione fraterna tra gli italiani e gli jugo­ slavi,” affermavano di voler sostenere, nella futura Costi­ tuente italiana, la necessità della concessione della pili am­ pia autonomia alla Regione Giulia, "secondo il principio de­ mocratico e le specifiche esigenze politico-economiche." Per­ ciò, essi erano fautori, “salvo sempre il principio nazionale unitario,” dell’amministrazione autonoma della Venezia Giu­ lia e dei suoi comuni; dell’assoluta parità giuridica, cultura­ le ed economica dei cittadini italiani, sloveni e croati, e del­ la cooperazione e pacifica convivenza dei due gruppi etnici in un particolare ordinamento che eliminasse ogni questio­ ne di minoranza. Per quanto riguardava il porto di Trieste gli stessi partiti sostenevano la sua trasformazione in porto veramente franco, "cioè in un emporio libero a tutte le ban­ diere e governato, quanto ad amministrazione e gestione commerciale, da un Ente portuale in cui abbiano una con­ grua partecipazione la municipalità e gli enti pubblici ed economici interessati, e del quale facciano viva parte le aziende armatoriali, industriali e commerciali, cioè tutte le aziende utenti, sia nazionali che estere." Questo programma e questi impegni, il C.L.N. ribadiva il 9 gennaio 1945, subito dopo le dichiarazioni dello Smodlaka, senza, peraltro, riu­ scire ad arrestare l’espansione jugošlava, potentemente so­ stenuta dall’offensiva sovietica che, nel marzo, superata la Ungheria, giungeva in Austria. Intanto, nuovi avvertimenti continuavano a giungere non solo da parte della stampa ma anche dello stesso mare­ sciallo Tito ai "grandi Alleati e all’Italia vinta," che tutta la Venezia Giulia e l’Istria dovevano passare alla Jugoslavia. Era chiaro che i dirigenti politici del vicino paese non vole­ vano distinguere fra l’Italia fascista e la nuova Italia anti­ fascista, nata da una profonda ribellione alla dittatura, e che anzi basavano tutta la loro propaganda sulla identità fra popolo italiano e fascismo. Essi, inoltre, cercavano di giun­ gere alla pace con una situazione stabilizzata in loro favore mediante la subordinazione politica e militare delle forze an­ tifasciste italiane a quelle jugoslave dell’O.F., in modo da evitare il diritto all’autodecisione proclamato dalla Carta atlantica ed a cui gli italiani si richiamavano come all'uni­ ca, valida difesa del loro spirito di indipendenza. Ma se dif­ ficile era la nostra posizione, non meno difficile era quella di Tito, pur sembrando in apparenza molto più sempli­ ce, perché egli non poteva ricorrere alia forza per annet­ tersi le province contestate, ed aveva tutto da temere da un 157

eventuale plebiscito. Inoltre, se era appoggiato dalla Russia, l’Italia, a sua volta, era appoggiata dagli alleati; la questio­ ne di Trieste stava per diventare un altro punto di attrito fra le due sfere d’influenza, fra i due blocchi. Questo si potè capire quando venne annunciato, il 12 aprile, la conclusione di un patto di alleanza della durata di 25 anni fra l’Unione Sovietica e la Jugoslavia, patto che fu inteso a Belgrado come una garanzia per la sicurezza futura dei confini del paese (cosi disse Andriya Hebrang, presiden­ te del Consiglio economico), mentre Tito dichiarò al giorna­ le di Mosca Stella rossa che il desiderio delle popolazioni dell’Istria e di Trieste di essere accolte nella nuova Jugosla­ via sarebbe stato esaudito: "L’Italia,” concluse, "ci dovrà delle riparazioni per i danni arrecati." Come si vede, il ma­ resciallo ritornava ancora sulla colpevolezza del popolo ita­ liano, che doveva fare apparire la perdita della Venezia Giulia come una giusta punizione; ma ben sapendo come questa accusa di non mai interrotto fascismo fosse insuf­ ficiente a giustificare l’annessione, cercava anche di insiste­ re sulla volontà delle popolazioni, al cui desiderio egli diceva di rispondere. Cosi, verso la fine di aprile, dopo avere occupato Fiume, procedeva subito verso Trieste e Gorizia. Le sue giustificazioni, però, non erano accettate dagli alleati e dal governo italiano, ai quali l’avanzata jugoslava appariva un atto di forza unilaterale; era proprio quello che Tito avrebbe voluto evitare perché se la questione veniva trasfe­ rita su questo terreno la sua sconfitta sarebbe stata quasi certa, a meno che essa non fosse fatta rientrare in una acui­ ta tensione fra i due blocchi con la minaccia di rottura, co­ sa, però, che nessuno poteva desiderare. Ecco perché il Bonomi e il De Gasperi, ministro degli Esteri, poterono richia­ marsi, il 30 aprile, dopo aver condannato implicitamente il gesto del maresciallo, ad una condotta più democratica: in­ fatti, in seguito a consultazioni con le autorità alleate, riaf­ fermarono "la necessità che la soluzione delle questioni con­ troverse fra l’Italia e la Jugoslavia non sia pregiudicata dal­ le contingenti operazioni militari, ma venga affrontata e risolta soltanto quando i due Governi avranno l’autorità che può loro derivare dalla liberazione di tutto il territorio nazionale, ancora in corso, e dalla volontà dei supremi or­ ganismi elettivi dei due Paesi, quando questa avrà il modo di liberamente esprimersi.” Di conseguenza, il governo ita­ liano sosteneva che anche la Venezia Giulia dovesse essere affidata, “ai termini dell’armistizio, aH’Amministrazione al­ leata, cosi come [era] avvenuto per il resto del territorio, ita­ 158

liano.” Il 3 maggio, le truppe anglo-americane, passato l’Isonzo, occupavano Gorizia e Trieste, prevenendo in tal modo l'esercito jugoslavo. In quello stesso giorno, il nostro con­ siglio dei ministri inviava un saluto "alla città indiscutibil­ mente italiana," rivolgeva "un plauso riconoscente alle trup­ pe alleate e alle formazioni partigiane che [avevano] con­ tribuito alla sua liberazione,” e chiedeva che l’Amministrazione provvisoria della Venezia Giulia fosse "tale da garan­ tire la neutralità e l’imparzialità e da assicurare la libera cooperazione della popolazione locale.” Il problema non sa­ rebbe più stato deciso direttamente fra l’Italia e la Jugosla­ via, ma interessava direttamente i due opposti blocchi: un altro sintomo di come il principio di nazionalità, in nome del quale si era combattuta la prima guerra mondiale, fos­ se stato travolto dalla seconda. Verso l'insurrezione nazionale

Don Sturzo, commentando, il 19 febbraio 1945, i risulta­ ti della conferenza di Jalta, dopo aver fatto osservare come nel comunicato finale non vi fosse “una parola speciale sul­ l'Italia,” esprimeva la sua “impressione personale” che "sul­ la opinione inglese [pesasse] ancora il dubbio che con la li­ berazione del Nord-Italia vi [sarebbero state] delle agitazio­ ni e dei torbidi che il governo italiano non [sarebbe stato] in grado di fronteggiare e per i quali gli Alleati di concerto [avrebbero dovuto] intervenire come in Grecia." Egli dichia­ rava “una tale prospettiva infondata," ed avvertiva gli allea­ ti stessi a non ripetere gli errori del passato, perché allora la reazione dell’Italia settentrionale sarebbe stata vigorosa e avrebbe portato “al di là delle intenzioni dei dirigenti”: non si poteva, perciò, pensare "di reprimere delle sponta­ nee manifestazioni popolari per la democrazia e per la re­ pubblica," né di “disarmare i patrioti," né di “metter tutto nelle mani dell’Amministrazione Militare Alleata," e neppure di lasciare "le pubbliche amministrazioni delle città alla mercé degli ex-fascisti." “È il momento," concludeva con forza, “di far cadere tutti i dubbi e i sospetti che hanno danneggiato l’Italia nel suo rinascere dopo la caduta del fa­ scismo, e che hanno mortificato la volontà del popolo a contribuire alla guerra fino alla vittoria." Ma gli anglo-americani sembravano ben lontani dal vo­ ler adottare una simile politica e un evidente sintomo del persistere della loro diffidenza verso il movimento di libe­ 159

razione fu l’incarico affidato al sottosegretario per l’Italia occupata, Medici Tornaquinci (che si disponeva nella se­ conda metà di marzo a recarsi in Alta Italia per assolvere, da parte del governo, ad una generica missione di informa­ zione e di coordinamento), di far presente agli esponenti del C.L.N. piemontese e del C.L.N.A.I. le loro perentorie esi­ genze. Esse consistevano, come disse il Medici Tornaquinci nelle riunioni che ebbe a Torino nei giorni 26-27-28 marzo, nella richiesta che i C.L.N. regionali e provinciali si trasfor­ massero, al momento della liberazione, in Giunte consulti­ ve allargate con tutti gli elementi tecnici che dessero ga­ ranzia di buon funzionamento. Il Medici, prevedendo le dif­ ficoltà che avrebbe incontrato per fare accettare questa tra­ sformazione dei Comitati, aveva insistito con gli alleati af­ finché riconoscessero i C.L.N. come unici organi consultivi senza aggiungerci nessuno; ma la risposta era stata nega­ tiva. Allora, aveva cercato di ottenere che i nomi delle altre persone fossero fatti dagli stessi C.L.N., e vi era riuscito solo dopo lunga discussione. Si capiva che gli anglo-americani volevano, attraverso questo allargamento, moderare, se non sopprimere del tutto, la spinta rinnovatrice e rivoluzionaria, come essi temevano, dei Comitati, perché una larga Giunta, in cui fossero entrati individui che non avevano preso parte diretta alla lotta di liberazione (e proprio questo gli alleati mostravano di vole­ re, quando si erano rassegnati a malincuore a lasciar desi­ gnare dai C.L.N. i nominativi), minacciava di diventare un organismo burocratico, facilmente manovrabile. L’opposizio­ ne del C.L.N. piemontese fu vivace e, talora, anche aspra: i rappresentanti dei vari partiti, tutti, dal liberale al comu­ nista, misero in rilievo come, in tal modo, il Comitato avreb­ be perduto la sua fisionomia politico-democratica e sarebbe diventato un “organo pleonastico.” Soprattutto il 28 marzo tale opposizione si delineo ferma e risoluta: l’azionista Ma­ rio Andreis affermò: “Noi non possiamo abdicare dalla no­ stra posizione di rappresentare di fronte alla popolazione, il centro direttivo e responsabile come il C.L.N. è stato si­ no ad oggi. Altrimenti avremo la fine del nostro organi­ smo”; il socialista Pier Luigi Passoni dichiarò: "Se la mas­ sa combattente apprendesse questa situazione, vedrebbe in essa un disconoscimento il più assoluto e completo della sua [del C.L.N.] attività e potrebbe pensare all’inutilità della lot­ ta che si sta svolgendo”; i democristiani Andrea Guglielminetti ed Eugenio Libois insisterono: "Se i combattenti no­ stri sapessero che veniamo completamente cancellati dalla 160

vita pubblica e rimaniamo puro e semplice organo di con­ sultazione, vi sarebbe certo un grave nocivo mutamento nel­ le forze militari”; il liberale Paolo Greco pregò il Medici Tomaquinci di voler capire “le preoccupazioni nostre di non voler abdicare preventivamente a quella che può costi­ tuire la ragione di essere della nostra autonomia.” Ma rin­ viato del governo si rifiutò di prendere in considerazione i suggerimenti avanzati dal Comitato (“Non possono preten­ dersi modificazione di atteggiamenti. Sono in grado di esclu­ derlo. Sono venuto qui per dirvi quelle che sono le loro [degli alleati] ultime definitive intenzioni [...]”), ed un aiu­ to parve venirgli da quanto disse Amedeo Ugolini, rappre­ sentante del p.c.i., il quale esortò a "guardare la realtà se­ riamente,” a "porre le cose su un terreno concreto” ed a tro­ vare un "modus vivendi," una specie di compromesso che consentisse di salvare il salvabile: “Possiamo cercare di in­ serire qualcosa che ci consenta, tutelando quel che si può e salvando il salvabile, di creare un organismo per i rapporti con gli alleati.” In definitiva, perciò, i comunisti si dimo­ stravano indifferenti alla forma, nella convinzione che i C.L.N. sarebbero riusciti egualmente "a fare opera di go­ verno indipendentemente dal fatto che gli alleati [potesse­ ro] avere anche loro la sensazione di essere al governo.” Ma questa posizione non fu condivisa dagli altri partiti, con vi­ va delusione del Medici Tomaquinci ("Io ritenevo,” disse questi, “che dopo le dichiarazioni del p.c. si potesse giun­ gere ad accettare una soluzione conciliante”), ed anzi nac­ que un altro problema, sollevato soprattutto dal p.s.i. e dal p.d’a., sulla subordinazione del C.L.N. piemontese nei ri­ guardi del C.L.N.A.I., che era il vero organo dirigente della lotta nell’Italia settentrionale. Ogni decisione doveva essere presa a Milano: ci sottoporremo, affermò il Passoni, "a quel­ le che saranno le decisioni che prenderà il C.L.N.A.I. in tut­ to e per tutto; questo atteggiamento assumiamo con una dichiarazione che sarà stesa a parte, deferendo al C.L.N.A.I. l'accettazione e la definizione degli accordi interessanti le regioni dell’Alta Italia.” Un simile punto di vista riscosse la “adesione incondizionata” dell’Andreis, ma fu ribattuto piut­ tosto aspramente dal Medici: "Lei fa delle questioni di lana caprina. So per esperienza che quando c’è la buona volontà di giungere ad una soluzione, che tenga conto di tutte le esi­ genze, ci si arriva; quando questa buona volontà non c’è, è impossibile giungere a un accordo.” Era stata preparata una mozione che riaffermava il le­ game del C.L.N. piemontese “di dipendenza e di solidarietà li.6

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col Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia,” ri­ tenuto il solo organismo competente a decidere "sulla strut­ tura politica militare ed amministrativa nell’Italia setten­ trionale, subordinatamente ai singoli provvedimenti che le autorità alleate dovessero adottare”; che formulava l’esigen­ za di una epurazione rapida e radicale, e che, pur ammet­ tendo la trasformazione del C.L.N. in Giunta popolare di governo, faceva tuttavia osservare come nel Piemonte esi­ stesse "una rete periferica e capillare di amministrazioni democratiche clandestine saldamente coordinate dai C.L.N. provinciali e regionali,” senza le quali non sarebbe stato possibile “assolvere alcun compito d’ordine amministrativo, politico e sociale e mantenere l’ordine.” Ma nella mozione che concluse queste laboriose giornate tutto ciò era scom­ parso e si parlava soltanto dell’impegno, da parte del C.L.N. del Piemonte, di potenziare e perfezionare la sua organizza­ zione militare e amministrativa per attaccare i tedeschi e i fascisti e per difendere con tutti i mezzi gli impianti idroelettrici. Il 29 marzo il Medici Tornaquinci era a Milano e qui le conversazioni che egli ebbe con il C.L.N.A.I. si rivelarono ben più difficili di quelle di Torino: il C.L.N.A.I. aveva una precisa consapevolezza della funzione delle nuove forze de­ mocratiche nella ricostruzione dello Stato e non era assolu­ tamente disposto a rinunciare ad essa. Cosi, venne approva­ ta una mozione che, dopo aver ripetuto l’impegno preso dal C.L.N. piemontese sul potenziamento dell’organizzazione mi­ litare, affermava che i C.L.N. provinciali e comunali avreb­ bero amministrato saggiamente le province e i comuni se­ condo le leggi dello Stato fino a quando il governo militare alleato (A.M.G.) non avesse avocato a sé tutti i poteri. Inol­ tre, essa chiedeva una epurazione “rapida e profonda sia in campo politico che amministrativo, economico e finanziario, volta al risanamento della vita nazionale,” e sosteneva che le Giunte consultive regionali dovessero essere formate die­ tro esplicita richiesta dei commissari regionali alleati ma “su proposte di designazioni” dei C.L.N. regionali e provin­ ciali. Infine concludeva: "I Partiti componenti il C.L.N.A.I. dichiarano comunque che con tale accordo sulla situazione reale che si creerà al momento della liberazione, non inten­ dono né rinunciare né modificare i loro principi relativa­ mente alla posizione politica dei C.L.N. nel quadro della rinnovata democrazia italiana.” Erano ribadite, in questa mozione, le ragioni ideali della lotta antifascista del popolo italiano che si erano espresse attraverso i C.L.N., gli orga­ 162

nismi della rivoluzione autonoma popolare. Certo, la mis­ sione del Medici Tomaquinci si chiudeva, in sostanza, con un fallimento; gli alleati dovevano sapere che gli italiani del nord non avevano combattuto solo per appoggiare le loro azioni, ma per un grande ideale di libertà e di democrazia che avrebbe dovuto porli sullo stesso piano morale dei loro liberatori. Ecco perché, come scrive il Valiani, i rappresen­ tanti del C.L.N.A.I. dissero "quattro parole rudi e franche a Medici Tornaquinci. Noi abbiamo bisogno di pieni poteri, il governo di Roma deve riconoscerli. Non si può scatenare una grande rivolta di popolo, facendo dei ‘distinguo’ e crean­ do dei problemi di competenza."

Ultime speranze e ultime delusioni dei fascisti Il 9 aprile il giornale del Cione, L'Italia del popolo, ve­ niva soppresso, tre giorni dopo che aveva rivolto un appel­ lo a tutti coloro che ritenevano di essere stati vittime "di atti arbitrari da parte delle varie polizie,” di segnalarli per mettere il Raggruppamento nazionale repubblicano-sociali­ sta in grado di chiederne conto e di esercitare, in tal modo, la sua funzione di critica e di controllo sull’operato delle autorità. Questo invito era stato detto dal Regime fascista di Roberto Farinacci scandalistico·. "Ci sembra di ritornare ai quarantacinque giorni badoglieschi, oppure ai tempi del quartarellismo.” Il Raggruppamento, proseguiva, "altro non vuole essere che un cavallo di Troia, molto troiesco invero, in mezzo al nostro movimento di riscossa”; insomma, esso era una "provocazione continua alla nostra rivoluzione." Dopo questo violento attacco L’Italia del popolo era costret­ ta a cessare le pubblicazioni, il che dimostrava quanta in­ fluenza avessero nel partito fascista gli elementi estremisti e come essi riuscissero a bloccare ogni tentativo di pacifi­ cazione. In realtà lo stesso Mussolini era, in quei momenti, molto incerto sulla via che gli sarebbe convenuto seguire: da un lato, infatti, sembrava che volesse intensificare e ren­ dere effettivo il programma della socializzazione, per in­ staurare, come amava dire, una superiore giustizia nei rap­ porti di produzione e distribuzione della ricchezza, ma, dal­ l’altro, cercava di apparire, agli occhi della borghesia italia­ na ed intemazionale, come l’unico valido difensore contro il minaccioso dilagare del comuniSmo. Quando si faceva ispirare dal primo intento, affermava di voler lasciare, come dice il Silvestri, la successione della 163

repubblica sociale "ai repubblicani e non ai monarchici, la socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai borghe­ si." Sotto questo intento c’era, senza dubbio, la segreta speranza di introdurre nel campo dei vincitori scissioni e contrasti che ne avrebbero potuto minacciare l’unione e la concordia; e allora anch’egli avrebbe potuto rendersi utile nella società del dopoguerra per opporre di nuovo un ar­ gine al montare del socialismo e del comuniSmo. Infatti, i ricordi dell’Anfuso parlano quasi soltanto della sua convin­ zione di essere indispensabile all’Europa borghese come tu­ tore degli interessi conservatori: già nell’inverno 1944-45 si credeva a Gargnano — e il Mussolini lo credeva più di tutti — che "la sua presenza, anche dopo la risoluzione della guerra, avrebbe potuto costituire, se sapientemente con­ siderata dalla parte anglosassone, una solida remora alla minaccia comunista che si manifestava già in maniera tan­ to violenta da costringere almeno gli inglesi a riesaminare le loro posizioni nei confronti dell’Unione Sovietica”; ed era diffusa la leggenda, come dice appunto l’Anfuso, che gli anglo-americani si fossero fermati sulla linea gotica per consentire "lo stabilimento di un Governo italiano che non liquidasse Mussolini e i suoi seguaci a ferro e fuoco." E fra il 10 e il 15 aprile, il duce esclamò: “L’importante sareb­ be poter sopravvivere alla fine della guerra perché, ogni combinazione può esser architettata sulla sola minaccia che per l’Europa costituisce l’avanzata sovietica." Era evidente che tali speranze dovevano fargli desidera­ re un accordo con gli anglo-americani, e, e tale scopo, Vit­ torio Mussolini aveva consegnato, il 13 marzo, al cardinale Schuster un documento — e lo aveva pregato di trasmetter­ lo al Vaticano (cosa che fu fatta immediatamente tramite la Nunziatura di Berna) — con cui si proponeva agli alleati di avviare negoziati su quella base. Ma le condizioni che esso poneva (le forze della repubblica sociale, al comando del maresciallo Graziani, avrebbero dovuto mantenere l'ordine fino all’arrivo degli alleati; ogni movimento incontrollato ed estremista delle formazioni irregolari sarebbe stato con­ trobattuto dalle milizie fasciste unite alle alleate; il coman­ do alleato avrebbe dovuto impegnarsi a impedire azioni indiscriminate e di vendetta dei partigiani e a disarmare questi prima delle formazioni repubblicane) erano talmente gravi sia per il movimento di liberazione, ridotto ad accol­ ta di faziosi e di ribelli, sia per gli alleati stessi, costretti a riconoscere al nemico una funzione ben lontana dalla resa incondizionata, che non fu preso in considerazione. 164

Il 15 aprile, perciò, non era ancora arrivata nessuna rispo­ sta dagli anglo-americani, quando il Mussolini invitò il Wolff, nominato comandante superiore delle S.S. e della polizia e generale plenipotenziario della Wehrmacht in Italia, ad un colloquio per un esame della situazione in relazione ai sem­ pre maggiori successi dell'offensiva alleata nella pianura padana. L’ufficiale tedesco, secondo il racconto che egli stes­ so ha fatto ad un giornalista italiano, si dimostrò ormai per­ suaso della sconfìtta: "Data l’assenza delle armi segrete te­ desche, da tanto tempo e inutilmente attese, la guerra è militarmente perduta. Nel caso più favorevole si può vedere la possibilità di evitare una sconfitta totale con tutte le sue catastrofiche conseguenze soltanto mediante una pace di compromesso con gli avversari sul terreno politico.” Il Mus­ solini, allora, alzò rassegnato le spalle quasi a significare che egli non ne aveva piu la possibilità, ma il Wolff gli fe­ ce osservare che aveva invece le carte buone per tentare una simile via ed una soprattutto si prestava molto bene al tentativo: si trattava della socializzazione e dello "slit­ tamento a sinistra" che essa avrebbe provocato, entrambi visti con preoccupazione nei paesi capitalistici dell’occiden­ te, perché nei maggiori centri industriali del nord era inve­ stita una notevole quantità di capitale anglo-americano. Proprio per tale motivo gli alleati non avrebbero voluto sovvertimenti sociali del regime economico esistente (è, que­ sta, come si può capire, una affermazione di grande inte­ resse che si vorrebbe poter documentare con dati e cifre precisi; il che, purtroppo, sembra impossibile non esistendo, almeno a quanto ci risulta, pubblicazioni sugli investimenti occidentali nelle industrie italiane). Il Wolff, perciò, propo­ neva al Mussolini di servirsi di questa moneta di scambio: promettere la sospensione dell'esperimento della socializza­ zione in cambio della salvezza per sé ed i suoi seguaci. Il generale disse anche che avrebbe potuto cercare di sapere quale prezzo gli anglo-americani sarebbero stati disposti a pagare: "Mi occorrono però dai cinque agli otto giorni per avere una risposta impegnativa.” Il duce lo ascoltò con cre­ scente interesse e poi esclamò, "con lo sguardo improvvisa­ mente acceso,” rivolgendosi al suo ministro degli Esteri, Anfuso, presente al colloquio: “Avete ragione, generale Wolff! Una nuova, brillante idea, non è vero, Anfuso?" Ma il Wolff dovette recarsi in Germania ed il fascismo si ritrovò, cosi, sempre più isolato in mezzo ad una popolazio­ ne ostile: il nipote del Mussolini, Vito, ha parlato di quei drammatici momenti in tali termini: "Nelle grandi città 165

come Milano e Torino, si verifica un progressivo e sempre più evidente isolamento delle autorità, dei funzionari e de­ gli aderenti alla Repubblica Sociale Italiana. I rapporti con la Chiesa diventano sempre più difficili, con la Svizzera quasi impossibili, nonostante le amichevoli relazioni dei pri­ mi mesi”; nei reparti si faceva sempre piu vivo "il feno­ meno delle caute diserzioni” e spesso, "al mattino, ci si accorgeva che qualcuno mancava alTappello: durante la notte erano, come si diceva, 'andati in montagna’.” In que­ ste condizioni prese consistenza e venne guardata con mag­ gior favore la proposta del Pavolini di concentrare tutte le truppe in Valtellina per l'ultima, disperata resistenza: l’Anfuso afferma che questo progetto "venne sempre caldeg­ giato da Mussolini,” e che era stato anche approvato dallo Stato Maggiore tedesco in una riunione sul problema te­ nuto nella villa di Gargnano. Cosi, si può forse capire il suo proposito di recarsi a Milano, dove giunse il 19 aprile: qui era più vicino al centro dei prossimi, decisivi avvenimenti e gli sarebbe stato anche più facile ritirarsi in Valtellina. Il 25 aprile

Il 28 marzo gli operai di Milano, Torino e dei maggiori centri industriali si mettevano in sciopero, accompagnati dal "fervido plauso” del C.L.N.A.I. che nella loro lotta vedeva la preparazione della "insurrezione di popolo per l’estirpa­ zione del nazismo e del fascismo e per il trionfo di una de­ mocrazia progressiva." Il 9 aprile gli alleati, dopo aver si­ mulato un attacco sul fronte tirrenico della V Armata, ini­ ziavano l’offensiva principale in direzione di Bologna nel settore dell’VIII Armata dislocata sull’Adriatico. Il 18 apri­ le, di nuovo il ceto operaio di Torino entrava in sciopero ed il C.L.N.A.I. interveniva ancora, il giorno seguente, .esortan­ do i ferrovieri dell’Italia occupata a seguire l’esempio dei loro compagni piemontesi, che da tempo avevano abbando­ nato il lavoro al servizio del nemico, e impegnando "la sua fattiva solidarietà all’appoggio morale e materiale della lot­ ta dei lavoratori dei trasporti, elemento decisivo dell’insur­ rezione nazionale e della rapida conquista della pace nella vittoria.” Ormai ogni difesa organizzata dei tedeschi crollava e mentre gli alleati avanzavano (il 20 e il 21 aprile Bologna era liberata e cosi pure, il 22, Modena e Reggio Emilia), il C.L.N.A.I. rivolgeva una “intimazione formale e precisa" a 166

tutte le forze d’occupazione tedesche e ai loro complici ad arrendersi: “Sia ben chiaro per tutti che chi non si arren­ de sarà sterminato [...]. Il Comitato di Liberazione Naziona­ le e le formazioni armate del Corpo Volontari della Libertà non accettano e non accetteranno mai, in armonia con le dichiarazioni dei Capi responsabili delle Nazioni Unite, al­ tra forma di resa dei nazifascisti che non sia la resa incon­ dizionata." Era la preventiva risposta alle speranze del Mus­ solini di poter trattare con il C.L.N.A.I. le condizioni della capitolazione, ed infatti nel colloquio che egli ebbe con i rappresentanti del Comitato all’Arcivescovado, dopo essere riuscito a stabilire il contatto tramite il cardinale Schuster, non potè raggiungere, dice Vittorio Mussolini, “un accordo dignitoso sulla resa delle forze della R.S.I. ed il trapasso dei poteri,’’ perché gli esponenti dei partiti democratici fu­ rono irremovibili nell’esigere la resa incondizionata. Essi apparvero al duce “boriosi” ed una nuova, amara delusione gli venne dall’apprendere che i tedeschi già da diverso tem­ po avevano avviato trattative con gli alleati per una resa, senza tenere alcun conto delle forze della repubblica sociale (erano state le trattative svolte dal Wolff in Svizzera con i rappresentanti alleati che avevano sollevato la viva diffi­ denza di Stalin: questi aveva accusato gli anglo-americani di avere stipulato un accordo con il VietinghofF-Scheer — che aveva sostituito il Kesserling, passato sul fronte occi­ dentale —, in base al quale le loro truppe avrebbero potuto avanzare rapidamente verso oriente in cambio di migliori condizioni di pace; la grave tensione era stata superata con la riaffermata fedeltà del Churchill e del Roosevelt alla formula della “resa incondizionata"). Il Mussolini era stato messo al corrente di queste trattative, ma, come scrive il Silvestri, non aveva mai voluto prestarvi fede: ecco perché Vittorio Mussolini lo vide, dopo il colloquio in Arcivescova­ do, “con il viso scuro ed i segni visibili di una profonda in­ dignazione.’’ Senza dubbio, nel suo animo dovevano com­ battere la delusione per il rifiuto del C.L.N.A.I. e l'indigna­ zione per il tradimento dell’alleato (“E stato un tradimen­ to," disse il Barracu a Vittorio. “Ci hanno reso la pariglia dell’8 settembre!”). Intanto, il C.L.N.A.I. aveva affrontato, il 19 aprile, un problema di grande importanza, cioè il problema della pre­ sidenza. Il Pizzoni aveva svolto, per riconoscimento unani­ me, un lavoro “veramente lusinghiero,” ma non era iscrit­ to a nessun partito (e forse proprio per questo motivo era riuscito ad armonizzare cosi bene le voci talora discordanti 167

delle varie correnti politiche; e, poi, era anche, come diri­ gente di banca, più vicino ai liberali che alle sinistre), e, adesso, soprattutto gli azionisti, i socialisti ed i comunisti av­ vertivano il bisogno di un presidente che avesse una “gran­ de sensibilità e responsabilità politica,” di un presidente, perciò, che potesse far presente agli alleati la volontà del Comitato di “contribuire alla costituzione di un nuovo go­ verno, in cui le masse [fossero] chiamate a risolvere i pro­ blemi d’interesse nazionale.” Come si vede, si trattava di un problema veramente fondamentale per l’impostazione della politica italiana post-liberazione, e i tre partiti di si­ nistra mostravano apertamente l’intenzione di sfruttare la spinta e lo slancio, che sarebbero venuti dalla insurrezione, ai fini di una politica sinceramente democratica e popolare e volevano, di conseguenza, precostituirsi le posizioni più idonee per svolgere tale politica; la carica di presidente del C.L.N.A.I. era, senza dubbio, forse la più determinante. Ma i rappresentanti liberale e democristiano, pur non opponendosi recisamente (forse non lo potevano perché le sinistre si presentavano con l’autorità derivante dall'aver sostenuto buona parte della lotta di liberazione), fecero presenti le loro perplessità di fronte ad un cambiamento che quasi certamente gli alleati, che erano stati contenti di vedere un apolitico dirigere il C.L.N.A.I., non avrebbero ca­ pito. Ad ogni modo, il p.l.i., per controbattere l’iniziativa dei tre partiti con qualcosa di concreto, propose come pre­ sidente un democristiano. La questione non fu decisa quel giorno e fu rimandata ad una successiva seduta; ma la si­ tuazione precipitò rapidamente ed il 25 aprile, dopo che il Comitato insurrezionale del C.L.N.A.I., formato da Valiani, Pertini e Sereni (cioè dagli esponenti del p.d’a., del p.s.i. e del p.c.i.), aveva rivolto, il 24, un appello alle formazioni cittadine a prendere le armi e mentre il C.L.N.A.I. assume­ va tutti i poteri di amministrazione e di governo, il socia­ lista Rodolfo Morandi veniva nominato presidente del Co­ mitato, senza incontrare più alcuna resistenza nei liberali e nei democristiani, consapevoli ormai della impossibilità di contrastare una decisione che appariva una conseguenza na­ turale della lunga e dolorosa lotta. Seguiva, poi, un procla­ ma per invitare i lavoratori allo sciopero generale che si accompagnasse alla insurrezione armata; e seguiva anche una serie di decreti sulla abrogazione della socializzazione, sulla amministrazione della giustizia, sul sequestro di som­ me e valori già di proprietà fascista, ecc. Il 24 aprile era insorta Genova ed il 26 questa città era 168

interamente liberata dalle formazioni partigiane cittadine alle quali si erano aggiunte quelle scese dalle montagne cir­ costanti (gli alleati vi arrivarono il 27); il 25 si era liberata Milano ed il 26 entravano nella città i partigiani dell’Oltre­ pò pavese. Il 28 i tedeschi, duramente attaccati dal 26, era­ no costretti a cedere a Torino ed ai reparti che riuscirono a salvarsi non rimase che tentare di raggiungere la frontiera svizzera. Gli alleati dalTEmilia si diressero rapidamente ver­ so il Veneto, sia per tagliare al nemico la ritirata per la Val d’Adige sia per prevenire gli jugoslavi a Trieste: TVIII Armata si diresse verso Padova, Treviso e Venezia, e la V verso Vicenza e Trento lanciando la sua ala sinistra verso Brescia e Alessandria. Il Mussolini, con un gruppo di gerarchi, aveva abbando­ nato Milano, il 25, dopo l’infruttuoso colloquio con il C.L.N.­ A.I.: aveva radunato, scrive il figlio, "i ministri, i gerarchi ed i funzionari presenti ed esaminata la carta geografica che aveva sul tavolo, disse con voce emozionata: ‘Si lascia Milano immediatamente: destinazione Como’.’’ Evidente­ mente, in quel momento, egli pensava al "ridotto” della Valtellina ed anche la sua partenza da Como, la mattina del 27, avvenne con l’intento di proseguire in quella direzione. Ma, arrestato da un distaccamento partigiano presso Dongo e riconosciuto, malgrado il travestimento (aveva addosso un cappotto tedesco e un passamontagna), fu, poi, ucciso, il 28, in località Giulino di Mezzegra dal colonnello “Valerio" (Walter Audisio), e con lui fu uccisa anche la sua amica Claretta Petacci. I loro corpi, insieme con quelli di altri ge­ rarchi, trasportati a Milano, furono gettati e poi sospesi per le gambe a piazzale Loreto, dove, nell’agosto del 1944, erano state esposte dai nazifascisti le salme di quindici par­ tigiani fucilati: fu, senza dubbio, un penoso eccesso, ma che parve quasi una doverosa e naturale soddisfazione del lungo odio accumulato negli animi.1 1 La stampa milanese, del 30 aprile, pubblicò la seguente dichiara­ zione del C.L.N.A.I.: "La fucilazione di Mussolini e complici dal C.L.N.A.I. ordinata, è la conclusione necessaria di una fase storica che lascia il nostro paese ancora coperto di macerie materiali e morali; è la conclusione di una lotta insurrezionale che segna per la Patria la premessa della rina­ scita e della ricostruzione. Il popolo italiano non potrebbe iniziare una vita libera e normale, che il lascismo per vent’anni gli ha negato, se il C.L.N.A.I. non avesse tempestivamente dimostrato la sua ferrea decisione di saper far suo un giudizio già pronunciato dalla storia. Solo a prezzo di questo taglio netto con un passato di vergogna e di delitti il popolo poteva avere l’assicurazione che il C.L.N.A.I. è deciso a perseguire con fermezza il rinnovamento democratico del paese. Solo a questo prezzo la necessaria epurazione dei residui fascisti può e deve avvenire con la con-

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Bilancio della Resistenza Lo stesso Churchill dovette riconoscere il contributo dei partigiani: "I partigiani italiani avevano a lungo molestato il nemico tra le montagne e nelle retrovie; il 25 aprile fu dato il segnale di un’insurrezione generale, ed essi effettua­ rono attacchi estesi. In molte città grandi e piccole, specie Milano e Venezia, s’impadronirono della situazione. Le rese nell’Italia nord-occidentale divennero fenomeni di massa.” Ed il gen. Clark affermò che “i servizi resi dai partigiani furono molti ed importanti, compresa l’occupazione di pa­ recchie città"; a sua volta la "Special Force” (che doveva tenere i contatti con le formazioni e coordinare le loro azio­ ni con quelle alleate), scrisse in un suo rapporto: "Il con­ tributo partigiano alla vittoria alleata in Italia fu assai no­ tevole e superò di gran lunga le più ottimistiche previsioni [...]. Senza le vittorie partigiane non vi sarebbe stata in Italia una vittoria alleata cosi rapida, cosi schiacciante e cosi poco dispendiosa." Erano riconoscimenti che giunge­ vano forse un po’ tardi e che avrebbero dovuto far nascere il rammarico per gli ostacoli che si erano voluti creare allo sviluppo del movimento partigiano, confinato al sabotag­ gio o alla difesa degli impianti industriali o idroelettrici. Ed invece esso era cresciuto, si era esteso fino ad abbraccia­ re tutti i ceti della popolazione, uniti nella stessa avversio­ ne alla dittatura e nello stesso amore per la libertà. Si parla spesso di "secondo Risorgimento,” come se la lotta di libe­ razione fosse stata una ripresa o una continuazione del pri­ mo Risorgimento. Ma questo fu un moto di minoranze che dovettero combattere non solo contro i vecchi sovrani asso­ lutisti, ma anche contro l’ostilità delle classi popolari, e, in particolare, dei contadini, mentre fra il 1943 e il 1945 tutti, tranne i piccoli gruppi di fascisti, si ritrovarono nella comune lotta e l’umile gente di campagna, che aveva subito più che voluto anche la prima guerra mondiale, prese parte clusione della fase insurrezionale nelle forme della più stretta legalità. Del­ l’esplosione di odio popolare che è trascesa in quest'unica occasione ad eccessi comprensibili soltanto nel clima voluto e creato da Mussolini, il fascismo stesso è l’unico responsabile. Il C.L.N.A.I., come ha saputo con­ durre l'insurrezione, mirabile per disciplina democratica, trasfondendo in tutti gli insorti il senso della responsabilità di questa grande ora storica, e come ha saputo fare, senza esitazioni, giustizia dei responsabili della rovina della Patria, intende che nella nuova epoca che si apre al popolo italiano tali eccessi non debbano più ripetersi. Nulla potrebbe giustificarsi nel nuovo clima di libertà e di stretta legalità democratica che il C.L.N.A.I. è deciso a ristabilire, conclusa ormai la lotta insurrezionale."

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alla Resistenza, tante volte soltanto con un atteggiamento passivo, ma non per questo meno meritorio. Insomma, forse per la prima volta l’Italia ritrovò una unità non formale ma sostanziale, una unità basata su ideali vissuti profondamente. Certo, non si può nascondere che altre caratteristiche parrebbero indicare alcuni punti di somiglianza fra il primo e il secondo Risorgimento, il più importante dei quali consiste nel fatto che sia allora sia adesso la riconquista della libertà si inserì in una si­ tuazione internazionale favorevole che ne determinò il suc­ cesso. Ma se nell’Ottocento l’accento cadde soprattutto sulla costruzione di un nuovo Stato e le correnti che avanzava­ no l’esigenza di affermare anzitutto “l’idea madre della li­ bertà” e di abbattere prima di ogni cosa il dispotismo in­ terno, rimasero sconfìtte, ora le battaglie contro i tedeschi ed i fascisti furono pure, nel tempo stesso, lotte per il rinnovamento democratico del popolo italiano. Anche se, ben presto, tale aspirazione naufragò, come vedremo me­ glio in seguito, nel nulla. Ma se ciò avvenne, non è certo possibile attribuirlo a cause del tutto esterne, come l’inter­ vento della “bieca reazione" o della “maligna fortuna,” per­ ché noi preferiamo sempre risalire più che a queste cause soprannaturali, a cause naturali ed umane. Ora, a parte ogni celebrazione alquanto agiografìca della Resistenza, bi­ sogna dire che essa rivela, ad un giudizio storico più ripo­ sato quale è possibile a distanza di più di vent’anni, alcune insufficienze e deficienze piuttosto gravi, che giustificano quello che è stato detto, per un certo periodo, il suo falli­ mento. In realtà, essa non avverti per nulla, o quasi, i pro­ blemi dei contadini, che pure rappresentavano, allora, la grande maggioranza della popolazione italiana, perché si in­ teressò soprattutto dei problemi del proletariato urbano. Ma questo si rivelò particolarmente pericoloso per la giovane democrazia italiana, perché molto probabilmente diede ai ceti agricoli del Mezzogiorno l’impressione di una nuova conquista, dopo quella del 1860, da parte del Nord più pro­ gredito e più avanzato nello sviluppo economico. Un’altra notevole insufficienza fu nella politica economica: è strano, ma uomini che avevano vissuto, in esilio, in Francia, il ten­ tativo rooseveltiano del fronte popolare di L. Blum, non erano riusciti a capirne tutta l’importanza per un progres­ so armonico della società, e, tornati in Italia, non seppero applicare quella lezione alla nostra situazione. Cosi, quando, nel 1947, si entrò in una crisi, naturale dopo il boom dei consumi nell’immediato dopoguerra, la lasciarono risolvere 171

ad uno dei più classici economisti, l’Einaudi, con i tradi­ zionali metodi deflazionistici, mentre il Keynes aveva inse­ gnato ad affrontare le depressioni con ben altri metodi. Ma sembra che la classe dirigente italiana non abbia capito nulla di essi, dal momento che continua a condannarli con una mentalità veramente antiquata e superata. Queste sono, fra le altre, alcune delle deficienze più gravi con cui gli uomini che avevano fatto la Resistenza ne uscirono, defi­ cienze che spiegano, almeno in parte, la rapida ripresa dei ceti prefascisti e fascisti e delle classi economiche che ri­ salivano agli stessi periodi. I due aspetti vanno consi­ derati insieme se si vuole veramente capire« la Resi­ stenza ed il largo predominio che ebbero in essa le formazioni dei partiti di sinistra, che con maggior con­ sapevolezza le organizzarono educando anche i giovani a sentire il valore politico dei loro sacrifici: "Il partigiano deve sentire,” era detto in una circolare diramata nel marzo 1944 dal commissario politico di un settore giellista del Cuneese, “il suo servizio come una vocazione, disposto ad andare sino in fondo, affrontando disagi, privazioni e sacrifici, compreso quello della vita stessa, per il trionfo di un superiore ideale civile, che trova la sua insuperabile espressione nella formula: Giustizia e libertà." Queste ragioni ideali furono tanto piu sentite quanto più scese negli animi la dolorosa necessità della guerra civile: il combattere contro i propri fratelli costrinse a ripensare, a chiarire anche interiormente i motivi della lotta per trar­ ne una fede più alta e tale da non lasciarsi abbattere dal dramma di dover sparare ad uomini a cui ci si sentiva le­ gati dalla stessa lingua, dalle stesse tradizioni e dagli stessi costumi. Fu, senza dubbio, una esperienza penosa che tal­ volta, purtroppo, diede anche una piu violenta risolutezza per lo sdegno e per la rabbia quasi di veder traditi i più elementari valori umani, in cui sembrava impossibile non credere. Ma non solo questo fu la Resistenza, poiché fu anche una grande scuola di autonome iniziative e di autogoverno locale, una scuola necessaria per riscattare completamente i venti anni in cui il popolo italiano era stato costretto a rinunciare a partecipare alla vita pubblica ed a creare con la sua libera volontà il suo avvenire. Eppure, si potrebbe avere l’impressione che tale scuola sia servita a pochi, dal momento che i partigiani furono poche decine di migliaia, ma non è cosi perché anche un operaio che decideva di scioperare, o un contadino che non consegnava i prodotti 172

agli ammassi, o un professionista che non giurava, erano tutti individui che dovevano avere scavato nel loro intimo i motivi del rifiuto di obbedienza alla repubblica sociale, ove si tenga conto delle conseguenze a cui essi si esponevano. II fatto è che la Resistenza fu una esperienza senza preceden­ ti per il nostro popolo, una esperienza il cui ricordo — come quello, se è lecito il paragone, della grande Rivoluzio­ ne per la Francia dellOttocento — ha continuato ad agire negli anni seguenti rappresentando un termine ideale a cui richiamare sempre i piccoli fatti della vita quotidiana.

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Capitolo quarto

Il governo Parri

La società italiana nell’aprile del 1945

Se sul piano morale la Resistenza ha significato quanto abbiamo appena detto, sul piano politico essa parve segna­ re la fine del dominio della vecchia classe dirigente, di quel­ la economica come di quella politica. La prima non era riu­ scita a riscattare, mediante i contributi dati al movimento partigiano, la ventennale collaborazione con il fascismo da cui aveva tratto non indifferenti vantaggi (alcuni fra i mag­ giori industriali, come il Marinotti, il Cini, il Valletta, il Donegani si erano nascosti o rifugiati in Svizzera). La sua po­ sizione, inoltre, risultava molto indebolita anche dal fatto che le classi lavoratrici avevano affrontato i maggiori sacri­ fìci per la difesa della libertà e soprattutto dal fatto che il C.L.N.A.I. concorde aveva affermato, il 17 aprile, il diritto degli operai a partecipare alla gestione della produzione (di­ ritto in cui si esprimeva la matura coscienza dei lavoratori di poter aspirare alla direzione politica del paese e che li poneva in una condizione ben diversa da quella del primo dopoguerra, quando gli esponenti socialisti non erano riu­ sciti a far loro assumere una posizione autonoma rispetto alla borghesia), "non per dividere gli utili insieme col capi­ tale," scriveva Rodolfo Morandi, che definiva questa con­ cezione una “assurda collaborazione di marchio fascista," ma per una "bene intesa collaborazione fra lavoratori di tutti i ranghi." Durante il periodo clandestino gli operai si erano preoccupati non solo di salvare le fabbriche, ma an­ che di compilare le liste degli epurandi e di preparare i nuovi quadri direttivi, e subito dopo la liberazione, quasi ritornando spontaneamente all’esperienza del 1920 del grup­ po torinese dell’Ordine nuovo, avevano elaborato il movi­ mento dei comitati o consigli di gestione che avrebbe dovu­ to portare i lavoratori nel vivo dell'azienda. Ancora il Mo­ randi indicava quali erano state le fasi di sviluppo di que174

sto movimento “nella cronaca recentissima [scriveva nel settembre-ottobre del 1945]: confusione dapprima dei com­ piti dei C.L.N. [aziendali] e delle Commissioni interne; con­ solidamento delle C.I. nelle trattative di ordine sindacale; gestazione dei consigli di gestione in seno ai C.L.N., segnan­ do cosi il passaggio di questi da organi politici a organi economico-politici; nascita dei consigli di gestione che ci ap­ paiono l’uno dall'altro dissimili, ma figli veramente di un solo riscatto, il riscatto del lavoro [...].” “I rappresentanti del capitale," egli concludeva, “non partecipando all’in­ surrezione politica ed economica del popolo, hanno firmato la loro capitolazione.” Ed effettivamente, sembrava, in quei primi momenti, che dovesse essere proprio cosi, anche perché se i socialisti ed i comunisti sostenevano con vigore questa rivendicazione dei consigli di gestione, da altri settori dello schieramento democratico, soprattutto dal partito d’azione, veniva avan­ zata l’esigenza di una riforma fiscale, resa viva e attuale da tutto il passato fascista di accumulazione patrimoniale. Mario Paggi su Lo Stato moderno affermava che il "seque­ stro dei patrimoni illecitamente acquisiti e di quelli forma­ tisi attraverso la collaborazione col nemico,” era uno dei problemi che, sapientemente sfruttato, offriva una buona piattaforma per sviluppi che andavano “assai al di là del punto di partenza, capaci di allargare la propria influenza nelle più varie zone della vita economica, dal diritto suc­ cessorio ad una radicale revisione dei sistemi di imposte indirette per ampliare quelle delle dirette, dai rapporti tra capitale e lavoro nel seno delle aziende alle prime nazio­ nalizzazioni di quei complessi monopolistici che, avendo vio­ lato ed offeso il principio della libertà d’iniziativa e della libertà di mercato, vanamente [invocano] la libertà per la loro conservazione." Come si vede, gli imprenditori privati e la loro funzione direttiva nell’azienda erano attaccati da più parti, mentre si diffondeva pure la convinzione che i me­ todi con cui essi avevano guidato le loro aziende fossero or­ mai superati e che occorresse, anche in questo campo, un profondo rinnovamento quale solo le classi lavoratrici avrebbero potuto apportare: il Morandi, a pochi mesi dalla insurrezione, faceva osservare come già cominciassero ad uscire dalla massa i nuovi dirigenti e come già affiorassero i “problemi economici visti da una nuova faccia del prisma, dal vivo dell’officina: economia nelle produzioni, curando l’aumento dei rendiconti, dallo scarico delle materie prime all’utilizzazione massima dei sottoprodotti; dall’isolamento 175

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razionale delle tubazioni di vapore all’utilizzazione dei gas caldi di scarico dei generatori di calore." Ma non solo la classe dirigente economica appariva scon­ fìtta, poiché anche quella politica giaceva a terra colpita gravemente. Nel momento della liberazione si era notato il confluire di diverse generazioni: quella prefascista dei Bonomi, dei Croce, dei Nitti, degli Orlando; quella dei fuoru­ sciti e degli “esuli in patria” dei Cianca, dei De Gasperi, dei Nenni, dei Parri, dei Romita, dei Terracini e dei Togliatti; quella stroncata dal fascismo e che aveva fatto il suo duro tirocinio politico sotto la dittatura (il presidente del C.L.N.A.I., Morandi, era del 1902 ed aveva, perciò, vent’anni nel 1922); ed infine, quella, per cosi dire, fascista — degli anni 40, come è stata detta — cioè che non aveva avuto esperienza di un governo democratico. Nell’Italia setten­ trionale la lotta di liberazione aveva praticamente elimi­ nato la prima generazione ed aveva portato in primo pia­ no soprattutto la terza e la quarta; la Resistenza era stata un movimento di giovani e da ciò aveva forse tratto quel­ l’entusiasmo, quel calore e quello slancio che l’hanno ca­ ratterizzata. Il “vento del Nord” sembrava dovesse spaz­ zare tutte le nubi dell’incerto passato e contribuire alla creazione di nuove forme politiche, libere dagli errori della democrazia prefascista. In particolare, si sentiva il bisogno di un regime che realizzasse una piena partecipazione del popolo alla vita pubblica e che offrisse la garanzia di una efficace difesa contro le rivoluzioni di minoranze audaci e ribelli: il ricordo del 1922 era sempre presente e muoveva le sinistre a sottolineare la debolezza di quelle istituzioni de­ mocratiche che non avevano saputo resistere all’assalto ar­ mato del fascismo. Il vecchio Stato liberale prefascista era allora fallito e, poi, era crollato e adesso si trattava di co­ struire un nuovo Stato, con una nuova classe dirigente. Le destre, invece, e soprattutto il partito liberale, sostenevano che vi fosse una continuità non solo giuridica ma anche po­ litica e sociale dello Stato. Era una posizione che avrebbe dovuto portare ad affermare che nel ventennio non era suc­ cesso nulla, che quel lungo periodo era stato solo una pa­ rentesi (ed infatti, come è noto, il Croce affermava che il fascismo era stato una specie di bubbone maligno sorto in­ spiegabilmente su un corpo sano ed a chi, ad esempio il Parri, gli muoveva sostanziali obiezioni, rispondeva: “Se un uomo, che è sano e forte, cade in una malattia mortale, gli è certamente perché aveva in sé la possibilità della malat­ tia; e tuttavia bene era giudicato prima sano e forte come 176

e quanto un uomo può essere sano e forte, cioè senza mai avere in ciò l’immunizzazione contro tutte le possibili ma­ lattie e le epidemie che sopravvengono”); ma i liberali av­ vertivano l’impossibilità di difendere tutte le strutture pre­ fasciste e si battevano per salvarne almeno una, quella indi­ vidualistica che consentiva il predominio delle grandi per­ sonalità. Eppure, era proprio questo aspetto della vecchia demo­ crazia che era crollato, in quanto essa si basava sul valore e sulla notorietà di agiati borghesi e di proprietari terrieri, orgogliosi della loro indipendenza economica e politica; su un rapporto diretto fra il deputato e i suoi elettori e sulla forza dell'opinione pubblica. I grandi partiti avevano sosti­ tuito quel mondo che appariva ormai molto lontano e la lotta politica, come faceva osservare Vittorio Foa, anziché essere dominata dallo sforzo di affermazione di idee e di persone, era rivolta alla conquista di posizioni di prestigio all’interno degli stessi partiti e poiché questi, all’opposizio­ ne o al governo, tendevano ad acquistare una prevalente in­ fluenza sulla struttura statale, i nuovi metodi di lotta erano improntati più che “alla valorizzazione di uomini ed idee nella generica opinione pubblica, alla creazione ed al raffor­ zamento degli strumenti di potere.” Insomma, la generazio­ ne postfascista aveva imparato dalla esperienza passata quanto fosse importante il possesso degli strumenti di in­ fluenza e di dominio politico, ed era diventata quindi in­ differente, se non proprio ostile, alle manifestazioni perso­ nalistiche che non affrontavano il problema del potere. Co­ si pure, nel campo economico si poteva dire finito il regi­ me liberistico ottocentesco e da molte parti si riconosceva la necessità di interventi statali e di controlli per corregge­ re le più stridenti ingiustizie della vita sociale. Perfino un Churchill, in Inghilterra, pur affermando di voler continua­ re a sventolare "la bandiera della libera impresa,” diceva di essere favorevole a quei controlli che si fossero resi neces­ sari; e negli Stati Uniti, il Roosevelt, poco prima della sua morte (avvenuta il 13 aprile 1945) invitava Jesse H. Jones, ministro per il Commercio, al quale era annesso l’impor­ tante “Reconstruction Finance Corp” (R.F.C.), a cedere il suo posto a Henry Wallace, sostenitore di un ampio inter­ vento dello Stato nella vita economica. Forse, però, in Ame­ rica questo intervento aveva un altro significato, perché quello che allora si diceva "fourth-term New Deal’’ nasceva dal bisogno di convogliare il risparmio, eccedente le neces­ sità dell’industria privata, verso nuovi investimenti produt-

tivi. Tuttavia, era evidente che il problema si stava impo­ nendo a tutti coloro che desiderassero creare una società migliore della passata. In Italia, perciò, sembrava che i ceti popolari e la nuova generazione avessero vinto la loro lotta contro la borghe­ sia capitalistica e contro la precedente generazione, ma in questo quadro si potevano notare già da allora alcune om­ bre che ne avrebbero, in séguito, modificato notevolmente le linee: infatti, alla accresciuta influenza politica delle clas­ si lavoratrici non corrispondeva una adeguata influenza eco­ nomica, perché anzi esse erano uscite dalla guerra profon­ damente depauperate: gli operai, gli artigiani, i braccianti avevano sofferto duramente e cosi pure gli impiegati, i pen­ sionati, i piccoli professionisti, mentre i proprietari terrieri e i fittabili avevano tratto forti guadagni dalla penuria di generi e dal commercio clandestino {la borsa nera); inoltre, la situazione anormale aveva favorito una categoria di spe­ culatori, di mediatori che si erano sostituiti al vecchio ceto industriale e che era salito a poco a poco dai piccoli ai grossi affari accumulando grandi fortune. Si poteva preve­ dere che la battaglia contro le conquiste del proletariato sarebbe stata condotta in un primo tempo da questi nuovi arricchiti, mediante una sorda e tenace opposizione ad al­ cuni provvedimenti — come il cambio della moneta — che avrebbero potuto colpirli. Per quanto riguarda la nuova ge­ nerazione e la sua illusione di avere riportato, con l’insur­ rezione del Nord, la vittoria, si vide ben presto, nelle diffi­ cili trattative per il nuovo governo, come i vecchi uomini politici sapessero sfruttare abilmente la condizione degli spiriti nell’Italia meridionale, che, non essendo passata at­ traverso la dura occupazione tedesca, resisteva al "vento” che scendeva per la penisola ed in cui essa vedeva quasi una rinnovata conquista del settentrione.

Alcuni dati sulla situazione economica del paese verso la metà del 1945 La comunicazione della Commissione alleata di controllo del novembre 1944, secondo cui il governo italiano avrebbe potuto utilizzare per l’acquisto di macchinari e di materie prime un credito in dollari corrispondente alle am-lire mes­ se in circolazione dalle truppe americane, alle rimesse dei nostri emigranti, ecc. (credito che, alcuni mesi dopo, venne indicato in 120-130 milioni di dollari), aveva consentito la 178

elaborazione di un piano detto "di primo aiuto” riguardan­ te le importazioni da effettuarsi appunto con la nuova di­ sponibilità di dollari. Questo piano doveva necessariamente partire, come scrisse Pasquale Saraceno, dal duplice pre­ supposto: “a) doversi esso svolgere mentre la guerra era in corso, e tener conto quindi di tutte le limitazioni che que­ sto fatto comportava; b) dover l’Italia meridionale contare solo sulle sue risorse dato che sulle risorse del Nord gra­ vava la duplice incognita della liberazione e della ulteriore estensione delle distruzioni che fino a quel momento ave­ vano accompagnato la ritirata tedesca.” Di queste due con­ dizioni, la seconda era senza dubbio la più grave, poiché l’industria meridionale era strettamente integrata con quel­ la settentrionale, di cui spesso era una semplice derivazione. Il piano fu portato a termine nel gennaio 1945 ed era al­ l’esame degli organi competenti alleati quando il presiden­ te della Commissione alleata, Harold MacMillan, rivolse al governo italiano un pro-memoria nel quale annunciava un allentamento del controllo alleato sull’Italia e, nel tempo stesso, informava che i due governi dell’Inghilterra e degli Stati Uniti si impegnavano a fornire determinate importa­ zioni (divise in due categorie, A di cui le autorità militari alleate si assumevano la responsabilità, e B di cui il gover­ no italiano doveva procurare i mezzi di pagamento) desti­ nate a soddisfare i bisogni della popolazione, gli usi civili essenziali e la riattivazione dei mezzi di comunicazione, di produzione elettrica e di trasporto, ritenendo che ciò rien­ trasse nel loro interesse per la miglior condotta delle ope­ razioni militari. Questo annuncio, che pure non stabiliva con esattezza l’ammontare dei rifornimenti dei due gruppi per la man­ cata conoscenza dei prezzi, rese possibile il pensare ad un altro piano, che venne presentato nel marzo; nell’aprile, poi, parti per Washington la missione tecnica italiana incari­ cata di prendere gli accordi definitivi per la sua esecuzione. Ma, intanto, avveniva la liberazione dell’Italia del nord e subito si capiva che questo piano non rispondeva piu alla nuova situazione, poiché non solo era cessato lo stato di guerra, ma si erano anche potute evitare, grazie all’inter­ vento delle forze partigiane, le temute distruzioni tedesche dell’apparato produttivo settentrionale. In tali condizioni, acquistava un notevole prestigio la Commissione economi­ ca centrale per l'Alta Italia, che era stata istituita, insieme con le Commissioni economiche regionali e provinciali, dal C.L.N.A.I. il 5 febbraio e che, il 26 aprile, aveva emesso le 179

ordinanze con cui si regolava la vita economica del settemtrione vincolando i prezzi al livello ufficiale esistente, bloc­ cando le merci presso i detentori, e dando disposizioni per il trasporto delle merci in città. Alla sezione industria di tale Commissione, pertanto, fu affidato l’incarico di compi­ lare il nuovo piano in collaborazione con i rappresentanti del governo italiano e della Commissione alleata: esso fu il "piano di massima per la determinazione delle importazio­ ni industriali,” la cui data di inizio venne fissata, in un se­ condo momento, per il 1° gennaio 1946, in modo da lasciare, disse Libero Lenti, "un conveniente lasso di tempo alle au­ torità economiche e politiche alleate per lo studio e la di­ scussione del piano e da darci, quindi, una certa sicurezza circa l’effettivo arrivo dei beni richiesti.” Nel frattempo, però, veniva anche predisposto un altro piano, detto “di transizione,” con cui si provvedeva al periodo dal maggio al dicembre 1945: in una prima fase (maggio-giugno) furo­ no richieste solo modestissime quantità di carbone, in base alle possibilità degli alleati, ancora impegnati nella guerra, e alle limitate capacità del nostro sistema di trasporti; in una seconda fase (settembre-dicembre) furono richieste ma­ terie prime ed una quantità di carbone corrispondente press’a poco ad un terzo del fabbisogno normale. Appariva chiaro che ogni piano doveva tener conto so­ prattutto delle modeste e ridotte capacità dei mezzi di tra­ sporto, che avevano subito notevoli distruzioni in manufatti, in materiale rotabile e in attrezzature: infatti rispetto a 12.798 carrozze e bagagliai del 1934 ne esistevano ora 1.197 buoni e 2.047 rovinati, mentre i 136.960 carri merci si era­ no ridotti a 21.881 buoni e 11.076 guasti. Era una percen­ tuale molto bassa, assolutamente inadeguata a soddisfare le esigenze dell’apparato produttivo, la cui capacità si ag­ girava intorno al 75% di quello normale. Questa era, senza dubbio, come disse R. Morandi, la strozzatura” più gra­ ve per la nostra ricostruzione industriale, in quanto si po­ teva prevedere, per la seconda metà del 1945, una efficienza di circa un terzo del nostro sistema ferroviario-stradale (i 100 mila autocarri esistenti nel 1939 erano soltanto 45.000). Per quanto riguardava il carbone,. si pensava di poterne avere, nella migliore delle ipotesi, nel trimestre giugnoluglio-agosto, 140 mila tonnellate contro un reale fabbisogno di circa 1.500.000. Si aveva, perciò, questa situazione: un apparato produt­ tivo quasi intatto che non poteva essere alimentato per le insufficienze dei trasporti e per la mancanza delle materie 180

prime. Infatti, nell’industria cotoniera su 173 stabilimenti di filatura e 848 di tessitura (con una potenza di 5.370.000 fusi e 143.871 telai) erano stati danneggiati solo 8 stabilimenti con 205.792 fusi e 6.954 telai, senza, peraltro che nep­ pure questi 8 avessero avuto completamente inutilizzata la loro attrezzatura, tanto che si calcolava che la maggior par­ te avrebbe potuto riprendere l’attività entro pochi mesi. Altre grandi industrie, come quella della lana, si trovavano in difficoltà non per la distruzione degli impianti — ché an­ zi si faceva notare come soprattutto queste industrie aves­ sero approfittato della diminuita attività degli ultimi tempi della guerra (una diminuzione di attività a cui non aveva corrisposto una diminuzione di utili perché, come aveva affermato il ministro delle Finanze fascista, Pellegrini, nel­ la relazione del dicembre 1944 già citata, "da parte germa­ nica [erano] stati acquistati in Italia, all’infuori del clea­ ring, e quindi senza alcuna contropartita di merci, prodot­ ti per vari miliardi di lire, soltanto nel settore tessile circa 5 miliardi, con un evidente depauperamento dell’economia nazionale”) per migliorare gli impianti e aggiornarne l’at­ trezzatura — ma solo per la mancanza di carbone e di ma­ terie prime. Di questa stessa mancanza soffrivano pure la "Pirelli” (che aveva subito danni, valutati secondo la legge per la liquidazione dei danni di guerra, in 430 milioni); la "Montecatini,” la cui situazione degli impianti veniva defi­ nita buona; l’industria siderurgica, alla quale tuttavia si po­ neva, o si prevedeva che si sarebbe ben presto posto, un problema di riorganizzazione su nuove basi, venendo a ces­ sare la situazione di favore di cui essa aveva goduto sotto il fascismo e che le aveva impedito di attuare quel processo di razionalizzazione in atto in tutti gli altri paesi; l’industria elettrica, che rappresentava un’altra “strozzatura" per la ripresa del nostro apparato produttivo, una strozzatura, però, che era molto piu grave nell’Italia centro-meridionale che in quella settentrionale. In complesso, si trattava di un apparato produttivo in buone condizioni al quale si presentavano prospettive favo­ revoli per il futuro, poiché quasi tutta l’Europa usciva dalla guerra con le industrie molto più danneggiate o ad­ dirittura distrutte, come quella tedesca: l’Italia, perciò, avrebbe potuto lavorare per soddisfare le esigenze degli al­ tri popoli, purché fosse stata aiutata con adeguati riforni­ menti di carbone e di materie prime dagli alleati. Si capisce, quindi, la relativa tranquillità del ministro del Tesoro, Soleri, il quale faceva si presente che avevamo circa 1.000 181

miliardi di debito pubblico, oltre 350 miliardi di circolazio­ ne, 150 miliardi di deficit e che avremmo dovuto spen­ dere 500 miliardi per la ricostruzione di opere pubbliche, ma nel tempo stesso dichiarava che l’entità di tali cifre non era tale da far disperare della possibilità di risanare la situazione finanziaria ed economica. Questa fiducia era senza dubbio alimentata in lui anche dall’atteggiamento del­ le classi lavoratrici che, consapevoli della responsabilità raggiunta nella vita della nazione e quasi fiduciose che la loro ascesa a nuova classe dirigente fosse da tutti ricono­ sciuta, si astenevano da agitazioni e da scioperi per ottene­ re miglioramenti salariali. Infatti, la retribuzione media ora­ ria effettiva nell'industria meccanica, come risultava da in­ dagini dell’ing. Marco Sosterò, salita a L. 9,30 nel novem­ bre 1944 (da 5,40 nell’ottobre-novembre del 1943), rimane­ va su questo livello fino all’agosto 1945, segno appunto che gli operai avevano rinunciato agli adeguamenti che pure sarebbero stati necessari dato l’aumentato costo di tutti i generi. A Milano, i generi acquistati con la tessera segnava­ no un aumento (1938 = 100) da 351 nel marzo-aprile a 400 nel maggio-giugno, a 615 nel luglio, a 862 nell’agosto e a 981 nel settembre; un aumento più modesto era quello dei generi acquistati a borsa nera da 3.073 nel marzo a 4.344 nell’aprile, a 3.580 nel maggio, a 3.369 nel giugno, a 4.647 nel settembre. A Roma, invece, la liberazione del Nord portò ad una progressiva diminuzione degli indici che, fino allora, erano stati molto più elevati dell’Italia settentrionale: l’in­ dice dei prezzi passava da 3.840 nell’aprile a 3.571 nel mag­ gio, a 2.922 nel giugno, a 2.648 nel luglio, a 2.661 nell’agosto, ecc. Il fatto che le quotazioni, "sensibilmente piu elevate a sud della linea gotica,” venissero, come faceva osservare lo Annuario della congiuntura economica italiana per il 193847, "rapidamente raggiunte e superate nella primavera dal­ le province del nord," stava ad indicare che era praticamen­ te impossibile impedire uno scambio di prodotti fra nord e sud, come volevano fare gli alleati stabilendo quello che fu detto il "cordone sanitario," con la scusa che i prezzi fra le due zone non fossero livellati. Era una misura che alimen­ tava il contrabbando, sicché dopo qualche settimana fu chiaro, come scriveva Roberto Tremelloni sull’Industria, che la suddivisione dell’Italia in due tronconi non avrebbe potuto essere mantenuta in concreto. Cosi come non avreb­ be potuto durare molto a lungo quello che ancora il Tre­ melloni definiva il "provincialismo economico,” cioè il ten­ tativo di stabilire assurde ed antieconomiche autarchie lo182

cali: "Prefetti che non consentono l’uscita di merci dalla propria provincia, che desiderano barattarle con altri pro­ dotti di altre province, e che determinano prezzi ufficiali locali; o che pretendono di passare ad altre province con­ tingenti di materia prima per farla lavorare ‘a façon’ e mantenere la proprietà o che tassano l’uscita della merce (come la provincia di Sondrio per il legname).’’ Era una situazione di cui potevano facilmente approfit­ tare gli speculatori, i borsari neri: ecco perché il C.L.N.A.I., d’accordo con la Commissione centrale economica, appro­ vava, il 27 giugno, una mozione in cui affermava che si do­ veva tendere a “suscitare una vasta opera popolare, pro­ mossa dai C.L.N. con il concorso di tutte le organizzazioni di massa ed economiche, che, nel rispetto della legge, [lot­ tasse] efficacemente contro la speculazione, l'aumento abu­ sivo dei prezzi, il mercato nero ed ogni tentativo di sottrar­ si al dovere della solidarietà nazionale." Si trattava di una mozione che poneva le classi lavoratrici al centro della vita del paese, perché pur osservando come fosse necessario adeguare al nuovo livello del costo della vita i salari, gli stipendi e le pensioni, non insisteva molto su questo punto e dichiarava piuttosto che era indispensabile combattere l’inflazione e "promuovere una graduale redistribuzione del­ la mano d’opera avviando le unità eccedenti di alcuni set­ tori industriali verso le attività produttive capaci di assor­ bimento, e particolarmente verso i lavori agricoli ed i la­ vori di ricostruzione.” Con quest’ultima affermazione il C.L.N.A.I. mostrava di aver capito veramente l’importanza decisiva del problema: infatti, soprattutto nel corso del 1944 e dei primi mesi del 1945, le industrie si erano gonfiate di mano d’opera proveniente dalla campagna spesso per sfuggire alle deportazioni in Germania. Ora, questi nuovi operai non volevano ritornare all’agricoltura (che pure ne avrebbe avuto grande bisogno per le distruzioni ammontan­ ti a circa 250 miliardi) e tale loro riluttanza poteva bloc­ care in misura notevole ogni sviluppo in senso democratico della nostra struttura economica, perché i ceti capitalistici avrebbero potuto cercare di scambiare la piena occupazione con la rinunzia alle profonde riforme auspicate. Di conse­ guenza, questo avrebbe segnato la sconfitta del movimento operaio, e la sua moderazione nel richiedere aumenti sala­ riali (della quale cosi parlava, alla Costituente, il 18 settem­ bre 1946, il socialista Francesco Mariani: "Noi abbiamo det­ to agli operai, prima della Costituente, e per ordine venuto dalla Confederazione generale del lavoro, di sospendere ogni 183

e qualsiasi agitazione. Abbiamo continuato a rinviare, rin­ viare e rinviare. Ultimamente, quando eravamo in tratta­ tive con gli industriali, abbiamo accantonato anche le ri­ chieste di aumento di paghe. Si era detto: 'Bisogna che noi puntiamo sulla politica della diminuzione dei prezzi.’ Signo­ ri, noi questo lo reclamiamo da un anno”) si sarebbe risolta in vantaggio della classe antagonistica. Eppure, la via giu­ sta era proprio questa, del rinvio degli aumenti salariali, della lotta contro l’inflazione e per la diminuzione dei prez­ zi, e del riconoscimento della necessità di alleggerire le im­ prese della mano d’opera esuberante: era una via che po­ teva costare nuove sofferenze alle classi lavoratrici, ma che le avrebbe messe veramente nella condizione di reclamare la direzione della società, sebbene si dovesse avere la chia­ ra consapevolezza che questi sacrifìci avrebbero dovuto es­ sere alleviati da un deciso e adeguato intervento dello Sta­ to, il quale avesse definitivamente abbandonato la otto­ centesca dottrina della più assoluta neutralità nella vita economica del paese. La crisi del governo Bonomi

Il 26 aprile, il C.L.N.A.I., in vista della inevitabile riforma del governo, esprimeva al C.L.N. centrale il voto che i mini­ steri decisivi per la condotta della guerra e per il rinno­ vamento democratico del paese, e in particolare il ministero dell’Interno, fossero affidati a uomini che avevano recisa­ mente combattuto il fascismo sin dal suo sorgere e che davano “prova di saper degnamente esprimere i bisogni di vita e di giustizia sociale e le profonde aspirazioni demo­ cratiche delle masse lavoratrici e partigiane che sono state all’avanguardia della nostra guerra di liberazione." Sem­ brava, perciò, che il C.L.N.A.I. volesse più che la formazio­ ne di un nuovo governo, il rinnovamento di quello esisten­ te mediante l'ingresso in esso di uomini della Resistenza. Ma quando, il 5 maggio, una delegazione milanese giunse a Roma con l’intento di esporre al Bonomi i punti che erano stati approvati all’unanimità dal Comitato come base di orientamento e di discussione per il nuovo ministero, si erano già delineate con chiarezza diverse posizioni: anzitut­ to, quella dei liberali, i quali sostenevano che si dovesse ampliare il governo su designazione dei partiti e “nell’ambi­ to della tuttora vigente legalità costituzionale”; poi quella degli azionisti, che ritenevano, come scrisse il Valiani sull'Italia libera, il blocco delle sinistre utile si ma non suffi184

dente per giungere alla formazione di un governo democra­ tico avanzato che esigeva energie più vaste di quelle che i partiti di sinistra e di massa potessero dare: "L’unione del­ le sinistre può e deve formare lo strumento della crisi del potere, ma da sola non può risolverla," perché occorreva anche legarsi ai liberali repubblicani, ai democristiani pro­ gressisti del Nord e alla piccola borghesia democratica. In­ fine, c’era la posizione dei socialisti e comunisti, che sem­ brava volessero giungere in breve tempo al partito unico e che esigevano, come disse il Nenni sull’Avanti!, un go­ verno nuovo, che avesse "le caratteristiche di un vero e proprio Comitato di salute pubblica" per condurre la lotta contro i residui fascisti e per la convocazione della Costi­ tuente, un governo, cosi dichiarò il Morandi in un messag­ gio alla radio romana, che rispondesse "alla ferma determi­ nazione del popolo italiano di costruire il suo domani nella libertà e col suo lavoro.” Tuttavia, nelle condizioni presentate al Bonomi il 5 mag­ gio non si parlava di un nuovo governo perché si chiedeva: ”1) epurazione estesa dal campo politico anche a quello am­ ministrativo ed economico; 2) chiarificazione in senso de­ mocratico dei rapporti fra i Prefetti e i Comitati di Libera­ zione regionali e provinciali; 3) impostazione di un’opera di ncostruzione economica sopportata in modo particolare da coloro che hanno tratto maggiori benefìci economici da die­ ci anni di politica autarchica, nonché dalla collaborazione coi fascisti e coi tedeschi; 4) impostazione, in linea di prin­ cipio, del problema della riforma agraria; 5) politica estera che significhi collaborazione democratica con tutti i Paesi.” Non si chiedeva esplicitamente un nuovo governo, ma era­ no, senza dubbio, condizioni che avrebbero dovuto segna­ re una decisa rottura con il Bonomi, del quale si mettevano in rilievo i favori concessi al fascismo nel 1921 e la "con­ genita estrema debolezza” nell’opporsi ora alle forze della reazione. Sicché, a Roma sempre più insistenti circolavano le voci di crisi imminente e si parlava anche di una candi­ datura Nenni alla presidenza del consiglio, candidatura che apparve probabile dopo un discorso del leader socialista al Brancaccio (9 maggio), che era stato inteso, per la sua difesa dell’italianità di Trieste e per il suo impegno di una rapida convocazione della Costituente (a proposito della quale il Nenni aveva invitato la democrazia cristiana a pro­ nunciarsi in favore della repubblica), come un vero e pro­ prio programma di governo. Ma, con evidente malumore delle sinistre (che facevano 185

osservare come i giorni passassero senza che "la polvere che il 'il vento del Nord’ [aveva] sollevato né si [condensasse] né si [disperdesse]’’), ogni decisione fu rimandata a quando il C.L.N. centrale, restituendo la visita ai colleghi milanesi, si fosse reso conto della situazione dell’Italia settentrionale. Intanto, però, intervenivano gli alleati con una dichiarazio­ ne che si risolveva in aperto appoggio alle destre: infatti, dichiarevano che il nuovo governo avrebbe dovuto rispettare le condizioni di armistizio ed impegnarsi a non iniziare una campagna per la questione istituzionale, con la scusa che le eventuali lotte politiche avrebbero potuto rendere meno sicure le comunicazioni delle truppe anglo-americane. Inol­ tre, una nota délì'Associated Press faceva sapere che a Lon­ dra e a Washington si era ancora incerti fra il plebiscito o l’Assemblea costituente: il che voleva anche dire che al po­ polo italiano non era riconosciuta alcuna libertà neppure in quei problemi che credeva di poter risolvere da solo. A questa intimazione alleata il C.L.N. rispondeva (dopo una serie di “lunghe laboriose riunioni” tenute a Milano e conclusesi, il 24 maggio, con l’approvazione di un program­ ma concreto che praticamente apriva la crisi di governo) rin­ novando Vimpegno, "già consacrato dalla legge, di indire le elezioni della Costituente entro il più breve tempo possi­ bile.” Il programma prevedeva anche la richiesta agli al­ leati di trasformare l’armistizio in un patto di amicizia e di collaborazione; la lotta contro qualsiasi ritorno ad attività monopolistiche ed a concentrazioni capitalistiche domina­ trici dello Stato e il graduale inserimento dei lavoratori ne­ gli organi direttivi delle aziende, pur evitando di turbare la libertà dell’iniziativa privata; l’epurazione, l’avocazione dei profitti di regime e di congiuntura e le sanzioni contro i capi fascisti. Infine, esso riconosceva ai C.L.N. la funzione di organi consultivi delle autorità locali. Il De Gasperi fu in­ caricato di presentare al Bonomi questo programma (egli parti per Roma, accompagnato dai ministri Soleri, Gronchi e Brosio, dal governatore della Banca d’Italia, Einaudi, e dai segretari del p.l.i., Cattani, e del p.d’a., Lussu), ma già si profilavano perplessità e dubbi in alcuni partiti, nella democrazia cristiana per una candidatura socialista e nel partito liberale per l’immissione dei C.L.N. nell’apparato del­ lo Stato con funzioni consultive. Le riserve di quest’ultimo partito furono rese note, il 29 maggio, dal Cattani, dopo una riunione della Giunta esecutiva liberale, in una lettera che chiedeva agli altri partiti “una chiarificazione politica pre­ giudiziale,” particolarmente sulla composizione e sul funzio­ nò

namento dei C.L.N. La lettera affermava che il tentativo di diffondere i Comitati in tutta la struttura della società con la formazione di C.L.N. rionali, aziendali, ecc., minacciava di porre le basi di un secondo Stato accanto e forse contro 10 Stato democratico, introducendo "un autoritarismo col­ lettivo, una forma nuova di totalitarismo a sei” e soffocan­ do le pubbliche libertà. L’attacco era duro e valse a bloccare l’attribuzione di funzioni politiche ai C.L.N. di base, specialmente aziendali, e valse anche ad impedire il successo della candidatura Nenni, soprattutto perché il p.d’a., di fronte al pericolo che la situazione politica italiana si spaccasse in due — da un lato i liberali ed i democristiani e, dall’altro, i comunisti che avevano appena ribadito, il 28 maggio, in un convegno piemontese, la loro volontà di giungere al partito unico del­ la classe lavoratrice —, incominciò a dimostrarsi meno pro­ penso ad accettare la soluzione socialista (una corrente, inol­ tre, di questo partito, quella che faceva capo allo Stato moderno, condivideva la posizione liberale sulla limitazio­ ne dei poteri dei C.L.N.). Cosi, venne favorita una nuova candidatura della democrazia cristiana, nella persona del suo segretario, il De Gasperi, mentre il Nenni, forse perché accortosi dei pericoli di una troppo stretta unione con i comunisti (che invece di coagulare, come aveva creduto alcuni mesi prima, attorno ai due partiti operai le forze de­ mocratiche, da quelle cattoliche della sinistra democristiana a quelle piccolo borghesi del partito d’azione e del partito repubblicano, minacciava di portare alla formazione di un largo schieramento contrapposto), insisteva sulla funzione democratica del p.s.i. e parlava di "unione intima e fiducio­ sa con gli altri partiti antifascisti." Ma anche la candidatura De Gasperi, presentata come quella che offriva una garanzia di equilibrio e di imparzia­ lità di fronte a tutti i partiti della coalizione, falliva rapida­ mente: il 6 giugno si teneva a Milano un convegno dei C.L.N. regionali dell’Alta Italia da cui veniva la richiesta di un governo che fosse l’espressione dei C.L.N. stessi e che provvedesse "ad un radicale rinnovamento della direzione politica del Paese e si [impegnasse] per un miglioramento della situazione internazionale dell’Italia." Lo stesso giorno 11 partito socialista rifiutava la presidenza De Gasperi e no­ tevoli esitazioni nascevano anche nel p.d’a. soprattutto per le ambiguità dei democristiani, sempre restii a fare impegnati­ ve dichiarazioni se non proprio in senso repubblicano, per lo meno in merito alla Costituente. Il partito d’azione, per187

tanto, come prima aveva fatto cadere la candidatura Nenni, cosi ora faceva cadere anche quella De Gasperi (sarebbe ba­ stato, infatti, che appoggiasse l’una o l’altra soluzione per farla riuscire), e, di conseguenza, veniva naturale la designa­ zione a capo del governo, da parte degli esponenti dei C.L.N. del Nord, di un azionista, che fu Ferruccio Parri, il rap­ presentante "del combattentismo insurrezionale," designa­ zione voluta quasi per sottolineare “lo sforzo compiuto dal­ le regioni settentrionali in nome di tutto il paese per ri­ scattare le colpe del fascismo e valorizzare la partecipa­ zione degli italiani alla vittoria delle Nazioni Unite" (12 giugno). Un’ultima difficoltà si ebbe il 16 giugno quando i liberali chiesero il ministero dell’Interno, ma essa fu supe­ rata con la decisione del Parri di tenerlo per sé. Cosi, il 19 giugno, poteva venire annunciato il nuovo governo1 e L’Ita­ lia libera osservava con soddisfazione che un generale con­ senso circondava la figura del presidente. La candidatura del p.d’a. aveva accentuato la funzione di cerniera, di ponte (in quei giorni cominciava ad uscire la bella rivista fioren­ tina di Piero Calamandrei da questo titolo), di mediazione politica fra gli assertori della libertà individuale e gli esaltatori della giustizia sociale, come scriveva Lo Stato moder­ no, una funzione che, per il momento, era riuscita a sal­ dare le due opposte ali del Comitato. Eppure, si trattava manifestamente di una soluzione provvisoria, una tregua, destinata a durare fino a quando una delle due parti si fosse sentita più forte della parte avversa e, perciò, in gra­ do di superare la fragile barriera del partito d’azione; al­ lora, per quest’ultimo sarebbe stata indubbiamente la fine. La conferenza di San Francisco (25 aprile-25 giugno)...

Il 29 aprile, il comandante tedesco del gruppo d’armate Sud, gen. Vietinghoff-Scheel, firmava al quartier generale 1 II governo risultava cosi composto: Presidenza del consiglio e In­ terni: Ferruccio Parri (p.d’a.); Vice-presidenza: Pietro Nenni (p.s.i.) e Manlio Brosio (p.l.i.); Esteri; Alcide De Gasperi (d.c.); Giustizia: Paimiro Togliatti (p.c.i.); Ricostruzione: Meuccio Ruini (democrazia del lavoro); Te­ soro: Marcello Soleri (p.l.i.); Finanze: Mauro Scoccimarro (p.c.i.); Agri­ coltura: Fausto Gullo (p.c.i.); Istruzione: Vincenzo Arangio Ruiz (p.l.i.); Industria e Commercio: Giovanni Gronchi (d.c.); Lavoro e Previdenza so­ ciale: Gaetano Barbareschi (p.s.i.); Trasporti: Ugo La Malfa (p.d’a.); La­ vori Pubblici: Giuseppe Romita (p.s.i.); Ripresa postbellica: Emilio Lussu (p.d’a.); Approvvigionamenti: Enrico Molè (democrazia del lavoro); Guerra: Stefano Jacini (d.c.); Marina: ammiraglio De Courten; Aeronautica: Ma­ rio Cevolotto.

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alleato del maresciallo Alexander, a Caserta, la resa senza condizioni; il 30 Hitler, poco prima dell’arrivo a Berlino del­ le truppe sovietiche (2 maggio), si uccideva e gli succedeva, alla testa del governo l’ammiraglio Dönitz, il quale annun­ ciò che la guerra continuava, pur mentre si adoperava per porre termine alla ormai inutile lotta. Ma il Kesselring, re­ sponsabile della resistenza nella parte meridionale della Germania, si rifiutò di riconoscere l’armistizio firmato in Italia e destituì, in un primo tempo, il Vietinghoff-Scheel; solo in un secondo momento gli ridiede il comando autoriz­ zandolo a firmare con il gen. Clark la capitolazione. Questa venne annunciata il 2 maggio ed il 7, mentre le armate so­ vietiche si incontravano con quelle occidentali e le ultime di­ sperate resistenze venivano infrante, i plenipotenziari tede­ schi firmavano, al quartier generale di Eisenhower, la resa incondizionata con decorrenza dalla mezzanotte. La guerra in Europa era finita, ma continuava quella in Estremo Oriente: contro il Giappone ora poteva scatenarsi tutta l’im­ mensa forza militare degli anglo-americani, i quali avan­ zavano in Cina, in Birmania, nelle Filippine, ad Okinawa. Intanto, sempre più gravi si facevano gli effetti del blocco aero-navale alleato e incominciavano le prime azioni diurne di centinaia di superfortezze su Tachikawa, Nagoja, e la stessa capitale Tokio. Ai giapponesi rimanevano poche pos­ sibilità di resistere a questa offensiva che dal mare, dall’aria e per terra li stringeva inesorabilmente, finché il 6 agosto veniva lanciata sulla base navale di Hiroshima la prima bomba atomica, l’arma segreta in cui i tedeschi avevano ri­ posto tante speranze, senza riuscire, però, a fabbricarla; Γ8 agosto, anche l’U.R.S.S. dichiarava guerra al Giappone, e il 9 veniva sganciata la seconda bomba atomica su Nagasaki. Aveva inizio, con queste bombe, la nuova età dominata da un acuto senso di instabilità e da un acuto risveglio della coscienza morale dell’uomo, dalla cui volontà sembrerà di­ pendere la sopravvivenza della specie umana. Il 10 agosto il governo giapponese accettava le condizioni contenute in una dichiarazione della Cina, dell'Inghilterra e degli Stati Uniti del 26 luglio: limitazione della sovranità nipponica alle quattro grandi isole dell’arcipelago; disarmo totale; ri­ stabilimento della libertà di parola, di pensiero e di reli­ gione; punizione dei criminali di guerra. Chiedeva, però, che fosse salvata la sovranità del Tenno, il che veniva ac­ cettato Γ11, purché l'imperatore si sottomettesse al coman­ dante supremo delle forze alleate e il popolo giapponese fos­ se lasciato libero di decidere la forma del proprio governo. 189

Infine, il 14 agosto, il presidente degli Stati Uniti, Truman, il nuovo primo ministro britannico, il laburista Clement Attlee (i laburisti avevano vinto le elezioni, il 26 luglio, ot­ tenendo 417 deputati con 15.047.378 voti contro 210 depu­ tati conservatori con 9.934.573 voti) e il generalissimo Stalin annunciavano la resa del Giappone. Adesso, finalmente, aveva termine la lunga e tremenda guerra che aveva dato esempi di uno smarrimento della co­ scienza umana che sarebbe sembrata impossibile e che aveva aperto spesso penosi conflitti in cittadini della stessa nazio­ ne. I popoli credevano di poter riprendere a vivere, dopo il pesante incubo, ma bisognava, ora, vincere la pace e nuove difficoltà nascevano, nuovi contrasti fra gli alleati. Abbattuto il nemico, i russi da un lato e gli anglo-americani dall’altro, si ritrovavano di fronte con i loro problemi insoluti, con la loro diversa visione della vita, con le loro contrastanti aspi­ razioni. Il Churchill giungeva addirittura a paragonare la minaccia sovietica a quella nazista: “La minaccia sovietica, ai miei occhi, aveva già sostituito il nemico nazista." Poteva quasi sembrare che il conflitto con la Germania fosse stato, per il premier britannico, quasi una parentesi nella inces­ sante lotta contro il comuniSmo e contro l’U.R.S.S.; egli parlava di "mire imperialistiche della Russia sovietica” nei Balcani, ma forse dimenticava che era stato proprio lui, nell’ottobre del 1944 a Mosca, a riconoscerle una influenza preponderante in quella zona. Il Churchill già pensava alla eventualità di una terza guerra mondiale, come scriveva Γ11 maggio al suo ministro degli Esteri, Eden, e si preoccu­ pava del progressivo ritiro delle truppe americane dall’Eu­ ropa e della parziale smobilitazione inglese per cui, senza dubbio, si sarebbero fatte ben presto forti pressioni nel suo paese, mentre i russi avrebbero potuto "rimanere con cen­ tinaia di divisioni in possesso dell’Europa da Lubecca a Trieste, e alla frontiera greca dell’Adriatico.” Perciò, per non trovarsi del tutto disarmato di fronte a tale pericolo, consigliava, il 9 maggio, all’Eisenhower di non consentire che venissero distrutti gli aeroplani, le armi e gli altri og­ getti di equipaggiamento dei tedeschi: "Potremo trovarci ad averne grande bisogno un giorno o l’altro [...]." Ma una simile prospettiva doveva apparirgli, quale realmente era, tremenda ed allora senti di nuovo il bisogno di avere una franca spiegazione con Stalin su tutti i gravi problemi ri­ masti in sospeso, dopo però aver dato ancora una chiara dimostrazione della sua diffidenza proponendo al presidente americano di fare avanzare le truppe anglo-americane il più 190

addentro possibile nella zona sovietica della Germania (a Jalta era stata decisa la divisione della Germania in quattro zone d’occupazione, essendo stati riconosciuti anche alla Francia uguali diritti a quelli dei tre alleati) per costringere i russi a dare precise garanzie sul futuro politico ed eco­ nomico della parte loro assegnata. Ma il Truman si rifiutò di seguire il Churchill per questa strada che avrebbe potuto portare a serie complicazioni, e, pertanto, a quest’ultimo non rimase che cedere. Ma in quale modo il primo ministro britannico voleva riorganizzare il mondo? Nelle sue Memorie sulla guerra egli dice di essere sempre stato del parere che si sarebbe dovuta cercare la fondazione di uno strumento mondiale "su base regionale. La maggior parte delle regioni vengono in men­ te senza sforzo: Stati Uniti, Europa Unita, Commonwealth e Impero britannico, Unione Sovietica, America del Sud." In definitiva, quindi, egli non abbandonava la suddivisione in sfere d’influenza, sfere chiuse e in certo qual modo au­ tonome, ciascuna delle quali dominata da una potenza ege­ mone. Infatti, egli soggiunge, sempre nelle sue Memorie, di ritenere che “la convocazione di tutte le nazioni, grandi e piccole, potenti o inermi, all’Ente Centrale su piede di pa­ rità,” si potesse “paragonare all’organizzazione di un eser­ cito che non [avesse] discriminazione tra l'Alto Comando e i comandanti di divisione e di brigata." Ma era proprio con­ tro questa preponderanza delle grandi potenze che i piccoli Stati avevano cercato di ribellarsi alla conferenza di San Francisco (U.N.C.I.O. cioè “United Nation Conference on International Organisation"), che, apertasi il 25 aprile, durò lino al 25 giugno. L'Economist scrisse, il 5 maggio, che la controversia fra le grandi e le piccole potenze stava per rap­ presentare il principale elemento drammatico della confe­ renza e che la concezione dei cinque (Inghilterra, Russia, Stati Uniti ai quali si erano aggiunte, ma in posizione lieve­ mente subordinata, la Cina e la Francia) come “policeman," sollevava critiche sempre più aspre. In realtà, la questione dei privilegi dei cinque Stati fu al centro delle discussioni, rifiutandosi le piccole potenze, capeggiate dal ministro degli Esteri australiano, Evatt, di accettare la formula adottata a Jalta sul diritto di veto dei membri permanenti del Consi­ glio di sicurezza, senza dubbio l’organo più importante delle "Nazioni Unite,” composto di 11 membri (5 permanenti e 6 elettivi). Il 7 giugno, scrive A. Basso, il quale ha fatto la sto­ ria di questa discussione su Lo Stato moderno, si raggiun­ se l’accordo su quella che poteva essere ritenuta l’interpre191

tazione più liberale, secondo cui solo gli eventuali provve­ dimenti avrebbero potuto essere oggetto di veto, senza, per­ altro, che nessun esame di situazioni particolari potesse ve­ nire impedito. Ma, in sostanza, la formula di Jalta — che richiedeva, nelle questioni non procedurali, l’unanimità dei membri permanenti più i voti favorevoli di almeno due dei membri non permanenti — resistette e fu approvata dal­ l’apposito Comitato, il 13 giugno (30 voti favorevoli contro 2 contrari — Colombia e Cuba — e 15 astenuti, quasi tutti del­ l’America latina, e 3 assenti: gli astenuti subordinarono la loro successiva accettazione all’impegno di un riesame del problema entro dieci anni e il 20 giugno espressero la spe­ ranza che le grandi potenze non avrebbero fatto cattivo uso del loro potere). I piccoli Stati cercarono di modificare anche un altro punto, quello riguardante i poteri limitati dell’Assemblea generale di fronte al Consiglio di sicurezza. Parve, a questo proposito, che un contrasto si delineasse fra la delegazione sovietica e quella americana e britannica, perché, il 28 mag­ gio, il Comitato tecnico decise, contro il parere dei russi, di dare all’Assemblea la possibilità di approvare o disapprova­ re i provvedimenti presi dal Consiglio. Ma il Comitato esecu­ tivo della conferenza, per evitare che potessero sorgere con­ flitti tra i due organi, decise di invitare il Comitato tecnico ad un riesame del problema, riesame che portò, il 13 giu­ gno, anche in questo caso, al ripristino della formula di Dumbarton Oaks, in base alla quale l’Assemblea poteva sol­ tanto ricevere ed esaminare le relazioni del Consiglio. Una nuova discussione si apri, il 29 maggio, sulla proposta delle piccole potenze, avversata dai cinque membri permanenti, che all’Assemblea fosse concesso il diritto di discutere qual­ siasi argomento interessante le relazioni intemazionali, con­ trariamente a quanto era stato stabilito in precedenza, so­ prattutto a Dumbarton Oaks, dove si era lasciata all’Assem­ blea solo la possibilità di fare raccomandazioni sulle que­ stioni riguardanti il mantenimento della pace e della sicu­ rezza intemazionale. Pertanto, il 16 giugno la Russia risol­ levò il problema, che fu poi risolto, il 20, dal Comitato tecni­ co con l'approvazione di un articolo che riconosceva, secon­ do la formula più restrittiva, all’Assemblea il diritto di fare raccomandazioni su qualsiasi questione "entro gli scopi del­ la Carta o relativi ai poteri e alle funzioni di uno qualsiasi degli organismi previsti nella Carta.” L’Italia era rimasta molto delusa per non essere stata invitata a San Francisco, il che sembrava indicare che la 192

sua partecipazione alla lotta contro la Germania non aveva affatto modificato il suo stato di nazione nemica. Questa delusione alimentò le critiche alla "funzione dittatoriale” che i cinque membri permanenti si erano attribuita: lo Sturzo, che sostenne con vigore sulla stampa cattolica ame­ ricana il diritto dell'Italia ad essere presente alla conferen­ za, affermò che il metodo democratico non era applicato al­ la sistemazione mondiale del dopoguerra, “si bene il me­ todo del diritto del più forte." Egli, inoltre, faceva giusta­ mente osservare che l’organizzazione non avrebbe potuto funzionare che "sotto due condizioni: la contrattazione dei potenti a danno dei deboli, concedendo contro compenso e caso per caso; ovvero precisando le sfere d’influenza dove nessuna altra potenza potrà mettere il naso.”

... e quella di Potsdam (17 luglio-1° agosto)

Perciò, il principio delle zone d'influenza usciva raffor­ zato da San Francisco, e cosi pure veniva implicitamente confermato l’altro principio, che poteva esserne inteso co­ me la premessa o la conseguenza, della necessità dell’accor­ do fra l’Inghilterra, gli Stati Uniti e l’U.R.S.S., le tre supre­ me potenze, quale condizione indispensabile per non preci­ pitare il mondo in una terza guerra mondiale. In definitiva, a San Francisco l’intesa fra russi e anglo-americani aveva bloccato ogni tentativo di modificare in senso piu democra­ tico lo statuto della nuova organizzazione e questa via i tre grandi parevano decisi a percorrere sino in fondo, in parti­ colare il Churchill e Stalin. Il primo aveva guardato con un certo fastidio alla conferenza sulle rive del Pacifico e aveva, invece, riposto ogni sua speranza in un incontro fra i rappresentanti delle tre maggiori potenze, per il quale aveva incominciato ad adoperarsi dall'inizio del maggio. Il 1° giugno il presidente Truman gli comunicava che Stalin era disposto ad un incontro a Berlino per il 15 luglio, e, sebbene il premier britannico pensasse che fosse tardi per le urgenti questioni che si sarebbero dovute esaminare e che non si dovesse consentire "a esigenze nazionali o perso­ nali” di ostacolare una data meno remota, fu costretto a rassegnarsi, data l’impossibilità di anticiparla. Fu, questa, la conferenza di Potsdam che, con una breve interruzione dal 25 al 28 luglio per consentire ad Attlee, ca­ po del nuovo governo laburista britannico, di sostituire il Churchill, si tenne dal 17 al 1° agosto. I punti di contrasto Π.7

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furono soprattutto quelli concernenti i trattati di pace e le sistemazioni confinarie dell’Europa; l’ingresso dell’Italia nel­ le Nazioni Unite proposto dal Truman e avversato dal Chur­ chill (il quale dichiarò che la Gran Bretagna, pur essendo ben disposta verso l’Italia, non poteva dimenticare che que­ sta aveva dichiarato guerra al Commonwealth nell'ora del suo massimo pericolo, quando la resistenza francese era sul­ l’orlo del collasso; disse anche di non poter sorvolare sulla lunga lotta sostenuta nell’Africa settentrionale prima che en­ trasse in guerra l’America); il riconoscimento di una effet­ tiva autorità alla organizzazione delle Nazioni Unite, rite­ nuto indispensabile dal Truman ma giudicato prematuro dal Churchill ("Io temevo,’’ questo ha scritto nelle sue Me­ morie, “una dissoluzione della Grande Alleanza. Un’orga­ nizzazione mondiale aperta a tutti e pronta a tutti perdo­ nare, poteva essere tanto diluita quanto impotente”); il pro­ blema dei rapporti con la Spagna di Franco, che Stalin vo­ leva condannare per favorire le forze democratiche, incon­ trando però l’opposizione del Churchill che fece cadere per il momento la questione; e infine, quello più grave e più importante, cioè il problema della Polonia, delle sue fron­ tiere perché l’altro del suo governo era stato risolto a Mo­ sca, il 23 giugno, con l’invito a un certo numero di capi po­ lacchi di Londra — e, in particolare, al Mikolaiczyk, nomi­ nato vice-primo ministro — a partecipare all’attività dello Stato. Su tutti questi punti il più combattivo fu il premier bri­ tannico, che resistette ora al Truman ora a Stalin, ma le cose cambiarono quando al suo posto andò Attlee. Il Chur­ chill afferma che l’eliminazione del governo nazionale bri­ tannico e la sua scomparsa dalla scena in un momento in cui aveva “ancora molto prestigio e potere, resero impossi­ bile di raggiungere soluzioni soddisfacenti.” I negoziati do­ vettero essere da parte sua troncati a metà e furono anzi portati "a conclusione immatura,” senza, però, che la colpa potesse ricadere tutta sui nuovi ministri inglesi, i quali “fu­ rono costretti ad abbandonare le trattative senza una prepa­ razione seria, ed erano naturalmente all'oscuro delle idee e dei piani che io avevo in mente, cioè ‘metter le carte in ta­ vola’ alla fine della Conferenza e, se necessario, affrontare una rottura aperta anziché permettere che qualcosa oltre l’Oder e la Neisse orientale fosse ceduto alla Polonia," piut­ tosto che consentire, cioè, che la frontiera polacca fosse por­ tata alla Neisse occidentale, come volevano i russi. I labu­ risti, invece, che si erano presentati all’elettorato britannico 194

con un programma in politica estera di stretta cooperazio­ ne con l’Unione Sovietica e di aperto appoggio ai movimenti democratici nei paesi europei, non erano in grado, per que­ sti stessi loro presupposti programmatici, di opporsi alle richieste avanzate ora dal Truman ora da Stalin. Infatti, il comunicato finale annunciava l’istituzione di un consiglio dei ministri degli Esteri della Cina, della Francia, della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e dell’U.R.S.S. per preparare i trattati di pace (il Churchill aveva elevato i suoi dubbi su questa proposta del Truman come pure sull’altra di rico­ noscere alla Cina il diritto di intervenire nelle questioni eu­ ropee); per l’Italia, dopo aver detto che alla stipulazione del suo trattato avrebbe preso parte anche la Francia, "come una delle firmatarie delle condizioni di resa," ed avere affermato che il trattato stesso era uno dei “compiti imme­ diati” del consiglio dei ministri, aggiungeva: “L’Italia è sta­ ta la prima potenza dell'Asse a rompere i rapporti con la Germania alla cui sconfitta ha dato contributi materiali [qualcuno tradusse: sostanziosi]. Essa si è ora unita agli al­ leati nella lotta contro il Giappone [con la dichiarazione di guerra del 14 luglio]. L’Italia si è liberata da sé dal regime fascista e sta facendo buoni progressi sulla via della restau­ razione di un governo e di istituzioni democratiche. La con­ clusione del trattato di pace con il riconosciuto governo de­ mocratico italiano renderà possibile ai tre governi di sod­ disfare il loro desiderio di appoggiare la richiesta dell’Italia di essere ammessa tra le Nazioni Unite” (il nostro ministro degli Esteri, De Gasperi, trasse motivo da queste affer­ mazioni di sperare che il trattato non potesse “contenere condizioni non accettabili da parte di un Governo democra­ tico’’); la Spagna era esplicitamente esclusa dalle Nazioni Unite, perché il suo governo era stato insediato con l’appog­ gio delle potenze dell’Asse e non possedeva "le qualifiche necessarie per ottenere tale ammissione”; i confini della Po­ lonia erano spostati, come voleva Stalin, all’Oder e alla Neisse occidentale, convenendosi che i trasferimenti delle po­ polazioni tedesche si effettuassero "in maniera ordinata e secondo le norme umanitarie." Il comunicato stabiliva, inol­ tre, le durissime condizioni imposte alla Germania, che do­ veva pagare per "i crimini orrendi sotto la guida di coloro che, nell’ora del successo, essa apertamente approvò e cieca­ mente ubbidì." I “Tre” dichiaravano di non avere alcuna in­ tenzione di ridurre il popolo tedesco in schiavitù, ma di vo­ lerne anzi la redenzione democratica: tuttavia, per impe­ dire un nuovo attacco alla pace, le industrie belliche e la 195

organizzazione militare tedesca dovevano essere smantella­ te; il paese sottoposto a tempo indeterminato a un regime di occupazione alleata che non consentisse la ricostituzione di un governo centrale, ma soltanto i dicasteri amministra­ tivi indispensabili alla vita collettiva. Le riparazioni, delle quali una parte rilevante era assicurata alla Russia, sareb­ bero consistite soprattutto nel trasferimento di macchine e di beni industriali; le libertà fondamentali di pensiero, di stampa e di organizzazione sarebbero state concesse solo nei limiti delle necessità militari e di controllo alleate. La nuova situazione internazionale

Anche a Potsdam, forse più che in altre occasioni pre­ cedenti, come metteva in rilievo il Vansittart in un arti­ colo riportato dall’/faZz’a libera, i Grandi mostrarono una quasi assoluta noncuranza per le piccole nazioni, nessuna delle quali era stata consultata. Inoltre, gli occidentali, ri­ nunciando ad avere voce in capitolo nella sistemazione del­ l’Europa orientale, avevano continuato e rafforzato “la tra­ dizionale eresia delle sfere di influenza, nelle quali i Grandi [avevano] sempre incluso arbitrariamente i piccoli." In ef­ fetti, la nuova organizzazione intemazionale appariva basa­ ta proprio su questi due principi: ormai indiscussa supre­ mazia delle grandi potenze e zone d’influenza. Era certo una organizzazione nettamente antidemocratica, ma che nasceva come una logica conseguenza della guerra, dalla quale due sole potenze, non cinque, erano uscite vittoriose, gli Stati Uniti e l’U.R.S.S. Giungeva perciò a compimento quel pro­ cesso di “decadenza dell'Europa” che il Nitti aveva denun­ ciato nel primo dopoguerra; ed effettivamente il vecchio continente, che era stato, come scriveva Adolfo Omodeo sul­ la sua bella rivista L’Acropoli, "focolare di libera vita e che nei suoi diversi centri [era] stato maestro di varia civiltà e di grandi esperienze al mondo,” aveva perduto, diviso in due grandi zone d’influenza, ogni autonomia. Anche la Gran Bretagna era diventata una potenza di secondo ordine di fronte ai due colossi mondiali e il Churchill aveva dovuto reagire piuttosto vivacemente al tentativo del Truman di mettersi direttamente d’accordo con Stalin sulle principali vertenze; vi era riuscito perché godeva ancora di un note­ vole prestigio, ma i suoi successori non avrebbero certo po­ tuto opporsi molto a lungo a questa tendenza. Eppure, era proprio una simile decadenza dell’Europa, che destava, co196

me si è visto, il rammarico e il lamento dell’Omodeo, che avrebbe salvaguardato la pace sul vecchio continente, pur­ ché sia l’una sia l’altra delle due superpotenze rispettasse rigidamente i confini alla sua influenza che aveva libera­ mente riconosciuto ed accettato. Certo, il vedere l’Europa decadere da soggetto orgoglioso — ma anche provocatore di due tremende guerre mondiali nel breve volgere di venti anni — a semplice oggetto della politica mondiale, poteva suscitare, in chi era, per tradizione e per cultura, molto attaccato alla sua civiltà, un senso di pena, senso, peraltro, che doveva scomparire qualora si fosse pensato che, in tal modo, le era tolta proprio quell’autonomia che aveva visto i singoli nazionalismi battersi furiosamente l’uno contro l’altro. Era stato a San Francisco che si era rivelato un simile superamento del senso delle nazionalità — la cui afferma­ zione aveva rappresentato l’aspetto più caratteristico della prima guerra mondiale, ma che subito dopo era degenerato negli esasperati e sopraffattori nazionalismi —, superamento che generava l’impressione della decadenza dell’Europa. Infat­ ti, diversi articoli della Carta delle Nazioni Unite postulava­ no una limitazione della sovranità degli Stati membri, molto più forte naturalmente per le piccole nazioni e meno per le grandi: esse dovevano abbandonare una parte del loro pote­ re per consentire il funzionamento dell’organizzazione inter­ nazionale. Finiva veramente un’epoca, quella che aveva visto decadere l’ottocentesco spirito di nazionalità, rispettoso e desideroso di affratellarsi con tutte le altre nazioni, in an­ gusto nazionalismo, carico di risentimento e animato dalla volontà di conquista. Eppure, i nazionalismi, anche in que­ sto mondo ad essi cosi contrario, sembrava che continuas­ sero ad avere importanza: ora era la Jugoslavia che esi­ geva l’Istria, Trieste e Gorizia (la zona era presidiata dagli alleati, i quali, però, Γ8 giugno firmavano a Belgrado un ac­ cordo in base al quale gli jugoslavi avrebbero occupato, fino alla conferenza della pace, il territorio delimitato da una linea che correva da Punta Grossa, a circa 6 chilome­ tri a sud di Trieste verso Gorizia, descrivendo un cerchio di 6 chilometri di raggio attraverso Erpelle, Cosina, San Da­ niele e Montespino; da qui, piegando leggermente a nordest, toccava Santa Lucia, Caporetto e Plezzo, giungendo in­ fine al confine austriaco presso Tarvisio); ora era la Fran­ cia che aveva fatto avanzare le sue truppe nelle Valli di Tenda, di Susa e d’Aosta e che parlava, per mezzo di alcuni portavoce, di rettifiche di confine suggerite da esigenze di 197

carattere strategico; infine, nubi parevano addensarsi anche sulTAlto Adige, dove aveva cominciato ad agire il ‘‘Südtiroler Volkspartei” che cercava di imporre al C.L.N. dell’Alto Adi­ ge l’assegnazione all’Austria della diocesi di Bressanone, cioè la valle dell’Isarco dalla chiusa di Bolzano fino al Brennero con le piccole valli confluenti, dalla Val Pusteria alla Val Pastina. Tutto questo, naturalmente, risvegliava il naziona­ lismo italiano e, cosi, in una età in cui i nazionalismi erano frantumati e, ad ogni modo, messi in grado di non provoca­ re più le guerre che avevano provocato nel passato perché sottoposti alla superiore volontà delle due grandi potenze mondiali, si avevano ancora queste dispute di altri tempi per i confini strategici. Dispute veramente anacronistiche, soprattutto nella nuova era della bomba atomica, che, come osservava il Vansittart, faceva saltare tutti i principi su cui era stata costruita la recente organizzazione mondiale da parte dei Grandi: "[...] nessun concetto di ‘sicurezza’ è più valido. I grandi Paesi non la troveranno più negli Stati ‘cu­ scinetto,’ nei Protettorati, nelle sfere d’influenza, nell’annes­ sione di territori altrui, nell’assorbimento di paesi vicini o nell’imposizione di sistemi stranieri.” Stalin, quando il Tru­ man gli aveva annunciato lo scoppio della prima bomba atomica era parso deliziato, racconta il Churchill che assisté al colloquio a cinque metri di distanza: "Una nuova bomba! Di potenza straordinaria! Probabilmente decisiva per tutta la guerra giapponese! Che colpo di fortuna! Fu questa la mia impressione in quel momento, ed ero certo che non aveva idea [Stalin] della portata di quanto gli si riferiva.” In realtà, però, anche gli effetti di questa scoperta sulla sistemazione dell’Europa non furono affatto quelli che sup­ poneva il Vansittart, perché le sfere l’influenza continuarono ad avere una importanza preminente. Per quanto riguarda queste sfere, esse erano facilitate dallo stato di prostrazione in cui si trovava l’Europa, che rendeva facile trattarla come oggetto e non soggetto di po­ litica intemazionale. Sulle conseguenze di questa sistema­ zione abbiamo già parlato e ora vorremmo solo aggiungere alcune dolenti frasi di Adolfo Omodeo che notava come ne sarebbero derivate “la corruzione della vita politica nei pae­ si delle zone d’influenza, l’incapacità di una sana democra­ zia a consolidarsi, a rieducare gli uomini, a risanare le si­ tuazioni”: tutto questo si sarebbe, poi, aggravato “per una serie di fatti che [avrebbero agito] non soltanto sulle classi strettamente politiche, ma su chi apparentemente dalla po­ litica [era] lontano.” “La democrazia non nascerebbe," 198

soggiungeva, "vitale. I parlamenti sarebbero! una comme­ dia architettata da servi venduti a questa o a quella poten­ za." L’unica salvezza avrebbe potuto essere quella di acco­ gliere la lezione implicita in questa nuova situazione e pro­ cedere verso una unità più ampia dei popoli europei. Solo adesso, infatti, sembrava che si fossero realizzate le con­ dizioni propizie al raggiungimento di questo ideale che, per noi italiani, risaliva alla predicazione di Giuseppe Mazzini, e, per i francesi, alla "grandiloquence prophétique" (come avevano scritto, nell’aprile 1943, i Cahiers politiques, una rivista clandestina dedicata soprattutto ai problemi del fu­ turo) di Victor Hugo ed all’azione di Aristide Briand. Infat­ ti, tutta la Resistenza europea si era svolta sotto il segno di una nuova organizzazione del vecchio continente, proprio perché era stato molto vivo in essa il senso di una fratel­ lanza dei popoli al di sopra delle frontiere. Lo stesso suo carattere di lotta di religione che aveva reso vicine nazioni lontane, "per consonanze ideali a forme di civiltà profon­ damente condivise," come disse l’Omodeo, aveva favorito la nascita in strati più vasti di una coscienza europea. Inoltre, avevano agito molto efficacemente in tale senso anche "il disgusto dei fantasticati imperi da conseguire col far tabula rasa della vita civile, e l’assurdità di piegare uomini pari a noi per cultura e vigore alla condizione di servi di un nuo­ vo feudalesimo” (Omodeo), insomma il fallimento del so­ gno fascista e nazista di asservimento dell’Europa e la ro­ vina del tentativo di livellare tutti nella stessa soggezione. In un numero di Politica estera (aprile-maggio 1945) de­ dicato alla federazione europea, cosi si riassumevano i van­ taggi di tale unione: opportunità di sopprimere i conflitti tra i popoli europei; opportunità di impedire la nuova pau­ rosa minaccia che l’Europa diventasse campo di battaglia e riserva di mercenari per potenze extraeuropee; opportunità di restituire all’Europa il posto nel mondo che gli europei istintivamente pretendevano; opportunità di ristabilire il di­ strutto equilibrio mondiale, mediante la costituzione di una forte massa europea che potesse farsi mediatrice tra il mondo anglosassone transoceanico e il mondo slavo eura­ siatico; opportunità di costituire un largo spazio economico, che permettesse agli europei di poter contare su un loro ampio mercato; opportunità di risolvere, in maniera de­ mocratica, il problema tedesco, di riconquistare cioè alla civiltà e alla convivenza pacifica il popolo germanico. In effetti, quest’ultimo era veramente "il cuore del problema dell’Europa,’’ poiché i federalisti cercavano di creare una 199

impalcatura, come disse Lionel Robbins, in cui il Geist te­ desco potesse dare all'Europa ciò che aveva di meglio e non ciò che aveva di peggio, liberandolo dai suoi demoni per reinserirlo in una comunità democratica piti vasta. I fede­ ralisti ben sapevano che non si sarebbe potuto guarire il popolo vinto con i regimi di occupazione e, d’altronde, par­ tivano dalla convinzione che la Germania non potesse più rappresentare una effettiva minaccia a meno che uno dei due contrapposti blocchi non ne avesse favorito la rinascita per lottare contro l’altro. Ma tale convinzione era aperta­ mente condannata dalla Russia e dai comunisti che la giu­ dicavano anti-sovietica e che si dimostravano, in generale, molto diffidenti nei riguardi di ogni tendenza europeistica. E questo era indubbiamente uno dei maggiori ostacoli che i federalisti incontravano sul loro cammino, mentre un altro ostacolo non indifferente era dato dalla Gran Bretagna, mol­ to restia ad abbandonare le sue responsabilità mondiali co­ me centro del Commonwealth. C’erano si, in Inghilterra, al­ cuni scrittori che sostenevano la necessità dell’unificazione dell’Europa su basi democratiche, come Cristopher Dawson, lo storico dell’Impero cristiano medioevale, nel suo libro: The Judgement of the People, ma l’opinione pubblica angloamericana, espressa eloquentemente da Walter Lippmann (17. S. Warm Aims'), sembrava favorevole alla divisione del mondo in sfere d’influenza, una occidentale della "comunità atlantica” il cui centro sarebbero stati gli Stati Uniti, che non dovevano venir meno alla loro missione storica, una orientale basata sull’Unione Sovietica, ed una asiatica sulla Cina. Indubbiamente, il Lippmann voleva mettere in rilievo la nuova responsabilità mondiale degli U.S.A., che non avreb­ bero più potuto ritornare all’isolazionismo come avevano fatto dopo la prima guerra mondiale, lasciando che l’Euro­ pa andasse alla deriva. In realtà, uno dei dati più impor­ tanti della nuova situazione internazionale era questa de­ cisione americana di intervento attivo nelle cose del vec­ chio continente, tanto che un mese dopo San Francisco, Washington aveva già ratificato il patto delle Nazioni Unite. In questa visione del giornalista americano, l’Inghilterra era ridotta a potenza di secondo piano e ciò faceva spe­ rare ai federalisti che essa, proprio per sfuggire a tale desti­ no, volesse unirsi più strettamente all’Europa, assumendo la leadership del movimento di unificazione. Ma in tal caso si sarebbe imposto il problema dei rapporti con la Francia del De Gaulle, un uomo di destra, come ha detto André Sigfried, portato al potere da una rivoluzione di sinistra, ma 200

che, indifferente alla politica interna (nazionalizzò, obbeden­ do alle esortazioni della Resistenza, le miniere e le officine Renault), voleva conservare per sé la politica militare e so­ prattutto quella estera, in cui cercava di affermare la gran­ deur e il prestige del suo paese. Questa tendenza aveva avu­ to successo quando la Francia era stata chiamata ad occu­ pare il quinto posto fra i Grandi come nazione singola e come impero coloniale ed aveva portato ad alcune manife­ stazioni che avevano posto il De Gaulle in contrasto con gli altri due alleati occidentali. Una di esse ci è riferita dal Churchill nelle sue Memorie: verso la fine di aprile truppe francesi erano penetrate in provincia di Cuneo e il loro co­ mandante si era rifiutato di aderire all’invito del generale americano Crittenberger di lasciare insediare nella regione una amministrazione alleata affermando che ciò sarebbe stato contrario all'onore e alla sicurezza francesi; aveva aggiunto, inoltre, di avere l’ordine di impedirlo “con tutti i mezzi necessari e senza eccezione.” Il De Gaulle cedette so­ lo dopo una specie di ultimatum del Truman. L’altra mani­ festazione era stata la richiesta di una permanente distru­ zione dell’unità tedesca e del distacco dal Reich della Renania e della Ruhr, richiesta che era stata accolta con serie riserve a Washington e respinta da Londra. Evidentemente, il capo del governo francese riteneva giunto il momento di imporre all’Europa, a quella non sottoposta all’Unione So­ vietica, il predominio del suo paese, approfittando del fatto che nessuna resistenza avrebbe potuto venirgli da nazioni sconfitte o fiaccate dalla guerra. Forse proprio per tale motivo, in queste nazioni le cor­ renti federalistiche furono piuttosto forti, in quanto esse erano intese come un mezzo per opporsi alle mire egemo­ niche di alcuni Stati e per sottrarsi alla dannosa divisione in sfere d’influenza: in particolare, in Italia, al movimento federalista europeo (M.F/E.), che aveva pubblicato nel pe­ riodo clandestino 8 numeri dell’Unità europea, si aggiun­ sero dopo la liberazione l’Associazione federalista europea (A.F.E., che poi si fuse con il M.F.E.); il Movimento auto­ nomista di federazione europea (M.A.F.E.), il^Movimento italiano per la federazione europea (M.I.Ç«^^\ii(&fcÎië\il Movimento unionista mondiale e il Movir italiano, questi due ultimi con un progrg tendente alla realizzazione dell’unità mç movimenti diffusi soprattutto fra gli cani e i socialisti, ma anche fra i demot di sinistra, perché era molto viva l’esige

zione europea si attuasse pure mediante un rinnovamento profondo e una trasformazione dello Stato all’interno dei vari paesi: insomma, soltanto l’affermazione di una vera democrazia nell’ambito di ogni nazione avrebbe potuto av­ vicinare i popoli e porre le basi per una loro più intima collaborazione. Questo, naturalmente, doveva rendere dif­ fidenti le destre in genere, che infatti avversavano ogni progetto di unione europea; in esse agiva pure l’opposizione dei ceti produttivi ad una demolizione delle strutture au­ tarchiche, che invece sembrava dovesse essere uno dei risul­ tati più notevoli della seconda guerra mondiale, imposto dagli Stati Uniti, i quali solo nella possibilità di esportare vedevano la salvezza del loro sistema economico. Il che fa­ ceva dire all’Einaudi che la federazione era resa necessaria “dalle moderne condizioni di vita le quali hanno unificato il mondo, trasformandolo in un unico mercato.” Ed egli proseguiva osservando che spiritualmente la federazione mirava alla mèta opposta, "che è quella di liberare l’uomo dalla necessità di difendere a mano armata il proprio pìc­ colo territorio contro i pericoli di aggressioni nemiche ed a lui, cosi liberato, consente di aspirare a prendere parte, utilizzando al massimo le risorse del proprio piccolo terri­ torio, alla vita universale. Liberazione dalla materia e non asservimento ad essa: questa è la ragion d’essere della Fe­ derazione; epperciò anche è sua ragion d’essere non la mor­ tificazione ma la esaltazione dello spirito.” Difficoltà per i partiti democratici italiani

L’esigenza di "superare l’antifascismo” (cosi scrisse Igna­ zio Silone sull’Avanti!), o meglio di passare “dalla rivolu­ zione antifascista alla rivoluzione democratica,” come disse il Parri, si andò facendo sempre più viva nei partiti italiani quanto più ci si allontanava dalla liberazione. Si poneva, insomma, a ciascuna corrente il problema di adeguare la propria azione alla società in cui operava e di affrontare la realtà con metodi nuovi, che non potevano piu essere quelli della lotta clandestina. La stessa soluzione della crisi governativa nel giugno aveva imposto a qualche partito un riesame approfondito della sua funzione nello schieramento politico: anzitutto, all’estrema sinistra, i socialisti e i comu­ nisti erano rimasti delusi nella loro aspirazione ad assume­ re le maggiori responsabilità nel ministero e ciò li aveva fatti rifluire verso posizioni difensive. Il governo Parri era 202

stato visto favorevolmente — più dai socialisti che dai co­ munisti, i quali dissero di volerlo vedere alla prova —, ma esso aveva rappresentato manifestamente per i due partiti una sconfitta e aveva fatto loro capire che la via per con­ durre le classi lavoratrici al potere era ancora lunga. D’al­ tra parte, anche la democrazia cristiana era fallita nel suo tentativo di fornire il primo ministro e questo l’aveva spo­ stata verso destra, facendole perdere la possibilità di gui­ dare le forze democratiche; dopo di allora a un solo patto ciò sarebbe potuto avvenire, se si fosse messa al centro del raggruppamento conservatore, cosa però che le avrebbe fat­ to correre il pericolo di sfasciarsi, poiché l'ala sinistra, forte particolarmente nell’Italia settentrionale, non si sarebbe rassegnata a tale orientamento. La soluzione della crisi ave­ va generato irrequietezza e malumore nel partito liberale, che aveva visto cadere nel nulla la sua critica dei C.L.N. e che continuava a denunciare il massimalismo delle sinistre e la sfasatura tra il paese reale e quello di cui i partiti si erano autoproclamati rappresentanti. In apparenza, il par­ tito d’azione era uscito vittorioso dalla crisi, ma il gabinetto Parri, al quale esso dava tutto il suo incondizionato appog­ gio, era piuttosto debole e poteva apparire quasi una ditta­ tura del Nord, dei Comitati di Liberazione, sul Sud che ave­ va avuto tutt’altre esperienze politiche. Nel faticoso processo di assestamento di quei primi mo­ menti quasi tutti i partiti, tranne il comunista, avevano nel loro interno una sinistra e una destra e sembrava che si potessero stabilire affinità e punti di contatto, ad esempio, fra le sinistre o le destre di vari partiti. Cosi, il partito d’a­ zione, diviso tra un’ala socialisteggiante ed un’ala democra­ tica, affermava, dalle colonne dello Stato moderno (organo di quest’ultima, orientata a destra), di volere raccogliere insieme i liberali radicali, i democristiani repubblicani, i repubblicani e i socialisti di destra, tutte forze che, nel­ l’ambito dei loro partiti, erano costrette a fungere da op­ posizioni, mentre avrebbero potuto assicurare all’Italia una ordinata democrazia. Il Salvatorelli parlava, sulla Nuova Europa, della necessità di un nuovo, grande partito di de­ mocrazia "pura e semplice, interclassista o superclassista, cd extraconfessionale,” il quale si rivolgesse alla media e alla piccola borghesia che non volevano lasciarsi assorbire dal proletariato. In quel periodo si discorreva di queste masse "non coagulate, non politicamente mature e organiz­ zate” ed il Salvatorelli addittava nel p.d’a. il partito che avrebbe potuto attirare tutti i "senza partito” e mantenerli 203

su posizioni democratiche, senza preconcette ostilità verso l’alleanza socialcomunista, di cui anzi avrebbero rispettato e compreso le ragioni. Questo era il volto che voleva dare al p.d’a. l’ala, per cosi dire, di destra che si rifiutava di diventare una “piccola eresia socialista”; i suoi sforzi, nella grande incertezza sul­ le tendenze dell’elettorato, sembravano favoriti dal com­ portamento del partito socialista, il cui Consiglio nazio­ nale del 31 luglio approvava una mozione presentata da Basso, Cacciatore, Gaeta, Grisolia, Morandi e Pertini che dava mandato alla direzione del partito di iniziare lo stu­ dio per la creazione del partito unico dei lavoratori. Due mozioni anti-fusioniste, presentate l'una da Corona, Saragat, Silone e Vecchietti e l’altra da Bonfantini, rimanevano in forte minoranza ad indicare la quasi unanime volontà fu­ sionista del partito. I socialisti, perciò, si isolavaho con i comunisti facendo leva esclusivamente sulle classi lavora­ trici e rinunciando, in tal modo, ad estendersi verso la me­ dia e piccola borghesia; forse era una conseguenza della delusione subita nella formazione del governo, che doveva averli spinti a costituire un forte blocco con il p.c.i., nella speranza di poter meglio superare gli ostacoli. Ma alcuni mesi più tardi, nell'ottobre, lo stesso Nenni, sulla rivista Socialismo diretta da R. Morandi, affermava che restava per lui “un mistero,” spiegabile "soltanto in base ad ele­ menti psicologici,” come mai il Consiglio nazionale del lu­ glio avesse discusso la fusione, "che sapevamo tutti ancora immatura, mentre [era] all’ordine del giorno il problema dell’unità di tutti i ceti del popolo lavoratore." Insomma, il Nenni pareva voler far credere che la fusione fosse stata impostata nel luglio senza che il partito ne avesse la pre­ cisa volontà: ma non si possono capire bene quegli elemen­ ti psicologici a giustificazione di un atto squisitamente po­ litico. Il fatto era che dal luglio all'ottobre la situazione del paese era profondamente mutata e stava slittando verso destra soprattutto per la pratica impossibilità in cui si tro­ vava il governo di svolgere un’azione energica e conseguen­ te; bisognava, quindi, trattenere le forze che potevano la­ sciarsi trascinare da questo moto e tenerle legate ad una politica democratica (anche sul p.d’a. venivano esercitate forti pressioni perché prendesse parte ad una coalizione di centro, pressioni però che gli azionisti respingevano, il 25 ottobre, dichiarando tali blocchi "formule inadeguate alla imm diata realtà presente, la quale impone una lotta a fon­ do per l’edificazione della democrazia”). 204

Questa nuova situazione faceva si che il Comitato cen­ trale socialista approvasse, il 23 ottobre, con 28 voti contro 4, una mozione politica proposta da Morandi, Pertini e SiIone con cui si invitavano "tutte le forze democratiche e re­ pubblicane” all’unità per respingere le insidie reazionarie di quei gruppi che cercavano di opporsi al consolidamento della democrazia. La mozione, peraltro, lasciava capire che queste forze erano principalmente quelle dell’altro grande partito di massa, cioè della democrazia cristiana, ed infatti, nel commento ufficiale della rivista Socialismo, era detto che l’invito si estendeva “precisamente alla Democrazia Cri­ stiana,” e che, con esso, il partito socialista tendeva a dare "un nuovo baricentro al sistema politico attuale,” evitando la formazione di blocchi che avrebbero "fatalmente [rotto] le condizioni esistenti di equilibrio tra le forze democrati­ che.” Era, evidentemente, una risposta al tentativo di costi­ tuire un blocco di centro che avrebbe dovuto basarsi sulla d.c.; i socialisti cercavano invece di formare un "fronte unito e compatto” contro coloro che volevano, "frustrando i risultati materiali e ideali della lotta di liberazione,” av­ versare “la libertà e i sacrosanti diritti del popolo," un fron­ te che avrebbe dovuto avere il suo nucleo fondamentale e direttivo appunto nel partito socialista, legato da un lato al p.c.i. e dall’altro alla d.c. I socialisti, quasi certamente, par­ li vano ancora dal presupposto che tutti i grandi partiti di massa, compreso perciò anche quello democristiano, mi­ rassero a tradurre nei nuovi ordini democratici e repubbli­ cani i diritti del lavoro, cioè a sancire l’ascesa del proleta­ riato a nuova classe dirigente. Ma si trattava di un presupposto che, nell’ottobre, era apertamente osteggiato da piu parti ed a cui la democra­ zia cristiana sembrava adattarsi a fatica. Il De Gasperi ave­ va formulato la definizione del "partito di centro che si muo­ ve verso sinistra,” ma proprio su un problema allora molto importante, quello della forma istituzionale dello Stato, il Consiglio nazionale, tenutosi fra il 31 luglio e il 3 agosto, pur prendendo atto della prevalenza della corrente repub­ blicana in seno al partito, aveva deciso, su proposta del lupini, di promuovere una inchiesta fra tutti gli iscritti sulla forma istituzionale stessa e sulla particolare struttura del nuovo Stato, che meglio potesse garantire la libertà e realizzare la democrazia politica ed economica. E per quan­ to riguardava l'altro problema essenziale, quello del lavoro, vi era stato si un ordine del giorno Vanoni, che ne aveva esaltato la funzione, ma ad esso non era seguito nessun im­ 205

pegno più preciso, poiché il De Gasperi si era limitato a dichiarare che le questioni economico-sociali formavano una parte non secondaria fra quelle che avrebbero dovuto es­ sere affrontate dalla Costituente: il che aveva voluto "allu­ dere,” osservava Dino Del Bo sulla rivista della sinistra democristiana milanese, Lo Scudo, “perlomeno nelle defi­ nizioni, ad una sorta di attesa o di arresto per quanto concerne[va] la programmazione immediata delle indispensa­ bili nuove riforme." Invece, affermava ancora il Del Bo, la fisionomia del partito doveva “venire accentuata a qualsiasi costo, se si intende[va] mantenergli il suo carattere di par­ tito unitario"; altrimenti si sarebbe dovuto acconsentire che si costituisse "un gruppo organizzato di sinistra, ricono­ scendogli ampie possibilità di manifestazione e di funzio­ namento.” A sua volta, il ministro dell’Industria e Com­ mercio, Gronchi, "salutato da vivi applausi,” aveva criticato la proposta Tupini ed aveva affermato che la democrazia cristiana non poteva prescindere dalle altre forze politiche e, in particolare, da “quella corrente del socialismo portata a riconoscere la funzione autonoma” della d.c. In verità, la forza del partito in quel momento derivava soprattutto da­ gli iscritti dell’Italia centro-meridionale che rappresentavano buona parte del milione di aderenti denunciato in questo convegno romano; e ciò doveva influire sull’orientamento politico. Alla base del quale, però, c’era una reale incertezza, come scriveva Lo Scudo, e l’impossibilità di fissarsi “in schemi e in formule" per mantenere l’intemo equilibrio fra le varie correnti. Ma in tali condizioni sembrava diventare logica la costituzione di una sinistra organizzata, che pones­ se una “costante e vigilante attenzione alle rivendicazioni legittime delle masse lavoratrici in Italia," e il Del Bo si sentiva, in certo qual modo, autorizzato a questo passo dal­ la stessa definizione del De Gasperi, "partito di centro che si muove verso sinistra,” poiché si doveva credere che il moto verso sinistra non dipendesse "da una soggettiva at­ trazione degli avvenimenti ma da una positiva volontà di ricerca.” Contrasti e discussioni nella coalizione governativa

Intanto, questo processo di assestamento assorbiva buo­ na parte delle energie dei partiti e talora accentuava i mo­ tivi di discussione fra di essi: ad esempio, il tentativo so­ cialista del 23 ottobre di rompere il cerchio operaistico era 206

visto con aperta diffidenza dalla destra del p.d’a., che teme­ va di vedersi sottratta quella parte dell’opinione pubbli­ ca — la media e la piccola borghesia — sulla quale con­ tava molto, mentre Velio Spano sull’Unità in un articolo dal titolo Parole di saggezza si sforzava di dimostrare che, non essendovi nulla di mutato nella situazione gene­ rale ("Non c’è in Italia nessun pauroso riflusso; le masse piccole e medio borghesi non si allontanano né dal socia­ lismo né dal comuniSmo”), non vi era neppure nulla di mutato nell’alleanza social-comunista. I liberali, poi, mostra­ vano di credere che si trattasse di "un giuoco concertato col Partito comunista,” ed un esponente della direzione de­ mocristiana dichiarava che il socialismo si presentava an­ cora con una fisionomia marxista e quasi confuso con il comuniSmo e che anche la tendenza democratica non pote­ va produrre immediate conseguenze politiche. Ma si diffon­ devano voci sempre più insistenti di contatti di dirigenti socialisti con dirigenti democristiani di sinistra, fra i quali era soprattutto il Gronchi; e il Silone, definendo la nuova politica “della continuità democratica," affermava che essa tendeva a evitare "una frattura tra le forze operaie e quelle della piccola borghesia," e trovava possibile, anche in Italia come in Francia e nel Belgio, un'alleanza fra socialisti e democristiani. Senza dubbio, qualcosa la decisione socialista era riu­ scita a smuovere, ma era molto difficile che essa riuscisse ad arrestare il graduale spostamento verso destra del pae­ se, che era, tra l’altro, alimentato, come vedremo, da una ripresa dei ceti produttivi depressi e in apparenza sconfitti subito dopo la liberazione. Questa pesante situazione era ri­ conosciuta dagli stessi azionisti, i quali, nella dichiarazione politica del 25 ottobre, affermarono: "Indubbiamente, le manchevolezze sono ingenti: la situazione finanziaria ed eco­ nomica permane gravissima (ed in questo settore la politica del Governo appare particolarmente esitante); ogni provve­ dimento sembra costare alla coalizione sforzi onerosissimi come se il Governo fosse paralizzato nel suo interno dal con­ trasto delle varie tendenze; il contatto tra la classe dirigen­ te antifascista al Governo ed il Paese è lungi dall’essere per­ fetto; l’epurazione che avrebbe potuto riuscire solo se im­ postata politicamente nel quadro di una radicale riforma strutturale è invece fallita e lascia dolorosi strascichi nella popolazione; la struttura del vecchio Stato centralizzato ed autoritario è stata solo minimamente intaccata; i contrasti sociali sono tuttora assai acuti e fioriscono ancora i tristi 207

residui dello Stato corporativo, cioè gruppi privilegiati in lotta fra loro ma concordi nel tentativo di appropriarsi del­ le poche risorse dello Stato a danno della collettività." Un senso di delusione, di malessere e di malcontento prendeva il paese ed esso favoriva gli attacchi al nuovo sistema poli­ tico basato sul C.L.N., anzitutto da parte di un partito della coalizione governativa, il partito liberale, che dava aperti segni di voler riacquistare “una più larga autonomia, una maggiore libertà di movimento," come scriveva Mario Pan­ nunzio sul Risorgimento liberale, il 19 settembre, alla vigilia della riunione del Comitato nazionale del partito. E prose­ guiva: "Non sarebbe possibile prolungare più oltre questa atmosfera di insincerità, di lotte sorde, di patteggiamenti, di furori improvvisi e di ripieghi [...]. È proprio per difen­ dere la loro posizione di centro che oggi i liberali hanno il dovere di assumere un atteggiamento energico, indipenden­ te, determinante." Posizione che fu ribadita, dopo una dife­ sa da parte del Croce del ceto medio, non "classe economi­ ca” ma "rappresentante di una esigenza superiore di vita mentale e morale e perciò il naturale custode della libertà di tutti,” dal segretario del partito, Leone Cattani, che so­ stenne la necessità di "individuarsi e staccarsi dalla politica di compromesso dei comitati." Ne nacque l’impressione che i liberali volessero chiudere l’esperimento della collabora­ zione a sei, ma una simile decisione venne contrastata dai delegati dell’Italia settentrionale (ad essa erano favorevoli quelli del Mezzogiorno, fra cui il De Caro) e, per il momen­ to, fu rinviata per ragioni internazionali e, poi, anche per­ ché si riconobbe che a poco a poco i C.L.N. andavano esau­ rendo la loro funzione. Un altro risoluto attacco fu portato dal Nitti che, ritor­ nato in Italia dopo il ventennale volontario esilio, tenne un discorso a Napoli, il 3 ottobre, in cui mosse una critica a fondo ai Comitati di Liberazione, accusandoli di disgregare l’autorità dello Stato. Esaltò le classi medie, si dichiarò con­ trario alle autonomie regionali e terminò invocando l’unione degli spiriti e accennando alla possibilità di costituire una “Unione nazionale per la ricostruzione.” Questa autorevole presa di posizione provocò una risposta dello stesso Parri il quale, in una conferenza stampa del 6 ottobre, sostenne che le condizioni dell'ordine pubblico erano migliori di quelle del primo dopoguerra e che il disavanzo, tenuto con­ to della svalutazione della moneta, era minore di quello che aveva afflitto l'Italia all’epoca del ministero Nitti, nel 1919. Eppure, poteva davvero sembrare che il paese si allon­ 208

tanasse dai partiti del C.L.N., come parve dimostrare il mo­ vimento dell’"Uomo qualunque,” fondato dal Giannini Γ8 agosto 1945, dopo che il giornale dallo stesso titolo, che usciva ormai dal 27 dicembre 1944, aveva raggiunto in breve tempo, come ha scritto il suo stesso fondatore, 780 mila co­ pie. Il Giannini aveva cercato di entrare nel partito liberale, ma i suoi approcci erano stati respinti per timore che ne potesse diventare il padrone; aveva invitato il Croce, il Nitti, l’Orlando e il Bonomi a dirigere il movimento, ma solo l’ultimo non aveva rifiutato subito. Con una serie di riu­ scite rubriche — le “vespe," le "parolacce," ecc. — e con un linguaggio colorito — una delle parole che ebbe maggior successo "nei salotti mondani e negli ambienti ecclesiastici" fu “panscremenzio" —, L’Uomo qualunque attaccava i “libe­ ratori” che non "ci davano le quattro libertà promesse dal Churchill e dal Roosevelt, il comitato di liberazione e i par­ titi che ce le negavano”; lottava contro chiunque vivesse della professione politica e chiedeva lo “Stato amministra­ tivo" e voleva la libertà più assoluta, la liberazione dai par­ titi di destra, di sinistra, di centro. L’Uomo qualunque fu certo un grande fatto di costume che rivelò, a pochi mesi dalla definitiva caduta del fascismo, quanto fossero profon­ di negli italiani i ricordi della dittatura che aveva abituato a non interessarsi della vita pubblica e che faceva sentire come una intollerabile costrizione l’attività dei partiti poli­ tici. Pertanto, anche se il Giannini respingeva sdegnosa­ mente l’accusa, avevano ragione gli uomini democratici di accusarlo di fascismo: proprio questo era, in definitiva, il significato del suo movimento.2 Ma bisogna anche dire che, in verità, le critiche qualunqui­ stiche erano alimentate dalla lentezza e dalla manchevolezza dell’azione governativa, per cui i partiti sembravano vera­ mente paralizzati, come diceva la mozione azionista, dai lo­ ro stessi contrasti: la destra avrebbe voluto differire il più possibile il cambio della moneta che invece la sinistra cer­ cava di imporre come l'unico mezzo per risanare la situa­ 2 Del resto, fu proprio il Movimento del commediografo Giannini a consentire ai neo-fascisti di reinserirsi nella vita politica del paese: fino ad allora questi avevano avuto una organizzazione clandestina con una ricca serie di associazioni (F.A.R. — Fasci d’Azione Rivoluzionaria —; E.C.A.: — Esercito clandestino anticomunista —; A.I.L. — Armata italiana di libe­ razione —; F.A.I. — Fronte antibolscevico italiano —; P.N.L. — Partito na­ zionale del lavoro —; ecc.) e si erano dedicati agli attacchi alle sedi dei partiti democratici e in particolare di quello comunista; a pose di targhe commemorative di uomini o date del fascismo; a trafugamenti di salme fra cui destò un notevole scalpore quella di Mussolini; ecc.

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zione finanziaria e come l’unica alternativa al prestito o al­ l’inflazione (alla fine esso fu definitivamente sospeso); i li­ berali chiedevano che l’epurazione venisse "rapidamente esaurita," richiesta che fu, in parte, accontentata dal nuovo decreto legislativo preparato dall’alto commissario Nenni e approvato dal consiglio dei ministri il 1° novembre, che, li­ mitando l’epurazione ai primi otto gradi dell’amministrazione, tendeva ad ovviare alle lentezze della procedura se­ guita fino allora; discussioni nascevano sui poteri della Consulta — che, sotto la presidenza del conte Sforza, si riu­ nì il 25 settembre — poiché gli azionisti, i socialisti e i co­ munisti avrebbero voluto che essa, riunendosi spesso al completo, trattasse le questioni politiche generali e desse direttive al governo, a differenza dei liberali che la voleva­ no confinata nei limiti di un modesto organo consultivo e che facevano del lavoro delle singole commissioni la parte centrale della sua attività; la sinistra insisteva perché si tenessero prima le elezioni per la Costituente e, dopo, le amministrative e proponeva il mese di marzo del 1946, mentre il De Gasperi il maggio e il Brosio, liberale, il giu­ gno, ed invece il consiglio dei ministri decise, il 30-ottobre, di iniziare le amministrative entro l’anno e di rimandare le politiche all’aprile. Inoltre, i liberali in un primo momento, non riuscendo a protrarre troppo la convocazione dei co­ mizi elettorali, sostennero, per bocca del Croce, che la Co­ stituente non potesse assumere veste di assemblea legisla­ tiva, cioè non potesse deliberare oltre che sull’ordinamento dello Stato, anche sulle principali questioni economiche e sociali senza “trasformarsi in dittatura” e che solo alla fine della sua opera dovesse scegliere tra monarchia e repub­ blica, "questione essenziale”: il che faceva credere all7talia libera che fosse stato un errore estendere la coalizione del C.L.N. fino ai liberali. Contrasti nascevano anche sul referendum, a cui si era dichiarata favorevole la d.c. nel suo convegno romano dell’agosto e che era difeso soprat­ tutto dai liberali: esso avrebbe dovuto stabilire, secondo alcuni, i poteri della Costituente, secondo altri decidere sul problema istituzionale, e secondo altri ancora indicare il sistema elettorale, collegio uninominale o proporzionale. A quest’ultimo era data la preferenza dalla commissione in­ caricata di elaborare il progetto per la legge elettorale po­ litica che aveva finito i suoi lavori il 27 ottobre e i cui ri­ sultati erano stati presentati dal ministro per la Costituen­ te, Nenni, al consiglio dei ministri: il progetto prevedeva il voto segreto e non obbligatorio, il diritto di voto a tutta la 210

popolazione, maschile e femminile, compresi i militari, la elezione per scrutinio di lista a base nazionale con rappre­ sentanza proporzionale e possibilità di voti preferenziali. Ma una manifestazione si aveva quasi subito ad opera di una "Lega per la difesa delle libertà democratiche,” fonda­ ta da Bonomi, Croce, Einaudi, Labriola, Nitti e Orlando per il collegio uninominale. Infine, mentre la destra continuava ad agitare il pericolo di disordini per allontanare l’opinio­ ne pubblica dai Comitati di Liberazione, la sinistra negava che esso esistesse, almeno nei limiti denunciati. Come si vede, si era di fronte a due blocchi nettamente contrapposti, azionisti, socialisti e comunisti contro liberali e democristiani; ma per il momento il blocco, per cosi dire, moderato non era ancora compatto, in quanto la democra­ zia cristiana non condivideva tutte le posizioni dei liberali e degli elementi più apertamente conservatori, e ciò valeva a temperare gli attacchi alquanto irruenti che venivano mossi alla politica del governo come espressione dei C.L.N.

La delusione, della conferenza di Londra per il trattato di pace

Ma ad alterare l’equilibrio, ormai poco stabile, fra i due blocchi venne la conferenza di Londra convocata, secondo le deliberazioni di Potsdam, per elaborare i trattati di pace, fra i quali in primo luogo avrebbe dovuto essere quello con­ cernente l’Italia. Essa si era aperta 1Ί1 settembre e si chiuse il 2 ottobre con un completo fallimento. Infatti, le previsioni fatte all’inizio, che cioè si sarebbe svolta “sui binari della normàlità,” non furono affatto rispettate e le divergenze fra gli anglo-americani da un lato e i sovietici dall’altro, risulta­ rono alla fine approfondite. Del resto, c’erano state anche poco prima alcune avvisaglie di un’atmosfera non troppo cordiale, per le accuse di Mosca agli "elementi reazionari che nei paesi occidentali [avrebbero voluto] una revisione delle decisioni delle conferenze di Crimea e di Berlino riguardo alla riorganizzazione democratica dell’Europa." “Udiamo di nuovo,” disse radio Mosca, “voci che parlano di usurpa­ zione del potere in Bulgaria e in Romania. Ciò è inteso a provocare complicazioni in quei paesi, incoraggiando l’atti­ vità degli elementi filo-fascisti.” Era chiaro, perciò, che la Russia non avrebbe assolutamente consentito che si rimet­ tesse in discussione la suddivisione in sfere d’influenza del­ l’Europa e che anzi aveva intenzione di partire da questo 211

presupposto, che riteneva ormai assodato e indiscusso. Fu cosi che, a Londra, alla proposta occidentale di iniziare le discussioni sul trattato di pace con l’Italia, Molotov oppose la richiesta che contemporaneamente si prendessero in esa­ me anche i trattati di pace con la Bulgaria, la Romania e l'Ungheria, gli altri Stati ex-nemici che ora rientravano nella zona russa. Ma i ministri degli Esteri americano e britan­ nico, Byrnes e Bevin, si rifiutarono di accogliere questo punto di vista sovietico affermando che quei paesi erano sottoposti a governi ai quali non potevano accordare il loro riconoscimento perché non democraticamente eletti. In ef­ fetti, le critiche rivolte alla politica russa nei Balcani — esclusivo favore ai comunisti o ai filo-comunisti, controllo rigoroso sulle informazioni della stampa e della radio, ecc. — erano esatte ed i metodi seguiti apparivano illiberali alle democrazie occidentali, ma che cosa avveniva — faceva os­ servare Il Mondo, il bel periodico liberale fiorentino — die­ tro "la cortina fumosa che avvolge l’Europa orientale? Si compie l’eliminazione delle vecchie classi dirigenti, si ope­ rano riforme agrarie radicali. Ebbene, queste sono le pre­ messe indispensabili perché una democrazia (che non vuol dire un regime di tipo sovietico) possa sorgere in quei pae­ si fino a ieri legati a istituti feudali. Per altra via, i latifondisti polacchi e magiari sarebbero rimasti al potere, ma­ gari camuffati da gentiluomini liberali. Ed i vecchi errori si sarebbero fatalmente ripetuti." La necessità della rifor­ ma agraria era stata ammessa anche dal Churchill in un colloquio che egli aveva avuto, a Berlino, con il capo del governo polacco, Boleslaw Bierut ("Naturalmente c’era adi­ to a riforme, specie nei latifondi"), ma egli stesso ed anche forse II Mondo credevano possibile instaurare un regime de­ mocratico, senza i latifondisti, che non fosse di tipo comu­ nista o sovietico. Tuttavia, la stessa eliminazione del ceto borghese avreb­ be tolto all’Inghilterra e agli U.S.A. la possibilità di eserci­ tare qualsiasi influenza in quella zona e, pertanto, è com­ prensibile che queste potenze si battessero per impedire che ciò avvenisse. Ma questo avrebbe significato rimettere in discussione la divisione in sfere, che invece, come abbia­ mo detto, l’Unione Sovietica mostrava di considerare defini­ tiva. E quanto essa fosse importante si potè scorgere nel problema di Trieste, in cui si scontrarono i due opposti schieramenti, l’uno in appoggio della Jugoslavia e l’altro del­ l’Italia. Per superare il punto morto, la conferenza decise il 14 settembre di consentire a tutte le Nazioni Unite di presen­ 212

tare memoriali sulla questione italiana e di invitare l’Italia, la Jugoslavia, l’Australia, il Canada, la Nuova Zelanda e l’U­ nione Sudafricana ad inviare i loro rappresentanti a Londra per comunicare il parere dei rispettivi governi in merito al­ la delimitazione della frontiera italo-jugoslava. Agli Stati nominati sopra furono aggiunti, poco dopo, su espressa ri­ chiesta di Molotov, la Polonia, la Russia bianca e l’Ucraina, paesi più favorevoli alla tesi sovietica, che chiedeva la ces­ sione di Trieste, Fiume, Pola e di tutto il retroterra istriano alla Jugoslavia, mentre gli anglo-americani, seguiti dai fran­ cesi, avrebbero voluto lasciare all’Italia Gorizia e Trieste. Intanto, in Italia diverse voci si levavano a chiedere una pace con giustizia: 1Ί1 settembre, il Croce, in una lettera al Manchester Guardian, ribadiva l’inopportunità di una pace punitiva sotto il pretesto di fare espiare all’Italia i delitti fascisti o di prevenire il pericolo di un’impossibile restaurazione; il 15 il De Gasperi, in una intervista al Times, esprimeva la speranza che si volesse prendere, a fondamen­ to delle trattative, il trattato di Rapallo e la linea Wilson e non quella Morgan, ultimamente tracciata in funzione delle esigenze delle truppe alleate e della sicurezza delle loro vie di comunicazione (era una linea che passava a poca distan­ za da Trieste e da Gorizia e che lasciava, perciò, tutta l’Istria alla Jugoslavia). Inoltre, il Parri affermò, il 17, che il popolo italiano era perfettamente consapevole che la re­ sponsabilità del regime fascista era anche, "fino a un certo punto,” responsabilità sua: "ma sino ad un certo punto, sino a quel punto che divide la giustizia dall’ingiustizia." Tutti i partiti sostenevano il nostro governo in questa difficile trat­ tativa diplomatica, tranne il partito comunista che, come scrisse il Togliatti suìYUnità, respingendo decisamente le "stolide campagne nazionaliste” e le "campagne menzognere e di odio” scatenate contro il “nuovo regime di democrazia avanzata” jugoslavo, avrebbe voluto che si riconoscesse in­ giusta la frontiera di Rapallo e che si cedesse di fronte a quel popolo, "vittima diretta dell’imperialismo e della cri­ minalità fascista, e che,” presentando "all’Italia dei conti da riparare,” chiedeva "all’Europa delle garanzie.” Secondo lui, soltanto una simile politica avrebbe potuto stabilire fra ita­ liani e siavi “un terreno di intesa e di fraterna collabora­ zione,” rispettando quella che era stata "l’idea direttrice di Camillo Cavour, di Giuseppe Mazzini e persino di Giovanni Giolitti." Il Togliatti sembrava anche appoggiare, pur dopo avere affermato che le nostre colonie dovessero essere avviate il 213

più rapidamente possibile a forme di autogoverno, la ri­ chiesta avanzata a Londra dall’Unione Sovietica per otte­ nere la Cirenaica e il Dodecannesso: “Noi consideriamo,” egli scriveva appunto, "la questione del Mediterraneo non secondo le scemenze ‘imperiali’ del fascismo, ma secon­ do la vecchia tradizione italiana per cui quanto mag­ giore sarà il numero degli Stati interessati al regolamento di questa questione, tanto maggiori saranno per noi le ga­ ranzie di indipendenza." E si diceva contrario ad ogni di­ visione dell’Europa in zone d’influenza e favorevole ad una posizione italiana di indipendenza, di fraterno avvicinamen­ to e di collaborazione tra tutti i popoli europei: una esigen­ za giustissima purché, però, essa implicasse il ripudio non solo di una sfera d’influenza occidentale, ma anche di una orientale; altrimenti, sarebbe stato impossibile impedire che gli anglo-americani non costituissero il loro sistema po­ litico chiuso e implicitamente rivolto contro il blocco so­ vietico. Senza dubbio, la richiesta russa delle colonie italiane era una mossa di ritorsione contro l’irrigidimento dell’Inghil­ terra e degli Stati Uniti sul problema dei Balcani, ma essa allarmò non poco soprattutto il governo britannico, il quale temette che ne venisse sconvolto l’equilibrio nel Mediterra­ neo: una pesante atmosfera di pessimismo si diffuse sulla conferenza e si cominciò a parlare con insistenza di un suo probabile fallimento. L'acuita tensione fra i due blocchi non poteva certo favorire la soluzione del problema della no­ stra frontiera orientale e, cosi, neppure le pacate parole del De Gasperi, che espose le ragioni dell’Italia il 18 set­ tembre (e che, poi, in un comunicato, dichiarò che que­ sta era disposta "a grandi sacrifici” per accelerare la rico­ struzione di un mondo migliore e per far dimenticare l’ag­ gressione totalitaria ripudiata e condannata dalla democra­ zia italiana), riuscirono a modificare la situazione: era diven­ tata impossibile qualsiasi soluzione e, pertanto, non rimase che rimandare, il 19, lo studio della questione alla commis­ sione dei sostituti, secondo alcune linee che erano indicate nel comunicato: la linea di confine avrebbe dovuto essere tracciata tenendo conto specialmente dei fattori etnici e si sarebbero dovute fissare le norme per assoggettare Trieste ad una amministrazione internazionale come porto franco. Uno degli scopi più importanti per cui si era riunita la conferenza, cioè il trattato di pace con l’Italia, non era sta­ to raggiunto; le difficoltà, già gravi in se stesse, erano state aumentate dalla cautela imposta agli anglo-americani dal 214

desiderio di non scontentare la Jugoslavia e Tito, di cui essi pensavano di avere bisogno nella discussione dei trattati di pace con gli Stati balcanici. Discussione che fu affrontata su­ bito dopo e che si chiuse pure con un nulla di fatto, metten­ do anzi, ancora una volta, in rilievo la divisione degli animi e il conflitto degli interessi. "L’Italia,” scrisse don Sturzo, "si trovò la prima a provare gli effetti di un conflitto fra Oriente e Occidente"; e, in effetti, il problema italiano aveva non poco contribuito a infrangere la formula dell’accordo ad ogni costo che era stato valido durante la guerra e che era sembrato prevalere anche alla conferenza di Potsdam. Ormai si parlava sempre più apertamente di blocco occi­ dentale ed a Mosca si polemizzava con vivacità contro il De Gaulle, accusato di aver parlato, in una intervista al Times, di una coalizione tra la Francia e la Gran Bretagna, alla quale si sarebbero dovuti aggiungere il Belgio, la Dani­ marca, l’Italia, la Norvegia, l’Olanda e il Portogallo. Era un progetto che avrebbe potuto ridare alla Francia la gran­ dezza perduta e rimetterla alla guida delle nazioni dell’Euro­ pa occidentale, ma era un progètto che aveva poche speranze di successo soprattutto perché non teneva conto degli Stati Uniti, che non volevano lasciarsi estromettere dal vecchio continente e senza il cui aiuto, in definitiva, neppure l’Inghil­ terra avrebbe potuto reggersi. Ed infatti, proprio nei giorni della conferenza, funzionari del Dipartimento di Stato, ad esempio, affermarono che gli U.S.A. non intendevano abban­ donare l’Italia e che gli investimenti americani per la rico­ struzione economica e politica del paese erano troppo rile­ vanti per poter essere trascurati. Era chiaro che ogni proget­ to di blocco occidentale non poteva prescindere dagli Stati Uniti e la stampa americana contrapponeva al progetto del De Gaulle il progetto di una più stretta alleanza con la Gran Bretagna per meglio affrontare il problema della potenza militare russa.

Discordanti vedute in Italia sulla ricostruzione La conferenza di Londra, perciò, sanzionò quasi ufficial­ mente 1’esistenza di due blocchi in Europa e confermò che l’Italia apparteneva a quello anglo-americano; fu, questo, un risultato che doveva rafforzare nella penisola le correnti di destra, e soprattutto i ceti capitalistici. A questo proposito, era molto significativa la comunicazione del Dipartimento di Stato, la quale lasciava capire che gli Stati Uniti segui­ 215

vano con grande interesse la nostra situazione economica e non avrebbero permesso una prevalenza delle tendenze di si­ nistra, che continuavano ad agitare, con non poca genericità, il problema dei consigli di gestione e di un controllo dell’in­ dustria (interpretazione che fu, più tardi, all’inizio di novem­ bre, confermata da alcune dichiarazioni rese a Napoli da Amedeo Giannini, presidente della Banca d’America e d’Ita­ lia, secondo le quali l’alta banca e 1’alta industria americana non avrebbero mosso un dito in nostro favore finché non avessero visto “la casa in ordine”). Ancora una volta, come dopo la prima guerra mondiale, si stava per porre la questio­ ne fondamentale di come si sarebbe svolta la ricostruzione e di quali categorie sociali avrebbero dovuto sopportarne il peso maggiore. La questione nasceva dagli aiuti in materie prime che gli americani sembravano disposti a darci per mettere in grado le nostre industrie (che avevano subito, co­ me si è visto, minori distruzioni di quelle di altri paesi) di produrre i manufatti occorrenti ai popoli europei. Il quoti­ diano liberale La Libertà riferiva, il 16 ottobre, una conversa­ zione di un suo redattore con il colonnello Hancock, com­ missario regionale per la Lombardia del governo militare al­ leato, in cui questi gli aveva parlato di un piano da lui stesso presentato all’U.N.R.R.A. per la fornitura di materie prime e di combustibili allo scopo di consentire una piena utilizzazio­ ne degli impianti industriali e della mano d’opera. “Da par­ te nostra,” commentava il giornale, "siamo convinti che gli industriali e gli operai dell'Italia settentrionale porran­ no tutta la loro buona volontà alla realizzazione di questo progetto che offre, tra l’altro, possibilità notevoli nel cam­ po dei nostri rapporti futuri con gli Stati europei.” Sembrava di capire, perciò, che, come contropartita di questi aiuti, che potevano evitare alle masse "lo spettro del­ la disoccupazione,” i lavoratori avrebbero dovuto frenare le loro rivendicazioni sindacali e politiche e lavorare in ar­ monia con gli industriali. Anche sulla rivista di Pietro Bar­ bieri, Idea, Umberto Spigo avanzava la richiesta di “ordine e stabilità, con una relativa libertà per tutti e per ciascu­ no,” come condizione essenziale per una proficua ripresa: “Ricostruzione significa lavoro, macchine, materie prime, ca­ pitali, e capitale vuol dire sicurezza deH’impiego, fiducia nella stabilità della moneta, come nel regime giuridico e po­ litico che garantisca il ritorno ad un ordinato svolgimento degli affari.” Ma il problema più grave era quello della di­ stribuzione degli aiuti americani: come avrebbe dovuto av­ venire questa distribuzione, seguendo precise norme fissate 216

dallo Stato oppure lasciando ampia libertà ai singoli im­ prenditori e alle forze economiche individuali di ricostruire in base al loro tornaconto privato? Subito dopo la libera­ zione ci si era messi a redigere l’inventario, aziendale e na­ zionale, di quanto era stato distrutto dalla guerra ed a pre­ ventivare il necessario per la ricostruzione, cioè, come scri­ veva Sebìnus sullo Stato moderno, si era preventivato quan­ to occorreva per consentire all’organizzazione produttiva di offrire merci e servizi fino ad un dato volume che si ri­ teneva indispensabile. Ma non si era tenuto conto né di quanto sarebbe costata la riorganizzazione dell’apparato pro­ duttivo nella speranza di un continuo flusso degli aiuti al­ leati, né si erano fatti calcoli di convenienza economica, perché si era pensato che le popolazioni, da lungo tempo prive di beni d’uso e di consumo, non avrebbero fatto que­ stione di prezzo. Cosi era avvenuto quanto lamentava A.G. [Aldo Garosci] zdil’Italia libera·. "L’attivazione delle indu­ strie anziché avvenire a benefìcio dell’intera nazione, av­ viene troppo spesso a beneficio della struttura industriale già esistente, della struttura industriale ereditata dalla guer­ ra. E perciò avviene male [...]." La verità era che, " nell’ar­ dore quasi frenetico della ricostruzione, in un ambiente che [era] esattamente l’opposto di quello di sovraproduzione e di prezzi declinanti," sembrava che ad ogni produzione do­ vesse arridere il successo finanziario {Sebìnus). In tal modo, anche per l’elevatezza dei costi di produ­ zione delle nostre industrie, che erano vissute fino allora in regime di autarchia, si stava ricostruendo come se tale regime dovesse perdurare e, pertanto, non si dovessero fare calcoli di convenienza economica. Ma la continuazione di una politica economica autarchica avrebbe voluto dire es­ senzialmente due cose, come metteva in rilievo Sebinus: "1) il perdurare a lungo di una situazione di dura com­ pressione dei consumi, per consentire la ricostruzione dei beni capitali; 2) l’impossibilità, anche dopo chiuso il perio­ do di concentramento della produzione sui beni capitali, di innalzare il livello dei consumi fino al punto raggiungibile mediante gli scambi con Testerò, data la deficienza italiana di materie prime." Ecco da ciò la necessità di avere un go­ verno che favorisse tale compressione dei consumi popolari e che, soprattutto, rendesse possibile una ricostruzione sot­ tratta ad ogni controllo. Ed invece, i partiti su cui si ba­ sava il ministero Parri, cioè i partiti di sinistra, ritenevano tutti indispensabile una disciplina della vita economica a vantaggio dell’interesse pubblico, che non sempre concor­ 217

dava con quello dei produttori: Roberto Tremelloni, sulla Critica sociale, scriveva: "Deve, la classe lavoratrice, saper guardare lontano, anche là dove ciò può apportare qualche sacrificio immediato, poiché nella politica economica di un Paese le miopie si pagano care [...]. Deve imporre una po­ litica economica che non giovi alle imprese parassite, che non aiuti i gruppi privilegiati a dar l’assalto al pubblico danaro, e che favorisca solo le imprese e le industrie capa­ ci di vivere in un clima di concorrenza internazionale [...].” E Libero Lenti, sullo Stato moderno, chiedeva "un organo centrale direttore e coordinatore, di emanazione statale, che [guidasse] il rifacimento della nostra struttura produt­ tiva,” che ponesse il freno a determinati impianti, oppure spingesse ed anche aiutasse la ricostruzione di altri, sem­ pre tenendo presente il benessere collettivo. Questa esigenza di una pianificazione, affermata con tanta chiarezza dalle sinistre, era naturalmente contrastata dai ceti produttivi: l'Economia d'Italia, giornale della ricostruzione, polemizza­ va vivacemente contro lo "sfrenato interventismo dello Sta­ to in ogni settore della vita nazionale,” che soffocava l’inizia­ tiva privata; contro "le imposizioni violente e l’energumenismo degli irresponsabili,” che, favoriti dal governo, mina­ vano lo sforzo dei dirigenti di azienda, degli imprenditori, dei finanziatori i quali avrebbero voluto un clima di “colla­ borazione aperta e leale, posta su un piano di legalità." Ma proprio questa collaborazione fra le varie classi, que­ sta armonia che sembrava ricordare il corporativismo, di giorno in giorno era resa impossibile dall’aumento dei prezzi dei generi alimentari che l’Annuario della congiuntura econo­ mica italiana diceva "rilevante specialmente nell’ottobre-novembre.” Infatti, per i generi acquistati con la tessera gli indici (1938 = 100) passavano da 862 nell’agosto a 981 nel settembre, a 1.107 nell’ottobre e a 1.118 nel novembre (a Milano); per i generi acquistati alla borsa nera salivano da 3.190 a 4.647, a 4.609 e a 4.591. Era evidente che le classi la­ voratrici non potevano assistere senza reagire a questo cosi grave peggioramento delle loro condizioni di vita e, pertan­ to, invece della auspicata collaborazione si ebbe un rincru­ dimento delle agitazioni salariali. Gli operai ottennero sen­ sibili vantaggi (dal citato articolo di Marco Sosterò si han­ no i seguenti dati: paga media oraria, il 6 agosto, 9,30; il 3 settembre, 12,78; il 1° ottobre, 13,50; il 15 ottobre, 20,12), seb­ bene le stesse organizzazioni dei lavoratori ed i comunisti esortassero alla disciplina: "Oggi la forza delle masse si manifesta in una gara di resistenza attiva ai sacrifici e alle 218

provocazioni fraudolente.” Ma non potevano opporsi ad un movimento che aveva profonde ragioni obiettive, pur sa­ pendo forse che esso avrebbe compromesso la posizione di responsabilità politica a cui aspiravano i lavoratori perché ne avrebbe disperso gli sforzi in una lotta per miglioramen­ ti salariali fine a se stessa e senza possibilità di altri sboc­ chi. Era interesse, perciò, del ceto padronale logorare le forze del proletariato in questa contesa per un adeguamen­ to generale delle retribuzioni e per un livellamento delle pa­ ghe sui livelli massimi di Torino e di Genova; ed infatti le trattative tra la Confederazione del lavoro e quella dell’in­ dustria, iniziate verso la metà di ottobre, si trascinarono per le lunghe a causa di continue difficoltà sollevate dalla parte padronale e non erano ancora giunte a conclusione quando, verso il 20 novembre, il governo Parri fu messo in crisi dai liberali. Molto probabilmente per gli industriali questo problema dei salari doveva rappresentare, in un certo senso, la moneta di scambio, per cui essi avrebbero concesso quanto richiedevano i lavoratori purché a questi fossero tolte le conquiste politiche che avevano sino allora difeso. L’accordo, firmato finalmente il 7 dicembre, cioè quando ormai il Parri era caduto, venne celebrato come un grande successo dal segretario della C.G.I.L., Di Vittorio, perché fissava i minimi di paga e l’indennità di contingenza per tutti i lavoratori dell’industria del Nord; introduceva la scala mobile sulla indennità di contingenza ("È la prima volta,’’ disse il Di Vittorio, “che questo sistema di ade­ guamento delle paghe viene adottato in Italia, dopo pochi casi del genere che si ebbero nel 1920-21”), e stabiliva il diritto delle donne allo stesso salario degli uomini "a parità di rendimento qualitativo e quantitativo.” Gli industriali, perciò, avevano ceduto sui punti di maggiore contrasto, ma avevano infranto lo slancio costruttivo ottenendo l’elimina­ zione del governo dei C.L.N. Inoltre, quelle laboriose trattative si erano chiuse si con un successo per il proletariato settentrionale, ma c’era il pericolo che tutta la politica della nuova democrazia ita­ liana si incanalasse nelle solite vie del vecchio Stato: Guido Dorso, uno dei più fervidi e appassionati meridionalisti, dal­ le colonne déll’Italia libera, richiamava, il 31 ottobre, l’at­ tenzione sulla saldatura economica nord-sud che stava av­ venendo secondo i criteri tradizionali, cioè sacrificando, da parte degli industriali del settentrione (parassitari e pro­ tetti e che avevano legato a sé i loro operai con una poli­ tica di alti salari), gli interessi dei contadini e del Mezzo­ 219

giorno agricolo: “[...] significa [la saldatura attuata nel sen­ so tradizionale] che gli industriali del Nord in genere, e quelli parassitari e protetti in ispecie, riusciranno a con­ servare il Mezzogiorno come loro mercato riservato di ven­ dita, escludendo la concorrenza mondiale, in una parola di moda, continueranno a considerare il Mezzogiorno come lo­ ro ‘spazio vitale.’ Il che comporta che i consumatori meri­ dionali dovranno continuare a pagare, non a prezzo di mercato, ma a prezzo di monopolio, tutti i prodotti indu­ striali e manifatturieri di cui hanno bisogno, mentre do­ vranno continuare a cedere a prezzo di mercato i prodotti agricoli. Dovranno cioè essere ancora sfruttati come lo sono stati per ottantacinque anni, prima col mito dell’unità, poi con quello della Nazione, poi infine con quello dell’Impero. E badi il lettore intelligente che un altro mito è in fabbricazione nei cantieri dei trivellatori nazionali: quello della ricostruzione. Se invece la saldatura economica NordSud avverrà in senso nazionale, e perciò meridionalista, cioè sulla base degli interessi permanenti del paese, i trivel­ latori saranno distrutti, lo ‘spazio vitale’ meridionale sarà abolito, le barriere, che impediscono al consumatore meri­ dionale di provvedersi di prodotti industriali sul mercato mondiale, saranno abbattute ed i prezzi di tutte le merci gradualmente scenderanno. Comincerà, quindi, il risanamen­ to di tutta l’economia nazionale, e meridionale in ispecie, e politicamente verranno rotte le zampe a quei ceti privile­ giati e parassitari che formarono l’ossatura del fascismo, e che ora silenziosamente stanno riorganizzando la reazione.” Senza dubbio, pur senza voler contestare l’assoluta since­ rità di queste parole del Dorso, bisogna anche osservare che esse mantenevano uno stampo ancora prettamente liberistico, tipico dell’Ottocento, e il Dorso forse non pensa­ va che si sarebbe dovuto si infrangere il potente predo­ minio sulla vita nazionale esercitato dagli industriali del Nord, ma si sarebbe anche dovuto, contemporaneamente, sopprimere il potere degli agrari, consentito dall’alto dazio del grano, che aveva creato una posizione estremamente favorevole agli agrari del Sud, che ne avevano approfittato senza ritegno per costituirsi rendite spropositate. E, cosi, lo Stato italiano si era retto, fino allora, sul duplice fonda­ mento degli industriali settentrionali e degli agrari-latifon­ disti, grandi proprietari, ecc. meridionali, fondamento netta­ mente antidemocratico perché aveva permesso lo strapotere di due ceti i quali non si erano preoccupati affatto dell’in­ teresse generale, intenti unicamente al proprio benessere. 220

Tuttavia, questa amara constatazione dello scrittore me­ ridionalista di Avellino, aveva anche qualche spunto più mo­ derno, quando parlava di “spazio vitale,” una espressione che poteva sembrare essere stata tolta dalla ossessionante propaganda nazista, ma che rivelava pure una certa com­ prensione della realtà effettiva dell’odierno imperialismo, tutto imperniato sullo sfruttamento delle materie prime dei paesi colonizzati, i quali dovevano rassegnarsi ad acqui­ stare dalla madrepatria i prodotti finiti e trasformati. Per­ tanto, il Dorso aveva perfettamente ragione nel mettere in rilievo che quel determinato “mito della ricostruzione," se fosse stato accettato cosi come esso veniva presentato da­ gli strati più influenti, non avrebbe fatto altro che favorire la ripresa della politica tradizionale e rendere impossibile, ancora una volta, la rivoluzione nazionale e popolare che avrebbe dovuto articolarsi, come aveva lucidamente indica­ to il Gramsci nelle sue solitarie e dolorose meditazioni del carcere, sulla stretta unione fra operai e contadini; gli uni e gli altri, invece, si battevano per rivendicazioni settoriali e corporativistiche che facevano loro dimenticare l’obiettivo più lontano e piu diffìcile. D’altra parte, occorre anche nota­ re che il problema, cosi lucidamente impostato dal Gramsci, in buona parte sulle indicazioni illuminanti di Lenin sulla rivoluzione russa, non era stato pei· niente avvertito dai partiti della Resistenza, nemmeno da quelli di sinistra e di estrema sinistra, i quali avevano rivolto tutta la loro at­ tenzione quasi esclusivamente al proletariato industriale dimenticando i contadini. In tal modo, questi ultimi, so­ prattutto nel Mezzogiorno, potevano avere avuto l’impres­ sione, come abbiamo detto, di una nuova conquista del Nord, e le loro stesse agitazioni, che si ebbero intense in questo periodo, potevano somigliare a quelle che si era­ no avute, in tali regioni, dalla seconda metà del Settecento in poi; tutte le volte, infatti, che si era spezzata la legalità statale, i contadini si erano sparsi per i latifondi ad occu­ pare le terre che, obbedendo ad un antico ed atavico istinto, credevano fossero state loro sottratte dalla violenza della nobiltà o della borghesia. E io facevano al grido di "Viva 1 re,” che era sempre il re Borbone, e non il Savoia, che si presentava come l’esponente dell’odiata borghesia. Fu que­ sta, indubbiamente, una delle deficienze e delle manchevo­ lezze più gravi della Resistenza, che non era riuscita (e nem­ meno si era sforzata) a penetrare una realtà cosi comples­ sa e varia. Su basi diverse, invece, si ponevano i mezzadri, i quali anche loro avevano combattuto, da parecchio tempo, la 221

società borghese, perché impediva loro di accedere al posses­ so della terra; ma lo avevano fatto da posizioni di sinistra, tanto che, nell’immediato dopoguerra, e pure in seguito, si schierarono sotto le bandiere del partito comunista e le zone dove essi prevalevano sono sempre state, in questi ultimi 25 anni, fra quelle dove la prevalenza "rossa” è stata piu forte e più sicura. Fu per tale motivo che la loro lunga lotta ebbe gravi conseguenze, anche politiche: essi chiedevano una nuo­ va ripartizione dei prodotti, sulla base del 60% al mezzadro e del 40% al proprietario. Non erano ancora giunti a mettere in discussione l’istituto della mezzadria, ma solo a richie­ dere una diversa ripartizione dei prodotti, richiesta che, tuttavia, era tale da colpire piuttosto gravemente il profitto degli agricoltori. I quali, dal canto loro, si dicevano disposti a versare un contributo pari al 200% del reddito imponibile sui terreni coltivati a mezzadria, per destinarne una parte a lenire i bisogni dei mezzadri sinistrati dalla guerra e una parte alla costituzione di un fondo di solidarietà provincia­ le. Non raggiungendosi un accordo, intervenne lo stesso Parri, proponendo di portare la quota dei proprietari al 300% dell’imponibile oltre alla corresponsione di un premio: in tutto si sarebbe trattato di circa 4.000 milioni. Ma la Federterra non accettò queste proposte, dichiarando che tale contributo era, in pratica, irrisorio di fronte al controvalo­ re del 10% sulla ripartizione dei prodotti. Gli agrari allora sostennero dapprima la necessità di continuare le trattati­ ve in sede provinciale e regionale e, poi, la loro organizza­ zione, la Confida, si rifiutò di riprenderle finché non fossero stati presi adeguati provvedimenti contro gli scioperanti. La vertenza era ancora in questa fase quando sopraggiunse la crisi di governo in cui probabilmente anche gli agricoltori, come gli industriali, avevano sperato: solo essa infatti po­ teva loro evitare il problema della ripartizione dei prodotti e le critiche che da varie parti venivano rivolte alla mez­ zadria, perché i comunisti avrebbero voluto abolirla, i so­ cialisti trasformarla in affittanza collettiva e i democristia­ ni in piccola proprietà. ' La caduta del governo Parri

Come si è visto, il “mito della ricostruzione” consentiva il ritorno a strutture politiche ed economiche che si cre­ devano vinte e superate: gli stessi partiti di sinistra e le organizzazioni sindacali erano presi dal contrasto fra gli alti fini a cui avrebbero voluto mirare e il doveroso appoggio 222

alle lotte salariali dei lavoratori. Tuttavia, una cosa è certa, che, all’inizio del novembre, il dissidio fra gli ambienti eco­ nomici e il governo era giunto ad un punto molto acuto e le accuse rivolte a questo si erano fatte violente: “[...] ovunque si guardi, è un bailamme di ordini,” scriveva L’Economia d’Italia del 10 novembre, "e di contrordini, di fare e disfare, di impotenza e di demagogia [...]. Non si sa cosa si vuole e perciò non si sa cosa fare. Fallimento negli ammassi agrari; fallimento nel problema della mezza­ dria; fallimento nelTindirizzo produttivo generale; fallimen­ to negli accordi economici intemazionali. Ma a che pro continuare in una sterile enumerazione fallimentare. Qual­ che cosa non va? È tutto che non va!” Di questo stato di profonda insoddisfazione e sfiducia dei ceti produttivi si fecero espressione i liberali, i quali però provocarono la crisi non su questi problemi di natura economica, bensì su altri più strettamente politici. Infatti, proprio mentre il Parri poteva annunciare in una conferenza stampa ai gior­ nalisti esteri, quasi a compensare la cattiva impressione delle “condizioni di ferro” fatte all’Italia dalle clausole de­ gli armistizi del 3 e del 29 settembre pubblicare il 6 no­ vembre, che il piano di aiuti per un valore complessivo di un miliardo e mezzo di dollari, era stato finalmente ap­ provato dal governo americano con pochi ritocchi, i libe­ rali, prendendo a pretesto un ordine del giorno del p.d’a. in favore di una Costituente repubblicana (25 ottobre: la permanenza della monarchia avrebbe rappresentato la guer­ ra civile), votato alla presenza del presidente del consiglio (il quale in tal modo avrebbe violato l’impegno per la tre­ gua istituzionale), lasciarono chiaramente comprendere di voler guidare una ripresa offensiva contro il governo. Il 7 novembre veniva una vivace discussione alla Consulta sui provvedimenti epurativi che i liberali avevano accettato in un primo momento, ma che poi biasimarono sostenendo il diritto di ogni cittadino di essere giudicato dai suoi giudici naturali ed affermando che la situazione del paese richie­ deva un ritorno alla vita normale e comunque non giustifi­ cava il procrastinarsi di una magistratura straordinaria. Il segretario del partito, Leone Cattani, criticò le facoltà ri­ conosciute ai C.L.N. di nominare i giudici, perché, disse, in­ troducevano un elemento di parte nell’amministrazione del­ la giustizia. Ma questo attacco, che era manifestamente ri­ volto contro il governo, rimase isolato dal momento che solo due democristiani votarono in favore della proposta li­ berale mentre anche i democratici del lavoro si scindevano. 223

Si diffondeva l’impressione che una eventuale defezione liberale non avrebbe avuto la forza politica necessaria pei' generare una crisi e si metteva in rilievo che la situazione avrebbe potuto diventare pericolosa solo se la democrazia cristiana avesse appoggiato la manovra conservatrice. Ma non conveniva al partito del De Gasperi rovinare l’equili­ brio del ministero da cui esso stesso traeva non pochi van­ taggi per la coesione delle sue correnti interne; e se avesse seguito i liberali avrebbe rafforzato le destre e sarebbe sta­ to costretto ad assumere una posizione che invece voleva evitare. Ma ormai il p.l.i. aveva dato inizio ad un’azione che non poteva sospendere, ed infatti La Libertà scrisse che le critiche non si riferivano unicamente al procedimento rela­ tivo all’epurazione, ma investivano tutta intera la politica del governo, "ispirata a punti di vista e concezioni assai poco liberali e democratiche”: e a tale proposito, il giornale ricordava il provvedimento che istituiva le Corti di Assise straordinarie; la libertà di stampa offesa dal rifiuto di ti­ pografi romani di stampare un giornale che conteneva frasi contro Giacomo Matteotti; la legge elettorale; ecc. Non fu diffìcile intuire, disse II Mondo, che questo scontento fini­ va per investire in pieno un problema assai più vasto e ge­ nerale, quello della legittimità dei Comitati di Liberazione; e vi fu anche chi fece notare che queste minacce di crisi si addensavano proprio nel momento in cui il consiglio dei ministri prendeva in esame alcuni provvedimenti, già discus­ si preliminarmente da un comitato ristretto di ministri, sull’avocazione dei profitti di regime, di guerra e di specu­ lazione e le disposizioni in materia di tasse ed imposte in­ dirette sugli affari. Rinascita accoglieva anche la voce se­ condo cui, avvicinandosi le elezioni, i dirigenti del p.l.i. nel Mezzogiorno, ma anche nel settentrione, erano arrivati alla conclusione che il solo modo per ottenere un successo "era quello di farsi esponenti e organizzatori del malcontento della destra conservatrice e reazionaria. Rimanendo nel go­ verno del C.L.N. e facendosi corresponsabile della politica di questo governo, il Partito liberale avrebbe favorito il sor­ gere dell’opposizione dell'Uomo qualunque e spinto verso questa opposizione la maggior parte dei suoi seguaci.” Era­ no supposizioni accolte anche da qualche giornale stranie­ ro, come il New York Times, il quale scriveva che i liberali vedevano nelle larghe schiere degli aderenti al movimento deH’“Uomo qualunque” e del "Fronte della ricostruzione na­ zionale” del Nitti una vasta massa di “elettori potenziali.” Tuttavia, non esistevano ancora le condizioni per una 224

crisi e la stessa Libertà affermava che non c’era alcuna vo­ lontà nei liberali di creare imbarazzi ed il 10 parlava di una situazione che aveva perso molto del suo mordente e di crisi superata. Ma verso il 15 novembre le cose precipita­ vano; il Croce, in un colloquio con gli esponenti liberali nel suo palazzo Filomarino, a Trinità Maggiore, si dichiarò favorevole alla tesi del Cattani e del Cassandra e contrario, perciò, all'altra che desiderava mantenere la collaborazio­ ne con il governo, del Brosio e dell’Arangio Ruiz. Questo consenso, unito quasi certamente ad altri consensi di cui per ora è impossibile misurare la portata (della democra­ zia cristiana? della monarchia? per quanto riguarda quest’ultima l’ammiraglio Franco Garofalo, aiutante di campo del principe Umberto, afferma che al Quirinale l’eventualità di una crisi veniva considerata "con molta perplessità,” ma si tratta di una affermazione su cui si può sollevare qualche dubbio, dubbio che fu sollevato dallOmodeo, il quale scris­ se, sull'Acropoli, che l’aiuto del principe fu poi svelato dalla estrema destra e che “l’intesa svergognata col luogotenente” apparve in piena luce), spinse ad affrettare i tempi e ad elaborare le linee del nuovo ministero. I liberali si sentivano sicuri e, pertanto, stabilirono, come scriveva II Giornale della Sera, che nel governo avrebbero dovuto entrare Or­ lando e Nitti; che la partecipazione delle sinistre sarebbe avvenuta con l’ala socialista che faceva capo al Saragat e al Silone; che i comunisti sarebbero stati invitati per posti tecnici a meno che essi non avessero preferito passare al­ l'opposizione, e che Nenni sarebbe stato inviato in missio­ ne diplomatica all’estero. Naturalmente, tali previsioni era­ no condizionate all’adesione dei democristiani, di cui i libe­ rali mostravano di essere quasi sicuri, sebbene forti cor­ renti di questo partito, soprattutto nell’Italia settentrionale, si dicessero recisamente contrarie ad ogni crisi. In effetti, la d.c. si disse propensa ad esaminare la possibilità di un rim­ pasto condizionato, che non era forse quanto avrebbe voluto il p.l.i., ma era pur sempre qualcosa di più della risoluta avversione degli azionisti, dei socialisti e dei comunisti; era soprattutto l’inizio di un cedimento di cui i secessionisti avrebbero potuto approfittare. Intanto, i liberali indirizzavano, il 17, agli altri partiti, una lettera che era una critica violenta all’operato del mi­ nistero: "inefficienza nella direzione di governo; mancanza di unità di orientamento; incertezza sui problemi economi­ ci e monetari; carenza di competenze; meccanica distribu­ zione di dicasteri troppo numerosi; legislazione tumultua­ li.»

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ria e senza controllo; disorientamento delfamministrazione provocato dall’oscillazione delle leggi epurative e conse­ guente disagio nel Paese, il quale, vedendo cosi poco sod­ disfatte le sue aspirazioni, [poteva] finire per compiere l’er­ rore di sbandarsi verso le forze ostili alla nuova democra­ zia, che naturalmente [avrebbero approfittato] di questa situazione per tentare di rialzare il capo.” Bisognava, quin­ di, porre rimedio a questa che i liberali stessi definivano “frattura tra il paese cosi detto legale e il paese cosi detto reale." Ma “una esegesi di ciascuno di questi capi d'accu­ sa," faceva osservare II Mondo, “lascia fortemente perplessi [...]. Dei motivi addotti dal partito liberale, nessuno è forse apparso, agli occhi del paese, un fatto sufficientemente nuo­ vo capace di giustificare un atto di accusa"; e tali li riten­ ne anche il Parri, il quale, di ritorno da un viaggio nel­ l’Abruzzo, dichiarò, il 19 novembre, di non avere alcuna intenzione di "farsi prendere la mano dal nuovo allarmi­ smo crisaiuolo, tipico prodotto di certi ambienti politici e giornalistici della capitale." Egli si diceva "personalmente investito della specifica responsabilità di rappresentare im­ parzialmente la politica generale del Governo, sulla base democratica sulla quale esso si [era] costituito, e di con­ durlo su [quella] linea alla Costituente,” e perciò, non poteva permettere che l’azione del ministero fosse "pa­ ralizzata dal protrarsi di situazioni di allarmismo.” Il 21, poi, indirizzò una lettera ai segretari dei sei partiti in cui ribadiva questa sua posizione e ripeteva che i motivi dei liberali non erano tali da poter promuovere una crisi. A questa convinzione reagì II Risorgimento liberale af­ fermando che Γ"investitura" di cui parlava il presidente del consiglio si basava unicamente sui partiti coalizzati, ai quali spettava giudicare se e come fosse attuata la politica generale del governo e come il paese venisse con­ dotto alla Costituente. Il Croce, a sua volta in una inter­ vista al New York Times, rincalzò che il monopolio della esarchia non era più giustificabile e che i partiti antifa­ scisti dovevano accettare "di dare giusto peso alla compe­ tenza politica,” e faceva i nomi del Bonomi, del De Nicola, del Nitti e dell’Orlando? Ancora una volta confortati dal 3 Quasi certamente, in questo atteggiamento del Croce agivano più che motivi strettamente conservatori o influenze reazionarie di interessi costi­ tuiti, le sue mai sopite nostalgie per il regime democratico prefascista e forse anche il segreto desiderio di prendersi una specie di rivincita sull’inviso partito d’azione, i cui seguaci giudicava figli degeneri ai quali mancava il vigore o l’abito filosofico per tradurre in termini politici una

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pensiero del loro maestro, i liberali decisero, la sera del 22, di negare la fiducia al governo e di far dimettere i propri ministri (ai quali si aggiunse pure quello del Tesoro, Ricci, che per quanto non iscritto al partito, era stato tuttavia da questo designato in sostituzione di Marcello Soleri, morto il 23 luglio). La crisi era ufficialmente aperta, anche se le sinistre, ritenendo che le dimissioni di alcuni ministri non comportassero automaticamente le dimissioni dell'intero gabinetto, mostrassero l’intenzione di sostituire i dimissio­ nari con i dissidenti liberali; ma i democristiani, che si erano già dichiarati favorevoli ad un rinnovamento del governo con un presidente neutrale e arbitro fra i partiti (Nitti?), e che, del resto, temevano di non essere più co­ perti sulla destra dall’uscita del p.l.i., espressero il parere che il ministero, "eretto sulla base della unanime decisio­ ne dei sei partiti," non potesse più sostenersi venendo a mancare tale base: posizione, questa, che fu accettata an­ che dai demolaburisti. In tal modo, al Parri non rimase che annunciare, il 24, le sue dimissioni al Comitato di Liberazione Nazionale integrato da quello dell’Alta Italia e, poi, recarsi al Qui­ rinale a rassegnarle nelle mani del Luogotenente. Quest’ul­ timo gesto era desiderato dai liberali, ma il principe Um­ berto non potè riprendere in pieno l’iniziativa politica per­ ché un ordine del giorno del Comitato affermava la ne­ cessità "che il nuovo Governo [fosse] l’espressione del C.L.N. e delle masse popolari democratiche sulla base di un programma che [mantenesse] l’impegno della Costi­ tuente per non oltre aprile, ed [assicurasse] al popolo la chiara posizione teorica. Questo spiega la sua polemica contro l'esigenza di instaurare una democrazia nuova libera dai difetti dell’antica, pole­ mica che venne da lui stesso efficacemente espressa in una lettera al di­ rettore del "Risorgimento liberale" (27 novembre): "Eccomi di nuovo a Roma che, come Ella sa, è solo per me ispiratrice di ‘lettere scarlatte’ [perché questa sua lettera fu pubblicata nella rubrica ‘Lettere scarlatte’]. Leggo in un giornale di cari amici che il Partito liberale vuol ridare l'Ita­ lia al governo di uomini vecchi, di mummie e simili, respingendo i ga­ gliardi giovani della resistenza. Difendo i vecchi perché anch'io ho 80 anni. Ora, se a me vecchissimo cultore della storia della letteratura italiana, un coro di giovani cultori novizi mi ricantasse troppo (ah, fastidioso revenant ibseniano!) giovinezza! giovinezza!... io risponderei: ‘fatevi di qua: vi indi­ cherò io dove si trova ciò che voi non trovate, vi mostrerò come si esegua quella ricerca che non sapete ancora eseguire.' Respingerei con questo i giovani? Li trascurerei? E chi allora mi aiuterebbe e mi succederebbe ne­ gli studi diletti? Con quell’invito e quella offerta io li saluterei come un degno morituro deve salutare, prestando ancora qualche utile lavoro per­ ché la morte (disse a me un vecchio ai tempi della mia giovinezza e io ho serbato quel detto) è anche essa un fare, è l’ultimo atto di vita nella

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libertà, il lavoro ed il pane con una politica di solidarietà nazionale.” La cosa più importante di questa mozione era che essa aveva ottenuto l'approvazione di tutti i partiti tranne quella del liberale, il quale, pertanto, si era venuto a trovare di nuovo isolato e vedeva da ciò resa impossi­ bile la politica di restaurazione che esso perseguiva e che avrebbe dovuto far capo al Luogotenente. In tal modo, di­ veniva impossibile, o almeno era reso molto difficile, il successo dell’uomo politico imparziale e neutrale che la stessa democrazia cristiana aveva auspicato, ma che, poi, aveva praticamente impedito dando la sua adesione all’or­ dine del giorno del C.L.N. Infatti, il Luogotenente, seguen­ do le indicazioni della crisi, aperta dai liberali, diede l’in­ carico per la formazione del ministero all’Orlando, la­ sciando scorgere al Garofalo la sua soddisfazione ("Certo, sarebbe stato felice di vedere affidato il Governo all’illu­ stre statista nei giorni che dovevano decidere l’avvenire d’Italia e della dinastia”). Ma questa candidatura, fra il 25 e il 27 novembre, cadde perché le sinistre si opposero a quello che esse definirono "uno slittamento a destra" della situazione politica generale, slittamento che avrebbe do­ vuto essere compensato con l’assegnazione ai tre partiti dei dicasteri-chiave, quali i ministeri delle Finanze, dell’In­ terno e della Guerra. Era chiaro che la mozione del C.L.N. aveva, fra l’altro, evitato anche il proposito dei liberali di escludere gli azionisti, i socialisti ed i comunisti. Venuta meno, perciò, la candidatura Orlando (il p.d’a. la disse “una pazzia d'Orlando”) si profilava la sconfitta dei liberali che avevano puntato tutto su quell’unica carta e vita. Consenta dunque per il maggior bene dell'Italia, che alcuni di questi vecchi esperti di politica, provati amministratori, più volte deputati e ministri, coadiuvino i giovani e li avviino ad invecchiare anch’essi, cioè a vivere bene e a lungo." L’errore del Croce, se di errore si può parlare per una cosi profonda convinzione, era quello di ritenere che anche nella vita politica fosse necessario andare a prendere lezioni di retto comportamento e che, perciò, i discepoli migliori fossero coloro che seguivano più da vi­ cino le orme dei maestri. A tale convinzione reagiva lOmodeo difendendo gli scismatici, gli eretici del p.d’a.: “Sono in gran parte uomini di cultura che han rifiutato di aderire al liberalismo; si son nutriti, forse meglio dei seguaci della buona fortuna, del pensiero di Benedetto Croce, spesso negli ergastoli e nelle isole di relegazione, e a quella cultura si sono ispirati per un’azione pratica più larga anche se non sempre rigorosamente definita, anche se con difettosità logica, come nella sfortunata formula del liberal­ socialismo." I liberali, invece, vagheggiando "d'industrializzare per fini po­ litici la dottrina di Benedetto Croce," avevano abbassato "la religione della libertà in uno sciapo dottrinarismo, che appunto perché meccanico e vacuo è potuto degenerare nel suo contrario: se anche la degenerazione non è stata addirittura un piano premeditato."

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che non ne avevano altre di riserva. Cosi riassumeva queste vicedende l’Omodeo: "Per arrivare alla crisi piena il p.l.i. ha avuto bisogno dell’aiuto della democrazia cristiana, la qua­ le lo ha dato ma poi ha usato della crisi a proprio vantag­ gio, rientrando nel C.L.N. Naufragata la soluzione dei ve­ gliardi, ritiratasi la democrazia cristiana, l’Israele liberale si trovò solo nel deserto senza manna e senza acqua per col­ pa del nuovo Mosé.” E si profilava la sconfitta anche del Luogotenente, il quale venne a trovarsi in una situazione per lui drammatica: "[...] era indispensabile non interrompere le visite degli uomini politici al Quirinale,” scriveva il Ga­ rofalo, "per non dare la sensazione che al Principe non re­ stasse altro che attendere la designazione del Comitato di Liberazione Nazionale.” Pertanto, proprio per non dare que­ sta impressione, le consultazioni furono estese al Primo Presidente del Consiglio di Stato e a quello della Corte dei Conti e ai capi di quei gruppi politici che non erano ancora stati uditi, e cioè Roberto Bencivenga, Arturo Labriola, Tito Zaniboni e Guglielmo Giannini, il fondatore deH’“Uomo qua­ lunque,” come se fosse possibile giungere ancora ad una soluzione imperniata su qualcuno dei vecchi uomini politici (la stampa liberale affacciò la speranza che questi potesse essere il Bonomi), oppure ad un ministero tecnico. Era, in­ vece, evidente che tutto veniva rinviato al C.L.N., il quale, infatti, si riunì, il 28 e il 29 novembre, per risolvere la crisi nel suo ambito e per designare come primo ministro uno dei leader della coalizione: il C.L.N. ridiventava arbitro del­ la situazione — scrissero i giornali di sinistra — e ciò co­ stituiva un netto punto a favore della tesi dei partiti d'azio­ ne, socialista e comunista. Fu solo in seguito al preciso ri­ stabilimento del principio che l’iniziativa era e doveva ri­ manere al C.L.N. che Lussu, Nenni e Togliatti sciolsero la loro riserva nei riguardi del principe Umberto, del quale prima non avevano accettato l’invito, e si recarono al Qui­ rinale. Aveva termine la prima fase della crisi e cominciava la seconda, quella risolutiva. Intanto, però, si potevano trarre alcune conclusioni: la Borsa valori, “organo sensibilissimo del complesso dinamismo nazionale" (come era detta dalYEconomia d’Italia) aveva reagito con “una ripresa imme­ diata e sicura” e segnando notevoli sbalzi in alto dei titoli azionari. Per i ceti capitalistici del paese, la crisi del go­ verno Parri assumeva il significato della fine della politica dei consigli di gestione, delle nazionalizzazioni, dell’interven­ tismo statale nella vita economica, delle imposte sui sopra­ 229

profitti di speculazione e di guerra. Anche YEconomist rico­ nosceva che il ministero caduto rappresentava le tendenze progressiste della nazione e che mirava alla graduale ridi­ stribuzione delle ricchezze e alla ripresa delle industrie nel quadro della ricostruzione europea, tutte tendenze che era­ no ostacolate dai grandi industriali (captains of industry, Big Business'), appoggiati dai liberali. I giornali americani (Herald Tribune, New York Times) parlarono delle accuse rivolte dalle sinistre italiane agli Stati Uniti di favorire le correnti conservatrici, ma, pur respingendole, confessavano che a Washington si sarebbe stati contenti se la crisi avesse portato anche solo ad un lieve indebolimento dei socialisti e dei comunisti. Ormai, lo stesso Cattani ammetteva che se nella prima fase spettava al suo partito, che aveva richiesto una presi­ denza imparziale ed un allargamento della base di governo, presentare proposte concrete, nella nuova, invece, in cui si cercava una soluzione all’interno della coalizione, l’iniziativa era passata alle sinistre: “I liberali restano perciò ora in una posizione d’attesa." L’iniziativa alle sinistre si, ma anch’esse dovevano tener conto dell’esigenza avanzata dal p.l.i. e della necessità di non rompere, con una eccessiva rigidezza, rac­ cordo dei partiti nel Comitato. Ritornò, pertanto, ad avere successo il capo del partito che, in alcuni momenti, ave­ va condiviso le tesi liberali, cioè il De Gasperi, il quale ven­ ne ricevuto dal Luogotenente la sera del 30 novembre. Da questo momento si svolse un complesso gioco, dominato dal­ la preoccupazione dell’equilibrio politico del governo, perché le sinistre, ritenendo di aver ceduto abbastanza sul nome del De Gasperi, che avrebbe fatto apparire il ministero orien­ tato a destra, richiesero il ministero dell’Intemo, a cui i li­ berali opposero una analoga richiesta, avallata, scrisse La Libertà, da Benedetto Croce, che ebbe, il 3 dicembre, un lungo colloquio con il Cattani. Non era neppure tramontata la speranza del p.l.i. di ottenere la partecipazione di qual­ che “vegliardo” o "santone," come erano anche detti gli uo­ mini politici prefascisti, e su questo problema i liberali mo­ strarono di volersi trincerare quando l’esplicito rifiuto del Bonomi, del Nitti e dell’Orlando rese possibile al Luogote­ nente dare alle ore 3 del 4 dicembre, al De Gasperi l’incarico ufficiale di formare il nuovo governo. Era una nuova scon­ fitta per il p.l.i., alla quale esso tentò di reagire presentando, nella riunione degli esponenti dei sei partiti, il 4 dicembre, un memoriale che esponeva in dieci punti le condizioni per l’ingresso dei liberali nel gabinetto: "1) stabilire e mantene­ 230

re un atteggiamento unitario di tutti i ministri nella difesa degli interessi nazionali di fronte all’estero pur nel quadro della solidarietà intemazionale; 2) ristabilire senza indugio l’autorità dello Stato, il rispetto della legge e l’ordine pub­ blico, rafforzando e ricostituendo con imparzialità i pubbli­ ci poteri ed eliminando ogni interferenza di singoli partiti, di C.L.N. e di altri organi eccezionali; 3) avviare il paese ra­ pidamente verso la normalizzazione e la pacificazione ne­ cessarie per l’ordinato svolgimento delle elezioni, riservando di decidere sulla possibilità di consultazioni popolari di­ rette; 4) sostituire rapidamente i prefetti ed i questori po­ litici; 5) concludere definitivamente entro il febbraio prossi­ mo l’opera di epurazione; 6) abolire le sezioni speciali di Corte d’Assise; ristabilire la giuria popolare e sopprimere il confino di polizia; 7) garantire la libertà del lavoro deman­ dando agli uffici del lavoro il compito di collocamento del­ la mano d’opera; 8) rispettare rigorosamente l’indipenden­ za della magistratura; 9) assicurare la più assoluta libertà di stampa e l’imparzialità dei servizi radio; 10) dare inizio immediato alle elezioni amministrative e alla rapida prepa­ razione delle elezioni per la Costituente." Era un programma che presentava, come fece subito osservare un comunicato della segreteria del p.d’a., "accan­ to ad alcune rivendicazioni ovvie e non mai contestate,” al­ tre "pretese, dirette nel loro complesso a sopprimere il ca­ rattere democratico e antifascista del Governo. Basti accen­ nare," soggiungeva il comunicato, “alle richieste di sop­ pressione di ogni funzione dei C.L.N., di abolizione di orga­ ni della giustizia antifascista recentemente approvati dalla Consulta, di revoca di prefetti e questori politici anche dove hanno dimostrato di costituire la difesa più valida e impar­ ziale contro i ritorni fascisti, nonché alle insidiose riserve sui poteri della Costituente [...].” I liberali di nuovo tenta­ vano di volgere la crisi a favore delle loro tesi, ma incon­ trarono, anche questa volta, la decisa opposizione degli al­ tri partiti, che non intendevano rinunciare al vantaggio re­ centemente acquisito. Il 6 novembre, afferma il Garofalo, "non ci potevamo nascondere l’eventualità che De Gasperi fosse costretto a rassegnare il mandato ricevuto,” perché si riteneva che un ministero a cinque non avrebbe potuto essere formato da lui stesso. Infatti, gli azionisti sostene­ vano che, in caso di fallimento di un governo dell’esarchia, l’incarico dovesse ricadere direttamente sul Parri, in quan­ to l’esclusione dei liberali avrebbe spostato ancor di più il centro di gravità del ministero verso sinistra, renden­ 231

do impossibile la candidatura democristiana; e di questo parere erano anche gli ambienti di corte che, come scrive ancora il Garofalo, pensavano che il mancato accordo dei sei partiti e la conseguente frattura del C.L.N. dovesse por­ tare alla soluzione socialista, “la più rispondente alle circo­ stanze e ai bisogni del momento”: soluzione socialista che avrebbe dovuto poggiare sull’ala moderata di questo partito, quella che non "celava la sua preoccupazione e il suo dis­ senso per la politica fusionista” e che si diceva potesse con­ sentire l’esperimento di una monarchia socialista, cioè “un felice avvicinamento della sinistra alla Corona ed un ragio­ nato rinvio del problema istituzionale." Ma lo stesso Comitato rifuggi da una simile designa­ zione, che non avrebbe fatto altro che inasprire la situa­ zione e, alla mezzanotte del 6 novembre, "i rappresentanti dei partiti comunista, d’azione, democratico del lavoro, democratico cristiano, socialista” rendevano noto un or­ dine del giorno con cui riconfermavano la loro fiducia nell’on. Alcide De Gasperi e lo invitavano "a procedere immediatamente alla formazione di un Governo a cinque." Per la terza volta, i liberali erano rimasti isolati e di nuo­ vo l’iniziativa veniva assunta dai partiti democratici nei confronti del Luogotenente, il quale non condivideva affat­ to il punto di vista espresso dal Garofalo sulla necessità di una candidatura socialista, poiché si adoperò negativamente per fare recedere i liberali dal loro atteggiamento polemico. D’altra parte, si esercitavano pressioni sui de­ mocristiani, che, però, non desideravano affatto, come ab­ biamo detto, trovarsi nel gabinetto all’estrema destra: “Un giornale del liberalismo di destra,” scrive l’Omodeo, "si vanta che da ben tre grandi palazzi di Roma partirono moniti telefonici per Alcide De Gasperi contro una solu­ zione a cinque.” Cosi, improvvisamente, il 7 dicembre, i liberali, dopo lunghe discussioni che videro schierati da un lato quelli favorevoli alla partecipazione e dall’altro quelli propensi a fare del loro partito il centro dell’opposizione, annunciarono di voler entrare nel governo, ed il 10, il lie Gasperi poteva comunicare la formazione del nuo­ vo ministero.4 4 Che risultò cosi composto: Presidenza, Esteri e Comitato intermini­ steriale ricostruzione: A. De Gasperi (d.c.); Vice-presidenza e Costituente: P. Nenni (p.s.i.); Ministro senza portafogli per le relazioni con la Consulta: E. Lusso (p.d’a.); Interni: G. Romita (p.s.i.); Giustizia: P. Togliatti (p.c.i.); Finanze: S. Scaccimarro (p.c.i.); Tesoro: E. Corbino (p.l.i.); Guerra: M. Brosio (p.l.i.); Marina: R. De Courten (indipendente); Aeronau-

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I risultati politici della crisi

Ma, prima, il presidente del consiglio aveva dovuto su­ perare le ultime difficoltà nell’assegnazione dei dicasteri, perché le sinistre non volevano concedere al p.l.i. la vice­ presidenza e il ministero della Guerra nonché l’allarga­ mento del governo con l’inclusione del Bonomi, che que­ sto partito chiedeva. Ma, poi, venne un colloquio CroceDe Gasperi, che servi, affermò La Libertà, ad allontanare il pericolo di un ulteriore irrigidirsi dei liberali sulla que­ stione dell’allargamento ed in cui forse il filosofo napoletano diede il suo consenso all’assegnazione dei ministeri come era stata progettata dal capo democristiano. Si trattava, in effetti, di un’assegnazione che rappresentava, in apparenza, una grave sconfitta del p.l.i., in quanto la vice-presidenza era mantenuta dal Nenni ed all’Interno, che era stato da tut­ ti inteso come un ministero fondamentale, andava un so­ cialista, il Romita. La stampa romana, infatti, sottolineò la sconfitta liberale, ma si trattava di una sconfitta rela­ tiva perché il De Gasperi nella dichiarazione ai giornalisti affermò che l’allargamento del ministero, che non si era potuto attuare, rimaneva tuttavia “un obiettivo da raggiun­ gersi non appena possibile." Inoltre, nel programma accet­ tava quasi tutti i punti del decalogo liberale, proponendosi "la sostituzione rapida e progressiva degli organi esecutivi e amministrativi provvisori, costituiti per necessità di emergenza [...], con normali organi rappresentativi della esclusiva e superiore volontà ed autorità dello Stato e con gli organi statutari previsti per i singoli enti od ammini­ strazioni; la riassunzione da parte dei competenti organi od enti pubblici di tutte le funzioni amministrative od esecutive loro proprie, comprese quelle esercitate, spesso anche con molta benemerenza, dai C.N.L. ai fini della lotta di liberazione e in dipendenza delle condizioni straordina­ rie dell’occupazione e della mancata funzionalità dell’ap­ parato statale [...]; l’abolizione piti rapida delle misure e degli organi eccezionali, al quale riguardo corrisponde la abolizione dell'Alto Commissariato e la già annunziata de­ cisione di concludere l'epurazione prima delle elezioni della tica: M. Cevolotto (d. del 1.); Pubblica Istruzione: E. Mole (d. del 1.); La­ vori Pubblici: L. Cattani (p.l.i.); Agricoltura: F. Gullo (p.c.i.); Trasporti: R. Lombardi (p.d’a.); Poste e Telecomunicazioni: M. Sceiba (d.c); In­ dustria e Commercio: G. Gronchi (d.c.); Lavoro e Previdenza sociale: G. Barbareschi (p.s.i.); Ricostruzione: U. La Malfa (p.d’a.); Assistenza post­ bellica: L. Gasparotto (d. del L).

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Costituente; in quanto al ritorno all’ordinamento tradizio­ nale delle Corti Penali con le giurie popolari e con la com­ petenza estesa anche ai reati politici, l'attuale Ministro di Grazia e Giustizia ha già dichiarato che un relativo prov­ vedimento di legge è già in stadio di avanzata preparazio­ ne [...]. Non c’è poi bisogno di dire che tutto il Governo si sente impegnato a rispettare l’indipendenza della Magi­ stratura." Infine, si annunciava prossima la riforma della legge di Pubblica Sicurezza; l’accettazione del principio della libertà del lavoro e della stampa; l’imparzialità delle trasmissioni radiofoniche e la volontà di preparare solleci­ tamente le elezioni amministrative e politiche, "accelerando la votazione delle rispettive leggi e risolvendo le questioni riguardanti i modi di soluzione dei problemi politici connes­ si alla Costituente." Questo programma era contenuto in una lettera inviata dal De Gasperi al partito liberale e da essa si poteva scor­ gere che tutte le richieste di quest’ultimo erano state ac­ cettate (ivi compresa quella relativa al referendum con la vaga e generica frase: “risolvendo le questioni riguardanti i modi di soluzione dei problemi politici connessi alla Co­ stituente”). Con uno dei soliti giochi trasformistici, cosi frequenti, purtroppo, nella nostra tradizione politica e par­ lamentare, mentre le sinistre — e, in particolare, i sociali­ sti ed i comunisti — ottenevano la prevalenza, insieme con l’altro grande partito di massa, cioè la democrazia cristia­ na, nel governo, negli impegni programmatici invece ve­ nivano soddisfatte le esigenze della destra. Il Morandi, sul­ la rivista Socialismo, si dimostrò contento dei risultati della crisi, i cui effetti, secondo lui, erano stati di notevole portata, perché I socialisti si erano portati decisamente avanti “con un’azione che risponde a un piano ben determi­ nato,” acquistando “l’iniziativa e funzioni di guida nella po­ litica popolare”; i comunisti mantenevano le loro forti po­ sizioni; la democrazia cristiana era costretta ad operare “sul piano di quella collaborazione che le era stata già senza risultato offerta e richiesta"; i partiti minori erano stati ricondotti “un po' più vicino alla proporzione reale delle loro forze.” Altrettanto contenti si dichiararono i co­ munisti, i quali, su Rinascita scrissero che il ministero del­ l’Interno, già feudo dei liberali, era passato a un uomo di un partito operaio; che “i partiti cosiddetti di ‘estrema’ sinistra” avevano “confermate e rafforzate le loro posizioni in seno al governo. E l’unità di questi partiti ne [era] uscita rafforzata.” Il Nenni, a sua volta, disse, a Padova, 234

che il nuovo governo era una vittoria della democrazia, che con esso si erano celebrati i funerali del clericalismo e dell’anticlericalismo e che i lavoratori cattolici si erano stretta la mano al di sopra di ogni divergenza religiosa con gli altri lavoratori. Dal loro canto, i democristiani ce­ lebrarono la presidenza De Gasperi come "un fatto nuovo nella storia italiana dopo il Risorgimento,” poiché segnava "la definitiva e piena inserzione dei cattolici non solo nella politica nazionale, ma nella stessa direzione di tale poli­ tica, dalla quale erano rimasti esiliati” anche per “la parti­ gianeria politica e la settarietà del defunto anticlericali­ smo." Forse proprio per questo motivo — cioè perché saliva alla più alta responsabilità il rappresentante di una cor­ rente politica che era stata quasi sempre all’opposizione —, i socialisti ed i comunisti, rimasti anch’essi per lungo tempo all’opposizione, si mostrarono soddisfatti, dato che il partito d’azione, sebbene fosse un partito nuovo, poteva sembrare composto dello stesso ceto borghese, o, meglio, piccolo borghese, che aveva mantenuto il potere ininterrot­ tamente per lunghi anni. Ed infatti, Il Mondo scriveva che il partito di cui era a capo il nuovo presidente del consiglio era "uno dei tre grandi partiti di popolo, o, come si suol dire, di ‘massa’: esperienza costituzionale nuovissima nella storia d’Italia.” Veramente questo fatto segnava un netto distacco rispetto alla precedente tradizione, la cui rottura lasciava sperare ai socialisti e ai comunisti di poter trarre vantaggi anche per sé. Ma, d’altra parte, il De Gasperi con­ tinuava quella tradizione molto più del Parri e dei suoi com­ pagni, per la sua grande abilità, per la sua arte sapiente dei dosaggi politici e per il suo acuto senso deH'equilibrio fra le opposte tendenze: tutti aspetti che ricordavano, ad esempio, un Giolitti o un Depretis, insomma qualcuno dei vecchi uomini politici che avevano governato appoggiando­ si, con esperta accortezza sulle varie forze politiche. Per questo lato, si doveva parlare di restaurazione, molto più che di rinnovamento, cosi come verso la restaurazione pa­ reva ormai avviarsi tutta la società italiana: il governo Parri era stato manifestamente, come abbiamo fatto osservare, un governo di attesa, in cui i due blocchi opposti, di de­ stra e di sinistra, avevano messo a tacere le loro divergen­ ze sperando che presto fosse loro data la possibilità di prendere il sopravvento sull’awersario. Ora, si era avuta la rivincita della destra, molto chiara nelle dichiarazioni programmatiche che segnavano la liquidazione dello spiri235

to della Resistenza (tanto che il Pepe osservava, nel fon­ do del 27 dicembre 1945 su Civiltà liberale, che i suoi amici liberali erano insanabilmente orientati a destra e che avevano aperto la crisi onde mettere in discus­ sione tutto l'antifascismo per "meschini calcoli elettorali e furori anticomunisti"). Questo aveva anche portato al fal­ limento del partito d'azione che di quello spirito aveva vo­ luto essere il piu. fermo rappresentante e che aveva creduto di poter fare da ponte fra le due ali dello schieramento politico, ponte forse possibile finché perdurava l’unanimità e la collaborazione del C.L.N., ma che ormai non aveva più alcun senso. La lotta fra le opposte parti riprendeva secondo gli schemi di una volta — destra, centro, sinistra —, e il problema era impostato unicamente sulla maggiore o minore forza di ciascun raggruppamento. Certo, in que­ sta vittoria della destra si intrecciavano diversi motivi: il desiderio di ritornare alla democrazia prefascista; il risen­ timento contro i C.L.N. come strumento rivoluzionario e innovatore; la ripresa dei ceti capitalistici e, infine, da par­ te dei democristiani, la volontà di ottenere la rivincita sul Risorgimento e sul "defunto anticlericalismo.” Motivi di­ sparati, ma che tutti convergevano in un punto, cioè nella riaffermazione delle forze conservatrici della società italia­ na, come si potè capire, poco più tardi, dalla dura batta­ glia per la Costituente. E come si comprese, anche quasi su­ bito, soprattutto da alcune decisioni che modificarono pro­ fondamente l’orientamento nel campo della politica econo­ mica del precedente governo: infatti: il problema del cam­ bio della moneta, sul quale era sembrato che tutti fossero d’accordo, anche i liberali Soleri e Ricci che si erano adope­ rati per condurlo a termine, era causa, invece, adesso, di un grave contrasto fra il ministro del Tesoro, Corbino, pu­ re egli liberale, e il ministro delle Finanze, il comunista Scoccimarro. Il primo non tardò ad annunciarne il rinvio e, in gennaio, la definitiva sospensione, adducendo a giu­ stificazione le non buone condizioni dell’ordine pubblico e il timore che esso potesse provocare notevoli ritiri di de­ positi dalle banche. Per lo Scoccimarro il cambio era solo rimandato per non farlo coincidere con le elezioni; ma la verità era che il Corbino aveva imposto il suo punto di vi­ sta, come chiaramente affermò al Comitato centrale del par­ tito liberale (il 16 gennaio) e alla Consulta (il 22 gennaio), suscitando le vive critiche delle sinistre, perché tale opera­ zione avrebbe dovuto essere accompagnata dalla applica­ zione della imposta straordinaria sul patrimonio ed avreb236

be anche dovuto consentire di togliere dalla circolazione la moneta esuberante, di solito destinata alla speculazione. Il Rossi Doria dichiarò, parlando alla Consulta sulle dichia­ razioni del ministro, che, in tal modo, si compiva il primo passo verso il ritorno alla politica economica classica, di fronte alla quale stava l’altra tendenza che avrebbe voluto, mediante il cambio, effettuare tutta una serie di misure di controllo e di maggiore intervento dello Stato nell’economia. Si può, quindi, intendere la ragione delle critiche che erano state rivolte al provvedimento dagli industriali, di cui si faceva espressione l'Economia d’Italia, dicendo che esso sarebbe stato “un elemento disturbatore nella già ma­ lamente conciata economia nazionale." L’altro problema, che lasciò scorgere il sostanziale mu­ tamento di indirizzo del governo, fu la fine del blocco dei li­ cenziamenti, che, scaduto con il 31 dicembre, la Confindustria non voleva prolungare, in quanto cristallizzava una si­ tuazione ormai superata e ritardava la necessaria riconver­ sione del nostro apparato produttivo. Di nuovo l'Economia d'Italia scriveva essere necessario che l’onere della disoccu­ pazione fosse trasferito dalle imprese private allo Stato, il quale avrebbe dovuto dar lavoro agli operai disoccupati con un vasto piano di lavori pubblici. Le trattative fra la C.G.I.L. e la Confindustria, iniziate ai primi di gennaio, si conclusero il 19 con la firma di un accordo che praticamen­ te stabiliva la fine del blocco ed una gradualità dei licen­ ziamenti, nella misura del 50% entro febbraio, del 4% entro il 15 marzo ed ancora del 4% entro il 31 marzo. Il Di Vit­ torio, pur facendo osservare che, in tal modo, si sarebbero aggiunti ai 2 milioni di disoccupati prima 150 mila unità e poi gradatamente circa 650 mila, si pose sul terreno della realtà e riconobbe che era impossibile mantenere in piedi l’impalcatura creata dalla guerra e che occorreva accettare lo sblocco per non far fallire aziende salvabili. Ma il guaio era che l'auspicato piano di lavori pubblici non esisteva e, perciò, come riconosceva anche L'Unità, diventava inevi­ tabile la disoccupazione di una parte di mano d’opera con l’aggravamento dello stato di pauperismo generale. Ma que­ sto non indifferente sacrificio delle classi lavoratrici co­ stituiva, affermava giustamente la stessa Unità, una prova "della profonda evoluzione del movimento sindacale, che, nella congiunzione degli interessi dei lavoratori con quelli di tutta la nazione, concorrefva] ad attuare e sviluppare la funzione dirigente del proletariato.” Tutto questo mentre, il 10 febbraio, il Consiglio indu237

striale Alta Italia (C.I.A.I.), emanazione del C.L.N.A.I. e pre­ sieduto dal Tremelloni, di fronte alle contrastanti tendenze del governo, ammoniva gli organi responsabili sui pericoli del "risorgere di sfrenati ed incontrollati egoismi di grup­ po.” Si stava determinando, perciò, una situazione che avrebbe dovuto temperare la soddisfazione dei socialisti e dei comunisti per la costituzione del nuovo governo De Gasperi, una soddisfazione che si poteva giustificare forse solo con motivi strettamente di partito, ma che rivelava una sorda incomprensione della costruzione di una vera e pro­ fonda politica democratica.

Il direttorio mondiale di U.R.S.S. e U.S.A. Una nuova delusione venne per l’Italia dalla conferenza dei ministri degli Esteri americano, inglese e sovietico, te­ nuta a Mosca dal 16 al 27 dicembre, perché ne usci confer­ mato quell’irrigidimento rispetto alla conferenza di Potsdam che si era potuto notare a Londra. Infatti, il comunicato finale non faceva più parola del riconoscimento di cobel­ ligeranti che ci era stato concesso, e nemmeno si accen­ nava più alla precedenza riconosciuta al nostro trattato di pace nei confronti di quelli degli altri paesi ex-nemici, un silenzio, quest’ultimo, che doveva considerarsi la conse­ guenza del fallimento delle trattative di Londra. Inoltre, i rappresentanti italiani rimanevano esclusi dalla redazione e dalla discussione del trattato, esclusione, peraltro, che era già stata imposta nelle due precedenti conferenze. "Stu­ pefazione, indignazione e scoramento” destarono in Italia queste decisioni, come scrisse Luigi Salvatorelli, il quale però metteva in guardia dal cadere nelìe "verbose ed irose recriminazioni" e nelle "suscettibilità esagerate o infonda­ te,” tali da far pensare "a un nostro particolare inopportu­ no malcontento verso questa o quella delle grandi po­ tenze": "Occorre camminare," soggiungeva, "sullo stretto sentiero che separa i due abissi del nazionalismo da una parte, dell’abdicazione nazionale dall’altra.” Anche Cesare Spellanzon ammoniva quei giornali e quei partiti che più al­ to gridavano allo scandalo a non suscitare nel pubblico italiano una reazione eccessiva, e una più profonda delusio­ ne: “badino che essi stanno in tal modo risvegliando l’idra nazionalistica dalle cento teste, che nessun Ercole, per forte e nerboruto che fosse, potrebbe o saprebbe poi vincere.” Tanto più che, almeno per il momento, sembrava im­ 238

possibile giocare sui dissidi fra i tre Grandi e tentare una ripresa allargando il solco fra i due blocchi, perché a Mo­ sca si era di nuovo avviata la collaborazione fra le potenze mondiali e si era constatata nuovamente la possibilità di accordi e compromessi (Salvatorelli). In effetti, se anche questa nuova conferenza si fosse chiusa con un fallimento, l’effetto sull’opinione pubblica di tutti i paesi sarebbe stato dìsastróso, senza dubbio molto più grave di quello provo­ cato dal fallimento della conferenza di Londra. Cosi, si era cercato di evitare in tutti i modi una rottura, raccogliendo gli sforzi attorno a quei problemi che potevano presentare possibilità di soluzioni e demandando l’esame degli altri più gravi, ad apposite commissioni. Tre erano le questioni ed i punti di maggiore frizione: i Balcani, il Medio Oriente (in séguito alla pressione di Mosca sulla Turchia e sull’Iran, dove il governo sovietico reclamava il possesso di alcuni distretti dalla prima e dell’Azerbaigian dal secondo), e l’E­ stremo Oriente, ai quali si aggiungeva, non meno impor­ tante, la questione dell’energia atomica. Quest’ultima, i Bal­ cani e l’Estremo Oriente interessavano, in misura eguale, alla Russia e agli Stati Uniti, mentre il Medio Oriente inte­ ressava soprattutto all’Inghilterra. Ora, proprio questo set­ tore rimase sacrificato, il che destò viva inquietudine in Turchia e nell’Iran, che interpretarono la mancanza di de­ liberazioni come una prova della intransigenza sovietica e del cedimento degli anglo-americani. Anche la stampa britannica si mostrò profondamente delusa e riportò con amarezza le dichiarazioni del ministro degli Esteri, Bevin, il quale disse di non essere riuscito ad ottenere assicura­ zioni sulle situazioni turca e persiana, pur avendo insistito su di esse in lunghe e laboriose discussioni. A Londra si sperava che fosse possibile un compromesso con TU.R.S.S., in base al quale alla rinuncia ad un intervento nei Balcani corrispondesse un’analoga rinuncia alle mire sovietiche nel vicino e nel Medio Oriente. Ma il compromesso fu raggiun­ to fra la Russia e gli Stati Uniti, che si affermavano sempre più come le due supreme potenze mondiali, e cosi venne trascurata la sistemazione dei problemi britannici. Per quanto riguardava l’energia atomica, la Russia si adattava al temporaneo segreto anglo-americano, in cambio della formazione di una Commissione per il suo controllo nell’ambito delle Nazioni Unite e per l’abolizione dell’im­ piego di tale arma. Ma le reciproche concessioni fra russi e statunitensi avvennero a proposito dei Balcani e dell’E­ stremo Oriente: nei primi cedettero gli americani promet­ 239

tendo il riconoscimento dei governi bulgaro e romeno dopo un modesto allargamento, che non ne alterava sostanzial­ mente il carattere, con rappresentanti dei partiti contadino e liberale. In Estremo Oriente, invece, cedettero i russi, che riconobbero la preponderanza e la responsabilità degli U.S.A. nella Commissione di controllo del Giappone e che rinunciarono a richiedere la formazione di una Commissio­ ne su una base di parità a somiglianza di quelle istituite a Berlino ed a Vienna; in Corea, poi, le due potenze si accor­ darono per stabilire, come regime provvisorio, una specie di condominio russo-americano (commissione mista e sparti­ zione dell’occupazione), che, osservava il Salvatorelli, non poteva "certo essere rappresentato come una sconfìtta americana"; in Cina, infine, le partite si pareggiavano, per­ ché all’impegno reciproco di non ingerenza e di sgombero doveva seguire la formazione di un governo cinese demo­ cratico unificato, con la rappresentanza delle diverse cor­ renti politiche. “La conferenza è un compromesso fra la Russia e l’America da cui la Gran Bretagna è stata esclusa,” cosi scrisse VObserver e il giornalista americano Walter Lippmann sulla Herald Tribune affermò: "La sostanza di quanto è accaduto è questa: Russia e Stati Uniti hanno sistemato le proprie relazioni nelle rispettive zone d’influen­ za e si sono anche accordati per i punti in cui queste zone si sovrappongono." La funzione degli Stati Uniti nell’Euro­ pa orientale era consultiva e secondaria, come lo era la fun­ zione della Russia in Giappone. Tuttavia, ora, secondo il Lippmann, gli U.S.A. avrebbero dovuto svolgere la loro me­ diazione fra la Gran Bretagna e l’U.R.S.S. nelle sfere d’in­ fluenza di queste due potenze in Germania e nel Medio Oriente. Il sistema delle zone d’influenza, perciò, tendeva a spo­ starsi dall’Europa, in cui era stato originariamente appli­ cato, a tutto il mondo ed in questa prospettiva pili ampia alcuni problemi particolari, come quello della frontiera italo-jugoslava, che aveva mantenuto una notevole importan­ za fino a quando la contesa era rimasta su un piano europeo tra l’Inghilterra e la Russia, doveva necessariamente per­ dere molto del suo interesse. Si sarebbe potuto parlare, quindi, in un certo senso, di un allentamento della pressio­ ne occidentale sul nostro paese, proprio nel momento in cui il nuovo governo De Gasperi mostrava di voler cercare, pili di quanto non avesse fatto il precedente, nella proie­ zione anglo-americana il modo di superare le difficoltà in cui si dibatteva. 240

L’accordo finanziario anglo-americano del 6 dicembre 1945 Già in precedenza, l’accordo finanziario anglo-america­ no firmato a Washington il 6 dicembre 1945 aveva fatto capire come la posizione internazionale della Gran Breta­ gna fosse scaduta nei confronti degli Stati Uniti, L’accordo era diviso in una parte finanziaria e in una parte politica: nella prima il governo americano concedeva a quello in­ glese un prestito di 3.750 milioni di dollari da utilizzare entro la fine del 1951 e da rimborsare in 50 annualità con l'interesse del 2% (la somma ascendeva a 4.400 milioni di dollari comprendendovi il debito netto dell’Inghilterra per le forniture di affitti e prestiti). "Scopo di questo presti­ to,” diceva il testo dell’accordo, "è quello di facilitare la Gran Bretagna nei suoi acquisti di merci e servizi negli Stati Uniti; di saldare il deficit postbellico transitorio della sua bilancia dei pagamenti; di aiutarla a mantenere una adeguata riserva di oro e di dollari e di mettere in grado il governo inglese di assumere l’obbligo di consentire il commercio multilaterale." Con quest’ultimo impegno, che doveva essere assunto dall’Inghilterra, si entrava nella parte politica, che contemplava oltre alla ratifica degli accordi di Bretton Woods, anche l’eliminazione di qualsiasi discri­ minazione che sorgesse dal cosiddetto blocco della zona della sterlina — cioè l’eliminazione di qualsiasi controllo del cambio che potesse avere valore discriminatorio a dan­ no del dollaro ed a vantaggio della sterlina —, e l’allenta­ mento graduale dei vincoli di preferenza imperiale che la Gran Bretagna aveva inaugurato con gli accordi di Ottawa del 1931, poco dopo l’inizio della grande crisi mondiale. Londra si impegnava infine a prendere parte ad una “Con­ ferenza mondiale per il commercio e il lavoro” ed a soste­ nervi questi principi che rappresentavano, per gli Stati Uniti, una esigenza fondamentale onde evitare nuove e pe­ ricolose crisi, mantenere in attività il loro apparato pro­ duttivo e rendere possibile la "piena occupazione." Il perché di questa politica americana era chiarito da Virgilio Dagnino sulla Critica sociale: gli U.S.A. prevedeva­ no annualmente una esportazione di 10 miliardi di dollari contro una importazione di 7 miliardi, con un saldo attivo, perciò, di 3 miliardi da convertire in investimenti all’estero, cioè in un progressivo indebitamento degli altri paesi nei loro confronti. Ebbene, una simile politica di esportazioni eccedenti non avrebbe potuto essere svolta se ad essa si fossero opposti scambi bilanciati, contingentamenti, discri­ 241

minazioni, preferenze e commerci bilaterali. Gli Stati Uniti, perciò, pensavano che fosse meglio far lavorare la mano d’opera ed esportare a credito i prodotti ottenuti piuttosto che lasciarla disoccupata e mantenerla a spese della collet­ tività. Insomma, gli americani pensavano che fosse pre­ feribile finanziare il costo della disoccupazione negli altri paesi, assicurando, però, al loro paese una “maggior stabi­ lità sociale all’interno e una maggior influenza economicopolitica all’estero.’’ L’Inghilterra, invece, aveva interessi esattamente opposti, perché temeva di non poter saldare la sua bilancia dei pagamenti se alla scontata riduzione dei noli e dei proventi dei capitali investiti all’estero (con cui prima della guerra era riuscita a pareggiare il notevole de­ ficit del suo commercio, che vedeva le importazioni supera­ re di quasi della metà le esportazioni), si fosse aggiunta la impossibilità di agevolare le proprie esportazioni mediante accordi bilaterali e preferenze e di diminuire le importa­ zioni mediante contingentamenti. Pertanto, sarebbe stata costretta a ricorrere a nuovi indebitamenti e disinvestimen­ ti all'estero che avrebbero, indubbiamente, segnato il tra­ monto della sua potenza economica ed avrebbero facilitato il sorgere di acuti problemi sociali all’interno. Gli Stati Uniti, per affermare il loro nuovo ruolo nella politica mondiale, dovevano lottare anche contro i "cugini” inglesi, ma fu una lotta breve e che si concluse con la vit­ toria del più forte, anche per la consapevolezza degli inglesi della impossibilità di resistere a lungo. Questo accordo, pe­ raltro, fu accettato dalla Gran Bretagna con una rassegna­ zione quasi fatalistica, che lasciò scorgere un più o meno aperto risentimento: il Times lo disse “un inevitabile com­ promesso” e YEconomist scrisse che l’opinione pubblica britannica era divisa fra coloro che lo ritenevano un male necessario e coloro che lo ritenevano un male puro e sem­ plice. Quest'ultimo periodico affermò anche che gli inglesi vedevano con trepidazione "la loro economia lanciata nelle acque malfide del commercio multilaterale e della libera convertibilità”: evidentemente, essi accettavano l’imposta­ zione àmericana dei problemi del commercio internaziona­ le solo perché vi erano costretti dalla decadenza della lo­ ro posizione, che era stata la conseguenza più dolorosa per loro della guerra, ed anche dalla assoluta necessità, in cui si trovavano, di ottenere il prestito per rimettere in mo­ to la loro economia. Ratificare gli accordi di Bretton Woods, che imponevano il ritorno all’oro, significava sottomettersi alla guida degli U.S.A. ed i laburisti temevano che tale

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ratifica portasse con sé anche ostacoli e difficoltà nell’at­ tuazione del programma di riforme sociali. Questo perché essa avrebbe peggiorato la situazione sociale del paese men­ tre la libertà degli scambi avrebbe forse reso impossibile il pieno impiego (il full employment). Silvio Pozzani os­ servava su Lo Stato moderno che la "libertà” del commer­ cio intemazionale avrebbe potuto annullare l’azione della direzione politica delle economie e che se per il momento i promotori di Bretton Woods si richiamavano ai principi tradizionali, sarebbe venuto presto il momento in cui gli Stati Uniti avrebbero dovuto assumere un “più pronuncia­ to carattere di guida e di orientamento delle stesse attività nazionali,” e ciò mediante "crediti, aiuti ed indirizzi per la divisione del lavoro e fors’anche l’organizzazione e la desti­ nazione di grandi migrazioni internazionali.” Cosi si spiega la posizione subordinata tenuta dall’In­ ghilterra a Mosca nella seconda metà di dicembre e si spie­ ga anche il rifiuto della Russia di aderire agli accordi di Bretton Woods, dato il deciso predominio che essi avevano consentito agli U.S.A. di raggiungere. Senza dubbio, l’U.R. S.S. dovette vedere nella loro accettazione una perdita del proprio prestigio di potenza mondiale. Ma in tal modo veni­ va rafforzata la concezione delle sfere d’influenza come gran­ di spazi autonomi e autosufficienti anche economicamente; d’altra parte, gli Stati Uniti non potevano arrestarsi sulla via della liberalizzazione del commercio intemazionale che rappresentava per loro una necessità assoluta. Il capitali­ smo americano mostrava tendenze espansionistiche che do­ vevano suscitare nei russi un’acuta diffidenza cosi come un’altrettanto acuta diffidenza destava negli occidentali l’e­ spansionismo politico dell’Unione Sovietica, che forse, però, era anche animato dal desiderio di creare uno spazio eco­ nomico veramente indipendente. Infatti, alcuni mesi più tardi, il 28 giugno, la rivista svizzera Die Weltowche, deli­ neando i mutamenti nella politica sovietica dal 1939 in poi e le caratteristiche deU’immediato dopoguerra, scriveva che la Russia dimostrava una crescente tendenza ad iniziative di carattere economico al di là dei propri confini: il che era dimostrato dalla fondazione di società in Romania, in Ungheria, in Polonia e in Austria, e dalla penetrazione eco­ nomica nei paesi arabi e nell’America latina, dove era­ no sorte, in breve tempo, numerose delegazioni sovieti­ che. Ma la stessa rivista, considerando come l’attrezzatura industriale dell’U.R.S.S. fosse troppo debole per le espor­ tazioni che una simile complessa organizzazione all’estero 243

lasciava prevedere, affermava che tale attrezzatura assume­ va più che un valore offensivo, un valore difensivo. La prima sessione dell’U.N.O. a Londra

Già si poteva intravedere, perciò, in questo contrasto, l’origine dei più gravi contrasti futuri fra l’U.R.S.S. e gli U.S.A, cosi come l’origine di altri non meno gravi contra­ sti si potè scorgere nell’acuto dissidio che oppose gli in­ glesi ai russi durante la prima sessione dell’U.N.O. (United Nations Organisation), che si apri a Londra il 10 gennaio 1946, nell’anniversario della Società delle Nazioni, costi­ tuita appunto il 10 gennaio 1920. Si cercò, fin da allora, di comprendere i motivi di questa tensione fra il governo la­ burista e il governo sovietico — una tensione sconosciuta quando era al potere il conservatore Churchill —, e la ri­ vista britannica Tribune, diretta da Aneurin Bevan, cre­ dette di trovarli nel convincimento diffuso in Russia che l’Inghilterra avesse cessato di essere una grande potenza e che l’Impero britannico fosse in disgregazione; inoltre li additava nel disprezzo, radicato nella mentalità comunista, per tutto ciò che avesse nome laburismo o socialdemocra­ zia, che avrebbe potuto costruire uno Stato né reazionariocapitalista né bolscevico, uno Stato democratico-socialista, tale da costituire un esempio per gli altri paesi da sottrarre, in tal modo, all’influenza sovietica. Luigi Salvatorelli, invece, nella rivista da lui diretta La Nuova Europa, scrisse che con il Churchill i russi potevano discutere e giungere ab­ bastanza facilmente ad un accordo basato sulla divisione dell’Europa e del mondo in sfere d’influenza, mentre i la­ buristi erano orientati diversamente, in quanto miravano a una collaborazione intemazionale e conducevano una po­ litica che escludeva l’attribuzione di uno Stato o di una sua parte al dominio privilegiato altrui. Insomma, se tra Stalin e Churchill le questioni si era­ no poste unicamente sul piano della forza e degli inteiessi, fra Stalin e Attlee, invece, erano venute a porsi sul pia­ no dei principi. Ma scartando le due spiegazioni labu­ riste, che apparivano forse troppo ideologiche, quest’ultitima del Salvatorelli aveva maggiori apparenze di verità, sebbene anch’essa chiarisse l’atteggiamento del nuovo go­ verno inglese in modo che sembrava non corrispondere del tutto alla verità: perché i laburisti a Potsdam non avevano affatto reagito contro le zone d’influenza, anzi le 244

avevano accettate probabilmente con maggior condiscen­ denza di quanto non avesse intenzione di fare il Churchill. Anche a Mosca, nel dicembre, si erano rammaricati che l’accordo fra l’U.R.S.S. e gli U.S.A. si fosse fatto, per cosi dire, sulle loro teste, tagliandoli fuori, ma non avevano messo in dubbio la validità di quella grande spartizione mondiale. E, poi, non avevano mai cercato di appoggiarsi alle piccole nazioni, che sarebbe stata l’unica forza a loro disposizione per affermare veramente la collaborazione de­ mocratica internazionale. La verità era che, come ricono­ sceva lo stesso Salvatorelli, una volta sistemati i proble­ mi dei Balcani e una volta stabilito l’accordo mondiale fra gli americani e i sovietici, Inghilterra e Russia si in­ contravano con interessi divergenti nel Mediterraneo orien­ tale e nel Medio Oriente ed in quel momento tutt’e due le grandi potenze mostravano di non voler cedere all’av­ versario: “Quando interessi essenziali di due grandi poten­ ze s’incontrano nella stessa zona, l’espediente delle sfere d’influenza, che presuppone appunto una separazione di zo­ ne, sia pure contigue, non funziona più. Ci vuole qualche altra cosa: o un condominio o un regime imparziale supe­ riore, supernazionale.” E proprio queste due soluzioni era­ no rese impossibili dalla intransigenza della Gran Bretagna e dell’Unione Sovietica. Dopo i primi giorni di apparente concordia, il dissidio scoppiò improvviso quando, il 16 gennaio, il governo del­ l’Iran annunciò di voler affidare al Consiglio di sicurezza la soluzione della sua vertenza con la Russia (si lamenta­ va che la presenza delle truppe sovietiche nell’Azerbaigian gli impedisse di soffocare il movimento separatista di quel­ la regione). Bevin intervenne in favore della Persia e ciò provocò un violento attacco del delegato sovietico, Vishynskij, all’Inghilterra e l’accusa da lui rivolta alle truppe bri­ tanniche in Grecia di turbare l’ordine in quel paese e di dare un appoggio all’oppressione reazionaria. Accusa che fu, poi, estesa alle forze inglesi in Indonesia, dove, esse, ser­ vendosi anche di milizie giapponesi, aiutavano l’Olanda a soffocare le aspirazioni all’indipendenza di quelle popola­ zioni indigene. Alcuni funzionari americani dichiararono che "il periodo della luna di miele dell’U.N.O. [era] ormai finito” e che, pur non potendosi parlare di crisi, si era di fronte a problemi molto difficili da risolvere. Gli stessi funzionari ritenevano che gli Stati Uniti avrebbero svolto una funzione pacificatrice tra il Regno Unito e l’Unione So­ vietica; e, in effetti, gli U.S.A. erano in condizioni favore­ 245

voli per svolgere una tale funzione, non avendo questioni pendenti con la Russia e non avendo ancora elaborato una efficiente politica per le zone in contrasto. Ma questa ope­ ra di mediazione si presentava piuttosto difficile ed alla Gran Bretagna conveniva provvedere da se stessa direttamente; a tal fine, avendo bisogno dell’attiva partecipazio­ ne alla contesa dei governi greco e indonesiano, che soli avrebbero potuto dichiarare utile la permanenza degli in­ glesi sul loro territorio, dovette prendere posizione in fa­ vore delle piccole potenze e cercare di aumentare il loro peso nell’organizzazione. Il che significava attribuire mag­ giore importanza all’Assemblea generale in confronto al Consiglio di sicurezza; e per questa via, infatti, parve vo­ lersi mettere il Bevin, incontrando la recisa opposizione dell’ambasciatore sovietico a Londra, Andrej Gromyko, il quale affermò che il tentativo di opporre le piccole poten­ ze alle grandi non poteva essere guardato con simpatia dall’U.N.O. Secondo lui, inoltre, le critiche rivolte da più par­ ti alla Carta di San Francisco, che sarebbe stata "superata," tanto da dover essere "riveduta,” erano pericolose. Ma il contrattacco russo non si fermò qui, e lo stesso Gromyko accennò chiaramente a quella che sarebbe stata la linea della delegazione sovietica nel ribattere le accuse dell’In­ ghilterra, quando sostenne la necessità di creare un valido sistema di tutela all’interno dell’U.N.O., affermando che es so sarebbe stato uno strumento capace di far giungere ì territori dipendenti ad uno “status” di indipendenza na­ zionale. Perciò, la Russia rispondeva all’appoggio alle piccole nazioni concesso dalla Gran Bretagna, appoggiando, a sua volta, le aspirazioni alla indipendenza dei popoli sottomes­ si, soprattutto asiatici, che allora sembravano i più ma­ turi per tale importante passo. Non si parlava ancora delle popolazioni africane e questo lasciava capire come la mos­ sa dell’U.R.S.S. fosse un altro episodio della lotta per estendere la propria influenza nel Medio Oriente e nell’Asia sud-orientale. Ad ogni modo, l'iniziativa sovietica apri un processo destinato a ben più importanti sviluppi: infatti, il Bevin annunciò di voler trasferire aH’amministrazione fiduciaria dell’U.N.O. tre territori africani sottoposti al mandato della Gran Bretagna: Tanganica, Camerun e To­ go; di voler prendere le misure necessarie perché la Transgiordania ottenesse al piu presto lo "status” di paese in­ dipendente e sovrano, e, infine, di attendere i risultati di una Commissione d’inchiesta anglo-americana in Palestina 246

per decidere sul futuro assetto della regione. A questa di­ chiarazione fece séguito un’analoga dichiarazione della Francia per le zone francesi del Togo e del Camerun e, poi, una proposta degli U.S.A., redatta dal delegato John Fo­ ster Dulles, per la trasformazione in mandati di tutti i possedimenti coloniali delle grandi e delle piccole nazioni nonché per il riconoscimento delle “legittime aspirazioni dei popoli indebitamente privati del diritto di autogover­ no.” Il progetto Dulles chiedeva che la Carta delle Nazio­ ni Unite venisse estesa a tutti i popoli, e non solo agli abitanti dei territori soggetti a mandato e come tali dipen­ denti dal Consiglio fiduciario, facendo presente che soltan­ to un milione di persone si trovavano nella seconda condi­ zione, mentre la cifra dei popoli coloniali, senza contare gli indiani, ascendeva a oltre 300 milioni: “Queste popo­ lazioni,” scriveva il Dulles, "si trovano in condizioni par­ ticolarmente disagiate e sarebbe quindi grave errore pri­ varle dei benefici concessi ai popoli dei territori soggetti a mandato.” Si era determinata, come si vede, una conver­ genza fra le due grandi potenze — U.R.S.S. e U.S.A. — anti-colonialiste, e la proposta americana, cosi come la ri­ chiesta sovietica, andava al di là delle modeste e caute intenzioni britanniche, le quali forse contavano anche sul fatto che, come si faceva osservare, il trasferimento all’U.N.O. non avrebbe avuto per il momento che un valore simbolico, poiché avrebbe acquistato un carattere pratico soltanto il giorno in cui fosse subentrata la vera ammini­ strazione consorziale delle Nazioni Unite, intesa a conce­ dere, secondo i postulati della Carta Atlantica, la gradua­ le indipendenza alle popolazioni indigene. Tuttavia, si vide chiaramente che la mossa russa ave­ va solo il valore di una ritorsione contro la Gran Breta­ gna, perché essa fu lasciata cadere quando il governo del­ l’Iran consenti a intavolare trattative dirette, dando cosi modo all’U.R.S.S. di escludere ogni ingerenza dell’U.N.O. La questione dell’Indonesia, poi, si spense in séguito alla dichiarazione dell’Olanda di essere disposta a concedere gradualmente l’indipendenza all’isola; e, infine, l’altra que­ stione della Grecia si chiuse senza che all'Assemblea fosse consentito di esprimere, per Topposiizione della Russia, il suo giudizio quasi unanimemente favorevole all’Inghilter­ ra e Vishynskij accettò soltanto la proposta che il Pre­ sidente esprimesse un suo personale giudizio di giustifi­ cazione dell’azione britannica. Questi tre problemi occupa­ rono l’attenzione generale e fecero passare in secondo pia­ 247

no la discussione sulle colonie; neppure un uomo politico cosi acuto come Harold Laski, in un articolo di commento a questa prima sessione {Il duro cammino verso la pace), mostrò di avere capito l’importanza di quella discussio­ ne: “Tutto sommato, ci avviciniamo visibilmente alla pa­ ce. Dobbiamo, però, preparare le nostre menti a renderci conto di quanto sia ancora lunga e dura la via da percor­ rere. La mancata soluzione del problema persiano, le nu­ vole temporalesche nel Medio Oriente, in Grecia ed in In­ donesia, il futuro della Germania e l’oscurità nella quale si celano i risultati della conferenza di Bretton Woods, do­ vrebbero ricordarci che la nostra pazienza deve essere proporzionata alle difficoltà.” Certo, il Medio Oriente, la Germania, l’Indonesia e le conseguenze economiche di Bret­ ton Woods, con la implicita tendenza del capitalismo ame­ ricano ad abbracciare tutto il mondo, erano problemi, per cosi dire, permanenti, a differenza di quello della Grecia che poteva dirsi un problema temporaneo; ma un proble­ ma permanente si sarebbe ben presto rivelato anche quello coloniale e la nuova età sarà dominata dal risveglio de­ gli uomini di colore e dal loro desiderio di porre termi­ ne ad una soggezione secolare. Un risveglio ed un desi­ derio che a noi italiani può forse ricordare la passione e la fiduciosa attesa di un mondo migliore che ci hanno gui­ dato nel secolo scorso alla conquista della indipendenza.

Congressi di partiti: del partito comunista... L’indebolimento del partito d’azione, che era stato uno dei risultati più manifesti dell’ultima crisi governativa, e la fine della sua funzione di ponte fra gli opposti gruppi dello schieramento politico, imponeva agli altri partiti di provvedere essi stessi direttamente ad evitare che si al­ largasse l’eventuale frattura. Il più sollecito ad avvertire tale esigenza, e forse anche il più preparato ad essa per la costante politica di unità perseguita ormai da circa un decennio, fu il partito comunista, che tenne a Roma, il suo primo congresso dal 29 dicembre 1945 all’8 gennaio 1946. Il Togliatti e il Longo ne furono i protagonisti: il primo pronunciò un discorso, definito dalla Nuova Europa, "il più poderoso discorso politico pronunciato in Italia dalla caduta del fascismo ad oggi,” in cui fece del suo partito il perno della costruzione di una democrazia ita­ liana liberale e sociale mediante intese con gli altri par­ 248

titi ed in cui rivendicò alle classi lavoratrici l’eredità dei momenti migliori del Risorgimento e la difesa dei valori nazionali: indipendenza, unità politica e morale, libertà. Era, questa, l’impostazione che degli attuali rapporti bor­ ghesia-proletariato aveva dato il Gramsci nelle sue medita­ zioni del carcere, quando aveva fatto del secondo il con­ tinuatore dello spirito progressivo borghese dell'Ottocen­ to; ma era implicita in tale impostazione la denuncia del­ la borghesia come classe divenuta reazionaria, come clas­ se, perciò, che aveva perduto il diritto di mantenere la direzione politica del paese. Invece, il Togliatti, per la sua politica di larghe alleanze democratiche anche con le cor­ renti borghesi, aveva bisogno di credere in divisioni e con­ trasti nel fronte reazionario, nella esistenza di gruppi bor­ ghesi, oscillanti e disposti ad allearsi con la classe operaia nella lotta per la democrazia. Questo, disse Mauro Scoccimarro nel discorso di chiusura al congresso della Federazio­ ne provinciale milanese, significava "superare ogni formali­ smo e comprendere dialetticamente la realtà nel suo mo­ vimento e nel suo sviluppo”; era una politica che portava a fare distinzione fra i capitalisti disposti a impiegare i loro capitali per realizzare un profitto medio normale e i capitalisti che volevano assicurarsi profitti eccezionali, di pura speculazione. Si trattava, insomma, di una posizione che cercava di non rigettare a fianco dei gruppi reaziona­ ri anche quelli che avrebbero potuto essere alleati dei co­ munisti e impedire il loro isolamento; di una posizione che puntava ancora su quella unità di tutte le forze de­ mocratiche, che aveva fatto cosi buone prove recentemen­ te, durante la lotta di liberazione. Ma accanto a questa linea ne esisteva un’altra, a cui il p.c.i. mostrava di tenere non meno della prima, ed era la linea dell’unità d’azione con il partito socialista; toccò al Longo prospettare al congresso l’esigenza di avviare a poco a poco i due partiti verso la fusione, verso l’unità orga­ nica. Egli polemizzò piuttosto duramente contro gli anti­ fusionisti e si propose di sottrarre il problema al piano sentimentale e psicologico, sul quale era rimasto confinato sino allora, per porlo su un piano strettamente politico; alla fine lanciò la proposta di una federazione fra i due partiti tale da realizzare un’unità più intima pur senza giungere subito alla fusione. Come si vede, i comunisti con­ tinuavano nella duplice politica che avevano iniziato da tempo, dal fronte popolare del 1936, da un lato cioè allean­ za con le forze democratiche (che in questo congresso ven­ 249

nero identificate, secondo la ormai tradizionale tendenza a ricercare una intesa con l’altro partito di massa, quello cattolico, nella democrazia cristiana, alla quale il Togliat­ ti rivolse l’invito per una collaborazione più intima), e, dal­ l’altro, fusione con il partito socialista. Alla base di questa duplice politica c’era, evidentemente, una fondamentale in­ certezza sulla condotta da seguire, se convenisse cioè for­ mare un blocco social-comunista per abbreviare la marcia verso una società socialista, oppure realizzare una unità più ampia anche con altri partiti per costruire un regime democratico che contenesse solo alcuni dei postulati più schiettamente di classe. Le due politiche a stento si accordavano, o almeno si accordavano solo in quanto i comunisti opponevano all’in­ vito rivolto nell’ottobre dai socialisti ai democristiani — in cui poteva nascondersi il grave pericolo della loro esclu­ sione —, "un’altra formula,” come scrisse Celeste Negarville su Rinascita: "patto di unità d’azione con i socialisti, e sviluppo di questo patto verso il partito unico; patto politico con la democrazia cristiana che saldi i tre partiti di massa, i quali hanno nelle loro mani l’avvenire della democrazia italiana." La fondamentale incertezza dei comu­ nisti risaltò chiaramente nella mozione finale, pubblicata Γ8 gennaio '46, che prudentemente accennava alla richiesta di una "repubblica democratica dei lavoratori," correggen­ dola, però, subito dopo, con una specie di celebrazione del regime democratico parlamentare. Anche il programma era moderato, soprattutto là dove si parlava di diffusione della piccola e media proprietà contadina (il p.c., pertanto, era rimasto fedele alla sua primitiva impostazione, senza riflet­ tere sul sostanziale conservatorismo di tale piccola pro­ prietà); sosteneva che la repubblica avrebbe dovuto essere proclamata dalla Costituente sovrana (affermazione, que­ sta, comune, in un primo tempo, alle sinistre, ma che, poi, dovette essere modificata quando le destre, abilmente, richiesero dapprima il referendum, e, poco dopo, il voto obbligatorio), e che sarebbe stata la repubblica stessa ad attribuire l’autonomia regionale alle isole, a nazionalizzare i grandi monopoli, a iniziare la pianificazione nazionale, a istituire i consigli di gestione per il controllo della produ­ zione, a riformare i patti agrari, grazie all’unione delle for­ ze democratiche nei C.L.N., e grazie, in particolare, alla democrazia cristiana, alla quale veniva rivolto un aperto invito per una “più fattiva ed esplicita collaborazione po­ litica"; sembrava, pertanto, che i comunisti si accontentas­ 250

sero, per il momento, di un programma democratico limi­ tato e di un risultato politico relativamente modesto, sod­ disfatti della continuazione della collaborazione a livello esarchico di potere. Pertanto, si poteva comprendere come il Negarville affermasse che era stato proprio e soltanto il suo partito a ricercare, per il primo in Italia, uno stabile patto con la democrazia cristiana; in tal modo, il p.c.i. cer­ cava di togliere al p.s.i. la possibilità di agire in tale di­ rezione. Questo spiega la reazione estremamente cauta dei socia­ listi all’invito del Longo: il Nenni sostenne, al comitato centrale del suo partito, che il problema della fusione si poneva come prospettiva da realizzare e che i socialisti do­ vevano continuare ad esercitare la loro funzione per via non divergente ma confluente alla stessa meta; e Alberto Jacometti ripetè, su Socialismo, che il problema era di "prospet­ tiva e non di attuazione” immediata, soprattutto perché il partito socialista non era “maturo per passare alle moda­ lità dell’unificazione" e poi anche perché la presenza del p.s.i., "nello stato di fluidità della struttura politica italiana di oggi,” era "effettivamente un elemento di unione e di saldatura"; se esso fosse venuto a mancare si sarebbe crea­ to nelle masse lavoratrici, e in particolare nelle cattoliche, uno sbandamento e un irrigidimento nefasti alla politica stessa dell’unità. I socialisti, pertanto, non credevano che il p.c.i. potesse assolvere direttamente a quell’opera di media­ zione che pensavano riservata a se stessi, e, naturalmente, ritenevano che i due gruppi contrapposti avessero interessi divergenti che si dovevano armonizzare (secondo il Nenni, che tenne la relazione inaugurale, al comitato centrale so­ cialista del 7 gennaio '46, i comunisti avrebbero dovuto sot­ trarre le masse all’estremismo, mentre al suo partito sa­ rebbe spettato di “garantire e potenziare il contenuto demo­ cratico del blocco dei lavoratori e prolungarlo verso ceti e partiti che lo spettro del bolscevismo rischia di respingere a destra” e ciò mediante una intesa permanente con la demo­ crazia cristiana, tale da liquidare definitivamente il blocco delle sinistre, di cui, allora, da molte parti, si parlava). In tal modo, rivendicavano la loro utilità, che si era fatta piu importante dopo la crisi governativa, la quale aveva visto il fallimento del p.d’a. Del resto, se il p.c.i. mostrava di vo­ lersi porre ormai apertamente come partito di governo, era quasi impossibile che il p.s.i. si irrigidisse in una politica massimalistica, ché tale significato avrebbe avuto la fu­ sione. 251

Se l'invito comunista non fu raccolto dai socialisti, non migliore fortuna incontrò presso i democristiani: la va­ gheggiata unità delle forze democratiche, che era un ricor­ do della Resistenza, si rivelava impossibile, impostata, come era, al vertice, una unità che si sarebbe dovuta stabilire fra le direzioni dei partiti. Ormai, e ciò appariva molto chiaro dopo la caduta del Parri, le varie correnti tendevano ad assumere una propria posizione sui diversi problemi della vita nazionale, e lo stesso Togliatti dovette polemizzare aspramente contro la proposta, che riconobbe fatta dai de­ mocristiani e accettata dai liberali, di introdurre il voto ob­ bligatorio. Si trattava, quindi, di posizioni contrastanti che rendevano molto difficile e ipotetica una alleanza. Era, in un certo senso, inevitabile che ci si avviasse ormai alla Co­ stituente attraverso una lotta politica più aperta e differen­ ziata ed era veramente assurdo nutrire la speranza che po­ tesse continuare l’unanimità del Comitato di Liberazione. Cosi, la risposta negativa della d.c. venne dal suo Consiglio nazionale, in cui essa deliberò che il partito affermasse "nel­ le prossime lotte elettorali amministrative la sua fisionomia autonoma, presentando liste proprie"; perciò, all’unanimità, la d.c. opponeva la necessità di una lotta sul proprio pro­ gramma per la conquista del potere. Era cominciata, dun­ que, l’era democristiana, che, secondo l’“Uomo Qualunque” del Giannini, aveva significato la fine del “«ellenismo”; la liquidazione degli azionisti, i quali, come “più pericolosi, settari, non sanno cosa vogliono, hanno il solo programma di comandar loro e si credono tutti padreterni”; la fine dei socialisti, "scombinati, divisi, vaniloquenti, dottrinari a freddo, né carne né pesce”; la condanna e la smascheratura dei comunisti, "molto meno numerosi di quanto van­ no dicendo, ma organizzati, sicuri di quel che vogliono, ben diretti da un cervello centrale, assolutamente mancanti di uomini di primo piano, pieni di soldi spesso spesi male, amici infidi, nemici spietati, ma sempre disposti a transi­ gere, accordarsi, combinare. L’ideale dell’Uomo Qualunque affascina i comunisti ed è principalmente per questo che i loro capi intelligenti (sono pochi però) lo temono tanto. A patto di non averne paura, si fa quel che si vuole dei comunisti: abbiate sempre presente che la grandissima maggioranza dei comunisti non sa cos’è il comuniSmo e basta spiegar loro il nostro programma, con calma se sono calmi, strillando più di loro se strillano, per tirarli dalla nostra parte.” Lo schieramento di destra, dunque, era or­ mai ben definito, poiché, accanto alla democrazia cristiana 252

— forte anche dell’apporto della sterminata massa di pic­ coli proprietari — e al partito liberale, si poneva, con mag­ gior consapevolezza di determinati interessi di classe da difendere, il movimento dell'“ Uomo Qualunque,” mentre lo schieramento di sinistra — costituito soltanto dal partito comunista e da quello socialista — non sembrava che po­ tesse reggere al forte urto degli avversari. In realtà, a parte il proletariato del nord, che i due partiti si disputa­ vano fra loro con accanimento, diventando, in tal modo, quasi nemici pili che alleati, non si vedeva su quali altri strati sociali avrebbero potuto appoggiarsi, tranne i mez­ zadri del centro della penisola e qualche sparuto gruppo di intellettuali.

...del partito socialista...

La condizione dei socialisti era diventata molto difficile dal momento che i partiti comunisti si erano trasformati, come scriveva il Morandi su Socialismo, da piccole mino­ ranze omogenee in partiti compositi di grandi masse, sfor­ zandosi di esercitare attrazione sulle varie categorie sociali e svolgendo propaganda per l’idea democratica e la libertà dell’individuo nella società: era stata una evoluzione sostan­ ziale che aveva sospinto i partiti comunisti stessi, "di là dai fini diretti, verso le posizioni originarie del socialismo.” In tale situazione, al p.s.i. rimaneva la possibilità di tre soluzioni: o affrettare l’unità organica con il p.c.i.; o re­ spingere tale unità, dichiarando di vedere in essa praticamente la messa in liquidazione del partito; o, infine, pre­ sentare la fusione come un problema da realizzarsi gra­ dualmente, a lunga scadenza. La prima soluzione era soste­ nuta dal segretario della C.G.I.L., Oreste Lizzadri, la secon­ da dal gruppo di Critica sociale, e la terza da quello di Quarto Stato, che faceva capo a Lelio Basso. Evidentemente, si trattava di soluzioni che portavano con sé anche una profonda differenza nella valutazione dei compiti e della funzione del socialismo e dei suoi rapporti con le altre correnti. Infatti, i fusionisti erano convinti che, una sola essendo la classe rappresentata dal p.s.i. e dal p.c.i., non potessero esservi due tattiche e due partiti ed avvertivano, anche se quasi inconsapevolmente, la loro inferiorità nei riguardi del partito fratello più forte e, perciò, affermavano la necessità di realizzare l’unità attorno all’avanguardia militante della classe operaia, che era quella rappresentata 253

appunto dai comunisti; gli anti-fusionisti, invece, partendo da una rigorosa distinzione fra il metodo comunista — pre­ valenza e infallibilità del Partito, guida e depositario degli interessi della classe operaia sulla massa che lo seguiva — e quello del socialismo democratico, sostenevano che l’uni­ ficazione delle classi lavoratrici dovesse avvenire come gra­ duale conversione verso il socialismo democratico delle masse ancora in preda al leninismo, con il quale non po­ teva esserci alcuna possibilità di conciliazione: "Bisogna scegliere: o l’uno o l’altro; e l’uno esclude l'altro." Le due tendenze si definivano come sinistra e destra e mentre la prima si rinchiudeva in un rigido operaismo che lo stesso partito comunista mostrava di avere superato per una po­ litica più elastica ed anche indiscriminata di solidarietà nazionale, la seconda avvertiva come preminente il proble­ ma dei ceti medi, pur affermando di non voler svolgere soltanto "una particolare politica dei ceti medi.” Da queste premesse derivavano importanti differenze nel campo dell’azione contingente e quotidiana, poiché la sinistra voleva affrontare le lotte politiche ed elettorali strettamente alleata con il p.c.i., a differenza della destra che richiedeva si accordi con il p.c.i. ma anche con altri gruppi e partiti, partito d’azione, partito repubblicano, ed eventualmente anche con la d.c., a patto che questa si mantenesse aconfessionale e resistesse a quei gruppi che ne volevano fare una forza di conservazione. Perciò, la de­ stra doveva riaffermare l’insostituibile funzione del p.s.i. in una politica piu largamente democratica, di cerniera fra il proletariato e gli altri strati della popolazione e, di conseguenza, doveva nutrire diffidenza e sfiducia verso la nuova condotta del partito comunista, che Critica sociale definiva "popolaresca” o “populista” e che sembrava rinne­ gare lo “specifico armamentario leninista, l’ateismo, l'internazionalismo e il classicismo” ("Nessuno potrà negare che il P.C. non ha mutato la sua struttura interna autoritaria e gerarchica”), una diffidenza che la sinistra mostrava di non avere, molto probabilmente perché essa non si poneva neppure il problema di una politica che oltrepassasse i limiti della classe. In realtà, il contrasto fondamentale tra le due ali socialiste riguardava le prospettive per il futuro, in quanto se gli unitari credevano o speravano in una non lontana conquista del potere da parte delle classi lavora­ trici e, pertanto, volevano formare un solo blocco con i comunisti per meglio sfondare le eventuali resistenze, gli anti-unitari invece non avevano tale speranza e pensavano 254

I

che la conquista fosse possibile "per le vie della legalità attuata con metodo democratico,” e insistevano sulla effi­ cacia delle riforme prospettate per capovolgere l'ordina­ mento politico dello Stato e avviare alla organizzazione collettivistica dell’assetto sociale. A tal fine, pertanto, que­ sti ultimi avrebbero voluto che si definisse con chiarezza che cosa i socialisti intendessero per riforma industriale, agraria, e cominciassero "ad abbozzare un disegno del nuo­ vo ordinamento e a indicare il modo in cui [avrebbe do­ vuto] essere creato, con quali fini, con quali gradualità di trapassi, con quali garanzie di ogni legittimo interesse”: tutte questioni alle quali i fusionisti non prestavano quasi attenzione, presi com’erano dalla prospettiva del prossimo rivolgimento. Era possibile scorgere in questo contrasto l’eco ancora viva del tradizionale dissidio fra massimalisti e riformisti, sebbene adesso tutti respingessero recisamente un simile ricordo; il fatto era che il partito socialista si rivelava, fra tutti i partiti democratici, quello più vecchio, che meno si era rinnovato con una aderenza sentita ai nuovi proble­ mi e che più, perciò, stentava a ritrovare una sua diversa via ed a giustificare effettivamente la sua funzione. Sia l’una sia l’altra corrente facevano del p.s.i. lo strumento di una politica che trovava il suo centro al di fuori di se stesso: nel partito comunista o nei ceti medi e non riu­ scivano ancora a porsi per la strada della direzione dello Stato, strada che avrebbe dovuto condurre le masse popo­ lari a diventare la nuova classe dirigente del paese. I so­ cialisti continuavano a discutere sulla gradualità delle ri­ forme o sulle prospettive rivoluzionarie, come avevano fat­ to quando, dal 1919 al 1922, avevano determinato la loro sconfitta, motivata forse più che dagli attacchi fascisti dalla loro arretratezza ideologica e politica, che anche allora era profonda e grave. Per il congresso del partito, che si tenne a Firenze dall’ll al 17 aprile, le posizioni erano, pertanto, ben definite, ina si era capito che la tendenza di sinistra avrebbe avuto scarse possibilità di successo quando lo stesso segretario, Morandi, prese posizione, con un lungo articolo su Socia­ lismo, in favore di un "chiarimento sostanziale” dei rap­ porti con il partito comunista, essendosi resa manifesta la “inattualità” dell’unità organica. Il proletariato doveva pro­ cedere ancora “per vie parallele,” che non si intersecassero se non si volevano creare dannosi punti di frizione; di con­ seguenza, occorreva rivedere il patto d’unità d’azione per 255

evitare ‘‘un fatale inasprimento dei rapporti fra i due partiti." Forse, solo il Morandi, rappresentante della ge­ nerazione che era passata attraverso il tormento della vittoria del fascismo, aveva chiari i compiti del partito socialista nella nuova situazione: egli, infatti, diceva supe­ rata l’antitesi tra riformismo e massimalismo: "Non si tratta più di scegliere nelle condizioni attuali fra l’inseri­ mento possibile in una democrazia in atto ed una intransi­ gente opposizione di classe, bensì di fondare sulle rovine dello Stato nuovi ordinamenti a tutela della libertà ricon­ quistata contro il fascismo, e di costruire una nuova de­ mocrazia che sia aperta all'ascesa delle classi popolari.” Al congresso si scontrarono con violenza, tanto da far credere, come disse Guido Mazzali, che il partito fosse sul­ l'orlo di una decisione gravissima, la "visione umanistica” di un Saragat con quella "classista” di un Basso: parve che si fosse di fronte a due concezioni della vita e della storia, a due modi di condurre la lotta politica, a due modi di intendere questa lotta. Ma il pericolo di scissioni, inevita­ bile fino a quando la discussione si manteneva sul piano ideologico, fu evitato dalla votazione che vide gli ex-fusio­ nisti raccogliersi su una mozione di base (in cui era affer­ mata la necessità dell’autonomia e dell’indipendenza del partito e si diceva che non esisteva una questione di fu­ sione con il p.c.i. ma solo una questione di unità della classe lavoratrice), e gli autonomisti dividersi fra due mo­ zioni, una detta "unificata” e l’altra di Critica sociale: la prima riportò 338.346 voti, la seconda 300.062 e la terza 83.761. L’Avanti! scrisse che dal congresso non uscivano né vinti né vincitori, mentre Ugo Guido Mondolfo sulla Cri­ tica sociale affermò che le mozioni nettamente autonomi­ stiche avevano ottenuto una maggioranza di circa 50.000 voti, maggioranza non grande in confronto al numero dei votanti, ma significativa soprattutto se si teneva conto del­ la decisione del Consiglio nazionale del luglio 1945. La dire­ zione, però, a confermare l’equilibrio delle due correnti, risultò composta da 7 "basisti” e da 7 anti-fusionisti, con un segretario, Ivan Matteo Lombardo, al di sopra delle tendenze ma più favorevole a questi ultimi. Erano risultati che mettevano un freno alla politica di unità organica con i comunisti, i quali fecero subito capire il loro vivo disappunto: L'Unità, il 19 aprile, parlò di "una tendenza sostanzialmente antimarxista” che tentava di farsi strada nel movimento operaio, di una "ideologia e di una 256

linea politica estranea al movimento operaio" stesso; e due giorni dopo, il Togliatti ripetè che il congresso socialista era stato "il teatro di un'azione organizzata e predisposta per spezzare l’unità tanto del Partito socialista quanto della classe operaia e dei lavoratori italiani.” Ma era impossibile che i socialisti potessero rinunciare alla politica di allean­ ze democratiche che avevano iniziato nell’ottobre 1945, po­ litica che aveva condotto al governo De Gasperi, da essi ri­ tenuto un successo, e che era stata approvata anche dai co­ munisti nel loro congresso fra il dicembre e il gennaio; e se l’intesa con altre forze politiche era consentita al p.c.i., non si vedeva perché il p.s.i. dovesse essere accusato di tradi­ mento se la tentava anch’esso. Soprattutto quella rinuncia era resa impossibile dai risultati delle recenti elezioni am­ ministrative, svoltesi il 10, 17, 24, 31 marzo e 7 aprile, che avevano confermato la simpatia di vasti strati della popo­ lazione per il partito socialista, uscito dalla consultazione con una forza quasi pari, se non superiore, a quella del partito comunista.

...del partito d'azione... Inoltre, nel frattempo si era avuta la quasi totale scom­ parsa del partito d’azione che aveva riportato nelle ammi­ nistrative un numero molto limitato di voti e che aveva subito una scissione con l’uscita dal partito del Parri, del La Malfa e dello Spinelli, i quali avevano fondato il "Mo­ vimento democratico repubblicano" (11 febbraio). Questa scissione era avvenuta dopo il 1° congresso azionista tenu­ to a Roma dal 4 all’8 febbraio, in cui si era rivelato un contrasto definito dall’Italia libera “drammatico." In effetti, le due anime, che avevano sempre travagliato questo par­ tito, quella democratica e quella socialista, si scontrarono con violenza e ne usci la vittoria dell’ultima, della socia­ lista. Era un successo, in certo qual modo, scontato e lo­ gico, dal momento che la recente crisi governativa aveva finito con il negare validità politica alla posizione demo­ cratica del p.d’a. e dal momento anche che quella funzione di ponte fra gli opposti gruppi era stata assunta direttamente dai partiti socialista e comunista. Certo, questo nuo­ vo orientamento azionista, adesso che era stato ufficial­ mente definito, fu accolto con manifesta avversione dall'Unità e dall’Avanti! ·. sulla prima Paimiro Togliatti si ram­ maricò, T8 febbraio, che gli azionisti si fossero intestati a H.9

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voler percorrere una strada che non era la loro, cioè la strada del socialismo che era già occupata da un grande partito [evidentemente, il suo]; Ibernato indirizzo politico” aveva portato il partito al fallimento per non aver voluto risolgersi ai quei ceti antifasoisti e democratici che non po­ tevano né volevano essere socialisti o comunisti e che, nu­ merosissimi, avrebbero potuto sostenere "un grande, forte Partito.” Il 10 febbraio, Guido Mazzali, sull’Avanti!, riprese con un titolo più aspro, “Suicidio,” questa critica, trovando inconcepibile un partito d’azione che si ponesse di gareg­ giare con il partito socialista: "tradisce i ceti medi e non aderisce alle masse popolari [...]. Vergognandosi di essere liberalismo borghese e non osando di essere socialismo pro­ letario, avrebbe potuto, il Partito d'Azione, attrarre e com­ porre in una sia pur inclinabile armonia tutti quei piccoli e friabili gruppi nei quali si disegna il centro del panora­ ma politico italiano.” Era evidente che i socialisti ed i comunisti avrebbero voluto che gli azionisti li coprissero sulla destra e contri­ buissero a tenere legati ad una politica democratica quegli strati incerti, che altrimenti sarebbero stati attratti dalle correnti di destra. Ma si trattava di uno schema che non teneva alcun conto della realtà, di quella realtà che aveva segnato l’esaurimento del p.d’a., un partito che aveva pun­ tato su un rinnovamento profondo della società italiana ed intemazionale e che era nato per "portare," come scri­ veva G. Baldacci sullo Stato moderno, "alle ultime con­ clusioni tutte le lezioni precedenti della politica italiana: crisi cronica del partito socialista; abdicazione dello Stato liberale, incapacità delle vecchie formazioni di sinistra a diventare governo." Ma erano state speranze che erano ve­ nute ben presto meno perché la società italiana era rien­ trata nell’alveo tradizionale, ed aveva ripreso la solita con­ trapposizione proletariato-borghesia, destra e sinistra; e proprio i comunisti e i socialisti avevano avuto non poca •responsabilità in questa ripresa, che ne aveva rappresentato la fortuna, ridando loro l’esclusiva rappresentanza delle classi lavoratrici (in maggior misura per il partito comu­ nista che non per quello socialista). Nella società interna­ zionale, poi, si era avuto qualcosa di molto simile, con la divisione dell’Europa e del mondo in due sfere d’influenza, una socialista e l'altra capitalistica. Come avrebbe potuto, in queste condizioni, il partito d’azione far presa sui ceti medi, che subivano anch’essi le conseguenze degli opposti blocchi e che, perciò, tendevano a schierarsi o con la de258

stra o con il proletariato (il Salvatorelli affermava che si sarebbe dovuto dargli "coscienza della propria funzione produttiva, cioè coscienza di classe, ed elevarlo alla sfera politica superclassistica di piena partecipazione alla vita del Paese”), oppure lottare per un ordine internazionale democratico? Sarebbe stata, evidentemente, una lotta vana senza alcuna possibilità di successo, impegnata contro for­ ze di gran lunga superiori. Il p.d’a. era stato il partito della lotta contro la dittatura, dell’unità antifascista del C.L.N., e, adesso, che era venuta meno la situazione che ne aveva consentito una rapida e notevole ascesa, lentamente si spe­ gneva. La sua crisi era anche la crisi di una mentalità che si potrebbe definire illuministica, per la serena fiducia nella efficace validità dei programmi, delle “chiare oneste paro­ le," come diceva l’Omodeo sull’Acropoli, in un mondo che era, invece, sempre più dominato dagli interessi di gruppo o di particolari settori e perciò sostanzialmente sordo agli appelli alla ragione.

...del partito liberale e della democrazia cristiana Lo spostamento a sinistra del p.d’a., proprio mentre era in atto un opposto slittamento del paese verso destra, e la sua scissione, avevano liberato le posizioni di centro da un concorrente che appariva pericoloso e agguerrito. Ora quelle posizioni avrebbero dovuto essere occupate da altri partiti che fossero, però, sinceramente democratici e aper­ ti al progresso. Tale posizione non sembrava mantenuta dai liberali, che si erano legati sempre di più ai conser­ vatori firmando, sul piano elettorale, una alleanza con l’“Unione democratica nazionale," costituita dal Bonomi, dal Croce, dal Nitti e dall’Orlando; eppure, fra essi c’era una corrente di sinistra che si batteva attivamente per evitare i pericoli di "uno snaturamento dei principi e delle fun­ zioni del rinato liberalismo." Quest’ultima frase era con­ tenuta nella lettera inviata, il 3 aprile, dai liberali dissi­ denti alla Giunta esecutiva centrale del p.l.i. con cui essi an­ nunciavano le loro dimissioni ( la lettera era firmata dai rappresentanti delle varie regioni e, fra gli altri, da Fran­ co Antonicelli e da Gabriele Pepe). L’appunto più grave fatto alla direzione era quello di procrastinare continuamente la convocazione del congresso, il che significava ri­ gettare fuori del partito la minoranza di sinistra, impos­ sibilitata a lottare per il trionfo delle sue idee. L’altra 259

grave accusa era di essersi lasciata condurre dalle ten­ denze conservatrici alla difesa “ dell’istituto accentratore e autoritario della monarchia," mentre la sinistra vagheggia­ va la repubblica. La Libertà cercava di minimizzare “la dipartita di un ristretto gruppo di amici,” come potesse avere importan­ za il numero di coloro che se ne erano andati e non piut­ tosto il valore di quella scissione, che rigettava il partito liberale quasi completamente sulla destra, come dimostra­ no le trattative per l’ingresso dei demolaburisti nell’Unio­ ne democratica nazionale. Infatti, la "generica dichiara­ zione di principi ideali e anche politici,” stesa dal Croce, non soddisfece la democrazia del lavoro che criticò la man­ canza in essa di qualsiasi accenno ai problemi sociali e l’agnosticismo nei riguardi della questione istituzionale. In verità, il Croce si era preoccupato principalmente di ricol­ legare la nuova formazione politica ai partiti prefascisti, liberale e democratico, che avevano concorso "ad attuare il nuovo Stato italiano, portandolo alla prospettiva, alla po­ tenza internazionale e alla vittoria nella prima guerra mon­ diale,” ed aveva cercato di nascondere i suoi sentimenti filo-monarchici sotto il rispetto per la libertà delle coscien­ ze “in risoluzione nelle quali entrano gli affetti per il pas­ sato, le tradizioni, le idealizzazioni, le illusioni e i palpiti dell’amore e gli scatti dello sdegno e le spèranze e i timo­ ri.” Ognuno facesse pure, "con gli argomenti del razioci­ nio e con quelli del sentimento," la sua propaganda, “ram­ mentandosi [però] sempre di farla in quei modi composti che sono propri del nostro costume." Certo, era una dichiarazione veramente generica, come l’aveva detta la stessa Libertà, una dichiarazione con cui si voleva lanciare un movimento che avrebbe dovuto rac­ cogliere tutte le forze di destra — escluso l’"Uomo qua­ lunque” — per opporle efficacemente alle sinistre, la cui mi­ naccia si era precisata nei primi turni delle elezioni ammi­ nistrative. Ma era difficile combattere il pericolo di chi ave­ va idee chiare e posizioni nette con affermazioni non im­ pegnative e sfuggenti, tanto più che lo stesso agnosticismo, in tal caso, rivelava, per cosi dire, una coscienza poco pu­ lita, cioè la mancanza del coraggio di pronunciarsi netta­ mente per la soluzione, quella monarchica, che Si sentiva ripudiata dal paese. Anche al congresso liberale, apertosi a Roma il 29 aprile, il Croce disse che il quesito monar­ chia o repubblica non riguardava la consistenza della li­ bertà. Ancora qualche voce — di Brosio, di Carandini — 260

si levò in difesa della repubblica, ma rimase sconfitta nel­ la votazione finale che vide la netta vittoria della tendenza monarchica, anche su quella agnostica del Croce, il quale, peraltro, fu confermato presidente del p.l.i. Sempre più chiaramente la monarchia diventava il centro di raccolta delle forze conservatrici italiane e, nei partiti di centro e della destra, il contrasto fra repubblicani e monarchici era contrasto fra conservatorismo e progressismo. Intanto, l’esplicita dichiarazione di fede monarchica concludeva il graduale processo dei liberali di distacco dalla solidarie­ tà con gli altri partiti antifascisti e dal C.L.N., un organi­ smo che il Croce non aveva mai saputo apprezzare, per­ ché sconvolgeva la sua visione di una vita politica sapien­ temente diretta dall’alto (ed infatti, il 25 aprile, anniver­ sario della liberazione, il p.l.i. decideva improvvisamente di ritirarsi dal C.L.N. piemontese). Sembrava davvero che la drammatica esperienza del fa­ scismo fosse trascorsa invano e il liberalismo crociano ri­ maneva ancorato ad una concezione astratta della libertà, che lo spingeva a denunciare, in tono d’angoscia, tutti i pic­ coli attentati e le modeste violenze locali — di cui le di­ rezioni centrali dei partiti di sinistra non erano quasi mai responsabili — come gravi sovvertimenti del regime de­ mocratico: l’unica via d’uscita, perciò, a tale situazione, dichiarata intollerabile, avrebbe potuto essere il ritorno ad una più o meno larvata dittatura. La storia, per i liberali, si ripeteva stancamente.

Se anche la democrazia cristiana si fosse pronunciata per la monarchia, la questione istituzionale sarebbe diven­ tata quasi certamente un motivo di profonda divisione del paese, perché la repubblica sarebbe apparsa voluta esclu­ sivamente dai socialisti e dai comunisti. Di questo pericolo non parvero rendersi conto i dirigenti democristiani, i quali nel loro congresso, tenuto a Roma dal 23 al 29 aprile, cer­ carono di fare in modo che la discussione si polarizzasse sul problema costituzionale, ritenendo quello istituzionale secondario rispetto alla precisa definizione dei principi pro­ grammatici per la Costituente. Ma il congresso non potè rifiutarsi di prendere in esame quella che era ormai diven­ tata la questione più importante ed anche più appassio­ nante per il popolo italiano: doveva assolutamente rispon­ dere a questo interrogativo, ché altrimenti la delusione sarebbe stata troppo grande e, indubbiamente, il tentativo di eludere tale problema avrebbe denotato scarsa sensibilità 261

dell’attesa del paese. Ma, forse, la spiegazione di questo at­ teggiamento dei dirigenti democristiani Ή può trovare in un interessante articolo di A. Brucculeri S.J., sulla Civiltà cattolica, dedicato appunto al congresso, in cui il padre ge­ suita osservava che non sarebbe stata la forma monarchi­ ca o repubblicana ad assicurare una costituzione cristiana, bensì un solido partito che avesse una maggioranza tale da imporsi a tutte le altre formazioni politiche. Era evi­ dente, pertanto, che i democristiani si preoccupavano, qua­ si esclusivamente, della nuova costituzione e dello spirito che avrebbe dovuto informarla. Ma prima bisognava affrontare le elezioni e bisognava pur dire agli elettori che cosa si voleva, tanto più che, co­ me abbiamo detto, monarchia e repubblica erano diventa­ te l'espressione di due opposte strutture sociali, conserva­ trice la prima e progressiva la seconda. Fu cosi che l'esame della questione fu imposto dai congressisti alla direzione, e, del resto, era stata fatta una larga inchiesta nel partito, i cui dati furono comunicati dal vicesegretario Piccioni: quelli pervenuti da 86 comitati provinciali davano su 836.812 votanti, 503.085 per la soluzione repubblicana (il 60%), 146.061 per la soluzione monarchica (il 17%) e 187.666 per una posizione di neutralità ed agnosticismo (il 23%). La questione si poteva dire già risolta, ma il Piccioni stesso, rivelando l’animo dei suoi amici, tenne a dichiarare che non il suo partito aveva sollevato il problema, nato dalla crisi della monarchia "provocata dalle funeste vicende che hanno travagliato il paese” (perciò, neppure la monarchia era responsabile, ma genericamente le juneste vicende); soggiunse anche che la democrazia cristiana “avrebbe pre­ ferito che all’Italia fosse risparmiata questa nuova, dura prova, ma la storia, come la Provvidenza, ha le sue vie ed è vano tentare di sbarrarle.” Erano parole in cui sembra­ va di sentire, osservava Mario Paggi sullo Stato moderno, "un accorato rammarico contro la storia, più che il penti­ mento di non aver saputo interpretarla." Si capisce, quindi, l’insoddisfazione dell'assemblea, la cui atmosfera si riscaldò a tal punto da costringere Piccioni a pregare i congressisti a calmarsi dal momento che i dati da lui forniti non do­ vevano interpretarsi come una sua presa di posizione in favore di questa o quella tesi, ma solo come una esposi­ zione obiettiva e storica delle varie correnti esistenti all’intemo del partito. Il Brucculeri, per respingere le accuse sulle "pretese influenze o imposizioni confessionalistiche” da parte della Chiesa rivolte alla d.c. adduceva proprio l’in262

dirizzo repubblicano, facendo comprendere in tal modo che ad esso non era molto favorevole la gerarchia ecclesiastica: ed infatti, lo stesso Brucculeri rilevava che "il problema istituzionale [era] stato alquanto sopravvalutato con un qualche pericolo di approfondire divergenze importune e nocive nel partito"; e più esplicitamente L’Osservatore ro­ mano deplorava che “la questione istituzionale [avesse] ar­ roventato il lungo dibattito e sopraffatto l’esame che merita­ va la relazione sui principi programmatici per la Costituen­ te." Da ciò si poteva forse trarre la conclusione che la cau­ tela dimostrata dai dirigenti democristiani era proprio do­ vuta all’ostilità del Vaticano per la soluzione repubblicana. Questo dei rapporti fra il nuovo partito e la Chiesa fu, in un certo senso, il problema fondamentale del congresso che venne affrontato dal direttore del Popolo, Guido Gonella, "con un discorso," scriveva La Civiltà cattolica, "note­ vole per la grandiosità del quadro giuridico in esso trattato, per la solida e cristiana impostazione dei problemi, per la densità dei concetti che ne fanno una maestosa costruzione, in cui si incontrano e si fondono la coscienza di un maestro e l'accento squisitamente cristiano del credente.” In real­ tà, vi si potevano trovare, limpidamente espresse, tutte le caratteristiche rivendicazioni dei cattolici: la libertà di cul­ to che non poteva significare uguaglianza indiscriminata per qualsiasi culto; la religione del popolo, ossia la Chiesa cattolica, che andava riconosciuta dallo Stato cosi come il regime concordatario andava rispettato con lealtà fe buona fede; i diritti della famiglia e della scuola dovevano essere accettati con il reciso rifiuto al divorzio e con la lotta contro i monopoli scolastici e con il riconoscimento uffi­ ciale della scuola privata. Il Concila affermò che la demo­ crazia cristiana non voleva uno Stato confessionale, ma, nel tempo stesso, respinse quasi con sdegno il sospetto che essa volesse uno Stato laico: voleva, come precisò il De Gasperi nel suo discorso di chiusura, uno Stato "di ispira­ zione cristiana,” concetto che era stato espresso dal diret­ tore del Popolo quando aveva celebrato lo spirito cristia­ no, sostenendo la necessità di un ritorno ad esso per rendere effettiva la purificazione delle coscienze da attuar­ si con strumenti che lo Stato non conosceva o non sapeva maneggiare: "Il Cristianesimo è il lievito della civiltà poli­ tica, e la vita del cristiano, sempre contraddetta e pur sem­ pre infaticata, è il sostegno della società.” A questa ampia premessa, il Gonella fece seguire la par­ te relativa alle libertà politiche e sociali, in cui espose tut263

to un programma di radicali riforme sia industriali, sia agricole, sia commerciali, sia tributarie. I democristiani, disse il relatore, erano consapevoli che la libertà politica non aveva alcun senso finché non fosse esistita, saldamente riconosciuta, la libertà economica, la libertà dal bisogno; il problema veramente nuovo della Costituzione sarebbe stato quello di "porre la questione sociale in termini di di­ ritto costituzionale, portare sul terreno della Costituzione i problemi del lavoro, della proprietà e della distribuzio­ ne dei beni.” Ma il De Gasperi, il giorno prima, parlando anch’egli delle riforme economico-sociali, da fondarsi sulla solidarietà degli interessi e dei gruppi (da ciò la sua defi­ nizione del partito come partito "solidarista”), aveva detto, polemizzando molto vivacemente contro il marxismo, che l’intervento statale doveva essere il più limitato possibile e che circa il 75% dell’industria italiana poteva essere affi­ dato alla libera iniziativa: evidente favore alle forze capi­ talistiche del paese, che trovavano, perciò, nella democra­ zia cristiana la garanzia della difesa dei loro interessi. Quale era allora la posizione del partito su questi im­ portanti problemi? Quella del Gonella, il quale avvertiva fermamente quanti si illudevano di conservare la loro si­ tuazione di privilegio, che la democrazia cristiana conside­ rava “fermamente impegnativo il suo programma di rifor­ me economiche,” oppure quella del De Gasperi, che rassi­ curava i ceti padronali togliendo loro la incombente mi­ naccia di un interventismo statale, quale era stato vagheg­ giato da più parti subito dopo la fine della guerra? La ve­ rità era che la condotta della democrazia cristiana non riu­ sciva a nascondere di essere subordinata a quella che essa giudicava la questione più importante, cioè la questione del futuro assetto costituzionale: in quel periodo, diverse dichiarazioni in tale senso venivano fatte dall’Azione cat­ tolica, una delle quali, la domenica delle Palme (pubbli­ cata dalla Civiltà Cattolica sotto il titolo: Direttive dell'A­ zione cattolica italiana di fronte alla Costituente), era detta necessaria per respingere le voci sempre più insistenti se­ condo le quali il clero stesse svolgendo un’attiva propagan­ da per la monarchia. In queste direttive veniva ribadito che l’Azione cattolica, ispirandosi "soltanto ai supremi in­ teressi di Dio e delle anime,” mirava “unicamente ad otte­ nere che la futura costituzione [fosse] conforme ai detta­ mi dell’etica cristiana, agli insegnamenti della chiesa e alle tradizioni del nostro popolo, nella sua grande maggioran­ za cattolico.” Inoltre, dopo avere affermato che i Patti la264

l

teranensi dovevano essere rispettati, richiamava esplicita­ mente l’attenzione su alcuni voti espressi dai convenuti al­ la "Settimana sociale" di Firenze, voti che si erano potuti trovare anche nella relazione del Gonella (Concordato; tu­ tela della famiglia e in particolare della indissolubilità del vincolo matrimoniale; scuola libera in ogni ordine e gra­ do; ecc.). Il 16 maggio, poi, ancora l’Azione cattolica, per mezzo dell’Istituto cattolico di attività sociale (I.C.A.S.), dopo aver compiuto “un’utile opera di chiarificazione,” pub­ blicava un manifesto in cui parlava dell’importanza capi­ tale di una costituzione che rispettasse “il nostro patrimo­ nio umano e cristiano," e, confermando la piena libertà nella scelta fra monarchia e repubblica, proclamava di nuovo "di primaria importanza la questione costituziona­ le sulle essenziali libertà religiose, civili e politiche che possono essere garantite, oggi, solo dall’affermazione uni­ taria dei cattolici e col metodo della libertà [...]." Dato, perciò, questo preminente interesse per la carta costituzionale, si possono capire le oscillazioni del congres­ so d.c. fra la sinistra e la destra (il De Gasperi, dopo ave­ re accentuato piuttosto duramente la polemica contro il comuniSmo, parve mostrare, nella replica conclusiva, di ritenere possibile una collaborazione con i socialisti, men­ tre, d’altro canto, non escluse una intesa determinata con la destra), oscillazioni volute in parte dal particolare carat­ tere interclassista del partito, ma forse soprattutto dal de­ siderio di mantenersi aperta la possibilità di appoggiarsi all’una o all’altra parte politica per raggiungere meglio l’intento di permeare il nuovo Stato di spirito cristiano. Poiché era assurdo sperare di ottenere la maggioranza as­ soluta, sarebbe divenuto necessario scendere a compro­ messi sul programma e, proprio a tale fine, poteva essere importante l’avere espresso con tanto vigore e rigore quel­ lo che veniva definito come il programma massimo. Ma, data la risoluta volontà dei democristiani, uniti in questa esigenza e senza più distinzione fra destra e sinistra, di af­ fermare tale programma massimo (anche per le pres­ sioni della gerarchia ecclesiastica), si poteva prevedere che ogni collaborazione avrebbe assunto ben presto il si­ gnificato di una sottomissione o di μη cedimento da parte del partito o dei partiti che l’avessero accettata: ancora il De Gasperi disse che non sussisteva “nessuna obiezione di principio” ad una intesa della democrazia cristiana con i socialisti, purché fossero "salvaguardate le sue linee e le sue direttive." 265

L’abdicazione di Vittorio Emanuele III I risultati delle elezioni amministrative (tenute in 5680 comuni su circa 7360 e precisamente in 5566 comuni con popolazione inferiore ai 30 mila abitanti — in questi co­ muni si era votato con il sistema maggioritario che ave­ va favorito i blocchi fra i partiti affini di sinistra, di cen­ tro o di destra —, e in 114 comuni con popolazione supe­ riore ai 30 mila abitanti — e qui si era votato con il si­ stema proporzionale — per un totale di circa 15 milioni e mezzo di votanti, il 79,37% degli iscritti) avevano get­ tato l’allarme nelle file monarchiche. Infatti, dalle cifre comunicate dal ministero degli Interni si erano tratte le seguenti considerazioni: i partiti dichiaratamente monar­ chici avevano totalizzato l’l,9% dei seggi; i partiti dichia­ ratamente repubblicani il 42%; i gruppi locali e indipen­ denti l’ll%; i partiti e gruppi di centro il 41% (il 34,7% la democrazia cristiana e il 6,3% i liberali). Ora, siccome si poteva giustamente ritenere che un buon terzo di que­ sti ultimi seggi fosse andato, soprattutto nell’Italia set­ tentrionale, ad elementi repubblicani, ne conseguiva che la grande maggioranza degli italiani chiamati alle urne si era pronunciata in favore della repubblica. Questa constatazione, dedotta dalla eloquenza dei fred­ di dati statistici, parve rendere ormai disperata la causa della monarchia: il Garofalo scrive che i risultati delle amministrative gettarono "molta gente” nel pessimismo e nella depressione: “In questo momento, giova ripeterlo, vi era non poca depressione in giro, e quasi si paventava il giorno in cui il popolo avrebbe espresso la sua volontà. La tendenza a sopravvalutare i risultati delle elezioni am­ ministrative non teneva conto del carattere locale di esse e la loro incompleta idoneità a rivelare le tendenze popo­ lari verso l’istituzione." Erano, queste, le considerazioni con cui l’aiutante di campo del principe cercava di reagire alla diffusa sfiducia, ma, evidentemente, ad esse non si doveva dare molto peso se il Puntoni, sotto la data del 9 aprile, scriveva nel suo diario: "In campo monarchico si dorme e l’avvenire si mostra oscuro. Il ceto medio appare sban­ dato e, quel che è peggio, rassegnato." In effetti, queste elezioni avevano sconvolto, in buona parte, le trame che il Luogotenente veniva intessendo per controbattere la più efficace propaganda dei partiti democratici che, in maggio­ ranza repubblicani, potevano servirsi anche degli strumenti 266

governativi. In particolare, era parso che il principe inten­ desse far valere la sua volontà in occasione della firma della legge sui poteri dell’Assemblea costituente e per la convocazione dei comizi elettorali, fissata per il 2 giugno. Nella discussione al consiglio dei ministri, nella seconda metà di febbraio, il Brosio aveva avanzato la richiesta che si approvasse il referendum popolare non solo per la scelta della forma istituzionale ma anche per i poteri della stessa Assemblea costituente, richiesta a cui le sinistre si erano opposte recisamente, essendo contrarie, in linea di massi­ ma, a qualsiasi referendum. L’accordo, però, era stato rag­ giunto su un compromesso, secondo il quale la democrazia cristiana e i liberali avevano ceduto sul voto obbligatorio in cambio del referendum, che potè, cosi, essere approvato il 28 febbraio.5 *Poi, * * * *ilil decreto era passato alla Consulta e qui esso era stato sottoposto alle critiche di vecchi uomini politici, di un Nitti e di un Orlando, ma alla fine era stato approvato, il 9 marzo, con 172 voti contro 50. Mancava la firma del Luogotenente e questa, richiesta lo stesso 9 mar­ zo, aveva tardato molto a giungere, facendo nascere il so­ spetto che il principe volesse rifiutarla. Il Garofalo ha rive­ lato i retroscena di questa lunga esitazione a compiere un atto che appariva, ed era in realtà, inevitabile: "Infinite persone, che noi stessi ignoravamo, fecero arrivare le loro suppliche al Luogotenente perché non firmasse; tante altre giunsero in sua presenza, attraverso la compiacenza di ta­ luni personaggi minori, per chiedere che la data di convo­ cazione deH’Assemblea fosse rinviata. Il Principe resistette a tutte le insistenze; talvolta sorridente e talvolta cruc­ 5 Sono molto significativi i revirements dei socialisti e dei comunisti, in tale occasione: il Nenni, sull'"Avanti!" del 3 marzo, lodava la "paziente fermezza" delle sinistre, pur senza nascondere la "ferma volontà” del De Gasperi, volontà di fronte alla quale esse avevano dovuto cedere, cercando, tuttavia, di consolarsi con la discreta apertura collaborazionistica manife­ stata dai liberali (!). In realtà, "Risorgimento liberale” del 1° marzo, ce­ lebrando quale "conquista della libertà" e "prova di schietta democrazia" il conseguimento del referendum istituzionale, con accortezza rendeva i dovuti elogi alla politica realisticamente pacata e conciliante dei comuni­ sti, fin quasi a lasciare intravedere "nuove tattiche e nuovi orientamenti." Il che poteva essere confermato da quanto scriveva il Sereni, sulla "Voce" del 3 marzo: "Nel nuovo clima di distensione politica (!), il referendum diventerà un’arma sicura per la vittoria delle forze democratiche e repub­ blicane." Ed anche r"Unità" dello stesso 3 marzo mostrava di ritenerlo "consultazione in se stessa indubbiamente democratica." Non era altro che il tentativo di nascondere una netta sconfìtta politica con una apparente soddisfazione per un provvedimento che si voleva credere favorevole alle forze democratiche e repubblicane, mentre era esattamente il contrario.

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ciato, ma non potè ignorare l'invocazione di non pochi italiani.” Queste invocazioni spiegano il ritardo che, del resto, era desiderato dallo stesso Umberto. Tuttavia, era stato costret­ to, alla fine, a dare la sua firma perché altrimenti un rifiuto avrebbe assunto il significato di un colpo di Stato: infatti, la situazione, che si era creata nel giugno del 1944, aveva rovesciato il rapporto tra le forze democratiche e le forze conservatrici ed aveva posto queste ultime nella condizione di fare esse un colpo di Stato se volevano modificarla pro­ fondamente. Ma nella lettera con cui il Luogotenente aveva accompagnato il decreto (18 marzo), erano contenute al­ cune frasi che indicavano chiaramente quale fosse lo stato d’animo del principe: incominciava con raffermare che l’aver sanzionato i provvedimenti lo faceva ricongiungere "alle gloriose tradizioni del Risorgimento nazionale, quan­ do, attraverso eventi memorabili indissolubilmente legati alla storia d'Italia, la monarchia potè suggellare l’unità del­ la Patria e i plebisciti furono l’espressione della volontà popolare ed il fondamento del nuovo Stato unitario”; l’os­ sequio alla volontà popolare lo aveva indotto a sanzionare il decreto del 24 giugno 1944: "La sanzione di oggi è dun­ que il coronamento di una tradizione che sta a base del patto fra popolo e monarchia, patto che, se confermato, dovrà costituire il fondamento di una monarchia rinnovata la quale attui pienamente l’autogoverno popolare e la giu­ stizia sociale.” Perciò, prometteva al popolo italiano una monarchia, per cosi dire, socialista, profondamente diversa da quella del passato, che, in tal modo, sembrava incon­ trare anche le sue critiche. Era stato, indubbiamente, il referendum che gli aveva dato questa possibilità di rivol­ gersi direttamente al popolo, nella speranza di poterne modificare gli orientamenti; insomma, il referendum aveva rimesso la monarchia nel gioco politico.6 Ecco forse il per-6 6 Forse vai la pena di riportare quanto disse a questo proposito un insigne giurista, Piero Calamandrei, alla Consulta, Γ8 marzo (secondo il resoconto dato dall·" Italia libera”): "Calamandrei (p.d’a.) osserva che fino a poche settimane fa il referendum sembrava scartato per la Costituente. Contro il referendum si faceva valere un argomento giuridico, cioè che esso avrebbe spezzato il sottile filo della legalità costituzionale faticosamen­ te ricostruito dalle rovine e rappresentato dalla Costituente; e un argo­ mento politico, cioè che il dilemma ‘monarchia o repubblica’ non è cosi semplice da essere sottoposto a referendum. Poi, all’improvviso la situa­ zione si è capovolta. Come ciò è avvenuto? Costituzionalmente si sta com­ piendo un colpo di Stato, anche se larvato e pacifico. Intrattenendosi sulla fase di passaggio dal fascismo alla nuova Costituzione (‘una passerella sul baratro’) e dopo avere parlato dell’istituto della Luogotenenza, fuori di

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ché della resistenza del principe a tutte le pressioni: egli aveva perfettamente capito, a differenza dei suoi seguaci, quali nuove strade gli apriva la contrastata decisione del governo e cercò subito di approfittarne. Bisogna comprendere questa nuova possibilità di inizia­ tiva politica per spiegarsi un altro episodio, che parve, ad un certo momento, minacciare complicazioni piuttosto gra­ vi: dopo le elezioni amministrative al Quirinale si sentiva il bisogno di fare qualcosa per rialzare le sorti compromesse della monarchia, un gesto che fosse anche, in certo qual modo, clamoroso e tale da scuotere l’attenzione degli ita­ liani. Il 15 aprile il Puntoni annotava nel suo diario che qualcosa faceva presentire che il giorno dell’abdicazione non fosse lontano; e soggiungeva: “È evidente che Sua Maestà intende fino all'ultimo stare ai patti e che lascia il Luogotenente, più al corrente della situazione politica, ar­ bitro di decidere quando sarà il giorno più adatto per la­ sciare il trono.” Pertanto, l’abdicazione era quel “qualcosa di nuovo, che scuotesse l’opinione pubblica e ridestasse negli italiani quei principi e quelle energie che l’equivoco della luogotenenza aveva fatto dimenticare e sopire, nella convinzione che la Monarchia già non esistesse più," la cui esigenza era affermata dal Garofalo. Ma le perplessità era­ no notevoli nello stesso Vittorio Emanuele III, il quale, il 17 aprile, esprimeva il dubbio che "una mossa del genere [potesse] essere interpretata dalle sinistre come una rot­ tura della tregua da parte della Monarchia.” In questo caso egli era convinto che ne avrebbe avuto danno soltanto la ogni tradizionale schema statutario, appoggiato alla transitorietà stessa del­ la fase di passaggio, Calamandrei afferma che un procedimento che avesse fatto viva la Luogotenenza un minuto di più del Governo che ne era il mandante, sarebbe allora sembrato un assurdo. Come è andata questa si­ tuazione? Vi sono state due circostanze determinanti. La prima è stata indebolita, corrosa dal tempo; non si tiene impunemente un popolo in attesa di un atto rivoluzionario che non viene. Di qui un senso di stan­ chezza e di critica nel popolo. A questo punto Calamandrei delinea un tentativo di sostituire alla Costituente sovrana una Costituente dinastica, come quella promessa, e non mantenuta, dai Savoia nel 1848. La seconda circostanza è stata l’intervento alleato. Dalle grandi democrazie la causa della democrazia italiana rinascente non ha avuto finora quella compren­ sione e quell’incoraggiamento che sembrava lecito sperare. Fare la Costi­ tuente sovrana in regime di armistizio, cioè di sovranità limitata, può apparire un assurdo; ma per avere un Governo che faccia la pace ci vuole prima la Costituente: onde un circolo vizioso insormontabile. In questa situazione è venuto il suggerimento dei giuristi americani [i giuristi del Dipartimento di Stato avevano espresso un parere, raccolto poi dalla "Voce dell’America" del 28 febbraio, secondo cui: ‘Il Governo degli Stati Uniti ha presentato, non ufficialmente, il punto di vista degli esperti americani sul-

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causa monarchica. D’altra parte, siccome “gli Anglo-Ameri­ cani,” come il Garofalo afferma, "avevano tenuto volen­ tieri a battesimo il mostriciattolo della Luogotenenza, sa­ rebbe occorso il loro consenso per mutare il destino di questa triste creatura, fatta di compromissione.” Non solo degli anglo-americani ci sarebbe voluto il consenso, ma an­ che di qualche partito democratico, perché altrimenti il gesto, che avrebbe appunto rimesso in discussione la tregua istituzionale, avrebbe potuto essere denunciato unanime­ mente come un vero e proprio colpo di Stato. Il 25 aprile, Vittorio Emanuele III diceva al Puntoni che "gli alleati, d’accordo con il Luogotenente e con i capi dei partiti di centro e di destra, [avevano] manifestato l’opinione che [egli dovesse] abdicare prima del 2 giugno,” questo perché erano sicuri che l’abdicazione avrebbe consolidato la posi­ zione del principe e reso più probabile una vittoria della monarchia, nel referendum. Alle riserve avanzate dal suo aiutante di campo, l’ex-sovrano, "dopo un momento di me­ ditazione,” rispose: "Il Principe e gli alleati pensano che la causa monarchica ne uscirà rafforzata. Dopo tutto è bene che siano loro a decidere." Il Puntoni, due giorni dopo, di nuovo sollevava dubbi, sembrandogli che l’abdicazione po­ tesse creare nella massa la convinzione che Vittorio Ema­ nuele III avesse paura di rimanere in Italia durante il refe­ rendum. Ma Sua Maestà ribattè, con "un tono di voce aspro e tagliente”: "Con l’abdicazione la posizione di mio figlio e della dinastia ne risulteranno consolidate. Ciò che ne pensa l’opinione pubblica non mi importa affatto...” la questione dei poteri della Costituente, che deve essere formata dal voto libero e diretto dell’intera popolazione italiana. Primo compito dell'Assem­ blea è di redigere una nuova Costituzione in armonia alla forma di Go­ verno, con Monarchia o con Repubblica, desiderata dal popolo italiano. L’adempimento di tale compito risponde agli interessi del popolo italiano ed è conforme alla natura legale e costituzionale dei problemi da risolve­ re [...]. Interesse degli Stati Uniti è di vedere un Governo, qualunque ne sia la forma, che sia costituito da una procedura democratica, sulla base dell’esercizio del diritto di voto, esercitato dal maggior numero possibile di cittadini italiani. Il Governo degli Stati Uniti si interesserà anche nell'av­ venire perché questo diritto sia assicurato al popolo italiano,’], rispettabile, ma non aderente alla situazione italiana. Come potrebbe continuare il Go­ verno di coalizione creato sulla base dell’impossibilità della consultazione popolare dopo tale consultazione? Ed ecco che per evitare il peggio, si è dovuto accettare il referendum, a cui l’unico partito che si è opposto è il P.d’A. [ma, poi, anch’esso lo accettò per non provocare una crisi di go­ verno che avrebbe ancor più rimandato la data delle elezioni]. L’oratore fa quindi una disamina del progetto di legge ed a proposito del referendum dice che l’elettore non dovrà più scegliere tra la repubblica e la monar­ chia, ma tra la repubblica e la dinastia."

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Questa risolutezza, cosi diversa dalle esitazioni di alcuni giorni prima, doveva essergli stata data, quasi certamente, dall’appoggio alleato, che metteva la monarchia con le spal­ le al sicuro e le forniva la garanzia che gli eventuali attacchi delle sinistre sarebbero stati facilmente sventati. In tali condizioni si poteva anche tentare il colpo di Stato, gio­ care quest’ultima carta nella sicurezza che, ad ogni modo, da essa non ne sarebbe venuto altro che bene. Cosi, il 9 mag­ gio, il principe di Piemonte, giunto "senza preavviso” a villa Maria Pia, diceva al padre essere opportuno che l’ab­ dicazione e la partenza per l’Egitto avvenissero in giornata. "Ritengo,” commentava il Puntoni, "che si siano accele­ rati i tempi per far trovare il Consiglio dei Ministri da­ vanti al fatto compiuto. De Gasperi, che appena tornato da Parigi [dove era stato per il nostro trattato di pace], ha avuto un colloquio con il Luogotenente, deve essere al cor­ rente della cosa. Anche Stone, che rappresenta gli alleati, è d’accordo” (il De Gasperi riferì nel consiglio dei ministri del 10 maggio che, affacciatasi da tempo l’ipotesi dell’ab­ dicazione, egli aveva esplorato le intenzioni degli alleati in proposito, e che l’ammiraglio Stone, capo della Commissio­ ne alleata, gli aveva risposto, Γ8 maggio: “Con riferimento alla nostra recente conversazione, il Supremo Comando Alleato mi ha fatto conoscere che i Capi di Stato Maggiore sono del parere che l’abdicazione del Re non comporta nes­ suna azione o commento da parte della Commissione Al­ leata, in quanto non tocca per nulla i poteri costituzionali del Principe Umberto”: era stata, questa, la risposta che, portata subito a conoscenza del Luogotenente, aveva reso possibile mettere in atto il progetto). Ma le reazioni delle sinistre furono molto violente: la direzione del partito socialista dichiarò di ravvisare “nella abdicazione e nell’espatrio di Vittorio Emanuele III un diversivo per turbare l’ordinata preparazione del refe­ rendum e delle elezioni per la Costituente e una fuga del sovrano di fronte all’imminente giudizio del popolo." A loro volta, i comunisti definirono l’abdicazione "una farsa igno­ bile e grottesca" e il Togliatti la disse “l’ultima fellonia di una Casa regnante di fedifraghi che dimostra ad ogni passo di mancare a quella buona fede costituzionale che è essen­ ziale per chi deve regnare non con una legge assoluta, ma con una costituzione che risponda alla volontà sovrana del popolo.” Vittorio Emanuele III si era ritirato a vita pri­ vata l’aprile del 1944, con atto irrevocabile e definitivo, tant’è vero che il Luogotenente era designato in tutti gli 271

atti non come luogotenente del re, bensì come luogotenente del regno. Inoltre, nella legge che indiceva il referendum c’erano tre punti essenziali: il primo, che il popolo deci­ desse se l’Italia doveva essere monarchica o repubblica­ na; il secondo, che, anche nel caso di esito monarchico del referendum, alla Costituente spettasse la decisione circa la persona del sovrano; il terzo, che, sempre nel caso di esito monarchico, si sarebbe dovuti rimanere nella for­ mula della luogotenenza sino all’approvazione della Costi­ tuzione. Invece, con l’abdicazione di Vittorio Emanuele III, il Luogotenente avrebbe dovuto salire sul trono e diventare immediatamente re con il nome di Umberto II. Era una slealtà tale da far dubitare che, "nel caso improbabile di un successo monarchico del referendum,” partiti democra­ tici seri potessero accettare una collaborazione qualsiasi con una famiglia che dimostrava un tale disprezzo per le regole del gioco costituzionale. Questo il Togliatti affermò anche nel consiglio dei ministri, sollevando le proteste del Cattani, il quale credette che si trattasse di un passaggio al metodo rivoluzionario e di un ricatto alla nazione che avrebbe segnato "una vera e propria rottura del patto fra i partiti." Né il proclama che il nuovo re rivolse al popolo italiano poteva placare questa viva polemica, ché in esso Umber­ to II parlava ancora di "rinnovata monarchia costituzio­ nale," di “iniziative e decisioni per attuare quei propositi di giustizia sociale che, nella ricostruzione della Patria, unanimi perseguiamo”; invocava la concordia e la tolleran­ za e, pur promettendo di voler rispettare "le libere deter­ minazioni dell’imminente suffragio," concludeva esortando tutti a stringersi "intorno alla bandiera, sotto la quale si è unificata la Patria e quattro generazioni di italiani hanno saputo laboriosamente vivere ed eroicamente morire. Da­ vanti a Dio, giuro alla Nazione di osservare lealmente le leggi fondamentali dello Stato, che la volontà popolare do­ vrà rinnovare e perfezionare.” Poteva sembrare l’accento di chi si riteneva sicuro della vittoria e, certo, il gesto del vecchio sovrano era venuto in buon punto per rialzare le depresse sorti della monarchia. Intanto, il consiglio dei mi­ nistri del 10 si chiudeva con l’approvazione di uno schema di decreto sotto questa forma: "Articolo unico. Ferme le disposizioni di cui al decreto 16 marzo 1946, n. 98, i decreti da emanarsi dal Capo dello Stato saranno intestati al nome di Umberto II, Re d'Italia. Analogamente, le decisioni giu­ diziarie e tutti gli atti che, in base alle vigenti disposizioni, 272

devono essere firmati in nome del Capo dello Stato, saran­ no intestati al nome di Umberto II, Re d'Italia”; un de­ creto in cui i socialisti ed i comunisti vollero vedere un loro successo, perché vi era stata eliminata la formula tra­ dizionale "per grazia di Dio e volontà della Nazione," ma che, in realtà, come fece osservare II Mondo, non confortò l’opinione di coloro che definivano la successione di Um­ berto un fatto interno di casa Savoia. Le elezioni del 2 giugno

Quasi a dimostrare la nuova alacre volontà di lotta da cui i monarchici si sentirono presi dopo l’abdicazione, ven­ ne, il pomeriggio di quello stesso 10, una grande dimostra­ zione di migliaia di persone, "con musiche e bandiere,” scrive il Garofalo, molto soddisfatto nel vedere questo inat­ teso risveglio, "in Piazza del Quirinale." Tutta quella folla si trattenne "per alcune ore ad acclamare il Re, a chiamar­ lo a gran voce con la sua famiglia.” E quando la sera Um­ berto II andò a trovare il suo aiutante di campo, costretto a rimanere in casa da una noiosa malattia, era "ancora manifesta la [sua] emozione di aver ritrovato il suo po­ polo e di averlo sentito entusiasta e fedele intorno alla Reggia." Ma il giorno seguente una grande contro-dimostra­ zione in piazza del Popolo "per la libertà, la democrazia, la repubblica e le elezioni del 2 giugno," fu indetta dai par­ titi democristiano, repubblicano, d’azione, socialista e co­ munista e dalla C.G.I.L. in cui parlarono rispettivamente Foschini, Azzi, Comandini, Saragat, Scoccimarro e Lizzadri. L'Osservatore romano aveva appena dichiarato che l’atteg­ giamento della Chiesa nei riguardi del problema istituzio­ nale era ispirato alla più rigorosa neutralità, ma La Civiltà cattolica faceva sua la “dolorosa meraviglia” di "non po­ chi” nel vedere "frammiste alle bandiere rosse marxiste al­ cune bandiere bianche della democrazia cristiana.” L’asso­ luta neutralità del Vaticano avrebbe dovuto lasciar liberi i democristiani di manifestare per chi volevano, senza il timore e il pericolo di incorrere nella condanna della ge­ rarchia ecclesiastica, a meno che non si dovessero ammet­ tere due direttive, una che si esprimeva attraverso l’Osser­ vatore romano e l’altra attraverso La Civiltà cattolica, op­ pure anche a meno che non si dovesse intendere quella neutralità come una sostanziale parzialità in favore della monarchia. Insomma, la verità era che si poteva avvertire 273

nel comportamento della Chiesa una certa ambiguità, che giocò in gran parte in favore del Luogotenente. In effetti, l’aiuto del clero si rivelò, poi, molto impor­ tante, oltre naturalmente alla libertà d’azione riacquistata dal re Umberto in séguito al referendum, libertà d’azione che questi mostrò apertamente di voler sfruttare sino in fondo. Il Garofalo scrive che nei venti giorni trascorsi fra l'avvento al trono e le elezioni, "si verificò una decisa ripre­ sa della monarchia ed un non celato nervosismo da parte delle sinistre." Era come l’esplosione di una forza lunga­ mente repressa, che adesso poteva liberamente esprimersi: tutti gli interessi conservatori poterono esprimersi libe­ ramente attraverso la campagna per la permanenza della monarchia. Secondo il Garofalo, invece, si trattava di una spontanea ripresa dell’opinione pubblica, “che non aveva bisogno di slogan e di martellamenti cerebrali e che guardava verso il Quirinale un po’ per sentimento e un po’ per intuito.” Il nuovo sovrano si era fatto, volente o no­ lente, il centro di tutte le correnti che non intendevano accettare una soluzione democratica del problema italiano e che volentieri sarebbero ricorsi ai colpi di Stato o alla violenza: lo stesso Garofalo riconosce l’errore “di aver riempito il Quirinale di troppi ufficiali. Era fatale,” sog­ giunge, “che, prima o poi, i pacifisti, gli internazionalisti o gli antimilitaristi di parte repubblicana, fossero convinti che i militari volessero risolvere con la forza, e non con la democrazia, il problema più appassionante, anche se non il più costruttivo, della nuova Italia." Umberto, come abbiamo detto, era deciso a sfruttare l’iniziativa che gli era stata insperatamente concessa e in quei venti giorni fece una serie di viaggi, dalla Sicilia, dal­ la Sardegna, e da Napoli a Genova, Torino, Milano e Ve­ nezia: viaggi che non avrebbero dovuto essere interpretati, secondo il Garofalo, come una semplice manovra elettora­ le, poiché "era legittimo che il rappresentante della dina­ stia desiderasse mostrarsi liberamente ai suoi sudditi, pri­ ma che essi dovessero pronunciarsi sulla forma istituzio­ nale dello Stato.” L'Avanti!, però, scrisse che a Torino nes­ suno si era accorto del re ("Molto più importante non perdere il tram”) e L’Unità che Umberto vi si era recato per “incontrarsi con gli esponenti delle organizzazioni neo­ fasciste.” Il 27 maggio, inoltre, il sovrano concedeva una intervista al direttore dell’agenzia I.N.S., intervista pubbli­ cata dai giornali delle due Americhe, in cui affermava che la monarchia costituzionale poteva ritenersi "la più indi274

caia a venire incontro a quelle esigenze equilibratrici ne­ cessarie per un vero e continuo progresso del popolo. Solo un istituto al di sopra del potere esecutivo può tentare," sostenne, "di limitare pericolosi scivolamenti, incanalan­ doli con un vasto programma educativo ad esaurirsi nel quadro del giuoco parlamentare.” A tal fine, egli proponeva un aggiornamento del "meccanismo costituzionale [...] per consentire la possibilità di relazioni dirette fra popolo e sovrano ogniqualvolta il potere esecutivo prendesse il so­ pravvento sugli altri poteri e rompesse cosi l’equilibrio costituzionale." Solo in tal modo si sarebbe resa impossi­ bile ogni “forma totalitaria di governo.” Il re, pertanto, cercava di apparire ai democratici italiani l’unico ed effet­ tivo custode di un regime di libertà, come colui che avrebbe potuto impedire al governo di scivolare verso forme tota­ litarie: ma l’esperienza del regno di suo padre non sem­ brava certo confortare con esempi probanti questo suo ten­ tativo. Ad ogni modo, egli ritornò, poco dopo, alla vigilia delle elezioni e del voto popolare, su questa sua funzione di difesa della democrazia nel proclama rivolto al paese impegnandosi, in caso di riaffermazione dell’istituto monar­ chico, ad ammettere che la Costituzione, non appena appro­ vata, venisse ancora una volta sottoposta agli italiani; que­ sto perché, allora, molte passioni si sarebbero placate e sarebbero tornati i prigionieri di guerra. Era un impegno che le sinistre non si dimostravano disposte ad ammettere e, perciò, Umberto poteva apparire piti rispettoso delle re­ gole democratiche. La Civiltà cattolica scrisse che il procla­ ma destò le ire del ministro Togliatti, "che fino a ieri sem­ brava un maestro,” aggiungeva con una certa ironia, "nel­ l’arte di masticare amaro e sputar dolce”: ma non pen­ sava, la rivista dei gesuiti, che questo atteggiamento non solo del p.c.i. ma anche degli altri partiti di sinistra, era dettato dal desiderio di non aprire pericolose crisi cercan­ do di contrastare i ricatti dei monarchici, di cui si face­ vano espressione nel consiglio dei ministri, i liberali, crisi che avrebbe rinviato indefinitamente la data del 2 giu­ gno, proprio come avrebbero voluto gli ambienti del Qui­ rinale, secondo quanto ci attesta il Garofalo: "L’evidente ripresa del favore popolare per la Monarchia fece rina­ scere, qua e là, il desiderio di un rinvio delle elezioni, per meglio rafforzare il risorgente attaccamento alla vecchia istituzione.” Ed invece, con i cedimenti in cui, come affermava La Civiltà cattolica, si era specializzato il Togliatti, si potè 275

giungere al 2 giugno, evitando quei ritardi che sicuramente avrebbero compromesso il successo della repubblica. Suc­ cesso che si ebbe con una maggioranza risultata, in defi­ nitiva, piuttosto esigua, di 12.717.923 voti contro 10.719.204 alla monarchia. La verità era che se le tendenze monarchi­ che si erano rafforzate cosi tanto dalla liberazione in poi — da quando cioè sembravano quasi del tutto abbattute —, la responsabilità risaliva anche ad alcuni gravi errori del­ l'estrema sinistra, che aveva ceduto, ad esempio, nella di­ fesa del governo Parri attratta dal miraggio di un maggior peso governativo dei tre partiti di massa; oppure che non aveva saputo calcolare le conseguenze della concessione alla destra sul referendum, giocato sul compromesso del voto obbligatorio (tuttavia, era anche vero, come faceva osservare Lelio Basso su Quarto Stato, che se la soluzione della questione istituzionale fosse stata demandata alla Costituente, dove quasi certamente i partiti repubblicani sarebbero stati meno del 50%, la d.c. avrebbe forse da­ to il suo voto ma lo avrebbe sicuramente “circondato da un’infinità di richieste sul terreno confessionale e con ogni probabilità avrebbe in ultima analisi proposto un nuo­ vo referendum per l’approvazione della nuova costituzione repubblicana"). Cosi, quella vittoria che, alcuni mesi pri­ ma sarebbe stata di gran lunga più netta, apparve in­ vece, nel giugno del 1946, stentata e misera. D’altra parte, i risultati rispecchiarono esattamente la fisionomia politica del paese, in cui le forze progressive mantenevano ancora una lieve prevalenza su quelle conservatrici: la lotta di libe­ razione non era diventata un ricordo troppo lontano per non incidere efficacemente sulla realtà politica del paese, né quella prevalenza aveva potuto essere seriamente scal­ fita dalla martellante propaganda degli avversari, come un De Gasperi, che, nel comizio di chiusura a Milano, il 30 maggio, aveva proclamato con magniloquenza: “[...] il prin­ cipio della democrazia è questo: ci vuole una maggioranza che governa e la minoranza che controlla," dando, in tal modo, per conclusa l’epoca dei governi di coalizione; op­ pure come un Gonella, che, sul Popolo del 1° giugno, scri­ veva sprezzantemente dei socialisti: “Non si vede quale funzione decisiva possa avere il socialismo italiano nei pros­ simi sviluppi della lotta politica [...]; l’efficacia del [suo] contributo sarà proporzionale alle sue capacità di una stret­ ta collaborazione con il partito leader, cioè con la demo­ crazia cristiana” (dal che si poteva dedurre che, senza mezzi termini, il Gonella invitava i socialisti ad abbandonare al 276

loro destino i comunisti e ad accettare una dura subordi­ nazione a quello che, secondo lui, doveva essere il partitoguida della nuova democrazia italiana, investito dall’alto di ogni potere, partito che non avrebbe potuto essere che la d.c.); oppure, infine, come Pio XII, il quale, intervenendo direttamente nella campagna elettorale, con accento trion­ falistico, esclamava: “I cattolici del mondo hanno ascol­ tato la parola del Supremo Pastore: abbiate fiducia, siete più forti dei vostri avversari; Dio è con voi." Il Popolo, perciò, aveva apertamente bandito la crociata elettorale, da cui evidentemente sperava un clamoroso successo. Ma le sorprese vennero quando si posero a confronto le votazioni per il referendum con quelle per l’Assemblea costituente: i partiti schiettamente repubblicani (p. crist. soc.; conc. dem. rep.; p.d’a.; p.r.i.; p.s.i.; p.c.i.) avevano riportato 10.566.663 voti; i partiti apertamente monarchici 4.303.273, mentre la democrazia cristiana 8.083.206. Il che voleva dire che degli elettori di quest’ultimo partito più di sei milioni avevano votato per la monarchia e solo circa due milioni per la repubblica: un risultato che sarebbe stato diffìcile prevedere dopo l’esito dell'inchiesta comuni­ cato al recente congresso dal Piccioni, che aveva dato, come si è visto, una abbastanza sensibile maggioranza alla cor­ rente repubblicana. Ma questa maggioranza era stata evi­ dentemente neutralizzata dall’agnosticismo del gruppo di­ rigente e, soprattutto, dall’aperto filo-monarchismo della gerarchia ecclesiastica (filo-monarchismo determinato so­ prattutto dal timore di un successo comunista, se padre Brucculieri, sulla Civiltà cattolica del 16 marzo ’46, cosi ave­ va tracciato un immaginario discorso del prete ai suoi fe­ deli: “Voi non potete darvi per vostro rappresentante chi, irretito in vieti pregiudizi d’assurde scuole d’oltr’Alpe e impantanato nell’ateismo o nell’agnosticismo, intende co­ struire un ordine in cui Dio, fonte di ogni ordine, non entra affatto o entra solo dalla porta di servizio.” Nella polemica era intervenuto anche Pio XII, quello stesso 16 marzo, ricor­ dando la grave responsabilità morale del voto e il dovere sacerdotale all’istruzione dei fedeli; tutto questo sebbene il Togliatti, nei suoi frequenti discorsi per la penisola, an­ dasse rinnovando l’invito alla democrazia cristiana per un blocco antifascista, giungendo persino a parlare, a Pisa 1Ί1 marzo, della carità cristiana come legame fra i due partiti). Politica sociale, settimanale dei sindacalisti cristiani, pub­ blicava a questo proposito, il 16 giugno, una accorata pro­ testa di Giuseppe Fuschini, in cui era detto: "In codeste 277

menti [di molti religiosi e religiose] si [era] venuto a creare un giudizio di avversione verso la repubblica, come se que­ sta rappresentasse la rovina del paese e del mondo e come se coloro che la sostenevano con fede e senza attenuazioni opportunistiche o elettoralistiche, dovessero essere consi­ derati dei traviati, dei reprobi, dei nemici addirittura della tradizione e del pensiero cattolico.’’ In tal modo, la Chiesa si era impegnata scopertamente nella difesa della istitu­ zione rimasta soccombente ed essa stessa avrebbe potuto subire una grave sconfìtta se la democrazia cristiana non avesse raggiunto la maggioranza relativa, confermandosi il più grande partito italiano. Ma il suo atteggiamento valse, peraltro, a rendere più cosciente il problema della laicità dello Stato, come problema di difesa contro le interferenze del potere religioso nella vita civile, problema, perciò, es­ senziale per una società moderna e molto importante per gli stessi cattolici che si apprestavano a contribuire alla costruzione delle nuove strutture politiche e sociali del po­ polo italiano. Si dava, dunque, questo strano risultato, che la Francia aveva già conosciuto all’indomani del 1870, cioè che la re­ pubblica venisse consegnata praticamente ai monarchici, perché se anche i voti repubblicani, con i due milioni circa di democristiani, raggiungevano i 12 milioni contro i 10 degli avversari, era pure vero che nella d.c. si poteva dubitare del lealismo repubblicano degli esponenti, che sarebbero riusciti certamente a manovrare anche i deputati di sini­ stra del loro partito. Tuttavia, una cosa era certa, che i due blocchi si fronteggiavano con forze quasi uguali la­ sciando presagire una lunga serie di compromessi nella elaborazione della costituzione (infatti, andavano all’Assem­ blea circa 290 deputati di destra e democristiani contro circa 260 deputati di sinistra). In tale situazione, la posi­ zione di tutti i partiti e gruppi repubblicani appariva se­ gnata, se non volevano favorire la vittoria delle correnti opposte, ed era una posizione di stretta alleanza, di blocco, in certo qual modo, attorno al p.s.i. ed al p.c.i. (il primo si confermò il partito proletario più forte con 4.512.333 voti — 20,9% e 115 deputati contro 4.129.225 voti — 19,1% — e 104 deputati del p.c.i.). Si riproponeva, proprio perché imposto dalla realtà stessa, il problema dell’unità organica dei socialisti e dei comunisti, non "su un piano di problematica ‘tattica’ contingente," scriveva Socialismo, "ma sul suo terreno, considerandolo cioè come il problema e il momento fondamentali del movi­ 278

mento proletario nella fase attuale della lotta di classe.” E Togliatti, dalle colonne di Rinascita, deprecava l’eventua­ lità che il patto d’unità d’azione potesse essere messo in mora, con gravi conseguenze per i lavori della Costituen­ te e per la democrazia italiana. Altre conseguenze delle elezioni erano la quasi totale scomparsa del p.d’a. (circa 300 mila voti con deputati tutti del collegio unico nazionale) e la notevole affermazione dell’"Uomo qualunque," il quinto partito, con circa 1 mi­ lione di voti e 30 deputati. Ma per quest’ultimo movimen­ to si trattava di un fenomeno clientelistico, in particolare del Mezzogiorno, che aveva raccolto in gran parte il tra­ dizionale elettorato delle correnti liberali e democratiche in un moto di vaga e disorientata sfiducia verso la vita po­ litica in genere.7 E proprio nelle diverse votazioni riportate 7 Tuttavia, c’era anche chi esaltava il successo conseguito dalla de­ mocrazia cristiana, come D. Satolli nel numero di giugno '46 del "Campo," in cui scriveva: "Pur tenendo nel dovuto conto l’affermazione del p.c.i. ed il veramente notevole e forse inaspettato consenso ottenuto dall'Uomo Qualunque, dobbiamo notare che la maggioranza si è espressa in favore dei partiti di centro ed in particolare di quello che si presentava tradi­ zionalmente e naturalmente come il più italiano perché il più cattolico. Con il dare il voto alla DC da molte parti si è inteso [...] esprimere al Santo Padre ed alla Chiesa la propria gratitudine per l'attività svolta ne­ gli ultimi anni." Ma il successo più importante era più quello dei socia­ listi che dei comunisti, e da tale successo il Saragat, sull'"Avanti!” del 6 giugno '46, credeva di poter trarre una conferma alla sua linea politica, tanto che si lanciava in un rinnovato appello alla "riconciliazione frater­ na," in nome di una "immensa fraternità," mettendo, inoltre, in rilievo l’apporto decisivo dei ceti medi e rinnovando una professione di "fedeltà infrangibile alla democrazia,” nella prospettiva di una repubblica "popo­ lare ma non di classe." Nulla era rimasto, pertanto, in questo articolo del Saragat, del vecchio spirito classista, che neppure gli antichi rifor­ misti aveva osato rinnegare del tutto, sicché aveva ragione il Gonella, sul "Popolo" del 7 giugno, in un articolo estremamente duro, intitolato Nien­ te senza di noi, a proclamare che "il bilancio definitivo segna la sconfitta di quei partiti che, rinunziando formalmente e per ragioni tattiche al loro integralismo, si illudevano di far passare attraverso la repubblica della merce di contrabbando politico. Essi si sono accorti che con le loro for­ ze sole la repubblica non sarebbe stata [ma il contributo dei democristia­ ni era stato una ben misera cosa], essi si accorgeranno che la vittoria sul terreno della repubblica non basta per compensare la sconfitta sul terreno della Costituente.” Era un inno di vittoria, ed i cattolici aveva­ no conseguito quello che era stato sempre illoro indento principale, cioè il dominio nella futura assemblea che avrebbe dovuto dare il nuovo as­ setto costituzionale all’Italia, "molto al di là," afferma il Colapietra, "dell'etichetta istituzionale, delle formule luccicanti di Nenni, del triparti­ to di massa di Togliatti." L'appuntamento con le altre correnti era solo rimandato, ma l’individuazione del nuovo terreno di lotta e della possi­ bilità di poterlo dominare era molto netta e lucida. Aveva inizio il lun­ go, ed ancora ininterrotto, predominio della democrazia cristiana sulla vita politica italiana.

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dall’ "u.q.” nell’Italia settentrionale e in quella meridio­ nale si poteva notare la diversa fisionomia politica delle due zone: 192.699 voti nel nord, 235.906 nel centro e 717.009 nel sud. Si poteva forse parlare di frattura tra set­ tentrione e Mezzogiorno, di quella frattura che Riccardo Lombardi, in un discorso tenuto a Bologna, il 18 maggio, aveva mostrato di ritenere che sarebbe stato il pericolo maggiore del referendum? Effettivamente, la divisione fra le due parti della penisola appariva netta e la maggioran­ za che nel nord era andata alle sinistre repubblicane pas­ sava nel sud alle destre monarchiche. Nel passaggio i voti per la permanenza della dinastia cambiavano profonda­ mente carattere, perché se nel settentrione erano voti soprattutto di elementi conservatori, nel meridione, inve­ ce, erano voti anche di povera gente, per tradizione e per sentimento monarchica, che nella monarchia vedeva, risa­ lendo sempre ai ricordi dell’antico regime, la difesa con­ tro il pili intenso sfruttamento della società borghese. Si trattava, perciò, di un ambiente ancora pre-capitalistico, non ancora pervenuto ad avvertire la necessità dell’orga­ nizzazione, che era stato il grande principio con cui si era affermato il socialismo sul finire dell’Ottocento. Tutto ciò imponeva ai partiti democratici il dovere di occuparsi se­ riamente del Mezzogiorno, cosa che, confessava il Basso, non era avvenuta dalla liberazione in poi.

Contestazioni alla vittoria repubblicana Proprio della diversa volontà manifestata dal Sud nei ri­ guardi del problema istituzionale sembrava che volessero servirsi i monarchici per creare difficoltà e per mettere in discussione la vittoria repubblicana. A Napoli, in Puglia e in Calabria scoppiarono gravi torbidi mentre in Sicilia, dove il separatismo continuava ad essere vivo pur dopo l’arresto del Finocchiaro Aprile, avvenuto nell’ottobre 1945, un “Comitato nazionale indipendentista,” ricordando che il vincolo che aveva unito il popolo siciliano a quello italiano era stato il plebiscito del 1860 — i cui termini era­ no stati: la Sicilia vuole l’Italia una e indivisibile con Vit­ torio Emanuele II, Re costituzionale e suoi discendenti — riteneva che l’isola avesse riacquistato "la propria sovra­ nità e il diritto all’autodecisione” con la rottura del vinco­ lo stesso in séguito alla eliminazione della dinastia sa­ bauda. 280

Erano tutte agitazioni che venivano a proposito e che sembravano giustificare il tentativo dell’ex-re di non cede­ re al responso delle urne. Tale atteggiamento di Umberto e dei suoi consiglieri ebbe inizio, come scrisse La Civiltà cattolica a cui è dovuta una minuta cronaca di questi gior­ ni fra il 2 e il 18 giugno, con le recriminazioni della stam­ pa monarchica sulla manifesta inferiorità con cui la mo­ narchia aveva dovuto affrontare la lotta nei confronti delle forze repubblicane, padrone del governo, degli enti parasta­ tali, delle prefetture, delle banche e delle aziende commercia­ li. "Ora il rimpianto per una sconfitta,” soggiungeva la stessa rivista, "attribuita più che al valore dell’avversario, alla sopraffazione, facilmente si sfoga in recriminazioni e in ripiegamenti su se stessi, dando luogo a tentativi di rivalsa, dopo un primo tempo di rassegnato adattamento alla sorte avversa.” Il 7 giugno, la monarchica Italia nuo­ va parlava di consultazione “arbitraria, intempestiva, in­ completa e impreparata” e metteva in dubbio apertamente la sincerità, la lealtà e l’onestà delle elezioni. Il giorno se­ guente, il segretario del partito democratico italiano (mo­ narchico), Enzo Selvaggi, presentava al presidente della Corte di Cassazione, alla quale spettava proclamare i ri­ sultati del referendum, una “ comunicazione ” che impu­ gnava la legittimità del criterio che aveva seguito il mi­ nistro Romita nel calcolare la maggioranza repubblicana in base ai voti validi e non, come prescriveva il decreto luogotenenziale del 23 aprile 1946, in base al numero degli elettori votanti, cioè in base anche alle schede bianche e ai voti nulli. La questione era molto importante perché se con il calcolo ufficiale del ministero dell’Interno la re­ pubblica aveva riportato il 54,26% dei voti e la monarchia il 45,74%, con il calcolo, invece, sostenuto dal Selvaggi e subito dopo anche dal Cattani, dal Cassandro, segretario del p.l.i., e da “un Comitato di eminenti giuristi," la mag­ gioranza repubblicana si riduceva notevolmente e arrivava appena al 51,01% (le schede bianche e i voti nulli furono quasi 1 milione e mezzo, cioè il 6%). Il "Comitato di emi­ nenti giuristi” chiedeva, inoltre, il rinvio della proclama­ zione da parte della Corte di Cassazione adducendo il fat­ to che non erano state consultate le popolazioni della Ve­ nezia Giulia e dell’Alto Adige (e infatti i deputati eletti furono 556 anziché 573 mancando appunto quelli di queste due regioni). Infine, ancora Ì’Italia nuova avanzava, il 10 giugno, gravi dubbi sull’autenticità delle cifre degli elet­ tori sembrandole impossibile che avessero votato circa 25 281

milioni di cittadini: essa pensava che i votanti non avreb­ bero dovuto essere più di 21 milioni. Il governo, però, ri­ spose definendo queste affermazioni inesatte e fornendo le cifre precise: su 28.021.375 iscritti nelle liste elettorali di tutti i Comuni, avevano votato, secondo i dati accertati dalla Corte Suprema di Cassazione, 24.935.343 elettori, cir­ ca l’89%. Tali contestazioni facevano prevedere che Umberto non si sarebbe facilmente rassegnato al responso negativo: il Garofalo scrive che dall’"acrimonia" con cui furono ac­ colti dai repubblicani i ricorsi e gli appelli dei monarchi­ ci, nacquero il dubbio ed il sospetto "che i vincitori aves­ sero coscienza della fragilità e della impugnabilità della loro vittoria; e che volessero, con la frettolosa intransi­ genza, velare l'una e l’altra all’indagine dell’opinione pub­ blica.” Furono proprio questi dubbi e sospetti che giu­ stificarono il rifiuto dell’ex-sovrano di lasciare il paese non appena proclamati dalla Corte di Cassazione i risultati del referendum. Il che avvenne il 10 giugno, alla presenza del governo, ma il pretesto valido per la mossa di Umberto venne dalla stessa Corte che decise — mantenendosi rigo­ rosamente nei limiti del decreto luogotenenziale, il quale stabiliva che in un secondo tempo, dopo la proclamazione dei risultati del referendum, si dovesse dare il giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste e i reclami —, di rinviare ad una successiva adunanza appunto tale giudi­ zio definitivo. Parve, pertanto, ai circoli monarchici, dopo aver consultato "non pochi illustri giuristi,” che il "Re dovesse rimanere investito dei poteri sovrani fino al gior­ no in cui la Corte di Cassazione non avesse sciolte le sue riserve." Perplessità, dice ancora il Garofalo, che doveva essere condivisa dal De Gasperi e dalle persone a lui piu vicine: “Credevamo di sapere che nel programma della ce­ rimonia di quel giorno a Montecitorio fosse prevista una breve allocuzione del Presidente del Consiglio. E sem­ brava, anche, che egli fosse entrato nella Sala della Lupa avendo, in tasca, un foglietto dove era appuntata la for­ mula di questa sua allocuzione. Il fatto che, poi, non aves­ se ritenuto di dover far seguire le sue parole a quelle del Presidente Pagano, poteva significare, almeno, il suo dub­ bio sull’opportunità e la legalità di un tal gesto.” I monarchici credettero nella possibilità che il loro punto di vista venisse accettato dal governo quando vide­ ro giungere il presidente del consiglio al Quirinale per co­ municare ad Umberto l’annuncio della Corte di Cassazio­ 282

ne: speravano che si potesse trovare una soluzione tale da rispettare il potere della Corona, una soluzione che avrebbe dovuto consistere "in una delega rilasciata dal Sovrano al Presidente del Consiglio di esercitare, in suo nome, il potere fino a quando la Corte di Cassazione non si fosse pronunciata definitivamente.” Essi avevano una fiducia quasi assoluta nel De Gasperi, di cui ammiravano la "riconosciuta bravura nell’accordare le opposte tesi e nell’imbastire le basi di un compromesso," ed erano sicuri che egli non avrebbe potuto sottrarsi "alla realtà ammonitrice delle elezioni," che avevano affidato il ruolo principale della nascente repubblica ad un partito che aveva dato milioni di voti alla monarchia; ora, se il leader democristiano vo­ leva conservare il cosi alto suffragio conseguito, doveva ne­ cessariamente mostrarsi comprensivo verso le esigenze dei numerosissimi monarchici del suo partito. La prima volta il De Gasperi si era recato al Quirinale accompagnato dal liberale Arpesani, fedele alla monarchia, ma quando più tardi vi ritornò era accompagnato dal ministro azionista Bracci, che fece capire "come si fosse ben lontani da un qualsiasi accordo e come la situazione potesse ina­ sprirsi da, un momento all’altro." Infatti, il consiglio dei ministri, riunito al Viminale, aveva deciso, con la sola op­ posizione del Cattani, di chiedere all’ex-re una cessione pura e semplice dei poteri che avrebbero dovuto essere assunti dal primo ministro, togliendo in tal modo ad Um­ berto la possibilità di sollevare ulteriori riserve. Incominciava quel cedimento del De Gasperi verso le tesi repubblicane, che colpi dolorosamente i monarchici e che tolse ad essi ogni speranza. In realtà, bisogna dare atto al capo della d.c. di avere capito che era in gioco non soltanto quel referendum, ma il metodo democratico; il quale, se fosse stato messo in discussione (o addirittura se fosse stata negata la validità dei risultati elettorali), sa­ rebbe stato sconfitto un’altra volta ed espulso dalla vita pubblica italiana con conseguenze e ripercussioni di por­ tata gravissima, perché il paese molto probabilmente sa­ rebbe caduto nella guerra civile. Cosi, si spiegano tutti gli atti successivi del governo che videro i democristiani sinceramente partecipi: un primo comunicato, approvato nella notte sul 10, affermava che il consiglio aveva preso atto della proclamazione dei risultati del referendum; di­ chiarava la giornata dell’ll festiva e si riservava di deci­ dere “nella seduta di domani sui provvedimenti concreti che ne derivano.” Era un ordine del giorno, osserva il Ga­ 283

rofalo, che spostava le basi del dilemma e rendeva assai diffìcile la ripresa dei colloqui; per lui era incomprensibile come mai il De Gasperi, che “era parso voler lasciare ancora in sospeso la formulazione della delega dei poteri," fosse stato indotto ad approvare un simile comunicato. Ad esso Umberto, mentre i giornali avversari chiedevano il suo arresto o l’immediata espulsione, tentò di reagire facendo recapitare, per mezzo del ministro della Real Casa, Falco­ ne Lucifero, una lettera al presidente del consiglio in cui confermava la sua “decisa volontà di aspettare il respon­ so della maggioranza del popolo italiano espresso dagli elettori votanti, quale risulterà dagli accertamenti e dal giudizio definitivo della Corte Suprema di Cassazione, chiamata per legge a consacrarlo." Questa lettera era del 12 giugno e immediata venne la risposta, il giorno seguente, del governo: "Il Consiglio dei Ministri riafferma che la proclamazione dei risultati del referendum, fatta il 10 giugno dalla Corte di Cassazione nelle forme e nei termini del decreto legislativo luogote­ nenziale 23 aprile 1946, n. 219, ha portato automaticamen­ te all’instaurazione di un regime transitorio durante il quale fino a quando l’assemblea costituente non abbia no­ minato il Capo provvisorio dello Stato, l’esercizio delle fun­ zioni del Capo dello Stato medesimo spetta ope legis al Presidente del Consiglio in carica.” Questa dichiarazione fu confermata da quanto disse il De Gasperi ad un giorna­ lista straniero, il quale gli aveva chiesto se avesse assunto le funzioni di Capo dello Stato: “In pratica, ho il diritto di intervenire come Capo dello Stato e, se sarà necessario fare una legge, la farò. Siamo in regime transitorio.” Il Garofalo esitava a seguire coloro che giudicavano la deci­ sione governativa un colpo di Stato, perché sapeva che la Corte di Cassazione avrebbe confermato la vittoria repub­ blicana; per questo stesso motivo, respingeva delle tre vie, che ormai rimanevano ad Umberto “per tutelare il prin­ cipio da lui impersonato,” quella di opporre la forza alla illegalità del consiglio dei ministri ed anche l’altra di riti­ rarsi in una località del territorio nazionale in attesa del responso definitivo della Corte (sia l’una sia l’altra via avrebbero portato alla guerra civile), e pensava che non rimanesse che partire per l’esilio, pur " protestando con­ tro l’atto del Governo.” E quest’ultima via fu effettiva­ mente scelta dall’ex-re, che lasciò la capitale nel pomerig­ gio del 13 diretto a Lisbona. Ma, prima, volle protestare e lo fece con un proclama, pubblicato dopo che egli aveva 284

lasciato il territorio nazionale, che era un violento atto d'accusa contro il procedere arbitrario e illegale del mi­ nistero: "[...] Di fronte alla comunicazione di dati prov­ visori e parziali fatta dalla Corte Suprema; di fronte alla sua riserva di pronunciare entro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non risoluta sul modo di calcolare la maggioranza, io ancor ieri ho ripetuto ch’era mio dovere di Re attendere che la Corte di Cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta. Im­ provvisamente, questa notte, in spregio alle leggi e al po­ tere indipendente e sovrano della magistratura, il Governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo con atto unilaterale e arbitrario poteri che non gli spettano, e mi ha posto nell’alternativa di procurare spargimento di san­ gue o di subire la violenza.” Aveva sentito di dover com­ piere "questo sacrificio nel supremo interesse della Pa­ tria,” ma non poteva trattenersi dall’elevare la sua pro­ testa contro la violenza che si era compiuta. Vi fu chi disse che Umberto aveva lasciato soltanto un abbozzo di proclama, a cui, poi, era stata data la forma definitiva da altri, ma Yltalia nuova rivendicò invece con sicurezza tutto il documento all’ex-sovrano. Il Garofalo, inoltre, discute l’ipotesi, allora avanzata, che la partenza fosse stata insistentemente auspicata dalle autorità angloamericane, desiderose di evitare che un irrigidimento po­ tesse provocare “reazioni da parte di qualche Potenza stra­ niera che avesse interesse all’avvento della repubblica in Italia” (questo timore degli alleati rivela come il ricordo della mossa del Togliatti nel marzo-aprile del 1944 non fosse stato da essi ancora dimenticato). L’aiutante di cam­ po respinge questa ipotesi, pur affermando, poco dopo, che probabilmente vennero ad Umberto “voci di consi­ glieri,” che ribadirono la necessità e l’opportunità di ab­ bandonare l’Italia. Intanto, la presidenza del consiglio ren­ deva note, la mattina del 14 giugno, alcune dichiarazioni in cui si definiva il proclama regio "un documento penoso, impostato su basi false e su argomentazioni artificiose.” Si dilungava, poi, nel ribattere le false affermazioni dell’exsovrano e concludeva: "I due ultimi periodi del proclama, quello che scioglie dal giuramento e quello che rivolge un saluto ai caduti ed ai vivi, sono due periodi superstiti del 285

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proclama che Umberto aveva in precedenza preparato per un pacifico commiato. Ameremmo credere che quanto di fazioso e di mendace vi si è aggiunto in questa definitiva sciagurata edizione sia prodotto dal clima passionale e av­ velenato degli ultimi giorni. La responsabilità tuttavia è gravissima e un periodo che non fu senza dignità si con­ clude con una pagina indegna. Il Governo e il buon senso degli italiani provvederanno a riparare a questo gesto di­ sgregatore, rinsaldando la loro concordia per l’avvenire democratico della Patria." In effetti, si deve dire che il consiglio dato ad Umberto di aspettare il giudizio definitivo della Corte di Cassazio­ ne tolse alla monarchia ogni alone di grandezza e la fece cadere in una atmosfera di bassi e meschini puntigli; per­ ché ad un solo patto tale condotta sarebbe stata giustifi­ cata, cioè se fossero esistiti seri e fondati motivi per rite­ nere che esistessero elementi tali da poter far modificare la comunicazione della Corte del 10 giugno sulla vittoria repubblicana. Ed invece, proprio tali elementi mancavano nel modo più assoluto e lo stesso Garofalo ne era piena­ mente consapevole, dal momento che scriveva: “Tutto la­ sciava supporre che, malgrado le riserve formulate dalla Corte, il secondo verdetto avrebbe proclamato in maniera definitiva e irrevocabile la vittoria repubblicana." Da que­ sta convinzione l’aiutante di campo era indotto a credere che fosse un errore consigliare “il Re ad irrigidirsi sul solo aspetto giuridico del problema"; ma egli faceva parte di quel gruppo di moderati che, in quei momenti, venne sca­ valcato dagli intransigenti, i quali esercitarono una più decisa influenza sull’animo dell’ex-re. Però, i calcoli di que­ sti ultimi si dimostrarono errati soprattutto per l’intran­ sigente atteggiamento del De Gasperi, che essi non avevano affatto previsto. E, certo, la difesa della repubblica assun­ ta con tanta energia dal capo di un partito per tre quarti monarchico, fu una sorpresa, una sorpresa a cui probabil­ mente non fu estranea la volontà degli alleati di far ri­ spettare le regole democratiche: avevano appoggiato la monarchia, ma una volta che il popolo italiano si era pro­ nunciato, non si sarebbe potuto violarne il sentimento a meno che si fosse voluto precipitare il paese nella guerra civile; ma di questa avrebbero potuto approfittare, senza dubbio, i comunisti e la Russia, sconvolgendo la faticosa divisione in zone d’influenza dell’Europa.

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Capitolo quinto

La Costituzione

Le decisioni parigine sul trattato di pace con l’Italia Quanto fosse reale il pericolo che l’Unione Sovietica intervenisse nelle faccende interne italiane in séguito alla non chiara situazione creata dalle contestazioni monarchi­ che, lo dimostrarono le dichiarazioni che il ministro degli Esteri russo, Molotov, fece all’apertura della conferenza di Parigi per i trattati di pace (15 giugno). Egli denunciò gli “incidenti,” le “dimostrazioni antirepubblicane’’ e le "azioni armate” di elementi monarchici e filofascisti delusi dai risultati del referendum del 2 giugno e sostenne che tutto ciò provava 1'esistenza, in Italia, di "una minaccia immediata di guerra civile, formata da coloro che fino a ieri furono le colonne del fascismo italiano.” Questa mi­ naccia doveva essere combattuta dalle potenze alleate che avevano firmato, nel settembre 1943, l’armistizio con l’Ita­ lia e che, poi, avevano approvato il protocollo del Consi­ glio dei ministri degli Esteri, a Parigi, il 16 maggio del 1946, in base al quale doveva essere garantito al popolo italia­ no il diritto di scegliersi, a maggioranza di voti, una for­ ma democratica di governo. “Poiché questo protocollo," proseguiva il Molotov, "è stato ratificato dai governi degli Stati Uniti d’America, della Gran Bretagna, dell’Unione Sovietica e della Francia, ne deriva una responsabilità an­ cora maggiore, da parte di questi quattro governi, per quanto riguarda la situazione politica in Italia. Tenendo conto di tutte queste circostanze, il governo sovietico ri­ tiene che le potenze alleate non possano restare indifferen­ ti di fronte a tentativi di scatenare ima guerra civile in Italia. Sarebbe ora importante che il Consiglio dei Mini­ stri degli Esteri fosse informato dalle potenze alleate (su cui ricade l’immediata responsabilità della situazione po­ litica in Italia e le cui forze armate sono presenti nel ter­ ritorio di quel Paese conformemente alle clausole d’armi­ stizio) delle misure prese per impedire un ulteriore svi­ 287

luppo degli eventi accennati e degli sforzi diretti contro la instaurazione della repubblica, conformemente alla vo­ lontà del popolo italiano, genuinamente espressa nel re­ ferendum istituzionale." Si trattava di una esplicita proposta di congiunto in­ tervento in Italia, che avrebbe potuto creare, evidente­ mente, nuovi e gravi problemi agli anglo-americani, rimet­ tendo tutto in discussione e rafforzando il partito comu­ nista. Ed invece, pur essendo crollata la monarchia (ma i laburisti in Gran Bretagna se ne mostrarono contenti), i risultati delle elezioni per la Costituente avevano soddi­ sfatto le due potenze occidentali, le quali vi avevano visto la conferma, come scriveva la stampa americana, che gli italiani non volevano estremismi e che erano decisi a re­ sistere alla pressione comunista; di conseguenza, quei ri­ sultati erano stati intesi come una prova deH'orientamento sostanzialmente filo-occidentale del paese. Ecco il per­ ché delle loro probabili pressioni per una rapida soluzio­ ne della questione monarchica. Tuttavia, l’aver evitato il pericolo di un diretto intervento russo nella penisola, avrebbe avuto scarsa importanza se, poi, si fosse contri­ buito a rafforzare proprio quelle correnti di destra, che erano state sul punto di provocarlo, con quella che inco­ minciava ad essere definita una pace di punizione. Per­ ché a Parigi, dove si era riunita la conferenza dei ministri degli Esteri delle quattro grandi potenze in ricordo del­ l’altra conferenza della pace del 1919, sembrava che l’inconciliabilità delle posizioni anglo-americane con quelle so­ vietiche e il loro duro contrasto dovessero portare a com­ promessi che si risolvevano in nostro danno. Infatti, ad esempio, la rinuncia sovietica alle colonie italiane ed anche al Dodecaneso (sulle prime non si raggiunse, il 3 luglio, una decisione definitiva e si convenne che sarebbero rima­ ste sino a quando questa non si fosse raggiunta, sotto l’amministrazione militare britannica, mentre il secondo fu attribuito alla Grecia, il 27 giugno, con l'obbligo di smilitarizzarlo, dopo che il Molotov ebbe ritirato le sue obiezioni), fu compensata con concessioni nella Venezia Giulia assegnata alla Jugoslavia sino alla linea francese — linea Wolfrom — e con l’erezione di Trieste e di una zona che andava da Duino a Cittanova d’Istria in "Territorio libero di Trieste,” sotto la tutela del Consiglio di sicurezza dell’U.N.O., restando all'Italia Tarvisio, Gorizia e Monfalcone (3 luglio). Era, quest’ultima, una soluzione che contravveniva apertamente al principio etnico che la pri288

ma sessione londinese del Consiglio dei ministri degli Este­ ri (19 settembre 1945) aveva stabilito dovesse costituire la base per la linea di demarcazione fra i due popoli, poiché all’Italia veniva lasciata solo una esile striscia. Inoltre, sia gli anglo-americani sia i sovietici non avevano avuto diffi­ coltà ad accettare la richiesta francese di una rettifica del­ la frontiera alpina con la cessione da parte nostra di Briga e Tenda (una clausola, "di valore comunque assai dubbio,” era detta da Antonio Basso sullo Stato moderno, che ga­ rantiva all’Italia lo sfruttamento di una parte dell’energia elettrica prodotta dalle centrali esistenti in quella zona). Infine, il 24 giugno, erano state rigettate le rivendicazioni austriache sull’Alto Adige, ma solo perché, si faceva no­ tare, esse erano state avanzate da un altro Stato vinto. Non meno pesanti minacciavano di essere le clausole economiche: l’U.R.S.S. chiedeva una indennità di 100 milio­ ni di dollari (fra i 20 e i 40 miliardi di lire di allora), ed avrebbe voluto che una somma press’a poco doppia pagas­ simo alla Grecia e alla Jugoslavia. Ma forse più gravose ap­ parivano le prestazioni finanziarie che, sotto forma di emis­ sione di carta moneta, di forniture, di oneri derivanti dalle requisizioni, ecc., avremmo dovuto continuare a prestare alle truppe alleate di stanza in Italia. Il governo italiano spe­ rava che nel progetto di trattato fosse contemplata la fine di tale situazione, ma, per questo lato, la delusione fu molto viva perché se gli Stati Uniti da tempo accredita­ vano il controvalore di quella parte della troop’s pay che i soldati americani spendevano in Italia, l'Inghilterra in­ vece, in un "Annesso” da essa presentato, chiedeva che i debiti dell’Italia cominciassero a decorrere dalla data del­ l’armistizio dell’8 settembre 1943 e che i crediti decorres­ sero dall’entrata in vigore del nuovo armistizio. "In que­ ste condizioni,” osservava amaramente Politica estera, "non si riesce a vedere quale contenuto possa attribuirsi alla cobelligeranza e cioè quale diverso trattamento avreb­ be potuto ricevere l’Italia se si fosse limitata ad osser­ vare l’armistizio in qualità di Paese vinto.” Amarezza in cui si rifletteva la delusione dell’opinione pubblica italia­ na: in realtà, avevamo creduto che l’appellarci alla lotta condotta in comune contro il nazismo tedesco, ai valori della libertà difesi con costanza anche negli anni più oscu­ ri della dittatura fascista, quando ad essa altri governi non avevano lesinato riconoscimenti, oppure ai valori del­ la democrazia e di una pacifica convivenza fra i popoli dei quali ci si diceva rispettosi, avrebbero potuto risparmiar11.10

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ci quella pace punitiva che le grandi potenze sembravano decise ad infliggerci. Certo, la dura realtà dei contrasti internazionali fra i due blocchi avevano fatto rapidamente ritornare l’un grup­ po e l’altro alle concezioni grette dei militari, come scrive­ va Antonio Basso, dei conservatori, dei piccolo-borghesi, per i quali ogni chilometro quadrato di territorio aggiunto al proprio paese era tanto di guadagnato e una guerra vit­ toriosa non aveva senso se non si concludeva con qualche annessione. Cosi, nasceva il sospetto che le richieste fran­ cesi fossero state appoggiate dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti per facilitare al massimo, diceva Ugo Guido Mondolfo, la eventuale discesa degli eserciti occidentali nella valle del Po, preveduto campo di scontro tra le forze degli opposti schieramenti; e cosi, i delegati sovietici ave­ vano sostenuto ostinatamente, come disse il Byrnes alla radio americana il 15 luglio (cioè due giorni dopo la chiu­ sura della conferenza), le rivendicazioni jugoslave accusan­ do l’Italia di mantenere sempre vivo lo spirito imperialisti­ co. Cadevano le illusioni e ciò non faceva altro che rafforza­ re le correnti di destra, le quali avanzavano la proposta che non si firmasse il trattato; naturalmente, le conseguenze di un tale gesto sarebbero state imprevedibili, ma sarebbe ba­ stato a quelle correnti turbare ancor di più i rapporti in­ ternazionali nella speranza di riuscire, con una ribellione nazionalistica che trascinasse buona parte del popolo, ad imporsi, come già avevano fatto tra il 1919 e il 1922. Tuttavia, c’era la fiducia, per quanto tenue, che la nuo­ va conferenza detta dei 21, perché ad essa sarebbero inter­ venuti tutti gli Stati che avevano preso parte attiva alla lotta contro l'Asse (si tenne dal 29 luglio al 14 ottobre), po­ tesse modificare lo schema approvato dai ministri degli Esteri. Ma la soddisfazione espressa dal Byrnes nel citato discorso radiofonico ("Gli schemi di trattati sui quali ci siamo messi d’accordo non sono i migliori che la saggez­ za umana potesse escogitare, ma sono quanto di meglio la saggezza umana ha potuto formulare perché i quattro principali alleati si mettessero d'accordo”), e la prelimi­ nare dichiarazione dei "Quattro” sulla inutilità per la con­ ferenza di soffermarsi su emendamenti non accettati in precedenza da essi stessi, rendevano del tutto vana quella fiducia. A nulla valsero, pertanto, le proteste di qualche "piccolo,” come il brasiliano Neves de Fontoura o l’austra­ liano Evatt, che misero in rilievo "l’evidente ingiustizia” fatta all’Italia; a nulla anche valsero le dichiarazioni del

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De Gasperi, del Saragat, del Bonomi, a Parigi, invocanti tutti una maggior comprensione per l’Italia: il compro­ messo fra i due blocchi era stato raggiunto a fatica e non poteva essere rimesso in gioco molto facilmente, anche se, come scriveva Le Monde del 6 settembre, "la rinuncia ai principi, non solo a quelli che ispirarono la pace del 1919, ma ai principi della più elementare giustizia, pesa [va] gra­ vemente sulla pace che si prepara[va] da Jalta a Potsdam.” Il De Gasperi non avrebbe certo sostenuto che si do­ vesse rigettare il trattato, e nemmeno che ci si dovesse ritirare dalla conferenza, ma, partendo dalla premessa (che, per quanto criticabile, aveva tuttavia una certa coerenza), che l’Italia non fosse impegnata con nessuno dei due bloc­ chi, propose che la questione di Trieste venisse rinviata di un anno. L'Unità reagì piuttosto violentemente, con ogni probabilità perché sapeva, come chiari Mario Paggi, che un anno più tardi la diplomazia sovietica si sarebbe tro­ vata di fronte ad un compito molto più duro, dato il mag­ giore inserimento dell'Italia nella sfera occidentale. Il che avrebbe avuto ripercussioni anche sulla vita politica interna perché la d.c. sarebbe apparsa come il partito che aveva saputo meglio difendere l’italianità della città con­ tesa. Eppure, la condotta del De Gasperi era in se stessa contraddittoria: se da un lato, infatti, proclamava la neu­ tralità dell’Italia, dall’altro non sapeva impedire che i gior­ nali del suo partito si abbandonassero ad una vivace pole­ mica antirussa, e, mentre si presentava come l’esponente dell’Italia antifascista e partigiana, non era stato in grado di impedire il rapido tramonto del "mito" della lotta di liberazione, anzi era stato uno di quelli che l’aveva favo­ rito, cercando una restaurazione della vecchia vita politi­ ca che eliminasse ogni fermento innovatore. Sicché si ca­ piva abbastanza facilmente come la sua difesa di una po­ sizione di equilibrio fra i due blocchi fosse soltanto con­ tingente e dovuta principalmente alla necessità di non ina­ sprire la Russia, dal momento che ciò avrebbe giustificato un suo atteggiamento contrario ai nostri interessi. Il nuovo governo De Gasperi Il 25 giugno, alle ore 16, nell’aula di Montecitorio si apri la prima seduta dell’Assemblea Costituente alla pre­ senza di 467 deputati, con un discorso di Vittorio Emanue­ le Orlando che richiamò gli italiani ad dovere di lealtà re­ 291

pubblicana; protestò contro la pace orribile che da Parigi ci si voleva imporre ed affermò che se cosi fosse stato, i morti nella guerra di liberazione sarebbero caduti invano: in una seduta successiva Riccardo Lombardi disse che ciò non era vero, perché i partigiani si erano sacrificati per ideali che avevano un valore perenne e che non erano stati vani anche se apparivano sconfitti dai nuovi imperialismi. Era un altro, significativo scontro fra la generazione pre­ fascista e la generazione che era cresciuta durante il fa­ scismo, la cui assenza si faceva “duramente sentire nella vita del Paese," come disse il Saragat eletto con i voti dei tre partiti di massa (401 su 467) alla carica di presidente dell’Assemblea. Questa designazione, che era stata accet­ tata anche dalla d.c., rese impossibile al partito socialista sostenere la candidatura di Benedetto Croce per la supre­ ma carica di Capo provvisorio dello Stato, una candidatu­ ra che esso aveva avanzato il 22 giugno, trovando che il filosofo napoletano, “il più alto rappresentante della cul­ tura italiana,” offriva, “per la nascente Repubblica, garanzie di serietà per il suo pensiero, per la sua tradizione libera­ le e per il suo prestigio personale.” Si trattava, evidente­ mente, di una indicazione che veniva ad assumere un va­ lore chiaramente avverso ai democristiani — i quali avreb­ bero preferito l’Orlando o il Bonomi —, poiché essa non nascondeva l’intento di contribuire a formare un fronte laicista fra la sinistra e la destra, tale da isolare i catto­ lici. Ma dopo 1’elezione del Saragat, i socialisti dovettero adattarsi ad un compromesso e ripiegare, perciò, sul nome del De Nicola che ottenne, il 28 giugno, 396 voti su 504 votanti (la maggioranza di tre quinti era di 323 voti: i mi­ nori partiti repubblicani e le destre monarchiche o si astennero o votarono per altri candidati, irritati, si disse, per non essere stati interpellati). Immediatamente, il De Gasperi, in base alla legge sul referendum, rassegnò al presidente della Repubblica le di­ missioni del gabinetto da lui presieduto e incominciarono le rituali consultazioni: i primi ad essere invitati dal Capo dello Stato furono Orlando, Saragat e Sforza. Certo, era una nuova crisi la cui soluzione si presentava tutt’altro che facile, sebbene il corpo elettorale avesse espresso un orientamento molto chiaro dando una cosi forte maggio­ ranza ai tre partiti di massa. Al De Gasperi, pertanto, che ricevette l’incarico ufficiale di formare il nuovo ministero, era segnata già in partenza la via che doveva seguire ed anche se aveva sperato di poter realizzare un accordo con 292

i socialisti che escludesse i comunisti, questo gli fu reso impossibile dalla riconfermata unità di azione fra i due partiti di sinistra. I comunisti stessi, avevano dato, in pre­ cedenza, evidente prova di un cauto spirito di moderazione quando il loro capo, il Togliatti, come ministro della Giu­ stizia, aveva presentato il 21 giugno, uno schema di de­ creto che comprendeva l’amnistia per i reati comportanti pene fino a 5 anni, il condono fino a 3 anni per i reati com­ portanti pene superiori e la commutazione della pena di morte in ergastolo per i reati più gravi. In séguito all’in­ tervento del De Gasperi, che fece presente l’opportunità di trovare una formula più ampia tale da raggiungere ve­ ramente la pacificazione degli animi a cui si mirava, lo schema definitivo aveva esteso i casi di amnistia per i reati politici, escludendo peraltro quelli commessi “da per­ sone investite di elevata responsabilità di comando civile o militare” e i casi "di strage, sevizie particolarmente ef­ ferate, omicidio o saccheggio.” "Per la concordia nazionale la grande amnistia repubblicana”: cosi essa fu presentata dall’l/mïà, ma subito critiche molto vive si sollevarono da­ gli ambienti antifascisti e la preoccupazione si diffuse ne! paese: ordini del giorno furono approvati da federazioni provinciali socialiste, alcuni dei quali pubblicati da Cri­ tica sociale, che, rendendosi interpreti "della profonda in­ dignazione popolare,” definivano inaudito il decreto. So­ prattutto il modo come questo fu applicato creò uno stato di perplessità, di incertezza e, in taluni luoghi, anche di esasperazione, in quanto consenti la liberazione di persone che erano conosciute come le più dirette responsabili del fascismo, e che uscirono "più feroci e coalizzate ai danni del nuovo regime per gli interessi lesi, per le sofferenze e paure subite,” cosi scrisse Enrico Gonzales. Ma, intanto, i comunisti, con questo loro atteggiamento moderato, riuscirono a far apparire del tutto ingiustificate le manovre dei democristiani per escluderli dal governo, manovre che, proprio in quei giorni, si espressero nel ten­ tativo di allargare la frattura tra il gruppo parlamentare socialista, composto in prevalenza di saragatiani e la dire­ zione del p.s.i., con l’offerta al Saragat e al Silone dei dica­ steri degli Esteri e della Pubblica Istruzione. Evidente­ mente, per i democristiani, questo risultato avrebbe giu­ stificato largamente il sacrificio di due ministeri a cui essi tenevano in modo particolare. Ma la direzione socia­ lista ribadì, il 22 giugno, che non avrebbe preso parte ad un governo senza i comunisti. Eppure, malgrado questa ri293

petuta dichiarazione di unità, esistevano motivi di dissenso fra i due partiti di sinistra su alcuni problemi fondamen­ tali, come rivelò la discussione sul programma per il nuovo gabinetto, soprattutto su quella parte riguardante la politica economica e salariale. Si trovavano di fronte due tesi che apparivano inconciliabili: da un lato, infatti, stava la tesi democristiana che puntava sul graduale ritorno alla nor­ malità nella vita produttiva del paese mediante lo sblocco dei licenziamenti, l’aumento degli affìtti, e gli adeguamenti salariali da conseguire agendo sul costo della vita in modo da aumentare il potere d’acquisto dei salari; dall’altro lato stava la tesi comunista favorevole ad un aumento di que­ sti ultimi per adeguarli all’accresciuto costo della vita. Erano due prospettive divergenti, perché se la prima cer­ cava di mantenere intatto il potere della lira, la seconda avrebbe potuto condurre alla inflazione, aprendo la perico­ losa spirale prezzi-salari. Ma era evidente che non si po­ tevano imporre i più gravi sacrifici alle classi lavoratrici senza offrire loro, in corrispettivo, un maggior peso poli­ tico nella vita dello Stato; ed invece, era proprio questo importante aspetto della questione che il programma de­ mocristiano dimenticava. In un primo tempo, il partito socialista si mostrò più propenso a condividere il punto di vista della d.c. ed in tale occasione si potè scorgere la grande importanza dei socialisti, arbitri fra le due opposte posizioni e in grado di far trionfare, con il loro appoggio, l’una o l’altra. In­ fatti, quando, in un secondo momento, essi piegarono ver­ so i comunisti, isolarono il De Gasperi che fu costretto, perciò, a cedere. L’accordo fu, poi, raggiunto su un com­ promesso, per cui sarebbe stato corrisposto, in due rate, ai lavoratori capi famiglia, con retribuzione inferiore a 30.000 lire mensili, un “premio straordinario della Repub­ blica” di 3.000 lire; a coloro che non avessero carico di famiglia un premio di 1.500 lire; si decideva, inoltre, di elevare la razione del pane a gr. 250 e quella dei generi da minestra a kg 3 mensili. Fu, questo, un espediente che non contribuì a migliorare la situazione dei lavoratori, perché il mercato reagì con l’aumento di tutti i prezzi, mentre con i 30-35 miliardi occorrenti per il premio, se fossero stati prelevati dallo Stato sotto forma di una imposizione stra­ ordinaria, si sarebbe potuto provvedere ai lavori pubblici più urgenti e piu necessari: "Che cosa si poteva fare con 30 miliardi?” si chiedeva Riccardo Lombardi nella di­ scussione sulle dichiarazioni del primo ministro alla Co­ 294

stituente. “Con 30 miliardi si sarebbe potuto occupare per sei mesi un quarto dei nostri disoccupati; avremmo potuto raddoppiare il programma delle ricostruzioni fer­ roviarie; avremmo potuto fare opere immense in Calabria e in Sardegna; si sarebbero potuti costruire 100-150 mila vani di abitazione per la povera gente.” Ma, ancora una volta, il compromesso ne aveva nasco­ sto un altro più generale fra i comunisti ed i democristiani, per cui se a quelli era riconosciuta una specie di esclu­ siva influenza sul mondo del lavoro {essi avevano messo in moto i lavoratori nei giorni delle trattative, con una serie di agitazioni e di scioperi per ottenere i desiderati aumenti salariali), a questi, invece, era abbandonata la direzione po­ litica del governo. In realtà, nella composizione del ministe­ ro, il De Gasperi, che trattò direttamente con la direzione dei partiti e non con i gruppi parlamentari (sanzionando in tal modo la preponderante importanza assunta dai par­ titi stessi nei riguardi del Parlamento), riuscì ad imporre senza difficoltà il suo punto di vista ai socialisti, che avreb­ bero voluto difendere alcune posizioni ma che furono la­ sciati soli dai comunisti. Cosi, le tre battaglie che il p.s.i. diede, per i ministeri dell’Interno, del Tesoro e della Pub­ blica Istruzione, si risolvettero in tre gravi sconfitte, per­ ché l’Interno fu assunto dallo stesso De Gasperi, il Te­ soro fu affidato al Corbino (che, avendo dato le dimis­ sioni dal partito liberale, rimasto all’opposizione, entrò nel gabinetto come indipendente), e la Pubblica Istruzione an­ dò al Gonella, verso il cui integralismo cattolico, chiara­ mente espresso nella relazione al congresso democristiano, era viva la diffidenza negli ambienti laici. Tre sconfitte che resero più evidente la vittoria della d.c., in forme e limiti, si disse, superiori a quelli dettati dai risultati elettorali.1 Di questa situazione, che avevano contribuito a determina­ re, i comunisti furono consapevoli se il Togliatti rimase 1 II ministero risultò cosi formato: Presidenza, Interni, Esteri ed Afri­ ca Italiana (ad interim): A. De Gasperi (d.c.); ministro senza portafoglio: P. Nenni (p.s.i., designato agli Esteri dopo la firma della pace), e C. Macrelli (p.r.i.); Grazia e Giustizia: F. Gullo (p.c.i.); Finanze: M. Scoccimarro (p.c.i.); Tesoro: E. Corbino (ind.); Guerra: C. Facchinetti (p.r.i.); Marina militare: G. Micheli (d.c.); Aeronautica: M. Cingolani (d.c.); Pub­ blica Istruzione: G. Gonella (d.c.); Lavori Pubblici: G. Romita (p.s.i.); Agricoltura e Foreste: A. Segni (d.c.); Trasporti: G. Ferrari (p.c.i.); Poste e Telecomunicazioni: M. Sceiba (d.c.); Industria e Commercio: R. Mo­ randi (p.s.i.); Lavoro e Previdenza sociale: L. D'Aragona (p.s.i.); Com­ mercio con l’estero: P. Campilli (d.c.); Assistenza Postbellica: E. Sereni (p.c.i.); Marina mercantile: S. Aldisio (d.c.).

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fuori dal governo, quasi a bilanciare la preponderanza de­ mocristiana con una maggiore libertà polemica verso il mi­ nistero. Mario Poggi credeva di scorgere, in tale deci­ sione, la non lontana fine della politica di collaborazione dei partiti comunisti, poiché anche i comunisti francesi sembravano in fase di battaglia. A suo parere un simile eventuale comportamento sarebbe stato un errore, ma for­ se bisognava vedervi soltanto il desiderio del Togliatti di riservarsi la possibilità di critica di fronte ad un governo dominato dalla d.c. Certo, una politica di alti salari capovolgeva, in certo qual modo, la linea di condotta che il p.c.i. aveva seguito fino a poco tempo addietro; ma la cosa più grave era che essa portava con sé l’abbandono dell’aspirazione a fare del­ le classi lavoratrici il nuovo ceto dirigente del paese, aspi­ razione che era stata fondata sulla loro capacità di sacrifi­ cio in favore della collettività nazionale. Invece, adottando questa politica, il partito comunista sembrava propendere per la difesa degli operai occupati nelle industrie del Nord, cioè sembrava voler riprendere la politica che aveva già condotto, nei primi dieci anni del secolo, il partito socia­ lista d’accordo con il Giolitti; adesso, il Togliatti si accor­ dava con il De Gasperi, cercando di instaurare un governo a due nella giovane repubblica italiana. Forse tale politica fu suggerita al p.c.i. dai recenti risultati elettorali, che lo avevano visto, contrariamente all’attesa, in difficoltà pro­ prio nei grandi centri industriali del settentrione, mentre esso aveva ottenuto risultati insperati nel Mezzogiorno (da ciò nasceva il desiderio di guadagnare un maggior ascendente sulla classe operaia), ma era una politica con­ traria agli interessi dei disoccupati — che ascendevano alla notevole cifra di circa due milioni — e soprattutto dei contadini di tutta Italia e in particolare del Sud. Si correva, perciò, il pericolo di aggravare la frattura tra le due grandi categorie dei lavoratori occupati e di quelli di­ soccupati o parzialmente occupati, come l’immensa mol­ titudine dei braccianti meridionali; un dissidio di cui ave­ va a lungo vissuto lo Stato italiano e che tanti speravano di poter finalmente risolvere con una diversa politica che puntasse sulla diminuzione dei prezzi dei prodotti indu­ striali e sulla riduzione del costo della vita. Che era ap­ punto la politica che, in un primo momento, come si è visto, era stata sostenuta dai socialisti, i quali, rifacendosi agli stessi risultati elettorali a cui risalivano i comunisti, erano costretti ad un atteggiamento più preoccupato delle 296

condizioni deile classi disagiate del Mezzogiorno. Infatti, essi avevano ottenuto votazioni molto alte nel Nord e più basse nel Sud, cosa che indicava una loro scarsa penetra­ zione fra le popolazioni meridionali. Bisognava modifi­ care tale rapporto per cui il socialismo appariva ancora alle masse italiane quello riformistico; fu questo il moti­ vo che spinse il Morandi a difendere in una intervista, pubblicata dalì’Avanti!, il 6 luglio, l’atteggiamento del suo partito (al quale, però, come si è visto, non aveva saputo mantenersi fedele sino in fondo): "L’aumento nominale dei salari è destinato troppo facilmente ad essere annullato da un aumento corrispondente dei prezzi perché possa farsi affidamento su di esso per raggiungere i fini che tut­ ti ci proponiamo senza correre il rischio di avventure, in una -situazione che potrebbe troppo facilmente rischia­ re di slittare nell’inflazione’’; e concludeva con energia: “Ritengo che sia stata più positiva e aderente alla realtà la diagnosi che noi abbiamo fatto della situazione e le considerazioni che abbiamo presentato dei problemi che ci stanno davanti.” Le dimissioni del Corbino (2 settembre) e la situazione economica

La d.c. e il De Gasperi avevano voluto, contro l’opposi­ zione dei socialisti e dei comunisti, il Corbino al Tesoro, senza dubbio, per rassicurare i ceti capitalistici sull’orien­ tamento della politica economica del governo: era stato un altro sintomo di quel trasformismo diventato ormai quasi consueta arte di governo. Però, bisogna anche dire che for­ se l’avevano voluto perché il Corbino rappresentava la cor­ rente di coloro che difendevano la stabilità della moneta e il potere d’acquisto della lira. In realtà, il ministro del Tesoro aveva cercato di perseguire sia l’una sia l’altra po­ litica: la prima lasciando diffondere la convinzione, tratta da alcune sue dichiarazioni ai banchieri convocati a Roma verso la metà di febbraio, che alla inflazione in atto dal 1943 si sarebbe sostituita una deflazione non solo nel campo monetario ma anche in quello del credito. Piu tardi, però, il 10 marzo, lo stesso Corbino, parlando a Milano, al Li­ rico, in un convegno sul commercio estero, aveva precisato che nessun intento deflazionistico era a base della sua po­ litica monetaria, se si intendeva con ciò il desiderio di ridurre artificiosamente la massa dei mezzi di pagamento 297

costituiti da biglietti di banca. Sarebbe cessata 1’emissione di am-lire, ma questo non avrebbe significato riduzione del totale della circolazione monetaria per una decisione che capovolgesse la tendenza anteriore con bruschi interventi di cui si era sperimentato il danno per il passato. Ma la Rivista bancaria faceva osservare che una deflazione era in atto, "anche se si intende soltanto limitare o totalmente fermare l’aumento dei mezzi monetari. Viene meno la pre­ visione di una tendenza all’aumento continuo dei prezzi e ciò basta a far crollare tutto il sistema di acquisti e di vendite che si basava su detta prospettiva.” Inoltre, il sug­ gerimento del Corbino ai dirigenti della politica creditizia, “di non contare su ricavi crescenti dei loro clienti,” aveva naturalmente modificato il ritmo della concessione di cre­ diti in senso deflazionistico. Gino Luzzatto, a sua volta, su Lo Stato moderno, faceva osservare che le smentite del ministro non erano valse a dissipare del tutto le voci, te­ nute vive dal fatto che dal dicembre in poi la lira aveva seguitato ad aumentare di valore rispetto alle monete più pregiate: infatti, se all’inizio del 1946 occorrevano 120 lire per avere un franco svizzero, nel maggio, quando scriveva il Luzzatto, ne bastavano 90; il dollaro era sceso da 350 a 280 e la sterlina d’oro da 7200 a 5900 lire, mentre la ster­ lina di carta si poteva avere sul mercato libero ad un prezzo sensibilmente inferiore al cambio ufficiale. Nel tem­ po stesso, erano diminuiti, sebbene con maggior lentezza, anche i prezzi all’ingrosso di alcuni prodotti industriali (soprattutto i prodotti tessili), ai quali si era aggiunto il prezzo del vino, destando un vivo allarme negli agricoltori, “spaventati che la discesa [potesse] estendersi un po’ alla volta a tutti i prodotti della terra, e che essa [venisse] ad aggravare il fenomeno già tanto impressionante della forte svalutazione della proprietà terriera.” Il Luzzatto, infine, diceva, rifacendosi alle conclusioni a cui erano giunti tutti gli studiosi sulle vicende monetarie nei periodi di gravis­ simo turbamento per cause di guerra, che anche se si ma­ nifestavano fenomeni spontanei — probabilmente di non lunga durata — di rivalutazione della lira, una politica di effettiva deflazione doveva ritenersi “sotto tutti i punti di vista impossibile e dannosa.” Del resto, una simile politica era osteggiata dai ceti ca­ pitalistici, i quali avrebbero preferito che si aprisse un sensibile processo inflazionistico, come avevano lasciato ca­ pire gli agricoltori, di cui parlava il Luzzatto nel suo arti­ colo; essi, preoccupati dalla inevitabile discesa di alcuni 298

prezzi, si erano affrettati ad invocare un intervento dello Stato che li salvasse dalla rovina, "rimettendo in moto la macchina comodissima e apparentemente poco costosa del­ la stampa dei biglietti." A questi ceti il Corbino aveva con­ cesso la sospensione del cambio della moneta e della im­ posta straordinaria sul patrimonio, due provvedimenti che essi temevano molto. Perciò, da un lato il ministro del Te­ soro perseguiva una politica, per cosi dire, classica di di­ fesa del consumatore attraverso la stabilizzazione del pote­ re di acquisto della lira, e, dall’altro, una politica di libertà per le forze produttive, dalle quali molto probabilmente si aspettava che contribuissero in misura decisiva a risa­ nare la difficile situazione in cui versava il paese. In realtà, il problema dell’economia italiana era profon­ damente cambiato rispetto ai mesi successivi alla Libera­ zione, perché se allora esso era stato quello di colpire il più efficacemente possibile gli illeciti arricchimenti, i patri­ moni nascosti (ed ecco la necessità del cambio della mo­ neta, ecc.), poi, invece, era stato quello di stimolare l’atti­ vità privata per favorire l'eliminazione della vasta e preoc­ cupante disoccupazione, che lo Stato si era dimostrato in­ capace di assorbire. Riccardo Lombardi, che era stato un risoluto fautore di una politica di cambio della moneta e di imposizioni straordinarie, affermava, nel luglio, alla Costituente che a tale politica si era sostituita la necessità "di far rifluire nel circolo produttivo i capitali che non riusciamo né a censire, né a colpire con una imposizione straordinaria.” Sulla sorte dell’esercito di circa due milioni di disoccupati si giocavano le sorti della giovane democra­ zia italiana: “Se faremo arrivare il paese fra un anno an­ cora con due milioni o più di disoccupati, avremo perso la partita.” Di conseguenza, si poteva dire che le classi industriali avessero raggiunto il loro intento, che era quello di ottenere il riconoscimento della più ampia libertà (ma ciò giusti­ ficava, anche moralmente, la richiesta di aumenti salariali avanzata dai comunisti), e si scorgeva adesso come la resi­ stenza al cambio della moneta ed agli altri provvedimenti straordinari nel corso della seconda metà del 1945, fosse stata per essi vantaggiosa. Questa libertà era anche imposta dalla esigenza, avvertita da tutti, di ricorrere al capitale estero ed al credito intemazionale per alimentare la rico­ struzione e per risanare il bilancio (per il 1946 di fronte a 280 miliardi di entrate stavano 700 miliardi di spese); gli eventuali capitalisti stranieri, disposti a prestarci il loro 299

denaro, non si potevano certo spaventare con programmi di interventi statali o di nazionalizzazioni. Intanto, però, la politica del Corbino dava i suoi frutti, perché la fine dell’incubo del cambio della moneta ebbe il potere di far rivolgere il denaro alla ricerca di impieghi redditizi. Un notevole stimolo all’attività produttiva venne anche da altre disposizioni, che favorirono la ripresa delle industrie: nell’aprile si consenti agli esportatori di disporre del 50% degli importi ricavati dalle vendite effettuate al­ l’estero (la concessione era vincolata all’obbligo di disporre entro quattro mesi delle somme per l’importazione di de­ terminati prodotti, ma la valuta poteva anche essere ce­ duta ad altri, non più di una volta, sempre però con l’ob­ bligo di destinarla all’acquisto di merci da importare). I risultati erano andati al di là delle previsioni, notava Gustavo Predavai su Lo Stato moderno, e la "febbre del­ l’esportazione” aveva invaso gli italiani, i quali talora sven­ devano, tanto da far desiderare una revoca della disponi­ bilità del 50% in valuta estera o almeno di una sua ridu­ zione al 25%. L’altra disposizione era stata quella del 27 maggio che riconosceva alle società la possibilità di riva­ lutare i capitali azionari: essa aveva dato origine ad un generale rialzo dei corsi delle azioni nelle nostre borse dal maggio all'agosto, movimento che il consiglio dei ministri aveva cercato di stroncare con la deliberazione presa alla fine di agosto, di confiscare il 25% dei supervalori a titolo di conguaglio delle perdite subite da altre categorie patri­ moniali. Era un tentativo di frenare l’afflusso di denaro fresco alle imprese con un provvedimento che taluno disse demagogico, perché avrebbe potuto smorzare la ripresa produttiva. Ma la cosa più grave era che esso rivelava co­ me la politica del Corbino fosse, in sostanza, fallita, bat­ tuta dalle stesse contraddizioni in cui si era avvolta, per­ ché, fondandosi sui debiti fluttuanti, come disse il Lom­ bardi, si poteva prevedere che avrebbe incontrato un punto morto il giorno in cui vi fosse stata una ripresa nella vita economica del paese. Il ministro del Tesoro aveva favorito una simile ripresa, che si era espressa in rialzi in borsa, il che significava che i capitali ricominciavano ad essere rimessi nel circolo produttivo. Perciò, i buoni del tesoro venivano ritirati per essere investiti nelle industrie: "Si verificava la concorrenza fra tesoro e industria per l’uso del risparmio,” e ciò provocò la crisi in cui cadde il Cor­ bino, che preferì dimettersi (il 2 settembre) piuttosto che confessare il suo fallimento. Più tardi, nella pubblicazione 300

del Banco di Roma sulla economia italiana nel decennio 1947-1956, lo stesso Corbino scrisse che l’aver fatto cessare la paura del cambio della moneta "ebbe un effetto defla­ zionistico formidabile sia sul sistema dei prezzi, sia sul­ l’afflusso di altri mezzi monetari al Tesoro.” Egli però rico­ nosceva ad altri suoi provvedimenti, come la decisione "di applicare al cambio del luglio 1943 una maggiorazione di 125 lire per ogni dollaro, portandone cosi la quotazione a 225, ed elevando in misura corrispondente a 900 quella del­ la sterlina, con estensione alle altre valute in relazione alla loro parità con il dollaro” — sistema entrato in vigore il 10 maggio e che "ebbe un successo immediato di notevole portata” per il nostro commercio estero —, un effetto in­ flazionistico: esso consenti all’Italia di chiedere "di essere ammessa al Fondo Monetario Intemazionale creato in se­ guito agli accordi di Bretton Woods e di poter fruire dei vantaggi collegati alla partecipazione alla Banca per la Ricostruzione e lo sviluppo,” richiesta che, con "l’aumento dei prezzi che doveva derivare dall’adeguamento dei prezzi in­ terni con i prezzi esteri, in dipendenza del rialzo della rata del cambio, creò un ambiente favorevole ad una nuova spin­ ta inflazionistica.” Ormai la ripresa economica si traduceva appunto in una spinta inflazionistica sempre più accentuata, verso la quale si premeva dalle due opposte parti, da parte dei ceti capi­ talistici e delle classi lavoratrici, sebbene il partito comuni­ sta sembrasse ora voler rinunciare alla politica di alti salari, come si potè capire dalla mozione approvata, il 21 settem­ bre, al Comitato centrale, mozione in cui si propugnava un “nuovo corso” economico, nel quale fosse “lasciata ampia li­ bertà all’iniziativa privata, ma lo Stato [intervenisse] per impedire con ogni mezzo la speculazione che tendefva] a provocare il crollo della moneta e affamare il popolo, e in pari tempo [esercitasse] una funzione di guida di tutta la ripresa economica nell’interesse nazionale." Ma il punto più importante di questa deliberazione appariva quello in cui si sosteneva la necessità di “un efficace controllo sui prezzi e di un aumento delle razioni alimentari,” che era stato, come forse si ricorderà, il punto di maggior contrasto du­ rante le trattative per la formazione del secondo ministero De Gasperi. Allora i comunisti avevano difeso gli adegua­ menti salariali, e non si erano molto preoccupati de! con­ trollo sui prezzi, che adesso avrebbe dovuto rientrare in una politica generale intesa a porre un argine aliò sviluppo incontrollato delle forze capitalistiche, quäle daAalpUni mesi 301

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si andava svolgendo. Infatti, nella stessa mozione si propo­ neva anche "una energica politica fiscale per colpire le classi abbienti,” un’"azione pianificatrice esercitata dagli appositi organi di governo al centro e alla periferia,” un "controllo sulla produzione esercitato dai Consigli di ge­ stione,” e, infine, la "nazionalizzazione delle imprese mo­ nopolistiche e l’inizio di una riforma agraria a favore dei contadini senza terra.” Ma erano proprio tutti questi legami e intralci alla loro libertà che i ceti padronali respingevano con decisione: la Rivista bancaria del giugno scriveva che "taluni fattori psi­ cologici, se non sono spenti, dovrebbero operare in senso favorevole alla ottimistica valutazione delle prospettive, con­ cernenti il futuro equilibrio politico italiano”: il che voleva dire, come chiariva subito dopo, che i "criteri extra-econo­ mici nella direzione delle aziende industriali e commerciali od agricole” erano stati abbandonati perché ci si era resi conto dell’errore, mentre si assisteva al "ritorno dei tec­ nici" ai posti di comando. La stessa ripresa, rafforzando gli imprenditori, contribuiva non poco ad eliminare tutte le speranze delle sinistre in un nuovo assetto dei problemi del lavoro. Si trattava, in realtà, di una ripresa veramente notevole. Il Tremelloni, sulla Rassegna critica di economia e statistica, diceva vivace tale ripresa, "specialmente dopo il primo trimestre, in simpatia ad una fase di supercongiuntura di cui godono molti altri paesi”: ad esempio, la produzio­ ne di cotone passava da 73.363 quintali nel maggio a 137.033 nel giugno, 99.692 nel luglio, 84.078 nell’agosto e 110.262 nel settembre; di fiocco a raion da 2.197 quintali nel maggio, a 4.201 nel giugno, a 3.084 nel luglio, a 2.488 nell’agosto e a 4.591 nel settembre; di energia elettrica idrica da 1 milione e 235 mila di kwh nel maggio e da 1 milione e 248 mila nel giugno a 1 milione e 409 mila nel luglio, a 1 milione e 369 mila nell’agosto e a 1 milione e 421 mila nel settembre; di ghisa da 9.517 tonnellate nell’aprile a 15.634 nel maggio, a 20.046 nel giugno, a 28.205 nel luglio, a 26.562 nell’agosto e a 29.574 nel settembre; di acciaio da 67.113 tonnellate nell’aprile, a 76.657 nel maggio, a 81.268 nel giugno, a 97.081 nel luglio, a 91.710 nell’agosto e a 108.038 nel settembre; di carri ferroviari da 256 nell’aprile, a 416 nel maggio, a 449 nel giugno, a 481 nel luglio, a 362 nell’agosto e a 625 nel settembre. L’indice dei prodotti chimici fondamentali saliva da (1938 = 100) 49,1 nel maggio, a 52,6 nel giugno, a 61,3 nel luglio, a 63,4 nell’agosto e a 72,4 nel settembre; dei prodotti chimici per l’industria da 38,1 nel maggio, a 50,2 302

nel giugno, a 54,2 nel luglio, a 49,8 nell’agosto e a 55,1 nel settembre. Per quanto riguarda il commercio estero, l’An­ nuario della congiuntura economica italiana per il 1938-47, lo diceva “molto soddisfacente, specialmente all’esportazio­ ne; tanto più soddisfacente se si considera che il movi­ mento del primo trimestre [era] stato modestissimo”; non era da escludere, soggiungeva, che "una spinta notevole a queste esportazioni [fosse] stata data dalla concessione agli esportatori dei conti valutari 50%." Infatti, la distribuzione percentuale del valore delle esportazioni era del 2,8 nel­ l’aprile, del 6,7 nel maggio, del 6,3 nel giugno, dell’8,3 nel luglio, del 10 nell’agosto e del 13,1 nel settembre; delle esportazioni in clearing del 3,8 nel maggio, del 5,8 nel giu­ gno, del 18,9 nel luglio, dell’ll,8 nell’agosto e del 12,6 nel settembre. Ma, a proposito delle esportazioni, bisogna ricor­ dare quanto osservava la citata Rassegna critica del set­ tembre-ottobre, che cioè non si sarebbe potuto "forzare il lloro] passo senza compromettere la resistenza fisiologica della popolazione, e, d'altra parte, senza superare la capa­ cità di pagamento di alcuni paesi di destinazione nei no­ stri riguardi.” Ad ogni modo, si può concludere con le parole dello stesso periodico: la produzione dell'energia elettrica aveva quasi superato quella prebellica; il ramo tessile, "avvan­ taggiato da cospicue commesse interne ed estere e da no­ tevoli approvvigionamenti di fibre, [era] all’avanguardia dell’incremento produttivo”; oscillante la produzione del cemento e dei laterizi e indecisa la ripresa edilizia, ma no­ tevoli "la produzione delle industrie alimentari, della carta e della gomma, e il risveglio dell’industria chimica e mec­ canica.” Naturalmente, questa ripresa si rifletteva sui prezzi e sul costo della vita, forse, però, con un lieve ritardo, per­ ché essi salirono particolarmente nell’ultimo trimestre, a differenza degli alimentari che avevano teso gradualmente all’aumento, ma con un fortissimo rialzo, anch'essi, a par­ tire dall’autunno. Gli indici del costo della vita davano (1938 = 100): 2.810 nel settembre, 2.975 nell’ottobre, 3.178 nel novembre e 3.416 nel dicembre. I salari, sempre nell’ultimo trimestre del 1946, aumentavano in misura abbastanza sensibile e riuscivano ad attenuare lo squilibrio con i prezzi (all’inizio dell’anno erano su un livello di 15 volte quello prebellico contro un indice del costo della vita di almeno 25 volte): salivano da (1938=100) 1.930 nell’agosto, a 2.008 nel settembre, a 2.755 nell’ottobre-novembre, e a 3.106 nel 303

dicembre, mentre il costo della mano d’opera industriale passava da 2.437 nell’agosto-settembre, a 3.511 nell’ottobre­ novembre, e a 4.003 nel dicembre.

L’accordo De Gasperi-Griiber per l’Alto Adige Dopo che i ministri degli Esteri delle grandi potenze avevano confermato ripetutamente (una prima volta, a Londra, nel settembre 1945; una seconda a Parigi nell'apri­ le 1946 ed una terza ancora a Parigi nel giugno dello stesso anno) che l’Alto Adige doveva rimanere all’Italia, in base al trattato di pace del 1919, all’Austria non rimaneva altro che prendere atto di questa decisione, che dichiarava im­ plicitamente non fondate le sue rivendicazioni, e agire di conseguenza. Cosi, fin dal 30 maggio, da quando cioè si era capita la volontà degli alleati, una dichiarazione del nostro governo aveva reso possibile l’inizio di trattative dirette, che furono condotte, in un primo momento, dall’ambascia­ tore italiano a Parigi, Nicolò Carandini. Il 5 settembre, queste trattative si concludevano con l’accordo fra il De Gasperi e il Griiber, ministro degli Esteri del vicino paese: esso riconosceva ai cittadini di lingua tedesca della provin­ cia di Bolzano e dei finitimi comuni "una completa parità di diritti coi cittadini di lingua italiana, nel quadro di spe­ ciali provvedimenti intesi a tutelare il carattere etnico e 10 sviluppo culturale ed economico dell’elemento di lingua tedesca.” In particolare, i detti cittadini avrebbero goduto dell’insegnamento elementare e medio nella lingua mater­ na; della parificazione della lingua tedesca alla lingua ita­ liana negli uffici e atti pubblici e della parità di diritti all’accesso ai pubblici uffici. Inoltre, alla popolazione della predetta zona sarebbe stato accordato l’esercizio di un po­ tere legislativo ed esecutivo regionale autonomo; e, infine, per stabilire rapporti di buon vicinato fra le due nazioni, 11 governo italiano si impegnava a rivedere, nel termine di un anno, "con spirito di equità e di larghezza,” la questione delle opzioni di cittadinanza derivanti dagli accordi HitlerMussòlini del 1939; a trovare una intesa per il reciproco riconoscimento dei titoli di studio universitari; a conclu­ dere una convenzione per il libero transito delle persone e delle merci fra il Tirolo settentrionale e orientale sia per ferrovia sia per strada; ad addivenire a speciali accordi onde facilitare un più esteso traffico di frontiera e scambi locali. 304

Si avvertiva chiaramente da questo testo che il De Ga­ speri si era preoccupato di dissipare il timore che la nuova Italia democratica volesse seguire la violenta politica snazionalizzatrice del fascismo. Il quale aveva, senza dubbio, e gli italiani erano i primi a riconoscerlo, abolito l’auto­ nomia amministrativa e scolastica; vietato l’uso del tede­ sco nei pubblici atti ed uffici; separato dalla provincia di Bolzano l’Ampezzano, il Livinallongo e i comuni mistilingui della Val d’Adige a sud della città; favorito una spesso ar­ tificiosa immigrazione di italiani; spadroneggiato, come scriveva Enrico Bonomi, con i podestà e i segretari fede­ rali. Era il ricordo di questa politica che rendeva favore­ voli i conservatori e i liberali (e, in parte, anche i laburisti) britannici alle richieste austriache, non riuscendo essi a capire le ragioni per cui una popolazione di altra lingua dovesse rimanere soggetta all’Italia. Anche negli Stati Uniti si potevano notare queste perplessità, mentre in Francia gli ambienti militari sarebbero stati propensi a staccare l’Alto Adige per unirlo ad uno Stato tedesco del Sud com­ prendente anche la Baviera, il Württemberg, il Baden e l'Austria occidentale. Tuttavia, le varie conferenze dei mi­ nistri degli Esteri si erano trovate d’accordo, come si è detto, nell’ammettere la necessità dello status quo territo­ riale ed a Parigi la proposta era partita dalla Russia, cosi affermò lo stesso De Gasperi nelle dichiarazioni di com­ mento all’accordo, molto probabilmente perché essa volle darci soddisfazione su questo punto — che interessava l’Austria, uno Stato che non avrebbe potuto rientrare nella sua sfera d’influenza —, nella speranza di ottenere in cam­ bio una nostra maggior arrendevolezza nei riguardi del problema della Venezia Giulia e di Trieste. L’Austria aveva cercato di insistere sui principi della Carta Atlantica, che riconoscevano ad ogni popolo il diritto di disporre liberamente di se stesso, ma, evidentemente, anche per le potenze occidentali, avevano avuto maggiore importanza i motivi di politica internazionale — che im­ ponevano loro di non accrescere il malcontento degli ita­ liani — su quelli sentimentali di simpatia e benevolenza per le popolazioni soggette ad un dominio straniero. Una simpatia, peraltro, che non teneva conto del fatto che il partito che esprimeva le rivendicazioni degli altoatesini, il Südtiroler Volkspartei, fondato nel maggio del 1945, era composto in grande maggioranza di nobili, di proprietari terrieri, di industriali ed era visto con aperto favore dal clero. Si trattava, perciò, di un movimento che non respin305

geva i nazisti e che cercava nell’annessione all’Austria la difesa da eventuali, temuti sviluppi democratici della situa­ zione italiana, quali si potevano prevedere verso la metà del 1945. Tanto che, nel giugno del 1946, si formò un nuovo partito, il Südtiroler Demokratischer Verband (Unione de­ mocratica sudtirolese), animato dal desiderio di una sin­ cera e leale collaborazione con gli italiani. La lotta politica diventava, perciò, anche, come era inevitabile, lotta sociale, in cui, però, il Südtiroler Votkspartei aveva una posizione di gran lunga piu solida, perché si valeva della fitta ed efficace azione del clero sui contadini nelle valli, a diffe­ renza dell’altro movimento che aveva una certa consistenza soprattutto nei grossi centri abitati, dove esisteva una pic­ cola e media borghesia democratica. Ad ogni modo, appariva chiaro che se le correnti filo­ austriache conducevano la battaglia per raggiungere l’obiet­ tivo massimo, che era l’annessione all’Austria, esse non sdegnavano il conseguimento di obiettivi secondari, come l’annullamento delle opzioni del 1939 o una autonomia più o meno ampia. Obiettivi che diventavano gli unici da per­ seguire dopo che la richiesta di autodecisione era stata re­ spinta dalle quattro grandi potenze (cosi dichiararono i delegati del Südtiroler Volkspartei a Parigi). Ora, proprio tale intento doveva sembrare raggiunto con l’accordo De Gasperi-Griiber, che, tra l’altro, proprio sui due problemi più importanti — le opzioni e l’autonomia — si era man­ tenuto talmente generico da consentire, come osservava Enrico Bonomi, quasi subito divergenze da parte altoatesi­ na circa Testensione territoriale e il contenuto dell’autono­ mia stessa. Ecco perché l’accordo fu oggetto di critiche, in quanto, segnando soltanto alcune direttive di massima sen­ za specificarle meglio, lasciava aperta la possibilità di fu­ ture contestazioni e non chiudeva affatto la questione, come si potè capire dalle parole dello stesso Griiber, pubblicate sul Tiroler Tageszeitung del 10 settembre: "Mi è stata ri­ volta la domanda se noi, concludendo l’accordo, abbiamo rinunciato al nostro diritto di autodecisione. Io ritengo necessario sottolineare che nessuno di noi ha voluto una cosa simile; noi non abbiamo rinunciato a nulla e non rinunceremo. È stato fatto solo il tentativo di dare al Tirolo meridionale condizioni di vita sopportabili e passibili di miglioramento; e questo ci è riuscito.” La genericità dell’accordo era forse stata voluta anche dal De Gasperi, attento a non spingersi troppo oltre e a non consegnare l’Alto Adige alla predominante tendenza separatistica, che 306

in un domani avrebbe potuto approfittare dell’autonomia per staccare la regione dall’Italia, attratta da un eventuale, nuovo pangermanesimo. Insomma, si sentiva che se da parte italiana c’era l’intento di restringere il valore del­ l’autonomia, da parte altoatesina e austriaca, invece, c’era l’intento opposto, cioè di estenderla il più possibile. Si trattava, perciò, di un accordo firmato con un secondo fine da entrambe le parti: tutto sarebbe dipeso, come osservava giustamente il Bonomi, dalle condizioni che si sarebbero create in Alto Adige: "non è l’accordo che influirà sulla situazione in Alto Adige, bensì questa che determinerà la vitalità dell’accordo e lo sviluppo ulteriore di amichevoli relazioni fra Italia e Austria.” Le elezioni del 10 novembre

Mentre la situazione portava ad un rinvigorimento delle forze conservatrici, il 26 ottobre i partiti socialista e co­ munista rinnovavano il patto di unità d’azione, adattandolo alle esigenze del tempo di pace e assegnando ad esso il compito di favorire la conquista del potere da parte delle classi lavoratrici. Il programma riassumeva le rivendicazio­ ni avanzate ormai da tempo dai due partiti poiché insisteva sulla riforma industriale; sulla nazionalizzazione delle indu­ strie monopolistiche e sull’istituzione dei consigli di gestio­ ne; sulla riforma agraria basata sulla liquidazione del lati­ fondo e della grande proprietà fondiaria; sul miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori mediante la difesa dei salari, degli stipendi e delle pensioni; sulla legislazione sociale; sulla difesa del valore reale del guadagno dei la­ voratori, delle pensioni e dei piccoli redditi attraverso la difesa della lira, da realizzarsi con la tassazione rigorosa dei redditi delle classi abbienti, l’imposta straordinaria sul patrimonio, la riforma tributaria e l’incremento dell'attività produttiva della nazione; ecc. Si poteva quasi avere l’im­ pressione che le varie rivendicazioni fossero state accostate l’una all’altra, senza la preoccupazione di armonizzarle, e, ancora una volta, il patto apriva la duplice prospettiva del­ la conquista della maggioranza dei suffragi per i due par­ titi o della collaborazione con tutte le altre forze della democrazia. Tuttavia, il significato della nuova intesa andava ricer­ cato soprattutto nella stretta unione che socialisti e comu­ nisti avevano creduto bene di stabilire in vista delle di307

scussioni all’Assemblea costituente sulla costituzione e del­ le elezioni amministrative che dovevano tenersi il 10 no­ vembre in alcune grandi città che non avevano votato in precedenza e fra le quali erano Firenze, Genova, Napoli, Palermo, Roma e Torino. Era una consultazione che, ve­ nendo ad alcuni mesi di distanza dal 2 giugno, acquistava una importanza politica, come riprova delle tendenze pre­ valenti nel corpo elettorale. Data questa importanza, era naturale che tutti i partiti cercassero di presentarsi al giu­ dizio popolare nelle migliori condizioni possibili: il colpo più riuscito parve quello del Togliatti che, incontratosi con Tito a Belgrado, potè annunciare, il 7 novembre, che il ma­ resciallo era disposto a riconoscere la sovranità della re­ pubblica italiana su Trieste (che avrebbe dovuto ricevere "uno statuto effettivamente democratico," tale da consen­ tire ai triestini di governare la loro città e il loro terri­ torio secondo principi di democrazia) in cambio di Gori­ zia, "città," affermava il leader comunista, “che, anche secondo i dati del nostro Ministero degli Esteri, è in pre­ valenza slava.” Inoltre, Tito si dichiarava favorevole al ritorno dei prigionieri dalla Jugoslavia, purché esso si ef­ fettuasse per mezzo di una commissione formata dal par­ tito comunista e dall’Associazione partigiani, onde “evitare ogni lentezza burocratica e ogni tentativo di sabotaggio da parte della reazione italiana." I risultati dell'incontro, es­ sendo stati resi noti a tre giorni dalle elezioni, destarono subito vivacissime polemiche e II Popolo parlò di "indegno baratto" perché veniva ceduta una città — Gorizia — che gli alleati già ci avevano riconosciuta, per un'altra città — Trieste — che non era sotto il controllo jugoslavo bensì anglo-americano: insomma, si sarebbe trattato, osservava la Civiltà cattolica, di un “dono a Tito di una città nostra in cambio di una città di cui egli non [poteva] disporre." E lo stesso Nenni, che aveva assunto il ministero degli Esteri senza aspettare che venisse firmato il trattato di pace, do­ vette dichiarare che dai dati in suo possesso non risultava una prevalenza slava a Gorizia. Peraltro, al di sotto di que­ ste accese polemiche stava il fatto che il gesto di Togliatti aveva aperto la possibilità di trattative dirette ed aveva avviato a normalità i rapporti fra i due popoli che erano stati fino allora tesi: dei nuovi elementi che potevano of­ frire materia di negoziati diretti mostrò di volere appro­ fittare il consiglio dei ministri, il quale pure affermò di non poter prendere in considerazione la cessione di Gorizia e di volersi mantener fedele al principio dei confini etnici, 308

"ricorrendo al plebiscito quando la sua applicazione [sol­ levasse] contestazioni.” La politica estera era stata quella che aveva mag­ giormente acuito il dissidio fra i democristiani ed i comu­ nisti (c’era stato un violento attacco del Togliatti al De Ga­ speri per la sua condotta a Parigi), ed era stata anche quel­ la che aveva relegato in secondo piano i socialisti, i quali dovevano sacrificarsi in una oscura opera di mediazione per evitare che la tensione favorisse il tentativo della destra d.c. di escludere il p.c.i. dalla compagine ministeriale, spo­ stando l’equilibrio del governo. Questo era stato il motivo per cui anche le correnti anti-fusioniste si erano rassegnate al nuovo patto di unità d’azione; ma, poi, rincontro del To­ gliatti con Tito parve a quelle correnti “una gravissima in­ frazione” del patto stesso e la Critica sociale scrisse che l’of­ ferta del maresciallo era stata fatta in funzione degli inte­ ressi dell’U.R.S.S., alla quale premeva evitare che a Trieste si insediasse un governatore dell’U.N.O. che sarebbe stato "un mandatario delle Potenze anglosassoni.” Iniziativa so­ cialista, una frazione incerta tra le due correnti, che potrem­ mo dire con i vecchi nomi della tradizione socialista, del massimalismo e del riformismo ma, in definitiva, più vici­ na a quest'ultimo, giunse a chiedere che il Nenni lasciasse palazzo Chigi, vedendo nell’iniziativa comunista un ulte­ riore passo verso l’assorbimento del socialismo. Poco dopo, i risultati delle amministrative resero ancora più grave il contrasto fra le varie correnti: a Roma e a Na­ poli i socialisti si presentarono insieme con i comunisti, sotto l’insegna di Garibaldi, nel blocco del popolo e nel blocco del Vesuvio, e videro peggiorare la loro situazione nei confronti delle precedenti elezioni in misura abbastanza sensibile (a Roma, il gioco delle preferenze giovò talmente ai comunisti da far loro ottenere 16 consiglieri contro i 5 socialisti). SulYAvanti! Guido Mazzali, commentando questa piccola débàcle elettorale scriveva, il 13 novembre: "le spie­ gazioni si riconducono tutte ad una [...]: il nostro linguag­ gio è un po’ liso, e stanco, e la nostra efficienza strumen­ tale e funzionale non assume e non svolge i temi che il po­ polo pone. Nella storia, che pure si attua nello spirito delle previsioni marxiste, noi stiamo con il garbo dei busti che orlano i viali del Pincio, sereni, immobili, e dunque assenti. Assistiamo, non operiamo.” Ed effettivamente, di fronte alla articolata e moderna attività del p.c.i., pronta a cogliere tutti i suggerimenti della realtà, il p.s.i. poteva apparire ancorato a schemi ormai consunti e superati, fiducioso più nella riso309

nanza umana della vecchia bandiera che in un nuovo ed efficace impegno sociale. La Critica sociale preferiva attri­ buire la mancanza di un'azione vigorosa e fervida dei socia­ listi al fatto che il partito avesse perso la "chiara consape­ volezza della sua specifica funzione." Il rinnovo del patto di unità era stato inteso dall’opinione pubblica "come un avviamento alla fusione, e certo come rinunzia alla nostra autonomia.” Da queste considerazioni la rivista traeva la necessità di accogliere subito l’ammonimento dell’insuccesso e di correre ai ripari: "Noi dobbiamo cercar di appro­ fondire in noi stessi e negli altri la consapevolezza della nostra specifica funzione e sentir questa come una missione alla quale non è lecito mancare.” La scissione socialista

Questa critica investiva l’opera della direzione del par­ tito e la sua politica di alleanza con i comunisti: le due correnti che facevano capo a Critica sociale e ad Iniziativa socialista erano, inoltre, per l’uscita dal governo e per il pas­ saggio all’opposizione, soprattutto nell’intento di affermare l’autonomia del partito e distinguerlo dal p.c.i. che difendeva la formula tripartita, malgrado le vivaci accuse che ogni tanto i suoi capi rivolgevano ai democristiani. Del resto, che cosa ci stavano a fare i socialisti in un ministero dove non controllavano nessuno dei posti-chiave e che non dava nes­ suna garanzia di svolgere un’azione pili energica e coordi­ nata di quella debole ed incerta svolta fino allora per colpa soprattutto della democrazia cristiana? Perché queste cor­ renti volevano che il p.s.i. puntasse alla conquista del po­ tere, ponendosi come partito guida di tutti coloro che aspi­ ravano ad attuare un preciso programma per il rinnova­ mento della società italiana. Per la Critica sociale, il partito socialista da retroguardia del bolscevismo avrebbe dovuto farsi “avanguardia della democrazia, mantenere integra la propria autonomia ed assumere, lui solo, l’iniziativa e la di­ rezione del concentramento delle forze popolari,” risponden­ do al loro bisogno di giustizia sociale e di libertà effettiva. Anche la rivista di Ignazio Silone, Europa socialista, chie­ deva che il partito socialista assumesse l’iniziativa e si fa­ cesse “centro e avanguardia di tutte le correnti democra­ tiche sul piano nazionale per la difesa e lo sviluppo in senso sociale della Repubblica nata con il 2 giugno.” Invece, le altre tendenze, che facevano capo a Quarto Stato e a Com­ 310

piti nuovi (quest’ultima rivista era apertamente fusionista), seguivano il partito comunista nella sua doppia tattica di partito rivoluzionario — e che, perciò, tendeva a portare al potere le classi lavoratrici — e di partito che collaborava con gli altri partiti borghesi in governi di coalizione o di unità nazionale. Su Quarto Stato il Basso scriveva che non si poteva parlare, a questo riguardo, di "doppio giuoco,” perché ciò avrebbe voluto dire “non intendere che il Par­ tito Socialista resta un partito rivoluzionario, anche quando collabora al governo; non intendere che la classe lavora­ trice non può rinunciare a conquistare il potere in quanto classe lavoratrice, anche se è per ora costretta a restare al governo insieme ai partiti della borghesia.” Al che Franco Lombardi, su Europa socialista, obiettava che il partito so­ cialista, seguendo “a cuor leggero il p.c.i.,” non si rendeva conto che a questo era concesso, "per la presunzione del suo carattere rivoluzionario," ciò che al p.s.i. non era sem­ pre permesso senza pericolo e che era possibile al primo, per la sua struttura e per la sua stessa mentalità più ela­ stica, attuare una tattica che al p.s.i. risultava inibita dalla Sua diversa struttura democratica. Furono forse le critiche di quelli che chiameremo per brevità riformisti, critiche che avrebbero potuto mettere in discussione la permanenza al governo, a decidere la di­ rezione socialista ad anticipare di due mesi la data di con­ vocazione del congresso per 1Ί1 gennaio 1947, adducendo “l’improvviso e deplorevole divampare di polemiche interne contro la linea del Partito, polemiche sconfinate nella stam­ pa borghese” con alcune interviste concesse dal Saragat e dallo Zagari al Giornale d'Italia. Tale deliberazione fu presa "dopo una lunga e movimentata seduta” con 5 voti contro 4 e un astenuto e parve alla Critica sociale "un atto di vera sopraffazione” da parte di una corrente, che aveva pensato in tal modo di cogliere alla sprovvista le altre tendenze e di trovarsi quindi in condizioni di privilegio per conseguire la vittoria. Il Nenni, infatti, scriveva, sull’AvawizV del 22 no­ vembre, di non dubitare del risultato del congresso, che avrebbe consentito ai socialisti, “dalla piattaforma di lotta del più vasto blocco delle forze popolari," di “vincere nel­ l’anno prossimo la battaglia per il potere, come abbiamo vinto quest’anno la battaglia per la Repubblica." Era un massimalismo dal quale rifuggiva lo stesso Togliatti che, a Ferrara, Γ8 novembre, aveva detto non ritenere giusto l’in­ sistere sulla formula della conquista del potere da parte dei socialisti e dei comunisti, perché essa avrebbe potuto 311

lasciar supporre che i due partiti intendessero abbandonare il metodo democratico o respingere la collaborazione di al­ tre forze democratiche. Il leader comunista, perciò, aveva ribadito la sua posi­ zione favorevole all’intesa con i partiti borghesi, mentre l'irrigidimento classista del Nenni e della direzione socialista minacciava di fare il gioco degli avversari, e, in particolare, della destra democristiana, che, proprio in quei giorni, stava facendo un grande sforzo per infrangere il tripartito. Le elezioni del 10 novembre si erano risolte in una grave scon­ fitta anche per lo scudo crociato, che aveva perduto buona parte degli elettori del 2 giugno (a Roma circa 100.000 voti e a Napoli 40.000) in favore dell’“Uomo qualunque," diven­ tato il vero e grosso partito di destra. Senza dubbio, la mi­ nore importanza della battaglia elettorale poteva giustifi­ care tale flessione, di cui il Piccioni accusava la “quasi to­ tale mancanza di lealtà” nella collaborazione governativa degli altri partiti. Egli esortava a non drammatizzare la situazione ed esprimeva la convinzione che il partito fosse uscito, dalla difficile prova, “intimamente, spiritualmente forte, compatto, agguerrito come non mai.” Ma si poneva alla democrazia cristiana il problema di ricuperare gli elet­ tori che erano scivolati a destra e lo stesso Piccioni, in un discorso tenuto a Milano, il 23 novembre, sembrò cauta­ mente accennare alla possibilità di intese o di approcci con le destre, purché queste ripudiassero le "risorgenti forme fasciste,” non affermassero sentimenti di “reazionarismo so­ ciale” e non riportassero “capziosamente sul tappeto il pro­ blema istituzionale.” Si trattava, peraltro, di uno sposta­ mento che lion avrebbe potuto avvenire senza denunciare la collaborazione con le sinistre, che fu infatti la richiesta subito avanzata dalla corrente di destra — che si era orga­ nizzata nel "Centro democristiano di studi politici” guidato dal Dominedò e dallo Jacini e che tenne un convegno a Ro­ ma, il 1° dicembre —, insieme con l’altra che venisse "favori­ ta l’uscita delle forze sindacali democristiane dalla C.G.I.L." Questi attacchi risvegliarono la sinistra di un Gronchi, di un Fanfani, di un Dossetti, di un Rapelli, che si scontrò con la parte opposta, il 9 dicembre, nella riunione romana del Consiglio nazionale e del gruppo parlamentare, in maniera cosi vivace da costringere il Piccioni e tutta la direzione a dimettersi (il 13 dicembre). Ma il De Gasperi riuscì a rico­ stituire una formale unità facendo respingere la mozione della sinistra, ritirare quella della destra e riconfermare la fiducia alla segreteria del partito. Tuttavia, la crisi si risol­ 312

vette con il successo dell’ala conservatrice, perché dalla nuo­ va direzione rimasero esclusi il Pastore, il Malvestiti, il Sa­ batini e il Tosatti, cioè alcuni fra i piu qualificati rappre­ sentanti della sinistra. Era chiaro che il rafforzarsi della corrente fusionistica in seno al partito socialista respingeva la democrazia cristriana verso destra: "La vittoria di Nenni," scriveva giu­ stamente Battaglia socialista, "sarà la vittoria di Jacini, e significherà un rafforzamento definitivo delle destre sotto la bandiera deH’anticomunismo." Perché la vittoria congres­ suale dei massimalisti era data ormai per scontata, ed ap­ pariva pure quasi sicura la cacciata dal partito degli antifusionisti. Fin dall’ottobre una risoluzione del Comitato cen­ trale comunista, ritornato al più rigido classismo, aveva affermato che il consolidamento dell’unità d’azione con il partito socialista richiedeva “la eleminazione dalle file del movimento operaio delle correnti anticomuniste e la lotta più aperta contro l’anticomunismo.” Era un esplicito invito a eliminare i riformisti: il partito socialista riprendeva cosi la sua amara storia di scissioni che già fra il 1919 e il 1922 avevano segnato il suo progressivo e irrimediabile indebo­ limento. Ed era inevitabile che fosse cosi dal momento che il problema era stato impostato, ancora, sui termini astratti e ideologici di comuniSmo o anti-comunismo, di fusionismo o anti-fusionismo, di autonomia da un lato o di sudditanza al partito comunista, dall’altro, di riformismo o massima­ lismo. Il partito dimostrava quanto fosse vecchio, ripren­ dendo il suo vecchio contrasto fra dittatura del proletariato e democrazia, proprio mentre lo stesso partito comunista dimostrava di sapersi servire dell’uno o dell’altro momento con abilità e spregiudicatezza. Era bensì vero che, come si è visto, il p.s.i. non poteva servirsene allo stesso modo, ma avrebbe dovuto capire che solo penetrando a fondo nella struttura dello Stato gli sarebbe stato possibile porre le premesse per le trasformazioni in senso socialistico della società. Perciò, i due aspetti avrebbero dovuto trovare il modo di convivere insieme; ma la crisi dimostrò aperta­ mente come i socialisti non potessero seguire contempora­ neamente le due vie: il dilemma — dittatura del proleta­ riato o democrazia — si risolveva per essi in una estenuante paralisi ed in un’assoluta mancanza di iniziativa politica. Si giunse al congresso su posizioni di ormai aperta rot­ tura da parte delle opposte correnti, tanto che la frazione di Critica sociale e di Iniziativa socialista non si fece nem­ meno vedere nell’Aula magna della città universitaria e il 313

Saragat vi comparve solo il secondo giorno per leggere una dichiarazione che rese il distacco definitivo. Ormai esisteva­ no due partiti socialisti, uno, il p.s.i., con segretario il Bas­ so, e l’altro, il p.s.l.i. (partito socialista lavoratori italiani), con segretari il Vassalli, il Simonini e il Faravelli. Il primo affermava, dalle colonne dell’Avanfi/, di voler finalmente "portare — una volta liberato dai ‘pesi morti’ — la lotta di classe al suo obiettivo, che è la conquista del potere. Biso­ gna, in altri termini, che il socialismo ritorni ad essere in­ tieramente se stesso dopo di avere ripiegato dalle sue posi­ zioni classiste, quando si è trovato costretto a prendere la direzione della battaglia per la riconquista della democrazia contro il fascismo [...].” La formazione del terzo ministero De Gasperi

A sua volta, la rivista Socialismo si diceva sicura che, eliminata "la mentàlità ideologica e faziosa,” il partito avreb­ be potuto "riguadagnare il terreno materialmente perduto e approfondire la sua penetrazione nei ceti operai e conta­ dini in virtù dell’aumentata energia e fattività ottenute con la riorganizzazione e la migliore coordinazione del lavoro con il Partito comunista”: il che voleva dire che il p.s.i. si sarebbe sempre più confinato in uno stretto operaismo cer­ cando di respingere il p.s.l.i. a destra, verso i ceti medi. Era, peraltro, un intento che non poteva piacere neppure ai co­ munisti, i quali, adesso che era avvenuta, si dimostrarono perplessi sulla scissione prevedendone "una situazione di crisi, cosi scrisse Mario Montagnana sull'Unità, “nel Go­ verno, nei sindacati, in centinaia di amministrazioni comu­ nali,” e ciò proprio in un momento in cui invece sarebbe stata necessaria “l’unità di tutte le forze sinceramente de­ mocratiche.” Previsioni non errate, non tanto per i sinda­ cati e per le amministrazioni comunali, che la periferia e la base rimasero abbastanza fedeli al vecchio partito socia­ lista, quanto piuttosto per il governo: infatti 40 deputati su 116 passarono al p.s.l.i., mentre numerosi altri rimanevano in attesa di passarvi. Questo costrinse il Nenni a rassegnare le dimissioni da ministro degli Esteri, per potersi consacra­ re, disse al De Gasperi, alla vita e alle lotte del suo partito. Egli espresse anche la convinzione della direzione e del gruppo parlamentare socialista che ciò non dovesse in nes­ suna guisa comportare una crisi di governo, ma il presi­ dente del consiglio, due giorni dopo, il 20 gennaio, rasse­ 314

gnava anch’egli nelle mani del presidente della repubblica le dimissioni del gabinetto, “tirando,” disse VAvanti!, "le logiche conseguenze dalla secessione di un certo numero di deputati socialisti.” Il De Gasperi era appena tornato da un viaggio negli Stati Uniti, dove era stato invitato dal governo di Washing­ ton per una serie di “conversazioni col Segretario di Stato Byrnes ed altre autorità americane su questioni di recipro­ co interesse per i due Paesi, quali la ripresa di normali relazioni commerciali e altri importanti argomenti.” Tale annuncio era stato dato il 21 dicembre 1946, dopo che il 5 dello stesso mese era stato approvato, a New York, dal consiglio dei cinque ministri degli Esteri il nostro trattato di pace. Questo poteva essere considerato un fatto vera­ mente decisivo non solo perché inseriva l’Italia nei rapporti intemazionali, ma anche perché la liberava dalla necessità in cui si era trovata sino allora di mantenersi in equilibrio fra i due blocchi. Da ciò l’invito statunitense al De Gasperi, invito che rivelava apertamente l’intento di esercitare una maggiore influenza sul governo italiano. Infatti, nei colloqui che il nostro primo ministro ebbe con lo stesso presidente Truman, con il Bymes, con William Clayton, sottosegretario per gli affari economici, e con altri esponenti americani, venne chiaramente precisato, come disse lo stesso De Ga­ speri al suo ritorno, che le concessioni e gli aiuti economici (un prestito di 100 milioni di dollari; rimborso di altri 50 milioni in risarcimento delle spese sostenute per l’esercito americano; possibilità di finanziamenti alle nostre industrie; sblocco dei beni italiani negli Stati Uniti; trattato commer­ ciale basato sulla riduzione delle barriere doganali) erano legati "alla stabilità e al consolidamento del regime demo­ cratico italiano.” "Ce lo siamo sentito dire da per tutto,” soggiungeva il De Gasperi, pur cercando di respingere l’ac­ cusa di essersi prestato a campagne anti-comuniste. Ma, in realtà, le esortazioni a rendere più stabile, efficiente e com­ patto il governo, sottraendolo alle “manifestazioni e agli atteggiamenti in contrasto con la collaborazione governati­ va," erano proprio dirette contro i socialisti ed i comunisti, e, in particolare, contro questi ultimi di cui si criticava la mancanza di lealtà. Del resto, mentre nei paesi dell’Europa orientale si susseguivano le elezioni con notevoli vittorie dei blocchi del popolo dominati dal partito comunista, era, in un certo senso, naturale che gli Stati Uniti cercassero di consolidare la loro sfera di influenza. Le parole del De Gasperi annunciavano la sua intenzione 315

di aprire la crisi di governo, una crisi extraparlamentare, e come tali furono intese. Il pretesto gli fu offerto dalla scissione socialista, che creava al suo partito gravi proble­ mi, poiché, indebolendo la posizione del p.s.i. nel governo, minacciava di ridurre il tripartitismo a un bipartitismo, la­ sciando la democrazia cristiana sola di fronte al partito co­ munista. In tal modo sarebbe stata negata, molto probabil­ mente a questa la possibilità di condurre quella politica fra destra e sinistra che aveva condotto sino allora ed essa si sarebbe trovata spostata ancora di più a sinistra (il che era nettamente in contrasto con le sue intenzioni), oppure sarebbe stata costretta ad impegnarsi in una logorante resi­ stenza al maggior dinamismo comunista, apparendo sempre più un partito di destra. La crisi fece subito ripudiare al p.s.i. il massimalismo ed il classismo a cui si era abbandonato dopo il congresso e VAvanti! espresse l’esigenza di un nuovo governo "di unità democratica,” cioè di un governo che continuasse la colla­ borazione fra i tre partiti di massa. Tale esigenza era con­ divisa con più intransigenza dai comunisti, ma, a questo proposito, bisogna forse osservare che il processo che por­ tava alla fine della indistinta e generica coalizione del pe­ riodo della Resistenza, era un processo, in se stesso, neces­ sario, perché, a lungo andare, una simile coalizione si sareb­ be risolta in un trasformismo della peggior specie, in cui ogni partito doveva rinunciare a una parte del suo program­ ma per consentire una collaborazione che offriva, poi, pro­ prio per tale motivo, l’occasione a reciproche accuse: ché se la d.c. accusava il p.c.i. di slealtà e di doppio gioco, altret­ tanto faceva quest’ultimo nei riguardi di quella, affermando che, pur stando al governo con i comunisti, nel tempo stes­ so faceva appello a tutte le forze più retrive, più ostruzioni­ stiche del paese per formare un saldo fronte anti-comunista. Ma, d'altra parte, occorreva anche osservare che una scissio­ ne tra le maggiori forze politiche, quando era ancora in cor­ so la discussione della nuova costituzione, avrebbe senza dubbio aperto prospettive molto gravi e reso estremamente difficile l’opera deH’Assemblea, instaurando una lotta accani­ ta di ogni corrente politica contro le altre; sicché, il risultato sarebbe stato una carta costituzionale scaturita dalla vitto­ ria del più forte con il pericolo che i partiti soccombenti non si rassegnassero a riconoscerne la validità. Si poteva, perciò, concludere che non era ancora venuto il momento di un governo omogeneo, quale la d.c. dichiarò all’inizio del­ 316

la crisi di volere, ma che si sarebbe senza dubbio giunti ad esso non appena fosse stata approvata la costituzione. A dire la verità, il De Gasperi non sembrò avere le idee molto chiare, o almeno le ebbe chiare a proposito dell’eli­ minazione dei comunisti dal governo, che fu l’intento da lui perseguito fin dal primo momento. Il Popolo scriveva: "Tut­ te le soluzioni aperte: non quella del compromesso ambi­ guo,” volendo naturalmente alludere al compromesso ambi­ guo con il p.c.i. al quale la d.c. si era sino allora adattata. Ma per raggiungere tale scopo, il De Gasperi non si era prima assicurato le pedine e dovette, perciò, passare di de­ lusione in delusione, di ripiegamento in ripiegamento. Per fare svolgere al suo partito la vera funzione di centro, che non sarebbe stata possibile senza una destra e una sinistra, si mostrò favorevole alla inclusione nel nuovo ministero “di forze provenienti da destra,” purché dessero "ogni garanzia di fedeltà alle istituzioni repubblicane"; ma le destre subor­ dinavano la loro accettazione alla estromissione del partito comunista. A questo punto diventava indispensabile l’ap­ poggio dei minori partiti di sinistra e di centro-sinistra, della democrazia del lavoro, del partito d’azione, del partito repubblicano e del partito socialista dei lavoratori italiani; sul partito socialista italiano non si poteva fare affidamento perché esso aveva ribadito la sua alleanza con il partito co­ munista. Ebbene, anche questa via si dimostrò impossibile, dal momento che nessuna di quelle correnti accettò di scen­ dere su un terreno cosi scopertamente anti-comunista. Al­ lora, il De Gasperi parve ripiegare su un governo democri­ stiano di minoranza, che fu dichiarato dal Togliatti “assur­ do e pericoloso.” Intanto, lo stesso Togliatti lasciava trape­ lare la voce che propendesse per una presidenza Nitti, e, il 28 gennaio, pubblicava un articolo in cui accusava senza mezzi termini il leader democristiano di essersi lasciato, se non proprio imporre, per lo meno suggerire la crisi "dal­ l'esterno, e precisamente dagli esponenti di quei circoli po­ litici americani che [gli] si erano affollati intorno durante il suo viaggio negli Stati Uniti.” Questo articolo ebbe come efFetto di mettere la democrazia cristiana con le spalle al muro, perché non avrebbe potuto persistere nel tentativo di eliminare i comunisti senza convalidare l’accusa, e ven­ ne, inoltre, al momento giusto, quando il fallirpento di tutte le altre soluzioni rendeva ormai inevitabile il ritorno al tripartitismo. Cosi, Il Popolo, mentre parlava della “indignata reazione democristiana" alla "sassata di Togliatti," incominciava ad 317

accennare al "probabile proseguimento di quella che fu giu­ stamente chiamata ‘coabitazione forzata’,” attribuendone la ragione principale alla “defezione generale di tutte le forze cosi dette democratiche dinanzi alla possibilità di formare un Governo senza le ali estreme.” Ed aggiungeva che non si poteva dimenticare "il peso reale e effettivo che i comunisti hanno alla Camera e nel Paese." E scopriva, adesso, la ne­ cessità di evitare "uno stato di aspre polemiche e di conti­ nua tensione” che poco avrebbe giovato all’atmosfera co­ struttiva indispensabile nell’ultima fase di lavori della Co­ stituente; se si fosse formata “una concentrazione delle sini­ stre imperniata sul principio laico,” con il conseguente iso­ lamento della d.c., quasi certamente, concludeva il giornale, si sarebbe conseguito "un irrigidimento sopra alcuni punti dell’attività costituente che per noi hanno grande importan­ za.” Parole da cui sembrerebbe di capire che anche in Va­ ticano ci si era resi conto dei pericoli di una rottura con i comunisti che avrebbe reso molto difficile l’affermazione di quei punti che stavano particolarmente a cuore ai catto­ lici. E tra questi vi era, senza dubbio, in prima linea il concordato che padre Lener sulla Civiltà cattolica, tra il feb­ braio e il marzo, dichiarava "il più rispondente alle esigen­ ze della Chiesa e alla stessa natura dello Stato moderno.” In questo articolo lo scrittore gesuita polemizzava contro la stampa socialista e diceva quella comunista "di gran lun­ ga più abile,” ed anzi lodava apertamente come "esattissi­ ma” la formula proposta dal segretario del partito comu­ nista per la futura costituzione italiana: "Lo Stato riconosce la sovranità della Chiesa cattolica nei limiti dell’ordinamento giuridico della Chiesa stessa.” Tutto ciò faceva capire alla gerarchia ecclesiastica che i comunisti sarebbero stati meno restii dei socialisti ad accettare alcuni loro principi; di conseguenza, la crisi decisiva di governo doveva essere rinviata a dopo che fòssero stati raggiunti gli obiettivi da essa desiderati. Una volta decisa la riedizione del tripartito da parte del­ la democrazia cristiana, le trattative per l’assegnazione dei portafogli procedettero abbastanza speditamente: il 31 gen­ naio veniva annunciato che era stato raggiunto l’accordo, da cui si vide come il De Gasperi fosse riuscito a fare un go­ verno democristiano con una secondaria partecipazione so­ cialista e comunista. Infatti, alla d.c. andavano sei dicasteri, oltre alla presidenza (Interni: Sceiba; Finanze e Tesoro: Campilli; Pubblica Istruzione: Gonella; Agricoltura: Segni; Marina mercantile: Aldisio; Commercio estero: Vanoni), al 318

p.s.i. tre (Industria e Commercio: Morandi; Lavoro: Romi­ ta; Poste: Cacciatore) e tre pure ai comunisti (Giustizia: Gullo; Lavori Pubblici: Sereni; Trasporti: Ferrari); in più i dicasteri degli Esteri e della Difesa nazionale venivano affidati allo Sforza e al Gasparotto, indipendenti, ma che avevano fatto parte rispettivamente del partito repubblica­ no e della democrazia del lavoro, due partiti che non ave­ vano voluto responsabilità governative. Il corrispondente della France-Presse, riassumendo le impressioni straniere sulla conclusione della crisi, disse che una delle principali ragioni del De Gasperi, nel fare entrare elementi moderati nel suo ministero, era stata quella di rassicurare il mondo degli affari e dell'industria: il che voleva dire che si dava scarsa importanza al programma in cui il primo ministro, con il suo tradizionale trasformismo, aveva accettato di in­ trodurre alcuni motivi cari ai socialisti e ai comunisti, poi­ ché si parlava in esso: di presentare alla Costituente un progetto di legge sui consigli di gestione; di preparare una legge sull’imposta straordinaria patrimoniale; di migliorare i razionamenti alimentari soprattutto per le classi lavora­ trici; di favorire in ogni modo il sorgere della piccola pro­ prietà contadina. Era un programma che poteva sembrare una vittoria delle sinistre, che forse se ne erano acconten­ tate, senza pensare che ben difficilmente esso avrebbe potu­ to essere tradotto nella realtà da un governo orientato a de­ stra. E, poi, c’era chi faceva notare come l’accenno ai con­ sigli di gestione fosse equivoco; come fosse scomparsa ogni intenzione di nazionalizzare l’industria elettrica (che era sta­ ta la richiesta su cui aveva insistito il p.c.i. e che era stata anche uno dei punti essenziali del precedente governo); co­ me inoltre l’enunciazione della imposta straordinaria fosse vaga e non rivelasse affatto l’intento di colpire i redditi par­ ticolarmente favorevoli di alcune industrie; e come, infine, si fosse ormai del tutto rinunciato al cambio della moneta, su cui pure si era impostata tutta la propaganda per il lancio dell’ultimo prestito (chiusosi ai primi dell’anno con un successo che fu definito modesto, e, ad ogni modo, insuf­ ficiente alle gravi esigenze dello Stato, perché diede 231 mi­ liardi, di cui solo 112 in contanti; il resto fu riconversione di Buoni del Tesoro — per 95 miliardi — o conversione di debiti statali per 24 miliardi). Perciò, anche nel programma, le sinistre erano rimaste sconfitte ed i democristiani, per quanto non avessero raggiunto del tutto ciò che avrebbero voluto, tuttavia potevano essere soddisfatti dei risultati ot­ tenuti: infatti, erano riusciti ad unificare i ministeri delle 319

Finanze e del Tesoro contro l’irriducibile avversione dei co­ munisti; avevano smantellato il ministero dell’Assistenza postbellica, contro cui — scrisse 11 Popolo — tante critiche si erano appuntate sia al centro sia alla periferia, critiche di elementi di destra non certo di sinistra, che anzi quel ministero difendevano; avevano sensibilmente ridotto il nu­ mero dei dicasteri e dei ministri. Erano, questi, risultati che, osservava ancora II Popolo, con un semplice rimaneg­ giamento non si sarebbero mai raggiunti: la chiarificazione generale era stata imposta soltanto dalle dimissioni del De Gasperi, il quale aveva cosi imparato come agire per il futuro quando avesse voluto di nuovo tentare di conseguire ciò che ora non gli era stato possibile. Questa crisi era stata solo una crisi di transizione che ne faceva prevedere a non lunga scadenza un’altra, più decisiva. La firma del trattato di pace

Il 17 gennaio, a Washington, il Dipartimento di Stato pubblicava i trattati di pace, che avrebbero dovuto essere firmati dai rappresentanti degli Stati ex-nemici, il 10 feb­ braio, a Parigi. Il Byrnes dichiarò che il popolo italiano do­ veva rassegnarsi a pagare per un governo scomparso e che i trattati, quali erano usciti "da mesi di prolungata nego­ ziazione e discussione,” non erano perfetti. Sembrava, per­ ciò, che gli stessi Stati Uniti disapprovassero, in definitiva, il trattato che ci veniva imposto, senza che ci fosse stata data la possibilità, come fu messo ripetutamente in rilievo, di discuterlo o di far sentire anche la nostra voce nella sua redazione; e lo disapprovavano, senza dubbio, sebbene non fossero disposti a modificarlo per non riaprire un pro­ blema la cui soluzione era costata tanti mesi di duri e con­ trastati dibattiti. Tuttavia, l’atteggiamento americano favori alcune dichiarazioni rese dal De Gasperi negli ultimi giorni della sua permanenza negli Stati Uniti: secondo lui nessu­ no poteva "pretendere che l’Italia [assumesse] la correspon­ sabilità morale di accordi estranei alla nostra volontà e lesivi della nostra integrità nazionale.” Inoltre, lo stesso De Gasperi, a Cleveland, avanzò esplicitamente la richiesta di un revisionismo pacifico, il solo che potesse consentire al governo italiano e all’Assemblea Costituente di firmare un atto che altrimenti avrebbe riacceso le passioni nazio­ nalistiche, con evidente e grave danno delle nostre deboli strutture democratiche: “La comunità delle Nazioni,” dis320

se in quella occasione, "non può assicurare permanente giustizia, se certe limitazioni e restrizioni unilaterali, vin­ colanti solo certe nazioni, non possono essere modificate con mezzi pacifici.” Il 20 gennaio, il Nenni, ancora ministro degli Esteri du­ rante la crisi, consegnava una nota ai rappresentanti delle quattro grandi potenze in cui diceva di aver preso cono­ scenza del trattato di pace elaborato dal Consiglio dei mi­ nistri degli Esteri a New York e di aver constatato che nes­ suna delle richieste del governo italiano era stata accettata; in tali condizioni, il trattato urtava la coscienza nazionale, specie per le clausole territoriali ed egli si trovava nella necessità “di formulare le più espresse riserve e di chiedere che [fosse] riconosciuto il principio della revisione sulla base di accordi bilaterali con gli Stati interessati e sotto il controllo e nell’ambito dell’U.N.O.” Qualche giornale ame­ ricano volle vedere in questa nota il proposito del ministro socialista di minimizzare i risultati della visita del De Ga­ speri negli Stati Uniti, ma, in realtà, essa non faceva altro che riprendere e sviluppare le affermazioni già fatte dal presidente del consiglio a Cleveland e, pertanto, dimostra­ va più che un contrasto o un dissenso, un accordo di vedute che avrebbe dovuto far riflettere gli stessi vincitori. Impor­ re il riconoscimento del principio della revisione sarebbe stato un notevole successo per la diplomazia italiana, ma era un compito certamente superiore alle sue forze e alle sue possibilità, tanto più che nessuno degli alleati inten­ deva urtarsi su tale questione con gli altri: si chiudeva un capitolo e se ne apriva un altro e sembrava che tutti desi­ derassero dimenticare la guerra ed i suoi strascichi, a cui appunto i trattati di pace ponevano termine, per dedicarsi ai nuovi e difficili compiti. Cosi, non rimase all’Italia che firmare, ma il 10 febbraio era troppo vicino perché la Costituente potesse discutere con ampiezza il problema (del resto, essa si riapri il 6 febbraio, dopo esser stata tenuta all'oscuro delle trattative condotte con le grandi potenze), e, perciò, la Commissione dei trattati dell’Assemblea si trovò d’accordo, in seguito al­ le dichiarazioni del De Gasperi e dello Sforza, nel ritenere che il fatto della firma del "trattato di pace" (le "virgolette apposte nel testo del comunicato," osservava II Popolo, "vogliono significare che il termine di trattato per non esse­ re stato il testo liberamente discusso ed accettato dalle parti, deve ritenersi per lo meno improprio”) era puramente formale ed aveva il significato di non resistenza all’imposiII.ll

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zione. L’Assemblea Costituente, dal canto suo, rimaneva so­ vrana, in sede di ratifica, di assumere quell’atteggiamento che avrebbe ritenuto opportuno e che fosse stato approvato dalla maggioranza. Certo, si poteva far notare come ci fosse contrasto tra questa eventuale e possibile non ratifica e la politica della revisione, perché quest’ultima presupponeva appunto la fir­ ma e la ratifica del trattato. In realtà, si può forse affer­ mare che la stessa durezza dell'imposizione — per cui il trattato diventava esecutivo una volta che fosse stato fir­ mato dalle quattro grandi potenze e anche se non ci fosse stata la firma del governo italiano — generava incertezze e dubbi sul contegno da tenere. Si voleva protestare, ma non si riusciva a vedere bene quale potesse essere il modo più efficace; cosi, si cercava di tenersi aperte tutte le strade per giungere ad un sostanziale miglioramento delle pesanti con­ dizioni che ci erano state fatte. Tuttavia, si capiva che fra le due soluzioni — revisione o rifiuto di ratificare — il no­ stro governo propendeva più per la prima che per la se­ conda, che avrebbe potuto evidentemente mettere l’Italia in condizioni molto difficili e prolungare una situazione (quale era rappresentata dalla occupazione alleata) che ci toglieva ogni libertà di azione. Ecco perché il conte Sforza trasmise, 1Ί1 febbraio, ai paesi firmatari del trattato di pa­ ce la seguente nota, in cui si insisteva sul desiderio di una revisione pacifica, che era e voleva essere ben diversa dal violento revisionismo mussoliniano: "Il Governo italiano, firmando un trattato che non è stato chiamato a negoziare e che sarà sottoposto all’approvazione dell’Assemblea co­ stituente, ha voluto provare che affronta gli atti piu dolo­ rosi per affrettare l'avvento di una vera pace costruttiva nel mondo. Ma la lealtà gli impone di ricordare che i trat­ tati di pace non sono eseguibili che se sostenuti dalla co­ scienza morale dei popoli. Il popolo italiano ha la coscien­ za di avere agito coatto di fronte al regime che lo trascinò poi alla guerra e che tanti all’estero sostennero con le loro lodi. Il popolo italiano non potè mostrare al mondo il suo vero carattere che riuscendo a liberarsi per il primo da un regime di oppressione e fornendo poi agli alleati durante la guerra di liberazione dei vantaggi diretti e indiretti, cui non è stata resa sufficiente giustizia. Il Governo italiano man­ cherebbe all’onore (il patrimonio che gli è piu sacro) se non avvertisse gli alleati che il trattato peggiora ancora, nelle sue clausole territoriali, economiche, coloniali, mili­ tari, quella atmosfera di sofisticazione demografica che pe­ 322

sava tragicamente sul popolo italiano e che fu all’origine di tanti mali per noi e per gli altri. Il Governo italiano stima che è un interesse diretto delle grandi democrazie di rive­ dere, pel bene generale, le loro relazioni col problema ita­ liano, che è un aspetto essenziale del problema del riassetto mondiale. Pur ammettendo tanti errori passati, l’espiazione del popolo italiano è stata si dura fino alla firma odierna, che noi ci sentiamo per l’avvenire, come italiani e come cittadini del mondo, il diritto di contare su una revisione radicale di quanto può paralizzare o avvelenare la vita di una Nazione di quarantacinque milioni di esseri umani congestionati su un suolo che non li può nutrire.” Il 10 febbraio, mentre gli operai sospendevano il lavoro per dieci minuti, gruppi di dimostranti attaccavano, a Ro­ ma, le sedi del comando anglo-americano e della delegazio­ ne jugoslava: da un lato, il dolore per un trattato che mi­ nacciava di rendere molto più diffìcile la nostra ripresa e, dall’altro, il risentimento nazionalistico che riteneva respon­ sabili gli alleati e non il fascismo, da cui il popolo italiano era stato trascinato in una guerra contraria alle sue tradi­ zioni e alla sua umana civiltà. La “dottrina Truman" Rinascita, la rivista del partito comunista, metteva in rilievo come la decisione del De Gasperi di firmare il trat­ tato fosse stata in contrasto con un ordine del giorno del gruppo parlamentare del suo partito. Il De Gasperi stesso era, ora, diventato uno dei più fermi sostenitori della revi­ sione, che forse gli appariva possibile soprattutto da parte delle potenze occidentali, e, in particolare, degli Stati Uniti, avendo essi tutto l’interesse a trattare bene l'Italia, che rientrava nella loro sfera d’influenza. In realtà, le critiche americane al trattato furono cosi vivaci da lasciar supporre che fosse vicino il giorno in cui ci sarebbe stata resa giusti­ zia; in particolare, quando, il 9 maggio, venne in discussio­ ne alla Commissione senatoriale degli Affari Esteri di Wa­ shington il trattato stesso, la maggior parte degli interve­ nuti nel dibattito gli si dimostrò contraria, soprattutto per­ ché esso parve non piu rispondente alla nuova situazione internazionale, ed anzi apertamente contrario alla politica del Truman di aiuti alle nazioni europee e mediterranee minacciate dalla espansione sovietica. Infatti, taluno osser­ vò che esso avrebbe consentito infiltrazioni comuniste da 323

parte di Tito, quelle infiltrazioni che il presidente america­ no cercava di impedire in Grecia e in Turchia. Ma, poi, la ratifica avvenne, dietro consiglio del generale Marshall (già capo di Stato Maggiore dell’esercito americano durante la guerra e nominato segretario di Stato in sostituzione del Byrnes, il 10 gennaio), all’unanimità, il che significava che anche gli oppositori si erano resi conto che solo la sua ap­ provazione avrebbe reso possibile l'ammissione dell’Italia all’U.N.O., sollecitata dallo Sforza, il 7 maggio. Le dimissioni del Byrnes erano state dovute al suo catti­ vo stato di salute, ma indubbiamente la sua sostituzione con il generale Marshall rispose al desiderio del Truman di seguire una politica più energica nei confronti dell’U.R.S.S. Tale politica fu dallo stesso presidente formulata il 12 mar­ zo in un discorso davanti alle due Camere del Congresso, riunite in seduta straordinaria. Si disse che egli si fosse de­ ciso a prendere posizione dopo avere saputo dal servizio segreto d’informazioni che la Grecia era sul punto di es­ sere invasa da bande di comunisti e che anche la Turchia correva il pericolo di venire isolata e tagliata fuori dalla espansione sovietica. La gravità della situazione internazio­ nale richiedeva un intervento immediato degli Stati Uniti, cosi iniziò il suo discorso il Truman, tanto piu che la Gran Bretagna aveva dichiarato di non essere in grado di as­ sistere la Grecia oltre il 31 marzo. “Non potremo raggiun­ gere i nostri obiettivi se non siamo disposti ad aiutare i popoli amanti della libertà nel mantenere le loro libere isti­ tuzioni e la loro libera integrità nazionale contro i movi­ menti aggressivi che cercano di imporre i propri regimi to­ talitari." A tal fine, egli domandava al Congresso di voler autorizzare aiuti alla Grecia e alla Turchia per un ammonta­ re di 400 milioni di dollari (300 alla prima e 100 alla secon­ da), un aiuto che rappresentava soltanto la millesima parte di quanto era costata agli Stati Uniti la seconda guerra mondiale (circa 341 miliardi): "Si tratta," concluse, “di un investimento per la libertà e la pace del mondo [...]. I semi dei regimi totalitari prosperano nella miseria e nel bisogno.” La stampa comunista disse subito questa "dottrina” rea­ zionaria e bellicistica e paragonò "la motivazione ideologicopolitica della mossa del presidente Truman" alle "analoghe motivazioni ideologico-politiche alle quali aveva abituato lo imperialismo tedesco.” In effetti, essa dimostrava che gli Stati Uniti volevano opporsi con maggior fermezza al temu­ to espansionismo russo che, però, non era uscito dai confini 324

che gli erano stati riconosciuti nelle conferenze di Jalta e di Potsdam. Proprio per questo motivo, il Truman ebbe biso­ gno di far credere ad una imminente minaccia sovietica ai paesi che rientravano nella zona occidentale perché altri­ menti la sua "dottrina” avrebbe potuto apparire ingiustifi­ cata. Del resto, essa non riusciva a nascondere l’intento americano di consolidare la propria sfera, cosi come aveva fatto il comuniSmo in Polonia, Romania e Bulgaria (e la "coercizione e la intimidazione” erano state usate, come disse il presidente americano, anche "in un certo numero di altri paesi,” alludendo evidentemente all’Albania e al­ l’Ungheria); inoltre, il Truman aveva voluto rendere palese che gli Stati Uniti si sostituivano all’Inghilterra nella di­ fesa delle posizioni occidentali. Era chiaro, perciò,, che lo spirito che aveva informato il messaggio — come osser­ vava Carlo Morandi su II Mondo europeo — era fermo e quasi duro, ma non bellicoso. E non solo alla Gran Breta­ gna l’America si sostituiva, ma anche all’U.N.O., che il pre­ sidente dichiarò incapace di fornire "quella specie di aiuto che si richiede”: questo rappresentò, in certo senso, il pun­ to piu grave e più significativo del messaggio — scrisse an­ cora il Morandi —, "perché contiene l’implicita ammissione che l’U.N.O. non può adempiere al proprio compito (e for­ se non solo per ragioni tecniche o perché tuttora si trova in una fase embrionale), e che si deve quindi far appello all'iniziativa diretta ed unilaterale d’una grande potenza,” Certo, il discorso segnava il punto di arrivo della ten­ denza manifestata dagli Stati Uniti dopo la guerra ad in­ tervenire in Europa ed a porre le proprie frontiere nel cuore del vecchio continente. Tuttavia, il Truman fu piutto­ sto incerto su questo punto probabilmente perché consape­ vole del pericolo che avrebbe potuto rappresentare il rico­ noscere esplicitamente la necessità di una politica di in­ tervento, di cui si sarebbe potuta servire la stessa Russia. Cosi, dopo aver detto di esser favorevole al principio del non intervento, soprattutto negli Stati vicini (come poteva essere la Turchia per l’U.R.S.S.), dichiarò: “Il non interven­ to non significa però e non può significare disinteresse per quanto accade oltre i nostri confini; gli avvenimenti che si verificano in un paese possono avere profonde conseguenze negli altri.” Ma, come sottolineò l’opposizione americana di sinistra guidata dal Wallace, l’intervento e gli aiuti veniva­ no concessi a due governi — il greco e il turco — che era­ no un "tristo esempio di democrazia" e che erano proni al totalitarismo: “Asserisco," affermò il Wallace, "che ta­ 325

le politica è assolutamente errata [...]. Certamente non de­ sidero di vedere diffondersi il comuniSmo, ma predico che la politica di Truman aiuterà la diffusione del comuniSmo in Europa ed in Asia." Egli sosteneva che fosse venuto il mo­ mento "di attuare un sincero programma mondiale di rico­ struzione per la pace,” appoggiando attivamente l’U.N.O. e rigettando "le logore ideologie” dell’imperialismo e della politica di potenza: "Dobbiamo offrire gli aiuti agli uomini di tutto il mondo. Ritengo che qui in America noi abbiamo qualcosa di meglio del comuniSmo, ma il Presidente non ha parlato in nome dell’ideale americano.” L’opposizione di de­ stra, a sua volta, rimasta ancora isolazionista, affermava che gli Stati Uniti dovessero badare esclusivamente ai loro interessi, rinunciando agli impegni mondiali a poco a poco assunti. Queste due opposizioni, peraltro, non valsero a mo­ dificare l’orientamento favorevole del Congresso, che in apri­ le votò i crediti richiesti per i due paesi mediterranei.

L'articolo 7 il discorso del Truman fu pronunciato due giorni dopo che si era aperta la conferenza di Mosca per la definizione dei trattati di pace tedesco e austriaco e non era certo tale da favorire un accordo su quel diffìcile e contrastato pro­ blema. Negli ambienti della conferenza si diffuse un pe­ sante senso di pessimismo e si previde che le discussioni si sarebbero fatte più aspre e gli antagonismi più recisi. In effetti, i quattro ministro degli Esteri si lasciarono, il 24 aprile, dopo aver dovuto constatare il fallimento dei loro sforzi per una intesa e dopo aver dato l’impressione, come disse il dottor Schumacher, capo del partito socialdemo­ cratico tedesco, di aver trattato non tanto del problema te­ desco quanto piuttosto dei limiti delle rispettive sfere d’in­ fluenza. La divisione della Germania era proprio voluta da questa sempre più rigida suddivisione in zone opposte, che esigeva nei paesi dell’Europa occidentale una più stretta su­ bordinazione alla politica degli Stati Uniti, analoga a quella dei paesi dell’Europa orientale rispetto alla Russia. Cosi, in Francia, un voto di sfiducia dei comunisti al governo Ramadier, del quale facevano parte, provocato dal vivo con­ trasto sulla politica coloniale (l’Indocina rappresentava il problema più grave) e su quella salariale (le maestranze delle officine Renault, nazionalizzate, avevano rotto la tre­ gua circa l’aumento delle paghe con un vasto sciopero so­ 326

stenuto dalla C.G.T.F. e dal p.c.f.), portò, il 5 maggio, alla sostituzione da parte del presidente del consiglio dei mini­ stri comunisti con altrettanti socialisti — l’esecutivo del p.s. d’accordo con il gruppo parlamentare aveva accettato di collaborare con lui anche senza i comunisti — e radicalsocialisti. "Appena 24 ore dopo tale risoluzione,” faceva notare la Civiltà cattolica, “giungeva notizia di un pre­ stito di 250 milioni di dollari concessi alla Francia dalla Banca Intemazionale.” In Italia, anche il De Gasperi si era dimostrato propen­ so a seguire questa strada, che aveva già tentato nel gen­ naio, ma alla quale aveva dovuto rinunciare per le difficoltà oggettive della situazione parlamentare e interna. Inoltre, i comunisti avevano adottato una tattica ben diversa da quella dei loro compagni francesi, più duttile e piu abile, che culminò nel voto da essi dato, il 25 marzo, in favore dell’inserimento dei Patti lateranensi nella costituzione ita­ liana. “Il più alto esempio di responsabilità nazionale,” cosi annunciò l’avvenimento VUnità. “Per la pace religio­ sa e l'unità dei lavoratori i comunisti accettano di votare l’articolo 7," cioè l’articolo che diceva: "Lo Stato e la Chie­ sa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti latera­ nensi [...].” Esso passò con la grande maggioranza di 350 si contro 149 no: tra i favorevoli, oltre ai democristiani e ai comunisti, furono anche i qualunquisti, il Bonomi, l’Orlando, lo Sforza, il Ruini e la maggior parte dei liberali (me­ no 4), mentre fra i contrari furono i socialisti delle due ten­ denze, gli azionisti, i repubblicani, i demolaburisti e i quat­ tro liberali. La Civiltà cattolica scrisse che la costituzione italiana non poteva “tacere odiosamente sulla Religione, ed in ispecie su quella cattolica, che fa grande Roma, una l’anima degli italiani, modello il nostro Stato di quella sola vera civiltà, che è la civiltà cristiana. A buon diritto la Costituente ha respinto una si ripugnante proposta "; l’art. 7, da essa approvato, non costituiva "la norma ideal­ mente perfetta voluta dai cattolici," ma rappresentava tut­ tavia "una soluzione dei complessi problemi ivi disciplinati, che può dirsi politicamente saggia e giuridicamente idonea a garantire la pace religiosa in Italia." Gli avversari, invece, ritenevano che, proprio per sal­ vaguardare la pace religiosa, si dovesse votare contro ed una sorpresa fu per essi l’atteggiamento dei comunisti, che sebbene fosse stato anticipato da dichiarazioni del Togliatti, non si credeva però che potesse giungere fino al punto da 327

accettare l'inserimento dei Patti nella carta costituzionale, tanto più che diverse norme di quelli erano in contrasto con altre norme di questa. Il Popolo disse che i comunisti non potevano, dopo avere affermato tante volte sulle piazze della penisola di non aver nulla contro la religione e con­ tro la Chiesa, presentarsi poi agli elettori come ostili al Concordato ed anche il Calamandrei, in un articolo sul Pon­ te, in cui ricercava le spiegazioni della condotta del p.c.i., os­ servava che i comunisti avevano "spezzato in mano dei de­ mocristiani l’arma più potente che questi stavano affilando contro di loro per la prossima lotta elettorale,” cioè quella di presentarli quali nemici della religione. Ma il Calaman­ drei non si accontentava di questa spiegazione, che era, in realtà, alquanto semplicistica, e ne ricercava altre, che gli venivano suggerite dal contegno del De Gasperi e della d.c., che fino all’ultimo si erano dimostrati piu decisi alla rot­ tura ed a combattere da soli che disposti all’accordo e al compromesso (quest’ultimo, del resto, non sarebbe stato accettato da essi). Infatti, "la tagliente ed aspra dichiarazio­ ne di voto” del De Gasperi lasciò intendere che se l’art. 7 non fosse stato approvato nella forma voluta dai cattolici, questi, d’accordo con le destre, avrebbero chiesto e ottenuto che la costituzione fosse sottoposta a un nuovo referendum finale e che fosse cosi rimessa in discussione anche la que­ stione istituzionale. Si era sentito altresì dire, soggiungeva il giurista fiorentino, che se la repubblica italiana voleva ancora contare sull’appoggio della finanza americana, dove­ va dare l’impressione di saper conservare quella stabilità politica che, come si era detto dai democristiani, non era separabile dalla pace religiosa: “l’approvazione dell’art. 7 sarebbe stata insomma non solo la condizione per il man­ tenimento della Repubblica, ma anche il prezzo del pane che impedirà al popolo italiano di morir di fame [...].’’ Di conseguenza, quella votazione veniva ad assumere un signifi­ cato che eccedeva di gran lunga i limiti della politica in­ terna: "Dietro quel voto c’è il doloroso riconoscimento della servitù internazionale e della miseria in cui, per merito del fascismo, l’Italia è caduta.” Eppure, bisogna osservare che i due ricatti lasciati tra­ pelare dal De Gasperi nel suo discorso erano, in buona parte, insussistenti, perché non sarebbe stato una cosa fa­ cile per la democrazia cristiana — che la necessità di man­ tenere l’accordo fra le sue varie correnti costringeva ad una politica di sapiente equilibrio — spostarsi del tutto a destra ed accettare il risentimento dei monarchici e dei 328

qualunquisti contro la repubblica (e, poi, era sicura di ri­ portare, insieme con gli occasionali alleati, la maggioranza, a distanza di più di un anno dalle elezioni del 2 giugno?); mentre, d’altro canto, gli Stati Uniti, sebbene avessero ripe­ tutamente mostrato di preferire governi senza comunisti, quasi certamente non ci avrebbe abbandonato con il peri­ colo di farci cadere in presa a violente agitazioni sociali di cui proprio i comunisti avrebbero potuto approfittare. Per­ ciò, erano stati due ricatti ai quali il Togliatti, se avesse voluto, avrebbe potuto resistere senza il timore di far ca­ dere la repubblica o di ridurre alla fame il popolo italiano. Il fatto era che egli non aveva voluto resistere, molto pro­ babilmente perché riteneva di potere, in tal modo, consoli­ dare la sua posizione al governo. Finalmente, schieratisi i socialisti all’opposizione, era riuscito a stipulare con la de­ mocrazia cristiana un grande compromesso a due, una spe­ cie di suddivisione in sfere di influenza della vita interna del paese, a cui, del resto, da lungo tempo mirava. In real­ tà, il Togliatti aveva sempre seguito, da quando era ritor­ nato in Italia, nel marzo del 1944, una tattica di accordo con le correnti e i movimenti opposti, prima con la mo­ narchia e il Badoglio, poi con il Bonomi e infine con la democrazia cristiana. Ma se questo compromesso era sta­ to possibile durante la guerra, quando esso rispecchiava il compromesso sul piano internazionale fra Stati Uniti ed U.R.S.S., non era più assolutamente possibile adesso che una cortina di diffidenza e di ostilità separava i due ex­ alleati. L’estromissione dei comunisti e dei socialisti dal governo

Ogni volta, il compromesso del Togliatti si era risolto in un rafforzamento delle forze di destra: cosi era stato quando aveva deciso di collaborare con Vittorio Emanuele III e con il Badoglio; quando era entrato nel secondo go­ verno Bonomi senza i socialisti e gli azionisti; quando ave­ va accettato la crisi del ministero Parri con la speranza che ai tre partiti di massa fosse attribuito un peso maggio­ re nella direzione politica del paese. E cosi fu anche ora, ché l’inserimento dei Patti nella costituzione consenti alla democrazia cristiana uno stretto legame con il Vaticano. La soluzione della questione romana, nel modo voluto dal Mus­ solini e da Pio XI, aveva fatto, come abbiamo detto altra volta, del partito dei cattolici un partito di governo, perché 329

aveva posto termine alla recisa ostilità che la Chiesa aveva nutrito dal 1870 in poi verso lo Stato italiano. Evidentemen­ te, se il Concordato fosse stato sconfessato dalla prima As­ semblea repubblicana, si sarebbe posto per la democrazia cristiana il problema di acquistare una certa autonomia ri­ spetto al Vaticano, del quale non avrebbe certo potuto con­ dividere, se avesse voluto continuare a reggere il governo, la posizione di lotta contro le istituzioni che il Vaticano stesso avrebbe dovuto assumere. In questo senso si può accettare l’affermazione secondo cui presupposto indispen­ sabile della stabilità politica era la pace religiosa, nel senso cioè che senza di essa l’Italia avrebbe dovuto affrontare un faticoso periodo di assestamento e di riordinamento dei suoi partiti — e soprattutto del suo partito maggiore — su basi diverse. Invece, l’art. 7 evitò tutto questo, ma diede, nel tempo stesso, una notevole forza alla d.c. e il De Ga­ speri, sicuramente appoggiato dalla Chiesa e dagli Stati Uniti, potè attuare, poco dopo, l’intento che da tempo si riprometteva, cioè l’estromissione dei comunisti e dei so­ cialisti dal governo. I dirigenti comunisti erano, però, convinti di avere, con il loro atteggiamento (dettato, come diceva Rinascita, dalla “politica unitaria e nazionale” del loro partito e dalla sua "concezione della democrazia come integrale e diretta de­ mocrazia di popolo"), assicurata "la possibilità di una azio­ ne sohdale e unitaria di tutte le forze comunque interessate allo sviluppo del progresso sociale.” Secondo l’Unità quel­ l’atteggiamento aveva, inoltre, dimostrato la possibilità della coesistenza della Chiesa e della collaborazione delle forze cattoliche con tutte le altre forze che variamente rappre­ sentavano l’opinione progressista del paese. Il che signifi­ cava, in altre parole, che i comunisti credevano di avere aperto, con il loro gesto, un lungo periodo di feconda col­ laborazione con la democrazia cristiana, fondato appunto sul compromesso, sulla divisione in sfere d’influenza; per­ ché altrimenti come avrebbero potuto sperare di dare ini­ zio ad “un ordinato e pacifico progresso democratico”? Le continue polemiche che avevano dovuto sostenere con i cat­ tolici non lasciavano prevedere che simili speranze potes­ sero realizzarsi facilmente. Non pensavano certo che la crisi risolutiva fosse ormai molto vicina, perché il De Ga­ speri, una volta inclusi i Patti nella costituzione — che era l’obiettivo massimo del suo gruppo e della Chiesa —, non avrebbe tardato a liberarsi dell’estrema sinistra. E cosi, infatti, fu: un aperto indizio delle intenzioni del 330

primo ministro venne da tutti ritenuto il discorso da lui pronunciato alla radio il 28 aprile in cui, pur definendo gra­ vissima la situazione economica dell’Italia, disse tuttavia irragionevole ogni paura perché il paese si stava risollevan­ do "in uno sforzo rinnovatore che stupisce gli stranieri.” Denunciò, inoltre, secondo il suo solito, la slealtà degli altri due partiti al governo, il socialista e il comunista, che non sentivano il dovere della "solidarietà neH’amministrazione dello Stato e nella legislazione sulla cosa pubblica," e lan­ ciò ancora una volta l’appello a tutti coloro che avevano idee perché si facessero avanti “per una collaborazione concreta.” Perciò, in questo discorso si poteva notare, ac­ canto alla fiducia nella ripresa della vita economica (ma, intanto, l’inflazione procedeva a grandi passi), la rinnovata condanna del tripartitismo e l’aspirazione ad allargare il ministero verso destra: c’erano state, pochi giorni prima, il 20 aprile, le elezioni della prima Assemblea regionale si­ ciliana che avevano riproposto alla d.c. il problema della de­ stra liberale-qualunquista e monarchica, la quale aveva gua­ dagnato voti nei suoi riguardi rispetto al 2 giugno (la d.c. aveva perduto circa 350 mila voti). Il Popolo minimizzava questa sconfitta e cercava di dimostrare come " l’unica for­ za democratica che [potesse] contendere la vittoria alle for­ ze totalitarie e [potesse] garantire, con la giustizia sociale, la libertà, [fosse] la Democrazia Cristiana." Questo probabilmente rese più intenso nel De Gasperi il desiderio di spostare a destra il governo, ma egli incontrò di nuovo la recisa opposizione del p.s.i. e del p.c.i., il primo dei quali (che nelle elezioni siciliane era stato nettamente superato dall’attivismo dei compagni comunisti — “politica giusta, ma organizzazione difettosa,” scrisse YAvanti! — poiché ottenne solo 9 mandati su 29) poneva ancora ai la­ voratori la parola d’ordine massimalistica e fuori d’ogni rapporto con la concreta realtà dei fatti, della conquista de­ mocratica del potere. Il 30 aprile il Nitti presentava al pre­ sidente del consiglio una interrogazione perché si ponesse termine "al deplorevole sistema di rinviare continuamente ogni discussione sulla situazione economica e finanziaria, che ogni giorno si aggrava.” Il consiglio dei ministri del 7 maggio si dichiarò favorevole ad accogliere tale richiesta del vecchio parlamentare, e fissò per il 13 maggio le rela­ zioni sulle condizioni economico-finanziarie alla Costituente dei ministri delle Finanze e del Tesoro, dell’Industria e Commercio e del Commercio con l'estero. Ma, il 12 maggio, il De Gasperi annunciò ai colleghi che tutti gli uomini po­ 331

litici da lui consultati si erano mostrati contrari ad una di­ scussione delle questioni economiche e finanziarie e favo­ revoli alla formazione di un governo di unione nazionale. Si aveva l’impressione che il primo ministro volesse evitare quella che II Mondo europeo diceva “l’unica cosa seria che [potesse] essere fatta, e che [dovesse] essere immediata­ mente fatta anche in favore di una distensione psicologica del paese, vale a dire un pubblico dibattito sulla situazione economica e finanziaria.” Restavano, in compenso, soggiun­ geva lo stesso periodico, “i provvedimenti sul ribasso del cinque per cento, la sopratassa per le negoziazioni di borsa, e altre deliberazioni analoghe, che ricordano molto da vi­ cino, con tutto rispetto, i latrati dei cani contro il sole.” Quasi certamente, da una approfondita discussione alla Costituente, dove le correnti di sinistra mantenevano una certa prevalenza, sarebbero state fomite indicazioni pre­ cise sulla politica da seguire, che avrebbero rappresentato un impegno per il ministero. Pertanto, neppure le dichia­ razioni del solo presidente che, come si era deciso il 13 maggio, avrebbe dovuto esporre il programma economicofinanziario del governo, "anche sulla stregua dei dati fomi­ ti” dai vari ministri, furono possibili, perché il De Gasperi, prendendo a pretesto alcuni articoli â&ÏVAvanti! e dell't/nifà, in cui lo si accusava di voler spostare l’asse politico del ga­ binetto e si diceva che le dichiarazioni all’Assemblea sareb­ bero state fatte da lui solo a titolo personale, rassegnò le dimissioni al Capo dello Stato. "Crisi extraparlamentare?,” si chiedeva II Popolo, ed effettivamente era cosi perché nes­ sun voto di sfiducia era stato dato dalla Costituente ed il primo ministro annunciò a questa le dimissioni quando esse erano già state presentate al De Nicola e non era, inoltre, un "mistero per nessuno che egli stesso si consultava pre­ ventivamente per proprio conto.” Indubbiamente, alla base di questa fretta c’era l’intento di sfuggire alla discussione economico-finanziaria, aspettata dal paese, se il De Gasperi disse di non rimpiangerne il rinvio, trattandosi di ferite sopra le quali era bene non incrudelire: "che sarebbe un ragionamento assai singolare,” faceva osservare II Mondo europeo, "se il chirurgo lo facesse davvero davanti alle ferite di un corpo umano”; poteva sembrare che il presi­ dente del consiglio non volesse affrontarlo proprio perché essa non avrebbe avuto un carattere meramente parlamen­ tare, ma "scopi normativi immediati ed urgenti," data la gravità della situazione. Inoltre, sotto l’allargamento del governo, si nascondeva il desiderio, più chiaro adesso che 332

in precedenza, di escludere i comunisti, secondo il recente esempio francese, reso possibile, come si è visto, dalla "dottrina Truman." La soluzione della crisi fu affidata prima al Nitti, il quale si mise subito all'opera per formare un ministero di larga concentrazione, in cui entrassero oltre ai liberali, anche l’Orlando e il Bonomi. La Borsa, a questa notizia, mostrò segni di evidente miglioramento ad indicare la fiducia con cui l’espe­ rimento era seguito dagli ambienti produttivi del paese. Ma il tentativo falli per la difficoltà di armonizzare esigenze diverse e contrastanti, né il Nitti stesso aveva l’autorità necessaria, cioè l’appoggio di un partito, tale da consentir­ gli di fare senza i comunisti. Il 21 maggio, l’incarico passò all’Orlando, che, però, rinunciò il giorno dopo; la crisi, in tal modo, ritornava all’uomo che l’aveva provocata, al De Gasperi, su cui convergevano le designazioni di tutti. Ma come era già avvenuto nel gennaio, anche questa volta si capi che il leader democristiano non era partito con una formula nuova nella mente e, di conseguenza, che non aveva nemmeno pronti gli uomini nuovi con cui attuarla. O me­ glio, una cosa egli sapeva con chiarezza, che doveva dimi­ nuire il peso deH’estrema sinistra nel governo per dare quella garanzia di stabilità che si riteneva raggiunta una volta che i comunisti fossero stati o espulsi dal ministero o ridotti ad una posizione secondaria. Ma per raggiungere questo intento furono necessari diversi esperimenti e, per­ tanto, il paese fu messo di fronte "allo spettacolo scon­ solante di una ridda di formule e di uomini.” In un primo tempo, il De Gasperi cercò di costituire un gabinetto "di concentrazione generale,” che sarebbe forse stato l’ideale per lui perché senza rompere con le sinistre, e sfruttando, perciò, la loro copertura, avrebbe potuto condurre una po­ litica di destra, data la preponderanza che gli elementi di questa parte politica — indipendenti, liberali e gli stessi democristiani — avrebbero avuto nel governo (significativo fu un articolo di Giorgio Tupini sul Popolo di Roma, in cui si voleva dimostrare che tutte le iniziative sociali della co­ stituzione erano dovute al suo partito: il fatto era, come osservava Lo Stato modèrno, che i democristiani non ave­ vano interesse "a distaccarsi dalla posizione di centro-sini­ stra, sibbene quello di ottenere dalle sinistre un impegno di collaborazione centrista senza riserve”). Il Togliatti, pur di non essere cacciato dal potere, di­ chiarò il 28 maggio di non sollevare obiezioni alla inclu­ 333

sione di qualche elemento tecnico, ma tale soluzione fu resa impossibile dal rifiuto dei liberali di entrare in un ministero in cui fossero anche i comunisti. Allora, il De Gasperi sperò di riuscire ad accordarsi con i gruppi di centro-sinistra (azionisti, repubblicani e socialisti democratici) che si era­ no uniti nella cosiddetta "piccola intesa,” pur non avendo superato alcune divergenze soprattutto fra il p.r.i. e il p.s.l.i. Anche da questo lato, però, il capo democristiano si trovò di fronte ad ostacoli imprevisti e che valsero a mettere in lu­ ce l’altro significato più profondo della crisi, cioè il pro­ posito di rassicurare completamente le forze produttive. Infatti, all’esigenza, fatta presente in particolare dai socia­ listi autonomi, di "affidare i quattro dicasteri economici a uomini di sinistra, per l’attuazione omogenea del program­ ma economico socialista,” Il Popolo rispose affermando che si chiedevano "garanzie non tutte possibile a darsi,” e de­ nunciò quei partiti come "docile strumento dei socialcomunisti,” indicando quale avrebbe dovuto essere la loro posi­ zione per Tavvenire: abbandonare gli attributi del marxi­ smo totalitario e, nel tempo stesso, lasciare in disparte le premesse laicistiche che avevano sino allora impedito la concordanza con le opinioni religiose professate dalla gran­ de maggioranza del popolo italiano. Il De Gasperi, perciò, respinse le condizioni poste dàlia "piccola intesa,” sicché la crisi parve risospinta in alto ma­ re, ma egli era ormai deciso — e non poteva non esserlo — ad uscire dalla complicata situazione in cui si era mes­ so: "Prima di recarmi da De Nicola per dire che tutte le strade sono sbarrate," dichiarò, "sono anche disposto a cercare soluzioni di altro genere.” E l’unica soluzione possi­ bile era quella di un ministero di minoranza democristiano con qualche elemento tecnico. La sera del 31 maggio veniva annunciato il nuovo governo, in cui la d.c. occupava tutti i dicasteri (Presidenza e Africa Italiana: De Gasperi; Inter­ no: Sceiba; Difesa: Cingolani; Pubblica Istruzione: Gonella; Lavori Pubblici: Tupini; Agricoltura e Foreste: Segni; Tra­ sporti: Corbellini; Poste e Telecomunicazioni: Merlin; In­ dustria e Commercio: Togni; Lavoro e Previdenza sociale: Fanfani; Marina mercantile: Cappa), tranne quello delle Fi­ nanze e Tesoro (Einaudi), degli Esteri (Sforza), di Grazia e Giustizia (Grassi) e del Commercio con l’estero (Merzagora). Nella prima riunione del consiglio dei ministri (4 giugno), però, TEinaudi propose la istituzione del ministero del Bi­ lancio per coordinare i due dicasteri del Tesoro e delle Fi­ nanze, i quali di nuovo divisi (dopo che, come si è visto,

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la loro unificazione nel gennaio era stata presentata come un grande successo della d.c.), furono assegnati al Del Vec­ chio (Tesoro) e al Pella (Finanze).

Crisi della Resistenza? La soluzione della lunga e complicata vicenda era quale i democristiani forse non avevano desiderato, perché, nella votazione sulle dichiarazioni programmatiche del De Ga­ speri, il governo otteime la fiducia, il 21 giugno, con 274 voti contro 231, risultando sostenuto dai liberali, dai qua­ lunquisti, dai monarchici e dai soliti indipendenti come l’Orlando, che dichiarò di non poter rifiutare il suo appoggio a chi si proponeva di ricostruire la patria. Vi fu anche una notevole astensione dei socialisti democratici, buona parte dei quali (una ventina su 51) non votò (nei giorni precedenti si era detto che il p.s.l.i. aveva promesso alla d.c. un atteg­ giamento non del tutto ostile in cambio di un rinvio delle elezioni — la Costituente avrebbe dovuto ultimare il suo mandato nel giugno, ma, poi, se ne era rimandata la chiu­ sura a novembre ed anche questa data, perciò, veniva mes­ sa in dubbio — che gli era necessario per meglio organiz­ zarsi come partito). Il Popolo continuava a dire quella della democrazia cristiana una “posizione di centro," ma ormai l’espressione non aveva molto senso dal momento che essa era spostata a destra; i gruppi liberali, monarchici, ecc., si erano affrettati a concederle il loro sostegno, che non pote­ va certo essere disinteressato e senza contropartita. Ecco perché le affermazioni sociali del presidente del consiglio, nel suo discorso di presentazione del ministero all’Assem­ blea (9 giugno), suonarono alquanto false: egli, infatti, par­ lando di “binario obbligato” e di “procedura di emergenza," disse che avrebbe mantenuto il progretto dell’imposta stra­ ordinaria patrimoniale; che dopo l’accordo fra C.G.I.L. e Confindustria sulle funzioni delle commissioni interne rite­ neva utile tentare di raggiungere anche un accordo sui con­ sigli di gestione; che avrebbe accolto il programma econo­ mico elaborato all’inizio dell'aprile sulla base di alcune pro­ poste presentate dal socialista Morandi2 — il che voleva dire, 2 Erano i seguenti 14 punti per disciplinare la produzione e i consu­ mi: “1) procedere entro il più breve termine alla eliminazione degli oneri che il Tesoro sopporta per effetto dei prezzi politici; 2) procedere ad una riduzione generale dei bilanci dei singoli dicasteri militari e civili entro una misura che dovrà essere determinata da una commissione di Ministri;

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faceva osservare taluno, affidare a uomini di destra l’attua­ zione di un programma politico-economico preparato da uomini di sinistra —; che avrebbe favorito l’esecuzione del programma delle bonifiche e irrigazioni e miglioramenti co­ me preliminare indispensabile della riforma agraria, a cui, perciò, sembrava pensare sempre. Insomma, sarebbe stato molto difficile per il De Gasperi conciliare queste linee pro­ grammatiche di sinistra con l’appoggio delle destre, le qua­ li, in realtà, le accolsero con una certa perplessità, come scrisse la Rivista bancaria: "A questo governo, detto di emergenza, è stato dato opportunamente il voto da molti che hanno superato prevenzioni di parte, dinanzi al supre­ mo bene nazionale. Detto voto è stato dato anche al pro­ gramma economico-fìnanziario, ma con molte riserve spe­ cialmente per la prima enunciazione che ne aveva fatto alla Costituente il presidente del consiglio [...].” Ma, poi, era venuta "anche la parola del prof. Einaudi, quale ministro che sta a guardia del bilancio, e, quindi, della politica delle entrate e delle spese,” a rassicurare gli ambienti produttivi, sicché il direttore della rivista, Ernesto d’Albergo, poteva 3) coordinare le opere pubbliche previste dai Ministeri dei Lavori Pubblici, dell’Agricoltura e dei Trasporti in un programma unitario, graduato se­ condo un criterio di maggiore urgenza e produttività; 4) estendere il si­ stema di tesseramento differenziato e preferenziale per il pane, la pasta, i grassi ed altri generi alimentari, allo scopo di garantire il fabbisogno ne­ cessario alla popolazione meno abbiente; 5) intensificare con ogni mezzo la lavorazione dei tessuti U.N.R.R.A. condizionando, se necessario, il rila­ scio di licenze di importazione all’adempimento da parte delle imprese degli impegni contrattuali e organizzare la fornitura di altri prodotti di abbigliamento a prezzi controllati; 6) mettere gli enti comunali di con­ sumo in condizione di esercitare la loro funzione calmieratrice assicuran­ done il finanziamento iniziale; 7) predisporre una revisione della discipli­ na delle macellazioni e dei mercati cittadini allo scopo di facilitare l’approwigionamento diretto dei centri cittadini; 8) rafforzare l'applicazione della disciplina valutaria, regolare la concessione delle licenze per gli scambi con l’estero secondo le attuali necessità della produzione industria­ le ed agricola ed eliminare le intermediazioni incompetenti e dannose; 9) attuare misure efficaci per la disciplina bancaria, allo scopo di esclude­ re finanziamenti di merci a magazzino e di operazioni speculative; 10) col­ pire la rivalutazione delle giacenze in magazzino conseguente a variazioni di prezzo; 11) procedere ad un inasprimento delle imposte e tasse sui lo­ cali e negozi di lusso e sui consumi non necessari; 12) procedere all’ac­ certamento più rigoroso dell’impiego delle materie e dei prodotti di asse­ gnazione revocando la licenza a chi fa indebito commercio dei prodotti assegnati; 13) comminare sanzioni rigorose (non esclusa la gestione com­ missariale) nei confronti degli stabilimenti che contravvengono alla disci­ plina dei prezzi nella vendita dei prodotti controllati; 14) invitare il comi­ tato interministeriale dei prezzi a disporre (con riferimento all’art. 4 del­ la sua legge istitutiva) il controllo sulle maggiorazioni speculative applica­ te dal libero commercio a prodotti il cui prezzo è fissato alle origini dai comitato stesso.”

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concludere che la visione dei problemi italiani, quale aveva il nuovo governo, appariva "rispondente alla migliore tra­ dizione” e poteva anche, formulando l’auspicio “per un suc­ cesso indubbio,” esprimere “l’aspettativa fiduciosa ma atten­ ta e critica di tutti i cittadini, resi esperti, ormai, degli er­ rori che li fanno vittime di ideologie la cui eclissi appare benefica, almeno ‘pro-tempo’ nell’obiettivo interesse comune e per il superamento di gravi difficoltà dell’ora storica.” Queste frasi, se avevano un senso, lo avevano solo in quanto stavano ad indicare che il quarto ministero De Ga­ speri respingeva, in maniera molto più netta dei precedenti, ogni politica di intervento, di direzione dell'economia e di parziale pianificazione e si proponeva invece di lasciare am­ pia libertà alle forze private. Del resto, lo stesso rifiuto che era stato opposto alla richiesta della "piccola intesa” era molto significativo. Si sarebbe detto, quindi, che la forma­ zione di questo ministero segnasse la conclusione della lun­ ga lotta fra il mondo del lavoro e quello degli affari, lotta che aveva incominciato a delinearsi con chiarezza alla fine del 1945 con la crisi del governo Parri. La vittoria del se­ condo non poteva certo venire nascosta dalle abili frasi del primo ministro, il quale giunse ad affermare che, pur negli accesi dibattiti, c’era qualcosa che univa i vari partiti e le varie correnti, come aveva dimostrato il congresso sindaca­ le della C.G.I.L. di Firenze, che si era chiuso, il 7 giugno, "dopo immenso travaglio, con una affermazione unitaria." Era una evidente concessione alla sinistra sul terreno sinda­ cale a cui, peraltro, non corrispondeva nulla di sostanziale sul terreno politico, sicché più viva si faceva l’impressione che i sindacati dei lavoratori fossero del tutto esclusi da ogni diretta partecipazione al potere. Era quanto metteva in rilievo II Mondo europeo, che faceva osservare come le for­ ze del lavoro non fossero state ancora “né sufficientemente rappresentate, né convenientemente difese nella vita politica italiana; e s’agitano e annaspano, dando frequenti e inne­ gabili spettacoli di quel nervosismo incomposto che offende il gusto educato delle destre, e parlando un linguaggio sin­ dacale ancora confuso ed incerto, perché il problema sin­ dacale presuppone la soluzione del problema politico, e que­ sto, nei loro confronti, non è stato mai, nonché risolto, nem­ meno coraggiosamente e organicamente impostato." Crisi della Resistenza, perciò? Il Ponte dedicava un nu­ mero a tale questione, ed effettivamente sembrava di essere di fronte ad un crollo di tutte le speranze nate nel periodo della lotta partigiana, il cui più vero significato era stato 337

quello di avere favorito l’ascesa ai posti di comando di ener­ gie nuove e rinnovatrici al posto delle vecchie classi diri­ genti, tutte più o meno compromesse con il fascismo e che solo all’ultimo avevano abbandonato la barca che affondava. Anche il Paggi, su Lo Stato moderno, parlava di disfatta delle sinistre, poiché tutti coloro che si erano battuti nelle file partigiane erano stati di sinistra, cosi pure i liberali ed i democristiani: “E vedete dov’è finita la sinistra liberale, e vedete Gronchi fuori dal governo del suo partito, e Fanfani che si dice abbia accettato un portafoglio solo per di­ sciplina di partito.” Disfatta delle sinistre, dunque, o crisi della Resistenza, le cui cause andavano attentamente ricer­ cate e studiate per rendersi ragione di come avessero potu­ to verificarsi cosi rapidamente: il Paggi ne attribuiva la re­ sponsabilità alla “impreparazione dei quadri (o loro prema­ tura chiusura),” mentre il Calamandrei, come giurista, le fa­ ceva risalire alla "superlativa imperizia tecnica e alla inge­ nuità giuridica, si potrebbe dire, dei legislatori usciti dalla lotta clandestina: i quali hanno candidamente lasciato pas­ sare senza trarne profitto tutte le occasioni in cui avrebbero potuto tradurre le loro conquiste rivoluzionarie in stabili leggi.” Osservazione, quest’ultima, molto giusta, perché, co­ me abbiamo visto, insufficienze c’erano state, e gravi, che avevano portato a quello che fu detto, per lungo tempo, il fallimento della Resistenza. Ma, come abbiamo detto altra volta, la Resistenza era anche uno spirito, un particolare modo di vedere le cose, era anche ansia di una nuova vita, che, una volta nata nei cuori, non poteva andare perduta. Si poteva, pertanto, con­ cludere con la fiducia del Calamandrei, una fiducia che an­ dava al di là della stessa vita e si proiettava nel futuro: "Questo ritorno quasi pendolare delle forze della restaura­ zione era prevedibile e previsto: in tutte le convalescenze che vengono dopo le grandi crisi, si manifestano queste al­ ternative e queste oscillazioni. Ma la Resistenza non è finita li; è stata il frutto di quello che pochi precursori avevano seminato durante un ventennio, ma anche è stata una più vasta semente per l’avvenire. E non scoraggiamoci se la nuova messe spunterà quando questi nostri occhi mortali saranno già chiusi."

Il piano Marshall Il segretario di Stato americano, Marshall, aveva augu­ rato, il 2 giugno, "ogni successo” al primo ministro De Ga338

speri e al nuovo governo italiano nei difficili compiti che li attendevano ed aveva promesso ulteriori aiuti al popolo italiano, "che ha dimostrato la sua sincera e costante fede nei metodi democratici, per la tutela della libertà individua­ le e dei diritti fondamentali dell’uomo.” Era la prima, po­ sitiva reazione di Washington alla soluzione della crisi, a cui segui, il 9 giugno, proprio nel giorno in cui il De Gasperi pronunciava il suo discorso alla Costituente, l’annuncio uffi­ ciale di tali aiuti: sarebbe stato accelerato il prestito di 100 milioni di dollari dell’Export-Import Bank; un altro prestito dello stesso ammontare sarebbe stato concesso non appena vi fosse stata disponibilità; la maggior parte dei 350 milioni di dollari, non molto tempo prima stanziati dal Con­ gresso, sarebbe stata destinata all’Italia; infine, gli Stati Uni­ ti erano disposti a "non porre quasi limiti all’invio di rifor­ nimenti.” Tutto questo in seguito alla convinzione delle au­ torità americane che l’Italia e la Francia costituissero "il cuore dell’Europa occidentale e la zona di resistenza prin­ cipale contro l’espansione comunista affermatasi nei Balca­ ni" (il 31 maggio era giunta al suo epilogo la crisi unghe­ rese, che aveva visto la sostituzione del governo diretto dal Nagy, membro del partito dei piccoli proprietari — il quale aveva ottenuto, nelle elezioni dell’autunno 1945, 246 seggi contro 71 dei socialisti, 67 dei comunisti e 22 del partito na­ zionale dei contadini — con un altro governo dominato dai comunisti: il colpo di Stato fu attribuito all’intenzione della Russia di raggiungere, per mezzo del p.c. ungherese, il con­ trollo della situazione in previsione del non lontano sgom­ bero delle sue truppe d’occupazione dal paese. In occidente si viveva in attesa di un altro intervento sovietico in Austria, molto difficile, peraltro, perché avrebbe costituito una vio­ lazione degli accordi post-bellici). Gli aiuti concessi all’Italia erano, senza dubbio, notevoli, sebbene non coprissero del tutto il suo fabbisogno, calcola­ to dal De Gasperi in 200 milioni di dollari. Il presidente del consiglio sembrava confidare, per sanare questo forte deficit, soprattutto sul "contributo ricostruttivo” del popolo americano, al quale quello italiano avrebbe dovuto dimo­ strare di essere “sobrio e laborioso, amante della pace e del­ la libertà democratica.” Era, questo, un programma ben lontano dai 14 punti dell’aprile, che non facevano quasi al­ cun conto dell’aiuto straniero e che puntavano su alcune misure straordinarie (disciplina valutaria; disciplina ban­ caria; inasprimento di imposte e tasse; accertamento più rigoroso dell’impiego delle materie e dei prodotti di asse­ 339

gnazione; ecc.): ecco perché l’omaggio reso dal De Gasperi a questi 14 punti era da ritenersi soltanto apparente e for­ male. In verità, i due programmi si escludevano a vicenda e quello scelto dal leader democristiano rappresentava una delle due vie che si aprivano per i nostri governanti, ma era una via che avrebbe consentito un rafforzamento delle vecchie strutture economiche e, di conseguenza, anche poli­ tiche. Il De Gasperi, imboccandola, era probabilmente con­ sapevole di fare, nel tempo stesso, gli interessi del suo par­ tito, perché se fosse riuscito nel suo intento, avrebbe fatto rivolgere su di esso le simpatie di vasti ceti sociali. Certo, bisogna pure dire che, il 9 giugno, una simile via appariva la più facile, anche perché avrebbe permesso di risollevare l’Italia con minori sacrifici; inoltre, a due anni dalla fine della guerra, la tensione fra i due blocchi aveva quasi completamente capovolto la posizione internazionale del nostro paese, passato da paese sconfitto a membro at­ tivo delle nazioni occidentali, al quale era riconosciuta una funzione di primo piano di fronte alla temuta avanzata so­ vietica in Austria. E, poi, c’era stato, il 5 giugno, il discorso del Marshall al circolo dei laureati dell’Università di Har­ vard, in cui il segretario di Stato americano aveva annun­ ciato il piano che prese il suo nome: gli aiuti che gli Stati Uniti erano disposti a dare all’Europa, per permettere il sussistere delle libere istituzioni, non dovevano essere dati frammentariamente, a mano a mano che si producevano le varie crisi. "È evidente,” aveva affermato, "che prima che il governo degli Stati Uniti possa ulteriormente prose­ guire i suoi sforzi per alleviare la situazione e contribuire ad avviare il mondo europeo verso la rinascita, si dovrà raggiungere un accordo tra i paesi europei in merito alle necessità della situazione e alla parte che questi paesi stessi dovranno svolgere per rendere veramente efficace qualsiasi iniziativa che potrà essere presa dal nostro governo [...]. Il compito del nostro paese dovrebbe consistere nel contri­ buire amichevolmente alla elaborazione di un programma nella misura che risulterà più opportuna per noi. Il pro­ gramma dovrebbe essere unico e dovrebbe costituire il risul­ tato dell’accordo fra parecchie, se non fra tutte, le nazioni europee.” Il programma di ricostruzione europea (E.R.P.) doveva stimolare l’iniziativa degli Stati del vecchio conti­ nente, i quali avrebbero dovuto uscire, in tal modo, dalla depressione in cui erano caduti con la fine della guerra creando nuove forme di associazione che favorissero l’eli340

minazione, o almeno una riduzione sostanziale dei dazi do­ ganali. Finalmente, gli Stati Uniti avevano la possibilità di im­ porre all’Europa la formazione di quel mercato unico, che era stata la loro aspirazione fin dal primo dopoguerra, aspi­ razione che esprimeva il desiderio di quegli ambienti capi­ talistici di avere una vasta area, dal livello di vita molto alto, capace di assorbire in grande misura i loro prodotti (da alcuni dati si aveva che verso l’Europa, la quale rappre­ sentava il complesso di mercati più importante per gli Stati Uniti, si dirigeva più della metà delle esportazioni america­ ne e la eccedenza di queste rispetto alle importazioni era del 70%; nel 1946 tale eccedenza era ammontata a circa 300 milioni di dollari al mese e per l’Italia di 25 milioni al me­ se). Qualcuno volle vedere un contrasto fra la dottrina Tru­ man, rivolta ad arginare l’espansione comunista, e il piano Marshall, destinato a tutta l’Èuropa, compresa la Russia; in effetti, la prima partiva, per gli Stati Uniti, dal presupposto di difendere la loro sfera d’influenza, e il secondo, invece, dal presupposto di spezzare, infrangere le barriere politiche per consentire alla produzione americana di invadere nuovi mercati. Un contrasto, perciò, c’era indubbiamente, ma for­ se si trattava di un cambiamento di metodo inteso a render possibile al capitalismo statunitense di superare la crisi in cui era caduto fra il 1946 e il 1947, con un grave crollo dei titoli azionari a Wall Street, e di impostare organicamente il problema degli aiuti all’estero, evitando appunto la di­ spersione che aveva regnato sino allora in questo campo. Il Marshall aveva rivolto l’invito, come si è detto, a tutte le nazioni europee, ma sarebbe stato molto difficile che l’U.R.S.S. aderisse, perché il piano poteva diventare un’arma potente di espansione economica e di soggezione politica per i paesi che lo avessero accettato o che si fossero rasse­ gnati ad esso. Nessuna difficoltà doveva venire dall’Europa occidentale, che rientrava ormai nella zona americana e nep­ pure dall’Inghilterra, che aveva rinunciato da tempo alla sua predominante posizione. Sicché, il Bevin dichiarò, il 19 giugno, alla Camera dei Comuni che il piano rappresentava “una preziosa offerta per l’Europa e un’occasione cui il go­ verno di Sua Maestà non [intendeva] rinunciare." In prece­ denza, il 17 e il 18, si era incontrato con il ministro degli Esteri francese, il Bidault, a Parigi, e in tale occasione era stato diramato un comunicato in cui era detto che i due governi avevano accolto con "la più grande soddisfazione" le idee manifestate dal Marshall sulla organizzazione della 341

collaborazione europea. L'incontro si era concluso con l’in­ vito al loro collega sovietico, il Molotov, per un nuovo in­ contro a Parigi. La Russia non rifiutò subito, forse perché non voleva at­ tirarsi l’odiosità di aver fatto fallire un piano accolto con tante speranze, ed inviò una forte delegazione, composta di 4 ministri plenipotenziari, 18 consiglieri ed esperti, 17 se­ gretari e traduttori e 56 ausiliari. Ma il contrasto era troppo profondo perché si potesse sperare in una intesa ed infatti, il 2 luglio il Molotov annunciava che il suo paese respingeva il piano e denunciava in esso il mezzo per rendere perma­ nente l'intervento americano in Europa e dar corpo alla dottrina Truman. Mise, inoltre, in guardia la Francia e la Gran Bretagna contro la formazione di un "blocco occiden­ tale” e contro la divisione del continente in due campi. Del resto, come faceva osservare Augusto Guerriero su Idea, era chiaro che l'America non avrebbe potuto dare miliardi di dollari alla Russia senza mettere come condizione che il suo denaro non servisse a fabbricare armi che, poi, avreb­ bero potuto essere usate contro se stessa, e, in particolare, quelle armi che essa più temeva, cioè le bombe atomiche. Garanzie in questo campo dovevano necessariamente signifi■care controllo e potere d’ispezione, cosa che il governo so­ vietico non avrebbe mai potuto consentire. Tutto ciò po­ teva avvalorare l’accusa del Molotov che il piano annullasse praticamente l'indipendenza dei paesi che lo accettavano. Cosi come l’altra accusa, che esso desse corpo alla dottrina Truman, sembrava dimostrata dal fatto che il Marshall sa­ peva benissimo che vi era solo una probabilità su cento che l’U.R.S.S. rispondesse favorevolmente all’invito (aveva parlato di un accordo “fra parecchie, se non tutte, le nazio­ ni europee”), e, pertanto, aveva volutamente fare opera di rottura e coagulare il "blocco occidentale”: in tal modo, si ritornava alla dottrina Truman, come scriveva ancora il Guerriero. Proprio in questo senso era interpretato da l'Unità il nuovo invito diramato, il 3 luglio, dal Bevin e dal Bidault a 22 nazioni (Albania, Austria, Belgio, Bulgaria, Cecoslovac­ chia, Danimarca, Finlandia, Grecia, Irlanda,, Italia, Jugosla­ via, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Polonia, Portogallo, Ro­ mania, Svezia, Svizzera, Turchia e Ungheria) per una nuova conferenza il cui inizio era fissato per il 12 luglio; avendo rinunciato, più o meno forzatamente, gli Stati della zona sovietica, si ebbe automaticamente il consolidamento della zona opposta. L'Italia accolse soddisfatta la convocazione, 342

che la metteva su un piede di parità con le altre nazio­ ni e poteva porre le premesse psicologiche della revi­ sione del duro trattato di pace. Ma probabilmente, il no­ stro governo non si era reso esatto conto delle conseguenze a cui avrebbe portato l’adesione: il piano Marshall presup­ poneva ed imponeva ai singoli Stati una pianificazione della loro produzione per realizzare il “sistema moderno della divisione del lavoro," come lo aveva definito lo stesso mi­ nistro degli Esteri americano, su cui si basava lo scambio dei prodotti. E questo avveniva mentre in Italia si respin­ geva ogni dirigismo, ogni pianificazione e si ridava ampia libertà alla iniziativa individuale, il che voleva dire, come dimostrava una lunga consuetudine, rendere questa inizia­ tiva superiore allo Stato e non viceversa, come avrebbe dovuoto essere in un sano regime economico, e come mostra­ vano di volere gli U.S.A. L’Italia, a questa conferenza, aveva cercato di imporre l’esame del problema della mano d’opera, molto importante per essa, ma inutilmente, e la sua parola, come scriveva Li­ bero Lenti sulla Rivista bancaria, non sempre era stata ascoltata II 22 settembre, i 15 paesi europei rappresentati a Parigi, finivano i lavori e presentavano al governo di Washington un rapporto, che non ottenne la piena approva­ zione del sottosegretario per gli affari economici, Clayton. Sembrò che gli europei si fossero rivelati incapaci di “tro­ vare la via per una pur minima collaborazione economi­ ca sul piano continentale. Il rapporto, in altre parole, [fu] considerato dagli statunitensi come una semplice lista di acquisti il cui totale [avrebbe dovuto] essere da loro pa­ gato.” Nacquero da ciò "violente censure” e "acerbe criti­ che" che spinsero i delegati europei a modificare il loro piano, ma le difficoltà non si potevano eliminare d’un trat­ to, come forse si erano illusi gli americani, perché si trat­ tava di unificare nazioni le cui abitudini ad una autonomia politica ed economica erano profonde ed antiche. "L’Inghil­ terra," affermava ancora il Lenti, "ha interessi ambiva­ lenti da difendere: imperiali ed europei. E non sa e non può decidersi a dare la prevalenza agli uni o agli altri. Il blocco scandinavo è reso oltremodo prudente dall’incomo­ da vicinanza russa: in particolare la Svezia. La Svizzera tie­ ne molto alla sua tradizionale neutralità: e teme sempre di mettere il piede fuori dallo stretto seminato economico per avventurarsi in quello politico. Belgio, Olanda e Lus­ semburgo sembra vogliano difendere solo i vantaggi del lo­ ro accordo doganale conosciuto come ‘Benelux.’ La Fran343

cia è ipnotizzata dalle problematiche cifre del suo piano Monnet: e non si rende conto che il ‘lavoro’ di cui difetta è fattore di produzione altrettanto importante che il ‘capi­ tale.’ Il Portogallo soffre per la esclusione della Spagna.” Forse soltanto l’Italia, avendo poco da perdere e molto da guadagnare da una più stretta collaborazione intereuropea, era stata in grado di sostenere posizioni giuste; ma, come si è detto, la sua voce rarafnente era stata ascoltata. Il piano presentato comportava una spesa di ventidue miliardi di dollari in quattro anni, ma la mancanza di un effettivo processo di unificazione del vecchio continente fu, probabilmente, il motivo che trattenne il Congresso dall’approvarlo. Ci volle il colpo di Stato in Cecoslovacchia del febbraio per deciderlo: il 3 aprile 1948 il Truman firmava T"Economic Cooperation Act” che autorizzava la conces­ sione di sei miliardi di dollari per il primo anno.

Inflazione e antinflazione in Italia L’Inghilterra non si era ancora rassegnata al ruolo se­ condario al quale la guerra l’aveva confinata di fronte agli Stati Uniti; il governo laburista prevedeva non lontano il momento in cui avrebbe dovuto comprimere il tenore di vita della popolazione, non potendo continuare a vivere sui prestiti e sugli aiuti. Ma questo sarebbe stato il falli­ mento della sua politica ed allora, per evitare tali conse­ guenze, prese, il 20 agosto, una decisione molto grave che indicò come la rivalità con l’America e la volontà di difen­ dere il mercato londinese nei confronti di quello di New York fossero sempre molto vive: dichiarò il blocco delle sterline, cioè l’inconvertibilità della sterlina in dollari. Era il tentativo di ristabilire fra le due monete il rapporto esi­ stente prima della guerra, ma il provvedimento violava aper­ tamente l'impegno preso dall’Inghilterra quando aveva ri­ cevuto dagli Stati Uniti il prestito di 3.750 milioni di dollari (luglio 1946), di rendere operante la convertibilità della sterlina in dollari entro un anno. In previsione di ciò la Gran Bretagna aveva avviato trattative con i paesi che facevano parte della sua area monetaria per graduare nel tempo il cambio delle sterline in precedenza congelate; ed anche con l’Italia — come scriveva Libero Lenti su Lo Stato moderno —, che pure non faceva parte della sua area, aveva firmato un accordo, nell’aprile del 1947. La nuova decisione veniva a sconvolgere tutte queste 344

prospettive ed era particolarmente grave per il nostro paese che, avendo un commercio di esportazione diretto in gran parte verso l’area della sterlina (dall’area del dollaro im­ portava), avrebbe subito un congelamento di circa 20 milio­ ni di sterline, cioè di 80 milioni di dollari. Era una cifra molto alta che poteva recare un notevole danno all’econo­ mia italiana, sicché l’ambasciatore Tarchiani fu incaricato di fare pressioni a Washington perché si cercasse di risol­ vere la questione il più rapidamente possibile e nel miglio­ re dei modi. Certo, il non poter disporre di una somma co­ si forte avrebbe recato un danno non lieve all’economia ita­ liana, travolta nelle spire di una inflazione che minacciava di dissolvere ogni fiducia nella lira. Al 30 giugno la circola­ zione monetaria era di 584.348 milioni contro 402.048 al 30 giugno 1946 e con un aumento di circa 20 milioni rispetto al mese precedente; nel settembre aveva già raggiunto i 645 milioni. Contemporaneamente, saliva il deficit del bilancio che presentava, di fronte ad una spesa di circa 1.000 miliar­ di all’anno, una entrata di circa 500 miliardi con un disa­ vanzo effettivo di circa 550 miliardi. L’inflazione, come sempre avviene, favoriva lo sviluppo dell’attività industriale, che in diversi rami si avvicinava al livello del 1938, mentre si ripristinava quasi del tutto l’effi­ cienza dei macchinari: ad esempio, nell'industria laniera la potenza degli impianti superava quella dell’anteguerra; altrettanto avveniva per la filatura del cotone salita da una produzione di cotone sodo di 147.740 tonnellate nel 1938 a 185.500 tonnellate nel 1947; più grave era la condizione del­ l’industria serica battuta sui mercati americani dalla con­ correnza della seta giapponese e cinese; un sensibile risve­ glio segnava l’industria metallurgica che nel mese di giugno raggiungeva un massimo che era quasi il triplo di quello dell’anno precedente; l’industria meccanica si riprendeva in maniera abbastanza netta e si poteva dire che "il cammino percorso nella riconversione [fosse] stato veramente note­ vole”; la produzione automobilistica passava da 694 auto­ vetture nel giugno 1946 (1.010 nel luglio) a 2.115 nel giugno 1947 (2.483 nel luglio), ecc. Intanto, i privati continuavano ad investire il loro denaro soprattutto nei titoli azionari, attratti dalla rivalutazione degli impianti delle società, che portava ad accrescere automaticamente il valore ed il nu­ mero delle azioni delle società stesse, determinando un in­ cessante moto di rialzo dei titoli in Borsa; nel medesimo tempo, attraverso questo aumento dei valori azionari, ve­ nivano emesse, sottoscritte e assorbite forti quantità di nuo345

ve azioni a pagamento, sicché il settore industriale si an­ dava rifornendo di capitali freschi. "Quanto sta avvenendo nelle Borse Valori d’Italia," scriveva la Rivista bancaria, “in questo primo scorcio dell’anno 1947 costituisce veramente un grande fenomeno economico di finanziamento delle no­ stre industrie, e se nessun avvenimento e nessun provvedi­ mento verranno a turbare e a guastare l’operante attività delle Borse stesse, l’anno 1947 segnerà una data di cospi­ cuo rilievo nella storia della nostra economia industriale e produttiva.” Dal febbraio all’aprile i valori di maggior mer­ cato guadagnavano alcuni un trenta per cento, altri un ven­ ti, altri infine un dieci; fra l’ottobre 1946 e il giugno 1947 le società emettevano azioni gratuite per adeguamenti mo­ netari degli impianti, per circa 17 miliardi di lire, e azioni a pagamento per oltre 28 miliardi. Ma se le industrie potevano approfittare largamente del­ la congiuntura favorevole, si andava facendo sempre più grave la crisi in cui versava lo Stato, anche perché le ban­ che, che prima investivano il denaro dei depositanti preva­ lentemente in buoni ordinari del Tesoro o lo versavano in conto corrente presso l’Istituto di emissione, dando cosi modo allo Stato stesso di finanziarsi senza dover ricorrere in misura eccessiva alla emissione di carta moneta, adesso, invece, rispondevano di preferenza alle richieste di credito che arrivavano loro da parte dei privati, premuti dalla in­ sufficienza dei capitali e in particolare del capitale circolan­ te. Se tale situazione si fosse prolungata per molto tempo, ci sarebbe stato il pericolo di un fallimento dello Stato in­ capace di arrestare l’inflazione; bisognava porvi un termi­ ne. In un primo momento parve che il ministro del Bilan­ cio, Einaudi, intendesse agire con il solo strumento fiscale, intenzione che era detta da Comunità "pericolosa” in quanto implicava la rinuncia ad usare gli strumenti della politica finanziaria, in primo luogo il controllo del credito, e ad adottare anche quei provvedimenti che erano indispensabili per "assorbire il potere d’acquisto eccedente fra le classi abbienti e per stroncare la speculazione inflazionistica.” Co­ si, il ministro Pella annunciò, il 22 giugno, a Milano che il nuovo governo avrebbe lasciato cadere i tributi straordinari perché potevano dare un gettito limitato e avrebbe, invece, inasprito le imposte indirette: cosa che fu fatta a partire dal 1° agosto provocando, però, un immediato rialzo dei prezzi dei beni di consumo e dei servizi (ormai ad un aumento della circolazione di 20 volte rispetto al 1938 corrispondeva un aumento dei prezzi di 50 volte, il che stava ad indicare 346

che la svalutazione della moneta derivava non tanto dall’au­ mento del circolante, quanto piuttosto da quella che gli eco­ nomisti dicevano "velocità di circolazione" e le sinistre “spe­ culazione”). Cesare Cosciani faceva osservare, sulla Rivista bancaria, come dopo l’armistizio il nostro sistema tributario si fosse "spostato notevolmente verso l’imposizione indiret­ ta sui consumi,” per diverse ragioni, sia perché il legislatore "sfruttando il fenomeno della illusione finanziaria, [ave­ va] seguito la linea di minor resistenza, sia perché lo Stato si [era venuto) a trovare nell’impossibilità pratica di accet­ tare le imposte dirette che [esigevano] tutta una struttura burocratica solida.” Ma questa constatazione segnava il fal­ limento dell’opera dei ministri di sinistra che si erano suc­ ceduti nei dicasteri economici; tuttavia, era sempre esistita, come lontana minaccia, l’aspirazione all’imposizione stra­ ordinaria a cui ora sembrava che si rinunciasse definitiva­ mente. Pertanto, le imposte indirette salivano gradualmente da 8.871 (milioni di lire) in luglio a 9.478 in agosto, a 11.844 in settembre e a 11.400 in ottobre, mentre quelle dirette or­ dinarie diminuivano da 10.996 a 11.222, a 8.550 e infine a 6.321, e quelle dirette transitorie diminuivano pure esse, dopo un improvviso sbalzo da 7.133 in luglio a 11.041 in ago­ sto, a 5.847 e a 4.647 in settembre e in ottobre. "Con tale andamento,” metteva in rilievo la Rivista bancaria nella consueta rassegna sui conti del Tesoro e del bilancio dello Stato, "siamo ben lontani da una situazione che, all’ingrosso, risponda al criterio che venne sostenuto come razio­ nale e corretto in autorevoli dichiarazioni ministeriali, e cioè di una distribuzione a metà del gravame tributario fra la imposizione diretta e quella indiretta.” Un-altro provvedimento contribuita a far lievitare i prez­ zi: il 1° agosto, infatti, il governo decideva di portare il cambio del dollaro da 225 a 350 lire, per favorire un incre­ mento delle esportazioni. Sempre con lo stesso intento, il ministro Merzagora aveva, in quegli ultimi tempi, aperto una breccia nella disposizione, adottata un anno prima, di lasciare il 50% delle valute introitate agli esportatori facen­ do concessioni ai cotonieri, ai lanieri ed ai serici; e si po­ teva prevedere che altre categorie sarebbero riuscite ad ottenere simili concessioni. Perciò, affermava Libero Lenti, lo Stato avrebbe pagato la valuta a lui ceduta ad un prezzo superiore e ne avrebbe anche avuto una proporzione infe­ riore proprio per le condizioni di favore fatte ad alcune categorie; tuttavia, c’era la speranza che sia queste ultime sia il nuovo cambio dessero un forte impulso alle espor347

tazioni. Ma c’era anche il timore, diceva ancora il Lenti, che lo stesso incremento delle esportazioni portasse "ad un ulteriore depauperamento del mercato interno": in tal caso, il provvedimento si sarebbe risolto "in un nuovo fattore di lievitazione dei prezzi interni.” E concludeva: “Questa è la ragione per cui non mi sento in grado di rispondere con sicurezza alla domanda. Se dovessi rispondere piu a sensa­ zione che a ragionamento, dovrei dire che il rialzo del cam­ bio ufficiale potrà risolversi in un fattore di incremento dei prezzi interni." Fino a quel momento, pertanto, la politica dell’Einaudi, la cui nomina a ministro aveva allarmato le Borse — che avevano reagito negativamente —, in quanto si prevedeva che egli volesse difendere con maggior fermezza la lira ed assestare il bilancio statale (ed invece “il presupposto del continuato aumento dei valori mobiliari era quello d’un lento, progressivo, ineluttabile slittamento della moneta"), aveva anzi consentito un peggioramento della situazione. Ma all’inizio di settembre il governo rendeva note alcune dispo­ sizioni che tendevano, da un lato, a richiamare al Tesoro parte di quel denaro che si rivolgeva ora alle industrie (an­ zitutto richiamava in vigore un vecchio provvedimento in base al quale l’eccedenza dei depositi bancari superiore a 30 volte il patrimonio dei singoli istituti doveva investirsi in titoli dello Stato; poi precisava che in titoli dello Stato o in conti speciali fruttiferi presso la Banca d’Italia doveva essere investito il 20% dei depositi eccedenti di 10 volte il patrimonio netto delle singole aziende di credito; e, infine, a partire dal 1° ottobre il 40% dell’incremento verificatosi nei depositi doveva essere investito o depositato nello stes­ so modo, si da raggiungere la percentuale, fra depositi e investimenti in titoli dello Stato, minima del 25%), e, dal­ l’altro, a rendere possibile una diminuzione dei prezzi au­ mentando il saggio di sconto e creando difficoltà al ricorso alle banche da parte dei privati per ottenere adeguati finan­ ziamenti alle loro imprese. Queste restrizioni del credito avrebbero dovuto costringere i detentori di merci a ven­ derle per procurarsi i capitali che non potevano trovare in altro modo, il che avrebbe provocato un ribasso dei prezzi data la maggiore offerta di beni di consumo. Venivano colpite soprattutto le posizioni di quella ~che la Rivista bancaria definiva la "clientela speculativa” delle Borse, che dovevano essere alleggerite, se non proprio del tutto liquidate, diceva nel numero di luglio-agosto-settem­ bre; e nel numero successivo di ottobre scriveva: "Le ven­ 348

dite si sono moltiplicate, incalzando e travolgendo ogni pos­ sibilità d’assorbimento e di resistenza. Non solo le posi­ zioni speculative che ancora s’erano ostinate a mantenersi aperte, hanno dovuto in gran parte liquidarsi con perdite sensibilissime, ma anche ingenti partite di titoli a riporto per effettivo finanziamento di enti e di società, hanno do­ vuto a loro volta essere gettate sul mercato e disgregate, aggiungendo offerte a offerte, depressione a depressione." I titoli, pertanto, precipitavano e nei due mesi di settembre e ottobre si calcolava che avessero perduto dal 40 al 60% del loro valore di mercato (rispetto ai prezzi massimi, toc­ cati nel maggio, si avevano queste percentuali di ribasso: Isotta Fraschini 91%; Breda 74%; Fiat 73%; Pirelli & C. 75%; Fibre Tessili 68%; Edison 62%; ecc.). Incominciava un periodo di crisi per l’industria italiana, crisi che II Popolo cercava di attribuire alle numerose e sempre più estese agi­ tazioni di operai (metallurgici, tessili, ecc.) e di contadini (lo sciopero dei contadini nella Valle Padana fu la piu va­ sta manifestazione che si fosse avuta sino allora nelle cam­ pagne e derivava dalla volontà della Confederterra di unifi­ care le parti normative del contratto di lavoro in zone sempre più estese, fino a comprendere tutti i lavoratori del­ la penisola — salariati e braccianti — sotto un’unica disci­ plina contrattuale), ma che, invece, derivava evidentemente dalle misure creditizie. Tuttavia, nel tempo stesso, il governo si preoccupava di calmare l’allarme dei ceti capitalistici approvando, il 6 set­ tembre, la costituzione di un Fondo di proprietà dello Stato (F.I.M.), da impiegare a favore di aziende meccaniche (tra le quali erano la Fiat, la Breda, i Cantieri Navali), interes­ santi in particolar modo il settore dell’esportazione, per operazioni di finanziamento da concedersi sotto forma di: 1) anticipi di parte del prezzo di forniture da farsi all’estero contro emissione in pagamento dei crediti in valuta estera derivanti dalle forniture stesse; 2) acquisti di partecipazio­ ni; 3) assunzione da parte del fondo di azioni derivanti da aumenti di capitali delle aziende (il Fondo veniva costituito mediante un iniziale versamento di 5 miliardi e lo stanzia­ mento di 20 annualità di 2 miliardi e mezzo ciascuna). I finanziamenti concessi al 10 dicembre 1947 ammontarono, di fronte ad una richiesta di 65.647 milioni, a 14.150 milioni, di cui 6.060 al Piemonte, 4.363 alla Lombardia, 2.125 alla Li­ guria, 400 alla Venezia Giulia, 400 all’Emilia, 700 alla Cam­ pania e 100 alla Puglia; inoltre, furono cosi distribuiti per ramo d’industria: 7.359 milioni agli automezzi, 2.300 alle 349

costruzioni navali, 1.600 all’elettrotecnica, 1.200 al materiale rotabile, 990 ai motori pesanti, ecc. Un altro provvedimento diretto allo stesso scopo fu quello dell’elevazione del fondo I.R.I. a 60 miliardi. Il d’Albergo criticava duramente "l’in­ sieme delle circostanze” che avevano condotto a tale "situa­ zione prefallimentare": "Soprattutto impressiona l’interven­ to statale nel campo del finanziamento delle aziende, che prima gravitavano nel settore della Borsa-valori o degli isti­ tuti finanziari e bancari. E invero non sappiamo se e quan­ do si potrà ricuperare il flusso dei prestiti che affluiscono al settore malato della nostra economia [...]. Queste non sono critiche ma conferme o echi di quanto ufficialmente si finisce per ammettere. Il, desiderio dell’on. Corsi di evitare che il F.I.M. si trasformi in ospedale degli incurabili ha tutto il sapore di una constatazione di una situazione ‘in fieri’ o scontata. Del pari l’espressione usata, nel senso che il fondo per le industrie meccaniche sarebbe ‘una magistra­ tura il cui compito è quello di fare delle anticipazioni ad alcune industrie con le garanzie fissate dalla legge istitutiva e dietro cessione di azioni di crediti e di merci,’ senza vo­ lere ci dice che ci si allontana dalla tradizione efficiente in tema di politica dei finanziamenti delle imprese.” Un solo senso avrebbe avuto tale politica, proseguiva il d’Albergo, se cioè essa avesse preparato una estensione del settore pub­ blico, una progressiva statizzazione delle imprese private, cosa che sembrava invece non si avesse alcuna intenzione di fare se, in contrasto con questa tendenza, si erano mani­ festati "programmi di restituzione al campo di competenza specifica (iniziativa non pubblica) di importanti rami pro­ duttivi.” Cosi come era concepita ed attuata, perciò, questa politica di finanziamento delle aziende si traduceva in un rafforzamento delle industrie più forti e in un aggravamento degli squilibri tradizionali del nostro paese, fra nord e sud e fra città e campagna: era, insomma, una politica che po­ teva apparire una continuazione di quella seguita dal fasci­ smo, soprattutto dal 1934-35 in poi, come si poteva anche scorgere dalle disparità degli stanziamenti fra le varie re­ gioni. Altre dichiarazioni tendenti a rassicurare gli ambienti produttivi venivano fatte dal ministro Togni, il 1° ottobre: egli riconosceva che la questione creditizia era stata "par­ zialmente affrontata” dal governo ed esprimeva la certezza che questo potesse “ulteriormente esaminarla, preoccupato com’è di mantenere intatto e anzi di nulla trascurare per integrare il potenziale produttivo del paese.” E ancora una 350

frase, "indicativa dell’orientamento del governo” democri­ stiano, "a sinistra in politica, ma a destra in economia" (Il Popolo), era quella in cui il ministro aveva detto che, "superato il concetto di economia in senso stretto, l’azione di tutela dello Stato e dei suoi competenti organi [doveva] svilupparsi nel senso sociale di salvare le iniziative econo­ micamente sane." Sembrava quasi che i nostri uomini di governo cercassero di giustificarsi o addirittura di farsi per­ donare il coraggio dimostrato con le restrizioni sul credito. In realtà, si poteva credere che anche l’Italia si fosse do­ vuta adeguare a quell’“atmosfera di prestabilizzazione” do­ vuta al piano Marshall: “Ovunqque si prospetta,” scriveva il Lenti nell’articolo citato sulla Rivista bancaria, “la ne­ cessità di pareggiare entrate e spese o, quanto meno, di adeguare le spese alle entrate. Tutti i paesi si sono pure impegnati [a Parigi durante le discussioni dei sedici paesi terminate il 22 settembre] a ridurre immediatamente i ricor­ si alla banca di emissione. Particolarmente interessanti sono state le dichiarazioni dei rappresentanti italiani i quali han­ no comunicato che misure straordinarie sono in corso di attuazione nel campo fiscale e creditizio.” Perciò, l’impegno di ridurre i ricorsi alla banca di emissione era stato subito tradotto in pratica dal governo italiano; del resto, era chia­ ro che la condizione essenziale per partecipare al piano era quella di avere una moneta stabilizzata, fissata su un rap­ porto stabile con il dollaro, perché altrimenti sarebbero stati impossibili gli scambi intemazionali. Le prime conseguenze, pertanto, del piano, anche se in­ dirette, portavano ad una crisi nell’industria; ed un’altra crisi, forse molto più grave, si prevedeva dalla sua applica­ zione nell’agricoltura. Infatti, la caduta delle barriere doga­ nali avrebbe esposto questa alla concorrenza internazionale mentre si trovava in una situazione — cosi affermava la Rassegna dell'agricoltura italiana — che non le permetteva di affrontarla senza grave pericolo. Libertà di commercio voleva dire continua diminuzione dei costi, ed invece diversi fattori rendevano ciò impossibile: “Un peso eccessivo di mano d’opera che impedisce o riduce la possibilità di im­ piego di macchine e comunque costringe a combinazioni di capitale e lavoro meno redditizio, ostacola ogni sforzo di riduzione dei costi. Un onere crescente di tributi ed una organizzazione previdenziale sproporzionati alle risorse del­ la nostra agricoltura, accrescono gli oneri della produzione agricola, quando non deviano lo stesso risparmio dalla ter­ ra. Una situazione, si potrebbe aggiungere, di attrito e di 351

crescente conflitto fra impresa e lavoro, su cui influiscono correnti politiche sovvertitrici, diminuisce il rendiconto del­ l’attività produttiva che, per tanta parte, riposa sulla mutua e cordiale collaborazione ed è motivo di incertezza e di cre­ scente rischio per ogni nuova intrapresa produttiva." Tutto ciò faceva desiderare ai ceti agricoli quasi una ulteriore ele­ vazione delle barriere protezionistiche, e, ad ogni modo, li rendeva risolutamente contrari ad ogni loro diminuzione, e tanto più ad una eventuale abolizione. Il problema era gra­ ve, soprattutto perché esso si collegava all’altro della tra­ sformazione delle colture: bisognava abbandonare la pre­ valente coltura del grano, che non era più redditizia di fronte ai bassi prezzi dell’estero, ma questo esigeva un profondo e radicale mutamento di quella mentalità e di quelle abitudini a cui nelle campagne si era da lungo tempo abituati, prima in séguito all’autarchia e poi alla guerra. Eppure, tutti ormai ammettevano che non si poteva con­ tinuare cosi, che occorreva dedicarsi a colture specializzate, tali da poter essere vendute negli altri paesi e dare, in tal modo, un contributo attivo al miglioramento della nostra bilancia commerciale: il prato per l’allevamento del bestia­ me; la produzione ortofrutticola e quella vitivinicola; la col­ tura dell’olivo, ecco alcune delle mète che venivano additate alla agricoltura italiana. Erano, questi, problemi che il De Gasperi, e di conseguenza, il governo, non avevano sentito, e che non sentivano affatto, e lo aveva dimostrato il primo ministro nel suo citato discorso alla Costituente del 9 giu­ gno, quando aveva anzi esortato ad intensificare la coltura del grano. Su tutto, però, dominava la questione della diminuzione dei costi, ed era a questo punto che risaltava il contrasto fra le esigenze dell’industria, anch’essa abituata ad un regi­ me protezionistico, e le esigenze dell'agricoltura: “Il proble­ ma da risolvere,” diceva ancora la Rassegna dell’agricol­ tura italiana, “è quello del costo delle materie prime ne­ cessarie all’agricoltura, prime fra tutte i fertilizzanti e gli anticrittogamici. Gli agricoltori si rendono perfettamente conto della grave crisi che pesa sulTindustria, ma non pos­ sono fare a meno di dichiarare che oggi non ce la fanno più di fronte al continuo aumento del prezzo di materie e mezzi assolutamente indispensabili, quando peraltro vedono di giorno in giorno diminuire il prezzo dei loro prodotti del­ la terra e della stalla, del 40 o del 60 per cento e più, senza tener conto del costo sempre più alto del cuoio, dei tessuti, degli attrezzi, delle stoviglie, ecc.” Era lo squilibrio fra in­ 352

dustria e agricoltura, fra città e campagna, e, perciò, fra nord e sud di cui abbiamo parlato poco sopra, uno squi­ librio contro cui stavano muovendo potenti forze, sia den­ tro sia fuori del nostro paese, che avrebbero contribuito a trasformare profondamente, negli anni successivi, l’aspetto della nostra economia. La costituzione

Fin dall’inizio si era capito che l’assemblea plenaria, com­ posta di quasi 600 deputati, non avrebbe potuto studiare ed elaborare la nuova costituzione e che, pertanto, occorreva affidarne la redazione ad una delegazione più ristretta. Era nata, cosi, la "commissione dei settantacinque," che, poi, a sua volta, per poter meglio lavorare, si era divisa in tre sotto-commissioni, ciascuna delle quali aveva ancora dato vita a più ristretti comitati o sotto-comitati di redazione. Ogni articolo, dunque, per arrivare all’assemblea plenaria doveva percorrere, come faceva osservare il Calamandrei, una lunga trafila: dalla prima formulazione dei comitati di redazione, salire all’esame più approfondito della compe­ tente sotto-commissione e, infine, passare al vaglio della commissione dei settantacinque e dell’assemblea plenaria. Lo stesso Calamandrei metteva in rilievo gli evidenti incon­ venienti di tale complessa procedura, il più grave dei quali consisteva nel rischio che le varie commissioni, lavorando ognuna per suo conto a una ristretta parte della costitu­ zione, perdessero la visione d’insieme dei problemi costitu­ zionali. "Se la costituzione dev’essere un organismo vivo, in cui tutte le parti rispondono a un'unica ispirazione politica, è difficile fabbricarla a pezzi separati colla riserva di met­ terli insieme soltanto alla fine: quando si arriverà a ‘mon­ tare’ questi pezzi usciti da diverse officine, potrà accadere che ci si accorga che gli ingranaggi non combaciano e che le giunture del motore non coincidono: e potrà occorrere qualche ritocco per metterlo in moto.” D’altra parte, come si sarebbe potuto fare altrimenti? Non si sarebbe certamen­ te potuto affidare la preparazione del piano al governo o ad una commissione di tecnici estranei all’assemblea, perché in tal caso la sovranità dell’assemblea stessa sarebbe stata menomata: "il tema delle discussioni le sarebbe stato sug­ gerito dal di fuori. Cosi si potrà dire invece che la nuova democrazia italiana è sorta per intero, senza inframmetten­ ze e senza suggerimenti esterni, dal di dentro dell’assem­ blea popolare." II.12

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Indubbiamente, questo era stato forse l'unico sistema possibile, ma esso aveva generato anche l’altro inconvenien­ te di eliminare praticamente, nel lavoro dei comitati e delle sotto-commissioni, la voce dei partiti minori, la cui rappre­ sentanza era stata molto debole, non certo proporzionata al loro peso numerico. In tal modo, le tre forze politiche dominanti avevano fatto sentire la loro influenza spesso de­ cisiva, imponendo i motivi che a loro stavano più a cuore: quella cattolica la famiglia, i rapporti fra lo Stato e la Chie­ sa e l'educazione; quella social-comunista o marxista il di­ ritto al lavoro, il principio generale di un interventismo e di una pianificazione economica che avrebbero potuto in­ staurare nuovi rapporti fra le varie classi sociali; e quella liberale-conservatrice le garanzie costituzionali mediante la seconda Camera e la creazione di un organo giurisdizionale (la Corte costituzionale, competente a giudicare sulla costi­ tuzionalità delle leggi e a risolvere i conflitti fra lo Stato e le regioni, nonché a giudicare il presidente della Repubblica e i ministri accusati a norma della costituzione). Ecco per­ ché il Paggi poteva scrivere che la costituzione gli appariva "un fragile tessuto fatto di non armoniose giustapposizioni cattoliche da un lato e marxiste dall'altro, con qualche ma­ linconico residuo di un liberalismo che ha persino il pu­ dore della parola libertà." In effetti, se tre erano state le forze prevalenti, esse si erano ridotte, in definitiva, a due, la cattolica e la marxista, più sicure e più ferme nel soste­ nere i loro punti di vista, poiché quella liberale era stata indebolita dal rimpianto del passato, che era rimpianto nel migliore dei casi, della democrazia prefascista a cui nessuna delle altre forze politiche intendeva ritornare. Essa, infatti, non aveva contenuto nessuno di quei principi a cui sia i cattolici sia i social-comunisti non volevano rinunciare, poi­ ché aveva negato la validità dei valori religiosi — e la lunga polemica cattolica contro la democrazia liberale atea e laica aveva lasciato profonde tracce — , ed anche l’importanza dei valori sociali. Per questo lato, bisogna dire che la costituzione rispec­ chiò abbastanza esattamente la nuova situazione politica, sanzionando la riscossa di quelle classi e di quei ceti che, durante il secolo scorso, si erano mantenuti all’opposizione del processo dell’unificazione e dell’indipendenza, cioè ap­ punto i cattolici e le classi lavoratrici. Ma, mentre i primi richiedevano il riconoscimento ufficiale di uno stato di fatto maturato dal 1929, dal Concordato in poi, e che la fine della guerra aveva consolidato, le correnti marxistiche invece non 354

I

potevano richiedere la traduzione in formule giuridiche di una trasformazione sociale già fissata nella realtà storica, perché in Italia, come faceva notare il Calamandrei, l’unica ricostruzione rivoluzionaria fino allora compiuta era rima­ sta confinata al campo politico, ed era stata la repubblica. "Cosi la nuova costituzione italiana," soggiungeva il giuri­ sta fiorentino, "rischia di riuscire piuttosto che un docu­ mento giuridico, imo strumento politico: piuttosto che la attestazione di una raggiunta stabilità legale, la promessa di una trasformazione sociale che è appena agli inizi. Que­ sto spiega perché molti degli articoli che vi saranno inclusi conterranno invece che la garanzia di diritti già acquisiti e di istituzioni già fondate, propositi e preannunci di riven­ dicazioni sociali che per ora sono soltanto sogni dell’awenire.” La costituzione, perciò, sotto tale aspetto, doveva es­ sere considerata come uno strumento per rendere possibile nell’avvenire, "in forme progressive e legalitarie," quella ri­ voluzione sociale che era appena agli inizi. Ma era proprio sui limiti e sulle possibilità di questa pacifica rivoluzione che i vari partiti non erano stati affatto d’accordo e talora si potè trovare il punto d’incontro fra le diverse esigenze solo dopo lunghe discussioni, un punto di incontro nato, non poche volte, da un compromesso. Ed il compromesso è, in verità, quello che si nota subito an­ che ad una prima lettura della costituzione, per cui molti articoli si prestano ad una duplice interpretazione, demo­ cratica e progressiva o conservatrice nel tempo stesso; sic­ ché si poteva prevedere fin d’allora che sarebbe stata la concreta vita politica a dare a ciascuno di essi il suo più vero significato. Di conseguenza, la costituzione non crea­ va, di per se stessa, una nuova realtà politica; i rap­ porti di forza fra i vari partiti sarebbero stati decisivi, a tale riguardo. Ma, in questo modo, si rendeva possibile, per il futuro, una interpretazione della costituzione di volta in volta diversa, a seconda di chi fosse stato al potere e ne avesse dovuto applicare le norme. In effetti, si prendano, ad esempio, gli arti. 41 e 42 del titolo III (Rapporti econo­ mici), che proclamano “l’iniziativa economica privata libe­ ra,” ma contemporaneamente affermano che essa non può "svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da re­ care danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”; inoltre, “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge,” che ne determina però "i modi di acquisto, di godi­ mento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione so­ ciale e di renderla accessibile a tutti.” Essa può addirittura, 355

"nei casi preveduti dalla legge e salvo indennizzo," venire espropriata “per motivi d’interesse generale.” Ma, allora, vien fatto di chiedersi, la proprietà privata è libera o no? Perché, se da un lato la si riconosce tale, dall’altro, nell’in­ tento di assicurarne la funzione sociale, si apre la via all’in­ tervento dello Stato attribuendogli la più ampia facoltà di nazionalizzare o di socializzare. Come si è visto, questi diritti relativi alla proprietà e alle intraprese economiche sono espressi in norme program­ matiche che rimandano alla relativa legge da emanarsi dal futuro legislatore, una legge che, evidentemente, avrebbe potuto insistere di più o sulla libertà o sulla funzione so­ ciale della proprietà e dell’iniziativa privata. Molto proba­ bilmente, il partito comunista sperava che il compromesso stipulato con la democrazia cristiana in occasione dell’arti­ colo 7 potesse durare molto a lungo, lasciandogli una piena giurisdizione sul mondo del lavoro. Ma la rottura del com­ promesso con l'espulsione dei social-comunisti dal governo, fece intravedere chiaramente la possibilità di una interpre­ tazione diversa da quella che i partiti delle classi lavoratrici si attendevano. Si prospettava, quindi, ima dura lotta per superare la resistenza che quasi certamente le destre, allea­ te della d.c., avrebbero opposto ad ogni affermazione sociale della proprietà. Ben più importante appariva quanto avevano ottenuto i cattolici, i qüali, irrigidendosi e respingendo ogni compro­ messo, erano riusciti ad inserire nella costituzione i Patti lateranensi integralmente. Non avevano nemmeno accettato che si aggiungesse all’articolo 7 la formula: “ferme in ogni caso le garanzie delle libertà dei cittadini contenute nella Costituzione,” o che si dicesse, in qualche punto della costi­ tuzione stessa, che nessuna sanzione di carattere religioso poteva avere ripercussioni sulla capacità politica del citta­ dino. Avrebbero potuto, accettando questi emendamenti, ot­ tenere una maggioranza più forte, ma non si erano preoc­ cupati di questo, volendo che il Concordato, come scrisse Arturo Carlo Jemolo, restasse “nel suo pieno vigore, e che per l’ecclésiastico la sua qualità [sovrastasse] sempre a quella eventuale d’impiegato statale, e la sua ribellione [avesse] a sanzione una diminuzione di capacità politica” (perché l’art. 5 del Concordato prescriveva: "Nessun eccle­ siastico può essere assunto o rimanere in un impiego od ufficio dello Stato italiano o di enti pubblici dipendenti dal medesimo senza il nulla osta dellOrdinario diocesano. La revoca del nulla osta priva l’ecclesiastico della capacità di 356

continuare ad esercitare l’impiego o l’ufficio assunto. In ogni caso, i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potran­ no essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio od in un impiego, nei quali siano a contatto imme­ diato col pubblico”). L’inserimento dei Patti lateranensi nella costituzione por­ tava con sé conseguenze molto gravi anche nei riguardi della scuola, perché gli articoli 35-40 del Concordato, come ricor­ dava Antonio Basso, dettavano tutta una serie di disposi­ zioni in netto contrasto con altre norme costituzionali, quali "l'impegno dell’esame di Stato 'ad effettiva parità di condi­ zioni’ per candidati di istituti governativi e candidati delle scuole di istruzione media tenute da enti ecclesiastici e reli­ giosi (art. 35); l’insegnamento religioso nelle scuole medie (art. 36); la fissazione degli orari di eventuali adunate festi­ ve (ma per fortuna nella Repubblica non ci sono piu oggi le organizzazioni di avanguardisti e balilla!) in modo da consentir loro l’adempimento dei doveri religiosi (art. 37); il nulla osta della S. Sede per la nomina di professori del­ l’Università Cattolica e del dipendente istituto di Magistero (art. 38); la non ingerenza delle autorità scolastiche dello Stato italiano negli istituti d’insegnamento dipendenti dalla S. Sede per la formazione e la cultura degli ecclesiastici (art. 39); il valore delle lauree di sacra teologia e dei diplo­ mi di paleografia, archivistica e diplomatica documentaria data da istituti approvati dalla S. Sede (art. 40).’’ Inoltre, pur essendosi dovuti rassegnare all’emendamento "senza oneri per lo Stato” che, su proposta del Croce, era stato ag­ giunto al comma 3° dell’art. 33 ("Enti e privati hanno il di­ ritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato"), i democristiani sembravano aver raggiunto egualmente il loro intento — che era quello di consentire il finanziamento da parte dello Stato delle scuole private — con il comma 4° dello stesso articolo, che diceva: “La legge nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità [da più parti si faceva osservare come in tal modo si rendesse costituzionale l’istituto della parità che era stato creato dal fascismo nel 1938 con la fondazione dell’E.N.I.M.— Ente Nazionale dell’Insegnamento Medio, del quale potevano far parte anche scuole private che soddisfa­ cessero a determinate condizioni — e che, quand’anche lo si fosse voluto conservare, pur dopo le cattive prove fatte, avrebbe dovuto essere piuttosto materia di legislazione or­ dinaria], deve assicurare ad esse piena libertà ed ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli 357

alunni di scuole statali.” Ora, alcune autorevoli interpreta­ zioni di parte democristiana lasciavano chiaramente inten­ dere che, con l’espressione “trattamento scolastico equipol­ lente,” si era voluto affermare il dovere da parte dello Stato di finanziare le scuole private. Da ciò naturalmente sareb­ bero derivati futuri contrasti ed anche in questo caso si poteva prevedere che il partito ό i partiti che avessero avu­ to la maggioranza avrebbero cercato di piegare l’articolo ai propri propositi. Anche su un altro punto, piuttosto deli­ cato, fu sensibile il compromesso: è quello riguardante l’or­ dinamento regionale (titolo V, articoli 114-131) dove si scontrarono le tendenze autonomistiche con quelle contra­ rie ad ogni decentramento. Il risultato — un "compromesso assai infelice," fu detto allora — fu che, mentre nel pro­ getto della Commissione dei 75 non si faceva più alcuna menzione delle province e dei prefetti, organi del governo centrale in periferia, essi, all’ultimo momento e con un col­ po improvviso di maggioranza occasionale — è stato scrit­ to —, furono fatti sopravvivere, aggiungendovi anche i cir­ condari ed i sottoprefetti. In tal modo, si finiva con il togliere valore alla proclamata autonomia, annullando ogni efficace autogoverno in una minuta rete amministrativa che dipendeva sempre direttamente dal centro. Una costituzione, dunque, che, nata da un fragile equili­ brio di forze politiche contrapposte, conteneva in se stessa il germe di uno sviluppo in una direzione o nell’altra a se­ conda di chi l’avesse applicata. Ma la cosa più importante sarebbe stata che entrambe le parti, quand’anche avessero raggiunto la maggioranza assoluta, si mantenessero rispet­ tose dei diritti delle minoranze e non tendessero a trasfor­ marsi in regime, cioè evitassero di soffocare l'opposizione, respingendola in uno sterile e vano dibattersi senza costrut­ to. Cosi la democrazia non può vivere; e neppure essa può vivere dove un partito o un gruppo di partiti si proclamano eterni depositari del potere. In democrazia nessuno deve ritenersi investito per l’eternità, come nessun uomo deve ritenersi superiore agli altri uomini per una virtù che gli piova dall’alto. La democrazia, perché possa vivere vera­ mente negli animi, esige una sincera comprensione delle esi­ genze altrui ed una sincera professione di umiltà, che rap­ presentano l’unico modo per istituire un colloquio con gli altri esseri, da cui solo può derivare un progresso continuo e sicuro. Intanto, il testo definitivo della costituzione veniva ap­ provato con 453 voti favorevoli e 62 contrari, il 22 dicembre

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e promulgato dal capo provvisorio dello Stato il 27; entrava poi in vigore il 1° gennaio 1948. Il presidente della Camera, Umberto Terracini, riassumeva le speranze che, in quel mo­ mento, erano nel cuore di tutti: “Questa Carta che stiamo per darci è un inno di fede [...]. Quando oggi voteremo, il largo suffragio che daremo alla nostra Costituzione atteste­ rà che, malgrado i dissensi e le lacerazioni, è scaturita, dalle viscere profonde della nostra storia, la convergenza di tutti in una comune certezza: il sicuro avvenire della Repubblica italiana (vivissimi, generali applausi)." Ed effettivamente, sembrava che Tesser riusciti ad elaborare una costituzione, pur nelle strette di una profonda crisi politica, economica e sociale, potesse permettere una serena fiducia nell’avve­ nire; il popolo italiano si affacciava alla sua nuova storia con la sicura consapevolezza di aver ben lavorato per di­ menticare e far dimenticare il lungo periodo in cui si era oscurato, per lui, il senso dei valori umani. Poteva ripren­ dere, ora, il cammino interrotto, forte dell’amara esperienza attraversata che non gli consentiva pili di tornare indietro, dal regime democratico al regime di ristrette caste gover­ nanti sui cittadini; poteva andare avanti, questo si, verso un allargamento ed una estensione dei diritti civili ai ceti più umili elevandoli alla luce spiegata della coscienza. Per­ ché proprio questo appariva il più importante significato della costituzione: l’avere aperto la via a successivi svilup­ pi, l’avere rotto una situazione statica e l’aver reso possi­ bile una evoluzione verso più alte conquiste sociali e politi­ che. Significato in cui si sentiva ancora aleggiare il vivo ricordo della Resistenza, dalla quale derivava il nuovo spi­ rito della nuova età.

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Indice dei nomi

Acquarone, P. 17, 18, 19, 23, 24 Albasini Scrosati, V. 65 Aldisio, S. 295 n., 318 Alexander, H. 40, 98, 108, 111, 112, 113, 119, 121, 122, 123, 124, 125, 147, 189 Andreis, M, 160, 161 Anfuso, F. 69, 93, 94, 164, 165, 166 Antonicelli, F. 259 Arangio Ruiz, V. 39, 40, 51, 53, 58 η., 77, 188 η., 225 Armellini, Q. 48 Arpesani, G. 141, 283 Attlee, C. 85, 190, 193, 194, 244 Audisio, W. (“Valerio”) 58 n., 169 Azzi, F. 273

Badoglio, P. 5, 6, 7, 8, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 21, 21 n„ 22 n„ 22, 23, 24, 25, 35, 36, 37, 38, 39, 46, 48, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 57, 58, 58 n., 59, 60, 62, 63, 66, 76, 77, 78, 80, 81, 84, 85, 98, 111, 112, 133, 329 Baker, colonnello americano 155 Baldacci, G. 258 Barbareschi, G. 188 n., 233 n. Barbieri, P. 216 Barracu, F. 167 Basso, A. 117, 118, 191, 289, 290, 357 Basso, L. 204, 253, 256, 276, 280, 311, 314 Beetz, (“frau Felicita”) 45 Bencivenga, R. 229 Berardi, P. 38

Bevan, A. 244 Bevin, E. 212, 239, 245, 246, 341, 342 Bianco, L. 89, 90, 94, 103 Bidault, G. 133, 341, 342 Bierut, B. 212 Biggini, C. A. 14 Blum, L. 171 Bombacci, N. 29 Bonfantini, C. 204 Bonomi, E. 305, 306, 307 Bonomi, I. 5, 6, 7, 8, 23, 25, 41, 48, 64, 65, 66, 73, 76, 77, 78, 79, 80, 80 n., 81, 84, 85, 99, 111, 112, 119, 126, 128, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 141, 143, 145, 147, 154, 158, 184, 185, 186, 209, 211, 226, 229, 230, 233, 259, 291, 292, 327, 329, 333 Bracci, M. 283 / Briand, A. 199 Brosio, M. 186, 188 n., 210, 225, 232 n., 260, 267 Browning, generale alleato 108 Brucculeri, A. 262, 263, 277 Buffarmi Guidi, G. 14, 71, 98 Buozzi, B. 82 Byrnes, J. F. 212, 290, 315, 320, 324

Cacciatore, L. 204, 319 Cadorna, R. 147 Calace, V. 52, 53, 54, 58 Calamandrei, P. 188, 268 n., 269 n., 328, 338, 353, 355 Campilli, P. 295 n., 318 Cappa, P. 334 Carandini, N. 260, 304 Casati, A. 8, 78, 80 n. 371

Cassandra, G. 281 Cattani, L. 186, 208, 223, 230, 233 n„ 272, 281, 283 Caviglia, E. 93 Cavour, C. 213 Cerabona, F. 58 n., 80 n. Cevolotto, M. 188 n., 233 n. Chabod, F. 155 Chanoux, E. 154 Chatrian, generale 155 Churchill, W. 6, 7, 8, 18, 34, 35, 36, 47, 48, 51, 52, 54, 55, 57, 59, 74, 75, 80, 81, 85, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 116, 120, 121, 122, 127, 133, 134, 142, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 167, 170, 177, 190, 191, 193, 194, 195, 196, 198, 201, 209, 212, 244 Cianca, A. 54, 78, 80 n. Ciano, G. 44, 45 Cingolani, M. 295 n., 334 Cini, V. 174 Cione, E. 142, 163 Clark, M. W„ 76, 110, 111, 170, 189 Clayton, W. 315, 343 Colapietra, 279 n. Colli, E. 33 Comandini, F. 273 Corbellini, G. 334 Corbino, E. 36, 232 n„ 236, 295, 295 n., 297, 298, 299, 300, 301 Corder Hull 40, 118 Corona, A. 204 Corsi, A. 350 Cosciani, C. 347 Crittenberger, generale ameri­ cano 201 Croce, B. 16, 18, 19, 24, 25, 36, 37, 38, 39, 40, 45, 49, 53, 54, 58 n., 80, 80 n., 81, 141, 176, 208, 209, 210, 211, 213, 225, 226, 226 n„ 228 n„ 230, 233, 259, 260, 261, 292 Dagnino, V, 241 D’Albergo, E. 336, 350 Damiani, A. 34, 35 Damiani, M. 62 D'Aragona, L. 295 n.

372

Dawson, C. 200 De Bono, E. 44 De Caro, R. 208 De Courten, R, 38, 58 n., 80 n., 188 n„ 232 n. De Gasperi, A. 5, 64, 78, 80 n., 83, 135, 143, 158, 187, 188, 195, 205, 206, 210, 213, 214, 224, 230, 231, 232, 232 n., 233, 234, 235, 238, 240, 257, 263, 264, 265, 267 n„ 271, 276, 282, 283, 284, 286, 291, 292, 293, 294, 295, 295 n„ 296, 297, 301, 304, 305, 306, 309, 312, 314, 315, 317, 319, 320, 321, 323, 327, 328, 330, 331, 332, 333, 334, 335, 336, 339, 340 De Gaulle, Ch. 86, 116, 133, 155, 200, 201, 215 Degli Espinosa, A. 39, 40 Del Bo, D. 206 Del Vecchio, G. 335 De Nicola, E. 23, 24, 37, 39, 53, 77, 226, 292, 332, 334 De Pretis, A. 235 De Ruggiero, G. 80 n. Diamanti, F. 95 Di Napoli, A. 58 n. Di Vittorio, G. 82, 219, 237 Doenitz, K. 189 Dolfin, G. 26, 27, 28, 29, 30, 31, 42, 43, 44, 45, 68, 71 Dominedò, F. 312 Donegani, G. 174 Dorso, G. 219, 220, 221 Dossetti, G. 312 Dugoni, E. 154 Dulles, A. 10 Dulles, J. F. 34, 42, 88, 247 Eaker, generale alleato in Ita­ lia 74 Eden, A. 40, 54, 116, 153, 190 Einaudi, L. 172, 186, 202, 211, 334, 336, 346 Eisenhower, D. 16, 17, 21, 40, 47, 74, 189, 190 Enriques Agnoletti, E. 106, 108 Evatt, H. 191, 290

Facchinetti, C. 295 n. Fanfani, A. 312, 334, 338 Faravelli, G. 314 Farinacci, R. 163 Ferrari, G. 295 n., 319 Ferraro, P. 104 Finocchiaro Aprile, C. 119, 120, 280 Foa, V. 177 Foschini, sindacalista 273 Franco, F. 194 Fuschini, G. 277 Gaeta, N. 204 Galimberti, D. 103 Gambara, G. 27 Gamerra, aiutante di campo del principe Umberto 37 Garofalo, F. 225, 228, 229, 231, 232, 266, 267, 269, 270, 273, 274, 275, 282, 285, 286 Garosci, A. 217 Gasparotto, L, 233 n., 319 Giannantoni, A. 50 Giannini, A. 216 Giannini, G. 209, 209 n„ 229, 252 Giolitti, G. 213, 235, 296 Gonella, G. 263, 264, 265, 276, 279 n„ 295, 295 n„ 318, 334 Gonzales, E. 293 Gottardi, L, 44 Gramsci, A. 221, 249 Grandi, D. 21 Grassi, G. 334 Graziani, R. 14, 27, 28, 93, 164 Greco, P. 161 Grisolia, D. 204 Gromyko, A. 246 Gronchi, G. 8, 80 n., 186, 206, 207, 233 n„ 312, 338 Groza, P. 153 Gruber, K. 304, 306 Guerriero, A. 342 Guglielminetti, A. 160 Gullo, F. 58 n., 80 n., 188 n., 233 n„ 295 n., 319 Hancock, colonnello alleato 216 Hebrang, A. 158

Hirohito, imperatore del Giap­ pone 189 Hitler, A. 11, 12, 18, 28, 44, 70, 71, 74, 93, 189 Hopkins, H. 115 Hugo, V. 199

Italia, S. 81

Jacini, S. junior 188 n., 312, 313 Jacometti, A. 251 Jallà, L. 95 Jemolo, A. 356 Johnston, maggiore dell'Intelli-

gence Service 50

Jones H. Jesse, H. 50 Joyce, generale alleato 36 Jung, G. 36

Keynes, J. M. 104, 172 Kesserling, A. 11, 18, 48, 72, 95, 98, 99, 110, 122, 167, 189 Kirk, A. 56

L. L., vedi Lenti, L. Labriola, A. 211, 229 La Malfa, U. 5, 8, 64, 65, 188 n„ 233 n„ 257 Laski, H. 248 Lener, S. (padre) 318 Lenin, W. 221 Lenti, L. 180, 218, 343, 344, 347, 348, 351 Leone XIII 84 Leyers, generale tedesco 68, 69 Libois, G. 160 Lippmann, W. 200, 240 Lizzardi, O. 53, 54, 253, 273 Lombardi, F. 311 Lombardi, R. 233 n., 280, 292, 294, 299 Lombardo, I. M. 256 Longo, L. 10, 20, 86, 96, 97, 124, 248, 249, 251 Lucifero, F. 284 Lussu, E. 82, 186, 188 n., 229, 232 n. Luzzatto, G. 298 373

McCaffery, J, 10, 34, 42, 88 71, 83, 93, 94, 99, 142, 163, 164, McCarthy, colonnello alleato 165, 166, 167, 169, 169 n„ 170 108 n„ 329 McFarlane, F. Μ. 16, 36, 37, 51, Mussolini, Vito 26, 28, 165 56, 57, 76, 77, 78, 80 Mussolini, Vittorio 12, 164, 167 MacMillan, Η. 56, 179 Macrelli, C. 295 n. Malvestiti, P. 313 Nagy, I. 339 Mancini, P. 58 n., 80 n. Negarville, C. 250, 251 Mariani, F. 183 Nenni, P. 8, 9, 41, 64, 65, 73, 82, Marinelli, G. 44 83, 185, 187, 188, 188 n„ 204, Marinotti, F. 174 210, 225, 229, 232 n„ 234, 251, Marshall, G. C. 324, 338, 340, 267 n„ 279 n„ 295 n„ 309, 312, 341, 342 313, 321 Matteotti, G. 81, 82, 224 Neves De Fontoura 290 Matthews, H. 129, 130 Nitti, F. S. 196, 208, 209, 211, Mazzali, G. 256, 258, 309 224, 225, 226, 230, 259, 267, Mazzini, G. 62, 199, 213 317, 331, 333 McIntosh, maggiore alleato, 108 Noel, Ch, 56, 119 Medici Tomaquinci, A. 160, 161, 162, 163 Merlin, U. 334 Omodeo, A. 58 n., 62, 196, 197, Merzagora, C. 334, 347 198, 199, 225, 228 n„ 229, 232, 259 “Mesard,” comandante parti­ Orlando, V. E. 130, 131, 209, 225, giano francese 154, 155 226, 228, 230, 259, 267, 291, 292, Messe, G. 38 327, 333, 335 Messineo, F. 148, 150 Michele I, ex-re di Romania Orlando, T. 58 n. 152 Micheli, G. 295 n. Pagano, presidente della Corte Mikolaiczyk, S. 194 di Cassazione 282 Minotobù, addetto militare presso l’ambasciata nipponi­ Paggi, M. 175, 262, 291, 338, 354 Pajetta (“Mare”), G. C. 144, 154 ca a Salò 44 Paladin, G. 156 Mischi, generale 95 Pannunzio, M. 208 Molé, E. 188 n., 233 n. Molotov, V. M. 40, 114, 151, 152, Papandreu, G. Ili Pareschi, C. 44 212, 287, 288, 342 Parini, P. 142 Mondolfo, U. 256, 290 Parri (“Maurizio”), F. 9, 33, 34, Montagna, R. 95 62, 88, 89, 91, 96, 97, 144, 147, Montagnana, M. 314 154, 174, 176, 188, 188n„ 202, Montezemolo, G. 23 208, 213, 217, 219, 223, 226, 227, Morandi, C. 325 231, 235, 257, 276, 329, 337 Morandi, R. 60, 61, 168, 174, 175, Passoni, P. L. 160, 161 176, 180, 185,204, 205, 234, 253, Pastore, O. 313 255, 256, 295 n., 297, 319, 335 Pavolini, A. 12, 14, 15, 30, 166 Morgenthau, H. 104 Pella, G. 335, 346 Murphy, R. 56 Pellegrini, G. P. 28, 29, 181 Mussolini, B. 11, 13, 14, 26, 27, Pepe, G. 236, 259 28, 29, 30, 42, 43, 44, 67, 68, 69, Perticone, G. 13, 20

374

Pertini, S. 168, 204, 205 Petacci, C. 169 Pettinato, C. 142 Piccardi, L. 5 Piccioni, A. 262, 277, 312 Pio XI 329 Pio XII 83, 111, 277 Pisenti, P. 45 Pizzoni (“Felici”), A. 108, 144, 146, 154, 167 Poggi, M. 296 Porzio, G. 23, 24 Pozzani, S. 243 Predevai, G. 300 Puntoni, P. 15, 16, 17, 19, 23, 35, 37, 38, 40, 41, 49, 50, 51, 52, 53, 56, 57, 58 n„ 76, 77, 80, 130, 132, 136, 266, 269, 270, 271

Quintieri, Q. 58 n.

Radescu, N. 152, 153 Ragghianti, C. 5, 8, 21, 107, 109 Rahn, R. 26, 28, 30, 68, 71 Ramadier, P. 326 Repelli 312 Resega, A. 42 Ricci, R. 12, 27, 227 Ricci, F. 236 Robbins, L. 200 Rodinò, G. 23, 24, 39, 58 n. Rolandi Ricci, V. 45 Romita, G. 188 n., 232 n., 233, 281, 295 n„ 319 Rommel, E. J. 18 Roosevelt, F. D. 6, 18, 21, 35, 36, 54, 55, 74, 111, 118, 120, 127, 148, 149, 150, 177, 209 Rossi, E. 139 Rossi Doria, M. 237 Roveda, G. 59 Ruini, M. 78, 80 n., 134, 188 n., 327 Sabatini 313 Salvatorelli, L. 203, 238, 239 240, 244, 245, 259

Sandalli, R. 58 n. Saraceno P, 179 Saragat, G. 80 n., 204, 225, 256, 273, 279 n„ 291, 292, 293, 311 Satolli, D. 279 n. Sceiba, M. 233 n„ 295 n., 318, 334 Schumaker, K. 326 Schuster, I. 164 Scoccimarro, M. 8, 64, 143, 188 n„ 236, 249, 273, 295 n. Sebinus 217 Segni, A. 295 n., 318, 334 Selvaggi, E. 281 Sereni, E. 168, 267 n., 295 n., 319 Sforza, C. 18, 23, 24, 25, 37, 39, 40, 58 n„ 80 n„ 133, 134, 140, 210, 292, 319, 321, 322, 324, 327, 334 Ship, colonnello alleato 108 Sigfried, A. 200 Siglienti, S. 80 n. Silone, I. 202, 204, 205, 207, 225, 293, 310 Silvestri, C. 43, 45, 71, 163, 167 Simeoni, P. 104, 105 Simonini, A. 314 Skorzeny, O. 11 Smodlaka, J. 156, 157 Smuts, J. Ili Sogno, E, (“Franchi”) 144 Soleri, M. 39, 80 n„ 128, 181, 186, 188 n., 227, 236 Sosterò, M. 182, 218 Spampanato, B. 142 Spano, V, 207 Spellanzon, C. 238 Spigo, U. 216 Spinelli, A. 138, 141, 257 Sprigge, C. 84 Stalin, J. V. 36, 54, 80, 81, 114, 115, 116, 113, 148, 149, 150, 152, 153, 167, 190, 193 198, 244 Z, Stettinius, E. Stirley, prinç^je /i Stone, ami Sturzo, L.

Tarchiani, A. 58 n., 62, 345 Tassinari, G. 11 Terracini, U. 359 Tino, A. 62, 139 Tito (Broz, J.) 102, 110, 157, 158, 215, 308, 309 Togliatti, P. 53, 54, 57, 58 n„ 59, 60, 62, 63, 66, 77, 78, 80 n„ 83, 135, 137, 142, 188 n„ 213, 229, 248, 249, 250, 252, 257, 271, 272, 275, 277, 279, 279 n„ 285, 293, 295, 296, 308, 309, 311, 317, 327, 329, 333 Togni, G. 334, 350 Tomasi Della Torretta, princi­ pe di Lampedusa 131 Torlonia, principe 128 Tosatti, A. 313 Trabucchi, A. 125 Tremelloni, R. 182, 218, 238, 302 Tringali Casanova, A. 14 Truman, H. 191, 193, 194, 195, 196, 198, 201, 315, 323, 324, 325, 326 Tupini, G. 80 n., 206, 334 Tupini, U. 205, 333

Ugolini, A. 161 Umberto di Savoia, principe di Piemonte, poi Umberto II 15, 37, 41, 56, 57, 66, 76, 78, 79, 129, 130, 132, 136, 227, 228, 229,

376

230, 232, 266, 267, 268, 270, 271, 272, 273, 274, 275, 281, 282, 284, 285, 286 Valiani, L. 9, 34, 63, 65, 97, 107, 140, 163, 168, 184 Vailetta, V. 174 Vanoni, E. 205, 318 Vansittart, R. G. 196, 198 Vassalli, G. 314 Vecchietti, G. 204 Vietinghoff-Scheer, H. von 167, 188, 189 Visconti Venosta, G. 130 Visentini, B. 22, 79, 129, 131 Vishinskij, A. Y. 152, 245, 247 Vittorio Emanuele, figlio di Umberto II 22 Vittorio Emanuele II 280 Vittorio Emanuele III 6, 7, 15, 16, 17, 18, 19, 21, 22, 24, 35, 36, 37, 49, 50, 51, 54, 55, 56, 57, 66, 76, 266, 269, 270, 271, 272

Wallace, H. 177, 325 Wilson, M. 74 Wilson, T. W. 122 Wolff, K. 11, 44, 68, 70, 71, 165, 167 Zagari, M. 311 Zaniboni, T. 50, 229

Indice generale

5

Capitolo primo

I problemi iniziali della Resistenza 5 7 9 11

20 21 23 26 29 31 33 35 42

La nascita del Comitato di Liberazione Nazionale Contrasti fra destra e sinistra del C.L.N. romano I compiti del C.L.N. di Milano La liberazione di Mussolini (12 settembre) e la formazione del governo repubblicano fascista II governo del Sud e la dichiarazione di guerra alla Ger­ mania Il rifiuto degli esponenti politici a collaborare con il so­ vrano e con il Badoglio I primi scontri fra le bande e i nazi-fascisti La deliberazione del C.L.N. di Roma del 16 ottobre 1943 Difficili trattative del re con gli esponenti democratici II governo fascista e i tedeschi La socializzazione fascista Gli scioperi del novembre 1943 nel Nord Il problema dei lanci Il congresso di Bari (28-29 gennaio 1944) Il processo di Verona

46

Capitolo secondo

15

17

L'azione di governo della Resistenza 46 49 53 55 59 63 67 72 ' 74

La costituzione del C.L.N.A.I. Crisi dei partiti democratici nell’Italia meridionale L'arrivo di Paimiro Togliatti in Italia La rinuncia al trono di Vittorio Emanuele III La politica di potenza e i partiti italiani Le ripercussioni degli avvenimenti napoletani nell’Italia occupata Gli scioperi del marzo 1944 nell’Italia settentrionale L'eccidio delle Fosse Ardeatine La liberazione di Roma 377

106

La formazione del nuovo governo Bonomi Problemi del nuovo governo Il C.L.N. come organo di potere L'espansione partigiana nella prima metà del 1944 La difficile situazione dell'esercito fascista La formazione del C.V.L. (Corpo Volontari della Libertà) La minaccia del Kesselring e la risposta del C.L.N.A.I. La politica internazionale della Resistenza La conferenza di Bretton Woods (luglio 1944) per la rico­ struzione economica internazionale La liberazione di Firenze

110

Capitolo terzo

76 81 85 88 92 95 98 99 104

L’insurrezione nazionale 110 112 116 119 121 126 128 132 139 144 148 150 153 156 159 163 166 170 174

La venuta del Churchill in Italia Dalla conferenza di Quebec a quella di Mosca (settembre e ottobre 1944) Dumbarton Oaks e l’organizzazione internazionale “dal nome 'Le Nazioni Unite”' Il separatismo siciliano Il proclama Alexander La ripresa dei rapporti con gli alleati La crisi del governo Bonomi La difficile soluzione della crisi Il C.L.N.A.I. di fronte alla crisi La missione al Sud del C.L.N.A.I. “Il naufragio della Carta Atlantica" L’inizio del contrasto fra gli anglo-americani e i sovietici Tensione nei rapporti fra l’Italia e la Francia... ...e con la Jugoslavia Verso l’insurrezione nazionale Ultime speranze e ultime delusioni dei fascisti Il 25 aprile Bilancio della Resistenza Capitolo quarto

Il governo Parri 174 178 184 188 193 196

378

La società italiana nell'aprile del 1945 Alcuni dati sulla situazione economica del paese verso la metà del 1945 La crisi del governo Bonomi La conferenza di San Francisco (25 aprile-25 giugno)... ...e quella di Potsdam (17 luglio-1" agosto) La nuova situazione internazionale

202 206 211

215 222 233 238 241 244 248 253 257 259 266 273 280 287

Difficoltà per i partiti democratici italiani Contrasti e discussioni nella coalizione governativa La delusione della conferenza di Londra per il trattato di pace Discordanti vedute in Italia sulla ricostruzione La caduta del governo Parri I risultati politici della crisi II direttorio mondiale di V.R.S.S. e U.S.A. L'accordo finanziario anglo-americano del 6 dicembre 1945 La prima sessione dell'U.N.O. a Londra Congressi di partiti: del partito comunista... ...del partito socialista... ...del partito d'azione... ...del partito liberale e della democrazia cristiana L’abdicazione di Vittorio Emanuele III Le elezioni del 2 giugno Contestazione alla vittoria repubblicana

Capitolo quinto

La Costituzione

304 307 310 314 320 323 326 329 335 338 344 353

Le decisioni parigine sul trattato di pace con l'Italia Il nuovo governo De Gasperi Le dimissioni del Corbino (2 settembre) e la situazione economica L'accordo De Gasperi-Griiber per l'Alto Adige Le elezioni del 10 novembre La scissione socialista La formazione del terzo ministero De Gasperi La firma del trattato di pace La "dottrina Truman” L’articolo 7 L’estromissione dei comunisti e dei socialisti dal governo Crisi della Resistenza? Il piano Marshall Inflazione e antinflazione in Italia La Costituzione

361

Nota bibliografica

371

Indice dei nomi

287 291 297

Finito di stampare nel mese di maggio 1972 dalla Litografia Leschiera Via Perugino 21 - Ćologno Monzese - Milano

379

Universale Economica Feltrinelli Storia, Politica Lire Aldo dice: 26x1 P. Secchia (423) 300 America Latina 1, Bolivia a cura di Chavero (558) 800 L’anarchia G. Woodcock (527) 900 Le antiche civiltà semitiche S. Moscati (328) 500 Dall’antifascismo alla Resistenza L. Valiani (269) 300 Asia al bivio M. Edwardes (407) 500 Atlante del mondo d'oggi A. Boyd (489) 800 Autobiografia di una guerriglia. Guatemala 19601968 R. Ramirez (583) 600 Il bisturi e la spada. La storia del dottor Bethune S. Gordon, T. Allan (571) 800 Le civiltà scomparse dell’Africa J. C. De GraftJohnson (237) 500 Diario del Che in Bolivia Nuova edizione (580) 800 Fascismo e antifascismo (1918-1948). Lezioni e te­ stimonianze (393-94) 2 voli. 1000 Il flagello della svastica Lord Russell di Liverpool (284) 500 Guerra d’Albania G. C. Fusco (343) 300 La guerra di guerriglia e altri scritti politici e mili­ tari Che Guevara (550) 600 Guerra del popolo, esercito del popolo e La situa­ zione militare attuale nelVietnam Giap (559) 600 La guerriglia in Italia. Documenti della resistenza militare italiana (568) 800 L’Inquisizione spagnola A. S. Turbeville (240) 500 Liberazione o morte Camilo Torres (583) 400 La lotta del popolo palestinese. Scritti e documenti dell’organizzazione per la Liberazione della Pa­ lestina e di Al Fatah (585) 700

Lire Il lungo viaggio attraverso il fascismo R. Zangrandi (427-29) 800 Il marxismo. Storia documentaria I. Fetscher (59193) 3 voli. 3000 Il marxismo e la linguisticaStalin (562) 500 Medicina disumana. Documenti del “Processo dei medici” di Norimberga(547) 600 Memorie di un fuoruscito G. Salvemini (296) 300 Memorie di un rivoluzionario P. A. Kropotkin (594) 1000 Il Nazionalsocialismo W. Hofer (463) 500 Le origini del fascismo in Italia (Lezioni di Har­ vard) G. Salvemini (529) 900 La Persia. Modello di un paese in via di sviluppo ovvero la dittatura del Mondo Libero Nirumand (573) 700 Ragazzi negri a cura di M. Argilli (572) 500 La resistenza al fascismo a cura di M. Milan, F. Vi­ gili (201) 500 La ribellione degli studenti ovvero la nuova opposi­ zione Bergmann, Dutschke, Lefèvre, Rabehl (577) 800 La rivoluzione francese G. Salvemini (430) 800 Rivoluzione nella rivoluzione. America Latina: alcu­ ni problemi di strategia rivoluzionaria Régis Debray (548) 600 Lo scatenamento della seconda guerra mondiale W. Hofer (589) 1800 Scritti, lettere, discorsi ( 1920-1967) Ho Chi Minb (552) 800 La spedizione dei Catalani in Oriente R. Muntaner (253) 500 Una spia del regime a cura di E. Rossi (564) 900 Stato e rivoluzione Lenin Critica del programma di Gotha Marx (578) 500 Storia dell’Africa nera K. Savage (383) 500 Storia dell’Europa moderna D. Thomson (503-05) 3 voli. 2400

Lire Storia del liberalismo europeo G. De Ruggiero (389-90) La trasformazione della democrazia J. Agnoli (587) Zapata l’invincibile E. Pinchon (596)

800 500 800

Narrativa Babel’, I. L’armata a cavallo (497) 400 Baldwin, I. Un altro mondo (532) 700 Behan, B. L’impiccato di domani e L’ostaggio (302-03) 500 Bellow, S. Il re della pioggia (433) 300 Borges, J. L. L’Aleph (334) 300 Bulatovič, M. Il gallo rosso vola verso il cielo (382) 300 Cialente, F. Pamela o la bella estate (381) 300 Dazai, O. Il sole si spegne (455) 300 Dos Passos, J. Giorni memorabili (410-11) 500 Efremov, I. A. La nebulosa di Andromeda (310) 500 Fielding, H. Tom Jones (477) 1000 Gide, A. I sotterranei del Vaticano (481) 500 Lu Hsün La vera storia di Ah Q e altri racconti (600) 600 Kafka, F. Racconti (341) 500 Kerouac, J. I sotterranei (511) 500 Lessing, D. I figli della violenza (368-69) 500 Mann, Th. I Buddenbrook (479) 800 La morte a Venezia. Tonio Kröger. Tristano (484) 400 Padrone e cane e altri racconti (519) 500 Manzoni, A. I promessi sposi(298-299) 800 Melville, H. Taipi (228) 500 Musil, R. Il giovane Törless (499) 500 Nievo, I. Confessioni di un italiano (322-23) 2 voli. 1600 Pasternak, B. Il dottor Zivago (444-45) 500 Poe, E. A. I racconti (607) 1000 Tomasi di Lampedusa, G. Il Gattopardo (416) 500 Zweig, A. La scure di Wandsbeck (449) 800

Scienze fisiche e biologiche

Lire

L’atmosfera in movimento K. Hare (251) Breve storia della scienza W. C. Dampier (288) Cibernetica per tutti S. Ceccato (560) Come si muovono gli animali J. Gray (262) L’evoluzione oggi T. Neville George (225) La fecondazione artificiale e naturale della donna G. Valensin (378) Fisiologia illustrata per infermieri A. B. Naught e R. Callander (563) Le forme degli animali A. Portmann (292) Guida alla luna H. P. Wilkins (267) L’immagine della fisica moderna P. Jordan (467) I microbi e noi H. Nicol (282) Le molecole giganti Harry Melville (336) L’occhio e il sole S. I. Vavilov (270) Origine e divenire del cosmo J. A. Coleman (472) L’origine fotochimica della vita A. Dauvillier (396) L’origine della vita Haldane e altri (242) II pensiero artificiale P. de Latil (400) La personalità degli animali H. Munro Fox (202) I Poli S. Zavatti (452-54) II posto dell’uomo nella natura e altri scritti Th. Huxley (217) Primavera silenziosa R. Carson(524) Il pulviscolo radioattivo A. Pirie (278) La relatività è facile J. A. Coleman (232) Il sangue M. Bessis (315) Il sole fatto dall’uomo J. D. Jukes (285) La terra e i suoi misteri G. W. Tyrrell (226) L’unicità dell’individuo P. B. Medawar (584) L’universo M. Hack (456-57) Gli uomini della preistoria A. Leroi-Gourhan (374) La vita sociale degli animali A. Remane (537)

500 500 800 500 500 500

1000 500 500 300 500 500 500 500 500 500 500 500 500 500 800 500 500 500 500 500 900 500 500 600

Manuali, Enciclopedie, Dizionari Breve guida all’archeologia A. Parrot (601)

700

Lire Il contaminuti. Libro di cucina per la donna che la­ vora E. Spagnol (549) Dizionario biblico a cura di G. Miegge (581) Dizionario della Divina Commedia G. Siebzehner Vivanti (496) Dizionario degli esploratori e delle scoperte geogra­ fiche S. Zavatti (536) Dizionario di psicanalisi S. Freud (531) Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti, dei mestieri (1751 - 1772) 2 voli. (508-509) Fatevi il vostro oroscopo! M. Maitan (570) Fatevi i vostri test! Manuale basato sui metodi psi­ cologici moderni W. Bernard, J. Leopold (544) Fisiologia illustrata per infermieri A. B. McNaught e R. Callander (563) Giochi olimpici I960 H. Abrahms (307) Guida all’ascolto della musica contemporanea A. Gentilucci (595) Guida all’ascolto della musica sinfonica G. Manzo­ ni (539) Guida all’educazione del bambino A. Fromme (502) Guida pratica allo Yoga J. Hewitt (582) L’italiano facile F. Fochi (464) Leggere meglio! leggere più in fretta! E. e M. de Leeuw (554) Il manuale del jazz B. Ulanov (264) Sentirsi in forma (510)

1000 2000 1300

800 600

1600 700 600 1000 500

1200

1200 800 900 800 700 500 500

Universale Economica Feltrinelli